Grice ed Allegretti: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della colloquenza – la
scuola di Forlì –filosofia emiliana -- filosofia italiana – Lugi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Forlì). Filosofo
emiliano. Filosofo italiano. Forli, Forli-Cesena, Emilia-Romagna. Grice: “I
love Alegretti; very Italian; imagine: after tutoring for a while on dialettica
at Firenze,, he retires to Villa Allegretti, Rimini, where he philosophises ‘De
propositionibus’ (sulle enunciate) as part of the Dialettica!” Grice: “He was so
proud of the meetings at his villa that he called it ‘our Parnassus’!” Grice:
“Allegretti’s idea of the villa meetings was modeled after Plato who, with
fewer means, met at the gym in theVIlla Echademo!” -- – cf. Raffaello, “Il
Parnaso.” -- Stemma della famiglia Allegretti Coa fam ITA allegretti Blasonatura
cuore d'oro su campo azzurr. Noto per aver fondato, secondo alcuni
storici, la prima accademia letteraria d'Italia. Fu figlio di Leonardo A., giudice a Forlì, di
parte guelfa. Appartene ad un'antica e cavalleresca famiglia, il cui
capostipite fu Mazzone A. (Mazzonius Alegrettus), che prende parte alla
crociata in Terra Santa e per arma scelse un cuore d'oro su campo azzurro. Legge filosofia a Bologna e Firenze. Fonda la prima accademia con un gruppo di
intellettuali: Calbolo, Orgogliosi, Sigismondi, Speranzi, Arfendi, Morandi,
Aldrobandini, Aspini e A.. Per motivi politici, gl’Ordelaffi, signori di Forlì
ghibellini, imposero il confino ai fratelli Si trasfere perciò a Rimini. Richiamato
dall'esilio, coinvolto in una faida familiare degl’Ordelaffi, è nuovamente
costretto a fuggire a Rimini, ove fonda una accademia, dei Filergiti – cf.
Firlegito -- con vocazione insieme letteraria e scientifica. La sua prosapia s'innestò negl’Aspini
mediante una Margherita di Francesco A., che sposa un Lodovico, che è erede
degl’averi e del cognome degl’A.. Si trova il seguito di questa famiglia nel
senese e nel modenese (a Ravarino).
Note Fonte: Valenti, Dizionario
Biografico degli Italiani, riferimenti in. Il suo saggio principale e
considerato il “Bucolicon”. Ma scrive
anche un epicedio per la morte di Galeotto I Malatesta, signore di Rimini; un
carme al Conte di Virtù; un carme per la divisa della tortora; Eglogae, in
latino; un carme sulla bissa milanese, cioè lo stemma dei Visconti, il
biscione.Marchesi, Memorie storiche dell'antica, ed insigne Accademia de'
Filergiti della città di Forlì..., Forlì, per Barbiani, Bonoli, Storia di Forlì
scritta da Bonoli corretta ed arricchita di nuove addizioni, Forlì, Bordandini,
Valenti, A. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. A., Filosofi. Nasce a Ravenna, da Leonardo A., appartenente a
famiglia guelfa di Forlì, in un anno da porsi tra quelli immediatamente
precedenti il 1326. È supposizione abbastanza fondata (cfr. Massera) che legge FILOSOFIA
nello studio bolognese. Lettore di DIALETTICA a Firenze. Benché se ne perdano
poi le tracce, è indubbio che si trova da qualche tempo a Forlì quando e
colpito, nella sua qualità di guelfo, dal bando d’Ordelaffi. Ma la fama di
dottrina in filosofia che lo circonda e tale che egli e ben presto richiamato
alla corte forlivese, dalla quale, però, dovette di nuovo fuggire per aver
rivelato la congiura che Ordelaffi tramando contro suo zio. A. si rifugia a
Rimini, dove e precettore di Malatesta. La sua villa e luogo di raccoglimento,
di studio e, di dotti convegni, cui si compiace di dare il nome di Parnaso;
donde la notizia, tratta dagl’annali forlivesi di Ravennate, secondo cui A.
"Arimini novum constituit Parnasum", notizia ripetuta ed elaborata
poi da vari scrittori nel senso, del tutto fantastico, che egli fonda già
allora una vera e propria accademia. Ha rapporti abbastanza stretti con la
corte viscontea. Muore a Rimini. A. gode di non piccola fama. Citato nel “De
fato et fortuna” di Salutati, e in corrispondenza col Salutati di cui si ha una
lettera a lui con unito un lungo carme latino, e con Loschi, del quale si
conservano due epistole metriche (ed. in Massera) a lui dirette. Fatta
eccezione per un problematico trattato in prosa “DE PROPOSITIONIBVS”, attribuitogli
da Cobelli nelle sue Cronache forlivesi (Bologna), tutte le opere d’A. di cui
si ha notizia si riferiscono alla sua attività fantasiosa. Ci rimangono: un
lungo carme a sfondo mitologico-pastorale intitolato Falterona, pieno di IMPLICATURE
– o CONTORTE ALLEGORIE POLITICHE (Venezia, Bibl. Marciana); un componimento a
carattere araldico-encomiastico dedicato a Visconti (ed. da Novati in appendice allo studio Il Petrarca
ed i Visconti in Petrarca e la Lombardia, Milano); un Epitaphium in onore di
Malatesta (Milano, Bibl. Ambriosana); un carme Ad Ludovicum Ungariae
inclitissimum Regem (Venezia, Bibl. Marciana). La sua fama, però, e legata
soprattutto al “Bucolicon,” che Biondo, nella sua Italia illustrata (Basilea),
giudica seconda soltanto alle Bucoliche di VIRGILIO e che Massera ha tentato
con buoni argomenti di identificare in una raccolta di egloghe attribuita a Mussato.
Ad A., infine, come opina Sabbadini, andano attribuiti i cosiddetti
Endecasyllabi di Gallo, che egli ha, secondo la tradizione, scoperti a Forlì ma
che, invece, molto probabilmente contraffa, credendo erroneamente che quel poeta
e nativo di Forlì. Epistolario di Salutati, ed. Novati, Roma, in Fonti per
la storia d'Italia, Sabbadini, Le scoperte dei codici latini, Firenze, Carrara,
La Poesia pastorale, Milano, Massera, A. da Forlì, Atti e memorie d. R. Deput.
di storia patria per le prov. di Romagna, Thorndike, A history of magic and
experimental science, New York, Bertalot, L'antologia di epigrammi d’Abstemio
nelle edizioni sonciniane, Miscellanea Mercati, Città del Vaticano. La stessa
origine hanno le presunte accademie di Rimini e di Forli, che gli scrittori
fanno fondare a A. da Mantova, uomo versato nella filosofia. Uno storico di
Forli, Bonoli, appunto nelle sue Istorie della Città di Forlì? Dice. Strepita ancora
di Forlivesi la fama d’A., FILOSOFO. Compone La Bucolica, che doppo quella di VIRGILIO
non vede forse il mondo la più bella; tra le tenebre dell'antichità, manifesta
molte compositioni del nostro Gallo, e in Rimini, ove poi ricovrossi, per
schivar l'ira degl’Ordelaffi, erresse una fioritissima Accademia. La notizia
passa indi nel proemio delle Leggi vecchie, di stinte in XII Tavole,
dell'antica Accademia de’ Filergiti di Forlì e nuovi ordini-sopra essa
Accademia, aggiungendovisi però oltre l'Accademia riminese anche un'Accademia
in Forli, che e pure stata fondata d’A: l'Accademia dei Filergiti. A. – vi si
dice – Filosofo illustre, non si contenta di esercitare in Forli sua patria
virtuose sessioni, che ancora in Rimini, dove sbandito ricovrossi, er gette una
nuova Accademia. Queste parole sono ripetute tali e quali da Malatesta nel L'Italia
Accademica però nella parte ancora inedita di quest'opera che giace nella Gamba
lunghiana, e dove si tratta appunto in particolare delle Accademie. Petrarcae
Epistolae de Rebus Familiaribus et Variae, curate da FRACASSETTI, Firenze. Forli,
In Memorie storiche dell'antica ed
insigne Accademia de'Filergiti della città di Forlì, Rimini. Ma anche qui si tratta
di un abbaglio. Aspettando che maggior luce venga data in proposito in quella
vita d’A., che Novati promette da parecchio tempo, basta notare che a base
delle notizie circa queste due Accademie stanno le seguenti parole degl’Annales
Forolivienses. Tempore ecclesiae Arces in his civitatibus factae sunt:
Bononiae, Imolae, Faventiae et Forolivii. A. Forli viensis philosophus clarus
agnoscitur, qui plures Endecasyllabos Galli civis Forliviensis poetae invenit
et Arimini novum constituit. Par Quest'ultima parola e interpretata senz'altro
per Accademia, a cui, come al solito, furono ascritti i personaggi principali
del tempo, perfino Petrarca. Cfr. La Coltura letteraria e scientifica in Rimini
di Tonini, Rimini; cfr. anche del medesimo: VitaeVirorum Illustrium Foroliviensium.
Forli Cfr. Della vita e delle opere d’Urceo detto Codro di Carlo MALAGOLA. Bologna.
Cfr.Epistolario di Salutati per cura di Novati, Roma, Rerum Italicarum
Scriptores, Milano, di Rimini. Egli dice di più che l'Accademia fondata d’A. in
Rimini si radunava in una sala del palazzo Malatesta, adornata dei ritratti dei
filosofi più celebri,e che vi e ascritto anche il Petrarca. Marchesi dal canto
suo circa l'Accademia fondata d’A. in Forli dice che costui lasciata da parte
la se verità degli studi filosofici, ne'quali aveva spesi con molta gloria i suoi
giorni, fraccolti in una degna Assemblea i filosofi più perspicaci, fa la
memorabile fondazione, benchè senza nome particolare, regolamento ed impresa,
invenzioni delle succedute età, ma col solo generico d’Accademia. Sono i suoi
colleghi, o piuttosto discepoli Calbolo, Orgogliosi, Sigismo ndi, Speranza dei Speranzi,
Arsendi, Morandi, Aldobrandini, Aspini e A., tutti illustri per sangue, ed
assai più per l'affetto che professavano per la filosofia. Per le frequenti
sessioni che, tenevano a porte aperte, e per gli ammaestramenti e saggi dati d’A,
il fondatore, s'avanzarono molto i primi Accademici colla coltivazione della
filosofia, sopra ogni altra scienza da essi tenuta in pregio. Esiliato poi A.
da Forli, l'Accademia anda dispersa, eleraunanze vennero riprese solo nel
secolo xv per opera d’Urceo. nasum DELLA TORRE Orbene si osservi che A. e in
Rimini maestro di filosofia di Malatesta; e qual cosa più naturale che assieme
al Malatesta si trovassero altri membri delle principali stirpi Riminesi?
Epperò quel Parnasum va senza dubbio inteso per scuola di umanità e non già per
Accademia nel senso che l'intendono gli scrittori su riferiti. Quanto poi
all'Accademia di Forli, come osserva giustamente Tiraboschi, severamente e esistita,
lo scrittore degl’Annales Forolivienses che nota il Parnasum aperto d’Allegretti
in Rimini, ha a tanto maggior ragione notata un'Accademia. fondata in Forli, le
cui vicende appunto egli si propone di narrare; ed invece nulla. Come alsolito,
gli scrittori di cose forlivesi, che, interpretando Parnasum per Accademia
credevano che A. fonda appunto un'Accademia in Rimini, sapendo che A. e anche a
Forli, gliene fa fondare sen z'altro una anche in Forli, ascrivendovi come al
solito quanti in quel tempo vi erano di filosofi insigni per ingegno e per
cultura. E con questa mania, si andò tanto oltre, che si raggrupparono insieme
perfino gli architetti del duomo di Milano per farne un'Accademia; la quale e
cominciata mentre Visconti anda pensando di gettar le fondamenta del Duomo. Vi
si sarebbe atteso a quella maniera di fabricare,che i moderni chiamano alemana.
Avrebbe àvuto sede nella corte ducale compiacendosi in estremo quello stesso duca
del fabricare e dell'udirne talvolta discorrere i maggiori architetti di
que'tempi, che sono Giovannuolo e Michelino, da'quali sono ammaestrati i
compagni di Bramante. Non occorre certamente fermarci piú a lungo per
dimostrare l'assurdità di queste affermazioni. Basti il dire che questa volta a
base di esse non sta il più piccolo dato di fatto. Cfr.ANGELO BATTAGLINO, Della
corte filosofica di Malatesta Signore di Rimini in Basinii Parmensis poetae
Opera prae stantiora. Rimini, e Lettera di Salutati a Malatesta in Epistolario
di Salutati a cura di NOVATI, Roma. Velim igitur, simichicredideris, eum
(Giovanni da Ravenna) decernas inter tuos recipere et in locum magistri tui,
viri quidem eruditissimi, quondam A. et in eius provisionem acceptes et loces. Cfr.
BORSIERI Il supplimento della Nobiltà ili Milano. Milano, e ZANON, Catalogo etc.iSi
dia in proposito la più semplice scorsa alla prima parte di il duomo di Milano
di Boito, Milano. Jacopo
Allegretti. Giacomo Allegretti. Allegretti. Keywords: colloquenza, dialettica,
villa, villa Allegretti a Rimini, Bucolicon, Andrea Speranzi, i filergiti, “De
propositionibus”, scuola di Firenze, dialettica a Firenze, accademie italiane
dall’A alla Z, Andrea Speranzi, il primo accademico italiano a Firenze. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Allegretti” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Allievo: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di San Germano
Vercellese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (San Germano Vercellese). Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. San Germano Vercellese, Vercelle, Piemonte. Grice:
“I love Allievo; of course he reminds me of all those scholars back in the day
that I relied on for my philosophising on ‘intending’ – since isn’t this an act
of the ‘soul’ – I mean Stout, and the rest – I once was a Stoutian, and then
for better or worse, I became a Prichardian!” -- Grice: “Now Oxford never knew what to do with
people like Stout – surely ‘the Wilde’ readership was a possibility, but Lit.
Hum. and the Sub-Faculty of Philosophy always considered ‘mind’ – (as in the
journal, ‘a journal of psychology and philosophy’) secondary to metaphysics! We
thought The Aristotelian Society had more prestige than the Mind Association,
and we still do!” – Grice: “So Allievo, like myself, was fascinated by Stout
and Spencer and Bain and – in the continent, closer to Allievo, and always
having more prestige than the barbiarian islanders! – Grice: “Add to that the
charm of his italinanness versus the Germanic coldness of a Wundt – his name is
unpronounceable to Allievo – and you get to the heart of his philosphising on
‘psicofisiologia’ – where the ‘io’ meets the ‘tu’ – and his focus, having
studied the philosophical tradition in Rome – to ‘educatio fisica’ – which
obviously needs to be psicofisica!” -- Wundtan d Flechner!”. Frequenta la facoltà di
filosofia di 'Torino e segue l'insegnamento di Rayneri, filosofo di matrice
rosminiana. Laureatosi, insegna a Novara e Domodossola -- dove conosce SERBATI
(si veda), Ivrea e Ceva. Collabora alla Rivista contemporanea di Chiala. Arriva
alla cattedra a Torino. Spiritualista, e propugnatore del cosiddetto sintesismo
degl’esseri, principio secondo il quale nessuna parte di un ente può sussistere
divisa dal tutto dell'ente stesso, e nessun essere può sussistere né operare
diviso dagl’enti che costituiscono l'universo. Socio dell'Accademia delle
scienze di Torino. Critico dell'hegelismo, A. sostene doversi rifare alla
tradizione filosofica spiritualista per combattere sia la dottrina hegeliana
che quella positivista si sta in diffondendo. Si dedica a ricerche di
antropologia. E autore anche di un saggio di vaste proporzioni dedicata a Il
problema metafisico studiato nella storia della filosofia, dalla scuola ionica
a Bruno (Torino). Altre saggi: “Saggi filosofici”; “Studi antropologici”;
“L’uomo e il cosmo”; Si espone e si
disamina l'opinione di Brothier. Si espone e si giudica la teoria di Hirn. Segue
l'esposizione critica della teoria di Hirn. Büchner. Si pone la questione e si
accenna il come risolverla. Si accenna la differenza tra l'uomo ed il bruto. Concetto
definitivo dell'antropologia. Valore ed importanza dell'antropologia. Del
metodo in antropologia. Divisione dell'antropologia. Concetto della persona
umana. Analisi della persona umana. La virtù intellettiva. Della coscienza
personale. La coscienza di sè e la conoscenza esteriore. Individualità
soggettiva della conoscenza esteriore. Universalità oggettiva della conoscenza
esteriore -- Il potere animatore ed affettivo -- Del corpo umano in sè e nelle
sue attinenze col potere animatore -- L'organismo esanime ed il potere
animatore -- Unità sintetica della persona umana TEORICA DELLA VITA UMANA -- La
vita latente anteriore alla nascita -- L'infanzia -- Le prime origini dei
problemi psico-fisiologici. L'attività volontaria -- La suprema libertà dello
spirito -- Varie forme della personalità umana derivanti dall'attività
volontaria -- Attinenze tra la facoltà conoscitiva e l'attività volontaria --
Corrispondenza dell'organismo col potere affettivo -- Trapasso dalla teorica
dell'essenza umana alla teorica della vita umana -- Il corso della vita umana
-- Della conoscenza esteriore -- Mente e corpo distinti ed uniti nella persona
umana -- La gioventù -- La virilità -- I poteri della vita -- Teorica
della sensitività -- L'atteggiamento esteriore dell'organismo ed il potere
animatore -- Concetto comprensivo della persona e dell'essenza umana La vita
maschile -- La vecchiaia -- Delle potenze in riguardo all'oggetto -- Delle
potenze in rapporto col soggetto umano -- Delle potenze umane in particolare --
Specie del potere affettivo -- Del potere animatore -- Distinzione essenziale
tra la mente e l'organismo corporeo -- Unione personale della mente
coll'organismo corporeo -- Del potere affettivo -- Carattere universale ed
ufficio del sentimento -- Concetto e forme della vita umana -- La vita propria e
la vita comune -- Divisione del corso temporaneo della vita ne'suoi periodi
fondamentali -- Durata della vita umana -- Dei periodi della vita umana in
particolare -- Considerazioni generali in torno i periodi della vita -- La vita
oltremondana -- Delle potenze umane in generale -- Delle potenze considerate
nel loro sviluppo -- La vita fisica e la vita mentale -- Del senso fisico e
delle sensazioni -- Del senso spirituale e de' sentimenti -- Del
sentimentalismo -- Dell'istinto -- Della percezione sensitiva -- Della fantasia
sensitiva -- Teorica dell'intelligenza -- Della speculazione e della memoria. Dell'intelligenza
in riguardo al soggetto conoscente -- Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto
pensabile -- L'esperienza e -- L'intelligenza umana e LA PAROLA --
Dell'immaginazione. Concetto generale dell'immaginazione. Specie
dell'immaginazione. Efficacia dell'immaginazione. Delle potenze estetiche.
Teorica della volontà. Potere della volontà. L'operare della volontà. La
libertà del volere. TEORICA DEL CARATTERE UMANO E DEL TEMPERAMENTO -- Ragione e
genesi del carattere -- Concetto generale del carattere id. Dell'intuizione. Dell'attenzione
intermedia tra l'intuizione e la riflessione -- Della riflessione --
Dell'istinto in ordine all'oggetto -- Trapasso dalla teorica della sensitività
alla teorica dell'intelligenza -- Concetto generale dell'intelligenza --
Dell'intelligenza in riguardo al soggetto pensante -- La libertà del volere e
la scuola positivistica -- Critica del determinismo positivistico -- La libera
volontà e l'ambiente Art.7. Sintesismo dei poteri della vita -- Del senso --
Dell'istinto rispetto allo scopo la ragione. Dell'intelligenza in riguardo
all'oggetto conosciuto -- Del carattere in ispecie -- Del carattere riguardato
nella sua fonte -- Del carattere rispetto alle potenze ed alle forme
dell'attività umana -- Del carattere morale -- Il carattere umano nella specie,
nelle stirpi, nelle nazioni -- Del temperamento -- De'temperamentiinparticolare
-- De'temperamenti in rapporto fra di loro “Studi pedagogici”; “Attinenze
tra l'antropologia e la pedagogia”; Il
linguaggio e la scrittura -- Dell'attenzione -- Dell'immaginazione sensitiva --
Dell'arguzia -- Della riflessione -- La memoria ed il ricordo -- Educazione del
senso del bello -- La Levana di Giovanni Paolo Richter – Cenni biografici
dell'autore --- Concetto generale -- Importanza ed efficacia dell'educazione --
La Levana o Scienza dell'educazione -- Appendice: Dell'educazione fisica
infantile -- Dell'educazione della donna. “Esame dell'hegelianesimo”; “Il ritorno
al principio della personalità”. Corvino, Dizionario biografico degli Italiani alla
voce corrispondente in F. Corvino, Op.
cit. ibidem A., su accademia delle scienze. A., su
Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giuseppe A.,
in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A. in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Giuseppe A., su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Giuseppe A., Filosofia Filosofo Filosofi San Germano Vercellese Torino Membri
dell'Accademia delle Scienze di Torino. L'intelligenza
umana e la PAROLA (dal greco, parabola) sono due termini,che mostrano l'uno
verso l'altro armonica corrispondenza e vicendevolmente si spiegano e
s'illustrano, come lo spirito ed il corpo nell'uomo. Il conoscere ed il sapere
umano ritrae dalla ‘parola’, che lo riveste, una peculiare impronta, che lo
distingue dal conoscere proprio degli spiriti puri, e la lingua rivela la tempra
mentale. L'intelligenza infantile si schinde dal suo germe in grazia della
‘parola’, con essa va via via sviluppandosi e progredendo, con essa ha comuni
le vicende e le fasi. Infatti, la ‘parola’ torna necessaria all'effettivo
pensare, all'effettivo conoscere. Finchè il pensiero non si concreta nella ‘parola’,
ed in essa per così dire non s'incorpora, nès'incarna, è inconsistente, sfuggevole,
vago, non per anco formato, ma solo rudimentale ed appena sbozzato. Le
percezioni, che si hanno degli oggetti esterni mercè isensi, sono confuse,
indistinte, e si dileguano col dileguarsi degli oggetti percepiti. Ben si
possono in certo qual modo fissare colle immagini, le quali rimangono anche
nell'assenza degli oggetti materiali. Ma le immagini sono pur sempre *individuali*,
come gli oggetti, cui si riferiscono, e per di più sfuggevoli e vane.Veri
pensieri e vere cognizioni propriamente dette non si hanno se non mercè la ‘parola’.
E e questa torna tanto più necessaria, quanto più la idea da SIGNI-ficare (o
segnare) e generale ed astratta, ed ecco ragione per cui I BRUTI NON ‘PARLANO’
(Monkeys can talk) siccome quelli, che sono destituiti della facoltà di
generaleggiare e di astratteggiare. Che se ponga si mente non più alla
percezione esteriore, ma alla ragione ed alle funzioni diverse della
riflessione, la necessità della ‘parola’ si chiarisce ancora più evidente a
segno che senza di essa tornerebbe impossibile la formazione di qualsi voglia
specie dell'umano sapere. Se adunque la ‘parola’ è vincolo necessario, che lega
la mente col mondo delle idee e mezzo es -- Vedi la nota g in fine del
volume. Due altre ragioni si aggiungono a confermare vie meglio la
necessità di siffatto studio, l'una sociale, pedagogica l'altra. La ‘parola’ non
solo è mezzo alla formazione dei pensieri e delle idee, ma altre sì organo il più
acconcio A MANIFERSTAR la proposizione ALTRUI, epperò vincolo necessario, che
congiunge l'uomo co'suoi simili in comunanza di vita, condizione potissima
della società umana. Gli spiriti umani, perchè ravvolti nell'involucro dell'organismo
corporeo, non possono rivelarsi l'uno all'altro, nè intendersi, nè mutuamente
rispondersi senza qualche MEZZO SENSIBILE riposto in qualche atto o movimento
del corpo: quale è appunto la ‘parola’, la cui potenza ed efficacia sugli animi
altrui è meravigliosa. Ancora, essa non solo è una necessità sociale, ma altre sì
pedagogica, perchè è vincolo essenziale, che unisce in armonia di intendimenti
e di voleri l'educatore coll'alunno, il maestro col discepolo, tanto chè senza
di essa ogni educazione ed istruzione vera ed efficace rimane un vano e sterile
desiderio. La ‘parola’ e l'immaginazione, quando vengono raffrontate l'una coll'altra,
appariscono convenire insieme in ciò, che entrambe importano una dualità di
elementi, sensibile ed intelligibile [[psico-fisico]] insieme accoppiati, e
sono potenze individualizzatricie rappresentative dell'idea sotto forma
sensibile. Ond'è che tal fiata l'immagine ridesta la ‘parola’, tal altra la ‘parola’
ri sveglia l'immagine, ed amendue rinvengono un punto di comune contatto nel
linguaggio metaforico, figurato, immaginoso. Ciò nulla meno evvi tra queste due
potenze siffatto divario, che l'immagine essenzialmente si di spaia dal
semplice SEGNO, ed oltre di ciò la ‘parola’ è un sensibile tolto dall'organismo
umano, l'immagine per contro è un sensibile attinto dalla natura esterna.
Riguardata nella sua nativa essenza la ‘parola’ può venire definita un
sensibile umano SEGNANTE (o significante) un intelligibile. Umano, dico, perchè
riposto in qualche atto o movimento del nostro corporeo organismo, quale il
gesto, la voce pronunciata ed udita. Rintracciando la ragione spiegativa
dell'essenza della ‘parola’ noi la rinveniamo nell'essenza stessa dell'uomo.
Infatti i due costitutivi della ‘parola’, quali sono IL SEGNO [o SEGNANTE] sensibile e l'e lemento intelligibile [IL
SEGNATO], ritrovano la ragione ed il fondamento loro nei due supremi
costitutivi dell'essere umano, quali sono l'organismo corporeo [il segnante] e
la mente [il segnato]; e come all'essenza dell'uomo torna tanto necessario lo
spirito, quanto il corpo, così è tanto necessario alla ‘parola’ il SEGNO quanto
l' idea significata [IL SEGNATO]. Onde si vede ragione, percui ai bruti,
destituiti di mente, fallisce la ‘parola’. Inoltre a costituire la ‘parola’ non
basta la dualità degli accennati elementi, ma occorre, che siano contemperati
ad unità, essendochè il sensibile debbe essere SEGNO [segnante] di un
intelligibile. -- esenziale alla formazione de' pensieri ed all'acquisto
delle conoscenze effettive, appare manifesto, che l'intelligenza umana, ad
essere compiutamente compresa, va altresì studiata nelle sue attinenze colla ‘parola’.
Ora quest'unità importa un primato dell'intelligibile sul sensibile, ed ha la
sua ragione nel dominio della mente sull'organismo corporeo, ciò è dire
nell'armonia stessa dei due supremi costitutivi dell'uomo. In fatti la mente
nostra padroneggiando l'organismo, con cui è naturalmente congiunta, essa è che
eleva i gesti, la voce, l'udito, il moto delle membra alla virtù di significare
[O SEGNARE] una idea o un sentimento dell'animo, vincolando questi con quelli.
Di qui la bella sentenza di Cicerone intorno l'origine della ‘parola’. Vox
principium a mente ducens (De natura Deorum). Nella parola adunque il segno O
SEGNANTE sensibile e l'idea, o IL SEGNATO, sono due termini inseparabili tanto,
quanto sono nell'uomo indisgiungibili lo spirito ed il corpo. Da siffatto interiore e naturale
compenetramento fluiscono alcuni corollarii, che reputo opportuno di accennare.
Il pensiero progredisce di pari passo col linguaggio. La lingua corre le
medesime sorti e segue le stesse fasi che il pensiero,tanto chè la ragion
spiegativa delle origini, dei progressi, delle trasformazionie del corrompersi
di un idioma va rintracciata nello studio delle vicende, a cui soggiace il
pensiero di un popolo, che lo parla. Dichesi pare quanto vadano errati non pochi
cultori della filologia, i quali la segregano onninamente d allo studio del
pensiero umano, di cui il linguaggio è l'ESPRESSIONE esteriore, togliendole di
tal modo il carattere di scienza, non solo, ma trasmutandola in un tessuto di
errori. Lo stampo e l'indole peculiare di un idioma arguisce uno stampo o tempra
singolare di mente in chi lo adopera. Epperò come gli è vero, che la lingua
genericamente presa è nota specifica, che distingue l'umano pensare e conoscere
da quello di altri esseri intelligenti, così è pur vero, che i differenti
idiomi in particolare sono note altresì distintive, che differenziano le une
dalle altre le menti umane individue e nazionali. Tuttavia in mezzo a questa
tra grande varietà di lingue etnografiche apparisce un fondo comune, su
cui tutte sono intessute, e, direi, uno spirito universale, che tutte le
informa e le solleva ad una unità superiore, essendochè la mente umana, se si
manifesta molteplice e varia nelle molteplici nazioni e nei varii individui, risguardata
nella suas pecifica essenza è una ed identica, perchè, governata dalle medesime
leggi logiche e rivolta all'universalità del vero. E quest’unità radicale delle
lingue riverberata dall'unità specifica della mente umana arguisce logicamente
l'unità originaria e specifica del genere umano, come la loro moltiplicità
arguisce la varietà delle razze,in cui esso è distribuito sulla faccia della
terra. Consegue ancora dal principio stabilito, che il tradizionalismo, il
quale pronuncia, che l'uomo riceve dalla società insieme colla ‘parola’ anche
le idee e la virtù dello intendimento, apparisce erroneo, siccome quello, che
disconosce il primato dell'idea sul segno vocale, e l'ingenita virtù della
mente di elevare la voce a dignità dinunzia del pensiero. Se l'uomo impara
dalla società il linguaggio, ciò è dovuto alla virtù, che possiede la sua
intelligenza, di intenderne il significato o SEGNATO. Infine discende
quest'altro corollario, che non manca della sua importanza pedagogica. Vera
istruzione non è, quando il discepolo riceva passive la parola del maestro, come
se questa dia bell'e fatta all'alunno l'idea, la quale invece vuol essere un
portato del suo lavoro mentale, e quindi si deve cooperare alla forma zione
della ‘parola’. Poichè altro è ricevere la ‘parola e meccanicamente ripeterla,
altro è FARLA NOI. IMPLICATURA. La’ parola’ ‘altrui ha sempre alcunchè di vago,
di incerto e di oscuro per CHI LA RICEVE, mentre presenta un SENSO FERMO e più o men definito per chi se la forma, come
si avvera nella formazione di un neologismo come ‘implicatura’. Il linguaggio
umano trae le sue prime origini da quell'impulso spontaneo della NATURA, che
spinge l'infante a significare O SEGNARE mercè di una GRIDA INARTICOLATA il suo
BISOGNO, il suo desiderio, la sua sensazione, e già abbiamo chiarito altrove,
come a poco a poco egli ne abbia svolto il suo linguaggio ARTICOLATO. Ma la grida
primitiva, onde si svolse il linguaggio articolato e convenzionale, non
costituiscono tutto quanto il linguaggio naturale, spontaneo o di azione, il
quale abbraccia altresì IL GESTO, il movimento, la fisionomia ed altri segni ed
atteggiamenti esteriori della persona. Ora GESTO può anch'esso svolgersi e
perfezionarsi, o come complemento del linguaggio o accompagnando e compiendo il
linguaggio articolato, o da sè solo sotto forma di linguaggio mimico, quale lo
scenico dei drammatici e lo educativo dei sordo-muti. Il linguaggio articolato
primeggia sul naturale, perchè il suono articolato o l'organo vocale, accompagnato
dall’organo auditivo,è più pie ghevole, più facile, più svariato e perfettibile,più
acconcio ad esprimere le idee in tutte le loro articolazioni. Esso può essere o
parlato, o scritto. La ‘parola’ parlata riesce più viva della scritta, più ESPRESSIVA,
più animata, ma alla sua volta questa è stabile e permanente, quella sfugge
vole e mobile. Il linguaggio articolato riveste forme diverse corrispondenti alle
forme progressive dell'intelligenza nelle varie età degli individui. Quindi si
distingue un linguaggio proprio dell'intuizione e del sentimento, un altro
della riflessione e della coscienza, un altro della scienza e dell'arte. Il
linguaggio dei popoli e degli individui fanciulli è povero, sintetico,
metaforico e figurato. Quello dei popoli e degli individui adulti è più o meno
concettoso, la grammatica ne è fissa, la prosa misurata. Quello dei popoli
colti e dei pensatori è dotto, analitico e sintetico ad un tempo. Imparare a parlare
è qualche cosa di più elevato che non imparare le lingue particolari; e noi
impariamo a parlare apprendendo LA LINGUA MATERNA. Questa lingua, che abbiamo
imparato da piccini, quando la nostra intelligenza cominciava a schiudersi, costituisce
per noi il linguaggio per eccellenza. Ogni altra nuova lingua, che sia pprenda,
si capisce soltanto mediante il suo paragone o rapporto colla lingua materna,
ed a questa con maggior ragione convengono tutte le lodi, che noi attribuiamo
alla lingua dei Romani come mezzo di coltura. Il bambino è sempre tanto
desideroso di udirvi, che spesso vi interroga anche su cose conosciute,
unicamente per aver occasione di ascoltarvi. Or bene tutto il mondo esteriore
vien fatto comparire e brillare davanti alla fantasia del bambino mediante il
nome, con cui vien designato ciascun oggetto. Tutto ciò, che è corporeo, venga
analizzato sotto gli occhi del fanciullo durante i suoi due primi lustri, ma
non gli si faccia analizzare affatto tutto ciò, che è solo spirituale. La
lingua materna siccome e la più innocente delle filosofie pel fanciullo,
siccome il più valido esercizio di riflessione. Parlategli molto e con
precisione, ed anche da lui esigete la precisione.Una PROPOSIZIONE oscura, ma
che diventa chiara se ripetuta una volta, provoca l'attenzione e rinforza
l'intelligenza. Non temete mai di non essere intesi, e nemmeno se si tratta di
intere proposizioni. La vostra faccia, il vostro accento, e il vivo bisogno che
sente il fanciullo di comprendere, rendono chiara la cosa per metà. E questa
prima metà farà col tempo capire anche l'altra. Pensate che I fanciulli. [SVILUPPO
DELLA TENDENZA ALLA COLTURA DELLO SPIRITO] come facciamo noi per la lingua
greca o per qualunque altra lingua straniera, imparano prima a CAPIRE la nostra
lingua, che a ‘parlar’-la. Al bambino parlate sempre come se avesse qualche
anno di più. L'educatore, il quale a torto attribuisce al suo insegnamento troppa
parte di ciò, che impara l'alunno, ricordi che il bambino porta già pronto in
se medesimo ed imparato tutto il suo mondo spirituale (cio è le idee morali e metafisiche),
e che la lingua con tutte le sue immagini sensibili non serve che a rischiarare
questo mondo interiore. Qui trova suo luogo la questione dello studio della
lingua dei romani come mezzo di coltura mentale. Lo studio della lingua de
romani e come una ginnastica dello spirito, che ne riceve una scossa ed
eccitazione salutare.Esso studio, non tanto in virtù del mero vocabolario, quanto
in forza della grammatica, che è la logica della lingua, costringe lo spirito a
ripiegarsi sopra di sè, a riflettere sulla ‘parola’, considerandole come un
riverbero della propria attività intuitiva. Dal linguaggio si passa a dire
dello scrivere, ed anche su questo punto non sono meno assennati ed acuti I
suoi accorgimenti. In sua sentenza, lo scrivere, ancora più che il ‘parlare’,
separa e concentra le idee, perchè il suono meccanico della ‘parola’ parlata
insegna a scosse e passa rapido, mentre i caratteri della scrittura ‘parlano’ in
modo continuato e distinto. Lo scrivere facilita la produzione delle idee assai
più che il suono rapido della ‘parola’, essendo esse una veduta interiore più
che un'audizione esteriore. Sotto altri riguardi la ‘parola’ parlata assai
sovrasta alla parola scritta, essendochè quella è ‘parola’viva, che esce
animata dall'interiore organismo e discende potente nell'anima di chi la
ascolta, mentre questa è parola morta, che esce dalla penna inanimata e non è
che una debole eco della prima. Esercitate di buon’ora, e gli prosegue, il
fanciullo a scriver e I pensieri suoi proprii piuttostochè ivostri. Risparmiategli
i temi comunissimi, quali sarebbero le lodi della diligenza, del maestro di
scuola,dei governanti ecc.Niente più nuoce a qual siasi componimento, quanto la
mancanza di un oggetto proprio e di inspirazione. Una lettera, provocata
unicamente dalla volontà del maestro, e non da un bisogno del cuore, diventa
una morta apparenza di pensiero,un inutile consumo di materia mentale. Se
fate scrivere lettere, siano rivolte ad una persona determinata e sopra un
determinato oggetto. Lo scrivere una pagina eccita e sveglia l'intelligenza
assai più che il leggere un libro intiero. Vi è tanto poca gente,che sappia
scrivere con un po'di garbo, quanto son pochi coloro, che sanno dire quattro
periodi continuati [2. Dell'attenzione. È avviso dell'autore,che
l'attenzione,riguardata non in generale,ma specialeerivolta ad un particolare
oggetto,non va raccomandata,nè suscitata o promossa con mezzi esteriori, quali
sarebbero il premio od il castigo, poichè in tal caso il fanciullo più che
all'oggetto proposto all'osservazione, terrebbe l'animo attento al premio, che
lo attrae, od al castigo minacciato. Pongasi mente, che esso non è atto a
sostenere un'atten zione prolungata e non mai interrotta;perciò non pretendete,
che anche trattandosi d'un argomento, che possa interessarlo, vi presti la sua
attenzione in qualunque ora e luogo e per tutto il tempo prescritto dai nostri
regolamenti scolastici. La novità è pure una potente attrattiva per
l'attenzione, m a per ciò stesso non va sciupata ripetendo troppo spesso le
medesime cose sicchè diventino monotone e stucchevoli.] Chi dovrà un giorno fare
giustizia e scrivere veramente la storia del pensiero filosofico italiano
nell’ultimo secolo, non potrà non dare una gran parte allo spiritualismo: del
quale certo uno dei più illustri e combattivi rappresentanti è stato ed è»1. Le
parole di Calò attestano una realtà difficilmente discutibile per chi si
approcci anche alle vicende della pedagogia italiana nel mezzo secolo
successivo all’Unità. A. compì gli studi al seminario arcivescovile di Vercelli.
Vinta una borsa al collegio Carlo Alberto di Torino, si iscrive nella Facoltà
di filosofia della Regia Università. Si distinse per la preparazione e
l’applicazione negli studi. In un saggio pubblicato sulla «Rassegna Nazionale»,
Cottini riporta una lettera scritta da Aporti che comunica ad A. la vincita di
un premio che ammontava a trecento lire per i suoi meriti filosofici, segno
premunitore di una carriera accademica di primo piano. Laureato, e chiamato
alla direzione di una scuola di metodo presso Novara. Iniziò così una serie di seminarii
che lo portarono in diversi centri piemontesi. Trasferito a Domodossola, poi ad
Ivrea, quindi nel collegio di Ceva e successivamente a Casale Monferrato. E destinato
all’insegnamento di filosofia al Regio Liceo di Porta Nuova a Milano. Calò, A.
Filosofo, in Vita e mente di A., Torino, Scuola Salesiana; Gerini, Filosofi italiani,
Torino, Paravia; Braido, A., Dizionario Enciclopedico, Torino, S.A.I.E.; Biagini,
A. Enciclopedia; Brescia, La Scuola; Cottini, A. «Rassegna Nazionale», ogica e
metafisica, all’Academia Scientifica – Letteraria. Ebbe modo di stringere
rapporti con alcune delle personalità di spicco della cultura milanese:
Pestalozza, Poli, Cantù, Dandolo. Continua a tenere i rapporti con l’università
torinese, dove supera l’aggregazione nella Facoltà di lettere e filosofia, con
giudizi molto positivi di Mamiani ROVERE (si veda) e di Rayneri. Sonno anni di
intenso studio. Torna a Torino nominato insegnante di filosofia al Regio Liceo
Cavour e incaricato del corso all’Università, dopo la morte di Rayneri. Continua
ad insegnare nella scuola sino a quando e nominato titolare della cattedra.
Divenne ordinario ed insegn ininterrottamente all’Università di Torino. La sua
produzione e copiosa. I suoi saggi più importanti sono: Saggi filosofici, Della
filosofia in Italia, L’antropologia e l’hegelismo, L’Hegelismo e la scienza, la
vita, L’educazione e la nazionalità, L’educazione e la Scienza, Del positivismo;
Delle idee dei Greci, Studi, Riforma 4 Cottini riporta un ricordo di Parato,
risalente al giorno A. passa il concorso per l’aggregazione a Torino. Parato,
anch’esso decoro e vanto della scuola italiana, dice nella sua Vita, che avendo
nel giorno stesso della pubblica prova incontrato Rayneri, allora professore
nel Torinese Ateneo, gli venne dal medesimo annunciato con trasporto di gioia
che il Collegio Universitario ha allora allora accolto nel suo seno una sicura
speranza della filosofia italiana. Cottini, A. Nel suo articoli, Cottini
trascrive una lettera di A. indirizzata a Raineri, rinvenuta dallo studioso Roca
tra le carte che Raineri affide agl’archivi dei padri rosminiani. Si tratta di
pagine molto significative, scritte poco dopo la morte del figlio Giulio,
deceduto all’età di soli dieci anni: «Professore carissimo, Vi sonon grato e
riconoscente della vostra lettera consolatoria. La profonda e grave ferita, che
mi sta aperta nell’animo, è insanabile, ma pure ringrazio di cuore gl’uomini
del loro pietoso ufficio. L’immagine del mio povero Giulio mi accompagna
dovunque, eppure so che vivo non lo rivedrò mai più sulla terra. La mia mente è
con lui nel sepolcro, dove assisto col pensiero alla dissoluzione delle sue
povere membra, che si confondono colla polvere della terra e in ogni passo che
faccio, mi pare ci sentirmi dire: Padre, perché mi calpesti? Ah, se io avessi
la sventura di essere materialista, vedendo che il mio Giulio è tutto finito in
un pugno di polvere, non saprei resistere all’idea di rinunciare anch’io alla
vita in modo violento. La fede, solo la fede cristiana, mi fa forte nella lotta
tremenda, e rassegnato ai duri, eppur sempre adorabili voleri di Dio. La natura
mi ha strappato dal seno il mio diletto per convertirmi il corpo in poca
polvere; la fede miaddita il suo spirito sempre vivo in cielo e mi assicura che
quella poca polvere si rifarà corpo vivo per mantenerla. Non ho voluto che la
salma di mio figlio giacesse qui a Milano, dove non si pensa più ai poveri
morti: l’ho fatto in quel campestre cimitero, accanto ai sepolcri, dove riposano
lacrimate le ossa de’ miei genitori. E vorrei anch’io abbandonare per sempre
Milano, ma non posso nulla per me. I molti miei amici vivamente mi solleticano
di chiedere la cattedra di pedagogia vacante nell’Università di Torino, e ci
andrei volentieri, ma io mi tengo forte nel mio proposito di non chiedere più
nulla al Potere. Ieri mi è giunto notizia che è morto un mio fratello
ammogliato, lasciando dietro di sé tre creature. E quasi tutto ciò non bastasse,
ho il mio ultimo bimbo di quatto anni ammalato da 25 giorni di febbre miliare,
in grave pericolo di vita ed ormai disperato dai medici. Sono infelice, ma
l’infelicità non è così, quando si è con Dio, il quale ci addolora quaggiù per
bearci in cielo. Ricambiate i mieri saluti a quall’anima di Iacopo Bernardi:
ditegli che gli sono proprio riconoscente della parte che prese al mio dolore,
e voi vogliatemi sempre bene»] dell’educazione mediante la riforma dello Stato,
Esame dell’hegelismo, La filosofia antica, Opuscoli, Rousseau filosofo; Breve
compendio di filosofia elementare ad uso de’ licei; Elementi di filosofia ad
uso delle Scuole normali del Regno e il Compendio di Etica ad uso dei Licei,
con più edizioni e ampiamente adottati nelle scuole italiane. A. collabora
attivamente alla pubblicistica pedagogica e filosofica del tempo. Con Passaglia
e il principale animatore del Gerdil, organo dei giobertiani e spiritualisti
torinesi, che ha però breve durata non riuscendo a superare l’anno. Vi scriveno,
tra gli altri, Bertini e Bertinaria. Diresse “Il campo dei filosofi,” un
periodico fondato a Napoli da Milone, poi trasferito a Torino. Si tratta di
un’esperienza pubblicistica che ha una certa rilevanza nel dibattito filosofico
italiano, come ha già sottolineato Garin. Vi collaborarono autori come
Giovanni, Toscano, Morgott, Peyretti, Rayneri, Tagliaferri, Bonatelli,
Marsella, Tiberghien, e Bosia, Cfr. Chiosso, La stampa filosofica scolastica in
Italia, Brescia, La Scuola. Dopo aver citato alcuni brani della rivista, Garin
osserva. Il “Campo dei filosofi”, la rivista vissuta a Napoli e poi passata a
Torino sotto la direzione d’A., si propone di combattere soprattutto
l’idealismo dell’Hegel e il positivismo del Comte – come scrive A. nel
programma, continuando del resto l’attività iniziata a Napoli dal barnabita
Milone. Oltre i saggi di critica all’hegelismo, altri ve ne comparvero, d’A., di
Giovanni, di Donati, di Selvaggi, e di Tagliaferri. E l’attività della rivista
in questo settore merita di essere studiata tanto più che non è privo
d’interesse il legame subito stabilito fra hegelismo e positivismo, quasi
gemelli nemici. Dopo aver ricordato la facilità con cui diversi idealisti si
convertirono al positivismo negli anni seguente all’Unità, Garin spiega questo
fenomeno riprendendo e valorizzando l’analisi d’A. che vede in queste due
teorie apparentemente distanti, un comune denominatore. Quell’onesto filosofo
che e A., professore a Torino, che alimenta una vivace e seria discussione
intorno all’hegelismo sul “Campo dei Filosofi Italiani”, che mette insieme un
onesto libretto su L’hegelismo, la scienza e la vita, pubblicando a Torino, un
Esame dell’hegelianismo, che vuole essere un bilancio, crede di poter
individuare una convergenza profonda fra positivismo e hegelismo. L’Hegelianismo
– scrive – e il positivismo, che a tutta prima hanno sembianza di due dottrine
diametralmente opposte e riluttanti, in realtà sono fra loro congiunti da un
punto di contatto intimo e profondo. Assoluta IMMANENZA, realtà come processo e
sviluppo, celebrazione della scienza. Ecco alcuni dei punti su cui insiste A.,
pur avverso a entrambe le concezioni. Ma comunque si valuti la sua disamina, e
al di là dei casi degl’hegeliani passati al positivismo, una cosa certa A.
coglie esattamente: l’esistenza di una ‘riforma’ in atto della dialettica del
senso dell’evoluzionismo, con tutto quello che una veduta del genere implica,
in metafisica, in politica, in diritto, e in morale, per usare le sue parole.
