Grice e Ciliberto: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del principe -- il suo
principato– scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese. filosofia
italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I
like Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an interesting way:
confronting his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have not explored the
irrational, too much – but I suppose Strawson might implicate that everything I
say ON reason is an implicature on the irrational – Ciliberto uses the
vernacular for the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del
pensiero di BRUNO (si veda). Si laurea a Firenze sotto GARIN (si veda)
con “MACHIAVELLO (si veda)”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a
Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze. Presidente di I. R.
I. S. A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di
Firenze. Lince. Al centro della sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento
con speciale attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica,
no-continntale, ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile,
Cantimori, Garin); e la filosofia politica e in maniera specifica la crisi
della democrazia rappresentativa. Altre opere: “Il rinascimento. Storia
di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari,
De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo et Bizzarri); “Come
lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel
Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La ruota del
tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza);
Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura);
“Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il
dialogo recitato” “Preliminari a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze,
Olschki); “La morte di Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I
contrari”; “Disincanto e utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura); Il teatro della vita (Milano, Mondadori); Il laico Il libero dell'Italia
moderna, Roma-Bari, Laterza); Democrazia dispotica – etimologia di dispotismo –
(Roma-Bari, Laterza); Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza), Parola,
immagine, concetto (Edizioni della Normale, Pisa); Croce e Gentile La cultura
italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani,.
Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo,
neo-umanesimo, classicism, neo-classicismo come ironia (Roma-Bari, Laterza); Pazzia
e ragione (Roma-Bari, Laterza); Il sapiente furore (Collana gli Adelphi, Milano,
Adelphi) C., Lessico di BRUNO (si veda). Preludio a MACHIAVELLO
MACHIAVELLI (si veda) Mre a dh e im h ol Un TT ‘i 0 annunciato da
Imola dalle legioni
chiavelli ‘Tri T n J | d0n ° d ‘- Una Spada COn inciso U motto di Ma
’ 1 Cum parole non si mantengono li Stati. Ciò troncò gli
ndugi e determino senz altro la scelta del tema che oggi
sottopongo ? 0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento dell’anno 1924 Il Principe
di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda), al libro che io vorrei cHamare Vade
ZldlZtfìl U °™° dt g0 u m0 * Debbo inoltre ' P er debito di °nestà
Slfia ’ a . 8glU f? e ? e cbe ? uesto mio Wo ha una scarsa biblio-
ftreTdJI VCdra 3 r 8UÌt0 f H ° rilett ° attentame nte il Principe
loe7olnf Z P ? e dd 8rande S, e8r f tari °’ ma mi è mancat0 tem -
po e voionta per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel
Ma chiavelli.Ho voluto mettere il minor numero possi- velh ^ mt0rmedlari
vecchl e nn °vi, italiani e stranieri, tra il Machia- dottrin, e’l^ non.8
uastare la di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta,
fra le sue e le mie osservazioni di n0mmi, e f° Se ’ 3 SU f C k mia
pratica di governo. Quella che mi )t0,\ le Z 8e ™ no « f quindi una
fredda dissertazione scolastica irta di citaziom altrui, è piuttosto un
dramma, se può considerarsi come io credo, m un certo senso drammatico il
tentativo di gettare NorL d te^fo: abisso deUe genera2ioni ° ^
cveuti La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa
c’è an- cora di vivo nel Prmcipe? I consigli di MACHIAVELLI potrebbero
ave- * Da Gerarchia, I,i.
•>\fruzione del regime i. iniit
t|ualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? II tl.iic
del sistema politico del Principe è circoscritto all’epoca in >
111 1 11 scritto il saggio, quindi necessariamente limitato e in parte
> I.luco, o non è invece universale e attuale? Specialmente
attuale? I i inin tesi risponde a queste domande. Io affermo che la
dottrina • li MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) è viva oggi piu di
quattro secoli fa, poiché se gli nnpctti esteriori della nostra vita sono
grandemente cangiati, non si h i(io vcrificate profonde varia^ioni nello
spirito degli individui e dei itopoli. ln politica è l’arte di
governare gli uomini, cioè di orientare, uti- li znre, educare le loro
passioni, i loro egoismi, i loro interessi in < nin di scopi d’ordine
generale che trascendono quasi sempre la i'iin individuale perché si
proiettano nel futuro, se questa è la poli- lioi, non v’è dubbio che
l’elemento fondamentale di essa arte, è l’iiomo. Di qui bisogna partire.
Che cosa sono gli uomini nel siste- inn politico di Machiavelli? Che cosa
pensa Machiavelli degli uominl? E egli ottimista o pessimista? E dicendo uomini
dobbiamo Inlcrpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè
degli Ilnliani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi
contempora- nci o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello
spazio o pcr dirla in gergo acquisito sotto la specie della eternità? Mi
pare ilic prima di procedere a un piu analitico esame del sistema di
po- lllica machiavellica, così come ci appare condensato nel
Principe, oecorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli
degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene,
t|iicl che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del
Vrincipe, è l’acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della nntura
umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto
commercio coi propri simili, Machiavelli è uno Kpregiatore degli uomini e
ama presentarceli, come verrò fra poco documentando, nei loro aspetti piu
negativi e mortificanti. (,li uomini, secondo Machiavelli, sono
tristi, piu affezionati alle cose chc al loro stesso sangue, pronti a
cambiare sentimenti e passioni. Nel Principe, Machiavelli così si
esprime: perrché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati, volubili.imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno e
mentre fai loro bene, ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba,
la vita, i figlioli, come di sopra dissi,.piando el bisogno è discosto, ma
quando ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel l>rincipe che si è
tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre prepa- rn/ioni,
rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia
mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da uno vincolo
di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di
propria utilità (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che
non abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le
Carte varie quanto segue. Gli uomini si dolgono piu di un podere che sia
loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la
morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione ò pronta;
perche ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può
risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere. E al capitolo terzo
dei Discorsi. Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e
come ne è prenia di esempii ogni storia, è necessario a chi dispone una
Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere
cattivi e che li abbiano sempre a usare la malignità dell’animo loro,
qualunque volta ne abbino libera occasione. Gli uomini non operano mai nulla
bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere
licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione e di
disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani
riportati sono sufficienti per dimostrare cbe il giudizio negativo su-
gli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È
in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di
questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire
tutti i successivi sviluppi dei pensiero di Machiavelli. È anche evidente
che il Machiavelli, giudicando come giudicava gl’uomini, non si riferiva
soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini ma agl’uomini senza limitazione
di spazio e di tempi tempo ne e passato, ma se mi fosse lecito giudicare i
miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare
il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli
non si illude e non illude il Principe. L’antitesi fra Principe e POPOLO,
fra STATO e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu
chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce
logicamente da questa posizione iniziale. La parola principe deve intendersi
come STATO. Nel concetto di Machiavelli il principe è lo stato. Mentre gl’individui
tendono, sospinti dai loro egoismi, all’atonismo sociale, LO STATO
rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a evadere
continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a
non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi [nelle parole di
Urmson – H. P. Grice] — che sacrificano il proprio io sull’altare dello STATO.
Tutti gl’altri sono in istato di rivolta potenziale contro LO STATO. Le
rivoluzioni hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di
ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come hii.i enianazione della libera volontà del POPOLO.
C’è una finzione.• tma illusione di piu. Prima di tutto IL POPOLO non è mai
definito. I una entità meramente astratta, come entità politica.
Non si sa iltivc cominci esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di sovrano
applicato a popolo è una tragica burla. II POPOLO tutto al piu, DELEGA, ma non
può certo ESERCITARE SOVRANITÀ alcuna. I sistemi rapprenntativi appartengono
più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi
meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni
in cui non si domanda piu nulla al POPOLO, perché si sente che la risposta
sarebbe fatale; gli si strappnno le corone cartacee della sovranità — buone per
i tempi normali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una rivoluzione
o una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al POPOLO
non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete
che la sovranità elargita graziosamente al POPOLO gli viene sottratta
nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata
solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di
ordinaria ainministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per
referendum? II referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il
luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio. Ma quando gl’interessi
supremi di un POPOLO sono in giuoco, anche i governi ultra-democratici si guardano
bene dal rimetterli al giudizio del POPOLO stesso. V’è dunque immanente,
anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dall’Enciclopedia — che
pecca, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo — il
dissidio fra forza organizzata dello STATO e il frammentarismo dei
singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai
esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del
mio oramai famoso articolo Forza e consenso, Machiavelli scrive nel
Principe. Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati
ruinarono. Perché la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro
una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. E però
conviene essere ordinato in modo, che quando non credono piu si possa far
credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, ROMOLO non avrebbero potuto
fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fussino stati
disarmati. IL SINGOLARE SAGGIO SU MACHIAVELLI DI MUSSOLINI. PRELUDIO
DI MUSSOLINI POI FORZA E CONSENSO + NOTA DE SANCTIS POI UN ARTICOLO SU
MACHIAVELLI DI FUSARO CON UN ARTICOLO – Pellegrino. Mangieri ED INFINE
ANCHE IL TESTO INTEGRALE DE IL PRINCIPE PREMESSA: Nell'Europa dei
secc. XVI e XVII è strettamente connessa con alcuni nodi centrali della storia
del pensiero politico. A parte una serie di revisioni critiche dei giudizi
tradizionali fatti da dotti fiorentini nel periodo del granduca Leopoldo, un
grosso contributo del movimento riformatore e una rivalutazione del grande
fiorentino, lo si deve a G.M. Galanti, autore di un Elogio di MACHIAVELLI.
Galanti fa propria quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che già
era stata consacrata nell'articolo machiavelisme dell'Encyclopededie (scritto
attribuito a Diderot) e nel Contratto sociale di Rousseau (Fingendo di dare
lezioni ai re, egli ne ha date di importanti ai popoli. Il Principe di
Machiavelli è il libro dei repubblicani). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi
famosi versi in Dei sepolcri. Contro questa interpretazione Vincenzo
Cuoco, con trasparente riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica,
mise in luce il realismo politico di Machiavelli, che aveva indicato in una
monarchia o Stato forte, l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i
partiti. Fuori dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi
machiavelliche come risposta a una particolare situazione storica e, al tempo
stesso, vedevano nell'autore del Principe un precursore dello stato etico che
doveva godere di lunga fortuna nello storicismo tedesco. In Italia
nell'età risorgimentale l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna
dell'immoralità di Machiavelli e la sua esaltazione come profeta della riscossa
nazionale. Il superamento di tali posizioni si possono considerare le
pagine appassionate di Sanctis (saggio che fra breve riporteremo qui
integralmente - e che come diremo più avanti fu poi molto (pretestuosamente)
utile a Mussolini - leggendolo capiremo perchè). A De Sanctis,
Machiavelli appariva non solo come il profeta dell'idea di nazione ma come fondatore
dei tempi moderni, come interprete lucido e impietoso della crisi degli
istituti e delle concezioni medievali, e autore di una rivoluzione copernicana
nelle considerazioni dell'uomo, che ha in terra la sua serietà, il suo scopo e
i suoi mezzi. Poi anche per Benedetto Croce scrisse che l'autore del Principe è
lo scopritore della politica come attività autonoma dello spirito.
Entrammo poi nel Ventennio fascista e qui una facile strumentalizzazione
di Machiavelli e del suo mito fu fatta da Mussolini che prima un suo articolo
lo scrive su Gerarchia, poi cura a prefazione (che chiama PRELUDIO) di una
edizione del Principe, adornandola opportunisticamente con il saggio - citato
sopra – di Sanctis). In queste pagine su MACHIAVELLI, è piuttosto
singolare che per fornire una comprensione al machiavellismo, andiamo a
scomodare MUSSOLINI. Ma singolare non lo è affatto, perchè riusciremo a capire
meglio l'opera di Machiavelli ma anche lo stesso Mussolini e il suo Fascismo.
In queste tre paginette del preludio, c'è tutto il Mussolini, e c'è anche tutta
l'essenza del suo fascismo. Ovvero l'idea di una educazione del POPOLO a un
nuovo fascismo !! (prima ve ne sono molti di fasci, creati dai socialisti
violenti, che incitano a ribellarsi con i vari scioperi i lavoratori e i
contadini). Il curioso, raro e singolare libretto che possediamo lo riportiamo
integralmente, perchè all'interno Mussolini fa alcune singolari affermazioni
(tutte fascistiche) sulla dubbia validità del potere esercitato dalla sovranità
POPOLARE, e sulla stessa utopica democrazia POPOLARE. Per Mussolini il
Principe del suo tempo è LO STATO. E LO STATO è il Principe, cioè - nei tempi
moderni - che dopo aver preso il potere doveva essere Lui e solo Lui. (Siamo
lontani da quando prima come anarchico poi come socialista - lui esalta il
proletariato come futura classe dominante, e fa l'apologia della rivoluzione
violenta indicata dalla dottrina di Hegel che presenta nella sua teoria la morte
dello Stato. E nell'organizzare gli scioperi, lui è un vero e proprio fascista
socialista violento, così chiamano fin dai primi fasci i socialisti violenti. (
ampie note di quei tempi sono QUI in Togliatti E nel farli gli scioperi
Mussolini, prima della 1ma G.M. anche lui era un violento socialista, e anda
più volte anche in galera come sovversivo. Poi improvvisamente lui diventa
inter-ventista nei confronti dei suoi ex socialisti che come ANTI-inter-ventisti
si opponeno a quella guerra che diceno voluta dalla più becera borghesia con
nessun vataggio per IL POPOLO ANALFABETO chiamato SOLO A DARE IL SUO SANGUE. Segue
la famosa rottura di Mussolini con i suoi ex socialisti, uscendo dal giornale Avanti
che dirige – ed è poi perfino cacciato dal partito socialista. Poi
durante e dopo la guerra - soprattutto per come finisce il conflitto per
l'Italia - lui va a fondare i suoi fasci, cercando di riunire tutti gli
scontenti, gli ex soldati, i lavoratori e anche una certa nuova borghesia, che
ora guardano a lui che mira a un socialismo sociale e non a quell' eterno
conflitto sviluppatisi fra operai e industriali -- soprattutto nelle sciagurate
Settimane Rosse. Dove o per i loro scioperi, o per le serrate degli
industriali, a pagare sono gl’operai sempre più a spasso, ovviamente senza
stipendi e a fare la fame. La sovranità, al popolo - afferma Mussolini -
gli viene lasciata tutto al più solo quando è innocua -- es. quando deve
scegliere il luogo dove collocare la fontana del villaggio. Mentre quando gl’interessi
supremi sono in gioco, anche i governi ultra-democratici si guardano bene dal
rimetterli al giudizio del popolo. La sovranità applicata al popolo é una loro
tragica burla. Il popolo tutto al più delega, ma non può certo esercitare
sovranità alcuna. Mussolini inizia a guardare proprio alla forza, che prima è
usata dagl’inconcludenti socialisti, proseguita poi in peggio anche dai nuovi
comunisti. Ci vediamo in questo suo preludio su Machivelli un opportunistico
utilizzo di Mussolini del principe; e come detto sopra, appoggiandosi pure al
saggio Sanctis. Abbiamo detto utilizzo, perchè Machiavelli è stato l'uomo
che ha intuito una nuova forma di filosofia umana che supera la concezione
dell'individuo per inserirlo nella collettività, nello STATO, il quale così
diventa uno Stato etico. È evidente quindi che in tal modo lo Stato non può che
far appello alla rinuncia del singolo individuo al proprio utile per l'utile
generale dello stato, concezione questa che viene a giustificare tutti i mezzi
utili allo Stato stesso -- es. usare la forza -- dando origine a quel mito del machiavellismo
che è stato via via da alcuni esaltato, mentre da altri ritenuto infamante
appunto per questo suo voler annullare la personalità del singolo uomo. Insomma
Mussolini fa del Principe il suo vademecum. Sbagliando però. La sua storia è
poi infatti molto diversa. Lui stesso - nel fidarsi troppo di quella gente che
lo circonda - finì molto male e sbaglia proprio sul POPOLO, che alcune volte
nella storia con la sua vituperata irrazionalità fa quello che vuole. E suona
dunque privo d’effetto quel volerci ricordare Mussolini una massima di
Machiavelli. Quando non credono più, bisogna ricorrere alla forza. È questo sì
l'espediente del suo Fascismo, forse fin dalla sua nascita, ma poi è perdente.
Perchè la sua forza inizia a farla con i suoi imbelli gerarchi e a dire lui
solo tante parole, parole, parole, seguite da riti, proclami, dottrine, vangeli
-- oltre...le pagliacciate di STARACES. Lui - in questo Preludio - cita due
frasi di Machiavelli, ma non ne sa coglierne l'essenza. Cum parole non si
mantengono li Stati. Quel Principe che si é tutto fondato sulle parole,
trovandosi nudo, rovina --- che profezia!!! E Mussolini nudo si ritrova prima
in quel famoso 25 luglio. Lui si aspetta una reazione al suo arresto. Ma fu una
realtà molto amara. Ma come, dice preoccupato, mi hanno abbandonato anche i
150.000 arditi, di assoluta provata fede? Si, eccellenza, tutti uccel di bosco
- anzi i loro comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi e mettendoli a
sua disposizione. Lo aveva abbandonato perfino suo genero: CIANO. Ma poi -
perso per strada anche gli altri amici, andò ancora peggio il 27 aprile del
'45, quando il popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel fare quello
che voleva lo appese a un distributore a Piazzale Loreto. Non sono
affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti umani che non hanno una
razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande storia dell'umanità ci
sono anche queste contraddizioni. E sono del resto queste che ci distinguono
dagli animali e soprattutto dal capo branco che - illudendosi - li vorrebbe
guidare come belanti pecore. I meccanismi politico-sociali ed economici
realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli delle formiche, perchè
altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le formiche nè gli
uomini. L'individuo umano ha sempre rappresentato un costoso investimento
di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al potente di turno disfarsi
dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di altro materiale per
organizzare lo Stato delle formiche, questo dio che si crede onnipotente, si
rende responsabile di una degradazione della natura stessa dell'uomo e che se
un essere umano è condannato a svolgere le funzioni limitate della formica, non
soltanto cesserà di essere un uomo ma non sara' neppure una buona formica. E
ancora (non sempre nell'asservimento (l'azione), la retroazione è controllabile).
Questo non è il ragionamento di un filosofo, ma del Padre della Cibernetica
moderna (Teorie dell'informazione): Norbert Wiener -
Mussolini usò tante parole. Ma quale fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie
avesse accompagnato la civile prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo
anche il grande Napoleone: qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse
accompagnata la civil prudenza machiavellica Paradossalmente proprio su
Napoleone, Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: lui fallì miseramente
perchè aveva creduto troppo negli uomini. Solo lui credeva di aver capito
gli uomini, credendolo suo il popolo: devono solo Credere, Obbedire, Combattere.
e Quando mancasse il consenso, c'è la forza...Per tutti i provvedimenti anche i
più duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo
dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o subirli. (Disc.
Risposta al Ministero delle Finanze, 7 marzo 1923 - S. e D., vol III, pag 82 E
pensare che un Mussolini più razionale aveva scritto un giorno Io grande? Io
forte? Io potente? basta un titolo su un giornale e ti ritrovi nella polvere. A
Piazzale Loreto andò peggio! Fu un cattivo profeta di se stesso. *
ecco qui sotto il preludio di Mussolini * subito dopo il saggio di F. De
Sanctis (datato ma ancora molto attuale) * seguono alcune note sulla vita, le
opere e il contesto storico di Machiavelli. Mussolini: Accadde che un giorno mi fu annunciato da
Imola - dalle legioni nere di Imola - il dono di una spada con inciso il motto
di Machiavelli Cum parole non si mantengono li Stati. Ciò troncò gli indugi e
determinò senz'altro la scelta del tema che oggi sottopongo ai vostri suffragi.
Potrei chiamarlo un Commento dell'anno 1924, al Principe di Machiavelli, al
libro che io vorrei chiamare: Vademecum per l'uomo di governo. Debbo inoltre,
per debito di onestà intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro ha una
scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente il
Principe e il resto delle opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo e
volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su
Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile di intermediari vecchi
o nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me, per non guastare la
presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue
e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia pratica di
governo. Quella che mi onoro di leggervi non é quindi una fredda
dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, é piuttosto un dramma, se
può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il tentativo di
gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e degli eventi.
Non dirò nulla di nuovo. La domanda si pone: A quattro secoli di distanza
che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del Machiavelli potrebbero
avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? Il
valore del sistema politico del Principe é circoscritto all'epoca in cui fu
scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte caduco, o non é
invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia tesi risponde a
queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli é viva oggi più di
quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della nostra vita sono grandemente
cangiati, non si sono verificate profonde le variazioni nello spirito degli
individui e dei popoli. Se la politica é l'arte di governare gli uomini,
cioè di orientare, utilizzare, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro
interessi in vista di scopi d'ordine generale che trascendono quasi sempre la
vita individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la politica, non
v'è dubbio che l'elemento fondamentale di essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna
partire. Che cosa sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli?
Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E
dicendo uomini dobbiamo interpretare la
parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani che Machiavelli
conosceva e pensava come suoi contemporanei o nel senso degli uomini al di là
del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito sotto la specie della
eternità ? Mi pare che prima di procedere a un più analitico esame del
sistema di politica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe,
occorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli uomini in
genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene, quel che
risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del Principe, é l'acuto
pessimismo del Machiavelli nei confronti della natura umana. Come tutti coloro
che hanno avuto occasione di continuo e vasto commercio coi propri simili,
Machiavelli é uno spregiatore degli uomini e ama presentarceli - come verrò fra
poco documentando - nei loro aspetti più negativi e mortificanti. Gli
uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, più affezionati alle cose che al loro
stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del
Principe, Machiavelli così si esprime: Perchè delli uomini si può dire questo
generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli,
cupidi di guadagno e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il
sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é
discosto, ma quando ti si appressa, e' (essi) si rivoltano... E quel principe
che si é tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre
preparazioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si
faccia amare, che uno che si faccia temere, perché l'Amore é tenuto da un
vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di
propria utilità é rotto, ma il timore é tenuto da una paura di pena che non
abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie,
quanto segue: Gli uomini si dolgono più di un podere che sia loro tolto, che di
uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche
volta, la roba mai. La ragione é pronta, perché ognuno sa che per la mutazione
di uno stato, uno fratello non può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere
il suo podere. E al Capitolo III dei Discorsi: Come dimostrano
tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni
storia, é necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella,
presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbino sempre a usare la
malignità dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli
uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà
abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni
e di disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I
brani riportati sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli
uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in
tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di
questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire tutti i
successivi sviluppi del pensiero di Machiavelli. E' anche evidente che il
Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a
quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo
fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di
tempo. Di tempo ne é passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e
contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di
Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e
non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo
é nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo,
pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione
iniziale. La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel
concetto di Machiavelli il Principe é lo Stato. Mentre gli individui tendono,
sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una
organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente.
Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la
guerra. Pochi sono coloro -eroi o santi - che sacrificano il
proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta
potenziale contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII eXVIII hanno tentato
di risolvere questo dissidio che é alla base di ogni organizzazione sociale
statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del
popolo. C'é una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo
non fu mai definito. E' una entità meramente astratta, come entità politica.
Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano
applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non
può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi
appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi
meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui
non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe
fatale; gli si strappano le corone cartacce delle sovranità - buone per i tempi
normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace
o di marciare verso l'ignoto di una guerra. Al popolo non resta che
un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita
graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe
sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o é reputata
tale, cioè nei momenti diordinaria amministrazione. Vi immaginate
voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si
tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del
villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in gioco, anche i
governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo
stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati
dalla Enciclopedia - che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso
incommensurabile di ottimismo - il dissidio fra forza organizzata dello Stato e
frammentarismo dei singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente
consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente
mai. Ben prima del mio ormai famoso articolo Forza e consenso (vedi
subito sotto) Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32: Di qui nacque che
tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la natura dei
popoli é varia ed é facile persuadere loro una cosa, ma é difficile fermarli in
quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono
più, si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non
avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se lussino
(fossero) stati disarmati. POCHI MESI PRIMA DI QUESTO ARTICOLO SU
MACHIAVELLI E SEMPRE SU GERARCHIA MUSSOLINI NEL '23 L'ARTICOLO FORZA E CONSENSO
E MERITA DI LEGGERE ANCHE QUESTO ACCENNO CHE LUI FA SU MACHIAVELLI
Mussolini, da Gerarchia. Forza e consenso. Certo liberalismo italiano,
che si ritiene unico depositario degli autentici, immortali principi,
rassomiglia straordinariamente al socialismo mezzo defunto, poiché anche esso,
come quest'ultimo, crede di possedere scientificamente una verità
indiscutibile, buona per tutti i tempi, luoghi e situazioni. Qui é l'assurdo.
Il liberalismo non é l'ultima parola, non rappresenta la definitiva formula, in
tema di arte di governo. Non c'è in quest'arte difficile e delicata, che lavora
la piú refrattaria delle materie e in stato di movimento, poiché lavora sui
vivi e non sui morti; non c'è nell'arte politica l'unità aristotelica del
tempo, del luogo, dell'azione. Gli uomini sono stati piú o meno
fortunatamente governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e
il metodo del XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci
sono secoli stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità
alternata, in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo. Non é detto
che il liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo,
cioè, dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e
l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto
al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che
individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza
piú della dottrina. Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle
che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del
liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di
fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale. Il comunismo e il
fascismo sono al di fuori del liberalismo. Ma insomma, in che cosa
consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano
oggi tutti i nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale
e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra
l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in
nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di
tutti? Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo
Stato e lavorano attivamente per demolirlo? E' questo il
liberalismo? Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una
pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come
mezzo deve essere controllato e dominato. Qui cade il discorso
della forza. I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella storia vi fu
governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e rinunciasse a
qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai stato, non ci
sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia in riva al
mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun governo é mai
esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque soluzione vi
accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi della
saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti. Se
finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a
quadrare il circolo. Posto come assiomatico che qualsiasi
provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo
malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo
eviterete colla forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si
renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza
fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel
Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad
abbatterlo. Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali.
Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi
e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque
non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di
libertà. Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine
casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima
metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si
affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che
esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia,
disciplina. Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e
battagliando per una piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È
completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi
che ritroveranno la primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre
invernale. Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario
quando molti dei liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante,
non ha oggi ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il
fascismo non cade vittima di certi trucchi dozzinali. Si sappia dunque,
una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è
già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul
corpo piú o meno decomposto della Dea Libertà. Benito Mussolini, da
Gerarchia. SAGGIO DI DESANCTIS CHE MUSSOLINI VOLLE INCLUDERE scrivendo la
nuova edizione de IL PRINCIPE Testo integrale originale (che è comunque un
ottimo saggio, proprio utile per capire il ns. passato) DE SANCTIS: Dicesi
che Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in luce l'Orlando furioso.
Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto
nella lunga lista, ch'egli stese nell'ultimo canto, dei poeti italiani. Questi
due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia
faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno all'altro.
Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisionomia essenzialmente
fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un piacevolone,
che se la spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate,
verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vede nel
Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e in Lorenzo e nel Berni.
Poco agiato nei beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose
sarebbe riuscito un letterato fra i tanti stipendiati a Roma o a Firenze, e
dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici, restaurata la repubblica e nominato
segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte
legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose,
e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve molto il sostenere
le torture, poiché tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte
si raffermò le sue tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche
faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò sui fati dell'antica Roma e sulle
sorti di Firenze, anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non
potesse mentenere le sue indipendenza se non fosse unita, tutta o gran parte,
sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze,
volesse pigliare l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi e
trarlo di ozio e di miserie. All'ultimo, poco e male adoperato dei
Medici, finì la vita tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli che
il nome. Di lui fu scritto: Tanto nomini nullum par elogium. I suoi
Decennali, arida cronaca delle fatiche
d'Italia di dieci anni, scritte in quindici dì; i suoi otto capitoli dell'Asino
d'oro, sotto nome di bestie satira dei degeneri fiorentini; gli altri suoi
capitoli dell'Occasione, delle Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i
suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o
canzoni, sono lavori letterari sui quali è impressa le fisionomia di quel
tempo: alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi,
sempre aridi. Il verso rasenta le prose; il colorito è sobrio e spesso monco;
scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato
appaiono le vestigie di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e
di osservazione. Manca l'immaginativa: sovrabbonda lo spirito. C è il critico:
non c è il poeta, non c è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e
fantastica, come era Ludovico Ariosto. C è l'uomo che si osserva anche
soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità
filosofica: il suo poetare è un discorrere: Io spero, e lo sperar cresce il
tormento; io piango, e il pianger ciba il lasso core; io rido, e il rider
mio non passa drento; io ardo, e l'arsion non par di fuore; io temo ciò
ch'io veggo e ciò ch'io sento; ogni cosa mi dà nuovo dolore: così
sperando piango, rido e ardo, e paura ho di ciò ch'i' odo o guardo. Tali
sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della
Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come nei
Decennali: la voce d'un Cappon tra cento Galli,.....e qualche sentenza o
concetto profondo, come nel canto De' diavoli o de' romiti. Il suo capolavoro è
il capitolo dell'Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d'improvviso e
ti fa pensoso. Nel poeta si sente la scrittore del Principe e dei Discorsi.
Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che
correvano in quella età. Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle
sue prediche alle confraternite, nella descrizione della peste e ne' discorsi
che mette in bocca ai suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro
con una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della
retorica e gli artifici dello stile; ciò che si chiamava eleganza. Ma nel
Principe, nei Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla
milizia, nelle Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle
cose, e con l'aria di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso
alle parole e ai' periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della
forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana. E' visibile in Niccolò
Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte
della borghesia italiana in quel tempo. E aver pure quel senso pratico, quella
intelligenza degli uomini e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i
principi, e che troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia, a
Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro
sesto, Ludovico il moro, e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così
vivi e sagaci delle corti presso le quali dimoravano. C' era l'arte: mancava la
scienza. Lorenzo era l'artista: Machiavelli doveva essere il critico. Firenze
era ancora il cuore d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c'
era l'immagine della patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea
ghibellina e guelfa era spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla
romana, effetto della coltura classica, che, fortificata dall'amore
tradizionale del viver libero e dalle memorie gloriose del passato, resisteva
ai Medici. L'uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra
dell'animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio
e l'immortale resistenza agli eserciti papali-imperiali. L'indipendenza e la
gloria della patria e l'amore della libertà erano forze morali, tra quella
corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal contrasto. Machiavelli,
per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa, per lo spirito beffardo
e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova
letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò le accetta tutte, e,
magnificando la morale in astratto, vi passa sopra nella pratica della vita. Ma
ha l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte
politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua coscienza non è
vuota. C è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria. Il suo ingegno
superiore e pratico non gli consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del
possibile. E quando vide perduta la libertà, pensò all'indipendenza e cercò
negli stessi Medici lo strumento della salvezza. Certo, anche questa era
un'utopia o una illusione, un'ultima tavola alla quale si afferra il misero
nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia che rivelava la forza e la giovinezza
della sua anima e la vivacità della sua fede. Se Francesco
Guicciardini vide più giusto e con più esatto sentimento delle condizioni
d'Italia, è che la sua coscienza era già vuota e petrificata. L'immagine del
Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e circondata di una aureola poetica
per la forte tempra e la sincerità del patriottismo e l'elevatezza del
linguaggio, e per quella sua aria di virilità e di dignità fra tanta folla di
letterati venderecci. La sua influenza non fu pari al suo merito. Era tenuto
uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi, più che uomo di Stato e di
azione. E la sua povertà, la vita scorretta, le abitudini plebee e fuori della
regola, come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini, non gli
aumentavano reputazione. Consapevole della sua grandezza, disprezzava quelle
esteriorità delle forme e quei mezzi artificiali di farsi via nel mondo, che
sono sì familiari e sì facili ai mediocri. Ma la sua influenza è stata
grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre ingrandendo tra gli
odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome è rimasto la
bandiera intorno alla quale hanno battagliato le nuove generazioni, nel loro
contraddittorio movimento ora indietro ora innanzi. C è un piccolo libro del
Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gettato
nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo libro, e
questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel
suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un codice della tirannia,
fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda
l'opera. E hanno chiamato machiavellismo questa dottrina. Molte difese si
sono fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o
quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata
e un Machiavelli rimpiccinito. Questa critica non è che una pedanteria.
Ed è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia
italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e
cercarvi i fondamenti della sua grandezza. Niccolò Machiavelli è innanzi tutto
la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che, nella sua
spontaneità, dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del
Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la
riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia
parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell'azione,
ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza
di staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa sei? dove vai? -
L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con
l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le
Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di
assimilarsi. Sovrastava per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere
d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in
Europa. Grave fu lo sgomento negl'italiani quando ebbero gli
stranieri in casa; ma vi si abituarono e trescarono con quelli, confidando di
cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di
ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnoli,
l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e
buffoni nelle eleganti corti italiane. Fin nei campi i sonettisti assediavano i
principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i lazzi di Pietro Aretino. Gli
stranieri guardavano attoniti le meraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e
tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i
letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo
quinto. L'Italia era inchinata e studiata dai suoi devastatori, come la Grecia
fu dai romani. Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e
di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia dove
altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo decadenza egli disse corruttela, e base di tutte le sue
speculazioni fu questo fatto: la corruttela della razza italiana, anzi latina,
e la sanità della germanica. La forma più grossolana di questa corruttela era
la licenza de' costumi e del linguaggio, massime nel clero: corruttela che già
destò l'ira di Dante e di Caterina, ed ora messa in mostra nei dipinti e negli
scritti, penetrata in tutte le classi della società e in tutte le forme della
letteratura, divenuta come una salsa piccante che dava sapore alla vita.
La licenza, accompagnata con l'empietà e l'incredulità, aveva a suo principal
centro la corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la
vista di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla
separazione Lutero e i suoi concittadini. Nondimeno il clero per abito
tradizionale tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva
sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita
pratica: il pensiero non era più la parola, e la parola non era più l'azione;
non c'era armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo
comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di
capitoli. Nessun italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella
licenza, ai cui allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria,
altra la pratica. E nessuno poteva, non desiderare una riforma de' costumi, una
restaurazione della coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore
di quei baccanali. Non c' era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la
vita seriamente. Pure erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono
e agevolarono l'opera del concilio di Trento e la reazione cattolica.
Rifare il medioevo e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una
ristaurazione religiosa e morale, era stato il concetto di Geronimo Savonarola,
ripreso poi e purgato nel concilio di Trento. Era il concetto più accessibile
alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a'
loro mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel
carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto.
Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella
coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che
pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo,
concorse alla sua demolizione. L'altro mondo, la cavalleria, l'amore
platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la
letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura è la parodia più o
meno consapevole. Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento
ironico quando parla del medio evo, sopratutto allora che affetta maggior
serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua
opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il
suo Belfegor è della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua
negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza
vuota. In quella negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua
coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente. Papato e impero,
guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni
sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto
un nuovo edificio sociale e politico. Le idee che generarono quelle
istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza,
rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana.
Questo popolo non si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a
questo che attende Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da
lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la ricostruzione.
Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui accennare la
idea fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è
attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della
vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la
verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello che
deve essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo, l'inferno, il
purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia. Da
questo concetto della vita, teologico-etico, uscì la Divina commedia e tutta la
letteratura del Duecento e del Trecento. Il simbolismo e lo scolasticismo
sono le forme naturali di questo concetto. La realtà terrena è simbolica:
Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro
spiegazione e la loro radice negli enti o nelle universali, forze estramondane,
che sono la maggiore del sillogismo, l'universale da cui esce il particolare.
Tutto questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio in qua negato, caricato,
parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma
cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del
peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo. Andavano insieme
teologi e astrologi e poeti, tutti visionari: conclusione geniale della
Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo della luna ariostesco. In teoria c'
era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza. Machiavelli vive in
questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella vita e la stessa
indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel
tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione. Di speculazioni
filosofiche sembra così digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche.
E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita
pratica. Nelle scienze naturali non sembra sia molto avanti, quando
vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle stelle. Battista Alberti
avea certo una coltura più vasta e più compiuta. Niccolò non è filosofo della
natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e
prepara Galileo. L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia estatica
e contemplativa del medio evo e non ha la faccia tranquilla e idillica del
Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora intorno ad uno
scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue
attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non è contemplazione. Non
è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà, il suo scopo
e i suoi mezzi. Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo,
rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua
serietà e nella sua attività : questo è lo spirito che aleggia in tutte le
opere del Machiavelli. E' negazione del medio evo, e insieme negazione del
Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco come la
contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali
però che debbano e possano costituire lo scopo della vita. Combatte
l'immaginazione come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in
immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha da
curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come
debbono essere. Quel dover essere, a cui tende il contenuto nel medio evo
e la forma nel Risorgimento, deve far luogo all' essere o, com'egli dice, alla verità effettuale. Subordinare il mondo
dell'immaginazione, come religione e come arte, al mondo reale, quale ci è
posto dall'esperienza e dall'osservazione: questa è la base del Machiavelli.
Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento
della vita la patria. La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo
dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della patria. Nel
medio evo non c' era il concetto di patria: c' era il concetto di fedeltà e di
sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore,
rappresentanti di Dio: l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società.
Intorno a questi due Soli stavano gli astri minori: re, principi, duchi,
baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la
libertà era privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per
la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano
legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re
di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il diritto di rappresentarlo
e interpretarlo. E' un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo.
C'era ancora il papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si
fondava la loro potenza, non c'era più nelle classi colte d'Italia. Il papa
stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio: il papa ingrandito di
territorio, diminuito di autorità; l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di
papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per
riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di
quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il papa, i gentiluomini e gli
avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un
sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia.
Combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i gentiluomini,
reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la prima cagione
della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e svolge largamente
il concetto di una milizia nazionale. Nel papato temporale, nei gentiluomini,
negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo. La patria del
Machiavelli è naturalmente il Comune libero, libero per sua virtù e non per
grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di tutti.
Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de' grandi
Stati che si erano formati in Europa, e come il Comune era destinato anch'esso
a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo Comune gli par
cosa troppo piccola e non possibile a durare davanti a quelle potenti
agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano Stati o Nazioni. Già
Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che
assicurasse l' equilibrio tra i vari Stati e la mutua difesa, e che pure
non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone
addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo
d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non
è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca
è il giardino dell'impero; nell'utopia del Machiavelli è la patria, nazione autonoma e indipendente.
La patria del Machiavelli è una divinità, superiore
anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici
assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli
eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata
sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. Ragion di Stato e salute
pubblica erano le formule volgari, nelle quali si esprimeva questo diritto
della patria, superiore ad ogni diritto. La divinità era scesa di cielo in
terra e si chiamava la patria, ed era
non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era suprema lex. Era
sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere
collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi
la servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini
alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della
libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era lo
strumento della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto
la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato
sull'arbitrio di uno solo. PATRIA era dove tutti concorrevano più o
meno al governo e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi repubblica.
E dicevasi principato dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o
principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo assorbito nella
società o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato. Queste idee sono
enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e analizzate, ma come già per
lunga tradizione ammesse e fortificate dalla coltura classica. C è lì dentro lo
spirito dell'antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di libertà
attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo
nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato. La patria assorbe anche
una religione. Uno Stato non può vivere senza una religione. E se il
Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perchè a difesa del suo
dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perché coi
suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della
religione. Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano
del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed
era arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche la
moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede,
la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se
le incontra sulla sua via non come istrumenti ma come ostacoli, li spezza.
Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni
principi; ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in quel fondo ignudo
della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un
sentimento religioso e morale schietto e semplice. Noi, che vediamo le cose di
lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla
teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e
'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce
dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che ha la sua
legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di
subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto
divino. Il fondamento delle repubbliche è vox populi, il consenso di tutti. E
il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima assicurata
dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze
atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.
Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli
non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno disarmato il cielo ed effeminato il mondo e che rendono l'uomo più atto a sopportare le ingiurie che a vendicarle. Agere et pati fortia romanum est. Il
cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire che a fare. Il
Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la
fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani inetti a cacciar via
gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza della patria. La
virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa forza, energia, che renda gli uomini atti ai grandi
sacrifici e alle grandi imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi
ne' singolari incontri riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la
disciplina o, come egli dice, i buoni
ordini e le buone armi, che fanno gagliardi e liberi i popoli. Alla virtù
premio è la gloria. Patria, virtù, gloria, sono le tre parole sacre, la triplice
base di questo mondo. Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così
anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono
atomi perduti, numerus fruges consumere nati. E parimente ci sono nazioni
oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo. Nazioni
storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità o, come
dicevasi allora, nel genere umano, come
Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la
tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza
morale. Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando
le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si
fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e' passa ad altre
nazioni. Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo
spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il
fato storico non è la provvidenza e non è la fortuna, ma la forza delle cose, determinata dalle leggi
dello spirito e della na tura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed
immortale nella sua produzione. Perciò la storia non è accozzamento di fatti
fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti,
il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e
dagl'interessi degli uomini. La politica o l'arte del governare ha per suo
campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il
mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere
e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa
calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini. La grandezza
e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti
necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E
quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono. E a governare, quelli
che stanno solo a fare i leoni, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o
la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che
muovono gli Stati. Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro,
diritti e doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico o
diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale. Anche la
guerra ha le sue leggi. Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai.
Eternamente giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue
leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di
questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale o logica,
determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del
genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò
che poi fu detto filosofia della storia.
Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non c è nel
Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con
chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la
storia. Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i
poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le
conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista,
ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e
fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E ai contemporanei non
parvero nuovi nè audaci, vedendo ivi formulato quello che in tutti era
sentimento vago. L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo:
anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e
imperiale, la Roma di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è
severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica miracoli della provvidenza, come preparazione
all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i
buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalmente alla
virtù. Di lui è questo motto profondo: I
buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici
successi delle imprese. Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto
alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di
Dante c'è il misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è c lassica, il
nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è lo spirito
moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quando biasima i suoi
tempi, dove non è cosa alcuna che gli
ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio, e non vi è osservanza di
religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione
bruttura. Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter
rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in
molte sentenze senti le vestigia di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene
anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare
un romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci
troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco.
Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco;
Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal
piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e al naturale. E' in
lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi
moderni. Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa, morale,
politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. E' affermazione, è il
verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un' affermazione. Non è la caduta
del mondo: è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e
l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità
politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla quale il
Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi; la razza, la lingua, la
storia, i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta già una
specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli
altri e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità: governo che è un
presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i
primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in
Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare. Si veda, fra l'altro,
dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi Stati, e sopratutto della
Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla
religione ogni temporalità e, come Dante, combatte la confusione de' due
reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la
profondità dell'ironia. La religione, ricondotta nella sua sfera
spirituale, è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione,
come strumento di grandezza nazionale. E' in fondo l'idea di una Chiesa
nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai fini e agli interessi della
nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la
santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il
Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno
severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia : non è
la vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la virtù è per lui la
vita attiva, vita di azione e in servizio della patria. I suoi santi sono più
simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O,
per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota. E si
rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli
non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e,
quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal
suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base
l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore
della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso cogito, nel
quale s'inizia la scienza moderna. E' l'uomo emancipato dal mondo
soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la
sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si rinnova il metodo. Il
Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce
autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di
etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è
la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata
con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti. Tutto il formolario
scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte
dell'intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali, sostituisce
la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni generali, le
maggiori del sillogismo, sono capovolte, e compaiono in
ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo
del sillogismo hai la serie, cioè a dire concatenazione di fatti, che sono
insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio: Avendo la città di
Firenze... perduta parte di terre del suo imperio, come Pisa e altre terre, fu
necessitata a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le occupava
era potente, ne seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun
risultato: dallo spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite,
insofferenze del popolo; e poichè questa guerra era amministrata da una magistratura
di dieci cittadini... la moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con loro come se
fossero cagione e della guerra e delle spese di essa. Qui i fatti sono
schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia
serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo
intelligente; l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e
superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte
l'universale, con una serietà ed una sicurezza che rende profondamente ironica
la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella
natura e nell'uomo : non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi
sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il
suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta
la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è ragione, considerazione:
sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche
pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo
alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anche essi fatti
intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra
nulla. Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da
un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di
questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di
tutti, com'è quel ritirare le cose ai
loro princìpi, o quell'ironia de' profeti disarmati, o gli uomini si stuccano del bene, e del male si
affliggono, o gli uomini bisogna
carezzarli o spegnerli. Di queste sentenze o pensieri ce ne sono molte
raccolte. E sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti
delle sue spoglie. Come esempio di questi fatti intellettuali
usciti da una mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi
Discorsi. Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul
periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica
dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua maggiore e dalle sue idee
medie: ciò che dicevasi dimostrazione, se la materia era intellettuale, o descrizione, se la materia era di puri fatti.
Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive
e non dimostra; narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo
uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo
nel secolo della forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto
perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è
tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la
cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o
materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o
bella, ma che la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è
inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e
perciò del sapere, è il Nosce te ipsum,
la conoscenza del mondo nella sua realtà. Il fantasticare, il dimostrare,
il descrivere, il moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della
vita e abbandonati all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa
di ogni elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo
superiore, il suo motto è: Nil admirari.
Non si meraviglia e non si appassiona, perchè comprende; come non dimostra e
non descrive, perchè vede e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le
perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e
le figure, i periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione.
Sceglie la via più breve, e perciò la diritta: non si distrae e non
distrae. Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di
fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti e tutti gli episodi.
Ha l'aria del pretore, che non curat de minimis, di un uomo occupato in cose
gravi, che non ha tempo nè voglia di guardarsi attorno. Quella sua rapidità,
quel suo condensare non è un artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel
Davanzati; ma è naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte
quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere
faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa
sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che
tanto piacciono a' cervelli oziosi. La sua semplicità talora è
negligenza, la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle sue qualità. E
sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di
pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino latinismi, slegature,
scorrezioni e simili negligenze. La prosa del Trecento manca di
organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione vi abbonda l'affetto
e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto. Nella prosa del Cinquecento hai
l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui espressione è il
periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di congiunzioni e di
membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna. Il vuoto
non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e scettica. Perciò il
lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli argomenti più
frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti gravi, perchè la
coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o frivolo. Ma la
serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo vi rimane
profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a Carlo
quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che qui è
nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti riesce
falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo,
come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di fuori, in
mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale
importanza della vita ne' costumi e ne' modi. Anche l'intelletto,
in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza della
composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito. Quell'abbigliamento boccaccevole
e ciceroniano divenne in breve convenzionale, un meccanismo tutto d'imitazione,
a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano ancora
smesse le loro forme scolastiche; i poeti petrarcheggiavano; i prosatori
usavano un genere bastardo, poetico e retorico, con l'imitazione esteriore del
Boccaccio: la malattia era una, la passività o indifferenza dell'intelletto,
del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di tutta l'anima. C' era lo
scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu considerato lo scrivere come un
mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi forma letteraria, nella piena indifferenza
dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore. Fra tanto
infuriare di prose rettoriche e poetiche, comparve la prosa del Machiavelli,
presentimento della prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non c è lo scrittore,
o c è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia
un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione.
Talora ci si prova e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato,
anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è - una produzione
immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro: cose e impressioni,
spesso condensate in una parola. Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge
e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la
cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni
fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di
malinconia, di indignazione, di dignità, ma principalmente lei nella sua
chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma un marmo
qua è là venato. E' la grande maniera di Dante che vive là dentro.
Parlando dei mutamenti introdotti dal medio evo nei nomi delle cose e
degli uomini, finisce così: Gli uomini ancora, di Cesari e Pompei, Pieri,
Giovanni e Mattei diventarono. Qui non c è che il marmo, la cosa ignuda; ma
quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da
quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari e Pompei il
disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla
scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento in contrasto come nemici,
e a quell'ultimo ed energico diventarono, che accenna a mutamenti non solo di
nomi ma di animi. Questa prosa, asciutta, precisa e concisa, tutta
pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto, emancipato da elementi
mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica
o la forza delle cose, il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del
mondo, come il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il
mondo è quello che è: un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie.
Ciò che dicesi fato, non è altro che la logica, il risultato necessario di
queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse
e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto.
Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il
risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e
la regola delle forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare - dice
Dante. - Bisogna intendere - dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il
cuore, l'anima del mondo machiavellico è il cervello. Quel mondo è
essenzialmente mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La
virtù muta il suo significato: non è sentimento morale, ma è semplicemente
forzao energia, la tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la
forza di operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi quando aveva
accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è
tutta e sola cervello. Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue
applicazioni. La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli
avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto
gli par nuovo, tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico,
come in Dante, nel Mussato, in tutti i trecentisti. Ma ciò che interessa il
Machiavelli è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e
narra calmo e meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del
mondo. I personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto
dell'azione: non è una storia drammatica. L'autore non è sulla scena nè
dietro la scena, ma è nella sua camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti,
cerca afferrarne i motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo,
inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto
da emozioni e impressioni. E' l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con
compassione a' moti convulsi e nervosi delle passioni. Ne' Discorsi ci è
maggior vita intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per
attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira.
Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne.
Ma, appena finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come
rinvigorito a quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali,
sorpreso e contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio
intellettuale e di quella originalità, di quel dir cose che a' volgari sembrano
paradossi. Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non
penetra niente dal di fuori a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel
calore della produzione, tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti
annunzia la fermentazione, come avviene talora anche ai più grandi pensatori.
E' l'intelletto pieno di gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza e
in sospetto di tutto ciò che non è lui. Digressioni, immagini, effetti,
paragoni, giri viziosi, perplessità di posizioni: tutto è bandito in queste
serie disciplinate d'idee, mobili e generative, venute fuori da un vigor
d'analisi insolito e legate da una logica inflessibile. Tutto è profondo,
ed è così chiaro e semplice che ti pare superficiale. Il fondamento dei'
Discorsi è questo: che gli uomini non
sanno essere nè in tutto buoni nè in tutto tristi, e perciò non hanno tempra
logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà. Immaginazioni,
paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la risolutezza.
Perciò stanno volentieri in sull'ambiguo, e scelgono le vie
di mezzo, e seguono le apparenze. C è nello spirito umano uno stimolo o
appetito insaziabile, che lo tiene in continua opera e produce il progresso
storico. Ond'è che gli uomini non sono tranquilli e salgono di un'ambizione a
un'altra, e prima si difendono e poi offendono, e più uno ha, più desidera.
Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e
incerti. Quello che degli individui, si può dire anche dell'uomo collettivo,
come famiglia o classe. Nella società non c' è in fondo che due sole classi:
degli abbienti e de' non abbienti, de' ricchi e de' poveri. E
la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha. Gli
ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi quando
hanno a fondamento l' equalità. Perciò
libertà non può essere dove sono gentiluomini o classi privilegiate. E' chiaro che una
scienza o arte politica non è possibile quando non abbia per base la conoscenza
della materia su che si ha a esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come
classe. Perciò una gran parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle
moltitudini o delle plebi, degli ottimati o gentiluomini, de' principi, de'
francesi, de' tedeschi, degli spagnoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti
finissimi per originalità di osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali
vien fuori il carattere, cioè quelle
forze che muovono individui e popoli o classi ad operare così o così. Le sue
osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata, e perciò
freschissime e vive anche oggi. Poiché il carattere umano ha questa base
comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la
virtù di conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le
oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l'arte di
condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la
virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa
grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo. Questo punto di
vista logico, preponderante nella storia, comunica all'esposizione una calma
intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il
cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa e più osa. Quando la
tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa
quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue
passioni, com'è proprio del volgo. Un'applicazione di questa implacabile logica
è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per frode o per forza tolgono
la libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano
mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del
principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato.
L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare
buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza de' cittadini. Deve
mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i
gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma
studiandoli e comprendendoli: non ingannato da loro, ma ingannando loro. Come
stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le buone apparenze, e, non
volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti
e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente
semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il
principe miri a farsi temere più che amare. Sopratutto eviti di rendersi odioso
o spregevole. Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna, vi
troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi
legge questo Principe del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico,
fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è, come natura,
sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma
secondo criteri logici. Ciò che gli si deve domandare non è se quello che egli
fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i
mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla forza
come intelligenza. L'Italia non ti poteva dare più un mondo divino ed
etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era
l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle
passioni e dalle immaginazioni. Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto
punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione
dello scopo, e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e
lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La
chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da elementi soprannaturali o
fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il suo eroe è il domatore
dell'uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze naturali e
umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e
se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome
del genere umano.Vedasi il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti
che siano uscite da un gran cuore, Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è
senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità
morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel
non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il
terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole. L'odioso è il male fatto per
libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la
debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che
pur bisogna andare. Quando Machiavelli scriveva queste cose,
l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con lo straniero in casa.
Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta.
Tutti volevano cacciare lo straniero, a tutti puzzava il barbaro dominio; ma
erano solo velleità. E si comprende come il Machiavelli miri
principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella sua radice.
Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario,
quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli glorifica la
tempra anche del male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia, intelletto
chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che il buon
Pier Soderini, cima di galantuomo, ma. anima sciocca, che per la sua incapacità
e la sua fiacchezza perdette la repubblica. Ma, se in Italia la tempra
era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a
base della vita l'essere uomo, iniziando
letà virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico
dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza
incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco,
com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo: che si presentava
all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza
serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più
seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa.
C' erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa
degli oppressi; ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici
non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire,
di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a
Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello
che aveva fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse: fu naturale ferità di core. - Lo spirito
italiano dunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un giuoco
disordinato di forze, e dall'altra gettava la base di una nuova età su questo
principio virile: che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò
che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza intellettuale,
che precorreva l'Europa di un secolo. Ma in Italia c'era l'intelligenza e
non c'era la forza. E si credeva con la superiorità intellettuale di potere
cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta, svegliatissima ma astratta,
una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la
scienza, come l'arte per l'arte. Nella coscienza non c'era più uno scopo nè un
contenuto. E quando la coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è
fiacca, anche nella maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello
spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più facile
ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli
stranieri che mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro superiorità
intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica e non
il coraggio che ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti
intorno ad una idea e risoluti a vivere e a morire per quella.
Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza o, com'egli
diceva, corruttela: Qui - scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non
mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e nei congressi de' pochi, quanto
gl'italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno. Pure
l'Italia era corrotta, perchè difettava di forze morali, e perciò di un degno
scopo che riempisse di sè la coscienza nazionale. Di lui è questo grande
concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari nè le fortezze nè i
soldati, ma le forze morali o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina.
Di quella corruzione italiana la principal causa era il pervertimento
religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero era il
comento: La... religione, se nei principi della repubblica cristiana si fusse
mantenuta secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli Stati e
le repubbliche più unite e più felici assai ch'elle non sono. Nè si può fare
altra maggiore congettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come
quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione
nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse
l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza
dubbio o la rovina o il flagello. Certo, non è ufficio grato dire dolorose
verità al proprio paese, ma è un dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la
grandezza: Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia
oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi. Per
lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo
abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in
Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de' franchi, il regno de'
turchi, quello del soldano, e le geste della setta saracina, e le virtù de' popoli della Magna al tempo suo. Lo
spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la
sua virtù. E quando getta l'occhio sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue
più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia,
di altre città italiane, in tanto fiorire degli Stati europei. Non adulare il
suo paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne
abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare
ufficio di uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una
grande elevatezza morale: Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora
regna non fussero più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto. Ma,
essendo la cosa così manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire
manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli
animi de' giovani, che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e
prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che
per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare,
insegnarlo ad altri, acciocchè, essendone molti capaci, alcuno di quelli più
amati dal cielo possa operarlo. Queste parole sono un monumento. Ci si sente
dentro lo spirito di Dante. Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con
severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più
indulgente verso i principi: Questi nostri principi, che erano stati molti anni
nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma
l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano
mutarsi... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a
difendersi. Degli avventurieri De Sanctis scrive: Il fine della loro
virtù è stato che (Italia) è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, forzata da
Ferrando e vituperata dai svizzeri;... tanto che essi hanno condotta Italia
schiava e vituperata. Ne è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali,
rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura Gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi
vivono dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna
cura o di coltivare o di alcun'altra necessaria fatica a vivere. Questi tali
sono perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia : ma più perniciosi
sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella ed hanno
sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il
regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in
quelle provincie non è mai stata alcuna repubblica nè alcuno vivere politico,
perchè tali generazioni d'uomini sono nemici di ogni civiltà. Degna di nota è
qui l'idea, tutta moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior
nemico della civiltà è l'ozio: principio che ha gettato giù i conventi ed ha
rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il
sistema feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del
lavoro dei molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte
le cause della decadenza italiana, poteva ben dire, accennando a Savonarola: Ond'è
che a Carlo, re di Francia, fu lecito pigliare Italia col gesso; e chi diceva
come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano
già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati. Gli oziosi sono fatalisti.
Spiegano tutto con la fortuna o la sfortuna. Anche allora dei mali d'Italia
accusavano la mala sorte. Machiavelli scrive: La fortuna... dimostra la sua
potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi rivolge i suoi impeti
dove sa che sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete
l'Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto,
vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo. Essendo
l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un redentore, un principe
italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a
riordinare uno Stato si richieda l'opera di uno solo, a governarlo l'opera di
tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un dittatore: nell'estremo della
corruzione Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura: Cercando un
principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città
corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come
Romolo. Di Cesare -scrive un giudizio originale rimasto celebre: Nè sia alcuno
che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendo le massime celebrate dagli
scrittori; perchè questi che lo laudano sono corrotti dalla fortuna sua e
spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome,
non permetteva che gli scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole
conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, veda quello che dicono
di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello
che ha fatto che quello che ha voluto fare un male. Vedasi pure con quante
laudi celebrano Bruto; talchè, non potendo biasimare quello per la sua potenza,
essi celebrano il nemico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi
Roma, Italia e il mondo abbia con Cesare. Machiavelli promette, a chi prende lo
Stato con la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo:
Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro proposte
due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende gloriosi;
l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di sè una
sempiterna infamia. Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani
l'Italia dalle sue ferite, e ponga fine... a' sacchi di Lombardia, alle
espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe
già per lungo tempo infistolite E'
l'idea tradizionale del redentore o del messia. Anche Dante invocava un messia
politico, il veltro. Se non che, il salvatore di Dante ghibellino era
Arrigo di Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero: dove
il salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua
Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di essa era straniero,
barbaro, oltramontano. Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da
Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col
Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma. L'idea del
Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile
assegnarne le ragioni. Patria, libertà, Italia, buoni ordini, buone armi, erano parole per le moltitudini,
dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione. Le
classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e
letterari, erano cosmopolite, animate dagli interessi generali dell'arte e
della scienza, che non hanno patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e
cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene.
Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e dei modi; poi
la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza. E per
lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e indipendenza, continuarono a
vantarsi, per bocca dei' loro poeti, signori del mondo e a ricordare le avite
glorie. Odio contro gli stranieri ce n' era, ed anche buona volontà di
liberarsene. Ma c'era così poca fibra, che di una redenzione italica non ci fu
neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che
abbia fatto altro di serio, per giungere alla sua attuazione, che di scrivere
un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico fuori del suo
solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore che la calma
persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' di
traverso dai suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, è di avere avuto
queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua
utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione
italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale
egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro.
Non è meraviglia che il Machiavelli, con tanta esperienza del mondo, con tanta
sagacia d'osservazione, abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura c'è
entrato molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con l'oste, con un
mugnaio, con due fornaciari a picca e a trie trac : E... nascono mille contese e mille
dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino, e
siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano. Questo non è che
plebeo, ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi: Rinvolto in
quella viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia
sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne
vergognasse. Vedilo tutto solo per il bosco, con un Petrarca o con un Dante, libertineggiare con lo spirito, fantasticare, abbandonalo alle
onde dell'immaginazione: Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio
scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di fango e
di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente entro nelle
antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi
pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi
vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, ed essi
per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna
noia, e dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte: tutto mi trasferisco in loro. Quel trasferirsi in loro, quel libertineggiare sono frasi energiche di uno spirito
contemplativo, estatico, entusiastico. C'è una parentela tra Dante e
Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito
del Boccaccio, che si beffa della divina
commedia e cerca la commedia in questo
mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e
divinatrice. Ecco il principe leva la bandiera, grida : - Fuori i barbari! ---
a modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua
immaginazione: Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero
l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe
l'ossequio? E finisce co' versi del Petrarca Virtù contro al Furore
prenderà l'arme, e fia il combatter corto : chè l'antico valore negl'italici
cuor non è ancor morto. Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la
bella immagine di un mondo morale e civile e di un popolo virtuoso e
disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi
biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla realtà,
ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte parti
ai suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo: è
l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta con la sagacia dell'osservazione, lo
chiariscono uomo del Risorgimento. De' principi ecclesiastici scrive: Costoro
soli hanno Stati e non li difendono, hanno sudditi e non li governano, e gli
Stati per essere indifesi non sono loro tolti, e i sudditi per non essere
governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro... Essendo
quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiugne,
lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe
ufficio d'uomo presuntuoso e temerario il discorrerne. In tanta riverenza di
parole, non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio
ironico che trovi nei contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per
l'originalità e vivacità dell' osservazione. Dei francesi e spagnuoli scrive: Il
francese ruberia con lo alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo
con colui a chi lo ha rubato. Natura contraria alla spagnuola, che di quello
che ti ruba mai ne vedi niente. Da questo profondo ed originale talento di
osservazione, da questo spirito ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel
quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni. Dopo i primi
tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di
Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di Ferrara; il Cardinale di Bibbiena
scriveva per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con
molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli. Fu
pur troppo nuova cosa - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un
palmo servare quella gravità, quelli gesti così severi, [simular] parassiti e
ciò che fece mai Menandro. Accompagnamento alla commedia era la musica, e
intermezzi o intromesse erano le moresche, balli mimici. Le decorazioni
magnifiche. Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un
tempio... tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non saria possibile
a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con
istorie bellissime: finte le finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le
cornici d'oro fino e azzurro oltramarino...: figure intorno tonde finte di
marmo...: colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era
finta di marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In
cima dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un
bello atto, che feria con un'asta un nudo che gli era a' piedi. L'Italia
si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura,
pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro
intromesse, una moresca di Iasòn o Giasone, un carro di Venere, un carro di
Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal
Castiglione: La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella scena da
un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa
bellissima; dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero
che alcuni pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A
questi s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro;
e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini
armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono
una fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono all'entrare,
s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se
n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando
eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.
Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò
con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa
di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con
un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la
festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide;.....dice sempre il
Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad
ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi
Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un
facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone,
rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante
o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e
una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna,
generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il
furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il
cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e
Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come
si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è
antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più
ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è
vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di
Lorenzo de’MEDICI (si veda). E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul
mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli
accidenti più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo,
più simili a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie
rappresentazioni. Pare che quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di
sentire, e che tutta la loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in
certi tempi è stata tutta nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle
ballerine. Queste erano le commedie dette d'intreccio, sullo stesso stampo delle
novelle. A prima vista, ti pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche qui vi
è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma
niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha concepito
la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità
proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è
perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito
marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istruito e
che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina dì lui
ma più pratica del mondo. C è già qui un concetto assai più profondo che non in
Calandro: si sente il grande pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la
moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di
vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a
quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua
bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua patria, risoluto di farla sua.
La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e
rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come Machiavelli ha potuto esercitare
il suo ingegno a scriver commedie? Scusatelo con questo: che
s'ingegna con questi van pensieri fare il suo tristo tempo più
soave, perchè altrove non ave dove voltare il viso; chè gli è
stato interciso mostrar con altre imprese altre virtue, non sendo premio
alle fatiche sue. Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di
malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo
d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da Bibbiena, assassinato di amore, e il Bembo esalavano in
lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolanie l'altro la Calandria; e
Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando; e non udito e non
curato, fece come gli altri: scrisse commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto
il papa e i cardinali. Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si associa
all'impresa Ligurio, un parassito che usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia:
il furbo è Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene le
fila in mano, e fa muovere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il loro
carattere, ciò che li muove. Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale
e che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere Jago,
perchè Nicia non è Otello. E' un volgare mariuolo, che con un po' più di
spirito farebbe ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo di uomo che
abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è più allegro e più
spiritoso, perciò più tollerabile. Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo spirito
è la pancia: finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico è
appena indicato, e questa figura ti riesce volgare e fredda. Un altro associato
di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca parte, ma è assai ben
disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce tutto; ed ha aria di non udire, non
vedere e non capire: fa l'asino in mezzo ai' suoni. Ma questo lato comico è
poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo: ciò che non guasta nulla,
essendo una parte secondaria. Colui, che è dietro la scena e fa ballare i suoi
figurini, è Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di
nascondere sè e mettere in vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se
stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi lui di vista. Callimaco è un
innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è
riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i deliri. Non è amore
petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi,
rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico... Mi fo
di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte mi assalta tanto desio
d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei piè al capo
tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si
sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi
abbarbagliano, il cervello mi gira. Ma queste sono figure secondarie.
L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che
diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al
letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra
il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più acconci a
metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con tanta presunzione di
saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico se ne
accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre la
candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime scene c' è
una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e
moderno. Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione,
così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela
inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il
confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa
dell'altra. E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente
ignudo: scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in poche
pennellate è ammirabilmente dipinta. E' una brava donna, ma di poco criterio, e
avvezza a pensare col cervello del suo confessore. Alle ragioni
della figliuola risponde: - Io non ti so
dir tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà,
e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol
bene. - E non si parte mai di là: è la sua idea fissa, la sua sola idea: - Io t'ho detto e ridicoti che, se fra Timoteo
ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi. -
Il confessore sa perfettamente che madre è questa. -... E'... una bestia - dice
- e mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia) alle mie voglie.
Il carattere più interessante è fra Timoteo, precursore di Tartufo: meno
artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del
purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega redde poco. E lui
aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno mantenere la
reputazione all'immagine miracolosa della Madonna: Io dissi il matutino, lessi
una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta,
mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi
frati che la tengano pulita? E si meravigliano poi se la devozione manca... Oh
quanto poco cervello è in questi miei frati! Il suo primo ingresso sulla scena
è pieno di significato: colto sul fatto in un dialogo con una sua penitente:
pittura di costumi profonda della sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perché in
chiesa vale più la sua mercanzia. E' di mediocre levatura, buono a uccellar
donne:...Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e
tutte le donne hanno poco cervello; e come n'è una che sappia dire due parole,
e' se de predica; perché in terra di ciechi chi ha un occhio è signore. Conosce
bene i suoi polli: Le più caritative persone che ci siano son le donne, e le
più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene,
ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che non c è il miele senza le
mosche. Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del
mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio,
che, promettendo larga lemosina, gli richiede che procuri un aborto, risponde:
- Sia col nome di Dio, si faccia ciò che
volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa... Datemi... cotesti denari,
da poter cominciare a far qualche bene. - Parla spesso solo, e sì fa il
suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che gliene venga utile: Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da
ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che sia
segreta, perchè l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io
non me ne pento. Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia Dio sa ch'io
non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio
officio, intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di
Ligurio, che mi fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il
braccio e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi
conforto che, quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura. Questo
è l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la sua
industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa
del Vangelo e della storia sacra: Io son contenta - conclude Lucrezia; - ma non
credo mai esser viva domattina. E il frate risponde: Non dubitare, figliuola
mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol Raffaello, che
t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo misterio, chè si fa
sera. Rimanete in pace, padre - dice la madre; e la povera Lucrezia, che non è
ben persuasa, sospira Dio m'aiuti e la Nostra Donna ch'io non càpiti male. Quel
fatto il frate lo chiama un misterio, e
il mezzano è l' angiol Raffaello !
Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In
Italia faceva invece ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male
diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e
non vi è rimedio. Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria,
passatempo. Nel riso del Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che
oltrepassa la caricatura e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia
confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne
sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida,
senz'immaginazione e senza spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori
troppo crudi e cinici. Lo stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che
di dialogo. Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e
ritrattista. Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il
suo tempo. E' troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più
reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono,
non li trovi oggi più. La depravazione del prete e la sua terribile influenza
sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue non
possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella
pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia
piuttosto un anatomico che snuda le carni e mostra i nervi e i tendini.
Nella sua immaginazione non c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di
Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o
l'avventuriero o il gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso
osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle
emozioni e alle impressioni. La Mandragola è la base di tutta una nuova
letteratura. E' un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità,
come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si
nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso
dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta
conoscere i personaggi per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come
una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle
forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince. Il
soprannaturale, il meraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il
carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora
nell'arte. Si distinsero due specie di commedie : d'intrecci e di caratter. Commedia
d'intrecci fu detta dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione, come
erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si cercava
l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti. Commedia di carattere fu detta dove l'azione è mezzo a mettere in
mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie
sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa
povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La sua commedia è una
vera e propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da
forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti e non come fini o
risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come
qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le
forme più allegre e più corpulente, fino della più volgare e cinica buffoneria,
come è il don Cuccù, e la palla di aloè. C'è lì tutto Machiavelli,
l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio. Di
ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta:
quella per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua parte più grossolana,
è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale, così
vitale che è stata detta il machiavellismo. Anche oggi, quando uno
straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama patria di Dante e di
Savonarola, e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci figli di
Machiavelli. Tra il grande uomo e noi c'è il machiavellismo. E' una
parola, ma una parola consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e ti
spaventa come fosse l'orco. Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca.
Si è chiamato petrarchismo quello che in
lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato machiavellismo
quello che nella sua dottrina è
accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di
permanente. Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e
dal meno interessante. E' tempo di rintegrare l'immagine. C'è nel
Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto. La sua logica ha per
base la serietà dello scopo, ciò ch'egli chiama virtù : Proporti uno scopo quando non puoi o
non vuoi conseguirlo, è da femmina. Essere uomo significa marciare allo scopo.
Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno l'intelletto e la
volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le
apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose come le
paiono e non come le sono, a quel modo che fa la plebe. Cacciar via
dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con lucidità di mente e
fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo
può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori
dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò che riguarda Machiavelli è di
vedere se è un uomo: ciò che mira è rifare le radici alla pianta uomo, in declinazione. In questa sua logica la
virtù è il carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura,
l'oscillazione. Si comprende che in questa generalità c'è lezioni per tutti,
per ibuoni e per i birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice
dei tiranni e agli altri il codice degli uomini liberi. Ciò che vi
s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il resto. Vi s'impara che la
storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e
calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo,
come essere collettivo o individuo, non è degno di questo nome se non sia anche
esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di mezzi. Da questa base esce
l'età virile del mondo, sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione
e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio e con mezzi precisi. Questo è il
concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio
astratto e ozioso: c'è un contenuto, che abbiamo già delineato ne' tratti
essenziali. La serietà della vita terrestre col suo strumento, il lavoro;
col suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà;
col suo vincolo morale, la nazione; col suo fattore, lo spirito o il pensiero
umano, immutabile ed immortale; col suo organismo, lo Stato, autonomo e
indipendente; con la disciplina delle forze; con l'equilibrio degl'interessi:
ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui
è di corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base la
virtù o il carattere: altere et pati
fortia. Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te
la porge l'esperienza e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento,
l'astrazione sono così perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la
scolastica : nasce la scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi
giovane ancora. E' il programma del mondo moderno, sviluppato, corretto,
ampliato, più o meno realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si
avvicinano. Siano dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando
crolla alcuna parte dell'antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica
alcuna parte del nuovo ! In questo momento che scrivo (1870), le campane
suonano a distesa e annunziano l'entrata degl'italiani a Roma. Il potere
temporale crolla, e si grida il viva all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli
! Scrittore non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni
politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale, antifeudale,
civile, moderno. E quando, stretto dal suo scopo, propone certi mezzi, non di
rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti: -
Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il mondo è fatto
così, la colpa non è mia. Ciò che è morto del Machiavelli non e il
sistema, è la sua esagerazione. La sua patria mi rassomiglia troppo l'antica
divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il suo Stato non è contento di essere esso autonomo, ma
toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano
i dritti dell'uomo. La ragione di Stato ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i
suoi roghi, e la salute pubblica le sue mannaie. Fu Stato di
guerra, e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla
sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte
uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e più tardi la
libertà e la nazionalità. E se chiamate machiavellismo quei mezzi, vogliate
chiamare machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano,
sono la parte che muore: i fini rimangono eterni. Gloria del Machiavelli
è il suo programma; e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia indicati de'
mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu
più facile il biasimarli che sceglierne altri. Dura lex, sed ita lex. Certo,
oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più
tollerati e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva
Machiavelli: allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il
tradimento, la frode, le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a
scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sono più
possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato
e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e
non ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel
programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito
concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e
nell'avvenire. Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche dai nostri tempi.
E non è con i criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che
possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire:
- Crudele è la logica della storia; ma quella è. Nel machiavellismo c'è
una parte variabile nella qualità e nella quantità, relativa al tempo, al
luogo, allo stato della coltura, alle condizioni morali de' popoli. Questa
parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in tutto, quando la
società sarà radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed
eterna, perchè fondata sulle qualità immutabili della natura umana. Il
principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo: che i mezzi debbono
avere per base l'intelligenza e il calcolo delle forze che muovono gli uomini.
E' chiaro che in queste forze c'è l'assoluto e il relativo; e il torto del
Machiavelli, comunissimo a tutti i grandi pensatori, è di avere espresso in
modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.
Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo
considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua
natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua
grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa base
sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gli inizi della
scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica
unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il
machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la
sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui rottami del
medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i vacillamenti
dell'uomo politico: un mondo fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla
libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo. In
letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la storia e la politica
emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e condotte in forma
razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo e della natura,
messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio
purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella
forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. E' l'ultimo e più
maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco
Guicciardini, con tutti gli scrittori politici della scuola fiorentina e
veneta; poi GALILEI (si veda), con la sua illustre coorte di naturalisti. GUICCIARDINI
(si veda), di pochi anni più giovane di Machiavelli e di BUONARROTI (si eda),
già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il precursore di una
generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha scritto il vangelo
ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia
lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita a modo
suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si avvicina ai
presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri, e non
metterebbe un dito a realizzarli. Tre cose - scrive - desidero vedere
innanzi alla mia morte; ma dubito che io viva molto, da non vederne alcuna: uno
vivere in una repubblica bene ordinata nella città nostra; l'Italia liberata da
tutti i barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi scellerati preti.
Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni,
l'affrancamento del laicato: ecco il programma del Machiavelli, divenuto il
testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte
civile europea. Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi
colte. Ma erano amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il
ritratto di quella società è il Guicciardini, che scrive: Conoscere non è mettere in atto. Altro è
desiderare, altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fai
come ti torna. La regola della vita è l'interesse proprio, il tuo particulare. Il
Guicciardini biasima l'ambizione,
l'avarizia e la mollezza de' preti e il
dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre questa caterva di scellerati ai tempi debiti,
a restare o senza vizi o senza autorità ; ma per il suo particulare è necessitato amare la grandezza de' pontefici
e servire ai preti e al dominio temporale. Vuole emendata la religione in
molte parti; ma non ci si mescola, lui, non combatte con la religione nè con le cose
che pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa forza nella mente delli
sciocchi. Ama la gloria e desidera di fare cose grandi ed eccelse, ma a patto
che non sia con suo danno o incomodità. Ama la patria, e, se perisce, gliene
duole, non per lei, perchè così ha a
essere, ma per sè, nato in tempi di
tanta infelicità. E' zelante del ben pubblico, ma non s'ingolfa tanto nello Stato da mettere in quello tutta la sua fortuna.
Vuole la libertà, ma, quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè mutano i visi delle persone, non le cose, e
non puoi fare fondamento sul popolo, e, quando la vada male, ti tocca la vita spregiata del fuoruscito. Miglior
consiglio è portarsi in modo che quelli che governano non ti abbiano in sospetto e neppure
ti pongano fra' malcontenti. Quelli che altrimenti fanno sono uomini leggeri. Molti, è vero, gridano libertà, ma in quasi tutti prepondera il rispetto
dell'interesse suo. Essendo il mondo fatto così, devi pigliare il mondo com'è,
e far in modo che non te ne venga danno, anzi la maggiore comodità possibile.
Così fanno gli uomini savi. La
corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era vuota e mancava
ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della
vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non c'è più il cielo per lui,
ma c'è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini,
come cose belle e buone e desiderabili; ma li ammette sub conditione, a patto
che sieno conciliabili col tuo particulare, come dice, cioè col tuo interesse
personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al
sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette sè
francamente tra questi più, che sono i savi ; gli altri li chiama pazzi, come furono i fiorentini, che vollero contro ogni ragione opporsi, quando i savi di Firenze avrebbono ceduto alla
tempesta, e intende dell'assedio di Firenze, illustrato dall'eroica resistenza
di quei pazzi, tra' quali erano Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte
la corruttela italiana e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un
nobile cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini, che in
tanta rovina cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia
con la loro caduta. Nel Guicciardini compare una generazione già rassegnata.
Non ha illusioni. E perché non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge
egli pure e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la
corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita. Il Dio del
Guicciardini è il suo particolare. Ed è un Dio non meno assorbente che il Dio
degli ascetici o lo Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni
vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato.
Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e
contro tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è
saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita. Il
Guicciardini si crede più savio del Machiavelli, perché non ha le sue
illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce, e rompe
in questo motto sanguinoso: Quanto si ingannano coloro che ad ogni parola
allegano e' romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro,
e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità
disproporzionali è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino
facesse il corso di un cavallo. In questo concetto della vita il
Guicciardini è di così buona fede, che non sente rimorso e non mostra la minima
esitazione, e guarda con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno
altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma per debolezza di cervello, avendo offuscato lo
spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle
passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano, già
adulto e progredito, che caccia via l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è
tutto e solo cervello o, come dice il Guicciardini, ingegno positivo. Perché l'ingegno sia
positivo si richiede la prudenza
naturale, la dottrina che dà le regole, l' esperienza che dà gli esempli, e il naturale buono, tale cioè che stia al reale e
non abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la discrezione o il discernimento, perché è grande errore parlare delle cose del mondo
indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola, perché quasi
tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si
trovano scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione. Il vero
libro della vita è dunque il libro della
discrezione, a leggere il quale si richiede da natura buono e perspicace occhio. La dottrina sola
non basta, e non è bene stare al
giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa volere vedere ognuno che
scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in speculare, si consuma a
leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi più
similitudine a una fatica di facchini che di dotti. L'uomo positivo vede
il mondo diverso da quello che ai
volgari pare. Non crede agli astrologi,
ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura o
che non si vedono e dicono mille pazzie : perchè in effetti gli uomini sono al buio
delle cose, e questa indagine ha servito e serve più a esercitare gli ingegni
che a trovare la verità. Questa base intellettuale è quella medesima del
Machiavelli: l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo speculare o l'osservare. Nè altro è il sistema. Il
Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più
recisa; e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è più logico e più
conseguente. Poichè la base è il mondo com'è, crede un illusione a volerlo
riformare, e volergli dare le gambe di cavallo quando esso le ha di asino; e lo
piglia com'è, e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento.
Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua
coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e
voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè gli uomini si riscontrano. Stai con chi vince,
perchè te ne viene parte di lode e di
premio. Abbi appetito della roba, perchè la ti dà reputazione, e la povertà è
spregiata. Sii schietto, perchè, quando sia il caso di simulare, più facilmente
acquisti fede. Sii stretto nello spendere, perchè più onore ti fa uno ducato che tu hai in
borsa, che dieci che tu ne hai spesi. Studia di parer buono, perchè il buon nome vale più che molte ricchezze. Non
meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i cattivi che i buoni, credi poco e fidati poco. Questo è il
succo dell'arte della vita seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia,
come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul
divorzio tra l'uomo e la coscienza e sull'interesse individuale. E' il codice
di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica, intelligente, e positiva,
succeduto ai codici d'amore e alle regole della cavalleria. Ma il Guicciardini,
con tutta la sua saggezza, trovò un altro più saggio di lui, e, volendo usare
Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì la
vita, come il Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le
sue illusioni e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità,
perchè si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, il
Guicciardini usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia. Se guardiamo alla
potenza intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da da mente
italiana. Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica,
sulla quale facevano i loro esercizi rettorici il Giovio, il Varchi, il
Giambullari e gli altri storici. I fatti più meravigliosi o commoventi sono da
lui raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e
non si maraviglia e non si commuove più di nulla. Non ha simpatie o antipatie,
non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi o preconcetti intorno
ai risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto
chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo
turbi o lo svii. E' l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo
notate e che in lui sono egregie: la prudenza naturale, la dottrina,
l'esperienza, il naturale buono e la discrezione. Meravigliosa è
soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere principi nè regole assolute,
e giudicare caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità,
quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un
altro; dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste
disposizioni, è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena,
dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli
il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere; e lo
studio dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non si vede. Hai innanzi non
la sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione: li
vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con
la stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è
il carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione sui fatti. Il motivo
determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagine non meno
degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di
re e di corti. Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono
sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà,
l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o
gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica ad
usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che non guardano nel fondo e si
lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come
strumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li muovono con
la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini loro. Lo storico avea
intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei Ricordi, ha la precisione
lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza
che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia
i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore
intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più raggiunto. Ma GUICCIARDINI
(si veda), di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti umani, aveva de'
preconcetti in letteratura: opinioni ammesse senza esame, solo perchè ammesse
da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la
tradizione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto
complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue
prove. Molti uomini mediocri, quali il Casa e il Castiglione e il
Salviati e lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed
educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida
percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del
suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe
i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza
spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e rettorici. E sono
rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue
sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di sentimento, una certa
solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo
di una ossatura solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed
esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e
d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore. La
Storia d'Italia comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta
di Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo
terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo
storico si può chiamare la tragedia
italiana, perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi
passa in potestà dello straniero. Ma lo storico non ha pur sentore
dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è
l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità
che colpiscono gl'individui: le arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali
della guerra. Avvolto fra tanti atrocissimi accidenti, sagacissimo a indagarne
i più riposti motivi nel carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme
gli fugge. La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e
Francesco primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia
bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta:
questi fatti generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più
oscuri pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e
classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la
loro fisiologia, che li fa essere così o così. L'uomo vi appare come un
essere naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato
all'azione da passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con
la stessa necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque
essere vivente dalle sue leggi costitutive. Considerando l'uomo a
questo modo, lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e
indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali.
Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più
interessante, perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua
attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia: che
l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi
interni o dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come
riuscirà, quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi
perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a se stesso, che ha mal
calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica
non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di
macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi poco interessanti,
perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e
tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno. Il
Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale, come si
direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gli individui, ma la
società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi
sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gli
interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E se vogliamo
trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo da imparare
nelle sue opere. Indi è che, come carattere morale, il segretario
fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che
sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine; e, come forza
intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù
sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di partenza
nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis. Nel 1512 quando
ormai aveva più di quarant'anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1469, da antica
e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e veniva
inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico perchè
tutta l'attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al
servizio del regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva
riuscire gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle
vittoriose truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi
scrittori italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva
iniziato la sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa
col rogo l'avventura savonaroliana), ottenendo l'incarico di segretario della
seconda Cancelleria. Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul
piano della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di
acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di
quegli anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e
della nostra indipendenza e lo scontro, sul nostro territorio, delle due nuove
potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò
numerose volte, tanto da conoscere molto bene la struttura di questo stato e da
poter analizzare con precisione le ragioni della forza e del prestigio dei
Francesi e, insieme, le cause dei loro insuccessi. Ma non meno importanti
furono le esperienze che egli potè fare presso Cesare Borgia, l'inquieto
spregiudicato e ambizioso figlio naturale del papa Alessandro VI, che aspirava
alla creazione di un forte stato nell'Italia centrale e minacciava direttamente
e indirettamente Firenze. Presso il Valentino (così era chiamato il
Borgia) Machiavelli si recò due volte nel giugno e nell'ottobre del 1502 in
occasione della ribellione della Valle di Chiana contro il dominio fiorentino (
ribellione fomentata dal Valentino stesso ) e da tali legazioni potè trarre
argomento di ammirazione per l'energia, l'audacia, le capacità diplomatiche di
questo signore molto splendido e magnifico che diverrà poi quasi l'incarnazione
del suo principe. D'altra parte egli non fu solo testimone della fortuna del
Valentino, ma anche del crollo di tutte le sue ambizioni, perchè, dopo
l'improvvisa morte di Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III, fu
inviato dal governo fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè assistere
all'elezione di Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua ultima ruina. In quella occasione, e in una
successiva legazione nel 1506, il Machiavelli potè anche rendersi conto del
temperamento del nuovo papa, dell'energia e del furore che lo misero al centro degli avvenimenti
politici di quegli anni. Se si aggiunge che il 1507 il nostro segretario si
recò in Germania presso la corte imperiale ( rimanendovi per oltre sei mesi ),
che nel 1509 assistette alla resa di Pisa e soprattutto, alla disfatta della
maggiore potenza italiana, Venezia, e che, dal 1506 in poi, negli intervalli
fra una legazione e l'altra, fu incaricato di arruolare e istruire un corpo di
truppa cittadina, si vedrà quanto varia e complessa fosse l'esperienza di
Machiavelli. I problemi di fondo della politica europea gli si erano così
progressivamente chiariti: la necessità di uno stato unitario moderno, la
necessità di truppe non mercenarie, il dramma della divisione italiana e della
inettitudine della nostra classe dirigente. Questi problemi egli era già venuto
elaborando in una serie di scritti minori : Descrizione del modo tenuto dal
duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il
signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini; Del modo di trattare i popoli della
Valdichiana ribellati; Parole da dire sopra la provvisione del denaio fatto in
loco di pèroemio e di scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di Firenze in
armi; Discorso sopra l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto delle cose
della Magna; Ritratto delle cose di Francia; il Decennale primo e il Decennale
secondo. E' del tutto comprensibile il cruccio del Machiavelli vedendosi
mettere da parte proprio nel momento in cui era giunto alla sua completa
maturità e poteva guardare le cose dall' alto di una ricchissima esperienza. Ma
i Medici furono inflessibili : in un primo tempo addirittura lo imprigionarono
( e lo torturarono pure ), sospettando che avesse partecipato alla congiura del
Boscoli, poi lo tennero inoperoso per quasi otto anni, sino al 1520, e infine
gli assegnarono qualche incarico minore : di esprimere un parere a riguardo
della costituzione fiorentina ( e lui scrisse il Discorso sopra il riformare lo
stato di Firenze ), di narrare la storia della città ( di qui le Istorie
fiorentine ), di andare come ambasciatore presso la repubblica degli Zoccoli, cioè presso il
capitolo dei Frati minori di Carpi. Solo nel 1526 gli venne
affidato un incarico importante : quello di cancelliere dei Procuratori delle
mura, preposti alla difesa di Firenze. Ma i Medici vennero di nuovo scacciati e
Machiavelli, sospettato anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte.
Durante gli anni del suo ozio forzato, Machiavelli si ritira in una villa
presso San Casciano. Qui egli passava la giornata a caccia di uccelli, o nella
lettura dei poeti latini, o imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste,
il mugnaio, il beccaio, o infine standosene sulla porta dell'osteria e
scambiando impressioni e notizie coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo
studio e leggeva le antiche storie e interrogava gli antichi scrittori: e non
sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la
povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E' dalle
meditazioni che ispira questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi
passanti e i loro vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini
dell'antichità, che nascono quasi d'un sol getto le grandi opere
machiavelliane: il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di LIVIO (si veda),
i dialoghi Dell'arte della guerra, la Vita di Castracani, La Mandragola.
Frequentazione con i vivi e con i morti, abbiamo detto. Ed è questo che fa
grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscienza più alta del
Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel suo dramma
profondo, e non soltanto - come accadeva al Castiglione e al Bembo - nei suoi
elementi grandiosi ma statici. Il fatto, cioè, che egli sa stabilire, nello
stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che lo
circondano. Per lui, rivolgersi all'antico non significa evadere dal presente.
Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non sono mai problemi astratti (anche
quando sembra che lo siano ), non sono mai problemi che si pongono sul piano
delle categorie universali (moralità, utilità, politicità, e così via), ma sono
problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una situazione
storico-politica concreta, quella dell'Italia nei primi decenni del sec. XVI
Per questo non è la scoperta della categoria dell'utile diversa e distinta
dalla categoria della morale l'elemento caratterizzante del pensiero
machiavelliano: Non già che il problema dell'autonomia della politica, rispetto
alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al
capitolo del principe dedicato a coloro che per scelleranza sono venuti al
Principato con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all'esaltazione
del Valentino - ammirato nella sua abilità politica indipendentemente dai suoi
delitti - o al capitolo XVIII della stessa opera dove si pone il problema se i
principi debbano mantenere gli impegni presi. E se parlando di Agatocle il
Machiavelli sembrava ancora oscillare non sentendosela di identificare la virtù
- sia pure nella particolare accezione in cui egli usava questo termine di energia
e capacità - con le scelleratezze di Agatocle e di altri, qui egli non
manifesta più dubbi. La politica ha alcune leggi che non coincidono
sempre con con quella della morale: essere buono può sovente procurare la ruina
di un principe, al contrario, mancare di parola, ingannare, assassinare spesso
può salvare uno stato. Di qui l'accusa di immoralità che gli venne presto
rivolta, e la formula del fine che giustifica i mezzi che gli viene attribuita.
In realtà Machiavelli si limita a costatare scientificamente le due sfere
diverse in cui agiscono politica e morale. Si rende conto con chiarezza
dell'autonomia di una rispetto all'altra, non ne individua il punto di
congiunzione. Ma il secondo problema non lo interessava: la realtà effettuale
italiana non suggeriva certo un discorso sulla morale. Per questo l'interesse
del Principe si accentra tutto, invece, sulla figura del principe nuovo come la
sola che possa sciogliere positivamente la complessa trama della crisi
italiana: anzi fra l' elogio del Valentino e la condanna di Cesare.
Contraddizioni inesistenti se si considera che Il principe poneva soprattutto
il problema della creazione di uno stato nuovo nella situazione italiana di
quel periodo e i Discorsi pongono soprattutto il problema del mantenimento
dello stato, dei suoi ordinamenti migliori. Per la stessa ragione nei Discorsi
al popolo si dà un posto che non ha mai nel Principe, fino all'affermazione che
il popolo é più prudente, più stabile e
di migliore giudizio che un principe e
che se i principi sono superiori a'
popoli nello ordinare le leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini
nuovi, i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate. Così
Machiavelli può arrivare a una stupefacente scoperta che sembra preludere alle
concezioni politiche moderne : che cioè le lotte fra patrizi e plebei non
indebolirono Roma, ma le permisero di raggiungere ordinamenti sempre più
perfetti. Insomma nei Discorsi l' argomentazione é più distesa e distaccata e
può, quindi, abbracciare un campo più vasto anche se meno omogeneo. Così
Machiavelli può riprendere il discorso sulla religione non tanto considerandola
uno strumento del potere costituito, quanto un costume morale che regola i
rapporti civili fra i cittadini come individui privati e, di conseguenza, rende
più ordinati e stabiliti i rapporti fra il cittadino e lo stato. Può riprendere
anche il discorso sulle milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi,
ripudiando in questo modo definitivamente il concetto di città - stato e
sostenendo la necessità di uno stato con una larga base territoriale. Tale
collegamento alle cose e il carattere di ricerca della sua speculazione si
rivelano pienamente nella prosa e nello
stile stesso del segretario fiorentino, in questo tipo nuovo e liberale di
prosa in cui la sintassi é già consapevole della sua libertà ed
individualità e il ragionamento a piramide degli scolastici cede il posto al ragionamento a catena della prosa scientifica moderna. Il lettore ha
costantemente l' impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare a
un laborioso processo di ricerca, irto di dubbi e di contraddizioni. La
prosa del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che squaderna
agli occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era in possesso
; essa piuttosto sollecita a provoca il lettore, cui si rivolge, di frequente,
con un tu perentorio e aggressivo, a farsi compagno e
sodale del suo autore, lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze di questo. In
tal senso la prosa di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) é eminentemente moderna.
E quando d' improvviso il periodare serrato e incalzante del segretario
fiorentino s' impenna e si apre in una di quelle rappresentazioni o formule
condensate e chiarissime che sono tipiche della sua opera, il lettore ha la
sensazione di assistere al germinare di un' intuizione nuova preparata e resa
possibile da un lungo e penoso lavoro intellettuale, si sente partecipe della
gioia della scoperta e, al tempo stesso, stupito della semplicità
rivoluzionario della medesima. Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una realtà
mortificante, la ruina d' Italia, nelle
sue istituzioni comunali o signorili, nei costumi dei suoi principi, nell'
avvilimento del popolo. Di qui il pessimismo della sua intelligenza, quel
contemplare distaccato e disgustare un mondo sordido e canagliesco, impastato
di bassi appetiti, di astuzie meschine, di stupidità e di ingordigia che sta al
fondo della Mandragola, il capolavoro del teatro del '500. Egli, però, ha
compreso l' importanza delle grandi formazioni di stati unitari verificatisi in
Europa, sa che in questa direzione si muove la storia e il progresso ed é
consapevole che il grande patrimonio della civiltà italiana potrebbe esprimere
il principe capace di imprimere un suggello su quella materia informe e
corrotta. Machiavelli non è un puro teorico, inteso a costruire
freddamente una teoria politica per così dire in laboratorio : le sue concezioni
scaturiscono dal rapporto diretto con la realtà storica, in cui egli é
impegnato in prima persona grazie agli incarichi che ricopre nella Repubblica
fiorentina, e mirano a loro volta ad incidere in quella realtà, modificandola
secondo determinate prospettive. Il suo pensiero si presenta così come una
stretta fusione di teoria e prassi : la teoria nasce dalla prassi e tende a
risolversi in essa. Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli vi é la
coscienza lucida e sofferta della crisi che l' Italia contemporanea sta
attraversando : una crisi politica, in quanto l' Italia non presenta quei
solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori potenze europee
e appare frammentata in una serie di Stati regionali e cittadini deboli e
instabili ; crisi militare, in quanto si fonda ancora su milizie mercenarie e
compagnie di ventura, anzichè su eserciti cittadini, che soli possono garantire la
fedeltà, l' ubbidienza, la serietà di impegno ; ma anche crisi morale, perchè
sono scomparsi, o comunque si sono molto affievoliti, tutti quei valori che
danno fondamento saldo ad un vivere civile, e che per Machiavelli sono
rappresentati esemplarmente dall' antica Roma, l' amore per la patria, il senso
civico, lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico, l' orgoglio e il senso
dell' onore, e sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e
rinunciatario, che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio
mutevole della fortuna, senza reagire e senza lottare. Perciò, come hanno
dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei Francesi, gli
Stati italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a
divenire satelliti delle potenze europee che si stanno disputando il territorio
della penisola. Per Machiavelli l' unica via d' uscita da una così
straordinaria gravità de' tempi é un principe dalla straordinaria virtù capace
di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle genti
italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da contrastare
le mire espansionistiche degli Stati vicini. A questo obiettivo storicamente
concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica di Machiavelli, la quale
perciò si riempie del calore passionale e dello slancio di chi partecipa con
fervore ad un momento decisivo della storia del proprio paese. Ignorare queste
radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano porterebbe a travisarne
completamente il senso. Tuttavia quel pensiero non resta limitato a quel campo
così contingente, poichè altrimenti non avrebbe la forza di sollecitare ancora
tanto interesse : partendo da quella situazione particolare, cercando di dare
una risposta immediata ed efficace a quei problemi di traumatica urgenza,
Machiavelli elabora una teoria che aspira ad avere una portata universale, a
fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e tutti i luoghi. Le radici pratiche
immediate danno al suo pensiero quel calore, quella passione che lo rendono
affascinante e che conferiscono alle sue opere uno straordinario valore
letterario, ma poi la sua speculazione assume anche la fisionomia di una vera
teoria scientifica. Concordemente Machiavelli é stato definito come il
fondatore della moderna scienza politica: innanzitutto egli determina
nettamente il campo di questa scienza, distinguendolo da quello di altre
discipline che si occupano ugualmente dell' agire dell' uomo, come l' etica.
Machiavelli, poi, rivendica vigorosamente l' autonomia del campo dell' azione
politica : essa possiede delle proprie leggi specifiche, e l' agire degli
uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi : occorre cioè,
nell' analisi dell' operato di un principe, valutare esclusivamente se esso ha
saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica, rafforzare e
mantenere lo Stato, garantire il bene dei cittadini. Ogni altro criterio, se il
sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele, se sia stato fedele o
abbia mancato alla parola data, non é pertinente alla valutazione politica del
suo operato. E' una teoria di sconvolgente novità, veramente rivoluzionaria nel
contesto della cultura occidentale. Machiavelli ha il coraggio di mettere
in luce ciò che avviene realmente nella politica, non di delineare degli Stati
ideali che non si sono mai visti essere
in vero. Proclama infatti di voler andar dietro alla verità effettuale della
cosa anzichè all'immaginazione di essa, proprio perchè non gli interessa
mettere insieme una bella costruzione teorica, ma scrivere un' opera utile a chi la intenda, fornire uno strumento
concettuale di immediata applicabilità alla politica reale e di sicura
efficacia. Oltre al campo autonomo su cui applica la nuova scienza, Machiavelli
ne delinea chiaramente il metodo. Esso ha il suo principio fondamentale nell'
aderenza alla verità effettuale: proprio
perchè vuole agire sulla realtà ne deve tener conto e quindi per ogni sua
costruzione teorica parte sempre dall' indagine sulla realtà concreta,
empiricamente verificabile, mai da assiomi universali e astratti. Solo mettendo
insieme tutte le varie esperienze si può poi giungere a costruire principi
generali. L' esperienza per Machiavelli può essere di due tipi : quella diretta,
ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti, e quella
ricavata dalla lettura degli autori antichi. Machiavelli le definisce (
nella dedica del Principe ) rispettivamente esperienza delle cose moderne e lezione delle antique. In realtà si tratta
solo apparentemente di due forme diverse perchè studiare il comportamento di un
politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa, cambia
solo il veicolo della trasmissione dei dati, dell' informazione su cui lavorare,
ma il contenuto é lo stesso. Alla base di questo modo di accostarsi alla storia
vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é convinto che l'
uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i suoi
comportamenti non variino nel tempo, come non variano il corso del sole e delle
stelle. Per questo ha fiducia nel fatto che, studiando il comportamento
umano attraverso le fonti storiche o l' esperienza diretta, si possa arrivare a
formulare delle vere e proprie leggi di validità universale. Proprio per questo
la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la
prova che il comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi
può essere di modello. Per lui gl’uomini camminano sempre per vie battute da altri,
perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell' imitazione :
Machiavelli nota che ai suoi tempi l' imitazione degli antichi é pratica
costante nelle arti figurative, nella medicina, nel diritto e depreca quindi
che lo stesso non avvenga nella politica. Da questa visione naturalistica
scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell' agire
politico, che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono
necessariamente e quindi sappia suggerire le sicure linee di condotta
statistica. Il punto di partenza per la formulazione di tali leggi é una
visione crudamente pessimistica dell' uomo come essere morale : l' uomo agli
occhi di Machiavelli é malvagio : non ne teorizza filosoficamente le cause, non
indaga se lo sia per natura o in conseguenza ad una colpa originariamente
commessa, ma si limita a constatare empiricamente gli effetti della sua
malvagità sulla realtà. Gli uomini sono ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori,
fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e dimenticano più facilmente l' uccisione del
padre che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l' interesse
materiale e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili. Tra tanti
uomini malvagi il principe non deve nè può fare in tutte le parti la professione di buono
perchè andrebbe incontro alla rovina :
deve anche sapere essere non buono laddove lo richiedano le necessità dello Stato.
Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un centauro, ossia un
essere metà uomo e metà animale, deve cioè essere umano o feroce come una
bestia a seconda delle situazioni. Tuttavia Machiavelli sa bene
come il venir meno alla parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un
principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente
é malvagio in politica diventa buono, perchè uccide per difendere lo Stato e le
sue istituzioni ; allo stesso modo i buoni moralmente sarebbero cattivi politicamente perchè non uccidendo e non
compiendo azioni malvagie lascerebbe perire lo Stato. Machiavelli quindi non é
il fondatore di una nuova morale, anzi, moralmente parlando é un
tradizionalista e considera cattivo chi uccide o non mantiene la parola data ;
egli semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su
altri criteri, non il bene o il male, ma l' utile o il danno politico. E'
interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe
é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene, in favore dello Stato ; tiranno,
invece, é chi li usa senza che ci sia necessità. E' solo lo Stato che può
costituire un rimedio alla malvagità dell' uomo, al suo egoismo che
disgregherebbe ogni comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte
le une alle altre. Per quel che riguarda il rapporto con la religione, a
Machiavelli non interessa nella sua prospettiva concettuale, come contenuto di
verità, nè tanto meno nella sua dimensione spirituale, come garanzia di
salvezza, ma solo ed esclusivamente come instrumentum regni, ossia come strumento di
governo. La religione, in quanto fede in certi principi comuni, obbliga i
cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere la parola data : questa
era la funzione che la religione rivestiva già ai tempi degli antichi Romani,
secondo Machiavelli. Tuttavia nei Discorsi Machiavelli muove anche un biasimo
alla religione, accusandola di essere spesso stata colpevole di rendere gli
uomini miti e rassegnati, di far sì che essi svalutassero le cose terrene per
guardare solo al cielo. La forma di governo che meglio compendia in sè l' idea
di Stato per Machiavelli é quella repubblicana, che argina e disciplina le
forze anarchiche dell' uomo. Il principato é per Machiavelli una forma d'
eccezione e transitoria, indispensabile solo in certi momenti, come quello che
l' Italia sta vivendo ai suoi tempi, per costruire uno Stato sufficientemente
saldo. La forma repubblicana é la migliore perchè non si fonda su un solo uomo,
ma ha istituzioni stabili e durature. Dall' esilio dell' Albergaccio,
Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto un opuscolo de principatibus, in cui si trattava che cosa é principato, di quale spetie sono,
come e' si mantengono, perchè e' si perdono. L' indicazione fissa il momento in
cui l' opera può dirsi compiuta, ma lascia aperti altri problemi di datazione :
in quale periodo sia stata composta, se sia stata scritta unitariamente o in
fasi diverse e soprattutto quali siano i rapporti che legano ai Discorsi sopra
la prima deca di LIVIO (si veda). Oggi gli studiosi tendono a collocare la
composizione in una stesura di getto, mentre si ritiene che posteriormente sia
stata scritta la dedica a Lorenzo de' MEDICI (si veda) e probabilmente anche il
capitolo finale che, nel suo carattere di appassionata esortazione a liberare
l' Italia dai barbari, sembra staccarsi
dal tono lucidamente argomentativo del resto del trattato. Per quanto riguarda
i rapporti con I Discorsi si é pensato che la stesura di tale opera sia
iniziata precedentemente e sia stata interrotta nel luglio per far posto alla
composizione del trattatello, che rispondeva a bisogni di maggiore urgenza,
agganciandosi direttamente ai problemi attuali della situazione
italiana. Il principe é un' operetta molto breve, scritta in forma concisa
e incalzante, ma densissima di pensiero. Si articola in 26 capitoli, di
lunghezza variabile, che recano dei titoli in latino come è usanza dell' epoca.
La materia é divisa in diverse sezioni. Esamina i vari tipi di principato e
mirano a individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di mantenerlo,
conferendogli forza e stabilità. Machiavelli distingue tra principati ereditari
( a cui é dedicato il capitolo II ) e nuovi ; questi ultimi a loro volta
possono essere misti, aggiunti come membri allo Stato ereditario di un principe
o del tutto nuovi; a loro volta questi possono essere conquistati con la virtù
e con armi proprie, oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui ( capitolo
VII, in cui si propone come esempio il duca Valentino ). Tratta di coloro che
giungono al principato attraverso scelleratezze, e qui Machiavelli distingue
tra la crudeltà bene e male usata : la prima é quella impiegata solo per stati
di assoluta necessità e che si converte nella maggiore utilità possibile per i
sudditi ; male usata invece é quella che cresce con il tempo anzichè cessare ed
é compiuta per l' esclusivo vantaggio del tiranno. Machiavelli affronta
il principato civile, in cui cioè il
principe riceve potere dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si debbano
misurare le forze dei principati e nell' XI si tratta dei principati
ecclesiastici, in cui il potere é detenuto dall' autorità religiosa, come nel
caso dello Stato della Chiesa. I capitoli XII - XIV sono dedicati al problema
delle milizie : Machiavelli giudica negativamente l' uso degli eserciti
mercenari ( cosa che per altro aveva fatto già Petrarca ), abituale nell'
Italia del tempo, perchè essi combattendo solo per denaro sono infidi e
pertanto costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati
italiani e delle pesanti sconfitte subite nelle recenti guerre ; di conseguenza,
per lui, la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su armi
proprie, su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi, che combattano
per difendere i loro averi e la loro vita stessa. Machiavelli tratta dei modi
di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici. E' questa la parte
in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente é più
radicale e polemico, in cui Machiavelli, anzichè esibire il catalogo delle
virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe va dietro alla verità effettuale della cosa : poichè gli uomini sono malvagi, avidi,
mancatori della fede e violenti, il principe che é costretto ad agire tra loro
non può seguire in tutto le leggi morali, ma deve imparare anche ad essere non buono, dove le circostanze lo esigano ;
deve guardare al fine, che é vincere e mantenere lo Stato: i mezzi se vincerà
saranno sempre considerati onorevoli. Sono questi i capitoli che hanno
immediatamente suscitato più scalpore, ed hanno attirato per secoli su
Machiavelli l' esecrazione e la condanna. Il capitolo XXIV esamina le cause per
cui i principi italiani, nella crisi (il crollo della libertà italiana ) hanno
perso i loro Stati. La causa per lo scrittore é essenzialmente l' ignavia dei principi, che nei tempi quieti non hanno
saputo prevedere la tempesta che si preparava ( solo Savonarola aveva avuto l'
intuizione ) e porvi i necessari ripari. Di qui scaturisce naturalmente l'
argomento, il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la capacità, che deve essere
propria del politico, di porre argini alle variazioni della fortuna, paragonata
a un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti
e gli abitati. L' ultimo capitolo é, come accennato, un' appassionata
esortazione ad un principe nuovo, accorto ed energico, che sappia porsi a capo
del popolo italiano e liberare l' Italia dai barbari. (il testo sopra è di
F. - visitate il suo sito di filosofia ).filosofico. Pellegrino. Mangieri
IL PENSIERO POLITICO DI MACHIAVELLI OPPURE SE L'AVETE GIA LETTA ANDIAMO
ALLORA DIRETTAMENTE ALL'OPERA INTEGRALE IL PRINCIPE. STORIOLOGIA. Grice:
When I created Deutero-Esperanto, I felt like the principato senza il principe!
--. Michele Ciliberto. Keywords: il principe, intelletuale fascista, lessico,
lessico di Bruno, lessico di grice, lessico filosofico europeo, umbra profunda,
implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il libero, despotismo,
immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto
su studi sul rinascimento, la tradizione italiana, la tradizione filosofica
italiana, democrazia rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e
Ciliberto sulla rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi
costituenti. Il barone della camera alta del parlamento, parlamento ed
implicamento, il team di cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra
quello che Inghilterra non puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool Library. Ciliberto.
Grice
e Cilone: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). According to Giamblico. C. seeks to join the circle of Pythagoras. He is
rejected because Pythagoras sees in him a tendency to violence and tyranny. In
response, C. leads the people of Crotone in a campaign against the sect -- as a
result of which Pythagoras has to decamp to Metaponto. “At least he left with
his judgment vindicated – Pythagoras did.” Archita said. Cilone.
Grice e Cimatti: l’implicatura
conversazinale del pooh-pooh and other products -- il non-naturale -- fondamenti
naturali della comunicazione – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia
lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice:
“I like Cimatti – for one, he develops a biological semiotics, and he takes
seriously the issue that man IS an animal -- -- and has thus philosophised on
animality!” Si
laureato sotto Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna ad Arcavacata di
Rende. Altre opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale
e Librario); “La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà
nell'animale umano” (Bollati Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia
semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano
gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali.
Introduzione alla zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per
una critica del cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita.
Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il volto e la
parola. Per una psicologia dell'apparenza, Quodlibet, Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la
morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni”
(Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente
comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che
verrà. Biopolitica per Homo sapiens,, ombre corte, Filosofia della
psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia
dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A
come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio
e pulsione di morte, Quodlibet);
Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot,
La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per
una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il
linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata);
“La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Il linguaggio degli animali Del resto,
l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet te di distinguere anche tra il
linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali, questi ultimi essendo, per
altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione di "voce"
(phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che
un suono può essere definito una "voce" quando è emesso da un essere
animato ed è dotato di significato -- semantikos. Ora, un suono emesso da un
animale non umano, per quanto definito psophos (''rumore" – cf. gemito,
riso, pianto), ha tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li
distingue dalla voce emessa da un uomo sono due fattori: non è “convenzionale” --
e di conseguenza non può essere né simbolo né nome -- ma è "per na
tura" (De int.); ed è “a-grammatos”, cioè "inarticolabile" o
"non combinabile" (Pot.). La nozione di combinabilità, del resto,
come mostra Morpurgo-Tagliabue, è al centro stesso del carattere di semanticità
del linguaggio umano, i cui suoni semplici -- adiafretoi,
"invisibili" -- possono articolarsi in unità più grandi dotate di
significato. L’animale non umano, invece, emette solo un suono indivisibile, ma
non combinabili (Pot). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del
linguaggio umano in contrapposizione al suono emesso dall’animale non umano,
attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi
indivisibili combinabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di
significato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi
indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl)
qualcosa - non simboli - non nomi. Si deve rilevare, tra l'altro, che la
semanticità del suono emesso dall’animale non umano è espresse dal verbo
dlofìsi (''rivelano", De int.), fatto che conferma l'idea che per Aristotele,
quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del suono da un animale,
torna di nuovo in primo piano il carattere SEMIOTICO – SEMANTICO d'una
espressione. Il suono dell’animale è SINTOMO che rivela la loro causa. IDel
resto, l'opposizione convenzionale/naturale permette di distinguere anche tra
il linguaggio umano e il suono (vox, Grice’s ‘sound’, ‘groan’) emesso dall’animale,
questo ultimo essendo, per altro, ugualmente vocale (vox, vocatum, ‘sound’ –
the characterization of a product, groan) e interpretabile. Già la nozione di
"voce" (phone, vox – cf. Grice’s ‘sound’ ‘characterisation of a
product’, groan) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si
dice che un suono – cf. il ‘sound’ di Grice – ‘I shall use utterance to include
the characterization of a product (e.g. a sound)] può essere definito una
"voce" [phone, vox] quando: (i) sia emesso da un essere animato
(II); (ii) sia dotato di significato (semantikos) (Il, 420 b, 29-33). Ora, un
suono emesso da un animale, per quanto definito psophos (''rumore"), ha
tuttavia le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalls voce
emesse dagli uomini sono due fattori: (i) il suono no e convenzionale (e di
conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma è "per natura" phusei
(De int., 16 a, 26-30); (ii) e ‘a-grammatos,’ cioè "in-articolabili"
o "non combinabili" (ibidem, e Poet., 1456 b, 22-24). La nozione di
"combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (33 e
sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, il
cui suono (‘sound’) semplice (“a-diafretos”, ‘in-divisibile’) puo articolarsi
in unità più grandi dotate di significato. L’animale, invece, emette solo un suono
(Grice’s ‘sound’) in-divisibili, ma non combinabili (Poet., 1465 b, 22-24). Si
possono illustrare riassuntivamente i caratteri di una lingua come il inglese linguaggio
umano in contrapposizione al repertorio di suoni emessi da un animali,
attraverso uno schema. Lnguaggio umano, e. g. Deutero-Esperanto: I. per
convenzione, or decisione. II. Formato di questo o quello elemento in-divisibile
ma combinabile e questo o quello elemento divisibili – fonema, lettere (cfr.
Grice: utterer’s meaning, sentence-meaning, word-meaning – below the word –
meaning), di questo o quello elemento dotato di significato - simbolo – nome.
Questo o quello suono di questo o quello animale: I. per natura. II. Elemento
in-divisibili MA non combinabili - non lettere – elemento che rivela o
manifesta (deloflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra
l'altro, che la semanticità di un suono emessi da un animali è espressa dal
verbo delofìsi (''rivelare", De int., 16 a, 28), fatto che conferma
l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o la
decisione razionale (Deutero-Esperanto), come nel caso del repertorio
comunicativo di un animale, torna di nuovo in primo piano il carattere
semiotico d'una espressione. Il suono (voce, rumore) di un animale e un sintomo
o effeto che rivela naturalmente la sua causa – una affettazione dell’anima. The Bow-Wow Theory. According to the bow-bow theory theory, language
began when our ancestors started imitating the natural sounds around them. The
first speech was onomatopoeic—marked by echoic words such as moo, meow, splash,
cuckoo, and bang. What's wrong with this theory? Relatively
few words are onomatopoeic, and these words vary from one language to another.
For instance, a dog's bark is heard as au au in Brazil, ham ham in Albania, and
wang, wang in China. In addition, many onomatopoeic words are of recent origin,
and not all are derived from natural sounds. The Ding-Dong
Theory The ding-dong theory, favoured by Plato and Pythagoras, maintains
that speech arose in response to the essential qualities of objects in the
environment. The original sounds people made were supposedly in harmony with
the world around them. What's wrong with this theory? Apart from
some rare instances of sound symbolism, there is no persuasive evidence, in any
language, of an innate connection between sound and meaning. The La-La
Theory The Danish linguist Otto Jespersen put forward the la-la theory.
He suggests that language may have developed from sounds associated with love,
play, and (especially) song. What's wrong with this theory? As
David Crystal notes in "How Language Works" (Penguin, 2005), this
theory still fails to account for "... the gap between the emotional and
the rational aspects of speech expression...." The Pooh-Pooh
Theory The pooh-pooh theory holds that speech begins with an interjection
– a spontaneous cry or GROAN of (naturally meaning) pain ("Ouch!"),
surprise ("Oh!"), and other emotions ("Yabba dabba
do!"). What's wrong with this theory? No language contains
very many interjections, and, Crystal points out, "the clicks, intakes of
breath, and other noises which are used in this way bear little relationship to
the vowels and consonants found in phonology." The Yo-He-Ho
Theory According to the yo-he-ho theory, language evolves from the grunt,
the groan, and a snort evoked by heavy physical labour. What's wrong with
this theory? Though this notion may account for some of the
rhythmic features of the language, it doesn't go very far in explaining where
words come from. Wikipedia Ricerca Origine del linguaggio umano come,
dove, quando e perché è nato il linguaggio Lingua Segui Modifica L'origine del
linguaggio umano è un argomento che ha attratto una considerevole attenzione
nel corso della storia dell'uomo. L'uso della lingua è uno dei tratti più
cospicui che distingue l'Homo sapiens da altre specie. A differenza della
scrittura, l'oralità non lascia tracce evidenti della sua natura o della sua
stessa esistenza, perciò, i linguisti devono ricorrere a metodi indiretti per decifrare
le sue origini. Secondo la Genesi, la grande varietà di lingue
umane si originò dalla Torre di Babele con la confusione delle lingue (immagine
dalla Bibbia illustrata di Gustave Doré). I linguisti si trovano d'accordo che
non ci sono lingue primitive esistenti, e che tutte le popolazioni umane
moderne usano lingue di simile complessità[senza fonte]. Mentre le lingue
esistenti si differenziano nei termini della grandezza e dei temi del proprio
lessico, tutte possiedono la grammatica e la sintassi necessarie, e possono
inventare, tradurre e prendere in prestito il vocabolario necessario per
esprimere l'intera gamma dei concetti che i parlanti vogliono esprimere[1][2].
Tutti gli esseri umani possiedono abilità linguistiche simili e relative strutture
biologiche preposte innate, ma nessun bambino nasce con una predisposizione
biologica ad imparare una data lingua invece di un'altra[3]. Le
lingue umane potrebbero essere emerse con la transizione al comportamento umano
moderno circa 164 000 anni fa (Paleolitico superiore). Una supposizione comune
è che il comportamento umano moderno e l'emergere della lingua siano coincisi e
fossero dipendenti l'uno dall'altro, mentre altri spostano indietro nel tempo
lo sviluppo della lingua a circa 200 000 anni fa, al momento in cui apparvero
le prime forme di Homo sapiens arcaico (Paleolitico medio), o addirittura al
Paleolitico inferiore, a circa 500 000 anni fa. Tale questione dipende dal
punto di vista sulle abilità comunicative dell'Homo neanderthalensis. In tutti
i casi, è necessario presumere un lungo stadio di pre-lingua, tra le forme di
comunicazione dei primati superiori e la lingua umana completamente
sviluppata. L’origine del linguaggio negli studi di Schelling e
GrimmModifica Il problema dell’origine del linguaggio fu una tematica
fondamentale del Romanticismo. Schelling (filosofo dell’idealismo) e J. Grimm
(glottologo, grammatico e autore di fiabe insieme al fratello) sono due autori
che hanno due posizioni differenti sull’origine del linguaggio. Schelling, nel
suo testo, parla di tre ipotesi fondamentali: Ipotesi teologica, secondo
la quale il linguaggio ha origine divina e viene tramandato di generazione in
generazione. Ipotesi istinto-naturalistica, secondo la quale il linguaggio ha
avuto origine grazie all’istinto, che è una qualità innata dell’uomo. Ipotesi
secondo la quale l’uomo ha imparato a parlare progressivamente: partendo, cioè,
dall’urlo e dai gesti, l’uomo è andato a mano a mano costruendo il linguaggio.
Il testo di Schelling rimane però indefinito, non arriva cioè ad una
conclusione. Il testo di Grimm[5] è stato scritto in contrapposizione al testo
di Schelling: egli parte nell’analizzare l’ipotesi teologica, suddividendola in
due sottoipotesi, una secondo cui il linguaggio è stato creato insieme alla
creazione dell’uomo ed una quella secondo la quale il linguaggio è successivo
alla creazione dell’uomo. Entrambe fanno comunque giungere alla conclusione che
la lingua appartiene solo alla specie umana e che il linguaggio sia una
conquista dell’uomo. La lingua è una conseguenza del pensiero ed inizia nei
bambini insieme ad esso[6]. Inoltre, Grimm analizza il linguaggio nella sua
evoluzione, suddividendolo in tre stadi: il primo stadio è quello delle prime
produzioni vocali, formate da una sillaba. Nel secondo stadio vi è il passaggio
dai monosillabi a parole composte da più sillabe e la composizione del
linguaggio non è più causale, ma ha un ordine sintattico, si è in grado di
esprimere pensieri ordinati e ben connessi. Il linguaggio, nel terzo stadio,
migliora sempre di più e si possono esprimere liberamente i propri pensieri[7].
Grimm conclude affermando la grande complessità del tema riguardo all’origine
del linguaggio e riconosce che il linguaggio è una proprietà fondamentale
dell’uomo strettamente connessa con il pensiero. Parola e linguaModifica
I linguisti fanno distinzione tra il parlare, il discorso e la lingua. Il
parlare comporta la produzione di suoni dall'apparato fonatorio. I volatili
parlanti, come alcuni pappagalli, sono capaci di imitare parole umane. Ad ogni
modo, quest'abilità di imitare i suoni umani è molto diversa dall'acquisizione
di una sintassi. D'altro canto, i sordi generalmente non usano il discorso
parlato, ma sono in grado di comunicare usando la lingua dei segni, che viene
considerata una lingua moderna, complessa e pienamente sviluppata. Ciò implica
che l'evoluzione delle lingue umane moderne richiede sia lo sviluppo
dell'apparato anatomico per produrre foni sia specifici mutamenti neurologici
necessari a sostenere la lingua stessa. Comunicazione animaleModifica
Sebbene tutti gli animali usino una qualche forma di comunicazione, i
ricercatori generalmente non classificano questa comunicazione come una lingua.
Ad ogni modo, il sistema di comunicazione di alcune specie animali condivide
alcune caratteristiche con le lingue umane. I delfini, ad esempio, sono in
grado di comunicare come gli esseri umani, chiamandosi per nome. Linguaggi dei
primatiModifica Non si sa molto a proposito della comunicazione tra i primati
superiori nell'ambiente naturale. La struttura anatomica della loro laringe non
permette alle scimmie, come ai bambini, di produrre la maggior parte dei suoni
di cui sono capaci gli esseri umani. In cattività è stata insegnata alle
scimmie una rudimentale lingua dei segni e l'uso dei lessigrammi — cioè simboli
astratti corrispondenti a una parola del vocabolario - e l'uso delle tastiere.
Alcune scimmie, come Kanzi, sono riuscite ad imparare ed usare correttamente
centinaia di lessigrammi. Le aree di Broca e di Wernicke nel cervello dei
primati sono responsabili del controllo dei muscoli della faccia, della lingua,
della bocca e della laringe, così come di riconoscere i suoni. I primati sono
noti per le loro "grida vocali", che vengono generate dai circuiti
neurali presenti nella corteccia cerebrale e nel sistema limbico.
Nell'ambiente naturale, la comunicazione tra le scimmie Chlorocebus è stata la
più studiata[9]. Esse sono note per la produzione di dieci differenti
vocalizzazioni. Molte di queste vengono utilizzate per avvertire gli altri
membri del gruppo di predatori in avvicinamento ed includono un "grido del
leopardo", un "grido del serpente" ed un "grido
dell'aquila". Ogni allarme mette in moto una diversa strategia difensiva. Gli
scienziati sono stati in grado di ottenere risposte prevedibili dalle scimmie
usando altoparlanti e suoni pre-registrati. Le altre vocalizzazioni vengono
probabilmente usate per l'identificazione. Se un cucciolo di scimmia grida, la
madre si gira verso di lui, ma le altre scimmie si girano verso la madre per
osservare quel che essa fa[10]. Antichi ominidiModifica C'è una
speculazione considerevole sulle capacità linguistiche degli antichi ominidi.
Alcuni studiosi ritengono che l'avvento della postura eretta, circa 3,5 milioni
di anni fa, abbia apportato importanti cambiamenti al cranio umano, formando un
tratto vocale più a forma di L. La forma di tale tratto ed una laringe
relativamente bassa nel collo sono requisiti necessari per produrre molti dei
suoni che si producono nelle lingue umane, soprattutto le vocali. Altri
studiosi invece credono che, basandosi sulla posizione della laringe, neanche i
neanderthaliani avessero l'anatomia necessaria a produrre l'intera gamma di
suoni delle lingue dell'Homo sapiens. Un altro punto di vista considera invece
irrilevante l'abbassamento della laringe per lo sviluppo della parola. Una
proto-lingua assoluta, così come definita dal linguista Derek Bickerton, è una
forma di comunicazione primitiva, a cui manca: una sintassi pienamente
sviluppata; tempo, aspetto, verbi ausiliari, ecc.; un vocabolario chiuso (cioè
non lessicale). In breve, si tratterebbe di uno stadio nell'evoluzione del
linguaggio intermedio tra il linguaggio dei primati superiori e le lingue umane
moderne pienamente sviluppate. Le caratteristiche anatomiche come il
tratto vocale a forma di L erano in continua evoluzione, piuttosto che apparire
improvvisamente[13]. Anche se i primi ominidi utilizzavano una rozza tecnologia
basata sulla pietra, era già più avanzata di quella degli scimpanzé e dei
gorilla. Da ciò si deduce che probabilmente gli esseri umani possedessero già
una forma di comunicazione più sviluppata degli altri primati. Neanderthaliani La
scoperta nel 2007 di un osso ioide di un neanderthaliano ha suggerito l'idea
che i neanderthaliani potessero essere anatomicamente capaci di produrre suoni
simili a quelli moderni umani e altri studi indicano che 400 000 anni fa il
canale ipoglosso degli ominidi aveva raggiunto la dimensione di quello degli
umani moderni. Il canale ipoglosso trasmette i segnali nervosi al cervello e si
ritiene che la sua dimensione rifletta la capacità di parlare. Gli ominidi che
vivevano prima di 300 000 anni fa avevano canali ipoglossi simili più a quelli
di uno scimpanzé che a quelli umani. Comunque, anche se i neanderthaliani
fossero stati in grado di parlare, Richard G. Klein nel 2004 espresse il dubbio
che potessero possedere una lingua complessa come le nostre. Lo studioso basò
il suo dubbio sui resti fossili di esseri umani ed i loro attrezzi di pietra.
