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Wednesday, January 8, 2025

GRICE ITALO A-Z C CI

 

Grice e Ciliberto: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del principe -- il suo principato– scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese. filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I like Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an interesting way: confronting his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have not explored the irrational, too much – but I suppose Strawson might implicate that everything I say ON reason is an implicature on the irrational – Ciliberto uses the vernacular for the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del pensiero di BRUNO (si veda). Si laurea a Firenze sotto GARIN (si veda) con “MACHIAVELLO (si veda)”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze. Presidente di I. R. I. S. A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di Firenze. Lince. Al centro della sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento con speciale attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica, no-continntale, ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile, Cantimori, Garin); e la filosofia politica e in maniera specifica la crisi della democrazia rappresentativa.  Altre opere: “Il rinascimento. Storia di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari, De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo et Bizzarri); “Come lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La ruota del tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza); Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il dialogo recitato” “Preliminari a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze, Olschki); “La morte di Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I contrari”; “Disincanto e utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); Il teatro della vita (Milano, Mondadori); Il laico Il libero dell'Italia moderna, Roma-Bari, Laterza); Democrazia dispotica – etimologia di dispotismo – (Roma-Bari, Laterza); Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza), Parola, immagine, concetto (Edizioni della Normale, Pisa); Croce e Gentile La cultura italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani,. Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo, neo-umanesimo, classicism, neo-classicismo come ironia (Roma-Bari, Laterza); Pazzia e ragione (Roma-Bari, Laterza); Il sapiente furore (Collana gli Adelphi, Milano, Adelphi) C., Lessico di BRUNO (si veda).  Preludio a MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda)  Mre a dh e im h ol Un TT ‘i 0 annunciato da Imola  dalle legioni   chiavelli ‘Tri T n J | d0n ° d ‘- Una Spada COn inciso U motto di Ma ’  1 Cum parole non si mantengono li Stati. Ciò troncò gli   ndugi e determino senz altro la scelta del tema che oggi sottopongo ? 0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento dell’anno 1924 Il  Principe di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda), al libro che io vorrei cHamare Vade   ZldlZtfìl U °™° dt g0 u m0 * Debbo inoltre ' P er debito di °nestà  Slfia ’ a . 8glU f? e ? e cbe ? uesto mio Wo ha una scarsa biblio-  ftreTdJI VCdra 3 r 8UÌt0 f H ° rilett ° attentame nte il Principe   loe7olnf Z P ? e dd 8rande S, e8r f tari °’ ma mi è mancat0 tem -   po e voionta per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel  Ma chiavelli.Ho voluto mettere il minor numero possi-  velh ^ mt0rmedlari vecchl e nn °vi, italiani e stranieri, tra il Machia-  dottrin, e’l^ non.8 uastare la di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di   n0mmi, e f° Se ’ 3 SU f C k mia pratica di governo. Quella che mi  )t0,\ le Z 8e ™ no « f quindi una fredda dissertazione scolastica  irta di citaziom altrui, è piuttosto un dramma, se può considerarsi  come io credo, m un certo senso drammatico il tentativo di gettare   NorL d te^fo: abisso deUe genera2ioni ° ^ cveuti   La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa c’è an-  cora di vivo nel Prmcipe? I consigli di MACHIAVELLI potrebbero ave-   * Da Gerarchia,  I,i. •>\fruzione del regime  i. iniit t|ualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? II  tl.iic del sistema politico del Principe è circoscritto all’epoca in   > 111 1 11 scritto il saggio, quindi necessariamente limitato e in parte   > I.luco, o non è invece universale e attuale? Specialmente attuale? I i inin tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina  • li MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) è viva oggi piu di quattro secoli fa, poiché se gli  nnpctti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si  h i(io vcrificate profonde varia^ioni nello spirito degli individui e dei  itopoli. ln politica è l’arte di governare gli uomini, cioè di orientare, uti-  li znre, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in  < nin di scopi d’ordine generale che trascendono quasi sempre la  i'iin individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la poli-  lioi, non v’è dubbio che l’elemento fondamentale di essa arte, è  l’iiomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel siste-  inn politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uominl? E egli ottimista o pessimista? E dicendo uomini dobbiamo  Inlcrpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli  Ilnliani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi contempora-  nci o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o  pcr dirla in gergo acquisito sotto la specie della eternità? Mi pare  ilic prima di procedere a un piu analitico esame del sistema di po-  lllica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe,  oecorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene,  t|iicl che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del  Vrincipe, è l’acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della  nntura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di  continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli è uno  Kpregiatore degli uomini e ama presentarceli, come verrò fra poco  documentando, nei loro aspetti piu negativi e mortificanti.   (,li uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, piu affezionati alle cose  chc al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. Nel Principe, Machiavelli così si esprime: perrché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili.imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro bene,  ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi,.piando el bisogno è discosto, ma quando ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel  l>rincipe che si è tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre prepa-  rn/ioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia  mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da uno vincolo di  obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità  (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie  quanto segue. Gli uomini si dolgono piu di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o  padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba  mai. La ragione ò pronta; perche ognuno sa che per la mutazione di uno stato,  uno fratello non può risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere.  E al capitolo terzo dei Discorsi. Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne è prenia  di esempii ogni storia, è necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi  in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbiano sempre a  usare la malignità dell’animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione. Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà  abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione  e di disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani  riportati sono sufficienti per dimostrare cbe il giudizio negativo su-  gli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna  tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi dei pensiero di  Machiavelli. È anche evidente che il Machiavelli, giudicando come  giudicava gl’uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini ma agl’uomini senza limitazione di spazio e di tempi tempo ne e passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei  simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il  giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non  si illude e non illude il Principe. L’antitesi fra Principe e POPOLO,  fra STATO e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico  scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La parola principe deve intendersi come STATO. Nel concetto di Machiavelli il principe è lo stato. Mentre gl’individui tendono, sospinti dai loro  egoismi, all’atonismo sociale, LO STATO rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a evadere continuamente.  Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare  la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi [nelle parole di Urmson – H. P. Grice] — che sacrificano il  proprio io sull’altare dello STATO. Tutti gl’altri sono in istato di rivolta potenziale contro LO STATO. Le rivoluzioni hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di  ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come   hii.i enianazione della libera volontà del POPOLO. C’è una finzione.• tma illusione di piu. Prima di tutto IL POPOLO non è mai definito.   I una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa  iltivc cominci esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di sovrano  applicato a popolo è una tragica burla. II POPOLO tutto al piu, DELEGA, ma non può certo ESERCITARE SOVRANITÀ alcuna. I sistemi rapprenntativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche  nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e  secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda piu nulla al POPOLO, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappnno le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi normali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una rivoluzione o  una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al POPOLO non  resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che  la sovranità elargita graziosamente al POPOLO gli viene sottratta nei  momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria  ainministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? II referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio. Ma quando gl’interessi supremi di un POPOLO sono in giuoco, anche i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del  POPOLO stesso. V’è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dall’Enciclopedia — che pecca, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo — il dissidio fra  forza organizzata dello STATO e il frammentarismo dei singoli e dei  gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti,  non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio  oramai famoso articolo Forza e consenso, Machiavelli scrive nel  Principe. Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro una  cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione.  E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono piu si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, ROMOLO non avrebbero potuto  fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fussino stati disarmati.  IL SINGOLARE SAGGIO SU MACHIAVELLI  DI MUSSOLINI. PRELUDIO DI MUSSOLINI POI FORZA E CONSENSO + NOTA DE SANCTIS  POI UN ARTICOLO SU MACHIAVELLI DI FUSARO CON UN ARTICOLO – Pellegrino. Mangieri ED INFINE ANCHE IL TESTO INTEGRALE DE IL PRINCIPE  PREMESSA: Nell'Europa dei secc. XVI e XVII è strettamente connessa con alcuni nodi centrali della storia del pensiero politico. A parte una serie di revisioni critiche dei giudizi tradizionali fatti da dotti fiorentini nel periodo del granduca Leopoldo, un grosso contributo del movimento riformatore e una rivalutazione del grande fiorentino, lo si deve a G.M. Galanti, autore di un Elogio di MACHIAVELLI. Galanti fa propria quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che già era stata consacrata nell'articolo machiavelisme dell'Encyclopededie (scritto attribuito a Diderot) e nel Contratto sociale di Rousseau (Fingendo di dare lezioni ai re, egli ne ha date di importanti ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro dei repubblicani). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi famosi versi in Dei sepolcri.  Contro questa interpretazione Vincenzo Cuoco, con trasparente riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica, mise in luce il realismo politico di Machiavelli, che aveva indicato in una monarchia o Stato forte, l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i partiti.  Fuori dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi machiavelliche come risposta a una particolare situazione storica e, al tempo stesso, vedevano nell'autore del Principe un precursore dello stato etico che doveva godere di lunga fortuna nello storicismo tedesco.  In Italia nell'età risorgimentale l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna dell'immoralità di Machiavelli e la sua esaltazione come profeta della riscossa nazionale.  Il superamento di tali posizioni si possono considerare le pagine appassionate di Sanctis (saggio che fra breve riporteremo qui integralmente - e che come diremo più avanti fu poi molto (pretestuosamente) utile a Mussolini - leggendolo capiremo perchè).  A De Sanctis, Machiavelli appariva non solo come il profeta dell'idea di nazione ma come fondatore dei tempi moderni, come interprete lucido e impietoso della crisi degli istituti e delle concezioni medievali, e autore di una rivoluzione copernicana nelle considerazioni dell'uomo, che ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi. Poi anche per Benedetto Croce scrisse che l'autore del Principe è lo scopritore della politica come attività autonoma dello spirito.   Entrammo poi nel Ventennio fascista e qui una facile strumentalizzazione di Machiavelli e del suo mito fu fatta da Mussolini che prima un suo articolo lo scrive su Gerarchia, poi cura a prefazione (che chiama PRELUDIO) di una edizione del Principe, adornandola opportunisticamente con il saggio - citato sopra – di Sanctis).  In queste pagine su MACHIAVELLI, è piuttosto singolare che per fornire una comprensione al machiavellismo, andiamo a scomodare MUSSOLINI. Ma singolare non lo è affatto, perchè riusciremo a capire meglio l'opera di Machiavelli ma anche lo stesso Mussolini e il suo Fascismo. In queste tre paginette del preludio, c'è tutto il Mussolini, e c'è anche tutta l'essenza del suo fascismo. Ovvero l'idea di una educazione del POPOLO a un nuovo fascismo !! (prima ve ne sono molti di fasci, creati dai socialisti violenti, che incitano a ribellarsi con i vari scioperi i lavoratori e i contadini). Il curioso, raro e singolare libretto che possediamo lo riportiamo integralmente, perchè all'interno Mussolini fa alcune singolari affermazioni (tutte fascistiche) sulla dubbia validità del potere esercitato dalla sovranità POPOLARE, e sulla stessa utopica democrazia POPOLARE.  Per Mussolini il Principe del suo tempo è LO STATO. E LO STATO è il Principe, cioè - nei tempi moderni - che dopo aver preso il potere doveva essere Lui e solo Lui. (Siamo lontani da quando prima come anarchico poi come socialista - lui esalta il proletariato come futura classe dominante, e fa l'apologia della rivoluzione violenta indicata dalla dottrina di Hegel che presenta nella sua teoria la morte dello Stato. E nell'organizzare gli scioperi, lui è un vero e proprio fascista socialista violento, così chiamano fin dai primi fasci i socialisti violenti. ( ampie note di quei tempi sono QUI in Togliatti E nel farli gli scioperi Mussolini, prima della 1ma G.M. anche lui era un violento socialista, e anda più volte anche in galera come sovversivo. Poi improvvisamente lui diventa inter-ventista nei confronti dei suoi ex socialisti che come ANTI-inter-ventisti si opponeno a quella guerra che diceno voluta dalla più becera borghesia con nessun vataggio per IL POPOLO ANALFABETO chiamato SOLO A DARE IL SUO SANGUE. Segue la famosa rottura di Mussolini con i suoi ex socialisti, uscendo dal giornale Avanti che dirige – ed è poi perfino cacciato dal partito socialista.  Poi durante e dopo la guerra - soprattutto per come finisce il conflitto per l'Italia - lui va a fondare i suoi fasci, cercando di riunire tutti gli scontenti, gli ex soldati, i lavoratori e anche una certa nuova borghesia, che ora guardano a lui che mira a un socialismo sociale e non a quell' eterno conflitto sviluppatisi fra operai e industriali -- soprattutto nelle sciagurate Settimane Rosse. Dove o per i loro scioperi, o per le serrate degli industriali, a pagare sono gl’operai sempre più a spasso, ovviamente senza stipendi e a fare la fame.  La sovranità, al popolo - afferma Mussolini - gli viene lasciata tutto al più solo quando è innocua -- es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la fontana del villaggio. Mentre quando gl’interessi supremi sono in gioco, anche i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo. La sovranità applicata al popolo é una loro tragica burla. Il popolo tutto al più delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. Mussolini inizia a guardare proprio alla forza, che prima è usata dagl’inconcludenti socialisti, proseguita poi in peggio anche dai nuovi comunisti. Ci vediamo in questo suo preludio su Machivelli un opportunistico utilizzo di Mussolini del principe; e come detto sopra, appoggiandosi pure al saggio Sanctis.  Abbiamo detto utilizzo, perchè Machiavelli è stato l'uomo che ha intuito una nuova forma di filosofia umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella collettività, nello STATO, il quale così diventa uno Stato etico. È evidente quindi che in tal modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia del singolo individuo al proprio utile per l'utile generale dello stato, concezione questa che viene a giustificare tutti i mezzi utili allo Stato stesso -- es. usare la forza --  dando origine a quel mito del machiavellismo che è stato via via da alcuni esaltato, mentre da altri ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la personalità del singolo uomo. Insomma Mussolini fa del Principe il suo vademecum. Sbagliando però. La sua storia è poi infatti molto diversa. Lui stesso - nel fidarsi troppo di quella gente che lo circonda - finì molto male e sbaglia proprio sul POPOLO, che alcune volte nella storia con la sua vituperata irrazionalità fa quello che vuole. E suona dunque privo d’effetto quel volerci ricordare Mussolini una massima di Machiavelli. Quando non credono più, bisogna ricorrere alla forza. È questo sì l'espediente del suo Fascismo, forse fin dalla sua nascita, ma poi è perdente. Perchè la sua forza inizia a farla con i suoi imbelli gerarchi e a dire lui solo tante parole, parole, parole, seguite da riti, proclami, dottrine, vangeli -- oltre...le pagliacciate di STARACES. Lui - in questo Preludio - cita due frasi di Machiavelli, ma non ne sa coglierne l'essenza. Cum parole non si mantengono li Stati. Quel Principe che si é tutto fondato sulle parole, trovandosi nudo, rovina --- che profezia!!! E Mussolini nudo si ritrova prima in quel famoso 25 luglio. Lui si aspetta una reazione al suo arresto. Ma fu una realtà molto amara. Ma come, dice preoccupato, mi hanno abbandonato anche i 150.000 arditi, di assoluta provata fede? Si, eccellenza, tutti uccel di bosco - anzi i loro comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi e mettendoli a sua disposizione. Lo aveva abbandonato perfino suo genero: CIANO. Ma poi - perso per strada anche gli altri amici, andò ancora peggio il 27 aprile del '45, quando il popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel fare quello che voleva lo appese a un distributore a Piazzale Loreto.  Non sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti umani che non hanno una razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande storia dell'umanità ci sono anche queste contraddizioni. E sono del resto queste che ci distinguono dagli animali e soprattutto dal capo branco che - illudendosi - li vorrebbe guidare come belanti pecore. I meccanismi politico-sociali ed economici realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli delle formiche, perchè altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le formiche nè gli uomini.  L'individuo umano ha sempre rappresentato un costoso investimento di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al potente di turno disfarsi dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di altro materiale per organizzare lo Stato delle formiche, questo dio che si crede onnipotente, si rende responsabile di una degradazione della natura stessa dell'uomo e che se un essere umano è condannato a svolgere le funzioni limitate della formica, non soltanto cesserà di essere un uomo ma non sara' neppure una buona formica. E ancora (non sempre nell'asservimento (l'azione), la retroazione è controllabile). Questo non è il ragionamento di un filosofo, ma del Padre della Cibernetica moderna (Teorie dell'informazione): Norbert Wiener -      Mussolini usò tante parole. Ma quale fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie avesse accompagnato la civile prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo anche il grande Napoleone: qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse accompagnata la civil prudenza machiavellica  Paradossalmente proprio su Napoleone, Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: lui fallì miseramente perchè aveva creduto troppo negli uomini.  Solo lui credeva di aver capito gli uomini, credendolo suo il popolo: devono solo Credere, Obbedire, Combattere. e Quando mancasse il consenso, c'è la forza...Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o subirli. (Disc. Risposta al Ministero delle Finanze, 7 marzo 1923 - S. e D., vol III, pag 82 E pensare che un Mussolini più razionale aveva scritto un giorno Io grande? Io forte? Io potente? basta un titolo su un giornale e ti ritrovi nella polvere. A Piazzale Loreto andò peggio! Fu un cattivo profeta di se stesso.   * ecco qui sotto il preludio di Mussolini * subito dopo il saggio di F. De Sanctis (datato ma ancora molto attuale) * seguono alcune note sulla vita, le opere e il contesto storico di Machiavelli.    Mussolini:  Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di Imola - il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli Cum parole non si mantengono li Stati. Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo un Commento dell'anno 1924, al Principe di Machiavelli, al libro che io vorrei chiamare: Vademecum per l'uomo di governo. Debbo inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente il Principe e il resto delle opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile di intermediari vecchi o nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me, per non guastare la presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia pratica di governo.   Quella che mi onoro di leggervi non é quindi una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, é piuttosto un dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e degli eventi. Non dirò nulla di nuovo.  La domanda si pone: A quattro secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe é circoscritto all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte caduco, o non é invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli é viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate profonde le variazioni nello spirito degli individui e dei popoli.  Se la politica é l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi d'ordine generale che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento fondamentale di essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna partire.  Che cosa sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E dicendo uomini  dobbiamo interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani che Machiavelli conosceva e pensava come suoi contemporanei o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito sotto la specie della eternità ?  Mi pare che prima di procedere a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare.   Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del Principe, é l'acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli é uno spregiatore degli uomini e ama presentarceli - come verrò fra poco documentando - nei loro aspetti più negativi e mortificanti.  Gli uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime: Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si appressa, e' (essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia temere, perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: Gli uomini si dolgono più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione é pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo podere.   E al Capitolo III dei Discorsi: Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni storia, é necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbino sempre a usare la malignità dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni e di disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I brani riportati sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi del pensiero di Machiavelli.  E' anche evidente che il Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di tempo. Di tempo ne é passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli.   Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo é nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione iniziale.   La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Principe é lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra.   Pochi sono coloro -eroi o santi - che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII eXVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che é alla base di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del popolo.  C'é una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. E' una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna.   I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacce delle sovranità - buone per i tempi normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra.   Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o é reputata tale, cioè nei momenti diordinaria amministrazione.   Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in gioco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla Enciclopedia - che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo - il dissidio fra forza organizzata dello Stato e frammentarismo dei singoli e dei gruppi.  Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai.   Ben prima del mio ormai famoso articolo Forza e consenso (vedi subito sotto) Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32: Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la natura dei popoli é varia ed é facile persuadere loro una cosa, ma é difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono più, si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se lussino (fossero) stati disarmati.  POCHI MESI PRIMA DI QUESTO ARTICOLO SU MACHIAVELLI E SEMPRE SU GERARCHIA MUSSOLINI NEL '23 L'ARTICOLO FORZA E CONSENSO E MERITA DI LEGGERE ANCHE QUESTO ACCENNO CHE LUI FA SU MACHIAVELLI   Mussolini, da Gerarchia. Forza e consenso. Certo liberalismo italiano, che si ritiene unico depositario degli autentici, immortali principi, rassomiglia straordinariamente al socialismo mezzo defunto, poiché anche esso, come quest'ultimo, crede di possedere scientificamente una verità indiscutibile, buona per tutti i tempi, luoghi e situazioni. Qui é l'assurdo. Il liberalismo non é l'ultima parola, non rappresenta la definitiva formula, in tema di arte di governo. Non c'è in quest'arte difficile e delicata, che lavora la piú refrattaria delle materie e in stato di movimento, poiché lavora sui vivi e non sui morti; non c'è nell'arte politica l'unità aristotelica del tempo, del luogo, dell'azione.   Gli uomini sono stati piú o meno fortunatamente governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e il metodo del XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci sono secoli stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità alternata, in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo.  Non é detto che il liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo, cioè, dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza piú della dottrina.  Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale.  Il comunismo e il fascismo sono al di fuori del liberalismo.  Ma insomma, in che cosa consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano oggi tutti i nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di tutti?  Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo Stato e lavorano attivamente per demolirlo?  E' questo il liberalismo?  Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come mezzo deve essere controllato e dominato.   Qui cade il discorso della forza. I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella storia vi fu governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e rinunciasse a qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai stato, non ci sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia in riva al mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun governo é mai esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque soluzione vi accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi della saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti. Se finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a quadrare il circolo.   Posto come assiomatico che qualsiasi provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo eviterete colla forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad abbatterlo.  Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali. Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di libertà.  Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina.   Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e battagliando per una piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi che ritroveranno la primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre invernale.   Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario quando molti dei liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante, non ha oggi ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il fascismo non cade vittima di certi trucchi dozzinali.  Si sappia dunque, una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo piú o meno decomposto della Dea Libertà.  Benito Mussolini, da Gerarchia. SAGGIO DI DESANCTIS  CHE MUSSOLINI VOLLE INCLUDERE scrivendo la nuova edizione de IL PRINCIPE Testo integrale originale (che è comunque un ottimo saggio, proprio utile per capire il ns. passato)  DE SANCTIS: Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in luce l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista, ch'egli stese nell'ultimo canto, dei poeti italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno all'altro. Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisionomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un piacevolone, che se la spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vede nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e in Lorenzo e nel Berni.   Poco agiato nei beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra i tanti stipendiati a Roma o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici, restaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve molto il sostenere le torture, poiché tornarono i Medici.  In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò le sue tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò sui fati dell'antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mentenere le sue indipendenza se non fosse unita, tutta o gran parte, sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi e trarlo di ozio e di miserie.  All'ultimo, poco e male adoperato dei Medici, finì la vita tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli che il nome. Di lui fu scritto: Tanto nomini nullum par elogium.  I suoi Decennali, arida cronaca delle  fatiche d'Italia di dieci anni, scritte in quindici dì; i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro, sotto nome di bestie satira dei degeneri fiorentini; gli altri suoi capitoli dell'Occasione, delle Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori letterari sui quali è impressa le fisionomia di quel tempo: alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso rasenta le prose; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato appaiono le vestigie di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca l'immaginativa: sovrabbonda lo spirito. C è il critico: non c è il poeta, non c è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. C è l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere: Io spero, e lo sperar cresce il tormento; io piango, e il pianger ciba il lasso core;  io rido, e il rider mio non passa drento; io ardo, e l'arsion non par di fuore;  io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento;  ogni cosa mi dà nuovo dolore:  così sperando piango, rido e ardo,  e paura ho di ciò ch'i' odo o guardo. Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come nei Decennali: la voce d'un Cappon tra cento Galli,.....e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De' diavoli o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente la scrittore del Principe e dei Discorsi. Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella età. Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite, nella descrizione della peste e ne' discorsi che mette in bocca ai suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della retorica e gli artifici dello stile; ciò che si chiamava eleganza. Ma nel Principe, nei Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla milizia, nelle Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e ai' periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana.  E' visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel tempo. E aver pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il moro, e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti presso le quali dimoravano. C' era l'arte: mancava la scienza. Lorenzo era l'artista: Machiavelli doveva essere il critico. Firenze era ancora il cuore d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c' era l'immagine della patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura classica, che, fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle memorie gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio e l'immortale resistenza agli eserciti papali-imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore della libertà erano forze morali, tra quella corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal contrasto. Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua coscienza non è vuota. C è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide perduta la libertà, pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici lo strumento della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione, un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità della sua fede.   Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e circondata di una aureola poetica per la forte tempra e la sincerità del patriottismo e l'elevatezza del linguaggio, e per quella sua aria di virilità e di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta, le abitudini plebee e fuori della regola, come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano reputazione. Consapevole della sua grandezza, disprezzava quelle esteriorità delle forme e quei mezzi artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili ai mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre ingrandendo tra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno battagliato le nuove generazioni, nel loro contraddittorio movimento ora indietro ora innanzi. C è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machiavellismo questa dottrina.  Molte difese si sono fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito.  Questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercarvi i fondamenti della sua grandezza. Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che, nella sua spontaneità, dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa sei? dove vai? -  L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di assimilarsi. Sovrastava per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in Europa.   Grave fu lo sgomento negl'italiani quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si abituarono e trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnoli, l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Fin nei campi i sonettisti assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i lazzi di Pietro Aretino.  Gli stranieri guardavano attoniti le meraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia era inchinata e studiata dai suoi devastatori, come la Grecia fu dai romani.  Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia dove altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo  decadenza  egli disse  corruttela, e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto: la corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica. La forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di Caterina, ed ora messa in mostra nei dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che dava sapore alla vita.  La licenza, accompagnata con l'empietà e l'incredulità, aveva a suo principal centro la corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini.  Nondimeno il clero per abito tradizionale tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il pensiero non era più la parola, e la parola non era più l'azione; non c'era armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli. Nessun italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, ai cui allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E nessuno poteva, non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione della coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore di quei baccanali. Non c' era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita seriamente. Pure erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono e agevolarono l'opera del concilio di Trento e la reazione cattolica.  Rifare il medioevo e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una ristaurazione religiosa e morale, era stato il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e purgato nel concilio di Trento. Era il concetto più accessibile alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a' loro mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo, concorse alla sua demolizione.  L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole.  Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento ironico quando parla del medio evo, sopratutto allora che affetta maggior serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In quella negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente. Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un nuovo edificio sociale e politico.  Le idee che generarono quelle istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana. Questo popolo non si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la ricostruzione.  Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui accennare la idea fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello che deve essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia. Da questo concetto della vita, teologico-etico, uscì la Divina commedia e tutta la letteratura del Duecento e del Trecento.  Il simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o nelle universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo, l'universale da cui esce il particolare. Tutto questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti visionari: conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo della luna ariostesco. In teoria c' era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza. Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche. E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.  Nelle scienze naturali non sembra sia molto avanti, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta. Niccolò non è filosofo della natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e prepara Galileo. L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo e non ha la faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora intorno ad uno scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non è contemplazione. Non è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi.   Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua attività : questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli. E' negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco come la contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita.  Combatte l'immaginazione come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha da curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come debbono essere.  Quel dover essere, a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento, deve far luogo all'  essere  o, com'egli dice, alla verità  effettuale. Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione: questa è la base del Machiavelli. Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria. La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della patria. Nel medio evo non c' era il concetto di patria: c' era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio: l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società. Intorno a questi due  Soli  stavano gli astri minori: re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il diritto di rappresentarlo e interpretarlo. E' un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo.  C'era ancora il papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro potenza, non c'era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio: il papa ingrandito di territorio, diminuito di autorità; l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il papa, i gentiluomini e gli avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia. Combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e svolge largamente il concetto di una milizia nazionale. Nel papato temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo. La patria del Machiavelli è naturalmente il Comune libero, libero per sua virtù e non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di tutti. Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de' grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il Comune era destinato anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo Comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare davanti a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano Stati o Nazioni.  Già Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che assicurasse l'  equilibrio  tra i vari Stati e la mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo.  Niccolò propone addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca è il giardino dell'impero; nell'utopia del Machiavelli è la  patria, nazione autonoma e indipendente.  La  patria  del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. Ragion di Stato e salute pubblica erano le formule volgari, nelle quali si esprimeva questo diritto della patria, superiore ad ogni diritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la  patria, ed era non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era suprema lex. Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù.  Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era lo strumento della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato sull'arbitrio di uno solo.   PATRIA era dove tutti concorrevano più o meno al governo e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi repubblica. E dicevasi principato dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo assorbito nella società o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.  Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse e fortificate dalla coltura classica. C è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato. La patria assorbe anche una religione. Uno Stato non può vivere senza una religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perché coi suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della religione.   Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non come istrumenti ma come ostacoli, li spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni principi; ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in quel fondo ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice. Noi, che vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e 'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto divino. Il fondamento delle repubbliche è vox populi, il consenso di tutti. E il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima assicurata dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi. Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno  disarmato il cielo ed effeminato il mondo  e che rendono l'uomo più atto a  sopportare le ingiurie che a vendicarle.  Agere et pati fortia romanum est.  Il cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza della patria.  La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa  forza,  energia, che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle grandi imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari incontri riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la disciplina o, come egli dice,  i buoni ordini e le buone armi, che fanno gagliardi e liberi i popoli. Alla virtù premio è la gloria. Patria,  virtù,  gloria, sono le tre parole sacre, la triplice base di questo mondo. Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono atomi perduti, numerus fruges consumere nati. E parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità o, come dicevasi allora, nel  genere umano, come Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza morale. Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e' passa ad altre nazioni. Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non è la provvidenza e non è la fortuna, ma la  forza delle cose, determinata dalle leggi dello spirito e della na tura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella sua produzione. Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl'interessi degli uomini. La politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini.  La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono. E a governare, quelli che stanno solo a fare i leoni, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli Stati. Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro, diritti e doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico o diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi. Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale o logica, determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto  filosofia della storia. Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non c è nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la storia.  Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E ai contemporanei non parvero nuovi nè audaci, vedendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago. L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo: anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica  miracoli della provvidenza, come preparazione all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalmente alla virtù. Di lui è questo motto profondo:  I buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante c'è il misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è c lassica, il nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quando biasima i suoi tempi, dove  non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione bruttura.   Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti le vestigia di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco.  Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e al naturale. E' in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni.  Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa, morale, politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. E' affermazione, è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un' affermazione. Non è la caduta del mondo: è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi; la razza, la lingua, la storia, i confini.   Tra le repubbliche e i principati spunta già una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli altri e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità: governo che è un presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare. Si veda, fra l'altro, dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi Stati, e sopratutto della Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalità e, come Dante, combatte la confusione de' due reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la profondità dell'ironia.   La religione, ricondotta nella sua sfera spirituale, è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione, come strumento di grandezza nazionale. E' in fondo l'idea di una Chiesa nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai fini e agli interessi della nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia : non è la vita contemplativa, ma la vita attiva.  E perciò la virtù è per lui la vita attiva, vita di azione e in servizio della patria. I suoi santi sono più simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O, per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota. E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e, quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso cogito, nel quale s'inizia la scienza moderna.   E' l'uomo emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti.  Tutto il formolario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte dell'intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali, sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni generali, le  maggiori  del sillogismo, sono capovolte, e compaiono in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del sillogismo hai la serie, cioè a dire concatenazione di fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio: Avendo la città di Firenze... perduta parte di terre del suo imperio, come Pisa e altre terre, fu necessitata a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le occupava era potente, ne seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun risultato: dallo spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite, insofferenze del popolo; e poichè questa guerra era amministrata da una magistratura di dieci cittadini... la moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con loro come se fossero cagione e della guerra e delle spese di essa. Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo intelligente; l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte l'universale, con una serietà ed una sicurezza che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e nell'uomo : non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anche essi fatti intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra nulla.  Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di tutti, com'è quel  ritirare le cose ai loro princìpi, o quell'ironia de'  profeti disarmati, o  gli uomini si stuccano del bene, e del male si affliggono, o  gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli.  Di queste sentenze o pensieri ce ne sono molte raccolte. E sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie.   Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua maggiore e dalle sue idee medie: ciò che dicevasi dimostrazione, se la materia era intellettuale, o  descrizione, se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive e non dimostra; narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo nel secolo della forma, la sola divinità riconosciuta.   Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o bella, ma che la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e perciò del sapere, è il  Nosce te ipsum, la conoscenza del mondo nella sua realtà.  Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto è:  Nil admirari. Non si meraviglia e non si appassiona, perchè comprende; come non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e perciò la diritta: non si distrae e non distrae.   Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti e tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che non curat de minimis, di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo nè voglia di guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli oziosi.  La sua semplicità talora è negligenza, la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze.  La prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto. Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi.   Anche l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza della composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito. Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale, un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico, con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di tutta l'anima. C' era lo scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi  forma letteraria, nella piena indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore.   Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche, comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non c è lo scrittore, o c è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato, anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è - una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro: cose e impressioni, spesso condensate in una parola. Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, di indignazione, di dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua è là venato. E' la grande maniera di Dante che vive là dentro.   Parlando dei mutamenti introdotti dal medio evo nei nomi delle cose e degli uomini, finisce così: Gli uomini ancora, di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono. Qui non c è che il marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari e Pompei il disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento in contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed energico diventarono, che accenna a mutamenti non solo di nomi ma di animi.  Questa prosa, asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto, emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è: un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi fato, non è altro che la logica, il risultato necessario di queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto. Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare - dice Dante. - Bisogna intendere - dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore, l'anima del mondo machiavellico è il cervello.  Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato: non è sentimento morale, ma è semplicemente forzao energia, la tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la forza di operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi quando aveva accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello.  Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo, tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutti i trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non è una storia drammatica.  L'autore non è sulla scena nè dietro la scena, ma è nella sua camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni. E' l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a' moti convulsi e nervosi delle passioni.  Ne' Discorsi ci è maggior vita intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel dir cose che a' volgari sembrano paradossi.  Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di fuori a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel calore della produzione, tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione, come avviene talora anche ai più grandi pensatori. E' l'intelletto pieno di gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò che non è lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri viziosi, perplessità di posizioni: tutto è bandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da una logica inflessibile.  Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice che ti pare superficiale.  Il fondamento dei' Discorsi è questo: che gli uomini  non sanno essere nè in tutto buoni nè in tutto tristi, e perciò non hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà. Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò  stanno  volentieri in sull'ambiguo, e scelgono le vie di mezzo, e seguono le apparenze. C è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile, che lo tiene in continua opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini non sono tranquilli e salgono di un'ambizione a un'altra, e prima si difendono e poi offendono, e più uno ha, più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti. Quello che degli individui, si può dire anche dell'uomo collettivo, come famiglia o classe. Nella società non c' è in fondo che due sole classi: degli  abbienti  e de' non abbienti, de' ricchi e de' poveri. E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha.   Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi quando hanno a fondamento l'  equalità. Perciò libertà non può essere dove sono  gentiluomini  o classi privilegiate. E' chiaro che una scienza o arte politica non è possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli spagnoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il  carattere, cioè quelle forze che muovono individui e popoli o classi ad operare così o così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata, e perciò freschissime e vive anche oggi.  Poiché il carattere umano ha questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtù di conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo. Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa e più osa. Quando la tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue passioni, com'è proprio del volgo. Un'applicazione di questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per frode o per forza tolgono la libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza de' cittadini. Deve mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli: non ingannato da loro, ma ingannando loro. Come stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le buone apparenze, e, non volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare. Sopratutto eviti di rendersi odioso o spregevole. Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna, vi troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è, come natura, sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli si deve domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza.  L'Italia non ti poteva dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni. Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei.  La chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale.  E il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano.Vedasi il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti che siano uscite da un gran cuore, Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole. L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare.   Quando Machiavelli scriveva queste cose, l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con lo straniero in casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciare lo straniero, a tutti puzzava il barbaro dominio; ma erano solo velleità.  E si comprende come il Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella sua radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli glorifica la tempra anche del male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia, intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma. anima sciocca, che per la sua incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica.  Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base della vita l'essere  uomo, iniziando letà virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco, com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo: che si presentava all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa. C' erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli oppressi; ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire, di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello che aveva fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse:  fu naturale ferità di core. -  Lo spirito italiano dunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra gettava la base di una nuova età su questo principio virile: che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo.  Ma in Italia c'era l'intelligenza e non c'era la forza. E si credeva con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta, svegliatissima ma astratta, una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per l'arte. Nella coscienza non c'era più uno scopo nè un contenuto. E quando la coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca, anche nella maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro superiorità intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica e non il coraggio che ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea e risoluti a vivere e a morire per quella.  Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza o, com'egli diceva, corruttela: Qui - scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e nei congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno. Pure l'Italia era corrotta, perchè difettava di forze morali, e perciò di un degno scopo che riempisse di sè la coscienza nazionale. Di lui è questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari nè le fortezze nè i soldati, ma le forze morali o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero era il comento: La... religione, se nei principi della repubblica cristiana si fusse mantenuta secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche più unite e più felici assai ch'elle non sono. Nè si può fare altra maggiore congettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o il flagello. Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese, ma è un dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza: Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi.  Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de' franchi, il regno de' turchi, quello del soldano, e le geste della  setta saracina, e le virtù  de' popoli della Magna al tempo suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la sua virtù. E quando getta l'occhio sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia, di altre città italiane, in tanto fiorire degli Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio di uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale: Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fussero più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto. Ma, essendo la cosa così manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli animi de' giovani, che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo. Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di Dante. Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più indulgente verso i principi: Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano mutarsi... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi. Degli avventurieri De Sanctis scrive:  Il fine della loro virtù è stato che (Italia) è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata dai svizzeri;... tanto che essi hanno condotta Italia schiava e vituperata. Ne è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura  Gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare o di alcun'altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia : ma più perniciosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai stata alcuna repubblica nè alcuno vivere politico, perchè tali generazioni d'uomini sono nemici di ogni civiltà. Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior nemico della civiltà è l'ozio: principio che ha gettato giù i conventi ed ha rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del lavoro dei molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza italiana, poteva ben dire, accennando a Savonarola: Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu lecito pigliare Italia col gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati. Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna o la sfortuna. Anche allora dei mali d'Italia accusavano la mala sorte. Machiavelli scrive: La fortuna... dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi rivolge i suoi impeti dove sa che sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo.  Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di uno solo, a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura: Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo. Di Cesare -scrive un giudizio originale rimasto celebre: Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendo le massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, veda quello che dicono di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto che quello che ha voluto fare un male. Vedasi pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè, non potendo biasimare quello per la sua potenza, essi celebrano il nemico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il mondo abbia con Cesare. Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo: Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di sè una sempiterna infamia. Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l'Italia dalle sue ferite, e ponga fine... a' sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite  E' l'idea tradizionale del redentore o del messia. Anche Dante invocava un messia politico, il veltro.  Se non che, il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero: dove il salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di essa era straniero, barbaro, oltramontano. Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma.  L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile assegnarne le ragioni. Patria,  libertà,  Italia,  buoni ordini,  buone armi, erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione.  Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate dagli interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza.  E per lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi, per bocca dei' loro poeti, signori del mondo e a ricordare le avite glorie.  Odio contro gli stranieri ce n' era, ed anche buona volontà di liberarsene. Ma c'era così poca fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio, per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' di traverso dai suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro. Non è meraviglia che il Machiavelli, con tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d'osservazione, abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura c'è entrato molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a  picca  e a  trie trac : E... nascono mille contese e mille dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano.  Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi: Rinvolto in quella viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse. Vedilo tutto solo per il bosco, con un Petrarca o con un Dante,  libertineggiare  con lo spirito, fantasticare, abbandonalo alle onde dell'immaginazione: Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, e dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro. Quel  trasferirsi in loro, quel  libertineggiare  sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico, entusiastico. C'è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa della  divina commedia  e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco il principe leva la bandiera, grida : - Fuori i barbari! --- a modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione: Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio? E finisce co' versi del Petrarca  Virtù contro al Furore prenderà l'arme, e fia il combatter corto : chè l'antico valore negl'italici cuor non è ancor morto. Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e civile e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte parti ai suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo: è l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta con la sagacia dell'osservazione, lo chiariscono uomo del Risorgimento. De' principi ecclesiastici scrive:  Costoro soli hanno Stati e non li difendono, hanno sudditi e non li governano, e gli Stati per essere indifesi non sono loro tolti, e i sudditi per non essere governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro... Essendo quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo presuntuoso e temerario il discorrerne. In tanta riverenza di parole, non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi nei contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell' osservazione. Dei francesi e spagnuoli scrive: Il francese ruberia con lo alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai ne vedi niente. Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni.  Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di Ferrara; il Cardinale di Bibbiena scriveva per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli. Fu pur troppo nuova cosa - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità, quelli gesti così severi, [simular] parassiti e ciò che fece mai Menandro. Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o intromesse erano le moresche, balli mimici. Le decorazioni magnifiche. Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un tempio... tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie bellissime: finte le finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le cornici d'oro fino e azzurro oltramarino...: figure intorno tonde finte di marmo...: colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In cima dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello atto, che feria con un'asta un nudo che gli era a' piedi.  L'Italia si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura, pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro intromesse, una moresca di Iasòn o Giasone, un carro di Venere, un carro di Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione: La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella scena da un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa bellissima; dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero che alcuni pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A questi s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro; e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono all'entrare, s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa. Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide;.....dice sempre il Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone, rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna, generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia.  Come si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di Lorenzo de’MEDICI (si veda). E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie dette  d'intreccio, sullo stesso stampo delle novelle. A prima vista, ti pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche qui vi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istruito e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina dì lui ma più pratica del mondo. C è già qui un concetto assai più profondo che non in Calandro: si sente il grande pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua patria, risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie?  Scusatelo con questo: che s'ingegna  con questi van pensieri  fare il suo tristo tempo più soave,  perchè altrove non ave  dove voltare il viso;  chè gli è stato interciso mostrar con altre imprese altre virtue,  non sendo premio alle fatiche sue. Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da Bibbiena,  assassinato di amore, e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolanie l'altro la Calandria; e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando; e non udito e non curato, fece come gli altri: scrisse commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali. Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parassito che usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia: il furbo è Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa muovere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li muove. Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere Jago, perchè Nicia non è Otello. E' un volgare mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo di uomo che abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile. Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti riesce volgare e fredda. Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce tutto; ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo ai' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo: ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria. Colui, che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini, è Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè e mettere in vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi lui di vista. Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i deliri. Non è amore petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi, rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte mi assalta tanto desio d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei piè al capo tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira. Ma queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con tanta presunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime scene c' è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e moderno. Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione, così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa dell'altra.  E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente ignudo: scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in poche pennellate è ammirabilmente dipinta. E' una brava donna, ma di poco criterio, e avvezza a pensare col cervello del suo confessore.   Alle ragioni della figliuola risponde: -  Io non ti so dir tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene. - E non si parte mai di là: è la sua idea fissa, la sua sola idea: -  Io t'ho detto e ridicoti che, se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi. - Il confessore sa perfettamente che madre è questa. -... E'... una bestia - dice - e mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia) alle mie voglie.    Il carattere più interessante è fra Timoteo, precursore di Tartufo: meno artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega redde poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno mantenere la reputazione all'immagine miracolosa della Madonna: Io dissi il matutino, lessi una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta, mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si meravigliano poi se la devozione manca... Oh quanto poco cervello è in questi miei frati! Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: colto sul fatto in un dialogo con una sua penitente: pittura di costumi profonda della sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perché in chiesa vale più la sua mercanzia. E' di mediocre levatura, buono a uccellar donne:...Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte le donne hanno poco cervello; e come n'è una che sappia dire due parole, e' se de predica; perché in terra di ciechi chi ha un occhio è signore. Conosce bene i suoi polli: Le più caritative persone che ci siano son le donne, e le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che non c è il miele senza le mosche. Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio, che, promettendo larga lemosina, gli richiede che procuri un aborto, risponde: -  Sia col nome di Dio, si faccia ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa... Datemi... cotesti denari, da poter cominciare a far qualche bene.  - Parla spesso solo, e sì fa il suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che gliene venga utile:  Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che sia segreta, perchè l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento. Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia Dio sa ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio officio, intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi conforto che, quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura. Questo è l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la sua industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e della storia sacra: Io son contenta - conclude Lucrezia; - ma non credo mai esser viva domattina. E il frate risponde: Non dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo misterio, chè si fa sera. Rimanete in pace, padre - dice la madre; e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira Dio m'aiuti e la Nostra Donna ch'io non càpiti male. Quel fatto il frate lo chiama un  misterio, e il mezzano è l' angiol Raffaello  ! Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia faceva invece ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e non vi è rimedio. Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso del Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista.  Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. E' troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più. La depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue non possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia piuttosto un anatomico che snuda le carni e mostra i nervi e i tendini.  Nella sua immaginazione non c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o l'avventuriero o il gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle impressioni.  La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. E' un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il meraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora nell'arte. Si distinsero due specie di commedie : d'intrecci e di caratter. Commedia d'intrecci fu detta dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si cercava l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti.  Commedia di carattere  fu detta dove l'azione è mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La sua commedia è una vera e propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti e non come fini o risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente, fino della più volgare e cinica buffoneria, come è il  don Cuccù, e la  palla di aloè. C'è lì tutto Machiavelli, l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio.  Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta: quella per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua parte più grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale, così vitale che è stata detta il machiavellismo.  Anche oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama patria di Dante e di Savonarola, e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci figli di Machiavelli. Tra il grande uomo e noi c'è il machiavellismo.  E' una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse l'orco. Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato petrarchismo  quello che in lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato machiavellismo  quello che nella sua dottrina è accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno interessante. E' tempo di rintegrare l'immagine.  C'è nel Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto.  La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò ch'egli chiama  virtù : Proporti uno scopo quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. Essere uomo significa marciare allo scopo. Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose come le paiono e non come le sono, a quel modo che fa la plebe.  Cacciar via dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò che riguarda Machiavelli è di vedere se è un uomo: ciò che mira è rifare le radici alla pianta  uomo, in declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione. Si comprende che in questa generalità c'è lezioni per tutti, per ibuoni e per i birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice dei tiranni e agli altri il codice degli uomini liberi.  Ciò che vi s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il resto. Vi s'impara che la storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o individuo, non è degno di questo nome se non sia anche esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di mezzi. Da questa base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio e con mezzi precisi. Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio astratto e ozioso: c'è un contenuto, che abbiamo già delineato ne' tratti essenziali.  La serietà della vita terrestre col suo strumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale, la nazione; col suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale; col suo organismo, lo Stato, autonomo e indipendente; con la disciplina delle forze; con l'equilibrio degl'interessi: ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base la virtù o il carattere:  altere et pati fortia. Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la scolastica : nasce la scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. E' il programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siano dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando crolla alcuna parte dell'antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica alcuna parte del nuovo ! In questo momento che scrivo (1870), le campane suonano a distesa e annunziano l'entrata degl'italiani a Roma. Il potere temporale crolla, e si grida il viva  all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli ! Scrittore non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale, antifeudale, civile, moderno. E quando, stretto dal suo scopo, propone certi mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il mondo è fatto così, la colpa non è mia.  Ciò che è morto del Machiavelli non e il sistema, è la sua esagerazione. La sua patria mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il suo  Stato  non è contento di essere esso autonomo, ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell'uomo. La  ragione di Stato  ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la salute pubblica le sue mannaie.   Fu Stato di guerra, e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la nazionalità. E se chiamate machiavellismo quei mezzi, vogliate chiamare machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono eterni.  Gloria del Machiavelli è il suo programma; e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia indicati de' mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu più facile il biasimarli che sceglierne altri. Dura lex, sed ita lex. Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più tollerati e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli: allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il tradimento, la frode, le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sono più possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e non ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e nell'avvenire. Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche dai nostri tempi. E non è con i criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: - Crudele è la logica della storia; ma quella è.  Nel machiavellismo c'è una parte variabile nella qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato della coltura, alle condizioni morali de' popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in tutto, quando la società sarà radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna, perchè fondata sulle qualità immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo: che i mezzi debbono avere per base l'intelligenza e il calcolo delle forze che muovono gli uomini. E' chiaro che in queste forze c'è l'assoluto e il relativo; e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutti i grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.  Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gli inizi della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico: un mondo fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo. In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. E' l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini, con tutti gli scrittori politici della scuola fiorentina e veneta; poi GALILEI (si veda), con la sua illustre coorte di naturalisti. GUICCIARDINI (si veda), di pochi anni più giovane di Machiavelli e di BUONARROTI (si eda), già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si avvicina ai presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri, e non metterebbe un dito a realizzarli.  Tre cose - scrive - desidero vedere innanzi alla mia morte; ma dubito che io viva molto, da non vederne alcuna: uno vivere in una repubblica bene ordinata nella città nostra; l'Italia liberata da tutti i barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi scellerati preti. Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento del laicato: ecco il programma del Machiavelli, divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte civile europea. Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il ritratto di quella società è il Guicciardini, che scrive:  Conoscere non è mettere in atto. Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fai come ti torna. La regola della vita è  l'interesse proprio, il tuo particulare. Il Guicciardini biasima  l'ambizione, l'avarizia e la mollezza de' preti  e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre  questa caterva di scellerati ai tempi debiti, a restare o senza vizi o senza autorità  ; ma per il suo particulare  è necessitato amare la grandezza de' pontefici e servire ai preti e al dominio temporale.  Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si mescola, lui,  non combatte con la religione nè con le cose che pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa forza nella mente delli sciocchi. Ama la gloria e desidera di fare cose grandi ed eccelse, ma a patto che non sia con suo danno o incomodità. Ama la patria, e, se perisce, gliene duole, non per lei, perchè  così ha a essere, ma per sè,  nato in tempi di tanta infelicità. E' zelante del ben pubblico, ma  non s'ingolfa tanto nello Stato  da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole la libertà, ma, quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè  mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul popolo, e, quando la vada male, ti tocca  la vita spregiata del fuoruscito. Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che  governano non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti. Quelli che altrimenti fanno sono uomini  leggeri. Molti, è vero, gridano  libertà, ma  in quasi tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo. Essendo il mondo fatto così, devi pigliare il mondo com'è, e far in modo che non te ne venga danno, anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini  savi.  La corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era vuota e mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non c'è più il cielo per lui, ma c'è ancora la terra.  Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e desiderabili; ma li ammette sub conditione, a patto che sieno conciliabili col tuo  particulare, come dice, cioè col tuo interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette sè francamente tra questi più, che sono i savi ; gli altri li chiama  pazzi, come furono i fiorentini, che  vollero contro ogni ragione opporsi, quando  i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta, e intende dell'assedio di Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel Guicciardini compare una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita. Il Dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un Dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita. Il Guicciardini si crede più savio del Machiavelli, perché non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso: Quanto si ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionali è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo.  In questo concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede, che non sente rimorso e non mostra la minima esitazione, e guarda con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma  per debolezza di cervello, avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o, come dice il Guicciardini,  ingegno positivo. Perché l'ingegno sia positivo si richiede la  prudenza naturale, la  dottrina  che dà le regole, l'  esperienza  che dà gli esempli, e il  naturale buono, tale cioè che stia al reale e non abbia illusioni. E non basta.   Si richiede anche la  discrezione  o il discernimento, perché è  grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola, perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si trovano scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione. Il vero libro della vita è dunque  il libro della discrezione, a leggere il quale si richiede da natura  buono e perspicace occhio. La dottrina sola non basta, e non è bene  stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di dotti.  L'uomo positivo vede il mondo diverso da quello che  ai volgari  pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura o che non si vedono  e dicono mille pazzie  : perchè in effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagine ha servito e serve più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità. Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli: l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo  speculare  o l'osservare. Nè altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa; e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è più logico e più conseguente. Poichè la base è il mondo com'è, crede un illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo quando esso le ha di asino; e lo piglia com'è, e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè  gli uomini si riscontrano. Stai con chi vince, perchè  te ne viene parte di lode e di premio. Abbi appetito della roba, perchè la ti dà reputazione, e la povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, quando sia il caso di simulare, più facilmente acquisti fede. Sii stretto nello spendere, perchè  più onore ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi. Studia di  parer buono, perchè  il buon nome vale più che molte ricchezze. Non meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i cattivi che i buoni,  credi poco e fidati poco. Questo è il succo dell'arte della vita seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza e sull'interesse individuale. E' il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica, intelligente, e positiva, succeduto ai codici d'amore e alle regole della cavalleria. Ma il Guicciardini, con tutta la sua saggezza, trovò un altro più saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come il Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, il Guicciardini usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia.  Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da da mente italiana. Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro esercizi rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici. I fatti più meravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commuove più di nulla. Non ha simpatie o antipatie, non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi o preconcetti intorno ai risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. E' l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo notate e che in lui sono egregie: la prudenza naturale, la dottrina, l'esperienza, il naturale buono e la discrezione.   Meravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere principi nè regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità, quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro; dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste disposizioni, è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere; e lo studio dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non si vede. Hai innanzi non la sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione: li vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è il carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione sui fatti. Il motivo determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagine non meno degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di re e di corti.  Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà, l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica ad usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che non guardano nel fondo e si lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come strumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li muovono con la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini loro.  Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei Ricordi, ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più raggiunto. Ma GUICCIARDINI (si veda), di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti umani, aveva de' preconcetti in letteratura: opinioni ammesse senza esame, solo perchè ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la tradizione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue prove.  Molti uomini mediocri, quali il Casa e il Castiglione e il Salviati e lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore. La Storia d'Italia comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo storico si può chiamare la  tragedia italiana, perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi passa in potestà dello straniero.   Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui: le arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali della guerra. Avvolto fra tanti  atrocissimi accidenti, sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge.  La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta: questi fatti generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro fisiologia, che li fa essere così o così.  L'uomo vi appare come un essere naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato all'azione da passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque essere vivente dalle sue leggi costitutive.   Considerando l'uomo a questo modo, lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante, perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia: che l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi interni o dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come riuscirà, quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a se stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi poco interessanti, perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno.  Il Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gli individui, ma la società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gli interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo da imparare nelle sue opere.  Indi è che, come carattere morale, il segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine; e, come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis. Nel 1512 quando ormai aveva più di quarant'anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1469, da antica e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e veniva inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico perchè tutta l'attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al servizio del regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva riuscire gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle vittoriose truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi scrittori italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva iniziato la sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa col rogo l'avventura savonaroliana), ottenendo l'incarico di segretario della seconda Cancelleria. Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul piano della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di quegli anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e della nostra indipendenza e lo scontro, sul nostro territorio, delle due nuove potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò numerose volte, tanto da conoscere molto bene la struttura di questo stato e da poter analizzare con precisione le ragioni della forza e del prestigio dei Francesi e, insieme, le cause dei loro insuccessi. Ma non meno importanti furono le esperienze che egli potè fare presso Cesare Borgia, l'inquieto spregiudicato e ambizioso figlio naturale del papa Alessandro VI, che aspirava alla creazione di un forte stato nell'Italia centrale e minacciava direttamente e indirettamente Firenze. Presso il Valentino (così era chiamato il Borgia) Machiavelli si recò due volte nel giugno e nell'ottobre del 1502 in occasione della ribellione della Valle di Chiana contro il dominio fiorentino ( ribellione fomentata dal Valentino stesso ) e da tali legazioni potè trarre argomento di ammirazione per l'energia, l'audacia, le capacità diplomatiche di questo signore molto splendido e magnifico che diverrà poi quasi l'incarnazione del suo principe. D'altra parte egli non fu solo testimone della fortuna del Valentino, ma anche del crollo di tutte le sue ambizioni, perchè, dopo l'improvvisa morte di Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III, fu inviato dal governo fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè assistere all'elezione di Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua  ultima ruina. In quella occasione, e in una successiva legazione nel 1506, il Machiavelli potè anche rendersi conto del temperamento del nuovo papa, dell'energia e del  furore  che lo misero al centro degli avvenimenti politici di quegli anni. Se si aggiunge che il 1507 il nostro segretario si recò in Germania presso la corte imperiale ( rimanendovi per oltre sei mesi ), che nel 1509 assistette alla resa di Pisa e soprattutto, alla disfatta della maggiore potenza italiana, Venezia, e che, dal 1506 in poi, negli intervalli fra una legazione e l'altra, fu incaricato di arruolare e istruire un corpo di truppa cittadina, si vedrà quanto varia e complessa fosse l'esperienza di Machiavelli.  I problemi di fondo della politica europea gli si erano così progressivamente chiariti: la necessità di uno stato unitario moderno, la necessità di truppe non mercenarie, il dramma della divisione italiana e della inettitudine della nostra classe dirigente. Questi problemi egli era già venuto elaborando in una serie di scritti minori : Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini; Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati; Parole da dire sopra la provvisione del denaio fatto in loco di pèroemio e di scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di Firenze in armi; Discorso sopra l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto delle cose della Magna; Ritratto delle cose di Francia; il Decennale primo e il Decennale secondo. E' del tutto comprensibile il cruccio del Machiavelli vedendosi mettere da parte proprio nel momento in cui era giunto alla sua completa maturità e poteva guardare le cose dall' alto di una ricchissima esperienza. Ma i Medici furono inflessibili : in un primo tempo addirittura lo imprigionarono ( e lo torturarono pure ), sospettando che avesse partecipato alla congiura del Boscoli, poi lo tennero inoperoso per quasi otto anni, sino al 1520, e infine gli assegnarono qualche incarico minore : di esprimere un parere a riguardo della costituzione fiorentina ( e lui scrisse il Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze ), di narrare la storia della città ( di qui le Istorie fiorentine ), di andare come ambasciatore presso la  repubblica degli Zoccoli, cioè presso il capitolo dei Frati minori di Carpi.   Solo nel 1526 gli venne affidato un incarico importante : quello di cancelliere dei Procuratori delle mura, preposti alla difesa di Firenze. Ma i Medici vennero di nuovo scacciati e Machiavelli, sospettato anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte. Durante gli anni del suo ozio forzato, Machiavelli si ritira in una villa presso San Casciano. Qui egli passava la giornata a caccia di uccelli, o nella lettura dei poeti latini, o imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste, il mugnaio, il beccaio, o infine standosene sulla porta dell'osteria e scambiando impressioni e notizie coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo studio e leggeva le antiche storie e interrogava gli antichi scrittori: e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E' dalle meditazioni che ispira questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi passanti e i loro vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini dell'antichità, che nascono quasi d'un sol getto le grandi opere machiavelliane: il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di LIVIO (si veda), i dialoghi Dell'arte della guerra, la Vita di Castracani, La Mandragola.  Frequentazione con i vivi e con i morti, abbiamo detto. Ed è questo che fa grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscienza più alta del Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel suo dramma profondo, e non soltanto - come accadeva al Castiglione e al Bembo - nei suoi elementi grandiosi ma statici. Il fatto, cioè, che egli sa stabilire, nello stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che lo circondano. Per lui, rivolgersi all'antico non significa evadere dal presente. Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non sono mai problemi astratti (anche quando sembra che lo siano ), non sono mai problemi che si pongono sul piano delle categorie universali (moralità, utilità, politicità, e così via), ma sono problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una situazione storico-politica concreta, quella dell'Italia nei primi decenni del sec. XVI Per questo non è la scoperta della categoria dell'utile diversa e distinta dalla categoria della morale l'elemento caratterizzante del pensiero machiavelliano: Non già che il problema dell'autonomia della politica, rispetto alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al capitolo del principe dedicato a coloro che per scelleranza sono venuti al Principato con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all'esaltazione del Valentino - ammirato nella sua abilità politica indipendentemente dai suoi delitti - o al capitolo XVIII della stessa opera dove si pone il problema se i principi debbano mantenere gli impegni presi. E se parlando di Agatocle il Machiavelli sembrava ancora oscillare non sentendosela di identificare la virtù - sia pure nella particolare accezione in cui egli usava questo termine di energia e capacità - con le scelleratezze di Agatocle e di altri, qui egli non manifesta più dubbi.   La politica ha alcune leggi che non coincidono sempre con con quella della morale: essere buono può sovente procurare la ruina di un principe, al contrario, mancare di parola, ingannare, assassinare spesso può salvare uno stato. Di qui l'accusa di immoralità che gli venne presto rivolta, e la formula del fine che giustifica i mezzi che gli viene attribuita. In realtà Machiavelli si limita a costatare scientificamente le due sfere diverse in cui agiscono politica e morale. Si rende conto con chiarezza dell'autonomia di una rispetto all'altra, non ne individua il punto di congiunzione. Ma il secondo problema non lo interessava: la realtà effettuale italiana non suggeriva certo un discorso sulla morale. Per questo l'interesse del Principe si accentra tutto, invece, sulla figura del principe nuovo come la sola che possa sciogliere positivamente la complessa trama della crisi italiana: anzi fra l' elogio del Valentino e la condanna di Cesare. Contraddizioni inesistenti se si considera che Il principe poneva soprattutto il problema della creazione di uno stato nuovo nella situazione italiana di quel periodo e i Discorsi pongono soprattutto il problema del mantenimento dello stato, dei suoi ordinamenti migliori. Per la stessa ragione nei Discorsi al popolo si dà un posto che non ha mai nel Principe, fino all'affermazione che il popolo é  più prudente, più stabile e di migliore giudizio che un principe  e che  se i principi sono superiori a' popoli nello ordinare le leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi, i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate. Così Machiavelli può arrivare a una stupefacente scoperta che sembra preludere alle concezioni politiche moderne : che cioè le lotte fra patrizi e plebei non indebolirono Roma, ma le permisero di raggiungere ordinamenti sempre più perfetti. Insomma nei Discorsi l' argomentazione é più distesa e distaccata e può, quindi, abbracciare un campo più vasto anche se meno omogeneo. Così Machiavelli può riprendere il discorso sulla religione non tanto considerandola uno strumento del potere costituito, quanto un costume morale che regola i rapporti civili fra i cittadini come individui privati e, di conseguenza, rende più ordinati e stabiliti i rapporti fra il cittadino e lo stato. Può riprendere anche il discorso sulle milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi, ripudiando in questo modo definitivamente il concetto di città - stato e sostenendo la necessità di uno stato con una larga base territoriale. Tale collegamento alle cose e il carattere di ricerca della sua speculazione si rivelano pienamente  nella prosa e nello stile stesso del segretario fiorentino, in questo tipo nuovo e liberale di prosa  in cui la sintassi  é già consapevole della sua libertà ed individualità  e il  ragionamento a piramide degli scolastici  cede il posto al  ragionamento a catena  della prosa scientifica moderna. Il lettore ha costantemente l' impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare a un laborioso processo di ricerca, irto di dubbi e di contraddizioni. La prosa del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che squaderna agli occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era in possesso ; essa piuttosto sollecita a provoca il lettore, cui si rivolge, di frequente, con un  tu  perentorio e aggressivo, a farsi compagno e sodale del suo autore, lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze di questo. In tal senso la prosa di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) é eminentemente moderna. E quando d' improvviso il periodare serrato e incalzante del segretario fiorentino s' impenna e si apre in una di quelle rappresentazioni o formule condensate e chiarissime che sono tipiche della sua opera, il lettore ha la sensazione di assistere al germinare di un' intuizione nuova preparata e resa possibile da un lungo e penoso lavoro intellettuale, si sente partecipe della gioia della scoperta e, al tempo stesso, stupito della semplicità rivoluzionario della medesima. Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una realtà mortificante, la  ruina d' Italia, nelle sue istituzioni comunali o signorili, nei costumi dei suoi principi, nell' avvilimento del popolo. Di qui il pessimismo della sua intelligenza, quel contemplare distaccato e disgustare un mondo sordido e canagliesco, impastato di bassi appetiti, di astuzie meschine, di stupidità e di ingordigia che sta al fondo della Mandragola, il capolavoro del teatro del '500. Egli, però, ha compreso l' importanza delle grandi formazioni di stati unitari verificatisi in Europa, sa che in questa direzione si muove la storia e il progresso ed é consapevole che il grande patrimonio della civiltà italiana potrebbe esprimere il principe capace di imprimere un suggello su quella materia informe e corrotta. Machiavelli non è un puro teorico, inteso a costruire freddamente una teoria politica per così dire  in laboratorio : le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con la realtà storica, in cui egli é impegnato in prima persona grazie agli incarichi che ricopre nella Repubblica fiorentina, e mirano a loro volta ad incidere in quella realtà, modificandola secondo determinate prospettive. Il suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi : la teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa. Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che l' Italia contemporanea sta attraversando : una crisi politica, in quanto l' Italia non presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e cittadini deboli e instabili ; crisi militare, in quanto si fonda ancora su milizie mercenarie e compagnie di ventura, anzichè su eserciti  cittadini, che soli possono garantire la fedeltà, l' ubbidienza, la serietà di impegno ; ma anche crisi morale, perchè sono scomparsi, o comunque si sono molto affievoliti, tutti quei valori che danno fondamento saldo ad un vivere civile, e che per Machiavelli sono rappresentati esemplarmente dall' antica Roma, l' amore per la patria, il senso civico, lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico, l' orgoglio e il senso dell' onore, e sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e rinunciatario, che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio mutevole della fortuna, senza reagire e senza lottare.  Perciò, come hanno dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei Francesi, gli Stati italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a divenire satelliti delle potenze europee che si stanno disputando il territorio della penisola. Per Machiavelli l' unica via d' uscita da una così straordinaria  gravità de' tempi  é un principe dalla straordinaria virtù capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle genti italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini. A questo obiettivo storicamente concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica di Machiavelli, la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio paese. Ignorare queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano porterebbe a travisarne completamente il senso. Tuttavia quel pensiero non resta limitato a quel campo così contingente, poichè altrimenti non avrebbe la forza di sollecitare ancora tanto interesse : partendo da quella situazione particolare, cercando di dare una risposta immediata ed efficace a quei problemi di traumatica urgenza, Machiavelli elabora una teoria che aspira ad avere una portata universale, a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e tutti i luoghi. Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore, quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere uno straordinario valore letterario, ma poi la sua speculazione assume anche la fisionomia di una vera teoria scientifica. Concordemente Machiavelli é stato definito come il fondatore della moderna scienza politica: innanzitutto egli determina nettamente il campo di questa scienza, distinguendolo da quello di altre discipline che si occupano ugualmente dell' agire dell' uomo, come l' etica. Machiavelli, poi, rivendica vigorosamente l' autonomia del campo dell' azione politica : essa possiede delle proprie leggi specifiche, e l' agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi : occorre cioè, nell' analisi dell' operato di un principe, valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica, rafforzare e mantenere lo Stato, garantire il bene dei cittadini. Ogni altro criterio, se il sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele, se sia stato fedele o abbia mancato alla parola data, non é pertinente alla valutazione politica del suo operato. E' una teoria di sconvolgente novità, veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale.  Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella politica, non di delineare degli Stati ideali  che non si sono mai visti essere in vero. Proclama infatti di voler andar dietro alla verità effettuale della cosa anzichè all'immaginazione di essa, proprio perchè non gli interessa mettere insieme una bella costruzione teorica, ma scrivere un' opera  utile a chi la intenda, fornire uno strumento concettuale di immediata applicabilità alla politica reale e di sicura efficacia. Oltre al campo autonomo su cui applica la nuova scienza, Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo. Esso ha il suo principio fondamentale nell' aderenza alla  verità effettuale: proprio perchè vuole agire sulla realtà ne deve tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica parte sempre dall' indagine sulla realtà concreta, empiricamente verificabile, mai da assiomi universali e astratti. Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può poi giungere a costruire principi generali. L' esperienza per Machiavelli può essere di due tipi : quella diretta, ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti, e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi.  Machiavelli le definisce ( nella dedica del Principe ) rispettivamente  esperienza delle cose moderne  e  lezione delle antique. In realtà si tratta solo apparentemente di due forme diverse perchè studiare il comportamento di un politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa, cambia solo il veicolo della trasmissione dei dati, dell' informazione su cui lavorare, ma il contenuto é lo stesso. Alla base di questo modo di accostarsi alla storia vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é convinto che l' uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i suoi comportamenti non variino nel tempo, come non variano il corso del sole e delle stelle. Per questo ha fiducia nel fatto che, studiando il comportamento umano attraverso le fonti storiche o l' esperienza diretta, si possa arrivare a formulare delle vere e proprie leggi di validità universale. Proprio per questo la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la prova che il comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi può essere di modello. Per lui gl’uomini  camminano sempre per vie battute da altri, perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell' imitazione : Machiavelli nota che ai suoi tempi l' imitazione degli antichi é pratica costante nelle arti figurative, nella medicina, nel diritto e depreca quindi che lo stesso non avvenga nella politica. Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell' agire politico, che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente e quindi sappia suggerire le sicure linee di condotta statistica. Il punto di partenza per la formulazione di tali leggi é una visione crudamente pessimistica dell' uomo come essere morale : l' uomo agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne teorizza filosoficamente le cause, non indaga se lo sia per natura o in conseguenza ad una colpa originariamente commessa, ma si limita a constatare empiricamente gli effetti della sua malvagità sulla realtà. Gli uomini sono  ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno  e dimenticano più facilmente l' uccisione del padre che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l' interesse materiale e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili. Tra tanti uomini malvagi il principe non deve nè può  fare in tutte le parti la professione di buono  perchè andrebbe incontro alla rovina : deve anche sapere essere  non buono  laddove lo richiedano le necessità dello Stato. Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un centauro, ossia un essere metà uomo e metà animale, deve cioè essere umano o feroce come una bestia a seconda delle situazioni.   Tuttavia Machiavelli sa bene come il venir meno alla parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente é malvagio in politica diventa buono, perchè uccide per difendere lo Stato e le sue istituzioni ; allo stesso modo i buoni moralmente sarebbero cattivi  politicamente perchè non uccidendo e non compiendo azioni malvagie lascerebbe perire lo Stato. Machiavelli quindi non é il fondatore di una nuova morale, anzi, moralmente parlando é un tradizionalista e considera cattivo chi uccide o non mantiene la parola data ; egli semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su altri criteri, non il bene o il male, ma l' utile o il danno politico. E' interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene, in favore dello Stato ; tiranno, invece, é chi li usa senza che ci sia necessità. E' solo lo Stato che può costituire un rimedio alla malvagità dell' uomo, al suo egoismo che disgregherebbe ogni comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle altre.  Per quel che riguarda il rapporto con la religione, a Machiavelli non interessa nella sua prospettiva concettuale, come contenuto di verità, nè tanto meno nella sua dimensione spirituale, come garanzia di salvezza, ma solo ed esclusivamente come  instrumentum regni, ossia come strumento di governo. La religione, in quanto fede in certi principi comuni, obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere la parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva già ai tempi degli antichi Romani, secondo Machiavelli. Tuttavia nei Discorsi Machiavelli muove anche un biasimo alla religione, accusandola di essere spesso stata colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati, di far sì che essi svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo. La forma di governo che meglio compendia in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella repubblicana, che argina e disciplina le forze anarchiche dell' uomo. Il principato é per Machiavelli una forma d' eccezione e transitoria, indispensabile solo in certi momenti, come quello che l' Italia sta vivendo ai suoi tempi, per costruire uno Stato sufficientemente saldo. La forma repubblicana é la migliore perchè non si fonda su un solo uomo, ma ha istituzioni stabili e durature. Dall' esilio dell' Albergaccio, Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto un  opuscolo de principatibus, in cui si trattava  che cosa é principato, di quale spetie sono, come e' si mantengono, perchè e' si perdono. L' indicazione fissa il momento in cui l' opera può dirsi compiuta, ma lascia aperti altri problemi di datazione : in quale periodo sia stata composta, se sia stata scritta unitariamente o in fasi diverse e soprattutto quali siano i rapporti che legano ai Discorsi sopra la prima deca di LIVIO (si veda). Oggi gli studiosi tendono a collocare la composizione in una stesura di getto, mentre si ritiene che posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo de' MEDICI (si veda) e probabilmente anche il capitolo finale che, nel suo carattere di appassionata esortazione a liberare l' Italia dai  barbari, sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto del trattato. Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é pensato che la stesura di tale opera sia iniziata precedentemente e sia stata interrotta nel luglio per far posto alla composizione del trattatello, che rispondeva a bisogni di maggiore urgenza, agganciandosi direttamente ai problemi attuali della situazione italiana. Il principe é un' operetta molto breve, scritta in forma concisa e incalzante, ma densissima di pensiero. Si articola in 26 capitoli, di lunghezza variabile, che recano dei titoli in latino come è usanza dell' epoca. La materia é divisa in diverse sezioni. Esamina i vari tipi di principato e mirano a individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di mantenerlo, conferendogli forza e stabilità. Machiavelli distingue tra principati ereditari ( a cui é dedicato il capitolo II ) e nuovi ; questi ultimi a loro volta possono essere misti, aggiunti come membri allo Stato ereditario di un principe o del tutto nuovi; a loro volta questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie, oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui ( capitolo VII, in cui si propone come esempio il duca Valentino ). Tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze, e qui Machiavelli distingue tra la crudeltà  bene e male usata  : la prima é quella impiegata solo per stati di assoluta necessità e che si converte nella maggiore utilità possibile per i sudditi ; male usata invece é quella che cresce con il tempo anzichè cessare ed é compiuta per l' esclusivo vantaggio del tiranno.  Machiavelli affronta il principato  civile, in cui cioè il principe riceve potere dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei principati e nell' XI si tratta dei principati ecclesiastici, in cui il potere é detenuto dall' autorità religiosa, come nel caso dello Stato della Chiesa. I capitoli XII - XIV sono dedicati al problema delle milizie : Machiavelli giudica negativamente l' uso degli eserciti mercenari ( cosa che per altro aveva fatto già Petrarca ), abituale nell' Italia del tempo, perchè essi combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte subite nelle recenti guerre ; di conseguenza, per lui, la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi, che combattano per difendere i loro averi e la loro vita stessa. Machiavelli tratta dei modi di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici. E' questa la parte in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente é più radicale e polemico, in cui Machiavelli, anzichè esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe va dietro alla  verità effettuale della cosa  : poichè gli uomini sono malvagi, avidi, mancatori della fede e violenti, il principe che é costretto ad agire tra loro non può seguire in tutto le leggi morali, ma deve imparare anche ad essere  non buono, dove le circostanze lo esigano ; deve guardare al fine, che é vincere e mantenere lo Stato: i mezzi se vincerà saranno sempre considerati onorevoli. Sono questi i capitoli che hanno immediatamente suscitato più scalpore, ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l' esecrazione e la condanna. Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani, nella crisi (il crollo della libertà italiana ) hanno perso i loro Stati. La causa per lo scrittore é essenzialmente l'  ignavia  dei principi, che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava ( solo Savonarola aveva avuto l' intuizione ) e porvi i necessari ripari. Di qui scaturisce naturalmente l' argomento, il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la capacità, che deve essere propria del politico, di porre argini alle variazioni della fortuna, paragonata a un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati. L' ultimo capitolo é, come accennato, un' appassionata esortazione ad un principe nuovo, accorto ed energico, che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l' Italia dai barbari. (il testo sopra è di F. - visitate il suo sito di filosofia ).filosofico. Pellegrino. Mangieri  IL PENSIERO POLITICO DI MACHIAVELLI OPPURE SE L'AVETE GIA LETTA  ANDIAMO ALLORA DIRETTAMENTE ALL'OPERA INTEGRALE   IL PRINCIPE. STORIOLOGIA. Grice: When I created Deutero-Esperanto, I felt like the principato senza il principe! --. Michele Ciliberto. Keywords: il principe, intelletuale fascista, lessico, lessico di Bruno, lessico di grice, lessico filosofico europeo, umbra profunda, implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il libero, despotismo, immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto su studi sul rinascimento, la tradizione italiana, la tradizione filosofica italiana, democrazia rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e Ciliberto sulla rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi costituenti. Il barone della camera alta del parlamento, parlamento ed implicamento, il team di cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra quello che Inghilterra non puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool Library. Ciliberto.