Proprio dentro questo processo, già avviato nell’ambito dell’eredità feurbachiana,
si muove fra tensioni e polemiche Labriola: contro l’evoluzionismo spenceriano
al posto del moto dialettico della storia, contro il socialismo neo-kantiano-positivistico
al posto del marxismo, per una rinnovata filosofia della prassi, ma anche – lo
dichiara a Engels per una sostituzione del metodo genetico a quello dialettico,
il che non e solo questione di parole. Garin, Filosofia in Italia, Bari, De
Donato. Polla, Leonardi, Naville, Passaglia e altri. In seguito pubblica una
serie di articoli sulla Rivista filosofica. Quando e ormai divenuto uno tra i
principali protagonisti del dibattito nazionale, A. assunse la direzione de «Il
Baretti», un foglio dedicato a questioni scolastiche. Qui vi apparvero per lo più
una serie di saggi utili a lumeggiare le sue posizioni in merito alla libertà
e, più in generale, alla politica ministeriale. A. rappresenta una delle
personalità di primo piano del spiritualismo italiano. I suoi saggi divennero
un punto di riferimento per la riflessione, trovando una considerevole
circolazione pedagogica, per riprendere una categoria riproposta da Prellezo. La
Bertoni Jovine ne parla come il maggiore esponente dello spiritualismo, sino a
considerarlo, esagerando, come la guida della corrente. A. insegna in un Ateneo
come quello torinese che oltre ad avere con quello napoletano il primato, rappresenta
uno dei poli principali del dibattito italiano, sia in campo accademico, che in
quello pubblicistico e scolastico. Cfr. Chiosso, La stampa scolastica in Italia;
Chiosso, I giornali scolastici torinesi dopo l’Unità; Stampa nell’Italia
liberale. Giornali e riviste. In un saggio dedicato a Rayneri, a cui ne segue
uno analogo su A., Prellezo invita ad approfondire la capacità di influenza dei
spiritualisti più impegnati teoreticamente con la realtà filosofica. Egli parla
della necessità di promuovere ricerche puntuali allo scopo di definire limiti e
portata dell’incidenza delle dottrine non solo nell’ambito delle riforme
dell’insegnamento pubblico, ma anche, ad esempio, in quello dell’azione dei
fondatori e primi membri delle istituzioni dedicate all’insegnamento. Prellezo,
Pensiero e politica scolastica. Il caso di Rayneri, in «Annali di Storia delle
Istituzioni scolastiche», Brescia, La Scuola, Bertoni Jovine, F. Malatesta,
Breve storia della scuola italiana, Roma, Editori riuniti, Il neo spiritualismo
d’A. se riuscì a creare una corrente alla quale aderirono studiosi come Conti e
Alfani e tutto il gruppo della Rassegna Nazionale non ha la capacità intrinseca
di operare un capovolgimento della filosofia e neanche quella di combattere
efficacemente il positivismo che, benché debole dal punto di vista speculativo,
e portatore di vivissime esigenze socali, sostenute dai partiti democratici» D.
Bertoni Jovine, La scuola italiana, Roma, Editori Riuniti; Serafini, Cultura
italiana, Roma, Bulzoni. Riguardo alla circolarità d’A. nello spiritualismo,
merita di essere accennata la collaborazione con i salesiani. Il docente
vercellese poté conoscere presumibilmente l’esperienza educativa della
congregazione già negli anni dell’Università, prima come studente della città
di Torino, e poi quando divenne professore. Diversi collaboratori di Don Bosco
frequentarono infatti l’ateneo subalpino. In seguito, uno dei suoi figli studiò
al collegio salesiano di Mirabello. Il docente vercellese si avvicinò sempre
più alla congregazione: collaborò nel collegio salesiano di Valsalice,
partecipò alle numerose manifestazioni scolastiche e culturali dei salesiani in
città15, fece spesso visita in qualità di «esperto» alle scuole del santo
piemontese. Alcuni studiosi salesiani hanno parlato di una vera e propria
amicizia tra Don Bosco e il pedagogista vercellese16. Un episodio risulta
significativo nella ricostruzione di questo rapporto. Quando l’oratorio di Valdocco
rischiò di essere chiuso per dei provvedimenti voluti dal Ministro Correnti, A.
si offrì per cercare di salvare l’istituto. Aiutò don Bosco nella compilazione
dell’istanza da inviare al Ministero e si impegnò per inoltrare un ricorso al
Consiglio di Stato. Negli anni seguenti mantenne stretti i rapporti con gli
altri salesiani più giovani, soprattutto con don Durando, direttore generale
degli studi delle scuole salesiani. Il pensiero dello studioso vercellese
ispirò anche alcune opere dei primi pedagogisti salesiani17. Prellezo documenta
l’influenza della pedagogia di A. sulla Storia della pedagogia di Cerruti e
sugli Appunti di pedagogia di Barberis18. Una certa influenza è anche
rilevabile nelle Lezioni di pedagogia di don Vincenzo Cimatti. Sul tema si
rinvia al documentato e approfondito studio di: J. M. Prellezo, A.negli scritti
pedagogici salesiani, «Orientamenti pedagogici», Proverbio ricorda la presenza
dell’A. alla seconda rappresentazione del Phasmatonices di Rosini. «Le
insistenza per la replica furono tali che il sipario si riaprì l’otto giugno:
vi accorsero molti torinesi, tra cui il professor G. A., docente di pedagogia
alla Università di Torino, il quale “andava per la sala del teatro a trarre
innanzi persone ragguardevoli”, mentre negli intervalli venivano eseguite le
romanze verdiane di G. Cagliero» G. Proverbio, La scuola di don Bosco e l’insegnamento
del latino, in F. Traniello (ed.), Don Bosco nella storia della cultura
popolare, Torino, Sei, Trat tando del santo piemontese, Braido ha
osservato: «reali furono le relazioni, perfino di cordialità e di amicizia, con
alcuni teorici della pedagogia contemporanei, come A. Rosmini, Rayneri, G. A.»
P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva, Don Bosco, in Id. (ed.),
Esperienze di Pedagogia cristiana nella storia, Si veda anche: J. M. Prellezo, A.negli
scritti pedagogici salesiani, Su tale legame Pietro Braido ha rilevato:
«Giannantonio Rayneri e A.esercitarono un palese influsso diretto su due note
figure di studiosi salesiani di pedagogia, rispettivamente Cerruti e Barberis;
gli inediti Appunti di Pedagogia sacra di quest’ultimo rivelano un’evidente
dipendenza. A., benefattore e sostenitore di Don Bosco, si batté strenuamente
per la sopravvivenza delle scuole di Valdocco, mettendo a disposizione, in
difesa della libertà educativa, la sua energica contrarietà al centralismo
burocratico del Ministero della P.I.» in P. Braido, L’esperienza pedagogica
preventiva nel secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia
cristiana nella storia, 313. 18 J. M. Prellezo, A.negli scritti pedagogici
salesiani, 406-412. 19 413. 26 verità, anche altri manuali
pedagogici del tempo si ispirarono alla riflessione dell’A.20. Se l’opera del
vercellese fu accolta subito con favore dal circuito cattolico liberale e da
quello salesiano, il gruppo intransigente non sembrò accorgersi del suo
contributo. Solo all’inizio del Novecento, quando la dialettica interna nel
mondo cattolico assunse toni meno aspri, anche «La Civiltà cattolica» lo
menzionò per le sue posizioni a favore della libertà d’insegnamento21. Sebbene
l’opera di A. mantenne una dimensione prevalentemente nazionale, egli attirò
l’attenzione di alcuni studiosi stranieri come Naville, Daguet, Blum. Dopo una
lunga esistenza spesa interamente alle riflessione educativa si spense a Torino.
Influenze rosminiane e dimensione europea Alla costruzione del sistema
pedagogico e filosofico dell’A., contribuirono molteplici scuole e
sollecitazioni. Gran parte degli studi dedicati al pedagogista vercellese hanno
rilevato un’«evidente traccia della riflessione rosminiana»22, come già aveva
sottolineato nelle sue ricerche Gentile23. Per cogliere le ragioni di tale
influenza, occorre in primo luogo considerare il peso del rosminianesimo nella
cultura pedagogica e filosofica piemontese della prima metà dell’Ottocento.
L’Ateneo torinese rappresentò con i seminari lombardi uno dei maggiori centri
di influenza e propagazione della filosofia del roveretano24. Si tratta di un
afflato radicato, che si conservò ancora a lungo nella cultura subalpina25. A.
trascorse, pertanto, gli anni della sua formazione universitaria in un contesto
permeato dal pensiero rosminiano. Diversi dei suoi professori erano discepoli
rigorosi del roveretano. Grazie ad un suo docente, A. poté avere un primo
contatto con Rosmini: Pier Antonio Corte inviò al pensatore roveretano un breve
scritto dello studente vercellese per averne un parere. Poco tempo dopo,
Rosmini rispose all’invito del professore e 20 Tra gli altri, Arcomano,
sottolinea come il saggio di Costanzo Malacarne, Sunti di pedagogia, un
classico della manualitstica pedagogica del tempo, appaia fortemente
influenzato dalla pedagogia di A.. Cfr. A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed
educazione in Italia, Chiosso, Editoria e stampa scolastica tra otto e
novecento, in L. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio
– culturali in Italia tra Otto e Novecento, Chiosso, Novecento pedagogico,
Brescia, La Scuola, Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in
Italia. I platonici, Messina, Principato, Gambaro, Antonio Rosmini nella
cultura del suo tempo, «Il Saggiatore», Traniello, Cattolicesimo conciliarista,
Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, Stresa, Edizioni rosminiane] apprezzò
il lavoro pur sottolineando i limiti dello scritto di A., allora solo
ventiduenne26. Pochi anni dopo, il pedagogista vercellese ebbe anche
l’occasione di conoscere personalmente il Rosmini, poichè allora dirigeva un
corso di Metodica a Domodossola, frequentato da alcuni allievi dell’Istituto di
Carità. Del roveretano ebbe una impressione eccezionale. Ricordando quella
circostanza, ne parlò come di una persona dotata di una «modestia pari alla sua
grandezza», ma anche di una profonda serenità, probabilmente legata, in quel
periodo, al recente Dimmitantur per le sue opere. Il legame con il
rosminianesimo fu corroborato da Giovanni Antonio Rayneri, da cui A. ereditò la
cattedra all’Università di Torino. Professore e sacerdote, il Rayneri
rappresentò un protagonista nel fermento educativo e pedagogico piemontese tra
gli anni ’40 e ’50 dell’Ottocento. Il suo sistema pedagogico si innestava
sull’impianto filosofico del roveretano, di cui offrì un’organica
riproposizione in chiave educativa. L’elaborazione di Rayneri fu di vitale
importanza per la circolazione della pedagogia rosminiana. La lezione del suo
predecessore rimase un costante punto di riferimento per l’A.. Lo studioso
vercellese curò a pubblicazione postuma del saggio Della pedagogica, una summa
in cinque volumi del pensiero del Rayneri, «supplendo il libro e mezzo, che
mancava, con pochi appunti rinvenuti fra le carte dell’autore»29. Si tratta di
un’opera considerata da A. come una delle maggiori confutazioni agli errori
della pedagogia moderna30. In una delle sue prime opere più importanti,:
L’Hegelismo e la scienza, la vita si trova una dedica molto significativa al
suo maestro31. 26 In una lettera datata 17 febbraio 1852, il Rosmini scrisse al
Corte: «La ringrazio d’avermi comunicato lo scritto del signor Giuseppe A..
L’ho letto con piacere e confermo pienamente il giudizio favorevole da lei
portato e mi congratulo colla R. Università se fa di tali allievi, mi
congratulo con Lei e coll’autore del detto scritto, che mi par l’ugna del
leone. Quello che può mancare alla proprietà del linguaggio verrà in appresso,
essendo cosa che solo s’impara cogli anni... Queste sottili osservazioni però
non impediscono che il lavoro favoritomi sia degnissimo di lode» Citata in G.
B. Gerini, La mente di A., Torino, Tipografia S. Giuseppe degli artigianelli, A.,
Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, Milano,
Cogliati, Chiosso, Rosmini e i rosminiani nel dibattito pedagogico e scolastico
in Piemonte in Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, 102. 29 G.
Cottini, A., 71. 30 Nella commemorazione già citata scrive: «La Pedagogica mi
apparisce una spiccata antitesi dell’Emilio di Gian Giacomo Rousseau; in quella
tutto è semplice, connesso, lucido, ordinato e preciso: in questo tutto è
sconnesso, incoerente, saltuario; il nostro Pedagogista ha la coscienza del suo
pensiero, misura i suoi conoscimenti, non trascorre mai gli estremi; il
ginevrino scatta fuori con grandi paradossi che colpiscono, con pensieri
sublimi, grandi originali, dove la verità è in lotta continua con l’errore;
Un’altra idea della vita, un giusto sentimento della natura umana, un vivo ed
operoso concetto del dovere, sono questi i principi filosofici, che informano
la Pedagogica del RAYNERI, principi diamentralmente opposti a quelli
dell’umanismo contemporaneo, che fa dell’uomo Dio a se stesso» G. A.,
Commemorazione del primo Centenario della nascita di Rayneri, letta in
Carmagnola, Asti, Tipografia Popolare Astigiana, La dedica recita: «Alla cara e
venerata memoria di Rayneri, Che primo fra gl'italiani tentò elevare all'unità
sistematica della scienza la. Pedagogica da lui per un ventennio professata
all'Università di Torino questo tenue lavoro con riverenza di discepolo
piamente consacro». Il vercellese fu invitato a tenere un discorso in
occasione del centenario dalla nascita di Rayneri32. Ormai prossimo alla
pensione, ripercorrendo quasi cinquant’anni di insegnamento universitario,
ricordò con queste parole il maestro: «Gran parte della mia vita pedagogica sta
collegata col nome di lui, essendochè negli anni miei giovanili, sedendo sui
banchi dell’Università io ascoltava la sua magistrale parola, e che egli ha
illustrato per poco più di un ventennio quella cattedra, che io tengo da quasi
mezzo secolo»33. Durante gli anni del suo magistero, A. rimase sempre in
contatto con gli ambienti rosminiani, collaborando anche ad alcune riviste ad
esso legato34. Diversi concetti e posizioni del sistema del vercellese sono
chiaramente mutuati dall’alveo rosminiano. Un primo elemento è l’idea della
personalità, che A. pone al centro della sua pedagogia35. In questo campo,
accolse gran parte dell’impianto psicologico e antropologico del roveretano,
riproponendo la tripartizione delle facoltà: senso, volontà e intelletto,
largamente utilizzate e approfondite dal professore piemontese. Al Rosmini lo
legano anche ragioni e argomenti di critica alla filosofia moderna. Al pari del
roveretano, ma anche di altri autori spiritualisti, A. riunì Kant e i pensatori
idealisti sotto la stessa etichetta di «scettici». Un altro elemento riguarda
l’unità di filosofia e pedagogia, di cui A. si fece araldo di fronte agli
eccessi di metodologismo cui erano tentati anche alcuni studiosi cattolici36.
All’idea di unità, è collegato un altro concetto rosminiano accolto da A., vale
a dire quello del «sintetismo»37, strettamente connesso a quello di «armonia»,
considerato nodale per comprendere la sua idea di educazione38. Non senza
motivo, Berardi riassunse la teoria della personalità dell’A. come una
«traduzione del sintetismo di origine A., Commemorazione del primo Centenario
della nascita di Giovanni Antonio Rayneri, letta in Carmagnola.Tra le altre,
offrì la sua collaborazione alla rivista La Sapienza, Rivista di filosofia e di
Lettere, diretta da Papa. Cfr. Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e
Testimonianze, 65. 35 Giovanni Calò sostenne come, in fondo, «Quella del
Rosmini è una pedagogia della personalità» G. Calò, Pedagogia del Risorgimento,
Sansoni, Firenze, Commentando un breve intervento dello studioso vercellese
sulla pedagogia del Rosmini, Cavallera ho osservato come «l’A. individua nel
concetto di unità la forza del pensiero pedagogico rosminiano uscendo dai
consueti schemi della illustrazione della metodica, ma non va oltre tale
precisazione» Cavallera, Rosmini nella Pedagogia dell’Ottocento, Come conferma
Mazzantini: «Rimasero sempre per lui fari di orientamento, nella sua vita di
studioso, le dottrine ontologiche (già in gioventù manifestateglisi evidenti)
della gradualità e del sintetismo degli esseri» Mazzantini, I capisaldi del sistema
filosofico pedagogico di G. A., «Rivista Pedagogica» In merito la Quarello, che
ha dato alle stampe uno dei lavori più precisi ed elaborati sull’A., ha
osservato: «Nella dottrina pedagogica dell’A. la legge fondamentale è dunque
l’armonia, legge che necessariamente deriva da quella suprema filosofica: “Il
sintetismo universale”» V. Quarello, G. A., studio critico, Lanciano, Carabba] rosminiana»39.
Sebbene il vercellese, ad esempio nei Saggi filosofici, sul tema si rifaccia
alle opere del Krug, le tracce del discorso rosminiano sono evidenti. Se tali
elementi mostrano un chiaro ancoraggio all’opera rosminiana, da una lettura più
attenta delle opere di A. emerge tuutavia anche una serie di differenze con il
roveretano che non permettono di ascrivere in toto l’opera del professore
piemontese tra quello del circuito rosminiano vero e proprio, rispetto al
quale, al contrario, manifestò l’esplicita intenzione di differenziarsi. Si
tratta di una posizione che, secondo uno dei più importanti pedagogisti di scuola
rosminiana, poteva tuttavia essere letto in modo positivo40. Già Francesco
Paoli, curatore di alcune delle più importanti opere postume del Rosmini e suo
ultimo segretario, nel saggio Della scuola di Antonio Rosmini, recentemente
ripubblicato, nel disegnare la geografia del rosminianesimo in Italia
sottolineava la dissonanza tra l’A. e il roveretano41. Questa precisazione di
Paoli, peraltro in un libro con toni marcatamente apologetici, denota come tra
i seguaci «osservanti» del roveretano, l’A. non fosse considerato un rosminiano
«ortodosso», nonostante la riconosciuta prossimità. La distanza tra i due
pensatori è documentata dal fatto che nelle opere del vercellese i richiami e
le influenze dell’opera rosminiana si diradano. La maggior parte dei espliciti
riferimenti al roveretano, infatti, si riscontrano nei primi lavori dell’A., in
specie nei Saggi filosofici, con chiari rinvii all’ontologia, alla metafisica e
alla logica. Ma già in un’opera dell’anno seguente, Della pedagogia in Italia
dal 1846 al 1866, il legame con il sistema del roveretano appare più
distaccato. In particolare, si coglie un certo ridimensionamento dell’apporto
del Rosmini. Delineando l’itinerario della pedagogia italiana del primo
Ottocento, sebbene non manchino apprezzamenti positivi, A. sottolinea come il
vero innovatore della pedagogia italiana fu il Rayneri. Si tratta, senza
dubbio, di un’interpretazione impensabile per qualsiasi studioso rosminiano42.
39 R. Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio storico
di A., «Quaderni di cultura e storia sociale», febbraio 1953, p. 62. 40 Cottini
rileva come: «Circa la discordia fra l’A. e il sommo Roveretano, osservò
giustamente il mio quondam condiscepolo Prof. Giuseppe Morando, che il dissenso
aperto e leale dell’A. porge maggiore rilievo alla riverenza sconfinata che
questi gli professò, ed all’omaggio, ch’egli gli rese in ogni occasione» G.
Cottini, Giuseppe A., 67. 41 Scrive il pedagogista di Pergine: «Di presente
l’onore della Filosofia e della Pedagogia è sostenuto nell’Università di Torino
dal Prof. Giuseppe A., che se non professa del tutto la filosofia del Rosmini,
l’accetta in gran parte e la onora colla esemplarità della vita e colle molte
gravi sue pubblicazioni pedagogiche» F. Paoli, Della scuola di Antonio Rosmini
(a cura di Ottonello), 38. 42 Scrive: «Del Rosmini, per quel che spetta alla
pedagogia rigorosamente intesa, non si aveva che il Saggio sull’unità
dell’educazione, opuscoletto di poche pagine. I lavori del Tommaseo sono studi
serii, monografie peregrine, pensieri, desiderii, come egli stesso li intitola,
sono preziosi elementi scientifici, ma un organico sistema di scienza non
fanno; egli stesso si tiene in guardia dalla mania de’ sistemi anche in
30 In alcune opere degli anni ’70, quando il sistema dell’A. si
consolidò, il vercellese si discostò esplicitamente da elementi non secondari
della filosofia rosminiana. Nell’opera in cui sistematizza con più rigore le
sue teorie ontologiche, vale a dire Il problema della metafisica, si affranca
dal roveretano in merito alla dottrina dell’essere. Mentre Rosmini crede che
l’oggetto primo della metafisica sia l’essere categorico, astratto e
comunissimo, egli lo identifica nella realtà infinita e finita considerate nel
loro insieme e nelle «vicendevoli loro attinenze». Nello stesso saggio,
riconoscendo nel fatto di pensare il primo noto della metafisica, si preoccupa
di sottolineare l’assenza di tale idea in Rosmini44. Sempre in campo
gnoseologico, A. contesta inoltre la teoria secondo cui dall’intuito si arrivi
alla visione dell’essere ideale universalissimo. Stando al pedagogista
vercellese, l’intuito percepisce la realtà confusa ed indeterminata,
opponendosi così ad uno degli elementi caratterizzanti la gnoseologia del
roveretano, oltre che oggetto di aspre contese con la filosofia neoscolastica.
Pare ancora più netta la posizione esposta negli Studi psicofisiologici in
merito alla psicologia e al rapporto tra anima e corpo: «In che ripone il
Rosmini l’essenza dell’anima umana? È assai malagevole impresa il cogliere su
questo punto della psicologia capitalissimo il suo pensiero; tanto parmi
intricato, inconsistente, incerto!». E poi motiva: «Il concetto psicologico del
Rosmini oscilla incerto tra questi tre pronunciati: 1° l’anima umana è
sentimento dell’Io e niente di più: il sentire animale sta all’infuori di essa,
ossia non è contenuto nella sua essenza; 2° l’anima possiede di fatto, siccome
suoi essenziali costitutivi, il principio sensitivo animale ed il principio
intellettivo; 3° il principio sensitivo è virtualmente contenuto nelle
intellettivo». Contrario a tali posizioni considerate equivoche, proporrà un
duo dinamismo coordinato su cui avremo modo di trattare in seguito. La valenza
delle critiche mosse al pensatore roveretano dall’A., è confermata dalle dure
repliche di alcuni dei più «fedeli» epigoni di Rosmini. A questo proposito,
sono molto significativi due scritti di Pietro De Nardi, rosminiano ortodosso,
che stampò due severi pamphlet contro l’A.. pedagogia, e crede che addestrando
in maniera variata il pensiero si serva, meglio che con severe teoriche,
all’unità dell’idea. Il Rayneri seppe far tesoro de’ profondi e svariati lavori
parziali de’ pedagogisti, che lo precedettero, coll’intendimento di ricondurli
all’unità della scienza» A., La pedagogia italiana antica e contemporanea,
Torino, Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1901, pp. 148-149. 43 G. A., Il
problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a
Giordano Bruno, Torino, Stamperia reale, 1877, pp. 35, 46. 44 47. 45 G. A.,
L’uomo e il cosmo, Torino, Tipografia Subalpina, 1891, p. 298. 46 G. A., Studi
psicofisiologici, Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli, 1911, p. 60; 47
Ibid., 62; 31 Nel 1883, pubblicò La teorica rosminiana dello
sviluppo graduato della ragione umana difesa da P. De Nardi contro la traccia
di contradditoria che ad essa ha dato G. A.. In questo saggio lo studioso
rosminiano considerava «gravissima nella sostanza»48 la critica mossa da A.
riguardo lo sviluppo della mente nell’opera del roveretano, esposta ne Il
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico. L’anno seguente De Nardi pubblicò
Due sillogismi di A.contro la percezione intellettiva come viene percepita da
A. Rosmini49, nel quale contestava al pedagogista vercellese prima il merito di
un appunto sulla filosofia del roveretano riguardanti i rapporti tra l’anima
sensitiva e intellettiva, e poi criticò un presunto pensiero del vercellese
secondo il quale «oggetti» di natura diversa non possano comunicare fra loro.
Una prima risposta alle accuse del De Nardi appare ne L’uomo e il cosmo (1891),
dove A. confuta i pamphlet e una recensione apparsa su Il Rosmini del marzo
1887, sostenendo che fossero state travisate le sue parole. Dopo aver mostrato
l’infondatezza delle critiche fattegli, muove una critica molto significativa a
certi epigoni del Rosmini i quali «s’immaginano, che il sistema rosminiano sia
tutto quanto verità esso solo, sicché chiunque osa muovergli qualche appunto,
bisogna dire che cammina nella via dell’errore»50. Per lumeggiare più
chiaramente il rapporto tra A. e Rosmini, è inoltre indispensabile citare i due
testi in cui l’A. trattò specificatamente dell’opera del roveretano: il
brevissimo saggio, Il concetto pedagogico di A. Rosmini51 e il più sostanzioso
articolo dal titolo Antonio Rosmini uscito prima nella rivista universitaria
«Studium», e poi pubblicato nel 191252. Il primo lavoro, seppure breve, appare
tuttavia molto significativo. Tale saggio fa parte del già citato Per Antonio
Rosmini, un’opera che raccolse in due volumi gli interventi al congresso
commemorativo per il centenario dalla nascita del filosofo, organizzato
dall’Accademia degli Agiati di Rovereto nel Maggio del 1897. 48 P. De Nardi, La
teorica rosminiana dello Sviluppo Generale della Ragione umana difesa da Pietro
De Nardi contro la taccia di contradditoria che ad essa ha dato Giuseppe A.,
professore all’Università di Torino, Intra, Bertolotti, 1883, p. 3. 49 P. De
Nardi, Due sillogismi di Giuseppe A., Professore all’Università di Torino,
contro la percezione intellettiva come viene concepita da Antonio Rosmini
esaminati da Pietro De Nardi, Professore di Filosofia nel Collegio
Internazionale Italiano di Torino, con appendice del medesimo in risposta a T.
Mamiani, Modena, Vincenzi, 1884. 50 G. A., L’uomo e il cosmo, 417-418. 51 G. A.,
Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, A. Antonio
Rosmini, Pavia, Tipografia Fratelli Fusi, 1912. 32 Nel suo intervento A.
riconobbe in prima istanza le virtù filosofiche di Rosmini53, attestando
l’importanza di lavori come il Saggio sull’unità dell’educazione e Del supremo
principio della metodica per lo studio della filosofia e della pedagogia. Tra i
principali meriti, individuò l’aver difeso l’idea che l’educazione è vera,
efficace e perfetta solo quando è «schiettamente cristiana». Un concetto che,
secondo A., intuirono in tanti ma «niuno meglio del Rosmini seppe farla
risplendere di quella lucentezza ideale, che scaturisce dalla ragione
speculativa»54. Nella stessa sede, tuttavia, A. volle sottolineare le
differenze tra il suo sistema e quello di Rosmini55. Questa precisazione in un
consesso con chiari intenti apologetici a pochi anni dal Post obitum, conferma
con limpidità la volontà di A. di smarcarsi dalla discendenza rosminiana. Il
secondo saggio citato, Antonio Rosmini, è molto più consistente e permette di
approfondire le idee di A. circa il roveretano. Introducendo il lavoro, fa
notare la grande risonanza che ebbe il pensiero di Rosmini, e cita tra i suoi
discepoli Tommaseo, Cantù, Sciolla, Berti, Cavour, Bonghi, Pestalozza, Corte,
Rayneri. Conduce poi un’analisi particolareggiata dell’opera filosofica e
pedagogica del Rosmini, muovendo una serie di critiche e «correzioni» al
pensiero del roveretano. Riguardo l’articolazione delle scienze nel sistema del
roveretano, parla di un’ambiguità del Rosmini circa il legame tra la psicologia
e l’antropologia56. In seguito contesta la seguente definizione di uomo tratta
dall’Antropologia di Rosmini: «l’uomo è un soggetto animale, dotato
dell’intuizione dell’essere ideale indeterminato e operante secondo l’animalità
e l’intelligenza». A. trova in questo enunciato un eccessivo risalto per la
parte «naturale» dell’uomo. Nel definire la persona, A. preferisce mettere
l’accento sulla natura spirituale dell’uomo, poiché in esso l’animalità «è
subordinata alla spiritualità, che la informa e la governa»57. Tale critica è
poi smussata tenendo conto del modo in cui Rosmini affronta e suddivide la
scienza antropologica. Riprende inoltre la critica al concetto dell’intuizione
primaria dell’uomo dell’essere ideale indeterminato: «Questo - dice A. - è un
pronunciato fondamentale del sistema di Rosmini, ma è impugnato da molti, e non
è una verità dimostrata con tanto rigore, che debba essere accettata da
tutti»58. Sempre in campo gnoseologico corregge l’espressione rosminiana di
«sentimento corporeo» che secondo 53 «È virtù propria del genio speculativo
risalire ai supremi principi dell’essere e del sapere, e nella loro unità
comprensiva raccogliere tutto un intero ordine di idee organate da questo
sistema» G. A., Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio
Rosmini. Ed io, sebbene da lui discorde in alcuni punti delle sue dottrine
filosofiche, mando questo mio lavoruccio in attestato della mia scienza sincera
e profonda ammirazione verso tant’Uomo» Ibid, vol. II, p. 523. 56 G. A.,
Antonio Rosmini, 8. 57 Ibid., 9-10. 58 10. 33 A. dovrebbe essere
«senso corporeo», e poi aggiunge: «Come pure io non so capire come mai il senso
intellettivo, la cui esistenza è innegabile, possa essere compreso come parte
nel tutto, nella sensitività animale, come fece l’autore»59. Anche in campo pedagogico,
fa degli appunti alquanto critici. Trattando dell’unità dell’educazione
sostenuta dal Rosmini, lamenta l’assenza di un adeguato approfondimento del
concetto di varietà60. Un'altra definizione contestata riguarda il rapporto tra
le affezioni casuali e l’ordine interiore. A. riporta senza rinvii al testo
originale: «si conduca l’uomo ad assimilare il suo spirito all’ordine delle
cose fuori di lui, e non si vogliano conformare le cose fuori di lui alle
casuali affezioni dello spirito suo». E poi ne prende le distanze,
«correggendo» le posizioni del Rosmini»61. Sullo stesso argomento, commentando
poco dopo la parte del Saggio sull’unità dell’educazione relativa all’«Unità
degli oggetti» sostiene che è «alquanto sconnessa». A. fa notare come il
Rosmini abbia dedicato molto spazio all’analisi dell’apprendimento e
dell’educazione durante l’infanzia, soffermandosi sullo sviluppo delle facoltà
del bambino. Il pensatore vercellese, tuttavia, fa notare come un corretto
sistema pedagogico debba tener conto dell’intervento educativo, e del fatto che
spesso si insegnino cose che il bambino non sa ancora, e che quindi lo studio
delle naturali facoltà del bambino non sia sufficiente ma debba essere
integrato dai metodi educativi esterni62. Anche se riconosce al Rosmini il
contributo sulla libertà d’insegnamento, a dispetto per esempio di un Gioberti
giudicato eccessivamente statalista, l’A. contesta al Rosmini l’affermazione
secondo cui la scuola dovrebbe «guardarsi dallo spirito individuale siccome 59
12. 60 «L’autore ripone nell’unità la legge suprema dell’educazione; nel che io
non convengo pienamente con lui. L’unità vera, effettiva, feconda non può
andare disgiunta dalla varietà, né questa può andare scissa da quella. Unità
senza varietà è arida, sterile, priva di moto e di vita; varietà senza unità è
sparpagliata, dissipata, che si sciupa nel vuoto. L’uno nel vario, il vario
nell’uno, ossia l’armonia è la legge suprema della vita in ogni ordine di cose.
Epperò all’umana educazione l’unità e la varietà tornano essenziali amendue ad
un modo. Certamente l’autore non esclude, né perde di vista la varietà, giacché
riconosce la molteplicità delle dottrine, che si insegnano, e delle potenze,
che vanno educate; ma occorreva che avesse in modo esplicito riconosciuta e formulata
la varietà accanto all’unità, siccome egualmente necessaria» G. A.,
Rosmini, «Però in riguardo alla dottrina
del Rosmini, a me par giusto l’osservare, che se per una parte sonvi nel nostro
spirito affezioni casuali, le quali vanno acconciate e conformate all’ordine
oggettivo delle cose fuori di noi, per l’altro anche nell’ordine esteriore vi
hanno accidentalità e turbamenti casuali e fortuiti, a cui lo spirito nostro
non che adattarsi, deve seguire una reazione, conservando intatta la sua
indipendenza. Anche nel nostro spirito esiste un ordine oggettivo posto dalla
nostra natura, sicché la formula del Rosmini sembra bisognevole di essere
corretta e parmi più conforme a verità l’affermazione che il supremo principio
pedagogico dimora nel mantenere in perfetta armonia l’ordine oggettivo dello
spirito dell’alunno coll’ordine oggettivo delle cose fuori di lui. S’intende da
sé, che quest’armonia importa il riconoscimento di un principio superiore
divino, ed inoltre supremo, in cui l’ordine oggettivo esteriore e l’ordine
oggettivo interiore hanno il loro centro di unità e la loro cagione
efficiente» «Il Rosmini, intento, alla
legge suprema direttiva dell’umano pensiero descrive per filo e per segno i
momenti successivi, per cui progredisce e per cui va condotta la mente
infantile, il Pestalozzi in iscuola tracciava sulla lavagna a’ suoi fanciulli
una proposizione, che di presente essi non comprendevano, ma avrebbero compreso
col tempo» 29. 34 da suo capitale difetto», e osserva: «Questa
opinione dell’autore parmi bisognevole di essere ritoccata. Sta bene che
l’educazione pubblica non debba tener conto delle singole famiglie e de’
singoli individui, ma se non vuole incorrere nel dispotismo e trasmodare,
occorre che essa rispetti mai sempre lo spirito informatore della famiglia e la
personalità individuale di ciascun uomo, essendochè lo stato è fatto per le
famiglie e per le persone singolari, non questo per quello»63. Oltre alle
critiche, emergono anche una serie di considerazioni positive. A. considera di
vitale importanza il contributo di Rosmini nell’aver mostrato la conciliabilità
tra lo spiritualismo e la realtà naturale dell’uomo64, di aver riportato la
pedagogia ad un metodo realista65, il richiamo all’armonia come principio
educativo, valorizza il tentativo di salvare l’unità della persona, l’idea di
sviluppo armonico delle facoltà umane ed elogia il merito di aver unito
didattica ed l’educazione. Vivo apprezzamento egli esprime circa il legame tra
pensiero e nazionalità. A. scrive che «è meritevole di nota il rapporto, che il
Rosmini istituisce fra il metodo filosofico e la diversa tempra degli ingegni
proprii delle singole nazioni». Lontano da tentazioni sciovinistiche e da forme
di autarchia culturale, il vercellese sostenne l’importanza di conservare le
tradizioni della filosofia italiana. In questo senso cita la lezione III Del
metodo filosofico in cui Rosmini scrive «Il vero metodo è indigeno all’Italia:
il carattere dell’ingegno italiano consiste nella chiarezza» e ne sottolinea
l’importanza66. Altri autori spiritualisti influenzarono A.. Tra questi
esercitò un considerevole ascendente il Bertini67, almeno «quello» precedente
alla conversione razionalista. Lo studio della sua opera, l’Idea d’una
filosofia della vita, rappresentò un momento importante nello sviluppo del
pensiero di A.. Il pensiero di Bertini lo convinse ad affermare il Primo
teologico, vale a dire Dio inteso come potenza, sapienza, amore infinito, il
Primo cosmologico e cioè che il creato è l’essere che partecipa della potenza,
amore di Dio, e 63 21. 64 «Come la sua filosofia è essenzialmente
spiritualistica, così il carattere, che informa la sua dottrina pedagogica, è
lo spiritualismo, non però lo spiritualismo gretto ed esclusivo, che sacrifica
la materia allo spirito, bensì lo spiritualismo largo e comprensivo, che
riconosce come parte anch’essa essenziale dell’umano composto l’organismo
corporeo, ma lo vuole subordinato all’impero dell’anima razionale» Trattando
del contributo pedagogico e scolastico dell’impostazione rosmininana osserva:
«Un secondo punto di capitalissima importanza per la scuola normale è questo:
“prima regola del metodo filosofico (scrive l’autore) è che l’osservazione
precede il ragionamento”. Questa norma riguarda propriamente il procedimento,
che deve tenere il pensiero nella costruzione della scienza» Sull’influenza del
Bertini sull’A., Virginia Quarello che pubblicò nel 1936 uno dei lavori più
completi e attenti sulla filosofia dell’A. scrisse: «L’influenza del Bertini
sull’A., specie nel campo religioso, è stata fortissima tanto che il pensiero
dell’uno non solo si connette, ma perfettamente aderisce a quello dell’altro»
V. Quarello, G. A., studio critico, 62. 35 quindi il Primo
enciclopedico per cui «l’infinito s’intria nel finito»68. Secondo Vidari oltre
che il Rosmini, proprio al Bertini, A. dovrebbe la fondazione del suo sistema
filosofico69. Stretti rapporti ebbe anche con Augusto Conti. Nei Saggi
filosofici (1866) riportò tre scritti sull’opera del samminiatese: uno
riguardante la Storia della filosofia, una recensione di un libro scritto sul
toscano da Pietro Dotti, e un lavoro sui legami tra il pensiero di Naville e
quello di Conti, con particolare attenzione alle considerazioni espresse dal
filosofo ginevrino nel testo La vie éternelle. A. condivide una serie di
concetti del Conti, come la critica al principio moderno secondo cui la
filosofia nasca dal dubbio e non dalla sorpresa dell’essere70, l’analisi dei
criteri della filosofia e il legame con il senso comune, il concetto di errore
e di distinzione. Nel commento alla Storia della filosofia si possono
riconoscere diverse analogie tra le concezioni dei due pensatori. Del testo
citato, A. sottolinea diversi elementi positivi: l’idea che la storia della
filosofia debba essere un confronto tra le teorie filosofiche e la filosofia
perenne, l’importanza attribuita alla biografia e al contesto culturale per
cogliere la filosofia, e il criterio «cronologico» con cui il Conti conduce la
narrazione della storia della filosofia guidati da cause di relazione e
connessione. L’unico appunto mosso dall’A. al Conti riguarda la questione degli
universali71. A. fu anche un buon conoscitore del panorama culturale europeo e
dei maggiori pedagogisti e filosofi stranieri. Si tratta di un elemento non
così comune tra gli autori della seconda metà dell’Ottocento. Nonostante
diffidasse di una certa esterofilia, che contestava 68 G. Calò, Il pensiero
filosofico – pedagogico di Giuseppe A., «La Cultura filosofica», n. 5,
Sett-Ott. 1910, p. 447. 69 «Movendo dalla formula giobertiana «l’ente crea
l’esistente», che non lo soddisfaceva del tutto, e passando attraverso all’Idea
di una filosofia della vita del Bertini, che ad A. era parsa un’opera
provvidenziale per la filosofia italiana dopo i traviamenti a cui l’aveva
esposta il Gioberti, Egli si arresta al concetto cristiano – cattolico della
creazione, per cui da una parte è Dio infinito creatore libero, dall’altra gli
enti finiti e reali che trovano in quella la loro causa prima» G. Vidari,
Giuseppe A., Torino, Stamperia Reale Paravia, 1914, p. 6. 70 «Ripudiando il
criticismo come propedeutica della filosofia, egli vuole che il conoscere sia
fin dalle prime tenuto per vero, e come tale riconosciuto ed esaminato dappoi,
e non già posto in problema. La natura umana, perché ragionevole, è nella
verità, opperò il conoscere naturale è di per sè evidènte, non già problematico
nè bisognevol di prova. In questa evidenza del vero o del conoscere ci ripone
il supremo ed intrinseco criterio della filosofia, dal quale fluiscono poi e
nel quale si appuntano come criterii secondarii ed estrinseci l'affetto della
verità, il senso comune, la tradizione scientifica e la rivelazione» G. A.,
Saggi filosofici, Milano, Gareffi, Osserva il pedagogista: «Quanto è poi al
concetto filosofico del nostro Autore, sebbene mi paja più comprensivo assai e
più conforme a verità che non altri parecchi, durerei tuttavia non poca fatica
ad accoglierlo come definitivo e perfetto. E veramente (per tacere qui di altri
argomenti in contrario ) io non so fare buon viso a quella ontologia
scolastiso-wolfiana non ancora abbandonata a' di nostri, che egli pone come
parte integrale, anzi sublimissima della filosofia; giacché l'essere
astrattissimo e onninamente indeterminato, in cui si vogliono concentrati i
sommi universali di essa ontologia, ove si pigli da sè, disgiuntamente da Dio e
dalle realtà finite, convertasi in un aereo ed inconsistente fantasma, che mal
reggendosi di per sè è quindi impotente ad ammanire un saldo fondamento alla
protologia, cardine di tutto il sapere» Ibid., soprattutto ai positivisti e
agli hegeliani, accolse nel suo sistema diversi elementi di autori stranieri:
«Dello spiritualismo tedesco accetta e il sintetismo trascendentale del Krug
(l’io riflette sui “fatti della conoscenza” anzi nella coscienza, per
l’originaria armonia di pensiero e realtà, ideale e reale si sintetizzano) e in
concetto del Krause della personalità ed essenza divina (“l’essere Dio è il
principio personale del mondo”) e il suo Panenteismo, conciliante in sintesi
sia la ragione con l’esperienza, sia il processo analitico (dall’io e dal
finito a Dio) con il processo sintetico (da Dio all’io ed al finito.)»72. Nel
Krug apprezzò la capacità di conciliare il realismo con l’idealismo73. Dello
studioso riprese nei Saggi filosofici (1866)74 il principio della sintesi a
priori, nel tentativo di spiegare l’origine dell’unità tra oggetto e soggetto.
Si tratta di un concetto facilmente accostabile all’idea primaria di Rosmini. A.
raccolse così soprattutto le tesi di quanti cercarono di superare le antinomie
dell’idealismo75. Un altro autore molto importante nella biografia
intellettuale di A. fu Lotze76, il successore di Herbart all’Università di
Gottinga. Del filosofo sassone cita i Principes généraux de psychologie
physiologique77 che definisce un «lavoro magistrale»78. A. lo cita
nell’elaborazione della sua psicofisiologia, nel tentativo di sostenere con il
suo «duodinamismo coordinato» un approccio che coniugasse gli studi
sperimentali con la struttura spirituale della persona. Importante anche il
legame con Maine de Biran di cui accoglie le idee circa il legame tra la
persona umana e la persona divina, A. oltre che il principio de
«l’autocoscienza della personalità vivente»79. Spesso citato fu anche Heinrich
Pestalozzi. Il pedagogista vercellese fu quasi «devoto» all’esempio e alla
pedagogia dell’educatore svizzero. Non senza ragioni Calò lo definì un
«pestalozziano». L’unica critica che gli mosse riguardò l’utilizzo del termine
«organismo», al quale A. preferisce quello di persona. 72 V. Quarello, G. A.,
studio critico, cit., A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, Milano, Agnelli,
1868, p. 42. 74 G. A., Saggi filosofici, 30. 75 «E dirò che, con il Krause e
con il Jacobi, proprio lo Stahl fu sempre presente all’A., nella sua
opposizione decisa all’idealismo post-Kantiano» V. Quarello, G. A., studio
critico, 83. 76 A riguardo, la Quarello ha osservato: «Più forte, certamente,
fu l’influsso di Lotze specie nel campo psicologico, benché, a mio credere, si
possa pure far risalire al Lotze il concetto di Dio come suprema realtà
personale, che crea il mondo degli spiriti personali» 82. 77 H. Lotze Principes généraux
de psychologie physiologique, nouvelle edition, traduite de l'allemand par A.