Per 2 milioni di anni dopo la comparsa dell'Homo habilis, la tecnologia degli
attrezzi in pietra cambiò molto poco. Richard G. Klein, che ha lavorato
intensamente sugli antichi attrezzi in pietra, descrive l'attrezzatura degli
antichi esseri umani come impossibile da separare in categorie basate sulla
loro funzione ed afferma che i neanderthaliani sembravano avere uno scarso
interesse per la forma finale dei propri attrezzi. Klein sostiene che il
cervello dei neanderthaliani probabilmente non aveva raggiunto la complessità
necessaria per una lingua articolata, anche se l'apparato fisico per la
produzione dei fonemi era già ben sviluppato. La questione sul livello di
sofisticatezza culturale e tecnologica dei neanderthaliani rimane tutt'oggi
controversa. Homo sapiens. I primi esseri umani anatomicamente di tipo
moderno apparvero per la prima volta nei reperti fossili di 195 000 anni fa in
Etiopia. Nonostante fossero anatomicamente di stampo moderno, però, i
ritrovamenti archeologici disponibili non indicano che si comportassero
diversamente dagli ominidi che li avevano preceduti. Essi utilizzavano gli
stessi attrezzi in pietra grezza e cacciavano meno efficientemente degli esseri
umani che li avrebbero seguiti[20]. Ad ogni modo, all'incirca da 164 000 anni
fa nell'Africa meridionale, ci sono prove di un comportamento più sofisticato
e, da quel momento, si ritiene si sia sviluppato il comportamento moderno[20].
A quel punto, una vita di tipo costiero e lo sviluppo dell'attrezzatura
associata rimanda evidentemente ad un consumo di molluschi. Questo stile di
vita può essere dovuto a pressioni climatiche, conseguenti a condizioni di
glaciazione. Gli attrezzi in pietra del periodo mostrano caratteristiche
regolari che furono riprodotte o duplicate con più precisione. In seguito,
apparvero anche attrezzi fatti di materiale osseo e corna. Questi artefatti
possono essere facilmente suddivisi in base alla funzione, come punte per
scalfire, attrezzi di incisione, coltelli e attrezzi per trapanare e
forare[18]. Insegnare alla prole o ad altri membri del proprio gruppo come
produrre tali strumenti dettagliati sarebbe stato difficile senza l'aiuto della
lingua[21]. Il passo più grande nell'evoluzione del linguaggio fu
probabilmente il passaggio da una comunicazione primitiva di tipo pidgin ad un
linguaggio di tipo creolo, con la grammatica e la sintassi di una lingua
moderna[9]. Molti studiosi ritengono che questo passaggio può essere stato
compiuto solamente insieme ad alcuni cambiamenti biologici nel cervello, come
una mutazione. È stato ipotizzato che un gene come il FOXP2 potrebbe aver
subito una mutazione che permise agli esseri umani di comunicare. Le prove
suggeriscono che questo cambiamento ebbe luogo in un punto imprecisato
dell'Africa orientale, all'incirca dai 100 000 ai 50 000 anni fa, cosa che
apportò cambiamenti significativi nei resti fossili[9]. Non è ancora chiaro se
le lingue si svilupparono gradualmente in migliaia di anni o apparvero
relativamente all'improvviso. Le aree di Broca e di Wernicke apparvero
anche nel cervello umano, la prima coinvolta in scopi cognitivi e percettivi,
la seconda collegata alle abilità linguistiche. Gli stessi percorsi neurali ed
il sistema limbico degli altri primati controllano i suoni non verbali anche
negli esseri umani (risata, pianto, ecc.), cosa che suggerisce che il centro
del linguaggio umano sia una modifica dei percorsi neurali comune a
"tutti" i primati. Questa modifica e le abilità per la comunicazione
linguistica sembrano essere uniche degli esseri umani e ciò implica che
l'insieme degli organi per il linguaggio parlato si sia sviluppato dopo che il
ramo evolutivo umano si è separato da quello degli altri primati. In tal modo,
il linguaggio parlato è una modificazione della laringe unica degli esseri
umani. Secondo la teoria dell'origine "Out of Africa"
("Uscendo dall'Africa" o "Dall'Africa verso il mondo"),
circa 50 000 anni fa[22] un gruppo di esseri umani lasciò l'Africa e procedette
nella colonizzazione del resto del mondo, inclusa l'Australia e le Americhe, che
non erano mai state popolate dagli ominidi che le avevano precedute. Alcuni
scienziati[23] ritengono che l'Homo sapiens non abbandonò l'Africa prima di
allora, perché non aveva ancora acquisito le cognizioni moderne ed il
linguaggio parlato e, perciò, non aveva le abilità, nonché il numero di persone
sufficienti a migrare. Ad ogni modo, dato il fatto che l'Homo erectus riuscì a
lasciare il continente molto prima (senza un utilizzo diffuso delle lingua,
attrezzi sofisticati né un'anatomia moderna), le ragioni per cui gli esseri
umani anatomicamente moderni rimasero in Africa probabilmente ebbe maggiormente
a che fare con le condizioni climatiche. MonogenesiModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua primigenia. La
teoria dell'origine monogenetica è l'ipotesi per cui ci sarebbe stata una
singola protolingua (la "lingua primigenia" o protolingua mondiale)
dalla quale si sarebbero poi distinte tutte le lingue parlate dagli esseri
umani. Tutta la popolazione umana, dagli aborigeni australiani ai fuegini,
possiede delle lingue. Questo include popoli, come gli aborigeni tasmaniani o
gli andamanesi, che sono rimasti isolati dagli altri popoli per anche 40 000
anni. Così, l'ipotesi dell'origine poligenetica comporterebbe che le lingue
moderne si siano evolute indipendentemente su tutti i continenti, un'ipotesi
considerata non plausibile dai sostenitori della monogenesi. Tutti gli
esseri umani odierni discendono da una Eva mitocondriale, una donna che si
ritiene vivesse in Africa circa 150 000 anni fa. Ciò ha sollevato la
possibilità che la lingua primigenia possa essere datata approssimativamente a
quel periodo[26]. Ci sono anche teorie su un effetto a collo di bottiglia sulla
popolazione umana, soprattutto la teoria della catastrofe di Toba, la quale
ipotizza che la popolazione umana ad un certo punto, circa 70 000 anni fa, si
sia ridotta a 15 000 o 2 000 individui[27]. Se ciò avvenne realmente, un tale
effetto a collo di bottiglia sarebbe un eccellente candidato per il momento della
protolingua mondiale, anche se ciò non implica che sia anche il momento in cui
sia emerso il linguaggio parlato come capacità. Alcuni sostenitori di
tale ipotesi, come Merritt Ruhlen, hanno tentato di ricostruire la lingua
primigenia. Ad ogni modo, la maggior parte dei linguisti rifiutano questi
tentativi ed i metodi utilizzati (come la comparazione lessicale di massa) per
varie ragioni. Scenari dell'evoluzione della linguaModifica Teoria dei
gestiModifica La teoria dei gesti afferma che il linguaggio umano parlato si
sia sviluppato dai gesti che venivano usati per la semplice
comunicazione. Due tipi di prove sostengono questa teoria. Il
linguaggio dei gesti e quello vocale dipendono da sistemi neurali simili. Le
regioni della corteccia cerebrale che sono responsabili dei movimenti della
bocca e di quelli delle mani si trovano a stretto contatto. I primati usano
gesti o simboli per una forma primitiva di comunicazione, ed alcuni di questi
gesti assomigliano a quelli umani, come la "posizione di richiesta",
con le mani allungate in fuori, che gli esseri umani hanno in comune con gli
scimpanzé.[30] La ricerca ha trovato un considerevole supporto per l'idea che
il linguaggio verbale e quello dei segni dipendano da strutture neurali simili.
Pazienti che usano la lingua dei segni e che hanno sofferto di una lesione
all'emisfero cerebrale sinistro, hanno dimostrato gli stessi disordini
linguistici nella lingua dei segni dei pazienti capaci di parlare.[31] Altri
ricercatori hanno rilevato che la stessa regione sinistra del cervello è attiva
sia durante la produzione di una lingua dei segni, sia durante l'uso di un
linguaggio vocale o scritto. La questione più importante per la teoria dei
gesti è per quale motivo ci fu un passaggio allo strumento vocale. Ci sono tre
possibili spiegazioni: I primi esseri umani cominciarono ad utilizzare
sempre più strumenti, che tenevano loro le mani occupate, senza poterle usare
per gesticolare. La gesticolazione richiede che gli individui si debbano vedere
tra di loro. Ci sono molte situazioni in cui gli individui hanno bisogno di
comunicare senza contatto visivo, ad esempio quando un predatore si avvicina a
qualcuno che è su un albero a raccogliere frutta. Il bisogno di cooperare
effettivamente con gli altri per sopravvivere. Un comando dato da un leader di
una tribù di 'trovare' 'pietre' per 'respingere' 'lupi' avrebbe creato un
gruppo di lavoro e una risposta più potente e coordinata. Gli esseri umani
utilizzano ancora i gesti manuali e facciali quando parlano, specialmente
quando le persone che comunicano non usano la stessa lingua.[33] I sordomuti
usano lingue composte interamente da segni e gesti. Pidgin e
creoliModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Lingua creola e Pidgin. Un pidgin è una lingua semplificata che si sviluppa
come mezzo di comunicazione tra due o più gruppi che non parlano la medesima
lingua, in situazioni come il commercio, il cui vocabolario è generalmente
derivato dalle lingue dei vari gruppi. Il modo in cui i pidgin si sviluppano è
d'interesse per comprendere le origini del linguaggio verbale umano. I pidgin
sono lingue significativamente semplificate, con una grammatica rudimentale ed
un vocabolario ristretto. Nei primi stadi del loro sviluppo i pidgin consistono
soprattutto di nomi, verbi ed aggettivi, senza articoli e verbi ausiliari e con
pochissime preposizioni e congiunzioni. La grammatica consiste di parole senza
ordine fisso e senza desinenze di declinazione.[9] Se questi contatti tra
i gruppi si mantengono saldi per lunghi periodi di tempo, i pidgin possono
diventare pian piano sempre più complessi attraverso le generazioni. Se i
bambini di una generazione adottano il pidgin come lingua madre, questa diventa
una lingua creola, che si fissa e acquisisce una grammatica più complessa, con
una fonetica fissa, una sintassi, una morfologia. La sintassi e la morfologia
di tali lingue presentano a volte delle innovazioni locali che non derivano
dalle lingue da cui sono nate. Gli studi sulle lingue creole del mondo
hanno dimostrato che possiedono somiglianze evidenti nella grammatica e si sono
sviluppate uniformemente dai pidgin in una singola generazione. Queste
somiglianze sono evidenti quando le lingue creole non condividono alcuna lingua
originale. Inoltre le lingue creole hanno delle somiglianze anche se si sono
sviluppate isolatamente rispetto alle altre. Le somiglianze sintattiche
includono l'ordine delle parole Soggetto Verbo Oggetto. Anche se una lingua
creola nasce da lingue con ordini delle parole differenti, sviluppa spesso un
ordine SVO. Le lingue creole tendono ad avere modelli di uso simili per gli
articoli determinativi ed indeterminativi e regole di movimento simili per le
strutture frasali anche quando le lingue-genitori non le hanno.[9]
Grammatica universaleModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Grammatica universale. Dato che i bambini sono largamente
responsabili della creolizzazione di un pidgin, studiosi come Derek Bickerton e
Noam Chomsky hanno concluso che gli esseri umani nascono con una grammatica
universalegià inclusa nei loro cervelli. Questa grammatica universale consiste
di un'ampia gamma di modelli grammaticali che includono tutti i sistemi
grammaticali di tutte le lingue del mondo. Le impostazioni di base di questa
grammatica universale sono rappresentate dalle somiglianze evidenti nelle
lingue creole. Queste impostazioni di base vengono annullate dai bambini
durante il processo di acquisizione della lingua per adattarsi alla lingua
locale. Quando i bambini imparano una lingua, dapprima apprendono le
caratteristiche più simile a quelle creole, e poi quelle che entrano in
conflitto con la grammatica creola.[9] Un'altra questione che viene
spesso citata come supporto per la grammatica universale è il recente sviluppo
della lingua dei segni nicaraguense. A partire dal 1979, il neonato governo del
Nicaragua dette inizio al primo sforzo diffuso del paese per educare i bambini
sordomuti. Prima di ciò non esisteva una comunità sordomuta nel paese. Un
centro d'educazione speciale stabilì un programma inizialmente seguito da 50
bambini sordomuti. Nel 1983 il centro aveva 400 studenti. Questo centro non aveva
accesso alle strutture di insegnamento di una delle lingue dei segni usate nel
mondo; perciò non veniva insegnato ai bambini nessun linguaggio. Il programma
linguistico invece enfatizzava lo spagnolo parlato e la lettura delle labbra,
nonché l'uso di segni da parte dell'insegnante che assomigliassero alle parole
dell'alfabeto. Il programma ebbe uno scarso successo e la maggior parte degli
studenti non riuscirono a comprendere il concetto delle parole spagnole.
I primi bambini arrivarono al centro con pochissimi gesti sviluppati in
precedenza all'interno delle proprie famiglie. Ad ogni modo, quando i bambini
vennero messi insieme per la prima volta cominciarono a costruire una forma di
comunicazione usando i vari segni di ogni bambino. Più bambini si aggiungevano
più la lingua diventava complessa. Gli insegnanti dei bambini, che avevano
avuto uno scarso successo nel comunicare con i propri studenti, guardavano
meravigliati i bambini che riuscivano a comunicare tra di loro. In
seguito il governo nicaraguense sollecitò l'aiuto di Judy Kegl, un'esperta
della lingua dei segni alla Northeastern University. Quando Kegl ed altri
ricercatori cominciarono ad analizzare la lingua, notarono che i bambini più
giovani avevano preso le forme pidgin dai bambini più vecchi e le avevano
portate ad un alto livello di complessità, con un accordo verbale e altre
convenzione della grammatica. Approccio sinergico La Azerbaijan Linguistic
School ritiene che il meccanismo per la nascita del linguaggio umano moderno,
sofisticato e complicato, sia identico al meccanismo evolutivo della
scrittura. Lo sviluppo della scrittura ha vissuto differenti fasi:
Fase I: Grafema = frase (scrittura pittografica) Fase II: Grafema = parola o
sintagma (scrittura ideografica) Fase III: Grafema = sillabario (scrittura
sillabica) Fase IV: Grafema = suono (scrittura fonetica) Allo stesso modo una
lingua avrebbe passato stadi simili: Fase I: Fonema = frase (linguaggio
pittografico) Fase II: Fonema = parola o sintagma (linguaggio ideografico) Fase
III: fonema = sillabario (linguaggio sillabico) Fase IV: fonema = suono
(linguaggio fonetico) Vale a shout, qualche grido, all'inizio sostituiva
l'intera frase, quindi soltanto una parte della frase, e poi la parte della
parola. Storia La ricerca delle origini della lingua ha una lunga storia, come
testimonia anche la mitologia classica. Storia della ricercaModifica
Verso la fine del XVIII secolo od agli inizi del XIX gli studiosi europei
ritenevano che le lingue del mondo riflettessero i vari stadi dello sviluppo da
una lingua primitiva a quelle più avanzate, culminando nella famiglia
indoeuropea, ritenuta la più avanzata. La linguistica moderna non nacque prima
del tardo XVIII secolo e le tesi romantiche di Johann Gottfried Herdere di
Johann Christoph Adelung rimasero molto influenti. La questione delle origini
della lingua si dimostrò inaccessibile agli approcci metodici, e nel 1866 la
Società Linguistica di Parigi vietò clamorosamente le discussioni sull'origine
della lingua, ritenendola un problema irrisolvibile. Un approccio sistematico
alla linguistica storica divenne possibile solamente con l'approccio
neogrammaticale di Karl Brugmann ed altri a partire dal 1890, ma l'interesse
degli studiosi per la questione riprese gradualmente piede a partire dal 1950,
con idee come la grammatica universale, la comparazione lessicale di massa e la
glottocronologia. L'"origine della lingua" come materia a sé stante
emerse dagli studi di neurolinguistica, psicolinguistica e di evoluzione umana
in generale. La bibliografia linguistica introdusse l'"origine della
lingua" come un capitolo separato nel 1988, come un argomento minore dalla
psicolinguistica, mentre istituti di ricerca di evoluzione linguistica emersero
solo negli anni novanta. Esperimenti storiciModifica La storia ha un
vario numero di aneddoti su persone che tentarono di scoprire le origini della
lingua per esperimento. Il primo tentativo viene riportato da Erodoto, che
racconta che il faraone Psammetichus (probabilmente Psametek) fece crescere due
bambini da pastori sordomuti, volendo vedere alla fine quale lingua avrebbero
parlato senza influenze. Quando i bambini furono portati di fronte a lui, uno
di essi disse qualcosa che al faraone suonò come bekos, la parola frigia per
pane. Perciò Psammetichus concluse che il frigio fosse la prima lingua. Si
racconta che anche il re Giacomo V di Scozia tentò un esperimento simile, e
questi bambini avrebbero infine parlato ebraico. Anche il monarca medievale
Federico II ed Akbar, un imperatore indiano del XVI secolo, tentarono un
esperimento simile ma i bambini utilizzati alla fine non parlarono e morirono. Nella
religione e nella mitologiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Lingua sapienziale. Le religioni ed i miti etnici
spesso danno delle spiegazioni per le origini e lo sviluppo del linguaggio
verbale. La maggior parte delle mitologie non ritengono l'uomo inventore della
lingua, ma credono in una lingua divina, antecedente a quelle umane. Lingue
mistico-magiche usate per comunicare con gli animalio gli spiriti, come la
lingua degli uccelli, sono pure state analogamente ricercate, ed erano di
particolare interesse durante il Rinascimento, per la loro capacità di
penetrare l'essenza della realtà tramite un'apprensione immediata di natura
intuitiva anziché discorsiva. Uno dei migliori esempi nella cultura
occidentale è il passaggio della Genesi nella Bibbia riguardo alla Torre di
Babele. Questo passaggio, comune a tutte le fedi abramiche, racconta di come
Dio punì gli uomini per aver costruito la torre, confondendo la loro lingua e
creandone di nuove (Genesi). Un gruppo di persone dell'isola di Hao, in
Polinesiaracconta una storia molto simile a quella della torre di Babele,
parlando di un dio che, "in preda alla rabbia scacciò via i costruttori,
distrusse l'edificio e cambiò la loro lingua, così che parlassero differenti
lingue". Primitive languages, su Language Miniatures. Pinker,
The Language Instinct: How the Mind Creates Language, New York, Harper
Perennial Modern Classics, The Handbook of Linguistics, eds. Mark Aronoff et Janie
Rees-Miller. Oxford: Blackwell Publishers, pp. 1-18. Vorbemerkungen zu
der Frage über den Ursprung der Sprache (Premesse alla questione sull'origine
del linguaggio), in: Schelling, Werke (a cura di. M. Schröter), 4. Ergänzungsband (volume supplementare), Monaco; Über den
ursprung der Sprache", ristampato in: J. Grimm, Kleinere Schriften, Vol.
1, Berlino; Grimm, F.W.J. Schelling, Sull'origine del linguaggio, Milano,
Marinotti, Grimm, F.W.J. Schelling, Sull'origine del linguaggio, Milano,
Marinotti, Dolphins 'Have Their Own Names', su BBC News;Diamond, The Third
Chimpanzee: The Evolution and Future of the Human Animal, New York, Harper
Perennial, Wade, Nicholas, Nigerian Monkeys Drop Hints on Language Origin, su
nytimes.com, The New York Times, Fitch, W. Tecumseh, The Evolution of Speech: A
Comparative Review isrl.uiuc.edu;Ohala, The irrelevance of the lowered larynx
in modern man for the development of speech Archiviato il 29 giugno 2011 in
Internet Archive.. In Evolution of Language - Paris conference, Internet
Archive. Olson, Mapping Human History, Houghton Mifflin Books, 2Ogni
adattamento prodotto dall'evoluzione è utile solo nel presente, e non in futuro
indefinito. Così l'anatomica vocale ed i circuiti neurali
necessari per la produzione dei suoni delle lingue non possono essersi evoluti
per qualcosa che ancora non esisteva ^ Merritt Ruhlen, Origin of Language,
Earlier human ancestors, such as Homo habilis and Homo erectus, would likely
have possessed less developed forms of language, forms intermediate between the
rudimentary communicative systems of, say, chimpanzees and modern human
languages ^ Jungers, William L. et. al., Hypoglossal Canal Size in Living
Hominoids and the Evolution of Human Speech, in Human Biology, DeGusta, David
et. al., Hypoglossal Canal Size and Hominid Speech, in Proceedings of the
National Academy of Sciences of the United States of America, Hypoglossal canal
size has previously been used to date the origin of human-like speech
capabilities to at least 400,000 years ago and to assign modern human vocal
abilities to Neandertals. These conclusions are based on the hypothesis that
the size of the hypoglossal canal is indicative of speech capabilities. ^
Johansson, Sverker, Constraining the Time When Language Evolved ( PDF ), in
Evolution of Language: Sixth International Conference, Rome, Hyoid bones are
very rare as fossils, as they are not attached to the rest of the skeleton, but
one Neanderthal hyoid has been found (Arensburg), very similar to the hyoid of
modern Homo sapiens, leading to the conclusion that Neanderthals had a vocal
tract similar to ours (Houghton, 1993; Bo¨e, Maeda, et Heim, Klarreich, Erica,
Biography of Richard G. Klein, in Proceedings of the National Academy of
Sciences of the United States of America, Klein, Richard G., Three Distinct
Human Populations, su Biological and Behavioral Origins of Modern Humans,
Access Excellence @ The National Health Museum; Schwarz, J. uwnews.org uwnews
Risorse e informazione; Internet Archive. ^ Lewis Wolpert, Six impossible
things before breakfast, The evolutionary origins of belief; Minkel, J. R.,
Skulls Add to "Out of Africa" Theory of Human Origins: Pattern of
skull variation bolsters the case that humans took over from earlier species,
su sciam.com, Scientific American; Klein, Richard, Three Distinct Populations,
su accessexcellence. You've had modern humans or people who look pretty modern
in Africa by 100,000 to 130,000 years ago and that's the fossil evidence behind
the recent "Out of Africa" hypothesis, but that they only spread from
Africa about 50,000 years ago. What took so long? Why that long lag, 80,000
years? ^ Wade, Nicholas, Early Voices: The Leap to Language, The New York
Times, Sverker, Johansson, Origins of Language - Constraints on Hypotheses su
arthist.lu. Ruhlen, Merritt, Language Origins, su findarticles.com, National
Forum; Whitehouse, David, When Humans Faced Extinction, su news.bbc.co.uk, BBC
News; Rosenfelder, Mark, Deriving Proto-World with Tools You Probably Have at
Home, su Zompist; Salmons, 'Global Etymology' as Pre-Copernican Linguistics, in
California IPA: lɪŋ gwɪs tɪk Notes, Program in Linguistics, California State
University, Premack, David et Premack, Ann James. The Mind of an Ape, Kimura,
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Bang ^ Mammadov J.M.: Origine della lingua. p.160-172 ^ Azerbaijan Linguistic
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scienza del cervello che legge, trad. di Stefano Galli, Vita e Pensiero, 2009,
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pilgrimage to the dawn of life, Londra, Weidenfeld et Nicolson, Grimm, F.W.J.
Schelling, Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Lingua (linguistica)
Linguaggio Oralità Tradizione orale Teoria bau-bau Language and Social
Organization, su evolution-of-man.info. PAGINE CORRELATE Grammatica universale
Teoria linguistica che postula che i principi della grammatica siano condivisi
da tutte le lingue, e siano innati per tutti gli esseri umani.
Rilessificazione Origine africana dell'Homo sapiens Wikipedia Il Grice: “I
share a lot with Cimatti; we both believe that there’s a semiotic continuity,
and more important that it’s psi-transmission that matters: a pirot perceives
that the a is b, and communicates that the a is b to another pirot, who
perceives the communicatum, ‘the a is b’ and comes to think that the other
pirot thinks that the a is b – I use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to
cover willing, since it’s willing that’s basic, though! Felice Cimatti.
Keywords: fondamenti naturali della comunicazione, homo sapiens, storia
innaturale, non-naturale, unnatural – non-natural, naturalization, animale,
bestia, linguaggio, segno, vita, zoo-semiotica, prodi, corpo, codice, mente,
cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica, mentalismo, storia
innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali della comunicazione,
percezione e comunicazione, comunicazione come percezione trasferita,
psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The Swimming-Pool
Library. Cimatti.
Grice
e Cincio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). A philosopher of the Porch.
Grice
e Cinna: il portico a Roma -- il tutore
del principe – filosofia italiana (Roma). A member of the Porch and tutor to Antonino. The emperor claims to have
learned from C. the value of friendship, children, and praise. Cina
Catulo. Cinna.
Grice e Cione: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del corporazionismo -- Dedalo
ed Icaro – l’idea corporativa come interpretazione della storia – scuola di
Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I
love Cione; my favourite is “The age of Daedalus – which reminds me of
Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him – the story of a
failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other subjects as well,
such as Leibniz, and of course, Croce – in his case, first-hand knowledge! –
and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He thinks there is a
Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs – his study of
‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational etiquette! –
especially the illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze
socialiste, e in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce.
Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di
Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo
indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale
Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende
esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica
indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento
Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano
Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso
Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del
Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa,
tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato
per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a
dichiarare: Per ingannare i nostri
avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia
fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra
l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di
C. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando
di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato
di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni
partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana.
Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di
Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto
consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato
con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso
dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una
militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il
messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la
cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso
con una completa della sua opere e degli
scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera
filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica”
(Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore);
“Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea
corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli
e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale
italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi);
“Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele);
“Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce”
(Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia
degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi,
Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica
editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta
di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli
Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di Salò crea un
"partito contro" su suggerimento del ministro dell'Educazione Biggini
di Silvio Bertoldi. Per ultimi ma non meno importante ricordiamo anche
l’esperienza della rivista La Verità diretta da Nicolò Bombacci, tra i
fondatori del partito comunista e in seguito avvicinatosi al Fascismo, pur con
posizioni indipendenti tendenti al socialismo nazionale, e dove ne sarà portavoce
anche nella successiva esperienza di Salò assieme ad altre personalità come
Giuseppe Solaro ed Edmondo Cione, e la magistrale figura del poeta americano
Ezra Pound, il quale giudicò positivamente il modello politico ed economico
dello stesso Fascismo. Home Cultura Cultura (di G.Parlato). Perché
leggere “Storia della Rsi” di C. By Redazione 4 anni Ago Il sigillo
della Repubblica Sociale ItalianaIl sigillo della Repubblica Sociale Italiana
Sarà forse una caratteristica tipicamente italiana, ma da noi persino le guerre
civili lasciano molto, moltissimo spazio alle mediazioni e ai tentativi di
compromesso. Vi furono diversi tentativi, tutti falliti, di dare alla guerra
fratricida un altro esito, meno sanguinoso, più indirizzato verso un passaggio
“indolore” dei poteri dalla Rsi al movimento partigiano e, infine, al
Regno. Si trattò di operazioni sotterranee molto complesse, spesso
contraddittorie, che si fondavano su un equivoco: la possibilità che una parte
del movimento partigiano (i socialisti, e neppure tutti) potessero staccarsi
dalla opprimente pressione delle Brigate Garibaldi gestite dal Pci e realizzare
una soluzione pacifica di passaggio dei poteri nel Nord Italia in nome di un
socialismo che avrebbe dovuto riunire tutti, da Mussolini a Nenni.
Protagonisti di questo tentativo, un po’ nobile, un po’ ingenuo, un po’
velleitario furono diversi personaggi di ambo le parti: da parte fascista, i
ministri della Rsi Carlo Alberto Biggini e Piero Pisenti, i sindacalisti
Manunta e Dinale, il capo della polizia di Salò Renzo Montagna, il capo della
Decima Junio Valerio Borghese, più altri minori; da parte socialista,
Bonfantini,Vigorelli, Silvestri, Zocchi e soprattutto Andreoni, autore di un
confuso ed equivoco tentativo di “collaborazione militare ma non politica” (!!)
tra fascisti di Salò e socialisti di sinistra contrari alla egemonia comunista
nel Cln. Punto di raccordo di molti di questi fiumi sotterranei è C.,
filosofo, collaboratore di Croce, antifascista liberale, confinato politico, il
quale alla vigilia della guerra civile decide di puntare sulla riconciliazione
degl’italiani. Un progetto ambizioso, non sempre sorretto da una vera
lucidità politica, che comunque portò a tre risultati importanti, nel
crepuscolo della Rsi: in primo luogo, C. riuscì a catalizzare attorno a sé un
gruppo di fascisti e di antifascisti che opera per il passaggio indolore dei
poteri. In secondo luogo, riusce ad avere la fiducia di Mussolini che gli
finanzia un quotidiano, “L’Italia del Popolo”. Infine riusce a costituire un
movimento politico di opposizione in Repubblica Sociale, il Raggruppamento
Nazionale Repubblicano Socialista che doveva essere il primo segnale verso la
liberalizzazione dei partiti in Rsi. Naturalmente ciò avvenne con
l’approvazione dei fascisti “moderati”, come Borsani, Agazio e Pettinato,
e con la violenta opposizione degli intransigenti, come Pavolini, Mezzasoma ed Almirante.
La dettagliata storia di queste più o meno sottili trame, di questi tentativi è
il filo conduttore del volume di C., STORIA DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (Altergraf).
Si tratta di una storia che, tra le prime, ricostruisce le vicende della Rsi e
il suo valore è soprattutto questo. Il mondo variegato e talvolta
contraddittorio di quelli che cercarono di costruire dei ponti tra fascismo e antifascismo è
complesso ma, in genere, comprendefascisti di sinistra -- più moderati e aperti
al pluralismo -- e socialisti -- insofferenti al peso del Pci. Che qui ci si
trovi al cospetto di un liberale è senza dubbio un elemento di novità. Perché
un liberale e, pur con tutti i distinguo, crociano accetta di sostenere i punti
di Verona, la socializzazione, l’ultimo fascismo mussoliniano, rivoluzionario,
socialista e anticapitalista? Si tratta effettivamente di un problema non da
poco che può essere spiegato solo con il costante richiamo alla CONCORDIA nazionale. Una concordia che
non è però soltanto un moto dell’animo, ma che si sostanzia di un elemento a
nostro avviso centrale: la necessità del superamento dell’antitesi fascismo –
antifascismo, considerando C. il fascismo un elemento essenziale nella storia
italiana, del quale è indispensabile tenere conto -- non per esaltarlo ma
piuttosto per proseguire nel cammino della comunità nazionale senza parentesi e
senza demonizzazioni. L’errore dell’antifascismo, per C., è quello di ritenere
di potere cancellare il periodo fascista dalla storia italiana e soprattutto di
potere non considerare con attenzione le soluzioni che il fascismo, pur
in un quadro autoritario, individua allo scopo di contribuire a fare ritrovare
unità e concordia nella società italiana. In questo senso l’esperienza
corporativa, che C. intese sempre in senso produttivistico piuttosto che in
termini rivoluzionari, può essere interessante da recuperare in una chiave
pluralistica. Più complessa la risoluzione dell’altro problema che lo
assilla e che, in qualche modo, è correlato con la ricerca della concordia: il
persistere, nella dinamica politica italiana, della categoria del nemico
assoluto da abbattere. Essendo più FILOSOFO che storico, C. non si rende conto
che l’Italia dopo la prima guerra mondiale non è più quella precedente. Il pretendere
che le contrapposizioni, giunte fino alla guerra civile, si componessero con un
semplice richiamo alla concordia, dimostra quello che acutamente aveva colto
Artieri, e che cioè C. pensava e scriveva come se vivesse nell’Italia di
Giolitti e di Scarfoglio. In questa sua incapacità di leggere fino in
fondo la lezione della storia si trova la inattualità politica del saggio di C.
sulla Rsi, ma anche il fascino
dell’impolitico, di chi cioè preferisce manifestare le proprie convinzioni
anche se esse non sono più in grado di produrre effetti politici. La sua
originalità risiede anche in un ultimo aspetto. Se è vero che in Italia il
filosofo tende a correre verso il carro
del vincitore, la storia di C. è quella di un filosofo che pur provenendo dalla
parte dei futuri vincitori, volle stare dalla parte dei perdenti per cercare,
senza riuscirci, di rendere meno dura la vendetta finale. C. compiuti i
suoi studi prima presso il consolato germanico, poi presso il Liceo-ginnasio
Vittorio Emanuele II, si iscrive al collegio militare della Nunziatella. C.,
sottoposto a una severa educazione familiare e a una altrettanto severa
disciplina scolastica, manifesta idealmente i primi segni di ribellione
rivolgendo precocemente il suo interesse verso la filosofia e allontanandosi
dall'ambiente autoritario della Nunziatella. Grazie a Secolo comincia a
frequentare la casa di Croce, del quale divenne allievo, accettandone in pieno
le idee e gli insegnamenti. Un saggio suo, pubblicato a Napoli e
intitolata "Il dramma religioso dello spirito moderno e la
Rinascenza", in cui prende posizione contro Gentile, gli procura violente
critiche da parte dei fascisti. La frequentazione di casa Croce non gli impedì
tuttavia, di collaborare con alcuni giornali e periodici del regime. Consegue
la laurea e concorsa a un posto di ordinatore di biblioteche e ne ottenne
l'incarico presso la Biblioteca di Venezia, poi trasferito presso la Biblioteca
di Firenze. A questi anni risalgono i suoi rapporti epistolari con alcuni
esponenti dell'opposizione liberale come Sforza, Vinciguerra, Casati ed altri. A
causa dell'intercettazione di una sua lettera, il cui contenuto era stato male
interpretato, C. è arrestato dalla polizia e internato nel campo di
concentramento di Colfiorito presso Foligno, e in seguito confinato a
Montemurro Lucano. Revisa le sue idee antifasciste e decide di abbandonare le
posizioni liberali. Eento non meno significativo nella vita di C. è la rottura
dei suoi rapporti con Croce, a causa della revoca da parte di Croce della
compilazione di un volume celebrativo, che C. aveva preparato sull'opera e sul
filosofo. Il volume è poi pubblicato dalla casa editrice Laterza di Bari
con il titolo "Croce". Dopo l'internamento e il confino,
ritornato in libertà, C. è in servizio come bibliotecario presso la Biblioteca
Braidense di Milano. Collabora alla rivista diretta da Chabod
"Popoli", dell'Istituto per gli studi di politica. Ottenne la libera
docenza di storia della filosofia. Tra i suoi saggi, il volume edito a Milano e
intitolato "Croce", la cui polemica prefazione era stata pubblicata
anticipatamente sul Corriere della Sera, procura a C. numerosi consensi anche
da parte di MUSSOLINI, che C. incontra personalmente grazie alla mediazione
dell'allora Ministro della Cultura Biggini. Cione fonda, col consenso di
Mussolini, il "Raggruppamento nazionale repubblicano socialista" e il
giornale "L'Italia del Popolo" che, sollevando l'ostilità dell'ala
fascista più estrema, dopo soli 12 numeri è sospeso a causa di una polemica con
l'Associazione dei mutilati. Soggetto all'epurazione alla fine della seconda
guerra mondiale, C. è reintegrato nel suo posto di professore di filosofia a Napoli.
Entra nel Movimento Sociale Italiano e fonda la rivista "Nazionalismo
popolare". Eletto consigliere e poi assessore allo Stato civile della
Giunta di Napoli, che ha alla sua testa Lauro. Dopo essersi candidato al Senato
come esponente del M.S.I. senza riuscire eletto, entra nelle file della
Democrazia Cristiana. Collabora con numerose riviste filosofiche e con diverse
testate giornalistiche, quali il "Roma" di Napoli, il
"Tempo" di Roma, la "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari. Tra
le opere a stampa ricordiamo la "Bibliografia Crociana" -- nella
quale sono riportate sistematicamente e cronologicamente le opere DI Croce e le
opere SU Croce --; "Sanctis e i suoi tempi” -- vincitrice del Premio
Napoli --, e due volumi di resoconti di viaggi, "Quest'Europa" e
"Fascino del mondo arabo", pubblicate la prima a Napoli e la seconda
a Bologna. In esse l'autore sembra esprimere il senso finale che, personalmente
attribuiva all'esistenza umana. Muore a Napoli. Fra le sue ultime volontà vi fu
quella di donare all'Archivio di Stato di Napoli il suo archivio personale,
affinché esso non andasse disperso e perché fosse messo a disposizione degli
studiosi. documentazione collegata. C. fonti Incarnato, in Dizionario biografico
degli italiani. Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia, Torino, Bollati
Boringhieri. C., Incarnato - Dizionario Biografico degli Italiani’ Condividi
Pubblicità C. Nato a Napoli da Stefano, avvocato di origine
pugliese inurbatosi di recente e artefice della sua fortuna, comincia a
studiare presso il consolato germanico, poi al liceo ginnasio "Vittorio
Emanuele II", per iscriversi infine alla Scuola militare della
Nunziatella. L'accurata istruzione integrò la severa educazione familiare tesa
a salvaguardare una dignità ed un decoro con fatica raggiunti e difficili da
mantenere in una città come Napoli in permanente e gravissima crisi
economica. Alla Nunziatella si tende a sviluppare l'attitudine al comando
ponendo l'accento sull'educazione fisica intesa come coercizione e disciplina.
