Grice e Corbellini: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del darwinismo politizzato – scuola
di Cadeo – filosofia piacentina – filosofia emiliana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Cadeo). Filosofo piacentino. Filosofo emiliano. Filosofo
italiano. Cadeo, Piacenza, Emilia-Romagna. Grice: “I like
Corbellini; of course he has to defend science versus what he calls – alla
Popper? – ‘pseudoscenza’ in Italy, which he calls ‘il paese della pseudoscenza’
– I thought that was Oxford!” I sui interessi riguardano la grammatical
del vivente, la storia della medicina e la bioetica. Insegna Roma. Si laurea
con “L’epistemologia evoluzionistica”.I suoi interessi di studio hanno
riguardato la storia e la filosofia della biologia evoluzionistica, delle
immunoscienze e delle neuroscienze, per includere poi anche lo studio della
storia della malaria e della malariologia in Italia, delle ricadute della
genetica molecolare, delle implicazioni dell’evoluzione e l'evoluzione. L'approccio
storico-epistemologico all'evoluzione trovato una sintesi nella ricostruzione
della storia delle idee di “salute” e malattia e delle trasformazioni
metodologiche a cui è andata incontro la ricerca delle spiegazione causale
della salute. La sua ricerca si è orientata anche verso l'esame delle radici delle
controversie bioetiche. Difende un'idea non confessionale della bioetica, che
ha radici filosofiche in uno scetticismo morale radicale, naturalistico e non
relativista (Bioetica per perplessi. Una guida ragionata, Mondadori). Coltiva anche un interesse per la percezione
sociale e il ruolo della scienza nella costruzione del valore civile. Sostiene
che l'invenzione e l'espansione del metodo scientifico hanno consentito e
favorito l'evoluzione del libero mercato e della stato di diritto, ovvero che
la scienza ha funzionano come catalizzatore nella costruzione e manutenzione
dei valori critico-cognitivi e morali che rendono possibile il funzionamento
del sistema liberal-democratico. Altre
opere: “Nel Paese della Pseudoscienza. Perché i pregiudizi minacciano la nostra
libertà” (Milano, Feltrinelli); “Cavie? Sperimentazione e diritti animali”
(Bologna, Il Mulino); “Tutta colpa del cervello: un'introduzione alla neuro-etica”
(Milano, Mondadori Università,; Scienza, Torino, Bollati Boringhieri); “Dalla
cura alla scienza” (Milano, Encyclomedia Publishers); “Scienza, quindi
democrazia, Torino, Einaudi); “Perché gli scienziati non sono pericolosi”
(Milano, Longanesi); “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in
Italia (con Giovanni Jervis), Torino, Bollati Boringhieri, EBM); “Medicina
basata sull'evoluzione” (Roma-Bari, Laterza); “Bi(blio)etica” (Torino,
Einaudi); “Breve storia delle idee di salute e malattia” (Roma, Carocci); “La
grammatica del vivente. Storia della biologia e della medicina molecolare”
(Roma-Bari, Laterza); “L'evoluzione del pensiero immunologico” (Bollati
Boringhieri, Torino). L’errore di Darwin. Introduzione; Dall’etica medica alla
bioetica; Il senso morale umano e le controversie bioetiche; 3. Sperimentazione
sull’uomo e consenso informato; Scelte di fine vita; Scelte di inizio vita;
Medicina genetica; Sperimentazione animale; Medicina dei trapianti e
definizione di morte; Etica della ricerca responsabile; Medicina rigenerativa e
staminali; Neuroetica; Etica ambientale e OGM; Etica della comunicazione scientifica,
della percezione della scienza e del «gender»; Indice dei box; Indice
analitico; Indice dei nomi. Come nota C. nella prefazione all’edizione italiana
del libro di Ru- bin, il tentativo di applicare l’approccio evoluzionistico
alla filosofia politica spesso rischia di venire frainteso. Il fraintendimento
più comune e pericoloso deriva dalla mancata distinzione tra il darwinismo
politicizzato e la politica darwiniana: il primo è costituito, come è accaduto
nel caso del “social darwinismo”, dall’nterpretazione strumentale e priva di
coerenza logica o di basi scientifiche delle idee darwiniane per difendere
qualche particolare ideologia politica»; la seconda, invece, consiste nell’«uso
delle conoscenze evoluzionistiche sulla natura umana per meglio comprendere le
origini delle preferenze politiche individuali, la loro distribuzione sociale e
le dissonanze tra gli adattamenti ancestrali e l’ambiente attuale. Ridley si mostra
ben consapevole del rischio di trasformare la politi- ca darwiniana in
ideologia. Questo, tuttavia, non gli impede di avanzare alcuni suggerimenti di
politica economica Cfr. Skyrms, The Evolution of Social Contract, e Festa
“Teoria dei giochi, metodo delle scienze sociali e filosofia della politica”,
Prefazione a de Jasay, Scelta, contratto, consenso). Alcune immani tragedie che
hanno segnato la storia degli ultimi due secoli sembrano dovute, almeno in
parte, all’ignoranza – e, talvolta, alla ne- gazione – di alcune
caratteristiche essenziali della natura umana. Per esempio, Ridley osserva che
Marx vagheggia un sistema sociale che avrebbe funzionato solo se fossimo stati
degli angeli, ed è fallito perché siamo invece degli animali. Singer, Una sinistra
dawiniana. Politica, evoluzione e CO0OPERAZIONE, Torino, Edizioni di Comunità,
Arnhart, Darwinian Conservatism, Exeter (UK), Imprint Academic, Rubin, La
politica secondo Darwin; Corbellini, “Politica darwiniana vs darwinismo
politicizzato”, prefazione a Rubin, La politica secondo Darwin; Ridley.Origini.Virtu.indd
Le origini della virtùsi vedano soprattutto gl’ultimi tre capitoli del saggio –
che gli sembrano compatibili con le nostre tendenze evolutive. La prospettiva
filosofico-politica che ne emerge è un libe- ralismo con tendenze anarchiche,
che non sarebbe inappropriato chiamare anarco-liberalismo. Tale prospettiva,
ispirata dalla grande fiducia di Ridley negl’ISTINTI CO-OPERATIVI e altruistici
degl’esseri umani, sfocia infatti nella difesa di un ordine politico-economico
nel quale il ruolo del gover- no e dell’intervento pubblico è ridotto ai minimi
termini: Recuperiamo la visione di Kropotkin, che immaginava un mondo di liberi
individui. Non sono così ingenuo da pensare che ciò possa accadere da un giorno
all’altro, o che qualche forma di governo non sia necessaria. Ma metto se-
riamente in dubbio la necessità di uno Stato che decide ogni minimo dettaglio
della nostra vita e si attacca come una gigantesca pulce alla schiena della
nazione. D’altra parte, Ridley si rende conto che, mentre le soluzioni
politico-economiche da lui favorite si accordano con alcune tendenze evolutive
umane, confliggono però con altre. Per esempio, egli osserva che certe
istituzioni economi- camente adeguate nella società moderna, come la proprietà
privata, possono entrare in tensione con le tendenze primi- tive
all’egualitarismo, alla redistribuzione e al rifiuto dell’accumulazione di
ricchezza. L’analisi dei conflitti tra le moderne istituzioni
politico-economiche e le nostre ten- denze primitive è uno degli argomenti
centrali del già citato libro di Rubin.Le “Imperfezioni umane” di Pani e C.
Covato Mailing Le “Imperfezioni umane” di Pani e C. Fornire un punto di vista
innovativo, cioè evoluzionistico, di tutto quello che riguarda la salute e le
disfunzioni comportamentali, e suggerire qualche punto di vista originale sul
perché nonostante le dissonanze evolutive, la condizione umana è globalmente
migliorata. È questo l’obiettivo del libro dal titolo “Imperfezioni umane.
Cervello e dissonanze evolutive: malattie e salute tra biologia e cultura”
(Rubbettino), scritto da Luca Pani e C., Roma, Centro studi americani a Via
Caetani. Dopo i saluti di Messa, direttore Centro studi americani,
interverranno alla presentazione moderata da Palmieri (Tg1) monsignor Leuzzi,
Vescovo ausiliare di Roma, Mingardi, direttore generale Istituto Leoni,
Ippolito, professore di storia della Filosofia a Roma. Negli ultimi vent’anni
una nuova ipotesi di lavoro si è fatta strada in ambito medico sanitario,
definita nel mondo anglosassone «evolutionary mismatch» (dissonanza
evoluzionistica) – raccontano gl’autori -. Questa teoria assume, in pratica,
che l’ambiente nel quale la nostra specie ha acquisito i suoi tratti adattativi
sia drammaticamente cambiato in un tempo troppo breve perché predisposizioni o
tratti genetici e fenotipici dell’organismo fossero in grado di adeguarsi, per
selezione naturale, alle novità”. Le conseguenze di queste dissonanze?
“Disfunzioni o disturbi o rischi che richiedono un approccio medico”. “Il
libro è diviso in tre parti – spiegano Pani e Corbellini – Si inizia con
un’illustrazione dei presupposti di qualunque strategia motivazionale, cioè dei
meccanismi che sono alla base del piacere e delle ricompense, e da cui deriva –
in ultima istanza – la possibilità di acquisire nuove conoscenze che consentono
di affrontare le incertezze psicologiche che si accompagnano a qualunque
comportamento esplorativo. La riflessione prosegue con esemplificazioni di
risposte comportamentali che in particolari (o mutate) condizioni si
manifestano come malattie. Il terzo capitolo è dedicato in modo specifico al
comportamento alimentare e discute l’esempio più eclatante di dissonanza
evoluzionistica: il mismatch metabolico. Gl’ultimi due capitoli affrontano una
serie d’imperfezioni e predisposizioni comportamentali umane che scaturiscono
da compromessi evolutivi, e che risultavano vantaggiose o meno nel contesto
dell’adattamento evolutivo, mentre i cambiamenti ambientali determinati
dall’evoluzione culturale hanno generato, a loro volta, ulteriori fenomeni
disadattativi”. Nel dettaglio gli autori descrivono le dissonanze create
dai nuovi contesti di vita per quanto riguarda cicli del sonno, accesso al
cibo, comunicazione, cooperazione ovvero isolamento sociale, oppure di
comportamenti più complessi come la rabbia aggressiva o l’altruismo; ma anche
le preferenze politiche o l’intelligenza. Negli ultimi capitoli del volume
emergono anche idee e ipotesi relative a scoperte cognitive e innovazioni che
hanno migliorato la condizione umana, o reso possibili cambiamenti
comportamentali incredibili.Il concetto di libero arbitrio implica che sussista
nelle persone, dato un certo grado di sviluppo cognitivo e morale, la capacità
di decidere e di agire, scegliendo tra diverse alternative disponibili, senza
essere condizionati da fattori fisici o biologici di qualunque genere. Si
assume, in altri termini, che le persone maturino una cosiddetta “agenticità”,
cioè una capacità di agire e decidere in un quadro di consapevolezza degli
effetti prodotti, che non è riducibile o spiegabile sulla base dei processi
neurobiologici che hanno luogo nel cervello e/o alle leggi fisiche che li
governano. Di libero arbitrio si può parlare, comunque, in molti modi e da
diverse prospettive: filosofica, metafisica, giuridica, psicologica, etc.
Nel corso dell’evoluzione della specie, abbiamo sviluppato strutture cerebrali
che ci fanno appunto credere di essere liberi e poter decidere in completa
autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario
successo di animali sociali Negli ultimi decenni le neuroscienze
cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio, con una
quantità crescente di prove, la visione classica di libero arbitrio, aprendo un
dibattito scientifico ancora in corso. Qual è la sua posizione
all’interno del dibattito? La mia posizione è che il libero arbitrio è
una credenza senza senso, come aveva spiegato bene, molto prima delle
neuroscienze, il filosofo Spinoza. Se ci fosse qualcosa come il libero
arbitrio, allora davvero potrebbe esserci qualsiasi cosa ci possiamo
immaginare. Tuttavia, è vero che,nel corso dell’evoluzione della
specie,abbiamo sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto credere di
essere liberi e poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione
abbiamo costruito il nostro straordinario successo di animali sociali. Il
libero arbitrio è un’illusione, ma un’illusione molto produttiva.
L’intuizione di ritenersi liberi, in un senso vago o indefinito, è una forma di
autoinganno, come tante altre che sono prodotte dalla nostra coscienza, che nel
tempo è stata socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno,
cioè un senso individuale di responsabilità, con tutte le conseguenze che ne
derivano anche per l’organizzazione di un ordine sociale efficiente sulla base
di un sistema di obblighi. Ovviamente questa strategia è modulata da
specifiche condizioni ecologiche e sociali, per cui in alcuni contesti questa
illusione si può espandere e diventare la base di sistemi anche molto
progrediti per qualità di vita, come quelli occidentali, mentre in altri
ambienti di vita sarà più adattativo che tale intuizione e illusione non maturi
neppure, o maturi in forme che sono funzionali a all’accettazione di un
comportamento consapevolmente eterodiretto. L’intuizione di
ritenersi liberi è una forma di autoinganno che nel tempo è stata socialmente
addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di
responsabilità Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale?
Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano? In
che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze? Non
è del tutto chiaro nei dettagli come interagiscano le strutture del cervello
che controllano le emozioni o le reazioni impulsive, e quelle che controllano
la pianificazione di azioni calcolate. Quello che si sa è che alcune
condizioni, come trovarsi di fronte un’altra persona preferibilmente con le
proprie stesse caratteristiche somatiche o un parente, induca l’inibizione di
un comportamento utilitaristico, cioè volto a massimizzare qualche beneficio in
generale a prescindere dai danni che si possono arrecare alle persone; ovvero
che induca un comportamento di accudimento o altruistico, di carattere
parentale o reciproco. Mentre situazioni contrarie all’ordine morale
appreso socialmente e attraverso l’educazione scatenano quasi automaticamente
reazioni di disgusto o qualche altra avversione emotiva (ad esempio, rabbia o disprezzo).
Se non ci sono di mezzo contatti fisici, o rapporti parentali con altre
persone, o impulsi emotivi avversi, le persone possono applicare un calcolo
razionale e quindi scegliere un’azione in base all’utilità percepita o
calcolata. Comunque esistono diverse teorie su come emozioni e ragione
entrano in gioco nelle scelte in generale, e in quelle morali in particolare.
Quello che si sta sottovalutando, penso, è il ruolo che le emozioni, che
mediano i valori morali, possono giocare nell’apprendimento di comportamenti,
che a loro volta retroagiscono sui valori, cioè che possono cambiare nel tempo
le predisposizioni delle persone nel rispondere a situazioni identiche o
diverse. In altre parole, le emozioni servono direttamente alla sopravvivenza
ed entrano in azione quando è minacciata l’omeostasi funzionale a qualche
livello, e quindi servono a premiare o punire i comportamenti appresi sulla
base della funzionalità che manifestano. Ma questi nuovi comportamenti possono
far scoprire nuovi valori, cioè trovare premianti strategie diverse da quelle
prevalenti nella società, e quindi modulare le emozioni originarie, evitando
che gli impulsi emotivi inducano risposte non calcolate e che potrebbero essere
deleterie. In fondo, dato che noi occidentali sul piano genetico siamo
praticamente uguali agli altri gruppi umani, qualcosa del genere potrebbe
spiegare come ci siamo affrancati moralmente e politicamente da schemi
decisionali tribali od oppressivi. Credits to Unsplash. Parliamo del
legame tra violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto dall’aggressività
nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili determinanti genetiche
del comportamento aggressivo? L’aggressività, come la cooperazione,
è stata un fattore chiave per la sopravvivenza e l’evoluzione della nostra
specie. Come tutti i tratti, l’aggressività è polimorfica e quindi ci sono
persone geneticamente più predispostedi altre all’aggressività. È
verosimile che la selezione sociale abbia col tempo reso più vantaggiosi i geni
della cooperazione in alcuni contesti ecologici, e quindi favorito il processo
socio-culturale che nell’età moderna ha ridotto drammaticamente la violenza sul
pianeta, e soprattutto nel mondo che ha inventato la scienza e ha abbracciato
lo stato di diritto. I governi occidentali continuano giustamente la lotta
contro la criminalità e la violenza, ma nella storia del pianeta non c’è mai
stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in
generale, rispetto a oggi. Pinker ha dimostrato questo fatto in un
dettagliatissimo e acuto saggio, “Il declino della violenza”. Nella
storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non
solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi E per quanto
riguarda la differenza di genere? Cosa sappiamo dei rapporti tra cervello
maschile, cervello femminile e comportamento aggressivo? Le differenze di
genere nel comportamento aggressivo esistono. Studiando complessivamente
l’aggressività di bambini e bambine si è visto che i due generi sono egualmente
aggressivi verbalmente, mentre i bambini lo sono di più fisicamente rispetto
alle bambine. Nel complesso i bambini sono più aggressivi delle bambine sul
piano dell’aggressione diretta. Mentre le bambine sono indirettamente aggressive
anche più dei bambini. Queste differenze, come altre, dipendono
verosimilmente da stimoli ormonali nel corso dello sviluppo e rispondono a
strategie adattative selettivamente vantaggiose nell’ambiente dell’evoluzione.
Il modo in cui maturano il cervello maschile e femminile dipende molto dai
contesti e si conoscono diversi fattori ambientali e culturali che influenzano,
ad esempio, la violenza a carico delle donne. Ci sono prove concrete del fatto
che il patriarcato e la sua istituzione giuridica sono fattori importanti per
la persistenza della violenza maschile ai danni delle donne, e del fatto che
ridurre il dominio maschile attraverso delle adeguate politiche sociali riduce
la violenza maschile e che la cooperazione tra donne riduce la violenza
maschile sia contro le donne sia contro altri uomini. Parliamo ora delle
differenze individuali nel controllo degli impulsi. Non ci sono moltissimi
dati, ma uno studio di qualche anno fa ha esaminato cosa avviene nel cervello
quando si fanno scelte impulsive, che svalutano una ricompensa ritardata,
ovvero come viene rappresentata dinamicamente nel cervello la svalutazione del
ritardo quando si sta aspettando e anticipando una ricompensapossibile che è
stata desiderata e scelta. La corteccia prefrontale ventromedialemanifesta
uno schema caratteristico di attività durante il periodo di ritardo nel
ricevere la ricompensa, oltre a esercitare un’attività modulatoria durante la
scelta, che è coerente con la codificazione del tempo durante il quale avviene
una svalutazione del valore soggettivo. Lostriato ventrale esibisce a sua volta
uno schema di attività simile, ma preferenzialmente negli individui impulsivi.
Un profilo contrastante di attività collegata al ritardo e alla scelta è stata
osservata nella corteccia prefrontale anteriore, ma selettivamente in persone
pazienti, cioè non impulsive. Quindi corteccia prefrontale ventromediale e
corteccia prefrontale anteriore esercitano – sebbene ciò sia ancora da chiarire
come – influenze modulatorie ma opposte rispetto all’attivazione dello striato
ventrale. Ovvero quell’esperimento ci dice che il comportamento impulsivo e
l’autocontrollo sono collegati a rappresentazioni neurali del valore di future
ricompense, non solo durante la scelta, ma anche nelle fasi di ritardo
post-scelta. Cosa può voler dire tutto questo per il nostro discorso? Mi
lasci citare ancora Spinoza, per il quale è «libera quella cosa che esiste e
agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura». La vera libertà,
è autonomia e indipendenza, non arbitrio o scelta indeterminata. Quindi si è
tanto più liberi e non soggetti a impulsi, quanto più alcune strutture del
nostro cervello, altamente connesse e addestrate dall’esperienza, lo rendono
autonomo e meno soggetto o costrizioni esterne. Credits to
Unsplash.com Quali sono le possibili influenze delle disfunzioni cognitive e
dei fattori ambientali sulla capacità decisionale (anche ai fini
dell’imputazione penale)? Può condividere con noi qualche caso di
studio? Casi di studio ce ne sono diversi, ma quelli al momento più
esemplari riguardano gli effetti delle varianti alleliche del gene della mono-amin-ossidasi
A, detto anche “gene del guerriero”, in quanto collegato all’aggressività su
basi osservazionali mirate. In sostanza, le persone con la variante che produce
meno mon-amino-ossidati A. rispondono in modi più aggressivi e violenti,
rispetto a chi esprime livelli più alti. Il fatto interessante è che se
queste persone predisposte all’aggressività sono state allevate in ambienti
accoglienti, esprimono un’aggressività minore rispetto a omologhi genetici
cresciuti in famiglie disagiate. Anche dati sperimentali in ambito psicologico
e di economia comportamentale dimostrano che le aggressioni hanno luogo con
maggiore intensità e frequenza, quando provocate in un contesto sperimentale,
soprattutto in soggetti con una bassa attività di mono-amino-ossidati A. Gli studi sperimentali mostrano anche che il mono-amin-ossidati
A è meno associato con la comparsa dell’aggressione in una condizione di bassa provocazione,
ma predice più significativamente il comportamento aggressivo in una situazione
molto provocatoria. Esiste ormai una letteratura sterminata anche sui
casi di persone con anomalie morfologiche e funzionali dell’amigdala che
regolarmente esprimono un profilo sociopatico, ovvero che non provano emozioni
negative quando provocano sofferenze in altri individui. Si conoscono inoltre
casi di tumori cerebrali o lesioni neurologiche che alterano la personalità
individuale, e non poche persone hanno commesso crimini in quanto un tumore
cerebrale ha alterato le loro capacità decisionali. La memoria del testimone:
in particolare, come si accerta l’attendibilità della testimonianza e quali
sono i principali metodi di verifica? Il sistema giudiziario si fonda
sulla memoria: interrogatorio/confronto, testimonianze, ricordo dei giurati al
momento di discutere il verdetto. Ma la memoria umana è falsata: il cervello
non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false memorie.
Gli stati emotivi influenzano la qualità della memoria. La nostra storia
personale influenza il modo in cui ricordiamo. Gli psicologi e gli esperti
studiano soprattutto il problema della testimonianza oculare, perché in ben tre
casi su cinque le identificazioni si rivelano sbagliate. Esistono diversi
metodi di controllo/verifica e volti a ridurre gli errori nelle testimonianze.
Uno di questi analizza per esempio l’accuratezzadella testimonianza oculare e
delle modalità di interrogatorio del testimone, per arrivare a una probabilità
relativa al caso. Il sistema giudiziario si fonda sulla memoria. Ma
la memoria umana è falsata: il cervello non è una videocamera né un computer.
Siamo suscettibili a false memorie. Esiste anche un diritto alla
riservatezza per i nostri ricordi. Nel senso che se io non intendo comunicare a
qualcuno un ricordo, ho diritto a tenerlo per me. Un giudice deve avere forti
ragioni per forzare l’accesso alla mia memoria, ed è comunque tenuto a
rispettare i miei diritti fondamentali se ci prova. Se davvero si riuscirà a
costruire affidabili brain lie detector, macchine della verità con accesso alle
memorie cerebrali, si configurerà un problema sul fronte di normare i limiti
del diritto di un giudice far rilevare impronte mnestiche del nostro cervello,
i ai fini di un’indagine processuale. Non tanto per la riservatezza del dato di
interesse, cioè se un imputato o un testimone mentono o dico la verità nel caso
in specie, ma per il fatto che quell’accesso può rendere noti dei fatti che non
hanno rilevanza con l’indagine e che potrebbero danneggiare la
persona. Inoltre, alcuni farmaci e tecnologie possono potenziare la
memoria individuale. Ebbene, sarebbe lecito consentire a o incentivare alcuni
attori del procedimento giudiziario (giudici e giurati) a potenziare le loro
memorie ai fini di un più efficiente funzionamento del sistema? La morale
ha, o potrebbe avere, un fondamento biologico? La morale ha un fondamento
biologico. La morale serve a tenere insieme i gruppi umani sociali, e ha creato
le premesse sociobiologiche per l’affermarsi della religiosità quale sistema di
controllo incorporato nelle persone e alimentato socialmente per garantire che
i valori morali adattativi in società meno complesse delle nostre siano
mantenuti e trasmessi. In prospettiva: quali sono a suo avviso i possibili
intrecci tra acquisizioni neuroscientifiche e diritto penale? Quale impatto
potrebbero avere sugli attuali meccanismi di attribuzione della responsabilità
e di applicazione della pena? Su questo punto la penso come chi ha detto
che con l’arrivo delle neuroscienze, nel diritto, cambia tutto e non cambia
niente. Vale a dire che il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo di
giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono
destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali. Mentre
si potrebbe affermare un concetto consequenzialista(utilitarista) della
concezione della pena, più vicino al diritto positivo. Il concetto
di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione
(caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati,
perché privi di basi teorico-fattuali In Italia, come vengono accolte
dalla magistratura le evidenze neuroscientifiche? E a livello
internazionale? L’Italia è all’avanguardia, se così si può dire, nell’uso
di prove neuroscientifiche in tribunale. Due sentenze in particolare, Trieste e
Como, riconobbero il ruolo causale di tratti neurogenetici nel comportamento
delittuoso, e di conseguenza attribuirono uno sconto di pena. Le sentenze
italiane sono state accolte con allarme in diversi contesti internazionali. Ma
c’è poco da fare: se queste conoscenze e tecnologie acquisiranno una base
sperimentalmente solida e consentiranno di prevedere con buona attendibilità le
predisposizioni a commettere reati, è inevitabile che entreranno a far parte
dello strumentario di lavoro dei giudici. Tuttavia, esiste un’ambivalenza
in Italia, come in altri paesi, verso l’uso delle prove neuroscientifiche.