Penjon, Paris, Bailliere, 1881. Si tratta
di una traduzione del primo capitolo del testo H. Lotze, Medizinische
Psychologie oder Physiologie der Seele, Leipzig, Weidmann’sche bucchandlung,
1852. 78 G. A., Studi psicofisiologici, cit. 79 V. Quarello, G. A., studio
critico, 29. 37 Altri autori hanno sottolineato il ruolo del
vercellese nella ricezione dell’herbartismo in Italia80. Sempre Calò lo giudicò
«più herbartiano di quello ch’egli stesso non creda»81, un giudizio che fu in
seguito emendato82. L’opera dell’A. è anche segnata dall’opera del Naville, a
cui lo accomuna la convinzione che alla base della pedagogia ci debba essere
l’antropologia e non l’etica come per Herbart o la psicologia scientifica come
per molti positivisti. Nella voce sull’A., presente nell’Enciclopedia
Filosofica di Sansoni83 e riportata in quella Bompiani84, Pozzo accosta A.
perfino a Plotino, riprendendo la valutazione del Gentile, sostenendo che il
vercellese aveva una concezione teistica di «tipo plotiniano (l’ente uno
infinito pone fuori di sé il molteplice e a sé lo richiama) da cui deriva il
concetto di armonia dell’universo, come “coesistenza” (o “sintetismo”) di
esseri che cooperano sotto l’imperio dell’inesauribile atto di Dio». In
sintesi, ci sembra di poter ragionevolmente sostenere che nonostante i diversi
apporti e «contaminazioni» con diversi autori, il professore piemontese abbia
preferito smarcarsi da discendenze unidirezionali. Più che di Rosmini, di
Pestalozzi, di Rayneri, egli si sentiva un rappresentante dello «spiritualismo
italiano». Egli considerava questa corrente come la più genuina tradizione
nazionale85, oltre che in linea con la più autentica pedagogia e 80 In merito
alla crisi del positivismo iniziata già negli anni ’80 dell’Ottocento,
Malatesta e la Bertoni Jovine commentarono: «Il Labriola prima, il Fornelli e
l’A. poi e in ultimo il Credaro, avevano prodotto una svolta molto sensibile
negli studi introducendo nella pedagogia i princìpi più validi dell’herbartismo»
D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, 43. 81 G.
Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di A., Prato, Tipografua Carlo
Collini, Calò, Dottrine e Opere, Lanciano, Carabba, 1932, p. 262. 83
Enciclopedia Filosofica, Firenze, Sansoni, 1967, vol. I, pp. 192-193. 84
Enciclopedia Filosofica, Milano, Bompiani, Nel testo già citato Della pedagogia
in Italia ripercorre la storia della pedagogia italiana e chiosa: «Le opere
pedagogiche chiamate fin qui a rassegna rivelano un carattere comune, che tutte
le segna di una medesima impronta: lo spiritualismo. È questo il carattere
dominante e tradizionale di tutta la pedagogia italiana da Vittorino da Feltre
al Rayneri. Essa riconosce nel perfezionamento dell’uomo la preccelenza del
principio spirituale sull’organismo corporeo, l’immortalità personale dello
spirito umano e la dipendenza di esso da Dio risguardato come spirito conscio
di sé, distinto sostanzialmente dal mondo, causa creatrice e finale di quanto
sussiste. Essa considera la nostra temporanea esistenza siccome tirocinio e
preludio di una esistenza oltremondana, e conseguentemente vuol preparare il
fanciullo alla sua duplice destinazione, vuol educare in lui l’uomo temporaneo
che passa quaggiù soffrendo, e lo spirito immortale fatto per una seconda vita.
Essa ripudia siccome offensiva della dignità della persona umana la dottrina
che vuole il fanciullo esclusivamente allevato per la patria e pel reggimento
politico dominante, facendolo così, di essere avente ragione di fine, un
semplice mezzo agli arbitrii del Governo e della società. L’ideale dell’uomo
perfetto che la natura ha preformato nell’infante, essa lo addita vivente in
Cristo, assegnando per iscopo all’opera educativa la virtù cristiana, non la
virtù naturale, né la civile, né lo sterile misticismo. Per lei non si da
istruzione vera ed efficace senza l’educazione dell’animo; non vera educazione
morale senza religiosità; non religiosità vera senza Cristianesimo cattolico,
sicché l’educazione ha da abbracciare tutto l’uomo e con tale universalità ed
armonia, che i sensi vengano subordinati alla ragione, il corpo allo spirito,
la libertà a Dio, la vita temporanea alla oltremondana. Mercé questo carattere
dello spiritualismo la pedagogia italiana contemporanea mantiensi fedele alle
sue tradizioni secolari e si ricongiunge colla scuola spiritualistica platonica
di Firenze, perché discepolo ed amico di Giovanni di Ravenna, il grande
scuolaro del Petrarca» A. La pedagogia italiana antica e contemporanea,
158. 38 filosofia greca86. A. era convinto che fosse una tradizione
che andasse difesa87, soprattutto dall’idealismo e dal positivismo, considerate
teorie di «importazione» aliene allo spirito filosofico italiano. I. 2.
Gnoseologia e metafisica I testi in cui A. affronta i problemi più
specificatamente metafisici e gnoseologici sono i Saggi filosofici, Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola Jonica a Giordano
Bruno e Studi antropologici: l’uomo e il cosmo. Non si può affermare che su tali
questioni il contributo di A. abbia avuto una reale originalità. Lo studioso si
è limitato piuttosto alla ricerca di alcune basi teoretiche che gli
permettessero di fondare la sua pedagogia su una prospettiva «realistica»,
com’è stata definita la sua filosofia88. La carenza di approfondimenti è stata
oggetto delle critiche di alcuni studiosi dell’A. come la Quarello89 e
Mazzantini90. Sebbene il contributo di A. non abbia apportato novità rilevanti
nel discorso gnoseologico e metafisico del tempo, espose comunque il suo
pensiero in modo organico e coerente. Egli considera la Metafisica come il
momento fondamentale della ricerca filosofica, caratterizzata dall’universalità
e dalla trascendenza. La definisce come «scienza del Primitivo»91 o «Scienza
de’ supremi principii del sapere e dell’essere»92. Contro gli orientamenti
antimetafisici di marca positivista e scettica, considerava l’abrogazione del
problema del senso e del «tutto» come un tradimento della filosofia. Essa
trovava la sua ragion d’essere in quel mandato della persona umana, che
strutturalmente e spontaneamente interroga l’Universo e ne pretende un
significato. In questo senso la metafisica collocava la sua origine nel
desiderio dell’uomo di «rendersi ragione di questo 86 G. A., Studi pedagogici,
Torino, Tipografia Subalpina. Accusato di nazionalismo, A. si difese: «Noi siam
lontanissimi dall'assumere il nazionalismo per sommo ed infallibil criterio del
Vero; che anzi arditamente sosteniamo, che nel principio di nazionalità qual è
universalmente ammesso v'è del troppo e del vano assai da tor via, e gli bisogna
essere ricondotto entro a più ragionevoli e modesti confini. Noi invece
propugniamo l'italiana filosofia non per ciò solo che è italiana, ma primamente
e precipuamente perché fondata sulla verità del Teismo cristiano, siccome
ripudiamo l'Idealismo di Hegel ed il Positivismo di A. Comte perché disformi
entrambi dal Vero, e non già perché l'uno di tedesca, l'altro di francese
origine» A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 14. 88 V. Suraci, A. filosofo e
pedagogista, «Educare», maggio - giugno 1952, p. 151. 89 V. Quarello, A.,
studio critico, 21. 90 C. Mazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi
della seconda metà del sec. XIX, «Archivio di Filosofia, organo del R. Istituto
di Studi Filosofici», Roma. A., Saggi filosofici, 284. 92 G. A., Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, 5. 39 gran tutto, che dicesi universo»93, un’esigenza che
non può essere soppressa, pena la negazione dell’identità umana. Sulla scorta
del rosminianesimo e di molta filosofia cristiana, A. rileva come la crisi
della metafisica fu prima inaugurata dal soggettivismo di Cartesio e poi
consacrata dal criticismo di Kant. La gnoseologia moderna era soggiogata, a suo
giudizio, da un equivoco legato alla volontà di condurre in dubbio il valore
veritativo e orientativo dei criteri dell’evidenza e del senso comune insiti
nell’uomo. Si tratterebbe di un cortocircuito conoscitivo dai corollari
disparati. Se, infatti, da un lato si svaluta la ragione riducendone il dominio
(kantismo), dall’altra si arriva a «divinizzare» l’Io (idealismo), attribuendo
alla razionalità umane quasi gli stessi attribuiti che i teologi avevano sino
ad allora riservato al Creatore. Per superare l’impasse, A. sollecitò in coro
con il resto degli spiritualisti una correzione radicale della prospettiva. La
filosofia non poteva uscire dalla palude dello scetticismo, se non «attestando»
e «accettando» dei criteri conoscitivi immanenti all’uomo. Questa soluzione era
considerata l’unica possibilità per uscire dall’equivoco gnoseologico moderno.
Le sue posizioni gli costarono la critica del Gentile, che nel saggio sulle
origini della filosofia contemporanea, inserisce l’A. tra i «mistici», cioè tra
quei filosofi che continuavano a «credere» nell’esistenza di una realtà
«esterna» all’Io pensante. Non potendo «dimostrare» l’esistenza del mondo e
spiegare il suo rapporto con lo spirito, secondo Gentile, i realisti accettano
in modo fideistico il senso comune. Per questa ragione, ossrvò che quella di A.
è «una filosofia fondata sul mistero dell’evidenza»94, una critica poi ripresa
e approfondita dalla Quarello95. Il sintetismo, cioè un’interpretazione della
relazione intima tra l’essere e il pensiero in un’ottica realista, era
considerato da Gentile come una soluzione non fondata per motivare la relazione
tra la mente e il «supporto» mondo esteriore96. Questa visione armonica
dell’essere, è anzi letta da Gentile, nella sua tipica riduzione della storia
della filosofia a preambolo di un compiuto Io spirituale, come delle tesi
idealiste «mancate». 93 G. A., Il problema metafisico studiato nella storia
della filosofia dalla scuola ionica a Bruno, 2-3. 94 G. Gentile, Le origini
della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, 366. 95 V. Quarello, A.,
sudio critico, 20. 96 «Il sintetismo dell’A., dunque, non vale più dell’ordine
del Conti. Anche per A. basta il sintetismo ad aprire tutte le porte e svelare
tutti gli enimmi. Così il gran problema gnoseologico del rapporto del pensiero
con l’essere, per A. è prima risoluto che formulato. Criticismo o scetticismo?
Separazione dell’essere dal pensiero, o identità dell’uno con l’altro? Ma il
sintetismo c’insegna che tutto è unito e distinto in natura, e ciascuna forza
opera consociata con tutte le altre! Anche il soggetto e l’oggetto vorranno
essere insieme connessi, ma non confusi: conciliati in un armonia, che non sia
per altro la negazione delle loro differenze» G. Gentile, Le origini della
filosofia contemporanea in Italia. I platonici, 366. 40 Il filosofo
siciliano riconobbe in ogni caso in A. «una certa inquietudine circa la
saldezza del suo principio filosofico»97, originata dal confronto con la logica
hegeliana, che gli avrebbe «turbato i sonni» nel corso della sua opera. Di
fronte alla tesi idealista, A. reputava l’accettazione dell’essere come l’atto
più consono alla natura razionale dell’uomo98. Si tratta di un’attestazione
«misteriosa», ma non per questo irrazionale99. Il primo dato della coscienza è
la percezione di un mondo fuori di noi, tale dato si può o accettare o
rifiutare, non si può dimostrare. Secondo A. la filosofia trova il suo
fondamento nella constatazione dell’esistenza dell’essere. Il pedagogista
sollecita perciò a tornare ad un sano realismo, a ripartire dal mondo delle
cose, dal dato semplice della sua esistenza, dal mistero del sé, per giungere
solo dopo all’Eterno. Ciò ha conseguenze gnoseologiche importanti, tra le quali
il fatto che stando all’A. il ruolo iniziale nel ragionamento risiede
nell’intuito che si muove verso la comprensione. Nel saggio Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, egli traccia una serie di stadi, o passaggi, con cui si sviluppa un
pensiero filosofico compiuto. Un primo livello della riflessione riguarda la
constatazione dell’esistenza di un senso comune e di criteri con i quali di
norma si valuta e si giudica, in un secondo momento vi è un pensiero critico
che si interroga sulla veridicità di quanto pensato, nell’ultimo passaggio il
pensiero speculativo indaga e verifica con criteri validi e veritativi. Per l’A.,
la riflessione speculativa non è la negazione del senso comune, ma ad esso è
strettamente legato, poiché i criteri veritativi emergono spontaneamente nella
persona, e non sono la costruzione dell’impegno filosofico. Il compito della
metafisica è dunque proprio quello di riconoscere la «realtà della vita, pur
mentre la spiega e si solleva al di sopra di essa per dominarla dall’alto: essa
rispetta le credenze universali del genere umano, conformasi alle esigenze
della natura umana, tien conto de’ suoi bisogni, soddisfa le sue imperiose
aspirazioni, e non disconosce veruno degli elementi integrali dell’umanità». Osserva
a proposito «Nel fatto della cognizione il soggetto e l’oggetto si compenetrano
misteriosamente l’un l’altro senza però smettere ciascuno la sua la propria ed
individua natura» A., Saggi filosofici, In un brano molto significativo, quasi
replicando a tale obbiezione, A. enuclea la sua concezione del mistero: «La
ragione ha certamente il diritto di respingere l’assurdo, perché l’assurdo
ripugna, ma non ha diritto di respingere il mistero, perché il mistero è una
proposizione, di cui si conoscono i singoli termini, che la compongono e non si
comprende bene il nesso, che collega il soggetto col predicato. Quindi possiamo
affermare che in ogni mistero dogmatico vi è sempre alcunché di conosciuto
accessibile alla ragione, come in fondo di ogni verità conosciuta dalla ragione
umana vi è sempre alcunché di ignoto, di tenebroso, un’ombra del mistero» A.,
Appunti di Antropologia e Psicologia, Torino, Carlo Clausen, A., Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, 41 A. identifica nel «primo noto», evidente e concreto, la base
della sua speculazione metafisica. Si tratta di quanto il vercellese chiama
anche Io penso, da cui nasce la constatazione che l’essere esista e che possa
essere riconosciuto nella sua realtà e verità. Sulla relazione tra il pensiero
e il reale, si pone in continuità con il concetto di sintetismo esposto da
Rosmini. A. ammetteva un Universale ontologico assoluto a cui erano subordinati
i singoli universali ontologici, attraverso la legge del sintetismo e
dell’armonia101. Il suo realismo gli impedisce di ammettere sia tesi che
vorrebbero la causa del reale come qualcosa di non reale, sia quelle le forme
di spiritualismo che identificano Dio con qualsiasi essere ideale. Secondo A.
sebbene Dio sia l’origine dell’uomo e di tutte le cose non si identifica con
esse. E anche qui applica una delle regole classiche della sua filosofia, il
«Distinguere per unire», enunciato già nei primi libri, e posto alla base della
sua gnoseologia102. In questo senso, avversa sia l’identificazione del pensiero
con l’essere di origine idealista, sia il monismo materialista. La Quarello ha
considerato insufficiente la spiegazione della relazione tra l’Io e il non Io
nel pensiero del Vercellese: «Il punto debole del sistema d’A. è proprio qui,
in sede gnoseologica, nell’avere, cioè, posto a base della speculazione
puramente filosofica l’evidenza dei dati della realtà, nell’avere voluto che il
sapere filosofico non fosse che elaborazione del sapere naturale (oggettività
della conoscenza) ammettendo poi, senza spiegarla, un’intima “conciliazione”
fra ragione ed esperienza»103. E ribadisce «L’A. non ci spiega il come
dell’atto conoscitivo anche se ampiamente ha tentato di svolgere la sua tesi di
una corrispondenza tra pensiero e realtà, tra soggetto ed oggetto, tale da
essere considerata una unione stabilita da natura, secondo la legge dell’ordine
universale per la quale tutti gli esseri armonizzano in unità una molteplicità
di parti e cooperano e sono uniti fra loro, pur rimanendo distinti, sì da
formare una totalità armonica» Il principio della personalità. Suraci spiega
con le seguenti parole il «percorso» che va dal primo nota alla vera conoscenza.
A. nota che il pensiero, nel suo movimento dialettico, descrive un circolo non
vizioso, ma solido per cui dall’uno gnoseologico, l’universale oggetto
dell’intuito primitivo, si passa al molteplice della cognizione determinata,
distinta, oggetto della riflessione: dal molteplice si passa poi alla visione
comprensiva delle cose e quindi alla visione mentale dell’Uno ideale.
Dialetticamente la mente umana, secondo A., non fa che “discorrere dalla
cognizione intuitiva o virtuale dell’Uno gnoseologico alla cognizione riflessa
o attuale del suo molteplice ideale, e dalla cognizione attuale del molteplice
ideale alla cognizione attuale dell’Uno gnoseologico”. Questa formula del
movimento del pensiero somiglia molto da vicino a quella enunciata dal Rosmini
nel n. 701 della sua Logica, al quale A. si attiene, citandolo spesso nel corso
di questi “Saggi” e, potremo dire, in tutte le sue Opere» V. Suraci, A.
filosofo e pedagogista, 158. 102 G. A., Saggi filosofici, 3. 103 V. Quarello, A.,
studio critico, 21. Lesse all’Università di Torino una prolusione dal titolo,
Il ritorno al principio della personalità105. In quella occasione, ripercorse
l’itinerario delle sue opere identificando in questo concetto il punto cardine
di tutto il suo pensiero106. Questa considerazione fu poi ribadita qualche anno
dopo nella prefazione degli Opuscoli pedagogici107. Oltre a riprendere il
contenuto di questo principio e a mettere in luce la rilevanza nell’economia
del suo pensiero, diversi autori hanno considerato l’elaborazione del principio
della personalità come il più importante contributo di A. alla storia del
pensiero pedagogico e filosofico108. Calò ne ha ricordato la valenza
pedagogica, osservando come «nessuno con tanta consapevolezza e chiarezza aveva
prima di lui messo in luce quel principio e mostratane la fecondità e
illuminatane vivamente tutta quanta l’opera educativa»109. Con questo
principio, A. affronta la più profonda questione antropologica, vale a dire la
specificità dell’uomo rispetto al resto della natura. Di fronte alla domanda
«chi è l’uomo?» A. parla della persona come «una mente informante un organismo
corporeo»110. Egli individua due piani strettamente connessi: «nell’uomo la
mente ed il corpo sono due sostanze diverse, eppur fatte l’una per l’altra il
corpo è animato, l’anima è [A., Il ritorno al principio della personalità,
Prolusione letta all’Università di Torino. Torino, Tipografia degli
Artigianelli. Citò la prima prolusione letta all’Università nel 1870, in cui
già enucleò tale principio. Scrisse: «Questo nuovo concetto, che allora mi era
balenato alla mente, fece la sua prima apparizione nella mia Prolusione
universitaria del 1870, intitolata appunto Il principio della personalità, base
della scienza e della vita. “Questo principio (io scriveva allora) è quel centro
ideale, che vale a comporre le antinomie tra le dissidenti scuole filosofiche
nel mondo del sapere, ed i dissidi tra gli elementi sociali nel mondo
dell’operare, e questi due mondi della scienza e della vita insieme composti
solleva ad una unità superiore, che è il punto di contatto e di armonia di
entrambi. Enunciando in una breve e chiara formola questo concetto, poniamo
che, senza il riconoscimento speculativo e pratico della personalità, non si dà
né vera scienza, né vera vita per l’uomo.” Da quel punto questo principio
diventò il pensiero dominante della mia mente, il tema perpetuo delle mie
meditazioni, lo spirito animatore de’ miei lavori e delle mie lezioni, la mia
credenza filosofica rimasta incrollabile e costante in tanto volgere di anni,
in mezzo a tante rivolture e volteggiamenti d’ingegni e di dottrine, l’arma
della mia critica contro tutte quelle teoriche e quei sistemi che inchiodarono
la scienza e la vita sul nudo calvario dei fenomeni sensibili, senza uno
spirito che li animi e li illumini»
«Tutti i miei lavori pedagogici, a qualunque punto della umana
educazione si riferiscano, sono informati da una idea unica e suprema, il
concetto della personalità umana: da esso si vanno logicamente esplicando, in
esso si ritrovano il loro principio di armonia, in esso si compongono ad una
comprensiva e potente unità» G. A., Opuscoli pedagogici, Torino, Tipografia del
Collegio degli Artigianelli, Cannella, che peraltro afferma come il pedagogista
piemontese non sia stato «in Italia conosciuto ed apprezzato abbastanza» scrive
sul principio di personalità: «Lasciando da parte le sue critiche storiche,
acute, precise, e bene spesso pregevolissime, io credo, per esempio, che la sua
idea fondamentale pedagogica dell’educazione della personalità meriti molta
considerazione e racchiuda in sé il nucleo vero, intorno a cui si deve aggirare
una dottrina pedagogica. E così si può dire di molte sue opinioni sui problemi
pratici, dove tanta confusione regna oggi, e dove l’A. ha già disegnato
soluzioni assai giuste» G. Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di
Giuseppe A., in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Calò, Dottrine e Opere, 261-262. 110 G. A.,
La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, Torino, Tipografia Subalpina] incorporata»111.
L’uomo è definito «sintesi vivente di un’anima razionale e di un corpo
organico, insieme composti ad unità di essere; o meglio ancora è una mente
informante un organismo corporeo, prendendo qui il vocabolo mente come sinonimo
di spirito, ossia di anima razionale»112. Questo primo antropologico scaturisce
dalla sua profonda origine: «Lo spirito umano, ossia la mente sostanziale è
persona per essenza, il corpo umano con essa congiunto in unità di essere è personale
per derivazione e partecipazione, ossia è della nostra personalità complemento
estrinseco, non già principio intrinseco»113. Si tratta di una prospettiva che
ha implicazioni teologiche. Trattando di questo principio Mazzantini ha
osservato: «non è, dico, d’importanza suprema solo in quanto rivela l’uomo a se
stesso, ma in quanto altresì offre un principio supremo interpretativo della
realtà universale, compresa la stessa realtà divina»114. Su questo versante, è
stato osservato come il principio della personalità sia imprescindibile dal
teismo di A. Per il vercellese, infatti, il concetto di persona trova la sua
ragion d’essere e il suo compimento nella relazione con la Persona infinita116.
In una radicale e metafisica indagine antropologica, A. individuava la
questione nodale della scienza pedagogica: «Ora l’idea fra tutte la più
comprensiva, la più feconda, la generatrice di tutto il sapere speculativo, è,
se io ben veggo, l’idea della personalità. Il moto riformatore della scienza
debbe esordire da lei»117. Il destino della pedagogia era legato al rispetto di
questo principio, che invece considerava minacciato dalle teorie coeve. Nel
saggio già citato Sulla personalità umana, elenca una serie di orientamenti che
[A., Appunti di Antropologia e Piscologia, 3. 113 G. A., L’uomo e il cosmo,
cMazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi Ha scritto in merito Suraci:
«Il principio “personalistico” serve all'A. per affermare senz'altro in sede
pedagogica, che, “la personalità finita dell'educatore e quella dell'educando
si reggono sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la loro ragione
sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la loro ragione di essere
la loro causa efficiente”. Ebbene, bisogna porsi da questo punto di vista ontologico
ed essenzialmente religioso per intendere a pieno il valore e il vero
significato della pedagogia dell'A., nella quale convergono con ricchezza di
argomenti e di ampia e, spesso, di esauriente trattazione scientifica, tutti i
temi relativi all'essenza e allo svolgimento della natura umana e della
educazione dell'uomo. La religiosità, la credenza di Dio e nella immortalità
dell'anima, rimane, per il nostro autore, il punto di partenza e di arrivo
dell'azione educativa, il cardine essenziale in cui si radica e gira la
pedagogia; è luce inoffuscabile che deve rischiare l'idea e il fatto
dell'educazione: “l'uomo si muove in Dio, principio della sua vita, fine
supremo della sua esistenza”» V. Suraci, A. filosofo e pedagogista, La
coscienza personale è il primo, fondamentale pronunciato da cui esordisce la
scienza. La persona umana sovrasta per eccellenza e nobiltà di natura su tutto
il corporeo universo; ma finito qual è sottostà alla personalità infinita
divina. Non bisogna mai perdere di vista questa dualità di essere personali,
che si richiamano e si corrispondono; poiché, tolta la prima, l’uomo rimane
oltraggiato nella sua dignità personale e diventa una cosa; tolta la seconda,
si apre il varco al più ignobile egoismo, alla libertà più sfrenata, alla più selvaggia
indipendenza. L’uomo riconosce l’esistenza di un essere personale infinito,
dacchè egli stesso è una persona finita, e con esso si congiunge con un vincolo
d’intelligenza e di amore. Questo vincolo costituisce la religione, la quale
forma l’oggetto della disciplina religiosa» A., Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino. A., Sulla personalità
umana, Torino, Fina, reputava nocivi a tale principio118. Divide queste teorie
in due gruppi. Nel primo inserisce i sistemi che disconoscono la persona nella
vita speculativa: il panteismo, il calvinismo, il fatalismo, il materialismo e
l’ipermisticismo. Si tratta di teorie accomunate dalla svalutazione
dell’apporto dell’individualità nella storia e nella vita. Nel secondo
raggruppa gli orientamenti che menomano il ruolo della persona nella vita
pratica: il socialismo, la statolatria, il dispotismo del costume. Si tratta di
teorie che riducono la persona ad un «mezzo» per il raggiungimento del
progresso della società. Nell’ultimo sistema citato, il dispotismo del costume,
A. si schiera contro certa sociologia «per cui ciascuno vien tratto a
conformare il proprio vivere e pensare, al vivere ed al pensare altrui come a
norma suprema»119. Oltre alle teorie citate, il pedagogista vercellese
denunciava il rischio di ingigantire il ruolo di un aspetto della persona a
discapito della sua totalità. Il professore vercellese riconosce questa
tendenza in due grandi sistemi che allora si contendevano il campo della
filosofia: il positivismo e l’idealismo. Secondo A. la mente non è quella degli
idealisti, staccata dal corpo e superiore ad esso, ma non è neanche quello dei
positivisti e di certi psicologi sperimentali che riducevano il pensiero ad
un’espressione materiale. Anche se non si confonde con essa, la vita della
mente e dello spirito è intimante connessa con quella carnale120. La loro
relazione non deve condurre all’assimilazione di una delle due nature che
compongono l’uomo 121. Entrambi i livelli sono distinti in una stretta
«collaborazione»: «l’essere umano possedendo un corpo organato alla vita
materiale non può essere spiegato tutto quanto senza la materia, ma neanco può
essere spiegato colla sola materia, dacchè il suo organismo è informato di una
sostanza spirituale»122. Sebbene il rapporto tra materia e spirito nell’uomo
rimanga un «mistero»123, non è ammissibile assimilare su questo presupposto la
persona al resto della natura determinata. Nella vita dell’uomo, infatti,
emergono proprietà irriducibili alle dinamiche delle entità. L’uomo è
siffattamente costituito, che non vi ha parte del suo essere, la quale non viva
congiunta coll’universo corporeo esteriore. Sentire, pensare, volere, sono i
tre supremi attributi costitutivi dell’umano soggetto; e tutti e tre si
svolgono in intima ed operosa corrispondenza colla natura, fuor della quale
rimarrebbero atrofizzati» A., L’uomo e la natura, Torino, Carlo Clausen, La
natura e lo spirito sono uniti «ma sarebbe gravissimo errore il credere, che
siffatta unione si converta in una identità, negando così ogni sostanziale
distinzione fra l’uno e l’altra, e confondendoli in una comune essenza. La
distinzione esiste e non distrugge l’unione. Poiché nel mondo esteriore le
sostanze sono corporee, e quindi i fenomeni e le forze sono fisici; nel mondo
interiore la sostanza è l’anima, i fenomeni sono psichici, le forze sono
facoltà o potenze. Ma il punto più spiccato, che distingue questi due mondi,
malgrado la loro cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza
de’suoi fenomeni, il dominio delle sue potenze; e questa coscienza di sé,
questo dominio di sé manca alla natura» A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, A.,
Studi psicofisiologici] fisiche. Come osserva A.: «il punto più spiccato che
distingue questi due mondi malgrado la loro cospicua armonia, sta in ciò, che
l’anima ha la coscienza de’ suoi fenomeni, il dominio delle sue potenze»124.
Negando la natura spirituale dell’uomo, la realtà effettiva della persona
sfugge alla comprensione: «È un dogma del senso comune ed un pronunciato della
sapienza filosofica tradizionale, che l’uomo non è tutto quanto materia
organata, come non è neppure uno spirito puro, bensì una sintesi stupenda,
un’armonia vivente di questi due distinti principii insieme composti ad unità
di persona: ponete che tutto il suo essere si risolva in un composto di
molecole organate a vita materiale, e voi non capirete più nulla dei solenni
problemi, che agitano la coscienza dell’umanità, più nulla delle sublimi
aspirazioni, che fervono indomabili nei penetrati dello spirito umano»125. Per
il vercellese, è lo spirito che dà dignità all’uomo, sollevandolo dal resto
della natura. La persona esprime il grado sommo dell’essere e lega l’individuo
all’eterno. La coscienza dell’esistere colloca la persona in una dimensione
irraggiungibile per qualsiasi altro essere della natura. L’esigenza di
sottolineare il primato spirituale lo portò il docente piemontese a criticare
in una serie di lavori la definizione aristotelica dell’uomo come animale
politico126, che reputava ambigua. Data la confusione antropologica coeva, A.
non reputava conveniente indicare primariamente nell’uomo la natura animale. Si
rischiava di avallare le tesi dei materialisti positivisti e di un certo
evoluzionismo, che volevano ridotto l’uomo ad un «bruto», per usare le parole
di A.128. Il pedagogista avvertiva il rischio di ridurre lo studio della
persona, al solo aspetto materiale: «Per conseguente l’antropologia, anziché
scienza distinta e superiore, apparirà niente più che una parte della zoologia,
parte la più sublime, se vuolsi, ma pur sempre una parte» A., L’uomo e il cosmo.
Osserva: «La tristissima definizione, l’uomo è animal ragionevole, non solo
capovolge l’ordine naturale, che regna tra questi due elementi, ma soppianta
ben anco la stessa personalità umana, la quale ha la sua propria sede e radice
nella mente imperante sull’organismo corporeo e fornita di una perenne
sussistenza, mentre essa pone l’animalità siccome soggetto, di cui la
ragionevolezza apparisce un mero e semplice predicato, tantochè venendo meno la
prima, cessa issofatto la seconda, né questa può spiegare altra virtù, che non
sia compresa nella cerchia di quella»127. In seguito ribadisce che accoppiare
«all’animalità la ragionevolezza come ad un soggetto un attributo suo è un
disconoscere il primato dello spirito sulla materia e della mente
sull’organismo corporeo nell’uomo, ed un aggiudicarlo alla materia sullo
spirito, al corporeo organismo sul principio pensante» A/, Della vecchia e della nuova antropologia
di fronte alla società, Genova, Tipografia del R. Istituto dei sordo – muti,
1874, p. 7. 128 «Mentre il bruto opera per impulso irresistibile di cieco
istinto, l’uomo opera consapevole di sé e del fine a cui mira, ed è arbitro
delle sue azioni. Questa potenza, per cui l’umano soggetto si determina da sé
ad operare per un fine conosciuto, è la volontà» A., La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, 46. 129 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di
fronte alla società, Per riscoprire l’autentica alterità umana, era invece
compito dell’antropologia evidenziare nello sviluppo della persona quegli
aspetti irriducibili al divenire determinato. A. richiama all’osservazione
dell’uomo, delle sue facoltà, e della sua azione. Egli afferma che in ogni uomo
inizia, prima o dopo, la «vita spirituale» che consiste nella coscienza del sé
e del mondo: «Io sono: con questo pronunciamento un essere personale si desta
alla vita, annunzia la propria esistenza, afferma se stesso, rivela sé a se
medesimo, e specificamente si differenzia dagli esseri impersonali che
esistono, pur non sapendo di esistere. Questa coscienza di sé può essere più o
meno viva, più o meno ampia e potente, ma è pur sempre necessaria all’io,
poiché una incoscienza assoluta ripugna alla natura di un essere intelligente,
qual è la persona»130. Nella visione di A., l’affiorare dell’Io, diviene così
la prova della natura spirituale della persona: «Il vocabolo io chiude esso
solo in sé la più decisiva confutazione del materialismo, essendochè il
ripiegarsi che fa l’io sopra di sé ed il riconoscersi siccome sostanzialmente
identico nella dualità del soggetto riflettente e dell’oggetto riflettuto è
dote propria dello spirito ed affatto ripugnante all’essenza medesima della
materia, che è di sua natura impenetrabile, cioè tale da non poter compenetrare
interiormente sé stessa e tutta riconcentratasi siccome in semplicissimo punto:
chè in tal caso cesserebbe di essere materia»131. L’emergere della
individualità personale all’interno del mondo, indica anche lo sviluppo della
coscienza alla scoperta della propria esistenza132. L’Io emerge primariamente
in due connotati propri, vale a dire l’intelligenza e l’attività volontaria133.
In questo senso definisce la persona come «sostanza dotata di intelligenza,
mercé cui ha coscienza di sé affermandosi quale unità vivente di vita sua
propria distinta dalla realtà esteriore e pur con questa unità, e di attività
volontaria, per cui possiede sé stessa e dispiega liberamente la virtualità sua
in ordine al fine universale segnato dalla personalità infinita di Dio»134.
Questi due attributi sono l’espressione della coscienza, in A., Il ritorno al
principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino A.,
Sulla personalità umana, 17. 132 «La coscienza personale è l’io, che rivela sé
a se medesimo. Ora quali sono le rivelazioni della coscienza interiore? L’io
sente di essere uno od identico con se medesimo, di possedere un’esistenza
effettiva e reale, si riconosce e si afferma una sostanza sussistente, attiva,
semovente, operosa, che svolge la sua intima virtù in una molteplicità di
pensieri, di affetti, di voleri, ed in sé li raccoglie ad unità» A., Il ritorno
al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino i«Lo
studio della personalità umana è lo studio dela mente contemplata primariamente
in sé medesima, poi nelle attinenze su coll’organismo corporeo. La mente, sede
della personalità, emerge da due supremi costitutivi, che sono l’intelligenza
conoscitiva e l’attività volontaria» G. A., Sulla personalità umana, 16.
134 55. 47 cui l’uomo trova la sua indipendenza, alterità e potenza
rispetto al resto della natura135. Con altre parole, A. osserva: «Dovunque c’è
la persona, cioè un soggetto dotato di intelligenza ed attività volontaria, là
vi è lo spirito. La persona è una energia, un’attività, una forza, non cieca,
ma intelligente e conscia di sé, non fatale e necessitata, ma libera e signora
di sé, lo domina e lo trasforma informandolo giusta il suo ideale: ma la
materia non conosce né se stessa, né lo spirito, non domina sé medesima, ma è
irrepugnabilmente dominata dalle forze, che la investono»136. Nell’uomo,
infatti, la volontà è radicata nell’intelligenza137. Solo una prospettiva
simile, per A., è capace di comprendere la vita della persona, e salvare la sua
unità138. Commentando una parte del celebre libro di Smiles, Self – help,
tradotto in Italia con il titolo Chi si aiuta Dio l’aiuta, A. scrive che
ognuno: «sente di essere un’attività consapevole di sé ed arbitra del proprio
operare, una forza morale, che si muove all’atto non per esteriore
costringimento, ma per intrinseco impulso intelligente e libero. “Se ciò non
fosse (scrive lo Smiles nel capitolo VIII della sua opera Chi si aiuta Dio
l’aiuta), dove sarebbe la responsabilità? A che gioverebbe lo insegnare,
l’ammonire, il consigliare, il correggere? A che servirebbero le leggi, ove non
fosse la credenza universale, come è un fatto universale, che gli uomini
obbediscono o no ad esse, secondo che deliberarono individualmente?”»139. 135
«La persona è un tutto individuo e sostanziale, che afferma sé come distinto
dalla realtà universa; un soggetto, che possiede sé stesso mercè il pensiero e
la volontà; una monade, che è conscia sui et compos sui, è presente a sé ed è
tutta in ciascuna delle molteplici sue forme, determinazioni, momenti e stati,
sicché il secreto de’ grandi caratteri dimora nel conservare la propria
individualità personale in mezzo alle forze contrarie padroneggiandole; una
sostanza dispiegantesi per intrinseca sua virtù da un centro o principio
supremo di vita suo proprio e che nello esplicamento del suo contenuto
compenetra tutta sé stessa in una viva ed attuosa unità di intendere e di
volere» A., Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo
nell’uomo, Torino, Carlo Clausen, 1903, p. 15. 137 Secondo A. l’attività
volontaria è «la fonte secreta, inesauribile, da cui prorompe tutta la corrente
della vita umana, ed a cui rifluisce con perpetuo circolar movimento. Il voglio
pronunciato dall’io attesta l’atto di una coscienza personale ed annuncia il
lavoro. S’intende da sé che questa forza, quest’attività interiore dell’io non
è una volontà cieca, inconsapevole di sé, bensì illuminata dall’intelligenza,
essendochè chi dice coscienza, dice conoscenza, e propriamente conoscenza di
sé» A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 8. 138 «La coscienza è la
rivelazione dell’anima a sè stessa nella sua natura e ne’ suoi fenomeni, nella
sua sostanza e ne’ suoi modi, nella sua essenza e nella sua attività, nel suo
essere e nelle sue manifestazioni. Così il concetto della personalità umana,
vale a dire di un soggetto sostanziale fornito di intelligenza e di libera
volontà, è il solo, che concilii la molteplicità dei fenomeni coll’unità del
loro comune soggetto, sicché questi due termini nello sviluppo della vita umana
si mantengano indisgiungibili, e si rischiarano l’un l’altro» G. A., Studi
psicofisiologici, 74. 139 G. A., La scuola educativa, principi di antropologia
e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 47.
48 L’esistenza nella persona di una unità tra mente e corpo, rappresenta
una premessa incontrovertibile su cui dipanare il discorso antropologico e
pedagogico140. Negare questa dualità nell’uomo, significherebbe disconoscere un
dato di realtà. Stando al pedagogista, la stessa idea di scienza appare
contenere implicitamente l’affermazione dell’esistenza della coscienza141. A.
dedicò ampio spazio al rapporto tra la dimensione spirituale e quella
corporale. Com’è già stato osservato, l’uomo è sintesi tra persona e corpo, due
nature che si mantengono in una relazione di armonia nell’uomo. In questo senso
egli definisce l’uomo come «persona organata»142 o «persona incorporata».
Questa relazione, pone il problema di come i due livelli siano coordinati tra
loro. Come premessa a questo problema, A. scrive che «nell’uomo non vi sono due
esseri, ma uno solo; quindi in lui le potenze mentali dell’anima e le funzioni
animali del corpo si svolgono complicate insieme, sicché non si può tracciare
una linea di separazione tra i fenomeni psichici ed i fisiologici»143. Contro i
positivismi chiarisce in più di un’occasione che la vita della mente va
distinta da quella materiale. Osserva: «L’anima non trae la sua origine dagli
organi del corpo, ma (dicevano i pitagorici) vien dal di fuori nel corpo è
un’emanazione dell’etere, simbolo dell’anima universale, ossia di Dio animatore
supremo»144. Nel testo Studi psicofisiologici, si occupa in specie della
relazione tra la natura spirituale e quella fisiologica, citando diverse opere
di studiosi tra cui Marat, Lèlut, Lotze, Cerisem, Cabanis, Broussais ed Herzen.
Polemico contro il monismo scientista, propone una teoria chiamata
duodinamismo, che spiega in questo modo: «Mentre il monodinamismo concentra la
vita umana tutta quanta in una sostanza, cioè o nel solo spirito o nella sola
materia componente l’organismo corporeo, il duodinamismo riconosce nell’uomo
due centri di vita sostanzialmente distinti, cioè l’anima razionale e la forza
vitale, e da quella fa rampollare i fenomeni mentali, da questa i fenomeni
fisiologici ed animali»145. La teoria si 140 Per A. l’uomo è «La persona,
sostanza individua, sussistente in sé, volontariamente attiva; l’unità è
l’identità dell’io nella molteplicità e varietà dei suoi modi e dei suoi
fenomeni; la vita intima ed individuale intrecciata colla vita esterna e
comune; la vita mentale svolgentesi insieme colla vita organica. Ecco le
rivelazioni della coscienza personale, rivelazioni, che costituiscono le prime,
spontanee intuizioni dello spirito umano, salde, inconcusse, irrepugnabili. Ora
da ciascuna di queste rivelazioni la ragione vede spuntare una serie ordinata
di problemi, che ammaniscano la materia, su cui la scienza ordisce le sue trame
e compie il suo lavoro speculativo» A., Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 10.
141 «Così coscienza e scienza sono i due poli, fra cui si muove il mondo della
speculazione: la coscienza ci rivela la personalità dell’essere, ed alla luce
di questo principio la ragione costruisce la scienza» 10. 142 G. A., Della
vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, 14. 143 G. A., Studi
psicofisiologici, 26. 144 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, Cuneo,
Tipografia Subalpina di Pietro Oggero e C., A., Studi psicofisiologici,
69. 49 rifà ad autori come Barthez, Montpellier, Lordat. Essa
«concilia insieme la molteplicità della natura umana coll’unità dell’Io
individuale. Infatti l’anima razionale non essendo uno spirito puro, ma
congiunto colla materia, è essa che informa ed avvia il corpo, è il suo
principio ed animatore: così il principio corporeo produce i fenomeni della
vita fisica ed animale, ma in grazia della forza vitale ricevuta dall’anima, la
quale in tal modo produce direttamente e per se stessa i fenomeni della vita
mentale, ed indirettamente, ossia per mezzo del corpo i fenomeni della vita
corporea»146. Al naturalismo e al positivismo contestò, come già accennato, la
riduzione dell’antropologia a un «capitolo della fisiologia, ad un ramo della
zoologia»147. A. chiarisce è che non è contrario alla fisiologia, ma al
«fisiologismo». Negli Studi pedagogici cita il caso dei fisiologi come
Salvatore Tommasi, che sostengono come la disciplina non porti necessariamente
al materialismo148. Inoltre osserva come anche alcuni positivisti abbiano
ammesso una serie di difficoltà nello spiegare la vita mentale con la sola
fisiologia. Per suffragare la sua tesi rinvia al saggio Herzen, Il cervello e
l’attività celebrale, nel quale lo studioso riconosce quanto sia ancora lontana
la possibilità di chiarire aspetti fondamentali del funzionamento della mente
umana. A. trae queste conclusioni: «Così i più grandi rappresentanti del
positivismo contemporaneo riconoscono l’ignoto, che giace in fondo al problema
dell’unione tra la vita fisica e la vita mentale dell’uomo. Certamente la
fisiologia moderna co’suoi luminosi ed incontestabili progressi ha sparso molta
luce su questo problema, ma non ha svelato il mistero che lo avvolge»149. A. si
poneva come obiettivo di salvare insieme le esigenze spirituali e i dati
fisiologici. Osserva: «Il principio antropologico da me propugnato è antico
quanto l’uomo, il quale intuisce per natura la personalità del suo essere, ma è
pur fecondo di novità e di progressivo sviluppamento, perché ammette insieme
armonizzati i due supremi fattori della scienza, voglio dire l’esperienza, che
apprende la fenomenalità delle cose, e la ragione, che coglie il loro essere
sostanziale»150. Nel principio della personalità si palesa lo spiritualismo di
A., che viene spiegato così dalla Quarello: «Realismo spiritualistico e
spiritualismo teistico: tale è la filosofia d’A.. È realismo in quanto il
pensiero è l’ “attività” di un essere reale (io = persona); è spiritualismo in
quanto la persona è essere uno, sostanziale cosciente di sé (“lo 146 72 147 G. A.,
L’uomo e la natura, A., Studi pedagogici, A., Studi psicofisiologici, A., Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, 14. 50 spiritualismo, egli scrive,
proclama la personalità umana”); è teismo in quanto Dio è pensato come persona
(“il teismo proclama la personalità infinita di Dio”)»151. Lo spiritualismo
dell’A. trae alimento dal principio della personalità. Se da una parte,
infatti, si afferma una dimensione irriducibile alle dinamiche nell’uomo, e
dall’altra l’attestazione di questa «natura» dell’uomo conferma il suo
spiritualismo. «Preso nel suo ampio senso – osserva il pedagogista vercellese -
lo spiritualismo risiede nell’ammettere l’esistenza di sostanze immateriali,
che cioè non cadono sotto i sensi e non hanno le proprietà della materia, quali
sono la figura, la grandezza, l’estensione, la divisibilità, il movimento
locale, bensì sono fornite di intelligenza e di libera volontà»152. In questa
duplice difesa dello spirito e della realtà materiale, sembra di poter
affiancare A. al personalismo nato in Francia diversi decenni dopo, a cui lo
accomunò la volontà di «evitare che la persona umana fosse schiacciata dal
materialismo positivistico o assorbita nel vortice del monismo idealistico»153.
I. 4. Antropologia e pedagogia Secondo A., la pedagogia deve fare i conti con
la realtà educativa e le sue dinamiche154. La riflessione teorica e la vita
formativa rappresentano due poli indispensabili l’uno all’altro155. A.
prospetta, in questo senso, un metodo di ricerca pedagogico sia empirico che
razionale. Egli lo definisce «dialettico» in quanto «contempera insieme
l’esperienza e la ragione, i fatti e i principi»156. La storia della pedagogia
documenta come qualsiasi riflessione sistematica sull’educazione, abbia sempre
fondato le sue posizioni su una concezione dell’uomo e del suo ideale. Anche
per A., l’antropologia come «scienza dell’essere umano»157 si 151 V. Quarello,
A., Studio critico, A., Appunti di Antropologia e Psicologia, 8. 153 Pedagogie
personalistiche e/o della Pedagogie della persona, Brescia, La Scuola, 1994, p.
15. 154 «Siccome l’educazione è ad un tempo un’idea ed un fatto, così la
Pedagogia, che ne rampolla, assume il duplice carattere di scienza e di arte.