 

Grice e Cilone: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). According to Giamblico. C. seeks to join the circle of Pythagoras. He is rejected because Pythagoras sees in him a tendency to violence and tyranny. In response, C. leads the people of Crotone in a campaign against the sect -- as a result of which Pythagoras has to decamp to Metaponto. “At least he left with his judgment vindicated – Pythagoras did.” Archita said. Cilone.

 

Grice e Cimatti: l’implicatura conversazinale del pooh-pooh and other products -- il non-naturale -- fondamenti naturali della comunicazione – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Cimatti – for one, he develops a biological semiotics, and he takes seriously the issue that man IS an animal -- -- and has thus philosophised on animality!” Si laureato sotto Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna ad Arcavacata di Rende. Altre opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale e Librario); “La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell'animale umano” (Bollati Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita. Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il volto e la parola. Per una psicologia dell'apparenza, Quodlibet,  Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni” (Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens,, ombre corte, Filosofia della psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio e pulsione di morte, Quodlibet);  Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot, La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata); “La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet­ te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali, questi ultimi essendo, per altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione di "voce" (phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono può essere definito una "voce" quando è emesso da un es­sere animato ed è dotato di significato -- se­mantikos. Ora, un suono emesso da un ani­male non umano, per quanto definito psophos (''rumore" – cf. gemito, riso, pianto), ha tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalla voce emessa da un uomo sono due fattori: non è “convenzionale” -- e di conseguenza non può essere né simbolo né nome -- ma è "per na­ tura" (De int.); ed è “a-grammatos”, cioè "inarticolabile" o "non combinabile" (Pot.). La nozione di combinabilità, del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue, è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici -- adiafretoi, "invisibili" -- possono articolarsi in uni­tà più grandi dotate di significato. L’animale non umano, invece, emette solo un suono indivisibile, ma non combinabili (Pot). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­guaggio umano in contrapposizione al suono emesso dall’animale non umano, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi indivisibili combinabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di significato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità del suono emesso dall’animale non umano è espresse dal verbo dlofìsi (''rivela­no", De int.), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del suono da un animale, torna di nuovo in pri­mo piano il carattere SEMIOTICO – SEMANTICO d'una espressione. Il suono dell’animale è SINTOMO che rivela la loro causa. IDel resto, l'opposizione convenzionale/naturale permet­te di distinguere anche tra il linguaggio umano e il suono (vox, Grice’s ‘sound’, ‘groan’) emesso dall’animale, questo ultimo essendo, per altro, ugualmente vocale (vox, vocatum, ‘sound’ – the characterization of a product, groan) e interpretabile. Già la nozione di "voce" (phone, vox – cf. Grice’s ‘sound’ ‘characterisation of a product’, groan) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono – cf. il ‘sound’ di Grice – ‘I shall use utterance to include the characterization of a product (e.g. a sound)] può essere definito una "voce" [phone, vox] quando: (i) sia emesso da un es­sere animato (II); (ii) sia dotato di significato (semantikos) (Il, 420 b, 29-33). Ora, un suono emesso da un ani­male, per quanto definito psophos (''rumore"), ha tutta­via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalls voce emesse dagli uomini sono due fattori: (i) il suono no e convenzionale (e di conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma è "per na­tura" phusei (De int., 16 a, 26-30); (ii) e ‘a-grammatos,’ cioè "in-articolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Poet., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, il cui suono (‘sound’) semplice (“a-diafretos”, ‘in-divisibile’) puo articolarsi in uni­tà più grandi dotate di significato. L’animale, invece, emette solo un suono (Grice’s ‘sound’) in-divisibili, ma non combinabili (Poet., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri di una lingua come il inglese lin­guaggio umano in contrapposizione al repertorio di suoni emessi da un animali, attraverso uno schema. Lnguaggio umano, e. g. Deutero-Esperanto: I. per convenzione, or decisione. II. Formato di questo o quello elemento in-divisibile ma combinabile e questo o quello elemento divisibili – fonema, lettere (cfr. Grice: utterer’s meaning, sentence-meaning, word-meaning – below the word – meaning), di questo o quello elemento dotato di significato - simbolo – nome. Questo o quello suono di questo o quello animale: I. per natura. II. Elemento in-divisibili MA non combinabili - non lettere – elemento che rivela o manifesta (deloflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità di un suono emessi da un animali è espressa dal verbo delofìsi (''rivela­re", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o la decisione razionale (Deutero-Esperanto), come nel caso del repertorio comunicativo di un animale, torna di nuovo in pri­mo piano il carattere semiotico d'una espressione. Il suono (voce, rumore) di un animale e un sintomo o effeto che rivela naturalmente la sua causa – una affettazione dell’anima. The Bow-Wow Theory. According to the bow-bow theory theory, language began when our ancestors started imitating the natural sounds around them. The first speech was onomatopoeic—marked by echoic words such as moo, meow, splash, cuckoo, and bang.   What's wrong with this theory?  Relatively few words are onomatopoeic, and these words vary from one language to another. For instance, a dog's bark is heard as au au in Brazil, ham ham in Albania, and wang, wang in China. In addition, many onomatopoeic words are of recent origin, and not all are derived from natural sounds.   The Ding-Dong Theory  The ding-dong theory, favoured by Plato and Pythagoras, maintains that speech arose in response to the essential qualities of objects in the environment. The original sounds people made were supposedly in harmony with the world around them.  What's wrong with this theory?  Apart from some rare instances of sound symbolism, there is no persuasive evidence, in any language, of an innate connection between sound and meaning.  The La-La Theory  The Danish linguist Otto Jespersen put forward the la-la theory. He suggests that language may have developed from sounds associated with love, play, and (especially) song.  What's wrong with this theory?  As David Crystal notes in "How Language Works" (Penguin, 2005), this theory still fails to account for "... the gap between the emotional and the rational aspects of speech expression...."  The Pooh-Pooh Theory  The pooh-pooh theory holds that speech begins with an interjection – a spontaneous cry or GROAN of (naturally meaning) pain ("Ouch!"), surprise ("Oh!"), and other emotions ("Yabba dabba do!").  What's wrong with this theory?  No language contains very many interjections, and, Crystal points out, "the clicks, intakes of breath, and other noises which are used in this way bear little relationship to the vowels and consonants found in phonology."  The Yo-He-Ho Theory  According to the yo-he-ho theory, language evolves from the grunt, the groan, and a snort evoked by heavy physical labour.  What's wrong with this theory?  Though this notion may account for some of the rhythmic features of the language, it doesn't go very far in explaining where words come from.  Wikipedia Ricerca Origine del linguaggio umano come, dove, quando e perché è nato il linguaggio Lingua Segui Modifica L'origine del linguaggio umano è un argomento che ha attratto una considerevole attenzione nel corso della storia dell'uomo. L'uso della lingua è uno dei tratti più cospicui che distingue l'Homo sapiens da altre specie. A differenza della scrittura, l'oralità non lascia tracce evidenti della sua natura o della sua stessa esistenza, perciò, i linguisti devono ricorrere a metodi indiretti per decifrare le sue origini.   Secondo la Genesi, la grande varietà di lingue umane si originò dalla Torre di Babele con la confusione delle lingue (immagine dalla Bibbia illustrata di Gustave Doré). I linguisti si trovano d'accordo che non ci sono lingue primitive esistenti, e che tutte le popolazioni umane moderne usano lingue di simile complessità[senza fonte]. Mentre le lingue esistenti si differenziano nei termini della grandezza e dei temi del proprio lessico, tutte possiedono la grammatica e la sintassi necessarie, e possono inventare, tradurre e prendere in prestito il vocabolario necessario per esprimere l'intera gamma dei concetti che i parlanti vogliono esprimere[1][2]. Tutti gli esseri umani possiedono abilità linguistiche simili e relative strutture biologiche preposte innate, ma nessun bambino nasce con una predisposizione biologica ad imparare una data lingua invece di un'altra[3].   Le lingue umane potrebbero essere emerse con la transizione al comportamento umano moderno circa 164 000 anni fa (Paleolitico superiore). Una supposizione comune è che il comportamento umano moderno e l'emergere della lingua siano coincisi e fossero dipendenti l'uno dall'altro, mentre altri spostano indietro nel tempo lo sviluppo della lingua a circa 200 000 anni fa, al momento in cui apparvero le prime forme di Homo sapiens arcaico (Paleolitico medio), o addirittura al Paleolitico inferiore, a circa 500 000 anni fa. Tale questione dipende dal punto di vista sulle abilità comunicative dell'Homo neanderthalensis. In tutti i casi, è necessario presumere un lungo stadio di pre-lingua, tra le forme di comunicazione dei primati superiori e la lingua umana completamente sviluppata.  L’origine del linguaggio negli studi di Schelling e GrimmModifica Il problema dell’origine del linguaggio fu una tematica fondamentale del Romanticismo. Schelling (filosofo dell’idealismo) e J. Grimm (glottologo, grammatico e autore di fiabe insieme al fratello) sono due autori che hanno due posizioni differenti sull’origine del linguaggio. Schelling, nel suo testo, parla di tre ipotesi fondamentali:  Ipotesi teologica, secondo la quale il linguaggio ha origine divina e viene tramandato di generazione in generazione. Ipotesi istinto-naturalistica, secondo la quale il linguaggio ha avuto origine grazie all’istinto, che è una qualità innata dell’uomo. Ipotesi secondo la quale l’uomo ha imparato a parlare progressivamente: partendo, cioè, dall’urlo e dai gesti, l’uomo è andato a mano a mano costruendo il linguaggio. Il testo di Schelling rimane però indefinito, non arriva cioè ad una conclusione. Il testo di Grimm[5] è stato scritto in contrapposizione al testo di Schelling: egli parte nell’analizzare l’ipotesi teologica, suddividendola in due sottoipotesi, una secondo cui il linguaggio è stato creato insieme alla creazione dell’uomo ed una quella secondo la quale il linguaggio è successivo alla creazione dell’uomo. Entrambe fanno comunque giungere alla conclusione che la lingua appartiene solo alla specie umana e che il linguaggio sia una conquista dell’uomo. La lingua è una conseguenza del pensiero ed inizia nei bambini insieme ad esso[6]. Inoltre, Grimm analizza il linguaggio nella sua evoluzione, suddividendolo in tre stadi: il primo stadio è quello delle prime produzioni vocali, formate da una sillaba. Nel secondo stadio vi è il passaggio dai monosillabi a parole composte da più sillabe e la composizione del linguaggio non è più causale, ma ha un ordine sintattico, si è in grado di esprimere pensieri ordinati e ben connessi. Il linguaggio, nel terzo stadio, migliora sempre di più e si possono esprimere liberamente i propri pensieri[7]. Grimm conclude affermando la grande complessità del tema riguardo all’origine del linguaggio e riconosce che il linguaggio è una proprietà fondamentale dell’uomo strettamente connessa con il pensiero.  Parola e linguaModifica I linguisti fanno distinzione tra il parlare, il discorso e la lingua. Il parlare comporta la produzione di suoni dall'apparato fonatorio. I volatili parlanti, come alcuni pappagalli, sono capaci di imitare parole umane. Ad ogni modo, quest'abilità di imitare i suoni umani è molto diversa dall'acquisizione di una sintassi. D'altro canto, i sordi generalmente non usano il discorso parlato, ma sono in grado di comunicare usando la lingua dei segni, che viene considerata una lingua moderna, complessa e pienamente sviluppata. Ciò implica che l'evoluzione delle lingue umane moderne richiede sia lo sviluppo dell'apparato anatomico per produrre foni sia specifici mutamenti neurologici necessari a sostenere la lingua stessa.  Comunicazione animaleModifica Sebbene tutti gli animali usino una qualche forma di comunicazione, i ricercatori generalmente non classificano questa comunicazione come una lingua. Ad ogni modo, il sistema di comunicazione di alcune specie animali condivide alcune caratteristiche con le lingue umane. I delfini, ad esempio, sono in grado di comunicare come gli esseri umani, chiamandosi per nome. Linguaggi dei primatiModifica Non si sa molto a proposito della comunicazione tra i primati superiori nell'ambiente naturale. La struttura anatomica della loro laringe non permette alle scimmie, come ai bambini, di produrre la maggior parte dei suoni di cui sono capaci gli esseri umani. In cattività è stata insegnata alle scimmie una rudimentale lingua dei segni e l'uso dei lessigrammi — cioè simboli astratti corrispondenti a una parola del vocabolario - e l'uso delle tastiere. Alcune scimmie, come Kanzi, sono riuscite ad imparare ed usare correttamente centinaia di lessigrammi.  Le aree di Broca e di Wernicke nel cervello dei primati sono responsabili del controllo dei muscoli della faccia, della lingua, della bocca e della laringe, così come di riconoscere i suoni. I primati sono noti per le loro "grida vocali", che vengono generate dai circuiti neurali presenti nella corteccia cerebrale e nel sistema limbico.  Nell'ambiente naturale, la comunicazione tra le scimmie Chlorocebus è stata la più studiata[9]. Esse sono note per la produzione di dieci differenti vocalizzazioni. Molte di queste vengono utilizzate per avvertire gli altri membri del gruppo di predatori in avvicinamento ed includono un "grido del leopardo", un "grido del serpente" ed un "grido dell'aquila". Ogni allarme mette in moto una diversa strategia difensiva. Gli scienziati sono stati in grado di ottenere risposte prevedibili dalle scimmie usando altoparlanti e suoni pre-registrati. Le altre vocalizzazioni vengono probabilmente usate per l'identificazione. Se un cucciolo di scimmia grida, la madre si gira verso di lui, ma le altre scimmie si girano verso la madre per osservare quel che essa fa[10].  Antichi ominidiModifica C'è una speculazione considerevole sulle capacità linguistiche degli antichi ominidi. Alcuni studiosi ritengono che l'avvento della postura eretta, circa 3,5 milioni di anni fa, abbia apportato importanti cambiamenti al cranio umano, formando un tratto vocale più a forma di L. La forma di tale tratto ed una laringe relativamente bassa nel collo sono requisiti necessari per produrre molti dei suoni che si producono nelle lingue umane, soprattutto le vocali. Altri studiosi invece credono che, basandosi sulla posizione della laringe, neanche i neanderthaliani avessero l'anatomia necessaria a produrre l'intera gamma di suoni delle lingue dell'Homo sapiens. Un altro punto di vista considera invece irrilevante l'abbassamento della laringe per lo sviluppo della parola. Una proto-lingua assoluta, così come definita dal linguista Derek Bickerton, è una forma di comunicazione primitiva, a cui manca:  una sintassi pienamente sviluppata; tempo, aspetto, verbi ausiliari, ecc.; un vocabolario chiuso (cioè non lessicale). In breve, si tratterebbe di uno stadio nell'evoluzione del linguaggio intermedio tra il linguaggio dei primati superiori e le lingue umane moderne pienamente sviluppate.  Le caratteristiche anatomiche come il tratto vocale a forma di L erano in continua evoluzione, piuttosto che apparire improvvisamente[13]. Anche se i primi ominidi utilizzavano una rozza tecnologia basata sulla pietra, era già più avanzata di quella degli scimpanzé e dei gorilla. Da ciò si deduce che probabilmente gli esseri umani possedessero già una forma di comunicazione più sviluppata degli altri primati. Neanderthaliani La scoperta nel 2007 di un osso ioide di un neanderthaliano ha suggerito l'idea che i neanderthaliani potessero essere anatomicamente capaci di produrre suoni simili a quelli moderni umani e altri studi indicano che 400 000 anni fa il canale ipoglosso degli ominidi aveva raggiunto la dimensione di quello degli umani moderni. Il canale ipoglosso trasmette i segnali nervosi al cervello e si ritiene che la sua dimensione rifletta la capacità di parlare. Gli ominidi che vivevano prima di 300 000 anni fa avevano canali ipoglossi simili più a quelli di uno scimpanzé che a quelli umani. Comunque, anche se i neanderthaliani fossero stati in grado di parlare, Richard G. Klein nel 2004 espresse il dubbio che potessero possedere una lingua complessa come le nostre. Lo studioso basò il suo dubbio sui resti fossili di esseri umani ed i loro attrezzi di pietra. Per 2 milioni di anni dopo la comparsa dell'Homo habilis, la tecnologia degli attrezzi in pietra cambiò molto poco. Richard G. Klein, che ha lavorato intensamente sugli antichi attrezzi in pietra, descrive l'attrezzatura degli antichi esseri umani come impossibile da separare in categorie basate sulla loro funzione ed afferma che i neanderthaliani sembravano avere uno scarso interesse per la forma finale dei propri attrezzi. Klein sostiene che il cervello dei neanderthaliani probabilmente non aveva raggiunto la complessità necessaria per una lingua articolata, anche se l'apparato fisico per la produzione dei fonemi era già ben sviluppato. La questione sul livello di sofisticatezza culturale e tecnologica dei neanderthaliani rimane tutt'oggi controversa.  Homo sapiens. I primi esseri umani anatomicamente di tipo moderno apparvero per la prima volta nei reperti fossili di 195 000 anni fa in Etiopia. Nonostante fossero anatomicamente di stampo moderno, però, i ritrovamenti archeologici disponibili non indicano che si comportassero diversamente dagli ominidi che li avevano preceduti. Essi utilizzavano gli stessi attrezzi in pietra grezza e cacciavano meno efficientemente degli esseri umani che li avrebbero seguiti[20]. Ad ogni modo, all'incirca da 164 000 anni fa nell'Africa meridionale, ci sono prove di un comportamento più sofisticato e, da quel momento, si ritiene si sia sviluppato il comportamento moderno[20]. A quel punto, una vita di tipo costiero e lo sviluppo dell'attrezzatura associata rimanda evidentemente ad un consumo di molluschi. Questo stile di vita può essere dovuto a pressioni climatiche, conseguenti a condizioni di glaciazione. Gli attrezzi in pietra del periodo mostrano caratteristiche regolari che furono riprodotte o duplicate con più precisione. In seguito, apparvero anche attrezzi fatti di materiale osseo e corna. Questi artefatti possono essere facilmente suddivisi in base alla funzione, come punte per scalfire, attrezzi di incisione, coltelli e attrezzi per trapanare e forare[18]. Insegnare alla prole o ad altri membri del proprio gruppo come produrre tali strumenti dettagliati sarebbe stato difficile senza l'aiuto della lingua[21].  Il passo più grande nell'evoluzione del linguaggio fu probabilmente il passaggio da una comunicazione primitiva di tipo pidgin ad un linguaggio di tipo creolo, con la grammatica e la sintassi di una lingua moderna[9]. Molti studiosi ritengono che questo passaggio può essere stato compiuto solamente insieme ad alcuni cambiamenti biologici nel cervello, come una mutazione. È stato ipotizzato che un gene come il FOXP2 potrebbe aver subito una mutazione che permise agli esseri umani di comunicare. Le prove suggeriscono che questo cambiamento ebbe luogo in un punto imprecisato dell'Africa orientale, all'incirca dai 100 000 ai 50 000 anni fa, cosa che apportò cambiamenti significativi nei resti fossili[9]. Non è ancora chiaro se le lingue si svilupparono gradualmente in migliaia di anni o apparvero relativamente all'improvviso.  Le aree di Broca e di Wernicke apparvero anche nel cervello umano, la prima coinvolta in scopi cognitivi e percettivi, la seconda collegata alle abilità linguistiche. Gli stessi percorsi neurali ed il sistema limbico degli altri primati controllano i suoni non verbali anche negli esseri umani (risata, pianto, ecc.), cosa che suggerisce che il centro del linguaggio umano sia una modifica dei percorsi neurali comune a "tutti" i primati. Questa modifica e le abilità per la comunicazione linguistica sembrano essere uniche degli esseri umani e ciò implica che l'insieme degli organi per il linguaggio parlato si sia sviluppato dopo che il ramo evolutivo umano si è separato da quello degli altri primati. In tal modo, il linguaggio parlato è una modificazione della laringe unica degli esseri umani.  Secondo la teoria dell'origine "Out of Africa" ("Uscendo dall'Africa" o "Dall'Africa verso il mondo"), circa 50 000 anni fa[22] un gruppo di esseri umani lasciò l'Africa e procedette nella colonizzazione del resto del mondo, inclusa l'Australia e le Americhe, che non erano mai state popolate dagli ominidi che le avevano precedute. Alcuni scienziati[23] ritengono che l'Homo sapiens non abbandonò l'Africa prima di allora, perché non aveva ancora acquisito le cognizioni moderne ed il linguaggio parlato e, perciò, non aveva le abilità, nonché il numero di persone sufficienti a migrare. Ad ogni modo, dato il fatto che l'Homo erectus riuscì a lasciare il continente molto prima (senza un utilizzo diffuso delle lingua, attrezzi sofisticati né un'anatomia moderna), le ragioni per cui gli esseri umani anatomicamente moderni rimasero in Africa probabilmente ebbe maggiormente a che fare con le condizioni climatiche.  MonogenesiModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua primigenia. La teoria dell'origine monogenetica è l'ipotesi per cui ci sarebbe stata una singola protolingua (la "lingua primigenia" o protolingua mondiale) dalla quale si sarebbero poi distinte tutte le lingue parlate dagli esseri umani. Tutta la popolazione umana, dagli aborigeni australiani ai fuegini, possiede delle lingue. Questo include popoli, come gli aborigeni tasmaniani o gli andamanesi, che sono rimasti isolati dagli altri popoli per anche 40 000 anni. Così, l'ipotesi dell'origine poligenetica comporterebbe che le lingue moderne si siano evolute indipendentemente su tutti i continenti, un'ipotesi considerata non plausibile dai sostenitori della monogenesi.  Tutti gli esseri umani odierni discendono da una Eva mitocondriale, una donna che si ritiene vivesse in Africa circa 150 000 anni fa. Ciò ha sollevato la possibilità che la lingua primigenia possa essere datata approssimativamente a quel periodo[26]. Ci sono anche teorie su un effetto a collo di bottiglia sulla popolazione umana, soprattutto la teoria della catastrofe di Toba, la quale ipotizza che la popolazione umana ad un certo punto, circa 70 000 anni fa, si sia ridotta a 15 000 o 2 000 individui[27]. Se ciò avvenne realmente, un tale effetto a collo di bottiglia sarebbe un eccellente candidato per il momento della protolingua mondiale, anche se ciò non implica che sia anche il momento in cui sia emerso il linguaggio parlato come capacità.  Alcuni sostenitori di tale ipotesi, come Merritt Ruhlen, hanno tentato di ricostruire la lingua primigenia. Ad ogni modo, la maggior parte dei linguisti rifiutano questi tentativi ed i metodi utilizzati (come la comparazione lessicale di massa) per varie ragioni.  Scenari dell'evoluzione della linguaModifica Teoria dei gestiModifica La teoria dei gesti afferma che il linguaggio umano parlato si sia sviluppato dai gesti che venivano usati per la semplice comunicazione.  Due tipi di prove sostengono questa teoria.  Il linguaggio dei gesti e quello vocale dipendono da sistemi neurali simili. Le regioni della corteccia cerebrale che sono responsabili dei movimenti della bocca e di quelli delle mani si trovano a stretto contatto. I primati usano gesti o simboli per una forma primitiva di comunicazione, ed alcuni di questi gesti assomigliano a quelli umani, come la "posizione di richiesta", con le mani allungate in fuori, che gli esseri umani hanno in comune con gli scimpanzé.[30] La ricerca ha trovato un considerevole supporto per l'idea che il linguaggio verbale e quello dei segni dipendano da strutture neurali simili. Pazienti che usano la lingua dei segni e che hanno sofferto di una lesione all'emisfero cerebrale sinistro, hanno dimostrato gli stessi disordini linguistici nella lingua dei segni dei pazienti capaci di parlare.[31] Altri ricercatori hanno rilevato che la stessa regione sinistra del cervello è attiva sia durante la produzione di una lingua dei segni, sia durante l'uso di un linguaggio vocale o scritto. La questione più importante per la teoria dei gesti è per quale motivo ci fu un passaggio allo strumento vocale. Ci sono tre possibili spiegazioni:  I primi esseri umani cominciarono ad utilizzare sempre più strumenti, che tenevano loro le mani occupate, senza poterle usare per gesticolare. La gesticolazione richiede che gli individui si debbano vedere tra di loro. Ci sono molte situazioni in cui gli individui hanno bisogno di comunicare senza contatto visivo, ad esempio quando un predatore si avvicina a qualcuno che è su un albero a raccogliere frutta. Il bisogno di cooperare effettivamente con gli altri per sopravvivere. Un comando dato da un leader di una tribù di 'trovare' 'pietre' per 'respingere' 'lupi' avrebbe creato un gruppo di lavoro e una risposta più potente e coordinata. Gli esseri umani utilizzano ancora i gesti manuali e facciali quando parlano, specialmente quando le persone che comunicano non usano la stessa lingua.[33] I sordomuti usano lingue composte interamente da segni e gesti.  Pidgin e creoliModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua creola e Pidgin. Un pidgin è una lingua semplificata che si sviluppa come mezzo di comunicazione tra due o più gruppi che non parlano la medesima lingua, in situazioni come il commercio, il cui vocabolario è generalmente derivato dalle lingue dei vari gruppi. Il modo in cui i pidgin si sviluppano è d'interesse per comprendere le origini del linguaggio verbale umano. I pidgin sono lingue significativamente semplificate, con una grammatica rudimentale ed un vocabolario ristretto. Nei primi stadi del loro sviluppo i pidgin consistono soprattutto di nomi, verbi ed aggettivi, senza articoli e verbi ausiliari e con pochissime preposizioni e congiunzioni. La grammatica consiste di parole senza ordine fisso e senza desinenze di declinazione.[9]  Se questi contatti tra i gruppi si mantengono saldi per lunghi periodi di tempo, i pidgin possono diventare pian piano sempre più complessi attraverso le generazioni. Se i bambini di una generazione adottano il pidgin come lingua madre, questa diventa una lingua creola, che si fissa e acquisisce una grammatica più complessa, con una fonetica fissa, una sintassi, una morfologia. La sintassi e la morfologia di tali lingue presentano a volte delle innovazioni locali che non derivano dalle lingue da cui sono nate.  Gli studi sulle lingue creole del mondo hanno dimostrato che possiedono somiglianze evidenti nella grammatica e si sono sviluppate uniformemente dai pidgin in una singola generazione. Queste somiglianze sono evidenti quando le lingue creole non condividono alcuna lingua originale. Inoltre le lingue creole hanno delle somiglianze anche se si sono sviluppate isolatamente rispetto alle altre. Le somiglianze sintattiche includono l'ordine delle parole Soggetto Verbo Oggetto. Anche se una lingua creola nasce da lingue con ordini delle parole differenti, sviluppa spesso un ordine SVO. Le lingue creole tendono ad avere modelli di uso simili per gli articoli determinativi ed indeterminativi e regole di movimento simili per le strutture frasali anche quando le lingue-genitori non le hanno.[9]  Grammatica universaleModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Grammatica universale. Dato che i bambini sono largamente responsabili della creolizzazione di un pidgin, studiosi come Derek Bickerton e Noam Chomsky hanno concluso che gli esseri umani nascono con una grammatica universalegià inclusa nei loro cervelli. Questa grammatica universale consiste di un'ampia gamma di modelli grammaticali che includono tutti i sistemi grammaticali di tutte le lingue del mondo. Le impostazioni di base di questa grammatica universale sono rappresentate dalle somiglianze evidenti nelle lingue creole. Queste impostazioni di base vengono annullate dai bambini durante il processo di acquisizione della lingua per adattarsi alla lingua locale. Quando i bambini imparano una lingua, dapprima apprendono le caratteristiche più simile a quelle creole, e poi quelle che entrano in conflitto con la grammatica creola.[9]  Un'altra questione che viene spesso citata come supporto per la grammatica universale è il recente sviluppo della lingua dei segni nicaraguense. A partire dal 1979, il neonato governo del Nicaragua dette inizio al primo sforzo diffuso del paese per educare i bambini sordomuti. Prima di ciò non esisteva una comunità sordomuta nel paese. Un centro d'educazione speciale stabilì un programma inizialmente seguito da 50 bambini sordomuti. Nel 1983 il centro aveva 400 studenti. Questo centro non aveva accesso alle strutture di insegnamento di una delle lingue dei segni usate nel mondo; perciò non veniva insegnato ai bambini nessun linguaggio. Il programma linguistico invece enfatizzava lo spagnolo parlato e la lettura delle labbra, nonché l'uso di segni da parte dell'insegnante che assomigliassero alle parole dell'alfabeto. Il programma ebbe uno scarso successo e la maggior parte degli studenti non riuscirono a comprendere il concetto delle parole spagnole.  I primi bambini arrivarono al centro con pochissimi gesti sviluppati in precedenza all'interno delle proprie famiglie. Ad ogni modo, quando i bambini vennero messi insieme per la prima volta cominciarono a costruire una forma di comunicazione usando i vari segni di ogni bambino. Più bambini si aggiungevano più la lingua diventava complessa. Gli insegnanti dei bambini, che avevano avuto uno scarso successo nel comunicare con i propri studenti, guardavano meravigliati i bambini che riuscivano a comunicare tra di loro.  In seguito il governo nicaraguense sollecitò l'aiuto di Judy Kegl, un'esperta della lingua dei segni alla Northeastern University. Quando Kegl ed altri ricercatori cominciarono ad analizzare la lingua, notarono che i bambini più giovani avevano preso le forme pidgin dai bambini più vecchi e le avevano portate ad un alto livello di complessità, con un accordo verbale e altre convenzione della grammatica. Approccio sinergico La Azerbaijan Linguistic School ritiene che il meccanismo per la nascita del linguaggio umano moderno, sofisticato e complicato, sia identico al meccanismo evolutivo della scrittura.  Lo sviluppo della scrittura ha vissuto differenti fasi:  Fase I: Grafema = frase (scrittura pittografica) Fase II: Grafema = parola o sintagma (scrittura ideografica) Fase III: Grafema = sillabario (scrittura sillabica) Fase IV: Grafema = suono (scrittura fonetica) Allo stesso modo una lingua avrebbe passato stadi simili:  Fase I: Fonema = frase (linguaggio pittografico) Fase II: Fonema = parola o sintagma (linguaggio ideografico) Fase III: fonema = sillabario (linguaggio sillabico) Fase IV: fonema = suono (linguaggio fonetico) Vale a shout, qualche grido, all'inizio sostituiva l'intera frase, quindi soltanto una parte della frase, e poi la parte della parola. Storia La ricerca delle origini della lingua ha una lunga storia, come testimonia anche la mitologia classica.  Storia della ricercaModifica Verso la fine del XVIII secolo od agli inizi del XIX gli studiosi europei ritenevano che le lingue del mondo riflettessero i vari stadi dello sviluppo da una lingua primitiva a quelle più avanzate, culminando nella famiglia indoeuropea, ritenuta la più avanzata. La linguistica moderna non nacque prima del tardo XVIII secolo e le tesi romantiche di Johann Gottfried Herdere di Johann Christoph Adelung rimasero molto influenti. La questione delle origini della lingua si dimostrò inaccessibile agli approcci metodici, e nel 1866 la Società Linguistica di Parigi vietò clamorosamente le discussioni sull'origine della lingua, ritenendola un problema irrisolvibile. Un approccio sistematico alla linguistica storica divenne possibile solamente con l'approccio neogrammaticale di Karl Brugmann ed altri a partire dal 1890, ma l'interesse degli studiosi per la questione riprese gradualmente piede a partire dal 1950, con idee come la grammatica universale, la comparazione lessicale di massa e la glottocronologia. L'"origine della lingua" come materia a sé stante emerse dagli studi di neurolinguistica, psicolinguistica e di evoluzione umana in generale. La bibliografia linguistica introdusse l'"origine della lingua" come un capitolo separato nel 1988, come un argomento minore dalla psicolinguistica, mentre istituti di ricerca di evoluzione linguistica emersero solo negli anni novanta.  Esperimenti storiciModifica La storia ha un vario numero di aneddoti su persone che tentarono di scoprire le origini della lingua per esperimento. Il primo tentativo viene riportato da Erodoto, che racconta che il faraone Psammetichus (probabilmente Psametek) fece crescere due bambini da pastori sordomuti, volendo vedere alla fine quale lingua avrebbero parlato senza influenze. Quando i bambini furono portati di fronte a lui, uno di essi disse qualcosa che al faraone suonò come bekos, la parola frigia per pane. Perciò Psammetichus concluse che il frigio fosse la prima lingua. Si racconta che anche il re Giacomo V di Scozia tentò un esperimento simile, e questi bambini avrebbero infine parlato ebraico. Anche il monarca medievale Federico II ed Akbar, un imperatore indiano del XVI secolo, tentarono un esperimento simile ma i bambini utilizzati alla fine non parlarono e morirono. Nella religione e nella mitologiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua sapienziale. Le religioni ed i miti etnici spesso danno delle spiegazioni per le origini e lo sviluppo del linguaggio verbale. La maggior parte delle mitologie non ritengono l'uomo inventore della lingua, ma credono in una lingua divina, antecedente a quelle umane. Lingue mistico-magiche usate per comunicare con gli animalio gli spiriti, come la lingua degli uccelli, sono pure state analogamente ricercate, ed erano di particolare interesse durante il Rinascimento, per la loro capacità di penetrare l'essenza della realtà tramite un'apprensione immediata di natura intuitiva anziché discorsiva.  Uno dei migliori esempi nella cultura occidentale è il passaggio della Genesi nella Bibbia riguardo alla Torre di Babele. Questo passaggio, comune a tutte le fedi abramiche, racconta di come Dio punì gli uomini per aver costruito la torre, confondendo la loro lingua e creandone di nuove (Genesi).  Un gruppo di persone dell'isola di Hao, in Polinesiaracconta una storia molto simile a quella della torre di Babele, parlando di un dio che, "in preda alla rabbia scacciò via i costruttori, distrusse l'edificio e cambiò la loro lingua, così che parlassero differenti lingue". Primitive languages, su Language Miniatures. Pinker, The Language Instinct: How the Mind Creates Language, New York, Harper Perennial Modern Classics, The Handbook of Linguistics, eds. Mark Aronoff et Janie Rees-Miller. Oxford: Blackwell Publishers, pp. 1-18. Vorbemerkungen zu der Frage über den Ursprung der Sprache (Premesse alla questione sull'origine del linguaggio), in: Schelling, Werke (a cura di. M. Schröter), 4. Ergänzungsband (volume supplementare), Monaco; Über den ursprung der Sprache", ristampato in: J. Grimm, Kleinere Schriften, Vol. 1, Berlino; Grimm, F.W.J. Schelling, Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Grimm, F.W.J. Schelling, Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Dolphins 'Have Their Own Names', su BBC News;Diamond, The Third Chimpanzee: The Evolution and Future of the Human Animal, New York, Harper Perennial, Wade, Nicholas, Nigerian Monkeys Drop Hints on Language Origin, su nytimes.com, The New York Times, Fitch, W. Tecumseh, The Evolution of Speech: A Comparative Review isrl.uiuc.edu;Ohala, The irrelevance of the lowered larynx in modern man for the development of speech Archiviato il 29 giugno 2011 in Internet Archive.. In Evolution of Language - Paris conference, Internet Archive. Olson, Mapping Human History, Houghton Mifflin Books, 2Ogni adattamento prodotto dall'evoluzione è utile solo nel presente, e non in futuro indefinito. Così l'anatomica vocale ed i circuiti neurali necessari per la produzione dei suoni delle lingue non possono essersi evoluti per qualcosa che ancora non esisteva ^ Merritt Ruhlen, Origin of Language, Earlier human ancestors, such as Homo habilis and Homo erectus, would likely have possessed less developed forms of language, forms intermediate between the rudimentary communicative systems of, say, chimpanzees and modern human languages ^ Jungers, William L. et. al., Hypoglossal Canal Size in Living Hominoids and the Evolution of Human Speech, in Human Biology, DeGusta, David et. al., Hypoglossal Canal Size and Hominid Speech, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, Hypoglossal canal size has previously been used to date the origin of human-like speech capabilities to at least 400,000 years ago and to assign modern human vocal abilities to Neandertals. These conclusions are based on the hypothesis that the size of the hypoglossal canal is indicative of speech capabilities. ^ Johansson, Sverker, Constraining the Time When Language Evolved ( PDF ), in Evolution of Language: Sixth International Conference, Rome, Hyoid bones are very rare as fossils, as they are not attached to the rest of the skeleton, but one Neanderthal hyoid has been found (Arensburg), very similar to the hyoid of modern Homo sapiens, leading to the conclusion that Neanderthals had a vocal tract similar to ours (Houghton, 1993; Bo¨e, Maeda, et Heim, Klarreich, Erica, Biography of Richard G. Klein, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, Klein, Richard G., Three Distinct Human Populations, su Biological and Behavioral Origins of Modern Humans, Access Excellence @ The National Health Museum; Schwarz, J. uwnews.org uwnews Risorse e informazione; Internet Archive. ^ Lewis Wolpert, Six impossible things before breakfast, The evolutionary origins of belief; Minkel, J. R., Skulls Add to "Out of Africa" Theory of Human Origins: Pattern of skull variation bolsters the case that humans took over from earlier species, su sciam.com, Scientific American; Klein, Richard, Three Distinct Populations, su accessexcellence. You've had modern humans or people who look pretty modern in Africa by 100,000 to 130,000 years ago and that's the fossil evidence behind the recent "Out of Africa" hypothesis, but that they only spread from Africa about 50,000 years ago. What took so long? Why that long lag, 80,000 years? ^ Wade, Nicholas, Early Voices: The Leap to Language, The New York Times, Sverker, Johansson, Origins of Language - Constraints on Hypotheses su arthist.lu. Ruhlen, Merritt, Language Origins, su findarticles.com, National Forum; Whitehouse, David, When Humans Faced Extinction, su news.bbc.co.uk, BBC News; Rosenfelder, Mark, Deriving Proto-World with Tools You Probably Have at Home, su Zompist; Salmons, 'Global Etymology' as Pre-Copernican Linguistics, in California IPA: lɪŋ gwɪs tɪk Notes, Program in Linguistics, California State University, Premack, David et Premack, Ann James. The Mind of an Ape, Kimura, Doreen, Neuromotor Mechanisms in Human Communication, Oxford, Newman, A. J., et al., A Critical Period for Right Hemisphere Recruitment in American Sign Language Processing, in Nature Neuroscience; Kolb, Bryan, and Ian Q. 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FBM de Waal, Pollick AS, Ape gestures and language evolution, in Proceedings of the National Academy of Sciences; popular summary in L Williams, Human language born from ape gestures, Cosmos, Wong, Yan; Dawkins, Richard, The ancestor's tale: a pilgrimage to the dawn of life, Londra, Weidenfeld et Nicolson, Grimm, F.W.J. Schelling, Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Lingua (linguistica) Linguaggio Oralità Tradizione orale Teoria bau-bau Language and Social Organization, su evolution-of-man.info. PAGINE CORRELATE Grammatica universale Teoria linguistica che postula che i principi della grammatica siano condivisi da tutte le lingue, e siano innati per tutti gli esseri umani.  Rilessificazione Origine africana dell'Homo sapiens Wikipedia Il Grice: “I share a lot with Cimatti; we both believe that there’s a semiotic continuity, and more important that it’s psi-transmission that matters: a pirot perceives that the a is b, and communicates that the a is b to another pirot, who perceives the communicatum, ‘the a is b’ and comes to think that the other pirot thinks that the a is b – I use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to cover willing, since it’s willing that’s basic, though! Felice Cimatti. Keywords: fondamenti naturali della comunicazione, homo sapiens, storia innaturale, non-naturale, unnatural – non-natural, naturalization, animale, bestia, linguaggio, segno, vita, zoo-semiotica, prodi, corpo, codice, mente, cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica, mentalismo, storia innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali della comunicazione, percezione e comunicazione, comunicazione come percezione trasferita, psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The Swimming-Pool Library. Cimatti.