Intanto in Italia non tutti i giudici hanno ancora chiaro cosa sia una perizia
neuroscientifica e ignorano criteriepistemologicamente validi e formalmente
definiti per scegliere periti che apportino davvero prove scientifiche e
controllate nel contesto di un dibattimento processuale. Ciò sebbene la Cassazione
abbia in sentenze recenti fatto proprio lo Standard Daubert, che elenca regole
di ammissibilità delle prove nei processi statunitensi. Inoltre, si
tratta comunque di definire cosa implica una diminuita imputabilità per colui
che commette un reato, in quanto le sue azioni e decisioni dipendevano dal modo
di funzionare del cervello e dalla sua dotazione genetica. Questo individuo è
meno libero di altri e quindi anche meno responsabile, e quindi le sanzioni
dovrebbero essere volte a ridurre al minimo le probabilità di reiterazione del
o dei reati. Il riferimento è al noto scritto di Greene, J. Cohen,
For the law, neuroscience changes nothing and everything, in Philos Trans R Soc
Lond B Biol Sci. Ricerca
Storia del pensiero evoluzionista aspetti storici dell'evoluzionismo Lingua
Segui Modifica Evoluzione CollapsedtreeLabels- simplified.svg Meccanismi e
processi Adattamento Deriva genetica Equilibri punteggiati Flusso genico
Mutazione Radiazione adattativa Selezione artificiale Selezione ecologica
Selezione naturale Selezione sessuale Speciazione Storia dell'evoluzionismo
Storia del pensiero evoluzionista Lamarckismo Charles Darwin L'origine delle
specie Neodarwinismo Saltazionismo Antievoluzionismo Campi della Biologia
evolutiva Biologia evolutiva dello sviluppo Cladistica Evoluzione della vita
Evoluzione molecolare Evoluzione degli insetti Evoluzione dei vertebrati
Evoluzione dei dinosauri Evoluzione degli uccelli Evoluzione dei mammiferi
Evoluzione dei cetacei Evoluzione dei primati Evoluzione umana
Filogenetica Genetica delle popolazioni Genetica ecologica Medicina
evoluzionistica Genomica della conservazione Portale Biologia La prima
traccia dell'idea di un'evoluzione biologicadegli esseri viventi è la teoria
sull'origine della vitaattribuita ad Anassimandro di Mileto. Gli animali ebbero
origine nell'acqua, dove erano tutti simili a pesci; con il tempo sono saliti
sulla terraferma dove, liberati dalle scaglie, hanno continuato a vivere. Tale
fu anche l'origine dell'uomo. Con l'avvento del Cristianesimo, e fino almeno
all'evo moderno, l'indagine scientifica fu dominata dall'impianto filosofico
essenzialista di derivazione aristotelica, nel quale la possibilità stessa
della conoscenza si fonda sulla fissità della specie; inoltre, l'evoluzione non
si armonizza con la Genesi e non trova collocazione in un sistema di
riferimento che considera le specie immutabili perché perfette, in quanto
create ex nihilo da Dio. Nel XVII secolo, col riaffiorare delle antiche
concezioni, la parola evoluzione cominciò ad essere utilizzata come riferimento
a un'ordinata sequenza di eventi, particolarmente quando un risultato si
trovava, in qualche modo, già dall'inizio contenuto all'interno di essa. La
storia naturale si sviluppò enormemente, mirando ad investigare e catalogare le
meraviglie dell'operato di Dio. Le scoperte effettuate dimostrarono
l'estinzione delle specie, che fu spiegata dalla teoria del catastrofismo di
Cuvier, secondo cui gli animali e le piante venivano periodicamente annientati
a causa di catastrofi naturali per poi essere rimpiazzate da nuove specie
create dal nulla. In contrapposizione ad essa, la teoria dell'Uniformitarismo
di James Hutton, del 1785, ipotizzava un graduale sviluppo della Terra, il cui
aspetto non era dovuto ad eventi catastrofici ma a un lento processo
perpetuatosi attraverso gli eoni. Darwin, nonno di Charles, avanza delle
ipotesi sulla discendenza comune affermando che gli organismi acquisivano
"nuove parti" in risposta a degli stimoli e che questi cambiamenti
venivano trasmessi alla loro discendenza; nel 1802 suggerì la selezione
naturale. Lamarck sviluppò una teoria simile (l'"ereditarietà dei
caratteri acquisiti"), la quale ipotizzava che tratti
"necessari" venissero ereditati col passaggio da una generazione alla
successiva. Queste teorie di trasmutazione furono sostenute in Gran Bretagna
dai Radicali come Robert Edmond Grant. In questo periodo l'opera di Malthus,
Saggio sul principio della popolazione, influenzò il libero pensiero mostrando
come l'incremento della popolazione mondiale fosse correlato a un eccesso nelle
risorse disponibili. Varie teorie furono proposte per riconciliare la
Creazione biologica con le nuove scoperte scientifiche, incluso l'attualismo di
Charles Lyell secondo cui ogni specie aveva un suo "centro di creazione"
ed era progettata per un particolare habitatil cui cambiamento portava
inevitabilmente alla sua estinzione. Charles Babbage ritenne che Dio avesse
creato le leggi per un programma divino che operava per la produzione delle
specie e Owen seguì Johannes Müller nel pensiero che la materia vivente avesse
un'"energia organizzativa", una forza vitale (Lebenskraft) che,
dirigendo lo sviluppo dei tessuti, determinava l'arco di vita degli individui e
delle specie. Antichità Greci Ipotesi secondo cui un tipo di animale,
perfino l'essere umano, potesse discendere da altri tipi di animali erano state
formulate dai filosofi greci Presocratici. Anassimandro di Mileto suppose che i
primi animali vivessero in acqua, durante una fase umida del passato della
Terra, e che i primi avi viventi a terra della razza umana dovevano essere nati
in acqua, e aver passato solo una parte della loro vita sulla terraferma. Intuì
anche che il primo umano della forma conosciuta oggi doveva essere stato il
figlio di un altro tipo di animale, perché l'uomo ha bisogno di un lungo
periodo di accudimento per raggiungere l'autonomia. Empedocle di GIRGENTI;
intuì che quello che noi chiamiamo nascita e morte degli animali sono solamente
il mischiarsi e il separarsi degli elementi che formano "l'infinita tribù
delle cose mortali". Più in particolare, i primi animali e le prime piante
erano simili alle parti divise che formano quelli che vediamo oggi, qualcuna
delle quali sopravvisse unendosi in differenti combinazioni, e poi mescolandosi
di nuovo, finché "tutto riuscì come se fosse stato fatto di proposito, lì
le creature sopravvissero, essendo accidentalmente composte in modo
corretto". Altri filosofi diventarono più importanti nel Medioevo, fra cui
Platone, Aristotele, ed esponenti della scuola stoica di filosofia, credevano
che le specie di tutte le cose, non solo viventi, fossero state stabilite da un
progetto divino. Epicuro dell’ORTO ha anticipato l'idea della selezione
naturale. Il filosofo romano e atomista LUCREZIO espone queste idee nel suo
poema De rerum natura (Sulla natura delle cose). Nel sistema Epicureo, si è
ipotizzato che molte specie siano state generate spontaneamente da Gea in
passato, ma che solo le forme più funzionali siano sopravvissute e abbiano
avuto progenie. Gli epicurei non sembrano aver anticipato l'intera teoria
dell'evoluzione come la conosciamo oggi, ma sembra che abbiamo postulato una
teoria abiogeneticaseparata per ciascuna specie, piuttosto che postulare un
singolo evento abiogenetico con la differenziazione delle specie a partire da
uno o più organismi progenitori originari. Cinesi Antichi pensatori
cinesi come Zhuang Zhou, un filosofo taoista, hanno espresso varie idee su come
le specie biologiche si siano diversificate. Secondo Joseph Needham, il Taoismo
nega esplicitamente la fissità delle specie biologiche, e filosofi taoisti
ipotizzano che le specie abbiano sviluppato diversi attributi in risposta ad
ambienti differenti. Il Taoismo insegna che gli esseri umani, la natura e il
cielo sono in uno stato di "trasformazione costante" noto come il
Tao, una visione della natura in contrasto con quella più statica tipica del
pensiero occidentale. Romani Il poema di Lucrezio De rerum natura
fornisce la migliore spiegazione superstite del pensiero dei filosofi epicurei
greci. Esso descrive lo sviluppo del cosmo, la Terra, gli esseri viventi, e la
società umana attraverso meccanismi puramente naturalistici, senza alcun
riferimento al coinvolgimento soprannaturale. De rerum natura potrebbe aver
influenzato le speculazioni cosmologiche ed evolutive di filosofi e scienziati
durante e dopo il Rinascimento. Il suo punto di vista è in forte contrasto con
le opinioni di filosofi romani della scuola stoica come CICERONE, Seneca, e PLINIO
il Vecchio che avevano una visione fortemente teleologica del mondo naturale
che ha influenzato la teologia cristiana. CICERONE riporta che la visione
peripatetica e stoica delle natura riguarda fondamentalmente il produrre vita
"capace di sopravvivere nel migliore dei modi", cosa data per
scontata tra l'élite ellenistica. Agostino. Agostino in un dipinto di Lippi In
linea con il precedente pensiero greco, il vescovo e teologo del IV secolo,
Agostino di Ippona, scrisse che la storia della creazione nel libro della
Genesi, non doveva essere letta troppo alla lettera. Nel suo libro De Genesi ad
litteram ("Sul significato letterale della Genesi"), ha dichiarato
che in alcuni casi le nuove creature potrebbero essersi originate attraverso la
"decomposizione" di precedenti forme di vita. Per Agostino — a
differenza di quelle che considerava le forme teologicamente perfette degli
angeli, il firmamento e l'anima umana — le "piante, uccelli e la vita
animale non sono perfetti… ma creati in uno stato di potenzialità". L'idea
di Agostino che le forme di vita siano state trasformate "lentamente nel
corso del tempo" ha spinto padre Giuseppe Tanzella-Nitti, docente di
teologia presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma, a sostenere
che Agostino abbia suggerito una forma di evoluzione. Osborn scrisse in From
the Greeks to Darwin: "Se l'ortodossia di Agostino fosse rimasta una
dottrina della Chiesa, la scoperta dell'evoluzione sarebbe avvenuta molto prima
di quanto non abbia fatto, certamente nel corso del XVIII invece del XIX
secolo, e la controversia su questa verità della Natura non sarebbe mai sorta…
Chiaramente la creazione diretta o istantanea di animali e piante sembrava
essere insegnata dalla Genesi, Agostino lesse questo alla luce del nesso di
causalità primaria e il graduale sviluppo da imperfetto a perfetto spiegato da
Aristotele. Questo influente insegnante ha così tramandato ai suoi seguaci
pareri strettamente conformi alle vedute progressiste di questi teologi del
nostro tempo che hanno accettato la teoria evoluzione. In Storia della lotta
della scienza con la teologia nella cristianità (A History of the Warfare of
Science with Theology in Christendom), dove White scrisse sui tentativi di
Agostino di preservare l'antico approccio evolutivo alla creazione:
"Per secoli una dottrina largamente accettata era che l'acqua, la
sporcizia, e le carogne avevano ricevuto il potere dal Creatore per generare
vermi, insetti, e una moltitudine di piccoli animali; e questa dottrina era
stata accolta con particolare favore da Sant'Agostino e molti dei padri
fondatori, in quanto solleva l'Onnipotente dal creare, Adamo dal nominare, e
Noè dal vivere nell'arca con queste innumerevoli specie disprezzate. In De
Genesi contra Manichæos, Agostino dice: "Supporre che Dio creò l'uomo
dalla polvere con le mani è molto infantile… Dio non plasmò l'uomo con le mani
né soffiò su di lui con la gola e le labbra…" Agostino suggerisce in altri
lavori la sua teoria dello sviluppo degli insetti dalle carogne, e l'adozione
della vecchia teoria dell'evoluzione, mostrando che "alcuni animali molto
piccoli non possono essere stati creati nei giorni quinto e sesto, ma possono
essere stati originati in seguito dalla putrefazione della materia." Per
quanto riguarda l'agostiniana De Trinitate ("Sulla Trinità"), White
ha scritto che Agostino "…sviluppa finalmente l'idea che dietro la
creazione di esseri viventi c'è qualcosa di simile a un'evoluzione, di cui Dio
è l'autore ultimo, che opera attraverso le cause seconde; e, infine, sostiene
che alcune sostanze sono dotate da Dio del potere di produrre alcune classi di
piante e animali.. Una pagina del Kitāb al-Hayawān (libro degli animali) di
Al-Jāḥiẓ La filosofia islamica e la lotta per l'esistenzaModifica Anche se le
idee evolutive di greci e romani si estinsero in Europa dopo la caduta
dell'Impero romano d'Occidente, non furono abbandonate dai filosofi e
scienziati islamici. Nell'Epoca d'oro islamica, i filosofi esplorarono nuove
idee nel campo della storia naturale, quali la trasmutazione dal non vivente al
vivente: "dal minerale al vegetale, dalla pianta all'animale, e
dall'animale all'uomo. Nel mondo islamico medievale, lo studioso al-Jahiz(776
-868) scrisse un libro sugli animali nel IX secolo, dove descrive la catena
alimentare. Khaldun scrive il Muqaddimah in cui afferma che gli esseri umani si
sono sviluppati dal "mondo delle scimmie", in un processo attraverso
il quale "le specie diventano più numerose". Alcuni dei suoi
pensieri, secondo alcuni commentatori, anticipano la teoria biologica
dell'evoluzione. Nel primo capitolo si legge: "Il mondo con tutte le cose
in esso create ha un certo ordine e la sua solida costruzione mostra nessi tra
cause ed effetti, combinazioni fra alcune parti della creazione ed altre,
trasformazioni di alcune cose esistenti in altre, in uno straordinario reticolo
senza fine. Aquino in un dipinto di Carlo Crivelli Durante il Medioevo, la
cultura classica greca decadde in Occidente. Tuttavia, il contatto con il mondo
islamico, dove i manoscritti greci erano stati conservati e ampliati, ben
presto portò a un'ondata massiccia di traduzioni latine, che re-introdussero in
Europa le opere greche, nonché quelle del pensiero islamico. La maggior
parte dei teologi cristiani credeva che il mondo fosse progettato secondo una
gerarchia immutabile, la grande catena dell'essere o scala naturae, che
influenzò il pensiero della civiltà occidentale per secoli. Altri teologi erano
più aperti alla possibilità che il mondo si fosse sviluppato attraverso
processi naturali. AQUINO si spinse oltre il pensiero di Agostino nel sostenere
che i testi sacri come la Genesi non dovessero essere interpretati in modo
letterale, poiché ciò si poneva in conflitto con quello che i filosofi naturali
avevano imparato sul funzionamento del mondo naturale, e li vincolava dallo
scoprire nuove cose[non chiaro]. L'Aquinate pensava che l'autonomia della
natura fosse un segno della bontà di Dio, e che non vi era alcun conflitto tra
il concetto di un universo divinamente creato, e l'idea che l'universo si
potesse essere evoluto nel tempo attraverso meccanismi naturali.Tuttavia,
Tommaso contestava i sostenitori di Empedocle, che sostenevano che l'universo
avrebbe potuto svilupparsi anche senza un obiettivo di fondo. Rinascimento e
IlluminismoModifica Comparazione di uno scheletro umano con uno scheletro
di uccello ad opera di Belon La filosofia meccanica di Cartesio incoraggiò
l'uso della metafora dell'universo come macchina, un concetto che avrebbe
caratterizzato la rivoluzione scientifica. Alcuni naturalisti, come Benoît de
Maillet, produssero teorie che sostenevano che l'universo, la Terra, e la vita,
si erano sviluppati meccanicamente, senza una guida divina. Maupertuis virò
verso un'idea più materialista, scrivendo che le modifiche naturali si
verificano durante la riproduzione e si accumulano nel corso di molte
generazioni, producendo razze e specie nuove; una descrizione che ha anticipato
il concetto di selezione naturale. La parola evoluzione (dal latino evolutio,
"srotolare, svolgere") è stata inizialmente utilizzata in riferimento
allo sviluppo embrionale; il suo primo impiego in relazione allo sviluppo della
specie è venuto nel 1762, quando Charles Bonnet la ha utilizzata per il suo
concetto di "pre-formazione", in cui le donne portavano una forma in
miniatura di tutte le generazioni future. Il termine ha poi guadagnato
gradualmente il significato più generale di crescita o sviluppo progressivo.
Più tardi nel XVIII secolo, il filosofo francese Georges-Louis Leclerc, conte
di Buffon, uno dei più importanti naturalisti del tempo, ha suggerito che le
specie erano in realtà solo delle varietà ben delineate, prodotte dalle
modifiche, dovute a fattori ambientali, di un organismo originale. Ad esempio,
credeva che leoni, tigri, leopardi e gatti di casa potessero avere tutti un
antenato comune. Leclerc ha inoltre ipotizzato che le circa 200 specie di
mammiferi conosciute in quel periodo potessero essere derivate da solo 38 forme
animali originali. Le idee evolutive del conte erano però limitate; credeva che
ciascuna delle forme originali fossero sorte per generazione spontanea e che
ognuno fosse stata modellata da "muffe interne" che limitavano la
quantità di cambiamenti possibili. Le opere di Buffon, Histoire Naturelle e
Époques de la nature, contengono teorie ben sviluppate sull'origine
materialista della Terra; la sua messa in discussione della fissità della
specie è stata estremamente influente.[24] Un altro filosofo francese,
Denis Diderot, scrive che le cose viventi possono essere sorte per generazione
spontanea, e che le specie sono in uno stato di costante evoluzione attraverso
un processo in cui nuove forme di vita sorgono continuamente, e possono
sopravvivere o meno in base al caso; un'idea che può essere considerata
un'anticipazione parziale della teoria della selezione naturale. Burnett, Lord
di Monboddo, incluse nei suoi scritti, non solo il concetto che l'uomo era
disceso dai primati, ma anche che, in risposta all'ambiente, le creature
avevano trovato metodi di trasformare le loro caratteristiche in lunghi
intervalli di tempo. Il nonno di Darwin, Darwin, pubblicò Zoonomi, dove suggerì
che "tutti gli animali a sangue caldo sono sorti da un filamento
vivente".[26] Nel suo poema Tempio della Natura, Erasmus ha descritto il
progredire della vita dai minuscoli organismi viventi nel fango fino a giungere
alla biodiversità moderna. La nascita della teoria di Darwin All'Università di
Edimburgo, durante gli studi, Charles Darwin fu coinvolto direttamente negli
sviluppi della teoria evoluzionistica di Robert Edmund Grant, ispirata dalle
idee di Erasmus Darwin e Lamarck. In seguito, all'Università di Cambridge, i
suoi studi di teologia lo convinsero ad accettare le considerazioni di William
Paley sul "disegno" di un Creatore, mentre il suo interesse nella
storia naturale aumentò grazie al botanico John Stevens Henslow e al geologo
Adam Sedgwick, entrambi fermamente credenti in una creazione divina e
nell'antico uniformismo della terra. Durante il viaggio del Beagle, Darwin si
convinse della fondatezza dell'attualismo di Lyell e cercò di conciliare le varie
teorie creazionistiche con le prove che riuscì ad evidenziare. Al suo ritorno,
Richard Owen dimostrò che i fossili che Darwin aveva trovato, appartenevano a
specie estinte mostranti relazioni con delle specie viventi in alcune località.
Gould rivelò con sorpresa che gli uccelli completamente diversi ritrovati nelle
Isole Galápagos erano, in realtà, 13 specie diverse di fringuelli (conosciuti
ora, volgarmente in tutto il mondo, come i Fringuelli di Darwin). Schizzo
di un albero filogeneticodisegnato da Darwin negli appunti preparatori del suo
First Notebook on Transmutation of Species. Darwin medita sulla trasmutazionein
una serie di appunti segreti. Si occupò inoltre della selezione artificiale
delle razze domestiche, consultando William Yarrell e leggendo un opuscolo
scritto da un amico, Sebright, il quale commentava come "con un severo
inverno, o una scarsità di cibo, attraverso l'uccisione degli individui deboli
e malaticci, si avessero tutti i migliori effetti della più abile
selezione". Nel 1838, in uno zoo, vide per la prima volta una scimmia
antropomorfa: il bizzarro comportamento di un orango lo impressionò per la
somiglianza con quello di un "bambino dispettoso" e, dalla sua
esperienza sui nativi della Terra del Fuoco, lo portò a pensare che non ci
fosse poi un grande abisso tra gli uomini e gli animali, a dispetto della
dottrina teologica che considera solo la specie umana possedente
un'anima. Darwin comincia a leggere la sesta edizione del Saggio sul
principio della popolazione di Malthus, con la quale ricordò la dimostrazione
statistica secondo cui la popolazione umana, riproducendosi al di sopra dei
propri mezzi, competesse per la sopravvivenza. In questo periodo tentò di
applicare per primo questi principi alle specie animali. Darwin applicò nella
sua ricerca il pensiero liberista sulle leggi di Natura, considerando la pura
lotta per la vita priva di sostegni esterni. Dal dicembre 1838 intravide una
somiglianza tra il concetto della selezione artificiale e la Natura Malthusiana
che selezionava, attraverso il cambiamento, le varianti da eliminare, in modo
che ogni parte delle nuove strutture acquisite fosse pienamente pratica e
perfetta. L'origine delle specieModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: L'origine delle specie. La sintesi evolutiva
modernaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Neodarwinismo.Anassimandro di Mileto afferma che dall'acqua e dalla terra
riscaldate sarebbero nati dei pesci o degli animali molto simili a pesci; in
questi concrebbero gli uomini, e i feti vi rimasero rinchiusi fino alla
pubertà. Quando questi si spezzarono, allora finalmente ne uscirono uomini e
donne che potevano già nutrirsi." (Censorino, De die natali) Anassimandro dice
pure che da principio l'uomo fu generato da animali di altra specie." (Plutarco, Doxa) ^ Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche,
Colin A. Ronan, The Shorter Science and Civilisation in China: An Abridgement
by Ronan of Needham's Original Text, Cambridge; New York, Cambridge, Miller
James, Daoism and Nature, su jamesmiller.ca Sedley, Lucretius, in Stanford
Encyclopedia of Philosophy, Stanford, CA, Stanford, Bowler, The Earth
Encompassed: A History of the Environmental Sciences., in Norton History of
Science, New Yorki, Norton, CICERONE (si veda), De Natura Deorum.
Sant'Agostino, La genesi alla lettera. ^ Gill, Meredith J., Augustine in the
Italian Renaissance: Art and Philosophy from Petrarch to Michelangelo,
Cambridge; New York, Cambridge, Owen, Vatican buries the hatchet with Charles
Darwin, su Times, Bergoglio, "Teoria del Big Bang non contraddice la
creazione divina. Dio non è stato un mago", su huffingtonpost.it,
Huffington Post, Fairfield, From the Greeks to Darwin: An Outline of the
Development of the Evolution Idea, New York, Macmillan, Dickson White, Storia
della lotta della scienza con la teologia nella cristianità, edizione inglese:
A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom, vol. 1, New
York, Londra, D. Appleton et Company, Gutenberg. ^ Ben Waggoner, Medieval and
Renaissance Concepts of Evolution and Paleontology, su ucmp.berkeley.edu,
University of California Museum of Paleontology. Egerton, A History of the
Ecological Sciences, Arabic Language Science Origins and Zoological Writings,
in Bulletin of the Ecological Society of America, Washington, D.C., Teodros,
Explorations in African Political Thought: Identity, Community, Ethics, in New
Political Science Reader Series, New York, Routledge, Khaldūn: "Sixth
Prefatory Discussion, in Muqaddimah. Johnston, And Still We Evolve: A Handbook
for the Early History of Modern Science, 3ª ed., Nanaimo, British Columbia,
Liberal Studies Department, Vancouver Island University, Carrol, Creation,
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"De Anima". Bowler, Evolution: The History of an Idea, Berkeley, CA,
University of California Press, Pallen, The Rough Guide to Evolution, in Rough
Guides Reference Guides, Londra, Rough Guides, Larston, Evolution: The
Remarkable History of a Scientific Theory, New York, Modern Library, Henderson,
The Emperor's Kilt: The Two Secret Histories of Scotland, Edinburgh, Erasmus
Darwin, Zoonomia o Le leggi organiche della vita, Londra, Joseph Johnson,
Erasmus Darwin, Tempio della Natura, ossia L'origine della Società: Un poema
con note filosofiche, Londra, Joseph Johnson, Voci correlate Evoluzione
Creazionismo Dibattito fra creazionismo ed evoluzionismo Storia del pensiero
evoluzionista, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su
Wikidata Portale Biologia Portale Filosofia
Portale Storia L'origine delle specie saggio di divulgazione scentifica
di Charles Darwin Darwinismo teoria dell'evoluzione proposta da Charles
Darwin Evoluzionismo teista dottrina. In the few years
of the pre- Christian period that remained the teaching of Empedocles,
and of Epicurus as the mouthpiece of the y atomic theory, was revived by LUCREZIO
in his “De Rerum Natura.” Of that remarkable man but little is recorded,
and the record is untrustworthy. LUCREZIO died by his own hand, Jerome
says, but of this there is no proof. It is difficult, taking up LUCREZIO’s wonderful
poem, to resist the temptation to make copious extracts from it, since,
even through the vehicle of Munro's annotations, it is probably
little known to the Oxford pupil in Literae Humaniores in these evil days
of snippety philosophy. But the temptation must be resisted, save in
moderate degree. With the dignity which his high mission inspires, LUCREZIO
appeals to us in the threefold character of teacher, reformer, and poet. First,
by reason of the greatness of my argument, and because I set the
mind free from the close-drawn bonds of your Roman superstitions; and next
because, on so dark a theme, I compose such lucid verse, touching every point
with the grace of poesy. As a teacher, LUCREZIO expounds the doctrines of
The Garden (L’Orto) concerning life and nature. As a reformer, LUCREZIO attacks
the Roman superstitions. As a philosophical poet, LUCREZIO informs both the
atomic philosophy and its moral application with harmonious and beautiful verse
swayed by a fervour that is akin to religious emotion. Discussing at the
outset various theories of origins, and dismissing these, notably that which
asserts that things came from nothing for if so, any kind might be
born of anything, nothing would require seed," LUCREZIO proceeds to
expound the teaching of the atomists as to the constitution of things by
particles of matter ruled in their movements by unvarying laws. This
theory LUCREZIO works all round, explaining the processes by which the
atoms unite to carry on the birth, growth, and decay of things, the
variety of which is due to variety of form of the atoms and to
differences in modes of their combination; the combinations being
deter- mined by the affinities or properties of the atoms
themselves, " since it is absolutely decreed what each thing can and
what it cannot do by the conditions of Nature." Change is the law of
the universe;. what is, will perish, but only to reappear in another
form. Death is "the only immortal"; and it is that and
what may follow it which are the chief tormentors of men. " This
terror of the soul, therefore, and this darkness, must be dispelled, not
by the rays of the sun or the bright shafts of day, but by the
outward aspect and harmonious plan of Nature." LUCREZIO explains
that the soul, which he places in the centre of the breast, is also formed
of very minute atoms of heat, wind, calm air, and a finer essence, the
pro- portions of which determine the character of both men and
animals. It dies with the body, in support of which statement LUCREZIO
advances XVIII arguments, so determined is he to " deliver those who
through fear of death are all their lifetime subject to bondage. These themes
fill the first three books. In the fourth he grapples with the mental
problems of sensation and conception, and explains the origin
of belief in immortality as due to ghosts and appari- tions which
appear in dreams. " When sleep has prostrated the body, for no other
reason does the mind's intelligence wake, except because the very
same images provoke our minds which provoke them when we are awake, and
to such a degree that we seem without a doubt to perceive him whom life
has left, and death and earth gotten hold of. This Na- ture
constrains to come to pass because all the senses of the body are then
hampered and at rest throughout the limbs, and cannot refute the unreal by
real things." In the fifth book Lucretius deals with
origins — of the sun, the moon, the earth (which he held to be
flat, denying the existence of the antipodes); of life and its
development; and of civilization. In all this he excludes design,
explaining everything as pro- duced and maintained by natural agents,
"the masses, suddenly brought together, became the rudiments
of earth, sea, and heaven, and the race of living things." He
believed in the successive appearance of plants and animals, but in their
arising separately and di- rectly out of the earth, " under the
influence of rain and the heat of the sun," thus repeating the
old speculations of the emergence of life from slime, "
wherefore the earth with good title has gotten and keeps the name of
mother." He did not adopt Empedocles's theory of the " four roots of
all things," and he will have none of the monsters — ^the
hippo- griflFs, chimeras, and centaurs — ^which form a part of the
scheme of that philosopher. These, he says, ** have never existed,"
thus showing himself far in advance of ages when unicorns, dragons, and
such-like fabled beasts were seriously believed to exist. In one respect,
more discerning than Aristotle, he accepts the doctrine of the survival
of the fittest as taught by the sage of GIRGENTI. For he argues that
since upon "the increase of some Nature set a ban, so that they
could not reach the coveted flower of age, nor find food, nor be united
in marriage," many races of living things have died out, and
been unable to beget and continue their breed." LUCREZIO speaks of GIRGENTI
in terms scarcely less exaggerated than those which he applied to
Epi- curus. The latter is " a god " who first found out
that plan of life which is now termed wisdom, and who by tried skill
rescued life from such great billows and such thick darkness and moored it in
so perfect a calm and in so brilliant a light, ... he cleared men's
breasts with truth-telling precepts, and fixed a limit to lust and fear,
and explained what was the chief good which we all strive to reach."
As to GIRGENTI," that great country (Sicily) seems to have
held within it nothing more glorious than this man, nothing more holy,
marvellous, and dear. The verses, too, of this godlike genius cry with
a loud voice, and make known his great discoveries, so that he
seems scarcely bom of a mortal stock." Continuing his speculations
on the development of living things, Lucretius strikes out in bolder
and l.^ original vein. The past history of man,
he says, lies in no heroic or golden age, but in one of struggle
out of savagery. Only when "children, by their coaxing ways, easily
broke down the proud temper of their fathers," did there arise the
family ties out of which the wider social bond has grown, and soft-
ening and civilizing agencies begin their fair offices. In his battle for
food and shelter, " man's first arms were hands, nails and teeth and
stones and boughs broken off from the forests, and flame and fire,
as soon as they had become known. Afterward the force of iron and
copper was discovered, and the use >^. ' of copper was known before
that of iron, as its nature is easier to work, and it is found in greater
quantity. With copper they would labour the soil of the earth and
stir up the billows of war. Then by slow steps the sword of iron gained
ground and the make of the copper sickle became a byword, and with
iron they began to plough through the earth's [soil, and the
struggles of wavering man were rendered equal." As to language,
" Nature impelled them to utter the various sounds of the tongue,
and use struck out the names of things." Thus does Lucretius point
the road along which physical and mental evolution have since
travelled, and make the whole story subordi- nate to the high purpose of
his poem in deliverance of the beings whose career he thus traces from
super- stition. Man " seeing the system of heaven and the
different seasons of the years could not find out by what causes this was
done, and sought refuge in handing over all things to the gods and
supposing all things to be guided by their nod." Then, in the
sixth and last book, the completion of which would seem to have been
arrested by his death, LUCREZIO explains the law of winds and storms, of
earth-quakes and volcanic outbursts, which men " foolishly lay to
the charge of the gods," who thereby make known their
anger. So, loath to suffer mute, We, peopling the void air,
Make Gods to whom to impute The ills we ought to bear ; With God
and Fate to rail at, suffering easily. And what a motley crowd of
gods they were on whose caprice or indifference he pours his vials
of anger and contempt! The tolerant pantheon of Rome gavie welcome
to any foreign deity with respectable credentials; to Cybele, the Great
Mother, imported in the' shape of a rough-hewn stone with pomp and
rejoicings from Phrygia 204 b. c; to Isis, welcomed from Egypt; to
Herakles, Demeter, As- klepios, and many another god from Greece.
But these are dismissed from a man's thought when the prayer or
sacrifice to them had been offered at the due season. They had less
influence on the Roman's life than the crowd of native godlings who
were thinly disguised fetiches, and who controlled every action of
the day. For the minor gods survive the changes in the pantheon of every
race. Of the Greek peasant of to-day Mr. Rennel Rodd testifies, in
his Custom and Lore of Modern Greece, that much as he would sliudder
at the accusation of any taint of paganism, the ruling of the fates is
more immediately real to him than divine omnipotence. Mr. Tozer confirms
this in his Highlands of Turkey. He says: " It is rather the minor
deities and those as- sociated with man's ordinary life that have
escaped the brunt of the storm, and returned to live in a dim
twilight of popular belief. In India, Lyall tells us that, " even the
supreme triad of Hindu allegory, which represents the almighty powers
of creation, preservation, and destruction, have long ceased to preside
actively over any such correspond- ing distribution of functions. Like
limited monarchs, they reign, but do not govern. They are superseded by
the ever-increasing crowd of godlings whose influence is personal and
special, as shown by Mr. Crooke in his instructive Introduction to
the Popular Religion and Folk-lore of Northern India. The old ROMAN
CATALOGUE of spiritual beings, abstractions as they were, who gfuarded
life in minute detail, is a long one. From the indigitamenta^ as
such lists are called, we learn that no less than forty- three were
concerned with the actions of a child. When the farmer asked Mother Earth
for a good harvest, the prayer would not avail unless he also
invoked " the spirit of breaking up the land and the spirit of
ploughing it crosswise; the spirit of furrow- ing and the spirit of
ploughing in the seed; and the spirit of harrowing; the spirit of weeding
and the spirit of reaping; the spirit of carrying com to the barn;
and the spirit of bringing it out again." The country, moreover,
swarmed with Chaldaean astrolo- gers and casters of nativities; with
Etruscan harus- pices full of " childish lightning-lore, who
foretold eve'tits from the entrails of sacrificed animals; while in
competition with these there was the State-supported college of augurs to
divine the will of the gods by the cries and direction of the flight of
birds. Well might the satirist of such a time say that the place was
so densely populated with gods as to leave hardly room for the
men." It will be seen that the justification for
including Lucretius among the Pioneers of Evolution lies in his two
signal and momentous contributions to the science of man; namely, the
primitive savagery of the human race, and the origin of the belief in
a soul and a. future life. Concerning the first, an- thropological
research, in its vast accumulation of materials during the last sixty
years, has done little more than fill in the outline which the insight
of LUCREZIO enabled him to sketch. As to the second, he anticipates,
well-nigh in detail, the ghost-theory of the origin of belief in spirits
generally which Her- bert Spencer and Dr. Tylor, following the lines
laid down by Hume and Turgot, have formulated and sustained by an
enormous mass of evidence. The credit thus due to Lucretius for the
original ideas in his majestic poem — Greek in con- ception and Roman in
execution — has been obscured in the general eclipse which that poem suf-
fered for centuries through its anti-theological spirit. Grinding at the
same philosophical mill, Aristotle, because of the theism assumed to be
involved in his " perfecting principle," was cited as " a
pillar of the faith" by the Fathers and Schoolmen; while Lucre-
tius, because of his denial of design, was “anathema maranatha.” Only in
these days, when the far-reach- ing effects of the theory of evolution,
supported by observation in every branch of inquiry, are apparent,
are the merits of Lucretius as an original seer, more than as an
expounder of the teachings of GIRGENTI and L’ORTO, made clear.
Standing well-nigh on the threshold of the Chris- tian era, we may
pause to ask what is the sum of the speculation into the causes and
nature of things which, begun in Ionia (with impulse more or less
slight from the East), by Thales, ceased, for many centuries, in the poem
of Lucretius, thus covering an active period of about five hundred years.
The caution not to see in these speculations more than an approximate
ap- proach to modern theories must be kept in mind. There is a
primary substance which abides amidst the general flux of things.
All modern research tends to show that the various combinations of
matter are formed of some prima ma- teria. But its ultimate nature
remains unknown. 2. Out of nothing comes nothing. Modern
science knows nothing of a beginnings and, moreover, holds it to be
unthinkable. In this it stands in direct opposition to the theological
dogma that God created the universe out of nothing; a dogma still
accepted by the majority of Protestants and binding on Roman Catholics.
For the doctrine of the Church of Rome thereon, as expressed in the Canons
of the Vatican Council, is as follows: " If any one confesses
not that the world and all things which are contained in it, both
spiritual and mental, have been, in their whole substance, produced by
God out of nothing; or shall say that God created, not by His free will
from all necessity, but by a necessity equal to the necessity
whereby He loves Himself, or shall deny that the world was made for the
glory of God: let him be anathemaJ' The primary substance is
indestructible. The modern doctrine of the Conservation of Energy
teaches that both matter and motion can neither be ere- ated nor
destroyed. The universe is made up of indivisible particles called
atoms, whose manifold combinations, ruled by unalterable affinities,
result in the variety of things. With modifications based on
chemical as well as mechanical changes among the atoms, this theory
of Leucippus and Democritus is confirmed. (But recent experiments
and discoveries show that reconstruction of chemical theories as to the
properties of the atom may happen.) Change is the law of things, and
is brought about by the play of opposing forces. Modern
science explains the changes in phenomena as due to the antagonism of
repelling and attracting modes of motion; when the latter overcome the
former, equilibrium will be reached, and the present state of
things will come to an end. 6. Water is a necessary condition of
life. Therefore life had its beginnings in water; a theory
wholly indorsed by modern biology, Life arose out of non-living
matter. Although modern biology leaves the origin of life as
an insoluble problem, it supports the theory of fundamental continuity
between the inorganic and the organic. Plants came before animals:
the higher organ- isms are of separate sex, and appeared subsequent
to the lower. Generally confirmed by modern biology, but with
qualification as to the undefined borderland between the lowest plants
and the lowest animals. And, of course, it recognises a continuity in the
order and succession of life which was not grasped by the
Greeks. Aristotle and others before him believed that some of the
higher forms sprang from slimy matter direct. 9. Adverse conditions
cause the extinction of some organisms, thus leaving room for those
better fitted. Herein lay the crude germ of the modern doctrine
of the survival of the fittest. Man was the last to appear, and his
primi- tive state was one of savagery. His first tools and weapons
were of stone; then, after the discovery of metals, of copper; and,
following that, of iron. His body and soul are alike compounded of atoms,
and the soul is extinguished at death. The science of Prehistoric
Archceology confirms the theory of man's slow passage from barbarism to
civili- zation; and the science of Comparative Psychology de-
clares that the evidence of his immortality is neither stronger nor weaker
than the evidence of the immortality of the lower animals. Such, in very
broad outline, is the legacy of sug- gestive theories bequeathed by the
Ionian school and its successors, theories which fell into the rear
when Athens became a centre of intellectual life in which
discussion passed from the physical to those ethical problems which lie
outside the range of this survey. Although Aristotle, by his prolonged
and careful observations, forms a conspicuous exception, the fact
abides that insight, rather than experiment, ruled Greek speculation, the
fantastic guesses of parts of which themselves evidence the survival of the
crude and falsei deas about earth and sky long prevailing. The more
wonderful is it, therefore, that so much therein points the way along
which inquiry travelled after its subsequent long arrest; and the more apparent
is it that nothing in science or art, and but little in theological
speculations, at least among us Westerns, can be understood without reference
to Greece. Approxi-Namb. Place. mate Speciality. Thales. Miletus.Cosmological
(Ionia).Ae Pri f Water.Substance Anaximender. the Boundless. Anaximenes.Air.
Pythagoras. Samos Numbers: the Ionian a Cosmos built coast). up of geometrical
figures or(Grote, Plato) generated out of number. Xenophanes. Colophon.
Founder of the (Ionia). Eleatic school. Heraditus. Ephesus Ionia Fire.
Empedocles. Agrigentum Fire, Air,Earth, (Sicily). And Water ruled by Love
and Strife. Anaxagoras. Clazomenae (Ionia). Nous. Leucippus Democritus. Abdera.