Le aspirazioni di C. ne sono frustrate accentuandone le tendenze al ribellismo,
tipiche di tanti meridionali e l'indirizzo precoce agli STUDI FILOSOFICI nella
ricerca di un'identità ristretta al piano culturale, dati gl’ostacoli frapposti
dall'ambiente circostante ad altre vie di sviluppo più organiche e meno
unilaterali. Le stesse riserve verso l'autoritarismo ed il culto delle
gerarchie che provocano la rottura con l'ambiente della Nunziatella, da cui
uscirà, lo allontanarono da un'adesione piena al fascismo. Introdotto in
casa CROCE (si veda) da Secolo, ne accetta pienamente le idee, attirandosi col
suo saggio, “Il dramma religioso dello spirito moderno e la Rinascenza,” Napoli,
di cui già manda una parte a CROCE (si veda), in cui prese posizione contro GENTILE
(si veda), gli attacchi violenti dei coetanei fascisti. Lo difende Marzio che
gl’apre le porte del Meridiano di Roma ne gl’evita guai peggiori. Sono gli anni
del consenso al regime. La pregiudiziale antifascista e la frequenza di casa CROCE
(si veda) non impedirono a C., come ad altri, la collaborazione a giornali o
periodici del regime, ormai tanto forte da poter controllare e tollerare la
fronda liberale. L'assidua presenza in casa Croce lo gratifica e sembra
soddisfarlo pienamente. I numerosi saggi su SANCTIS (si veda), culminati
nella biografia, la continuazione dei lavori sulla Rinascenza e la Riforma
sfociati nel lavoro su Valdés e infine le ricerche sulla vita culturale di
Napoli rivelano tutti l'impronta di CROCE (si veda). Tuttavia si può cogliere
una costante della filosofia del C., la tendenza alla mediazione, non tanto
espressione di debole sincretismo, quanto costante rifiuto di ogni estremismo,
che gli fa preferire il sereno misticismo di Valdés ai rigori di Calvino ed il
tentativo di mediazione della cultura umanistica col vecchio mondo della Chiesa
e della cultura medioevale alla rottura drammatica della Riforma. 16 un
equilibrio raggiunto a fatica, non scevro di contraddizioni, presenti
soprattutto negli studi su Napoli. La ricerca appassionata e puntuale sulla
vita napoletana (Napoli romantica, Milano) non puo non approdare alla
constatazione del suo carattere provinciale. Le masse vi appaiono coine
comparse di secondo piano, quasi bozzetti a completamento di un disegno il cui
protagonista è lo sviluppo culturale. Scarsi i riferimenti al ciclo economico
europeo, non propriamente favorevole a Napoli, il malessere napoletano
interpretato come un'incapacità tutta locale di liberarsi dai languori e dalle
malinconie romantiche di origine più spirituale che socioeconomica. La
mediazione, eterno mito del C., riemerge con l'esortazione all'unione dei
giusti per la salvezza e lo sviluppo. Tale gli è già apparso il messaggio
dell'ultimo De Sanctis, di cui, a conclusione di numerosi saggi e la
pubblicazione (Milano) del famoso Viaggioelettorale, traccia una biogr. C. si
laurea in FILOSOFIA. Le fortune familiari registrano un tracollo che lo spinse
a concorrere ad un posto di ordinatore nelle biblioteche, un ruolo subalterno
per il quale non vienne ancora richiesta l'iscrizione al partito fascista. Ètrasferito
alla Nazionale di Firenze, sempre mantenendo ed ampliando i contatti con
l'opposizione liberale al fascismo; corrisponde con SFORZA (si veda) ed aveva
rapporti di amicizia e scambi epistolari con Vinciguerra, Rosselli, Casati,
Ramat, Russo ed altri, anche se spesso si aveva la sensazione che fosse
frequentato più perché allievo ed intimo di casa Croce che per i suoi meriti
intrinseci. L’adesione al sistema crociano è del resto indiscussa. Malgrado una
tendenza all'accentuazione dei valori individuali emergente dagli studi su
Berdjaev (di cui lo colpe durevolmente la critica al marxismo), su Valdès e dal
taglio stesso degli studi su SANCTIS (si veda), l'emancipazione non è così
consapevole come tenta ad affermare in seguito. L’intercettazione di una
lettera da parte della polizia, che ne interpreta malamente il contenuto,
provoca il suo internamento nel campo di concentramento di Colfiorito di
Foligno, i cui rigori sono mitigati dal confino a Montemurro Lucano. Qui matura
la sua crisi politica e la rottura col CROCE (si veda). La convivenza con
oppositori socialisti, anarchici e comunisti ha su di lui un effetto
contraddittorio. Il contatto con uomini che, non solo si opponeno al fascismo
sino alle ultime conseguenze, ma che non disdegnano nei loro programmi di far
uso degli stessi mezzi coercitivi del fascismo, sia pure per fini ad esso antitetici,
lo induce alla revisione e all'abbandono, dell'anti-fascismo. La
compilazione di un volume celebrativo di CROCE (si veda), una laboriosa ricerca
degli studi sul filosofo dallo stesso prima affidatagli e poi toltagli, sancì
la rottura definitiva con questo, anche se un compromesso rende possibile la
pubblicazione, L'OPERA FILOSOFICA, storica e letteraria di CROCE (si veda),
Bari, dopo strascichi giudiziari. Risolto il dissidio col fascismo, torna
nelle biblioteche, stavolta alla Braidense di Milano. Collabora alla rivista
Popoli dell'Istituto per gli studi di politica, diretta da Chabod. Consegue la
libera docenza in storia della filosofia; è professore di ruolo di storia e
filosofia nei licei, ed ottenne, sia pure non a pieni voti, un giudizio di
maturità in un concorso, poi annullato, a professore di storia della filosofia
a Napoli. Consegue la libera docenza in storia moderna. L'armistizio lo
colge a Roma in contatto col movimento "L'unione nazionale" di
Martini, anti-fascista di tendenze moderate e conciliatrici. Il movimento venne
poi stroncato in seguito all'arresto dello stesso Martini, il quale finisce
trucidato alle Fosse Ardeatine. C. ritorna a Milano con un giudizio negativo
sull'anti-fascismo del quale coglie solo gli atteggiamenti scomposti di una
fazione politica che per spirito di parte sembra gioire dalla disfatta. A
Milano stampa il suo CROCE (si veda). Il momento ed il luogo della
pubblicazione, cui venne data ampia risonanza con l'anticipata apparizione
della polemica prefazione di C. sulle colonne del Corriere della sera, nella
Milano della ormai condannata Repubblica di Salò, gli offrirono la
soddisfazione di una momentanea popolarità. Mussolini mostra
d'apprezzarne l'opera e, con la mediazione di Biggini, ministro della Cultura,
s'incontra con C., libero docente all'università di Milano, proprio in virtù
dei suoi precedenti di antifascista. In una lettera a Biggini C. Scrive. Il
Duce ha scelto il momento buono per parlare il linguaggio della conciliazione
sconfessando così quello della minaccia e dell'intimidazione usate da molti
gerarchi e gerarchetti. Gl’anti-fascisti hanno dubbi perché temono di avere a
che fare con un movimento di copertura a sinistra del fascismo. Il Duce si deve
liberare del passato e puntare sulla vecchia fama di socialista. La gente odia
la Muti ed ha fatto buona impressione l'eliminaziene della banda Koch, una
polizia costituita da masnadieri" (Archivio di Stato di Napoli, Carte
Cione, 73). Sembra che Mussolini mirasse a servirsi del C. per attenuare e
confondere i rancori degli antifascisti. Il C., sfruttando le tendenze
"liberali" favorite da MUSSOLINI (si veda) dopo il discorso alla
brigata Resega, fondò, col suo consenso, il Raggruppamento nazionale
repubblicano socialista, col motto "Repubblica e socializzazione" ed
un organo di stampa dalla testata mazziniana L'Italiadel popolo. Al movimento
non erano estranee connivenze e strumentalizzazioúi come il rilascio di alcuni
dirigenti democristiani, operato a fini puramente propagandistici. Si attirò
così l'ostilità violenta dell'ala estremista del fascismo ormai troppo
compromessa. Spinelli, direttore dell'Ente italiano audizioni radiofoniche gli
nega la pubblicità per il giornale, considerando il suo un tentativo di
conciliazione sul piano dell'antifascismo. Una polemica con l'Associazione dei
mutilati provocò l'assalto all'Italiadel popolo e la sua chiusura dopo appena
dodici fascicoli, che riprese, ancora per un numero, le pubblicazioni il 24
aprile, un giorno prima della Liberazione. Il C. dovette sottostare ai
rigori dell'epurazione, rivelatisi per sua stessa ammissione meno duri del
previsto. Venne reintegrato al posto di professore e riammesso nel servizio universitario
a Napoli. I numerosi attacchi ne stimolarono il temperamento di polemista che
si esercitava con virulenza a vari livelli. I sarcasmi sul Merlo giallo di A.
Giannini, e nei giornali locali ("6 e 22" e il Monsignor
Perelli)offrono un quadro comico ed esasperato di troppi disinvolti
opportunismi. Sulle colonne del Brancaleone e del Meridiano v'è un'appassionata
difesa della sua azione al tempo della Repubblica sociale che lo spingeva a
scriverne la storia (Storia della Repubblica sociale italiana, Caserta 1948; 2
ed. 1951). Nel 1946 ilC. aveva pubblicato a Roma La filosofia della
personalità ove lapolemica anticrociana si stemperava in una graduale adesione
a valori tradizionali e nel recupero del cattolicesimo cui approderà, salutato
con soddisfazione, ma non con convinzione, dagli organi ecclesiastici. Del
resto non rinunciava alle premesse storiciste e restava a mezza via tra
l'adesione mistica al cristianesimo ed un'accettazione piena del neotomismo. I
numerosi lavori filosofici sono le tappe di questo processo (Dall'idealismo al
cristianesimo, Napoli 1960, Fede e ragione nella storia, Bologna 1963, ristampa
dell'opera sul Valdés, Napoli 1963, e Leibniz, ibid. 1964). Collaborò
alla rivista di C. Ottaviano Sophia, aRassegna ea Palaestra, tenne corsi di
filosofia all'università di Napoli; abbandonato l'insegnamento nei licei,
prestò servizio presso la Direzione generale dell'istruzione media non statale.
Aderì alle illusioni provocate in tanti dalla protesta dell'"Uomo
qualunque" ma ne uscì per contrasti con G. Giannini. Entrò nel Movimento
sociale italiano con una posizione personale espressa con la sua rivista
Nazionalismo popolare fondata nel'1951; precedentemente aveva collaborato agli
organi ufficiali del partito con articoli su Rivolta ideale epoi sul Secolo
d'Italia. Rimproverava al gruppo dirigente l'esasperazione del
nazionalismo e della gerarchia e l'abbandono delle tendenze socializzatrici
dell'ultimo Mussolini. Sospetto ai superstiti uommi di Salò, malgrado i suoi
sforzi, non entrò mai nella direzione nazionale dei partito. Sull'onda
dello spostamento a destra del 1952, espressione soprattutto dei disagio del
Sud, venne eletto prima consigliere e poi assessore allo Stato civile della
giunta di Napoli capeggiata da A. Lauro. Nel 1953 si presentò candidato al
Senato, senza essere eletto. Ormai deluso dei Movimento sociale aderì alla
Democrazia cristiana, ove però non svolse una milizia attiva, pur collaborando
nel 1960 a Europa sociale di S. Riccio. Nel 1953aveva iniziato la
collaborazione al Roma (Napoli) di Lauro, cui si, aggiunge quella più sporadica
al Tempo (Roma)di Angiolillo e alla Gazzetta del Mezzogiorno (Bari). Si accese
di speranza per il contenuto sociale del messaggio di Giovanni XXIII e per le
speranze suscitate dal mito di Chruščëv, di cui guardava con simpatia
l'esperimento (Aldi là della cortina, Napoli 1962). Intanto portò a
termine la Bibliografia crociana (Roma-Milano 1956) e riprese gli studi su F.
De Sanctis e i suoi tempi (Napoli) per cui ottenne il premio Napoli nel
1961.Ancora una miscellanea di saggi sul concetto di estetica (L'età di Dedalo,
ibid. 1960)affianca la rievocazione di personaggi e momenti della vita
meridionale del Paradiso dei diavoli, Milano 1949, Il suoconcetto finale
dell'esistenza si può cogliere in due volumi di impressioni di viaggi,
Quest'Europa (Napoli [1958])e Fascino del mondo arabo (Bologna 1962). Il
C. morì a Napoli. Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Carte C. (finora
sono stati parzialmente riordinati 102, fasci); F. Penati, Metodo storicoe
ricostruz. storicistica..., in Cronache della FACOLTÀ DI FILOSOFIA dell'Istituto
magistero di Napoli; A. Manno, Dall'idealismo al cristianesimo, in Studi
francescani, LX (1963), 3-4, pp. 1-57; F. W. Deakin, Storia della Repubblica di
Salò, Torino 1963, pp. 733, 762 ss., 777; R. Battaglia, Storia della Resist.
ital., Torino 1964, pp. 438, 495; E. Capanna, Di una polemica Croce-C., in Il
Ponte, XII (1965), pp. 1637 ss.; E. Santarelli, Storia del movimento e del
regime fascista, Roma 1967, II, pp. 568, 570;G. Bocca, Storia dell'Italia
partigiana. Settembre 1943-Maggio 1945, Bari 1966, pp. 527528; Id., La
Repubblica di Mussolini, Bari 1977, pp. 130, 308, 310 ss., 329. APPENDICE
I. Sulla bibliografia Fascista Molti sarebbero i lavori di carattere
descrittivo meritevoli di essere ricordati i quali espongono e commentano
l’azione del Fascismo in tutti i campi. Ottima la Bibliografia del
Fascismo, pubblicata a cura della Confederazione Nazionale Professionisti
ed Artisti, Poma, 1932. Qui ricordiamo le pubblicazioni riassuntive
e quelle in Occasione del decennale: La civiltà fascista, con introduzione di
B. Mussolini, a cura di G. L. Pomba, Torino 1928 (complesso di 35
studi dei vari aspetti ed attività del Fascismo, con saggio bibliografia
fascista a cura di L. Màdaro); Il Libro (Vitaha; nel decennale della Vittoria,
Milano, 1929 (complesso di 28 studi) ; Mussolini e il suo Fascismo, a
cura di C. S. Gutkind, con introduzione di B. Mussolini, Heidelberg;
Firenze. Studi vari : Opere e leggi del Regime Fascista, Roma; Mussolini
e il Fascismo, Roma; Dottrina e Politica Fascista, Venezia, 1930 (scritti
vari). Lo Stato Mussoliniano e le realizzazioni del Fascismo nella
Nazione, pubblicato a cura della Rassegna Italiana Politica Letteraria », Roma.
Il Bilancio dello Stato e la Finanza Fascista a tutto Vanno Vili. A cura
del Ministero delle Finanze, Roma, Polig. dello Stato, 1931. Questo studio
è aggiornato a tutto l’esercizio 1932-33 con la seguente pubblicazione
annuale a cura dello stesso Ministero: Il Bilancio e il Conto
Generale del Patrimonio dello Stato per l’esercizio finanziario
19... ecc. Per la storia finanziaria fascista si vegga : De Stefani A. La
Restaurazione finanziaria. Bologna, Zanichelli, 1926; Volpi di Misurata:
Finanza Fascista, Roma, Libreria del Littorio; Gangemi: La politica
economica e finanziaria del Governo fascista nel periodo dei pieni poteri,
Bologna, Zanichelli, 1924; Gangemi L. : La politica finanziaria del
Governo Fascista 1922-28, Palermo, Sandron, 1929; Gangemi L.: Le
Società Anonime miste, Firenze, La Nuova
Italia ». Opere Pubbliche (pubblicazione a cura del Ministero dei Lavori
Pubblici). Roma, 1934. La Nuova Italia (F Oltremare (pubblicazione a cura del
Ministero delle Colonie, con prefazione di Mussolini). Mondadori, Milano.
Nei riguardi della difficile questione meridionale, si vegga l’esauriente
volume di Zincali G. : Liberalismo e Fascismo nel mezzogiorno
d’Italia, 2 voli. Milano, Treves, 1933. Fra le pubblicazioni
straniere quelle tedesche sono le più ricche e meglio informate.
Le opere e gli scritti dei seguenti autori sono più conosciuti in Italia
come quelli che meglio compresero il Fascismo e la sua organizzazione
economica, e cioè: Andreae W.; Beckerath (von) E.; Bernhard L.; Eberlein
G.; Ermarth F.; Eschmann E. W.; Heinrich W.; Heller H.; Leibholz G.;
Leinert M.; Mannhardt J. W.; Mehlis €.; Reupke H.; Vochting F.; (per i
particolari bibliografici si vegga: Bibliografia del Fascismo, Voi. 1., a
cura della C. N. P. A., Roma). Si vegga inoltre: Beckerath (von) E.:
Wirtschaftsverfassung des Faschismus; Singer (von) K. : Die
geistesgeschichtliche Bedeutung des italienischen Faschismus, entrambi
pubblicati in Festgabe fùr Werner
Sombart », lierauegegeben von Arthur Spiethoff, Munchen, 1933; ed anche:
Die fascistische JCirtschaft - Problema und Tatsachen, herausgegeben von
G. Dobbert, Berlin, Hobbing,(è una raccolta di studi dovuti ad italiani,
tedeschi e svizzeri). Bibliografia essenziale sulle
interpretazioni dell’azione economica corporativa Per una
rassegna delle interpretazioni dell’azione economica corporativa si
veggano i nostri : Lineamenti di politica economica corporativa. Voi. L,
Cap. IV. Catania, Studio Editoriale Moderno, 1932. Sono ivi
ricordati i contributi più notevoli, teorici e descrittivi, nel campo
dell’azione economica corporativa. Si vegga pure il nostro studio : Homo Oeconomicus » e Stato Corporativo in :
Giornale degli Economisti del gennaio 1932. Riportiamo qui la
bibliografia essenziale dei contributi italiani allo studio dell’economia
corporativa, tralasciando di segnalare gli studi, numerosi, di carattere
polemico e giornalistico, ma privi di consapevolezza scientifica e,
spesso, deformatori della stessa realtà politica corporativa : Alberti M.
: L’ Homo Ooecomoinicuis » e V
Esperienza Fascista in Giornale degli economisti, gennaio 1929; Arias G. :
L’Economia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Littorio, 1929, idem.
idem. Economia Corporativa, Firenze, Poligrafica Universitaria, 1932;
Amoroso L. e De’ Stefani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini
R. ; Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica
economica, in Giornale degli Economisti
». Febbraio 1934 (Classifica le varie politiche economiche.
Carattere di quella corporativa: autogoverni economici particolari, con
il compito di emanare misure rispondenti, nei rami particolari, alla
politica economica generale emanante dal governo economico centrale. Le
corporazioni sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bruguier
G. : A proposito di interventi statali, in Archivio di studi corporativi »,
Anno IV, Fase. III, Pisa, 1933 ; Borgatta G. : Prefazione al nostro
volume av. cit. : Lineamenti di politica economica corporativa; Carli F. :
Teoria generale della economia politica nazionale, Milano, Hoepli, 1931; e
dello stesso: Le crisi economiche delV ordinamento corporativo
della produzione, in Atti del II
Convegno di studi sindacali corporativi», Ferrara, 1932; Chessa: Caratteri
e forme delT attività economica, in Rivista di Politica economica.
(Secondo questo autore J economia corporativa non è altro che un’
economia di complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua
realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni dell individuo
con la società e di questa con lo Stato). Dello stesso autore: Vecchio e
nuovo corporativismo economico in Saggi di Storia e Teoria economica, in
onore di Prato», Torino, 1931 (In questo studio l’autore conclude che il
corporativismo italiano pur traendo alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate
dal Genovesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da queste in quanto
che inquadra le sue idee in una concezione piu larga, che non tiene solo
conto degli interessi dei singoli, ma anche di tutta la collettività
nazionale, che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli
interessi della Nazione, viene organizzata gerarchicamente dallo Stato); Degli
Espinosa A.: La forma e la sostanza della economia corporativa, Firenze
Poligrafica Universitaria, 1932; Del Vecchio G.: Teoremi economici deW
ordinamento corporativo. Comunicazione alla XIX riunione della Società
pel Progresso della Scienza», riassunta in Lo Stato » settembre-ottobre 1930;
Einaudi L. : Trincee economiche e corporativismo in La Riforma Sociale », novembre-dicembre
1933; e dello stesso: Corporazione aperta in La Riforma Sociale ». Fanno
M. scritto cit.; Fasiani M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo,
in Studi sassaresi », fase. IV.
voi. X. 15 gennaio 1933; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di
vista economico, Padova, CEDAM,; Fovel M.: Economia e
corporativismo, Ferrara, S.A.T.E., 1929 e dello stesso: La rendita e il
Regime Fascista, Milano, Ediz. dei Problemi
del Lavoro», 1930; Politica economica ed economia corporativa, Ediz. Diritto
del lavoro», 1929; Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E.
Ferrara 1930; Fossati A.: Premesse per lo studio di ima economia e di una
pplitica economica corporativa, in : Rivista di Politica Economica », fase.
IX.X.1933. (Ritiene questo A. che tanto la politica economica
corporativa, quanto l’attività corporativa come condotta ipotetica degli
individui dei gruppi animati di una coscienza corporativa sono teorizzabili: il
secondo per definizione, e in tanti modi quanti significati vogliano
attribuirsi alla coscienza corporativa (all’autore parendo il più adatto
perchè conforme alle direttive del Regime quello che ha a base 1
interesse della Nazione, ossia il massimo be¬nessere individuale compatibile
col benessere della Nazione); ed il primo, quando le norme abbiano sufficiente
chiarezza (univocità) e costanza da consentire una costruzione logica di
conseguenze possibili. Purché non si mescolino precetti e teoremi, e peggio,
non si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente legittimo
fare della economia corporativa una economia
» astratta, trovare il nocciolo razionale del concreto empirico). Gobbi U. : Il
procedimento sperimentale della economia corporativa, Giornale degli economisti», ottobre 1930;
Galli R. : Corso di economìa politica, Firenze, Poligrafico
Universitario, 1932, e dello stesso: Corso sulle imprese industriali,
Firenze, Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La scienza economica e
Vinteresse nazionale (Discorso tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico
della R. Università di Torino), e dello stesso : Scienza, critica e
realtà economica, in La Riforma Sociale
»; Lanzillo A.: Studi di economia applicata, Padova, Cedam, e dello
stesso A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in Rivista Bancaria
», novembre 1928, ed Economia corporativa e politica economica, in Giornale degli Economisti »; Lo Stato come
fattore di produzione, in Rivista
Bancaria » (Lo Stato come inserzione di volontà nell’ attività
economical. Anche Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la
scienza economica tradizionale e la notevole incomprensione degli economisti
ortodossi i quali riescono interessanti a seguire non come simpatizzanti delle
idee lierali o di altre tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce
che per dare un carattere di socialità, che concili l’interesse privato
con quello sociale o nazionale, alla economia privata, non è necessario
giungere alla totale abolizione dell’economia privata ed alla
identificazione dell’ economia pubblica, come ha fatto Spirito, il quale
col porre erroneamente al centro dell attività economica umana la
produzione e non lo scambio non ha visto che nello scambio si ha la
sintesi dell’ interesse individuale e dell’interesse sociale, perchè
nello scambio, mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per
eliminare del tutto, come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico
dei valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e
identificare F iniziativa economica privata coll’ iniziativa economica
pubblica o statale, bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la
personalità economica umana e con essa tutte le diff erenze di bisogni,
di desideri e di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli uomini,
differenze che costituiscono la base dello scambio e la molla del
progresso economico e che nessun sistema di economia socialista è mai riuscito
a sopprimere. Il porre a fondamento dell’economia corporativa
la produzione e quindi l’organizzazione e la gestione economica della
produzione invece dello scambio, inteso nel senso della ripartizione del
prodotto di ogni grande ciclo produttivo fra tutti i fattori della
produzione mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro,
del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli intermediari,
porta a delle conseguenze pratiche fondamentali per la definizione dei fini e
delle funzioni della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si
dovrebbe giungere alla Corporazione organo di gestione economica col
passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla Corporazione e con la
conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in economia pubblica.
Nel secondo caso, invece, la Corporazione non assumerà la direzione della
gestione economica della produzione, ma avrà la funzione economico-sociale di
eliminare il classismo o particolarismo economico, di impedire che uno o più
fattori della produzione si facciano la parte del leone nei confronti con gli
altri fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi al produttore con
quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di questo A. : Il problema
fondamentale delTeconomia corporativa, CRITICA FASCISTA; Masci F.:
scritti cit. e: Saggi critici di teoria e metodologia economica, Catania (Sono
raccolti con lievi modificazioni gli scritti citati ed altri saggi);
Paoni C.: A proposito di un tentativo di teoria pura del corporativismo,
in FIAMMA ITALA e dello stesso:
Strumenti teorici di corporativismo, in Giornale degli economisti», (in
questi scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica
corporativa di Fovel. Contro questi si schiera anche Bruguier nel saggio sopra
citato ed anche noi nei nostri scritti av. cit. Contra anche Arias ed
altri); Sensini G.: L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi
corporativisti, Lo Stato; Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in Educazione
Fascista », e, dello stesso : Economia corporativa e agricoltura, in Atti del II Convegno di studi sindacali
e corporativi», Ferrara; SPIRITO (si veda), La critica dell’economia
liberale, Milano, Treves, dello stesso: I fondamenti dell’ economia
corporativa, Milano, Treves, e Capitalismo e corporativismo,
Firenze, Sansoni. L’interesse suscitato degli scritti
filosofici di questo A. sono dovuti a ragioni di carattere
esclusivamente polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane
filosofo. Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che
ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai seguaci della
scuola storica tedesca e dagli istituzionalisti americani contro la economia
liberale. È confusa la scienza economica con la praxis dei governi
liberali e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa che
ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha espresso nella sua
opera monumentale sul capitalismo e quanto altri economisti contemporanei
hanno scritto contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda
bene dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione, fra
capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che m Italla 11
capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei tentativi di costruzione
teorica del corporativismo fascista tiene conto, in particolare delle
dichiarazioni della << Carta del Lavoro» che rincalzano la propria
tesi per Ja quale vede la soluzione corporativa n clini entità
assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia Hegel e Marx. Nulla di
nuovo nemmeno nella costruzione teorica la quale e apparsa a sfondo
social-comunista per l’ammissione della corporazione come proprietaria.
Propugna, inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio, altro espediente
vecchio e già discusso ampiamente nei tempi passati. Ma, con buona
volontà, si può Scorgere nel sistema di Spinto anche un liberalismo
assoluto per cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del
corporativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non m tenrnamo quii
su altri grossolani errori espressi dall A. nel campo delle realizzazioni
pratiche corporative, come per es. su quelle in cui consiglia per il
nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la emissione di
prestiti esteri, una politica commerciale che sara forse realizzata
nell’anno 2000, ecc (Tutte queste idee sono espresse nel voi.:
Capitalismo e Corporativismo, Sansoni, Firenze. Contra a Spirito, si
vegga: Arias, cit., Jannaccone, cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso
cit.. Vinci, appresso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’economia
filosofata e attualizzata, in Critica; Galli R. : SulF identità delV
individuo con lo Stato in La Vita Italiana», novembre 1933;
(jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione corporatina, m Atti del
Secondo Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara, 5-8 maggio 1932;
Brucculeri A.: L economia corporativa, in La Civiltà Cattolica», e Crisi e capitalismo,
nella stessa rivista, etc. Cesarini-Sforza in un lucido scritto:
Individuo e Stato nelle Corporazioni ( Archivio di Studi Corpora .V'iV-’i)
mostra come la formula dell identità è chiarissima nel pensiero dei
socialisti e dei liberali. L’individualismo moltiplicando le sue
forze non rinuncia ad essere sè stesso. Il grande significato del
Corporativismo è la disciplina economica nazionale. Con il Corporativismo
si passa dal soggettivismo all’oggettivismo. Alla organizzazione professionale
è affidata, sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche.
Il nuovo modello della realtà economica non potrà non essere anch’eseo,
naturalistico e deterministico: non c’è scienza senza determinismo.
Caratteristica delle concezioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello
Stato Corporativo non vi saranno più disoccupati!). La nostra
divergenza ideale con l’economia degl idealisti non va assolutamente confusa
con le invettive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi
chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni di coloro che
hanno gli occhi sulla nuca! Ricordiamo ancora: Moretti V.: I
principii della Scienza Economica e l’economia corporativa (Rivista
di Politica Economica», marzo-aprile 1934). Il M. rifiuta 1 identificazione fra
Stato e Individuo. Integrando ® correggendo le opinioni di Arias e Fovel
considera l’economia corporativa come una economia non euclidea.
Papi U. : Un principio teorico deW economia corporativa, in Giornale degli Economisti », e più
diffusamente in Lezioni di Economia Generale e Corporativa», Gedam,
Padova. (Il P. ritiene che il sistema corporativo si possa
considerare come lo strumento capace di assicurare le imprese contro i
(risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.). Rossi L. :
Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il concetto di concorrenza e mostra
i caratteri della teoria dell’equilibrio economico generale.
L’ordinamento corporativo traduce nel diritto positivo un complesso
di norme di diritto naturale, che presiedono al fenomeno sociale della
ricchezza. Ne risulta un diritto corporativo, definizione giuridica della
libertà economica c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e
la figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo economico libero.
L’economia corporativa importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un
sistema organico, razionale di politica economica. L’economia corporativa
risolve il contrasto fra l’essere e il dover essere della vita economica.
Dover essere: razionalità (teoria economica pura), eticità (politica
economica). Le forze direttrici corporative devono fornire al dinamismo
economico il volano regolatore). Vinci F. : Il corporativismo e la
scienza economica (Rivista Italiana di Statistica» etc., febbraio
1934. Questo A., conscio delle interdipendenze fra i vari fattori di
produzione e fra le varie imprese e delle condizioni di concorrenza mondiale,
ha dimostrato che la disciplina
unitaria e l’autodecisione, ove conducesse fino ala determinazione delle
produzioni e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni dell’uria
o dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti reciproci, non solo fra
due o tre, ma fra tutte le Corporazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle
Corporazioni un continuo, pericoloso compito di revisione e di
conciliazione in base a valutazioni complicatissime, a criteri di difficile
determinazione oggettiva ». Sulla Finanza Corporativa. Si
espressero anni addietro a favore del contingente : Griziotti, Finanza di
guerra e riforma tributaria, in La Riforma Sociale», 1916, pag. 150-174.
Contro il contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Finanze, Torino.
Ed oggi, a favore del contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini,
loco cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in Echi e Commenti, e dello stesso : Ordinamento
corporativo e ordinamento tributario, in Atti del II Convegno di Studi Sindacali
e Corporativi », Ferrara, 1932, voi. II; Bonanno: L’extra-individualismo
nelle entrate del bilancio dello Stato, Dir. e prat. trib., e dello
stesso: Lo Stato corporativo e la sua finanza, in Diritto del
Lavoro; Uckmar : Ordinamento Corporativo e ordinamento tributario, Relazione al I Convegno nazionale di
Studi Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso: Verso una revisione
corporativa della pubblica finanza, in Diritto del Lavoro », Roma; Riforme
tributarie e Stato corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, 1929;
Finanza corporativa, in « Diritto e Pratica Tributaria ». Roma, 1929, ed
infine, sempre dello stesso: Ordinamento corporativo e ordinamento tributario,
in « Atti del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi, Ferrara. I ra
questi autori la corrente radicale trova favorevoli Benini, Bonanno e
Montemurri. Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e perciò la
vorrebbe riformata in un senso meno individualista, ma nei suoi studi esprime
delle proposte che trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo
scrivente, che riconoscono doversi inserire nell’ordinamento corporativo
anche la finanza allo scopo di raggiungere quei fini che gli conferiscono
caratteri fascisti. Sono contro D’Alessio, in un suo articolo:
Evasione fiscale e riforma tributaria («Augustea»), e Genco («Comunicazione al
II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara) i quali vorrebbero
arrivare all’abolizione o per lo meno alla riduzione degli organi
finanziari statali ed alla loro sostituzione con le Corporazioni!
Uckmar, contingentista moderato, riconosce che il potere imposizionale
tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può inscriversi fra i fautori
di una finanza coordinata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle
Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza oltre a
presentare un contenuto politico, riveste un contenuto tecnico con il quale
male si accorda la improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddistazione
di essere considerati rivoluzionari al cento per cento, mentre agli altri
rimarrà la soddisfazione di non avere incoraggiato i salti nel buio che
in materia finanziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e perciò si
ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non meno
rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano i ce piu radicali. Il
tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti
scritti fra i tanti che accolgono, con moderazione, una riforma
tributaria in ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino CaProblemi
di Finanza, Torino, Giappichelli 1930; Scandali: E.: Imposizione
tributaria e Stato Corporativo in « Echi e Commenti, e dello TTr- A
r-,ane r e in «Giustizia tributaria», giugno 1929; Gangemi L rinanza
Corporativa, in « Rivista di Politica Economi Stato C e dell ° stesso: La
finanza nello Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, e
S“,° Ì 93 £ r” cernii in «Rivista di Politica Economica»,
fase. VII-Vili (e una carica a fondo contro la funzione graduale,
ransitona e limitata del contingente come è propugnata da Montemurri e dal
Cardelli il quale ultimo ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il
Commercio» f, 7 iarzo \ a f, rlIe)i Toselli Colonna: Teoria e
problemi della- economia finanziaria corporativa, Alessandria Colombani (è
questa una diligente rassegna dei problemi corporativi della finanza).
Infine, si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni **
WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio e CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t
SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova, CEDAM) non sembra opportuno affidare
all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari a gin
associati. Le associazioni sindacali, probabilmente « non sarebbero neppure
molto disposte ad assumersi tali compiti, ohe spesso non sarebbero
neppure in grado di svolgere efficientemente data la limitatezza e
l’inadeguatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione, anche a
prescindere dal giusto timore dei dirigenti di potersi creare m tal modo
animosità lesive di quella compattezza dell’Associazione Fascista, che
costituisce uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai
fini propostisi dal nostro legislatore». Un chiarimento sulla tesi
riformista del Benini. La ritorma propugnata da questo autore (studio
cit.), per quanto riguarda l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa:
due tipi di imposte dirette, proporzionali, l’una sul reddito totale di
famiglia, l’altra sul patrimonio-. Senza dubbio, la scienza
finanziaria ed il procèsso evolutivo della legislazione fiscale degli
Stati moderni pongono in evidenza i tributi globali e personali
come il fondamento di un corretto sistema di imposizione diretta in luogo
delle imposte reali imperfette e causa di sperequazioni gravi ed
inevitabili. Il nostro sistema attuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati
da una imposta personale, la complementare, che con i procedimenti
fatti approvare dal Ministro Jung presenta una struttura che le consente di
assolvere agli importanti suoi compiti. Ma, appunto perchè la riforma
proposta dal Benini muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema
d’imposizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa, lunghi e
ponderati studi sulla entità, sulla composizione, sulla distribuzione e
sul raggruppamento dei redditi, sulla organizzazione tecnica della nuova
amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una
riforma così vasta e complessa che le condizioni del1 economia nazionale e
della pubblica finanza entrino in un periodo di sufficiente tranquillità
e stabilità. Tutte cose queste di cui il Benini è consapevole.
Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra le due opposte opinioni
che esiste una finanza corporativa oppure il contrario che questa non esiste
sostiene una terza e differente che trova riscontro nei seguenti
scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche nello Stato
Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »); Idee generali sulla
trasformazione del nostro sistema tributario, esposte al Primo
Convegno di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi.
glio Prov. dell’Economia di Pavia; Le finanze pubbliche e l’ordinamento
corporativo, in « Economia. Il Griziotti, se non erriamo, desidera un
sistema di imposte congegnate in modo da rispettare le esigenze della
produzione. Vuole un sistema tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri
della giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici. Rico Gangemi,
Dottrina Fasciata ed economia. nosce che l’opera del primo periodo della
finanza fascista ha tenuto conto delle esigenze della produzione. Queste
idee evidentemente indicano nel Grìzìotti un fautore della finanza
corporativa. Dove il nostro non ci trova consenzienti è nei dettagli
(ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei
sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.
Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese (La Finanza
e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati Moderni, Padova, GEDAM) «
Nello Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fondamentalmente
sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè alcuno dei principi che
reggono l’economia capitalista viene apriosticamente ripudiato: ma vi si
aggiunge un elemento che è quello del controllo sociale che, sulla
iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo Stato. Nello
Stato corporativo anche la politica finanziaria deve necessariamente seguire le
direttive, che non coincidono nè con quelle del sistema
liberale-capitalista (benché ad esse siano assai più vicine) nè con
quelle del sistema collettivista. Essendo l’imposta uno dei
principali strumenti di cui lo Stato
qualora rispetti il principio della proprietà privata — si può valere,
per intervenire nel campo dell’economia, individuale, è logico che ad essa
faccia più largo ricorso uno Stato, che ha per principio l’intervento,
ogni qualvolta l’interesse nazionale lo richieda. E essenziale
rilevare che nel sistema corporativo, mutano fondamentalmente i modi
dell’azione statale: mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si
propone fini di benessere e prosperità, che vengono attuati mediante la
protezione di tutte quelle forze individuali che si dimostrano utili a
tale intento, lo Stato corporativo, oltre a proseguire per tale via i propri
fini, si fa esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli
scopi suddetti, non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri
fini, ma facendosi iniziatore dei provvedimenti atti ai dirigere le forze
individuali all’obbiettivo prefisso. Non possiamo chiudere questa
nota senza ricordare il contributo che, anche in questo campo ha dato Maffeo
Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in « Politica »,
maggio-giugno 1933, scritto che i nuovatori sistematici ed i creatori di schemi
astratti farebbero bene a leggere ed a meditare se veramente sono, come
si ritengono, difensori dell’interesse nazionale. Capitoli della storia:
“Mussolini ed il fascismo” p. 1; “La respnsabilita della guerra ed il “tradimento
militare” p. 25; “La preparazione del colpo di Stato”, “L’antifascismo del
Governo Badoglio e la capitolazione”; “La liberazione di Mussolini”; “La
proclamazione della Repubblica Sociale”, “Il Manifesto di Verona”, “In lotta
per la difesa dell’onore italiano”, “La lotta per la difesa del patrimonio
nazionale italiano”, “La politica di conciliazione nazionale;” “Conati di
revision in senso liberale della tendenza autoritaria e per la instaurazione
della legalita”; “Il processo di Verona e quello degli Ammiragli”; “La politica
sociale, dindacale ed economica”; “Il regno d’Italia”, “I comitati di
liberazione”, “La guerra partigiana”, “Il Ragrgruppamento Nazionale
Repubblicano Socialista”, “La catastrophe militare”; “L’instruzione dei
‘sanguinari’.” – Tra Croce e Mussolini, contributo a ”Gentile” – “Nazionalismo
Sociale” – contribute alla rivista La Verita (fascista). “Nazionalismo
Sociale”: L’idea corporative come INTERPRETAZIONE della storia – con una
conclusion politica di Augusto de Marsanich, Achille Celli Editore. Domenico Edmondo
Cione. Keywords: ICARO, l’idea corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo
sociale, icaro, la caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta
greco-romana, corporativa, principio corporativo, principio cooperativo,
corpotivismo, corporatismo, corporativismo, ideale corporativo, conservativo come
corporativo, ugo spirito, “pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione”
– The Swimming-Pool Library.Cione
Grice
e Citrone: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A member of the Cinargo and a friend of Giuliano. Chytron
Grice e Civitella: la ragione conversazionale e ’implicatura
conversazionale – scuola di Teramo – filosofia abruzzese -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Montorio al
Vomano). Filosofo
abruzzese. Filosofo italiano. Montorio al Vomano, Teramo, Abruzzo. Delfico-de-Civitella
(under Ser Marco). (Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico –
while he wrote on Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is
his (Delfico’s, not Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember
that back in them days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive
of ‘bonus,,’ as in ‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love
(that makes the world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL
bello – so it is the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton
narrowly conceive it!” C. è giustamente
ritenuto il Nestore della filosofia napoletana. Questo illustre filosofo,
autore di molte opere di storia e di una varietà di soggetti interessanti,
unisce ad una vasta istruzione una accuratissima e profondissima conoscenza di
ogni aspetto che interessa la sua terra; e possede l'ancor più raro merito di
saper comunicare le preziose esperienze acquisite con una amenità di maniere,
una facilità e semplicità di espressione che le rendono più apprezzate a quelli
che le ricevono. Figlio di Berardo C. nasce nella villa di Leognano, in
provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano almeno a quando
Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il
capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il
motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Savorini,
il cognome è “de C.”. All'interno della sua famiglia va individuato come
Melchiorre III. Rimasto ben presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad
ecclesiastici ed in seguito inviato a Napoli,
per il completamento degli studi. Nella capitale del regno ebbe maestri
insigni quali Genovesi per le materie filosofiche per l'economia, Rossi per le
materie letterarie, Ferrigno per il diritto e Mazzocchi per
l'archeologia. Nella città partenopea si laureò in utroque iure
sotto la direzione di Filangieri e redasse subito diverse memorie per il
governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se ne spogliò subito per
motivi di salute. Nella prima parte della vita si dedica in particolare
allo studio della giurisprudenza e dell'economia politica, scrivendo numerosi
trattati che esercitarono un grande influsso nel miglioramento e l'abolizione
di molti abusi. Con il ritorno in patria si inizia un periodo
fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di Napoli. Intorno a
loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le premesse per un
profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del territorio in cui
agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi, Quartapelle,
Tulli, Nolli, Orazio C., il figlio di Giamberardino, che fu allievo di Volta e
Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto noto in tutto l'Abruzzo. Si
appassiona al collezionismo, in particolare di libri antichi e monete di epoca
romana e pre-romana. Nominato presidente del Consiglio Supremo di Pescara
e poco dopo membro del governo provvisorio della Repubblica Partenopea.
Caduta la Repubblica Partenopea anda in esilio per sette anni nella Repubblica
di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza. Scrisse il saggio “Memorie
storiche della Repubblica di San Marino”, prima storia organica dell'antica
repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una serie di 12 francobolli e ha
coniato una moneta d'argento dal valore nominale di 5 euro per commemorare il
filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio territorio. Bonaparte,
nominato re di Napoli, entra a far parte del Consiglio di Stato, ricoprendo
varie cariche ministeriali. Restaurato il governo borbonico, fu nominato
presidente della commissione degli archivi e successivamente Presidente della
Reale Accademia delle Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento
napoletano e fu chiamato alla presidenza della Giunta provvisoria di governo.
Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia di C. si estingue con Marina, sposata
al conte Gregorio De Filippis di Longano, dando origine all'attuale famiglia
dei conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di C. si forge nel fermento
culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche
furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in
quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano
rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I
fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e
contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata,
che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.
Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò
l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla
compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto
dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del
regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione
dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole
della morale corrente. Come politico e come giurista, e eminentemente
pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori
del suo tempo. Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto
nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede
nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a
filosofo. Altre a Teramo e alla frazione
di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla
Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo; Montesilvano,
Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche intestate a
Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato massone. Questo
interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non esisteva una risposta
documentale. Esistono invece molte prove indiziarie relative alla sua
appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo all'appendice del volume
di Eugeni, Forti, allievo di Fergola. I principali indizi si possono così
riassumere: I maestri ed amici di C., come Genovesi, Pagano, Filangeri,
furono tutti noti massoni; In un diario del curato Crocetti di Mosciano
appaiono notizie di una Loggia massonica esistente a Teramo. Assieme a Quartapelle,
subisce due processi per miscredenza. Promuove un movimento culturale detto
'’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella rinascenza militano tutti
i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski ed altri; La
poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda il
nipote Orazio C., futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare a
Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.
Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti
massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo
nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre saggi: “Saggio
filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria
sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti
del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita
de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso
Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità
della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul
bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città
di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo,
Angeletti). Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita Perrone, La Loggia della Philantropia. Un
religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza
massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni,
Sulla vita e sugli scritti del commendatore C., in Giornale arcadico di
scienze, lettere ed arti, Raffaele
Liberatore, Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili del Regno delle
Due Sicilie, Ristampato come C. in: De Tipaldo Biografia degli Italiani
illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù
di C., Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle
opere, Teramo, Angeletti, Aurini, C., in: Dizionario bibliografico della gente
d'Abruzzo, Teramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo),
Andromeda editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo
napoletano, l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di
storia e letteratura, Clemente, Dizionario biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori,
L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro
abruzzese di ricerche storiche, Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione
teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS, Perrone, La Loggia della Philantropia. Un
religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio. Treccani.