 

Grice e Cincio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Firenze). A philosopher of the Porch.

 

Grice e Cinna: il portico a Roma  -- il tutore del principe – filosofia italiana (Roma). A member of the Porch and tutor to Antonino. The emperor claims to have learned from C. the value of friendship, children, and praise. Cina Catulo. Cinna.

 

Grice e Cione: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del corporazionismo -- Dedalo ed Icaro – l’idea corporativa come interpretazione della storia – scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I love Cione; my favourite is “The age of Daedalus – which reminds me of Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him – the story of a failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other subjects as well, such as Leibniz, and of course, Croce – in his case, first-hand knowledge! – and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He thinks there is a Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs – his study of ‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational etiquette! – especially the illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze socialiste, e in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce. Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa, tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a dichiarare:  Per ingannare i nostri avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di C. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana. Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso con una completa  della sua opere e degli scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica” (Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore); “Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi); “Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele); “Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce” (Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi, Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di Salò crea un "partito contro" su suggerimento del ministro dell'Educazione Biggini di Silvio Bertoldi.  Per ultimi ma non meno importante ricordiamo anche l’esperienza della rivista La Verità diretta da Nicolò Bombacci, tra i fondatori del partito comunista e in seguito avvicinatosi al Fascismo, pur con posizioni indipendenti tendenti al socialismo nazionale, e dove ne sarà portavoce anche nella successiva esperienza di Salò assieme ad altre personalità come Giuseppe Solaro ed Edmondo Cione, e la magistrale figura del poeta americano Ezra Pound, il quale giudicò positivamente il modello politico ed economico dello stesso Fascismo.  Home  Cultura Cultura (di G.Parlato). Perché leggere “Storia della Rsi” di C. By Redazione   4 anni Ago Il sigillo della Repubblica Sociale ItalianaIl sigillo della Repubblica Sociale Italiana Sarà forse una caratteristica tipicamente italiana, ma da noi persino le guerre civili lasciano molto, moltissimo spazio alle mediazioni e ai tentativi di compromesso. Vi furono diversi tentativi, tutti falliti, di dare alla guerra fratricida un altro esito, meno sanguinoso, più indirizzato verso un passaggio “indolore” dei poteri dalla Rsi al movimento partigiano e, infine, al Regno.  Si trattò di operazioni sotterranee molto complesse, spesso contraddittorie, che si fondavano su un equivoco: la possibilità che una parte del movimento partigiano (i socialisti, e neppure tutti) potessero staccarsi dalla opprimente pressione delle Brigate Garibaldi gestite dal Pci e realizzare una soluzione pacifica di passaggio dei poteri nel Nord Italia in nome di un socialismo  che avrebbe dovuto riunire tutti, da Mussolini a Nenni.  Protagonisti di questo tentativo, un po’ nobile, un po’ ingenuo, un po’ velleitario furono diversi personaggi di ambo le parti: da parte fascista, i ministri della Rsi Carlo Alberto Biggini e Piero Pisenti, i sindacalisti Manunta e Dinale, il capo della polizia di Salò Renzo Montagna, il capo della Decima Junio Valerio Borghese, più altri minori; da parte socialista, Bonfantini,Vigorelli, Silvestri, Zocchi e soprattutto Andreoni, autore di un confuso ed equivoco tentativo di “collaborazione militare ma non politica” (!!) tra fascisti di Salò e socialisti di sinistra contrari alla egemonia comunista nel Cln.  Punto di raccordo di molti di questi fiumi sotterranei è C., filosofo, collaboratore di Croce, antifascista liberale, confinato politico, il quale alla vigilia della guerra civile decide di puntare sulla riconciliazione degl’italiani.  Un progetto ambizioso, non sempre sorretto da una vera lucidità politica, che comunque portò a tre risultati importanti, nel crepuscolo della Rsi: in primo luogo, C. riuscì a catalizzare attorno a sé un gruppo di fascisti e di antifascisti che opera per il passaggio indolore dei poteri. In secondo luogo, riusce ad avere la fiducia di Mussolini che gli finanzia un quotidiano, “L’Italia del Popolo”. Infine riusce a costituire un movimento politico di opposizione in Repubblica Sociale, il Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista che doveva essere il primo segnale verso la liberalizzazione dei partiti in Rsi.  Naturalmente ciò avvenne con l’approvazione dei fascisti “moderati”, come  Borsani, Agazio e Pettinato, e con la violenta opposizione degli intransigenti, come Pavolini, Mezzasoma ed Almirante.  La dettagliata storia di queste più o meno sottili trame, di questi tentativi è il filo conduttore del volume di C., STORIA DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (Altergraf). Si tratta di una storia che, tra le prime, ricostruisce le vicende della Rsi e il suo valore è soprattutto questo.  Il mondo variegato e talvolta contraddittorio di quelli che cercarono di costruire  dei ponti tra fascismo e antifascismo è complesso ma, in genere, comprendefascisti di sinistra -- più moderati e aperti al pluralismo -- e socialisti -- insofferenti al peso del Pci. Che qui ci si trovi al cospetto di un liberale è senza dubbio un elemento di novità. Perché un liberale e, pur con tutti i distinguo, crociano accetta di sostenere i punti di Verona, la socializzazione, l’ultimo fascismo mussoliniano, rivoluzionario, socialista e anticapitalista? Si tratta effettivamente di un problema non da poco che può essere spiegato solo con il costante richiamo alla  CONCORDIA nazionale.  Una concordia che non è però soltanto un moto dell’animo, ma che si sostanzia di un elemento a nostro avviso centrale: la necessità del superamento dell’antitesi fascismo – antifascismo, considerando C. il fascismo un elemento essenziale nella storia italiana, del quale è indispensabile tenere conto -- non per esaltarlo ma piuttosto per proseguire nel cammino della comunità nazionale senza parentesi e senza demonizzazioni. L’errore dell’antifascismo, per C., è quello di ritenere di potere cancellare il periodo fascista dalla storia italiana e soprattutto di potere non considerare  con attenzione le soluzioni che il fascismo, pur in un quadro autoritario, individua allo scopo di contribuire a fare ritrovare unità e concordia nella società italiana. In questo senso l’esperienza corporativa, che C. intese sempre in senso produttivistico piuttosto che in termini rivoluzionari, può essere interessante da recuperare in una chiave pluralistica.  Più complessa la risoluzione dell’altro problema che lo assilla e che, in qualche modo, è correlato con la ricerca della concordia: il persistere, nella dinamica politica italiana, della categoria del nemico assoluto da abbattere. Essendo più FILOSOFO che storico, C. non si rende conto che l’Italia dopo la prima guerra mondiale non è più quella precedente. Il pretendere che le contrapposizioni, giunte fino alla guerra civile, si componessero con un semplice richiamo alla concordia, dimostra quello che acutamente aveva colto Artieri, e che cioè C. pensava e scriveva come se vivesse nell’Italia di Giolitti e di Scarfoglio.  In questa sua incapacità di leggere fino in fondo la lezione della storia si trova la inattualità politica del saggio di C. sulla Rsi,  ma anche il fascino dell’impolitico, di chi cioè preferisce manifestare le proprie convinzioni anche se esse non sono più in grado di produrre effetti politici.  La sua originalità risiede anche in un ultimo aspetto. Se è vero  che in Italia il filosofo  tende a correre verso il carro del vincitore, la storia di C. è quella di un filosofo che pur provenendo dalla parte dei futuri vincitori, volle stare dalla parte dei perdenti per cercare, senza riuscirci, di rendere meno dura la vendetta finale.  C. compiuti i suoi studi prima presso il consolato germanico, poi presso il Liceo-ginnasio Vittorio Emanuele II, si iscrive al collegio militare della Nunziatella. C., sottoposto a una severa educazione familiare e a una altrettanto severa disciplina scolastica, manifesta idealmente i primi segni di ribellione rivolgendo precocemente il suo interesse verso la filosofia e allontanandosi dall'ambiente autoritario della Nunziatella. Grazie a Secolo comincia a frequentare la casa di Croce, del quale divenne allievo, accettandone in pieno le idee e gli insegnamenti.  Un saggio suo, pubblicato a Napoli e intitolata "Il dramma religioso dello spirito moderno e la Rinascenza", in cui prende posizione contro Gentile, gli procura violente critiche da parte dei fascisti. La frequentazione di casa Croce non gli impedì tuttavia, di collaborare con alcuni giornali e periodici del regime. Consegue la laurea e concorsa a un posto di ordinatore di biblioteche e ne ottenne l'incarico presso la Biblioteca di Venezia, poi trasferito presso la Biblioteca di Firenze. A questi anni risalgono i suoi rapporti epistolari con alcuni esponenti dell'opposizione liberale come Sforza, Vinciguerra, Casati ed altri. A causa dell'intercettazione di una sua lettera, il cui contenuto era stato male interpretato, C. è arrestato dalla polizia e internato nel campo di concentramento di Colfiorito presso Foligno, e in seguito confinato a Montemurro Lucano. Revisa le sue idee antifasciste e decide di abbandonare le posizioni liberali. Eento non meno significativo nella vita di C. è la rottura dei suoi rapporti con Croce, a causa della revoca da parte di Croce della compilazione di un volume celebrativo, che C. aveva preparato sull'opera e sul filosofo.  Il volume è poi pubblicato dalla casa editrice Laterza di Bari con il titolo "Croce".  Dopo l'internamento e il confino, ritornato in libertà, C. è in servizio come bibliotecario presso la Biblioteca Braidense di Milano. Collabora alla rivista diretta da Chabod "Popoli", dell'Istituto per gli studi di politica. Ottenne la libera docenza di storia della filosofia. Tra i suoi saggi, il volume edito a Milano e intitolato "Croce", la cui polemica prefazione era stata pubblicata anticipatamente sul Corriere della Sera, procura a C. numerosi consensi anche da parte di MUSSOLINI, che C. incontra personalmente grazie alla mediazione dell'allora Ministro della Cultura Biggini. Cione fonda, col consenso di Mussolini, il "Raggruppamento nazionale repubblicano socialista" e il giornale "L'Italia del Popolo" che, sollevando l'ostilità dell'ala fascista più estrema, dopo soli 12 numeri è sospeso a causa di una polemica con l'Associazione dei mutilati. Soggetto all'epurazione alla fine della seconda guerra mondiale, C. è reintegrato nel suo posto di professore di filosofia a Napoli. Entra nel Movimento Sociale Italiano e fonda la rivista "Nazionalismo popolare". Eletto consigliere e poi assessore allo Stato civile della Giunta di Napoli, che ha alla sua testa Lauro. Dopo essersi candidato al Senato come esponente del M.S.I. senza riuscire eletto, entra nelle file della Democrazia Cristiana. Collabora con numerose riviste filosofiche e con diverse testate giornalistiche, quali il "Roma" di Napoli, il "Tempo" di Roma, la "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari. Tra le opere a stampa ricordiamo la "Bibliografia Crociana" -- nella quale sono riportate sistematicamente e cronologicamente le opere DI Croce e le opere SU Croce --; "Sanctis e i suoi tempi” -- vincitrice del Premio Napoli --, e due volumi di resoconti di viaggi, "Quest'Europa" e "Fascino del mondo arabo", pubblicate la prima a Napoli e la seconda a Bologna. In esse l'autore sembra esprimere il senso finale che, personalmente attribuiva all'esistenza umana. Muore a Napoli. Fra le sue ultime volontà vi fu quella di donare all'Archivio di Stato di Napoli il suo archivio personale, affinché esso non andasse disperso e perché fosse messo a disposizione degli studiosi. documentazione collegata. C.  fonti Incarnato, in Dizionario biografico degli italiani. Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia, Torino, Bollati Boringhieri.  C., Incarnato - Dizionario Biografico degli Italiani’ Condividi     Pubblicità C. Nato a Napoli da Stefano, avvocato di origine pugliese inurbatosi di recente e artefice della sua fortuna, comincia a studiare presso il consolato germanico, poi al liceo ginnasio "Vittorio Emanuele II", per iscriversi infine alla Scuola militare della Nunziatella. L'accurata istruzione integrò la severa educazione familiare tesa a salvaguardare una dignità ed un decoro con fatica raggiunti e difficili da mantenere in una città come Napoli in permanente e gravissima crisi economica.  Alla Nunziatella si tende a sviluppare l'attitudine al comando ponendo l'accento sull'educazione fisica intesa come coercizione e disciplina. Le aspirazioni di C. ne sono frustrate accentuandone le tendenze al ribellismo, tipiche di tanti meridionali e l'indirizzo precoce agli STUDI FILOSOFICI nella ricerca di un'identità ristretta al piano culturale, dati gl’ostacoli frapposti dall'ambiente circostante ad altre vie di sviluppo più organiche e meno unilaterali. Le stesse riserve verso l'autoritarismo ed il culto delle gerarchie che provocano la rottura con l'ambiente della Nunziatella, da cui uscirà, lo allontanarono da un'adesione piena al fascismo. Introdotto in casa CROCE (si veda) da Secolo, ne accetta pienamente le idee, attirandosi col suo saggio, “Il dramma religioso dello spirito moderno e la Rinascenza,” Napoli, di cui già manda una parte a CROCE (si veda), in cui prese posizione contro GENTILE (si veda), gli attacchi violenti dei coetanei fascisti. Lo difende Marzio che gl’apre le porte del Meridiano di Roma ne gl’evita guai peggiori. Sono gli anni del consenso al regime. La pregiudiziale antifascista e la frequenza di casa CROCE (si veda) non impedirono a C., come ad altri, la collaborazione a giornali o periodici del regime, ormai tanto forte da poter controllare e tollerare la fronda liberale. L'assidua presenza in casa Croce lo gratifica e sembra soddisfarlo pienamente.  I numerosi saggi su SANCTIS (si veda), culminati nella biografia, la continuazione dei lavori sulla Rinascenza e la Riforma sfociati nel lavoro su Valdés e infine le ricerche sulla vita culturale di Napoli rivelano tutti l'impronta di CROCE (si veda). Tuttavia si può cogliere una costante della filosofia del C., la tendenza alla mediazione, non tanto espressione di debole sincretismo, quanto costante rifiuto di ogni estremismo, che gli fa preferire il sereno misticismo di Valdés ai rigori di Calvino ed il tentativo di mediazione della cultura umanistica col vecchio mondo della Chiesa e della cultura medioevale alla rottura drammatica della Riforma. 16 un equilibrio raggiunto a fatica, non scevro di contraddizioni, presenti soprattutto negli studi su Napoli. La ricerca appassionata e puntuale sulla vita napoletana (Napoli romantica, Milano) non puo non approdare alla constatazione del suo carattere provinciale. Le masse vi appaiono coine comparse di secondo piano, quasi bozzetti a completamento di un disegno il cui protagonista è lo sviluppo culturale. Scarsi i riferimenti al ciclo economico europeo, non propriamente favorevole a Napoli, il malessere napoletano interpretato come un'incapacità tutta locale di liberarsi dai languori e dalle malinconie romantiche di origine più spirituale che socioeconomica. La mediazione, eterno mito del C., riemerge con l'esortazione all'unione dei giusti per la salvezza e lo sviluppo. Tale gli è già apparso il messaggio dell'ultimo De Sanctis, di cui, a conclusione di numerosi saggi e la pubblicazione (Milano) del famoso Viaggioelettorale, traccia una biogr. C. si laurea in FILOSOFIA. Le fortune familiari registrano un tracollo che lo spinse a concorrere ad un posto di ordinatore nelle biblioteche, un ruolo subalterno per il quale non vienne ancora richiesta l'iscrizione al partito fascista. Ètrasferito alla Nazionale di Firenze, sempre mantenendo ed ampliando i contatti con l'opposizione liberale al fascismo; corrisponde con SFORZA (si veda) ed aveva rapporti di amicizia e scambi epistolari con Vinciguerra, Rosselli, Casati, Ramat, Russo ed altri, anche se spesso si aveva la sensazione che fosse frequentato più perché allievo ed intimo di casa Croce che per i suoi meriti intrinseci. L’adesione al sistema crociano è del resto indiscussa. Malgrado una tendenza all'accentuazione dei valori individuali emergente dagli studi su Berdjaev (di cui lo colpe durevolmente la critica al marxismo), su Valdès e dal taglio stesso degli studi su SANCTIS (si veda), l'emancipazione non è così consapevole come tenta ad affermare in seguito. L’intercettazione di una lettera da parte della polizia, che ne interpreta malamente il contenuto, provoca il suo internamento nel campo di concentramento di Colfiorito di Foligno, i cui rigori sono mitigati dal confino a Montemurro Lucano. Qui matura la sua crisi politica e la rottura col CROCE (si veda). La convivenza con oppositori socialisti, anarchici e comunisti ha su di lui un effetto contraddittorio. Il contatto con uomini che, non solo si opponeno al fascismo sino alle ultime conseguenze, ma che non disdegnano nei loro programmi di far uso degli stessi mezzi coercitivi del fascismo, sia pure per fini ad esso antitetici, lo induce alla revisione e all'abbandono, dell'anti-fascismo.  La compilazione di un volume celebrativo di CROCE (si veda), una laboriosa ricerca degli studi sul filosofo dallo stesso prima affidatagli e poi toltagli, sancì la rottura definitiva con questo, anche se un compromesso rende possibile la pubblicazione, L'OPERA FILOSOFICA, storica e letteraria di CROCE (si veda), Bari, dopo strascichi giudiziari. Risolto il dissidio col fascismo, torna nelle biblioteche, stavolta alla Braidense di Milano. Collabora alla rivista Popoli dell'Istituto per gli studi di politica, diretta da Chabod. Consegue la libera docenza in storia della filosofia; è professore di ruolo di storia e filosofia nei licei, ed ottenne, sia pure non a pieni voti, un giudizio di maturità in un concorso, poi annullato, a professore di storia della filosofia a Napoli. Consegue la libera docenza in storia moderna.  L'armistizio lo colge a Roma in contatto col movimento "L'unione nazionale" di Martini, anti-fascista di tendenze moderate e conciliatrici. Il movimento venne poi stroncato in seguito all'arresto dello stesso Martini, il quale finisce trucidato alle Fosse Ardeatine. C. ritorna a Milano con un giudizio negativo sull'anti-fascismo del quale coglie solo gli atteggiamenti scomposti di una fazione politica che per spirito di parte sembra gioire dalla disfatta. A Milano stampa il suo CROCE (si veda). Il momento ed il luogo della pubblicazione, cui venne data ampia risonanza con l'anticipata apparizione della polemica prefazione di C. sulle colonne del Corriere della sera, nella Milano della ormai condannata Repubblica di Salò, gli offrirono la soddisfazione di una momentanea popolarità.  Mussolini mostra d'apprezzarne l'opera e, con la mediazione di Biggini, ministro della Cultura, s'incontra con C., libero docente all'università di Milano, proprio in virtù dei suoi precedenti di antifascista. In una lettera a Biggini C. Scrive. Il Duce ha scelto il momento buono per parlare il linguaggio della conciliazione sconfessando così quello della minaccia e dell'intimidazione usate da molti gerarchi e gerarchetti. Gl’anti-fascisti hanno dubbi perché temono di avere a che fare con un movimento di copertura a sinistra del fascismo. Il Duce si deve liberare del passato e puntare sulla vecchia fama di socialista. La gente odia la Muti ed ha fatto buona impressione l'eliminaziene della banda Koch, una polizia costituita da masnadieri" (Archivio di Stato di Napoli, Carte Cione, 73). Sembra che Mussolini mirasse a servirsi del C. per attenuare e confondere i rancori degli antifascisti.  Il C., sfruttando le tendenze "liberali" favorite da MUSSOLINI (si veda) dopo il discorso alla brigata Resega, fondò, col suo consenso, il Raggruppamento nazionale repubblicano socialista, col motto "Repubblica e socializzazione" ed un organo di stampa dalla testata mazziniana L'Italiadel popolo. Al movimento non erano estranee connivenze e strumentalizzazioúi come il rilascio di alcuni dirigenti democristiani, operato a fini puramente propagandistici. Si attirò così l'ostilità violenta dell'ala estremista del fascismo ormai troppo compromessa. Spinelli, direttore dell'Ente italiano audizioni radiofoniche gli nega la pubblicità per il giornale, considerando il suo un tentativo di conciliazione sul piano dell'antifascismo. Una polemica con l'Associazione dei mutilati provocò l'assalto all'Italiadel popolo e la sua chiusura dopo appena dodici fascicoli, che riprese, ancora per un numero, le pubblicazioni il 24 aprile, un giorno prima della Liberazione.  Il C. dovette sottostare ai rigori dell'epurazione, rivelatisi per sua stessa ammissione meno duri del previsto. Venne reintegrato al posto di professore e riammesso nel servizio universitario a Napoli. I numerosi attacchi ne stimolarono il temperamento di polemista che si esercitava con virulenza a vari livelli. I sarcasmi sul Merlo giallo di A. Giannini, e nei giornali locali ("6 e 22" e il Monsignor Perelli)offrono un quadro comico ed esasperato di troppi disinvolti opportunismi. Sulle colonne del Brancaleone e del Meridiano v'è un'appassionata difesa della sua azione al tempo della Repubblica sociale che lo spingeva a scriverne la storia (Storia della Repubblica sociale italiana, Caserta 1948; 2 ed. 1951).  Nel 1946 ilC. aveva pubblicato a Roma La filosofia della personalità ove lapolemica anticrociana si stemperava in una graduale adesione a valori tradizionali e nel recupero del cattolicesimo cui approderà, salutato con soddisfazione, ma non con convinzione, dagli organi ecclesiastici. Del resto non rinunciava alle premesse storiciste e restava a mezza via tra l'adesione mistica al cristianesimo ed un'accettazione piena del neotomismo. I numerosi lavori filosofici sono le tappe di questo processo (Dall'idealismo al cristianesimo, Napoli 1960, Fede e ragione nella storia, Bologna 1963, ristampa dell'opera sul Valdés, Napoli 1963, e Leibniz, ibid. 1964).  Collaborò alla rivista di C. Ottaviano Sophia, aRassegna ea Palaestra, tenne corsi di filosofia all'università di Napoli; abbandonato l'insegnamento nei licei, prestò servizio presso la Direzione generale dell'istruzione media non statale. Aderì alle illusioni provocate in tanti dalla protesta dell'"Uomo qualunque" ma ne uscì per contrasti con G. Giannini. Entrò nel Movimento sociale italiano con una posizione personale espressa con la sua rivista Nazionalismo popolare fondata nel'1951; precedentemente aveva collaborato agli organi ufficiali del partito con articoli su Rivolta ideale epoi sul Secolo d'Italia.  Rimproverava al gruppo dirigente l'esasperazione del nazionalismo e della gerarchia e l'abbandono delle tendenze socializzatrici dell'ultimo Mussolini. Sospetto ai superstiti uommi di Salò, malgrado i suoi sforzi, non entrò mai nella direzione nazionale dei partito.  Sull'onda dello spostamento a destra del 1952, espressione soprattutto dei disagio del Sud, venne eletto prima consigliere e poi assessore allo Stato civile della giunta di Napoli capeggiata da A. Lauro. Nel 1953 si presentò candidato al Senato, senza essere eletto. Ormai deluso dei Movimento sociale aderì alla Democrazia cristiana, ove però non svolse una milizia attiva, pur collaborando nel 1960 a Europa sociale di S. Riccio.  Nel 1953aveva iniziato la collaborazione al Roma (Napoli) di Lauro, cui si, aggiunge quella più sporadica al Tempo (Roma)di Angiolillo e alla Gazzetta del Mezzogiorno (Bari). Si accese di speranza per il contenuto sociale del messaggio di Giovanni XXIII e per le speranze suscitate dal mito di Chruščëv, di cui guardava con simpatia l'esperimento (Aldi là della cortina, Napoli 1962).  Intanto portò a termine la Bibliografia crociana (Roma-Milano 1956) e riprese gli studi su F. De Sanctis e i suoi tempi (Napoli) per cui ottenne il premio Napoli nel 1961.Ancora una miscellanea di saggi sul concetto di estetica (L'età di Dedalo, ibid. 1960)affianca la rievocazione di personaggi e momenti della vita meridionale del Paradiso dei diavoli, Milano 1949, Il suoconcetto finale dell'esistenza si può cogliere in due volumi di impressioni di viaggi, Quest'Europa (Napoli [1958])e Fascino del mondo arabo (Bologna 1962).  Il C. morì a Napoli. Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Carte C. (finora sono stati parzialmente riordinati 102, fasci); F. Penati, Metodo storicoe ricostruz. storicistica..., in Cronache della FACOLTÀ DI FILOSOFIA dell'Istituto magistero di Napoli; A. Manno, Dall'idealismo al cristianesimo, in Studi francescani, LX (1963), 3-4, pp. 1-57; F. W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino 1963, pp. 733, 762 ss., 777; R. Battaglia, Storia della Resist. ital., Torino 1964, pp. 438, 495; E. Capanna, Di una polemica Croce-C., in Il Ponte, XII (1965), pp. 1637 ss.; E. Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Roma 1967, II, pp. 568, 570;G. Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre 1943-Maggio 1945, Bari 1966, pp. 527528; Id., La Repubblica di Mussolini, Bari 1977, pp. 130, 308, 310 ss., 329. APPENDICE I.   Sulla bibliografia Fascista    Molti sarebbero i lavori di carattere descrittivo meritevoli di essere ricordati i quali espongono e commentano l’azione del Fascismo in tutti i campi.   Ottima la Bibliografia del Fascismo, pubblicata a  cura della Confederazione Nazionale Professionisti ed  Artisti, Poma, 1932. Qui ricordiamo le pubblicazioni  riassuntive e quelle in Occasione del decennale: La civiltà fascista, con introduzione di B. Mussolini, a cura  di G. L. Pomba, Torino 1928 (complesso di 35 studi  dei vari aspetti ed attività del Fascismo, con saggio bibliografia fascista a cura di L. Màdaro); Il Libro (Vitaha; nel decennale della Vittoria, Milano, 1929 (complesso di 28 studi) ; Mussolini e il suo Fascismo, a cura  di C. S. Gutkind, con introduzione di B. Mussolini, Heidelberg; Firenze.  Studi vari : Opere e leggi del Regime Fascista, Roma; Mussolini e il Fascismo, Roma; Dottrina e Politica Fascista, Venezia, 1930  (scritti vari). Lo Stato Mussoliniano e le realizzazioni  del Fascismo nella Nazione, pubblicato a cura della   Rassegna Italiana Politica Letteraria », Roma. Il Bilancio dello Stato e la Finanza Fascista a tutto Vanno Vili.  A cura del Ministero delle Finanze, Roma, Polig. dello Stato, 1931. Questo studio è aggiornato a tutto l’esercizio  1932-33 con la seguente pubblicazione annuale a cura  dello stesso Ministero: Il Bilancio e il Conto Generale  del Patrimonio dello Stato per l’esercizio finanziario  19... ecc. Per la storia finanziaria fascista si vegga : De  Stefani A. La Restaurazione finanziaria. Bologna, Zanichelli, 1926; Volpi di Misurata: Finanza  Fascista, Roma, Libreria del Littorio; Gangemi: La politica economica e finanziaria del Governo fascista nel periodo dei pieni poteri, Bologna, Zanichelli,  1924; Gangemi L. : La politica finanziaria del Governo  Fascista 1922-28, Palermo, Sandron, 1929; Gangemi L.:  Le Società Anonime miste, Firenze,  La Nuova Italia ». Opere Pubbliche (pubblicazione a cura del  Ministero dei Lavori Pubblici). Roma, 1934. La Nuova Italia (F Oltremare (pubblicazione a cura del Ministero delle Colonie, con prefazione di Mussolini).  Mondadori, Milano. Nei riguardi della difficile  questione meridionale, si vegga l’esauriente volume di  Zincali G. : Liberalismo e Fascismo nel mezzogiorno  d’Italia, 2 voli. Milano, Treves, 1933.   Fra le pubblicazioni straniere quelle tedesche sono  le più ricche e meglio informate.   