Essa è scienza perché l’esplicazione razionale di quell’idea; è arte, perché
ideale tipico di quel fatto. Come scienza è un sistema di cognizioni, una
teoria speculativa intorno l’educazione umana, epperò potrebbe appellarsi
pedagogia pratica» A., Studi pedagogici, cit., 1889, p. 25. 155 «Così la
scienza pedagogica è la teoria dell’educazione, l’arte pedagogica è la pratica
dell’educazione; scienza ed arte, teoria e pratica bisognevoli l’una
dell’altra. Poiché la mera pratica dell’educazione, non illuminata dalla scienza
pedagogica, non è vera arte, bensì cieco empirismo; la scienza pedagogica alla
sua volta, non tradotta in pratica, né fecondata dal magistero dell’arte,
rimane una vana e sterile teoria» A., Concetto generale della storia della
pedagogia, Pavia, Bizzoni, A., Studi pedagogici, A., L’uomo e il cosmo,
1. 51 prospetta come uno studio di fondamentale importanza tanto
per la teoria quanto per la pratica educativa158. A.colloca l’antropologia al
centro dell’organigramma di tutte le scienze. Egli individua il suo obiettivo
nella conoscenza dell’essenza unitaria della persona. A. non pensa
all’antropologia come ad una etnografia, ma come «scienza generale sull’uomo»
connotata da un orizzonte metafisico. Dallo studio generale sull’uomo,
discendono due gruppi di discipline, quelle che lo studiano nella sua accezione
individuale, e quante ne approfondiscono l’aspetto sociale160. Le scienze che
studiano l’uomo sotto l’aspetto individuale si dividono a loro volta in altri
due gruppi. Del primo fanno parte tutte le discipline che si occupano della
mente: logica, estetica, etica, eudemonologia, filologia, pedagogia. Al secondo
gruppo afferiscono le scienze che riguardano l’organismo corporeo: fisiologia,
anatomia umana, patologia, terapeutica, igiene, ginnastica. Le scienze che
riguardano l’uomo sociale sono secondo A. la politica, la giuridica, l’economia
pubblica colle scienze industriali e commerciali, la storia, l’etnografia, la
filosofia della storia. Tutte queste discipline sono legate all’antropologia,
che permea e fonda qualsiasi aspetto dello scibile umano. Secondo A., la
prospettiva sulla natura e il senso della persona, permea le possibili
soluzioni avanzate riguardo la vita della società, le sue leggi, le sue
prospettive, il suo sviluppo. Osserva: «Ogni problema sociale, vuoi politico,
vuoi artistico, vuoi religioso, cova in sé un problema antropologico»161.
Questa relazione è ancora più evidente per quanto concerne la scienza
pedagogica, con la quale l’antropologia ha un «vincolo indissolubile»162. Lo
studioso piemontese, infatti, pur riconoscendo un proprium alla pedagogia
nell’affrontare dei problemi fondativi e generali sull’educazione, considerava
necessario il contributo delle altre scienze, indispensabili per completare e
integrare la ricerca pedagogica163. Tra queste primeggia l’antropologia
filosofica poiché necessaria per chiarire 158 «L’educazione dell’uomo
presuppone la conoscenza dell’uomo stesso, epperò la pedagogia o scienza
dell’educare e la didattica o scienza dell’istruire, hanno il loro fondamento
nell’antropologia, o scienza che studia l’essere umano» A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 3. 159 A. sostiene che l’antropologia studia «l’uomo
nella sua intima e generalissima essenza, ossia nell’integrità e pienezza
complessiva del suo essere» A., Studi psicofisiologici, Cfr. A., Appunti di
Antropologia e Psicologia, A., Della vecchia e della nuova antropologia di
fronte alla società, 4. 162 G. A., Studi pedagogici, 39. 163 Nel seguente brano
elenca le discipline ausiliarie alla pedagogia, che sono: «1° L’antropologia
generale, che studia l’uomo nella dualità di anima e di corpo e nella unità
della sua persona; 2° la psicologia, che studia l’anima umana nelle proprietà
della sua natura e nella varietà delle sue potenze; 3° la logica riguardata
siccome la teorica della verità e della scienza; 4° l’etica, che studia il
Buono, norma ed oggetto della libertà morale umana; 5° la cosmologia, che è una
spiegazione scientifica del mondo; 6° la metafisica, 52 la natura e
il fine dell’educando, e quindi dell’educazione. Nonostante i diversi ambiti di
ricerca «tra l’antropologia e la pedagogia intercedono le due fondamentali
attinenze della distinzione e dell’unione»164. Se il principio della
personalità è il fulcro dell’opera d’A., l’antropologia è il centro della
pedagogia. Non a caso, quando il professore vercellese sostituì Rayneri sulla
cattedra di pedagogia all’Università di Torino, cambiò il nome
dell’insegnamento da «Metodica» in «Antropologia e Pedagogia». Il carattere di
ciascun sistema pedagogico dipende dalla prospettiva antropologica: «le diverse
e contrarie teorie pedagogiche professate dai cultori di questa disciplina
traggono appunto la loro ragione e origine dai diversi e contrari concetti
antropologici, da cui essi hanno preso le mosse, e su cui hanno costrutto il
sistema»165. Per capire e pensare l’educazione occorre una chiara idea su cosa
sia l’uomo, se ci sia e quale debba essere il suo compito nel mondo: «Ogni dottrina
pedagogica ritrae dai principi antropologici su cui si regge, la virtù
peculiare, che la informa, e lo stampo singolare, che la individua»166. Non si
possono slegare questi due aspetti nella riflessione: «L’uomo e la sua
educazione sono due termini insieme compenetrati, come un principio e la
conseguenza sua, e che li disgiunge, è mente piccina che né l’uno, né l’altra
intende. L’uomo spiega se stesso nell’educazione e l’educazione riflette se
stessa nell’uomo; e sempre il concetto antropologico ed il concetto pedagogico
serbano l’uno coll’altro rispondenza esatta o veri o fallaci che siano
entrambi»167. La correlazione è necessaria. In un altro brano chiarisce gli
scopi delle due discipline: «La distinzione delle singole scienze origina dalla
distinzione dei loro oggetti: l’una non è l’altra, perché versa sopra un
oggetto suo proprio, che non è quello dell’altra. Per conseguente la scienza
antropologica dalla pedagogica si differenzia essendochè quella ha per oggetto
suo l’essere umano, questa l’educazione umana, l’una studia l’uomo
nell’integrità e compitezza dell’esser suo, l’altra sotto il peculiare riguardo
della sua educabilità; la prima si propone di rispondere alla domanda: Che cosa
è l’uomo; la seconda ha per ufficio di soddisfare all’inchiesta: Che
l’educazione e come l’uomo va educato. Ecco il rapporto di distinzione, ma da
questo stesso già si rileva il vincolo unitivo, che stringe l’una all’altra le
due discipline, essendochè l’uomo e la educazione sua sono due termini
inseparabili. La pedagogia ha coll’antropologia un vincolo così intimo e
necessario, che trova in questa il fondamento e che studia l’Essere primitivo
in sé e ne’ suoi rapporti col mondo e coll’uomo» A., Del positivismo in sé e
nell’ordine pedagogico, Torino,Tipografia Subalpina di Stefano Marino, A.,
Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana»,
Asti; A., Delle idee pedagogiche presso i greci, A., Opuscoli pedagogici, cit.,
1909, p. 10. 53 la ragion sua ed in ogni punto del suo processo si
regge sui principii supremi della scienza antropologica»168. Per fare pedagogia
occorre dunque possedere una «conoscenza scientifica dell’origine, della natura,
del fine dell’uomo»169. Bisogna tenere conto del fatto che nella temperie
culturale in cui A. sosteneva queste posizioni, porre l’antropologia filosofica
a fondamento della pedagogia, non era un’ovvietà, soprattutto quando essa era
collocata entro un contesto metafisico. Porre il baricentro del discorso
pedagogico sulla questione antropologica, era considerato da A. come la
risposta emergente ad una problematica educativa reale. Si trattava di un
problema radicale che faceva da discriminante tra le varie teorie. Le risposte
alla questione circa la natura dell’uomo, non erano infatti da considerare
secondarie per la qualità della relazione pedagogica: «Educare è sviluppare le
virtù insite dell’uomo fanciullo. Ma che cosa e quale è mai l’uomo che si vuol
educare? Forse l’uomo di Molescott, un mero giuoco di elementi chimici colla
predominanza del fosforo pensiero, e niente più? O l’uomo-scimmia de’ moderni
naturalisti? O l’uomo de’ panteisti tedeschi fatto una cosa sola con Dio? O
l’uomo de’ razionalisti trasformato in libero pensiero? O l’uomo de’ mistici
che lo spiritualeggiano per intero, mentre i materialisti lo
abbruttiscono?»170. Per A., si trattava di domande impellenti. La pedagogia
esigeva nuova chiarezza sull’idea di persona: «Oggi più che mai essa reclama un
supremo principio vitale, che risponda al suo altissimo compito, ricomponga ad
unità di organismo potente la sua squilibrata compagine e le additi l’ideale
suo, verso cui cammina franca e sicura»171. Secondo il pedagogista, la domanda
circa la natura dell’uomo non poteva essere affrontata con gli strumenti
epistemologici delle scienze esatte, incapaci di cogliere l’essenza della
persona. Tale compito spetta alla filosofia, che diviene la prima
interlocutrice della pedagogia. In più di una occasione chiarì che la sua era
una «pedagogia filosofica»172 poiché si «fonda sopra un principio
essenzialmente vero ed inconcusso, quale è quello della natura umana riposta
nella personalità dell’io, e nel suo procedimento adopera non la sola
esperienza disgiunta dalla ragione, né la sola ragione astratta, che disdegna
la realtà dei fatti, bensì entrambe queste due potenze conoscitive, e l’una in
armonia coll’altra» A., Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, A., La
pedagogia italiana antica e contemporanea, A., Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino, A., La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Torino, Carlo Clausen. Stando a Calò, uno
dei punti centrali nell’opera dell’A. è questo: «Non trascurare le esigenze
dell’esperienza né quelle della ragione; ecco, secondo l’A., il primo canone
del metodo filosofico»174. Ciò è confermato anche dall’esigenza di rompere le
catene del misurabile, e allargare la pedagogia alla profondità e al mistero
della persona. Solo «La pedagogia filosofica riconosce nell’alunno un’anima
razionale non già separata dal corpo, ma con esso vitalmente congiunta in unità
di persona, sebbene da esso distinta, un’anima, che sviluppa di continuo le sue
energie in una successione di fenomeni, che formano la sua vita, epperò vuole
un’educazione, che si estenda a tutto quanto l’uomo nella dualità delle sue
sostanze e nell’unità della sua persona, alla vita temporanea e alla
futura»175. La natura delle domande che l’esigenza dell’educazione ci pone, non
si possono risolvere con il metodo scientifico176. A. non portò sostanziali
novità nella riflessione epistemologica, ma difese la prospettiva pedagogica
spiritualista, confutando i detrattori della metafisica in campo antropologico.
Secondo Serafini, nonostante «il modello disciplinare intorno al quale egli
lavora è ancora, in larga misura quello di una pedagogia come scienza pratica
(quantunque punti particolarmente sulla figura d’una disciplina complessa) che
si differenzia dal modello elaborato in ambito positivistico particolarmente
per gli effetti che su questo ha il suo personalismo»177. Un altro carattere
distintivo della pedagogia d’A. è l’idea della specificità nazionale della
pedagogia. Occorre secondo il pedagogista pensare in continuità con la storia
del proprio popolo e con le proprie attitudini. Su questo tema trovò una
consonanza con il saggio di Antonino Parato dal titolo «La scuola pedagogica
nazionale», non senza motivo diverse volte citato d’A.. I. 5. L’educazione 174
G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico d’A., 8. 175 G. A., La nuova
scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Spiega A. «La pedagogia è la
scienza dell’educazione umana; e siccome l’uomo non può essere convenientemente
educato se prima non è conosciuto secondo verità, quindi è che la pedagogia
dipende ed attinge da tutte quelle scienze, che hanno per oggetto la conoscenza
ragionata dell’uomo riguardato in sé ed in rapporto colla realtà universale.
Ciò posto, che cosa è l’uomo, donde esso viene e dove va? Come si congiungono
in lui ad unità di vita il corpo e la mente? I suoi destini si compiono quaggiù
o in una vita ultramondana? Esiste la verità e la scienza, a cui aspira la sua
intelligenza? Esiste una legge morale, norma della sua libera volontà? Che cos’è
questo mondo esteriore, che lo circonda, ed in cui è posto a vivere? Qual
concetto dobbiamo formarci di quell’essere assoluto ed infinito, che è
l’oggetto della moralità e religiosità umana, origine prima e fine ultimo di
lui?» G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 245-246. 177
G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana dell’Ottocento, cIn più
di un’opera, il pedagogista vercellese denunciò una grave crisi educativa, che
egli imputava alla confusione imperante circa i caratteri di una formazione
adeguata178. Sulla base del principio della personalità, egli considerava
l’efficacia educativa legata alla previa soluzione data al senso della
perfettibilità dell’uomo179. Mancando, come già si è accennato, una concezione
adeguata sulla natura dalla persona, anche la pratica educativa ne veniva fuori
menomata. Tra i fondamenti pedagogici di A. si colloca questa massima: «Sul
sentimento e sul rispetto della dignità della persona si fonda l’arte
dell’educare»180. Al pari di un ampio stuolo di pedagogisti ed educatori, il
docente vercellese era convinto che non si dà autentico sviluppo della persona
senza un intervento formativo181. La natura esteriore, infatti, «non è per se
stessa educativa nel senso rigoroso della parola, bensì tale diventa
allorquando il fanciullo in sé accogliendola l’accompagna e la feconda colla
coscienza del suo sviluppo»182. Per tratteggiare i caratteri precipui
dell’educazione, A. si rifà alla lezione di Rayneri, che nella Pedagogica
enumerò cinque attributi imprescindibili: Unità rispetto al fine, Universalità
rispetto a tutte le facoltà umane che devono essere medesimamente sviluppate,
Armonia tra le potenze umane, Gradazione, Convenienza, cioè – oggi diremmo –
personalizzazione dell’intervento educativo183. Mentre il suo maestro
considerava la «convenienza» come la più importante di queste leggi, A.
sostiene il primato dell’armonia184, quale condizione necessaria per
un’educazione efficace185. 178 G. A., Studi pedagogici, 21-22. 179 «L’opera
educativa si modella sul concetto dell’uomo: quale noi lo conosciamo, tale lo
educhiamo, e per conseguente ogni dottrina pedagogica si informa e si esempla
sopra una dottrina antropologica.(...) L’educazione muove dalla natura
originaria dell’uomo, come da suo fondamento, lo segue nel corso progressivo
della sua vita governando lo sviluppo delle sue potenze, mira ad un ideale di
perfezione, a cui intende sollevarlo» G. A., G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista, Tipografia Subalpina, Torino, 1910, pp. 81-82. 180 G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 185. 181 G. A.,
Studi pedagogici, 67-68. 182 G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 68.
183 G. A., Studi pedagogici, 106. 184 109-112; 185 L’educazione deve essere
armonica rispetto a tutte le facoltà della persona «Che l’alunno debba essere
educato in armonico accordo colla natura fisica circostante, colla famiglia e
colla nazione, a cui appartiene, coll’organamento sociale, in cui vive, col
grado di civiltà e collo spirito proprio del tempo, è una verità già
riconosciuta e proclamata dalla pedagogia filosofica. Poiché l’alunno non è una
monade solitaria ed isolata, chiusa ad ogni comunicazione esteriore, bensì
abbisogna della convivenza di altri esseri, a fine di espandere la sua vitalità
interiore e compiere il suo esplicamento. Ma egli possiede una personalità sua,
che non può essere sacrificata al mondo fisico sociale; è fornito di una
libertà interiore, che gli conferisce il dominio di sé medesimo, sicché egli è
quale vuole essere, non quale lo fa la necessità insuperabile dell’ambiente;
non potrebbe vivere una vita comune nel consorzio con altri esseri se anzi
tutto non vivesse in se medesimo di una vita tutta sua propria; non potrebbe
mettersi in conformità di accordo coll’ambiente, se da prima non fosse in
concorde armonia con sé stesso; non potrebbe acconciarsi alle impressioni del
grande organismo 56 Sebbene guidata da un criterio unitario,
l’educazione può essere analizzata nella sua molteplicità. A. parla di
un’educazione fisica, intellettuale, estetica, morale, religiosa. Distingue tra
quella naturale, che segue lo sviluppo delle facoltà della persona, e quella
esterna, guidata da modelli valoriali, culturali e intellettuali dal discente.
Il perno dell’educazione della persona è la sua razionalità ed intelligenza.
Riprendendo la tripartizione rosminiana delle facoltà umane186, A. ricorda come
l’interiorità della persona sia il vero oggetto dell’educazione, mistero non
materiale187, ed eccedente i meccanismi fisiologici188. I fenomeni
dell’interiorità sono governati da leggi come quella di associazione,
simultaneità, successione, e si fondano sulla dinamica delle potenze umane,
tratto tipico della pedagogia rosminiana, che si dividono in corporee o fisiche
e in spirituali o mentali189. Compito dell’educazione è di sviluppare le
potenze umane, in cui l’intelligenza umana si esprime come desiderio
spirituale190. Se l’educazione è il mezzo attraverso cui l’uomo può essere se
stesso, questa va rivolta a chiunque. A. considerava necessario offrire a
qualsiasi persona l’educazione e l’istruzione, senza discriminazioni per le
condizioni economiche, sociali, o di genere. In questo senso contesta i positivisti
che negavano la possibilità e l’utilità di occuparsi dell’educazione e
dell’istruzione dei diversamente abili. Negli Opuscoli Pedagogici191 sostiene
la necessità di educare i sordomuti, i nevrastenici, i balbuzienti, i ciechi,
ed esorta ad approfondire gli studi sui mezzi con i quali sia meglio educarli,
richiamando a prendere esempio da altre nazioni europee come la Francia. Nel
saggio su Rousseau, contesta l’idea difesa nell’Emilio, secondo cui i della
natura, se anzi tutto non sentisse il vitale influsso dell’organismo corporeo
suo proprio; infine egli aspira ad un ideale della vita futura, il quale non
può trovar luogo nella cerchia dell’ambiente della natura tutto circoscritto ad
un punto del tempo e dello spazio» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, 19-20. 186 «Sentire, intendere e volere, in questa triplice
classe di fenomeni psicologici si raccoglie tutto lo sviluppo del nostro essere
spirituale» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad
uso delle scuole normali maschili e femminili, 6. 187 «I fenomeni interni o
psicologici non si veggono cogli occhi del corpo, non si toccano, non si odono,
non si odorano: un pensiero, un affetto, un volere non hanno forma o figura,
non divisione o dimensione, non grandezza o misura: essi soltanto alla
coscienza si mostrano e sono oggetti di osservazione interiore» 7. 188 «I
fenomeni interni sono di loro natura superiori all’organismo; i sentimenti, i
pensieri, i propositi deliberati sono manifestazioni esclusivamente proprie
dello spirito, al cui compiuto sviluppo i fenomeni dell’organismo corporeo
intervengono bensì, ma come condizione soltanto, non some causa» 7-8. 189 «Ciò
posto, siccome i fenomeni interni ci vennero superiormente distribuiti in tre
classi supreme, affettivi cioè, intellettivi e volitivi, così siamo condotti ad
ammettere tre supreme potenze umane corrispondenti, la sensitività,
l’intelligenza e la volontà, intendendole con tale larghezza, che la
sensitività comprende tanto la sensazione animale, quanto il sentimento
spirituale, l’intelligenza abbracci tanto la percezione o fantasia sensitiva
quanto la ragione, e similmente la facoltà spirituale della volontà si mostri
preceduta dagli appetiti inferiori e con essi collegata» 12. 190 «Come l’istinto
animale provvede alle esigenze della nostra vita fisica, così l’istinto
spirituale fornisce alla vita mentale i beni, che le sono proprii. Ora lo
spirito vive del Vero, del Bello, del Buono, e vi si sente portato da naturale
istinto, il quale viene così a distinguersi in intellettivo, estetico e morale»
29. 191 G. A., Opuscoli pedagogici, 94-97. 57 diversamente abili, A.
parla di «storpi», non abbiano diritto all’istruzione e all’educazione192,
ribadendo la convinzione che l’educazione sia un diritto per tutti. Tutti gli
uomini sono persone, qualunque sia la loro condizione, e ognuno merita di
essere educato e istruito, anche se ciò deve essere fatto secondo le
inclinazioni e le potenzialità di ciascuno. Analogamente contestò Platone
quando estromette i «malconformati di corpo» dalla cerchia degli educabili.
Inoltre fa notare come «anche lo Spencer a’ di nostri muove rimprovero alla
società che si prende cure dei miserabili, dei poveri, degli infermi, fino a
dichiarare una grande crudeltà il nutrire gli inetti a spese dei capaci degli
operosi»193. A. considera questa prospettiva come una diretta conseguenza del
materialismo: disconoscendo il valore assoluto dell’uomo, non ha più senso la
cura di quanti non «funzionano», non «producono», quanti insomma sarebbero solo
un peso per il sistema economico. Secondo A. solo il riconoscimento della
dignità suprema dell’individuo permette il rispetto di ciascuno e la sua
valorizzazione. Dimenticata la persona nell’uomo, si elimina la ragione
dell’eguaglianza degli esseri umani e dunque il diritto all’educazione per tutti.
Sulla base del principio della personalità, il pedagogista vercellese fu
altresì un difensore dell’istruzione e dell’educazione delle donne. Anche per
l’A., come per molti altri studiosi della seconda metà dell’Ottocento, era
necessario concepire l’educazione della donna in armonia con l’ufficio della
maternità e la cura della famiglia, compiti a cui secondo il pedagogista la
donna era naturalmente destinata. Dopo aver difeso il ruolo della donna nella
famiglia, spiega: «Né altri di qui inferisca, che la donna circoscrivendo nel
recinto della casa il suo genere peculiare di vita debba crescervi e passarvi i
suoi giorni solitari, ignorante, incolta, spregiata e negletta. Anch’essa
possiede per natura tutte le facoltà costitutive della specie umana, a cui
appartiene; epperò ha, quanto l’uomo, diritto alla verità, alla felicità, alla
virtù, al rispetto della dignità umana, che in lei rifulge, al perfezionamento
suo proprio. E se abbia da natura sortito qualche raro pregio di mente e di
spirito, qualche felice attitudine al culto di qualche disciplina, od arte, o
nobile professione sociale, chè non venga mai meno alla sua prima e natural
missione, alla quale è chiamata nel santuario domestico»194. A. reputa che sia
necessario offrire un percorso educativo e di istruzione anche alle donne meno
abbienti. Dopo aver analizzato le opere della Saussure, contesta il fatto che
si parli dell’educazione solo per i ceti sociali più alti: «Però io non posso
passare sotto 192 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 160. 193 G. A.,
Delle idee pedagogiche presso i greci, 113. 194 117-118. 58
silenzio, che in questo eletto lavoro pedagogico della Saussure è tutto rivolto
alla coltura della donna di agiata e civil condizione, come lo sono altresì le
opere pubblicate dalle due egregie donne italiane, la Colombini e la Ferrucci
intorno l’educazione femminile. Eppure anche l’educazione della donna popolana
ed operaia può e deve fornire al cultore della pedagogia bello e grande
argomento di studio e di meditazione, per quantunque debba essere discorso
sott’altra forma ed in proporzioni più modeste»195. Nonostante l’inciso finale,
il discorso dell’A. sembra innovativo rispetto alle comuni pratiche e teorie
pedagogiche. La donna inoltre, in quanto persona, non poteva essere considerata
proprietà di alcuno. Per questo motivo critica Rousseau che aveva fatto di
Sofia una moglie totalmente asservita al marito. Al contrario: «La donna non è
nata per essere la schiava né dello Stato, né dell’uomo»196. L’attività
dell’educatore e della scuola deve anche essere in armonia con quella
familiare. La famiglia è l’inizio e il paradigma dell’educazione. Chi si occupa
di educazione deve avere come modello l’istituzione familiare. A. sostiene la
necessità di una famiglia generosa, laboriosa e aperta. Contesta la famiglia
rappresentata nell’Emilio, considerata isolata ed egoista. Invero, persistono
nella sua opera ancora alcuni stereotipi sul sesso femminile. A. parla di
un’inferiorità fisica197, e sostiene che «nella donna il sentimento e l’affetto
predominano sull’intelligenza e sulla volontà», e sebbene sottolinei i vantaggi
di questa caratterustica femminile198, considera l’uomo maggiormente capace di
sottomettere la volontà alla ragione199. Secondo A. la durata dell’educazione
abbraccia tutta la vita. L’uomo ha sempre da essere perfezionato. Il suo
cammino verso il compimento di se stesso è costante200. È tuttavia vero che la
vita è composta da diverse fasi, ognuna ha delle particolari esigenze educative.
A. contesta cesure nette nella teorizzazione dello sviluppo della persona. 195
G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di
Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, Torino, Libreria Scolastica di
Grato Scioldo, 1884, p. 222. 196 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista,
159. 197 «Insegna la fisiologia, che l’organismo corporeo è più gagliardo e più
robusto nell’uomo, più esiguo e più delicato nella donna; questa diversità di
struttura deve naturalmente riuscire ad una differenza tra le potenze fisiche
del sentire e del muoversi corporeo» G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
16-17. 198 «Essa pensa più col cuore, che col cervello. La verità la sente più
che non la mediti, la intuisce più che non la ragioni, la crede senza
avvolgerla fra le tortuose spire del dubbio, la accoglie tutta quanta viva ed
intiera senza dissolverla e notomizzarla col coltello dell’analisi; pensa e
riconosce Dio come un bisogno del cuore, anziché come un principio della
ragione; posa il suo pensiero sulla realtà concreta e vivente e mal si rivolge
alle aride astrattezze, alle generalità trascendetali» 17. 199 «Venendo alla
volontà, anch’essa nella donna soggiace alla influenza del sentimento,
nell’uomo procede a tenore della ragione» 18. 200 «L’educazione comincia colla
vita e mai non cessa, perché la nostra perfettibilità dura quanto la nostra
mortale esistenza; però essa muta tenore ed ufficio ed indirizzo secondo il
mutare delle diverse età» G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci,
33. 59 La vita non può essere divisa in tappe con demarcazioni
rigide, dato che la crescita è graduale e soggettiva. A tal proposito critica
Rousseau, il quale «ha rotto l’uomo (e con esso l’educazione) in tre pezzi, che
spuntano non si sa come, l’un dopo l’altro, il fanciullo, l’adolescente, il
giovinetto: e sotto il taglio della sua anatomia psicologica la personalità è
finita»201. Tale istanza è legata ad uno dei principi cardine dell’educazione
in A., vale a dire l’armonia. «Se la virtù e l’anima e l’universo e Dio
medesimo e tutto quanto esiste è armonia, appar manifesto, che anche essa
l’educazione deve posare e reggersi tutta quanta sull’armonia, come suo
fondamentale principio, val quanto dire essenzialmente ed integralmente
ordinata all’armonico sviluppo delle forze del corpo e delle facoltà
dell’anima»202. Importanti appaiono alcune annotazioni sul rapporto
educatore-educando. Se la persona è libera e tende alla sua libertà,
l’educatore non può agire sull’educando non tenendo conto di questo aspetto
proprio della persona. Dato che l’uomo è libero, non si potrà ridurre
l’educazione ad un meccanismo, l’educatore non costringe, non forza, non
chiude, ma mostra, fa ammirare, interroga, sollecita, suscita. Su tale
principio l’A. riprende fortemente il modello della paideia greca, contrapposto
alla modernità che confusa sulla natura spirituale della persona e dunque sulla
sua libertà, ha costretto l’insegnamento in un procedimento vuoto e disumano.
Non c’è libertà senza l’autorità. La pedagogia moderna, di cui Rousseau è il
più alto rappresentante, ha disconosciuto tale evidenza. Nonostante sia giusto
assecondare la crescita naturale del bambino, non lo si può privare dell’intervento
esterno: «Mai non ci deve cadere di mente, che nell’educazione umana suolsi
seguire come infallibil maestra la natura medesima, sicché nulla mai si tenti,
né si faccia, che contraddica a’ suoi principii, nulla si dimentichi, né si
trascuri, che torni opportuno o necessario a secondarlo nel suo spontaneo
sviluppo. Ai dì nostri vide questa potenza educatrice della natura Rousseau, ma
di troppo la esaltò fino a bandire siccome inutile e nocivo il magistero
dell’arte. Aristotele non disconobbe la virtù educatrice, che giace nella
consuetudine o costume, e nella coltura della ragione o disciplina. Poiché i
germi del Bello e del Buono deposti in noi da natura non crescono già né
maturano mercé l’opera dei beni esterni, né il caso e la sorte fa sì che noi
diventiamo onesti; bensì richiedesi a tanto fine l’esercizio della facoltà del
volere e del sapere»203. 201 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
117. 202 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 34. 203 155.
60 Per questo stesso motivo mette in guardia da una sopravvalutazione
dell’autodidattica: «L’io umano è un soggetto personale, e quindi fornito di
una energia pensante sua propria, per cui aspira scientemente e liberamente
alla conoscenza della verità, siccome suo naturale obbietto; ecco l’origine ed
il fondamento dell’autodidattica. Ma la personalità umana individua è limitata
per natura, e quindi bisognevole di un intervento esteriore: ecco la ragione
dei limiti, che circoscrivono l’autodidattica»204. La persona ha bisogno di
altre persone per essere introdotta nell’esistenza. In un altro brano, A.
individua nella «nuova psicologia» l’origine dell’equivoco: «L’autodidattica si
regge tutta quanta sulla personalità dell’io, riguardato come un soggetto
sostanziale fornito di una individualità singolare, per cui è consapevole che
l’energia pensante, di cui è fornito, è tutta sua propria, e che gli atti
intellettivi, in cui si svolge, vengono da lui ed a lui appartengono come loro
principio originario e comune soggetto. Ora i fautori della nuova psicologia
rinnegano apertamente la libera attività e la personalità dell’io umano
riducendolo ad un insieme complessivo di fenomeni mentali, che non appartengono
a nessun soggetto e si succedono a tenore di leggi ineluttabili, facendo
dell’anima umana una mera funzione dell’organismo corporeo»205. La prima regola
del maestro è il rispetto per il discente, che è l’attore principale dell’atto
educativo. Una vera educazione è contraddistinta dal rispetto e dalla pazienza.
L’educatore è chiamato a essere umile, non c’è inoltre insegnamento quando
l’insegnante non impara a sua volta: «Il maestro deve di sicuro sovrastare al
discepolo per ampiezza di dottrina, per coltura e sviluppo mentale, ma non
dimentichi mai, che in faccia all’immensità dello scibile quel tanto, che egli
sa, è poco meno che nulla, e gli bisogna perciò imparare sempre, ed imparare
nell’atto medesimo, che istruisce gli altri»206. A. riprende la celebre frase
di Plutarco che critica l’insegnamento come «riempimento», e sostiene che «Il
vero imparare è un lavorare colla propria mente ed avere consapevolezza della
verità scoperta e del come siamo giunti a scoprirla; il vero insegnare è un
accendere la scintilla del pensiero e mantener viva la fiamma della
riflessione. La parola del maestro riesce all’alunno necessaria in quella
guisa, che ad un seme l’aria e la luce esteriore del sole, il quale destando la
virtù sopita in esso lo schiude dal suo germe e lo tien vivo ed atto a spiegare
le sue forme. L’acquisto della scienza è un martirio per uno spirito giovanile
abbandonato alle solitarie ed isolate sue forze, come il possesso materiale 204
G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 16. 205 17. 206 G. A.,
Delle idee pedagogiche presso i greci, 83. 61 della scienza non
conquistata colla nostra meditazione somiglia a splendido patrimonio avito,
eredato da nepoti degeneri e dappoco»207. Educare è dunque far cresce
armonicamente le capacità dell’alunno, è un atto della vita che fa entrare
nella vita, sviluppa e forma il carattere, ma soprattutto tende a far essere se
stessi, e cioè autocoscienza del mondo. Educare significa formare le capacità
umane, ma soprattutto interrogare il discente, contagiare l’esigenza di
conoscersi e di capire se stessi. Nel suo studio, la Quarello riporta una frase
della Marchesa di Lambert citata dall’A. nello Studio Storico critico di
pedagogia femminile (1896), in cui la pedagogista sostiene che: «La più grande
scienza sta nel sapere essere in sé»208. L’educatore è chiamato a condurre
l’educando a questa vetta. L’azione formativa risulta dunque una continua
interrogazione ed esortazione. È molto interessante la considerazione di Calò,
secondo cui l’A. puntava ad un’azione educativa che «correggesse con un
movimento centripeto verso il nucleo più profondo dell’io il movimento
centrifugo verso l’esterno, che sapesse fare procedere l’educazione dal di
dentro, non dal di fuori». 209. In questo «stare in sé» l’uomo scopre una
dimensione infinita che lo interroga, lo spiazza. La persona sente in sé il
richiamo di un’alterità misteriosa ma a cui si sente inesorabilmente legato:
«Dovunque si muova l’educazione trovasi in faccia all’infinito sempre, perché
l’educando è persona finita sì, ma che pur si muove e gravita verso
l’infinito». Su questi presupposti, A. è convinto che non si possa negare
l’educazione religiosa ai giovani: «La coltura impertanto dell’intelligenza, e
dell’attività volontaria va ordinata a Dio. Così la personalità finita
dell’educatore e dell’educando si regge sulla personalità infinita di Dio, e
trova in questa la sua ragion di essere, del pari che la sua cagione
efficiente. Educazione vera non è, che non sia personale sotto entrambi questi
riguardi. Il materialismo, che spegne nel fango la personalità dell’uomo,
l’ateismo, che nega a Dio la sua personalità infinita, il panteismo, che nega
all’uomo ed a Dio una personalità loro propria per confonderli in una medesima
sostanza, conducono ad un’educazione disumana, omicida, perché è negazione
della persona. La formazione del carattere, intorno alla quale si travaglia
tutta l’arte educativa, torna opera impossibile, ove non si regga sulla
personalità dell’essere infinito»210. Strettamente legato alla questione della
vocazione umana ed educativa, è il concetto di «carattere», con cui A. riprende
un tema caro ad altri pedagogisti cattolici e non. Il carattere è definito come
«quello stampo, o quell’impronta speciale, che configura 207 84-85. 208 V.
Quarello, G. A., Studio critico, 106. 209 G. Calò, Dottrine e Opere, 25. 210 G.
A., Opuscoli pedagogici, 31. 62 ciascuna natura umana»211. Con
questo concetto intende l’universalità dell’essere persona nella particolarità
del singolo. «L’alunno accoppia in sé l’umanità comune a tutti i suoi simili, e
l’individualità propria di lui solo»212. Un altro passo chiarisce tale
relazione: «il genere (umano) vive nell’individuo sotto forma del
carattere»213. È compito dell’ufficio educativo riconoscere e far fruttare
l’individualità della persona214. Secondo l’A.: «l’uomo di carattere è colui,
che pensa con verità e colla propria testa, è arbitro del suo operare e
conforma le sue azioni esterne coi suoi interiori convincimenti, sempre mirando
all’ideale divino della perfezione»215. Ma per condurre al vero carattere
bisogna educare, non basta istruire. A. definisce l’educazione del carattere
come il «punto di gravitazione» e l’ «apogeo»216 dell’educazione. All’educatore
spetta il riconoscere il carattere dell’alunno, la sua coltivazione, e l’aiuto
verso la vocazione personale di ciascuno. Così «Il fanciullo è persona, cioè
sostanza individua, che in sé armonizza la virtù conoscitiva, fonte della vita
operativa, congiunta con un organismo corporeo, sede della vita fisica e
ministro della vita spirituale. La vita speculativa si sviluppa mercé
l’acquisto del sapere, oggetto dell’educazione intellettuale, la vita operativa
mercé la formazione del carattere, compito dell’educazione civile, morale,
religiosa, la vita fisica mercé il rinvigorimento, la salute e la destrezza del
corpo, termine dell’educazione fisica; e tutte e tre queste forme di educazione
deggiono armonizzare insieme, come armonizzano dell’unità dell’umano soggetto
le tre forme di vita umana»217. Il carattere va educato sin dalla prima infanzia,
e in esso l’esempio è il principale fattore218. L’apice della formazione è il
carattere morale, vale a dire la libertà dell’uomo di obbedire esclusivamente
alla legge morale insita nell’uomo. A. considerava il rispetto e obbedienza a
questa legge, come il compimento della libertà, che certo non riteneva essere
un arbitrio assoluto del 211 G. A., L’uomo e il cosmo, 357. 212 G. A., Studi
pedagogici, 336. 213 G. A., L’uomo e il cosmo, 357. 214 «La formazione del
carattere è opera nostra, sebbene abbia suo fondamento in natura, e le occorra
il sussidio dell’arte educativa» G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 50.
215 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 4. 216 G. A.,
Studi pedagogici, 322. 217 G. A., Opuscoli pedagogici, 31. 218 «Il carattere
morale non forma lì per lì come per incanto nell’età virile; ma, come ogni
opera grande e duratura, che sorge da piccoli inizii, esso fa le sue prime
prove nella puerizia, e progredisce con lento lavorio sino alla compiuta sua
forma mediante l’opera concorde dell’alunno, del maestro, dei genitori, durante
tutto quel lungo periodo educativo, che dalla prima puerizia si stende sino al
termine della gioventù» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 91. 63
soggetto219. Il pedagogista vercellese è, infatti, convinto che «Volere
liberamente il dovere, ecco, secondo me, la formula di tutto l’ordine
morale»220. Per un’educazione efficace è imprescindibile lo sviluppo della
capacità di volere e seguire ciò che è bene. «La dignità umana rifulge nel
carattere. Plasmare nel fanciullo il carattere dell’uomo, che esprime la
santità della vita in sé, nella famiglia, nella patria, questo è dell’arte
educativa il supremo, altissimo ufficio»221. Parlando dell’insegnamento in
classe dice che «ogni atto educativo dev’essere un’affermazione, un’impronta
della sua individualità personale. Così si forma il carattere, così l’alunno
impara a diventare uomo maturo di senno, esperto della vita, arbitro delle sue
sorti»222. L’ultima opera dell’A., datata 1913, è dedicata allo studio
comparato tra Giobbe e Schopenhauer. Contrapposto al nichilismo, al pessimismo,
e al disimpegno del secondo, Giobbe rappresenta la vera statura umana, colui
che nonostante le circostanza si spende per la verità. Osserva A.: «L’operosità
della vita, perché si compia con efficacia, con dignità e decoro, richiede in
noi la coscienza della nostra libertà personale rivolta ad un ideale supremo,
il sentimento della nostra propria vigoria, il voglio imperioso dello spirito
pronto a lottare contro le difficoltà, gli ostacoli, con imperturbabile
costanza sino al sacrificio, riverente a quanto si presenta di grande, di
nobile, di sacro, di divino»223. L’A. critica la riduzione dell’intervento
educativo all’istruzione, riprendendo una battaglia tipica della pedagogia
spiritualista. Sulla base dell’antimetafisica e del relativismo etico di certo
positivismo, più di un pedagogista ridusse il compito dell’educazione
all’istruzione, estromettendo dai suoi compiti la formazione del carattere, e
quindi dell’autocoscienza e della libera volontà. Tale approccio ha come
premessa fondamentale la convinzione che non ci sia nulla di vero, e quindi di
insegnabile, fuori dalle asserzioni scientificamente dimostrabili. A questo
proposito può essere utile richiamare un aneddoto raccontato da A. riferito ad
una visita di Padre Girard all’Istituto del Pestalozzi: «Nell’atto che il Padre
Girard stava visitando l’Istituto di lui, egli uscì fuori con queste parole: “È
mio intendimento, che i miei 219 Per queste posizioni fu criticato da Santoni
Rugiu: «L’A. ha della moderna pedagogia una concezione normativa (come sempre,
d’altronde, nella concezione cattolica), la vede cioè non come un’indagine
libera e obiettiva sulla natura e sulle condizioni reali in cui si svolge la
formazione dei soggetti, ma come l’elaborazione di un insieme di indiscusse
norme, appunto, che guidino alla perfezione morale e spirituale. Guai a
lasciarsi travolgere dal «gran movimento sociale» e ritenere che esso indichi
sempre la via del progresso e della civiltà» A. Santoni Rugiu, Storia sociale
dell’educazione, Milano, Principiato, 1987, p. 528. 220 G. A., Del positivismo
in sé e nell’ordine pedagogico,89. 221 G. A., Opuscoli pedagogici, 18. 222 G. A.,
Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, in «Rivista Pedagogica», n. 10,
1930, p. 687. 223 G. A., Giobbe e Schopenhauer, Torino, Tipografia Subalpina,
1912, p. 41. 64 alunni non tengano per vero, tranne ciò solo, che
possa essere loro dimostrato come due e due fan quattro”. Al che il Girard
rispose: “Se io fossi padre di trenta figli, nemmeno un solo ve ne affiderei ad
essere ammaestrato, perché non vi verrà mai fatto di dimostrargli come due e
due fan quattro, che io sono suo padre, e che egli è tenuto di amarmi»224. Le
parole di Padre Girard erano utili a spiegare quali fossero i rischi
dell’ipertrofia della ragione scientifica e matematica. Limitando il veritativo
al «misurabile», infatti, si escludevano dall’educazione tutta una serie di
apprendimenti e principi morali indispensabili alla vita e alla formazione del
carattere. Anche su questo punto A. esorta a distinguere ma senza dividere.
L’educatore deve far crescere tutte le capacità umane, sia quelle del «cuore»
che quelle della «mente». Era convinto che «la natura non si riforma, bensì va
riconosciuta e rispettata»225. E la natura della persona non può essere ridotta
alla pura istruzione, ma ha bisogno della certezza morale, dei principi, dei
criteri per distinguere bene e male. I. 6. Critica all’idealismo e al
positivismo Una parte considerevole delle opere di A. è destinata alla critica
dell’idealismo e del positivismo. A tali correnti, sin dai primi lavori, A.
addossò le responsabilità della profonda «crisi»226 e confusione che ammorbava
la filosofia italiana. Oltre ad una lunga serie di studi dedicati a questi
sistemi, anche negli altri saggi di A. appaiono frequenti incisi polemici
contro queste teorie. Calò ha rilevato come questa ricorrente confutazione e
polemica del positivismo e dell’idealismo, rappresentò un tratto specifico del
pensiero del pedagogista vercellese «L’atteggiamento critico contro le due
correnti suddette forma la preoccupazione costante e costituisce, insieme con
il principio della personalità, svolto dall’A. in tutti i suoi aspetti, il
motivo fondamentale e la sostanza del suo pensiero filosofico»227. Secondo
alcuni studiosi A. avrebbe avuto nei confronti delle teorie coeve un
atteggiamento difensivo ed eccessivamente «polemista»228. Caramella, un
gentiliano che certo non concordava con le critiche dell’A. all’hegelismo e ai
suoi epigoni, fu molto severo con il pedagogista, e ne sminuì il contributo,
riducendolo ad una lamentela sterile e arretrata: «Ma venendo ai risultati
effettivi della sua vasta opera di più che mezzo secolo, 224 G. A., Delle
dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, 89. 225 G. A., Del positivismo in sé e
nell’ordine pedagogico, 261. 226 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 6.
227 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe A., 4. 228 S.
Caramella, Lo spiritualismo pedagogico in Italia, «La nostra scuola», n 13-14,
1921, p. 9. 65 qual è il significato storico dell’A.? Niente di
meno ma niente di più che un’ostinata battaglia cattolica contro lo
scientifismo, senza che dal cozzo si generasse mai una scintilla nuova»229. Una
critica analoga gli venne mossa da Vidari230. È facile riscontrare nell’opera
di A. toni duri, se non apocalittici, nei confronti di teorie giudicate dannose
non solo alla pedagogia, ma anche alla vita educativa e sociale del paese. In
molti saggi mancano aperture concilianti, mentre le posizioni espresse sono
spesso risolute e poco inclini ad aperture. Ma, a onor del vero, va
riconosciuto che le critiche portate dal pedagogista sono sempre articolate e
suffragate da una conoscenza precisa degli autori e delle scuole esaminate. «L’A.
non fa mai la critica per la critica: il suo scopo è sempre molto preciso,
quello di dimostrare e di salvare certi principi e certe verità
filosofiche»231. All’interno del lungo itinerario delle opere dell’A. possiamo
distinguere due momenti. Sino agli anni ’70 dell’Ottocento, si concentrò in
particolare sull’idealismo, mentre in seguito si occupò quasi esclusivamente
del positivismo, data l’incipiente influenza che iniziava ad avere sulla
pedagogia e filosofia italiana. Già alla fine degli anni ’60, A. notava come il
positivismo si accingesse a dominare il clima nelle Università italiane e negli
studi filosofici e pedagogici, mentre l’idealismo era destinato a restare ai
margini del dibattito. Nel 1903, ricordando quel tornante storico, commentò:
«Il campo filosofico era in allora combattuto da due scuole di tutto punto
opposte, l’idealismo hegeliano, che andava declinando dal suo apogeo, ed il
positivismo anglo-francese, che si annunziava ristauratore sovrano della
scienza e della vita»232. In quegli anni, la scuola idealistica era viva quasi
esclusivamente a Napoli grazie a Spaventa e Vera. A., peraltro docente in una
sede dove l’idealismo era quasi inesistente, si misurò criticamente soprattutto
con i positivisti. Come accennato, i lavori di critica all’idealismo si
concentrano in larga parte nelle opere giovanili, in particolare nei Saggi
filosofici (1866) ne L’hegelismo, la scienza e la vita, (1868) e nell’ Esame
dell’hegelismo (1897), un saggio più breve di quello precedente dove riprende
pressappoco le stesse tematiche. 229 9-10. 230 «In tutti questi lavori la mente
dell’A. si presenta sempre nell’atteggiamento di chi, incrollabilmente fermo e
sicuro nelle proprie convinzioni maturate in uno studio severo e diuturno, vede
nell’avversario e nelle dottrine da lui rappresentate un pericolo esiziale per
la società e per la scuola, in cui esse si diffondano. Onde non tanto Egli mira
a penetrare ed esporre l’idea dell’avversario nella sua genesi e nelle sue
eventuali giustificazioni, quanto a metterne in rilievo le deficienze o le
contraddizioni o le inaccettabili conseguenze» G. Vidari, Giuseppe A., 8. 231
G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe A., 447. 232 G. A., Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, 3. 66 Alcuni cenni polemici contro
l’idealismo sono presenti anche in altri testi, tra cui L’antropologia e
l’umanesimo (1868), Della vecchia e della nuova pedagogia (1873),
L’Antropologia ed il movimento filosofico sociale (1869); La pedagogia e lo
spirito del tempo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia
(1877) Studi filosofici sul carattere delle nazioni (1878) Sulla personalità
(1878). Il testo in cui espone in modo più articolato le sue tesi contro
l’idealismo è L’hegelianismo la scienza e la vita, un lavoro giudicato da
Eugenio Garin «onestamente espositivo»233. L’opera fu scritta in occasione del
concorso Ravizza del 1865-1866, che chiedeva agli scrittori di cimentarsi con
questo tema: «Quali pratiche conseguenze derivino dall’idealismo assoluto di G.