Il DRITTO ROMANO è sempre incerto ed arbitrario. Tale il suo carattere, poichè,
sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure quelle sole qualità -- incertezza
e arbitrarietà -- sono bastanti per renderlo mostruoso e deforme. E di esse
specialmente imprendo a trattare, come quelle che portarono a luce LA VANTATA
GIURISPRUDENZA ROMANA. Ed accio questo ordinatamente si vegga, fiaci opportuno
il seguir la storia che della nascita e de felici progressi di essa ci somministra
i lumi i più importanti. Fra gl’innumerevoli doccumenti tal oggetto
riguardanti, prescelgo quello di cui tutti I FILOSOFI si servirono, quasi di
testo alle loro ricerche e commenti. Già si vede che io parlo delle opera del
giureconsulto SESTO POMPONIO, della quale si avvalsero i compilatori del dritto
giustinianeo, rapportando nel titolo dell’origine del dritto, tutto cid che il
nomato giureconsulto raccolgeo su tal oggetto nel suo manuale. E poichè POMPONIO
incomincia la storia del dritto da ROMOLO e dagl’altri seire di Roma, dello
stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca, abbastanza oscura, non
vi sarà pero materia di dispute, poichè SESTO POMPONIO parlando conformemente
alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con incerte leggi
e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè si deve
intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia – GL’OTTIMAT
-- nella qual forma Roma ha il suo incominciamento. Quindi POMPONIO si espresse
nelle precise parole. POPVLVS SINE LEGE CERTA SINE IVRE CERTO PRIMVM AGERE
INSITVIT. N’altrimenti dove avvenire, poichè quella prima associazione
essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora
positiva forma di società, dove essere piuttosto REGOLATA DALLA FORZA DEL
COMMANDO che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che ROMOLO, per
accrescere il numero de primi suoi compagni, prese l’espediente d’APRIRE UN
ASILO da era retto ve s9 da che si puo
comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i
più valorosi briganti, e questi divenneno i padri della patria, i forti, i
primi quiriti, e formano il SENATO. Dopo questi primi tratti caratteristici
relativi alla legge, POMPONIO segue a raccontare tradizione, che essendo
cresciuta in qualche modo la città, ROMOLO divide il popolo in tante parti
chiamate “LE CURIE” e col voto di esse prende. LA CURA DELLA PUBBLICA COSA e in
seguito FA LA LEGGE CHE CHIAMA “LEGGE CURIATA” -- come ne fanno ancora i sei re successivi.
TUTTA LA LEGGE CURIATA è raccolta da SESTO PAPIRIOS, il quale viv al tempo di TARQUINIO
il superbo – e, dal nome dell'autore, quella raccolta è chiamata il “DRITTO
PAPIRIANO”. Non m'impegno nelle dispute storiche e critiche delle quali si occuparono
gl'interpreti di POMPONIO, ma osservo che, sebbene da principio, parla dello
stato informe di Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa
dindi vedere come è data una forma, non una costituzione, alla città, e come
dai re è promulgata la legge curiata. Per quanto durano i regii signori, Roma
non ha dunque che QUESTA O QUELLA legge occasionale, e LA SOCIETÀ È MANTENUTA
PIÙ COL GOVERNO CHE COLLA LEGGE. Prima intanto di passar oltre, e per la
migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non è inutile il presentare lo stato
politico del popolo romano sotto l’epoca dei re, e quale è l’indole della
legislazione per tutto quel tempo. E poichè di cose che non hanno autori contemporanei
o vicini, non è possibile il ragionare con precisione ed esattezza; percio
scortato dalla natura delle circostanze e dalle tradizioni pervenutaci,
m’ingegnero di esporle nell’aspetto il più ragionevole. Fra l’oscurità delle
origini romane possiamo rilevare che quella società incomincia da un ADUNAMENTO
DI PERSONE APPARTENENTI A VARI POPOLI -- non solo ITALICI, ma greci e celtici
ancora. Codesta tumultuaria associazione, avendo ROMOLO per capo vive, da principio,
di prede e di rapine, gusto che fa il perpetuo carattere della nazione, trasformato
poi in quello di conquiste, come gli avoltoi comparsi a ROMOLO nel prendere gli’auguri
sono poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose, da
principio NON VI È BISOGNO DI LEGGE, poichè non vi era proprietà, essendochè
Roma è fondata come LIVIO si esprime in fondo alieno, e le piccole private
dispute sono decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari,
e nelle società de’ briganti è sempre avvenuto. Avviene similmente che, nel
formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia –
GL’OTTIMATI -- e così avvenne di Roma. Il palagio di ROMOLO è una succida
capanna. Il di lui TRONO quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il SENATO è
la scelta de’ commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che
poterono vantare certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto
il resto è vile plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale
dell’aristocrazie nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ sono nomi di versi
appartenenti alle stesse persone secondo i va apporti ne' quali sono considerati,
o di Senato consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata sulle
divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia
non ha alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi
autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle
parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagl’antichi autori,
parlando dell’origine del CLIENTE, si esprime in termini rappresentativi della
verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. PATROCINIA
APPELARI CAPRA SVNT CVM PLEBS DISTRIBVIA EST INTER PARES. Ne si devono contare
per un ordine intermedio di cittadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati
fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato
militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società
nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma
nella quale da principio è stata abbozzata. Sotto il re NUMA vediamo i primi
passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale:
la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei
ministri e degl’interpreti della divinità. In somma, il principio di un GOVERNO
TEOCRATICO, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare
sulle cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che
specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo hanno i primi
principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar
gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gl’atti umani e farli
nascere ancora in UN POPOLO QUANTO IGNORANTE TANTO SUPERSTIZIOSO. Così par che
fa Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel
natural corso del sociale andamento. Cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia
sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del
sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale:
GL’OTTIMATI. Su questo piano Roma cresce successivament sotto i re. L’aristocrazia
è sempre salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali
mezzi crudeli e sacri sa sostenersi. MASSACRARONO ROMOLO E NE FECERO UN DIO.
Tale idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta. Il primo
per quanto io so a darne l’idea è VICO, il quale, riunendo alla multiplicità
delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali,
fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degl’antichi
costumi sa scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso
delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale
nasce dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della
compagna superstizione. Le luminose tracce di VICO sono poi seguite da DUNI, e
fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nasce
aristocratica – Gl’otimati --, che il RE non è che il capo dell’aristocrazia,
che i soli patrizi – gl’ottimati – hanno la quarta di cittadini che sono in perfetto
stato di combinazione l’aristocrazia POLITICA e l’aristocrazia sacerdotale, e
che il nome di ‘POPOLO’ ne’ primi tempi ai soli patrizi (ottimati) appartenne,
come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza – CIVES, POLIS -- i
quali poi sono gradatamente dalla PLEBE acquistati. DUNI concilia luminosamente
la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto POMPONIO e fa vedere
che il re NON HA CHE UNA *PARTE* del governo o dell’amministrazione, ma che LA
SOMMA DELL’AUTORITÀ, LA VERA SOVRANITÀ, il
potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedeno nel corpo de’
patrizi – L’OTTIMATI -- come anche il dritto di eliggersi il loro re o
principe. Sono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (DUNI, Orig.
del Citted. Romano) ministri ed interpreti. E, siccome per un’eterna verità, l’aristocrazia
– GL’OTTIMATI -- non si sostiene che
sull’appoggio della SUPERSTIZIONE POLITICA. Cosi, dal corpo aristocratico –
Gl’OTTIMATI -- si sceglievano i vari sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici
è specialmente destinato a dar i giudici alle cose umane. Quindi la CONOSCENZA della
legge e l’amministrazione delle medesima è un dritto esclusivo e divenne una
dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a
modo d’oracoli e strettamente CUSTODITA NELL’ORDINE de’ patrizi – GL’OTTIMATI.
Codesta emanazione della prima ‘teocratica’ idea non solo si conserva per
quanto ha di durata il governo del re ma per quanto vive la Roma. Una
repubblica, colla sola differenza pero che come crescheno le cognizioni ed i
necessari riflessi della ragione, e da essi RIFLESSI DELLA RAGIONE POLITCA nasceno
i sentimenti di libertà e d’eguaglianza, così quelle idee si andano a poco a
poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli simboli commemorativi, o il
nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva influenza. È necessaria questa
breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo stato della legge, dell'
amministrazione giudiziaria e della giurisprudenza ne’ primi tempi di Roma. Senza
impegnarci nella particolari legge sotto il re emanata dal senato regnante, possiamo
con sicurezza affermare che la legge è minima, eventuale ed incerta -- e che l’interpretazione
delle medesine essendo stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni
individui, possiamo dire ancora che la giurisprudenza è incerta, irregolare,
arbitraria, e quale AD UNA NAZIONE IGNORANTE E SUPERSTIZIOSA può solo convenire,
e per conseguenza esser stato pur vero ciocchè POMPONIO scrivee, che sotto i re
sine lege Gerta – SINE IVRE CERTO -- ine jure certo viveno i romani. Lascio agl’ambiziosi
di glorie filologiche legali l’andar raggruzzolando i pochi superstiti frammenti
della legge regia, poichè i stessi antichi giure-consulti ne fanno poco conto e
le lasciano perire. Chi vuole però riconoscerle, trova in esse la conferma di
quell’idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche
associazione. Espulso il re col ratto di LUCREZIA, si crede comunemente che il
governo di Roma cangia d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gl’eroi
della libertà. Ma chi giudica senza
prevenzione non vi trova che gl’eroi dell’aristocrazia. Anche quessti parlano
di libertà; della propria libertà però non della libertà pubblica -- per
servirmi delle parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio sugl’altri.
Quindi, Roma non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge
e l’amministrazione politica e civile rimaneno nella stessa condizione.
L'incertezza è seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio. Ciocchè ci dà
manifestamente ad intendere POMPONIO dicendo: EXACTIS DEINDE REGIBVS AE
ITERVMQUE CÆPIS POPVLVS ROMANVS INCERTO MAGIS IVRE ET CONSVETVDINE ALIQVAM PER
LATAM LEGEM IDQVE PROPE SEXAGINTA ANNIS PASSVS EST. L’aristocrazia è stata
alquanto abbassata dall’ultimo re, per cui ha fine il suo governo. Ma dopo la sua
espulsione ritorna presto nel primiero vigore. Quindi gl’effetti doveno essere
conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infattim si sa che DALL’ANNO
FATALE AI TARQUINI FINO AL TEMPO DELLA LEGGE DECEMVIRALE, il potere legislativo
ed il potere giudiziario sono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo è
ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i
plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della
forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale sono tenuti, tentano
de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi.
Ottenuto il TRIBUNATO si avvidero ben presto che esso è troppo debole ostacolo
contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente è annidata dentro la
stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo che fieramente la difende.
L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo
ancora dell'opinione, sono più volte ripetute. Ma le loro domande sono incerte,
le loro querele generali, ed i loro desideri si riduceno ad essere considerari
come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus. In questo
stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi può essere migliore
per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè
la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser
riguardati come uomini cittadini. Strano ed ARROGANTE sembra al patrizio il
desiderio della plebe, e strano pare sempre al possessore del potere arbitrario
il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio
non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione
e persuaderli che i patri costumi sono sufficienti e che di nuova legge non vi è
bisogno – MORES PATRIOS OBSERVANDOS LEGES FERRE NON OPORTERE. Sono intanto
inutili le persuasioni, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trova detta suo
questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul
modo di sedare le civiche discordie rispose loro. Fatevi la legge; i Romani
plebei senteno l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je
gemevano. Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche
sono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposa colla più buona
fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali
doveno mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a
raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occultano in qualche
luogo d'Italia, e la legge poi è tirata dall’arche pontificali e perchè nulla manca di condimento
aristocratico, si fanno poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da
Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle
XII tavole se è trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, è un
articolo sommamente istruttivo. Ma questa ricerca veramente politica è stata
molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dove
servire e che non dove aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata
autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde
che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastano l’usanza, no la legge. Il
popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso
parla per bocca de buoi e d’altri animali, del linguaggio de quali si fa un
merito d'essere interprete. I plebei vuoleno che la legge si fa dal popolo
legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi è altra
legge che quelle ch'essi stesse fanno: darurum legem neminem, nisi ex parribus
ajebant. Il popolo vuole una legge d’uguaglianza. Il patrizio le promette in
parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente, dopo
tante vicende le X tavole furono pubblicate – E SUCCESSIVAMENTE L’ALTRE DUE -- come
ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e
resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il
popolo la esamina e la approva solennemente. Ma la storia stessa ci dice che
quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno che sconvolsero tuttol'ordine
pubblico e secondo LIVIO nihil juris in civitate reliquerant, che PER QUELLE
LEGGE OGNI CONSUETUDINE ARISTOCRATICA È CONSERVATA, che la vantata uguaglianza
resia in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconosce d'
essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata
pienamente scoverta da molti autori e specialmente da VICO, da Bonamy e da DUNIi:
la favola d;essere state leggi d’uguaglianza e di giustizia, la può scoprire
facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia gl’avanzi di quelle
leggi. La scovri ancora il [VICO, Scienza
nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris; Duni: Dėl Cittad.
Rom.] popolo, quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato può
tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse
la gente come uomini e come cittadini, non trova che UNA LEGGE CIVILE, una
legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco
l'interessano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognano UNA
LEGGE COSTITUZIONALE che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse
egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi.
Niente di tutto questo. E la plebe resta delusa della sua troppo malfondata
speranza. Ma sa rinnovare le giuste sue pretenzioni; ed in tanto senza voler
fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali, è pur giusto
portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gl’elogi de'
quali sono state ciecamente onorate dagl’antichi é da moderni; ed osservare in
seguito, se ne provenissero quegl’effetti felici, ai quali produrre sono
destinate. CICERONE in più luoghi esaltandole sopra tutte le leggi conosciute,
non è poi molto felice nel darne le pruove. Così condanna Solone, per non aver
imposto pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo
tale per onore dell'umana natura; ed eleva la seviezza della Romana
legislazione per aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola,
sem sapientiam! esclama CICERONE dopo aver lungamente ragionato con logica
forense. Tale è la saviezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi;
poichè se si riguardano per la parte criminale esse sono aristocratiche,
ingiuste, severe, é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale
poch’indizi ci sono restati, andano alla conservazione dell’aristocrazia: se
per quella della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi
concepimenti del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, doveno
esser analoghe alle leggi ed all'usanze: se per la parte testamentaria, è
facile il vedere, ch' esse conteneno la massima ingiustizia politica, per
conservare in forza gl’aristocratici dritti. Della stessa indole sono le
indegne leggi relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche
nelle quali sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al CONTRATTO, la
legge è pur sempli ci, come dove essere in un popolo barbaro con pochi rapporti
civili. Ma l’usure d'ogni specie sono terribili. Chiunque vuole esaminar quelle
leggi in buona fede, e misurarle secondo i vem ri rapporti che le leggi dove
avere colla natura e collo stato civile, trova senza fallo ingiusti ed
irragionevoli gl’encomj alle medesime attribuiti. Ma forse neppur in Roma si
pensa tanto favorevolmente di esse, poichè col tempo par che sono del tutte neglette
e dimenticate. CICERONE stesso riferisce che, al suo tempo neppure erano ben
intese, e sebbene egli nell'infanzia le avesse apprese a memoria, era poi
passato di moda tal costume -- discebamus enim pueri XII. ut carmen necessarium,
quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di Gellio sono cadute. in tale
disprezzo ed obbllo, che sono derise come fossero le leggi dei Fauni e degl’aborigeni.
Si può trovar intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gl’antichi
panegiristi delle leggi decemvirali. Poichè per quanto fossero selvatiche
quelle leggi, godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' antichità; e
paragonata la giurisprudenz'antica a quel la degl’ultimi tempi della Repubblica,
il paragone risulta in favore della prima. Ma che i giure-consulti moderni, e
quelli specialmente della setta degl’eruditi riguardino ancora lo studio dei mi
peri frammenti superstiti come il più interessante per la conoscenza del
giusto, e rincariscano sugl’elogj degl;antichi, cið non può essere che
l'effetto d'un letterario fanatismo Se LIVIO chiama le leggi delle XII tavole
fonté ogni equità è troppo credulo all’espressioni ed alle promesse degl’iniqui
decemviri. Qual nie è infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed
ingiusta costituzione non è cangiata, e da quella vantata uguaglianza la plebe
neppure ottenne di acquistar la condizione desiderata. Per quel principio teocratico,
di sopra accennato, ciò che distingue in tutti gl;effetti civili tanto pubblici
che privati, il patrizio dal plebeo, è il dritto degl’auspicj. È questo dritto
che da la vera qualità di cittadino negl’affari civili; ed incominciando dal
primo vincolo sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj si produce il
connubio o nozze solenni, dalle qua li deriva il carattere di padre di famiglia,
la patria potestà, e la facoltà di testare; e questa specie di nozze è de' soli
patrizi, poichè gl’altri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj
auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e
propriamente gl’auspicj maggiori poi sono i soli mezzi per aver drito alle
Magistrature, e far parte dell'ordine regnante dello stato. Or niun cangiamento
è fatto da quelle vantate leggi su di un articolo tanto importante in quella
costituzione nella quale tutto è sacro; e la Storia c'insegna, quanto poi
costasse di tranquillità alla Repubblica, il voler introdurre in qual che modo
l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza de' tempi più
antichi di Roma, pure si può asserire ch ' esse non hanno propriamente la loro
origine che dopo la pubblicazione delle XII tavole. Si crede intanto che quel
prezioso codice avendo acquistata due qualità principali, cioè d'eso ser PUBBLICO
e generale, avesse resa certa e stabile
la legislazione. Autorizzato dal popolo, fisso nel foro e delle curie, ciascuno
dove trovarvi la certezza de' giudizj, la sicurezza de'suoi dritti la
legittimità de' suoi dominj. Ma su questa conseguenza ci fanno nascer gran
dubbj gl’antichi autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che
il principal caractere delle prische aristocrazie è la misteriosa custodia
delle leggi o consuetudini, e della religione, ciocchè forma il privilegio
esclusivo, o la privatiya di quella sola sapienza che gode del bujo et del [(Det
ZE =]; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta sapienza romana è fondata
parte sull’ingiustizia, parte su l'errore. Su questo, perchè la loro scienza
sacra ed arcana non consiste nel celare al volgo i misteri della natura,
l'origine della cose, l'energia della forza motrice, la fecondazione
dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni:
la loro scienza arcana si raggira sul cantare o cibarsi dei polli, sul volo
degl’uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere, e simili cose,
alle quali non può appartener mai il nobile titolo di scienza o sapienza, ma
quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo fanno servire all'ingiustizia,
poichè con tali mezzi si manteneno nell'assoluta disposizione delle leggi,
facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più forte, cioè
alla sovversion ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle leggi
qualunque sono pur pubblicate, una parte della scienza arcana e dell'
aristocratico potere anda a svanire, se non si trova un modo col quale si
ripara una perdita si grave. Quessto si effetrul col conservare il potere
giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col rendere inutili le lege es za 7 bid
SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78 )* gi; se non sono avvalorate
dalla doro recondita sapienza. Essi doveno spiegarne il senso; essi conoscere
qual dritto nasce da una tal legge; qual era l'azione che ne provenne, quale il
modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che può impedirla; e finanche
si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si può amministrar la
giustizia senza offendere i numi. Ecco insomma la giurisprudenza, ossia il
mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una legislazione.
Essa vanta un origine aristocratica, un origine che si confonde coll' errore,
colla malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la giurisprudenza è nata
subito che vi sono leggi incerte ed arbitrarie; pu e non si conferma, estese e
stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII. tavole; dopo questo
prezioso compendio dei dritti degl’uomini. POMPONIO conferma le mie parole.
Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente
avvenir suole, s'incomincia a desiderare per l'interpretazione delle medesime
l'autorità de' giurisprudenti, e le necessarie dispute del foro. Tali dispute e
tal dritto non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però
un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con vocabolo comune è
chiamato DRITTO CIVILE. Quasi nel tempo medesimo da quelle stesse leggi si fanno
nascere le azioni, colle quali si dove discettare a litigare: ed saccia non è in
libertà di ciascuno il farne uso, si pensa a farle essere certe e solenni; e
questa parte del dritto è denominata azioni della legge, o sia azioni legittime.
E cosi quasi ad un tempo nasceno queste tre specie di dritto cioè leggi delle
XII. tavole; dritta çivile derivato da esse; ed azioni della legge, composte
sui s dritti antecedenti, La scienza poi tanto delle leggi quanta
dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse è riservata al collegio de
Pontefici, quali in ogni anno destinano persona che presedesse ai privati affari
o litigi; e con questa, consuetudine vive il popolo per cento anni in circa. Quale
orribile contradizione! Appena pubblicata una legislazione tanto vantata per la
sua perfezione, è trovata cosi insufficiente che ha immediato bisogno di
sostegni e di interpretazioni. E codesto è il codice superiore a tutte le
biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di POMPONIO contiene una contradizione
alle idee di leggi e legislazione che somministra il buon senso il più comune.
Il dritto civile tanto encomiato non è altro dunque che il risultato dell’interpretazioni
de'Giurisprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti sono mai
quelli! Ciascuno sa che quella è l’epoca della più crassa ignoranza; la spada,
la zappa, i polli e le usure sono le sole idee che fiorisceno in quelle teste
leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi
qualunque è stato quel dritto consuetudinario può pur ridursi in massime o in
principj di giustizia, e cosi divenire di comune intelligenza e di un uso
generale. Si pensa il modo onde questo non avvenisse, e si mantenne sempre le
leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið è sicuramente per una vanità dottorale,
ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitraria, qual è il grande
scopo dell'ordine aristocratico. L'unico mezzo che essi viddero il più opportuno
è quello d'inventare le azioni, cioè delle formole colle quali non solo si dove
agire o eccepire in giudizio, ma secondo le quali si dove regolare i contratti
e gl’altri atti civili, accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non
basta loro di aver la privativa de' giudizj; poichè colla legge certa
difficilmente si può abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso
e della nuova pratica una nuova legislazione da surrogare all'antica scienza
mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá custodia, colla quale
prima delle XII. tavole tenne le antiche consuetudini. E perchè non si manca di
venerazione a tale straordinario stabilimento, i pontefici ne sono fatti
depositarj egualmente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di
legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diretta non a
dispensar giustizia, ma a conservare ľaristocratico dispotismo, da segno, di
non aver mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si
tratta già di fare la legge, si tratta solo di tener il popolo in schiavitù:
perchè se avendo già esso acquistato i dritti di privata cittadinanza può
godere anche quello d'ISONOMIAI, cioè dell' eguaglianza delle legge, qual'è il
suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione, ha un gran passo
verso quella libertà che tanto F ambe, ma che più sente che conosce. Escla. md
esso sovente contro quella specie di occulta o privata legislazione, dicendo,
che la sua condizione de ea in questo assai peggiore di quella dei popoli vinti;
essendogli negato il poter sapere cioc che riguarda i più comuni affari çivili,
e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agl’altri non è ignoto: segno sicuro
che l'aristocrazia romana e inolto più feroce o severa di quella delle altre
città o popoli vicini. Il dottissimo VICO con gran proprietà d' intelligenza
pensa che quel notissimo motto di Solone: conasciti, è piuttosto un précetto
politico che morale. Pieno l'animo di tutti i sentimenti della vera giustizia
Solone ricorda con quel motto all'oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè
di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il
popolo romano non ha un Solone, che gli da così utili ricordi; ne forse ne ha bisogno,
poichè abbastanza si riconosce, ed agl’insulti de'patrizi risponde, che non sono
fioalmente essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù dall' Empireo. Avrebbe
però avuto bisogno di un Solone, per aver lidea d'una costituzione, senza la
quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte degl’abusi del potere aristocratico,
ma non giunse mai a formare una pefetta repubblica, fondata su i veri rapporti
sociali e su i dritti primitivi della giustizia naturale e positiva: per cui se
Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde
anche presto nella voragine del dispotismo. Ma ritornando a quella giurisprudenza
che succedè immediatamente alle XII tavole, e che da nascita a quel nuovo
dritto così stranamente amministrato, dico che, sebbene da quanto semplicemente
espone POMPONIO, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza
aggiungerd, che l’illustre GRAVINA, tuttochè pieno d' entusiasmo per la romana giurisprudenza,
non sa nascondere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'quali ragionamo.
Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum
prodiit: aspera quidem illa tenebricosa et tristis non tam in æquitate quan in
verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiudizj filologici,
vuole mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. F 2 di giudicare giustamente,
come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza, avrebbe riconosciute per
arbitrarie e maligne le successive giurisprudenze dette media e nuova, ed
avrebbe disconfessato gl 'inopportuni encomj, che in generale yolle ad esse
tributare. Per quanto però si è finora ragionato, non ho toccato che
leggermente la nequizia della giurisprudenza e della giustizia sacerdotale; ma
chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie
maggiori in fatto d'amministrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e
conoscenza, e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani
misteriosi. Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile, è precipitar gli
uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità
d'espressione si chiamano LA RAGIONE CIVILE la, onde il celarle, il corromperle,
val lo stesso che privare gl'individui del corpo politico di quella ragione che
loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurisprudenti
non lasciano mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo
coll'inventare le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le
leggi e le guastarono; ma de' nuovi stabili menti anche s'impossessavano per
poterne disporre a loro talento. LIVIO n'è amplissimo testimone dicendo: institutum
etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut senatusconsulta in ædem
Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante atobitrio Consulum supprimebantur
vitiabanturque. Non è però sufficiente questa legge, e i giurisperiti
seguitarono ad essere veri monopolisti della legge. Dobbiamo credere però che i
più virtuosi romani avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di
soverchieria; e perciò. la storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali
quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti
rurali gli arnesi guerrieri, o coronavano l'aratro di allori trionfali. Si sa
che Roma allora e per alui secoli non presenta alcuna occupazione che potesse
allettare alla vita cittadinesca, la quale dalle belle arti, dalle scienze, e
dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo piacevole; perciò chi non
ama l'intrigo, nè la vita oziosa soffre, in vece di darsi alla cabalistica (LIVIO)
e viziosa giurisprudenza, si ripara nella esercizio dell'agricoltura sempre
preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire,
mostrandoci, che la famiglia la più infesta allo stato, la perpetua
persecutrice della libertà popolare e della giustizia pubblica è una famiglia
di giurisprudenti. Tale è LA CLAUDIA; e sempre si è veduto che dove dottori e
forensi sono, la discordia prende il luogo della pace e della naturale
tranquillità. Ma ritorniamo a POMPONIO. Egli ci dice che quella mistica
giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la storia pero agl’altri autori
dicono, che ha una durata eguana le a quella della Repubblica, toltene alcune
differenze dalle quali non è alterato il fondo del la cosa. Seguita dindi POMPONIO
a raccontare come quelle formole ed azioni, essendo RIDOTTE IN FORMA D’APPIO
CLAUDIO, cotal mistico libro gli è involato da GNEO FLAVIO, figlio d'un
libertino e scriba dello stesso Claudio: ed aver., dolo pubblicato e fattone un
dono al popolo, questo gli è si grato, che lo fa pervenire ad esser tribuno
della plebe, senatore, ed edile. Questo libro contenente quelle azioni delle
quali si è già parlato, dal nome dell'editore è deno. Si po, mitato DRITTO
CIVILE FLAVIANO, benchè egli nulla vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in
Roma la popolazione e nel multiplicarsi gl’affari maticando alcune specie di formole,
SESTO ELIO non » guari dopo compone nuove azioni e ne pubblico co un libro
chiamato DRITTO ELIANO,. trebbe" ragionevolmente pensare, che pubblicate
le leggi e resa publica la scienza arcana, il dritto cívile, le azioni, la
pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo
illuminato su i principj legali, sulla condotta degl’affari, sul modo di
amministrar la giustizia, sull’ordine giudiziario, non avesse più bisogno della
maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto, e sapere i mezzi d'ottenerlo.
Ma tuu ' altrimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj –
gl’ottimati -- perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella
scienz'arcana, che forma la base principale del loro ingiusto potere, trovano
il'modo, onde far rimaner il popolo defuso. E come nelle sette se si vengono a
scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, presstamente si
cangiano, e de ' nuovi si surrogano, onde sia salvo it mistero; cost i bravi
Giurispe siti eseguirono, cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti
dell'ordine, e conservano il grande arcano della giurisprudenza. Le formole e
le azioni sono cangiate, e forse in maggiori cifre involute onde potessero
rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma
ascoltiamone, CICERONE, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento.ERANT IN
INIGNA POTENTIA QVI CONSVLEBANTVR A QVIBVS ETIAM DIES TAMQVAM A CHALDÆIS
PETEBANTVR INVENTVS EST SCRIBA QVIDAM GNAIVS FLAVIVS QVI CORNICVM OCVULOS
CONFIXERIT ET SINGVLIS DIEBVS EDISCENDOS FASTOS POPVLO PROPOSVERIT ET AB IPSIS
CAVRIS IVRISCONSVLTIS CORVIN SAPIENTAM COMPILARIT ITAQVE IRATI ILLI QVOD SVNT
VERITI NE DIERVM RATIONE PERVULGATA ET COGNITA SINE SUA OPERA LEGE POSSET AGI
NOTAS QVASDAM COMPOSSVERVNT VT OMNIBVS IN REBVS IPSI INIERESSENI (CIC. PRO
PUR.) Non è d’alcun utile dunque l'aver trafitti gli occhj a quelle cornacchie
poichè in breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi
prosegue, la storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro
secoli gli stessi sentimenti, gli stessi principj, la 2 stes cha stessa
condotta. La Giurisprudenza è latente, incerta, arbitraria, ignota al popolo, e
privativa del solo ordine patrizio sacerdotale, il quale lungi da quella virtù
che sola consiste nella beneficenza »da quella sapienza che cerca il vero, per
render lo di comune demanio; da quella giustizia trova i principj nella
ragione, e gli espansivi sentimenti nel cuore; da quella naturale benevolenza e
da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uomo civilizzato; da'veri
sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla giustizia; lungi
dico da tutte queste qualità e gl’eroi del Campidoglio non sembra che provassero
altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di corpo, sempre contrario,
anzi distruttivo de' sentimenti sociali, dal vile interesse personale e
pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj, e dall'abuso d’un illegitimo potere.
E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza! Seguitando quindi POMPONIO
ad esporre i fonti del dritto romano ci accenna l'origine de' plebisciti e de'
senatusconsulti, specie di leggi dettate dal popolo o dal senato, e delle quali
si vedeno gli effetti ee'l'l valore, e soggiunge, che nel tempo stesso anche
dai magistrati nasce un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè,
tecid saw pessero i cittadini, di qual dritto i magistrati in si sarebbero
serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura, e perchè vi andassero premuniti,
pubblicarono degl’editri, da quali si costitui IL DRITTO ONORARIO, cost detto
perchè proveniya DALL’ONOR del pretore. E dopo aver parlato finalmente
dell'altra parte del dritto che nasce delle costituzioni de' principi, cost ri-epiloga
tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano., Nel la nostra Città dunque
dice egli ) la legislazione è costituita del dritto o sia legge; da quello che
propriamente si chiama DIRTTO CIVILE, che non è scritto, è consiste nella sola
interpretazione de' prudenti: dalle azioni della legge le quali contengono le formole di agire; dai plebisciti
che sono fatti senza l'autorità del Senato, dagl’edini de'magistrati, da' quali
nasce il dritto onorario; dai Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge
particolare; e finalmente, dalle costituzioni de' Principi, Ecco tutta la
Storia seguita, che POMPONIO ci ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla
quale presso a poco gl’autori tunti convengono. Abbiamo finora voduto quale è
il dritto é la giurisprudenza romana prima è dopo dello leggi decemvirali, e
quindi come per quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1
caratteri d'irregolarità, d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la
ragion popolare andasse acquistando qualche dritto su l'aristocrazia, puro
questa sostenuta dal sacerdozio, qnantunque per necessità cede in qualche cosa
de’dritti pubblici, fa perð ogni sforzo per tener recondita le legge, e sotto
le chiavi del mistero tutto quello che riguarda l'anministrazione della
giustizia. Conoscheno ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno
veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle
leggi e della giustizia, e che tanto più diventa tale autorità efficace quanto
più la legge e oscura, incerta, ed arbitraria. Ma per vedere come questo
continuassets e come la giurisprudenza segue ad esser sempre della stessa
indole, prima di venir a ragioniare de' plebisciti e de' senatusconsulti ch'
ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto cui si volle dare
il titolo di ONORARIO, ma che vedremo' non essere stato degno di alcun onore.
Se si vuole parlare del la ridevolezza di quelle vantate formole, che costituivano
la Romana Giurisprudenza, ci porterebbe a perdita di tempo, ma se i Romani di
buon senso e CICERONE stesso le. derideno e teneno in altissimo disprezzo,
credo che dopo due mille anni potremo far noi altrettanto, e chiunque non sia
un’ vero divoto, e cieco adoratore della Romana antichità e giurisprudenza.
Rifletterà solamente che quando di cose semplicissime si vogliono far misteri,
allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre, le idee semplici si devono
involgere in un numero di parole non necessarie, e surrogare impropriamente le
immagini e le finzioni alla semplicità e realità delle cose e delle idee:
specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura
Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo civile di
Roma, mà solo indicare il corso infelice delle legge e della giurisprudenza,
cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i
patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza, e questi per
allontanarli, fanno tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi IL FORO ROMANO. Ma
accennerò solamente ciocchè importa, per passare all'origine del dritto
onorario. La forza dell' opinione non ha più molio. scevano valore contro la
forza reale ed effettiva; per cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad
alcuni di quegli officj che fin allora sono privativi de patrizi, come è quello
della questura e de' TRIBUNI MILITARI, non parve foro di aversi assicuraii i
sospirati dritti, se non otteneno la massima delle magistrature, vale a dire il
consolato. E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col
manto della religione i patrizj cercao coprire le loro pretese, o tependone
lungi il volgo profano, ailontanarlo da tutte le magistrature che de' sacri
auspicj abbisognayano; così i plebei videro che per farsi strada al consolato,
si rende necessario l’ardi mento di entrar ne' sacri pene trali, ed andar anche
essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni
che fecero cor endo alla fine il quarto secolo di Roma, sono queste cose
combinate; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de
Decemviri, e che di questi V patrizj fossero ed altrettanti plebei: e che nella
nuova elezione de consoli l'uno fosse del loro ordine, e l'altro patrizio.
Invano APPIO CLAUDIO montà in tribuna per fare non arringa ma una predica teologica
contro le nuove idee filosofiche sorte negl’animi della plebe Romana: invano
ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete; invano minaccia d anate ma
quel popolo, che potea far a lui più reali mi nacce: Roma, dice egli, è fondata
cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico, di privato, di sacro, di profano,
in guerra, in pace, in cae sa e fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare:
che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del
dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo è mai creato cogl’auspicjse
che in fine canto è il creare i Consoli dalla plebe, quanto il rovesciare
interamente la religione, ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non
ostantino però tante e si gravi rimostranze LUCIO SESTIO ottenne finalmente il
consolato. Se questo colpo è doloroso a sostenere per i patrizi, è facile
l'immaginare; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo efficace,
si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non perdere intieramente quel
privativo potere che dipende dal consolato. Pensano dunque sta (12 ) Lir. lib.
YI. cap. 36 mabilire una nuova magistratura che può conservare nell'ordine
patrizio l'amministrazione della Giustizia, il potere giudiziario, e tuttociò
che riguarda l'esecuzione della legge civile. Quindi col pretesto che i consoli
sono quasi sempre fuori di città alla testa degl’eserciti, onde non possono
adempire agl’ufficj della giudicatura, proposento di stabilire un nuovo
magistrato che adempisse e questa parte dell'amministrazione, ed è ordinato che
si traesse dai patrizj e si chiamasse PRETORE. La pretura dunque è stabilita
per conservare nell'ordine de' padri tutto il sistema giudiziario o forense del
quale hanno facto fin allora uno scempio cosi crudele. La legge e la
Giurisprudenza segueno ad essere malversate, ma per poia chi anni dura
privativamente nelle mani de' patrizj la Pretura. Eccoci intanto al tempo nel
quale si può fissare veramente l' epoca di quella Giurisprudenza che passo di
mano in mano fino agli ultimi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il nome
Romano e l'Impero. Questa parte del dritto, come testè ci ha insegnato POMPONIO,
nasce dagl’editti, che emanano į pretori nell'entrare in esercizio della loro magistratura,
ed essa fa il maggior latifondio della scienza forense. L'importanza dunque
della medesima ci merte nel dovere di portarvi sopra uno sguardo particolare,
seguendola brevemente nel corso della Storia, ve derne in qualche modo l'uso,
il carattere; e gl’effetti, Dopo lo stabilimento della pretura e della
comunicazione a tat officio delle plebe, e più dopo eseguito il censo di FABIO
MASSIMO il governo di Roma perde la forma Aristocratica, benchè non ne perdesse
lo spirito; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti, che si trasformasse
mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà
popolare è molta, e qualche volta eccessiva a segno che degenera in licenza,
poichè essa non era limitata dalla legge; ed il dritto de' suffraggj ed il
potere legislativo non hanno mai quela regolarità ed uniformità, che può
rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo. E non è mai tale il
popolo Romano, poichè la forma del suo governo non è costituita su d'un piano
antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti
sociali si fosse rimontato alla necessaria divisione del pubblico potere, e
questo ripartito in modo che le varie parti non si potessero nuocere fra loro,
e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte
coordinatamente contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione
sociale. Non avremo perciò quind' innanzi frequente occasione di parlare dei
disordini dell' Aristocrazia patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del
disordine e della corruzione, essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo
adattato alla facile germinazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki,
non però tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione.
Ma passiamo finalmente a vedere quale fosse stato il fato della Giurisprudenza
in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più
accuratamente trattarono degli editti pretorj sono da distinguere il celebre
Giureconsulto Eineccio ed Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per
trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo
articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono
ricerca alcuna conducente al loa G TO Heinec. Hist. Edict. Memor. de l'Accadem.
des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in Roma e per l'Impero
ancora non solo quelli che propriamente Mangistrati sono detti, ma diverse
altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere, ebbe To pure il
dritto o il costume di fare deg’edinti Quante che fossero adunque le divisioni
e suddivisioni del potere esecutivo o giudiziario, ed in quanti diversi
rapporti fossero esse costituite, prendendo un tal dritto, hanno l'uso e la
facoltà di straordinariamente comandare. Cosi, incominciando dai pontefici e
dai tribuni della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e passando ai
Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vollero avere il
dritto di far editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà
o prerogativa è compresa. Fra tanti Magistrati però che hanno o si arrogano
cotale autorità, gl’editti di maggiore celebrità, e che contribuirono a creare
una nuova Giurisprudenza sono quelli de'Pretori. Dai patrizj è inventata e
fatia stabilire questa nuova Magistratura a consolazione ed indennizzamento
della perdita che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe; e quindi
ottennero, che il pretore dal loro ordine dove essere prescelto Non dura mol, (99
molto intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza
fosse la Pretura, non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche paratecipare a
tal carica, mentre ancora è unica e non divisa nei due Pretori Urbano e
Peregrino; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo. Coll’andar del tempo si
multiplicarono maggiormente, ed oltre dei due mentovati e dei Pretori
Provinciali altri ve ne furono nella Città, de' quali alcuni sono addetti a
rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la
origine della Pretura, ciocchè ci viene attesta 10 da LIVIO e da altri, cioè
che essa è surrogata al potere giudiziario, che i Consoli esercitano, si
dovrebbe naturalmente pensare, che se i Pretori cagionarono alterazione
nell'antica Giurisprudenza, e ne fecero nascere una puova, çið essere accaduto
per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze, le quali avessero per la
loro giustizia meritata la conferma della pubblica autorità, e passate quindi
in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo, nè si potrebbe
facilmente immaginare, che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e
d'una nuova Giurisprudenza. Eppure non fu altrimente: essendo essi semplici
giudici o ministri di giustizia, colla facoltà di fare degli editti seppero per
tal modo usurpare l'autorità legislativa, che il dritto è cangiato, e gl’editti
più che la legge sono osservati, e maggior uso ed autorità hanno nel Foro. Ma
se i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia, il loro
officio è solo di applicare la legge al caso particolare, o sia ve der i
rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si disputa. Un Giudice non può
creare un dritto colle sue sentenze, poiché esse altro non sono che la
dichiarazione del dritto medesimo; cioè che la legge nel caso proposto si
verifica per la tale azione o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo,
cioè esercitando l'attualità della Magistratnra non può crear un dritto, molto
meno dee ciò poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della
Magistratura. Gl’editti pretorii dunque per i quali si alterano, si cangiavano
le leggi, e se ne stabilivano delle altre temporarie, ci presentano degl’atti d’autorità
arbitraria, temporaria, ed incerta che non possono formar mai una parte del
dritto, il quale può solo emanare dalla potestà legislativa, e dev'essere certo
generale o perpetuo, fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando
dunque in una carica siriuniscos no contro tutti i principi della ragion
pubblica quelle facoltà, che devono essere divise da limiti insurmontabili, si può
dire che tal carica contenga almeno in potenza, come diceno i scolastici, i
principj del disporisano, e dispotico si può chia mar il Magistrato che
l'esercita. Nel crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre
un mostro di tal fatta, ma come codesta carica è surrogata al potere
giudizionario che avevano prima i Consoli, il quale era riunito al potere
esecutivo, cosi' e per questo per quel grado d'autorità che prendevano dall’ordine
da cui erano tratti, non è difficile il farvi passare di tali abusi. A
considerar dunque giustamente la cosa non nasce nella Pretura tale abuso dal
semplice potere giudiziario, ma da quello di far gl’editti. In fatti se si va
all'origine di questo dritto, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli
antichi) quod jubemtis fieri: espressione tanto generale, che potrebbe
comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la legislativa; e
perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti sono di uso promiscuo:
Ma PAPINIANO è quello che più nettamente
ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che è introdotto a
pubblica utilità, per adjuvare supplire, e corriggere il dritto civile. Jus
prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris gratia propter
publicam utilitatem introducium. Ecco dunque la vera origine del dritto
Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gl’editti. Ajutare
intanto indica debolezza, supplire, mancanza, correggere, errori. Si dice ch'è
nell' ordine naturale delle idee di amministrazione, che quando al caso non si
trovi alcun stabilimento di dritto, alcuna legge scritta, la volontà del
Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro
piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta, utile o
nociva alla Repubblica. Ma che altro è mai il dispotismo, l'odio de' popoli
czualmente e de' buoni regnanti: Se la legge manca, bisogna farla, e non solo
il Ministro di giustizia, ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare
alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na legge,
ma nè a soccorrerle cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle
erronee, nè ad interpretarle oscure. Lascio le tre prime condizioni o
circostanze delle leggi, sopra le quali non può cadere alcun dubbio che il
restituirle in qualunque modo non possa spettare ad altri che al Sovrano. Ma in
quanto all'interpretarle,. sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia
stabilita la sua autorità, rifletterò che l'interpetrare o interpatrare da
principio è in Roma del soto ordine del patrizi, quando tutti i poteri e
specialmente il legislativo sono ristretti nell'ordine aristocratico. Essi
dunque che fanno la legge sono i soli che potessero interpretarle, uno e
l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato.