Le opere e gli scritti dei seguenti autori sono più conosciuti in Italia come quelli che meglio compresero il  Fascismo e la sua organizzazione economica, e cioè:  Andreae W.; Beckerath (von) E.; Bernhard L.; Eberlein G.; Ermarth F.; Eschmann E. W.; Heinrich W.;  Heller H.; Leibholz G.; Leinert M.; Mannhardt J.  W.; Mehlis €.; Reupke H.; Vochting F.; (per i particolari bibliografici si vegga: Bibliografia del Fascismo,  Voi. 1., a cura della C. N. P. A., Roma). Si vegga  inoltre: Beckerath (von) E.: Wirtschaftsverfassung des  Faschismus; Singer (von) K. : Die geistesgeschichtliche  Bedeutung des italienischen Faschismus, entrambi pubblicati in  Festgabe fùr Werner Sombart », lierauegegeben von Arthur Spiethoff, Munchen, 1933; ed anche:  Die fascistische JCirtschaft - Problema und Tatsachen,  herausgegeben von G. Dobbert, Berlin, Hobbing,(è una raccolta di studi dovuti ad italiani, tedeschi e  svizzeri). Bibliografia essenziale sulle interpretazioni  dell’azione economica corporativa   Per una rassegna delle interpretazioni dell’azione  economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti  di politica economica corporativa. Voi. L, Cap. IV. Catania, Studio Editoriale Moderno, 1932.   Sono ivi ricordati i contributi più notevoli, teorici e  descrittivi, nel campo dell’azione economica corporativa. Si vegga pure il nostro studio :  Homo Oeconomicus » e Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti  del gennaio 1932. Riportiamo qui la bibliografia essenziale dei contributi italiani allo studio dell’economia  corporativa, tralasciando di segnalare gli studi, numerosi, di carattere polemico e giornalistico, ma privi di  consapevolezza scientifica e, spesso, deformatori della  stessa realtà politica corporativa : Alberti M. : L’  Homo Ooecomoinicuis » e V Esperienza Fascista in Giornale degli economisti, gennaio 1929; Arias G. : L’Economia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Littorio, 1929, idem. idem. Economia Corporativa, Firenze,  Poligrafica Universitaria, 1932; Amoroso L. e De’ Stefani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ;  Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica  economica, in  Giornale degli Economisti ». Febbraio  1934 (Classifica le varie politiche economiche. Carattere  di quella corporativa: autogoverni economici particolari, con il compito di emanare misure rispondenti, nei  rami particolari, alla politica economica generale emanante dal governo economico centrale. Le corporazioni  sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bruguier G. : A proposito di interventi statali, in Archivio di studi corporativi », Anno IV, Fase. III,  Pisa, 1933 ; Borgatta G. : Prefazione al nostro volume av. cit. : Lineamenti di politica economica corporativa; Carli F. : Teoria generale della economia politica nazionale, Milano, Hoepli, 1931; e dello stesso: Le  crisi economiche delV ordinamento corporativo della  produzione, in  Atti del II Convegno di studi sindacali corporativi», Ferrara, 1932; Chessa: Caratteri e  forme delT attività economica, in Rivista di Politica  economica. (Secondo questo autore  J economia corporativa non è altro che un’ economia di  complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua  realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni  dell individuo con la società e di questa con lo Stato).  Dello stesso autore: Vecchio e nuovo corporativismo economico in Saggi di Storia e Teoria economica, in  onore di Prato», Torino, 1931 (In questo studio l’autore conclude che il corporativismo italiano pur traendo alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate dal Genovesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da queste  in quanto che inquadra le sue idee in una concezione  piu larga, che non tiene solo conto degli interessi  dei singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale,  che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli  interessi della Nazione, viene organizzata gerarchicamente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma e  la sostanza della economia corporativa, Firenze Poligrafica Universitaria, 1932; Del Vecchio G.: Teoremi  economici deW ordinamento corporativo. Comunicazione  alla XIX riunione della Società pel Progresso della  Scienza», riassunta in  Lo Stato » settembre-ottobre  1930; Einaudi L. : Trincee economiche e corporativismo in  La Riforma Sociale », novembre-dicembre 1933;  e dello stesso: Corporazione aperta in La Riforma Sociale ». Fanno M. scritto cit.; Fasiani  M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in   Studi sassaresi », fase. IV. voi. X. 15 gennaio 1933; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista  economico, Padova, CEDAM,; Fovel M.: Economia  e corporativismo, Ferrara, S.A.T.E., 1929 e dello stesso:  La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz. dei  Problemi del Lavoro», 1930; Politica economica ed economia corporativa, Ediz. Diritto del lavoro», 1929; Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara  1930; Fossati A.: Premesse per lo studio di ima economia e di una pplitica economica corporativa, in :  Rivista di Politica Economica », fase. IX.X.1933. (Ritiene  questo A. che tanto la politica economica corporativa,  quanto l’attività corporativa come condotta ipotetica degli individui dei gruppi animati di una coscienza corporativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e in  tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla coscienza corporativa (all’autore parendo il più adatto  perchè conforme alle direttive del Regime quello che  ha a base 1 interesse della Nazione, ossia il massimo be¬nessere individuale compatibile col benessere della Nazione); ed il primo, quando le norme abbiano sufficiente chiarezza (univocità) e costanza da consentire  una costruzione logica di conseguenze possibili. Purché non si mescolino precetti e teoremi, e peggio, non  si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente  legittimo fare della economia corporativa una  economia » astratta, trovare il nocciolo razionale del concreto empirico). Gobbi U. : Il procedimento sperimentale della economia corporativa,  Giornale degli economisti», ottobre 1930; Galli R. : Corso di economìa  politica, Firenze, Poligrafico Universitario, 1932, e dello  stesso: Corso sulle imprese industriali, Firenze, Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La scienza  economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di Torino), e dello stesso : Scienza,  critica e realtà economica, in  La Riforma Sociale »; Lanzillo A.: Studi di economia applicata, Padova, Cedam, e dello stesso  A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in Rivista Bancaria », novembre 1928, ed Economia corporativa e politica economica, in  Giornale degli Economisti »; Lo Stato come fattore di produzione, in  Rivista Bancaria » (Lo Stato  come inserzione di volontà nell’ attività economical.  Anche Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la  scienza economica tradizionale e la notevole incomprensione degli economisti ortodossi i quali riescono interessanti a seguire non come simpatizzanti delle idee lierali o di altre tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce che per dare un carattere di  socialità, che concili l’interesse privato con quello  sociale o nazionale, alla economia privata, non è necessario giungere alla totale abolizione dell’economia  privata ed alla identificazione dell’ economia pubblica,  come ha fatto Spirito, il quale col porre erroneamente  al centro dell attività economica umana la produzione  e non lo scambio non ha visto che nello scambio si  ha la sintesi dell’ interesse individuale e dell’interesse  sociale, perchè nello scambio, mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per eliminare del tutto,  come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei  valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e identificare F iniziativa economica privata  coll’ iniziativa economica pubblica o statale, bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la personalità economica umana e con essa tutte le diff erenze  di bisogni, di desideri e di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli uomini, differenze che costituiscono  la base dello scambio e la molla del progresso economico  e che nessun sistema di economia socialista è mai riuscito a sopprimere.   Il porre a fondamento dell’economia corporativa la  produzione e quindi l’organizzazione e la gestione economica della produzione invece dello scambio, inteso  nel senso della ripartizione del prodotto di ogni grande  ciclo produttivo fra tutti i fattori della produzione  mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro,  del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli  intermediari, porta a delle conseguenze pratiche fondamentali per la definizione dei fini e delle funzioni  della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si dovrebbe  giungere alla Corporazione organo di gestione economica col passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla Corporazione e con la conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in economia pubblica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non assumerà la direzione della gestione economica della produzione, ma avrà la funzione economico-sociale di eliminare il classismo o particolarismo economico, di impedire che uno o più fattori della produzione si facciano la parte del leone nei confronti con gli altri  fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi al produttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di  questo A. : Il problema fondamentale delTeconomia  corporativa, CRITICA FASCISTA;  Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di teoria e metodologia economica, Catania (Sono raccolti con lievi  modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.:  A proposito di un tentativo di teoria pura del corporativismo, in FIAMMA ITALA  e  dello stesso: Strumenti teorici di corporativismo, in  Giornale degli economisti», (in questi  scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica corporativa di Fovel. Contro questi si schiera anche Bruguier nel saggio sopra citato ed anche noi nei nostri  scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini G.:  L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi corporativisti, Lo Stato;  Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in Educazione Fascista », e, dello stesso : Economia corporativa e agricoltura, in  Atti del II Convegno di studi  sindacali e corporativi», Ferrara; SPIRITO (si veda), La  critica dell’economia liberale, Milano, Treves, dello  stesso: I fondamenti dell’ economia corporativa, Milano,  Treves, e Capitalismo e corporativismo, Firenze,  Sansoni.   L’interesse suscitato degli scritti filosofici di questo  A. sono dovuti a ragioni di carattere esclusivamente  polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane filosofo.  Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che  ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai  seguaci della scuola storica tedesca e dagli istituzionalisti americani contro la economia liberale. È confusa  la scienza economica con la praxis dei governi liberali  e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa che  ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha  espresso nella sua opera monumentale sul capitalismo  e quanto altri economisti contemporanei hanno scritto  contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda bene  dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione, fra  capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei  tentativi di costruzione teorica del corporativismo fascista tiene conto, in particolare delle dichiarazioni della  << Carta del Lavoro» che rincalzano la propria tesi per  Ja quale vede la soluzione corporativa n clini entità  assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia Hegel e Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la  quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammissione della corporazione come proprietaria. Propugna,  inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio, altro espediente vecchio e già discusso ampiamente nei tempi  passati. Ma, con buona volontà, si può Scorgere nel  sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per  cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del corporativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non  m tenrnamo quii su altri grossolani errori espressi  dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche corporative, come per es. su quelle in cui consiglia per il  nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la  emissione di prestiti esteri, una politica commerciale  che sara forse realizzata nell’anno 2000, ecc (Tutte  queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Corporativismo, Sansoni, Firenze. Contra a Spirito, si vegga: Arias, cit., Jannaccone,  cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci, appresso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’economia filosofata e attualizzata, in Critica; Galli R. : SulF identità delV individuo  con lo Stato in La Vita Italiana», novembre 1933;  (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione corporatina, m Atti del Secondo Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara, 5-8 maggio 1932; Brucculeri A.: L economia corporativa, in La Civiltà Cattolica», e Crisi e capitalismo, nella stessa rivista, etc.   Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e  Stato nelle Corporazioni ( Archivio di Studi Corpora .V'iV-’i) mostra come la formula  dell identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e  dei liberali. L’individualismo moltiplicando le sue forze non rinuncia ad essere sè stesso. Il grande significato  del Corporativismo è la disciplina economica nazionale.  Con il Corporativismo si passa dal soggettivismo all’oggettivismo. Alla organizzazione professionale è affidata,  sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche.  Il nuovo modello della realtà economica non potrà non  essere anch’eseo, naturalistico e deterministico: non c’è  scienza senza determinismo. Caratteristica delle concezioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato  Corporativo non vi saranno più disoccupati!). La nostra divergenza ideale con l’economia degl idealisti non va assolutamente confusa con le invettive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi  chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni  di coloro che hanno gli occhi sulla nuca!   Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii della  Scienza Economica e l’economia corporativa (Rivista  di Politica Economica», marzo-aprile 1934). Il M. rifiuta 1 identificazione fra Stato e Individuo. Integrando  ® correggendo le opinioni di Arias e Fovel considera  l’economia corporativa come una economia non euclidea.   Papi U. : Un principio teorico deW economia corporativa, in  Giornale degli Economisti », e  più diffusamente in Lezioni di Economia Generale e  Corporativa», Gedam, Padova. (Il P.  ritiene che il sistema corporativo si possa considerare  come lo strumento capace di assicurare le imprese contro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.).   Rossi L. : Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il  concetto di concorrenza e mostra i caratteri della teoria dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento  corporativo traduce nel diritto positivo un complesso  di norme di diritto naturale, che presiedono al fenomeno sociale della ricchezza. Ne risulta un diritto corporativo, definizione giuridica della libertà economica  c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e la  figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo economico libero. L’economia corporativa importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un sistema organico, razionale di politica economica. L’economia corporativa risolve il contrasto fra l’essere e il dover  essere della vita economica. Dover essere: razionalità  (teoria economica pura), eticità (politica economica).  Le forze direttrici corporative devono fornire al dinamismo economico il volano regolatore).   Vinci F. : Il corporativismo e la scienza economica  (Rivista Italiana di Statistica» etc., febbraio 1934.  Questo A., conscio delle interdipendenze fra i vari fattori di produzione e fra le varie imprese e delle condizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato che  la  disciplina unitaria e l’autodecisione, ove conducesse  fino ala determinazione delle produzioni e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni dell’uria o dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti  reciproci, non solo fra due o tre, ma fra tutte le Corporazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle Corporazioni un continuo, pericoloso compito di revisione  e di conciliazione in base a valutazioni complicatissime, a criteri di difficile determinazione oggettiva ». Sulla Finanza Corporativa.   Si espressero anni addietro a favore del contingente :  Griziotti, Finanza di guerra e riforma tributaria, in  La Riforma Sociale», 1916, pag. 150-174. Contro il  contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Finanze, Torino. Ed oggi, a favore del  contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini, loco  cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in   Echi e Commenti, e dello stesso : Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in  Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara, 1932, voi. II; Bonanno: L’extra-individualismo  nelle entrate del bilancio dello Stato, Dir. e prat.  trib., e dello stesso: Lo Stato corporativo e la  sua finanza, in Diritto del Lavoro; Uckmar : Ordinamento Corporativo e ordinamento tributario,  Relazione al I Convegno nazionale di Studi  Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso: Verso una  revisione corporativa della pubblica finanza, in  Diritto  del Lavoro », Roma; Riforme tributarie e Stato  corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, 1929; Finanza corporativa, in « Diritto e Pratica Tributaria ».  Roma, 1929, ed infine, sempre dello stesso: Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi, Ferrara. I ra questi autori la corrente radicale  trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri.  Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e perciò la vorrebbe riformata in un senso meno individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che  trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente,  che riconoscono doversi inserire nell’ordinamento corporativo anche la finanza allo scopo di raggiungere quei  fini che gli conferiscono caratteri fascisti.   Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Evasione fiscale e riforma tributaria («Augustea»), e Genco («Comunicazione al II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione o per  lo meno alla riduzione degli organi finanziari statali  ed alla loro sostituzione con le Corporazioni! Uckmar,  contingentista moderato, riconosce che il potere imposizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può inscriversi fra i fautori di una finanza coordinata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle  Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza  oltre a presentare un contenuto politico, riveste un contenuto tecnico con il quale male si accorda la improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddistazione di essere considerati rivoluzionari al cento per  cento, mentre agli altri rimarrà la soddisfazione di non  avere incoraggiato i salti nel buio che in materia finanziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e perciò  si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non  meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano  i ce piu radicali. Il tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti scritti fra i tanti che  accolgono, con moderazione, una riforma tributaria in  ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino CaProblemi di Finanza, Torino, Giappichelli  1930; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato Corporativo in « Echi e Commenti, e dello   TTr- A r-,ane r e   in «Giustizia tributaria», giugno 1929; Gangemi L rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica Economi Stato C e dell ° stesso: La finanza nello  Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, e   S“,° Ì 93 £ r” cernii in   «Rivista di Politica Economica», fase. VII-Vili   (e una carica a fondo contro la funzione graduale,  ransitona e limitata del contingente come è propugnata da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo  ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il Commercio»  f, 7 iarzo \ a f, rlIe)i Toselli Colonna: Teoria e  problemi della- economia finanziaria corporativa, Alessandria Colombani (è questa una diligente rassegna dei problemi corporativi della finanza). Infine,  si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni  ** WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio e   CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova, CEDAM) non sembra opportuno affidare all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari  a gin associati. Le associazioni sindacali, probabilmente « non sarebbero neppure molto disposte ad assumersi  tali compiti, ohe spesso non sarebbero neppure in grado  di svolgere efficientemente data la limitatezza e l’inadeguatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione,  anche a prescindere dal giusto timore dei dirigenti di  potersi creare m tal modo animosità lesive di quella  compattezza dell’Associazione Fascista, che costituisce  uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai fini  propostisi dal nostro legislatore». Un chiarimento sulla tesi riformista del Benini. La  ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per  quanto riguarda l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa: due tipi di imposte dirette, proporzionali, l’una sul reddito totale di famiglia, l’altra sul patrimonio-.   Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il procèsso  evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni  pongono in evidenza i tributi globali e personali come  il fondamento di un corretto sistema di imposizione diretta in luogo delle imposte reali imperfette e causa di  sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro sistema attuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da  una imposta personale, la complementare, che con i  procedimenti fatti approvare dal Ministro Jung presenta una struttura che le consente di assolvere agli importanti suoi compiti. Ma, appunto perchè la riforma proposta dal Benini  muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’imposizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa,  lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla composizione,  sulla distribuzione e sul raggruppamento dei redditi,  sulla organizzazione tecnica della nuova amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una  riforma così vasta e complessa che le condizioni del1 economia nazionale e della pubblica finanza entrino  in un periodo di sufficiente tranquillità e stabilità. Tutte  cose queste di cui il Benini è consapevole.   Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra le  due opposte opinioni che esiste una finanza corporativa oppure il contrario che questa non esiste sostiene  una terza e differente che trova riscontro nei seguenti  scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche nello  Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »); Idee generali sulla trasformazione  del nostro sistema tributario, esposte al Primo Convegno  di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi.  glio Prov. dell’Economia di Pavia; Le  finanze pubbliche e l’ordinamento corporativo, in « Economia. Il Griziotti, se non erriamo,  desidera un sistema di imposte congegnate in modo da  rispettare le esigenze della produzione. Vuole un sistema tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri della  giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici. Rico Gangemi, Dottrina Fasciata ed economia. nosce che l’opera del primo periodo della finanza fascista ha tenuto conto delle esigenze della produzione.  Queste idee evidentemente indicano nel Grìzìotti un  fautore della finanza corporativa. Dove il nostro non  ci trova consenzienti è nei dettagli (ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.   Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese  (La Finanza e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati  Moderni, Padova, GEDAM) « Nello  Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fondamentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè  alcuno dei principi che reggono l’economia capitalista  viene apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge un  elemento che è quello del controllo sociale che, sulla  iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo  Stato. Nello Stato corporativo anche la politica finanziaria deve necessariamente seguire le direttive, che non  coincidono nè con quelle del sistema liberale-capitalista  (benché ad esse siano assai più vicine) nè con quelle  del sistema collettivista.   Essendo l’imposta uno dei principali strumenti di  cui lo Stato  qualora rispetti il principio della proprietà privata — si può valere, per intervenire nel campo dell’economia, individuale, è logico che ad essa faccia più largo ricorso uno Stato, che ha per principio  l’intervento, ogni qualvolta l’interesse nazionale lo richieda.   E essenziale rilevare che nel sistema corporativo,  mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale:  mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si propone fini di benessere e prosperità, che vengono attuati  mediante la protezione di tutte quelle forze individuali  che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato corporativo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa  esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti, non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma facendosi iniziatore dei  provvedimenti atti ai dirigere le forze individuali all’obbiettivo prefisso.   Non possiamo chiudere questa nota senza ricordare  il contributo che, anche in questo campo ha dato Maffeo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in  « Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuovatori sistematici ed i creatori di schemi astratti farebbero bene a leggere ed a meditare se veramente sono,  come si ritengono, difensori dell’interesse nazionale. Capitoli della storia: “Mussolini ed il fascismo” p. 1; “La respnsabilita della guerra ed il “tradimento militare” p. 25; “La preparazione del colpo di Stato”, “L’antifascismo del Governo Badoglio e la capitolazione”; “La liberazione di Mussolini”; “La proclamazione della Repubblica Sociale”, “Il Manifesto di Verona”, “In lotta per la difesa dell’onore italiano”, “La lotta per la difesa del patrimonio nazionale italiano”, “La politica di conciliazione nazionale;” “Conati di revision in senso liberale della tendenza autoritaria e per la instaurazione della legalita”; “Il processo di Verona e quello degli Ammiragli”; “La politica sociale, dindacale ed economica”; “Il regno d’Italia”, “I comitati di liberazione”, “La guerra partigiana”, “Il Ragrgruppamento Nazionale Repubblicano Socialista”, “La catastrophe militare”; “L’instruzione dei ‘sanguinari’.” – Tra Croce e Mussolini, contributo a ”Gentile” – “Nazionalismo Sociale” – contribute alla rivista La Verita (fascista). “Nazionalismo Sociale”: L’idea corporative come INTERPRETAZIONE della storia – con una conclusion politica di Augusto de Marsanich, Achille Celli Editore. Domenico Edmondo Cione. Keywords: ICARO, l’idea corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo sociale, icaro, la caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta greco-romana, corporativa, principio corporativo, principio cooperativo, corpotivismo, corporatismo, corporativismo, ideale corporativo, conservativo come corporativo, ugo spirito, “pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione” – The Swimming-Pool Library.Cione

 

Grice e Citrone: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A member of the Cinargo and a friend of Giuliano. Chytron

 