Hegel nella morale, nel diritto, nella politica e nella religione?». Il testo,
che vinse il premio, fu poi rivisto e pubblicato. Nell’opera, l’A. delinea
l’origine dell’hegelismo, mettendo in luce l’humus kantiano da cui nacque
l’idealismo. Il pedagogista enuclea i passaggi che portarono dalle posizioni
del filosofo di Königsberg ad Hegel. A. ricorda come Kant fosse allora
considerato il nuovo «Socrate» per aver salvato la scienza dallo scetticismo,
mentre egli pensava che il kantismo fosse stato la «tomba» della scienza e
della filosofia234. L’errore di Kant fu quello di disconoscere il primo dato
filosofico, vale a dire l’evidenza dell’essere. Egli perpetuò quella torsione
prospettiva cartesiana che si piegò sull’affidabilità della ragione,
dimenticando lo stupore e l’attestazione del mondo. A. osserva che l’uomo
neanche penserebbe se non ci fosse quel «fuori». Così Kant aveva «condannato il
soggetto ad un perpetuo e violento celibato segregandolo dalla realtà
oggettiva»235. Osserva A.: «Scienza assoluta intorno il pensiero umano,
ignoranza assoluta intorno la realtà universale, ecco i due poli del Criticismo
di Kant, la finale risposta che egli diede alla sua prima domanda. Con questo
suo sistema originale Kant reputava di avere ricostrutto su salda base il
sapere speculativo, e quetati una volta i dissidii che da secoli sconvolgevano
il regno della metafisica: Ubi solitudinem faciunt (direbbe qui Tacito), pacem
appellant»236. Ma se lo scopo di Kant era quello di salvare la scienza, egli
superò lo scetticismo di Hume, in quanto non riuscì a riconoscere il senso e i
motivi della scienza metafisica. E ciò fu confermato dagli sviluppi successivi
della filosofia. Nei cinquant’anni trascorsi tra la pubblicazione della Critica
della Ragion Pura, 1781, e la morte di Hegel, 1831, la Germania visse un radicale
cambiamento culturale. Dallo scetticismo di Kant si arrivò attraverso Fichte e
Schelling, all’affermazione dell’idealismo 233 E. Garin, Tra due secoli.
Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, 56. 234 G. A., L’Hegelismo e la
scienza, la vita, 22. 235 31. 236 29. 67 assoluto di Hegel, che
secondo A. non fa altro che trarre le nefande conseguenze di quel divorzio tra
l’io e il mondo, che se aveva portato Kant allo scetticismo, conduceva Fichte
alla tesi dell’Io assoluto, origine e creatore del mondo. Si trattò di una
deriva di quelli che chiamò in un altro testo i «trascendetalisti tedeschi», i
quali «estendendo fuor di misura il potere dell’io umano, lo posero creatore
dell’essere e del sapere, e finirono collo spogliarlo della soggettività ed individualità
sua, confondendolo col massimo degli universali»237. Nel saggio A. dedica
diversi capitoli a questi passaggi, concentrandosi dopo Kant, su Fichte e
Schelling. In ultimo affronta in modo analitico la figura e la filosofia di
Hegel, introducendo il suo pensiero con un’accurata esposizione della vita,
oltre che un’analisi degli apporti e delle influenze che ne condizionarono il
pensiero. Successivamente, ne enuclea il sistema filosofico, con un’analisi
articolata. A. parte dal concetto generale di filosofia, quindi affronta il
metodo dialettico, il concetto dell’Idea e il suo sviluppo nel Sistema. Poi
tratta della Logica, della filosofia della Natura e infine della filosofia
dello Spirito. In conclusione sintetizza i motivi della critica all’idealismo.
Il seguente brano compendia la critica di A.: «Il nome di Idealismo assoluto
con cui viene designata la dottrina di Hegel, ne rivela tutto lo spirito e ne
compendia il contenuto. Il suo sistema è tutto in queste due parole: Idea
assoluta, od in altri termini Idea e sviluppo, giacché l'essenza dell'Assoluto
è un esplicamento universale, un moto continuo e senza fine. Come per Condillac
tutto è sensazion trasformata, così per Hegel tutto è Idea trasformante. L'idea
essendo assoluta si fa tutte le cose, e con questo suo diventare universale
spiega successivamente tutto l'essere, perché riproducendolo rivela le intime
essenze delle singole cose, sicché l'Idea assoluta si manifesta ad un tempo
siccome il sistema della scienza e l'insieme della realtà, identità universale
delle idee e delle cose, del pensiero e dell'essere. Datemi materia e moto,
diceva Cartesio, ed io creerò l'universo. Hegel pigliando in senso
trascendentale il motto cartesiano avrebbe potuto ripeterlo dicendo: Datemi
Idea e sviluppo, ed io vi ridarò rifatta e spiegata la realtà universale»238.
L’identificazione dell’essere con l’idea conduceva l’idealismo a numerose
antinomie ed epicicli, elencati dall’A.. Il pedagogista fa notare come Hegel,
mentre tacciava di misticismo i realisti, chiedeva un atto di fede nel
riconoscimento dell’Io assoluto. In conclusione, A. ripropone la ragionevolezza
del realismo. Secondo il pedagogista vercellese, il reale anticipa, sporge e
supera il razionale. Una frase dell’Amleto di 237 G. A., Sulla personalità umana,
18. 238 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 59. 68
Shakespeare è ripresa dall’A. come legge della filosofia, «v'hanno cose e in
cielo e in terra di cui le nostre filosofie non si sognano neppure»239. La
diaspora degli hegeliani e le numerose critiche fattegli dai suoi discepoli
evidenziano tanto il fascino della prospettiva hegeliana, quanto la sua
fragilità. L’errore cruciale dell’idealismo è la negazione della validità di
quella serie di evidenze e strumenti che l’uomo ha nel suo naturale rapporto
con il mondo: «il sistema dell’identità assoluta contraddice ai pronunciati
della coscienza e si oppone ai dati del senso comune e del sapere naturale;
dunque è insussistente»240. Per questa ragione, A. definisce Hegel come uno
«spietato Torquemada del senso comune»241. Il pedagogista riprende l’analisi
rosminiana e considera gli idealisti fondamentalmente degli scettici. Osserva:
«La scienza è la spiegazione razionale della realtà sussistente: ora la realtà
va anzitutto schiettamente osservata quale si presenta alla nostra percezione,
e non già indovinata a priori e ricercata attraverso le pieghe del nostro
cervello. Una teoria della realtà, costrutta col puro ragionamento e non
fondata sull’osservazione, non è scienza seria e verace, ma un tessuto di
astruserie, che potrà tutt’al più dimostrare la potenza immaginativa di chi
l’ha costrutta. L’idealismo trascendentale germanico de’ tempi nostri ha
sacrificato l’osservazione della realtà al puro ragionamento. Esso ha preso le
mosse dal concetto più astratto, a cui si possa giungere ragionando, e colla
virtù di quel concetto vuoto ed indeterminato pretese di costruire la realtà
universale»242. Prima Gentile243 e poi la Quarello244, criticarono all’A. una
conoscenza poco approfondita di Hegel. Se non si può considerare il pedagogista
vercellese tra i massimi studiosi di Hegel, dai suoi lavori emerge un confronto
nel merito con il cuore delle posizioni idealiste. Altri autori, come il
Suraci, parlarono dell’opere sull’Hegelismo come «una critica quanto mai acuta
e serrata»245. Anche per altre teorie, A. non bada ad una erudizione pedante
sulle vicende di una corrente, ma al cuore e al significato delle sue
principali direttrici filosofiche. Come è già stato accennato, dopo alcuni
lavori dedicati all’idealismo, A. diede largo spazio alla critica del
positivismo, che occupò gran parte della sua attenzione nella sua carriera
seguente. Il pedagogista si accorse della rapida diffusione del positivismo
nelle Università. Uno degli atenei in cui tali teorie presero piede e si
diffusero era proprio quello 239 143. 240 G. A., Saggi filosofici, 6. 241 372.
242 G. A., Antonio Rosmini, 33. 243 G. Gentile, Le origini della filosofia
contemporanea in Italia. I platonici, 370. 244 V. Quarello, G. A., Studio
critico, 128-129. 245 V. Suraci, A.filosofo e pedagogista, 84. 69
di Torino, che era stata sino a pochi anni prima una roccaforte del
rosminianesimo e dello spiritualismo cristiano. Come ha ricordato Giorgio
Chiosso: «Proprio a Torino la cultura positivista stava compiendo il massimo
sforzo con Moleschott, Lessona, Lombroso, Mosso per tracciare una antropologia
incentrata su esclusivi tratti fisio – psichici e fortemente condizionata dalla
cultura evoluzionista»246. Come ebbe a scrivere Norberto Bobbio, Torino
rappresentava sul finire dell’Ottocento «la citta più positivista d’Italia»247.
A. individuava come ragione della diffusione di tale corrente un forte appoggio
politico, che era diventato come abbiamo già rilevato, il braccio ideologico
dei gruppi anticlericali che spesso sedevano nelle poltrone più importanti del
neonato Stato italiano. Il pedagogista aveva una chiara percezione di tale
egemonia e non mancò di denunciarla. Scrisse a proposito «Il partito
iperdemocratico, che nei lontani sfondi della rivoluzione italiana del 47
appena s’intravvede indistinto e sfumato, prese a poco a poco forme più
spiccate e concrete, e fattosi potente tende oggidì a tenere esso solo il
campo. Esso novera potenti ingegni fra i suoi numerosi seguaci, che ne
bandiscono i principii dalle cattedre universitarie, dalle tribune
parlamentari, dalle officine della pubblica stampa. La sua arma è la critica,
il suo dogma supremo è l’umanesimo sociale, ossia il naturalismo pagano
razionalizzato. E la critica, dacché fu inaugurato il Regno dell’Italia una, si
spiegò con forze maggiori che mai. Essa si pose ad abbattere il principio di
autorità nell’ordine del pensiero e della vita, a dissolvere le credenze morali
e religiose dell’universale, a minare le fondamenta di tutta la dommatica del
cristianesimo, a snaturare l’indole nativa e tradizionale della filosofia
italiana»248. Nonostante il peso del positivismo fosse riscontrabile già nei
citati dibattiti del ’47, fu solo con l’Unità che ai positivisti fu concesso
quello spazio privilegiato col quale poterono diffondere le loro teorie e avere
una inaspettata diffusione. Come denunciò A.: «Ai seguaci e promotori della
nuova scuola pedagogica il Governo prodiga la pienezza de’ suoi favori, e sotto
la potente sua egida assicura il trionfo»249. Se i capi scuola europei del
positivismo meritarono, da parte dell’A., delle analisi approfondite e alcuni,
rari, apprezzamenti, la valutazione degli epigoni italiani fu molto severa.
Essi vennero ridotti al rango di semplici ripetitori di autori più organici
come Spencer, Comte, Bain. A. si limitò ad affrontarne in modo sbrigativo la
produzione positivistica italiana nel saggio La pedagogia italiana antica e
contemporanea (1901). In 246 G. Chiosso, L'interpretazione rosminiana di
Giuseppe A., «Pedagogia e vita», n. 6, 1997, p. 152. 247 N. Bobbio,
Introduzione, in E. R. Papa (ed.), Il positivismo e la cultura italiana,
Milano, Angeli, 1985, p. 13. 248 G. A., La pedagogia italiana antica e
contemporanea, 161-162. 249 168. 70 esse il pedagogista si lasciò
andare a valutazione in parte ingenerose e tranchant. Affrontò le teorie di
Angiulli, Siciliani, Gabelli, e di altri pedagogisti minori. Il primo è
considerato il «principe» fra i cultori del positivismo in Italia. Viene
definito come un «pensatore robusto e profondo, ma non originale»250 che
ricalca fondamentalmente le posizioni di Spencer, e dunque tutti i suoi errori.
La riduzione spencieriana dell’uomo ad un animale, mina le basi del pensiero di
Angiulli: «Lottando contro la realtà dell’io, che egli ha negato e che s’impone
inesorabile al suo pensiero, si vede costretto a ricorrere ad una novità di
linguaggio, ad una dicitura attortigliata ed involuta, ad un ritornello di
espressioni stereotipate, che spargono una nebulosa caligine sul tutt’insieme
della sua dottrina»251. Un altro errore a cui lo conduce la negazione del
principio della personalità è la statolatria nel campo dell’istruzione
pubblica. Pietro Siciliani è invece accusato di eclettismo e di aver mal
combinato istanze inconciliabili, producendo un sistema contradditorio e
instabile. In una prelazione risalente al 1882, rammentò il cambio di opinione
sul positivismo, prima criticato e poi elogiato252. Del sistema del Siciliani
l’A. denunciò l’incapacità di giustificare sui presupposti positivisti
l’esistenza della libertà e i fondamenti della morale. Negli Opuscoli lo accusa
di trasformismo e scrive che «muta di dosso i panni a tenor della moda»253.
Stando ad A., questa «accozzaglia» di principi spuri condanna alla mediocrità
la pedagogia del Siciliani: «Egli non si afferma né spiritualista, né
materialista, né idealista, né ontologista, né trasformista, né positivista, e
lascia capire che vuol essere qualche cosa di più e di meglio di tutto ciò; ma
non ci presenta un principio superiore a tutti questi sistemi, che impronti il
suo pensiero e lo determini per quello che è»254. Si occupò anche di altri
autori come Emanuele Latino, Aristide Gabelli, Edoardo Fusco in cui rileva
sostanzialmente gli stessi errori di Siciliani e dell’Angiulli. Saluta invece
con soddisfazione il ritorno allo spiritualismo di Ausonio Franchi, al secolo
Cristiano 250 169. 251 174. 252 Nel saggio cita direttamente le parole di
Siciliani e poi le commenta: «“Troppo scettici, noi Italiani abbiamo bisogno di
fede: troppo anneghittiti dal positivismo, abbiamo bisogno di sacro entusiasmo
nella scienza, nell’onestà, nell’onore, nei principii di giustizia,
nell’attività del lavoro, nell’autorità creata da noi stessi, nell’Italia.
Possiamo dunque accettare il Positivismo? No. Inteso come sistema, il
Positivismo è dottrina assolutamente negattiva, non ha storia, non ha
principii; è contrario allo spirito filosofico di nostra età, è dannevole nelle
sue applicazioni morali, estetiche, politiche, religiose, storiche. Nol
possiamo accettare come sistema, perché contrario alla nostra istoria, alla
mente dei nostri padri, all’indole nostra, al nostro genio, alle nostre
tendenze, contrario ai nostri bisogni fisici e intellettuali [in nota: P.
Siciliani, Critica del positivismo]”. Chi pubblicava or non è molto queste
righe contro il sistema positivistico, è quegli stesso, che oggi ha inalberato
il vessillo del positivismo dlla sua cattedra di pedagogia in una
celebratissima Università italiana, mutando dottrine con quella leggerezza
medesima, con cui altri muta di dosso i panni a tenor della moda» G. A.,
L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18
novembre 1881, Torino, Marino, 1882, pp. 14-15. 253 G. A., Opuscoli pedagogici,
122. 254 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 177.
71 Bonavino, di cui esalta le Lezioni di pedagogia che viene indicato
come un testo fondamentale per la pedagogia spiritualista. Le considerazioni
dell’A. restarono severe. Valuto le teorie positiviste «disumane e
liberticide»255. Inoltre avversò una certa indifferenza degli epigoni di Comte
che sembravano sordi agli appunti delle altre correnti pedagogiche. In più
d’una occasione A. lamentò la loro indifferenza alle critiche, oltre alla poca
onestà intellettuale256 Come già accennato, i suoi studi si concentrarono
soprattutto sui fondatori del positivismo europeo: Comte, Spencer, e Bain. Le
sue numerose opere dedicate a questa corrente, rappresentano una prima
sistematica reazione dello spiritualismo italiano al positivismo europeo. Il
lavoro più preciso e sistematico su tale corrente è Del positivismo in sé e
nell’ordine pedagogico (1883), definito dalla «Civiltà Cattolica» come una
«splendida e serrata critica di questo sistema»257. Nella prelazione tenuta per
l’anno accademico 1881-1882, A. annunciò che durante il corso sarebbe sceso
«nell’arringo a combattere il positivismo riguardandolo siccome una larva
ingannevole della scienza, siccome un pericolo esiziale della pedagogica»258.
Nel solco di quelle lezioni pubblicò poi il lavoro. L’opera si divide in due
parti principali: nella prima tratta delle origini del positivismo e ne mette
in discussione i fondamenti filosofici, nella seconda critica le conseguenze
pedagogiche ed educative. A. identifica come causa prima del positivismo, la
stessa dell’idealismo, vale a dire la crisi della metafisica avvenuta con la
modernità, che Kant sancì nella Critica della ragion pura, sostenendo la
sostanziale inconoscibilità del non sperimentalmente. Il metodo scientifico si
dogmatizzò, pretendendo di estromettere dalla conoscenza e dalla vita privata e
pubblica tutto ciò che non è misurabile. Il positivismo si configurò come una
nuova prospettiva epistemologica, metodologica e antropologica, fondata sulla
negazione di tutte le conoscenze non verificabili sperimentalmente. In questo
senso, si oppone a qualsiasi 255 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci,
I. 256 Nel saggio su La scuola educativa, A. riporta una critica fattagli da
Fornelli che nel testo La pedagogia e l’insegnamento classico, accusò il professore
vercellese di aver travisato le posizioni di Comte. Dopo essersi difeso,
critica anche una evidente storture delle sue posizioni, avendolo assimilato
all’idealismo: «Ma il più grosso abbaglio del mio critico è questo: io non sono
punto quell’idealista, che egli s’immagina mostrando di non aver letti i miei
lavori filosofici, o di averne frainteso il significato malgrado la loro
conveniente chiarezza. Mi additi un solo passo, da cui risulti che io ripongo
le origini prime del pensiero in concetti astrattissimi, anteriori e superiori
ad ogni realtà concreta e sussistente, ed io mi do’ per vinto» G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 218. 257 Linee di pedagogia moderna, «La Civiltà
Cattolica», quaderno 1565, 1915, vol. III, p. 542. 258 G. A., L’educazione e la
scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881,
15. 72 considerazione metafisica, di cui è «la sua negazione
assoluta ed esclusiva»259. In questo rifiuto consiste, per il pedagogista
vercellese, anche «il carattere direi negativo del positivismo»260. Va tenuto
conto, che A. riconosce l’apporto positivo delle scienze sperimentali e della
metodologia scientifica. Senza alcun timore verso gli esiti della ricerca
empirica, il pedagogista attribuisce alla scienza (non al positivismo) il
merito di aver accresciuto notevolmente la conoscenza del mondo e il benessere
materiale. Tuttavia, A. individua proprio nell’euforia per gli esiti della
tecnologia la presunzione di certo positivismo. Galvanizzata dalle scoperte
scientifiche: «esaltò l’esperienza sensibile siccome l’unica e suprema ed
assoluta fonte di tutto lo scibile umano, rigettò tra le illusioni tutto ciò,
che trascende i suoi confini, assegnò unico oggetto della scienza i fenomeni
disgiunti dalle sostanze e respinse la ragione siccome facoltà trascendente che
contempla la sostanzialità delle cose»261. A. ricorda come il metodo
sperimentale non possa racchiudere tutto il campo dello scibile, pena
l’esclusione di ambiti conoscitivi fondamentali per la vita umana. Rivolgendosi
ai positivisti A. scrive: «No, la mente umana non può fermarsi ai confini
dell’esperienza, come alle colonne di Ercole: i grandi problemi dell’esistenza,
soffocati dalla vostra dottrina, risorgono davanti alla ragione e le si
impongono irremovibili. Voi non riuscirete mai a cancellare dalla coscienza del
genere umano questo indestruttibile sentimento, che noi non siamo sfuggevoli
fenomeni, quasi ombre erranti alla ventura nel deserto, bensì persone vive,
forniti di una ragione che trascende la cerchia dell’esperienza sensibile e si
innalza alle supreme idealità della vita. Gli ingegnosi apparecchi meccanici,
di cui avete forniti i vostri laboratori di psicologia sperimentale, potranno
procacciarsi nuove ed interessanti notizie intorno la vita sensitiva dell’uomo
esteriore, ma non ci sapranno dir nulla intorno i misteri dell’anima, il
secreto lavorio della sua vita intima, le sue sublimi aspirazioni»262. La
scienza esatta e sperimentale non può esaurire tutto il campo della conoscenza
dell’uomo. Inoltre, secondo A., l’esautorazione della metafisica dal campo
dello scibile danneggia la stessa scienza. Essa, infatti, nasce da domande
metafisiche, si nutre di concetti e di una logica che non può essere rinvenuta
nella esperienza materiale, ma solo in quella spirituale. L’antimetafisica
getta il positivismo in un paradosso: lo scientismo, 259 G. A., Del positivismo
in sé e nell’ordine pedagogico, 13. 260 10. 261 G. A., Il ritorno al principio
della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre
1903, 14. 262 14-15. 73 infatti, nega le premesse della scienza.
Con l’affermazione «non esistono che fatti» si esprime un giudizio generale e
veritativo sul mondo, portando avanti un discorso propriamente metafisico.
Scrive A.: «Dicono infine che, seguendo la dottrina evoluzionistica, le teorie
non sono più campate in aria quali sono foggiate dall’apriorismo, ma riescono
l’interpretazione oggettiva dei fatti. Sta bene: i fatti vanno adunque
interpretati; ma con quale criterio? Certamente con qualche concetto o
principio ideale, superiore ai fatti stessi, perché questi per sé sono lettera
morta, bisognevole dello spirito, che la vivifichi e la illustri. Eccon quindi
chiarita l’insufficienza dell’esperienza alla formazione della psicologia e
della pedagogia»263. Il positivismo si autodefinisce teoria delle scienze
positive, ma secondo A., la costruzione di un sistema filosofico accede già ad
una dimensione della riflessione che travalica i confini dell’esperienza
empirica. Si tratta di una «astrazione» che si serve della logica, del
giudizio, dell’argomento. In questo senso, se i positivisti volessero essere
coerenti con le loro posizioni, dovrebbero «liberarsi da concetti «metafisici»
come quelli di causalità, identità, o di non contraddizione. In questo senso,
per il pedagogista vercellese, l’assoluta antimetafisica del positivismo, si
traduce in un suicidio della scienza stessa: «Dacchè dunque l’antropologia
studia l’uomo pensante, il quale sovrasta alla materia e possiede in sé i
principi ideali necessarii alla costruzione del sapere, consegue che essa è lo
spirito informatore delle discipline positive e naturali, e che il naturalismo,
che la impugna, distrugge le stesse scienze della natura e contraddicendo a se
medesimo fa della metafisica col proclamare che la materia è l’essenza
universale di tutto, che è infinita, eterna, mentre tutto questo trascende i
limiti dell’esperienza e dell’osservazione sensibile»264. A. giudica la
posizione gnoseologica dei positivisti fondamentalmente scettica, in quanto le
loro premesse conducono all’inevitabile dissoluzione della conoscenza: «Una
critica priva di principii universali ed assoluti, che la rischiarino, è una
critica, che pretende di essere fine a se stessa, anziché mezzo potente per
giungere al Vero, ossia è criticismo scettico. Il positivismo contemporaneo ha
menato un gran guasto nel campo della critica odierna, la quale è insorta a
dissolvere e disfare quelle medesime verità universali, che è tenuta a
rispettare siccome fondamento della sua esistenza»265. A proposito di tali
nefande conseguenze, A. ebbe modo di criticare il Romagnosi, che vicino a
posizioni simili 263 G. A., Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia,
«Rivista Pedagogica Italiana», Asti, 1897, vol. I, pp. 305-306. 264 G. A., L’uomo
e la natura, 17. 265 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi,
Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, 9.
74 sosteneva che è sano solo colui che la pensa come la maggior parte dei
suoi concittadini, non avendo più un riferimento metafisico su cui fondare la
validità delle posizioni266. Inoltre il materialismo non può che portare ad una
confusione nella scienza, in quanto se la conoscenza è un prodotto necessario
dell’esperienza personale, e nasce da questa in modo spontaneo e
incontrollabile, perde di significato la valutazione delle teorie che non sono
né vere né false, ma unicamente frutto della determinazione. Scrive a
proposito: «Ora se il pensiero è sempre di necessità quale lo forma
l’esperienza, ossia quale lo esige la condizione fisiologica, in cui versiamo,
allora cessa ogni distinzione tra un vero ed un falso pensiero, e così il
pensiero a priori, o sarà vero anch’esso, oppure dovrebbe negarsene
l’esistenza, siccome di un fatto impossibile, mentre l’evoluzionista lo piglia
ad oggetto della sua critica»267. Invece l’esistenza della scienza conferma la
presenza di una natura non materiale nell’uomo, solo la persona ha coscienza
del mondo e cerca la verità. Un altro nodo insolubile per il positivismo è l’esistenza
della libertà. La scienza esatta, come ha insegnato Kant, non può attestare la
sua esistenza, e il materialismo e determinismo di certi positivisti la negano.
Se l’uomo non è più libero, si chiede A., come lo potrà essere la scienza?
Inoltre ad A. pare pretestuoso l’uso della scienza contro la metafisica e la
religione. Le scienze naturali «anziché escludere di loro natura la metafisica,
rinvengono in questa sola la loro suprema ragione, sì che non lasciano più
luogo alla filosofia positiva. Infatti, un fisico, un chimico, un astronomo,
può ammettere i pronunciati del teismo e dello spiritualismo, senza punto
rinunciare ad un solo dei teoremi della propria scienza (valga l’esempio di
Newton, del Galilei, del Padre Secchi, del Pasteur)»268. Un'altra «vittima» del
positivismo è l’antropologia, che da tale corrente viene snaturata. La
negazione della metafisica ha notevoli ripercussioni sulla scienza dell’uomo,
poiché getta nell’indecifrabile la sua essenza personale. Il positivista non
può conoscere la vera essenza dell’uomo, in quanto la persona non può essere
raggiunta e compresa nell’esprit del finesse. Scrive A. «Colla loro
antropometria non giungeranno mai a misurare le profondità dell’anima, a
scandagliare gli immensi problemi, che si agitano nelle intimità dello spirito
umano»269. La persona non è rilevabile nell’esperienza come se fosse un
fenomeno fisico, è riscontrabile solo nella riflessione oltre il sensibile.
Occorre, stando ad A., sollevarsi dal fatto, per constatare l’Io: «Il
positivista vuol fatti, nient’altro che fatti, né vuol saperne di esseri
individui, di sostanze permanenti. Ma il factum (e chi nol 266 G. A., Studi
psicofisiologici, 29. 267 G. A., Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia,
304-305. 268 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 16. 269 G. A.,
Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, 6.
75 sa?) è un sostantivo verbale derivante dal verbo facere, è un
participio che presuppone l’ego facio, tu facis, ille facit: importa l’essere,
che fa, il soggetto operante, e rompe in una contraddizione il positivista
separando l’un termine dall’altro»270. Ma tale agnosticismo si trasformò presto
in una negazione. Infatti, per i positivisti, «L’uomo non è una sintesi vivente
di due sostanze, spirito e corpo essenzialmente distinte, eppur composte ad
unità di persona, bensì un complesso di fenomeni fisiologici e psicologici,
diversi di grado soltanto, ma non di essenza da quelli animali»271. Osserva nei
già citati Opuscoli pedagogici: «Negli intimi recessi dell’anima, dove non
penetra coltello di anatomico, dove non giunge lente microscopica di fisiologo
e naturalista, si nascondono secreti che accennano all’Infinito, si destano
aspirazioni, che vengono dall’alto e nell’alto ritornano. Quei secreti, quelle
aspirazioni il positivista riguarda quali vani fantasmi, e lo spirito umano
quale un fantasma multiforme errante fuori del mondo della realtà. Duri tempi
per questi tempi»272. Così la prospettiva epistemologica dei positivisti mette
in discussione la scienza dell’uomo e sfigura la persona. Osserva A.: «il
sistema antropologico dei materialisti non è la scienza nuova, che cerchiamo,
ma la negazione della scienza»273. La loro antropologia risulta dunque un
grande «equivoco»274. Per questo chi approccia l’antropologia positivistica è
«trascinato entro una selva intricata di osservazioni senza un’idea suprema
dominante, che lo sorregga e le dia unità, anima e vita a quel tritume di
particolari»275. Il miglior esponente di questa prospettiva è Spencer che
enuclea tali concetti nel Primi Prinicipii, così commentati dall’A.: «Per
quantunque la credenza nella realtà dello spirito individuale sia inevitabile,
e benché sia riaffermata non solo dall’unanime consenso del genere umano, ed
adottata da tanti filosofi, ma ben anco dal suicidio dell’argomento scettico,
pur tuttavia non può venire per nulla giustificata dalla ragione: havvi ancora
di più; allorquando la ragione è messa alle strette di pronunciare un giudizio
formale, essa condanna tale credenza... di guisa che la personalità di ciascuno
ha coscienza, e la cui esistenza è da tutti avuta per un fatto certissimo sopra
ogni altro, è tal cosa che non può in veruna guisa essere conosciuta; la
conoscenza della personalità è vietata dalla natura medesima del pensiero»276.
270 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 87. 271 G. A., Del
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 243. 272 G. A., Studi pedagogici,
13. 273 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società,
13. 274 12. 275 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 58. 276 G.
A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 315. 76 Il
filosofo britannico non può che giungere ad un riduzionismo antropologico.
Scrive ancora A.: «Lo Spencer fa sua (né vi ha di che stupirne) l’osservazione
di uno scrittore, che cioè a riuscire nella vita occorre primamente essere un
buon animale»277. Tale prospettiva è inaccettabile per l’A., secondo cui l’uomo
è strutturalmente differente dal resto della natura: «L’umano soggetto, insino
dal primissimo istante della sua mortale esistenza, è non solo di grado, ma di
specie differente dal bruto, perché la mente, ossia l’anima razionale, che lo
costituisce uomo, ei la possiede per natura, e non l’acquista punto col tempo,
non la vede allo sviluppo progressivo dell’organismo corporeo. Questo
giustissimo concetto pitagorico, che tanto bene risponde al sentimento naturale
della dignità umana, sta diametralmente opposto alla moderna dottrina del
positivismo evoluzionistico, il quale sentenzia che nel neonato l’animalità si
viene a poco a poco trasformando in unità in virtù delle leggi fisiologiche
dell’organismo animale, il quale, mentre nella prima infanzia della vita si
manifesta mercé le sole funzioni inferiori del senso fisico e del cieco
istinto, proseguendo nel suo sviluppamento, acquista la virtù di esercitare
esso stesso la facoltà superiore dell’intendere, del ragionare e del volere,
sicché la mente, lo spirito, l’anima razionale, che tanto ci sublima e ci
differenzia dal bruto, non sarebbe già una sostanza diversa dall’organismo
corporeo, bensì rimarrebbe pur sempre in fondo l’animalità stessa che funziona
sott’altra forma più elevata»278. L’uomo è ontologicamente differente rispetto
al resto della natura. Il positivismo al contrario «afferma che l’io umano non
è un’energia vivente, un’attività libera e conscia della sua personalità
sostanziale, bensì un mero complesso di fenomeni che non appartengono a
nessuno»279. Queste posizioni antropologiche, denuncia A., portano ad
inevitabili corollari pedagogici: «ai giorni nostri e nella nostra Italia in
fatto di pubblica educazione si trascorre agli estremi, sicché questa gran
legge dell’armonia rimane offesa. All’educazione fisica si attribuisce una
importanza esorbitante, e assai più di quanto le convenga ed in suo servizio si
lavora in tutti i rami ed in tutte le guise, mentre la formazione del carattere
che è di tutta l’umana educazione la parte più nobile e più prestante, giace
pressoché dimenticata e negletta. Lo Spencer esaltando sopra misura la cultura
dell’organismo corporeo ha asserito che l’uomo debb’essere anzi tutto e
soprattutto un buon animale, ma ha dimenticato che si può essere un buon
animale ed un pessimo soggetto ad un tempo»280. 277 322. 278 G. A., Delle idee
pedagogiche presso i greci, 28-29. 279 G. A., Opuscoli pedagogici, 5-6. 280 G. A.,
Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, 680. 77 Invece la
persona è quella briciola dell’Universo che appartiene a se stessa, e a ciò
deve essere educata. La persona sente, capisce e vuole. La riduzione dell’uomo
ad animale compromette la morale, e cioè l’immanenza dei criteri di bene e di
male e la responsabilità personale. A. individua le conclusioni di queste
premesse nell’opera di Spencer, il quale negando la libertà, «nella sua
psicologia riguarda la volontà quale una evoluzione dell’istinto fisico ed
assoggetta perciò l’opera umana ad un fatale e necessario determinismo, in cui
i fenomeni psichici si succedono gli uni agli altri con un intreccio
indissolubile. Torna quindi inutile, anzi contrario a ragione, il pronunciare,
che siamo moralmente tenuti a compiere le azioni per noi vantaggiose ed
astenerci dalle dannose se esse non dipendono dal nostro libero volere, ma sono
per insuperabile necessità predeterminate le une alle altre»281. Si tratta di
una posizione con nefandi corollari morali e pedagogiche. «Rigettando la
libertà – infatti - viene per ciò stesso a mancare ogni ragione di
responsabilità morale, in quella guisa che, rovesciato un principio, cadono
tutte le conseguenze sue»282. Si tratta di una corollario spesso negato dai
positivisti. A. ben evidenzia questa contraddizione e osserva «parlano della
necessità imperiosa di formare il carattere dell’alunno, di promuovere lo
sviluppo spontaneo della sua attività mentale, di educarlo alla libertà di
pensiero; ma in tal caso la logica li costringe ad accogliere il concetto
filosofico dell’uomo, da cui discendono tutte queste conseguenze pedagogiche, e
rigettare il concetto antropologico positivistico da cui fioriscono conseguenze
pedagogiche diametralmente opposte»283. Si tratta di un’aporia che emerge con
chiarezza nella «retorica» sull’autodidattica284. Privato della libertà e del
fine, l’uomo si rifugia nell’accidia: «Vivere adunque alla giornata secondochè
porta il caso fino a che venga l’unus interitus hominum et iumentorum, ecco
l’unica morale a cui possa logicamente far luogo il positivismo»285. A. critica
ancora lo Spencer quando nella sua Educazione morale, intellettuale e fisica
riduce la morale a «conservazione propria diretta», una considerazione che se è
281 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 309. 282 109. 283 G.
A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 5. 284 Scrive
sull’argomento: «I propugnatori della nuova scuola positivistica vanno
proclamando la somma importanza dell’autodidattica e dell’educazione del
carattere, e se ne fanno banditori come di una loro scoperta; ma con ciò non si
avvedono, che danno una smentita alla loro dottrina, la quale facendo dell’io
umano un mero fenomeno senza sostanza, e rigettando fra le illusioni la libertà
dello spirito, toglie di mezzo quella personalità, per cui l’alunno colla sua
interiore energia conquista le conoscenze e vi attinge la fermezza incrollabile
del volere» G. A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 13. 285 G. A., Del
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 262. 78 spiegabile col suo
darwinismo non è accettabile ai fini di una convivenza e di una prassi
educativa. La vita diviene adattamento e sopravvivenza. Senza un fine ultimo
non può esistere educazione, ma solo adattamento, e cioè in qualche modo
abbruttimento e alienazione. Il positivismo è la negazione della vera
educazione e «non ha ragione di usurpare il posto della scienza, così
compromette fatalmente le sorti dell’educazione umana»286. In questo senso, non
sconsacra solo la fede e la metafisica, ma anche la vita umana, la fiducia,
l’amore, la morale, gli ideali. La nuova antropologia dei positivisti ha
conseguenze nefaste sull’educazione. Negato il principio della personalità e il
valore della libertà, l’educazione è declassata ad adattamento. Il fine della
formazione si riduce all’ «allevamento» di un buon animale, il suo unico
interesse e scopo dovrà essere quello di collaborare al benessere dell’Umanità.
Nella prospettiva positivistica perde di significato quella formazione del
carattere, della volontà, e di emancipazione dalle funzioni biologiche, in cui
risiede secondo A. lo scopo dell’educazione umana. Anche l’istruzione, come
contesta A. al Bain, è ridotta a comunicazione di nozioni, sempre funzionali
alla produzione o alle condizioni sociali, e senza nessun riferimento
all’educazione, agli ideali, ai valori. Non si bada più alla formazione del
carattere, ma alle capacità cognitive, privandole però del fine e della
direzione. L’educazione cessa di essere esortazione per divenire
condizionamento. Il suo senso nella pedagogia positivistica viene svilito in
quanto «manca il pensare grandioso, elevato, che raccoglie una molteplicità
svariatissima di idee particolari in una potente ed organica unità; manca quel
soffio di idealità, che innalza lo spirito dell’educatore al sentimento del suo
arduo e sublime magistero»287. Oltre all’idea di libertà, di morale, e di
educazione sono le stesse scienze umane che vengono ribaltate sulla base dei
principi antimetafisici, materialisti e naturalisti. A. denuncia che «Le
scienze della natura hanno usurpato il posto delle scienze dello spirito: la
psicologia, la morale, la filosofia in genere non hanno più una esistenza loro
propria e distinta, ma sono trasformate in altrettanti rami delle scienze
naturali»288. La pedagogia vede messi in discussioni i suoi principi
fondamentali: «Una scienza pedagogica senza verità universali e necessarie,
un’educazione senza ideale, ecco le conseguenze, che derivano dal principio,
che l’esperienza è la norma unica e suprema della disciplina pedagogica»289.
286 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 183. 287 G. A., La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 27. 288 G. A., Lo spirito e
la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, 4. 289 G. A., La nuova
scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 8. 79 Il primo dato
necessario alla pedagogia che il positivismo confonde è la natura non materiale
della persona: «La nuova scuola, mentre proclama di non voler accogliere nella
cerchia della scienza altro che fatti, inconseguente a se medesima rinnega
alcuni fatti di singolarissima importanza. Giacché è un fatto irrepugnabile,
che l’educatore e l’alunno, l’uno di fronte all’altro, sentono di essere non
già meri fenomeni insieme implicati, bensì due persone vive e reali, che hanno
ciascuna affetti, intendimenti e voleri suoi propri, ed affermano la loro
individualità col vocabolo io; sentono di essere attività libere, consapevoli
di sé, arbitre del proprio operare. Ora la nuova scuola proclama illusorii
questi due solennissimi fatti, che sono il fondamento primo dell’opera
educativa». L’antimetafisica mette in discussione un altro elemento necessario
per la pedagogia, vale a dire l’evidenza che «L’uomo è un soggetto educabile. Questo
concetto semplicissimo ed elementare trascende la sfera dell’esperienza»290, e
non può dunque essere incastonato nell’architettura positivista. La persona
inoltre ha bisogno di un ideale, di un fine a cui piegare la sua esistenza.
«Senza ideale non si vive da uomo, non si vive personalmente; e l’ideale vero
non ci viene da una scuola, la quale insegni che la vita umana si risolve tutta
quanta in un gabinetto di fisiologia, non ci viene dalla nuda esperienza. Essa
mi dirà quello che io sono di fatto, o integro o corrotto che io mi sia;
l’ideale invece mi rivela quello che io debbo essere; quello dell’esperienza è
l’ideale del momento che passa, del punto che scompare; il vero ideale
abbraccia l’universalità del tempo e dello spazio»291. In un altro saggio
osserva: «L’esperienza mi dice quello, che è di fatto, non quel che
debb’essere; mi apprende cioè che l’uomo viene realmente educato, ma non già
che lo debba essere; è dessa la ragione, che muovendo dal concetto della
persona umana ne argomenta che l’educazione le è necessaria ed essenziale. Così
la sola esperienza non vale a somministrarci la verità universale e necessaria
dell’educabilità»292 L’educazione ha bisogno di un ideale. Questo brano
sintetizza chiaramente i concetti suaccennati: «Che se il soggetto educando de’
positivisti, conscia ed arbitra di sé e cagione efficiente degli atti suoi, è
niente più che una mera successione de’ fenomeni, i quali non appartengono a
nessuno, ognun vede, 1° che voi farete del vostro alunno non già una libera
individualità, che pensi da sé e si regga per virtù interiore, bensì un
meccanismo di fenomeni insieme raccostati dalla forza dell’abitudine; 2° che la
santità del dovere è sfatata e l’educazione morale torna impossibile, perché i
fenomeni passano senza lasciar traccia di sé, e le nostre risoluzioni 290 6.
291 G. A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 15. 292 G. A., La nuova
scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 6. 80 volontarie sarebbero
una risultante di fenomeni ossia di forze meccaniche cooperanti; 3° che
anch’essa l’educazione religiosa non ha più ragione di essere, perché il
positivismo è la negazione della metafisica, come scienza dell’Essere assoluto,
e la negazione della religione, come amore intelligente ed operoso dell’Essere
divino»293. La pedagogia positivista viene inoltre criticata in quanto si
fregia di aver portato fondamentali novità per la pratica educativa. A.
chiarisce che: «I positivisti s’immaginano di avere dato alla scienza dell’uomo
e della sua educazione un impulso affatto nuovo e potente, di averle impresso
il suo vero indirizzo, di averla ricostruita sulle sue giuste fondamenta come
se tutti i grandi pensatori, che meditarono prima di essi intorno a queste due discipline,
avessero brancolato alla cieca; e tutta la riforma, della quale vanno altieri,
sta nell’aver circoscritto tutto il compito dell’antropologia e della pedagogia
allo studio de’ fatti umani ed alla ricerca delle loro leggi, indipendentemente
da ogni considerazione relativa alla sostanzialità del me, in cui essi fatti
hanno il loro comune principio, il loro punto centrale ed armonizzatore»294. Ne
La nuova scuola pedagogica analizza le novità che i positivisti si prendono il
merito di aver apportato alla pedagogia: metodo intuitivo, autodidattica e
adattamento. A. fa notare come siano tutte intuizioni e nozioni assai note
prima della nascita del positivismo e prima ancora della comparsa della
pedagogia. Per quanto riguarda le scienze umane, A. contesta la trasformazione
positivistica della psicologia in una branca della fisiologia. Tale critica è
legata alla battaglia per la difesa della personalità umana e della sua
libertà. Ciò che A. intendeva difendere era l’idea che i fatti psicologici non
fossero solo fisici, ma fondamentalmente spirituali. Il mentale non può essere
trattato come il biologico, per cui l’oggetto della psicologia deve essere l’io
sostanziale e non la sua espressione fisiologica o fenomenica. Per tale motivo
la psicologia deve seguire, a detta di A., un metodo filosofico e non
scientifico, con cui invece si può indagare l’uomo da un punto di vista
anatomico o fisiologico. Così per l’A. «la psicologia è quella parte di
filosofia, che ha per oggetto l’anima umana studiata ne’ suoi fenomeni e nel
suo essere sostanziale mediante la coscienza perfezionata dalla riflessione al
ragionamento»295. Tale concezione deve essere contestualizzata in un periodo in
cui la scienza italiana era parecchio lontana dagli approcci e dai risultati
dei laboratori psicologici svizzeri, tedeschi e francesi. Questa difesa del
collocamento della psicologia nella filosofia da quanti la volevano ridotta a
pura fisiologia, nacque dalla paura 293 G. A., Del positivismo in sé e
nell’ordine pedagogico, 409. 294 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci,
87. 295 G. A., Appunti di Antropologia e Psicologia, 24. 81 che
tale prospettiva avallasse la riduzione dell’essere umano a un mero meccanismo
biologico. Occorre inoltre far notare che A. tenne in grande considerazione le
scienze sperimentali, anche se denunciò l’alto rischio dello scadimento della
scienza in scientismo. Osserva «Non vi è amatore del vero sapere, che non
riconosca e non ammiri i grandi progressi fatti dalle scienze naturali, e lo
splendido avvenire, a cui sono chiamate, proseguendo per la retta via
dell’osservazione sincera e compiuta dei fatti fisici, fecondata da una lenta e
prudente induzione verificata mediante la prova e riprova di ben condotto
esperimento. Questo successo e sicuro progredire del pensiero nella scoperta
delle leggi e delle forze della natura avvantaggia le sorti dell’umanità e
conferisce potentemente alla civiltà ed al perfezionamento sociale, essendochè
l’uomo la fa sua rivolgendola al compimento del suo ideale. Se non che mentre per
una parte il progresso delle scienze naturali conforta l’animo di liete
speranze, per l’altra si nota con rincrescimento la tendenza di alcuni illustri
ingegneri contemporanei a trascendere i confini proprii di esse scienze e
riguardarle siccome la vera e sola scienza, a cui tutte le altre vanno
sacrificate, come se in esse sole fosse incarnato lo spirito scientifico»296.