Formulators of the Atomic Thrace Theory Aristotle. Stagira
(Macedonia). Naturalist. i Epicurus. Samos. Expounder of the Atomic
Theory and Ethical Philosopher. LUCREZIO. Roma Interpreter of
Epicurus and EMPEDOCLE DI GIRGENTI: the first Anthropologist. Gilberto
Corbellini. Keywords: darwinismo politizzato, Dawkins’ selfish gene – read
selfish gene – medicina in Roma antica -- evoluzione, emergentismo, biologia
filosofica, grammatical del vivente, cooperazione, altruismo, razionalita,
utilitarismo, darwinismo sociale, evolluzione, filosofia dell’evoluzione,
progresso ed evoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corbellini” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Cordeschi: la ragione
conersazionale e l’implicatura conversazionale della logica della guerra – scuola
dell’Aquila –filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (L’Aquila).
Filosofo abruzzes. Filosofo italiano. L’Aquila, Abruzzo. Grice: “Cordeschi is
fine if you are into how we can model a pirot from an automaton – Descartes’s
old idea!” -- Roberto Cordeschi (L'Aquila) filosofo. Si laurea a Roma sotto Somenzi. Si appassiona
subito alla storia della cibernetica, di cui Somenzi fu tra i primi studiosi e
contributori in Italia. Con la co-supervisione di Radice discute una tesi sui
Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a Morino, Avezzano, Torino, Roma, e
Saerno. Altre opere: “Turing” – homo mechanicus (Alan Mathison); “Turing’s homo
mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale); “La cibernetica in Italia” (Roma:
Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana); “Un padrino per l’Intelligenza
Artificiale. Sapere; “L’intelligenza meccanica”; Alfabeta; “Dalla cibernetica a
internet: etica e politica tra mondo reale e mondo virtuale; “Dal corpo bionico
al corpo sintetico. Roma: Carocci); “Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione
Banca Agricola Mantovana); “Natura, machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia
delle macchine: dalla cibernetica alla robotica bellica” (Roma: Armando);
“Rap-resentare il concetto: filosofia e modello computazionale”. Sistemi
Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il metodo sintetico e la scienza
cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove prospettive nell’Intelligenza
Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana
Treccani), “Quale coscienza artificiale? Sistemi intelligenti, “Adattamento” e
“selezione” nel mondo della natura” (Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo
sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa al Documento di Dartmouth, Sistemi
Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli;
“Forme e strutture della comunicazione linguistica. Intersezioni. Filosofia
dell’intelligenza artificiale. In Floridi L., a cura di. Linee di ricerca,
SWIF. Una lezione per la scienza cognitiva. Sistemi Intelligenti, Funzionalismo
e modelli nella Scienza Cognitiva. Forum SWIF. C Vecchi problemi filosofici per
la nuova Intelligenza Artificiale. Networks. Rivista di Filosofia
dell’Intelligenza Artificiale e Scienze Cognitive, In ricordo di Vittorio
Somenzi Quaderno Filosofi e Classici SWIF; Intelligenza artificiale. Manuale
per le discipline della comunicazione. Roma: Carocci. L’intelligenza
Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci); “Naturale e artificiale”
(Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale. Psicologia, filosofia e
macchine intorno alla cibernetica, Milano-Bologna: Dunod-Zanichelli); “Pensiero
meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi Intelligenti; Prospettive della
Logica e della Filosofia della scienza. Atti del Convegno SILFS. Pisa: ETS. I
modelli della vita mentale, oggi e domani. Giornale Italiano di Psicologia, Filosofia
della mente. Quaderni di Le Scienze, L’intelligenza artificiale. In: Bellone,
E., Mangione, C., a cura di. Geymonat L., Storia del pensiero scientifico. Il
Novecento, Milano: Garzanti); Somenzi, La
filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati
Boringhieri); Indagini meccanicistiche sulla mente: la cibernetica e
l’intelligenza artificiale. In: Somenzi, V., Cordeschi, R., a cura di. La
filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati
Boringhieri: Qualche problema per l’IA classica e connessionista. Lettera
matematica PRISTEM, Una macchina protoconnessionista. Pisa: ETS: Le radici
moderne del recupero scientifico della teologia. Nuova Civiltà Delle Macchine);
Scienza e filosofia della scienza; La mente nuova dell’imperatore. La mente, i
computer, le leggi della fisica. Milano. Wiener. In: Negri, A., a cura di.
Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, Milano: Marzorati, Turing.
In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico.
Protagonisti, Milano: Marzorati: Significato
e creatività: un problema per l’intelligenza artificiale. L’Automa spirituale:
Menti, Cervelli e Computer, Cervello, mente e calcolatori: précis storico
dell’intelligenza artificiale. In: Corsi, P., a cura di. La fabbrica del
pensiero. Dall’arte della memoria alle neuroscienze, Milano: Electa: L’intelligenza
artificiale tra psicologia e filosofia. Nuova Civiltà delle Macchine, Mente,
linguaggio e realtà. Milano: Adelphi. Linguaggio mentalistico e modelli
meccanici della mente. Osservazioni sulla relazione di Boden. L’evoluzione dei
calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia
meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione
umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori
Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e
Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno
Internazionale di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del
concetto: il neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della
Filosofia Italiana; La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli
“sperimentalisti”. Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro
una recensione crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la
risoluzione dei problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica
e critica della psicologia, Manuscript. La psicologia tra scienze della natura
e scienze dello spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi, a cura di. Gli
studi di psicologia in Italia: Aspetti teorici scientifici e ideologici,
Quaderni di storia critica della scienza. Nuova serie. 9, Pisa: Domus Galileana);
Una critica del naturalismo: note sulla concezione crociana delle scienze.
Critica marxista; Introduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Predicati.
In: CIntroduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Elementi di logica
matematica. Roma: Riuniti); Bilancio dell’empirismo contemporaneo. Scientia; La
filosofia di Leibniz: esposizione critica con un’appendice antologica. Roma:
Newton Compton Italiana); Filosofia e informazione. Padova: La Cultura;
Validità e reiezione nella logica aristotelica. Il problema della decisione.
Report: Storia della Filosofia Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript.
In generale, nella implicatura robotica c’è la tendenza a ricorrere al
vocabolario delle rappresentazioni solo quando, per così dire, non se ne può
fare a meno, ovvero, più precisamente, quando si lascia il livello puramente
reattivo nel quale il lessico delle rappresentazioni sarebbe banale, per
passare a quello topologico e, a maggior ragione, a quello metrico o delle
mappe cognitive. Due robot puramente reattivi sono capaci di risolvere alcuni
compiti per i quali, nella ricerca su animali (la squarrel Toby di Grice), si
erano invocate rappresentazioni complesse come le mappe cognitive. Questi
stessi robot reattivi, man mano che si riducono le restrizioni sull’ambiente,
diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli stessi compiti, che possono
essere risolti solo da agenti dotati di stati interni (attitudine psicologica)
ai quali essi riconoscono lo status di rappresentazioni. La massima sarebbe in
questi casi quella di esaminare tutti i modi possibili di spremere l’ultima
goccia di informazione dal livello reattivo prima di parlare dell’influenza
della rappresentazione, modello del mondo o mappa sul comportamento
intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni, una volta ammesse, le
opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei punti di vista ormai
usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza naturale, classica o nouvelle
che sia. Si può parlare di rappresentazione anche per i pattern connessionisti,
a patto di distinguere la relativa computazione. La rappresentazione e solo
simbolica, quale che sia la loro complessità, e un pattern connessionista, non
essendo considerato simbolico, non e una rappresentazione. Si parla di una
rappresentazione che possono essere di diversa complessità e accuratezza,
esplicita (spliegatura) o implicita (impiegatura), metrica o topologica,
centralizzata o distribuita. E in generale si parla di ra-presentazione
simbolica quando si è in presenza di un costrutto dotato di proprietà ritenuta
analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni polemiche da parte di alcune
tendenze dell’IA nouvelle identificano nell’Ipotesi del Sistema Fisico di
Simboli il paradigma linguistico per eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un
confronto di qualche anno fa tra sostenitori e critici di questa ipotesi mostra
come questa interpretazione sia quanto meno opinabile. Sarebbe opportuno
tenerne conto, per evitare di porre in un modo troppo sbrigativo l’identificazione
tra simbolo e il concetto piu generale
di segno in IA classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi
che stanno alla base della costruzione di un modello di conversazione, tra i
quali quello della natura della rappresentazione. Mi riferisco
all’interpretazione in termini di un sistema di elaborazione simbolica
dell’informazione (dunque in termini di un sistema fisico materiale di simboli)
di sistemi tradizionalmente non considerati tali, come quelli proposti dai
teorici dell’azione situata. L’idea di simbolo che sta alla base di questa
ipotesi è che un simbolo è un pattern che denota, e la nozione di denotazione è
quella che dà al simbolo la sua capacità rappresentazionale. Il pattern puo
denotare altro pattern, sia interni al Si veda per una formulazione
particolarmente esplicita (Gallistel). Detto in breve, tali proprietà
riguardano, tra l’altro, la produttività, ovvero la capacità di generare e
capire un insieme illimitato di frasi, e la sistematicità, ovvero la capacità
di capire ad esempio tanto aRb quanto bRa. Fodor ne ha fatto la base per la sua
controversa ipotesi del “linguaggio del pensiero” Per una introduzione
all’argomento, si veda (Francesco). Per pattern si intende, come sarà più
chiaro nel seguito, una struttura fisica, biologica o inor- ganica, che può
essere oggetto di processi computazionali—codifica, decodifica, registrazione,
cancellazione, cambiamento, confronto—i quali occorrono in sistemi diversi, in
un calcolatore e nel sistema nervoso, anche se in quest’ultimo caso non
sappiamo nei dettagli come. Questa tesi provocò diverse reazioni (si vedano
Cognitive Science). Si noti che nelle intenzioni di Simon e Vera la tesi non
comporta che ogni pattern sia dotato di meccanismo sistema che esterni ad
esso (nel mondo reale), e anche stimoli sensoriali e azioni motorie. Processi
tanto biologici quanto inorganici possono essere simbolici in questo senso e,
dal punto di vista sostenuto da Simon e Vera, i relativi sistemi sono sempre
sistemi fisici di simboli, ma a diversi livelli di complessità. Per esempio,
nel caso più semplice che riguarda gli organismi, anche l’azione riflessa
(subcorticale) è un processo simbolico: la codifica di un simbolo provocata da
un ingresso sensoriale, poniamo la bruciatura di una mano, dà luogo alla
codifica di un simbolo motorio, con la conseguente rapida effettuazione
dell’azione, in questo caso il ritirare la mano. Più precisamente, l’idea è che
“il sistema nervoso non trasmette certo la bruciatura, ma ne comunica
l’occorrenza. Il simbolo che denota l’evento [la brucia- tura] viene trasmesso
al midollo spinale, che a sua volta trasmette un simbolo ai mu- scoli, i quali
esercitano la contrazione che consente di ritirare la mano.” Nel caso degli
artefatti, già il solito termostato è un sistema fisico di sim- boli, sebbene
particolarmente semplice: il suo livello di tensione è un simbolo che denota
uno stato del mondo esterno. Come ho ricordato, anche Brooks ha finito per
riconoscere alle rappresentazioni un loro ruolo nel comportamento dei suoi
robot, se non altro alle rappresentazioni “relati- ve al particolare compito
per il quale sono usate” (i “modelli parziali del mondo”), quali potrebbero
essere, a diversi livelli di complessità, quelle usate da agenti naturali come
Cataglyphis o da agenti artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra
ri- cordato. Simon e Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come
sistemi fisici di simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto
sofisticata, anche se specializzata a un compito particolare. Ma essi includono
tra i sistemi fisici di simboli anche artefatti molto più semplici, come il
ricordato termostato, e agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al
livello del taxon system (che, seguendo Prescott, era stato definito come una
catena di associazioni consistenti in coppie <stimolo, risponsa>).
Secondo i due autori, i primi robot alla Brooks sono (un tipo relativamente
sem- plice di) sistemi fisici di simboli: anche l’interazione senso-motoria
diretta di un agen- te con l’ambiente nella misura in cui dà luogo a un
comportamento coerente alle rego- larità dell’ambiente, non può essere
considerata se non come manipolazione simboli- ca. Ho ricordato sopra il semplice
comportamento reattivo di Allen, che tramite sonar evita ostacoli presenti in
un ambiente reale. In questo caso, i suoi ingressi sensoriali danno luogo a un
processo di codifica, e i costrutti in gioco (i simboli, secondo la definizione
sopra ricordata) che risultano da tale interazione sensoriale, e poi motoria,
dell’agente con l’ambiente sono rappresentazioni interne (degli ostacoli
esterni da evitare) in un senso non banale: l’informazione sensoriale captata
dal robot è converti- ta in simboli, i quali sono manipolati al fine di
determinare gli appropriati simboli motori che evocano o modificano un certo
comportamento. L’assenza di memoria in questo tipo di agente comporta che
l’azione sia eseguita senza una rappresentazione esplicita del piano e dell’obiettivo
che orienta l’azione stessa (senza pianificazione), ma non che non ci sia
attività rappresentazionale simbolica. Qual è la natura di questi simboli, di
queste rappresentazioni simboliche? denotazionale, cosa che evidentemente
renderebbe banale questa definizione di simbolo: ci sono pattern che non
denotano, tanto naturali quanto artificiali. Sulla sufficienza della
denotazione per caratterizzare la nozione di simbolo (come di rappresen-
tazione) si è molto discusso. Nel caso degli artefatti più semplici si tratta
di rappresentazioni analogiche che stabiliscono e mantengono la relazione
funzionale del sistema con l’ambiente. Questo, si è visto, è già vero per il
solito termostato. Nel caso di (come pure di certi sistemi connessionisti, o
che includono sistemi connessioni- sti), tali rappresentazioni (analogiche)
hanno carattere temporaneo (senza intervento di memoria) e distribuito (non
sono sottoposte a controllo centralizzato). In questi casi, una
rappresentazione certo imprecisa ma sufficientemente efficace è fornita da un
sonar sotto forma di un pattern interno fisico (un pattern di nodi della rete,
nel caso di un sistema connessionista): essa denota o rappresenta per il robot
un ostacolo o una certa curvatura di una parete o di un percorso. Una volta che
tale pattern venga comu- nicato a uno sterzo, esso determina l’angolo della
ruota sterzante del carrello del robot. Per quanto diversa a seconda dei casi,
è sempre presente un processo di codifica- elaborazione-decodifica non banale,
che stabilisce una ben precisa relazione funziona- le tra il sistema e
l’ambiente, e spiega il comportamento coerente dell’agente nell’interazione con
il mondo. Non parlare di rappresentazioni interne, e limitarsi a dire che un
agente “intrattiene certe relazioni causali con il mondo, non spiega come tali
relazioni vengano mantenute. E’ del tutto ragionevole sostenere che un agente
mantiene l’orientamento verso un oggetto tramite una relazione causale (Grice,
“La teoria causale della percezione”) con esso e che tale relazione è un
pattern di interazione, ma non ha senso pensare che tale pattern venga prodotto
per magia, senza un corrispondente cambiamento di stato rappresenta- zionale
dell’agente, ovvero che esso possa aver luogo senza una rappresentazione
interna fosse pur minima.” Rappresentazioni più complesse, che sono alla base
di un’attività non semplicemente percettiva diretta, sono presenti in altri
casi, quando entrano in gioco la me- moria, l’apprendimento, il riconoscimento
di oggetti e l’elaborazione di concetti, la formulazione esplicita di una mappa
o di piani alternativi, sotto forma di rappresentazioni off-line, e ancora. In
molte di queste attività “alte” intervengono rappresentazioni esplicite,
linguistiche e metriche, ma se si riconosce che la cognizione richiede questo
tipo di rappresentazioni, è difficile mettere in dubbio che tali attività non
condividono con attività più “basse” come la percezione, sulle quali esse
vengono elaborate, il meccanismo denotazionale, sia pure in una forma minimale.
A meno di restringere arbitrariamente la nozione di rappresentazione e di simbolo,
non c’è ragione di riservarla esclusivamente a pattern linguistici, o ai
costrutti della semantica denotazionale (variabili da vincolare ecc.). Penso si
possa sottoscrivere questa conclusione di Bechtel: “la nozione base [di
rappresentazione] è effettivamente minimale, tale da rende- re le
rappresentazioni più o meno ubique. Esse sono presenti in ogni sistema organiz-
zato che si è evoluto o è stato progettato in modo da coordinare il suo
comportamento con le caratteristiche dell’ambiente. Ci sono dunque rappresentazioni
nel regolatore, nei sistemi biochimici e nei sistemi cognitivi”. Il riferimento
di Bechtel al regolatore di Watt è polemico nei confronti di van Gelder, che ne
faceva il prototipo della sua concezione non computazionale e non simbolica
della co- gnizione. In realtà questo tipo di artefatti analogici (sistemi a
feedback negativo e servomecca- nismi) erano stati interpretati come sistemi
rappresentazionali già all’epoca della cibernetica, in primo luogo da Craik,
che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica del pensie- ro”, come egli
la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è visto come una macchina
calcola- trice capace di costruire un modello o un parallelo della realtà”. Non
entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi al contenuto delle Simon
e Vera distinguono il livello della modellizzazione simbolica da quello della
realizzazione fisica (sia biologica che inorganica) di un agente.
Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha un’attività rappresentazionale
che è data dalle caratteri- stiche specifiche del suo apparato fisico di
codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si pensi ancora alla codifica,
molto approssimativa ma generalmente efficace, at- traverso sonar degli
ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa decodifica che si
conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione simbolica di
questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella “alta” sopra
ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di rappresentazioni, da
quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della “ricognizione”, possono
essere opportunamente modellizzati attraverso regole di produzione, come
livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un robot basato
sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio, il
funzionamento di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura, che
con- trolla la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da
un’unica regola di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso
sonar e bussola allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa
in considerazione dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi termini:
“Un sistema di produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un robot
behavior-based], perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona una
attraverso il confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa base di
dati. Le precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere
confrontate con costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della
sussunzione funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di
tale confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o
modificano direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se
distinguiamo il livello della realizzazione fisica da quello della sua
modellizzazione, quella che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del
mondo” rilevanti per l’azione è descritta in modo adeguato da un opportuno
sistema di regole di produzione, e tramite tale sistema un certo comportamento
di una sua creatura può essere evocato o modificato nell’interazione con
l’ambiente. E questo modello (a regole di produzione) delle regolarità
comportamentali di diversi livelli dell’architettura della sussunzione può
essere implementata in un dispositivo che, grazie all’elevato grado di
parallelismo, presenta doti di adattività, robustezza e rispo- sta in tempo
reale paragonabili a quelle di un dispositivo behavior-based. In questo senso,
le regole di descrizione danno una modellizza- zione adeguata del comportamento
di un agente situato. Oltre alle risposte automatiche, che nel caso dell’azione
riflessa o “innata” e di quella reattiva possono essere rese attraverso
un’unica regola di produzione (qualcosa che corrisponda a una relazione
comportamentista S→R), esistono le azioni automa- rappresentazioni, al ruolo
dell’utente degli artefatti e alla natura della spiegazione cognitiva.
L’articolo di Bechtel contiene una disanima efficace di questi problemi,
rispetto a posizioni diverse come quella sostenuta da Clancey contro la tesi di
Vera e Simon. In breve, le regole di produzione hanno la forma “se... allora”,
o CONDIZIONE → AZIONE. La memoria a lungo termine di un sistema fisico di
simboli è costituita da tali regole: gli antecendenti CONDIZIONE permettono
l’accesso ai dati in memoria, codificati dai conseguenti AZIONE. tizzate a
seguito dell’apprendimento, quando cioè le regolarità relative a un certo
comportamento sono state memorizzate, o quelle che comportano una relazione
“di- retta” con il mondo tramite le affordance alla Gibson. Un esempio sono le
risposte immediate che fanno seguito a sollecitazioni improvvise o impreviste
provenienti dall’ambiente Ora i teorici dell’azione situata (e, come si è
visto, i nuovi robotici) insistono sul fatto che questi casi di interazione
diretta con l’ambiente si svolgono in tempo reale, senza cioè che sia possibile
quella presa di decisione, diciamo così, meditata che ri- chiede la
manipolazione di rappresentazioni e la pianificazione dell’azione. Si pensi
all’esempio di Winograd e Flores dell’automobilista che, guidando, affronta una
curva a sinistra. In primo luogo, secondo i due autori, non è necessario che
egli faccia continuamente riferimento a conoscenze codificate sotto forma di
regole di produzione—non è necessario riconoscere una strada per accorgersi che
è “percorribi- le” (la “percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella
relazione diretta agente- ambiente). In secondo luogo, la decisione è presa
dall’agente, per così dire, senza pensarci (senza pensare di posizionare le
mani, di contrarre i muscoli, di girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a
sinistra ecc.). Tutto ciò avviene automaticamente e immediatamente, dunque
senza applicare qualcosa come una successione di regole di produzione “se p, q”.
In conclusione, la tesi è che non è possibile modellizzare questo aspetto della
presa di decisione istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che
comporta codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni,
regole di produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores
è la teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha
a che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul
serio la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della
razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti
interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione
ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in
generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative
pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno
piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze,
aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea,
non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi
elementi, i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso
l’apprendimento, la formazione di schemi automatici di comportamento (di
risposte motorie, nell’esempio di sopra), finiscono per determinare
l’esclusione immediata di certe alternative possibili (come, nell’esempio della
guida, innestare la marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia,
frenare ecc.), e tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza
dell’ambiente stesso (fondo strada bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella
terminologia di Gibson sono invarianti dell’ambiente che vengo- no “colte”
(picked up) dall’agente “direttamente” nella sua interazione con l’ambiente
stesso, e “direttamente” viene interpretato come: senza la mediazione di
rappresentazioni e di computa- zioni su esse. Un esempio sono i movimenti
dell’agente in un ambiente nel quale deve evitare oggetti o seguirne la
sagomatura e così via: un po’ quello che fanno i robot reattivi di cui ho
parlato. L’esempio del termostato è ricorrente in scienza cognitiva e in
filosofia della mente dai tempi della cibernetica. E’ evidente che definire
sistemi fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del tipo dei robot di
Brooks, come vedremo) comporta rinunciare al requisito dell’universalità per tali
sistemi (sul quale si veda Newell). aspettative pertinenti.17 Secondo le
stesse parole di Simon “il solutore di problemi non percepisce mai Dinge an
sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i propri pre- concetti” (Simon).
Di norma, dunque, l’informazione considerata dall’agente non è collocata in uno
spazio bene ordinato di alternative, generato dalla formulazione del problema:
tale informazione è generalmente incompleta, ma è pur sempre sostenuta dalla
conoscenza della situazione da parte dell’agente. La proposta è, dunque, che la
modellizzazione a regole di produzione di un’azione del genere, e in generale
di una affordance, è un simbolo che, via il sistema percettivo di codifica,
raggiunge la memoria del sistema per soddisfare la CONDIZIONE di una regola di
produzione esplicita. In questo modo, soddisfatta la CONDIZIONE, si attiva la
regola, e la produzione (la decodifica) del simbolo di AZIONE avvia la risposta
motoria. Da questo punto di vista, le affordance sono rappresentazioni di pattern
del mondo esterno, ma con una particolarità: quella di essere codificate in un
modo particolar- mente semplice. Nell’esempio di sopra, una volta che si sia
imparato a guidare, la regola è qualcosa come: “se la curva è a sinistra allora
gira a sinistra”.Questa regola rappresenta la situazione al livello funzionale
più alto nel quale la rappresentazione che entra in gioco è “minima”. Un
termine del genere, a proposito delle rappresentazioni, lo abbiamo visto usato
da Gallistel, ma per Simon e Vera il termine rimanda alla forma della regola
indicata, che può essere rapidamente applicata: in questo caso, cioè, non c’è
bisogno di evocare i livelli “bassi” o soggiacenti, quelli coinvolti con
l’analisi dettagliata dello spazio del problema e con l’applicazione delle
opportune strategie di soluzione, che comportano computazioni generalmente
complesse, sotto forma di successioni di regole di produzione. Questi livelli
intervengono nelle fasi dell’apprendimento (quando si impara come affrontare le
curve), e possono essere evocati dall’agente quando la situazione si fa
complicata (si pensi a una curva a raggio variabile, che rivela la complessità
dell’interazione codi- fica percettiva-decodifica motoria). E tanto un
apprendimento imperfetto quanto una carenza, per i più svariati motivi,
dell’informazione percettiva rilevante possono anche ostacolare l’accesso ai
livelli soggiacenti che potrebbero dare luogo alla risposta cor- retta (non
tutti coloro che hanno imparato a guidare riescono ad affrontare tutte le curve
con pieno successo in ogni situazione possibile). Insomma, in questa
interpretazione di Simon e Vera l’interazione in tempo reale dell’agente con
l’ambiente è data non dal fatto di essere non simbolica e di non poter essere
modellizzata mediante regole di produzione, ma dal fatto di non dover accede-
re, per dare la risposta corretta, alla complessità delle procedure di
elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti a quello alto. E’ nell’attività
cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si elaborano piani e strategie di
soluzione di problemi, che viene evidenziata la consapevolezza dell’agente.
Simon e Vera ponevano infine un problema che riguarda i limiti degli approcci
reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e che mi sembra condivisibile: “E’
tuttora dubbio se questo approccio behavior-based si possa estendere alla
soluzione di pro- blemi più complessi. Le rappresentazioni non centralizzate e
le azioni non pianificate possono funzionare bene nel caso di creature
insettoidi, ma possono risultare insuffi- cienti per la soluzione di problemi
più complessi. Certo, la formica di Simon non ha 17 Su questo tipo di
comportamento, che può essere visto in termini di “percezione attesa”, si veda bisogno
di una rappresentazione centralizzata e stabile del suo ambiente. Per tornare
al nido zigzagando essa non usa una rappresentazione della collocazione di
ciascun gra- nello di sabbia in relazione alla meta. Ma gli organismi superiori
sembrano lavo- rare su una rappresentazione del mondo più robusta, una rappresentazione
più complessa di quella di una formica, più stabile e tale da poter essere
manipolata per astrarre nuova informazione”. La successiva evoluzione della
robotica sembra confermare questa osservazione. Wikipedia Ricerca Entrata
dell'Italia nella seconda guerra mondiale Dichiarazione di guerra dell'Italia
verso gli alleati nella seconda guerra mondiale 1leftarrow blue.svg Voce
principale: Storia del Regno d'Italia. A seguito dell'attacco tedesco contro la
Polonia, il capo del governo Benito Mussolini, nonostante un patto di alleanza
con la Germania, dichiarò la non belligeranza italiana. L'entrata dell'Italia
nella seconda guerra mondiale avvenne con una serie di atti formali e
diplomatici solo dopo nove mesi,, e fu annunciata da Mussolini stesso con un
celebre discorso dal balcone di Palazzo Venezia. Durante i nove mesi di
incertezza operativa, il Duce, impressionato dalle folgoranti vittorie
tedesche, ma conscio della grave impreparazione militare italiana, restò a
lungo dubbioso fra diverse alternative, a volte contrastanti fra loro,
oscillando tra la fedeltà all'amicizia con Adolf Hitler, l'impulso a rinnegarne
la soffocante alleanza, la voglia di indipendenza tattica e strategica, il
desiderio di facili vittorie sul campo di battaglia e la brama di essere ago
della bilancia nello scacchiere della diplomazia europea. Mussolini annuncia
la dichiarazione di guerra dal balcone di Palazzo Venezia a Roma
AntefattiModifica Gli attriti con la Francia e l'avvicinamento alla
GermaniaModifica L'ambasciatore francese in Italia André François-Poncet.
Il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop incontra a Roma MUSSOLINI e il
ministro degli esteri italiano CIANO. Durante il colloquio, Ribbentrop parlò di
un possibile patto di alleanza fra Germania e Italia, argomentando che, forse
nel giro di tre o quattro anni, un confronto armato contro Francia e Regno
Unitosarebbe stato inevitabile. Alle molte domande di Mussolini, il ministro
degli esteri tedesco spiegò che esisteva un'alleanza fra inglesi e francesi, i
quali avrebbero cominciato insieme a riarmarsi, che esisteva un patto di
assistenza reciproca fra sovietici e francesi, che gli Stati Uniti d'America
non erano nelle condizioni di intromettersi in prima persona e che la Germania
era in ottimi rapporti con il Giappone, concludendo che «tutto il nostro
dinamismo può dirigersi contro le democrazie occidentali. Questa la ragione
fondamentale per cui la Germania propone il Patto e lo ritiene adesso
tempestivo. Il Duce non sembrava convinto e iniziò a tergiversare, ma Ribbentrop
catturò la sua attenzione affermando che il mar Mediterraneo, nelle intenzioni
di Adolf Hitler, sarebbe stato posto sotto il totale dominio italiano,
aggiungendo che l'Italia aveva in passato dimostrato la sua amicizia verso la
Germania e che adesso era «la volta dell'Italia di profittare dell'aiuto
tedesco. L'obiettivo di Hitler, cogliendo l'importanza strategica di avere Roma
dalla propria parte, consisteva nel ridurre il numero dei potenziali nemici in
una futura guerra, scongiurando l'eventuale avvicinamento dell'Italia a Francia
e Regno Unito, il che avrebbe significato il ritorno al vecchio schieramento
della prima guerra mondiale e al blocco marittimo che aveva contribuito a
piegare l'Impero tedesco di Guglielmo II. L'incontro fra Ribbentrop, MUSSOLINI
e CIANO, però, si concluse con un momentaneo nulla di fatto. Dopo la
conferenza di Monaco del 1938 la Francia si era riavvicinata all'Italia,
inviando a Roma un suo ambasciatore nella persona di André François-Poncet, e
Mussolini ritenne di poter approfittare del periodo di buoni rapporti per farle
tre richieste riguardanti il mantenimento della particolare condizione degli
italiani in Tunisia, l'ottenimento di alcuni posti nel consiglio di
amministrazione della compagnia del Canale di Suez e un arrangiamento relativo
alla città di Gibuti, che era il terminale dell'unica ferrovia esistente per
Addis Abeba, all'epoca capitale dell'Africa Orientale Italiana. Infatti, gli
obiettivi del Duce non comprendevano la conquista di territori europei. Il primo
ministro inglese Chamberlain e il suo ministro degli esteri, lord Halifax, si
recarono a Parigi e ultimarono i dettagli per la collaborazione militare tra
Francia e Regno Unito, mentre i rapporti fra Italia e Francia iniziavano a
deteriorarsi. Il successivo 30 novembre, durante un discorso alla Camera dei
fasci e delle corporazioni, il ministro degli esteri Ciano pronunciò un
discorso durante il quale, accennando alle rivendicazioni irredentistiche
italiane, venne interrotto dalle acclamazioni Nizza!, Savoia!, Corsica!,
partite da una trentina di deputati. In quel momento, nella tribuna
diplomatica, assisteva alla seduta anche l'ambasciatore francese André
François-Poncet, arrivato a Roma da appena una settimana. Una manifestazione
simile si verificò il giorno stesso in piazza di Monte Citorio, dove un
centinaio di dimostranti esternò le stesse acclamazioni. Nonostante la parvenza
di spontaneità, si era trattato di iniziative organizzate da Ciano e da Achille
Starace, i quali, chiedendo molto di più delle tre richieste di Mussolini per
poi fingere di accontentarsi del poco ottenuto per via negoziale, avevano
inscenato le manifestazioni per impressionare François-Poncet, il quale infatti
avvisò immediatamente Parigi dell'accaduto.[8] Il governo francese gli ordinò
allora di chiedere spiegazioni e arrivò alla conclusione che, se la situazione
era quella, una futura guerra contro l'Italia sarebbe stata inevitabile. La
sera stessa, durante una seduta del Gran consiglio del fascismo, Mussolini
prese però le distanze da quanto accaduto in aula, dato che l'Italia aveva da
poco ripreso buone relazioni con la Francia e che la protesta era stata
intrapresa a sua insaputa. François-Poncet chiese a CIANO se le grida dei
deputati potevano rappresentare gli orientamenti della politica estera italiana
e se l'Italia riteneva ancora in vigore l'accordo franco-italiano. Ciano,
dissimulando la propria paternità su quanto accaduto, rispose che il Governo
non poteva assumersi la responsabilità delle affermazioni dei singoli, ma che
le riteneva un chiaro campanello d'allarme del sentire comune nazionale, e che
era auspicabile, secondo la sua opinione, una revisione dell'accordo. Di fronte a risposte così poco rassicuranti,
la Francia iniziò ad aspettarsi un attacco italiano. Tuttavia, lo stato d'animo
dei vertici militari d'oltralpe era improntato all'ottimismo: il generale Henri
Giraud affermò infatti che un eventuale conflitto sarebbe stato, per le truppe
francesi, «una semplice passeggiata nella pianura del Po», mentre altri
ufficiali parlavano di un'azione militare «facile come infilare un coltello nel
burro. Il primo ministro francese Édouard Daladier, irrigidendo la propria posizione
nei confronti dell'Italia, affermò che non avrebbe mai ceduto ad alcuna pretesa
straniera, facendo così sfumare anche la speranza di accoglimento delle tre
richieste del Duce su Tunisia, Suez e Gibuti. Lo Stato Maggiore francese, fin
dal 1931, aveva disposto dei piani per l'invasione militare dell'Italia,
ampliandoli dopo ma il generale Alphonse Georges fece notare che nessuna azione
sarebbe stata possibile contro l'Italia se, sulla Francia, fosse pesata una
minaccia tedesca. Mussolini decise di aderire al patto italo-germanico,
comunicando a Ribbentrop il proprio impegno. Secondo Ciano, il Duce si convinse
ad accettare la proposta tedesca a causa della comprovata alleanza militare tra
Francia e Regno Unito, dell'orientamento ostile del governo francese nei
confronti dell'Italia e dell'atteggiamento ambiguo degli Stati Uniti d'America,
che mantenevano una posizione defilata, ma che sarebbero stati pronti a
rifornire di armamenti Londra e Parigi. Il maresciallo Pietro Badoglio,
ribadendo la linea mussoliniana tracciata l'anno precedente, riferì allo Stato
Maggiore Generale il contenuto di un suo colloquio avuto con il Duce due giorni
prima, durante il quale «il Capo del Governo mi ha dichiarato che, nelle
rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto parlare di Corsica, Nizza
e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le quali non entrano nel suo
piano di azione. Mi ha dichiarato, inoltre, che non intende porre domande di
cessioni territoriali alla Francia perché è convinto che essa non ne può fare:
quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare una eventuale richiesta (e
ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra -- e ciò non è nelle sue
intenzioni. Gli sforzi sostenuti per la guerra d'Etiopia del 1935-36 e per il
supporto alla guerra civile spagnola del 1936-39avevano comportato spese
eccezionali per l'Italia, le quali, unite alla limitata capacità produttiva
dell'industria, alla lentezza del riarmo e alla scarsa preparazione
dell'esercito, spinsero il Duce ad annunciare al Gran consiglio del fascismo,
il 4 febbraio 1939, che il Paese non avrebbe potuto partecipare a un nuovo
conflitto. La firma del Patto d'AcciaioModifica Italia e Germania,
rappresentate rispettivamente dai ministri degli esteri Ciano e Ribbentrop,
concretizzarono la proposta tedesca dell'anno precedente e firmarono a Berlino
un'alleanza difensiva-offensiva, che Mussolini aveva inizialmente pensato di
battezzare Patto di Sangue, ma che poi aveva più prudentemente chiamato Patto
d'Acciaio. Il testo dell'accordo prevedeva che le due parti contraenti fossero
obbligate a fornirsi reciproco aiuto politico e diplomatico in caso di
situazioni internazionali che mettessero a rischio i propri interessi vitali.