Grice e Civitella: la ragione conversazionale e ’implicatura conversazionale – scuola di Teramo – filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montorio al Vomano). Filosofo abruzzese. Filosofo italiano. Montorio al Vomano, Teramo, Abruzzo. Delfico-de-Civitella (under Ser Marco). (Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote on Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his (Delfico’s, not Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that back in them days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’ as in ‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love (that makes the world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it is the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive it!” C. è giustamente ritenuto il Nestore della filosofia napoletana. Questo illustre filosofo, autore di molte opere di storia e di una varietà di soggetti interessanti, unisce ad una vasta istruzione una accuratissima e profondissima conoscenza di ogni aspetto che interessa la sua terra; e possede l'ancor più raro merito di saper comunicare le preziose esperienze acquisite con una amenità di maniere, una facilità e semplicità di espressione che le rendono più apprezzate a quelli che le ricevono. Figlio di Berardo C. nasce nella villa di Leognano, in provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano almeno a quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Savorini, il cognome è “de C.”. All'interno della sua famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto ben presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito inviato a Napoli,  per il completamento degli studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per il diritto e Mazzocchi per l'archeologia.  Nella città partenopea si laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se ne spogliò subito per motivi di salute.  Nella prima parte della vita si dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel miglioramento e l'abolizione di molti abusi.  Con il ritorno in patria si inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi, Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio C., il figlio di Giamberardino, che fu allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio della Repubblica Partenopea.  Caduta la Repubblica Partenopea anda in esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza. Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio territorio.  Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far parte del Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali.  Restaurato il governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli archivi e successivamente Presidente della Reale Accademia delle Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla presidenza della Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia di C. si estingue con Marina, sposata al conte Gregorio De Filippis di Longano, dando origine all'attuale famiglia dei conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di C. si forge nel fermento culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata, che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.  Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole della morale corrente.  Come politico e come giurista, e eminentemente pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori del suo tempo.  Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a filosofo. Altre a Teramo  e alla frazione di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo; Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato massone.  Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo all'appendice del volume di Eugeni, Forti, allievo di Fergola. I principali indizi si possono così riassumere:  I maestri ed amici di C., come Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni;  In un diario del curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia massonica esistente a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza. Promuove un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda il nipote Orazio C., futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.  Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre saggi: “Saggio filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo, Angeletti).  Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita  Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni, Sulla vita e sugli scritti del commendatore C., in Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti,  Raffaele Liberatore, Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili del Regno delle Due Sicilie, Ristampato come C. in: De Tipaldo Biografia degli Italiani illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù di C., Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere, Teramo, Angeletti, Aurini, C., in: Dizionario bibliografico della gente d'Abruzzo, Teramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo), Andromeda editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di storia e letteratura, Clemente, Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori, L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro abruzzese di ricerche storiche, Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS,  Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio. Treccani. Il DRITTO ROMANO è sempre incerto ed arbitrario. Tale il suo carattere, poichè, sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure quelle sole qualità -- incertezza e arbitrarietà -- sono bastanti per renderlo mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a trattare, come quelle che portarono a luce LA VANTATA GIURISPRUDENZA ROMANA. Ed accio questo ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che della nascita e de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più importanti. Fra gl’innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo quello di cui tutti I FILOSOFI si servirono, quasi di testo alle loro ricerche e commenti. Già si vede che io parlo delle opera del giureconsulto SESTO POMPONIO, della quale si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo, rapportando nel titolo dell’origine del dritto, tutto cid che il nomato giureconsulto raccolgeo su tal oggetto nel suo manuale. E poichè POMPONIO incomincia la storia del dritto da ROMOLO e dagl’altri seire di Roma, dello stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca, abbastanza oscura, non vi sarà pero materia di dispute, poichè SESTO POMPONIO parlando conformemente alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con incerte leggi e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè si deve intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia – GL’OTTIMAT -- nella qual forma Roma ha il suo incominciamento. Quindi POMPONIO si espresse nelle precise parole. POPVLVS SINE LEGE CERTA SINE IVRE CERTO PRIMVM AGERE INSITVIT. N’altrimenti dove avvenire, poichè quella prima associazione essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora positiva forma di società, dove essere piuttosto REGOLATA DALLA FORZA DEL COMMANDO che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che ROMOLO, per accrescere il numero de primi suoi compagni, prese l’espediente d’APRIRE UN ASILO da era retto ve s9  da che si puo comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i più valorosi briganti, e questi divenneno i padri della patria, i forti, i primi quiriti, e formano il SENATO. Dopo questi primi tratti caratteristici relativi alla legge, POMPONIO segue a raccontare tradizione, che essendo cresciuta in qualche modo la città, ROMOLO divide il popolo in tante parti chiamate “LE CURIE” e col voto di esse prende. LA CURA DELLA PUBBLICA COSA e in seguito FA LA LEGGE CHE CHIAMA “LEGGE CURIATA” --  come ne fanno ancora i sei re successivi. TUTTA LA LEGGE CURIATA è raccolta da SESTO PAPIRIOS, il quale viv al tempo di TARQUINIO il superbo – e, dal nome dell'autore, quella raccolta è chiamata il “DRITTO PAPIRIANO”. Non m'impegno nelle dispute storiche e critiche delle quali si occuparono gl'interpreti di POMPONIO, ma osservo che, sebbene da principio, parla dello stato informe di Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa dindi vedere come è data una forma, non una costituzione, alla città, e come dai re è promulgata la legge curiata. Per quanto durano i regii signori, Roma non ha dunque che QUESTA O QUELLA legge occasionale, e LA SOCIETÀ È MANTENUTA PIÙ COL GOVERNO CHE COLLA LEGGE. Prima intanto di passar oltre, e per la migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non è inutile il presentare lo stato politico del popolo romano sotto l’epoca dei re, e quale è l’indole della legislazione per tutto quel tempo. E poichè di cose che non hanno autori contemporanei o vicini, non è possibile il ragionare con precisione ed esattezza; percio scortato dalla natura delle circostanze e dalle tradizioni pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto il più ragionevole. Fra l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che quella società incomincia da un ADUNAMENTO DI PERSONE APPARTENENTI A VARI POPOLI -- non solo ITALICI, ma greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria associazione, avendo ROMOLO per capo vive, da principio, di prede e di rapine, gusto che fa il perpetuo carattere della nazione, trasformato poi in quello di conquiste, come gli avoltoi comparsi a ROMOLO nel prendere gli’auguri sono poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose, da principio NON VI È BISOGNO DI LEGGE, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma è fondata come LIVIO si esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute sono decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e nelle società de’ briganti è sempre avvenuto. Avviene similmente che, nel formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia – GL’OTTIMATI -- e così avvenne di Roma. Il palagio di ROMOLO è una succida capanna. Il di lui TRONO quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il SENATO è la scelta de’ commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto è vile plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ sono nomi di versi appartenenti alle stesse persone secondo i va apporti ne' quali sono considerati, o di Senato consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata sulle divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia non ha alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagl’antichi autori, parlando dell’origine del CLIENTE, si esprime in termini rappresentativi della verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. PATROCINIA APPELARI CAPRA SVNT CVM PLEBS DISTRIBVIA EST INTER PARES. Ne si devono contare per un ordine intermedio di cittadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma nella quale da principio è stata abbozzata. Sotto il re NUMA vediamo i primi passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale: la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei ministri e degl’interpreti della divinità. In somma, il principio di un GOVERNO TEOCRATICO, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare sulle cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo hanno i primi principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gl’atti umani e farli nascere ancora in UN POPOLO QUANTO IGNORANTE TANTO SUPERSTIZIOSO. Così par che fa Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel natural corso del sociale andamento. Cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale: GL’OTTIMATI. Su questo piano Roma cresce successivament sotto i re. L’aristocrazia è sempre salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali mezzi crudeli e sacri sa sostenersi. MASSACRARONO ROMOLO E NE FECERO UN DIO. Tale idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta. Il primo per quanto io so a darne l’idea è VICO, il quale, riunendo alla multiplicità delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali, fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degl’antichi costumi sa scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale nasce dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della compagna superstizione. Le luminose tracce di VICO sono poi seguite da DUNI, e fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nasce aristocratica – Gl’otimati --, che il RE non è che il capo dell’aristocrazia, che i soli patrizi – gl’ottimati – hanno la quarta di cittadini che sono in perfetto stato di combinazione l’aristocrazia POLITICA e l’aristocrazia sacerdotale, e che il nome di ‘POPOLO’ ne’ primi tempi ai soli patrizi (ottimati) appartenne, come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza – CIVES, POLIS -- i quali poi sono gradatamente dalla PLEBE acquistati. DUNI concilia luminosamente la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto POMPONIO e fa vedere che il re NON HA CHE UNA *PARTE* del governo o dell’amministrazione, ma che LA SOMMA DELL’AUTORITÀ, LA VERA SOVRANITÀ,  il potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedeno nel corpo de’ patrizi – L’OTTIMATI -- come anche il dritto di eliggersi il loro re o principe. Sono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (DUNI, Orig. del Citted. Romano) ministri ed interpreti. E, siccome per un’eterna verità, l’aristocrazia – GL’OTTIMATI --  non si sostiene che sull’appoggio della SUPERSTIZIONE POLITICA. Cosi, dal corpo aristocratico – Gl’OTTIMATI -- si sceglievano i vari sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici è specialmente destinato a dar i giudici alle cose umane. Quindi la CONOSCENZA della legge e l’amministrazione delle medesima è un dritto esclusivo e divenne una dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a modo d’oracoli e strettamente CUSTODITA NELL’ORDINE de’ patrizi – GL’OTTIMATI. Codesta emanazione della prima ‘teocratica’ idea non solo si conserva per quanto ha di durata il governo del re ma per quanto vive la Roma. Una repubblica, colla sola differenza pero che come crescheno le cognizioni ed i necessari riflessi della ragione, e da essi RIFLESSI DELLA RAGIONE POLITCA nasceno i sentimenti di libertà e d’eguaglianza, così quelle idee si andano a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva influenza. È necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo stato della legge, dell' amministrazione giudiziaria e della giurisprudenza ne’ primi tempi di Roma. Senza impegnarci nella particolari legge sotto il re emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge è minima, eventuale ed incerta -- e che l’interpretazione delle medesine essendo stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire ancora che la giurisprudenza è incerta, irregolare, arbitraria, e quale AD UNA NAZIONE IGNORANTE E SUPERSTIZIOSA può solo convenire, e per conseguenza esser stato pur vero ciocchè POMPONIO scrivee, che sotto i re sine lege Gerta – SINE IVRE CERTO -- ine jure certo viveno i romani. Lascio agl’ambiziosi di glorie filologiche legali l’andar raggruzzolando i pochi superstiti frammenti della legge regia, poichè i stessi antichi giure-consulti ne fanno poco conto e le lasciano perire. Chi vuole però riconoscerle, trova in esse la conferma di quell’idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche associazione. Espulso il re col ratto di LUCREZIA, si crede comunemente che il governo di Roma cangia d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gl’eroi della libertà. Ma chi  giudica senza prevenzione non vi trova che gl’eroi dell’aristocrazia. Anche quessti parlano di libertà; della propria libertà però non della libertà pubblica -- per servirmi delle parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio sugl’altri. Quindi, Roma non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge e l’amministrazione politica e civile rimaneno nella stessa condizione. L'incertezza è seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio. Ciocchè ci dà manifestamente ad intendere POMPONIO dicendo: EXACTIS DEINDE REGIBVS AE ITERVMQUE CÆPIS POPVLVS ROMANVS INCERTO MAGIS IVRE ET CONSVETVDINE ALIQVAM PER LATAM LEGEM IDQVE PROPE SEXAGINTA ANNIS PASSVS EST. L’aristocrazia è stata alquanto abbassata dall’ultimo re, per cui ha fine il suo governo. Ma dopo la sua espulsione ritorna presto nel primiero vigore. Quindi gl’effetti doveno essere conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infattim si sa che DALL’ANNO FATALE AI TARQUINI FINO AL TEMPO DELLA LEGGE DECEMVIRALE, il potere legislativo ed il potere giudiziario sono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo è ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale sono tenuti, tentano de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi. Ottenuto il TRIBUNATO si avvidero ben presto che esso è troppo debole ostacolo contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente è annidata dentro la stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo che fieramente la difende. L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo ancora dell'opinione, sono più volte ripetute. Ma le loro domande sono incerte, le loro querele generali, ed i loro desideri si riduceno ad essere considerari come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus. In questo stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi può essere migliore per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser riguardati come uomini cittadini. Strano ed ARROGANTE sembra al patrizio il desiderio della plebe, e strano pare sempre al possessore del potere arbitrario il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e persuaderli che i patri costumi sono sufficienti e che di nuova legge non vi è bisogno – MORES PATRIOS OBSERVANDOS LEGES FERRE NON OPORTERE. Sono intanto inutili le persuasioni, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trova detta suo questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul modo di sedare le civiche discordie rispose loro. Fatevi la legge; i Romani plebei senteno l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je gemevano. Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche sono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposa colla più buona fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali doveno mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occultano in qualche luogo d'Italia, e la legge poi è tirata dall’arche pontificali  e perchè nulla manca di condimento aristocratico, si fanno poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle XII tavole se è trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, è un articolo sommamente istruttivo. Ma questa ricerca veramente politica è stata molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dove servire e che non dove aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastano l’usanza, no la legge. Il popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso parla per bocca de buoi e d’altri animali, del linguaggio de quali si fa un merito d'essere interprete. I plebei vuoleno che la legge si fa dal popolo legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi è altra legge che quelle ch'essi stesse fanno: darurum legem neminem, nisi ex parribus ajebant. Il popolo vuole una legge d’uguaglianza. Il patrizio le promette in parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente, dopo tante vicende le X tavole furono pubblicate – E SUCCESSIVAMENTE L’ALTRE DUE -- come ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il popolo la esamina e la approva solennemente. Ma la storia stessa ci dice che quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno che sconvolsero tuttol'ordine pubblico e secondo LIVIO nihil juris in civitate reliquerant, che PER QUELLE LEGGE OGNI CONSUETUDINE ARISTOCRATICA È CONSERVATA, che la vantata uguaglianza resia in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconosce d' essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata pienamente scoverta da molti autori e specialmente da VICO, da Bonamy e da DUNIi: la favola d;essere state leggi d’uguaglianza e di giustizia, la può scoprire facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia gl’avanzi di quelle leggi. La scovri ancora il  [VICO, Scienza nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris; Duni: Dėl Cittad. Rom.] popolo, quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato può tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse la gente come uomini e come cittadini, non trova che UNA LEGGE CIVILE, una legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco l'interessano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognano UNA LEGGE COSTITUZIONALE che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi. Niente di tutto questo. E la plebe resta delusa della sua troppo malfondata speranza. Ma sa rinnovare le giuste sue pretenzioni; ed in tanto senza voler fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali, è pur giusto portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gl’elogi de' quali sono state ciecamente onorate dagl’antichi é da moderni; ed osservare in seguito, se ne provenissero quegl’effetti felici, ai quali produrre sono destinate. CICERONE in più luoghi esaltandole sopra tutte le leggi conosciute, non è poi molto felice nel darne le pruove. Così condanna Solone, per non aver imposto pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo tale per onore dell'umana natura; ed eleva la seviezza della Romana legislazione per aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola, sem sapientiam! esclama CICERONE dopo aver lungamente ragionato con logica forense. Tale è la saviezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi; poichè se si riguardano per la parte criminale esse sono aristocratiche, ingiuste, severe, é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale poch’indizi ci sono restati, andano alla conservazione dell’aristocrazia: se per quella della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi concepimenti del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, doveno esser analoghe alle leggi ed all'usanze: se per la parte testamentaria, è facile il vedere, ch' esse conteneno la massima ingiustizia politica, per conservare in forza gl’aristocratici dritti. Della stessa indole sono le indegne leggi relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche nelle quali sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al CONTRATTO, la legge è pur sempli ci, come dove essere in un popolo barbaro con pochi rapporti civili. Ma l’usure d'ogni specie sono terribili. Chiunque vuole esaminar quelle leggi in buona fede, e misurarle secondo i vem ri rapporti che le leggi dove avere colla natura e collo stato civile, trova senza fallo ingiusti ed irragionevoli gl’encomj alle medesime attribuiti. Ma forse neppur in Roma si pensa tanto favorevolmente di esse, poichè col tempo par che sono del tutte neglette e dimenticate. CICERONE stesso riferisce che, al suo tempo neppure erano ben intese, e sebbene egli nell'infanzia le avesse apprese a memoria, era poi passato di moda tal costume -- discebamus enim pueri XII. ut carmen necessarium, quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di Gellio sono cadute. in tale disprezzo ed obbllo, che sono derise come fossero le leggi dei Fauni e degl’aborigeni. Si può trovar intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gl’antichi panegiristi delle leggi decemvirali. Poichè per quanto fossero selvatiche quelle leggi, godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' antichità; e paragonata la giurisprudenz'antica a quel la degl’ultimi tempi della Repubblica, il paragone risulta in favore della prima. Ma che i giure-consulti moderni, e quelli specialmente della setta degl’eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri frammenti superstiti come il più interessante per la conoscenza del giusto, e rincariscano sugl’elogj degl;antichi, cið non può essere che l'effetto d'un letterario fanatismo Se LIVIO chiama le leggi delle XII tavole fonté ogni equità è troppo credulo all’espressioni ed alle promesse degl’iniqui decemviri. Qual nie è infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed ingiusta costituzione non è cangiata, e da quella vantata uguaglianza la plebe neppure ottenne di acquistar la condizione desiderata. Per quel principio teocratico, di sopra accennato, ciò che distingue in tutti gl;effetti civili tanto pubblici che privati, il patrizio dal plebeo, è il dritto degl’auspicj. È questo dritto che da la vera qualità di cittadino negl’affari civili; ed incominciando dal primo vincolo sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj si produce il connubio o nozze solenni, dalle qua li deriva il carattere di padre di famiglia, la patria potestà, e la facoltà di testare; e questa specie di nozze è de' soli patrizi, poichè gl’altri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e propriamente gl’auspicj maggiori poi sono i soli mezzi per aver drito alle Magistrature, e far parte dell'ordine regnante dello stato. Or niun cangiamento è fatto da quelle vantate leggi su di un articolo tanto importante in quella costituzione nella quale tutto è sacro; e la Storia c'insegna, quanto poi costasse di tranquillità alla Repubblica, il voler introdurre in qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza de' tempi più antichi di Roma, pure si può asserire ch ' esse non hanno propriamente la loro origine che dopo la pubblicazione delle XII tavole. Si crede intanto che quel prezioso codice avendo acquistata due qualità principali, cioè d'eso ser PUBBLICO  e generale, avesse resa certa e stabile la legislazione. Autorizzato dal popolo, fisso nel foro e delle curie, ciascuno dove trovarvi la certezza de' giudizj, la sicurezza de'suoi dritti la legittimità de' suoi dominj. Ma su questa conseguenza ci fanno nascer gran dubbj gl’antichi autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che il principal caractere delle prische aristocrazie è la misteriosa custodia delle leggi o consuetudini, e della religione, ciocchè forma il privilegio esclusivo, o la privatiya di quella sola sapienza che gode del bujo et del [(Det ZE =]; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta sapienza romana è fondata parte sull’ingiustizia, parte su l'errore. Su questo, perchè la loro scienza sacra ed arcana non consiste nel celare al volgo i misteri della natura, l'origine della cose, l'energia della forza motrice, la fecondazione dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni: la loro scienza arcana si raggira sul cantare o cibarsi dei polli, sul volo degl’uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere, e simili cose, alle quali non può appartener mai il nobile titolo di scienza o sapienza, ma quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo fanno servire all'ingiustizia, poichè con tali mezzi si manteneno nell'assoluta disposizione delle leggi, facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più forte, cioè alla sovversion ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle leggi qualunque sono pur pubblicate, una parte della scienza arcana e dell' aristocratico potere anda a svanire, se non si trova un modo col quale si ripara una perdita si grave. Quessto si effetrul col conservare il potere giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col rendere inutili le lege es za 7 bid SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78 )* gi; se non sono avvalorate dalla doro recondita sapienza. Essi doveno spiegarne il senso; essi conoscere qual dritto nasce da una tal legge; qual era l'azione che ne provenne, quale il modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che può impedirla; e finanche si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si può amministrar la giustizia senza offendere i numi. Ecco insomma la giurisprudenza, ossia il mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una legislazione. Essa vanta un origine aristocratica, un origine che si confonde coll' errore, colla malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la giurisprudenza è nata subito che vi sono leggi incerte ed arbitrarie; pu e non si conferma, estese e stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII. tavole; dopo questo prezioso compendio dei dritti degl’uomini. POMPONIO conferma le mie parole. Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente avvenir suole, s'incomincia a desiderare per l'interpretazione delle medesime l'autorità de' giurisprudenti, e le necessarie dispute del foro. Tali dispute e tal dritto non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con vocabolo comune è chiamato DRITTO CIVILE. Quasi nel tempo medesimo da quelle stesse leggi si fanno nascere le azioni, colle quali si dove discettare a litigare: ed saccia non è in libertà di ciascuno il farne uso, si pensa a farle essere certe e solenni; e questa parte del dritto è denominata azioni della legge, o sia azioni legittime. E cosi quasi ad un tempo nasceno queste tre specie di dritto cioè leggi delle XII. tavole; dritta çivile derivato da esse; ed azioni della legge, composte sui s dritti antecedenti, La scienza poi tanto delle leggi quanta dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse è riservata al collegio de Pontefici, quali in ogni anno destinano persona che presedesse ai privati affari o litigi; e con questa, consuetudine vive il popolo per cento anni in circa. Quale orribile contradizione! Appena pubblicata una legislazione tanto vantata per la sua perfezione, è trovata cosi insufficiente che ha immediato bisogno di sostegni e di interpretazioni. E codesto è il codice superiore a tutte le biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di POMPONIO contiene una contradizione alle idee di leggi e legislazione che somministra il buon senso il più comune. Il dritto civile tanto encomiato non è altro dunque che il risultato dell’interpretazioni de'Giurisprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti sono mai quelli! Ciascuno sa che quella è l’epoca della più crassa ignoranza; la spada, la zappa, i polli e le usure sono le sole idee che fiorisceno in quelle teste leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi qualunque è stato quel dritto consuetudinario può pur ridursi in massime o in principj di giustizia, e cosi divenire di comune intelligenza e di un uso generale. Si pensa il modo onde questo non avvenisse, e si mantenne sempre le leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið è sicuramente per una vanità dottorale, ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitraria, qual è il grande scopo dell'ordine aristocratico. L'unico mezzo che essi viddero il più opportuno è quello d'inventare le azioni, cioè delle formole colle quali non solo si dove agire o eccepire in giudizio, ma secondo le quali si dove regolare i contratti e gl’altri atti civili, accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non basta loro di aver la privativa de' giudizj; poichè colla legge certa difficilmente si può abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso e della nuova pratica una nuova legislazione da surrogare all'antica scienza mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá custodia, colla quale prima delle XII. tavole tenne le antiche consuetudini. E perchè non si manca di venerazione a tale straordinario stabilimento, i pontefici ne sono fatti depositarj egualmente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diretta non a dispensar giustizia, ma a conservare ľaristocratico dispotismo, da segno, di non aver mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si tratta già di fare la legge, si tratta solo di tener il popolo in schiavitù: perchè se avendo già esso acquistato i dritti di privata cittadinanza può godere anche quello d'ISONOMIAI, cioè dell' eguaglianza delle legge, qual'è il suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione, ha un gran passo verso quella libertà che tanto F ambe, ma che più sente che conosce. Escla. md esso sovente contro quella specie di occulta o privata legislazione, dicendo, che la sua condizione de ea in questo assai peggiore di quella dei popoli vinti; essendogli negato il poter sapere cioc che riguarda i più comuni affari çivili, e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agl’altri non è ignoto: segno sicuro che l'aristocrazia romana e inolto più feroce o severa di quella delle altre città o popoli vicini. Il dottissimo VICO con gran proprietà d' intelligenza pensa che quel notissimo motto di Solone: conasciti, è piuttosto un précetto politico che morale. Pieno l'animo di tutti i sentimenti della vera giustizia Solone ricorda con quel motto all'oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il popolo romano non ha un Solone, che gli da così utili ricordi; ne forse ne ha bisogno, poichè abbastanza si riconosce, ed agl’insulti de'patrizi risponde, che non sono fioalmente essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù dall' Empireo. Avrebbe però avuto bisogno di un Solone, per aver lidea d'una costituzione, senza la quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte degl’abusi del potere aristocratico, ma non giunse mai a formare una pefetta repubblica, fondata su i veri rapporti sociali e su i dritti primitivi della giustizia naturale e positiva: per cui se Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde anche presto nella voragine del dispotismo. Ma ritornando a quella giurisprudenza che succedè immediatamente alle XII tavole, e che da nascita a quel nuovo dritto così stranamente amministrato, dico che, sebbene da quanto semplicemente espone POMPONIO, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza aggiungerd, che l’illustre GRAVINA, tuttochè pieno d' entusiasmo per la romana giurisprudenza, non sa nascondere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'quali ragionamo. Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum prodiit: aspera quidem illa tenebricosa et tristis non tam in æquitate quan in verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiudizj filologici, vuole mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. F 2 di giudicare giustamente, come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza, avrebbe riconosciute per arbitrarie e maligne le successive giurisprudenze dette media e nuova, ed avrebbe disconfessato gl 'inopportuni encomj, che in generale yolle ad esse tributare. Per quanto però si è finora ragionato, non ho toccato che leggermente la nequizia della giurisprudenza e della giustizia sacerdotale; ma chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie maggiori in fatto d'amministrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e conoscenza, e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani misteriosi. Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile, è precipitar gli uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità d'espressione si chiamano LA RAGIONE CIVILE la, onde il celarle, il corromperle, val lo stesso che privare gl'individui del corpo politico di quella ragione che loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurisprudenti non lasciano mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo coll'inventare le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le guastarono; ma de' nuovi stabili menti anche s'impossessavano per poterne disporre a loro talento. LIVIO n'è amplissimo testimone dicendo: institutum etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut senatusconsulta in ædem Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante atobitrio Consulum supprimebantur vitiabanturque. Non è però sufficiente questa legge, e i giurisperiti seguitarono ad essere veri monopolisti della legge. Dobbiamo credere però che i più virtuosi romani avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di soverchieria; e perciò. la storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti rurali gli arnesi guerrieri, o coronavano l'aratro di allori trionfali. Si sa che Roma allora e per alui secoli non presenta alcuna occupazione che potesse allettare alla vita cittadinesca, la quale dalle belle arti, dalle scienze, e dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo piacevole; perciò chi non ama l'intrigo, nè la vita oziosa soffre, in vece di darsi alla cabalistica (LIVIO) e viziosa giurisprudenza, si ripara nella esercizio dell'agricoltura sempre preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire, mostrandoci, che la famiglia la più infesta allo stato, la perpetua persecutrice della libertà popolare e della giustizia pubblica è una famiglia di giurisprudenti. Tale è LA CLAUDIA; e sempre si è veduto che dove dottori e forensi sono, la discordia prende il luogo della pace e della naturale tranquillità. Ma ritorniamo a POMPONIO. Egli ci dice che quella mistica giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la storia pero agl’altri autori dicono, che ha una durata eguana le a quella della Repubblica, toltene alcune differenze dalle quali non è alterato il fondo del la cosa. Seguita dindi POMPONIO a raccontare come quelle formole ed azioni, essendo RIDOTTE IN FORMA D’APPIO CLAUDIO, cotal mistico libro gli è involato da GNEO FLAVIO, figlio d'un libertino e scriba dello stesso Claudio: ed aver., dolo pubblicato e fattone un dono al popolo, questo gli è si grato, che lo fa pervenire ad esser tribuno della plebe, senatore, ed edile. Questo libro contenente quelle azioni delle quali si è già parlato, dal nome dell'editore è deno. Si po, mitato DRITTO CIVILE FLAVIANO, benchè egli nulla vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in Roma la popolazione e nel multiplicarsi gl’affari maticando alcune specie di formole, SESTO ELIO non » guari dopo compone nuove azioni e ne pubblico co un libro chiamato DRITTO ELIANO,. trebbe" ragionevolmente pensare, che pubblicate le leggi e resa publica la scienza arcana, il dritto cívile, le azioni, la pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo illuminato su i principj legali, sulla condotta degl’affari, sul modo di amministrar la giustizia, sull’ordine giudiziario, non avesse più bisogno della maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto, e sapere i mezzi d'ottenerlo. Ma tuu ' altrimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj – gl’ottimati -- perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella scienz'arcana, che forma la base principale del loro ingiusto potere, trovano il'modo, onde far rimaner il popolo defuso. E come nelle sette se si vengono a scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, presstamente si cangiano, e de ' nuovi si surrogano, onde sia salvo it mistero; cost i bravi Giurispe siti eseguirono, cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti dell'ordine, e conservano il grande arcano della giurisprudenza. Le formole e le azioni sono cangiate, e forse in maggiori cifre involute onde potessero rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma ascoltiamone, CICERONE, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento.ERANT IN INIGNA POTENTIA QVI CONSVLEBANTVR A QVIBVS ETIAM DIES TAMQVAM A CHALDÆIS PETEBANTVR INVENTVS EST SCRIBA QVIDAM GNAIVS FLAVIVS QVI CORNICVM OCVULOS CONFIXERIT ET SINGVLIS DIEBVS EDISCENDOS FASTOS POPVLO PROPOSVERIT ET AB IPSIS CAVRIS IVRISCONSVLTIS CORVIN SAPIENTAM COMPILARIT ITAQVE IRATI ILLI QVOD SVNT VERITI NE DIERVM RATIONE PERVULGATA ET COGNITA SINE SUA OPERA LEGE POSSET AGI NOTAS QVASDAM COMPOSSVERVNT VT OMNIBVS IN REBVS IPSI INIERESSENI (CIC. PRO PUR.) Non è d’alcun utile dunque l'aver trafitti gli occhj a quelle cornacchie poichè in breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosegue, la storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli stessi sentimenti, gli stessi principj, la 2 stes cha stessa condotta. La Giurisprudenza è latente, incerta, arbitraria, ignota al popolo, e privativa del solo ordine patrizio sacerdotale, il quale lungi da quella virtù che sola consiste nella beneficenza »da quella sapienza che cerca il vero, per render lo di comune demanio; da quella giustizia trova i principj nella ragione, e gli espansivi sentimenti nel cuore; da quella naturale benevolenza e da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uomo civilizzato; da'veri sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla giustizia; lungi dico da tutte queste qualità e gl’eroi del Campidoglio non sembra che provassero altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di corpo, sempre contrario, anzi distruttivo de' sentimenti sociali, dal vile interesse personale e pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj, e dall'abuso d’un illegitimo potere. E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza! Seguitando quindi POMPONIO ad esporre i fonti del dritto romano ci accenna l'origine de' plebisciti e de' senatusconsulti, specie di leggi dettate dal popolo o dal senato, e delle quali si vedeno gli effetti ee'l'l valore, e soggiunge, che nel tempo stesso anche dai magistrati nasce un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè, tecid saw pessero i cittadini, di qual dritto i magistrati in si sarebbero serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura, e perchè vi andassero premuniti, pubblicarono degl’editri, da quali si costitui IL DRITTO ONORARIO, cost detto perchè proveniya DALL’ONOR del pretore. E dopo aver parlato finalmente dell'altra parte del dritto che nasce delle costituzioni de' principi, cost ri-epiloga tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano., Nel la nostra Città dunque dice egli ) la legislazione è costituita del dritto o sia legge; da quello che propriamente si chiama DIRTTO CIVILE, che non è scritto, è consiste nella sola interpretazione de' prudenti: dalle azioni della legge  le quali contengono le formole di agire; dai plebisciti che sono fatti senza l'autorità del Senato, dagl’edini de'magistrati, da' quali nasce il dritto onorario; dai Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge particolare; e finalmente, dalle costituzioni de' Principi, Ecco tutta la Storia seguita, che POMPONIO ci ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gl’autori tunti convengono. Abbiamo finora voduto quale è il dritto é la giurisprudenza romana prima è dopo dello leggi decemvirali, e quindi come per quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1 caratteri d'irregolarità, d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la ragion popolare andasse acquistando qualche dritto su l'aristocrazia, puro questa sostenuta dal sacerdozio, qnantunque per necessità cede in qualche cosa de’dritti pubblici, fa perð ogni sforzo per tener recondita le legge, e sotto le chiavi del mistero tutto quello che riguarda l'anministrazione della giustizia. Conoscheno ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle leggi e della giustizia, e che tanto più diventa tale autorità efficace quanto più la legge e oscura, incerta, ed arbitraria. Ma per vedere come questo continuassets e come la giurisprudenza segue ad esser sempre della stessa indole, prima di venir a ragioniare de' plebisciti e de' senatusconsulti ch' ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto cui si volle dare il titolo di ONORARIO, ma che vedremo' non essere stato degno di alcun onore. Se si vuole parlare del la ridevolezza di quelle vantate formole, che costituivano la Romana Giurisprudenza, ci porterebbe a perdita di tempo, ma se i Romani di buon senso e CICERONE stesso le. derideno e teneno in altissimo disprezzo, credo che dopo due mille anni potremo far noi altrettanto, e chiunque non sia un’ vero divoto, e cieco adoratore della Romana antichità e giurisprudenza. Rifletterà solamente che quando di cose semplicissime si vogliono far misteri, allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre, le idee semplici si devono involgere in un numero di parole non necessarie, e surrogare impropriamente le immagini e le finzioni alla semplicità e realità delle cose e delle idee: specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo civile di Roma, mà solo indicare il corso infelice delle legge e della giurisprudenza, cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza, e questi per allontanarli, fanno tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi IL FORO ROMANO. Ma accennerò solamente ciocchè importa, per passare all'origine del dritto onorario. La forza dell' opinione non ha più molio. scevano valore contro la forza reale ed effettiva; per cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad alcuni di quegli officj che fin allora sono privativi de patrizi, come è quello della questura e de' TRIBUNI MILITARI, non parve foro di aversi assicuraii i sospirati dritti, se non otteneno la massima delle magistrature, vale a dire il consolato. E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col manto della religione i patrizj cercao coprire le loro pretese, o tependone lungi il volgo profano, ailontanarlo da tutte le magistrature che de' sacri auspicj abbisognayano; così i plebei videro che per farsi strada al consolato, si rende necessario l’ardi mento di entrar ne' sacri pene trali, ed andar anche essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni che fecero cor endo alla fine il quarto secolo di Roma, sono queste cose combinate; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de Decemviri, e che di questi V patrizj fossero ed altrettanti plebei: e che nella nuova elezione de consoli l'uno fosse del loro ordine, e l'altro patrizio. Invano APPIO CLAUDIO montà in tribuna per fare non arringa ma una predica teologica contro le nuove idee filosofiche sorte negl’animi della plebe Romana: invano ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete; invano minaccia d anate ma quel popolo, che potea far a lui più reali mi nacce: Roma, dice egli, è fondata cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico, di privato, di sacro, di profano, in guerra, in pace, in cae sa e fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare: che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo è mai creato cogl’auspicjse che in fine canto è il creare i Consoli dalla plebe, quanto il rovesciare interamente la religione, ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non ostantino però tante e si gravi rimostranze LUCIO SESTIO ottenne finalmente il consolato. Se questo colpo è doloroso a sostenere per i patrizi, è facile l'immaginare; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo efficace, si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non perdere intieramente quel privativo potere che dipende dal consolato. Pensano dunque sta (12 ) Lir. lib. YI. cap. 36 mabilire una nuova magistratura che può conservare nell'ordine patrizio l'amministrazione della Giustizia, il potere giudiziario, e tuttociò che riguarda l'esecuzione della legge civile. Quindi col pretesto che i consoli sono quasi sempre fuori di città alla testa degl’eserciti, onde non possono adempire agl’ufficj della giudicatura, proposento di stabilire un nuovo magistrato che adempisse e questa parte dell'amministrazione, ed è ordinato che si traesse dai patrizj e si chiamasse PRETORE. La pretura dunque è stabilita per conservare nell'ordine de' padri tutto il sistema giudiziario o forense del quale hanno facto fin allora uno scempio cosi crudele. La legge e la Giurisprudenza segueno ad essere malversate, ma per poia chi anni dura privativamente nelle mani de' patrizj la Pretura. Eccoci intanto al tempo nel quale si può fissare veramente l' epoca di quella Giurisprudenza che passo di mano in mano fino agli ultimi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il nome Romano e l'Impero. Questa parte del dritto, come testè ci ha insegnato POMPONIO, nasce dagl’editti, che emanano į pretori nell'entrare in esercizio della loro magistratura, ed essa fa il maggior latifondio della scienza forense. L'importanza dunque della medesima ci merte nel dovere di portarvi sopra uno sguardo particolare, seguendola brevemente nel corso della Storia, ve derne in qualche modo l'uso, il carattere; e gl’effetti, Dopo lo stabilimento della pretura e della comunicazione a tat officio delle plebe, e più dopo eseguito il censo di FABIO MASSIMO il governo di Roma perde la forma Aristocratica, benchè non ne perdesse lo spirito; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti, che si trasformasse mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà popolare è molta, e qualche volta eccessiva a segno che degenera in licenza, poichè essa non era limitata dalla legge; ed il dritto de' suffraggj ed il potere legislativo non hanno mai quela regolarità ed uniformità, che può rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo. E non è mai tale il popolo Romano, poichè la forma del suo governo non è costituita su d'un piano antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti sociali si fosse rimontato alla necessaria divisione del pubblico potere, e questo ripartito in modo che le varie parti non si potessero nuocere fra loro, e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte coordinatamente contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione sociale. Non avremo perciò quind' innanzi frequente occasione di parlare dei disordini dell' Aristocrazia patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del disordine e della corruzione, essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo adattato alla facile germinazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki, non però tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione. Ma passiamo finalmente a vedere quale fosse stato il fato della Giurisprudenza in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più accuratamente trattarono degli editti pretorj sono da distinguere il celebre Giureconsulto Eineccio ed Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono ricerca alcuna conducente al loa G TO Heinec. Hist. Edict. Memor. de l'Accadem. des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in Roma e per l'Impero ancora non