Appare dunque poco fondato l’appunto mosso dalla Bertoni Jovine all’A., che
criticò al vercellese una presunta ostilità nei confronti della scienza e del
suo valore educativo. Secondo la studiosa emiliana, per A.: «Tutte le scienze
che si valgano di questo metodo e che inducono l’educando all’osservazione
spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o
quanto meno non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le
suggestioni che rafforzano la fede»297. In un lavoro successivo provò a
giustificare la supposta contrarietà all’insegnamento della scienza, con
l’esigenza di difendere il «dogmatismo» in funzione dell’ostruzionismo al
progresso sociale e civile298. 296 G. A., L’uomo e la natura, 12-13. 297 D.
Bertoni Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Torino, Einaudi, 1954,
p. 387. 298 «Ad ogni modo, pur attraverso una prosa gonfia e nello stesso tempo
reticente, è opportuno districare il filo delle argomentazioni del pedagogista
torinese. Il punto sostanziale della sua polemica è la critica del valore
educativo della scienza. La scuola moderna si fa un feticcio della scienza
sottovalutando altri elementi formativi dello spirito umano. Ma di quale
scienza parla A.? Lo chiarirà in una nota inviata alla Reale Accademia di
Scienze di Torino. Si tratta soprattutto si quel complesso di problemi e di
studi che si raggruppa sotto il nome di “sociologia” e che interessa tutti i
problemi della vita moderna, compresi quelli educativi. Egli non avrebbe
probabilmente trovato tanto rivoluzionarie le teorie del positivismo, dello
scientificismo, dello storicismo, se tutte insieme queste nuove teorie non
avessero giusitificata l’esigenza di dare un nuovo sviluppo e un nuovo
orientamento alla scuola; se in altri settori della vita pubblica
quell’esigenza non si fosse collegata con necessità fatte sull’analfabetismo
non avessero messo l’accento sull’influsso che una struttura economica
arretrata aveva sulla scarsa efficienza della scuola. In questo legame l’A.
trova il punto più pericoloso delle nuove dottrine pedagogiche che segnavano il
tramonto di quello spiritualismo al quale egli si richiamava con nostalgia. Ad
esse attribuisce il fallimento scolastico italiano, richiamando gli educatori
ad una maggiore prudenza nell’accettare quel metodo positivistico che
82 Nel testo Studi Psico fisiologici (1896) riprese diverse scoperte
fatte in ambito sperimentale e ne valorizzò i meriti e la valenza pedagogica.
In più d’una occasione dovette difenderne l’importanza per la pedagogia da
quanti, come gli idealisti, ne contestavano il senso e l’utilità299. Tale
avvicinamento alla psicologia sperimentale gli costò la critica dell’idealista
Santamaria Formiggini che avversando l’ilemorifismo dell’A. vide nell’apertura
alla psicologia sperimentale un tradimento della realtà spirituale:300 D’altra
parte pare chiaramente inesatto il giudizio di Vidari che fa dell’A. un
osteggiatore della psicologia, sostenendo che il principio della personalità è
«anti-sperimentalista» e «anti – sociologico»301. Invece l’armonia tra il
materiale e lo spirituale, il loro “accordo”, era proprio ciò a cui A. puntava.
Le due discipline, psicologia e fisiologia, non dovevano essere confuse ma ben
distinte nel comune studio sull’uomo. Scrive a proposito: «La psicologia si
trova in intimo contatto colla fisiologia, ma ciascuna di queste due scienze va
distinta dall’altra, perché la prima ha per oggetto suo proprio la mente co’
suoi fenomeni psichici, la seconda l’organismo corporeo colle sue funzioni
vitali; e tuttavia sono unite insieme da quel medesimo vincolo, che congiunge
nell’uomo l’anima razionale ed il corpo organico, e così unite costituiscono
l’antropologia»302. A causa di ciò A. non può essere considerato come un nemico
della psicologia sperimentale, ma contro quella che esclude la «natura
personale» nell’uomo. La critica del positivismo e del materialismo è connessa
a quella sull’evoluzionismo. A. fa notare come il darwinismo non sia una
necessaria conseguenza del positivismo, ciò è confermato dal fatto che non
fosse condivisa da autori come Auguste Comte o Stuart Mill. Nella Nuova scuola
pedagogica (1905) A. osserva: «La nuova scuola pedagogica annovera nel suo seno
alcuni seguaci dell’evoluzionismo darviniano, i quali accusano la distruggerà
il metodo dogmatico [in nota: G. A., L’indirizzo storico e sociologico della
pedagogia contemporanea, Torino, 1908]. Tutte le scienze che si valgono di
questo metodo e che inducono il fanciullo all’osservazione spregiudicata dei
fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno
non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che
rafforzano la fede» D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in
Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 221-223. 299 G. A., Il problema metafisico
studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, 14.
300 «Forse l’A. si lasciò trascinare nella sua vita dal desiderio di porre la
sua psicologia in maggiore armonia con le teorie scientifiche sull’emozione che
allora si diffondevano in seguito all’indirizzo di studi del Wundt; volle
dimostrare la possibilità di coordinare il suo sistema coi risultati della
scienza più moderna; ma naturalmente non poté riuscire bene nel suo intento,
perché l’eclettismo è il più difficile di tutti i sistemi» E. Santamaria
Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I,
gli spiritualisti, Roma, A. F. Formiggini, 1920, p. 281. 301 Vidari sostiene
che l’A. è contrario alla «psicologia fenomenistica, che è per la Pedagogia
rovinosa, negando essa il principio fondamentale della sostanzialità e unità
della Persona» G. Vidari, Giuseppe A., 8-9. 302 G. A., Appunti di
Antropologia e Psicologia, 26. 83 vecchia pedagogia di posare sopra una
psicologia astratta e dualistica, per cui mancava di salde basi scientifiche,
adoprava un metodo puramente soggettivo ed astratto e toglieva di mezzo ogni
raffronto tra i fenomeni psichici dell’uomo e quelli degli animali. Tutte
queste accuse presuppongono che l’evoluzionismo, a cui si appoggiano, sia una
verità scientifica rigorosamente dimostrata, ma cadono l’una dopo l’altra,
dacché il Darwinismo è una mera ipotesi sostenuta da pochi pensatori, che lo
scambiano per un teorema scientifico dimostrato. Anche riguardato come una pura
ipotesi bisognevole di conferma, l’evoluzionismo è ben lontano dallo adempiere
i difetti ingiustamente attribuiti alla pedagogia filosofica e rinnovare di sana
pianta la scienza educativa nelle sue basi, nel suo metodo, nelle sue attinenze
sociali»303. In tale testo conferma una considerazione fatta già nel 1874:
«L’alterazione della specie sostenuta da Darwin è una mera ipotesi, che va ogni
di più perdendo valore e seguaci»304. Di certo la previsione è risultata
sbagliata. Tuttavia, il fatto che A. considerasse la teoria dell’evoluzionismo
come una probabilità appare giustificabile sulla base delle conoscenze
scientifiche e delle prove addotte dal darwinismo alla fine dell’Ottocento. Va
peraltro tenuto conto che la critica dell’A. fu abbastanza superficiale e
incentrata su questioni filosofiche più che scientifiche (non ne aveva gli
strumenti). L’idea che il pedagogista vercellese difendeva era comunque la
stessa, l’irriducibilità dell’uomo alla natura. Nel testo L’uomo e la natura
(1906) si interroga: «possiamo noi ammettere che la specie umana abbia avuto
origine dalla materia universale diffusa nello spazio per via di una lenta e
progressiva trasformazione degli organismi viventi? Lo asseriscono i seguaci
dell’evoluzionismo materialistico, ma non lo hanno mai dimostrato seriamente né
punto, né poco; né dimostrare lo possono perché nemo dat, quod non habet, e la
materia bruta primitiva non racchiudeva certamente in sé il germe di quella
sublime razionalità, che è il carattere costitutivo della specie umana. Carlo
Vogt nelle sue Lezioni sull’uomo si sbraccia a dimostrare, che le diverse razze
umane originarono dalle differenti famiglie di scimmie, ma ristrinse tutto il
suo esame alla morfologia del cranio umano raffrontato con quello scimmiesco, e
non disse verbo delle facoltà mentali proprie dell’umanità: che veramente
avrebbe avuto un disperato partito per le mani, se avesse preteso che la
mentalità dell’uomo è sbocciata dalla brutalità della scimmia»305 Stando all’A.
il positivismo non è perdente solo sul piano teoretico. È la vita a condannare
questo sistema. Nell’introduzione degli Studi Pedagogici, A. riprende il 303 G.
A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 12. 304 G. A., Della
vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, 10. 305 G. A.,
L’uomo e la natura, 10. 84 romanzo di Dickens, Duri tempi per
questi tempi, e cita diversi brani al fine di mostrare la confusione a cui
porta il positivismo nella vita reale, infatti è inevitabile che venga svilito
il compito dell’educatore, svalutata l’immaginazione, sminuito il sentimento e
l’amore. Il positivismo soffoca l’esistenza. Anche se A. ricorda che «il cuore
è tal forza che più di ogni altra della natura scoppia irresistibile quanto più
lungamente e violentemente repressa»306, il positivismo conduce inevitabilmente
alla «ruina e lo sfacelo della vita domestica e sociale»307. A. contesta anche
le posizioni positivistiche sulla scuola. Critica Comte che impone alle prime
classi un quadro orario composto quasi esclusivamente con materie matematico
scientifiche, sminuendo quelle umanistiche. Nonostante le critiche A. riconosce
alla nuova pedagogia anche dei meriti308. Uno degli apporti importanti del
positivismo è stato quello di riavvicinare la scienza pedagogica all’analisi e
all’osservazione degli aspetti empirici dell’educazione. Comunque se A. dopo
gli anni ’70 risultava preoccupato per l’avanzata del positivismo, alla fine
della sua carriera ebbe occasione di esultare per la sua decadenza. A. poteva
scrivere che «Il positivismo pedagogico attraversa una grandissima crisi e va
via via smarrendosi in mezzo a diversi e contrari indirizzi. La mancanza
assoluta di critica, la cieca fidanza si sé, il dogmatismo sostituito al
ragionamento ed alla discussione, la noncuranza delle dottrine contrarie, il
disprezzo della tradizione, tolgono a questo sistema ogni efficacia scientifica
e segnano il suo decadimento»310. 306 G. A., Studi pedagogici, «Nessuno mai, che abbia fior di senno,
rigetterà siccome sciupato, fallito e contrario al vero tutto il lavoro della
nuova scuola pedagogica. Anch’essa ha le sue parti buone e commendevoli accanto
alle malsane e morbose; ha messo in bella luce alcuni punti, che non erano
stati sufficientemente lumeggiati; ha posto in rilievo alcuni fatti educativi
mediante un’analisi sottile ed accurata; ha dato un nuovo impulso
all’educazione fisica ed alla coltura del pensiero; ma il principio
fondamentale, su cui essa posa, è radicalmente sbagliato; epperò tutte le
verità, che essa contiene nella sua dottrina, non le può logicamente ammettere,
se non a condizione di rigettare il suo principio supremo, mentre la pedagogia
filosofica le può accogliere tutte quante, perché rientrano nel principio che
le è proprio» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, «Il
positivismo (sarebbe ingiustizia il disconoscerlo) ha recato non poco
giovamento agli studi antropologici coll’averli ritirati dalla via
dell’incompiuto ed esclusivo metodo trascendentale dell’antica scuola e
condotti su quella dell’osservazione e della storia; ma è solenne errore quel
suo fermarsi alla nuda osservazione dei fatti e delle loro leggi senza punto
assorgere allo studio delle origini, della natura e della destinazione
dell’uomo che è causa efficiente e ragione spiegativa di quei medesimi
fatti.”309 Osserva ancora: “Certamente dimostrerebbe ingiusto verso la nuova
scuola chi le negasse il merito di avere efficacemente contribuito
all’incremento della scienza pedagogica; ma dall’altro lato è giuoco – forza
riconoscere, che nel corso delle sue indagini ha passato sotto silenzio
argomenti e problemi pedagogici di altissimo rilievo» 27. 310 G. A.,
Opuscoli pedagogici, 6. 85 Concludendo, si può rilevare come A. abbia
scovato nelle critiche al positivismo e all’idealismo un errore comune.
Entrambe mancano infatti di realismo, e riducono sia il campo dello scibile che
quello dell’esistente Il contributo alla storia della pedagogia Gli studi di
storia della pedagogia costituiscono una parte cospicua nella produzione di A.,
che nella sua lunga carriera si è occupato di diversi periodi, che vanno dalla
pedagogia antica greca e romana, all’itinerario della riflessione europea tra
il XVIII e il XIX secolo, alla storia dello spiritualismo italiano.
L’importanza data agli studi storici è inoltre confermata dal fatto che i testi
in cui A. espone il “suo” sistema pedagogico e filosofico sono lavori di storia
della pedagogia, vale a dire i Saggi filosofici, gli Opuscoli e Il problema
metafisico. Tra le opere più importanti vi è il già citato Del positivismo in
sé e nell’ordine pedagogico (1883), che non si limita ad una critica sui
contenuti ma riprende con precisione lo sviluppo delle teorie pedagogiche di
Comte, Spencer, Bain. Sulla stessa corrente, è particolarmente significativo il
testo La psicologia di Herbert Spencer: studio espositivo-critico (1898). Al
contributo della pedagogia svizzera dedica il libro: Delle dottrine pedagogiche
di E. Pestalozzi, A. Necker de Saussure, F. Naville e G. Girard (1884). Un
altro testo importante è Delle idee pedagogiche presso i Greci (1887). Nel 1901
pubblicò La pedagogia italiana antica e contemporanea in cui in un capitolo è
riportato un testo pubblicato quaranta anni prima: Della pedagogia in Italia
dal 1846 al 1866 (1867). Negli Opuscoli pedagogici (1909) presenta saggi su
l’Helvetius, Gerdil, Jacotot, Kant, Herbart, Blackie ed altri. Importante anche
lo studio sul fondatore della pedagogia moderna, G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista (1910) e l’ultima opera che rappresenta il testamento pedagogico
dell’A.: Giobbe e Schopenhauer (1912). Un altro importante contributo fu la
traduzione e l’introduzione della Levana di Richter, e lo studio su Maine de
Biran e la sua dottrina antropologica (1895). 311 Sui punti in comune delle due
teorie scrive: «Queste due specie di umanismo filosofico hanno due punti comuni
in cui convengono, ai quali corrispondono due punti di discrepanza, in cui esse
differiscono. Anzi tutto entrambe concordano nel proclamare l'autonomia
illimitata del pensiero umano, che nulla più riconosce oltre di sè: da ciò poi
che l'attività del pensiero si spiega e come ragione avente per oggetto il
mondo soprasensibile, immutabile ed assoluto delle essenze, e come esperienza
la quale coglie il mondo sensibile, mutabile e relativo de' fenomeni, ne viene
una ragion soggettiva per cui l'umanismo filosofico si specifica in
razionalismo assoluto ed in empirismo universale. Ancora, esse convengono nel
proclamare il moto indefinito delle cose e delle idee, mercè il quale l’uomo,
disertando il posto segnatogli dalla propria natura, o si faccia identico con
Dio, che gli sovrasta, trasumanando, o si confonda colla materia che gli soggiace.
disumanandosi; e di qui una ragione oggettiva, per cui l'umanismo differenziasi
in antropoteismo ed in naturalismo» G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita,
9-10. 86 Uno dei periodi più studiati dall’A. fu la pedagogia del
XIX secolo. Nel testo Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi,
Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, (1884),
innalza la scuola svizzera come un momento importante per l’intera scienza e
storia della pedagogia, una scuola che seppe integrare le spinte della
modernità con una prospettiva antropologica spiritualista. Un altro testo molto
significativo è il già citato Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866
(1867). Questo saggio ripercorre con precisione lo sviluppo della cultura
pedagogica e della legislazione scolastica in Piemonte e in Italia, in un
decennio decisivo per la costruzione della scuola italiana. Commentando questo
saggio Gerini ha scritto: «La monografia, composta per incarico del Ministro
della P.I., è il primo saggio di storia pedagogica scritto in Italia, che sarà
sempre consultato da quanti vorranno conoscere il nostro risorgimento
educativo»312. Dello stesso avviso anche Arcomano, che commenta: «È una
rassegna delle situazioni, delle attività e delle opere del ventennio 1846-1866,
in fatto di istruzione ed educazione, e si può considerare un capolavoro di
chiarezza nella interpretazione degli avvenimenti e nella presentazione delle
idee che circolavano»313, anche se poi rileva come il testo è forse troppo
concentrato sulla realtà subalpina. Il testo ebbe vasta eco nel dibattito
pedagogico, lo troviamo spesso citato in opere di altri autori314, abbastanza
rare sono le critiche315. In questo saggio A. esalta i protagonisti di quella
stagione come Vincenzo Troya, Agostino Fecia, Vincenza Garelli, Carlo
Boncompagni. Riprende poi tutte le discussioni sulla riforma della scuola, e
trova nell’esperienza pedagogica del Piemonte e della Toscana nella metà dell’Ottocento
i due laboratori della nuova scuola e della nuova pedagogia. È molto significativo
il peso dato dall’A. alla «Società pedagogica» e anche alle riviste del tempo.
Questo testo, contribuì a dimostrare come fosse solo un mito l’idea
propagandata dai positivisti secondo la quale la pedagogia precedente alla loro
non avesse avuto nulla da dire. A. fa risaltare la pedagogia spiritualista
risorgimentale e quel clima di liberalismo educativo che sarà tradito e
defraudato dalla statolatria e dal positivismo. 312 G. B. Gerini, La mente
di Giuseppe A., 44. 313 A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed educazione in
Italia (1860-1873), 56. 314 Cfr. C. Uttini, Nuovo compendio di pedagogia e
didattica: ad uso delle scuole e delle famiglie, Torino, Libreria scolastica di
Grato-Scioldo, 1884, p. XIV. 315 Si vedano per esempio gli appunti negativi di
Vidari: «Abbastanza buono per la parte della pedagogia contemporanea è il
Saggio dell’A., il quale porta in esso il contributo delle sue proprie memorie
e impressioni; ma anche qui il senso della vita storica, cioè della interiore
unità onde si collegano nel loro svolgimento le dottrine, è quasi del tutto
assente, e invece prevalgono le preoccupazioni personali dell’autore» G.
Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, 4.
87 Senza dubbio lo studioso può essere considerato uno tra i primi
storici della pedagogia italiana, e non solo per il numero dei lavori
pubblicati, ma anche per la teorizzazione dell’ambito disciplinare e delle
metodologie di ricerca. A. espone il suo pensiero circa il fine e il metodo
della Storia della pedagogia nel breve opuscolo Concetto generale della storia
e della pedagogia (1901), anche se accenna a tale questione in diversi altri
saggi. Nel lavoro citato, parte dalla considerazione dell’educazione come fatto
e concetto comune. La pratica e la teorizzazione educativa sono
imprescindibili, e la scienza pedagogica si sviluppò sotto la spinta di voler
vedere perfezionata l’arte educativa. In questo senso continua: «La necessità
di una scienza pedagogica emerge dal difetto inerente all’inconscia educazione
naturale, e quindi dall’insufficienza del suo concetto»316. Egli rivendica uno
statuto epistemologico propria alla storia della pedagogia, che distingue tanto
dalla pedagogia in sé, che dalla storia dell’educazione. In questa direzione
critica Paroz che nella Histoire universelle de la Pédagogie non separa le due
discipline317. A. distingue anche la storia dell’educazione in generale, vale a
dire i tratti tipici dell’educazione e la sua storia universale, dalla storia
dell’educazione di una particolare tradizione o società318. Nei suoi studi
richiama l’importanza della precisione storiografica ed uno studio approfondito
delle fonti. In particolare rimarca come la storia dell’educazione debba
essere: ordinata, veridica, ragionata, compiuta. Chiede di riferirsi sempre a
«fonti accurate e sicure»319. Uno degli aspetti innovativi dei lavori dell’A. è
il peso dato allo studio del contesto e della personalità dell’autore320. 316
G. A., Concetto generale della storia della pedagogia, 1. 317 «La storia
dell’educazione ha per ufficio suo proprio di esporre le diverse forme, che
prese l’educazione presso i diversi popoli antichi e moderni; per contro la
storia della pedagogia espone le origini e lo sviluppo di questa scienza
attraverso le dottrine, i sistemi, le teorie de’ pensatori, che la coltivarono.
[...] Per certo queste due specie di storie sono fra di loro congiunte da
intime attinenze e si lumeggiano a vicenda, ma la loro distinzione va tenuta in
conto per non confondere due ordini di cose affatto diversi, quali sono le idee
pedagogiche de’ pensatori e le azioni educative degli istitutori» 3. 318 «La
storia dell’educazione, riguardata rispetto alla sua estensione, viene a
diversi in universale, particolare e singolare. La storia universale si estende
all’educazione di tutti i tempi dai più remoti ai contemporanei, di tutti i
popoli e barbari e civili, e antichi e moderni. La particolare comprende un
periodo storico generale, quale sarebbe la storia dell’educazione antica, o
parte di un periodo storico, come ad esempio la storia dell’educazione dal 1500
a noi. In entrambi i casi abbraccia l’educazione presso tutti i popoli
ristretti però ad un tempo determinato. È altresì particolare quella, che
espone l’educazione di una nazione considerata o in tutta la durata della sua
esistenza (quale l’educazione presso i romani) o in uno de’ suoi periodi
storici (quale l’educazione dei romani nel periodo repubblicano). Infine è
singolare, se si restringe o ad un dato secolo (come la storia dell’educazione
ai tempi della rivoluzione francese), o ad un Istituto educativo, quale
l’Istituto pitagorico o l’Istituto educativo di Vittorino da Feltre; ed allora
piglia più propriamente nome di monografia storica» 3-4; 319 4. 320 Già in uno
dei primi saggi esponeva con chiarezza tale principio: «La critica ha da
descrivere la genealogia del genio speculativo; ha da seguirlo in tutto il suo
periodo evolutivo ricordando i sentieri e le vie riposte per cui è passato
prima di giungere al suo ideale definitivo; ha da studiare il movimento speculativo
dell'epoca in mezzo al quale si svolse; ha da sceverare nelle pagine della
storia le idee di cui ha elementato il proprio sistema e significare come
queste nel proprio sistema s'intrecciarono e vi ricevettero un'impronta
peculiare e sistematica. Tale è l'ufficio narrativo della critica. Oltre a
tutto questo, apprezzare nel suo giusto 88 Come la storia
dell’educazione, anche la storia della pedagogia si può dividere in generale e
particolare. Il suo fine non si limita ad una narrazione asettica della riflessione
educativa, ma trova il suo senso nella valutazione delle teorie pedagogiche
rispetto all’autentica scienza pedagogica. Scrive A.: «Da queste generali
considerazioni intorno al come si forma e si va svolgendo la pedagogia emerge
da sé il concetto della sua storia, la quale apparisce una ordinata e razionale
narrazione dello svolgimento progressivo della scienza pedagogica attraverso i
tentativi fatti dai pensatori di tutti i tempi e luoghi a fine di determinare
l’ideale tipico dell’umana scienza»321. In particolare, sono significativi
alcuni brani presenti negli Studi pedagogici (1889)322 e ne La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti (1905)323, in cui mostra come lo scopo
dell’approfondimento storico è strettamente connesso al fine della scienza
pedagogica. L’A. sostiene che l’educazione possa essere studiata o nel suo
svolgimento pratico o da un punto di vista speculativo. La pratica educativa
può essere di tre tipi: quella che normalmente le persone attuano, quella di
una determinata società, e la vera arte di educare. Come l’educazione, anche la
teoria pedagogica sembra connaturale alla vita umana. Per tale motivo in ogni
epoca l’uomo si è fatto un’idea circa il miglior modo di educare. Così, secondo
A., esistono tre tipi di teorie pedagogiche: la pedagogia volgare, quella del
singolo pensatore, e la scienza pedagogica. Il compito della storia della
pedagogia quello di individuare il differenziale tra quanto pensato in passato
e la scienza pedagogica. La storia ha così un valore fondamentale della
riflessione pedagogica, poiché propone agli studiosi interlocutori di vaglia,
anche sé A. ricorda di distinguere la scienza dalla storia324. Il seguente
brano ben lumeggia la distanza tra ciò che si è pensato e la scienza: «Fu detto
che la storia universale è tutta una congiura contro la verità: nell’ipotesi
che stiamo valore il punto iniziale da cui un sistema piglia le mosse, il
processo a cui s'informa il suo sviluppamento, il termine finale in cui si è
chiuso; pronunziare se nella storia del pensiero speculativo esso segni un
periodo di sosta o di progresso; giudicare se il problema filosofico sia stato
concepito in tutta la sua integrità e giustezza, e risoluto a dovere; epperò se
siano state convenientemente satisfatte le esigenze del pensiero spéculativo
senza punto disconoscere i pronunziati universali della sapienza comune, anzi
armonizzandoli colle conclusioni della ragion filosofica: ecco l'altro ufficio
della critica che discute» G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 18. 321 G.
A., Concetto generale della storia della pedagogia, 6. 322 G. A., Studi
pedagogici, 28-31. 323 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi,
Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, 7. 324 «I
cultori della pedagogia trovano nella storia una saggia maestra, che additando
gli errori dei pensatori che li precedettero, da un lato, e dall’altro le
verità da essi scoperte e lumeggiate, li consiglia a procedere ammisurati e
guardinghi nei loro tentativi, li anima e li sorregge all’amore ed alla
conquista del vero, ed allarga l’orizzonte del loro pensiero. Riconoscendo
l’utilità e l’importanza della storia della pedagogia, guardiamoci però
dall’ingrandirla oltre il convenevole.» G. A., Concetto generale della storia
della pedagogia, 8. 89 discutendo, bisognerebbe ripetere, che
anch’essa la storia della pedagogia è tutta una congiura contro la scienza
pedagogica»325. Nel stesso saggio critica il Siciliani e il suo testo Storia
critica delle teorie pedagogiche nel quale sostiene che la scienza pedagogica
si fonda sulla esperienza storica dell’educazione326. Se per Siciliani la
scienza pedagogica è frutto di evoluzione, per lo spiritualista A. la «vera»
scienza pedagogica è una, e ad essa ci si può avvicinare o allontanare. Entra
poi in merito a come si fa la storia della pedagogia. Spesso si è costretti a
raccogliere le «idee slegate e frammentate» in opere non propriamente
pedagogiche, scovando le «teorie particolari intorno a qualche punto di
educazione, o sia che esse formino un tutto da sé distinto da ogni altro, o sia
che giacciano implicata ed involte in opere di altra natura», ma anche «i
trattati che abbracciano un compiuto sistema pedagogico, dove l’educazione è
contemplata in tutta l’integrità del suo organismo, quali ce ne porge in copia
moderna». Bisogna quindi studiare le opere dell’autore, i frammenti della sua
opera presente in altri autori, la tradizione su di lui. «Gli scritti originali
di un pedagogista sono essi soli le vere fonti, da cui si attinge limpida e
netta la sua dottrina, mentre i frammenti registrati nelle opere di altri
scrittori, e la tradizione scritta od orale, anziché fonti, sono rivi più o
meno puri». Dai suoi scritti occorre innanzitutto cogliere in concetto centrale
di un autore, cercandone poi le cause. Occorre comunque valutare la pedagogia
degli autori studiati: «Ma il compito più elevato, più grave e ad un tempo più
arduo della critica storica risiede nel cernere nelle esposte dottrine la parte
vera dalla erronea, la certa dall’incerta ed opinabile, l’elemento soggettivo,
particolare, relativo, dall’oggettivo, universale, assoluto, che solo può passare
nel dominio della scienza pedagogica»327. Lo storico dovrà stare attento ad
ancorarsi sempre alla scienza pedagogica328. In conclusione sintetizza così il
compito dello storico della pedagogia: «Ai quattro uffici propri della storia
pedagogica ora accennati fanno natural corrispondenza quattro distinte e
successive forme speciali, che essa può rivestire nel suo progressivo sviluppo.
La storia della pedagogia rintraccia primamente i materiali, che entrano a
comporla, ed in questo suo primo studio riveste la forma di memorie e
frammenti. Poi si accinge ad esporre e descrivere le raccolte dottrine, e qui
assume la forma di cronaca, alla quale succede la forma di storia propriamente
detta, 325 9. 326 10. 327 15. 328 «Lo storico deve scansare due estremi; da un
lato la troppa fidanza di sé ed il cieco immobilismo nelle proprie idee,
dall’altro l’incostanza e la volubilità del pensiero, a cui potrebbe essere
trascinato dallo spettacolo di tanti sistemi diversi e contrari» 16.
90 che corrisponde all’ufficio etiologico od inquisitivo, finché
s’innalza alla sua più perfetta forma, quale è la filosofia della storia, che
risponde all’ufficio critico e speculativo»329. Il senso della Storia della
pedagogia ha appunto lo scopo di rilevare il differenziale presente sia tra i
modi che le popolazioni che ci hanno preceduto avevano di educare in confronto
con la vera arte di educare, sia il confronto tra le varie teorie pedagogiche e
la vera scienza pedagogica. Osserva A.: «Quindi ancora ne consegue, che introno
al medesimo oggetto conoscibile (ad esempio intorno l’essenza dell’educazione,
od al suo fine, od alle sue leggi) possono darsi e si danno di fatto molte
teoriche, e quel che è più le une dalle altri discordi ed avverse, mentre una
sola è la scienza e sempre a se stessa concorde, perché una sola è la verità,
in quella guisa che nell’ordine geometrico tra due punti dati non può correre
che una sola linea retta, mentre di linee curve se ne possono condur chi sa
quante». Il senso della Storia della pedagogia è analizzare i sistemi
pedagogici confrontandoli con la vera scienza pedagogica. Dunque: «La storia
de’ sistemi pedagogici è sostanzialmente la storia de’ tentativi felici od
infelici, retti o traviati, fatti dai cultori dell’arte educativa per giungere
al Vero siccome fondamento di essa; per lo contrario la storia della scienza
pedagogica è la storia della Verità educativa riguardata nel suo progressivo
esplicamento»330. Sulla base di questa prospettiva, i numerosi studi di storia
della pedagogia di A., sono un dialogo rispetto a determinati principi
pedagogici con gli autori trattati, più che un’esposizione oggettiva del loro
pensiero. Lo studio della storia della pedagogia secondo A. può condurre a una
migliore comprensione dell’educazione e a quei tratti unici e particolari che
la caratterizzano. Per tale ragione nelle sue ricerche spesso trova degli
spunti per confermare alcune delle sue tesi o muove critiche agli altri sistemi
pedagogici, in primis ai già citati positivisti. I testi sono dunque
ripetutamente accompagnati da valutazioni personali, commenti, paragoni, e non
pochi giudizi sferzanti. Ha scritto puntualmente Vidari «Si comprende da tutto
questo come l’A. nei suoi studii di storia delle dottrine antropologiche e
pedagogiche fosse guidato e mosso più che dal proposito di comprenderle nel
loro processo di formazione, di inquadrarle nel momento storico a cui
appartennero, di seguirle nei loro sviluppi, nelle loro irradiazioni e
conseguenze, da quello piuttosto di saggiarle e 329 16. 330 G. A., Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, 6. 91 giudicarle in rapporto a quei
principi fondamentali di scienza dell’educazione, che egli andò illustrando in
tutto il resto della sua produzione filosofica»331. Dalle posizioni prese di
fronte al «laboratorio della storia della pedagogia» si precisa ancora meglio
il sistema pedagogico di A.. Forse anche per questo la lettura di questi testi
aiuta a cogliere il cuore e le preoccupazioni pedagogiche dell’A.. Il tema
principale su cui A. si confronta è per la maggior parte legato a prospettive
antropologiche e alle loro conseguenze in campo educativo e scolastico.
Giustamente Valdarnini osserva: «qual criterio adotta l’A. per giudicare della
verità o della falsità delle dottrine di cui è intessuta la storia della
Pedagogia? Questo: il sentimento e il concetto della dignità propria della
specie umana»332. Da Seneca a Rousseau ciò che l’A. valuta è quale l’idea di
uomo essi comunicano e difendono. Ma tale prospettiva ha secondo alcuni
studiosi portato a esiti negativi. La Quarello, ad esempio, critica il fatto
che certi giudizi storici siano «troppo soggettivi»333 e fa notare che alcune
valutazioni dell’A. partono «talora da “presupposti dommatici” più che da
dimostrazioni convincenti»334. Tra le altre, critica la scarsa considerazione
data al Kant della Critica della ragion pratica. Di un’idea contraria è Vidari
quando osserva che «alcune delle osservazioni critiche che l’A. muove alla
dottrina morale di Kant, per quanto non nuove, sono giuste e fondate»335. Come
già accennato, sempre stando alla Quarello, A. non avrebbe colto il contenuto
della filosofia di Hegel, riducendo la portata dello Spirito e dell’Assoluto
hegeliano336. Tra gli altri, il principio della libertà d’insegnamento è uno
dei criteri con cui valuta le teorie pedagogiche. Nel testo Delle idee
pedagogiche presso i greci la questione della libertà d’insegnamento decide
della divisione degli autori. A. affronta prima Pitagora e Socrate, che sono
considerati i difensori di un’educazione libera, e poi Senofonte, Platone e
Aristotele, che considera difensori di una visione spartana e statolatrica
dell’educazione. Affrontando tali autori esprime la sua idea di educazione e di
libertà. Scrive: «Plutarco non separa la famiglia dallo Stato, né la confonde
con esso. Per lui la famiglia non è solo un grado della gerarchia dello Stato,
ma un centro, che ha uno sviluppo suo proprio. 331 G. Vidari, Il contributo di A.
alla Storia della Pedagogia, «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 689. 332 A.
Valdarnini, A.storico della pedagogia, in Vita e mente di Giuseppe A., cit.,
1913, p. 56. 333 V. Quarello, G. A., Studio critico, 124. 334 124. 335 G.
Vidari, Il contributo di A. alla Storia della Pedagogia, 692. 336 V. Quarello,
G. A., Studio critico, 128-129. 92 L’educazione, senza punto
dimenticare di preparare il fanciullo a divenire buon cittadino, ha sovra tutto
per compito suo di formare in lui l’uomo mercè il culto della famiglia»337.
Sugli «avversari» della libertà scrive invece: «Platone aveva confuso la
famiglia collo Stato fino ad introdurre il Governo nei penetrali del santuario
domestico, e colla famiglia anch’esso l’individuo veniva assorbito nella
comanza politica. Aristotele giunse a distinguere la famiglia dallo Stato, ma
il suo pensiero su questo grave argomento mostrasi perplesso ed oscuro, tant’è
che l’uomo in sua sentenza non è tale, perché persona individua, perché padre o
marito, o figlio, ma perché cittadino»338. Un altro brano su Platone mostra la
pertinenza tra il concetto di persona e quello della libertà d’insegnamento, e
come la perdita del primo faccia necessariamente scivolare nello statalismo:
«Il massimo e capitale errore, che falsa la politica e conseguentemente la
pedagogia di Platone e scorre e s’inviscera in tutte le parti della sua teoria,
questo è di avere sacrificato l’attività personale dell’individuo
all’onnipotenza dello Stato, di avere assorbito l’uomo nel cittadino. La
dottrina politica di Platone è un esplicito socialismo governativo: l’individuo
esiste e vive in servigio esclusivo dello Stato, è niente più che una molla, un
ordigno del gran meccanismo sociale, giacché nell’assoluta ed oppressiva unità
della comunanza politica si perde ogni libertà personale. Epperò l’educazione
riesce essenzialmente ed onninamente politica, mentre dovrebb’essere primamente
e sostanzialmente personale: l’umana persona, spogliata della sua dignità
finale, viene educata come semplice mezzo e strumento della civil società»339.
Concludendo la parentesi greca scrive: «Lo Stato adunque non prevale
sull’individuo, bensì gli sottostà come effetto della sua cagione; e quando
Aristotele a sostenere la supremazia naturale dello Stato sulla famiglia e sui
singoli uomini osserva, che il tutto trionfa sulla parte, perché distrutto
quello, anche questa vien meno, possiamo ritorcere il suo argomento contro di
lui avvertendo che la parte congregandosi con altre parti, forma essa il tutto,
e se quella scompare, anche questo ruina. In una parola non l’individuo è fatto
per lo Stato, bensì lo Stato è fatto per tutti e per ciascuno, epperò
l’educazione debb’essere umana e personale, prima che politica e civile»340 In
alcuni punti le valutazioni dell’A. sono decisamente esagerate. Nel testo su
Giobbe e Schopenauer apre una parentesi molto sommaria contro il popolo
ebraico341, rasentando il razzismo. In altre occasioni il suo giudizio è
palesemente sproporzionato. 337 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci,
163. 338 162. 339 131-132. 340 148. 341 G. A., Giobbe e Schopenhauer,
36-37. 93 Come quando nell’introduzione al lavoro su Delle idee
pedagogiche presso i greci (1887) osserva «Pitagora e Socrate ci appariscono
gloriosi campioni di una pedagogica, che si muove libera di sé, franca da ogni
ressura governativa, sorretta da un ideale divino, che consacra la persona,
santifica il dovere, suggella l’immortalità della vita personale. Platone ed
Aristotele ci si mostrano fautori dello Stato educatore, che disconoscendo ne’
singoli uomini la dignità della persona individua, trae con sé a perdimento
tutta la Grecia»342. Anche Santamaria Formiggini contesta all’A. la scarsa
precisione su taluni lavori, in particolare fa riferimento agli studi su
Rousseau ed Herbart. Inoltre sostiene che l’A. non riuscì a «penetrare
oggettivamente nel pensiero degli autori che studia e che critica»343. Però poi
ammette che «Come pedagogista egli lascia a grande distanza gli altri per la
larga informazione storica, che è uno degli elementi essenziali per la trattazione
ponderata ed illuminata delle questioni educative, è condizione per un vero
progresso delle teorie. Egli può considerarsi veramente uno dei primi
pedagogisti che abbiano indirizzato gli studiosi italiani a mettere in
raffronto e in rapporto i loro studi con i risultati del pensiero pedagogico
straniero, perché dai confronti scaturisca più viva e più nuova la verità,
perché si evitino ripetizioni di teorie discusse e superate»344. Oltre ad
imprecisioni, i lavori dell’A. risultano approfonditi e curati. Lo studio su Rousseau
criticato dalla Formiggini, è ricco di riferimenti bibliografici ma soprattutto
offre una chiave di lettura molto interessante del pensatore ginevrino non
temendo di evidenziarne i pregi, ma anche le contraddizioni, le ambiguità e i
rischi. Non pensiamo di essere lontani dal vero affermando che nonostante la
sterminata bibliografia sull’autore dell’Emilio, il libro di A. risulta ancora
oggi ricco di spunti e di considerazioni. Il merito di A. come storico della
pedagogia emerge ulteriormente se paragonato ai lavori coevi di storia della
pedagogia, dai quali si distanzia per riferimento alle fonti e immedesimazione.
Senza dubbio si può affermare che A. può essere considerato uno tra i primi
storici della pedagogia italiani. I. 8. La scuola educativa 342 G. A., Delle
idee pedagogiche presso i greci, II. 343 E. Santamaria Formiggini, La pedagogia
italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I, gli spiritualisti,
12. 344 322-323. 94 Nel corso della sua carriera, A. diede ampio
spazio alla riflessione sulla scuola, cui attribuiva un ruolo decisivo per il
destino delle nazioni345. Se riferimenti e accenni su questioni scolastiche
sono disseminati in molti dei suoi libri, in un saggio del 1904, La scuola
educativa, è presente una sistematizzazione più articolata e completa delle sue
posizioni. Riflettendo sulla funzione di questo istituto, A. racchiude le
questioni più importanti del problema in quattro semplici domande: «1° in
servizio di chi è ordinata la scuola? 2° a chi spetta il diritto di governarla?
3° in quale giusto rapporto deve serbarsi colla famiglia e colla società? 4°
come debb’essere organata l’educazione e l’istruzione nella scuola?»346. A. è
convinto che l’autentico e principale scopo della scuola sia lo sviluppo
perfettivo della persona nella sua totalità. Caratterizzata da una appassionata
ricerca della verità e del bene dell’alunno347, auspicava fosse animata da un
vero «culto della personalità dell’alunno»348. Contro il determinismo di certa
didattica, sosteneva l’idea di una scuola in cui il rispetto della vera libertà
potesse divenire il fine e lo stile della vita educativa349. Su queste
prospettive invocò una convergenza dell’istruzione e dell’educazione, che
dovevano coabitare e collaborare in vista di uno sviluppo integrale della
personale350. La conoscenza e l’educazione, dovevano potenziarsi a vicenda. In
questo senso considerava l’istruzione anche come un aspetto necessario per la
formazione solida del carattere351. 345 «La casa dunque, il tempio, la scuola
sono i tre grandi centri dell’umana coltura, i tre solenni convegni sacri alla
comune educazione. La scuola segnatamente apparisce il santuario del sapere, il
tirocinio della vita sociale, il vivaio della civiltà; epperò essa racchiude
nelle sue modeste pareti le sorti di un popolo e collo splendore o
coll’oscuramento del suo ideale segna i giorni di grandezza o di decadenza di
una nazione. Dall’importanza massima della scuola agevolmente si misura la
necessità di formarcene un concetto adeguato e verace, che risponda al suo intimo
organismo ed al suo ideale» G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 68.
346 69. 347 «La scuola è luogo sacro al culto del Vero e del Buono, ciò è dire
è il santuario della sapienza, essendochè questa congiunge in sé il lume
speculativo della scienza e la pratica onestà della vita. Oggidì il carattere
educativo della scuola è misconosciuto. La scienza ha cacciato fuor della
scuola la virtù e la divinità. Si è consumato un divorzio tra l’istruzione
della mente e l’educazione del cuore. Istruzione in iscuola, educazione in
casa. Si aprono ogni dì nuovi edifizi scolastici per piantarvi l’albero della
scienza, senza badar più che tanto, se all’ombra dell’albero germogli e si
spieghi il fiore delle virtù domestiche, civili e religiose. Quest’eresia
pedagogica va ogni di più propagandosi, e minaccia giorni luttuosi alla
famiglia ed alla patria. La scuola (ripeto col Tommaseo) se non è tempio, è
tana; e quando mai fosse tana, dovrei ripetere col Rousseau: L’uomo che pensa,
è animal depravato. Gli è allora che la scuola diventa davvero un semenzaio di
socialismo, perché i giovani ne escono poi gonfi di borra enciclopedica, quanto
vuoti di ogni principio morale e religioso, e riversandosi nella gran società
diffondono la corruzione, che portano in seno, pretensioni, sprezzanti,
spostati, scontenti di tutti e di tutto, gittando qua e là il disordine e lo
scompiglio» 78. 348 70. 349 «Se l’alunno non è lui il primo educatore di se
medesimo, che spiega la personalità sua e la afferma spiegandola, gli altri
educatori persona la vera loro ragione di essere, perché non formano più una
persona, ma foggiano una macchina» 67. 350 G. A., Studi pedagogici, 65-67. 351
«Lo studio è un dovere, e dall’idea del dovere sorge appunto il carattere» G. A.,
La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, 92. 95 Uno degli errori maggiori
individuati da A. era quanto chiamava «enciclopedismo», vale a dire la
riduzione del ruolo della scuola a veicolo di nozioni da sommare nelle menti
degli allievi: «L’enciclopedismo (perché tacerlo?) è il verme roditore delle
nostre scuole, il cancro dell’educazione moderna»352. A. auspica che l’accumulo
di conoscenze si coniughi con lo sviluppo di uno spirito libero e creativo:
«L’enciclopedismo violenta, tortura, conquide, le potenze mentali del giovine:
la virtù intellettiva, che concepisce l’ideale, il sentimento, che lo accalora,
l’immaginazione, che lo colorisce, giacciono spossate»353. Il pedagogista
osservò come la scuola somigliasse sempre più «all’aria morta di una
biblioteca»354. Mancava quella spinta ideale che è invece propria
dell’educazione. A questa stortura del compito educativo, concorse un
traviamento del ruolo dell’insegnante: «Pur troppo si è ormai perduta di vista
questa gran verità pedagogica, che il maestro, segnatamente delle scuole
elementari e secondarie, debb’essere non solo l’insegnante, ma ben anco
l’educatore de’ suoi alunni, interessandosi delle loro persone, vegliando sulle
loro sorti, vivendo con essi la vita del cuore, come fa un padre, una madre co’
figli suoi»355. Da queste premesse, era convinto che il “cuore” degli educatori
fosse il ganglio vitale della pratica educativa e al contempo il discriminante
della sua efficacia356. A. si sofferma a considerare come l’insegnamento sia
un’azione propria della persona, ed espressione della sua specificità. Si
impara e si insegna con le parole, suoni che uniscono nel significato le
coscienze e le conoscenze dell’educatore e dell’educando. Poter capire
costituisce la superiorità dell’uomo sulle cose357. In questo senso, A.
sottolinea come: «Lo sviluppo dell’intelligenza è intimamente connesso colla
parola, la quale è un segno sensibile esteriore, che esprime un’idea»358. La
parola si impone così come 352 G. A., Opuscoli pedagogici, 14. 353 425. 354 G. A.,
Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, 250. 355 249. 356«Pestalozzi, Girard, De
la Salle furono grandi istitutori, perché furono grandi cuori, che sentirono la
santità del loro apostolato, e fecero di sé nobile sacrificio per loro alunni.