Questo aiuto sarebbe stato esteso anche al piano militare qualora si fosse
scatenata una guerra. I due Paesi si impegnavano, inoltre, a consultarsi
permanentemente sulle questioni internazionali e, in caso di conflitti, a non
firmare eventuali trattati di pace separatamente.[16] Pochi giorni prima,
Ciano aveva incontrato Ribbentrop per chiarire alcuni punti del trattato prima
di firmarlo. In particolare la parte italiana, conscia della propria
impreparazione militare, voleva rassicurazioni sul fatto che i tedeschi non
avessero intenzione di iniziare a breve una nuova guerra europea. Il ministro
Ribbentrop tranquillizzò Ciano, dicendo che «la Germania è convinta della
necessità di un periodo di pace che dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5
anni» e che le divergenze con la Polonia per il controllo del Corridoio di Danzica
sarebbero state appianate «su una strada di conciliazione». Siccome la
rassicurazione di nessun conflitto armato per quattro o cinque anni faceva
arrivare al 1943 o al 1944e, quindi, coincideva con la previsione di Mussolini
del 4 febbraio 1939 di essere militarmente pronto per il 1943, il Duce diede il
suo assenso definitivo per la firma dell'alleanza. Vittorio Emanuele III,
nonostante la decisione di Mussolini, continuò a manifestare i propri
sentimenti antigermanici e il successivo 25 maggio, al ritorno di Ciano da
Berlino, commentò che «i tedeschi finché avran bisogno di noi saranno cortesi e
magari servili. Ma alla prima occasione, si riveleranno quei mascalzoni che
sono». Dal 27 al 30 maggio il Duce fu impegnato nella stesura di un testo
indirizzato ad Hitler, successivamente passato alla storia come memoriale
Cavallero dal nome del generale che glielo consegnò ai primi di giugno, nel
quale venivano inserite alcune interpretazioni italiane del Patto da poco
stipulato. Nello specifico, Mussolini, nonostante ritenesse inevitabile una
futura «guerra fra le nazioni plutocratiche e quindi egoisticamente
conservatrici e le nazioni popolose e povere», ribadì che Italia e Germania
avevano «bisogno di un periodo di pace di durata non inferiore ai tre anni»
allo scopo di completare la propria preparazione militare, e che un eventuale
sforzo bellico avrebbe potuto avere successo. Ciano si recò al Berghof, vicino
Berchtesgaden, per un colloquio con Hitler. Quest'ultimo, parlando del
Corridoio di Danzica, prospettò un eventuale confronto armato circoscritto a
Germania e Polonia qualora Varsavia avesse rifiutato le trattative proposte dai
tedeschi, specificando che, in base alle informazioni in suo possesso, né
Parigi né Londra sarebbero intervenute. Inoltre, il Cancelliere tedesco accennò
a delle trattative segrete in corso con l'Unione Sovietica per un'alleanza.
Ciano ricordò che era stato definito, alla firma del Patto d'Acciaio, di far
passare alcuni anni prima di intraprendere azioni belliche, ma il Führer lo interruppe
dicendo che «li avrebbe attesi, secondo quanto era stato concordato. Ma le
provocazioni della Polonia e l'aggravarsi della situazione» avevano «reso
urgente l'azione tedesca. Azione però che non provocherà un conflitto generale.
Hitler chiede al Capo del Governo italiano di quali mezzi e di quali materie
prime avesse bisogno per riuscire a prendere parte a un'eventuale nuova guerra.
Nella speranza che il Paese ne fosse esonerato, il Duce rispose con una
lunghissima lista appositamente abnorme e impossibile da soddisfare, talmente
esagerata da essere definita da Galeazzo Ciano «tale da uccidere un toro. L'elenco
- soprannominato Lista del molibdeno a causa delle 600 tonnellate richieste di
questo materiale - comprendeva, fra petrolio, acciaio, piombo e numerosi altri
materiali, un totale di quasi diciassette milioni di tonnellate di rifornimenti
e specificava che, senza tali forniture da ricevere subito, l'Italia non
avrebbe potuto assolutamente partecipare a una nuova guerra. Il Führer,
nonostante il sospetto che Mussolini lo stesse ingannando, rispose dicendo che
comprendeva la precaria situazione italiana e che poteva inviare una piccola
parte del materiale, ma che gli era impossibile soddisfare per intero le
richieste nostrane. La Germania inviò alla Polonia un ultimatum per la cessione
del Corridoio di Danzica e la Polonia ordinò la mobilitazione generale. La
mattina del giorno successivo, nonostante la situazione fosse già disperata,
Mussolini si offrì come mediatore presso Hitler affinché la Polonia cedesse
pacificamente Danzica alla Germania, ma il ministro degli esteri inglese
Halifax rispose che tale soluzione era inaccettabile. Appresa la notizia, nel
pomeriggio dello stesso giorno il Duce propose allora a Francia e Regno Unito
una conferenza per il successivo 5 settembre, «con lo scopo di rivedere quelle
clausole del trattato di Versaglia che turbano la vita europea». Mussolini,
precedentemente, aveva già tentato di instradare la situazione nell'alveo di
una soluzione diplomatica. Ciano, nel suo diario, in più momenti annotò che il
Duce «è d'avviso che una coalizione di tutte le altre Potenze, noi compresi,
potrebbe frenare l'espansione germanica»; «Il Duce sottolinea la necessità di
una politica di pace»; «si potrebbe parlare col Führer di lanciare una proposta
di conferenza internazionale»; «Il Duce tiene molto a che io provi ai tedeschi
che lo scatenare una guerra adesso sarebbe una follia [...] Mussolini ha sempre
in mente l'idea di una conferenza internazionale. Il Duce raccomanda ancora ch'io
faccia presente ai tedeschi che bisogna evitare il conflitto con la Polonia il
Duce ha parlato con calore e senza riserve della necessità della pace»;«Vedo
nuovamente il Duce. Tentativo estremo: proporre a Francia e Inghilterra una
conferenza per il 5 settembre»; «facciamo cenno a Berlino della possibilità di
una conferenza». Durante la sera del 31 agosto, però, Mussolini venne informato
che Londra aveva tagliato le comunicazioni con l'Italia. La scelta della non
belligeranzaModifica Truppe tedesche, il 1º settembre 1939, rimuovono una
sbarra di confine tra Germania e Polonia All'alba del 1º settembre le forze
armate tedesche, utilizzando come casus belli l'incidente di Gleiwitz, diedero
inizio alla campagna di Polonia, varcandone il confine alla volta di Varsavia.
Mussolini, avendo firmato solo tre mesi prima l'alleanza con il Reich, fu messo
di fronte alla scelta se scendere o meno in campo a fianco di Hitler. Ricevuta
notizia dell'attacco tedesco e conscio dell'impreparazione italiana, la mattina
dello stesso giorno il Duce telefonò subito all'ambasciatore italiano a
Berlino, Bernardo Attolico, chiedendo che Hitler gli mandasse un telegramma per
sganciarlo dagli obblighi del Patto, in modo da non passare per traditore agli
occhi dell'opinione pubblica. Il Führer rispose immediatamente, in modo molto
cortese, accogliendo senza problemi la posizione dell'Italia, dicendo che
ringraziava Mussolini per l'appoggio morale e politico e rassicurandolo sul
fatto che non aspettava il sostegno militare italiano. Il telegramma, però,
probabilmente per punire la beffa italiana della Lista del molibdeno, non venne
pubblicato da alcun quotidiano del Reich e non venne trasmesso alla radio,
facendo successivamente nascere, nell'opinione pubblica tedesca, una crescente ostilità
nei confronti degli italiani, percepiti come inaffidabili e traditori del
Patto.[32] Galeazzo Ciano riferì che Mussolini, avendo percepito questa
crescente avversione, ancora il 10 marzo 1940 disse a Ribbentrop di essere
«molto riconoscente al Führer per il telegramma nel quale questi ha dichiarato
che non aveva bisogno dell'aiuto militare italiano per la campagna contro la
Polonia», ma che sarebbe stato meglio «se questo telegramma fosse stato
pubblicato anche in Germania». Non potendo scegliere la neutralità per non
tradire l'amicizia con Hitler, nella seduta del Consiglio dei Ministri delle
15:00 del 1º settembre 1939 il Duce rese nota ufficialmente la posizione di non
belligeranza. La mancata consultazione dell'Italia da parte della Germania
prima dell'invasione della Polonia e prima della firma del patto
Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 fra Germania e Unione Sovietica,
comunque, secondo l'interpretazione italiana erano violazioni dei tedeschi
dell'obbligo di consultazione fra i due Paesi, previsto dal testo del Patto
d'Acciaio, consentendo perciò a Mussolini di dichiarare la non belligeranza
senza formalmente venir meno ai patti sottoscritti. Il 2 settembre
Mussolini ripropose l'idea di una conferenza internazionale: inaspettatamente,
Hitler rispose dichiarandosi disposto a fermare l'avanzata tedesca e a
intervenire in una conferenza di pace cui avrebbero partecipato Germania,
Italia, Francia, Regno Unito, Polonia e Unione Sovietica. Gli inglesi,
tuttavia, posero come condizione inderogabile che i tedeschi abbandonassero
immediatamente i territori polacchi occupati il giorno prima. Galeazzo Ciano
riportò nel suo diario che «non tocca a noi dare un consiglio di tale natura a
Hitler, che lo respingerebbe con decisione e forse con sdegno. Dico ciò ad
Halifax, ai due Ambasciatori e al Duce, e infine telefono a Berlino che, salvo
avviso contrario dei tedeschi, noi lasciamo cadere le conversazioni. L'ultima
luce di speranza si è spenta». Secondo lo storico Renzo De Felice: «Così, nelle
prime ore tra il 2 e il 3 settembre, sulle secche dell'intransigenza inglese
forse più che su quelle dell'intransigenza tedesca, naufragò la navicella della
mediazione italiana». Il Regno Unito e Francia, in virtù di un trattato di
alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla Germania. L’ambasciatore
Attolico, facendo riferimento all'accordo fra Hitler e Mussolini per una non
immediata entrata in guerra dell'Italia e al telegramma di conferma di Hitler,
comunicò che nel Reich «le grandi masse popolari, ignare dell'accaduto,
cominciano già a dar segno di una crescente ostilità. Le parole tradimento e
spergiuro ricorrono con frequenza». A conferma dell'impreparazione italiana, il
Commissariato Generale per le Fabbricazioni di Guerra sondò il grado di
approntamento delle Forze Armate, ricevendo come risposta dagli Stati Maggiori
che, salvo imprevisti, la Regia Aeronautica sarebbe riuscita a ripianare
sufficientemente le proprie carenze entro la metà del 1942, la Regia Marina
alla fine del 1943 e il Regio Esercito alla fine del 1944. Inoltre l'economia
italiana risultava fortemente danneggiata dal blocco navale alle esportazioni
tedesche di carbone, imposto da Regno Unito e Francia e dall'applicazione del
diritto di angheria, il quale prevedeva che Londra e Parigi potessero non solo
attaccare il naviglio nemico, ma anche controllare il naviglio neutrale (o non
belligerante) e porre sotto sequestro merci e navi neutrali (o non
belligeranti) provenienti da una nazione nemica o dirette verso di essa.
Dall'agosto al dicembre 1939, infatti, gli inglesi fermarono a Gibilterra e a
Suez, con vari pretesti, 847 navi mercantili e passeggeri italiane (cifra poi
salita a 1.347 navi al 25 maggio 1940), rallentando fortemente i traffici di
qualsiasi merce nel Mar Mediterraneo, arrecando grave danno alla produttività
nazionale e peggiorando i rapporti fra Roma e Londra.[39] Durante
l'inverno il Regno Unito fece sapere di essere disposto a vendere carbone
all'Italia, ma ad un prezzo stabilito unilateralmente da Londra, senza garanzia
sulle tempistiche di consegna e a patto che l'Italia rifornisse di armamenti
pesanti Regno Unito e Francia. Siccome l'accettazione di una simile proposta
avrebbe comportato il crollo delle relazioni fra Italia e Germania e una sicura
reazione di Hitler, Galeazzo Ciano comunicò il rifiuto del governo italiano. La
cronica mancanza di carbone e di approvvigionamenti causata dal blocco navale
anglo-francese, però, minava fortemente la stabilità nazionale e rischiava di
portare il Paese all'asfissia economica. La Germania intervenne, rifornendo
l'Italia del carbone necessario e rendendola così ancora più dipendente da
Berlino, anche se la fornitura era molto rallentata perché, per aggirare il
blocco marittimo, doveva obbligatoriamente avvenire via rotaie dal passo del Brennero.
Per i generi di prima necessità, invece, l'Italia sopperì parzialmente mediante
l'estensione delle politiche autarchiche adottate ai tempi della guerra
d'Etiopia. Gli esorbitanti costi di gestione dell'Africa Orientale Italiana,
uniti ai suoi magri guadagni, stavano però rivelando che la conquista
dell'impero era stata più un aggravio che un beneficio per le casse dello
Stato. Per quanto riguarda le risorse umane, le truppe italiane risultavano
impreparate sotto ogni aspetto: nonostante le «otto milioni di baionette»
millantate da Mussolini, la stragrande maggioranza dei soldati italiani non era
motivata da alcun odio contro inglesi e francesi, non era addestrata a impieghi
specifici come l'assalto a opere fortificate o l'aviotrasporto ed era cronica
la mancanza di munizioni, mezzi motorizzati e indumenti adatti. Il Duce,
a conoscenza della crescente ostilità dei tedeschi nei confronti degli
italiani, aveva paura di una possibile ritorsione di Hitler vincitore e si era
posto il problema di quale sorte, in caso di vittoria tedesca, il Führer
avrebbe riservato all'Italia qualora questa si fosse sottratta ai suoi doveri
di alleata. Il generale Faldella, infatti, testimoniò che «più si profilava
l'eventualità della vittoria germanica, più Mussolini temeva la vendetta di
Hitler».Sulla situazione, poi, pesava la questione dell'Alto Adige, una zona di
territorio italiano popolata prevalentemente da abitanti di lingua e cultura
tedesca che, nonostante le rassicurazioni sull'inviolabilità dei confini,
Hitler avrebbe potuto sfruttare come casus belli, nell'ottica pangermanista di
unificare tutte le popolazioni di stirpe germanica, per annettere quel
territorio al Reich e per invadere militarmente l'Italia
settentrionale.[46]Addirittura, il Duce fu anche sfiorato dall'idea che
convenisse cambiare campo e schierarsi con gli anglo-francesi. Il 30 settembre
1939, infatti, alludendo alla scarsità delle riserve di carburante necessarie
per la guerra, commentò che, senza tali scorte, non sarebbe stato possibile
impegnarsi «né col gruppo A né col gruppo B», facendo perciò supporre che,
almeno in linea teorica, il Duce non escludeva a priori un ribaltamento delle
alleanze.[47] Spaventato dalla situazione, diffidente nei confronti dei
tedeschi e preoccupato da una loro eventuale calata nella Penisola, il
successivo 21 novembre Mussolini ordinò il prolungamento difensivo del Vallo
Alpino del Littorioanche sul confine con il Reich, nonostante l'alleanza fra
Italia e Germania, creando il Vallo Alpino in Alto Adige. La zona, massicciamente
fortificata a tempo di record, venne poi soprannominata dalla popolazione
locale "Linea non mi fido", con evidente riferimento ironico alla
Linea Sigfrido.[48] Il problema della non belligeranzaModifica La
bandiera da guerra tedesca e la bandiera italiana sventolano insieme Gli esiti
della campagna di Polonia, contraddistinta da una serie di impressionanti e
fulminee vittorie dei tedeschi, contrastavano con la condizione di non
belligeranza italiana, mettendo implicitamente in risalto il fallimento della
politica militarista che Mussolini aveva condotto durante tutto il suo governo
e dando l'inaccettabile impressione che l'Italia potesse essere considerata, in
sede internazionale, come un Paese debole, ininfluente, secondario o
codardo.[49] Il Duce era infatti convinto che, nonostante l'insufficienza
militare nostrana, l'Italia non avrebbe potuto astenersi dalla guerra. Secondo
il cosiddetto Promemoria segretissimo 328 del 31 marzo 1940,[N 1][50] infatti,
l'Italia non poteva restare non belligerante «senza dimissionare dal suo ruolo,
senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera moltiplicata per
dieci». Il problema, secondo Mussolini, non consisteva nel decidere se il Paese
avrebbe partecipato o no al conflitto, «perché l'Italia non potrà fare a meno
di entrare in guerra, si tratta soltanto di sapere quando e come: si tratta di
ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente con l'onore e la dignità,
la nostra entrata in guerra».[49] Nello stesso testo, il Duce tornò a riflettere
sull'opportunità di denunciare il Patto d'Acciaio e di schierarsi al fianco di
Londra e Parigi, concludendo però che si trattava di una strada non praticabile
e che, anche «se l'Italia cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai
franco-inglesi, essa non eviterebbe la guerra immediata colla Germania»,
ritenendo uno scontro con il Reich un'eventualità più disastrosa di un
conflitto contro Francia e Regno Unito.[49] Nonostante ciò Mussolini
stesso covava la speranza, ormai flebile, di riuscire ancora a riportare la
situazione nell'alveo delle trattative diplomatiche, credendo possibile una
sorta di ripetizione della conferenza di Monaco del 1938. Per alcuni mesi il
Duce restò infatti dubbioso fra tre possibili alternative:[51] fungere da
mediatore in una riconciliazione per via negoziale fra tedeschi e
anglo-francesi, in modo da ottenere da tutti qualche sorta di ricompensa,
oppure rischiare e scendere in guerra al fianco della Germania (ma solo quando
quest'ultima sarebbe stata a un passo dalla vittoria finale), oppure condurre
una sorta di guerra parallela a quella della Germania, in piena autonomia da
Hitler e con obiettivi limitati ed esclusivamente italiani, che gli avrebbe
consentito di sedersi al tavolo dei vincitori e di raccogliere qualche guadagno
con il minimo sforzo, essendo costretto a centellinare le poche risorse
disponibili,[52] e senza perdere la faccia.[53] Scartata la prima
ipotesi, dal momento che le richieste di trattative avanzate da Hitler erano
state respinte, Mussolini si orientò allora sulla seconda e sulla terza, in
realtà strettamente interconnesse fra loro, maturando questa convinzione almeno
già dal 3 gennaio 1940, quando scrisse una lettera al Führer per comunicargli
che l'Italia avrebbe preso parte al conflitto, ma solo nel momento che avrebbe
ritenuto più favorevole:[54] non troppo presto per evitare una guerra
logorante, e non troppo tardi da arrivare ormai a cose fatte.[55] Nella stessa
lettera, però, nonostante l'impegno a entrare in guerra, Mussolini dimostrò di
nuovo la propria titubanza, suggerendo contraddittoriamente a Hitler di trovare
un accomodamento pacifico con Parigi e Londra, in quanto «non è sicuro che si
riesca a mettere in ginocchio gli alleati franco-inglesi senza sacrifici
sproporzionati agli obiettivi». Dopo un incontro con il ministro degli esteri
tedesco Ribbentrop, il Duce confermò questa linea, come risulta dal contenuto
di una sua telefonata con Claretta Petacci intercettata dagli stenografi del
Servizio Speciale Riservato.[N 2] Nella telefonata, Mussolini parlò
dell'eventuale entrata dell'Italia in guerra come di un fatto ineludibile,
senza però precisare come e quando. I dubbi sul da farsiModifica
Mussolini e Hitler. Mussolini e Hitler si incontrarono per un colloquio al
passo del Brennero. Secondo Galeazzo Ciano, l'obiettivo del Duce era dissuadere
il Führer dal proposito di iniziare un'offensiva terrestre contro l'Europa
occidentale. L'incontro, invece, finì in un lunghissimo monologo del
Cancelliere tedesco, con il Duce che a stento riuscì ad aprire bocca. Fra marzo
e aprile Hitler intensificò la sua pressione psicologica su Mussolini, mentre
il fronte antitedesco sembrava crollare in una serrata sequenza di vittorie
germaniche. Le Forze Armate del Reich, mettendo in atto l'efficace tattica del
Blitzkrieg, travolsero infatti la Danimarca, la Norvegia, i Paesi Bassi, il
Lussemburgo, il Belgio e iniziarono l'attacco alla Francia. I vertici militari
italiani prevedevano, secondo il generale Paolo Puntoni, la «liquidazione della
Francia entro giugno e dell'Inghilterra entro luglio». Le folgoranti vittorie
tedesche, unite alle risposte tardive e inefficaci di inglesi e
francesi,[59]fecero rimanere gli italiani col fiato sospeso, tutti più o meno
consapevoli che dal conflitto sarebbero dipese le sorti dell'Europa e
dell'Italia, e causarono in Mussolini una serie di reazioni contrastanti che,
«con gli alti e bassi tipici del suo carattere», continuarono ad accavallarsi,
rendendolo incapace di prendere una decisione che sapeva di dover prendere, ma alla
quale cercava di sottrarsi. A chi gli chiedeva un parere sull'eventualità che
l'Italia restasse fuori dal conflitto, Mussolini, riferendosi all'attacco
tedesco in corso in quei mesi, rispondeva che: «se gli inglesi e i francesi
reggono il colpo ci faranno pagare non una, ma venti volte, Etiopia, Spagna e
Albania, ci faranno restituire tutto con gli interessi». Pio invia un messaggio
al Duce per convincerlo a restare fuori dal conflitto. Ciano, riferendosi al
messaggio, annotò sul suo diario che: «l'accoglienza di Mussolini è stata
fredda, scettica, sarcastica». Il re Vittorio Emanuele III, accennando alla
«macchina militare ancora debolissima», sconsigliò l'entrata in guerra,
raccomandando al Duce di rimanere nella posizione di non belligeranza il più a
lungo possibile. Contemporaneamente la diplomazia europea si impegnò per
evitare che Mussolini scendesse in campo al fianco della Germania: per
impreparata che fosse l'Italia, il suo apporto rischiava di essere decisivo per
piegare la resistenza francese e avrebbe potuto creare grosse difficoltà anche
al Regno Unito. Il 14 maggio, su insistenza francese, il presidente degli Stati
Uniti d'America Franklin Delano Rooseveltindirizzò al Duce un messaggio dai
toni concilianti, il quarto da gennaio, per dissuaderlo dall'entrare in guerra.
Due giorni dopo anche il primo ministro inglese Winston Churchill seguì
l'esempio, ma con un messaggio più intransigente, in cui avvertiva che il Regno
Unito non si sarebbe sottratto alla lotta, qualunque fosse stato l'esito della
battaglia sul continente. Il 26 maggio partì un quinto messaggio di Roosevelt
al Duce. Tutte le risposte di Mussolini confermarono che voleva rimanere fedele
all'alleanza con la Germania e agli "obblighi d'onore" che essa
comportava, ma privatamente non aveva ancora raggiunto la certezza sul da
farsi. Pur parlando continuamente di guerra con Galeazzo Ciano e con gli altri
suoi collaboratori,ed essendo profondamente colpito dai successi tedeschi,
almeno fino al 27-28 maggio (se si esclude un'improvvisa convocazione dei tre
sottosegretari militari la mattina del 10 maggio) non risulta che il numero dei
colloqui con i responsabili delle Forze Armate avesse avuto alcun incremento, e
nulla faceva presagire un intervento a breve. Mentre i francesi si aspettavano
un lento avanzare della fanteria tedesca attraverso il Belgio, o al massimo un
improbabile attacco frontale contro le fortificazioni della Linea Maginot,
circa 2.500 carri armati tedeschi penetrarono in Francia dopo aver attraversato
in modo fulmineo la foresta delle Ardenne, una regione collinare caratterizzata
da profonde vallate e da fitti arbusti che Parigi riteneva, fino a quel
momento, del tutto inadatta a essere attraversata da carri armati. Alla
sorpresa di un'azione tatticamente così brillante seguì il rapido e totale
collasso delle Forze Armate francesi, che fece nascere la convinzione, nei
vertici militari italiani, che il Regno Unito non sarebbe stato in grado di
fronteggiare da solo un attacco tedesco e che sarebbe stato costretto a
scendere a patti con Berlino e che gli Stati Uniti non avrebbero avuto la
volontà né il tempo utile di impegnarsi direttamente nel conflitto, dato che
non lo avevano fatto neanche per salvare la Francia e per servirsi di essa come
una testa di ponte sul continente europeo.[68] Inoltre, la maggioranza
dell'opinione pubblica statunitense era contraria alla guerra e Franklin Delano
Roosevelt, impegnato nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali,
non poteva non tenerne conto. Il direttore dell'OVRA, Guido Leto, dispose la
raccolta di indiscrezioni, informazioni riservate e intercettazioni telefoniche
per sondare i sentimenti degli italiani nei confronti della guerra, allo scopo
di creare uno spaccato il più aderente possibile alla realtà da sottoporre al
Duce, che chiedeva un quadro completo della situazione. Secondo tali relazioni,
«i nostri informatori segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore
frequenza ed ampiezza, uno stato di timore - che andava diffondendosi
rapidamente - che la Germania fosse sul punto di riuscire a chiudere assai
brillantemente e da sola la tremenda partita e che, di conseguenza, noi - se
pure ideologicamente alleati - saremmo rimasti privi di ogni beneficio per
quanto aveva tratto colle nostre aspirazioni nazionali. Che, a causa della
nostra prudenza - di cui veniva attribuita la responsabilità a Mussolini -
saremmo stati, forse, anche puniti dal tedesco e che, quindi, se ancora in
tempo, bisognava bruciare le tappe ed entrare subito in guerra». Leto, inoltre,
aggiunse che «pochissime voci, e non certo di politicanti delle due parti
avverse e con debolissimi echi nel paese, si levarono ad ammonire sulle
tremende incognite che la situazione presentava». In questo clima, perciò,
anche Mussolini si convinse che l'Italia potesse «arrivare tardi», in quanto
era opinione comune che il Regno Unito avesse i giorni contati e che la
conclusione della guerra fosse ormai prossima. A nulla servirono le opposizioni
del re e di Pietro Badoglio, motivate dall'impreparazione del Regio Esercito e
da un giudizio prudente sulle vittorie tedesche in Francia. Il sovrano,
inoltre, pose l'accento sull'importanza che avrebbe potuto avere nel conflitto
un eventuale intervento armato statunitense, che sarebbe stato foriero di
numerose incognite. Dello stesso avviso era anche il principe ereditario
Umberto di Savoia. Galeazzo Ciano scrisse nel suo diario: «Vedo il Principe di
Piemonte. È molto antitedesco e convinto della necessità di rimanere neutrali.
Scettico, impressionantemente scettico sulle possibilità effettive
dell'esercito nelle attuali condizioni, che giudica pietose, di
armamento». Secondo Mussolini, invece, le rapide vittorie tedesche erano
il presagio dell'imminente fine della guerra, per cui l'insufficienza effettiva
delle Forze Armate italiane assumeva ormai un'importanza trascurabile. Accanto
al suo timore che l'Italia non avrebbe ricevuto alcun beneficio nella futura
conferenza di pace qualora il conflitto fosse terminato prima dell'intervento
nostrano, nacque in Mussolini la
convinzione che gli fosse necessario «solo un pugno di morti» per potersi
sedere al tavolo dei vincitori e per avere diritto a reclamare parte dei
guadagni, senza la necessità di un esercito preparato e adeguatamente
equipaggiato in una guerra che, secondo l'opinione pubblica nella tarda
primavera del 1940, sarebbe durata ancora solo poche settimane e il cui destino
era già scritto in favore della Germania. L'entrata in guerra
dell'ItaliaModifica Ultimi tentativi di mediazioneModifica Il presidente
statunitense Franklin Delano Roosevelt A fine maggio, nei giorni in cui i
tedeschi vincevano la battaglia di Dunkerque contro gli anglo-francesi e il re
del Belgio Leopoldo III firmava la resa del proprio paese, il Duce si convinse
che fosse arrivato il «momento più favorevole» che attendeva da gennaio ed ebbe
una decisiva virata verso l'intervento: il 26 ricevette una lettera dal Führer
che lo sollecitava a intervenire e, contemporaneamente, un rapporto inviato a
Roma dall'ambasciatore italiano a Berlino Dino Alfieri, che era succeduto a Attolico,
su un suo colloquio con Hermann Göring. Quest'ultimo aveva suggerito all'Italia
di entrare in guerra quando i tedeschi avessero «liquidata la sacca
anglo-franco-belga», situazione che si stava verificando proprio in quei
giorni. Entrambi produssero nel dittatore una forte impressione, tanto che
Ciano annotò nel proprio diario che Mussolini «si propone di scrivere una
lettera ad Hitler annunciando il suo intervento per la seconda decade di
giugno». Ogni settimana, di fronte all'ampiezza della vittoria tedesca, poteva
essere quella decisiva per la fine della guerra e l'Italia, secondo Mussolini,
non poteva farsi trovare non in armi. Lo stesso giorno, in un estremo tentativo
di scongiurare la partecipazione italiana al conflitto, il primo ministro
inglese Winston Churchill aveva, previo accordo con il suo omologo francese
Paul Reynaud, inviato al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt
la bozza di un accordo, che quest'ultimo avrebbe dovuto successivamente
trasmettere al Duce. Secondo tale documento, conservato presso i National
Archives di Londra con il nome Suggested Approach to Signor Mussolini, Regno
Unito e Francia ipotizzavano la vittoria finale della Germania e chiedevano a
Mussolini di moderare le future richieste di Hitler. Nello specifico, secondo
questa proposta di accordo, Londra e Parigi promettevano di non aprire alcun
negoziato con Hitler qualora quest'ultimo non avesse ammesso il Duce,
nonostante la mancata partecipazione italiana al conflitto, alla futura
conferenza di pace in posizione uguale a quella dei belligeranti. Inoltre,
Churchill e Reynaud si impegnavano a non ostacolare le pretese italiane alla
fine della guerra (che principalmente consistevano, in quel momento,
nell'internazionalizzazione di Gibilterra, nella partecipazione italiana al
controllo del Canale di Sueze in acquisizioni territoriali nell'Africa
francese). Mussolini, però, in cambio avrebbe dovuto garantire di non aumentare
successivamente le proprie richieste, avrebbe dovuto salvaguardare Londra e
Parigi frenando le pretese di Hitler vincitore, avrebbe dovuto revocare la non
belligeranza e dichiarare la neutralitàitaliana e avrebbe dovuto mantenere tale
neutralità per tutta la durata del conflitto. Roosevelt si dichiarò
personalmente garante per il futuro rispetto di tale accordo. L'ambasciatore
degli Stati Uniti a Roma, Phillips, recò a Ciano la missiva, indirizzata a
Mussolini, con il testo dell'accordo. Lo stesso giorno il governo di Parigi,
per rendere la proposta di Roosevelt ancora più allettante, mediante
l'ambasciatore francese in ItaliaAndré François-Poncet fece sapere al Duce di
essere disponibile a trattare «sulla Tunisia e forse anche sull'Algeria». Secondo
lo storico Ciro Paoletti, «Roosevelt prometteva per un futuro incerto e
lontano. Sarebbe stato in grado di mantenere? E se per allora non fosse stato
più presidente? L'Italia aveva già avuto in passato, nel 1915 e negli anni
seguenti, delle notevoli promesse, poi non mantenute a Versailles nel 1919,
come ci si poteva fidare? Mussolini doveva scegliere fra le promesse a lunga
scadenza, fatte per di più da un presidente che di lì a sei mesi doveva presentarsi
alla rielezione, e le possibilità vicine, concrete, date da una Francia al
collasso, da un'Inghilterra allo stremo e dalla paura di cosa avrebbe potuto
fargli subito dopo la ormai certa vittoria in Francia - e assai prima di
qualsiasi intervento americano - una Germania trionfante». Secondo gli storici
Emilio Gin ed Eugenio Di Rienzo, inoltre, il Duce non avrebbe mai accettato di
sedersi al futuro tavolo delle trattative di pace, accanto a un Hitler
trionfante, solo "per concessione" degli Alleati, senza aver
combattuto, in quanto la sua figura in sede internazionale ne sarebbe uscita
debolissima e la sua autorità, paragonata a quella del Führer, sarebbe stata
del tutto irrilevante. Ciano, nel suo diario riportò infatti che Mussolini «se
pacificamente potesse avere anche il doppio di quanto reclama, rifiuterebbe». La
risposta a Phillips, infatti, fu negativa. Gli atti formali e l'annuncio
pubblicoModifica La folla, radunata di fronte a Palazzo Venezia, assiste
al discorso sulla dichiarazione di guerra dell'Italia a Francia e Gran Bretagna.