solo quelli che propriamente Mangistrati sono detti, ma diverse altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere, ebbe To pure il dritto o il costume di fare deg’edinti Quante che fossero adunque le divisioni e suddivisioni del potere esecutivo o giudiziario, ed in quanti diversi rapporti fossero esse costituite, prendendo un tal dritto, hanno l'uso e la facoltà di straordinariamente comandare. Cosi, incominciando dai pontefici e dai tribuni della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e passando ai Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vollero avere il dritto di far editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà o prerogativa è compresa. Fra tanti Magistrati però che hanno o si arrogano cotale autorità, gl’editti di maggiore celebrità, e che contribuirono a creare una nuova Giurisprudenza sono quelli de'Pretori. Dai patrizj è inventata e fatia stabilire questa nuova Magistratura a consolazione ed indennizzamento della perdita che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe; e quindi ottennero, che il pretore dal loro ordine dove essere prescelto Non dura mol, (99 molto intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza fosse la Pretura, non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche paratecipare a tal carica, mentre ancora è unica e non divisa nei due Pretori Urbano e Peregrino; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo. Coll’andar del tempo si multiplicarono maggiormente, ed oltre dei due mentovati e dei Pretori Provinciali altri ve ne furono nella Città, de' quali alcuni sono addetti a rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la origine della Pretura, ciocchè ci viene attesta 10 da LIVIO e da altri, cioè che essa è surrogata al potere giudiziario, che i Consoli esercitano, si dovrebbe naturalmente pensare, che se i Pretori cagionarono alterazione nell'antica Giurisprudenza, e ne fecero nascere una puova, çið essere accaduto per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze, le quali avessero per la loro giustizia meritata la conferma della pubblica autorità, e passate quindi in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo, nè si potrebbe facilmente immaginare, che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e d'una nuova Giurisprudenza. Eppure non fu altrimente: essendo essi semplici giudici o ministri di giustizia, colla facoltà di fare degli editti seppero per tal modo usurpare l'autorità legislativa, che il dritto è cangiato, e gl’editti più che la legge sono osservati, e maggior uso ed autorità hanno nel Foro. Ma se i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia, il loro officio è solo di applicare la legge al caso particolare, o sia ve der i rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si disputa. Un Giudice non può creare un dritto colle sue sentenze, poiché esse altro non sono che la dichiarazione del dritto medesimo; cioè che la legge nel caso proposto si verifica per la tale azione o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo, cioè esercitando l'attualità della Magistratnra non può crear un dritto, molto meno dee ciò poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della Magistratura. Gl’editti pretorii dunque per i quali si alterano, si cangiavano le leggi, e se ne stabilivano delle altre temporarie, ci presentano degl’atti d’autorità arbitraria, temporaria, ed incerta che non possono formar mai una parte del dritto, il quale può solo emanare dalla potestà legislativa, e dev'essere certo generale o perpetuo, fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando dunque in una carica siriuniscos no contro tutti i principi della ragion pubblica quelle facoltà, che devono essere divise da limiti insurmontabili, si può dire che tal carica contenga almeno in potenza, come diceno i scolastici, i principj del disporisano, e dispotico si può chia mar il Magistrato che l'esercita. Nel crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre un mostro di tal fatta, ma come codesta carica è surrogata al potere giudizionario che avevano prima i Consoli, il quale era riunito al potere esecutivo, cosi' e per questo per quel grado d'autorità che prendevano dall’ordine da cui erano tratti, non è difficile il farvi passare di tali abusi. A considerar dunque giustamente la cosa non nasce nella Pretura tale abuso dal semplice potere giudiziario, ma da quello di far gl’editti. In fatti se si va all'origine di questo dritto, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli antichi) quod jubemtis fieri: espressione tanto generale, che potrebbe comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la legislativa; e perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti sono di uso promiscuo: Ma PAPINIANO  è quello che più nettamente ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che è introdotto a pubblica utilità, per adjuvare supplire, e corriggere il dritto civile. Jus prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris gratia propter publicam utilitatem introducium. Ecco dunque la vera origine del dritto Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gl’editti. Ajutare intanto indica debolezza, supplire, mancanza, correggere, errori. Si dice ch'è nell' ordine naturale delle idee di amministrazione, che quando al caso non si trovi alcun stabilimento di dritto, alcuna legge scritta, la volontà del Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta, utile o nociva alla Repubblica. Ma che altro è mai il dispotismo, l'odio de' popoli czualmente e de' buoni regnanti: Se la legge manca, bisogna farla, e non solo il Ministro di giustizia, ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na legge, ma nè a soccorrerle cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle erronee, nè ad interpretarle oscure. Lascio le tre prime condizioni o circostanze delle leggi, sopra le quali non può cadere alcun dubbio che il restituirle in qualunque modo non possa spettare ad altri che al Sovrano. Ma in quanto all'interpretarle,. sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia stabilita la sua autorità, rifletterò che l'interpetrare o interpatrare da principio è in Roma del soto ordine del patrizi, quando tutti i poteri e specialmente il legislativo sono ristretti nell'ordine aristocratico. Essi dunque che fanno la legge sono i soli che potessero interpretarle, uno e l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato. Quando una legge è oscura, non vuol dir altro, che il non sapersi precisamente, ciocchè essa comandi o prescriva; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stessa autorità, che l'ha emanata, sola interprete legitima di se stessa. Ne i giudici dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi legislatori e GIUSTINIANO stesso ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104 ) no. Le leggi bisognose di sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti, de' quali di sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior male da esse prodotto è d' aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito la corruzione della giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i Romani furono cogli Ebrei sotto lo stesso parallelo. Or l'autorità data ai pretori cogl’editti prova visibilmente due punti: il primo che la legge è così incompleta, come è quella dei popoli barabari; e che i Romani lo furono a tal segno, che non seppero conoscere, quanto il confondere le potestà, ed il lasciar il poter arbitrario ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di ogni buon governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel modello delle Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù, e che connobbe più delle altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma gl’onori che merita. Essa è la prima inventrice degli editti, essa è la sola Re. Heinec. De prohib. a Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per quanto si sappia, che li avesse in costume. A vedere quale è il dritto Pretorie lungi dal dover credere i Pretori Magistrati giudiziarj, dovremmo anzi prenderli per riformatori o correttori delle leggi. Tali sono in fatti, ma non per uno stabilimento autorizzato dalla potestà legislativa: lo furono solo per abuso, vergognoso ai costituenti di sì strana Magistratura, e pernicioso sommamente al popolo soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue leggi, e l'incongruenza nella quale dovevano essere per la differenza de' tempi, e per i politici cangiamenti; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i stabilimenti d’Atene, avrebbe trovato più opportuno mezzo  a correggere e modificare la sua barbara legislazione. Ciascuno sa che in Atene vera un Magistrato detto de’ tesmoreti, il quale propone annualmente i cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e queste sono poi approvate o riggettate dal potere legislativo. Non deve farci intanto molta meraviglia che la pretura s' introducesse con tali abusi e tant'autorità straordinaria, se rifletteremo che quella. Magistratura è da principio stabilita privativamente per l’ordine patrizio, il quale la conserva in suo potere per anni. Per sapere poi come quell'abusivo potere si esercitasse, devo ricordare, che vi sono IV specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ jurisdi fionis caussa: translaticia: nova. E senz' andar esponendo il valore di ciascuno, ciocche fino alla sazietà da molti autori è stato eseguito, mi ristringo ad alquante osservazioni più importanti. E primamente dirò, che quelli editti i quali dovevano contenere il sistema giudiziario attuale del la pretura, sono quelli appunto, da'quali derivarono maggiori abusi, cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa, pei quali il pretore espone nell' albo le formole delle azioni, delle cauzioni, delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole è compreso, chi è autore delle formole, lo è in conseguenza del dritto medesimo. Chiunque nell'agire in giudizio manca a quelle formole per qualun que causa, cade dall ' azione, o rimane con inutile eccezione cioè perde la lite anche che intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle leggi. Ecco dunque il Magistrato divenuto legislatore, ed arbitrario it sistema di giudicare. Dobbiamo però credere, che tuttociò fosse fatto senza principj, e che non avendo idee certe e generali de' principj del driito, facessero gl’editti ciascuno secondo le proprie cognizioni ed idee: poichè come le ultime derivazioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar tutte della retta ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro editti fossero derivati da tali fonti, non sarebbero stati prescrizioni annuali, ma avrebbero avuta una continuazione o vera perpetuità. NÈ SI FACCIA ILLUSIONE IL NOME DI PERPETVÆ IVRISDICTIONIS, POICHÈ QUELLA PERPETUITÀ ERA RISTRETTA AD UN SOL ANNO. Il Pretore o Pretori che succede alla carica, ha il dritto assoluto di proporre nel nuovo albo un nuovo sistema giudiziario, e cangiare a lor grado la formola ed i principj; e sebbene questo non si fosse fatto sempre nè in tutto, poichè spesso i succes'sori conservano integralmente o parzialmente gl’edirii an tecedenti, ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole, è sempre però in libertà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo conio, che perciò portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità, incertezze; ed arbitrj. si possono portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto, lo lascio giudicare agl’amici della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipende solo dal capriccio pretorio, e gl’attori in giudizio dovevano essere ben intrigati in variar le loro formole, e su di esse disputare ed argumentare, per trarre le disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo porta col tempo, che fossero molte le azioni per lo stesso giudizio, ciocchè fa un nuovo intrigo, ed accresce l'arbitrio de’ magistrati. Più anche dovette crescere quando i Pretori sono varj, e vi è in Roma quasi una popolazione di Magistrati, poichè ciascuno a suo modo proponendo gl’editri, quel ch'era giusto presso di uno, si trova ingiusto presso un altro. La morale pubblica e quella delle leggi particolaramente è dunque così incerta che non ha per regola che le opinioni o il capriccio, e si dilata o ristringe, allungava o accorciava secondo le sublimi Teorie del probabile, le quali sorgono sempre dall'arbitrio e dalla corruzione. Se il Pretore fosse stato uno solo, se l' Amministrazione giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura, non avrebbe potuto 1 diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza dell' arbitrio: ma gl’ammiratori o visionarj della Sapienza Romana, trovano ragioni sufficienti per ogni disordine. Il progressivo accrescimento della Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari, per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistrature e le Giurisdizioni. Esempio pur croppo funestamente imitato nei vari stati di Europa! Nel progresso delle Società si aumenta è vero la popolazione o il numero degl'individui; ma non per questo crescono i rapporti naturali e necessarj che essi hanno collo stato, col governo, e fra se stessi. Non crescendo i rapporui non devono multiplicarsi e variarsi le leggi, le quali ne sono I espressione; ne devono quindi crescere e diversificarsi in varj generi e classi i Magistrati che ne sono i Ministri o dispensatori. Possono crescere in numero bensi ed in divisioni, ma de vono essere costantemente della stessa specie e con i stessi nomi. Quindi il dividere i giudizj criminali e civili in tante varietà, giurisdizioni, e legislazioni differenti è il produrre volontariamente una confusione, e multiplicare gl’abusi dell'arbitrario potere: ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti del cittadino. In questo caso, la legislazione sarà univoca, generale, uniforme; i limiti del potere giudiziario resteranno distintamente marcati; e le giurisdizioni, e le Maggistrature non saranno stabilite e divise sopra rapporti immaginarj e fattizj. Più, non nascerà pelle Magistrature quello spirito di corpo per cui sono in continua contesa o guerra fra loro, e, per conseguenza col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inversa della grandezza del corpo medesimo, onde più saranno piccoli, più avranno i difetti della picciolezza, più saranno capricciosi, irragionevoli, ed abuseranno della forza e dei momenti favorevoli:. Un gran corpo di Magistratura ben costituito e convenevolmente diviso, senza gelosia e senza interessi contrarj avrà la dignità che deve aver la Magistratura, ma non ne avrà le follie. Per quanto però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano, non sembro loro ad ogni caso sufficiente; e poichè delle cari che non limitate o mal circoscritte dalla legge si. passa facilmente da abusi in abuşi, essi non fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per quella perpetuità annua, ma, pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una magistratura costituzional mente arbitraria, si arroga anche il dritto di can. giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione, e farne delle nuove senza pre, vio esame, come, un corpo leggislativo farebbe, ma di propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare. Questo pur si faceva nel foro Ro mano, e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi magicamente scomparir l'albo espo sto, ed un altro a quello sostituito. Pensi chi vuole, che fosse quella una sublimità di condos. ļa, o la surrogazione d' idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi, che i pretori, nol fecero per altro che per favore, per interesse e per altre tali cagioni, stimate ferite mortali per la Giustizia. Cosi penso anche l'Ei neccio, il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza, pure abominò il dritto pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori. Si erano essi accom modati talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso, e facendo vero scempio della giustizia, si svegliò finalmente un'anima virtuo sa compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli stes si di lei sacerdoti, e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù, vedeva con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto nelle più infelici provincie. Vede va condannati gl'innocenti, i deboli oppressi, ed i Magistrati impuniti; e questo' nell'epoca la più memorevole della Romana virtù. Sdegnò egli, come rapporta PLUTARCO, i studii che la nobile gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche: quindi non comparve mai nel foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o ad umiliarsi al po polo per ambizione; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i suoi contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un tal carattere per attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i sistemi di corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. PAULO EMILIO fu in dovere di partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura. Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non è raro che i nimici del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle spese della Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto vantavano nei loro editri a nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in disordini correva già al suo termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma tra i disordini, la Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile. A nulla valevano le accuse contro de ' Magistrati, poiché i mezzi di salvarsi erano molto conosciuti. Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef fetto susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. CORNELLIO SILLA il quale o tocco dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili leggi, propose la rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori. LIVIO e DION CASSIO ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la sfrenatezza pretoria, « ma il grand' interesse de nobili specialmente a conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale ne' Comizj, che i fasci Consolari andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi sentire più delle vo ci, convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa ad altro tempo più tranquillo. Infatti secondo ASCONIO PEDIANO la legge passò = Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus dicere assueverunt, sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto impedirla, rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia, e Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di CICERONE: Troppo tardi perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio; la Repubblica era già spirante i disordini irreparabili, ed apparecchiati i ferri per le Ascon. in Orat. pro Cond. le nuove catene. Roma non godè mai della liber ' tà, non seppe conoscerla, nè conobbe mai i moa menti favorevoli, ne' quali avrebbe potuta ren: derla eterna, Se colla Repubblica però fini la grande autorità de' Pretori, e se nuova Legislazione, nuova Giurisprudenza e nuovo metodo giu diziario furono introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza, l' ordine giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva. Nuove parole ', nuove azioni, nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la giurisprudenza; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso, ridicolo per se stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di considerar in giudizio gli oggetti,.i rapporti e le azioni; in sostanza le finzioni legali: Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza. Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza, basta la più semplice ragione per ve dere, che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani; ma come perdonare a que' moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’ALTESERR, il quale offerendo a Lamoignon l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones, quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC, qui bus difficiliores casus expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur? = e peg gio altrove. Tale fu EINECCIO ancora il quale nel la Dissertazione, De Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà consultare i cita ti autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo aggiungero soltanto, che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne, che nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi de' tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che fosse cangiata la realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati. Per la secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per eludere le loro prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano espressamente par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo VICO portando le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando, le ai loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè le immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi espressioni più semplici e più adattate.  In con , fum tà di tali nature (dice il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva i farti non facii, i non fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredilà: introdusse tan, te maschere vane senza subjenti, che si dissero, » jura imaginaria; ragioni favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua riputazione in rim  trovare sì fatte favole, che alle leggi serbassero y la gravità, ed ai fatti somministrassero la ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza furono verità mascherate, e le formo, s le colle quali parlavano le leggi, per le loro circoscrit te misure di tante e tali parole, nè più, nè meno, nè altre si dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3 bara sia: 99 he: (VICO Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la paragona a quella della se. conda barbarie, dicendo, Cost a tempi barbari,, ritornati la riputazion de' dottori era di trovar, cautele intorno a contratti, o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era appunto il cavere e de jure respon. dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò si rileva, che sebbene la Romana Repubblica progredisse in quanto allo stato politico verso la libertà, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in quanto alle leggi però ad alla Giurisprus, denza i Romani erano rimasti in quello stato poetico, o barbaro, che caracterizza i primi passi sociali o lo stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la cagione, si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel perfezionamento dello spirito o della Ragione; poichè da questo solo possono essere migliorate le: costituzioni, le leggi politiche, e le civili. Mi dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le novità, che i Pre cori introdussero nel dritto, se da quanto si è detto finora, la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata; e chi volesse meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi troverà cose maravigliose e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e gemerà su le ruine del Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione, riderà di molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu si, e farà voti sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell ' obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che i Preto - ri poterono essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi sociali accader suole; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative ', riducendo all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità, le leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall' al tra banda dovremo pur confessare, che la maggior parte de pretori si abbandonarono ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per cui, più che ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia. Riconosceremo nel tempo stes 50, che questo nacque, dal non essere stata limi ta e legittimamente circonscritta la di loro autori tà o potere; e per questo d'ogni arbitrio abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la Giurise prudenza equivoca ed incerta', e fecero nascere una nuova specie di dritto, che tali qualità tutte in se comprendeva; e sebbene non autenticato da alcun atto del potere legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più esteso e più usato delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla Repubblica e coll' Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di equità può solo valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le finzioni legali, ci com parirà molto giusto che GIUSTINIANO le chiami favo le cioè azioni Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin. In proem instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè si può sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi. finalmente di mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno d'adorarla. Il latte della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7 vano per æs et libram, le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le nunciazioni di nuove opere, le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé elezioni et c. non solo erano faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva trascendere, me con azioni e rappresentanze particolari, che rende. vanò comiche le processure giudiziarie. Questo però non significa altro, se non che, nei tempi d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale delle idee e de sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della lingua parlata é divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro; in che principalmente consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i sentimenti di sociabilità, i piaceri della società, le regole che all'adempimen to di essi prescrive la Natura. Perciò e per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si disputò, si discusse, si combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè mai seppero elevarsi a generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per la buo na' costituzione de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi continuo l alternativo passaggio maquanto furono felici colla forza o colla frode altrettanto infelici furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai sentimenti univoci, e se la plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia conservò sempre la sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che vergognosamente li caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il cittadino dal cittadino. Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi non poterono averla della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato censo, non diro quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica non fu una invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad alcuno superflue in rapporto al soggetto della Giurisprudenza Romana, rispondero, che tali non sono poic (Det poichè quando si parla delle leggi, convien neces sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore, dei suoi sentimenti, e della forma e condizione del potere legislativo. Or potrà sembrare strano il dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno nell'altro, e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in tre, e che poi quelle leggi fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma nel tempo in cui fu più celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani, dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata, poichè i fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine. E quantunque io sia nell' idea, che quella tavola non contenesse che i prin cipali dritti dell' Aristocrazia, qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto detestata dalla plebe, e ro versciata vittoriosamente da CANULEJO; pure in un frammento rimastoci, troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento del dritto Legisla tivo, cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $ TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni, la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio; e nel significato generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo stato, ma di quelli soli che godevano il dritto, e meritava no il vero nome di Cittadini, quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente venne a partecipare alle qualità civiche, la parola po. " polo divenne generale, e non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di classi, ciocchè la cennata legge prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso e valore, cioè, a far, sì che legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea prescritto e comandato. Se tale è però il principio costitutivo delle Rear pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te ancora alla natura umana, vi devono esse re delle regole, accið lespressione della volon tà generale sia certa legittima libera ed uguale, onde ciascun cittadino senta essere una parte in tegrante del Sovrano, dello Stato, e della Patria: Tali sono le leggi costitu zionali, che riguardano il dritto del suffragio, o la maniera di communi care la propria volontà al corpo sociale, e fare che la volontà pubblica sia realmente il risultato del. le volontà particolari. Il Dritto di suffragio costi tui yang tuisce dunque principalmente la qualità di cittadi. no, e il modo di darlo, forina quasi una misura di graduazione del Cittadino mede simo. cioè che tanto più si è Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale. Troppo lungi mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence colla Storia, come questo drit to si stabilisse in Roma:, cioè nella formazione casuale di quella Repubblica, alla quale contribul molto più la natura o il corso naturale delle sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e di ragione. Dirò solo, che quel popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere l'importanza di queste idee, che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un corno di bue alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato quel luogo, dove si radunava, per compir l'atto il più degno, il più glorioso p er un popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma cotai nomi ed usanze erano avanzi dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e mandre sono correlativi necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf DIONYS. ANTIQV. ROMANARVM e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può dire che fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo, giacchè i Comizj delle Curie furono obblia ti, nè ebbero in effetto il potere legislativo; ed i Comizj centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza alle ricchezze. Vi fu inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto, che di esaminare o consultare, si arrogo pure in parte il potere legislativo. O la Nazione dunque radu nata per Tribd, o essa stessa convocata per Centurie, o il Senato ebbero o in dritto o in fatto l'esercizio del potere legislativo. Le risoluzioni per tribù dette plebisciti, non ottennero che dopo molte contese la vera for za di leggi, cioè di obbligare tutti i cittadi ni, giacchè da principio non obbligavano che la plebe soltanto. Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un altro popolo un altra Nazione; che quelle leggi nelle quali non avevano potuto far prevalere, le loro idee e le loro volontà, per mol to tempo non le fecero valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu meramente abusiva, poichè nè per le leggi Decemvirali ne per al cun stabilimento posteriore, il Senato da se solo aveva in alcun modo la potestà legislasiva. el 3 2 tiva. Quelle risoluzioni però che portarono parti colarmente il nome proprio di leggi, furono le de cisioni dei Comizi centuriati, delle quali non oc corre ripetere nè il metodo nelle proposizioni, nè quello della convocazione, nè quello delle deci sioni. Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca, e si può trovare presso mille autori, che del governo Romano anno ragionato. Ho voluto solo ricordare queste poche notizia per mostrare, come il potere legislativo fu stabie lito in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la realità, e come il dritto di suffra. gio, non fu lo stesso nè uguale nei diversi comizi. Nei centuriati la qualità di Cittadino era misurata su le ricchezze, e non si può dire, che fosa se la volontà del maggior numero de' cittadini, che rappresentasse la volontà generale, come don vrebb' essere per natura. Și sa ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le decisioni del minor numero, e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva già decretata la legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile e, delusa. Che quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente gli Entusiasti, ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione: Dirò di più, e ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione, che quei comizj oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà governativa', ed in molte occasioni simil mente il potere giudiziario; ciocchè indica, qua le idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema. Fu sicuramente un effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire, che i Tribuni del popolo non fossero Magistrati, perchè non avevano nè imperio nè dritto di vocazione, nè giu risdizione, nè auspicj, ma in verità se non erano magistrati nominali, lo erano in effetto, ed eser citavano un potere amplissimo su la plebe, sul Senato, e sopra tutta la Repubblica: ad es si apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero corpo le gislativo, se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente ed integralınente ad ogni. cittadino. Il Cittadino vi figurava come Citra dino libero, e non era il rango o la ricchezza, che davano la preponderanza. E pure questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge, come l'ebbero le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo non decido pai se al paragone le leggi Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato, che quelle proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori. Possiamo però ri Aettere, che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica, o relative alla libertà ed al lo stato popolare, le quali si possono chiamare leggi di Umanità e di Giustizia uni versale, furono tutte o quasi tutte proposte dai Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie, poi che erano le leggi naturali della libertà, e quindi necessarie e costituzionali per un popolo che voleva essere libero, Nè è da imputar loro che non fos sero migliori; giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni era comune ai patrizi ed ai ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche fosse Aristo cratichissimo, non potè far a meno, di con fessare, che se si avessero voluti annoverare i misfatti de' Consoli, non sarebbero stati pochi, ma che toline i due GRACCHI, non si potevano contare altri Tribuni perniciosi. Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi alla Repubbiica, e le leggi an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse furono effettiva. mente a pubblico vantaggio. La maggior parte però delle leggi, dei plebisciti, e de' Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o temporarie, essendo per lo più pro mosse per occasioni particolari; ¢ sebbene si procurasse di dare ad esse tutta l'autenticità so. lenne, non si riducevano però in un corpo, che avesse l'autorità d'un codice di legislazione; ne io credo, che ad uso pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di bronzo, come pur ci vo. gliono far credere alcuni autori antichi. Sono in dotto a pensar cosi da varie testimonianze, e spes cialmente da una di CICERONE. Possiamo da esse raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de' Patrizj e de' Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con mistero, trat tandosi quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come abbiamo veduto molto dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a ciò destinato, e poi il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica, gli antichi curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la custodia Al (131 ) si. Almeno cosi ci attesta CICERONE, assicurandoci, che per saperle, o per conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti = Legum custodiam nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri volunt; a librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam nullam ha bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi solum literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta hominùm obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria, che nel suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero, che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che TACITO caratterizza con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero elogj di equità e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta una certa re golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi posteriori, prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che il disordine e la confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse parte la violenza, la cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità, da privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti c'indica Tacito dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam sequuræ leges, etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione ordi hun, et adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava, per vim taie sunt. Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e l'accettazione della posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma colla scorta della Storia, e sce vri (TACITO, Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile prevenzione tutt'altro abbiamo trovato. Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen " ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in struito della storia degli alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo Regno e de gli alııi successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa, come si potrebbe provare su le poche tracce, che non sfuggono ai critici indagatori del le origini civili. In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato, che dopo una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le consuetudini Aristocratiche, si co minciò a dare una forma alla nascenie società. Il re videro, che il loro potere era un nulla, se invece di esser capi de'patrizj, nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo scompar ve per diventar Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo Tarquinio espulso. In tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori parlarono dei tempi passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a credere, che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il cervello per con cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti, ed inutili affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere, che l' incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono questa marca vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica. Tali poi furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli Editri de' pretori o sia il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette, le quali sempre più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque poter drittamente dai fatti con chiudere, che le leggi e la Giurisprudenza Roma na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate, ed indegne di reggere un po polo qualunque, mancando di quelle qualità che poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo stabilire la regola eterna della giustizia, render P urmo suddito di esse, e non dipendente dall' arbitrio; ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo, qualunque sia del resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni de' politici si fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero facil mente ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè per gli edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso, credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione della legge e nella generale corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte, ossia della imitazione e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere complete (Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il sentimento morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment morale. Divisione della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà. Lo vviluppo della morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere morale. L’obbligazione morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler – self-love). La virtù. La benevolenza – la benevolenza conversazionale. La giustizia. L’educazione. La felicità. La passione. Note agli "Indizj di Morale" di G. Pannella Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana. La giurisprudenza romana dal tempo de' re fino all'estinzione della repubblica. Sequela dei carattere della giurisprudenza romana sotto gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza. L’amministrazione della giustizia. Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. La Situazione corografica della Repubblica di SAMMARINO e dei varii nomi dati successivamente al capoluogo dello Stato. L’origine della Repubblica di S. Marino, e prime sue memorie fino al secolo decimosecondo. Le memorie di S. Marino nel secolo decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento delle memorie istoriche per tutto il secolo decimoquarto. Proseguimento delle memorie per rutto il secolo decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto il secolo decimosesto. Proseguimento delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela del secolo decimottavo. Il governo politico della Repubblica di San Marino. Diplomi ed altri monumenti citati nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed inutilità. Ai dotti e agli studiosi delle scienze della natura. L’origine naturale della storia e dei progressi ed abusi della medesima. La storica incertezza. L’autorità degli storici contemporanei del cavalier Tiraboschi. L’inutilità della storia e dei pregiudizi derivati dalla medesima. Verificazione degli antecedenti principj con esempi tratti dalla storia della romana repubblica. I bello. Ai giovani educati. L'origine dell'idea che abbiamo del bello. Il bello della natura. Il bello dell'arte, ossia della imitazione e del bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. L’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche.  Alla reale accademia ercolanese di archeologia e a S. E. reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D. Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria. L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti (Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene (Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis. Spallanzani all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli. Spallanzani a M. Delfico. Luigi Grimaldi a M. Delfico..... pag. 141  Toaldo a M. Delfico..Spannocchi a M. Delfico.V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle]. Michele Torcia a G. Berardino Delfico..Mollo a M. Delfico. Carli...Mùnter a M. Delfico..... pag. 154  Mùnter a Delfico in Napoli..... pag. 159  Mùnter a M. Delfico..Filippo Mazzocchi a M. Delfico..Gazola a M. Delfico..Giuseppe Micali a C...Bertola a G. Bernardino Delfico..Il medesimo a M. Delfico..Brugnatelli a M. Delfico..Anutos a M. Delfico..Gio. Andrea Fontana a M. Delfico. Il Duca di Cantalupo a M. Delfico..Palmieri a M. Delfico...Gargallo a M. Delfico in Teramo...Galante a M. Delfico..Amaduzzi a M. Delfico..Zarillo a M. Delfico..Giovene a M. Delfico..Amoretti a M. Delfico. Francesco Soave a M. Delfico..Acton a M. Delfico (Teramo).Fortis a M. Delfico..Zannoni a M. Delfico..... pag. 206  Bossi a M. Delfico..Tommaso Frantoni a M. Delfico..Felici a M. Delfico..... pag. 209  G. Napoleone a. M. Delfico.Trivulzio a M. Delfico..Melzi a M. Delfico..San Severino a M. Delfico..Il duca di Sant'Arpino a M Delfico..... pag. 231  Tracy a M. Delfico. Antonio Canova a M. Delfico..Ricci a M. Delfico..Gioli a M. Delfico..Dragonetti a M. Delfico..Zurlo a M. Delfico..... pag. 246  Michele Arditi a M. Delfico...Orsini a M. Delfico...Burini a M. Delfico...Taranto a M. Delfico..... pag. 252  Francesco Sorricchio a Delfico..Cicognara a M. Delfico..Santangelo a M. Delfico...Ciampi a M. Delfico..... pag. 260  Donato Tommasi a M. Delfico.. Il Duca di Laurenzana a M. Delfico...Grimaldi a M. Delfico..Santangelo a M. Delfico..Lodovico Bianchini a M. D..Filangieri a Melchiorre Delfico.Niccolini a M. Delfico...Rangone a M. Delfico..Pilla a M. Delfico Il Duca di Gualtieri a M. Delfico...II Barone Poerio a M. Delfico..Armaroli a M. Delfico..Neroni a Leopoldo Armaroli.Fuoco a M. Delfico..... pag. 287  Giuseppe Micali a Gregorio de Filippis..Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..Al sig. Pasquale Borelli..Al sig. Antonio Orsini..Al sig. Conte Armaroli..Volta a Orazio Delfico.. Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M. Delfico. Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana..... pag. 326  Stati Romani.Napoli. Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo.Discorso del Cav. Comm. Gian Berardino Delfico letto in occasione del solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla Città e Provincia di Teramo..La famiglia e le opere di Melchiorre Delfico. I titoli nobiliari. Episodi della vita del Delfico. Opere ignorate del Delfico. Il contenuto delle opere. Catalogo per materia delle opere di M. Delfico. Lettere del Delfico e al Delfico. La Repubblica di S. Marino in onore di M. Delfico. M. Delfico a Gaspero Selvaggio. A Paolo D' Ambrosio M. Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico è uno dei più cosmopoliti e al tempo stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli, interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate (2), che dal 1754 al 1769 costituisce il fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere una «benefica scossa» (3) alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi un serrato e articolato dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo le linee di un possibile rinnovamento della società civile che non di rado contrasteranno con l'angusta politica del governo borbonico (4).  È soprattutto dalla rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (5), considerato il manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico del sapere, che Delfico matura una nuova concezione della cultura e dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi, «più pratica che teoria» , e la convinzione della necessità di un impegno politico più diretto. Un atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana (7) e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due lavori, con i quali inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento, dal 1077 sotto il dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato ecclesiastico (9). Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali dell'autorità ecclesiastica, dimostrando «false o insussistenti» le pretese giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo «vergognoso» perché «prodotto per dolo o per frode» (10).  Sebbene notevole sia stata l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le molteplici espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta possono essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano. Anche per i rappresentanti della corrente «più provinciale», «più tecnica e descrittiva»(11) della scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso C., sebbene riconosca il suo debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore che la propria ragione gli faceva desiderare, bensì il pubblicista che ricerca e analizza i mali economici e sociali della sua terra. «La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi fatto pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di Condillac, parve che il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi una inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti. Già nel Saggio filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo, alcuni anni dopo il suo ritorno in provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti umani, che indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index librorum prohibitorum. L'opera è una vera e propria esaltazione sia dello stato coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere fisico ma soprattutto morale. In polemica con Rousseau, C. considera il vincolo matrimoniale una fonte continua di sensazioni e di sentimenti aggradevoli e sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è l'occasione per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società, fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i sessi.  Del 1775 sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i quali svelano assai più a fondo e gl'ideali politici di C. e la sua cultura» (15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato alla dottrina sensistica. Confessa ad un amico: «Dopoché il mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le quali hanno potuto migliorarlo. Egli riconosce alla morale il fondamento empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gl’uomini acquisiscono le prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la possibilità di comprensione della qualità degl’oggetti e gli individui sono messi nelle condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor proprio. È nel passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare, scrive, che le nazioni godono del colmo della virtù e nasce quella gara d’Eroismo che è difficile a trovarsi nelle Monarchie e che si verifica ogni qualvolta «l'interesse di tutti i particolari va a riunirsi col pubblico e i cittadini partecipano maggiormente alla sovranità e al potere.  