Senza cuore non si educa con dignità, non si ammaestra con verità, non si
impara con senno; e la scuola diventa essa stessa corpo senz’anima. Ed in
quella guisa che le istituzioni politiche anche ottime declinano, si disfanno e
finiscono, quando sono guaste dallo spirito settario, dall’ambizione sfrenata
dei reggitori, dal dispotismo sotto maschera di libertà, così gli istituti
scolastici anche meglio organati languiscono e cadono giù, quando nei
governanti che li dirigono e nei maestri che professano, sottentra
l’indifferenza e l’apatia, il mestierismo e la cupidigia del guadagno, la
vanità pretensiosa e lo scetticismo demolitore» in G. A., La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, 182-183. 357 G. A., Studi pedagogici, 102-107. 358 G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 44. 96 «necessità pedagogica», da indirizzare
verso l’educazione della persona359. Per tali motivi il fulcro della scuola è
la spiegazione360. La sua importanza è attestata, secondo A., anche dalle
difficoltà di relazione e di formazione dei sordo - muti361. Considerava un
grave errore pensare che la mera istruzione potesse bastare all’educazione:
«Che l’istruzione faccia colla educazione un’adequazione perfetta e si converta
con essa, è fatale errore, il quale trascina la società a distrette più
deplorande, che non quelle medesime dell’ignoranza e della rozzezza. L’uomo non
vive di sola conoscenza, ma ben anco di virtù e d’amore, perché alla potenza
dell’intendere accoppia la libertà del volere e la facoltà del sentire. Laonde
la scienza è sibbene una splendida manifestazione dell’umana essenza, ma non è
punto l’umanità tutta quanta: nell’immensa sfera dello svolgimento umano essa
tiene un posto luminoso, ma non il solo, né il più elevato, sottostando alla
vita morale e religiosa»362. Questa mancanza, era colta da A. soprattutto nella
scuola secondaria, dove lo sviluppo razionale e il prossimo approccio alla
vita, meritavano una relazione educativa e valoriale piena, e non solo limitata
all’istruzione: «La nostra scuola secondaria non educa, perché è tutta
nell’istruire: le materie di studio sono tenute estranee allo sviluppo del
sentimento morale e religioso. La cattedra non è un apostolato di civile e
morale insegnamento, ma di puro sapere: rilassati e pressochè spezzati i
vincoli tra la scuola e la famiglia, e maestri ed i discepoli». L’assenza di
un’educazione morale e religiosa, senza la quale lo sviluppo integrale della
persona era reputato da A. impossibile, fu variamente ripresa: «Questa
idolatria della scienza fa le sue tristissime prove nel campo della pubblica
istruzione; l’istruzione è come una gran fiumana che allarga il santuario della
scuola e caccia via la coltura morale e religiosa, come se vi fossero soltanto
teste da riempire, e non anco anime da ispirare, cuori da educare. Questa
specie di fanatismo per il culto del sapere è la piaga precipua, che vizia
oggidì l’organismo della pubblica educazione.»363 Due delle sue citazioni
preferite erano la celebre frase di Tommaseo: «La scuola se non è tempio, è
tana» e il motto socratico Non scholae sed vitae discendum. Oltre che culto 359
«La parola è pur anco una necessità pedagogica, perché vincolo essenziale, che
unisce le intelligenze e le volontà del maestro e del discepolo, dell’educatore
e dell’alunno, ma a tale riguardo occorre, che la parola del maestro sia luce
intellettuale piena d’amore, e che il discente non la riceva passivo, ma la
faccia ripensandola. Un insegnamento parolaio sciupa se stesso in un’intrinseca
contraddizione, essendochè appartiene all’essenza medesima della parola
l’ufficio di significare un’idea» 45. 360 «Il programma governativo è, per così
dire, l’embrione della materia d’insegnamento, il didattico ne mostra le
giunture, le articolazioni in forma di compagine, il libro di testo porge
l’organismo in carne ed ossa e polpa e sangue, la spiegazione del testo è la
vita, che circola per entro l’organismo» 103. 361 98. 362 G. A., L’educazione e
la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881,
6. 363 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 59. 97 della
verità, la scuola doveva infatti divenire tirocinio alla vita, e non doveva
essere staccata da essa364. Ciò implicava anche un assetto didattico in cui era
prevista la formazione professionale e la ginnastica. Sotto questo profilo
critica la proposta educativa di Platone365, considerata eccessivamente
spiritualista. La scuola deve preparare soprattutto alla partecipazione alla
società, della quale essa può diventare importante fermento di progresso e
umanizzazione. In questo senso, contestò posizioni come quelle di Rousseau, che
mettevano in evidenza le ingiustizie perpetuate nella socialità scolastica,
invece che i suoi aspetti formativi366. A. sottolinea il rapporto virtuoso tra
educazione e società. Solo se cresce il singolo, progredisce la comunità.
Giustamente A. ricorda che «La personalità umana giustamente intesa ed educata
a dovere porta la floridezza sociale»367. La scuola non poteva, tuttavia,
essere vista come funzione della società, e soprattutto del suo potere
politico368. Il controllo sociale esercitato mediante la scuola rischiava di
tradire il principio della personalità369. Il legame con la vita e l’unità
dell’educazione, doveva essere corroborato da una stretta collaborazione tra
gli istituti scolastici e la famiglia. Per questa ragione propone l’abolizione
dei convitti, preferendo che gli allievi restassero nella loro famiglia370. In
caso di necessaria lontananza dalla propria casa, A. indica come modello le
pensioni libere inglesi in cui gli alunni seppur lontano dalla propria casa
vivono con un’altra famiglia, a 364 «Quest’armonia tra la scuola e la società
esige che nell’ordinamento delle discipline scolastiche si abbia speciale riguardo
a quelle che sono peculiarmente reclamate dallo spirito del tempo, dai bisogni
sociali, dall’indole della nazione. Però anche qui non va dimenticato, che la
scuola, pur mentre si attempera alle condizioni della società, non debbe
servire alle medesime, come se fossero l’ideale supremo e definitivo di ogni
umano consorzio» G. A., Opuscoli pedagogici, 37. 365 G. A., Delle idee
pedagogiche presso i greci, 103. 366 «Il mio concetto della persona umana, in
servigio della quale dico ordinata la scuola, è ben altro dal concetto della
natura umana, in cui Rousseau vuole riposto il fine supremo della educazione.
Nell’essenza medesima della persona umana, che è intelligenza ed attività
volontaria, io scorgo la fonte medesima della socievolezza, ossia la virtù di stringersi
in comunanza di intendimenti e di voleri con altre persone, mentre l’autore
dell’Emilio reputa le istituzioni sociali natefatte a snaturar l’uomo,
spogliandolo dell’unità sua per assorbirlo come parte nel tutto» G. A., La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, 71. 367 71. 368 «La scuola non può, non
debb’essere una funzione della società, perché ne verrebbe essenzialmente
snaturata. Infatti, la scuola è un santuario di persone, ossia di creature
intelligenti e libere, e non già una agglomerazione di bruti o di cose. Ora la
persona non è uno strumento ai voleri altrui, ma è una creatura sacra, fornita
di diritti, che vanno rispettati da qualunque potere sociale, da qualunque
autorità umana, il diritto all’esistenza, alla verità, alla felicità, alla
virtù, sicché se ad esempio la prosperità di un popolo intiero costasse la
schiavitù o la distruzione di una sola creatura umana, già per ciò stesso
dovrebb’essere detestata come un delitto. Orbene, ponete che la scuola sia una
funzione,una proprietà, un’appartenenza della società e soggiaccia al suo
assoluto dominio, e allora gli alunni non verranno più educati siccome persone,
che appartengono a sé stesse, ed ordinate ad un fine, da cui hanno diritto di
non essere deviate, bensì come mancipii del volere sociale, come cose o
strumenti in servizio della società» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i
suoi pronunciamenti, 23. 369 «L’individualismo egoistico ed il socialismo
oppressivo sono due estremi, che contraddicono agli intendimenti della natura,
la quale mentre chiama gli uomini alla convivenza sociale, vuole ad un tempo
salva la personalità di ciascuno». G. A., G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista, 99. 370 G. A., Studi pedagogici, 333-335. 98 volte la
stessa dei propri insegnanti. Ciò aiuta a supplire la funzione dei genitori,
che deve rimanere un paradigma. Non è un caso che parlò della scuola come
«seconda famiglia»371. In merito all’organizzazione della scuola avanzò una
serie di proposte. Sosteneva il primato degli asili italiani rispetto a quelli
fröbeliani372, auspicava una scuola elementare unica senza distinzione di
censo373, mostrandosi fortemente preoccupato per una divisione della scuola
classista374. Propose la fusione del ginnasio con la scuola tecnica per
rimandare la scelta della scuola superiore di tre anni, ipotizzando così la
nascita di una scuola media unica. Sostenne il valore dell’educazione classica,
un insegnamento della filosofia armonico con le altre discipline, un più ampio
spazio alla storia italiana. Della scuola superiore critica l’eccessivo numero
di materie, e il quadro orario troppo lungo. Inoltre contestò i criteri di
valutazione negli esami, nei quali si preferisce la quantità alla qualità degli
apprendimenti, inducendo ad una mentalità enciclopedica e non critica. Anche
per questo motivo propone di eliminare la Giunta centrale per gli esami di
licenza liceale. Per quanto riguarda le scuole normali prospetta un quadro
orario in cui si affermi il 371 G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 86.
372 «I nostri asili infantili sono una creazione del genio nazionale e per un
trentennio conservarono la loro originale impronta. Verso il 1860 entrarono in
lotta coi seguaci della scuola germanica, che insorsero coll’intendimento di
atterrarli e sulle loro rovine costrurre i giardini fröbeliani. I novatori
lottarono e lottano tutt’ora coll’opera e colla parola, nelle Conferenze
pedagogiche e nei privati convegni, con ardore sempre vivo, invocando ben anco
in loro aiuto la potenza ministeriale (Vedi l’opuscolo Società dei giardini
d’infanzia di Udine, ecc. Udine, 1981, pag. 24). Ed il Ministero non nascose la
sua simpatia pel fröebelismo. Già nel regolamento del 188°, all’art. 28, esso
sostituiva alla denominazione asili d’infanzia il vocabolo giardini; poi impose
ai professori di pedagogia presso le scuole normali l’obbligo di insegnare alle
allieve maestre in teoria ed in pratica il metodo di Fröebel, prescrivendo lo
stesso metodo alle scuole italiane aperte all’estero, e nella sua Circolare del
27 gennaio 1889 manifestava l’intendimento di «trasformare man mano i numerosi
asiloi, secondo vecchi metodi governativi, in istituti educativi informati a
una dottrina che prenda il nome dal Pestalozzi o da Fröebel, o meglio da
entrambi; tal fine si può ben dire ci abbia segnata la via, nella quale
dobbiamo metterci». Nel fervore della lotta non mancarono valenti istitutori,
che, come l’Uttini a Piacenza, il Colomiatti a Verona, la Goretti – Veruda a
Venezia, si adopravano con saggio accorgimento a riparare gli abusi ingenerati
nelle scuole aportiane da sbagliate applicazioni pratiche, ad adempiere i
difetti ed introdurvi le ragionevoli migliorìe, pur conservando intatto il
principio interiore della loro origine» 127-128. 373 Attacca quanti volevano
fare una scuola per il popolo e una per la classi agiate e scrive: «Quindi si
fa necessaria una scuola, la quale abbia appunto per iscopo di fornire quella coltura,
la quale occorre a tutte le classi sociali senza riguardo ed eccezione di
sorta. La scuola che risponde a questo fine universale è appunto la scuola
elementare, così denominata, perché ha per oggetto gli elementi della coltura
umana. Da questo suo concetto si scorge che essa non ammette disparità tra i
figli dell’operaio e i figli del facoltoso, perché la coltura primordiale è la
stessa per tutti: non deve mirare agli uni piuttosto che agli altri, ma va
ordinata in servigio di ambedue: essa è ad un tempo democratica ed
aristocratica, rurale ed urbana, popolare e borghese. Alle corte, intendete voi
che la scuola elementare accolga a comune ammaestramento i figli di tutte le
classi sociali, o quelle soltanto della classe operaia? Nel primo caso, la
trasformazione, che propugnate, non più ragione di essere: nel secondo caso,
create un dualismo irragionevole» 140. 99 «primato» alla pedagogia,
mentre nei licei, legandosi ad una battaglia tipica di quegli anni, fu fautore
della centralità della filosofia375. Da un punto di vista metodologico richiama
alla necessità di conoscere le facoltà psicologiche dell’A. e denuncia
l’ignoranza della classe magistrale su tali tematiche. Gli insegnanti sembrano
essere più preoccupati di offrire agli alunni conoscenze precise e copiose,
rispetto a capire quanto i loro alunni possano imparare. Un altro aspetto
avversato dall’A. è un’idea caporalesca della disciplina, che dimentica
l’importanza della libertà e del consenso per un’educazione efficace. Voleva
che la scuola educasse al patriottismo. Ciò non deve far pensare ad un A.
nazionalista e sciovinista, il pedagogista era però convinto che la scuola
dovesse difendere la tradizione, la cultura e la filosofia italiana376, di cui
i giovani avrebbero dovuto acquisire consapevolezza e orgoglio. Inoltre
considerava importante l’assimilazione dell’idea di nazione, intesa come
comunità a cui appartenere e da servire. Per questo propose di sostituire all’
«educazione civile», la materia di «educazione italiana». Riguardo al tema
dell’obbligo scolastico, che coinvolse il dibattito pedagogico durante la
costruzione del sistema scolastico nazionale, A. si oppose alla sua
applicazione, perché lo considerava illiberale. Il pedagogista non intendeva
restringere il diritto all’educazione ad un’élite, ma riteneva che l’obbligo
non fosse un mezzo adatto per la diffusione dell’istruzione e
dell’educazione377. Egli era altresì convinto che bisognasse convincere alla
scuola e non costringere378. Come non si possono obbligare le persone ad essere
virtuose o a lavorare, così non le si può costringere ad istruirsi, mentre può
moltiplicare le scuole e formare bravi insegnanti che attirino le famiglie ad
iscrivere i figli nelle scuole379. Dove c’è costrizione, secondo l’A., non può
esserci una vera educazione. I. 9. La libertà d’insegnamento e la riforma della
scuola 375 «Nelle scuole normali spetta alla pedagogia il posto supremo ed
intorno ad essa vanno coordinate tutte le altre materie. Nei licei la filosofia
deve tenere il campo, siccome quella, che in virtù del suo carattere universale
è atta a collegare in armonico accordo tutte le altre discipline» 116. 376 Cfr.
G. A., Studi pedagogici, 36. 377 G. A., Dell’istruzione obbligatoria, Torino,
Tipografia Subalpina. Sull’argomento, in un saggio cita Lambruschini, che in
una relazione presentata al Ministro Berti scrisse »L’istruzione e l’educazione
son cosa di sì alto ordine, e così degna di essere desiderata e cercata per se
medesima, che la violenza nell’imporle ne scema il pregio agli occhi si chi
deve riceverle, e ne spegne l’amore. Da un altro canto, comechè si adoperi il
Comune acciocchè l’istruzione sia ricevuta da tutte le famiglie, non riuscirà
mai nell’intelletto, se nelle famiglie non nasce l’amore dell’istruzione”, dopo
di ciò commenta “In Prussia erasi organizzato un sistema di polizia, per cui
allorquando un fanciullo si rifiutava di recarsi a scuola, né il padre ve lo
mandava egli stesso, un poliziotto lo pigliava a casa e lo trascinava a scuola
come un pubblico malfattore» G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
137. 379 G. A., Dell’istruzione obbligatoria, 12. 100 Le posizioni
di A. sulla scuola e sulla libertà d’insegnamento sono state in parte già
oggetto di studio380. Si tratta, infatti, di un contributo di rilevante
importanza nell’economia delle vicende scolastiche del secondo Ottocento. Le
opere più importanti in cui affronta tali questioni sono: L’educazione e la
nazionalità (1875)381, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario,
Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbeliani, Lo Stato
educatore ed il Ministro Boselli, Della istruzione obbligatoria e La scuola
educativa, poi rivisto e pubblicato. A questi vanno aggiunti altri come: La Riforma
dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato, Il Classicismo nelle
scuole, Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il
rapporto tra l’educazione privata e la pubblica, Delle condizioni presenti
della pubblica educazione (1886)391, raccolti negli Opuscoli pedagogici (1909).
In realtà, l’intera produzione dell’A. è disseminata di richiami e rilievi su
tali questioni392. 380 I lavori sinora pubblicati lasciano spazio per ulteriori
studi e considerazioni. Il testo di Bonghi, Idee di A. circa la libertà
d’insegnamento, «Cultura», è scritto nel vivo delle polemiche scolastiche del
tempo e manca di una necessaria distanza critica e storica; il lavoro di R.
Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di
G. A., 60-74, prende in esame una sola opera del pedagogista, vale a dire Della
pedagogia in Italia, e soffre di una conoscenza parziale dell’opera del
pedagogista; il saggio di A. Consorte, Scuola e Stato in Giovanni A., «Ricerche
Pedagogiche, seppur significativo, approfondisce soprattutto le polemiche tra
lo studioso piemontese e l’apparato ministeriale, tenendo peraltro conto solo
di alcune sue opere. A., L’educazione e la nazionalità, Torino, Tip. del
giornale Il Conte Cavour, A., La legge Casati e l’insegnamento privato
secondario, Torino, Tip. Salesiana, 1879. 383 G. A., Intorno le scuole normali
e gli asili di infanzia fröbelliani, Torino, Tip. Subalpina,1888. 384 G. A., Lo
Stato educatore ed il Ministro Boselli, Torino, Tip. del Collegio degli
artigianelli, 1889. 385 G. A., Della istruzione obbligatoria, Torino, Tip.
Subalpina, 1893. 386 G. A., La scuola educativa. Principi di antropologia e
didattica: pedagogia elementare, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 387 G. A., La
scuola educativa. Principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, cit., 1904. 388 G. A., La Riforma dell’educazione
moderna mediante la riforma dello Stato, Torino, Tip. Subalpina, 1879. 389 G. A.,
Il classicismo nelle scuole, Torino, Tip. M. Artale, A., Esposizione critica
delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione
privata e la pubblica, «Rivista pedagogica italiana», 1-2, 1898. 391 G. A.,
Delle condizioni presenti della pubblica educazione. Prolusione letta nella R.
Università di Torino il 25 novembre 1886, Torino, Tip. Subalpina, 1886. 392 In
tutte le opere dell’A. sono ricorrenti degli incisi nei quali lo studioso
propone parallelismi con le condizioni scolastiche coeve. Il seguente brano
pare particolarmente paradigmatico. Dopo aver esposto i caratteri della
pedagogia romana, ad esempio, A. riporta un passo di una lettera scritta da
Plinio il giovane ed indirizzata a Corellia Ispulla, nel quale le suggerisce di
scegliere con oculatezza l’insegnante di retorica per il figlio. Subito dopo, A.
chiosa: «Qual profondo divario tra i tempi di Plinio ed i nostri in riguardo ai
pubblici studi! Allora la scuola si muoveva libera da ogni potere governativo,
epperò la scelta dei maestri spettava ai genitori come un sacro e coscienzioso
dovere. Ora invece lo Stato impone alle famiglie i maestri da lui solo
fabbricati ad immagine e somiglianza sua. Una radicale riforma intorno a questo
rilevantissimo punto della vita civile e sociale è una necessità pedagogica. La
libera attività dei cittadini, su cui posa in gran parte la civiltà moderna,
non consente che essi vengano trattati come fanciulli, i quali hanno nel
governo il loro supremo educatore ed assoluto maestro. La libertà non è
privilegio esclusivo di nessuno. 101 Il problema della libertà
d’insegnamento occupa un posto privilegiato nell’opera di A.. Quest’attenzione
è indubbiamente legata all’evoluzione del sistema scolastico italiano, di cui
il pedagogista vercellese denunciò la deriva monopolistica ed un assetto
contrario alla libertà d’insegnamento. Stando allo studioso, tali politiche
avevano profonde radici filosofiche e pedagogiche. In particolare, erano la
conseguenza da una parte della crisi del concetto di libertà, e dall’altra, del
«mito» dello Stato nato con la modernità. Lo sbriciolamento della metafisica,
inaugurato nel ‘600, condusse alla confusione circa l’esistenza e il ruolo
della libertà personale. Ciò portò ad una certa sfiducia verso l’iniziativa
privata, preferendo al rischio educativo la gestione del processo formativo.
D’altra parte con la modernità si impose il profilo di uno Stato simile al
«Leviatano» prospettato da Hobbes, nel quale il governo di pochi si arrogava il
diritto di fagocitare e sacrificare le singole individualità in nome del bene
della collettività. Un «mostro», come lo definì A., ingombrante, fatto di
meccanismi politici e burocratici. Da ciò la scuola e l’educazione non erano
più considerate una responsabilità della famiglia, ma dello Stato393. Il
vercellese definiva questo statalismo anche «socialismo governativo». In una
sua opera spiega: «socialismo dico ogni istituzione che la santa autonomia
della persona e della famiglia disconosca in qualsiasi modo, rimestando ad
arbitrio quella convivenza sociale che ha da posare sicura sulle leggi eterne
dell’umanità»394. In un altro saggio commenta: «Socialismo governativo è lo
Stato moderno; socialismo pedagogico è l’educazione moderna. Lo vuole la
logica, lo proclamano i fatti. Onnipotente è lo Stato? Dunque onnisciente.
Creazione sua la società? Dunque suo feudo la scuola. Esso, che si reputa
l’umanità, ben può dire di sé: l’educatore sono io»395. Secondo A., da tale
pretesa nacque il controllo sul sistema scolastico, sui programmi, sul
reclutamento degli insegnanti, sull’organizzazione degli esami, sui libri di
testo. La monopolizzazione della scuola era sentita dall’A. in modo
catastrofico: «Là dove l’educazione propria della famiglia viene sacrificata
all’educazione dello Stato, vano è lo sperar bene delle sorti di una
nazione»396. Scrive: «Non si dà libero cittadino senza il governo di sé, né si
da governo Governi lo Stato le sue pubbliche scuole; ma siano libere le
famiglie di associarsi insieme per fondare istituti educativi ed imprimere ad
essi un indirizzo rispondente alle loro aspirazioni egualmente che allo spirito
del tempo. Così sorgerebbe una nobile gara, da cui la pubblica educazione
trarrebbe singolare e felice incremento», in G. A., La pedagogia italiana
antica e contemporanea, 40. 393 Commentando il progetto di legge di Baccelli
sul riordinamento degli studi universitari, lo studioso vercellese scrive: «Il
Ministro, che l'ha proposto, sente che nella coscienza universale ferve irrefrenabile
l'aspirazione alla libertà; ma ad un tempo è imbevuto del dominante pregiudizio,
che il Governo è lui il primo e sovrano motore di tutta la vita pubblica e
civile, è lui l'unico ed assoluto maestro ed educatore della nazione, che la
legge è lui, come Luigi XIV proclamava sé lo Stato» G. A., L’autonomia
universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe A.,
Torino, Tip. Subalpina, 1899, p. 5. 394 G. A., Opuscoli pedagogici, 11. 395
11-12. 396 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 89. 102 di
sé quando lo Stato siede arbitro e donno di tutte le attività umane. Tolta di
mezzo l’autonomia personale de’ singoli cittadini anche l’indipendenza della
nazione diventa ingannevol menzogna; e verrà giorno in cui suprema battaglia
per un popolo quella sarà che esso combatterà non per l’indipendenza dalla
straniero, ma dalla statolatria»397. Va notato che nella prospettiva di A., il
concetto di Stato è ben separato da quello di Nazione, come giustamente ha
rilevato polemicamente la Bertoni Jovine398. Per il pedagogista la Nazione è
espressione della civiltà, di valori, di tradizioni, di una storia, mentre lo
Stato non necessariamente ne rappresenta e asseconda gli interessi. La famiglia
rappresenta il punto di congiunzione tra l’individuo e la Nazione, e ad essa lo
Stato deve rispondere nell’organizzazione della scuola. Lo stato è nato per
servire la famiglia, e suo compito è garantirne la libertà. Secondo A.: «È
necessario far penetrare nella coscienza sociale questa gran verità, che
principio, cardine e ragion d’essere dello Stato è la famiglia, che fondamento
e centro unificatore della vita pubblica e civile è la vita domestica, e che
perciò i primi educatori per diritto e per natura sono i genitori, che lo Stato
non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto e supremo, ma relativo
soltanto e derivato dalla famiglia»399. Per queste ragioni: «Il Governo non può
avere altro diritto scolastico, se non quello, che gli venga implicitamente o
esplicitamente consentito dalla famiglia, ciò è a dire un diritto relativo, non
assoluto, secondario e non supremo, partecipato e non originario»400. Non
sembrano dunque fondate le critiche mosse ad A., circa la connessione tra
l’antistatalismo e un presunto individualismo scaturigine del principio della
personalità, segnalato da Vidari401. Il pedagogista non professava una totale
anarchia in campo educativo, ma esautorava lo Stato dal diritto assoluto
sull’educazione. 397 G. A., Opuscoli pedagogici, 18. 398 «Uno dei più forti
oppositori della preminenza dello Stato nell’educazione fu Giuseppe A.,
dell’università di Torino, che svolse il concetto di “nazione” distinguendolo
da quello di Stato. Lo Stato non ha alcun diritto ad educare, mentre la nazione
che “è lo stesso uomo collettivo”, influisce con tutti i suoi elementi sullo
sviluppo dell’individuo; onde nazionalità ed educazione sono due fatti
inseparabili. È naturale che fra i più importanti elementi della nazione l’A.
collochi la religione e la Chiesa pur accettando dagli avversari alcuni
elementi più moderni diventati realtà con le vittorie liberali. Con l’esigenza
di uscire dal ristretto cerchio della famiglia, si assimila infatti, in questa
ideologia, il concetto basilare di patria. Si supera così il punto critico che
divideva i liberali dai clericali: “Dio, patria e famiglia” divengono i tre
pilastri fondamentali dell’educazione sui quali i cattolici più avanzati e i
liberali moderati vi ritrovano la concordia; ma se i clericali assimilavano
l’educazione patriottica, esigevano che i liberali accettassero l’educazione
religiosa. E questo era possibile perché nonostante la vittoria laicista
ottenuta con la legge Coppino, non era mai stata definita la questione
dell’insegnamento del catechismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia
della scuola italiana, 25. 399 G. A., Opuscoli pedagogici, 43. 400 G. A., La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, 73. 401 «In fondo l’impronta fortemente
individualistica, un po’ derivata dal principio della persona, ma molto anche
da una deficienza del senso della continuità e unità storica nella vita dello
spirito, è prevalente in tutta la pedagogia dell’A.; e si presenta poi in forma
estrema là dove, applicando alla politica e al diritto i 103 Sulla
paternità della responsabilità educativa, famiglia o stato, si giocò il
dibattito pedagogico sul tema, considerato tale non solo in ambito spiritualista402.
A. attribuisce alla famiglia la responsabilità educativa. La famiglia è il
nucleo che solo può permettere il futuro della Nazione e una vera educazione
delle giovani generazioni. Sugli stessi principi, critica aspramente anche
Fröbel per non aver riconosciuto il primato della famiglia sulla società.403
Sotto questo profilo sono evidenti i richiami alla tradizione del cattolicesimo
liberale, che attribuiva alla famiglia un valore educativo centrale, nelle
opere di autori come Berti, Gustavo di Cavour e Rosmini, i quali fondavano la
libertà d’insegnamento proprio sul principio della libertà e sul protagonismo
educativo della famiglia. Attacca in più di un’occasione gli hegeliani come
Spaventa e i positivisti come Siciliani, Angiulli, De Dominicis, considerati
fiancheggiatori della statolatria. Il seguente brano lumeggia le sue idee:
«Riponendo nella famiglia la suprema autorità scolastica noi ci troviamo
collocati nel giusto punto di mezzo tra i due opposti sistemi, dei quali l’uno
attribuisce al Governo un assoluto e supremo diritto sopra la scuola, l’altro
gli niega ogni e qualunque siasi ingerimento pedagogico. Se lo Stato possiede
bensì un’autorità nell’ordine scolastico, ma subordinata a quella della
famiglia e de’ privati cittadini, ne consegue che esso deve lasciare luogo alla
libertà della scuola, e potersi con questa conciliare. E qui si vede la ragione
di ammettere, oltre le scuole pubbliche governative, anche le scuole private,
le quali però non devono essere una storpiatura, una copia forzata e
stereotipata delle scuole governative, ma hanno diritto di muoversi libere e
spontanee dentro un’orbita loro propria. Il libero insegnamento va riconosciuto
siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che
informa la scuola moderna»404. Egli non teorizzava l’anarchia in campo
educativo, ma uno Stato meno opprimente e più rispettoso della libertà. Come ha
fatto notare Giorgio Chiosso, egli preferiva allo «Stato educatore» uno «Stato
regolatore»405. Egli, infatti, non escludeva il controllo dello Stato suoi
concetti, arriva a concepire la libertà d’insegnamento in modo essenzialmente
antistatale, così da affermare che “lo Stato non possiede un diritto pedagogico
e scolastico assoluto e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla
famiglia”» G. Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico,
86-87. 402 Non è un caso che la voce “Libertà d’istruzione” curata da Fornari
nel Dizionario Illustrato di pedagogia di Credaro e Martinazzoli, che
rappresenta uno spaccato della pedagogia italiana di fine Ottocento, introduca
il tema con la domanda «A chi appartengono i figlioli?» Cfr. P. Fornari,
Libertà d’istruzione, in A. Martinazzoli e L. Credaro (ed.), Dizionario
illustrato di Pedagogia, Milano, Vallardi, 1895, vol. II, p. 62. 403 G. A.,
Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, 117. 404 G. A., Lo Stato educatore ed il
Ministro Boselli, 24-25. 405 G. Chiosso, Alfabeti d’Italia, Torino, Sei, 2011,
p. 93. 104 sull’istruzione406. Nonostante la comune rivendicazione
della libertà di insegnamento, le tesi dell’A. si discostavano da quelle allora
prevalenti nel mondo cattolico, in particolare negli ambienti
dell’intransigentismo. In questo caso il principio della libertà d’insegnamento
era alquanto strumentale e sostenuto più per ragioni pragmatiche che per la sua
validità pedagogica. La vera scuola era quella «cristiana» e in nome di questa
si avvertì l’esigenza di creare una scuola cristiana parallela a quella
statale, in linea con quella logica «separatista» dal “paese legale” che ebbe
largo corso dopo Porta Pia. Per questo motivo era chiaro che una rivendicazione
simile sarebbe stata immotivata in uno Stato rispettoso dell’educazione
religiosa e cristiana407. Per A. invece, la libertà rappresentava un valore
effettivo per la scuola. In questo senso contestava la contraddizione di molti
sedicenti liberali, che in molti paesi europei negavano la «lotta»408, cioè la
concorrenza, proprio in campo educativo. Secondo il pedagogista il concorso di
soggetti privati all’istruzione del popolo, il confronto e il «gareggiamento»
tra le diverse realtà, rappresentava un volano per il miglioramento della
scuola. Per mostrare i vantaggi dell’applicazione di tale principio, A.
approfondì con appositi studi i sistemi di istruzione di Gran Bretagna e degli
Stati Uniti, dove i principali liberali avevano forgiato anche le istituzioni
scolastiche. Un altro stato indicato come modello da A. per quanto riguarda
l’autonomia scolastica è il Belgio, di cui cita ed elogia gli articoli della
Costituzione concernenti la libertà d’insegnamento409. Alla realtà educativa
degli Stati Uniti dedicò un saggio dettagliato intitolato Dell’educazione
pubblica negli Stati Uniti D’America410. In esso sostiene come la peculiarità
del sistema scolastico americano fosse la libertà dei cittadini di fondare e
406 Sempre criticando il citato progetto di legge Baccelli sull’Università
scrive: «Ecco il primo articolo della sua proposta: “Alle regie Università e a
tutti gli altri Istituti d'istruzione superiore è concessa personalità
giuridica ed autonomia didattica, amministrativa, disciplinare sotto la
vigilanza dello Stato”. È cosa manifesta, che autonomia e vigilanza sono i due
concetti supremi, a cui s'informa questo disegno di legge; ma è pur evidente,
che il giusto significalo dell'autonomia dipende dai limiti, che vengono
segnati alla vigilanza. Che lo Stato vegli, bene sta: ma la vigilanza sua va
circoscritta entro determinati confini, sicché non trasmodi in un illimitato
ingerimento e soppianti la libertà» G. A., L’autonomia universitaria proposta
dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe A., 5. 407Luciano Pazzaglia ha
rilevato come, soprattutto dopo l’Unità, più che la difesa del principio della
libertà d’insegnamento in quanto tale, prevalse nella Chiesa la rivendicazione
della sua prerogativa educativa. Commentando la significativa allocuzione di
Pio IX alla Gioventù italiana del 6 gennaio 1875, lo studioso della Cattolica
osserva: «Pur continuando a sostenere la tesi del monopolio educativo della
Chiesa e a condannare, parallelamente, la libertà d’insegnamento come principio
che mal si conciliava con i diritti della verità di cui solo il magistero
sarebbe l’autentico interprete, concedeva che in certe condizioni la libertà
d’insegnamento potesse diventare per i cattolici uno strumento essenziale al
raggiungimento dei loro obiettivi» in L. Pazzaglia, Educazione e scuola nel
programma dell’Opera dei Congressi (1874-1904), in Cultura e società in Italia
nell’età umbertina, 426. 408 G. A., L’autonomia universitaria proposta dal
Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe A., 8. 409 G. A., Lo Stato
educatore, in Opuscoli pedagogici, 68-69. 410 Il saggio è inserito negli
Opuscoli pedagogici, 380-406. 105 mantenere delle scuole. Secondo A.
ciò permise di far sorgere tantissime scuole pubbliche non statali che hanno
accresciuto la vita scientifica e sociale della giovane nazione, che seppur
fondata da poco, aveva di gran lunga superato nella libertà e nella
preparazione le scuole del vecchio continente. Sostiene inoltre che
l’Università americana fosse molto più democratica di quella italiana. Seppur
finanziata dalle tasse di tutti i cittadini le Università italiane erano
frequentate quasi solo da persone benestanti, a causa delle alte tasse che
venivano chieste alle famiglie di studenti. Negli Stati Uniti invece anche se
le Università si mantengono quasi esclusivamente sulle tasse degli studenti
gravando relativamente poco sui bilanci statali, esistevano numerose borse di
studio che permettevano agli studenti capaci, ma con pochi mezzi, di poter
frequentare prestigiose Università. Nel testo valorizza anche le «Scuole di
scienza» e cioè le Università scientifiche di medicina e ingegneria che si
diffondevano nel paese. Gli Stati Uniti erano un chiaro esempio del fatto che
il monopolio dell’istruzione fosse in contraddizione con i principi dello
stesso liberalismo. A. sostiene che «Il libero insegnamento va riconosciuto
siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che
informa la società moderna»411, i liberali italiani erano incoerenti con i loro
stessi principi. Scrive su tale contraddizione: «La libertà delle scuole è la
suprema necessità del momento, se già non fosse un principio sacrosanto scritto
nel codice della civiltà vera; è l’unica tavola di salvamento nel presente
naufragio della nostra istruzione. Ma qual è l’opinione dominante su questo
vitale argomento? Anche qui dissidio di menti e lotta di idee. Propugnatori del
libero insegnamento non mancano, ma ad esso non sanno fare buon viso i novatori
e gli iperdemocratici, i quali lo vogliono angustiato in tale strettoie governative
da farne un monopolio per sé e per i loro seguaci. Ingrato spettacolo di gente
che vela con una mano la statua della libertà dopo di averla coll’altra levata
alla pubblica venerazione»412. Ma le posizioni dell’A. erano in controtendenza
rispetto agli indirizzi del Ministero. La lobby massonico liberale che tenne le
fila della Minerva nei decenni successivi all’Unità contrastava la battaglia
per la libertà d’insegnamento dietro la quale vedeva la mano della Chiesa
preoccupata di non perdere l’egemonia sull’istruzione e sull’educazione, messa
in seria discussione dopo l’Unità. L’istruzione pubblica e l’Università
resteranno sotto il totale controllo del Ministero, le scuole libere saranno
tollerate, ma discriminate sotto il profilo giuridico ed economico. Niente fu
fatto per una vera parità nell’erogazione dei titoli di studio, una delle
questioni da 411 G. A., Lo Stato educatore, in Opuscoli pedagogici, 68. 412 G.
A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 164-165. 106 cui
dipende l’effettiva libertà d’insegnamento. Lo statalismo scolastico, infatti,
è primariamente un monopolio di «abilitazioni», controllando le quali il
governo «obbliga» e i giovani a frequentare le sue scuole. D’altra parte,
costringeva le scuole libere ad adeguarsi ai dettami governativi. In un testo
osserva: «Bella concorrenza davvero sarebbe quella di Istituti privati ridotti
ad una storpiatura o miserevole copia dei governativi! Bella libertà scolastica
quella di chi fosse legato mani e piedi ai ceppi dell'Autorità ufficiale»413.
Paradossalmente il percorso di statalizzazione della scuola e di riduzione
degli spazi di autonomia per le iniziative educative libere iniziò in un
periodo in cui la pedagogia sembrava andare in una direzione opposta. La
libertà d’insegnamento fu, infatti, un tema largamente sviluppato nella
riflessione cattolico liberale che aveva caratterizzato la stagione
risorgimentale. Lambruschini, Rosmini, Tommaseo, Gioberti, con le dovute
differenze, auspicavano per lo Stato un ruolo da supervisore nell’educazione
pubblica, non quello di gestore e macchinatore dell’istruzione e
dell’educazione. Il percorso di statalizzazione tradiva quei principi di
libertà caratteristici del clima culturale del ’48. A. denunciò questa
inversione di tendenza, riprendendo i temi della Società pedagogica: «Il primo
Congresso generale tenuto dalla Società in Torino nell’ottobre del ‘49 rivelava
in modo solenne l’unità di disegno e l’universalità del concetto che la governava:
senatori del Regno e deputati del Parlamento, autorità ministeriali e
scolastiche, membri di Accademie scientifiche e reggitori di istituti
educativi, professori e dottori di Università e maestri elementari, sacerdoti e
laici, esuli degli altri Stati della patria comune illustri per sapere,
intelligenti promotori della pubblica educazione, là convenivano a pubblica
discussione, e nella arena del dibattimento discendevano insieme affratellati i
cultori degli studi classici e speculativi coi maestri dell’istruzione tecnica
e professionale, i reggitori di pubblici e governativi istituti scolastici ed i
favoreggiatori del privato e libero insegnamento. Così il Piemonte, appena
sorto a nuova vita, adoperava in servigio di nobilissima causa il diritto di
libera associazione allora sancito nel nuovo Statuto Carlalbertino, ma, prima
che negli stati politici, scritto a caratteri indelebili nel gran codice della
natura; così esso porgeva uno splendido esempio di attività cittadina e di
privata entratura, che sole sanno a tenere a modo la podestà del governo così
lesta ad invadere diritti non suoi. E si fosse mantenuta costante
quell’attività e quell’entratura privata, e propagatasi più rigogliosa e
compatta in tutte le regioni d’Italia! Chè ora la pubblica istruzione del
nostro paese non gemerebbe soffocata da alcuni anni sotto lo strettoio del
potere esecutivo»414. Già nel saggio sull’hegelismo del 1868 attribuì a A., La
legge Casati e l’insegnamento privato secondario, A., La pedagogia italiana
antica e contemporanea, Cavour e al «cavourinismo» la colpa per il profilo illiberale
della scuola italiana415. Una simile lettura del pensiero e delle
responsabilità dello statista piemontese sembra essere confermata dall’iter
della legge Lanza416. Esso quindi vedeva nei principi della legge Casati degli
aspetti positivi, poi traditi dalle politiche successive. Le polemiche con la
Minerva Il docente dell’ateneo subalpino non si limitò a teorizzare i princìpi
intorno a cui si sarebbe dovuta realizzare la libertà scolastica, ma entrò in
diretta polemica con gli esponenti politici più o meno «statolatri» che, tra la
sua giovinezza e la maturità, governarono il Dicastero dell’Istruzione
Pubblica. Qualche anno dopo la laurea, già noto per alcune pubblicazioni, A. fu
incaricato dal Ministro Berti di scrivere un saggio sulla scuola e la pedagogia
italiana in occasione della mostra universale della Arti e delle industrie a
Parigi. Ne uscì il saggio Della pedagogia in Italia, che, tuttavia, non
incontrò il parere positivo del ministero, motivo per il quale il libro non fu
presentato alla fiera419. Commentando quell’episodio Gerini osservò come mentre
il positivismo fosse una dottrina «protetta in alto», «agli avversari della
pedagogia spiritualistica furono prodigati tutti i favori del Ministero, a lui
l’oblio»420. Le posizioni espresse dall’A., considerando le quali non desta
meraviglia la censura ministeriale, sono utili per introdurre le sue critiche
alla politica scolastica post unitaria. Già nello scritto del 1867, l’A. nel
ripercorrere gli anni del riformismo 415 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la
vita, Morandini, Da Boncompagni a Casati: l’affermazione del modello
centralistico nella costruzione del sistema scolastico preunitario, in Pruneri,
Il cerchio e l’ellisse, centralismo e autonomia nella storia della scuola dal
XIX al XXI secolo, 50. 417 Tale lettura è confermata in un opera della fine del
secolo. Scrive: «Or mezzo secolo fa veniva promulgata la legge pel
riordinamento della pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il nostro
insegnamento universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che l'ha
inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà non
era un nome vano ed illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita,
lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie istituzioni.
Gli animi tutti erano assorbiti nella grande idea dell'indipendenza nazionale,
e davanti alla coscienza del popolo italiano splendeva l'ideale di un nuovo
glorioso avvenire. Ora non ci riconosciamo più. Siamo discesi sempre più giù
per la china del decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo
riservato all'attività dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le
energie individuali» A., L’autonomia universitaria proposta dal Ministro
Baccelli ed esaminata da A., A., Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866,
cit.; poi in A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 84-168. 419 Lo
stesso pedagogista racconta la vicenda in A., Della pedagogia in Italia; Gerini,
La mente d’A., pedagogico subalpino all’origine della riforma Boncompagni del
1848421, lamentava che gli ideali originari – ispirati al principio della
libertà scolastica – fossero stati in seguito gravemente compromessi dalle
iniziative successive che avevano invece rafforzato il ruolo dello Stato422.
Secondo Gerini, l’ostilità del ministero ebbe delle conseguenza nella
progressione di carriera dell’A.: Straordinario nel 1871, ottenne la promozione
ad Ordinario solo nel 1878423. In un’altra occasione sembrò al pedagogista
vercellese di aver subito un torto dalle autorità politiche, quando cioè,
eletto consigliere comunale, fu volutamente escluso dall’assessorato
all’istruzione424. La lettura di A. sull’evoluzione del sistema scolastico
italiano fu ripresa nel già citato La Legge Casati e l'insegnamento privato
secondario apparso nel 1879. In questo scritto l’A. denunciava la
contraddizione tra le norme a tutela della libertà scolastica prevista dal
testo del 1859 e la loro attuazione pratica, sulla base del principio politico
secondo cui il Governo «sopravveglia il privato a tutela della morale,
dell'igiene, delle istituzioni dello Stato e dell'ordine pubblico». Per quanto
la Casati riconoscesse l’utilità di una proficua «concorrenza degli
insegnamenti privati con quelli ufficiali»426, le norme e gli atti successivi
andarono contro questo principio. Per A. era evidente che politiche simili
fossero dettate dal timore del Clero e della sua presenza educativa, ma ciò non
poteva minimamente giustificare la soppressione della libertà. Va sottolineato
come il principale redattore del testo legislativo, fu il sacerdote Rayneri.
Cfr. M.C. Morandini, Da Boncompagni a Casati: l’affermazione del modello
centralistico nella costruzione del sistema scolastico preunitario A., La
pedagogia italiana antica e contemporanea, 90. 423Secondo Gerini, genero dell’A.
(ne aveva sposato la figlia), curatore di numerosi saggi sul pedagogista, il
ritardo non fu casuale. Citando una lettera dello stesso A. al ministro De
Sanctis e alcune considerazioni di Parato, egli sostiene che ci fu una
ostruzione ministeriale alla carriera del vercellese, motivata dal suo credo
spiritualista e dalle sue posizioni critiche nei confronti delle politiche
ministeriali. Cfr. Gerini, La mente di A., Come racconta Gerini: «Dopo le
elezioni amministrative del 1895, essendo riuscito con bella votazione
consigliere (il 20° su 80), l’A. venne chiamato a far parte della Giunta.
Costituita la quale “l’opinione generale e più favorevole, specie nel corpo
insegnante di tutti i gradi d’istruzione, dalla elementare alla universitaria,
era che nella distribuzione dei varii rami di amministrazione fra gli
assessori, al prof. A. sarebbe toccato il governo dell’istruzione, essendo egli
la persona meglio indicata, per attitudini particolari ben note, a tenerlo:
invece venne destinato dal sindaco alla direzione della Biblioteca dei Musei”.
Naturalmente l’A. con sua lettera in data 5 luglio rinunziava all’assessorato.