Il Duce comunicò a Pietro Badoglio la decisione di intervenire contro la
Francia e, la mattina successiva, si riunirono a Palazzo Venezia i quattro
vertici delle Forze Armate, Badoglio e i tre capi di Stato Maggiore (Rodolfo
Graziani, Domenico Cavagnari e Francesco Pricolo): in mezz'ora tutto fu
definitivo. Mussolini comunicò ad Alfieri la sua decisione e il 30 maggio
annunciò ufficialmente a Hitler che l'Italia sarebbe entrata in guerra
mercoledì 5 giugno. Mesi prima, in realtà, il Duce aveva ipotizzato un'entrata
in guerra per la primavera 1941, data poi avvicinata al settembre 1940 dopo la
conquista tedesca di Norvegia e Danimarca e ulteriormente accorciata dopo
l'invasione della Francia, fatto che faceva presagire un'ormai imminente fine
del conflitto. Il 1º giugno il Führer rispose, chiedendo di posticipare di
qualche giorno l'intervento per non costringere l'esercito tedesco a modificare
i piani in corso di attuazione in Francia. Il Duce si mostrò d'accordo, anche
perché il rinvio gli permetteva di completare gli ultimi preparativi. In un
messaggio del 2 giugno, però, l'ambasciatore tedesco a Roma Mackensen comunicò
a Mussolini che la richiesta di posticipare l'azione era stata ritirata e,
anzi, la Germania avrebbe gradito un anticipo. Il Duce, tramite il generale
Ubaldo Soddu, chiese a Vittorio Emanuele III che gli venisse ceduto il comando
supremo delle forze armate che, in base allo Statuto Albertino, era detenuto
dal sovrano. Secondo Galeazzo Ciano il re avrebbe opposto notevole resistenza,
finendo con il concordare una formula di compromesso: il comando supremo
sarebbe rimasto in capo a Vittorio Emanuele III, ma Mussolini lo avrebbe
gestito in delega. Il 6 giugno il Duce, scontento di questa soluzione e irritato
dalla difesa del sovrano delle proprie prerogative statutarie, sbottò: «Alla
fine della guerra dirò a Hitler di far fuori tutti questi assurdi anacronismi
che sono le monarchie».[89] Volendo evitare l'entrata in guerra venerdì 7
giugno, data che era stata superstiziosamente considerata di cattivo auspicio, si
giunse a lunedì 10 giugno. Galeazzo Ciano fece convocare per le 16:30 a Palazzo
Chigi l'ambasciatore francese André François-Poncet e, secondo la prassi
diplomatica, gli lesse la dichiarazione di guerra, il cui testo recitava: «Sua
Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra
con la Francia a partire da domani 11 giugno». Alle 16:45 dello stesso giorno
venne ricevuto da Ciano l'ambasciatore britannico Percy Loraine, che ascoltò la
lettura del testo: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si
considera in stato di guerra con la Gran Bretagna a partire da domani 11
giugno».[91] Entrambi gli incontri si svolsero, secondo i diari di
Galeazzo Ciano, in un clima formale, ma di reciproca cortesia. L'ambasciatore
francese avrebbe detto che considerava la dichiarazione di guerra come un colpo
di pugnale a un uomo già a terra, ma che si aspettava una tale situazione già
da due anni, dopo la firma del Patto d'Acciaio fra Italia e Germania, e che
comunque nutriva stima personale per Ciano e non poteva considerare gli
italiani come nemici. L'ambasciatore inglese, invece, sempre secondo Ciano
avrebbe partecipato all'incontro restando imperturbabile, limitandosi a domandare
educatamente se quella che stava ricevendo dovesse essere considerata un
preavviso o la vera e propria dichiarazione di guerra. Preceduto dal
vicesegretario del Partito Nazionale Fascista Pietro Capoferri, che ordinò alla
folla il saluto al Duce, alle 18:00 dello stesso giorno Mussolini, indossando
l'uniforme da primo caporale d'onore della Milizia Volontaria per la Sicurezza
Nazionale, di fronte alla folla radunatasi in Piazza Venezia, annunciò, con un
lungo discorso trasmesso anche via radio nelle principali città italiane, che
«l'ora delle decisioni irrevocabili» era scoccata, mettendo al corrente il
popolo italiano delle avvenute dichiarazioni di guerra. Di seguito, l'incipit e
explicit del discorso: «Combattenti di terra, di mare, dell'aria. Camicie nere
della rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del
Regno d'Albania. Ascoltate! Un'ora, segnata dal destino, batte nel cielo della
nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è
già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. La parola
d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed
accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare
finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al
mondo. Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo
coraggio, il tuo valore!». Le reazioni dell'opinione pubblicaModifica La
prima pagina de Il Popolo d'Italia dell'11 giugno 1940 La notizia fu accolta
con entusiasmo dai gruppi industriali italiani, che vedevano l'inizio del
conflitto come un'occasione per aumentare la produzione e la vendita di armi e
macchinari, e da una buona parte dei vertici fascisti, nonostante le più alte
personalità del regime avessero in precedenza espresso scetticismo
sull'intervento italiano e avessero abbracciato la linea di condotta tracciata
da Mussolini il 31 marzo 1940, che prevedeva di entrare in guerra il più tardi
possibile allo scopo di evitare un conflitto lungo e insopportabile per il
Paese. In ogni caso, fra le personalità che avevano espresso dubbi - se non
veri e propri atteggiamenti ostili - sull'intervento militare italiano, nessuna
palesò pubblicamente la propria opposizione al conflitto e sulla scrivania del
Capo del Governo non vennero recapitate lettere di dimissioni. La stampa
italiana, condizionata da censura e controllo imposti dal regime fascista,
diede la notizia con grande enfasi, utilizzando titoli a caratteri cubitali che
facevano uso entusiasta di citazioni del discorso e manifestavano completa
adesione alle decisioni prese: «Corriere della Sera: Folgorante annunzio del
Duce. La guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Il Popolo d'Italia: POPOLO
ITALIANO CORRI ALLE ARMI! Il Resto del Carlino: Viva il Duce Fondatore
dell'Impero. GUERRA FASCISTA. L'Italia in armi contro Francia e Inghilterra. Il
Gazzettino: Il Duce chiama il popolo alle armi per spezzare le catene del Mare
nostro. L'Italia: I dadi sono gettati. L'ITALIA È IN GUERRA. La Stampa: Il Duce
ha parlato. La dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla Francia.
Bertoldo: Londra non sarà piena di tedeschi, ma fra poco sarà piena di
italiani.» L'unica voce critica che si levò, oltre ai giornali
clandestini, fu quella de L'Osservatore Romano: «E il duce (abbagliato) salì
sul treno in corsa». Questo titolo fu accolto con grande disappunto dai vertici
italiani, tanto che Roberto Farinacci, segretario del partito fascista, in un
commento alla stampa affermò che: «La Chiesa è stata la costante nemica
dell'Italia». Il capo dell'OVRA, Guido Leto, prendendo atto della
reazione dell'opinione pubblica italiana, riferì che: «Come la polizia rilevò e
riferì il quasi unanime dissenso del paese verso un'avventura bellica, così
nella primavera del 1940 essa segnalò il rovesciamento della pubblica opinione
presa da un ossessionante timore di arrivare tardi. E nel primo e nel secondo tempo
operò come un termometro: non determinò, né influenzò, né menomamente alterò la
temperatura del paese, ma semplicemente la misurò». Hitler, venuto a conoscenza
dell'annuncio pubblico, inviò immediatamente due telegrammi di solidarietà e
ringraziamento, uno indirizzato a Mussolini e uno a Vittorio Emanuele III,
anche se, privatamente, espresse delusione per le scelte del Duce, in quanto
avrebbe preferito che l'Italia attaccasse a sorpresa Malta e altre importanti
posizioni strategiche inglesi anziché dichiarare guerra a una Francia già
sconfitta. In sede internazionale l'intervento italiano contro la Francia fu
visto come un gesto vile, al pari di una pugnalata alle spalle, in quanto
l'esercito francese era già stato messo in ginocchio dai tedeschi e il suo
comandante supremo, il generale Weygand, aveva già impartito ai comandanti
delle forze superstiti l'ordine di ritirarsi per mettere in salvo il maggior
numero possibile di unità. Il giudizio di Churchill sull'ingresso dell'Italia
nel conflitto bellico e sull'operato di Mussolini fu affidato al commento
pronunciato a Radio Londra: «Questa è la tragedia della storia italiana. E
questo è il criminale che ha tessuto queste gesta di follia e vergogna». Quando
venne raggiunto dalla notizia dell'intervento italiano contro un nemico ormai
sconfitto, il presidente degli Stati Uniti Roosevelt rilasciò a Charlottesville
una dura dichiarazione radiofonica: «In questo 10 giugno, la mano che teneva il
pugnale l'ha affondato nella schiena del suo vicino». Piani di
guerraModifica L'entrata in guerra fu la notizia principale su tutti i
quotidiani italiani. I preparativi bellici italiani erano stati delineati dallo
Stato Maggiore dell'esercito e prevedevano una condotta strettamente difensiva
sulle Alpi Occidentali ed eventuali azioni offensive (da iniziare solamente in
condizioni favorevoli) in Jugoslavia, Egitto, Somalia francese e Somalia
britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la dislocazione delle
forze disponibili, non di piani operativi, per i quali veniva lasciata al Duce
piena libertà di improvvisazione. I vertici militari riconobbero l'inadeguatezza
del Paese ad affrontare una guerra ma, allo stesso tempo, non presero posizione
dinanzi all'intervento, ribadendo la loro totale fiducia in Mussolini. L'approccio
del Duce al conflitto appena iniziato dall'Italia si concretizzò in direttive
più o meno frammentarie, che egli indirizzava ai vertici militari: furono
formulate richieste di operazioni nei teatri più disparati, mai trasformatesi
in scelte precise e piani concreti. Venivano a mancare, in questo quadro, una
strategia complessiva e di ampio respiro, obiettivi reali e un'organizzazione
razionale della guerra. Ciò fu evidente fin da subito, quando lo Stato Maggiore
Generale notificò che: «A conferma di quanto comunicato nella riunione dei Capi
di Stato Maggiore tenuta il giorno 5 ripeto che l'idea precisa del Duce è la
seguente: tenere contegno assolutamente difensivo verso la Francia sia in terra
che in aria. In mare: se si incontrano forze francesi miste a forze inglesi, si
considerino tutte forze nemiche da attaccare; se si incontrano solo forze
francesi, prendere norma dal loro contegno e non essere i primi ad attaccare, a
meno che ciò ponga in condizioni sfavorevoli». In base a quest'ordine la Regia
Aeronautica ordinò di non effettuare alcuna azione offensiva, ma solo di
compiere ricognizioni aeree mantenendosi in territorio nazionale, e altrettanto
fecero il Regio Esercito e la Regia Marina, la quale non aveva intenzione di
uscire dalle acque nazionali salvo per il controllo del canale di Sicilia, ma
senza garantire le comunicazioni con la Libia. Come preannunciato nella
corrispondenza con il governo tedesco, dall'11 giugno le truppe italiane
cominciarono le operazioni militari al confine francese in vista della
pianificata occupazione delle Alpi occidentali ed effettuarono bombardamenti
aerei, di carattere puramente dimostrativo, su Porto Sudan, Aden e sulla base
navale inglese di Malta. L'alto comando delle operazioni venne affidato al
generale Graziani, un ufficiale esperto in guerre coloniali contro nemici
inferiori per numero e per mezzi, che non aveva mai avuto il comando su un
fronte europeo e che non aveva alcuna
familiarità con la frontiera occidentale. I vertici militari italiani,
costretti a centellinare le poche risorse disponibili, decisero di muovere le
truppe solo in concomitanza con i movimenti dei tedeschi:[108]l'aggressione
alla Francia avvenne infatti solo quando la Germania l'aveva già praticamente
sconfitta, poi ci fu un periodo di inattività italiana contemporaneo
all'inattività tedesca nell'estate 1940, poi le azioni italiane ripresero
quando la Germania iniziò la pianificazione dell'aggressione al Regno Unito.
Secondo lo storico Ciro Paoletti: «Ogni volta che i Tedeschi si muovevano
poteva essere quella decisiva per la fine vittoriosa del conflitto; e l'Italia
doveva farsi trovare impegnata quel tanto che bastasse a dire che anch'essa
aveva combattuto lealmente e godeva il diritto di sedersi al tavolo dei
vincitori». L'atteggiamento dell'Italia, che «entrava in guerra senza essere
attaccata» né sapeva dove attaccare, e che «addensava le truppe alla frontiera
francese perché non aveva altri obiettivi», venne sintetizzato dal generale
Quirino Armellini con la massima: «Intanto entriamo in guerra, poi si vedrà. Il
Promemoria segretissimo 328 era una relazione, stilata da Mussolini, con
destinatari Vittorio Emanuele III, Galeazzo Ciano, Pietro Badoglio, Rodolfo
Graziani, Domenico Cavagnari, Francesco Pricolo, Attilio Teruzzi, Ettore Muti e
Ubaldo Soddu. cfr. Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra
redatto da Benito Mussolini, su larchivio. Il Servizio Speciale Riservato era un organo,
istituito ai tempi di Giovanni Giolitti, per tenere sotto controllo le
principali personalità del Paese. ^ Diversa, invece, la versione su toni e
parole data dall'ambasciatore francese: «E così, avete aspettato di vederci in
ginocchio, per accoltellarci alle spalle. Se fossi in voi non ne sarei affatto
orgoglioso», e Ciano avrebbe risposto, arrossendo: «Mio caro Poncet, tutto
questo durerà l'espace d'un matin. Ben presto ci ritroveremo tutti davanti a un
tavolo verde», riferendosi a un futuro tavolo delle trattative al termine del
conflitto. cfr. Niente pugnale alla schiena in Internet Archive., in Il Tempo. Di
seguito i testi dei due telegrammi, qui fedelmente riportati secondo le fonti
reperibili. cfr. La Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su
storiaxxisecolo. Berlino, telegramma di Hitler al Re La provvidenza
ha voluto che noi fossimo costretti contro i nostri stessi propositi a
difendere la libertà e l'avvenire dei nostri popoli in combattimento contro
Inghilterra e Francia. In quest'ora storica nella quale i nostri eserciti si
uniscono in fedele fratellanza d'armi, sento il bisogno d'inviare a Vostra
Maestà i miei più cordiali saluti. Io sono della ferma convinzione che la
potente forza dell'ITALIA e della GERMANIA otterrà la vittoria sui nostri
nemici. I diritti di vita dei nostri due popoli saranno quindi assicurati per
tutti i tempi. Berlino, telegramma di Hitler a Mussolini Duce, la
decisione storica che Voi avete oggi proclamato mi ha commosso profondamente.
Tutto il popolo tedesco pensa in questo momento a Voi e al vostro Paese. Le
forze armate germaniche gioiscono di poter essere in lotta al lato dei camerati
italiani. Nel settembre dell'anno scorso i dirigenti britannici dichiararono al
Reich la guerra senza un motivo. Essi respinsero ogni offerta di un regolamento
pacifico. Anche la Vostra proposta di mediazione si ebbe una risposta negativa.
Il crescente sprezzo dei diritti nazionali dell'ITALIA da parte dei dirigenti
di Londra e di Parigi ha condotto noi, che siamo stati sempre legati nel modo
più stretto attraverso le nostre Rivoluzioni e politicamente per mezzo dei
trattati, a questa grande lotta per la libertà e per l'avvenire dei nostri
popoli. Fonti ^ Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Paoletti, Acerbo, Paoletti,
Paoletti, Le Moan, Ciano, Schiavon, Ciano, Ciano, Corpo di Stato Maggiore,
Candeloro, Paoletti, Paoletti, Ciano, Collotti, Ciano, Paoletti, Bocca, Costa
Bona, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Paoletti, Ciano,
Bocca, De Felice, Ciano, Paoletti, Paoletti, Paoletti, Candeloro, Ciano,
Candeloro, Bocca, Candeloro, Faldella, Paoletti, Bottai, Bernasconi e Muran, Rochat,
Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito
Mussolini, su larchivio.com, Candeloro, Paoletti, Rochat, Paoletti, Candeloro,
Corrispondenza Mussolini – Hitler, su digilander.libero.it. Speroni, Ciano,
Candeloro, Felice, Costa Bona, Ciano, Ciano, De Felice, De Felice, Vedovato,
G., et Grandi. Grandi al Duce. Questo è il momento di astenersi dalla guerra».
Rivista di Studi Politici, Felice, De Felice, Paoletti, Paoletti, Leto,
Paoletti, Felice, Faldella, Speroni, Speroni, Faldella, Badoglio, De la Sierra,
De Felice, Il carteggio Churchill-Mussolini? Una traccia nei National Archives
di Londra, su nuovarivistastorica, Paoletti, Ciano, Ciano, Felice, Carteggio
Hitler Mussolini L'Archivio "storia - history", su larchivio. Felice,
Ciano, Lepre, Corpo di Stato Maggiore, Niente pugnale alla schiena, in Il
Tempo, Speroni, Felice, La Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo, Pietrantonio,
L’Italia dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna, su abitarearoma, Santis,
Bocca, Fiori, Mussolini: il discorso che cambiò la storia d'Italia, in
Repubblica, Campagna di Francia, su storiaxxisecolo, Rochat, Rochat, Faldella,
Rochat, Cicchino. Il testo della dichiarazione di guerra, su larchivio.com, Bocca,
Faldella, Battistelli, I rapporti militari italo-tedeschi, Paoletti, Rochat, p.
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Diario, a cura di Felice, Milano, Rizzoli, Collotti ed Enrica Collotti Pischel,
La storia contemporanea attraverso i documenti, Bologna, Zanichelli, Corpo di
Stato Maggiore, Bollettini della guerra, Roma, Stato Maggiore R. Esercito,
Ufficio Propaganda, Corpo di Stato Maggiore, Verbali delle riunioni tenute dal
Capo di S.M. Generale, Roma, Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico,
Costa Bona, Dalla guerra alla pace: Italia-Francia, Milano, Angeli, Felice,
Mussolini il duce. Lo stato totalitario, Milano, Einaudi, Sierra, La guerra
navale nel Mediterraneo, Milano, Mursia, 1Santis, Lo spionaggio nella seconda
guerra mondiale, Firenze, Giunti, Faldella, L'Italia e la seconda guerra
mondiale, Bologna, Cappelli, Moal, La perception de la menace italienne par le
Quai d'Orsay à la veille de la Seconde Guerre Mondiale, intervento alle
«Journées d’études France et Italie en guerre. Bilan historiographique et enjeux mémoriels», Roma, Ecole Française, Lepre,
Mussolini l'italiano. Il duce nel mito e nella realtà, Milano, Mondadori,
Leto, OVRA-Fascismo e antifascismo, Rocca San Casciano, Cappelli, Paoletti,
Dalla non belligeranza alla guerra parallela, Roma, Commissione Italiana di
Storia Militare, Quartararo, Roma tra Londra e Berlino - La politica estera
fascista, Roma, Bonacci, Rochat, Le guerre italiane, Milano, Einaudi, Schiavon,
La perception de la menace italienne par l'État-Major français à la veille de
la Seconde Guerre Mondiale, intervento alle «Journées d'études France et Italie
en guerre. Bilan historiographique et enjeux mémoriels», Roma, Ecole
Française, Speroni, Umberto II. Il dramma segreto dell'ultimo re, Milano,
Bompiani, Voci correlate Battaglia delle Alpi Occidentali Lista del molibdeno
Occupazione italiana della Francia meridionale Storia del Regno d'Italia Italia
nella seconda guerra mondiale Altri progettiModifica Collabora a Wikisource
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Regno d'Italia e della Germania nazista Lista del molibdeno richiesta
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Cavallero. Roberto Cordeschi. Cordeschi. Keywords: la logica della guerra, la
guerra del fascismo, Croce, sperimentalismo italiano, mente, homo mechanicus,
Turing, Craik, artificiale e naturale, filosofia, rappresentare il concetto,
logica matematica, reiezione in Aristotele, predicate, significato,
communicazione, creativita, informazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cordeschi” – The Swimming-Pool Library. Cordeschi.
Grice e Corleo: all’isola -- la
ragione conversazionale – scuola di Salemi – filosofia trapanesi – filosofia
siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salemi). Filosofo trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Salemi,
Trapani, Sicilia. Grice: “Corleo is a genius --
His keyword is identity, the Hegelian type, and that’s why he attracted
Gentile’s attention! But my favourite is his excursus on language! He talks
like a veritable Griceian – about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the
spontaneous cry to seek attention, Romolo from Remo, say – He very much
elaborates on the subject and the predicate and the copula, and the other parts
of speech – But he retains an empiricist, evolutionary viewpoint with which I
wholly agree!” Studia
nel Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un
seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana.
Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”. Durante la spedizione dei mille, fu nominato
da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio:
“Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di
Salemi. Altre opere: “Meditazioni
filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia
dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario
biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente dall’esperienza e
dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio affermativo (S
e P) o giudizio negativo -- S non e P --, giudizio condizionale -- Se p, q --, giudizio
tetico -- S e P -- giudizio ipotetico --
si p, q --, giudizio disgiuntivo -- p v q -- e via via. Poichè,ogni proposizione o
giudizio, semplice or complessa, debbe congiungere un predicate ad un soggetto --
S e P -- o negare un predicato ad un soggetto -- S non e P --, e ciò non può
farsi altrimenti che in forza della identità parziale o totale del predicato
stesso col soggetto, ovvero del contrario o contrapposto del predicato in caso
di giudizio negativo, sia cotesta identità assoluta, o sperimentale, sotto
condizione, problematica, o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso
di giudizi che serve a scoprire una verità incognita per mezzo di una verità
nota, o a dimostrare il nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il
raciocinio deve esser fodato sulla medesima legge d'identità, che costituisce
l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni passaggio da una verità ad
un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato dalla connessione che deve
esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si può dall'uno inferir
l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal noto all'ignoto, e
molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri conosciuti. Or,
questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà strano che la
connessione si debba risolvere anch'essa in identità; ma riflettendo con
attenzione, si scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere altrimenti. Se
S è connesso con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma importa invece
che ambidue sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti integranti del tutto
S-P, di guisa che la loro connessione non *significa* o signa altro, che il
loro legame necessario per la formazione di quel tutto complesso proposizionale
– “S e P” -- onde se essi non fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel
tutto non sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico alla somma delle parti
che lo costituiscono. Due o più giudizi, tra loro connessi, sono parti
integranti di un giudizio di maggiore estensione che tutti li abbraccia, ed è
identico con essi come il tutto è identico con la somma delle sue parti. Laonde
non può esser vero l'uno senza che sia vero l'altro, perocchè in diverso non
sarebbe vero quel giudizio maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi
subalterni dai quali è costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad
esaminare ogni teorema geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in
genere e delle varie sue specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione
tra cotesti teoremi, nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di
seguito; onde essi si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima.
Essi non sono che le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di triangolo
e delle sue specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto
complessivo sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora
nemmeno avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna
delle sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di
nesso a costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella
identità di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni
sul raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè
l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la
connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un
ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto
dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come
sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto
connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più
larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio
maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso
opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale
riunire per necessità le parti fra di lor, senza di cui egli non potrebbe esser
quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri connessi a
quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale li
identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non ci
contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per mezzo
di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno essendo
vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in qual
giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la identità
di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il raciocinio
analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione dei
singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono appunto i
giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli s'identificano come
parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione non è che l'identità
del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il cui necessario legame
egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è dimostrativo, quando
serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare niente altro è che
legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione pertanto vi è, perchè
i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si raggruppano in unico
e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia come tante sue parti:
onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un predicato P col suo
soggetto S, all'identità parziale dell'altro predicato P2 con l'altro suo
soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi tutti costituiscono un solo
subbietto più esteso, che di tutti quei predicati si compone, e che perciò è
identico con la loro somma. Un subbietto subalterno non potrebbe concorrere
alla costituzione del subbietto totale, se non possedesse quel tale predicato e
se gli altri subalterni non possedessero quelli altri predicati; onde la
connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri gli altri, ed *implicitamente*
deve esser vero il giudizio totale, con cui tutti s'identificano. È inventivo e
non dimostrativo il raziocinio, quando, dalla verità che si conosce, si passa a
quella che s'ignora; ed anco in tal caso la ragion del passaggio è fondata
sulla connessione, e perciò sulla legge d'identità, in quanto che dalla
identità parziale che si conosce, si sospetta prima e poi si scopre la identità
totale. Per causa di alcuni punti d'identità o di parziali somiglianze tra un
fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile* identità dei loro elementi
in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In questo caso vi ha l'*ipotesi*
o supposizione, che annunzia come *possibile* identico totale quello che
tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza dei punti, della cui
identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la medesima identità
con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in altri simili. Ed
allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della identità di tutti gli
elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una legge e l'altra, e si ha
perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o non si giunge ad
accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui però dobbiamo
renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale, nella ipotesi o
supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per poterla
trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio
dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la
*testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni
giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è
composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la
connessione dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale
di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve
giungere in forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio
inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè
fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata
dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti,
nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il
giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno
divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta
dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle
parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli
elementi proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque passaggio
dalle verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità assolute ed ai
raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel conoscimento
delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi sperimentali,
ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti parziali ed il
subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso solo. È questo il
doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e necessaria dei fatti
sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li costitui scono, e lo
svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti subalterni, che sono
del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza del raziocinio non può
essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra; essa consiste nel
passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che la costituiscono, o
dalle identità parziali alla totale per mezzo della scoperta di quelle altre
identità parziali che sono con loro connesse per compiere l'identità totale.
Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei concetti, della doppia identità
delle parti e del tutto per avere ragionamenti rigorosi; e non potendo giungervi
per mezzo dei concetti, assicurarsene per mezzo della esperienza. In questi due
soli modi è possibile il raziocinio. Chi cura soltanto la forma esteriore del
ragionamento e ripone la logica nello studio delle leggi della FORMA LOGICA,
non prende di mira lo scopo vero del raziocinio, che è l'accertamento della
identità de' giudizi connessi col tutto di cui sono parti; e perciò corre
l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert, che non è mai garanzia sicura di
esatti ragionamenti. Or, perchè mai i subbietti di tali giudizi son dive nuti
concettuali e perciò includono necessariamente i loro pre. Tre sono state le più
grandi logiche formali. La prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta
dal particolare al particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari.
La seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i
particolari si presentano con caratteri di necessità, empirico se si presentano
soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad
altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione
dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono
le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che
ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni
naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato
dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come
Porfirio e BOEZIO, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone,
e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato
la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come
idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di
universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie dalla
classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste
argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o
inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che
non posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al
vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare
all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di
particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè
questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine
fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o
identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un
altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano.
Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici, conchiudendo dal generale al
particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai
verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið
ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e
perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal
l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra
parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può
accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in
modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre
essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel
concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve
notare, che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi,
o spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e
volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo
in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto
vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto
ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o
di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo
di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che
hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali
abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È
allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo.
Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente
nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari
simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si
cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second,
si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto
particolare e gli altri dello stesso genere, alla loro totale identità. Perchè
moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque
selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione
baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo
numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo
generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di
parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed
all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli
elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione
di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene
l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano
anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è
necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma
delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il
tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai
all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di
ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente,
perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette
forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali
ad altre parziali, o peggio, ad altre total, senza assicurarne la totale
identità. rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde
composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia
decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la
quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle
percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse,
non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un
doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente
e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da
sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria
riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge
dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per
non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da
sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto
concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto
riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in
mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi
l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il
predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in
tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati
dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni,
non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente
si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e
diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica,
e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela
borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di
elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono
per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca
o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola
della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli
elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta
nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale
idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del
raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea,
come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante
di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà
sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge
logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio. Nello stesso modo,
un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa
con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel
ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gl’errori di esperimento si
correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne
occupano. Gl’errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed accurato
esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle
rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame
delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio
lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi
che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella
stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del
l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che
la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve
essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità: così
soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli
che non convengono; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra
quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal
modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo; ed in ciò
consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica, duce il Locke, aveva
già compreso la necessità dell'esame delle idee, all'oggetto di non ammetterle
soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza, necessità,
universalità ed assolutezza, con cui s'impongono. La disposizione che si dà al
complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare,
sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero
altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i
suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo
sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di
fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante
la regola della doppia identità parziale e totale. Onde il vero metodo
scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola,
nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati
scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità, e se non mirassero
al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali,
concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare
alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione
necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi
delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di
condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare, senza alcuna
ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee.
Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde, in vece della vera
origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee, diede spesso
supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime, e sopra tutto
delle idee morali, col preteso stato naturale e col contratto sociale. Tutte
quelle idee che non potè giustificare coi sensi, le rigetto, o le ammise alla
credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i
posteriori idealisti, visto l'inte lice esito dell'esame, son tornati ad
ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri che
s'impongono alla nostra ragione, sia ritenendole verità prime indiscutibili ed
indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune); sia supponendole
forme assolute del pensiero quidquid
recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ); sia riputandole
innate e facienti parte del nostro intel letto, almeno in una prima idea fondamentale,
quella dell'essere (*scuola rosminiana*); sia ammettendole come frutto
d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart); sia credendole
comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole
giobertiane*), o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri
di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana
), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola
di Schopenauher ), o attuazione inconscia (scuola di Hartmann ). Tutti
supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni, o a dogmi, per
dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè
stesse, nei loro attuali elementi costitutivi, adducendo a prova della
impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici, i quali
ebbero bensì il buon volere, ed anche la presunzione dell'esame, senza mai
averne studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche utili.
Laonde è d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment
ammesse, per inferirne le bramate conseguenze. Or se è vero che percepire
distintamente, sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare,
ideare, giudicare, connettere e ragionare, non sono altro che più o men
largamente identificare le parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente,
in forma sperimentale o in forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur
troppo evidente che, per potere scorgere l'identità più prontamente e con
maggiore chiarezza, sarebbero assai utili due cose. Primo, abbreviare e
ravvicinare tra loro con SEGNI le percezioni ed i loro elementi, le idee ed i
loro elementi. Secondo indicare con segni le successive operazioni che vengon
fatte spontaneamente o riflessivmente sui detti complessi e loro elementi.