L'affermazione non si concreta in una scelta della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica. L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria simpatia per il despotisme éclairé. Vi è, da parte sua, una svalutazione della politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti. Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha niente a che vedere con la «fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche costituiscono una imprescindibile componente, consente a C. di condurre a fondo l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del potere che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i mali che provengono dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve essere un canone politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad altre ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria. Al contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre «lusso e corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino «la vita, l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri. Dopo il sequestro degli Indizi di morale e la messa all'Indice del Saggio filosofico,  C. incorre in un nuovo spiacevole episodio con le autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e dell'assessore Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe monache dal monastero di S. Matteo di Teramo.  L'exequatur del Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio 1778) con il conseguente ordine di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri «lajci seduttori» (22) presunti responsabili dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con l'indulto regio del 17 giugno 1780.  Questo secondo soggiorno partenopeo, avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo per lo scrittore teramano che ha l'occasione di  rinsaldare i legami con gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi, Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di riforme.  Ritornato a Teramo, Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo, la nomina ad Assessore militare della sua provincia. Lo scritto, dedicato all'amico FILANGIERI, inaugura un'intensa stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore di numerose riforme. Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza politica, avendo intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione militare poteva assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel «sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del soldato all'interno della società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di cittadino, così che i due termini diventino sinonimi fra loro.  Ad alimentare la fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul piano legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del Supremo Consiglio delle Finanze. Il Consiglio si prefiggeva di riformare gli antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso C. vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo, pubblicata a Napoli nel 1783. Considerato «forse il più limpido e ragionato» (24) dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è una dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione in uno stato di sottosviluppo. La risposta delficina è in favore di un ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la realizzazione di un'economia di mercato.  Nell'estate dell'83 Delfico è di nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole. All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda amarezza per l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova dal terribile terremoto calabrese. La condotta della corte borbonica gli appare quanto mai improvvisata e piena di incertezze e di contraddizioni.  Ritornato a Teramo è raggiunto, nel febbraio del 1784, dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio (26) che ne rievoca il pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere, lo scrittore abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a Napoli in tre volumi tra il 1779 e il 1780. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane  sull'uguaglianza  tra  gli uomini,  correggendo quei «paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere e nobili osservazioni» (28) sono racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere «presque nulle dans l'Etat de Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per «gli oziosi e gli annojati», ma in funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità e, in particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita morale delle nazioni.  Alla fine di giugno del 1785 Delfico si trasferisce di nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città natale nell'estate dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a questo periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter, venuto in Italia nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine degli Illuminati di Baviera (31). A Münter, con il quale visiterà assieme a Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che trentennale (32), accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto, per la numismatica.  A Napoli Delfico pubblica nel 1785 la Memoria sul Tribunal della Grascia (33), considerata, assieme a pochi altri testi, «il vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco contro il «terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello «più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione. Vi è nella Memoria l'affermazione del principio della libertà di commercio e dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del quale vengono fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle nazioni.  Nel 1788 vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia (36) in cui C. rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata alla pastorizia. In un Paese così «infelicemente» amministrato, dove regna una troppo marcata diseguaglianza e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato. Tutti «i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino. La proprietà infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei proprietari «sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono di riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni altra classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nel 1784 nella pur breve ma incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero «desolato» che va dal Fortore al Tronto, in cui denunciava le gravi «avarie» commesse dai governanti con la creazione di continue dogane che, ostacolando il libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle sempre più.  Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che egli affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della fine degli anni Ottanta, in cui esalta il principio del laissez-faire contro le regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di «ogni coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della ricchezza e del benessere individuali.  In quest'ultimo soggiorno napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, Delfico si attiva non poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non sempre trovano il riscontro desiderato. Ciò non fa che accrescere in lui un sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza, quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà nell'estate del 1788 ad allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere, non prima però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità stessa «non solo un atto nullo, ma anche ingiusto» (42).  La notizia della rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre del 1788 per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti «un esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla strada delle riforme.  Rianimato da queste speranze, nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale (44), Delfico si trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi (45) in cui, ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, che rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto romano» (47), cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e dei governi presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e provinciali.  Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale C. non si allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua predilezione per la monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa nel Teramano un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più spesso «scontentissimo».  Il rientro a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È, questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come C., avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte «agitazione». È l'epoca della scoperta della congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera innocente e spera invano venga presto scagionato.  L'accentuarsi del carattere reazionario della politica napoletana non determina tuttavia in Delfico, come in altri illuministi, il passaggio «da regalista in giacobino» o repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una fase successiva, il '93, caratterizzata da tanti orrori. C. lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato francese André-François Miot (51). A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati.  Nella seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese (27 settembre 1796) sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà vincitore il piacentino Gioia.  Immutato è invece il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico, non scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di infondate accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni «malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura. Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica, tanto che il 27 settembre 1798 è tratto in arresto, nel proprio palazzo, assieme a tutta la famiglia (56). Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi (57), è dapprima posto a capo della Municipalità della città e successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Èchiamato a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio, l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il territorio regionale.  Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella vera e propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia intellettuale che è stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione. Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (61) del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e «l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la «frode» del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.  Volentieri egli si sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era stato nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo Championnet. Ma a Napoli C. non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver non solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi (62). Non è da escludere a questo punto che proprio durante il periodo pescarese C. abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (63). Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse  delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.  Di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, C. preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San Marino. Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica di consigliere di Stato.  Durante il soggiorno sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla «tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come CUOCO (si veda), critica l'«immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto «distruttivo» (66). La confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così «mostruose» che per i loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni politici «falsi e irregolari». L'Italia, «abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia» (67).  Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica saggia e realistica che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per «proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, «mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società» (69).  Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella casa del marchese Belmonte, la cui amicizia risaliva al 1784, o per andare a Bologna dal suo amico Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803 soggiornerà ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Si porterà a Milano per seguire la stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale d’Avenstein, rivedrà CUOCO (si veda) e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con il celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago, donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello.  È, quello sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori dalla vita politica attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo studio della storia in stretta relazione con la realtà presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro i quali riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice della civile sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta, scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito» di San Marino, di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione» (72). Questa «rivalutazione» dell'esperienza storica (73) appare quanto meno strana in un pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo italiano.  Nei Pensieri C. affronta il problema della conoscenza storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza. Con quest'opera esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons d'histoire risente la stesura dei Pensieri, nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli si pone principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più semplici siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla luce. Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una convinzione, questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino del 1824, Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia «qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico chiama anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è» (80).  Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Grimaldi (81) e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi (82). La dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli «impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti naturali.  Una diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti «favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il «divino» Platone, Delfico tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non aveva maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così «la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno stato «più infelice» (84) di quello dei secoli remoti.  Il ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse» (85) e che lo induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di quello «spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari.  Nominato da Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3 giugno 1806), Delfico viene assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim il ministero dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, viene insignito da Murat del titolo di Barone.  I numerosi incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale, tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni. Evidente appare il suo debito nei confronti di Cabanis, sostenitore della sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei Rapports du physique et du moral de l'homme, l'opera più importante del filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni del 1813 e la Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue, l'anno successivo, la Seconda memoria. Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche sul Bello, pubblicate a Napoli da Agnello Nobile.  Con la restaurazione dei Borboni, nel 1815, Delfico dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del 1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro della Giunta provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino al suo insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre 1820, vivrà solo fino al marzo 1821, quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario. Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti governativi.  Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale, avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese. Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede profilarsi la minaccia di rendere il mondo «stazionario» se non addirittura di farlo a grandi passi o salti «retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso, ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per Delfico l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così, agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni pregiudizi che si sarebbero formati sotto la sua «potente autorità, senza tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni positive.  Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico e l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la «viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario fiorentino: «Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona» afferma «questo non vale per le sue dottrine» (93). Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e politica e il principio che «per regnar tutto lice» (94).  Divergenze emergono anche dal tentativo che Delfico in seguito compie di ricondurre il pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla base delle proprie convinzioni ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo antisociale dei «gentiluomini», di quegli uomini cioè che, «oziosi», vivono dei proventi dei loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver legato la «questione militare» alla «questione politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria «affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità Delfico fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più «conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e personale. C. torna a Teramo, ma nell'autunno successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino a quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale, in cui ribadisce la sua concezione materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con il titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche.  Non verrà meno neppure il suo impegno riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera franca in Pescara e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara, con i quali si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza delle Provincie», non senza però aver prima creato le condizioni e le strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia. Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe così finalmente «divenir attivo e moltiplicare i capitali e far nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle esistenti.  La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara costituisce l'oggetto della riflessione che C. conduce nel Brevecenno. L'idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro, permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità che la creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere «punto centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade, l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo, ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi commerciali.  A metà degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles 1825), di cui uscirà una traduzione italiana incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e dell'editore del testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata ordita da alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto del conte Luigi Corvetto, «justement regardé comme un des meilleurs jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M. l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, sulle condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia. C. pubblica la lettera Della preferenza de' sessi (105) alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna affrontati in gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo periodo risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il Fondo C. della Biblioteca Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti, il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende «rivederlo. Riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno, e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese C. muore.  Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte C. cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a GENTILE (si veda) dal ristretto ambito locale, che lo rende un filosofo sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una dimensione più ampia, nazionale, C. è oggetto di una diversa considerazione. Una rivalutazione che si determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia, e, in particolare, per alcune esperienze intellettuali e politiche significative dell'illuminismo. Merito di questa storiografia è quello di aver ricondotto e legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento riformatore napoletano. Una lettura che ha privilegiato il C. riformatore, la sua fase riformistica, contrapponendosi alle rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neo-idealistica che del ventennio fascista. Llinee interpretative stanno approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di C. (alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella relativa al decennio rivoluzionario o quelle che contrassegnano la sua evoluzione durante la Restaurazione, da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a FILOSOFO della storia e della politica. Nato in un paesino vicino Teramo, LEOGNANO, dove il genitore, Berardo C., si rifugia durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Muore a Teramo. Per le notizie biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C., Angeletti, Teramo, arricchita di un'elencazione dei saggi editi ed inediti del Nostro, alcuni dei quali successivamente pubblicati, nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continua sul «Giornale abruzzese di scienze lettere e arti», col titolo Notizie intorno alle OPINIONI FILOSOFICHE ed alle opere di C.  e, sempre sulla stessa rivista, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre Delfico.  (2) Molti degli amici e dei discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino Romualdo de Sterlich, Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e Troiano Odazi di Atri, che succede al Maestro nella cattedra di economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il «partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo  borbonico. Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto; U. Russo,  Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti 1990, Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna.Sul riformismo borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma;  I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di M. Di Pinto, Guida, Napoli 1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizioni del Sole, Roma, e la sintesi di a. M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, vol. 12, Il secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano e la ricca bibliografia in essa contenuta.  (5) Lo scritto, dedicato a Bartolomeo Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli. GENOVESI (si veda), Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli), Lettera, Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, p. 497.  (7) Per una valutazione dell'influenza di Pietro Giannone sulla cultura napoletana del XVIII secolo oltre al lavoro sempre valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di GIANNONE (si veda), Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di E. Chiosi, La tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, Sulla posizione di Genovesi nei confronti dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii, GENOVESI (si veda). Dalla politica economica alla «politica civile», Olschki, Firenze; G. Galasso, LA FILOSOFIA in soccorso de' governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli Le due Memorie, dal titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento e Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate a Delfico dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, «Fondo Delfico», b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio beneventano. La seconda, invece, fu pubblicata la prima volta su «La Rivista abruzzese di scienze e lettere» nel 1890 (a. V, fasc. I, pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc. V-VI, pp. 2), preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, vol. III, Fabbri, Teramo 1903, pp. 9-80. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L. Savorini.  (10) M. Delfico, Del territorio beneventano, Venturi, Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Ricciardi, Milano-Napoli G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di C., C., Memoria autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Misc. C., Saggio filosofico sul matrimonio, in  Opere complete. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano Lettera di C. a Dragonetti, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale, Firenze La lettera è stata riedita nelle Opere complete, M. Delfico, Indizi di morale, in Opere complete, Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr. M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia, Firenze, Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Pomba, Torino. C., INDIZI di morale. Per una ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano. L'attività di C. presso il Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma; L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano. Cfr. C., Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in Opere complete, F. Venturi, Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori napoletani; Favorevole ad un più moderno sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica della sua provincia, Delfico assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento decisamente contrario alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane in «Itinerari», C., Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo Orsino, Napoli, Opere complete, C. ammira soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli 1769), poiché in essa l'Autore era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con la storia politica dello Stato stesso e a far vedere come la mancanza di costituzioni e di leggi fondamentali tenesse lo Stato «in continua rivoluzione» (Elogio di GRIMALDI (si veda), C., Elogio di GRIMALDI (si veda), Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, Oeuvres complètes, Gallimard,  Paris. C., Elogio di GRIMALDI (si veda). Su tale associazione, fondata il 1° maggio 1776 ad Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di Baviera, in Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze. Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere complete di C.; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten, Andreasen, Haasse, Leipzig. Due di queste ultime sono state riprodotte in appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico. (Studi e ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, Chieti, il quale ha pubblicato altre lettere di Delfico a Münter, assieme ad alcune lettere di Delfico alla sorella del Danese Federica Brun. Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca Provinciale di Teramo. C., Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli,Opere complete. Solari, Studi su PAGANO (si veda), cur. Firpo, Giappichelli, Torino. Sullo stesso piano l'Autore pone l'altro scritto di Delfico, Memoria sulla libertà del commercio, e l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, pubblicata anonima a Palermo; C., Memoria sul Tribunal della Grascia. C., Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere complete; C., Discorso sul Tavoliere di Puglia, cit., p. 370.  (38) Il testo è stato pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e Sud. La lettera è datata Teramo, su invito dell'Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, Scrittori classici italiani di economia politica, cur. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985) con un'introduzione di M. Finoia. Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le carestie, in cui apporta alcune «modificazioni e moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il «terribile flagello» delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo, letto nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato negli Atti, è stato riedito a Teramo assieme alla Memoria sulla libertà del commercio.  Se, dopo varie insistenze, all'inizio del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima nella Memoria per il ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, il ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del 1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo «fisico» ed orientamento laico. Sugli sviluppi delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo, la quale pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una «piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo. La Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del '700, Guida, Napoli; C., Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Ined. In Lombardia Delfico si trattenne fino al mese di giugno del 1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, rientra in patria. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C.. Opere complete. L'opera, che provocò subito «molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso Porcelli, ristampata a Firenze e Napoli; Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di C., in «Rivista italiana per le scienze giuridiche. C., Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete. Odazi, nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato PROFESSORE DI ETICA – non ‘moral philosophy,’ come a Oxford -- nel Reale convitto della Nunziatella, è chiamato a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu coinvolto nel fatti. Arrestato, morì suicida nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Odazi. La prima vittima del processo politico in Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», CROCE (si veda), La rivoluzione napoletana, Laterza, Bari, Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C. Si veda la lettera di Delfico a Fortis da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di C., Rassegna della letteratura italiana. L'ipotesi di una partecipazione al concorso origina da De Filippis-C., il quale riporta tra le opere delficine «non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di C., un opuscolo di 26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda Carletti, A proposito di un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di C. al concorso del 1796, in «Trimestre. Sono le delficine Memoria per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte inedite.  (55) Lettera di C. a Fortis in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli, nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Nella Relazione risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793 (pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane», egli era costretto a difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di «vaghe» e «calunniose imputazioni» di qualche delatore. La denuncia del '93, pur non avendo gravi conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che Delfico succedesse al fratello nella presidenza della Società Patriottica di Teramo. Una nuova denuncia anonima èall'origine del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con decreto Murat gli avrebbe conferito quello di barone. Il pretesto è fornito da alcune lettere «rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia C., scritta presumibilmente da Giamberardino C. «allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel processo contro «i rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era stato liberato in seguito all'indulto generale. Il testo è stato pubblicato da V. Clemente su «Storia e civiltà. L'episodio che portò all'arresto dei C. è a. I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre 1798. Arrivano a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi riconquisteranno la città, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne e Chieti. Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila, Consorzio Nazionale, Roma. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr. anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo in L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi; G. Tullj, Minuta relazione dei fatti sanguinosi seguiti in Teramo, con postille e con la continuazione del canonico Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca inedita teramana, Storia e Civiltà; C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal 1798 al 1809, Teramo Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a Delfico, i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Antonio Madonna, entrò in funzione subito dopo e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo. Una repubblica giacobina, in «Rassegna storica del Risorgimento, La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma; Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. anche F.  Masciangioli, C. e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G. Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS, Pisa; Cfr. Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», ora in La filosofia in soccorso de' governi.Il testo è stato pubblicato da R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi con documenti e note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di C., Proclama sulla sicurezza pubblica del ventoso anno, con il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio. I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce, Pescara. Cfr. la lettera di Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep., Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica, e Per una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli. Per il testo cfr. G. Carletti, C.. Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino. Cfr. V. CUOCO (si veda), Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano. Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete. Il saggio, il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che C. l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali. La seconda e la terza edizione uscirono a Napoli. C., Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre Delfico, in «Itinerari», Cfr. GENTILE (si veda), Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della «Critica», Napoli, il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano. Un estremo radicalismo nell'«antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da CROCE (si veda), La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia»  e  2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», rielaborati nel volume Storia della STORIOGRAFIA ITALIANA, Laterza, Bari, e da RUGGIERO (si veda), Il pensiero politico meridionale, Laterza, Bari. C., Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, in Opere complete. Il titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris. Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. Rosso, De Volney à C.: l'histoire, une discipline aussi inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Angers, C. Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, Opere complete. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima. Porcelli, Napoli, Epoca. Grimaldi si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata nella recensione al volume di Grimaldi, Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis.  Per un esame critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma. Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in «Aprutium»; C., Discorso sulle favole esopiane, Lettera ad Onofri, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre Delfico. Lettere sammarinesi, Arti  grafiche Della Balda, San Marino. Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese, Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli Ora in Opere complete. Ora in Opere complete. Ripubblicate nelle Opere complete, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di A. Marroni, Ediars, Pescara. Per un quadro d'insieme dell'attività amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino, cfr. Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese, cur. Lepre, Liguori, Napoli. Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti, C., Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino. Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia. Cfr. MACHIAVELLO [si veda], Discorsi sopra la prima deca di LIVIO [si veda], in Opere, Opere complete. L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli nel 1826, per i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche, ora in Opere complete. Pubblicati nelle Opere complete, i due testi sono stati riediti da Carletti, La Pescara di C.. C., Breve cenno. C., Fiera franca in Pescara, Breve cenno. Ora, tradotto, in Opere complete, Rapporto sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a C. C., Della preferenza de' sessi. Lettera a Simonetti, pubblicata a Siena ed ora in Opere complete. Cfr. la lettera di Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio letterario e politico di Dragonetti. Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Per un quadro d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto, Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Bari, e la ricca bibliografia in esso contenuta. Per una ricognizione degli studi delficini, cfr. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica della storiografia delficina, in «Trimestre», Saggio filosofico sul matrimonio, segnato nell'indice de' libri  proibiti, INDIZI di morale, proibito prima di pubblicarsi. Discorso sullo stabilimento della milizia  provinciale. TeramoMemoria sulla coltivazione del riso nella  provincia di Teramo  Napoli  Porcelli Elogio del marchese D. Francescantonio  Grimaldi . Napoli, presso Orsino Memoria sul tribunale della grascia e  sulle leggi economiche nelle provincie confinanti  del regno. Napoli presso  Porcelli. Memoria sulla necessità di rendere uniformi i pesi e le misure del regno. I. voi. iti  4 * Napoli presso Porcelli. Memoria su’ regii stucchi, o sia su la  servitù de’ pascoli invernali nelle provincie ma-  rittime degli Àpruzzi, Napoli; Discorso sul tavoliere di Puglia e su la  necessità di abolire il sistema doganale presente  e non darsi luogo ad alcuna temporanea rifor-  ma, Napoli; Memoria per la vendita de’ beni dello  Stato d’Atri. I. yol. in 4 * Napoli, stampata una col reai dispaccio di approvazione. Riflessioni su la vendita de’ feudi umi-  liate a S. R. M. Napoli, presso Porcelli . Ricerche sul vero carattere della giu-  risprudenza romana e de’ suoi cultori, Napoli, presso Porcelli, ristampato in Firenze ed in Napoli; Lettera di Cantalupo su feudi, Napoli Memorie storiche della repubblica di  San Marino, Milano dalla  tipografia di Francesco Sonzogno .  Memorie sulla libertà del commercio :  ( stampate nella Collezione de classici italia-  ni di Economia politica : parte moderna : Milano i Pensieri su la storia e su la incertezza  ed inutilità della medesima, Forlì. Pensieri sopra alcuni articoli relativi  all’ organizzazione de’ tribunali: stamperia reale di Napoli. Lettera a Selvaggi sulla Tragedia. Pubblicata dal Giornale enciclopedico di Napoli An. Nuove ricerche sul Bello. Napoli. Ricerche sulla sensibilità imitativa con-  siderata come il principio tìsico della sociabilità  della specie, e del civilizzamento de’ popoli e  delle nazioni ( Memoria letta nella reale Ac-  cademia delle scienze di Napoli il: pubblicata tra gli Aiti della medesima Napoli, insieme alle altre due seguenti Memorie. Memoiia su la perfettibilità organica  considerata come il principio fisico dell’ educa-  zione, con alcune vedute sulla medesima : Seconda memoria sulla perfettibilità  organica ec. Ragionamento su le carestie, letto  nell ’ Accademia delle Scienze di Napoli, e pubblicato negli Atti della  medesima voi. II. Napoli.    Poche idee su V accusa de' ministri .  Pubblicate in uno de' giornali costituzionali di  Napoli. Dell* antica numismatica della città  d’ Atri nel Piceno con un discorso preliminare  su le Origini italiche ed un appendice su’ Pelasgi ed i Tirreni, Teramo, con tavole in rame .Rischiarimenti ad alcune osservazioni fatte dal  Micali su la stessa, e di una Lettera a Zuroli su le antiche ghiande missili di  piombo, Napoli, dalla  tipografia di Angelo Trani : con più tavole in  rame .   27 Della preferenza de’ sessi. Lettera a Simonelti. Siena, Ristampata in Napoli insieme ad alcune poesie del  Conte di Longano. Lettera all’ autore delle Memorie intorno i letterati e gli artisti ascolani. ( Stampa-  ta in fine delle stesse Memorie, Ascoli. Espressioni della parlicolar riconoscenza  della provincia e città di Teramo dovuta alla  memoria dell’ immortai Ferdinando I. Annali civili del regno delle due  Sicilie Inforno a’ dritti sovrani di Napoli sul-  la città di Benevento. Memoria. Intorno a’ diritti sovrani di Napoli sul-  la città di Ascoli. Memoria.  Lettera a' fratelli sulla eruzione del  Vesuvio Estratto ragionevole del trattato degli  animali. Lettere sulla cavalleria ed i romanzi. Lettera al sig. Michele Torcia sul  tratto di paese che si estende dal Fortore al  Tronto. Supplemento alla Memoria su la gra-  scia, per rapporto all' estrazione degli animali  vaccini . Memoria per lo ristabilimento del tri-  bunale collegiato nella provincia di Teramo .  Memoria per lo stabilimento d’ una uni-  versità in Teramo. I titoli in carattere corsivo sono per quegli scritti che  1’autore lasciò senza una denominazione . S’ intende per lo più di pagine scritte, come si dice,  alta spagnola, ossia nella sola metà. Pel resto si troverà sod-  disfacente spiegazione nel prosieguo del libro . Su' danni de' terremoti in Calabria  nel iy 83 . - 0 sii ministro Corradini sulle maioliche  de' Castelli. Lettera. Appendice al discorso sul Tavoliere di  Puglia . Sull’ aumento de' soldi a.' magistrati  nel iygo; Estratto ragionato del Saggio analiti-  co su le facoltà dell’ anima di Bonnet.  Seconda Memoria sulla vendita de’beni allodiali. Breve Saggio su l’ importanza di abo-  lire la giurisdizione feudale, e sul modo di eseguirlo. Supplemento alla Memoria pe’ regii  stucchi .Degli Appalti. Memoria. Per la città di Teramo intorno d  beni dell' abolito convento di Agostino.  Memoria per la decima impesta al regno .  Memoria intorno a’ danni sofferti nella  provincia di Teramo dalla cattiva monetazione  dello Stato pontificio, e de’ mezzi opportuni da  ripararli. Osservazioni su la nuova monetazione   dello Stato papale per rapporto al commercio  delle provincie confinanti del regno . Discorso sulle Scienze morali, pag. ira.  Novena di San Marino . Intorno all’ imposizione per la caccia, ( Questo ed i selle seguenti scritti si  suppongono composti in Napoli dal Rapporto alla reai società d’ incorag-  giamento sul progetto di stabilire nelle provin-  cie del regno altre società simigliatiti, Considerazioni sul debito pubblico, e   su’ beni nazionali relativamente alla legge; Breve esame dell’ indole delle dogane  interne; Rapporto per gli stabilimenti di uma-  nità e di pubblica beneficenza Osservazioni su d’ un progetto d’ istruzione pubblica Sulla tassa fondiaria . Osservazioni sulle procedure criminali  die si chiamano Nullità. Parere intorno ad un’ opera del Sig.  Biie D. Davide JV'uispeare, intitolata : Storia  degli abusi feudali. Delle cause perchè siano molto scar-  si i buoni scrittori . Opuscolo,  Lettera sulla imputabilità de’ muti. Pochi cenni su’fondamenti delle Scienze morali. Discorso letto nella reale Accademia delle Scienze di Napoli nel iSlij, e de-  stinato a stamparsi nel voi. III. degli Aiti  della medesima, insieme al seguente Opuscolo ) .Sulla necessitò di cangiare i metodi  d’ istruzione usati in Europa . Alla Giunta preparatoria del Parlamen-  to nazionale . Allocuzione . Memoria in favore di alcuni impie-gati destituiti Osservazioni sopra alcune dottrine po-  litiche del Secretano fiorentino. Proposta di alcuui mezzi economici per  supplire agli attuali bisogni dello Stato. Deli’ importanza di far precedere le co-  gnizioni fisiologiche allo studio della filosofia  intellettuale . Discorso ( mandato alla reale  Accademia delle Scienze di Napoli. Elogio in morte della Duchessa di  S. Clemente . Lettera al Cav. e Ferri. Lettera in difesa de' Pensieri sulla Sto-  ria e sulla incertezza ed inutilità della medesi-  ma, per risposta alle obiezioni di Amaury D revai pubblicate nel Mercurio straniero tom . A  ( Questa lettera, e tutti gli altri scritti che  seguono nella presente classe furono compo-  sti dopo V ultimo ritorno dell' Autore in Apruzzo ) Sulle origini ed i progressi delle So-  cietà ossia Saggio filosofico sulla storia del  genere umano Proposta di alcune riflessioni sulla filo-  sofia medica ed intellettuale. Opuscolo, Giudizio sulla storia fi losofica di Da -  miron. Lettera. Lettera su cF un manoscritto comuni-  cato, riguardante politica. Due biografie di se stesso; Delle cagioni per le quali il civilizza-  mento non ebbe molti progressi . Opuscolo Sulla perfettibilità. Sulla guerra. Lettera, pag, 8.   82 Sulla medicina omiopatica . Lettere  due. Sulla dottrina medica di Samuele  Hanhemann. Memoria sul riso secco cinese, Sullo stesso argomento . Lettera al  Mse. Tommasi. Sullo stesso argomento. Lettera polemica. De' confini del regno di Napoli nella  linea del Tronto ; ossia : Sugli antichi confi-  ni del regno, Sugli stabilimenti di beneficenza. Lettere. Élen^UtmlnìxU Catechismo di moral ; civile, ossia  trattato pratico de’ doveri del cittadino. Del dritto naturale delle genti, ossia  della morale delle nazioni, Sistema di ragione e benevolenza uni-  versale. Sull’origine de’ popoli, Sulle Capitali. Opuscolo, Degli affari fiscali. Memoria. Sulle proprietà. Sugli stabilimenti di umanità, Deir unione della Ideologia colla Fi-  losofia. Dissertazione, Dell’ eguaglianza de’ diritti delle donne, considerati specialmente nelle successioni,  Distinzione fral merito c la gloria.  Dritti politici e dritti civili, Sul quesito : Quale sia il miglior  de governi per 1'Italia? Opuscolo; Ricerche su le teorie fisiche della ragion degli Stati, o sia de’ veri principi della  Politica, Delle leggi e del regimento de’ comu-  ni. Sulle leggi forestali. Discorso, Sulla vociferata abolizione della provincia di Teramo . Memoria. Ricerche su le leggi coniugali, considerate ne’ rapporti da’ quali devono sorgere,  nelle cause produttrici, e negli efl’etti inorali  e civili; Sulla Vita e la Vitalità, Della specificità in medicina. Pensieri; Osservazioni sull’opera intitolata De’principi della scienza etimologica. Saggio filosofico su la guerra e su la  pace. Igiene. Fritmmitttt iti Di ciò che si chiama quadro dello  stile. Su ORAZIO (si veda). Critica, Pensieri divèrsi filosofici e letterarj. Qualche osservazione sull' opera di  Neker Sur 1 ’ administration; Del Vesuvio; Del tempo musico e filosofico, Idea d’ una legislazione, Per le origini civili, Alle nobili fanciulle mie concittadinc. Prefazione per una raccolta di aneddoti. Sulla Città di Reggio, Sul travaglio. Progressi dello Spirito - Orgoglio na-  zionale - Viaggiatori - Filosofia - Eccesso di  tipografia; Su’ pastori. Saggio sull’ adulazione (Progetto di  un'opera ). Ricerche storico-filosofico-poliliclie su la nobiltà (Progetto di un'opera ) .Istoria dell’ anima. Sugli ospedali. Molti pensieri non  legati. Progetto d’ un nuovo giornale delle  mode. Notizie su le opere impresse nel pri-  mo secolo della stampa, per ordine alfabetica. Qualche pensiero di dritto pubblico,  Delleraccomandazioni. Articolo morale. Considerazioni su’ magistrati municipali. Della Solitudine, Qualche osservazione sulle Lezioni  di Filosofia de Laromiguiere. Qualche osservazione sull’ opere fisiologiche di Spurzheim. Della civiltà, Catechismo universale. Della ragion di stato, Estratto della politica d’ Aristotile.   Morale nelle leggi,   Piano di scienze morali. DELL’ origine e SIGNIFICATO della parola   morale, e delle varie applicazioni della medesima Frammenti diversi sulle Leggi,  Osservazioni sulla risposta di Serbatti ad una lettera del cav. Monti  sulla lingua italiana, Esame de' classici italiani, Su' trecentisti, Romantici Osservazioni sull ’ opera di Lemercier riguardante i teatri, Osservazioni sul passato secolo ad uti-  lità del presente Viste politiche e morali sugli effetti  della rivoluzione Frammenti diversi sugli affari politici L’ obolo della vedova . All’ Italia Qualche ossen’azione sopra alcune  espressioni di Romagnosi. Rapporto storico su’ progressi delle  Scienze naturali, pag. io.  A Jannelli.  Dell’uso vero della Storia, Meditazioni d’ un solitario che vive  in mezzo alla società. Sull’Inghilterra. Sopra un libretto che riguarda la  divozione pel Sangue di Gesù-Cristo  Miscellanea di cose Jìsiologiche .Miscellanea di cose economiche .Miscellanea di cose filosòfiche Miscellanea di cose politiche. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei Marchesi Delfico. Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords: giurisprudenza romana, sul bello, estetico, 'l’estetico, l’imitazione della natura, naturale, contra-naturale, non naturale -- l’espressione. La storia romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool Library.

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