Quando una legge è oscura, non vuol dir altro, che il non sapersi precisamente,
ciocchè essa comandi o prescriva; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stessa
autorità, che l'ha emanata, sola interprete legitima di se stessa. Ne i giudici
dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale
è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi legislatori e GIUSTINIANO stesso
ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104 ) no. Le leggi bisognose di
sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti, de' quali di
sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior male da esse prodotto è d'
aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito la corruzione della
giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i Romani furono cogli Ebrei
sotto lo stesso parallelo. Or l'autorità data ai pretori cogl’editti prova
visibilmente due punti: il primo che la legge è così incompleta, come è quella
dei popoli barabari; e che i Romani lo furono a tal segno, che non seppero
conoscere, quanto il confondere le potestà, ed il lasciar il poter arbitrario
ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di ogni buon
governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel modello delle
Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù, e che connobbe più delle
altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma gl’onori che merita. Essa
è la prima inventrice degli editti, essa è la sola Re. Heinec. De prohib. a
Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per quanto si sappia, che li
avesse in costume. A vedere quale è il dritto Pretorie lungi dal dover credere
i Pretori Magistrati giudiziarj, dovremmo anzi prenderli per riformatori o
correttori delle leggi. Tali sono in fatti, ma non per uno stabilimento
autorizzato dalla potestà legislativa: lo furono solo per abuso, vergognoso ai
costituenti di sì strana Magistratura, e pernicioso sommamente al popolo
soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue leggi, e l'incongruenza
nella quale dovevano essere per la differenza de' tempi, e per i politici
cangiamenti; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i stabilimenti d’Atene,
avrebbe trovato più opportuno mezzo a
correggere e modificare la sua barbara legislazione. Ciascuno sa che in Atene
vera un Magistrato detto de’ tesmoreti, il quale propone annualmente i
cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e queste sono poi approvate o
riggettate dal potere legislativo. Non deve farci intanto molta meraviglia che
la pretura s' introducesse con tali abusi e tant'autorità straordinaria, se
rifletteremo che quella. Magistratura è da principio stabilita privativamente
per l’ordine patrizio, il quale la conserva in suo potere per anni. Per sapere
poi come quell'abusivo potere si esercitasse, devo ricordare, che vi sono IV
specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ jurisdi fionis caussa: translaticia:
nova. E senz' andar esponendo il valore di ciascuno, ciocche fino alla sazietà
da molti autori è stato eseguito, mi ristringo ad alquante osservazioni più
importanti. E primamente dirò, che quelli editti i quali dovevano contenere il
sistema giudiziario attuale del la pretura, sono quelli appunto, da'quali
derivarono maggiori abusi, cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa, pei
quali il pretore espone nell' albo le formole delle azioni, delle cauzioni,
delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che
la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole è compreso,
chi è autore delle formole, lo è in conseguenza del dritto medesimo. Chiunque
nell'agire in giudizio manca a quelle formole per qualun que causa, cade dall '
azione, o rimane con inutile eccezione cioè perde la lite anche che
intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle
leggi. Ecco dunque il Magistrato divenuto legislatore, ed arbitrario it sistema
di giudicare. Dobbiamo però credere, che tuttociò fosse fatto senza principj, e
che non avendo idee certe e generali de' principj del driito, facessero gl’editti
ciascuno secondo le proprie cognizioni ed idee: poichè come le ultime
derivazioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar tutte della retta
ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro editti fossero
derivati da tali fonti, non sarebbero stati prescrizioni annuali, ma avrebbero
avuta una continuazione o vera perpetuità. NÈ SI FACCIA ILLUSIONE IL NOME DI
PERPETVÆ IVRISDICTIONIS, POICHÈ QUELLA PERPETUITÀ ERA RISTRETTA AD UN SOL ANNO.
Il Pretore o Pretori che succede alla carica, ha il dritto assoluto di proporre
nel nuovo albo un nuovo sistema giudiziario, e cangiare a lor grado la formola
ed i principj; e sebbene questo non si fosse fatto sempre nè in tutto, poichè
spesso i succes'sori conservano integralmente o parzialmente gl’edirii an
tecedenti, ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole, è
sempre però in libertà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo conio, che perciò
portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità, incertezze; ed arbitrj.
si possono portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto, lo lascio giudicare
agl’amici della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipende solo dal
capriccio pretorio, e gl’attori in giudizio dovevano essere ben intrigati in
variar le loro formole, e su di esse disputare ed argumentare, per trarre le
disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo porta col tempo, che
fossero molte le azioni per lo stesso giudizio, ciocchè fa un nuovo intrigo, ed
accresce l'arbitrio de’ magistrati. Più anche dovette crescere quando i Pretori
sono varj, e vi è in Roma quasi una popolazione di Magistrati, poichè ciascuno
a suo modo proponendo gl’editri, quel ch'era giusto presso di uno, si trova
ingiusto presso un altro. La morale pubblica e quella delle leggi
particolaramente è dunque così incerta che non ha per regola che le opinioni o
il capriccio, e si dilata o ristringe, allungava o accorciava secondo le
sublimi Teorie del probabile, le quali sorgono sempre dall'arbitrio e dalla
corruzione. Se il Pretore fosse stato uno solo, se l' Amministrazione
giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura, non
avrebbe potuto 1 diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza
dell' arbitrio: ma gl’ammiratori o visionarj della Sapienza Romana, trovano
ragioni sufficienti per ogni disordine. Il progressivo accrescimento della
Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari,
per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistrature e le
Giurisdizioni. Esempio pur croppo funestamente imitato nei vari stati di
Europa! Nel progresso delle Società si aumenta è vero la popolazione o il
numero degl'individui; ma non per questo crescono i rapporti naturali e
necessarj che essi hanno collo stato, col governo, e fra se stessi. Non
crescendo i rapporui non devono multiplicarsi e variarsi le leggi, le quali ne
sono I espressione; ne devono quindi crescere e diversificarsi in varj generi e
classi i Magistrati che ne sono i Ministri o dispensatori. Possono crescere in
numero bensi ed in divisioni, ma de vono essere costantemente della stessa
specie e con i stessi nomi. Quindi il dividere i giudizj criminali e civili in
tante varietà, giurisdizioni, e legislazioni differenti è il produrre
volontariamente una confusione, e multiplicare gl’abusi dell'arbitrario potere:
ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti
del cittadino. In questo caso, la legislazione sarà univoca, generale, uniforme;
i limiti del potere giudiziario resteranno distintamente marcati; e le
giurisdizioni, e le Maggistrature non saranno stabilite e divise sopra rapporti
immaginarj e fattizj. Più, non nascerà pelle Magistrature quello spirito di
corpo per cui sono in continua contesa o guerra fra loro, e, per conseguenza
col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inversa della
grandezza del corpo medesimo, onde più saranno piccoli, più avranno i difetti
della picciolezza, più saranno capricciosi, irragionevoli, ed abuseranno della
forza e dei momenti favorevoli:. Un gran corpo di Magistratura ben costituito e
convenevolmente diviso, senza gelosia e senza interessi contrarj avrà la
dignità che deve aver la Magistratura, ma non ne avrà le follie. Per quanto
però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano, non
sembro loro ad ogni caso sufficiente; e poichè delle cari che non limitate o
mal circoscritte dalla legge si. passa facilmente da abusi in abuşi, essi non
fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per
quella perpetuità annua, ma, pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere
Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una
magistratura costituzional mente arbitraria, si arroga anche il dritto di can.
giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione, e farne
delle nuove senza pre, vio esame, come, un corpo leggislativo farebbe, ma di
propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare. Questo pur si faceva
nel foro Ro mano, e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi
magicamente scomparir l'albo espo sto, ed un altro a quello sostituito. Pensi
chi vuole, che fosse quella una sublimità di condos. ļa, o la surrogazione d'
idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi, che i
pretori, nol fecero per altro che per favore, per interesse e per altre tali
cagioni, stimate ferite mortali per la Giustizia. Cosi penso anche l'Ei neccio,
il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza, pure abominò il dritto
pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori. Si erano essi accom modati
talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso, e facendo vero
scempio della giustizia, si svegliò finalmente un'anima virtuo sa
compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi
riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli
stes si di lei sacerdoti, e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente
e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra
sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù, vedeva
con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto
nelle più infelici provincie. Vede va condannati gl'innocenti, i deboli
oppressi, ed i Magistrati impuniti; e questo' nell'epoca la più memorevole
della Romana virtù. Sdegnò egli, come rapporta PLUTARCO, i studii che la nobile
gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche: quindi non
comparve mai nel foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o ad umiliarsi al po
polo per ambizione; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i
suoi contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un tal carattere
per attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i sistemi di
corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le
sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la
pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i
loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti prætores ex
suis perpetuis edictis jus dice teni. PAULO
EMILIO fu in dovere di partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli
trion fi su i lontani nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva
dentro delle sue mura. Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non
è raro che i nimici del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più
efficaci. Da quest'anno cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal
danzire alle spese della Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto
vantavano nei loro editri a nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in
disordini correva già al suo termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma
tra i disordini, la Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto
insopportabile. A nulla valevano le accuse contro de ' Magistrati, poiché i
mezzi di salvarsi erano molto conosciuti. Quello però a cui un Console non potè
riuscire con ef fetto susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con
tuttocchè fosse stato contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. CORNELLIO
SILLA il quale o tocco dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato
specialmente dalle depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili
leggi, propose la rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata
cupidigia de' Pretori. LIVIO e DION CASSIO ed altri autori ci attestano in que'
tempi non solo la sfrenatezza pretoria, « ma il grand' interesse de nobili specialmente
a conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto
tale ne' Comizj, che i fasci Consolari andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi
sentire più delle vo ci, convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa
ad altro tempo più tranquillo. Infatti secondo ASCONIO PEDIANO la legge passò =
Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus
dicere assueverunt, sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto
impedirla, rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia, e
Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di CICERONE: Troppo tardi
perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio; la Repubblica era già spirante i
disordini irreparabili, ed apparecchiati i ferri per le Ascon. in Orat. pro
Cond. le nuove catene. Roma non godè mai della liber ' tà, non seppe conoscerla,
nè conobbe mai i moa menti favorevoli, ne' quali avrebbe potuta ren: derla
eterna, Se colla Repubblica però fini la grande autorità de' Pretori, e se
nuova Legislazione, nuova Giurisprudenza e nuovo metodo giu diziario furono
introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza, l' ordine
giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar
te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva. Nuove
parole ', nuove azioni, nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la
giurisprudenza; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso, ridicolo per se
stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di
considerar in giudizio gli oggetti,.i rapporti e le azioni; in sostanza le
finzioni legali: Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza.
Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza, basta la più semplice ragione
per ve dere, che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni
della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani; ma come perdonare a que'
moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far
sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’ALTESERR, il quale offerendo a Lamoignon
l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones,
quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC, qui bus difficiliores casus
expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur? = e peg
gio altrove. Tale fu EINECCIO ancora il quale nel la Dissertazione, De
Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le
finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di
conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà consultare i cita ti autori
e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo aggiungero soltanto, che
esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne, che nei
progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi de'
tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che fosse cangiata la
realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati. Per la
secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per eludere le loro
prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano espressamente
par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo VICO portando
le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando, le ai
loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè le
immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi
espressioni più semplici e più adattate. In con , fum tà di tali nature (dice il lodato
autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva i farti
non facii, i non fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i viventi, i
morti vivere nelle loro giacenti eredilà: introdusse tan, te maschere vane
senza subjenti, che si dissero, » jura imaginaria; ragioni favoleggiate da
fanta e riponeva tutta la sua riputazione in rim trovare sì fatte favole, che alle leggi
serbassero y la gravità, ed ai fatti somministrassero la ragio talche tutte le finzioni
dell’antica Giurism prudenza furono verità mascherate, e le formo, s le colle
quali parlavano le leggi, per le loro circoscrit te misure di tante e tali
parole, nè più, nè meno, nè altre si dissero carmina. Ed altrove ragionando
della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3 bara sia: 99 he: (VICO Princ. della
Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la paragona a quella della se. conda barbarie,
dicendo, Cost a tempi barbari,, ritornati la riputazion de' dottori era di
trovar, cautele intorno a contratti, o ultime volontà red in saper formare
domande di ragioni ed ar ticoli, che era appunto il cavere e de jure respon.
dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò si rileva, che sebbene la Romana Repubblica
progredisse in quanto allo stato politico verso la libertà, ed in quanto ai
costumi verso la civiliz zazione, in quanto alle leggi però ad alla Giurisprus,
denza i Romani erano rimasti in quello stato poetico, o barbaro, che
caracterizza i primi passi sociali o lo stato (dirò cost) di necessaria
Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la cagione, si troverà facilmente ne'
tardi progressi che fecero i Romani nel perfezionamento dello spirito o della
Ragione; poichè da questo solo possono essere migliorate le: costituzioni, le
leggi politiche, e le civili. Mi dispenso volentieri, è credo ragionevolmente,
di andar ragionando di tutte le novità, che i Pre cori introdussero nel dritto,
se da quanto si è detto finora, la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza
caratterizzata; e chi volesse meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che
ne favellano. Se qualcuno sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi
troverà cose maravigliose e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e
gemerà su le ruine del Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza
prevenzione, riderà di molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu
si, e farà voti sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli
passino ' nell ' obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non
adombrata dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che
i Preto - ri poterono essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi
sociali accader suole; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle
loro pre rogative ', riducendo all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata
all'umanità, le leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall'
al tra banda dovremo pur confessare, che la maggior parte de pretori si
abbandonarono ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per
cui, più che ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia.
Riconosceremo nel tempo stes 50, che questo nacque, dal non essere stata limi
ta e legittimamente circonscritta la di loro autori tà o potere; e per questo
d'ogni arbitrio abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la
Giurise prudenza equivoca ed incerta', e fecero nascere una nuova specie di
dritto, che tali qualità tutte in se comprendeva; e sebbene non autenticato da
alcun atto del potere legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più
esteso e più usato delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla
Repubblica e coll' Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto
vantata eruiià pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di
equità può solo valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè
giusta. Considerando le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le
finzioni legali, ci com parirà molto giusto che GIUSTINIANO le chiami favo le cioè
azioni Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si
rappresentavano innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin.
In proem instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis
fabulis discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco
difetto della Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora,
tar un vero rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè
si può sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi.
finalmente di mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno
d'adorarla. Il latte della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7
vano per æs et libram, le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le
nunciazioni di nuove opere, le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé
elezioni et c. non solo erano faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva
trascendere, me con azioni e rappresentanze particolari, che rende. vanò
comiche le processure giudiziarie. Questo però non significa altro, se non che,
nei tempi d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione
naturale delle idee e de sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le
gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della lingua parlata é
divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro; in che principalmente
consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i sentimenti di
sociabilità, i piaceri della società, le regole che all'adempimen to di essi
prescrive la Natura. Perciò e per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si
disputò, si discusse, si combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè
mai seppero elevarsi a generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per
la buo na' costituzione de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi
continuo l alternativo passaggio maquanto furono felici colla forza o colla
frode altrettanto infelici furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai
sentimenti univoci, e se la plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia
conservò sempre la sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che
vergognosamente li caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il
cittadino dal cittadino. Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi
non poterono averla della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato
censo, non diro quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica
non fu una invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad
alcuno superflue in rapporto al soggetto della Giurisprudenza Romana,
rispondero, che tali non sono poic (Det poichè quando si parla delle leggi,
convien neces sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore,
dei suoi sentimenti, e della forma e condizione del potere legislativo. Or
potrà sembrare strano il dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno
nell'altro, e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in
tre, e che poi quelle leggi fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma
nel tempo in cui fu più celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella
undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani,
dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata, poichè i
fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine. E
quantunque io sia nell' idea, che quella tavola non contenesse che i prin
cipali dritti dell' Aristocrazia, qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto
detestata dalla plebe, e ro versciata vittoriosamente da CANULEJO; pure in un
frammento rimastoci, troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento
del dritto Legisla tivo, cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $
TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni,
la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio; e nel significato
generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo
stato, ma di quelli soli che godevano il dritto, e meritava no il vero nome di
Cittadini, quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente venne a
partecipare alle qualità civiche, la parola po. " polo divenne generale, e
non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di
classi, ciocchè la cennata legge prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso
e valore, cioè, a far, sì che legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea
prescritto e comandato. Se tale è però il principio costitutivo delle Rear
pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te ancora alla natura umana,
vi devono esse re delle regole, accið lespressione della volon tà generale sia
certa legittima libera ed uguale, onde ciascun cittadino senta essere una parte
in tegrante del Sovrano, dello Stato, e della Patria: Tali sono le leggi
costitu zionali, che riguardano il dritto del suffragio, o la maniera di communi
care la propria volontà al corpo sociale, e fare che la volontà pubblica sia
realmente il risultato del. le volontà particolari. Il Dritto di suffragio
costi tui yang tuisce dunque principalmente la qualità di cittadi. no, e il
modo di darlo, forina quasi una misura di graduazione del Cittadino mede simo.
cioè che tanto più si è Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è libero
ed uguale. Troppo lungi mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence
colla Storia, come questo drit to si stabilisse in Roma:, cioè nella formazione
casuale di quella Repubblica, alla quale contribul molto più la natura o il
corso naturale delle sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e di ragione. Dirò
solo, che quel popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere
l'importanza di queste idee, che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un
corno di bue alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato
quel luogo, dove si radunava, per compir l'atto il più degno, il più glorioso
p er un popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma cotai nomi ed usanze
erano avanzi dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e mandre sono
correlativi necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf DIONYS.
ANTIQV. ROMANARVM e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può dire che
fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo, giacchè i Comizj delle
Curie furono obblia ti, nè ebbero in effetto il potere legislativo; ed i Comizj
centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza alle ricchezze. Vi fu
inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto, che di esaminare o
consultare, si arrogo pure in parte il potere legislativo. O la Nazione dunque
radu nata per Tribd, o essa stessa convocata per Centurie, o il Senato ebbero o
in dritto o in fatto l'esercizio del potere legislativo. Le risoluzioni per
tribù dette plebisciti, non ottennero che dopo molte contese la vera for za di
leggi, cioè di obbligare tutti i cittadi ni, giacchè da principio non obbligavano
che la plebe soltanto. Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un altro popolo
un altra Nazione; che quelle leggi nelle quali non avevano potuto far
prevalere, le loro idee e le loro volontà, per mol to tempo non le fecero
valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu meramente abusiva, poichè
nè per le leggi Decemvirali ne per al cun stabilimento posteriore, il Senato da
se solo aveva in alcun modo la potestà legislasiva. el 3 2 tiva. Quelle
risoluzioni però che portarono parti colarmente il nome proprio di leggi,
furono le de cisioni dei Comizi centuriati, delle quali non oc corre ripetere
nè il metodo nelle proposizioni, nè quello della convocazione, nè quello delle
deci sioni. Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca, e si può trovare
presso mille autori, che del governo Romano anno ragionato. Ho voluto solo
ricordare queste poche notizia per mostrare, come il potere legislativo fu
stabie lito in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la
realità, e come il dritto di suffra. gio, non fu lo stesso nè uguale nei
diversi comizi. Nei centuriati la qualità di Cittadino era misurata su le
ricchezze, e non si può dire, che fosa se la volontà del maggior numero de'
cittadini, che rappresentasse la volontà generale, come don vrebb' essere per
natura. Și sa ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le
decisioni del minor numero, e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva
già decretata la legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile
e, delusa. Che quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente
gli Entusiasti, ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione:
Dirò di più, e ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione, che
quei comizj oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà
governativa', ed in molte occasioni simil mente il potere giudiziario; ciocchè
indica, qua le idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema. Fu
sicuramente un effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire,
che i Tribuni del popolo non fossero Magistrati, perchè non avevano nè imperio
nè dritto di vocazione, nè giu risdizione, nè auspicj, ma in verità se non
erano magistrati nominali, lo erano in effetto, ed eser citavano un potere
amplissimo su la plebe, sul Senato, e sopra tutta la Repubblica: ad es si
apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero
corpo le gislativo, se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente
ed integralınente ad ogni. cittadino. Il Cittadino vi figurava come Citra dino
libero, e non era il rango o la ricchezza, che davano la preponderanza. E pure
questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge, come l'ebbero
le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo non decido pai se al paragone le leggi
Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato, che quelle
proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori. Possiamo però ri
Aettere, che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica, o relative
alla libertà ed al lo stato popolare, le quali si possono chiamare leggi di
Umanità e di Giustizia uni versale, furono tutte o quasi tutte proposte dai
Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie, poi che erano le
leggi naturali della libertà, e quindi necessarie e costituzionali per un
popolo che voleva essere libero, Nè è da imputar loro che non fos sero migliori;
giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni era comune ai patrizi ed ai
ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche fosse Aristo cratichissimo, non potè
far a meno, di con fessare, che se si avessero voluti annoverare i misfatti de'
Consoli, non sarebbero stati pochi, ma che toline i due GRACCHI, non si
potevano contare altri Tribuni perniciosi. Infatti, e varj plebisci ti furono
salutarissimi alla Repubbiica, e le leggi an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni
promosse furono effettiva. mente a pubblico vantaggio. La maggior parte però
delle leggi, dei plebisciti, e de' Senatusconsulti furono una specie di leggi
volanti o temporarie, essendo per lo più pro mosse per occasioni particolari; ¢
sebbene si procurasse di dare ad esse tutta l'autenticità so. lenne, non si
riducevano però in un corpo, che avesse l'autorità d'un codice di legislazione;
ne io credo, che ad uso pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di
bronzo, come pur ci vo. gliono far credere alcuni autori antichi. Sono in dotto
a pensar cosi da varie testimonianze, e spes cialmente da una di CICERONE.
Possiamo da esse raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de'
Patrizj e de' Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con
mistero, trat tandosi quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come
abbiamo veduto molto dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a
ciò destinato, e poi il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le
corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica,
gli antichi curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la
custodia Al (131 ) si. Almeno cosi ci attesta CICERONE, assicurandoci, che per
saperle, o per conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti =
Legum custodiam nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri
volunt; a librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam
nullam ha bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi
solum literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta
hominùm obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria,
che nel suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la
conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero,
che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che TACITO caratterizza
con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero elogj di equità
e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta una certa re
golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi posteriori,
prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i
co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le
leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che il disordine e la
confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse parte la violenza, la
cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità, da
privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti c'indica Tacito
dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam sequuræ leges,
etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione ordi hun, et
adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava,
per vim taie sunt. Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo
detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti
encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e
giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e l'accettazione della
posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci
avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma colla scorta della
Storia, e sce vri (TACITO, Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile
prevenzione tutt'altro abbiamo trovato. Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen
" ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in struito della storia degli
alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri
mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le
qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo Regno e de gli alııi
successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa, come si potrebbe provare
su le poche tracce, che non sfuggono ai critici indagatori del le origini
civili. In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato, che dopo
una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le
consuetudini Aristocratiche, si co minciò a dare una forma alla nascenie
società. Il re videro, che il loro potere era un nulla, se invece di esser capi
de'patrizj, nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo scompar ve per
diventar Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo Tarquinio
espulso. In tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori parlarono
dei tempi passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a credere,
che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che
assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono
prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il cervello per con
cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima
formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e
tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti, ed inutili
affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna
particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere, che l'
incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono questa marca
vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica. Tali poi
furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli Editri de' pretori o sia
il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette, le quali sempre
più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque
poter drittamente dai fatti con chiudere, che le leggi e la Giurisprudenza Roma
na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate, ed
indegne di reggere un po polo qualunque, mancando di quelle qualità che
poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo stabilire la regola eterna
della giustizia, render P urmo suddito di esse, e non dipendente dall' arbitrio;
ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo, qualunque sia del
resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni de' politici si
fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero facil mente
ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè per gli
edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di
durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di
Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e
nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi
l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso,
credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio
quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione
arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione
della legge e nella generale corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo
della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte, ossia della
imitazione e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il
gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere
complete (Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il
sentimento morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment
morale. Divisione della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà.
Lo vviluppo della morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere
morale. L’obbligazione morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler –
self-love). La virtù. La benevolenza – la benevolenza conversazionale. La
giustizia. L’educazione. La felicità. La passione. Note agli "Indizj di
Morale" di G. Pannella Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza
romana. La giurisprudenza romana dal tempo de' re fino all'estinzione
della repubblica. Sequela dei carattere della giurisprudenza romana sotto
gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza. L’amministrazione della giustizia.
Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. La Situazione corografica
della Repubblica di SAMMARINO e dei varii nomi dati successivamente al
capoluogo dello Stato. L’origine della Repubblica di S. Marino, e prime sue
memorie fino al secolo decimosecondo. Le memorie di S. Marino nel secolo
decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento delle memorie istoriche per tutto
il secolo decimoquarto. Proseguimento delle memorie per rutto il secolo
decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto il secolo decimosesto. Proseguimento
delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela del secolo decimottavo. Il governo
politico della Repubblica di San Marino. Diplomi ed altri monumenti citati
nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed inutilità. Ai dotti e agli studiosi
delle scienze della natura. L’origine naturale della storia e dei progressi ed
abusi della medesima. La storica incertezza. L’autorità degli storici contemporanei
del cavalier Tiraboschi. L’inutilità della storia e dei pregiudizi derivati
dalla medesima. Verificazione degli antecedenti principj con esempi tratti
dalla storia della romana repubblica. I bello. Ai giovani educati. L'origine
dell'idea che abbiamo del bello. Il bello della natura. Il bello dell'arte,
ossia della imitazione e del bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale.
Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del
bello. L’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli
su le origini italiche. Alla reale accademia ercolanese di archeologia e
a S. E. reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società
Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri
nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte
sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D.
Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca
Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio
istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo
oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della
milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio
del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere
uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità
di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea
riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria.
L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio
fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle
nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla
medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità
organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale
Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali
bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche
allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di
pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi
alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di
Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica
di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti
(Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene
(Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo
Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri
a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis.
Spallanzani all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli. Spallanzani a M.
Delfico. Luigi Grimaldi a M. Delfico..... pag. 141 Toaldo a M. Delfico..Spannocchi
a M. Delfico.V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle]. Michele Torcia a G.
Berardino Delfico..Mollo a M. Delfico. Carli...Mùnter a M. Delfico..... pag.
154 Mùnter a Delfico in Napoli..... pag. 159 Mùnter a M. Delfico..Filippo
Mazzocchi a M. Delfico..Gazola a M. Delfico..Giuseppe Micali a C...Bertola a G.
Bernardino Delfico..Il medesimo a M. Delfico..Brugnatelli a M. Delfico..Anutos
a M. Delfico..Gio. Andrea Fontana a M. Delfico. Il Duca di Cantalupo a M.
Delfico..Palmieri a M. Delfico...Gargallo a M. Delfico in Teramo...Galante a M.
Delfico..Amaduzzi a M. Delfico..Zarillo a M. Delfico..Giovene a M. Delfico..Amoretti
a M. Delfico. Francesco Soave a M. Delfico..Acton a M. Delfico (Teramo).Fortis
a M. Delfico..Zannoni a M. Delfico..... pag. 206 Bossi a M. Delfico..Tommaso
Frantoni a M. Delfico..Felici a M. Delfico..... pag. 209 G. Napoleone a.
M. Delfico.Trivulzio a M. Delfico..Melzi a M. Delfico..San Severino a M.
Delfico..Il duca di Sant'Arpino a M Delfico..... pag. 231 Tracy a M.
Delfico. Antonio Canova a M. Delfico..Ricci a M. Delfico..Gioli a M. Delfico..Dragonetti
a M. Delfico..Zurlo a M. Delfico..... pag. 246 Michele Arditi a M.
Delfico...Orsini a M. Delfico...Burini a M. Delfico...Taranto a M. Delfico.....
pag. 252 Francesco Sorricchio a Delfico..Cicognara a M. Delfico..Santangelo
a M. Delfico...Ciampi a M. Delfico..... pag. 260 Donato Tommasi a M.
Delfico.. Il Duca di Laurenzana a M. Delfico...Grimaldi a M. Delfico..Santangelo
a M. Delfico..Lodovico Bianchini a M. D..Filangieri a Melchiorre Delfico.Niccolini
a M. Delfico...Rangone a M. Delfico..Pilla a M. Delfico Il Duca di Gualtieri a
M. Delfico...II Barone Poerio a M. Delfico..Armaroli a M. Delfico..Neroni a
Leopoldo Armaroli.Fuoco a M. Delfico..... pag. 287 Giuseppe Micali a
Gregorio de Filippis..Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..Al sig.
Pasquale Borelli..Al sig. Antonio Orsini..Al sig. Conte Armaroli..Volta a
Orazio Delfico.. Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M.
Delfico. Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana..... pag. 326 Stati
Romani.Napoli. Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi nella
provincia di Teramo.Discorso del Cav. Comm. Gian Berardino Delfico letto in
occasione del solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di
Napoli e Sicilia dalla Città e Provincia di Teramo..La famiglia e le opere di
Melchiorre Delfico. I titoli nobiliari. Episodi della vita del Delfico. Opere
ignorate del Delfico. Il contenuto delle opere. Catalogo per materia delle opere
di M. Delfico. Lettere del Delfico e al Delfico. La Repubblica di S. Marino in
onore di M. Delfico. M. Delfico a Gaspero Selvaggio. A Paolo D' Ambrosio M.
Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico è uno dei più cosmopoliti e al tempo
stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali della
seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli,
interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane
intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il
gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate (2), che dal 1754 al
1769 costituisce il fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa
scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed
altri, ad imprimere una «benefica scossa» (3) alla cultura napoletana e avviare
negli anni successivi un serrato e articolato dibattito sui problemi più
urgenti del Regno, suggerendo le linee di un possibile rinnovamento della
società civile che non di rado contrasteranno con l'angusta politica del
governo borbonico (4). È soprattutto dalla rilettura del genovesiano
Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (5), considerato il
manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico
del sapere, che Delfico matura una nuova concezione della cultura e
dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi, «più pratica che
teoria» , e la convinzione della necessità di un impegno politico più diretto.
Un atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana
(7) e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due lavori, con i quali
inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno
di Napoli sui territori di Benevento, dal 1077 sotto il dominio pontificio, e
di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato ecclesiastico (9).
Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali dell'autorità ecclesiastica,
dimostrando «false o insussistenti» le pretese giurisdizionali del pontefice su
quei possedimenti, ottenuti non già per legittimi diritti di sovranità, ma con
l'usurpazione, titolo «vergognoso» perché «prodotto per dolo o per frode»
(10). Sebbene notevole sia stata l'influenza di Genovesi sul movimento
illuminista meridionale, non tutte le molteplici espressioni della cultura
riformistica degli anni Settanta e Ottanta possono essere ricondotte alla sola
riflessione del pensatore salernitano. Anche per i rappresentanti della
corrente «più provinciale», «più tecnica e descrittiva»(11) della scuola
genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre costituirà l'unica matrice
culturale. Lo stesso C., sebbene riconosca il suo debito nei confronti
dell'abate, non trova in lui il pensatore che la propria ragione gli faceva
desiderare, bensì il pubblicista che ricerca e analizza i mali economici e
sociali della sua terra. «La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi fatto
pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di Condillac, parve che
il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi una inclinazione pel
vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti. Già nel Saggio
filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo, alcuni anni dopo il suo ritorno in
provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese
basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti umani, che
indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index
librorum prohibitorum. L'opera è una vera e propria esaltazione sia dello stato
coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere fisico ma
soprattutto morale. In polemica con Rousseau, C. considera il vincolo
matrimoniale una fonte continua di sensazioni e di sentimenti aggradevoli e
sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo
e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è
l'occasione per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui
sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società,
fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i
sessi. Del 1775 sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore
Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i
quali svelano assai più a fondo e gl'ideali politici di C. e la sua cultura»
(15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione
all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei
due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato
alla dottrina sensistica. Confessa ad un amico: «Dopoché il mio spirito soffrì
la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi
vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le
quali hanno potuto migliorarlo. Egli riconosce alla morale il fondamento
empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti
morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gl’uomini acquisiscono le
prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne
consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si
dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la
possibilità di comprensione della qualità degl’oggetti e gli individui sono
messi nelle condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor
proprio. È nel passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare, scrive, che le
nazioni godono del colmo della virtù e nasce quella gara d’Eroismo che è
difficile a trovarsi nelle Monarchie e che si verifica ogni qualvolta
«l'interesse di tutti i particolari va a riunirsi col pubblico e i cittadini
partecipano maggiormente alla sovranità e al potere. L'affermazione non
si concreta in una scelta della democrazia come forma di governo, né in una
rivendicazione di ordinamenti politici alternativi a quelli in cui si incarna
la monarchia borbonica. L'allusione alla repubblica resta in lui vaga,
sottintesa e comunque priva di un reale contenuto politico-istituzionale,
mentre egli non nasconde la propria simpatia per il despotisme éclairé. Vi è,
da parte sua, una svalutazione della politica in quanto problema teorico, a
favore di un impegno politico più immediatamente finalizzato alla soluzione di
questioni politiche contingenti. Suo obiettivo principale è il perseguimento
del bene pubblico, realizzato attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di
riforme. Un processo di trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza
politica e che non ha niente a che vedere con la «fatale» comunione dei beni,
fomite di disordini e di eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui
le garanzie politiche costituiscono una imprescindibile componente, consente a C.
di condurre a fondo l'attacco contro la struttura feudale della società
napoletana, in cui ancora assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa
generata dall'abuso del potere che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i
mali che provengono dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo
sulla proprietà - deve essere un canone politico quello di ravvicinare gli
estremi, e non dar luogo ad altre ricompense che a quelle del merito personale
e dell'industria. Al contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che
produrre «lusso e corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più
miserevoli, privati della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare
persino «la vita, l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri. Dopo
il sequestro degli Indizi di morale e la messa all'Indice del Saggio
filosofico, C. incorre in un nuovo
spiacevole episodio con le autorità provinciali. Soprattutto a causa del
vescovo Pirelli e dell'assessore Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti
di amicizia, è ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe
monache dal monastero di S. Matteo di Teramo. L'exequatur del Tribunale del capoluogo
abruzzese (5 febbraio 1778) con il conseguente ordine di carcerazione, emesso
nei confronti suoi e di altri «lajci seduttori» (22) presunti responsabili
dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a
Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria,
giunta con l'indulto regio del 17 giugno 1780. Questo secondo soggiorno
partenopeo, avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela
assai fecondo per lo scrittore teramano che ha l'occasione di rinsaldare
i legami con gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con
vari esponenti della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e
Grimaldi, Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli
matura l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali
prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica
governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra
capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella Napoli
corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di riforme.
Ritornato a Teramo, Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo stabilimento
della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo, la nomina ad
Assessore militare della sua provincia. Lo scritto, dedicato all'amico FILANGIERI,
inaugura un'intensa stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore
di numerose riforme. Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza
politica, avendo intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione
militare poteva assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo «spirito di
corpo» dei militari, quel «sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la
vita civile e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo
sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del soldato all'interno della
società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso
civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di
cittadino, così che i due termini diventino sinonimi fra loro. Ad
alimentare la fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul
piano legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello
dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze
e Belle Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del
Supremo Consiglio delle Finanze. Il Consiglio si prefiggeva di riformare gli
antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla
Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso
C. vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella
provincia di Teramo, pubblicata a Napoli nel 1783. Considerato «forse il più
limpido e ragionato» (24) dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni,
il testo è una dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni
feudali e di certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale
coltivazione in uno stato di sottosviluppo. La risposta delficina è in favore
di un ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli
ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la
realizzazione di un'economia di mercato. Nell'estate dell'83 Delfico è di
nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa
una permanenza piacevole. All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto
un sentimento di profonda amarezza per l'andamento della vita politica della
capitale. Egli prende coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un
programma organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a
dura prova dal terribile terremoto calabrese. La condotta della corte borbonica
gli appare quanto mai improvvisata e piena di incertezze e di
contraddizioni. Ritornato a Teramo è raggiunto, nel febbraio del 1784,
dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio Grimaldi, cui dedica,
come ultimo tributo, un Elogio (26) che ne rievoca il pensiero e il valore.
Dopo un rapido excursus delle opere, lo scrittore abruzzese si sofferma sulle
Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a Napoli in tre
volumi tra il 1779 e il 1780. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane
sull'uguaglianza tra gli uomini, correggendo quei
«paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere e nobili osservazioni» (28)
sono racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente al
Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere «presque nulle dans l'Etat de
Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio dell'origine naturale, smentendo
quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Una particolare attenzione
rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro di Grimaldi, gli Annali del Regno
di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui l'idea di una storia non più
concepita come piacevole passatempo per «gli oziosi e gli annojati», ma in
funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità e, in particolare, per la
nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più il nudo racconto di
fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del momento, bensì la
conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita morale delle
nazioni. Alla fine di giugno del 1785 Delfico si trasferisce di nuovo a
Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città natale
nell'estate dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a questo periodo
l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter, venuto in
Italia nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine degli
Illuminati di Baviera (31). A Münter, con il quale visiterà assieme a
Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà
da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che
trentennale (32), accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto,
per la numismatica. A Napoli Delfico pubblica nel 1785 la Memoria sul
Tribunal della Grascia (33), considerata, assieme a pochi altri testi, «il
vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco
contro il «terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il
confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello
«più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi
liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando
quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione. Vi è nella Memoria
l'affermazione del principio della libertà di commercio e dell'abolizione del
sistema protezionistico, a proposito del quale vengono fatti i nomi di Verri,
Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in
Italia a citare La ricchezza delle nazioni. Nel 1788 vede la luce il
Discorso sul Tavoliere di Puglia (36) in cui C. rivendica, dopo un'aspra
requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e il mantenimento delle
rendite, la divisione di quelle terre in favore dei contadini e un diverso
ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata alla pastorizia. In un Paese
così «infelicemente» amministrato, dove regna una troppo marcata diseguaglianza
e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione tra ricchi e poveri, l'aumento
dei proprietari è un obiettivo che risponde non soltanto a criteri di giustizia
sociale, ma anche ad una necessità dello Stato. Tutti «i più savj governi -
scrive - distinsero sempre la classe dei proprietarj, come quella che dava il
vero carattere di cittadino. La proprietà infatti è il primo e più saldo
principio della società, poiché crea nei proprietari «sempre affezione» nei
confronti dello Stato, a cui essi chiedono di riconoscere e tutelare i loro
diritti, interessati come sono, più di ogni altra classe, al buon funzionamento
delle sue istituzioni e alla corretta applicazione delle sue leggi. Della parte
settentrionale della Puglia l'illuminista abruzzese si era occupato una prima
volta nel 1784 nella pur breve ma incisiva ricognizione geografico-economica
del tratto costiero «desolato» che va dal Fortore al Tronto, in cui denunciava
le gravi «avarie» commesse dai governanti con la creazione di continue dogane
che, ostacolando il libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva
per immiserirle sempre più. Si coglie in questi scritti non soltanto la
totale adesione di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza
del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico
imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia
di mercato, che egli affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio
della fine degli anni Ottanta, in cui esalta il principio del laissez-faire
contro le regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di
«ogni coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione,
di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo
economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato
stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che
ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche
si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte
al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della
ricchezza e del benessere individuali. In quest'ultimo soggiorno
napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, Delfico si attiva
non poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e
soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non
sempre trovano il riscontro desiderato. Ciò non fa che accrescere in lui un
sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza,
quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà nell'estate
del 1788 ad allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere,
non prima però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria
per la vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la
giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e
inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o
di usurpazione della sovranità stessa «non solo un atto nullo, ma anche
ingiusto» (42). La notizia della rivoluzione francese raggiunge Delfico
lontano dal Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era
recato nel novembre del 1788 per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che
studiava Scienze naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo
soggiorno ha modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare
in contatto con Beccaria, il filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli
Verri, Parini, il giurista senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso
di scienze agrarie ed economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei
quali manterrà un rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è
difficile tenersi informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli
guardi con simpatia a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la
determinazione con cui si conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono
a ritenere che la rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e
rappresenti «un esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non
indugino più sulla strada delle riforme. Rianimato da queste speranze,
nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale
(44), Delfico si trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del
1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi (45) in cui, ispirandosi al
dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed
esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in particolare.
Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e
de' suoi cultori, che rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero
illuministico italiano nei confronti del diritto romano» (47), cui viene negato
ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed
uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo
legato alla tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e
dei governi presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo
scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare,
una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il
necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda
sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento
dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza
restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della
giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e
provinciali. Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale C. non si
allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le
condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua
predilezione per la monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa
nel Teramano un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che
lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali,
e il crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare
un programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si
sorprende sempre più spesso «scontentissimo». Il rientro a Teramo, nel
dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e
letterario, al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la
rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo
napoletano. È, questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti,
come C., avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la
consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa
è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della
sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo
vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di
rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante
il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A
Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte «agitazione». È l'epoca
della scoperta della congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna
di numerosi patrioti ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e
concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera innocente e spera invano venga
presto scagionato. L'accentuarsi del carattere reazionario della politica
napoletana non determina tuttavia in Delfico, come in altri illuministi, il
passaggio «da regalista in giacobino» o repubblicano, anche perché egli, a
differenza di molti di loro, non vede più nella Francia del '93-'94 concretarsi
i suoi ideali riformistici. L'avversione per gli eccessi rivoluzionari lo porta
ad anticipare un modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi:
la contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue idee
di libertà e di uguaglianza, ed una fase successiva, il '93, caratterizzata da
tanti orrori. C. lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio
fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi in
Toscana dove rimane fino alla primavera successiva ed ha modo di rivedere gli
amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino Neri
Corsini e all'uomo di Stato francese André-François Miot (51). A spingerlo
verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato, suscitata
dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava. Ritornato
a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata
francese in Piemonte e in Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire
espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le condizioni gravose
imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e
saccheggi dei suoi soldati. Nella seconda metà del 1796 si riaccende
nello scrittore teramano l'interesse per la Grande Nation, in quanto vede
delinearsi nella vita politica del Direttorio la possibilità per la Francia di
riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato negli anni
precedenti la parentesi giacobina; interesse che si manifesta anche attraverso
il desiderio, mai realizzato, di compiere un viaggio transalpino (52). Ciò
nonostante, appare poco probabile una sua partecipazione al concorso indetto
dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della
Repubblica francese (27 settembre 1796) sul quesito Quale dei Governi liberi
meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà vincitore il
piacentino Gioia. Immutato è invece il giudizio sulla corte napoletana.
Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di dialogo con
il governo borbonico, non scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre
più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel
1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità
amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di
quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile invasione straniera si
uniranno quelle per il susseguirsi di infondate accuse di giacobinismo
costruite ai suoi danni da parte di anonimi concittadini. Già nel 1793 era stato
costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico in seguito a
delazioni da parte di alcuni «malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione
colla magistratura. Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione
antimonarchica, tanto che il 27 settembre 1798 è tratto in arresto, nel proprio
palazzo, assieme a tutta la famiglia (56). Liberato l'11 dicembre successivo
dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi (57), è dapprima posto a capo della
Municipalità della città e successivamente nominato presidente
dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Èchiamato a presiedere a
Pescara il Supremo Consiglio, l'organo politico più importante esistente in
Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due
nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo -
in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso
il territorio regionale. Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico
con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di
reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre confida.
Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore teramano
dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (59),
dal momento che l'esperienza non provoca quella vera e propria «lacerazione» e
«rottura» nella sua biografia intellettuale che è stata riscontrata invece nei
riformisti meridionali passati alla rivoluzione. Tensioni ideali e finalità
pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana, le
stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Persino il Piano di
una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e
Giudici dei Cantoni (61) del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l'atto
legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene
introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza
egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni
precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di
riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva,
in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità
giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale
per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione gratuita della giustizia
e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano
all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e
«l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione delle norme; l'abolizione della
carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la «frode» del
debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di
ricorrere in appello. Volentieri egli si sarebbe portato nella capitale
partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era stato nominato membro del Governo
Provvisorio dal comandante in capo Championnet. Ma a Napoli C. non potrà
recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non
poter partecipare all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove
l'accusa di aver non solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province
abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad
opera di briganti e di scorribande antifrancesi (62). Non è da escludere a
questo punto che proprio durante il periodo pescarese C. abbia elaborato,
secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una
Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (63). Il testo, che si
ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795,
proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di
libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri
inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi.
Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi
rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la
costituzione e il governo. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma
di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione,
ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori
dell'ordine pubblico, per odio forse delle sommosse che si stavano
verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le masse contro le nuove
istituzioni. Di fronte al crescente stato di abbandono delle province
abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, C. preferisce, prima ancora
della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso
nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel
settembre successivo San Marino. Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806,
quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo
fianco con la carica di consigliere di Stato. Durante il soggiorno
sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla «tempestosa crisi» di fine
secolo di cui, come CUOCO (si veda), critica l'«immatura ed intempestiva»
manifestazione, come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto «distruttivo»
(66). La confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati
calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così «mostruose» che per i
loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia,
afferma, a far sorgere dei canoni politici «falsi e irregolari». L'Italia,
«abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo a riflettere, che le confuse
proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva
prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau,
Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva
avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non
poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale
palingenesia» (67). Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico
trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica
nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si
sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il
soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso
di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed
i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità
e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si
risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica saggia e realistica
che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per «proporzionate
graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito
aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più
adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme
politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione
vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San Marino,
nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed
involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico,
«mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società»
(69). Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per
riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni
mesi nella casa del marchese Belmonte, la cui amicizia risaliva al 1784, o per
andare a Bologna dal suo amico Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca
nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803 soggiornerà ad Ascoli
Piceno dal fratello Giamberardino. Si porterà a Milano per seguire la stampa
del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove sarà
l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale d’Avenstein,
rivedrà CUOCO (si veda) e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe
Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a
Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in
contatto con il celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana
Cislago, donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale
resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno
all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo
fratello. È, quello sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori dalla
vita politica attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e
sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti a Forlì nel 1808,
vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo studio della storia in stretta
relazione con la realtà presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova
nelle Memorie storiche diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore
dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione
di coloro i quali riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice
della civile sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca
diligente e vasta, scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito»
di San Marino, di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la
propria libertas e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da
assurgere a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini,
Lodovico Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia
della piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe
mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire «un esempio degno
d'imitazione» (72). Questa «rivalutazione» dell'esperienza storica (73) appare
quanto meno strana in un pensatore considerato da alcuni l'espressione più
radicale dell'antistoricismo italiano. Nei Pensieri C. affronta il
problema della conoscenza storica in tutta la sua interezza ed estensione, per
stabilire «se la scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza.
Con quest'opera esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di
una storia utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente.
Ma perché questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla
tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi
metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata
conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert,
Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons d'histoire risente la stesura dei
Pensieri, nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano
state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di
certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli
si pone principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio
della storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e
manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la
proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro
stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri
della pratica storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre
il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le
circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli
effetti e le loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica
di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più
semplici siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo
che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da
percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla
luce. Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare
positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria
per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una
convinzione, questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino del
1824, Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita
l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in
funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e
quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la
pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di
protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca
storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia
«qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico
chiama anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il
carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore
intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della
sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è»
(80). Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle
mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad
incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso
degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro
cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa
di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Grimaldi (81) e rimasta
a lungo sconosciuta agli studiosi (82). La dissertazione, che si colloca nel
filone della letteratura illuministica di confutazione delle superstizioni, è
una dura requisitoria contro gli «impostori» serpari, i quali spacciano per
miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma
sarebbe solo il risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche
dei serpenti o di effetti naturali. Una diversa considerazione, invece,
egli ha dei cosiddetti «favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il
«divino» Platone, Delfico tiene in grande considerazione il racconto
allegorico. Quando ancora lo spirito umano, afferma nel Discorso sulle favole
esopiane del 1792 (83), non aveva maturato le sensazioni e le esperienze
necessarie per poter generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e
proprietà di linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento
di giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero
acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così «la morale dell'infanzia
dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni dal
momento che gli apologhi, se convenientemente scelti, possono giovare non
soltanto ai giovani ma anche a quella parte del popolo che, ancora vittima
dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno stato «più infelice» (84) di
quello dei secoli remoti. Il ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio
del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova stagione politica. Esso
rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione di rotta che «era ormai
tempo che si facesse» (85) e che lo induce a riportarsi, nel giugno di
quell'anno, dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale partenopea
dove farà parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione francese.
Nell'età napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di quello
«spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario ricondurre la
politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica via possibile di
sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro le intemperanze
dei reazionari. Nominato da Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3
giugno 1806), Delfico viene assegnato alla sezione delle Finanze, per poi
passare alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro
presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim il ministero
dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree, per le pensioni,
per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause feudali in
Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la ripartizione dei
demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della Commissione degli
Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due
Sicilie, viene insignito da Murat del titolo di Barone. I numerosi
incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale,
tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni.
Evidente appare il suo debito nei confronti di Cabanis, sostenitore della
sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei
Rapports du physique et du moral de l'homme, l'opera più importante del
filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la sensibilità
imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e
del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni del 1813 e la Memoria su la
perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell'educazione
con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue, l'anno successivo, la
Seconda memoria. Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche sul Bello, pubblicate
a Napoli da Agnello Nobile. Con la restaurazione dei Borboni, nel 1815,
Delfico dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò nonostante, all'indomani
dello scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I gli affida l'incarico di
tradurre la Costituzione spagnola del 1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo
nomina (assieme ad altri 14) membro della Giunta provvisoria di governo,
chiamata a sostituire il Parlamento fino al suo insediamento. Successivamente
sarà uno degli 89 deputati di quel Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre
1820, vivrà solo fino al marzo 1821, quando Ferdinando I chiederà l'intervento
austriaco per porre fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo
governo reazionario. Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti
governativi. Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non
soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si
interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale,
avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese.
Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della
ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede
profilarsi la minaccia di rendere il mondo «stazionario» se non addirittura di
farlo a grandi passi o salti «retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso,
ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non
ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali
ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per Delfico
l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico
pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così,
agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune
dottrine politiche del Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di
confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la
libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni
pregiudizi che si sarebbero formati sotto la sua «potente autorità, senza
tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili
per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o
meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni
positive. Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico
e l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come
un'astratta speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione
contenente una particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo
politico contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti
i costi un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale,
secondo un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in
lui la «viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di
porre fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la
condizione di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la
quale Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli
Stati italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte
le tesi del Segretario fiorentino: «Se si possono giustificare le sue
intenzioni, e la persona» afferma «questo non vale per le sue dottrine» (93).
Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa
proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima
solo attraverso mezzi eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità
di fronte al suo realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la
dissociazione machiavelliana tra etica e politica e il principio che «per
regnar tutto lice» (94). Divergenze emergono anche dal tentativo che
Delfico in seguito compie di ricondurre il pensiero machiavelliano ai tempi
presenti per poi valutarlo sulla base delle proprie convinzioni ed esperienze
storiche, politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte
sono tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali,
come l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza
giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo
e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo antisociale dei
«gentiluomini», di quegli uomini cioè che, «oziosi», vivono dei proventi dei
loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il
merito di aver legato la «questione militare» alla «questione politica», di
aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale
correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati
basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria
«affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte
dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le
condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità Delfico
fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è
concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più
«conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra
rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva
manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde
soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei
diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e
personale. C. torna a Teramo, ma nell'autunno successivo si reca di nuovo
a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino a quando lascia la Capitale per non
farvi più ritorno. Nel capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua
vita, senza mai più allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a
scrivere. Fra i lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di
questi, molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la
memoria Della importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo
studio della filosofia intellettuale, in cui ribadisce la sua concezione
materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico
e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e
tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e
necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla
numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con il
titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso
preliminare su le origini italiche. Non verrà meno neppure il suo impegno
riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal
titolo Fiera franca in Pescara e Breve cenno sul progetto di un porto da
costruirsi alla foce del fiume Pescara, con i quali si prefigge di
rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora poco sviluppata del
Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del commercio,
considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza delle
Provincie», non senza però aver prima creato le condizioni e le strutture
necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la realizzazione di
un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe sensibilmente le
frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di
provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di
importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari abruzzesi
di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato pontificio di
Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia. Tutto ciò non
farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe così
finalmente «divenir attivo e moltiplicare i capitali e far nascere nuove
attività economiche o migliorare e accrescere quelle esistenti. La
creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara
costituisce l'oggetto della riflessione che C. conduce nel Brevecenno. L'idea
che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro, permettendo
infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la determinazione dalla quale
lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità che la creazione di un
porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per l'incremento del commercio e per
lo sviluppo economico in generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo
portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica il
fiume con la foce più ampia e di essere «punto centrale nel litorale degli
Abruzzi», crocevia delle tre principali strade, l'una diretta verso Napoli, le
altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato pontificio, la
seconda verso le province meridionali. Non solo, ma sarebbe anche l'unico porto
ad avvalersi di una «piazza forte» che renderebbe sicuro il trasporto e la
conservazione delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe riacquistare
quell'importanza che aveva avuto un tempo quando era conosciuto con il nome di
Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre strade,
la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi
commerciali. A metà degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo La
vérité sur les cent jours, principalement par rapport à la renaissance projetée
de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles 1825), di
cui uscirà una traduzione italiana incompleta dal titolo Delle cause italiane
nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del
luogo e dell'editore del testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe
stata ordita da alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone
Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il
nome soltanto del conte Luigi Corvetto, «justement regardé comme un des
meilleurs jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les
plus vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al
Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M.
l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, sulle
condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto
servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo
dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte
delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una
partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia. C.
pubblica la lettera Della preferenza de' sessi (105) alla contessa Chiara
Mucciarelli Simonetti in cui riprende i temi della condizione ed emancipazione
della donna affrontati in gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio.
Trascorre gli ultimi anni della vita continuando a coltivare i suoi interessi
intellettuali. A questo periodo risalgono i suoi studi sulla scienza medica
testimoniati da numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il Fondo C. della
Biblioteca Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno
dal titolo Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e
i progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi
Dragonetti, il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo
autore intende «rivederlo. Riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le
regioni del Regno, e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di
Commendatore dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese C.
muore. Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte C.
cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a GENTILE (si veda) dal
ristretto ambito locale, che lo rende un filosofo sostanzialmente sconosciuto,
e proiettato in una dimensione più ampia, nazionale, C. è oggetto di una
diversa considerazione. Una rivalutazione che si determina in coincidenza con
il rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia, e, in
particolare, per alcune esperienze intellettuali e politiche significative
dell'illuminismo. Merito di questa storiografia è quello di aver ricondotto e
legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del
movimento riformatore napoletano. Una lettura che ha privilegiato il C.
riformatore, la sua fase riformistica, contrapponendosi alle rivisitazioni
critiche precedenti, sia della storiografia neo-idealistica che del ventennio
fascista. Llinee interpretative stanno approfondendo altre fasi fondamentali
della biografia intellettuale di C. (alcune delle quali scarsamente
scandagliate), come quella relativa al decennio rivoluzionario o quelle che
contrassegnano la sua evoluzione durante la Restaurazione, da riformatore
nutrito dell'illuminismo napoletano a FILOSOFO della storia e della politica. Nato
in un paesino vicino Teramo, LEOGNANO, dove il genitore, Berardo C., si rifugia
durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Muore a Teramo. Per le
notizie biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-C.,
Della vita e delle opere di C., Angeletti, Teramo, arricchita di un'elencazione
dei saggi editi ed inediti del Nostro, alcuni dei quali successivamente
pubblicati, nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta incompiuta,
l'opera continua sul «Giornale abruzzese di scienze lettere e arti», col titolo
Notizie intorno alle OPINIONI FILOSOFICHE ed alle opere di C. e, sempre sulla stessa rivista, col titolo
Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre Delfico. (2) Molti degli
amici e dei discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre
ai fratelli Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino
Romualdo de Sterlich, Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di
Penne, l'aquilano Giacinto Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano
Giammichele Thaulero e Troiano Odazi di Atri, che succede al Maestro nella
cattedra di economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è stato
definito il «partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo borbonico.
Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto; U. Russo,
Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti 1990, Diaz, Dal movimento
dei lumi al movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna.Sul riformismo borbonico,
cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma; I
Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di M. Di Pinto, Guida, Napoli
1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799, in Storia del Mezzogiorno,
vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizioni del Sole, Roma, e
la sintesi di a. M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in Storia della
società italiana, vol. 12, Il secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano e
la ricca bibliografia in essa contenuta. (5) Lo scritto, dedicato a
Bartolomeo Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più
necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla
Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e del modo di
estirparla di Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli. GENOVESI (si veda), Lettere
accademiche su la questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati
(Napoli), Lettera, Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G.
Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, p. 497. (7) Per una valutazione
dell'influenza di Pietro Giannone sulla cultura napoletana del XVIII secolo
oltre al lavoro sempre valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a
Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto
intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza
civile e religiosa di GIANNONE (si veda), Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro
Giannone e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp.
il contributo di E. Chiosi, La tradizione giannoniana nella seconda metà del
Settecento, Sulla posizione di Genovesi nei confronti dell'autorità temporale e
dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii, GENOVESI (si veda). Dalla politica
economica alla «politica civile», Olschki, Firenze; G. Galasso, LA FILOSOFIA in
soccorso de' governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli Le
due Memorie, dal titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di
Benevento e Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città
d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate a Delfico
dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita,
esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, «Fondo
Delfico», b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio beneventano. La seconda,
invece, fu pubblicata la prima volta su «La Rivista abruzzese di scienze e
lettere» nel 1890 (a. V, fasc. I, pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc.
V-VI, pp. 2), preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del
manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, vol. III,
Fabbri, Teramo 1903, pp. 9-80. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti
delficini (alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti),
esce a Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L.
Savorini. (10) M. Delfico, Del territorio beneventano, Venturi,
Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani,
Ricciardi, Milano-Napoli G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di C.,
C., Memoria autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca
Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Misc. C., Saggio filosofico
sul matrimonio, in Opere complete. Garosci, San Marino. Mito e
storiografia tra i libertini e il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano
Lettera di C. a Dragonetti, in Spigolature nel carteggio letterario e politico
del march. Luigi Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio,
Uffizio della Rassegna Nazionale, Firenze La lettera è stata riedita nelle
Opere complete, M. Delfico, Indizi di morale, in Opere complete, Sull'ambiguità
concettuale di tale espressione cfr. M. Bazzoli, Il pensiero politico
dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia, Firenze, Guerci, L'Europa del
Settecento. Permanenze e mutamenti, Pomba, Torino. C., INDIZI di morale. Per
una ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana
e riformismo napoletano. L'attività di C. presso il Consiglio delle Finanze,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma; L'espressione è ricorrente nella
Relazione di Mons. Luigi Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio, in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano. Cfr. C., Discorso sullo
stabilimento della milizia provinciale, in Opere complete, F. Venturi, Nota
introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori napoletani; Favorevole ad un più
moderno sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica della sua
provincia, Delfico assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento decisamente
contrario alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della
defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane in «Itinerari», C.,
Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo Orsino, Napoli,
Opere complete, C. ammira soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli
1769), poiché in essa l'Autore era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di
Stato genovese con la storia politica dello Stato stesso e a far vedere come la
mancanza di costituzioni e di leggi fondamentali tenesse lo Stato «in continua
rivoluzione» (Elogio di GRIMALDI (si veda), C., Elogio di GRIMALDI (si veda),
Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes,
Oeuvres complètes, Gallimard, Paris. C., Elogio di GRIMALDI (si
veda). Su tale associazione, fondata il 1° maggio 1776 ad Ingolstadt da Adam
Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di Baviera, in Storia della
massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia,
Firenze. Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere
complete di C.; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel
Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten,
Andreasen, Haasse, Leipzig. Due di queste ultime sono state riprodotte in
appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico.
(Studi e ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio»,
Facoltà di Lettere e Filosofia, Chieti, il quale ha pubblicato altre lettere di
Delfico a Münter, assieme ad alcune lettere di Delfico alla sorella del Danese
Federica Brun. Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca
Provinciale di Teramo. C., Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli,Opere
complete. Solari, Studi su PAGANO (si veda), cur. Firpo, Giappichelli, Torino.
Sullo stesso piano l'Autore pone l'altro scritto di Delfico, Memoria sulla
libertà del commercio, e l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di
Cantalupo, pubblicata anonima a Palermo; C., Memoria sul Tribunal della Grascia.
C., Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema
doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788,
ora in Opere complete; C., Discorso sul Tavoliere di Puglia, cit., p. 370.
(38) Il testo è stato pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita di
Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e Sud. La lettera è datata
Teramo, su invito dell'Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi
del problema della libertà di commercio, la Memoria fu stampata la prima volta
nel 1805 a Milano, presso Destefanis, Scrittori classici italiani di economia
politica, cur. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris,
Teramo 1985) con un'introduzione di M. Finoia. Sul problema Delfico tornerà
alcuni anni dopo con il Ragionamento su le carestie, in cui apporta alcune
«modificazioni e moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata
di commercio, auspicando nel mercato l'intervento diretto dello Stato, cui
riconosce il compito di prevenire il «terribile flagello» delle carestie e di
altri simili avvenimenti. Il testo, letto nella Reale Accademia delle Scienze
di Napoli e pubblicato negli Atti, è stato riedito a Teramo assieme alla
Memoria sulla libertà del commercio. Se, dopo varie insistenze,
all'inizio del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima nella Memoria
per il ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, il ripristino a Teramo
di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più agevolmente portati
all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno invece le sue
richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del 1786, sia di istituzione
di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo «fisico» ed orientamento
laico. Sugli sviluppi delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio,
Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera Università Abruzzese degli Studi «G.
D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo, la quale pubblica in
appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le
Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una «piccola» Università a
Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo. La Memoria è pubblicata in
appendice al volume di a. M. Rao, L'«amaro della feudalità». La devoluzione di
Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del '700, Guida, Napoli; C.,
Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, Memoria delficina, rimasta
interrotta e tuttora inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di
Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Ined. In Lombardia Delfico si trattenne
fino al mese di giugno del 1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase
due mesi, e in seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, rientra in patria.
Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di
rinsaldare, cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C.. Opere
complete. L'opera, che provocò subito «molto chiasso», sia per le reazioni
della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più parti, fu
pubblicata a Napoli, presso Porcelli, ristampata a Firenze e Napoli; Ghisalberti,
La giurisprudenza romana nel pensiero di C., in «Rivista italiana per le scienze
giuridiche. C., Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, in
Opere complete. Odazi, nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i
maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del
Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o sia
d'economia civile. Nominato PROFESSORE DI ETICA – non ‘moral philosophy,’ come
a Oxford -- nel Reale convitto della Nunziatella, è chiamato a ricoprire la
cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e rimasta vacante
per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu coinvolto nel
fatti. Arrestato, morì suicida nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di
quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Odazi. La prima vittima
del processo politico in Napoli, in «Archivio storico per le province
napoletane», CROCE (si veda), La rivoluzione napoletana, Laterza, Bari, Sulle
tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C.
Si veda la lettera di Delfico a Fortis da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo
per l'epistolario di C., Rassegna della letteratura italiana. L'ipotesi di una
partecipazione al concorso origina da De Filippis-C., il quale riporta tra le
opere delficine «non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di C., un
opuscolo di 26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito:
Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia,
sia in merito a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella
ricostruzione biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda Carletti, A
proposito di un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di C.
al concorso del 1796, in «Trimestre. Sono le delficine Memoria per la
Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di
Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni
da ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale
per rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte
inedite. (55) Lettera di C. a Fortis in M.G. Riccobono, Contributo per
l'epistolario di Melchiorre Delfico. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria
Pirelli, nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo
di Teramo e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Nella Relazione
risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793 (pubblicata da L. Tossini,
Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane»,
egli era costretto a difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo
Consiglio a causa di «vaghe» e «calunniose imputazioni» di qualche delatore. La
denuncia del '93, pur non avendo gravi conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire
che Delfico succedesse al fratello nella presidenza della Società Patriottica
di Teramo. Una nuova denuncia anonima èall'origine del rifiuto del Supremo
Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. Non
avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con decreto Murat gli avrebbe
conferito quello di barone. Il pretesto è fornito da alcune lettere
«rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da poco licenziata, mentre
faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna avrebbe affermato di
averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli, entrambi
frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la Memoria della
persecuzione subita dalla famiglia C., scritta presumibilmente da Giamberardino
C. «allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro
dei propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel processo contro
«i rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era
stato liberato in seguito all'indulto generale. Il testo è stato pubblicato da
V. Clemente su «Storia e civiltà. L'episodio che portò all'arresto dei C. è a. I
Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre
1798. Arrivano a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi
riconquisteranno la città, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne e Chieti.
Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L.
Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila,
Consorzio Nazionale, Roma. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo
cfr. anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca
degli avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo in L. Coppa-Zuccari,
L'invasione francese negli Abruzzi; G. Tullj, Minuta relazione dei fatti
sanguinosi seguiti in Teramo, con postille e con la continuazione del canonico
Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca inedita
teramana, Storia e Civiltà; C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal 1798
al 1809, Teramo Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a Delfico, i
lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Antonio Madonna, entrò in funzione
subito dopo e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo presidente da
Pescara avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M. Battaglini,
Abruzzo. Una repubblica giacobina, in «Rassegna storica del Risorgimento, La
Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma; Sull'esperienza
pescarese di Delfico, cfr. anche F. Masciangioli, C. e Pescara. Per una
storia del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in
«Trimestre», Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a trovare una
mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G. Carletti,
C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS,
Pisa; Cfr. Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», ora
in La filosofia in soccorso de' governi.Il testo è stato pubblicato da R.
Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi con documenti e
note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti. Senz'altro meno
importante è l'altro atto a firma di C., Proclama sulla sicurezza pubblica del
ventoso anno, con il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere
il vagabondaggio. I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri
scritti delficini da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, Edizioni
Tracce, Pescara. Cfr. la lettera di Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara,
datata 7 germile an. 7 Rep., Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M.
Battaglini, Guida, Napoli. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra,
Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica, e
Per una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista,
Edizioni Città del Sole, Napoli. Per il testo cfr. G. Carletti, C.. Sulla
permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli,
Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda,
San Marino. Cfr. V. CUOCO (si veda), Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco
Sonzogno, Milano. Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete. Il saggio, il cui
titolo originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide la luce
due anni dopo che C. l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali. La
seconda e la terza edizione uscirono a Napoli. C., Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino. Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le
riflessioni sulla storia: Melchiorre Delfico, in «Itinerari», Cfr. GENTILE (si
veda), Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della «Critica», Napoli, il quale
afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto
del Teramano. Un estremo radicalismo nell'«antistoricismo» delficino è stato
rilevato anche da CROCE (si veda), La storiografia in Italia dai cominciamenti
del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia»
e 2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», rielaborati nel
volume Storia della STORIOGRAFIA ITALIANA, Laterza, Bari, e da RUGGIERO (si
veda), Il pensiero politico meridionale, Laterza, Bari. C., Pensieri su
l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, in Opere complete. Il titolo per esteso dell'opera
è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République
française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris. Sull'affinità di vedute
dei due autori, cfr. Rosso, De Volney à C.: l'histoire, une discipline aussi
inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues,
Angers, C. Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima,
Opere complete. Delfico, Pensieri su l'istoria e
sull'incertezza ed inutilità della medesima. Porcelli, Napoli, Epoca. Grimaldi
si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella
Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali
relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata nella
recensione al volume di Grimaldi, Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto
probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis. Per un esame
critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata
dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares,
ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori nella
tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma. Lo scritto, ideato e
posto come prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è
stato pubblicato da A. Marino, in «Aprutium»; C., Discorso sulle favole
esopiane, Lettera ad Onofri, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre
Delfico. Lettere sammarinesi, Arti grafiche Della Balda, San Marino. Sull'attività
del Teramano nell'amministrazione francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre
Delfico e il decennio francese, Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il
quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La
monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene,
Napoli Ora in Opere complete. Ora in Opere complete. Ripubblicate nelle Opere
complete, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di
A. Marroni, Ediars, Pescara. Per un quadro d'insieme dell'attività
amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano,
oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima
edizione, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi,
Torino, cfr. Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV,
t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni. Spunti critici anche in Studi sul
Regno di Napoli nel decennio francese, cur. Lepre, Liguori, Napoli. Rimasto
inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di esso si conservano due
stesure pubblicate da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico,
Solfanelli, Chieti, C., Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del
Segretario fiorentino. Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere di
Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia. Cfr. MACHIAVELLO
[si veda], Discorsi sopra la prima deca di LIVIO [si veda], in Opere, Opere
complete. L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli nel 1826, per
i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della città di Atri
nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche, ora in Opere complete. Pubblicati
nelle Opere complete, i due testi sono stati riediti da Carletti, La Pescara di
C.. C., Breve cenno. C., Fiera franca in Pescara, Breve cenno. Ora, tradotto,
in Opere complete, Rapporto sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a C.
C., Della preferenza de' sessi. Lettera a Simonetti, pubblicata a Siena ed ora
in Opere complete. Cfr. la lettera di Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834,
in Spigolature nel carteggio letterario e politico di Dragonetti. Cfr. G.
Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Per un quadro d'insieme di queste
esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto, Ricuperati, L'Italia del
Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Bari, e la ricca bibliografia
in esso contenuta. Per una ricognizione degli studi delficini, cfr.
Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica della
storiografia delficina, in «Trimestre», Saggio filosofico sul matrimonio, segnato
nell'indice de' libri proibiti, INDIZI di morale, proibito prima di
pubblicarsi. Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale.
TeramoMemoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo Napoli Porcelli Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi . Napoli, presso Orsino Memoria sul tribunale
della grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti
del regno. Napoli presso Porcelli. Memoria sulla necessità di
rendere uniformi i pesi e le misure del regno. I. voi. iti 4 * Napoli
presso Porcelli. Memoria su’ regii stucchi, o sia su la servitù de’
pascoli invernali nelle provincie ma- rittime degli Àpruzzi, Napoli; Discorso
sul tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale
presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea rifor- ma, Napoli; Memoria
per la vendita de’ beni dello Stato d’Atri. I. yol. in 4 * Napoli, stampata
una col reai dispaccio di approvazione. Riflessioni su la vendita de’ feudi
umi- liate a S. R. M. Napoli, presso Porcelli . Ricerche sul vero
carattere della giu- risprudenza romana e de’ suoi cultori, Napoli, presso
Porcelli, ristampato in Firenze ed in Napoli; Lettera di Cantalupo su
feudi, Napoli Memorie storiche della repubblica di San Marino, Milano
dalla tipografia di Francesco Sonzogno . Memorie sulla libertà del
commercio : ( stampate nella Collezione de classici italia- ni di
Economia politica : parte moderna : Milano i Pensieri su la storia e su la
incertezza ed inutilità della medesima, Forlì. Pensieri sopra alcuni
articoli relativi all’ organizzazione de’ tribunali: stamperia reale di
Napoli. Lettera a Selvaggi sulla Tragedia. Pubblicata dal Giornale
enciclopedico di Napoli An. Nuove ricerche sul Bello. Napoli. Ricerche sulla
sensibilità imitativa con- siderata come il principio tìsico della
sociabilità della specie, e del civilizzamento de’ popoli e delle
nazioni ( Memoria letta nella reale Ac- cademia delle scienze di Napoli
il: pubblicata tra gli Aiti della medesima Napoli, insieme alle altre due
seguenti Memorie. Memoiia su la perfettibilità organica considerata come
il principio fisico dell’ educa- zione, con alcune vedute sulla medesima
: Seconda memoria sulla perfettibilità organica
ec. Ragionamento su le carestie, letto nell ’ Accademia delle
Scienze di Napoli, e pubblicato negli Atti della medesima voi. II.
Napoli. Poche idee su V accusa de' ministri . Pubblicate in
uno de' giornali costituzionali di Napoli. Dell* antica numismatica della
città d’ Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le Origini
italiche ed un appendice su’ Pelasgi ed i Tirreni, Teramo, con tavole in rame
.Rischiarimenti ad alcune osservazioni fatte dal Micali su la stessa, e
di una Lettera a Zuroli su le antiche ghiande missili di piombo, Napoli,
dalla tipografia di Angelo Trani : con più tavole in rame .
27 Della preferenza de’ sessi. Lettera a Simonelti. Siena, Ristampata in
Napoli insieme ad alcune poesie del Conte di Longano. Lettera all’ autore
delle Memorie intorno i letterati e gli artisti ascolani. ( Stampa- ta in
fine delle stesse Memorie, Ascoli. Espressioni della parlicolar
riconoscenza della provincia e città di Teramo dovuta alla memoria
dell’ immortai Ferdinando I. Annali civili del regno delle due Sicilie
Inforno a’ dritti sovrani di Napoli sul- la città di Benevento. Memoria. Intorno
a’ diritti sovrani di Napoli sul- la città di Ascoli. Memoria. Lettera a' fratelli sulla eruzione del
Vesuvio Estratto ragionevole del trattato degli animali. Lettere sulla
cavalleria ed i romanzi. Lettera al sig. Michele Torcia sul tratto
di paese che si estende dal Fortore al Tronto. Supplemento alla Memoria
su la gra- scia, per rapporto all' estrazione degli animali vaccini
. Memoria per lo ristabilimento del tri- bunale collegiato nella
provincia di Teramo . Memoria per lo stabilimento d’ una uni-
versità in Teramo. I titoli in carattere corsivo sono per quegli scritti
che 1’autore lasciò senza una denominazione . S’ intende per lo più
di pagine scritte, come si dice, alta spagnola, ossia nella sola metà.
Pel resto si troverà sod- disfacente spiegazione nel prosieguo del libro
. Su' danni de' terremoti in Calabria nel iy 83 . - 0 sii ministro
Corradini sulle maioliche de' Castelli. Lettera. Appendice al discorso sul
Tavoliere di Puglia . Sull’ aumento de' soldi a.' magistrati nel
iygo; Estratto ragionato del Saggio analiti- co su le facoltà dell’ anima
di Bonnet. Seconda Memoria sulla vendita de’beni allodiali. Breve Saggio
su l’ importanza di abo- lire la giurisdizione feudale, e sul modo di
eseguirlo. Supplemento alla Memoria pe’ regii stucchi .Degli Appalti.
Memoria. Per la città di Teramo intorno d beni dell' abolito convento di
Agostino. Memoria per la decima impesta al regno . Memoria intorno a’ danni sofferti nella
provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e
de’ mezzi opportuni da ripararli. Osservazioni su la nuova
monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio
delle provincie confinanti del regno . Discorso sulle Scienze morali, pag.
ira. Novena di San Marino . Intorno all’ imposizione per la caccia, (
Questo ed i selle seguenti scritti si suppongono composti in Napoli dal
Rapporto alla reai società d’ incorag- giamento sul progetto di stabilire
nelle provin- cie del regno altre società simigliatiti, Considerazioni
sul debito pubblico, e su’ beni nazionali relativamente alla legge;
Breve esame dell’ indole delle dogane interne; Rapporto per gli
stabilimenti di uma- nità e di pubblica beneficenza Osservazioni su d’ un
progetto d’ istruzione pubblica Sulla tassa fondiaria . Osservazioni sulle
procedure criminali die si chiamano Nullità. Parere intorno ad un’ opera
del Sig. Biie D. Davide JV'uispeare, intitolata : Storia degli
abusi feudali. Delle cause perchè siano molto scar- si i buoni scrittori
. Opuscolo, Lettera sulla imputabilità
de’ muti. Pochi cenni su’fondamenti delle Scienze morali. Discorso letto nella
reale Accademia delle Scienze di Napoli nel iSlij, e de- stinato a stamparsi
nel voi. III. degli Aiti della medesima, insieme al seguente Opuscolo )
.Sulla necessitò di cangiare i metodi d’ istruzione usati in Europa
. Alla Giunta preparatoria del Parlamen- to nazionale . Allocuzione
. Memoria in favore di alcuni impie-gati destituiti Osservazioni sopra alcune
dottrine po- litiche del Secretano fiorentino. Proposta di alcuui mezzi
economici per supplire agli attuali bisogni dello Stato. Deli’ importanza
di far precedere le co- gnizioni fisiologiche allo studio della filosofia
intellettuale . Discorso ( mandato alla reale Accademia delle Scienze di
Napoli. Elogio in morte della Duchessa di S. Clemente . Lettera al Cav. e
Ferri. Lettera in difesa de' Pensieri sulla Sto- ria e sulla incertezza
ed inutilità della medesi- ma, per risposta alle obiezioni di Amaury D
revai pubblicate nel Mercurio straniero tom . A ( Questa lettera, e tutti
gli altri scritti che seguono nella presente classe furono compo-
sti dopo V ultimo ritorno dell' Autore in Apruzzo ) Sulle origini ed i
progressi delle So- cietà ossia Saggio filosofico sulla storia del
genere umano Proposta di alcune riflessioni sulla filo- sofia medica ed
intellettuale. Opuscolo, Giudizio sulla storia fi losofica di Da - miron.
Lettera. Lettera su cF un manoscritto comuni- cato, riguardante politica.
Due biografie di se stesso; Delle cagioni per le quali il civilizza-
mento non ebbe molti progressi . Opuscolo Sulla perfettibilità. Sulla guerra.
Lettera, pag, 8. 82 Sulla medicina omiopatica . Lettere due.
Sulla dottrina medica di Samuele Hanhemann. Memoria sul riso secco
cinese, Sullo stesso argomento . Lettera al Mse. Tommasi. Sullo stesso
argomento. Lettera polemica. De' confini del regno di Napoli nella linea
del Tronto ; ossia : Sugli antichi confi- ni del regno, Sugli stabilimenti
di beneficenza. Lettere. Élen^UtmlnìxU Catechismo di moral ; civile,
ossia trattato pratico de’ doveri del cittadino. Del dritto naturale
delle genti, ossia della morale delle nazioni, Sistema di ragione e
benevolenza uni- versale. Sull’origine de’ popoli, Sulle Capitali.
Opuscolo, Degli affari fiscali. Memoria. Sulle proprietà. Sugli stabilimenti di
umanità, Deir unione della Ideologia colla Fi- losofia. Dissertazione,
Dell’ eguaglianza de’ diritti delle donne, considerati specialmente nelle
successioni, Distinzione fral merito c la gloria. Dritti politici e
dritti civili, Sul quesito : Quale sia il miglior de governi per
1'Italia? Opuscolo; Ricerche su le teorie fisiche della ragion degli Stati, o
sia de’ veri principi della Politica, Delle leggi e del regimento de’
comu- ni. Sulle leggi forestali. Discorso, Sulla vociferata abolizione
della provincia di Teramo . Memoria. Ricerche su le leggi coniugali,
considerate ne’ rapporti da’ quali devono sorgere, nelle cause
produttrici, e negli efl’etti inorali e civili; Sulla Vita e la Vitalità,
Della specificità in medicina. Pensieri; Osservazioni sull’opera intitolata
De’principi della scienza etimologica. Saggio filosofico su la guerra e su
la pace. Igiene. Fritmmitttt iti Di ciò che si chiama quadro
dello stile. Su ORAZIO (si veda). Critica, Pensieri divèrsi filosofici e
letterarj. Qualche osservazione sull' opera di Neker Sur 1 ’
administration; Del Vesuvio; Del tempo musico e filosofico, Idea d’ una
legislazione, Per le origini civili, Alle nobili fanciulle mie
concittadinc. Prefazione per una raccolta di aneddoti. Sulla Città di
Reggio, Sul travaglio. Progressi dello Spirito - Orgoglio na- zionale -
Viaggiatori - Filosofia - Eccesso di tipografia; Su’ pastori. Saggio
sull’ adulazione (Progetto di un'opera ). Ricerche storico-filosofico-poliliclie
su la nobiltà (Progetto di un'opera ) .Istoria dell’ anima. Sugli ospedali.
Molti pensieri non legati. Progetto d’ un nuovo giornale delle
mode. Notizie su le opere impresse nel pri- mo secolo della stampa, per
ordine alfabetica. Qualche pensiero di dritto pubblico,
Delleraccomandazioni. Articolo morale. Considerazioni su’ magistrati
municipali. Della Solitudine, Qualche osservazione sulle Lezioni di
Filosofia de Laromiguiere. Qualche osservazione sull’ opere fisiologiche di
Spurzheim. Della civiltà, Catechismo universale. Della ragion di stato,
Estratto della politica d’ Aristotile. Morale nelle leggi, Piano di scienze morali. DELL’ origine e SIGNIFICATO
della parola morale, e delle varie applicazioni della medesima Frammenti
diversi sulle Leggi, Osservazioni sulla
risposta di Serbatti ad una lettera del cav. Monti sulla lingua italiana,
Esame de' classici italiani, Su' trecentisti, Romantici Osservazioni sull ’
opera di Lemercier riguardante i teatri, Osservazioni sul passato secolo ad
uti- lità del presente Viste politiche e morali sugli effetti della
rivoluzione Frammenti diversi sugli affari politici L’ obolo della vedova .
All’ Italia Qualche ossen’azione sopra alcune espressioni di Romagnosi.
Rapporto storico su’ progressi delle Scienze naturali, pag. io. A Jannelli.
Dell’uso vero della Storia, Meditazioni d’ un solitario che vive in mezzo
alla società. Sull’Inghilterra. Sopra un libretto che riguarda la
divozione pel Sangue di Gesù-Cristo Miscellanea di cose Jìsiologiche .Miscellanea
di cose economiche .Miscellanea di cose filosòfiche Miscellanea di cose
politiche. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei Marchesi Delfico.
Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords:
giurisprudenza romana, sul bello, estetico, 'l’estetico, l’imitazione della
natura, naturale, contra-naturale, non naturale -- l’espressione. La storia
romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta
della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale
tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool
Library.
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