L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono scienza, ma sono potenti mezzi di
scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano le idee e le operazioni su di esse
fatte rendendo più facile e più sicuro il colpo d'occhio su di loro per
scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè non sarà possibile una logica
aritmetica o matematica per agevolare la conoscenza delle identità parziali e
totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio della intelligenza? Non vale il
dire che nell’aritmetica e la geometria si tratta di rapporti tra sole
quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi e le operazioni
identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero trattare molti
altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente, e perciò
l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire questo;
poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune,
l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa
crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra.
Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella
identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni
dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi
ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo
non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno,
costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le
operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non
occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere
alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i
loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere
minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri
conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente,
potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno,
eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o
aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo –
la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare
un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a
stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio
ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo
dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti
stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore
e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di
fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio
superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica
il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i
complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo
stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro
elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica
che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali.
Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale.
Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà
più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che
convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano
la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano
l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una
catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che
voglio negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco
così la serie dei segni principali: + più, meno, = uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’
simile, 1 identico, ^ identico parziale,? dubbio, 000 connesso, (II) in
contatto, et etcetera, -1-- non simile, ^ non identico,?- non dubbio cioè
riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso,
percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e sintetizzato,
!! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi spontanea e
riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la parte a. | A
la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da quello di
riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei giudizii e nei
raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i due spazî, che
segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i suoi elementi
si rappresentano così ovvero al ovvero A:, ovvero secondo chè sieno più o meno
distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha una delle due
formole: 10 AA? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B? A A? Bİ, non
è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica certamente, 1
-?-; 2º Aja?, l'elemento a fa parte dell'idea a _?. o della percezione A? La
risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde? с a hg an. Or,
dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali, с de cioè
l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli altri
elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della
connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è
l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è
necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero
il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^()()(). Con
le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e
possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione
e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di
connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento
erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $
56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa
dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un
altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio
ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h
g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono
parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici?
Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali
identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione
tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due,
o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei
due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o
per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha
passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno
d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità
col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello
di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento
prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il
formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di
mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son
limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di
reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli
con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del
concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro
eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in
tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso
in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in
questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile
la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò,
lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle
singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale.
Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere
qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o
un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter”
-- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo
esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome
il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser
pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione*
da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di
suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o
concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui
che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro
quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere,
cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia
volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion
di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o
pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio
co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto,
cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno
per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico,
assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione
convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima
espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di
communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato
segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee
co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una
proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”),
il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della
esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione
il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che
s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta
naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque
non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca
stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto
spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien
pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè
ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il
segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far
nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione
e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo
solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose
per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi
stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci
rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione
comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola
sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse
nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli
segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee
astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne
analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi
incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle
percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si
analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili
e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e
ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un
momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che
fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione,
anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e
di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno
articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un
segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta
per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per
altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il
concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza
confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per
signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco
sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec. Vi sono poi delle parti di percezioni
che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno
per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o
il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un
colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di
essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un
segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per
richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han
bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’
“onore”, il “dovere”, ec. Cosi anche e
il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec. É
in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se
vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno,
particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere
reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene
l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il
legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice
(“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa,
come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille
modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma
indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni
derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per
citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo
vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno
sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno
come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il
segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”,
“amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il
mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al
recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza
grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e
siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una
proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno
articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio
(di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo
nella sintesi, nell’analisi e
nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per
mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il
sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il
suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti.
Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o
communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per
fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al
primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette
tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione,
fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma
genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii
innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem
col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa
dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in
tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione
dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica
religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del
segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a
dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al
linguaggio, e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo
appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò
adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico, e porrò così il
quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque
guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre
bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe
questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai
uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò,
essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia
stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente
consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o
signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle
rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica
o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la
necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta
analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere
la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza
volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si
combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta.
Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi
voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al
problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si
domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente
esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile:
nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce
grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può
signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche
facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza
dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso
l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”),
il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col
porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio
completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza
l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha
preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa
mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è quest'altro.
Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un primo uso di
un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di un'astrazione (o
articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha bisogno dell'uso
del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono a vicenda, in
modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si guardano *sinteticamente*
dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento, non pajono più naturalmente
spiegabili, e comparisce quella specie di circolo vizioso, di cui si parla
inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo sviluppo pieno dell’altra,
ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non si sa più qual delle due
debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal fatto bisogna
incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento men complicato
e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza mutua, e come
mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo un’obbiezione ben
facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per poter determinare
qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare communicamente in Romolo e
Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia una base sufficiente per
poter sostenere che il segno communicativo più antico e più elevato e più ricco
di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto del signare
comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo
esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio non mi credo autorizzato a dare una soluzione
diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori,
e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non
entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il
primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita
di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame
storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato
filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente
arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per
mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente,
naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un
arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò
che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno
più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due
uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --,
quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve essere
per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del genero
segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine necessita.
Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico,
assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo
un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di
segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per
sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di
arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare*
(transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo
essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato,
segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti.
Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’)
i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow
wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino
italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come
la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma
anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che
l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma
quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le
possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una
cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella
può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono
qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta
(l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o
iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente
emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma
intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato
(‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento
l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare,
i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale
-- che costituisee la communicazione e
la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la
prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque
altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien
segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano
che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno
articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della
pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende
da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che
il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora
(“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do
alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso
potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito
la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un
pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono
qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che
potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più
involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o
pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo
la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo
“o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo
arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua
divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più
semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna,
signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e
presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che
cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale
il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è
ottenuto. Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione
comunicativa alcuna richiama l’attenzione dell’altra parte della diada
conversazionale. Ciò che si è dapprima, one-off, ottenuto senza intento
communicativo o intenzione communicativa, può la seconda volta esser voluto *di
proposito*, voluntariamente, -- def. di verbum in Aquino -- per la utilità che
se n’è ricavata: ripetendosi dunque avvedutamente lo stesso segno, quello è
divenuto un vocativo naturale. E noi osservammo che appunto questa vocale “o” è
il vocative nella Roma di Remo (o tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio
mutuo o duale dunque non nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di
un'effetto o risponsa, che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per
imitazione, consigue. Volendo di nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto
o la stessa risponsa, non ci vuol’altro che ripetere un altro specimen del
stesso genero di segno (“o”). L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando
vi sono tante possibilità d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar
luogo spontaneamente a un arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono
assoluto che sia impossibile l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza
della utilità del segno medesimo? Non dico che l’atto del signare
communicativamente nacque in questo o in quell’altro modo. Dico che vi sono
moltissime possibilità tutte *naturali*, nelle quali l'uomo può avvertire
l'utilità dell'uso di un segno articolato per l’effetto o la risponsa
spontanea, no intenzionata, che ne ottiene, e senza il bisogno di un preventivo
arbitrio duale. Basta questo per distruggere a rigor di logica le basi tutte di
quell'edificio che si vuol fondare sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa
senza prima aver conosciuto l'uso e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto
ebbero forse insegnato da Dio l'uso del atto di signare communicativamente, con
che communica (o transferre) il suo bisogni, la sua gioia, il suo pericolo, la
domanda del soccorso? Forse non vediamo fin dal loro nascere i varii animali communicarsi
per mezzo di un segno, per lo più *istintivo* -- che causa una risponsa
istintiva, i diversi loro stati? Non puo il brutto perfezionare il suo atto di
signare communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di
analizzare gli elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre,
siccome vedremo a suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o
stimolo, in esito al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta
volontariamente; e tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la
libertà del movimento per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi
ha una specie di “tacito” arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto
ottenuto o la risponsa ottenuta una volta, per ragion di associazione o
co-relazione iconica istintiva associativa, fa appunto le veci di un arbitrio
duale. Se dunque questo segno inferiore è possibile nel bruto, il quale non
astragge, perchè lo stesso principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è
possibile fra due uomini! Un uomo, che ha la piena capacità di astrarre,
riconosce più facilmente l'utilità dell’effetti ottenuto o della risponsa
ottenuta dall’altra parte della diada conversazionale, e si crea l'idea
generica del arbitrio duale del segno, dalla quale discende poi come
conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco, illimitato, creativo, e
di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne, in ragion di questa o
quella percezione, o in ragione di questo o quello concetto astratta. Concepita
una volta l’utilità dell’uso del atto di signare communicativemente, del segno
articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro che possedere in fatto la
capacità di variare e combinare *indefinitamente* in modo aperto e illimitato,
l'articolazione e la operazione di questo o quello segno primitivo, e l'uomo
possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo adunque può, da un certo
numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a *stabilire* un arbitrio
duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale del segno, poichè da un
fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e l'idea generica; e
possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di questo o quello
segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto il resto. Quantunque
il segno che compone l’atto del signare communicativo e per arbitrio muto, pure
siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre elementi delle
medesime (S, e, P) ed i concetti astratti, debbono quindi ritrarre le proprietà
fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono avere fra ogni
percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e diverso il
segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il medesimo
segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o
dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che
e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un
risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo,
perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che
equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione
sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che
è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare
communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione
risultante in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” –
Varrone, verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in
verità, tutto quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce,
e perciò il segno del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni
proposizione si aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene
un'analisi, la mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un
segno che non e un verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione
risultante signata dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante*
e non basica, e composte della combinazione di questa o quella azione
sostanziali intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro
fondamento in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo*
(la copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla
che nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della
classe del segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in
ogni atto di signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il
verbo “essere”, al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo,
decomponendoli in “copula e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante.
Ed è notevole che ogni segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi,
perchè denota un’azione che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti
in un segno di verbo fondamentale che è intransitivo, o come i modisti dicono
neutro – epiceno, mezza voce --, cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è
veramente transitivo é la forma del risultato, ma ognuna delle azioni
sostanziali componenti è intransitiva. La sintesi e necessaria e l'analisi e
necessaria, perchè una percezioni e complessiva e costa di questo o quello
elemento, che colla riproduzione, sovrapponendosi gli uni agli altri, si
sintetizzano nel punto simile e si analizzano nel punto dissimile. Bisogna
dunque che ogni segno indica un composto o complesso proposizionale, e che ogni
segno articulato composito e de-compo nibili. Però, siccome gli elementi di
ogni risultato e una azioni sostantiva, perciò è necessario che ogni segno si
puosciogliere in un segno solo che indica l’azione sostantiva, non come occulta
(sub-stantia), ma come realtà, cioè come essere, onde il *nome* (nomen, onoma –
nomen substantivum, nomen adjectivum) non meno che il segno del verbo, si
sciolgono tutti nell'essere, il quale è verbo e nome allo stesso tempo, ed è
appunto verbo sostantivo, perchè indica un’azione che sta per sè stessa, e che
non ha bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine addiettivo e ogni altro segno
sin-categorematico che indica quantita, qualita, relazione, o modalità o
relazione, ra-presentano la composizione, il risultato, la combinzione di
questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè sole, ma ha
bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su cui debbono
appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque suo modo di essere
non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro che la somma
medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione è una
forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente, quindi è che
tutte le parole indicanti modd lità, quantità e relazi ni, conie gli avverbii,
le preposizioni, le congiunzioni, gli aggettivi, ec. non sono riduttibili al
solo verbo essere, nè al solo nume essere, a differenza del segno del verbo e
del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo sostantivo “essere”. Nel
tempo stesso non possono sussistere per sè, ed han continuo bisogno di questo o
quello essere (il S, il P), perchè la composizione non può stare senza di
questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo la differenza che passa
tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la relazione, e la
modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione medesima, e
quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di questa o
quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e principalmente il
verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono, indica la
collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome aggettivo, il
segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la preposzione (in
latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e, adversative, ma), ec.
indica come questa o quella azione e disposte, e che relazione ha fra loro, in
ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di azioni è un *risultato*
che subisce questa o quella modificazione (declinazione, congiuggazione) secondo
i cangiamenti parziali del numero (singolare, duale, plurale) e della posizione
di questo o quello componento, cosi vi ha una sintesi fondamentale in ogni
parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una continua analisi di ogni
parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e necessario il segno radicale
che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè, il fondo permanente
dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua desinenza (uomo, uomni,
pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo definito (il – ille, la --
illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per indicare ogni variazione e
accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale di questa o quella aziona si
effettua. Il atto di signare monosillabica dei cinesi supplisce a ciò coll’accozzare
diverse sillabe, cioè diverse segni, di cui ognuna esprime una idea, e tutte unite
esprimono un complesso. Una idea fissa si esprime con un signo fisso. Una
segnato variabile si esprime con un segno variantie. Sorge da ciò la necessità
del segno derivativo, del segno della desinenza e del segno del prefisso,
infisso, e suffisso, come anche la necessità di trasformare in maniera
avverbiale un nome e un verbo, e di operare ogni cangiamento di preposizione in
verbo ed in nome, dell’aggettivo in sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la
forma fondamentale, ogni mutamento di forma debbe esprimersi con cangiarli secondo
il bisogno e secondo la relazione che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni
ed un'altra. Finalmente vi ha un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del
discorso, ed è quella del giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo –
indicativo, imperative -- in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da
un giudizio all'altro per mezzo di una connessione, così la proposizione prende
forma concatenata e compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo
s'incatena con quello periodo e forman un discorso. Però è no ievole che
l’operazione dell'analisi e l’operazione della sintesi spontanea non puo
altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”, cioè di giudizio o
volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo anche un segno solo,
considerata nella sua radicale o nella sua derivazione, indica benissimo l’operazione
analitica che vi è dentro. La ragione, per cui non si può annunziare ad altri,
che sotto forma di giudizio, una completa operazione di sintesi e di analisi,
si è appunto questa, che quando si annunziano ad altri cotali operazione di
sintesi o analisi, vi è di già il concorso della riflessione, e perciò non si
annunzia altro che il risultato ultimo della sintesi e dell'analisi riflessa, il
qual risultato e il giudizio e la volizione, ambe due con contenuto
proposizionale. Onde si ha che nello singolo signo si rappresenta le sintesi e
le analisi spontaneamente fatte, e nel complesso si rappresenta il risultato
totale, che perciò appunto veste la forma di giudizio o volizione con contenuto
proposizionale. Da tutte queste osservazioni emerge che il segno e la sua
costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese d’Italia -- debbe avere una
forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme variabile (semiotica
componenziale), siccome il risultamento organico subbiettivo ed il risultamento
esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una forme variabile, poiché il segno
debbe necessariamente prendere lo stesso aspetto del segnato. In ogni segno
possono riguardarsi due parti distinte, cioè il segno e la costruzione del segno.
Ogni segno è segno di una percezione, o di una parte di percezione, o di
un'idea o concetto (signato). La costruzione del segno ra-presenta ogni
relazione che ha questa o quella percezione, questa o quella idea, questo o
quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro del grado delle
conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la ricchezza del
repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione indica quante
percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente, ed in quante
maniere sa metterle in relazione fra di
loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza studiata sino
al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una percezione sola o
una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere se mai una di tale
segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo stare attento alla *forma*
del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche dalla forma della
costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare col segno che si
adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma forse la causa del
fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un segno sia
adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato (equivocazione), è
necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato solo; poichè non è
presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico (equivocazione
– para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di usare un segno
solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per far nascere la
dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare. Allorchè dunque
si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno proprio, il
segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o concevire un
segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa svegliare
l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare). Allora
l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile novello ch' è
ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più di tutto
nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’), a cui mano mano un emittente
si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto più è possibile,
somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del traslato: un
segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo spirare), è
adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa qualche
somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione
di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi
sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio
duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure
al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del
signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a
ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente,
quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza
del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla
precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che
propriamente esprima ciascuno dei segni, che essi adoperano per indicarle. Ma
il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte
meditazioni, e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso. Inoltre
gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto
più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano,
non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile
IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione
delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria
il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione
segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo,
si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio,
ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il
traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel
segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando
la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come
pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente,
quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la
corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un
segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità,
perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto
meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una
pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso
bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii
è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed
emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho
e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro
l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato
e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono
esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di
traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono
adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un
repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni
(perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma
stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata
nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o
allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un
segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni
indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con
ambidue uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo
radicale che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere
di radice originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono
chiamarsi il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio
delle forma con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la
ricchezza delle forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente,
molto più quando non è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i
segni di più avanzati nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso
numero di vocaboli proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà
del segno: onde esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e
adoperano al bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio
all’esattezza scientifica, ma quanto sono rigorose, tanto son più fredde,
poichè non si confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra
qualunque segno avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente
i di tal sorta non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò
porta l' impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che
appartennero all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo
hanno acquistato segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un
traslato o di una metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto
proprio (By uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my
pride and joy). Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre.
L’emittente e ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel
repertorio di forme poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo
segna, e perciò le relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più
semplici, e sempre più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o
proposizione: soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur
fare intorno a queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più
abbondante di figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il
segnato per come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro
costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione
sostanziale, l'azione sostanziale stessa, ed il suo oggetto, non van sempre in
ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato
coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte
trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più
abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più
ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del
giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un
emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo
la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più
conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è
divenuta più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione
stessa che ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye
da ciò che al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha
bisogno di esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni
o nel calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella
stessa costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la
spontaneità dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si
presta meglio alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e
nell'oratoria ha bisogno di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare
il loro effetto dalla varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo
a particolari confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta
semiotica generale. Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono
dalla natura stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal
corso delle loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente
debbe esser quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile
figurato e dei traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando
è necessaria. L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme,
se non che in un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla
medesima lingua dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione,
dall'epoca della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però
in tal caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema:
l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo
emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta
sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro, i quali
adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro. Wikipedia
Ricerca Affezione Lingua Segui Modifica Il termine affezione (dal latino
affectio, sinonimo di affectus) nel linguaggio comune è usato nel significato
di "affetto", inteso come un sentimento di benevolenza verso il
prossimo, di intensità minore della passione. In filosofia il lemma
indica tutto ciò che avviene nell'animo determinandone una modificazione:
l'affezione è ogni «fenomeno passivo della coscienza», ossia la condizione in
cui si trova chiunque subisca un'azione o una modificazione[2].
AristoteleModifica In Aristotele, in senso generico, l'affezione è ciò che si
contrappone all' ἔργον, (azione): il πάϑος, il "patire", una delle
dieci categorie che si possono predicare dell'essere. I sensi producono
affezioni con i dati sensibili, che provengono dagli oggetti esterni,
sull'anima, che come una tabula rasane viene impressa, dando luogo così all'inizio
del processo conoscitivo. L'affezione può anche riguardare un
cambiamento di stato, cioè «una modificazione o carattere sopravvenienti a una
sostanza, come l'essere musico o l'essere bianco per l'uomo» In senso più
ampio, sempre in Aristotele, poiché dagli oggetti esterni provengono quegli
elementi che provocano nell'anima modifiche non solo sensibili ma anche
sentimentali come il piacere, il dolore, il desiderio...ecc., le affezioni
coincidono con le "passioni" della sfera etica Quest'ultimo
significato si ritrova anche in Cicerone, che adotta affectionescome sinonimo
di perturbatio animi o concitatio animi. Anche Agostino d'Ippona usa i termini perturbationes,
affectus, affectiones come sinonimi di passiones. La funzione delle
affezioni. Nella storia del pensiero la funzione delle affezioni viene
considerata in tre diversi modi: con Platone e il platonismo, poiché il
comportamento buono si basa sulla conoscenza del vero, le affezioni sono
dannose perché influiscono negativamente sia sulla conoscenza che sul
comportamento morale. Su questa stessa linea di giudizio sono Cartesio,
Spinoza, Leibniz, e soprattutto Hegel, che fanno rientrare le affezioni — sia
per la conoscenza che per la moralità — nell'ambito della false o confuse idee.
Nella filosofia aristotelica e in quella epicurea le affezioni sono valide
nell'ambito conoscitivo, poiché i dati sensibili ricevuti passivamente dal
soggetto sono sempre veri, mentre falsi sono i nostri giudizi anticipatori
(prolessi) delle sensazioni vere e proprie. Le affezioni sono valutate
positivamente anche dal punto di vista morale, poiché non esiste uomo senza
passioni, quindi il problema non è quello di eliminarle ma di moderarle
(μετριοπάϑεια). Con lo stoicismo le affezioni sono ineliminabili dal punto di
vista del processo conoscitivo, mentre vanno messe da parte nei comportamenti
morali, che non devono essere compromessi dalle passioni. Il saggio è colui che
raggiunge l'apatia, l'indifferenza alle passioni. Kant Secondo Kant, per le
nostre intuizioni è indispensabile che il nostro animo sia "afflitto"
(affiziert, "affettato") dalle affezioni. Quella della ragione
sarebbe una falsa conoscenza senza le affezioni sensibili. Se invece noi
intendiamo le affezioni come passioni allora il loro ruolo è puramente
negativo: esse sono, non diversamente da quanto aveva inteso Cartesio, «cancri
della ragion pura pratica, per lo più inguaribili. Il concetto di
affezione tuttavia fa nascere nella dottrina kantiana un problema relativo alla
dicotomia fra fenomeno e cosa in sé. Se l'affezione è tale nel senso per cui i
sensi del soggetto vengono modificati dall'oggetto, poiché spazio e tempo sono
parte della nostra intuizione sensibile come "a priori", indipendenti
dall'esperienza, e il noumeno è per definizione inaccessibile ai sensi, dove
mai l'affezione fisicamente modificherà la nostra sensibilità? Kant per uscire
dalla difficoltà parla allora di affezione come il risultato di un rapporto
causale, intellettivo e non intuitivo sensibile, tra l'oggetto e il soggetto
percipiente. Le categorie senza intuizione sono vuote, ma l'intuizione empirica
senza le categorie non porta ad alcuna conoscenza. NoteModifica ^
Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente; Enciclopedia
Garzanti di Filosofia alla voce corrispondente Aristotele, De Anima,
Aristotele, Metaphisica, (in Sapere.it alla voce "Affezione") ^
Aristotele, Rhetorica, Cicerone, Tusculanae Agostino, De civitate Dei, La
passioni sono una "malattia" della razionalità. Sono utili per la
vita come l'istinto di sopravvivenza ma impediscono la serenità dell'uomo
razionale. (In Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti, Dizionario
Treccani di filosofia alla voce corrispondente ^ I. Kant, Critica della ragion
pura, Estetica trascendentale Cfr. I. Kant, id., Dialettica
trascendentale ^ I. Kant, Antropologia pragmatica Kant, Critica della Ragion
pura, Analitica trascendentale, 24 Voci correlateModifica Modo (filosofia) «affezione» Portale Filosofia. Intelletto
facoltà della mente di intendere e concepire Critica della ragion pura
libro del 1781 di Immanuel Kant Pensiero di Kant Wikipedia Il contenutoSimone
Corleo. Keywords: filosofia morale, filosofia dell’identita, filosofia universale,
meditazione filosofica, logica, antropologia, sofologia, noologia, noetica-estetica
-- linguaggio ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza,
l’universale ontologico, la categoria come universale ontologico, segno,
signare communicativamente, segnabile, sensibile – nihil est in intellectu quod
prius non fuerit in sensu -- segnato, emettente, repertorio di segni,
repertorio di forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio pre-convenzione,
pre-consenso mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah,
peccora, conversazione adulto-bambino, il vocativo “o” emesso sense intent
communicative – signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea,
scenario ii. Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e
le categorie agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione,
modalita. Il nome sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la
congiunzione, il vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione
semplice “S e P” – modelo filosofico dello svilupo del signare
communicativamente – dello spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale,
l’idea di un gesto come SEGNO di una affezione dell’animo – DUALISMO? Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Corleo” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cornelio: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale di Giove, Ganimede, e Prometeo
– scuola di Rovito – filosofia cosentina – filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Rovito). Filosofo cosentino. Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Rovito, Cosenza, Calabria. Grice: “I love
Cornelio – he has a gift for titling his treatises: gyymnasma!” “My favourite of his gymnasmata is the one on what he calls the
‘generation’ of ‘man’ – in Roman, ‘homo’ is said to come from mud, humus – and
this is strange because Prometeo created man out of mud – In Rome, the more
Catholic your philosophy is, the more ‘Aquinate’, as it were, the less Hegelian
and Platonic – so trust an Italian philosopher to believe in the Graeco-Roman
myth of the ‘generation of man’ than the story of Adam’s spare rib, etc.!” Si forma alla
scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche diTelesio, molto studiato nei
salotti. Studia a Roma, approfondendo e facendo proprie molte tesi galileiane.
Conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui fu erede il suo tutore
Severino. Insegna a Napoli, portando la filosofia di Cartesio e di Gassendi.
Nel “Pro-gymnasmata physica” sono esposte la sua teoria filosofiche. Altre
opere: “Pro-gymnasmata physica”; “Epistola ad illustriss. marchionem Marcellum
Crescentium”; “De cognatione aëris et aquae”; “Epistola Ad Marcum Aurelium
Severinum”. Dizionario biografico degli italiani. Quæ in hoc volumine
continentur animalium conformatio ex inspectione er ex aque, ac terre expira
ouorum percipi facile patest tionibus
ætheri permiftis con animalium ex semine conformatio de stituitur scribitur aer
ob vsum respirationis recentari de animalium pars primigenia non iecur neque cor,
neque fanguis ter præter modum diſtraktus aut com animantes exſectis teftibus
quandoque preffus vite animalium et ignis con filios generant. fernationi
inutilis antiquorum varix de.rerum initijs opi aer nisi vaporibus aqueis
permiſtus re niones spiritioni inutilis apoplecticorum et ftrangulatorum aer
infra aquam demerſus à fuperftan mitis est exitus tis aqua pondere comprimitur Aqua
frigore concreta rarefcit, et in ma. Aeris in reſpiratione quis vſus. iorem
molem ampliatur. aeris per neceſitas tum ad vitam ani aqua quomodo in vapores
foluatur malium tum ad ignem conferuan in glaciem concreſcat dum Aqua fenfu
iudice neque contrahi,neque Aeris grauitas diftrahi potest Aeris color
caeruleus onde aqua triformis Arris, Aquarum pondus fub eifdem Aquis ineſſe non
poteſtnotabilis quanti demerſi curnon ſentiamus. tas aeris Akris compreffio,ea
diſtractio nifi æthere Archimedes ingenj doctrinæque prin admiſſo nequit
explicari ceps Aeris ex aqua generatio Ariſtoteles animaduertit in generatione
Aztheris ſubſtantia omnino admitten diuiparorum fieri.conceptus ouifor da
Alibilis fuccusad cor confluit Aristoteles ab attico platonico philo animalia
amphibia cur sub aquis distid fopho notatus si le ſine spiritu viuant
Aristoteles cur priuationem inter prin Animalia pulmonibus prædita cur niſi
cipia numerauerit reſpiraverint citiffimemoriuntur Aristotelis de loco
fententia improba animalia, quæ interclufo fpiritu fiiffa cantur dexterum
cordis ventriculum, Ariſtotelis principia diffentanea. pulmones babent multo
fanguine Ariftotelis quàm galena doctrina de ge refertos. neratione animalium
fanior ar mes tur arteriæin vteros prezrintinm perti mentuan mentes
frequentiores, ampliores Calor omnis animalium eflà Janguine fiunt Aiteris non
moventur à ri pulſifica eiſ- calor nonnunquam diſſimilis nature cor dem à corde
communicata, fid ab im pore congregat pulfu fanguinis Calore corpora non
femperrarefiunt, Arteriæ omnes eoderntemporis puncto Calore cur omnia diffoluantur,
atque li. ab impulſu fanguinis mouentur, tam queſcant que cordis proximefunt,
quam quæ à Caloris naturaex Platone explicatur corde longiſſimèabfunt. Cauernæ in
quibushomines fuffocantur, arteriarum venarumqueplexus, atque ignisextinguithi'
implicatio ibi eße folet vbi fit aliqua Chyli in ſanguinem mutatio quomodo
ſecretio fiat. Aſtrologia conieéturalis vanitas Cloylus ad inteſtina de aplies
duobus li quoribuspermiſcetur attractioni vulgo tributi motus re vera chylum
ounem per lacteas venas trana. pendent à circumpulſione refulſo
prodideruntiuniorcs Auftifichs ſuccusper membranas, a Chymix cognitio ad
Thyſiologiam illis neruos in partes diffunditur ſirandam perutilis Auftificus
fuccus ab Arabibus obfer- chymici magnam cladem galenicæ fa Uatus,fedperperam iudicatus.
&tioni attulere cibaria non eo quo ingeruntur ordine Ilis à fanguine in
iecinore fecerni B permanentin ventriculo tur cibi pars e ventriculo fiatim
elabitur Bilis nõ eſt fanguinisexcrementun antequam integra maſa confefta fue
Bilis nutritiumfuccum diluit, et fluxum reddit ciborum concoétionem auctores
diuerſa Bilis vtilitas rationeexplicant Brahaus illuftris Aftronomus à predi- cibus
in ventriculo quomodo conficia Etionibus aftrologicis abstinuit Bruni de mundanorum innumerabilitate cibus non
à folo calore conficitur sententia refellitur cibus in ventriculo fermentarur
Brunus voluminibus ſuis nugas inferuit. Cibus in ventriculo coctus non femper
albicat Cibus non detinetur in ventriculo donec Alidorum halituum magna vis in
totusfuerit confectus exterendis duris corporibus Cola piſcis cur amphibiorum
more diu Calor cæleftis est eiufdem nature, atque tule fub aquis viuere
potuerit elemenearis Conceptus omnes viviparorum ouifor culor innatus
eftmedicorum inane com mes ſunt Con rit. tur. с Copernicus ab Italis mundani
systematis FFelleus, Gʻaqueus humor cuit Condensatio, et rarefaétiofine
tenuiſſima quod ob defluxum bydrargyri inane ætheris fubftantia explicari non
po videtur teft F Elle nullum animal caret. notitiam arripuit quibus Copernicus
maximus astronomus prædi. chylus diluitur,iterato fæpius circuitu &tiones
aſtrologicas improbauit ad inteftina reuoluuntur cor motum non habet à cerebro,
fed inſe Fermentatio quid ſit ex Platone, ip, o cietur, cpalpitat Fermenti vis
à calore excitatur. ibid. Cordis motus fit ab balitibusin eiuſdem Firmicus
reprehenditur lofibras influentibus flamma cur fine pastu permanere ne Cordis
motus nõ excitatur àferuorefan queat guinis, vt Ariftoteli, Carteſio pla-
Flamma cur faſtigietur in conum, ibid. Fæmina ſubminiſtrat materiam omnem
Corpora je inuicem propellere poffunt, ex qua fætuscorporatur non autem
attrahere Fæminæ genitura non carent D Feminarumgenitura an aliquid conferat
Ifferentis inter conceptus ouip.rros, adgenerationem Fætus vita non pendet à
vita matris Dɔny Volumen de natura hominis fætus cum propria tum parentis vi ab
utero excluditur E Frigore nonnunquam diſſimilis nature Lectrum
quomodofeſtucasattrahat. corpora ſegregantur experimenta ludicra quatuor primum
Alenus ab Ariſtotele maximis de orbiculorum in aqua alternatim a rebus
diſſentit frendentium, defcendentium Galenus Platonis fententiam de circum secundum
orbiculorum in tubo dque pulſione non eſt affecutus pleno fuerfum deorſumque
recurrena Galeni experimentum de fistula in arte. - tium ad nutum eius, qui
tubi oftium riam immiſa oſtendit arterias ab im digito obturat pulſie fanguinis
moueri tertium orbiculorum in tubo retorto Galeni Secta cæpit deficere
aſcendentium defcendentium pro Galenice fattioni magna clades d chy paria tubi
inclinatione micis eſt illata quartum orbiculorum ex imo furfum galenice
medicine summa aſcendentium propter diſtractionein Galilæus de atomis, inani aliter
vidé aeris in eiſdem conclufi tur decernere, ac Democritus et Epi Experimentum
quo Verulamius probat curus aquam comprimipole eſt fallax Galileus omnium
primus physiologiam experimentum Torricelli de spario, com Geometria iugauie Ga
Gevens ifotelemaximisde Galilcus aſtronomicarum rerum peritif Hippocratimulta
tribuuntur, quecom. fimus improbauit aſtrologicas prædi mentitia funt
ctiones" Hobbes fententia de ſubſtantia inter al GALILEI (si veda) Carteſi
aliorumque iuniorum rem et aquam media. doctrina phyſicapræftantior quam homo à
teneris annisita potefl educari, antiquorum vt amphibiorum more ſub aquisdiu
Genituraquid,vnde prodeato tius viuat Genitura non fit in teftibus Homo incerto
gignitur fpatio Genitura in procreatione animalium ef- Hominis genitura non est
eiufdem ratio ficientis tantum caufa vim habet. nis cum femine ſtirpium Genitura
non eſt pars, feu materia con Hornunculorum generatio à Paracelſo fituendi
conceptus: propoſita commentitia eft Genituræ craffamentum oua, et conte
Humanusfætus recens formatusmaiu ptus minimè ingreditur Sculæ formica
magnitudinem vix fum Geniturepars, quæ efficiendi vim habet, perat oculorum
fugit aciem Geniture vis per occultum agit corpora quantumuis denfa penetrat Sanguinefecernere.