Il sindaco Rignon, cui non menziono in questo luogo a titolo d’onore, non gli
affidava l’ufficio dell’istruzione perché non si conoscevano ancora abbastanza
le sue idee intorno al governo delle scuole, pur essendo disposto a
commetteglielo quanto avesse avuto campo di far conoscere il suo modo di
pensare (Osservatore scolastico di Torino, 13 luglio 1895). Il fatto non
abbisogna di commenti. Basti il dire, che qualche tempo dopo il Rignon chiamava
all’assessorato dell’istruzione un avvocato, il quale non aveva mai dimostrato
d’intendersi d’amministrazione scolastica. – Nelle successive elezioni l’A.
declinò in modo irremovibile la candidatura» R. D. art. A., La legge Casati e
l’insegnamento privato secondario, 12. 427 “La potenza che voi paventate nel
clero; non la distruggerete colla forza dei divieti, ma la fortificate colla
mostra della persecuzione e colla vostra sfiducia nella libertà. Voi la volete
la libertà, ma per voi e per 109 Nell'appendice l’A. dimostra tale
tesi, analizzando nel dettaglio i diversi provvedimenti elaborati dai
successori di Casati, tra cui Natoli, Coppino e Correnti, criticandone lo
scarto rispetto ai principi della legge fondativa del ’59. E così icasticamente
conclude: «Da vent'anni e più anni la legge riconobbe e sancì il principio del
libero insegnamento: da quasi venti anni il Governo continua a misconoscerlo,
la burocrazia a manometterlo»428. La stessa lettura dell'evoluzione
dell'ordinamento scolastico italiano è confermata in un altro testo di
vent’anni dopo. Un caso esemplare del «tradimento della Casati» riguarda la
figura dell’istitutore libero. Come spiega A., secondo la legge: «L’istitutore
è governativo o libero, secondochè la scuola, in cui esercita il suo magistero
educativo, è retta dallo Stato o da privati cittadini. All’uno il governo
prescrive la sostanza e la forma del suo insegnamento, la misura, il
procedimento, il criterio direttivo. Dall’altro la vigente legge 13 novembre
1859 esige i titoli, che lo autorizzano, ed il rispetto dell’igiene, della
morale e delle patrie istituzioni, epperò la sua libertà non è assoluta; ma non
concede al Governo di sindacare, se e quanto, e come egli educhi e insegni; chè
altramente la libertà dell’istitutore si risolverebbe in una vana parola»430.
Ma alla libertà riconosciuta dalla Casati, conclude l’A., corrisposero norme
restrittive che di fatto compromisero l’iniziativa dei liberi insegnanti. Non
meno severa era la denuncia dei rischi dell’ingerenza statale sull’identità
delle scuole private: «Dalle recenti statistiche – così scriveva nel 1879 – si rileva
come gli istituti secondari liberi affidati alle provincie, ai comuni alle
corporazioni religiose, ai privati, gareggino per numero con quelli del
Governo; il che è splendido argomento del grande amore, che nutrono i
cittadini, per l’incremento degli studi e lo sviluppo della coltura sociale; ma
non si può non provare ad un tempo un sentimento increscevole e doloroso in
veggendo come tanti nobili sforzi vengano in gran parte sciupati dallo smodato
ingerimento del Governo, il quale introduce la monotona e rigida uniformità de’
suoi gli amici vostri; a siffatta guisa di libertà anche i vostri avversarii
potrebbero fare buon viso, anche la Czar delle Russie: di una veneranda matrona
ne avete fatto una brutta ed intollerabile Megera.” A., La legge Casati e l’insegnamento
privato secondario, 28. 428 Ibid, p. 26. 429 Un passo di un saggio del 1899
conferma la lettura di A.: «Or fa mezzo secolo fa veniva promulgata la legge
pel riordinamento della pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il
nostro insegnamento universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che
l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà
non era un nome vano ed illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita,
lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie
istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella grande idea
dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo italiano
splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci riconosciamo più.
Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo
Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini
comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» A., L’autonomia
universitaria proposta da Baccelli ed esaminata da A., 3. 430G. A., La scuola
educativa. Principi di antropologia e didattica: pedagogia elementare, metodi,
de’ suoi programmi, de’ suoi studi là dove dovrebbe lasciare, che si svolga
libera, varia e feconda la vita scolastica»431. Ciò dipendeva, a giudizio del
pedagogista piemontese, dal monopolio statale dei titoli di studio, mediante il
quale il Governo disincentivava l’iscrizione negli istituti liberi. Inoltre il
«pareggiamento» delle scuole libere, condizione per erogare titoli equiparati a
quelli statali, era regolamentato da norme restrittive e obbligava
all’omologazione con il sistema statale. Come denunciò il vercellese: «A
chiunque si muova fuori dell’orbita degli studi segnata dal Governo, è chiuso
irrevocabilmente l’adito alle professioni liberali; potrà procacciarsi una
coltura scientifica e letteraria ampia ed eletta per quanto si voglia, ma prima
pur sempre di un carattere pubblico e legale, e ridotta ad un puro ornamento
dell’animo e nulla più»432. A. leggeva bene la situazione della concorrenza tra
scuole statali e non statali. La Talamanca, riprendendo il dibattito
parlamentare su tali argomenti, fa notare come le scuole private cattoliche
avessero un numero maggiore di studenti rispetto a quelle statali. Cita il senatore
Menabrea che nel maggio del 1872 fa notare come sui 4136 studenti che avevano
sostenuto la licenza liceale, ben 2670 provenivano da scuole private e
seminari433. Ma come dimostrano le vicende successive, il sistema nato dalla
Casati avrebbe portato, come denunciato dall’A., all’assottigliamento delle
scuole private. Sulla volontà del governo di attuare la libertà d’insegnamento
è particolarmente significativo un breve saggio dal titolo: L’autonomia
universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da A.434. Il testo
non riporta la data di pubblicazione, ma si può desumere da alcuni brani che
sia stato dato alle stampe nel 1899. A. critica nel testo della legge una
profonda ipocrisia. Da una parte si affermava il principio dell’autonomia, ma
nei fatti esso rimaneva un flatus vocis, in quanto veniva contraddetto dal
resto della legge. Infatti il progetto non segnava i limiti della “vigilanza”
governativa; sanciva che i confini dell’autonomia sarebbero stati in seguito
definiti dal Consiglio Superiore e dal Consiglio di Stato (senza contrattazione
con gli atenei); affermava che la nascita di nuove Università, Istituti o
Scuole d'istruzione superiore, o di Facoltà poteva avvenire esclusivamente per
decreto; attribuiva al Ministero il potere di respingere le 431 G. A., Opuscoli
pedagogici, Talamanca, La scuola tra Stato e Chiesa dopo l’Unità, in Chiesa e
religiosità in Italia dopo l’Unità, cit., vol. I, p. 365. 434G. A., L’autonomia
universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da A., proposte di
nomina o di conferma dei professi ordinari e straordinari avanzate dalle
Università. In questo modo, ironizza A., «il Governo lascia alle Università il
governarsi da sé, purché si governino a modo suo»435. Il pedagogista guarda
così al modello medioevale, tornando a contestare l’idea secondo cui gli
istituti nascano per legge e non dalla libera associazione. Conclude citando
Villari, correlando la mancanza di autonomia con la crisi dell’Università437.
Un altro aspetto che A. considerava illiberale e nefasto era il controllo dei
libri di testo, con cui il Ministero poteva indirizzare politicamente e
culturalmente l’insegnamento. Lo stesso pedagogista pubblicò un pamphlet nel
quale difese un saggio di un professore siciliano438 che, stando alla sua narrazione,
incorse ingiustamente nella censura ministeriale439 a motivo del suo
orientamento filo cattolico440. 435 7. 436 «Seguendo l'ordine numerico del
disegno di legge, passiamo all'art. 3 che suona cosi: “La creazione di nuove
Università, Istituti o Scuole d'istruzione superiore, o di loro Facoltà o
sezioni, non potrà avvenire se non per legge”. Anche qui abbiamo un segno del
tempo. Sentendo proclamare l'autonomia degli Istituti scolastici superiori, il
nostro pensiero corre spontaneo alle gloriose Università medioevali, che
sorsero e fiorirono non per decreti di Stato, ma per libero valore di insigni
maestri, di studiosi discepoli, di privali cittadini, fervidi amatori della
scienza, e ci immaginiamo di essere ritornati a quo' felici tempi di scolastica
libertà. Illusione! A nessuno si concede di creare nuove Università, o facoltà
universitarie, o Scuole d'istruzione superiore senza il placet regio o
parlamentare. Non si osa proclamare francamente e incisamente il principio, già
sancito dal Belgio coll'articolo della sua Costituzione: “L'insegnamento è
libero; ogni misura preventiva è vietata”» «Io potrei proseguire più oltre la
mia critica, ma dalle poche considerazioni, clic sono venuto fin qui esponendo,
emerge, per quel che a me ne pare, la conclusione, clic la proposta autonomia è
irretita fra tali e tante strettoie da essere ridotta ad una vana parvenza,
mentre la vigilanza dello Stato non ha confini, che la circoscrivano, non ha
norme, da cui sia vincolata. 11 segnare i giusti limiti della vigilanza governativa,
non è qui luogo da ciò: questo solo panni di potere ragionevolmente affermare,
che questo disegno di legge conferisce al Governo poteri assolutamente
inconciliabili colla autonomia universitaria veramente intera. Qualche anno fa
Pasquale Villari scriveva: “Colle libertà, eolie nuove leggi, regolamenti e
mutamenti, con nuovi professori italiani e stranieri, noi non siamo ancora
riusciti a far nascere nelle nostre Università una vera vita scientifica: esse
non rispondono all'aspettazione giustissima del paese. E perché, dimando io?
Perché il Ministero arrogandosi il diritto supremo ed assoluto della pubblica
istruzione ed educazione, ha governato a sua posta le Università invece di
mostrarsi ossequente alla legge non mai abolita, informata ai più larghi o
giusti principii di libertà /in nota cita il libro di Martelli, La decadenza
dell’Università italiana”» Si tratta del libro di G.B. Santangelo, La Famiglia
e la Scuola, letture proposte alle allieve delle classi femminili, esercizi
fondamentali di lettura, scrittura e calcolo per le bambine, Palermo, Amenta, A.,
Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. Santangelo
censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da A., Palermo, Tip.
delle letture domenicali, Nella relazione del Ministro in cui si valutava
negativamente il testo difeso dall’A., si accusava il libro di un certo «odore
di sagrestia». A tale accusa, lo studioso piemontese replicò: «Ah finalmente
ecco qui la chiave omerica, che apre l’arcano di una critica spigolistra,
permalosa, assassina! L’Autore per ragione pedagogica e per debito di programma
ha qua e là nei suoi libri (e non dalla prima all’ultima parola, come,
bugiardamente asserisce il Relatore) parlato di Dio e delle cose sante: dunque
giù botte da orbo sulla sua mal battezzata cervice! In verità addolora il
vedere il Ministero suggellare coll’autorità sua il giudizio di chi parla un
linguaggio tanto plateale e lacera il primo articolo dello Statuto fondamentale
del Regno e l’articolo della vigente legge organica della pubblica istruzione!
Ma già il sentimento religioso è puzza di sagrestia, che ammorba e va
proscritto in nome della nuova Igiene! L’Ermenegarda morente del Manzoni
sclamava: “Parlatemi di Dio, sento ch’ei giunge”: il moderno epicureo grida:
Non parlatemi di Dio, sento che mi si guasta la digestione. Se il Santangelo
fosse stato un prete spretato, che avesse gettato il tricorno alle ortiche,
o L’unico momento in cui sembrò potersi fermare la parabola
monopolistica, fu la nomina a Ministro dell’istruzione del senatore palermitano
Perez. Il neoministro mostrò la volontà di mettere mano ad una riforma della
scuola volta a difendere il principio della libertà d’insegnamento. L’A. prese
subito le difese del Ministro in un articolo pubblicato nella Gazzetta
piemontese e stese il saggio La riforma dell’educazione moderna mediante la
Riforma dello Stato, che trovò l’apprezzamento del neoministro. Gerini
documenta come Perez avesse l'intenzione di chiamare A. stabilmente al
Ministero, con lo scopo di redigere una riforma della scuola e dell’Università
incentrata sulla libertà d’insegnamento e contraria alla deriva monopolistica
intrapresa dai suoi predecessori442. L’A. fu infatti presto coinvolto nella
compilazione di un nuovo Regolamento per la licenza liceale in sostituzione di
quello precedente definito dal ministero Correnti. Il nuovo regolamento, nel
quale A. ebbe «non poca e vivissima parte, intendeva ricondurre gli esami di
licenza liceale alla loro «primiera forma legale, allorquando l'alunno privato
si presentava a sostenerli presso qualunque pubblico liceo dello Stato e
senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio. Il
suo scopo era quello di restituire più ampia libertà agli studenti delle scuole
non statal. Il pedagogista documentò nel saggio sulla legge Casati come il
testo trovò il consenso della maggior parte dei provveditori e dei presidi sui
quali era stato fatto un sondaggio preliminare. Ma il progetto suscitò anche
numerose polemiche. Accusato dagli ambienti liberal-democratici di voler
favorire la scuola libera (e quella cattolica in specie), a pochi mesi dal suo
insediamento, Perez dovette abbandonare il un frate sfratato, che avesse
bruciato il convento per andare a godersi la vita, i suoi libri avrebbero
incontrato ben altro giudice ed altro mecenate» in A., Clericalismo e
liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo, In un
autografo il Ministro scrisse ad A. «...m’accorgo come Ella sia fra quei pochi
cui non travolge la mente l’idolatria dello Stato onnipotente e onnisciente» in
A. Consorte, Scuola e Stato in A., Gerini, La mente d’A., A., La legge Casati e
l’insegnamento privato secondario, Così il professore piemontese sintetizza i
punti salienti del Regolamento: «Gli articoli più sostanziali di esso
Regolamento, che avrebbero radicalmente mutato l'attuale sistema degli esami di
licenza, sono: il quinto, che restringe l'esame sulle materie nei limiti, in
cui esse furono svolte nel terzo anno, quando si siano superati gli esami di
promozione dei due primi anni; il settimo, che lascia libero il candidato
privato di iscriversi presso qualunque pubblico liceo del Regno; il nono, che
lo proscioglie dall'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso
triennio; il dodicesimo, che incarica i professori liceali della preparazione
di temi per le prove scritte, ed inchiude l'abolizione della Giunta centrale. Eppure
quel regolamento era un semplice richiamo alla legge Casati: si intendeva di
ricondurre gli esami d licenza liceale alla loro primiera forma legale,
allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli presso qualunque
pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale
e del percorso triennio. E se ne fece una questione di clericalismo, mentre era
una questione di legalità. dicastero. Il caso sembra confermare quanto annotato
da Limiti: «Il problema della scuola privata sembra essere fatale per la sorte
di taluni ministri della Pubblica Istruzione e qualche volta per la sorte degli
stessi governi!»449. Sebbene impossibilitato ad incidere effettivamente negli
indirizzi della scuola, la sua collaborazione con il Ministero continuò negli
anni seguenti. Come ricorda Prellezo: « esprime il suo parere sui programmi
delle Scuole normali; nel 1885 viene incaricato dal Ministro Coppino
dell’ispezione delle Scuole normali del Piemonte e della Liguria; lo stesso
Ministro Coppino lo chiama a far parte della Commissione reale per il
riordinamento della scuola popolare. Molto più duro fu il rapporto con il Ministro
Paolo Boselli, che guidò la Minerva durante i due primi governi Crispi. Qualche
mese dopo il suo insediamento, A. criticò Boselli a motivo della censura di un
testo già citato. Questo iniziale contrasto probabilmente convinse il
pedagogista piemontese, chiamato a far parte della commissione presieduta da
Villari per stendere i nuovi programmi delle scuole elementari, a non
partecipare a buona parte delle sedute. Pesò probabilmente la convinzione di
rappresentare un’esigua minoranza all’interno della commissione, formata in
larga maggioranza da studiosi di area laicista e positivista. Qualche tempo
dopo l’A. attaccò più severamente il Ministro con il pamphlet dal titolo Lo
Stato educatore ed il ministro Boselli452. Si tratta di un saggio con toni
molto 448Così commentò l’A.: «Il Ministro Perez, rara avis, ritornando al
concetto della legge arditamente si accingeva a spastoiare le scuole private ed
a redimere gli istituti governativi da quel formalismo artifiziato e da quel
enciclopedismo, che insieme congiuravano a sciupare gl’intelletti giovanili e
sfibrare i caratteri. Ma il dio Stato colpiva a mezzo del lavoro la mano
ribelle del suo Ministro. La genìa burocratica con ignobili e subdole manovre,
la stampa liberalesca con una critica sleale ed assassina lo precipitarono ben
presto di seggio miterandolo da clericale! Come avevano adoprato alcuni anni
prima verso il Ministro Berti, propugnatore sincero di libertà» in A., Lo Stato
educatore ed il Ministro Boselli, 4. 449G. Limiti, Momenti e motivi della
legislazione sulla scuola non statale in Italia, in S. Valitutti, Scuola
pubblica e scuola privata, Bari, Laterza. Prellezo, A. negli scritti pedagogici
salesiani. Introducendo il lavoro A. denuncia: «Questa turba liberalesca altro
non vede e non adora che se medesima, e va gridando: l’Italia siamo noi, noi
siamo il patriottismo, la libertà, la Costituzione, lo Stato: chiunque non ci
appartiene è nemico della patria, chi non è con noi, è contro di noi. Sì, i
clericali sono contro di voi, perché i nemici della patria siete voi, voi i
demolitori delle franchigie costituzionali e della indipendenza politica, gli
oppressori della libera attività dei privati cittadini. Oh benedette
rimembranze del 1848, allorchè si vagheggiava, anelando, un ideale di unità e
di floridezza sociale, di dignità e di indipendenza nazionale, di vera e larga
libertà politica e civile, sorretta dalla religiosità e dall’integrità del
costume! In omaggio a quell’ideale languivano nelle carceri del dispotismo
austriaco o cadevano decapitati sul palco i martiri italiani; cimentavano sui
campi lombardi la vita contro gli stranieri i prodi. Orta quel santo ideale
conquistato con inauditi sacrifici di sangue e di danaro, è buttato nel fango
da una turba di affamati, di ambiziosi e di settarii» in G. A., Clericalismo e LIBERALISMO,
ossia i libri di lettura di Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione
pubblica e difesi da A.. Solo la prima parte del saggio, intitolata Lo Stato
educatore, è stata ripubblicata in G. A., Opuscoli pedagogici. aspri, ma
composto da critiche precise e circostanziate come è stato notato da Bonghi.
Nel saggio ribadì le accuse al sistema statolatrico italiano e stigmatizzò una
serie di provvedimenti emanati dal Ministro: criticò il decreto il quale
prescriveva che, per le sole scuole statali, la licenza elementare fosse titolo
sufficiente per l’ammissione alla prima classe del ginnasio e della scuola
tecnica; contestò la circolare dell’8 agosto 1889 con cui, in mancanza di
maestri legalmente abilitati, dava la possibilità ai militari congedati che
avevano superato l'esame prescritto per gli aspiranti sergenti, di insegnare
nelle scuole assicurando la metà della copertura con fondi ministeriale, al
contrario di quanto avveniva per gli altri insegnanti; protestò contro una
circolare ministeriale nella quale, a dispetto dell’art. della legge Casati,
s’impediva ai parroci di presiedere gli esami di istruzione religiosa;
recriminò che il corso di pedagogia non risultasse tra i corsi obbligatori per
il conseguimento della laurea in Lettere e Filosofia454. Criticò, inoltre, i
toni di una circolare finalizzata al riordino degli Orfanotrofi e dei
Conservatorii e stigmatizzò la «faziosità» con cui il Ministro gestì i
trasferimenti tra le diverse Università per influenzare le vicende concorsuali.
Questi elementi condussero A. a tacciare Boselli di «cesarismo scolastico». In
conclusione avanzò una proposta provocatoria e risoluta: «Delenda Carthago. Il
ministero della pubblica istruzione va annullato. La proposta dell'abolizione
del dicastero, peraltro avanzata già in Parlamento dal deputato libertario e
socialista Morelli, non rappresentava in effetti agli occhi di A. la condizione
ideale per il governo dell’istruzione pubblica, ma costituiva la fatale
soluzione alla «metastasi statalista» che soffocava la scuola italiana.
Confermò le stesse posizioni in un 453 Commentando il saggio, il Bonghi
osserva: «L’A. è professore di pedagogia come tutti sanno, e tanto ha scritto
della scienza che professa, e posto molta cura a’ problemi, che vi si trattano,
da meritare, di certo, che un suo studio sulla materia dell’educazione, teorica
e pratica, non passi inosservato. Quello che annunciamo, è diviso in due parti.
Nella prima tratta la questione se e quale parte spetti allo Stato
nell’educazione; e viene alla conclusione media e vera, che la suprema autorità
scolastica risiede nella famiglia, e allo Stato spetta un ufficio complementare
e di vigilanza. La seconda è una critica minuta – e talvolta, il che non è
bene, acre – della condotta dell’attuale ministro di Pubblica Istruzione. Né si
può negare che una buona parte dele osservazioni sia giusta, e a ogni modo consigliamo
il ministro di darvi peso, e non immaginarsi, che, prima o dopo, non ne
avranno. Soprattutto le considerazioni intorno al concetto e alla condizione
dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, come appaiono nelle più
recenti circolari del ministro, ci paion degne ch’egli vi rivolga la sua
attenzione» R. Bonghi, Idee di A. circa la libertà d’insegnamento, Sullo stesso
tema il pedagogista aveva già scritto un pamphlet: A., Il ministro Coppino e la
pedagogia, Torino, Borgarelli, A., Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli,
Concludendo il saggio A. ricorda la sua fedeltà alle istituzioni dello Stato
Italiano: «Pubblicando questo lavoro io non ho inteso di venir meno ala
ragionevole riverenza dovuta all'autorità ministeriale; e ne fa prova manifesta
il rispetto, che io professo sincero per le leggi dello Stato, per le patrie
istituzioni, per le franchigie costituzionali, per la nazionale indipendenza.
Ho censurato gli atti governativi adoperando quella crudezza di forma, che
risponde alla gravità del male, esercitando un diritto, che lo Statuto
conferisce ad ogni libero cittadino, adempiendo un dovere impostomi dalla
carità del loco natio e dalla coscienza del mio mandato. Ho parlato il
linguaggio dei fatti; ed i fatti li smentisca chi può, li riconosca chi
deve. articolo intitolato Salviamo la scuola!, nel quale dopo essersi
soffermato sulle storture della scuola statale e sul suo ordinamento illiberale
ritornò a prospettare la soppressione del Ministero. Un attacco così diretto
non restò senza conseguenze. All’opuscolo del pedagogista replicò infatti un
libretto anonimo intitolato Lo Stato educatore – botte di un educatore –
risposte di un educato458 che, stando al Gerini, sarebbe stato redatto negli
uffici del ministero. La risposta alle critiche è non solo pungente quanto, del
resto, le denunce d’A., ma scade a livello di attacco personale. Oltre a
difendere ogni singolo provvedimento annotato dallo studioso vercellese,
l’autore si abbandona alla denigrazione della sua attività didattica e scientifica:
«Ha una famiglia pedagogica A.? No. E la ragione è una sola, ed è naturale e
chiara, non si può dar famiglia senza amore. Omnia vincit amor. Ma l’A. non ha
amore, se non verso sé medesimo. Il sentimento che noi scorgiamo nel prof. A.
non è, no, mal volere; è piuttosto un affetto immoderato che lo muove a far
troppo di sé centro a sé stesso; talmente che egli rende, senza forse
accorgersene, l’immagine dantesca di cosa che sé in sé rigiri; e rigirandosi,
egli nella sua vaga visione si esalta così, che gli par di poggiare su, ad un
punto superiore a quello di chi nella scala sociale e nella realtà dei fatti è
più alto di lui»460. L’acida polemica continuò con un ulteriore passaggio in
una replica d’A. nel breve saggio: Risposte di un educato: un educato. Fin
dalla prima pagina lo scritto era poco conciliativo, sia nel difendere le sue
tesi sia nel contestare le accuse, così chiosando ironicamente lo statalismo
ministeriale: «Beati i popoli (ripiglio io), retti da un governo così raccolto
ne’ suoi giusti confini, così ossequiante alle leggi ed ordinato in ogni atto
suo, così alieno dallo esclusivismo e tanto rispettoso della libera attività
de’ cittadini All'educazione nazionale peggior ventura che quella del Ministero
di Boselli non è toccata mai. Il dilemma si affaccia irrevocabile. Delenda
Carthago! L’abolizione del Ministero di pubblica istruzione si impone
imperioso, urgente, indeclinabile. La salute della nostra grande ammalata, che
è la scuola, è a questo prezzo. Per questa via sola si giunge a smantellare la
roccia della vastissima setta, che impera sovrana alla Minerva. Dacchè il
parlamentarismo rasenta la bancarotta, può ben far senza di un Ministero,
liberandoci da quella smania di legiferare, da quel subisso di leggi e
regolamenti e decreti e circolari scolastiche, che intralciano il regolare
processo della pubblica istruzione e comprimono la libertà degli studi»
Salviamo la scuola! in «La libertà d’insegnamento. Bollettino trimestrale della
“Unione pro Schola Libera”», Torino, Tip. S.A.I.D. Lo Stato educatore – botte
di un educatore – risposte di un educato, Roma, Stabilimento Civelli. segnatamente
nel campo pedagogico, che alla famiglia non venga impedito di comporsi
nell’ordine suo ed adempiere la sua missione educatrice. Torna a criticare
Boselli sulle pagine de Il nuovo Risorgimento. Alle accuse precedenti ne
aggiunse altre come quelle circa l’ingerenza della Minerva sulla scuola
dell’infanzia, la nomina di un impiegato di biblioteca ad ispettore scolastico
di prima classe, e il fatto che «il ministro Boselli con una sua ordinanza
deferiva l’anno scorso alle singole Commissioni esaminatrici la proposta dei
temi per le prove scritte della licenza liceale, offendendo l’articolo del R. regolamento allora vigente. Si
trattava secondo l’A. della persistenza di una serie di «abusi del potere
esecutivo», in cui scorgeva il tradimento dello Stato di diritto e della
libertà: L’Italia è tutta infesta da una turba di pseudo-liberali, che la
libertà fanno strumento di servitù, e della patria, delle franchigie
costituzionali, delle leggi dello Stato si fanno sgabello per salire in alto
sitisbondo di dominio e di oro, corrompendo il pubblico costume e le
istituzioni politiche e civili della nazione»464. Un altro episodio che segnò
lo scontro con la Minerva, risale al pensionamento di A., quando il dicastero
era guidato dall’onorevole Credaro. Il pedagogista, ormai anziano e con poche
forze, chiese al Ministero che gli affidasse un sostituto. La Facoltà nominò il
pedagogista Romano, «ex» spiritualista e cattolico convertito al positivismo.
Lo studioso era già stato bocciato in una serie di concorsi per conseguire la
libera docenza a Torino, Milano, Palermo e Bologna. A Catania addirittura tutti
e cinque membri della commissione esaminatrice diedero esito negativo. La
nomina di un candidato simile come suo supplente, peraltro agli antipodi
rispetto alla sua linea pedagogica, portò l’A. a prendere dura posizione contro
la Facoltà e il preside Vidari, e poi a chiedere di andare definitivamente in
pensione, per impedire al Romano di insegnare sulla sua cattedra. Raccogliendo
una serie di articoli apparsi su giornali e riviste come Italia Reale, L’Unione
di Vercelli, Il Momento, Il Corriere d’Italia, I diritti della scuola Studium,
fu pubblicato un pamphlet sulla vicenda. Furono inserite anche due lettere
inviate da A. a due di queste riviste come ringraziamento della solidarietà
dimostrata, e un piccolo scritto dallo stesso pedagogista in cui chiariva
ulteriormente i contorni della vicenda. La posizione di A. sulla vicenda è
molto significativa: G. A., Un educato anonimo, Torino, Tip. Subalpina, A.,
Boselli e la legge, «Il nuovo Risorgimento. A. e la sua cattedra, Torino, Tip.
S, Giuseppe degli artigianelli. emergono sia un vivo attaccamento all’impegno
pedagogico e magistrale466, ma anche forti dissidi con l’ambiente
universitario. Nelle sue ricostruzioni A. attribuì a Vidari, allora preside
della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino, la responsabilità dello smacco
subito, collegando l’appoggio da parte del preside del Romano e un generale
poco rispetto dimostrato anche con altri episodi, in virtù della sua aderenza
ai principi spiritualisti e alla sua fede. Un altro testo in cui attacca il
Ministero è il testo Del realismo in pedagogia, nel quale contesta le posizioni
espresse da SANCTIS (vedasi) in uno scritto pubblicato ne la «Gazzetta
letteraria di Torino», in cui lo statista napoletano sosteneva come la classe
magistrale dovesse ispirarsi ad un realismo di impronta pragmatista. A. è
invece convinto che l’anima della scuola poteva essere un solido ideale umano.
Senza valori certi, Si tratta di una
lettera inviata a l’Unione di Vercelli, per ringraziare delle parole in sua
difesa. Scrisse: «Io non sono più maestro. Non è la morte, che mi abbia rapito
alla cattedra, ma è qualche cosa di peggio. In questi ultimi anni la mia vita
universitaria fu amareggiata da grandi dolori. Pur tuttavia avrei continuato
nel mio insegnamento; ma quando mi si volle imposto per supplente un rifiuto di
tutti i concorsi universitari, a cui egli si è presentato, esclamai: Basta
così; e mi ritirai nel santuario della vita privata, abbandonando alla
dimenticanza ed all’oblio quei tra infelici che malignavano sulla mia persona.
Abbandono con certo qual rammarico la cattedra, che per più di cinquant’anni mi
fu cara compagna di lotta del pensiero, nella conquista della verità, e vedendo
scomparire a me d’intorno quella folla sempre nuova di giovani studiosi che nel
volgere degi anni veniva ad ascoltare la mia povera parola, mi pare quasi che
la mia vita si spenga nell’isolamento. No, non si spegne, ma semplicemente si
trasforma. Veggo che la mia più che attuagenaria esistenza volge al tramonto,
ma io mi esalto pensando al Divino Maestro, al Pedagogo eterno, al Verbo
vivente, al Redentore dell’umanità. Dopo aver accennato i concorsi falliti da
Romano, A. commenta l’ultimo a Catania «quest’ultimo poi gli fu veramente
disastroso, non avendo riportato nemmeno un voto favorevole. Tanto è che coloro
stessi fra i miei colleghi che per lo passato lo avevano sempre protetto e
difeso a spada tratta, in faccia a quel disastro esclamarono: È un uomo liquidato!
Ma che? Questi medesimi lo proposero per mio supplente e poi riuscirono ad
insediarlo sulla Cattedra di Pedagogia da me lasciata vacante. Viva la libertà
del dire e del disdire! Il Romano deve il presente suo splendido successo a
Vidari, il quale rifiutando di interpellarmi intorno la scelta del mio
supplente, sostenne in Consiglio di Facoltà insieme con sei altri professori
presenti all’adunanza (senza contare tre altri, che diedero voto contrario) che
fosse proposto il libero docente, fallito in tutti i concorsi universitari di
pedagogia specie in quel disastroso di Catania. A. riporta nello scritto un
brano di una lettera uffficiale scritta da Vidari in occasione delle sue
dimissioni, e così la lo commenta: Egli mi rivolse un saluto perché abbandoni
l’Università, ma non aggiunge sillaba, che esprima il menomo rincrescimento di
aver perduto in me un collega, e quando presentai le mie dimissioni non mi ha
significato il menomono desiderio che fossero ritirate. L’augurio anche’esso mi
sa di forte agrume. Che nel placido riposo io possa lungamente deliziarmi nei
prediletti miei studi? – Ma questi cari miei studi prendono forma e vita dalla
pedagogia italiana tradizionale fondata sul teismo cristiano. Ora questa
pedagogia l’avete cacciata via dalla mia Cattedra per fare luogo alla dottrina
razionalistica del mio supplente, sicché l’augurio a me rivolto viene a
tradursi in questi termini: Deliziati senza fine negli studi tuoi, ma non qui
in queste aule universitarie in mezzo a noi e nella realtà della vita sociale,
ma in mezzo alle mi- stiche regioni del soprannaturale, nelle sedi beate dei
Campo elisi conversando cogli spiriti magni di Aporti e Rayneri. Sì, io serberà
sempre viva la mia ragione filosofica sorretta dalla fede religiosa in Cristo;
ma voi vi vantate razionalisti e calpestate la scienza collocando sulla
cattedra chi non la possiede; voi esaltate la libertà del pensiero, e
v’inchinate a tutte le dottrine, fossero pur dissolventi e scettiche: soltanto
il pensiero cristiano non trova grazia presso di voi. A., Del realismo in
pedagogia, Torino, Roux e Favale, 1878 inserito in Id., Opuscoli pedagogici, si
sarebbero abbandonate le giovani generazioni a progetti e prospettive
volgarmente materiali e pragmatiste, condannandole all’alienazione. La battaglia
d’A. in favore della libertà d’insegnamento si tradusse – per quanto egli fosse
già avanti negli anni – nel sostegno alla fondazione, nel 1907,
dell’associazione «Unione pro schola libera. Società nazionale per la libertà
d’insegnamento», fermamente voluta da Piovano e da Bettazzi, finalizzata
diffondere le ragioni della libertà scolastica, contro lo statalismo e i suoi
fautori. A. è scelto come presidente generale effettivo, carica che ricoprì
solo per un anno, dopo il quale si allontana progressivamente dal nucleo
direttivo e organizzativo dell’associazione, a cui continuarono a legarlo
comunque lo spirito e le motivazioni di fondo. Inizia ad essere pubblicato
anche il Bollettino dell’associazione, La libertà d’insegnamento, un
trimestrale a diffusione nazionale pubblicato inizialmente in circa tremila
copie. La nascita e l’attività del sodalizio ebbero notevole risonanza
contribuendo a vivificare il dibattito sulla libertà scolastica che stava
registrando in quegli anni una notevole ripresa. In un convegno svoltosi a
Genova, dal titolo Istruzione ed educazione cristiana del popolo italiano gli
eredi dell’Opera dei Congressi, confluiti nelle Unioni Cattoliche, lodarono
l’iniziativa d’A. e nella seconda delle tre risoluzioni fu sancito uno stretto
rapporto con l’Unione torinese. La Civiltà Cattolica – che a lungo aveva
praticamente ignorato le tesi d’A. – dedicò al Convegno un articolo, riportando
le conclusioni dell’assise cattolica ed encomiando l’operato dell’A. e
dell’«Unione pro schola libera. Appaiono significative le affermazioni
conclusive dell’articolo, nel quale si celebrano affianco agli allievi i più
importanti rappresentanti del cattolicesimo liberale francese. G. Chiosso, La
stampa pedagogica e scolastica in Italia. Chiosso, Gentile, i cattolici e la
libertà di insegnamento nei primi anni del Novecento, in G. Spadafora (ed.),
Gentile. La pedagogia, la scuola, Roma, Armando. Nella seconda delle tre
risoluzioni fu scritto che il Congresso «Plaude all’Unione pro schola libera
sorta in Torino sotto gli auspici del venerando prof. A., e a tutte le altre
istituzioni aventi lo scopo di tutelare i diritti dell’insegnamento libero; Fa
voti che l’azione in favore della scuola libera sia efficacemente coadiuvata
dai padri di famiglia, dagli insegnanti degli istituti privati e specialmente
dall’azione illuminatrice della stampa quotidiana; Delibera di affidare
all’Unione stessa l’incarico di studiare ed attuare quei mezzi pratici, che
valgano a salvare quanto resta ancora di libertà d’insegnamento nella vigente
legislazione e di ottenere dai pubblici poteri quegli immediati temperamenti,
che servano a sopprimere le più odiose disposizioni regolamentari contro
l’insegnamento privato» Il congresso cattolico di Genova, La Civiltà Cattolica,
quaderno. Scrive l’autore dell’articolo: Dopo queste semplici osservazioni
intorno alla prima risoluzione, lasciamo ai lettori di apprezzare l’importanza
della seconda risoluzione del congresso; in cui si traggono con un senno
pratico degno di ogni encomio, le conseguenze legittime del principio fissato
nella prima. Quale campo fecondo di attività, non meno benefica che urgente
nelle singole deliberazioni di questa seconda Èa partire da questo periodo
che il pensiero pedagogico del pedagogista vercellese iniziò a essere
apprezzato e diffuso anche al di fuori del circuito del cattolicesimo liberale.
Lo confermano una serie di articoli pubblicati sulla «Civiltà Cattolica, l’attenzione
delle «Rivista di Filosofia neoscolastic, i meriti riconosciutigli da Meda, e
un celebre saggio di Monti, La libertà della scuola in cui si trovano citati
gli scritti d’A. e si ricordano le sue battaglie scolastiche. Nel frattempo A.aveva
lasciato questo mondo. risoluzione! Le ponderino attentamente i cattolici
italiani; i giornalisti, i conferenzieri e gli stessi sacerdoti, in Chiesa e
fuori di Chiesa, ne facciano il soggetto del loro apostolato, finché il popolo
se ne impossessi e ne sappia fare buon uso specialmente in tempo di elezioni:
da ciò dipende la salvezza della gioventù e della patria! Noi ne siamo sì
profondamente persuasi, che non possiamo fare a meno di mandare da queste
pagine un saluto e un augurio solenne all’Unione pro schola libera di Torino e
al suo venerando presidente A., il più
illustre pedagogista che oggi vanti l’Italia, degno rappresentante delle
tradizioni filosofiche ed educative veramente italiane; la cui fama è pur
troppo assai inferiore al merito, perché ingiustamente eclissata dal predominio
del positivismo anglo – sassone e teutonico negli atenei e nelle scuole normali
del regno. Possa il suo nome tramandarsi ai posteri con quelli di Montalembert,
di Falloux e di Dupanloup per la Francia, come simbolo della conquistata
libertà d’insegnamento per l’Italia!” Il congresso cattolico di Genova. In tre
articoli pubblicati sulla pedagogia contemporanea sono citate le opere di A. e
le sue critiche al positivismo. Cfr: Linee di pedagogia moderna, cFinalità
educative, quaderno; L’opera educativa positivista, quaderno; Cannella,
Opuscoli pedagogici inediti ed editi di Giuseppe A., cMeda, Universitari
cattolici italiani, Monti, La libertà della scuola, principi, storia,
legislazione comparata, Milano, Vita e Pensiero. Antropologia e di pedagogia
nell'Università di Torino Torino,Carlo,Clausen. In un'opera assai importante
pubblicata dall'illustre prof. A., della quale ho a suo tempo discorso in
questa autorevole Rivista,leggeşi un capitolo inscritto: Prime origini dei
problemi psico. fisiologici,checontieneingermelamateria della presente memoria,
la quale richiama a sè l'attenzione di tutti coloro che s'interessano dei più
gravi problemi della scienza antropologica. Pigliando le mosse dall'origine
storica e psicologica dell'Antropo logia,dellaqualedeterminapurei
limiti,l’A.poneinsodo ilVero, l'incerto e l'ignoto di questa disciplina, per
dichiarare quindi l'ana. logia tra il mondo esteriore della natura ed il mondo
interiore dell'anima. Ma se il mondo esterno ed il mondo psicologico interiore
si rispecchiano e si rassomigliano sotto certi riguardi, tra l'anima ed il
corpo nell'uomo, intercedono analogie assai più intime, spiccate e na• turali,
intorno alle quali si trattiene a lungo l'Al. Ora uno dei più cospicui punti di
corrispondenza tra l'anima ed il corpo si manifesta nel parallelismo di
sviluppo attraverso le successive età della vita umana: parallelismo però, che
non è nè assoluto, nè continuato,tanto meno poi un'identità. Un'altra
corrispondenza è quella che intercede tra la mente sada ed il corpo sano, tra le
malattie dell'anima o quelle del corpo. L'A. Studi antropologici– L'uomo ed il Cosmo
Unvol. in 8gr. circa Torino Tipogr. Subalpina editrice. Psicologia. Studi
psico-fisiologici. Memoria di A., professore BOLLETTINO PEDAGOGICO E
FILOSOFICO. ripone la sanità della mente nell'armonico e regolare sviluppo
della medesima, e la sanità del corpo, nell'equilibrio operoso delle funzioni
fisiologiche. Conseguentemente distingue una duplice specie d'igiene, di
patologia e di terapeutica, corrispondenti alle due sostanze componenti
l'essere umano. Anche i duestati della veglia e del sonno si corrispondono fra
di loro, essendochè su ciascuno di essi le potenze dell'anima e le funzioni dell'organismo
si mostrano sotto forme speciali edana. loghe. Lo spirito poi ed il corpo in tutto
ilcorso ascensivo del loro perfezionamento si prestano vicendevoli uffici,
poichè lo spirito deve ai sensi esterni la prima conoscenza del mondo sensibile
corporeo; a LA PAROLA, che è un SEGNO SENSIBILE ordinato ad esprimere un
intelligibile, lo svilnppo del suo pensiero; alla mano (nella cui struttura
Elvezio non dubita di riporre la superiorità dell'uomo sul bruto) lo strumento
della sua attività artistica e morale. Lo spirito alla sua volta ricambia dei
suoi servigi ilcorpo,inpalzandolo alla dignità prco pria della persona umana,e
conferendogli virtù singolari,assai supe jiori alla sua costitutiva essenza.
Iofatti il corpo umano, informato dalla mente che lo governa, è reso capace di
compiere azioni a cui non arrivano i corpi dei bruti, sia che venga riguardato
nell'intiera compagine del suo organismo, sia che lo si consideri nella
speciale struttura delle sue parti e nelle funzioni de'suoi sensi particolari. A
questo punto l'A. richiama ad un'ordinata rassegna la molteplice varietà dei
fenomeni, che si svol gono nell'interiorità del nostro essere, e che forniscono
argomento di una specialedisciplina,lapsico-fisiologia,dellaqualetraccialelinee
generali, non senza avvertire che di essa ai nostri tempitrovansicenai
nelSaggio sui'principiiedilimitidellascienzadeirapportidelfisico e del morale
del Cerice, e più ancora nei Principi generali di psico login fisiologica di Lotze.
La scienza psico-fisiologica, dice l'A.,suppone come sua condizione la
psicologia e la fisiologia e facendo tesoro delle cognizioni che le ammannisce
l'unaintorno all'anima umana,l'altra intornoall'organismo corporeo,s'innalza a
studiare ilsupremo principio generatore di tutti i fenomeni della vita umana
che forma il problema fondamentale di tale disciplina.Ilquale può ricevere due
soluzioni principali, secondo che ilprincipio generatore di tutti ifenomeni
riponsi in una sostanza o nei fenomeni stessi. Nel primo caso abbiamo il
dinamismo; nel secondo il fenomenismo. Il primo può essere mono-dinamismo, se
riconduce tutti i fenomeni umani ad una sola sostanza, la quale potendo essere
o l'anima od il corpo, bipartisce il mono-dinamismo in animismo e materialismo:
duo-dinamismo se pone una differenza essenziale tra ifenomeni mentali ed i fisiologici.
Il fenomenismo si bipartisce pure, potendo essere dualistico od e
voluzionistico, secondo che riconosce una linea di distinzione trai due ordini
di fenomeni, ovvero sostiene che sitrasformano gli uni ne gli altri. A. esamina
con singolare lucidezza di pensiero e grande chiarezza d'esposizione queste
diverse classi di sistemi psico-fisiologici, considerandoli nei loro più noti
rappresentanti; ed è degno di consi derazione l'esame della dottrina di Serbatti
su questo punto. Venendo allo scioglimento del problema,vuolsi distinguere il
duodinamismo esclusivo dal temperato. Ora se il primo non risolve il problema
perchè separa l'uno dall'altro idue principii costitutivi dell'uomo, per guisa
chel'anima razionale è causa unica essa sola di tutti e soli i fenomeni mentali
e non interviene per nulla nella produzione dei fenomeni fisio logici ed animali,
il principio vitale poi è esso solo il generatore dei fenomeni della vita
corporea e mantiensi affatto estraneo ai fenomeni mentali; il secondo pel
contrario siccome quello che mantiene distinti i due principii costuitutivi
dell'uomo, e riconosce ad un tempo la loro vicendevole influenza, talch è i fenomeni
mentali si compenetrano coi fenomeni animali e si condizionano a vicenda, dà
un'equa soluzione al problema. a Cosi, conclude l’A., il concetto della
personalità umana, vale a dire di un soggetto sostanziale fornito
d'intelligenza e di libera volontà, è il solo,che conciliila molteplicità dei
fenomeni coll'unità delloro umano soggetto, sicchè questi due termini nello
sviluppo della vita umana, si mantengono indiegiungibili, e si rischiarano l'un
l'altro. Su questo concetto si fonda appunto la notissima divisione della psi
cologia in empirica e razionale.» Tale è nelle sue linee generali lo studio
dell'insigne filosofo subal pino che mostra un ingegno vigoroso sempre ed
acutissimo:e siamo certi che l'accoglienza fatta alle altre opere di lai, sarà
rinnovata per questa memoria,nella quale si scrutano ipiù ardui problemi della
scienza dell'uomo. Giuseppe Allievo. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Allievo” – The Swimming-Pool Library. Allievo.
Grice ed Allioni:
deutero-esperanto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).
Filosofo italiano. Roma, Lazio. Con Allioni. Novecento novantanove Cod.: codice
di corrispondenza amichevole internazionale, Torino, Impronta. Dulichenko’s Boellu is
a misspelling). A code for friendly international correspondence. Digital
pasigraphy is indicated in DIAL under the number 901.121. In the same
edition, Dulichenko mentions the linguistic project Arioni-Boera, number
854.74, referring to Fuishiki Okamoto (Rikichi, or Fuishiki, Okamoto.
Perhaps we are dealing with the same project. Indeed, in the introduction,
Okamoto lists several works that influenced the Babm9 language, including
Arioni-Boera. Taking into account that Oka moto’s native language is Japanese,
it can be assumed that the Japanese spelling is the source of the
confusion. The thing is that there is no “l” sound in the Japanese language.
Instead, they pronounce “r” (voiced alveolar flap [ɾ]). The surnames
Allioni and Boella could easily have been transformed into Arioni-Boera in some
Japanese source. In order to distinguish cardinal numerals from other
numbers corresponding to code words, they are written in parentheses:
(1), (2), (3), etc. References:
[2], [17], [45], [53]. Ernesto Boella. Boella. Keywords:
deutero-esperanto. Grice e Boella.
Con
Boella. 999 Cod.: coice di corrispondenza amichevole internazionale. Keywords:
deutero-esperanto. Refs.L Luigi Speranza, “Grice ed Allioni”. Allioni.
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