Ecinorisprecipuum munusest bilen Geometrie Paradoxa nonſemper plyſInanenihil
eft. cis diſquiſitionibus aptantur so Ingenia ad philofophandum idonea que
Glandulg cur maiores et frequentiores nam fint. in tenellis, et pinguibusanimalibus,
Initia rerum naturalium abftrufa. quam in ſenioribus, &macilentis, in omni motu
fit reciproca corporum dla translatio Glandule
fecernunt auctificum ſuccum Iuniores multa fulicius inuenere quam à reliquo
fanguine Priſci. 4 Glandularum vtilitas. ibid. K Græci curdoctrine ſudijs cæteris
natio nibuspræcelluerint probauit aftrologicas predi&tio Grauiora corpora
etiam à leuioribus ju. perftantibus premuntur L Grauitas quid L Ac quibus vis
feratur' ad mam H mas Hanimalium accuratiſſima. Aruei obſeruationes
degeneratione lacervberibus virorum, &virginum frequenti fuetu prolicitur Harueius
in obferuando diligētior, qaam Lace papillisrecens natorum extillans.. in
iudicando Hippocratis de calore Paradoxum. lac in ventriculo pueri coagulatur Hippocratesanimaduertitfetum
in man ' Latte columbs-nutriunt pullos ſuosprin tris vtero alimentum exfugere
mis diebus Laa nes Luuleirum venarum nonnulla cum me. Saraicis coniunguntur medicina
praua quadam conſuetudina Lamine complanatæ mutuo contactu co. hominibus
infimæfortis tractanda re hærentes cur niſi magno conatu diuelli linquitur
nequeant Medicina rationalis ſuper falſis hypothe. Lansbergius' excellens Aftronomus à fibus hactenus fuit ſuperstructa predi&
tionibus aſtrologicis abſtinuit. Medicina Græcorum continet inanes conie turas
et fallaces præceptiones, Lien per flexuojam arteriam craffioren fanguinem
excipit Medicina inconftantia, Seftarum va Lien craffiorē et impuriorem ſuccum
ex rietas. cibireliquisſecretum ſuſcipit Medicinam pauciffimi Romanorum fa
Lienis vtilitas, Arụctura Etitarunt Lumennon eft in rebus, fed fit in ipfo Membranarum vtilitas, dentis oculo Motus ad
fugam vacui vulgo relati pen Luminis naturaexplicatur dent à
circumpulſionefuperftantis ae. ris maseratica vis diſimilis elektrick: Mund for
printeriplexdifferentia mini. Men Maßarias iuniorum gloriæ infenſus Mundi magnitudo incomprehenſa. ibid. Materia
exqua fætus corporatur eſt al N bugineus lentor ſinailis ouorum albus Aturæ
ratio ex ipſa potiusrerum Mathematicæ diſciplinæ fummam inge paranda stü aciem
defiderant Naturalis historie cognitio ad Phyſiolo Mathematicarum disciplinarum
notabile giam malde necellaria incrementum O Medici latina verba
importunèeffutiunt, Bferuatio noua deforaminibus in vt imperitorum plaaſum
aucupen. interiorem pentriculi tunicam.: tur biantibus. Medici periculofus,
&ancipites morbo- obſeruatio noua de pensatorum ventri. rum curationes
inftituunt, culis. Medici perperam diuidunt partes in ſper. Obferuatio noua
lenti humoris in ventri maticas,atque fanguineas', culo exiſtentis Medici
rationales quam profitentur', Obſeruatio viarum, que nouum alimentū. ſcientiam
omnino ignorant ex ventricnli fundo excipient Medicis familiare eft mutuainter
fe ia. Oetimestris partus non minus pitalis Etare conuicia quam ſeptimeſtris
Medicorum improbitas Ouiformis conceptus in viviparis habet Medicorum inſcitia
reprehenditur, vcram ſeminis rationem Ouum gr Pusega Perguedus
nouisobfervationibusfretus R Frisvarijoeleis queriamlitar $ Strguis I i Ouum
fæcundum b.abet rationem femi- Ptolemai Copernici, &Brahei mundan nis in
ouiparis Systematis pofitiones manca im perfecte Ancreatis ductus vtilitas
Pueri cur facilius mathematici effe pof fant,quàm phyſici,aut politici.
Paracelſus d plerifque propter obſcurita- Pulli ex quo generatio defcribitur tem
deſertus R opinion Erum natura vix alibi quàm in li Pecquetus obferuationibus
quæriſolita bematofin tribuit cordi, non iecinori. Refpiratione cordis æſlum
temperari fal sò creditum est Pestilentix confideratio philosophandi ratio
inſtituta à noftri fæ Anguis non eſt ſuceus ſimplex, nec culi auctoribus
laudatur. tamen continet quatuor decantatos Philoſophia noftris temporibus in
liber humores tatem vindicata eft Sanguis in omne corpus per arterias dif
Philosophia Cartesii quails funditur Ploilofophiæ ftudium à pleriſque peruer-
Sanguis per arterias in membra influen's titur vitalitatem magis, quam nutrimen
Philoſoplrorum in definiendis rerum ini. tum infert tijs conſenſus sanguis non
calore, motuue liquefcit, fed Phyſiologia parum hactenus adoleuit permiftione
tenaifimihalitus pbyſiologia plurimarum rerum cognitio nem, et experientiam
requirit Sanguis non fuapte natura caliduseſt, Phyſiologia onde ordienda nec
calorem accipit à corde, fed motu, Phyſiologia poteft ex falfis hypotheſibus
atque agitatione incalefcit veras naturalium rerumaffectiones Sanguis non in
iecinore, nec in corde, vel concludere alio certo viſcere conficitur Phyſiologie
obſcuritas onde proficifca. Sanguinis duapartes altera viuifica tera auctifica
Phyſiologiæ perfetta cognitio cur defpe- Sanguinis natura admirabilis Eius
randa potior pars aciem fugit Phyſiologiam noftre etatis fcriptores Sanguinis
motusà corde a præclaris inuentis illuſtrarunt Sanguinis circulationem ab
Harueio de Phyſiologiam nemo Geometriæ ignarus fcriptam indicauerant,ante
Pizulus Mis aſequitur Sarpa, &Anstress Cefalpinus. Planetarum corpora ad
ætheris liquidif- Sanguinem fal coire, &denfere noir par ſui motum
circumferripoflunt titur Plato materiam voluit eſſe locum Sapientia illa quam
in ætatibus habet ſe weêtus nostræ potius cetati, quins pria e feq. tør. ſeis
fcis temporibus debetur Vacuipropugnatores corporis naturam à Semen animalium
quidnam fit cx Aris tałtu determinant Stotele P'ene lactea non deferuntomnem
fuc Senfus non ea omnia percipit, qua in na. cum alibilem jura exiſtunt Venis
la &teis animantesquædam carere Senſu quæcumquepercipiuntur falsò ta
videntur lia iudicantur qualia videntur. ibid. Venarum lymphaticarum
progreffus, ego Soli nibilſimiliusquamflamma vſus leg. Solem igneum esſe tactus
et oculorum Vene meſaraica fuccum nutritium ex teftimonio probat Cleanthes inteſtinis
ad iecur Stelliole Encyclopedia Vens meſaraicæ non ſunt deſtinate nú Stelliola
nouitate verborum abſtruſe do. tricationi inteftinorum et alui Etrina caliginem
offudit Vene vmbilicales maiores ampliorefque Stirpium ex ſemine propagatio
compre funt coniugibusarterijs. 88 hendi facile poteſi Ventriculi,&
inteftinorum motus Stoicis materia
corpuseffe videtur Vermes in iecinorè, liene,corde,pulmoni Sympathia Antipathiæ
et Antiperiſia bus et cerebro animaliū fis inania commenta Verulamius opes
ætatemque inter expe rimenta conſumpſit Elefius putauit poße ſpatiumma Vix
quibus humores d corpore per aluum gna vi conatuque pacuum fieri. expurgantur
Vita hominis in continuata fanguinis Telefiusveteresphilofophos, é precipuè.
motione conſiſtit Ariſtotelem exercuit Vitalis halitus in ſanguine existensquo
Testes priuerfo corpori robur conferunt. modo percipiatur Vitri denſitatem
penetrat hydrargyrus Theologi Hegyptü Deos omnes ex ouo prognatos
eſetradiderunt Vniuerſum vnum indiuiduum, atque im Tyndaridæ ex ouo editi mobile
Torricelli Paradoxum geometricum Vrina per quas vias in renes, &veficam
profunditur. Acuum experimento Torricelli Vvirjungiani ductus vtilitas Vacuum
neque mouere corpora poteſt ne Enonis de natura geniture fenten que ne
moueantur inbibere Ztia. Wikipedia Ricerca Ganimede (mitologia)
personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei Lingua
Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376.jpg Ganimede e
l’aquila, Nome orig.Γανυμήδης Sessomaschio Luogo di nascitaDardania
Professionedio dell'amore omosessuale e principe dei Troiani Ganimede (in greco
antico: Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un personaggio della mitologia greca. Fu un
principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali
del suo tempo. «La vicenda mitologica di Ganimede servì da emblema
significante per la natura dell'amore tra uomini, un amore filosoficamente più
elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda dell'aquila divina si
assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti artistici al desiderio
omoerotico[1].» In una versione del mito viene rapito da Zeus in forma di
aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la storia che lo
riguarda è stata un modello per il costume sociale della pederastia greca,
visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente accettato tra un
uomo adulto e un ragazzo. La forma latina del nome era Catamitus, da cui deriva
il termine catamite, indicante un giovane che assume il ruolo di partner sessuale
passivo-ricettivo. Genealogia Figlio di Troo e di Calliroe (o di
Acallaride). Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio
Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di
Ilo[8], per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo
padre fu Erittonio[10] oppure Assarco. Non risulta aver avuto spose o
progenie. Mitologia Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, GANIMEDE
che indossa il suo berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto
Il tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si
invaghirono sia il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re
degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa
leggenda. Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli
Dei, affascinato dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire
nei pressi di Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di
cavalli divini e un tralcio di vite d'oro[12]: il padre si consolò pensando che
suo figlio era ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il
coppiere degli Dei, una posizione che era considerata di gran
distinzione. Zeus per sottrarre Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato
da enorme aquila; sotto tale aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi
stava pascolando il suo gregge sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze
della città iliaca, se lo portò quindi sull'Olimpo dove ne fece il suo amato.
Per questo motivo nelle opere d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato
accanto a un'aquila, abbracciato a essa, o in volo su di essa, e, in varie
opere d'arte, è quindi raffigurato con la coppa in mano. Walter Burkert
ha trovato un precedente riguardante il mito di Ganimede in un sigillo in
lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana di Kish volare verso il cielo a
cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni viene anche associato con la
genesi della sacra bevanda inebriante dell'idromele, la cui origine
tradizionale è proprio la terra di Frigia. Tutti gli dei erano riempiti di
gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di Era; la
consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un rivale più che mai
pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha successivamente messo
Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquariola quale è strettamente
associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno zodiacale dell'Acquario.
Busto di Ganimede, opera romana d'epoca imperiale (sec. II d.C.) (Parigi,
Museo del Louvre) Mito iniziatico Lo stesso argomento in dettaglio: Pederastia
§ Origini iniziatiche. La coppia Zeus-Ganimede costituisce il modello mitico
del rapporto omoerotico tra maschio adulto e giovinetto, relazione colorantesi
spesso di un significato iniziatico (vedi la pederastia cretese) in quanto
finalizzata - anche attraverso il legame sessuale - all'inserimento del giovane
nella comunità dei maschi adulti. Questi amori "paidici" di un adulto
amante-erastès che rapiva simbolicamente un giovinetto passivo-eromenos
potevano venir praticati attraverso schemi rituali imitanti i veri e propri
rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato, avveniva la sua
iniziazione sessuale. Zeus e Ganimede, rappresentando la perfetta coppia di
amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti. Il cosiddetto
"tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a modello
dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di resistere alle
grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e poter rimanerne
immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande voglia di Zeus
nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera il padre degli
dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. Filosofia Platone rappresenta
l'aspetto pederastico del mito attribuendo la sua origine a Creta e ponendo,
quindi, il rapimento sull'omonimo monte Ida dell'isola: la sua è una critica
dell'usanza della pederastia cretese che aveva oramai perduto quasi
completamente la sua funzione originaria, accusando quindi i Cretesi di essersi
inventati il mito di Zeus e Ganimede per giustificare i loro
comportamenti[17]. Nel dialogo platonico poi Socrate nega che il bel
giovane possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli Dei, proponendone,
invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus avrebbe amato l'anima e
la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo corpo. Il neoplatonismo
ci offre una rappresentazione mistica del rapimento di Ganimede; esso sta a
significare il rapimento dell'anima a Dio, e in questo senso è stato usato,
anche in opere d'arte funerarie e anche durante il Neoclassicismo, sia
nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un esempio, il Ganymed di
Goethe. Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede (National Gallery, Londra)
PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del
desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La
leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo
a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il
poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20], poi
Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e
infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca
narrante la vita e le gesta del dio Dioniso. Virgilio ritrae con pathos
la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di
trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente
contro il cielo. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati disperati
anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un motivo
frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche Stazio.
Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le Argonautiche di
Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo contro Eros per
averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite si trova così
costretta a rimproverare il figlio di barare come un principiante.
Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il personaggio di Rosalind si
traveste da uomo quando deve andare nella foresta di Arden, scegliendo il nome
di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio del rapporto che si era
creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava ben oltre la semplice
amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in questo caso
omosessuale. Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di epoca
paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e
Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più
grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione
latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon
Marius. Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide, 1036 Ganymed. Nelle
arti Nella scultura una delle immagini più famose di Ganimede è il gruppo
scultoreo di Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a cui viene attribuito anche
l'Apollo del Belvedere) e tanto ammirato da Plinio il Vecchio: «Leocare
realizza un'aquila che trattiene con forza Ganimede; innalza il fanciullo
piantandogli gli artigli nella sua veste.» Questo particolare del rapimento
tramite l'aquila è stato spesso elogiato anche in seguito. Stratone di Sardi lo
evoca in uno dei suoi epigrammi, così come fa anche Marco Valerio
Marziale. La leggenda di Ganimede ha ispirato anche un gruppo in
terracotta, probabilmente originario di Corinto e oggi conservato nel Museo
Archeologico di Olimpia: questo è uno dei pochi esempi di grande scultura in
terracotta, e una rappresentazione scultorea molto rara della coppia in cui
Zeus si mantiene in forma umana. Nella ceramica il tema di Ganimede si
ripete spesso, di solito raffigurato nei crateri, quei particolari grandi vasi
entro cui venivano mescolati acqua e vino durante i banchetti (o simposi) che
si svolgevano solo tra uomini, in cui gli ospiti gareggiavano in immaginazione
poetica e filosofica per celebrare i meriti dei loro rispettivi eromenos. Tra i
più famosi è incluso il craterea figure rosse che ritrae da un lato Zeus in
pieno esercizio, dall'altro Ganimede mentre sta giocando con un grande cerchio,
il simbolo della sua giovinezza: il ragazzo è completamente nudo, così come
vuole la tradizione antica sportiva di origine in parte pederastica (vedi
nudità atletica). Il ratto di Ganimede, di Sueur Il Rinascimento ha
visto riapparire innumerevoli rappresentazioni di questo mito, con artisti
quali Michelangelo Buonarroti, Benvenuto Cellini e Antonio Allegri tra tutti.
In questo periodo è anche uno dei temi con più forte significato omoerotico,
divenendo una sorta di icona gay ante litteram. Quando il
pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il
rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma, i lunghi
capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato contribuiscono a farlo
rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti catturare verso l'alto
senza opporre la minima resistenza. Nel Ratto di Ganimede di Antonio
Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è più
contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter Paul
Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo Ratto
di Ganimede per un mecenate calvinista olandese, ecco che un'aquila scura porta
in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e si fa la pipì addosso
per lo spavento. Ratto di Ganimede, di Gabbiani Gli esempi di
Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono stati studiati da Worley. L'immagine
raffigurata era invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato
da un'aquila, mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati
raramente affrontati: in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata".
Inoltre, l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel
Rinascimento italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita
alla condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun
interesse per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo. Jean-Baptiste
Marie Pierre, Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou, Pierre Julien,
Jean-Baptiste Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini di
Ganimede nell'arte francese. La scultura che ritrae Ganimede e l'aquila
di José Álvarez Cubero, eseguita a Parigi, ha portato all'immediato
riconoscimento dell'artista spagnolo come uno degli scultori più importanti del
suo tempo. L'artista Thorvaldsen, di gran lunga il più notevole degli
scultori danesi, ha scolpito una scultura dedicata alla scena di Ganimede e
l'aquila. Particolare di una scultura, da un modello tardo
ellenistico a sua volta derivato dall'ambito figurativo greco del IV secolo
a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli. AltroModifica Nel linguaggio
corrente il nome di Ganimede è passato a indicare un bellimbusto, un damerino o
anche un giovane amante omosessuale. Pittore di Berlino, Ganimede
gioca con il cerchio, tenendo in mano un gallo, dono di corteggiamento di Zeus.
Cratere attico a figure rosse (Parigi, museo del Louvre). Ganimede
e Zeus, e Apollo e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale
per le Metamorfosi di Ovidio (Venezia) Illustrazione gli Emblemata
di Alciati. Ganimede rappresenta allegoricamente l'anima che si
"rallegra" in Dio. Raffaello da Montelupo, Giove bacia
Ganimede (Ashmolean Museum,
Oxford) Cherubino Alberti, Copia rovesciata da originale di
Polidoro da Caravaggio, Giove bacia Ganimede. La borsa di denaro in mano al
giovane allude alla prostituzione, in spregio al mito pagano. Il
Ganimede di Antonio Canova "Ganimede" (1804), di José Álvarez
Cubero Ganimede abbevera l'Aquila divina, di Thorvaldsen Albero
genealogicoModifica AtlantePleioneScamandroIdea Elettra ZeusTeucro
DardanoBatea Erittonio Ilo Troo Calliroe EuridiceIloAssarcoIeromneneGanimede
Laomedonte Strimo (o "Leukyppe")TemisteCapi
PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino EttoreParideCreusaEneaLavinia AscanioSilvio
Silvius Enea Silvio Bruto di TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys Capeto
Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio Aventino Proca NumitoreAmulio MarteRea
Silvia ErsiliaRomolo Remo Età regia di RomaShe-wolf suckles Romulus and
Remus. Zanotti Il gay, dove si raccnta come è stata inventata l'identità
omosessuale Fazi Secondo l'AMHER ("The American Heritage Dictionary of the
English Language, catamite, Apollodoro, Biblioteca su theoi.com. Omero, Iliade
XX, 213 e seguenti, su theoi Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, su theoi. Dionigi
di Alicarnasso, Antichità romane su penelope.uchicago.edu. Cicerone, Tusculanae
disputationes, Tzetzes a Licofrone Clemente Alessandrino, su theoi.com. Igino,
Fabulae Igino, Fabulae Iliade, Burkert; Burkert fa purtuttavia notare che non
esiste un nesso diretto con l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^ Guidorizzi, Il mito
greco Volume primo - Gli dèi Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi
Platone, Leggi, Platone, Fedro, Platone, Simposio, Ovidio, Metamorfosi,
Apuleio, L'asino d'oro, Virgilio, Eneide, Stazio, Tebaide, 1.549. ^
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Le Argonautiche. Apuleio, L'asino d'oro. Cicerone, De natura deorum. Diodoro
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Platone, Fedro. Platone, Leggi. Platone, Simposio. Pseudo-Apollodoro,
Biblioteca. Strabone, Geografia. Teognide, Frammenti. Virgilio, Eneide. AA.VV.,
Suda. Christian Wilhelm Allers, Giove rapisce Ganimede, Veckenstedt,
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Paris, Guidorizzi (a cura di), Il mito greco, 1 (Gli dèi), Particolare di Zeus
accanto a Ganimede, di Griepenkerl Voci correlateModifica Icona gay Mito di
Etana Omoerotismo Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella mitologia
The Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. (EN) Peter R.
Griffith, Visual arts: Gaymede. "Ganymed" (testo, in tedesco e
italiano). (EN) Circa 200 immagini di Ganimede nel Warburg Institute
Iconographic Database Internet Archive. Portale LGBT Portale
Mitologia greca Leda personaggio della
mitologia greca, figlia di Testio e moglie di Tindaro Estia dea greca del
focolare, della casa e della famiglia. Figlia di Crono e Rea Laomedonte
re di Troia nella mitologia greca, figlio di Ilo Wikipedia Il contenutoGrice:
“It’s best to represent Cornelio as representing Cartesio – yes, the Cartesio
that Ryle attacked! But Italy never had a Ryle, so that’s good!” Tommaso
Cornelio. Cornelio.
Keywords: Giove, Ganimede, e Prometeo, pro-gymnasmaton, gymnasmaton, gymnasta,
gymnasium, ginnasio, ginnasiale, nudo romano, nudita romana, corpo nudo,
snudare, atleta, atletismo, lotta ginnastica, competizione ginnastica,
implicatura ginnastica, l’implicatura ginnastica di Socrate, Socrate al
ginnasio, implicatura ginnasiale, the eagle, Giove come aquila, aquila come
impero romano, aquila come impero nazi – le due aquile -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cornelio” – The Swimming-Pool Library. Cornelio.
Grice e Cornello: la ragione conversazionale – scuola
di Sorento – filosofia sorrentina – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo
sorrentino. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Sorrento, Campania. Gabriele
Tasso and his wife, Caterina, are cousins.They come of the Bergamesque family
dei Tassi del Cornello. The family, originally from ALMENNO, can be traced with certainty to
anOMODEO who established himself in the Brembana valley known as’del Cornello.’
Nearby is Mount Tasso, which gets its name from the yews (tassi) which cover
the slopes. KEYWORD: DE’ TASSI DEL
CORNELLO (feudo) – dai Torreggiani di Milano – tasso: badger – skin carried by
horses. O CORNETTO
--A branch of YEW originally appeared in the upp half oof the family crest The
lower half is occupiedby the figure of a badger (tasso). La
sua opera più importante è la Gerusalemme liberate, in cui vengono cantati gli
scontri tra cristiani e musulmani durante la prima crociata, culminanti nella
presa cristiana di Gerusalemme. Ultimo dei tre figli di Bernardo TASSO,
letterato e cortigiano nato a Venezia, ma di antica nobiltà bergamasca, poi al
servizio del principe di Salerno Ferrante Sanseverino del regno di
Napoli, compreso nella monarchia spagnola, e di Porzia de' Rossi,
nobildonna napoletana di origini toscane, pistoiesi da parte paterna e pisane
da parte materna. Di Sorrento e della «dolce terra natìa» il poeta conserverà
sempre un magnifico ricordo, rimpiangendo «... le piagge di Campagna
amene, pompa maggior de la natura, e i colli che vagheggia il Tirren fertili e
molli.» (Gerusalemme liberata) Quando C. era ancora bambino, il principe
di Salerno fu bandito dal regno e Bernardo seguì il suo protettore. All'età di
6 anni si recò in Sicilia e dalla fine del 1550 fu con la famiglia a Napoli,
dove lo seguì il precettore privato Giovanni d'Angeluzzo. Frequentò per due
anni la scuola dei Gesuiti appena istituita e conobbe Ettore Thesorieri con il
quale poi restò in corrispondenza epistolare. Ebbe un'educazione
cattolica e da giovane frequentò spesso il monastero benedettino di Cava de'
Tirreni (dove si trovava la tomba di Urbano II, il papa che aveva indetto la
prima crociata), e ricevette il sacramento dell'Eucaristia quando «non avea
anco forse i nov'anni», come scrisse egli stesso. Due anni dopo la sorella
Cornelia, che nel frattempo si era sposata con il nobile sorrentino Marzio
Sersale, rischiò di essere rapita durante un'incursione ottomana a Sorrento, e
questo rimase impresso nella sua memoria. Guidobaldo II Della
Rovere. Rimase a Napoli fino ai dieci anni, poi seguì il padre a Roma,
abbandonando con grande dolore la madre che fu costretta a rimanere nella città
partenopea perché i suoi fratelli «rifiutavano di sborsarle la dote». Nella
città pontificia fu Bernardo a educare privatamente il figlio, ed entrambi
subirono un grave trauma quando vennero a sapere della morte di Porzia,
probabilmente avvelenata dai fratelli per motivi d'interesse. La
situazione politica a Roma subì però uno sviluppo che preoccupò Bernardo: era
scoppiato un dissidio tra Filippo II e Paolo IV e gli spagnoli sembravano sul
punto di attaccare l'Urbe. Mandò allora Torquato a Bergamo presso Palazzo Tasso
e la Villa dei Tasso da alcuni parenti e si rifugiò presso la corte urbinate di
Guidobaldo II Della Rovere, dove fu raggiunto dal figlio pochi mesi dopo.
A Urbino C. studiò assieme a Rovere, figlio di Guidobaldo, e a Monte, poi
illustre matematico. In questo periodo ebbe maestri di assoluto livello quali
il poligrafo Girolamo Muzio, il poeta locale Galli e il matematico Federico
Commandino. Torquato passava a Urbino solo l'estate, dal momento che la corte
trascorreva l'inverno a Pesaro, dove Tasso entrò in contatto con il poeta Bernardo
Cappello e con Dionigi Atanagi, e scrisse il primo componimento a noi noto: un
sonetto in lode della corte. Bernardo si sposta intanto a Venezia,
indiscussa capitale dell'editoria, per occuparsi della pubblicazione del suo
Amadigi. Poco tempo dopo, quindi, anche il figlio cambiò una volta di più
città, stabilendosi in laguna. Sembra che proprio a Venezia, non ancora
sedicenne, abbia cominciato a mettere mano al poema sulla prima crociata e al
Rinaldo. Il Libro I del Gierusalemme (conservato dal Codice vaticano-urbinate
413) fu scritto dietro consiglio di Giovanni Maria Verdizzotti e Danese
Cataneo, due poeti mediocri che allora frequentava e che già avevano scorto nel
Tasso un talento straordinario. Si iscrisse per volere paterno alla
facoltà di legge dello Studio patavino, raccomandato a Sperone Speroni, la cui
casa frequentò più delle aule universitarie, affascinato dalla vastissima
cultura dell'autore della Canace. Tasso non amava la giurisprudenza, tanto che
attendeva più alla produzione poetica che allo studio del diritto. Così, dopo
il primo anno ottenne dal padre il consenso per frequentare i corsi di
filosofia ed eloquenza con illustri professori tra cui spicca il nome di Carlo
Sigonio. Quest'ultimo rimarrà un modello costante per le dissertazioni teoriche
tassesche futureprime fra tutte quelle dei Discorsi dell'arte poetica, in cui
si nota anche l'influsso dello Speronie lo avvicinò allo studio della Poetica
aristotelica. È in quest'epoca che si colloca il primo innamoramento del
ragazzo, già molto sensibile e sognatore. Il padre era stato introdotto nella
corte del cardinale Luigi d'Este, e nel settembre 1561 si era recato col figlio
a fare la conoscenza dei familiari del suo protettore. Conobbe nell'occasione
Lucrezia Bendidio, dama di Eleonora d'Este, sorella di Luigi. Lucrezia,
quindicenne, era molto bella ed eccelleva nel canto, anche se era piuttosto
frivola. Avendo notato un interessamento della fanciulla, Tasso cominciò a
dedicarle rime petrarcheggianti, ma dovette presto essere ricondotto alla
realtà, poiché nel febbraio 1562 scoprì che la ragazza era promessa sposa al
conte Baldassarre Macchiavelli. Non si arrese, continuando a cantarla in
poesia, ma dopo le nozze si lasciò andare al risentimento e alla
delusione. Intanto, l'entourage cominciava ad avvedersi del talento
del Tassino (come veniva chiamato per essere distinto dal padre), e gli furono
commissionate delle rime per alcuni funerali. Confluendo in due raccolte,
furono le prime poesie pubblicate da Torquato. Ancora più notevoli erano
gli sforzi prodigati per il Rinaldo, composto in soli dieci mesi e dedicato a
Luigi d'Este. Il poema epico cavalleresco, incentrato sulle avventure del
cugino di Orlando, fu stampato a Venezia nel 1562 e contribuì a diffondere il
nome di Tasso, che aveva ancora soltanto diciotto anni. Il padre intanto
lo aveva messo nel 1561 al servizio del nobile Annibale Di Capua, e il duca
d'Urbino gli aveva procurato una borsa di studio di cinquanta scudi annui per
permettergli di continuare i corsi universitari. Dopo due anni a Padova, Tasso
proseguì gli studi all'Bologna, ma durante il secondo anno di permanenza nella
città felsinea, nel gennaio 1564, fu accusato di essere l'autore di un testo
che attaccava pesantemente, con una satira sferzante, alcuni studenti e
professori dello Studio. Espulso e privato della borsa di studio, fu costretto
a ritornare a Padova, dove poté beneficiare dell'ospitalità di Scipione
Gonzaga, che gli fornì il necessario per continuare il percorso di
formazione. Ritrovò tra i maestri Francesco Piccolomini e seguì le
lezioni di Federico Pendasio. In casa del principe Gonzaga era appena stata
istituita l'Accademia degli Eterei, ritrovo di seguaci dello Speroni che
miravano alla perfezione della forma, non senza scadere nell'artificiosità.
Tasso vi entrò assumendo il nome di Pentito e leggendovi molti componimenti,
tra cui quelli scritti per Lucrezia Bendidio e per una donna che la critica ha
per lungo tempo identificato in Laura Peperara. Secondo questa
versione Torquato conobbe Laura nell'estate del 1563, quando aveva raggiunto a
Mantova Bernardo, nel frattempo messosi al servizio del duca Guglielmo Gonzaga.
La delicatezza nei modi della giovane fece dimenticare presto al Nostro le
ancor fresche pene amorose per Lucrezia Bendidio. Lo spirito del Petrarca
rivisse allora nelle liriche del ragazzo nuovamente innamorato. L'anno dopo,
rivedendola, fu però deluso, e pur continuando a cantarla dovette ben presto
rassegnarsi al secondo scacco. Ricerche recenti hanno tuttavia collocato la
nascita della Peperara nel 1563, rendendo quindi impossibile che fosse lei la
seconda musa del Tasso. I due canzonieri amorosi andarono in parte a
finire tra le Rime degli Accademici Eterei, stampate a Padova nel 1567, assieme
ad alcune che scriverà nel primo anno ferrarese. Si legò anche
all'Accademia degli Infiammati. A Ferrara Torquato Tasso all'eta di
22 anni ritratto da Jacopo Bassano. Giunse a Ferrara in occasione del secondo
matrimonio (quello con Barbara d'Austria) del duca Alfonso II d'Este, al servizio
del cardinale Luigi d'Este, fratello del duca, spesato di vitto e alloggio,
mentre dal 1572 sarà al servizio del duca stesso. I primi dieci anni
ferraresi furono il periodo più felice della vita di Tasso, in cui il poeta
visse apprezzato dalle dame e dai gentiluomini per le sue doti poetiche e per
l'eleganza mondana. Il cardinale lasciò al Nostro la possibilità di
attendere solamente all'attività poetica, e Tasso poté così continuare il poema
maggiore. Rapporti particolarmente intensi intercorsero con le due sorelle del
duca, Lucrezia e Leonora. La prima era uno spirito libero e incarnava ideali di
vivacità e vitalità, mentre la seconda, malata e fragile, fuggiva la vita
mondana e conduceva un'esistenza ritirata. Per quanto Tasso fosse attratto da
entrambe e per quanto si sia avallata l'ipotesi di una relazione amorosa con
Leonora, la critica tassesca ha concluso che non si andò al di là di forti
simpatie. La ricchezza culturale della corte estense costituì per lui un
importante stimolo; ebbe infatti modo di conoscere Battista Guarini, Giovan
Battista Pigna e altri intellettuali dell'epoca. In questo periodo riprese il
poema sulla prima crociata, dandogli il nome di Gottifredo. Nel 1566 i canti
erano già sei, e aumenteranno negli anni appresso. Nel 1568 diede alle
stampe le Considerazioni sopra tre canzoni diPigna, dove emerge la concezione
platonica e stilnovistica che il Tasso aveva dell'amore, con alcune note però
affatto peculiari, che lo portavano a ravvisare il divino in tutto ciò che è bello,
e a definire di matrice soprannaturale anche l'amore puramente fisico. I
concetti vennero ribaditi nelle cinquanta Conclusioni amorose pubblicate due
anni più tardi. Compose anche i quattro Discorsi dell'arte poetica e in
particolare sopra il poema eroico, anche se videro la luce solo nel 1587 a
Venezia, per i tipi di Licino. Nell'ottobre 1570 partì per la Francia al
seguito del cardinale e, temendo gli potesse accadere qualche disgrazia nel
lungo e pericoloso viaggio, volle dettare le proprie volontà all'amico Ercole
Rondinelli, richiedendo la pubblicazione dei sonetti amorosi e dei madrigali,
mentre precisava che «gli altri, o amorosi o in altra materia, c'ho fatti per
servizio di alcun amico, desidero che restino sepolti con esso meco», ad
eccezione di Or che l'aura mia dolce altrove spira. Per il Gottifredo
afferma di voler far conoscere «i sei ultimi canti, e de' due primi quelle
stanze che saranno giudicate men ree», il che prova che il numero dei canti era
salito almeno a otto. Intanto, sempre nel 1570, Lucrezia d'Este sposò
Francesco Maria II Della Rovere, compagno di studi di Torquato nel periodo
urbinate. Il soggiorno transalpino fu di sei mesi, ma, siccome Luigi
aveva messo a disposizione del poeta poco denaro, questi trascorse il periodo
francese sostanzialmente nell'ombra, con il solo onore di essere ricevuto da
Caterina de' Medici, la moglie di Enrico II. Di ritorno a Ferrara, il 12 aprile
1571 decise di lasciare il seguito del cardinale. Credeva incorrere in
miglior fortuna presso Ippolito II, e scese pertanto a Roma. Anche il cardinale
di villa d'Este però lo deluse, e Tasso decise di risalire la penisola,
facendosi ospitare qualche tempo da Lucrezia e Francesco a Urbino, prima di
entrare al servizio di Alfonso II. In questo periodo continuò ad
attendere al capolavoro, ma si diede anche al teatro, e scrisse l'Aminta,
celebre favola pastorale che rientrava nei gusti delle corti cinquecentesche.
Rappresentata con ogni probabilità all'isola di Belvedere, dov'era una delle
«delizie» estensi, ebbe un grande successo e fu richiesta anche da Lucrezia
d'Este a Urbino l'anno successivo. Nell'euforia del successo, scrive una
tragedia, Galealto re di Norvegia, ma la abbandona all'inizio del secondo atto, salvo rimettervi
mano molto più tardi trasformandola nel Re Torrismondo. Il capolavoro e
la revisione L'impegno principale rimaneva comunque il poema epico, per il
quale l'autore non aveva ancora stabilito un titolo. Nel novembre '74 l'opera
era quasi completa, visto che «io aveva comincio quest'agosto l'ultimo canto»,
ma si deve aspettare per avere l'annuncio del completamento del testo, quando
in una lettera al cardinale Giovan Girolamo Albano leggiamo: «Sappia dunque
Vostra Signoria illustrissima, che dopo una fastidiosa quartana sono ora
per la Dio grazia assai sano, e dopo lunghe vigilie ho condotto finalmente al
fine il poema di Goffredo». Completato quindi il poema maggiore, si apre
il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non
gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio
di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge
l'inquietudine del poeta: «Qui va pur intorno questo benedetto romore de la
proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero.
Scipione Gonzaga Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli
personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la
moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma
principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose. I
cinque erano il maestro ed erudito Speroni, il principe e cardinale Gonzaga, il
cardinale Antoniano, il poeta Bargeo e il grecista Nobili. Cndivise in
parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di
stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive
quasi quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e
continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire
principi di poetica né tanto meno di fede. Ossessivo nell'apportare
modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al
punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questao condotto
finalmente al fine il poema di Goffredo. Completato quindi il poema maggiore,
si aprì per Tasso il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a
termine un lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità
estrema (il concilio di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una
lettera emerge l'inquietudine del poeta. Qui va pur intorno questo benedetto
romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna
di vero. Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi
romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la
moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma
principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose. I
cinque erano il maestro ed erudito Sperone Speroni, il principe e cardinale
Scipione Gonzaga, il cardinale Silvio Antoniano, il poeta Pier Angelio Bargeo e
il grecista Flaminio de' Nobili. Torquato condivise in parte i consigli
degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico,
ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che
mettono in luce un autore intimamente travagliato e continuamente bisognoso di
dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di
poetica né tanto meno di fede. Ossessivo nell'apportare modifiche al
testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al punto che
nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questa particolare
istoria di Goffredo si conveniva altra trattazione; e forse anco io non ho
avuto tutto quel riguardo che si doveva al rigor de' tempi presenti. E le giuro
che se le condizioni del mio stato non m'astringessero a questo, ch'io non
farei stampare il mio poema né così tosto, né per alcun anno, né forse in vita
mia; tanto dubito de la sua riuscita».[26] Nemmeno l'entusiastica ammirazione
di Lucrezia d'Este cui leggeva il poema ogni giorno «molte ore in
secretis»[27], né l'essere venuto a conoscenza del grande piacere con cui da
più parti l'opera veniva letta, poterono placare le sue angosce. Scrive
“Allegoria”, con cui rivisitava tutto il poema in chiave allegorica cercando di
emanciparsi dalle possibili accuse di immoralità. Ma non bastava: gli scrupoli
di carattere religioso assunsero la forma di vere e proprie manie di persecuzione.
Per mettere alla prova la propria ortodossia nella fede cristiana si sottopose
spontaneamente al giudizio dell'Inquisizione di Ferrara, ricevendo due sentenze
di assoluzione.[29] Barbara Sanseverino Disagi presso la corte
estense e fughe Due belle signore, giunte alla corte nel 1575 e protrattesi
presso il duca fino all'anno dopo, costituirono un intermezzo piacevoleforse
l'ultimoin mezzo a tante preoccupazioni. Per loro, la contessa di Sala Barbara
Sanseverino e la contessa di Scandiano Leonora Sanvitale, cantò gioiosamente in
alcune rime amorose, che, com'era accaduto per Lucrezia e Leonora d'Este,
obbediscono alle conventions de genre e non rivelano altro che una sincera
amicizia. Ma il Tasso si era stancato anche di Alfonso, e sognava diandare a
Firenze, presso la corte medicea. Non è chiaro perché volesse abbandonare
Ferrara, ma i motivi adducibili sono vari e variamente intriganti, e tutti
hanno in loro almeno una parte di verità. «Ch'io desideri sommamente di mutar
paese, e ch'io abbia intenzione di farlo, assai per se stesso può essere
manifesto, a chi considera le condizioni del mio stato», scrive a
Gonzaga. Le «condizioni del mio stato» possono avere una valenza
materiale: Tasso riceveva dal duca solo cinquantotto lire marchesane mensili,
che sommate alle centocinquanta percepite in qualità di lettore all'Università
(carica che ricopriva per i soli giorni festivi) danno una cifra sicuramente
bassa che a un poeta ormai affermato doveva parere stretta, anche solo per una
questione di dignità, senza voler pensare a motivazioni di pretta bramosia
L'espressione tassesca può assumere però anche una connotazione morale e
psicologica: si erano in effetti verificati alcuni episodi spiacevoli presso la
corte estense. Ha una lite con il cortigiano Ercole Fucci. Provocato, aveva
rifilato uno schiaffo al Fucci, che in risposta lo colpì più volte con un
bastone. Un servo aveva inoltre rivelato al Tasso che, durante una sua
assenza, un altro cortigiano, Ascanio Giraldini, aveva fatto forzare la porta
della sua camera, nel tentativo di appropriarsi di alcuni manoscritti. Tasso
sarebbe anche riuscito a rintracciare il magnano ottenendone una confessione,
come risulta da un'altra lettera al Gonzaga, in cui si ipotizzano altre trame
ordite alle sue spalle, anche se «io non me ne posso accertare».[33] A
far precipitare il rapporto con il duca e la corte furono però gli scrupoli
religiosi del poeta. Si autoaccusò presso l'Inquisizione ferrarese (dopo
l'autoaccusa presso il tribunale bolognese avvenuta due anni prima), attaccando
inoltre influenti personaggi di corte. Si cercò allora di far desistere il
poeta dall'intenzione di confermare le sue affermazioni negli interrogatori
successivi, senza risparmiargli punizioni corporali che non riuscirono afar
cambiare idea al Tasso, che si presentò altre due volte davanti
all'inquisitore.[35] Le accuseerano rivolte in particolare contro
Montecatini, il segretario ducale. Siccome Torquato voleva recarsi a deporre
presso il Tribunale capitolino, l'inquisitore ferrarese, conscio del fatto che
una simile azione poteva mettere a repentaglio i rapporti con la Santa
Sede,vitali per casa d'Esteinformò immediatamente il duca con una missiva del 7
giugno. Alfonso mise il poeta sotto sorveglianza, e C., ritenendosi spiato da
un servo, gli scagliò contro un coltello. Il Castello Estense Tasso
rimase nella prigione del Castello fino all'11 luglio, quando Alfonso lo fece
liberare e lo accolse presso la villeggiatura di Belriguardo, dove però rimase
pochi giorni, venendo rimandato a Ferrara per essere consegnato ai frati del
convento di S. Francesco.[37] Il poeta supplicò allora i cardinali
dell'Inquisizione romana affinché lo sollevassero da una situazione ormai
insopportabile trovandogli una sistemazione nell'Urbe, e nel contempo si
lamentava con Scipione Gonzaga per il trattamento ricevuto, ma pochi giorni
dopo si ritrovò nuovamente nella prigione del Castello. Tentò quindi un'altra
via e chiese invano perdono al suo signore. E indubbiamente provato dalle
fatiche della Gerusalemme, e le lettere del periodo rivelano un animo inquieto
e agitato, spesso preoccupato di smentire chi voleva vedere in lui i germi
della pazzia. Le manie di persecuzione e l'instabilità si erano impadronite di
lui, ma fino a qual punto? Fino a qual punto invece certe manifestazioni del
poeta, che mantiene nelle missive una lucidità pressoché completa, funsero da
pretesto per emarginare un personaggio divenuto pericoloso? Su questo punto i
critici non sono mai riusciti a trovare un accordo. Intanto la prigionia
el Castello si prolungava, e non restava che la fuga: nella notte si travestì
da contadino e fuggì nei campi. Raggiunta Bologna, proseguì fino a Sorrento,
dove, ancora sotto mentite spoglie e fisicamente distrutto, si recò dalla
sorella, annunciandole la propria morte, così da vedere la sua reazione, e
svelandole la sua vera identità solo dopo aver osservato la reazione realmente
addolorata della donna. A Sorrento rimase parecchi mesi ma, volendo
riprendere parte alla vita di corte, fece inviare da Cornelia una supplica al
duca, in data 4 dicembre 1577, chiedendo di essere riammesso alle sue
dipendenze, in un testo che fu certamente dettato, almeno in parte, dal poeta
stesso: «La maggior colpa che io credo sia in lui, è la poca sicurezza, che ha
mostrata d'avere nella parola di V.A., e il molto diffidarsi della sua
benignità».[40] Così, nell'aprile 1578 ritornò a Ferrara, ma, tempo tre
mesi, era di nuovo in fuga; Mantova, Padova, Venezia. Presa la via di Pesaro,
da Cattolica mandò ad Alfonso una missiva in cui cerca di spiegare i motivi
dell'abbandono, che restano, anche nella testimonianza diretta del Tasso,
criptici: «ora me ne dono partito. per non consentire a quello, a che non dee
consentire uomo, che faccia alcuna professione d'onore, o ch'abbia nell'animo
alcuno spirito di nobiltà. Paura, instabilità? Quello che è certo è che
nello stesso mese le parole di Maffio Venierche lo aveva incontrato a
Veneziasembrano far perdere credibilità alle ipotesi di follia: «sebbene si può
dire che egli non sia di sano intelletto, scuopre tuttavia più tosto segni di
afflizione che pazzia». Anche gli scambi epistolari intrattenuti con Francesco
Maria Della Rovere paiono rivelare una personalità afflitta e agitata più che
folle. Il Leitmotiv, adesso più che mai, è il dolore. Il dolore si fa allora
poiesis, creazione. È proprio questo il periodo in cui vengono composti i versi
dell'incompiuta canzone Al Metauro, tra i più citati e famosi dell'opera
tassesca. Qui, in una rievocazione della propria vita sub specie doloris[44],
affiorano i ricordi delle proprie sofferenze e della morte dei genitori. Il
poeta è un esiliato, concretamente e metaforicamente, sin da quando bambino
dovette lasciare il luogo natìo: «In aspro esiglio e 'n dura povertà
crebbi in quei sì mesti errori; intempestivo senso ebbi a gli affanni: ch'anzi
stagion, matura l'acerbità de' casi e de' dolori in me rendé l'acerbità degli
anni» Intanto continuava a vagare. Percorse a piedi il tratto che separa
Urbino da Torino, ma non sarebbe riuscito a entrare nella cittàera stato
respinto dai doganieri perché in stato pietosose Angelo Ingegneri, amico di
Torquato da alcuni anni, non lo avesse riconosciuto e aiutato a entrare. A
Torino ricevette l'ospitalità del marchese Filippo d'Este, genero del duca di
Savoia, e godette di una certa tranquillità che gli permise di comporre poesie
e iniziare tre dialoghi, la Nobiltà, la Dignità e la Precedenza. In seguito a
nuovi pentimenti e nuove nostalgie della corte ferrarese, il poeta si adoperò
ancora una volta per il rientro nella città ducale, facendo leva sulle
intercessioni del cardinale Albano e di Maurizio Cataneo, e infine riguadagnò
la capitale estense, proprio mentre fervevano i preparativi per le terze nozze
di Alfonso, quelle con Margherita Gonzaga, figlia del duca di Mantova
Guglielmo. Fu ospitato da Luigi d'Este, ma nessuno badava a lui: «Ora le
fo sapere, che io qui ho trovato quelle difficoltà che m'imaginava, non
superate né dal favore di monsignor illustrissimo, né da alcuna sorte d'umanità
ch'io abbia saputo usare», scrisse a Maurizio Cataneo. In una missiva al
cardinale Albano, recante la data, Tasso chiede almeno gli si faccia riottenere
lo stipendio precedente.[47] A questo punto i fatti precipitano: «Iersera
l'altra si mandò il povero Tasso a Sant'Anna, per le insolenti pazzie ch'avea
fatte intorno alle donne del Signor Cornelio, e che era poi venuto a fare con
le Dame di Sua Altezza, quali, per quanto m'è stato rifferto, furono così
brutte e disoneste, che indussero il Signor Duca a quella risoluzione».[48] Non
è chiaro quando accadesse esattamente il fatto, si oscilla tma è certo che in
quest'ultima data il poeta fosse già stato recluso nella prigione di
Sant'Anna.[ Pare sicuro anche che le parole offensive pronunciate in preda
all'ira si siano indirizzate poi in modo esplicito allo stesso duca, ed è
probabile che si trattasse di gravi accuse (forse legate ancora una volta alla
vicenda dell'Inquisizione) che, fatte in pubblico, chiedevano una risoluzione
drastica. Il duca Alfonso II rinchiuse quindi Tasso nell'Ospedale
Sant'Anna, nella celebre cella detta poi "del Tasso", dove rimase per
sette anni. Qui, alle manie di persecuzione, si aggiunsero tendenze
autopunitive. Delacroix: Tasso all'ospedale di Sant'Anna
Nell'Ospedale veniva trattato alla stregua dei «forsennati», ricevendo poche
razioni di cibo scadente, privato di ogni comodità materiale e di ogni conforto
spirituale, visto che il cappellano, «se ben io ne l'ho pregato, non ha voluto
mai o confessarmi o comunicarmi».[50] È vero che dopo nove mesi ci fu un
miglioramento del vitto, ma dovette trattarsi di ben poca cosa, e i primi tre
anni coincisero con una sorta di isolamento. Scrisse comunque
ininterrottamente a principi, prelati, signori e intellettuali pregandoli di
liberarlo e difendere la propria persona. Le suppliche erano rivolte al solito
Gonzaga, alla mai dimenticata Lucrezia d'Este, a Francesco Panigarola (che
sarebbe divenuto vescovo di Asti), a Ercole Tasso e molti altri. I primi anni
di reclusione non impedirono a Torquato di scrivere; anzi, le tre canzoni del
periodo rivelano una poesia essenziale, magistrale nella gestione delle
armonie, simbolo di un'ormai indiscussa maturità e dimostrazione, una volta di
più, di come le facoltà mentali del poeta fossero ancora intatte. Ecco quindi A
Lucrezia e Leonora, con la celebre invocazione alle «figlie di Renata», in una
nostalgico ricordo dei tempi sereni trascorsi a corte, messo in contrasto con
la durezza del tempo presente, ecco Ad Alfonso, nuova supplica al duca che,
rimasta inascoltata, diventò un inno Alla Pietà nell'omonima canzone. Le
condizioni mutarono con gli anni: gli fu permesso di uscire qualche volta e di
ricevere visite, il vitto migliorò ulteriormente, mentre poté lasciare
Sant'Anna più volte alla settimana, «accompagnato da gentiluomini e qualche
volta fu condotto anche a corte».[52] Tuttavia il trattamento rimaneva molto
duro e, a distanza di secoli, pare spropositato se il motivo dovesse ridursi
alla pazzia o a delle offese personali. Certo, il Tasso soffriva di turbe
psichiche. A questo proposito è illuminante la lettera di aiuto che indirizzò
il 28 giugno 1583 al celebre medico forlivese Girolamo Mercuriale. Qui
troviamo un elenco e una descrizione dei mali che affliggono il poeta:
«rodimento d'intestino, con un poco di flusso di sangue; tintinni ne gli
orecchi e ne la testa, imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli:
la qual mi perturba in modo ch'io non posso applicar la mente a gli studi per
un sestodecimo d'ora», fino alla sensazione che gli oggetti inanimati si
mettano a parlare. È da notare tuttavia come tutte queste sofferenze non
l'abbiano reso «inetto al comporre. Si può poi ammettere che «il Tasso non fu
semplicemente un melanconico, ma di tratto in tratto veniva sorpreso da eccessi
di mania, da riescire pericoloso a sé ed agli altri»[54], ma, anche se questi
squilibri dovessero essersi manifestati realmente, essi non giustificano né la
tesi della pazzia né la necessità di allontanare il Tasso dalla corte per un
periodo così lungo. Con buone probabilità, quindi, la ragione principale deve
essere riallacciata ancora una volta ai tentativi tasseschi di ricorrere
all'Inquisizione romana, e l'imprigionamento era il solo modo per non
compromettere il rapporto con lo Stato Pontificio. Dopo l'edizione veneziana
"pirata" e mutila di Celio Malespini, sempre durante la prigionia,
vennero pubblicatenel tentativo di porre rimedio alla sciagurata operazionea
Parma e Casalmaggiore, ancora senza il suo consenso, due edizioni del poema
iniziato all'età di quindici anni. Il titolo di Gerusalemme liberata fu scelto
dal curatore di queste ultime versioni, Angelo Ingegneri, senza l'avallo
dell'autore. L'opera ebbe un grande successo. Siccome anche le stampe
dell'Ingegneri presentavano delle imperfezioni e la Gerusalemme era ormai di
dominio pubblico, bisognava approntare la versione migliore possibile, ma per
far questo era necessaria l'autorizzazione e la collaborazione del Tasso. Così,
seppur riluttante, il poeta diede il proprio consenso a Febo Bonnà, che diede
alla luce la Gerusalemme liberata il 24 giugno 1581 a Ferrara, restituendola in
modo ancora più preciso pochi mesi dopo. Queste traversie editoriali
addolorarono il Tasso, che avrebbe voluto mettere mano al poema in modo da
renderlo conforme alla propria volontà. All'amarezza per le pubblicazioni seguì
ben presto quella che gli fu causata dallapolemica con la neonata Accademia
della Crusca. La diatriba non fu scatenata, per la verità, né dal poeta né
dall'Accademia. La sua origine va ricercata nel dialogo Il Carrafa, o vero
della epica poesia, che il poeta capuano Camillo Pellegrino stampò presso
l'editore fiorentino Sermartelli. Nel dialogo Torquato viene esaltato assieme
alla sua opera, in quanto fautore di una poesia etica e fedele ai dettami
aristotelici, mentre l'Ariosto viene duramente condannato a causa della
leggerezza, delle fantasiose invenzioni e dell'eccessiva dispersione che si
possono riscontrare nell'Orlando Furioso. Il testo provocò la reazione
dell'Accademia, che rispose nel febbraio dell'anno seguente con la Difesa
dell'Orlando Furioso degli Accademici della Crusca, stroncando il Tasso ed
esaltando invece «il palagio perfettissimo di modello, magnificentissimo,
ricchissimo, e ornatissimo» che era il Furioso. La Difesa fu fondamentalmente
opera di Leonardo Salviati e di Bastiano de' Rossi. Tasso decise di scendere in
campo con l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata, edita a Ferrara dal
Licino il 20 luglio. Rivendicando la necessità di un'invenzione che si fondi
sulla storia, il poeta si opponeva alle opinioni dei paladini del volgare
fiorentino, e respingeva le accuse di un lessico intriso di barbarismi e poco
chiaro. La polemica continuò, visto che il Salviati replicò in settembre con la
Risposta all'Apologia di Torquato Tasso (testo noto anche come Infarinato
primo), cui seguirono un nuovo opuscolo di Pellegrino e un Discorso del Nostro,
dopo di chese si esclude un ulteriore scritto del Salviati, l'Infarinato
secondo per qualche tempo le acque si calmarono, ma la querelle tra ariosteschi
e tasseschi proseguì fino al secolo successivo, e fu una delle più infiammate
della storia della letteratura italiana. Durante la reclusione Tasso
scrisse principalmente discorsi e dialoghi. Fra i primi quello Della gelosia,
Dell'amor vicendevole tra 'l padre e 'l figliuolo, Della virtù eroica e della
carità, Della virtù femminile e donnesca, “Dell'arte del dialogo”; “Il
Secretario” cui si deve aggiungere il Discorso intorno alla sedizione nata nel
regno di Francia e il Trattato della Dignità, già iniziato a Torino, come si è
visto. Queste opere sviluppano tematiche morali, psicologiche o strettamente
religiose. La virtù cristiana è proclamata come superiore alla pur nobile virtù
eroica, si afferma la comune origine di amore e gelosia, si valutano i talenti
specifici della donna, il tutto arricchito dal racconto di esperienze personali
che giustificano l'opinione dell'autore. Vengono affrontate anche questioni
politiche, in special modo nel Secretario, diviso in due parti, la prima
dedicata a Cesare d'Este, la seconda ad Antonio Costantini. Qui, nella
descrizione del principe ideale, si enucleano alcune caratteristiche come la
clemenza (chiaro il riferimento alla propria condizione), l'esser filosofo, e
soprattutto «un gentiluomo a la cui fede ed al cui sapere si possono confidare
gli Stati e la vita e l'onor del principe». Più copiosa ancora fu la
composizione di dialoghi, scritti sotto il nume ideale di Platone, ma
paragonabili più obiettivamente a quelli del sedicesimo secolo. Quasi ogni
tematica morale viene sviscerata in una serie davvero lunga di opere più o meno
prolisse e più o meno felici. Tasso scrisse, nell'ordine, Il Forno, o
vero de la Nobiltà, il Gonzaga, o vero del Piacer onesto, in seguito rivisto e
stampato con il titolo Il Nifo, o vero del piacere; Il Messaggero. Qui immaginò
di interagire amichevolmente con il folletto da cui si credeva perseguitato
nella realtà. Questo dialogo ispirò la celebre operetta morale leopardiana
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), con una seconda lezione.
Il padre di famiglia (ispirato a un gentiluomo che lo ospitò a Borgo Sesia
prima dell'arrivo a Torino); Il cavalier amante e la gentildonna amata (con
dedica a Giulio Mosti, giovane ammiratore del poeta); Romeo o vero del giuoco,
rivisto e dato alle stampe con titolo Il Gonzaga secondo, o vero del
giuoco; La Molza, o vero de l'Amore (prende spunto dalla conoscenza che il
Tasso fece della celebre poetessa Tarquinia Molza a Modena, dedicato a Marfisa
d'Este); Il Malpiglio, o vero della corte (con riferimento al gentiluomo
ferrarese Lorenzo Malpiglio); Il Malpiglio secondo o vero del fuggir la
moltitudine; Il Beltramo, overo de la Cortesia; Il Rangone, o vero de la Pace
(in risposta a uno scritto di Fabio Albergati); Il Ghirlinzone, o vero
l'Epitafio. Il Forestiero napolitano, o vero de la Gelosia; Il Cataneo, o vero
de gli Idoli, e, infine, La Cavalletta, o vero de la poesia toscana. In tutto
questo non aveva dimenticato l'opera principe, dimostrando di avere al riguardo
idee piuttosto lontane da quella che sarà la realizzazione finale. A Lorenzo
Malpiglio espose intenzioni sostanzialmente opposte agli interventi che avrebbe
apportato negli anni successivi: parla di portare la Liberata da venti a
ventiquattro canti (secondo l'idea originaria) e di accrescere il numero delle
stanze, tagliando anche dei passaggi ma con il risultato che «la diminuzione
sarà molto minor de l'accrescimento. Qualche segnale, magari anche dettato da
semplice interesse, lasciava intravedere un astio meno severo nei confronti del
Nostro. Prima della reclusione a
Comacchio era stata rappresentata una commedia tassesca alla presenza della
corte. Ora Virginia de' Medici voleva che il testo fosse perfezionato e
completato per essere interpretato durante i festeggiamenti del suo matrimonio
con Cesare d'Este. Tasso si mise al lavoro ed esaudì la richiesta. L'opera
fu poi pubblicata e ricevette il titolo “Gli intrichi d'amor” edal Perini, uno
degli attori dell'Accademia di Caprarola, che aveva messo in scena la commedia.
L'opera, ricolma di intrecci amorosi e di agnizioni secondo il costume
dell'epoca, è sofisticata e inverosimile, ma non mancano pagine vivaci ed
episodi ispirati all'Aminta. Vi si possono inoltre vedere alcuni elementi che
confluiranno nella commedia dell'arte: il personaggio del Napoletano, parlando
in dialetto e «profondendosi in spiritosaggini sbardellate», richiama alla
mente la futura maschera di Pulcinella. La critica è stata piuttosto concorde
nel ritenerla infelice, tutta una goffaggine pedantesca e superficiale, nel giudizio
di Francesco D'Ovidio. F. Pourbus: Vincenzo Gonzaga Dopo la prigionia: le
delusioni, le sofferenze, le peregrinazioni. Finì la prigionia. Venne affidato
a Vincenzo Gonzaga, che lo volle alla sua corte di Mantova. Nelle intenzioni di
Alfonso, Tasso doveva restare presso il figlio di Guglielmo Gonzaga solo per un
breve periodo, ma di fatto il poeta non tornò più a Ferrara, e restò presso
Vincenzo, in un ambiente in cui conobbe Ascanio de' Mori da Ceno, diventandone
amico. A Mantova ritrova qualche barlume di tranquillità; riprese in mano
il Galealto re di Norvegia, la tragedia che aveva lasciato interrotta alla
seconda scena del secondo attoe che aveva frattanto avuto un'edizione nel 1582
-, e la trasformò nel Re Torrismondo, conglobando nei primi due atti quanto
aveva precedentemente scritto ma cambiando i nomi, e procedendo alla stesura
dei tre atti successivi in modo da arrivare ai cinque canonici. Quando
nell'agosto si recò a Bergamo, ritrovando amici e parenti, si mise subito in
azione per dare alle stampe la tragedia, e l'opera uscì, a cura del Licino e
per i tipi del Comin Ventura, con dedica a Vincenzo Gonzaga, nuovo duca di
Mantova. Si trattava comunque di una "libertà vigilata", e i fatti lo
dimostrano chiaramente. Dopo essere tornato a Mantova, deluso e preoccupato
di una possibile venuta di Alfonso, Tasso andò a Bologna e a Roma senza
chiedere al Gonzaga l'autorizzazione e questi, sotto la pressione del duca di
Ferrara, tentò in ogni modo di farlo tornare indietro. Antonio Costantini,
sedicente amico del poeta che metteva al primo posto l'ambizione e l'obiettivo
di essere tenuto in onore presso la corte mantovana, e Scipione Gonzaga si
mobilitarono, ma Torquato capì la situazione e rifiutò di ritornare, rendendo
impossibile qualsiasi mossa, dal momento che un intervento che lo riportasse
nel ducato mantovano con la forza non sarebbe mai stato tollerato dal
Pontefice. Il fatto che nessuno impedisse il viaggio a Bergamo mentre ci fosse
una mobilitazione generale per allontanare il poeta dall'Urbe rimane comunque
un segnale che pare ulteriormente ridimensionare il peso della presunta follia
di Torquato nelle preoccupazioni dei duchi del settentrione. Il santuario
di Loreto in un'incisione di Francisco de Hollanda (prima meta del sec. XVI)
Nel corso del tragitto Tasso passò da Loreto, raccogliendosi in preghiera nel
santuario e concependo quella canzone «a la gloriosa Vergine» che può forse
richiamare il Petrarca della Canzone alla Vergine in qualche scelta lessicale,
ma, in mezzo alla lode e alla supplica, è tanto più intessuta di travaglio e
sofferenza: «Vedi, che fra' peccati egro rimango, qual destrier, che si
volve nell'alta polve, e nel tenace fango.» Torquato fu a Roma.
L'irrequietudine era di nuovo alle stelle: le lettere registrano le sue
richieste di denaro e le lamentele per la propria condizione di salute. Il
poeta è ormai disilluso, e fa meno affidamento sulla possibilità che gli altri
lo aiutino. Come scrisse alla sorella in una lettera del 14 novembre, gli
uomini «non hanno voluto sanarmi, ma ammaliarmi. Tuttavia, il Nostro è in preda
al bisogno materiale e continua ad autoumiliarsi, scrivendo versi encomiastici
per Scipione Gonzaga, divenuto cardinale, senza ottenere alcunché. Anche la
speranza di essere ricevuto dal papa Sisto V viene delusa, nonostante le lodi
che Tasso rivolge al pontefice in varie poesie, confluite assieme ad altre del
periodo in un volumetto stampato a Venezia. Vista l'inutilità del soggiorno
romano, il peregrinante poeta pensò trovare maggior fortuna nell'amata Napoli.
Così, ritorna nella città vesuviana fortemente intenzionato a risolvere a
proprio favore le cause contro i parenti per il recupero della dote paterna e
di quella materna. Benché potesse contare su amici e congiunti, e sulle
conoscenze altolocate partenopee, tra cui i Carafa (o Carrafa) di Nocera, i
Gesualdo, i Caracciolo di Avellino, i Manso, preferì accettare l'ospitalità di
un convento di frati olivetani. Qui conobbe l'amico più caro degli ultimi anni:
Giovan Battista Manso, signore di Bisaccia e primo entusiasta biografo
dell'autore dopo la sua morte. Il clima amichevole in cui fu accolto, la
stima di amici e letterati, e il conforto di una «bellissima città, la quale è
quasi una medicina al mio dolore, riuscirono a risollevare per un breve periodol'infelice
animo tassiano. Per ringraziare i monaci scrisse il poemetto, rimasto
incompiuto, Monte Oliveto, in riferimento al convento in cui sorgeva il
complesso monastico che attualmente ospita la caserma dei carabinieri (resta
visitabile la chiesa Sant'Anna dei Lombardi). L'operaun resoconto encomiastico
delle principali tappe esistenziali e delle principali virtù di Bernardo
Tolomei, il fondatore della Congregazioneè fortemente intessuta di spirito
cristiano, in un severo richiamo ad una vita sobria, lontana dalle vanità del
mondo. Dedicata al cardinale Antonio Carafa, si interrompe alla centoduesima
ottava. Al pari del Re Torrismondo e di molta parte dell'ultima produzione
tassesca, il Monte Oliveto non ha goduto dei favori della critica. Guido
Mazzoni vi vide più una predica che un poema, mentre Eugenio Donadoni utilizzò
quasi le medesime parole che gli erano servite per stroncare il Torrismondo (v.
Re Torrismondo): questa è «l'opera non più di un poeta, ma di un letterato, che
cerca di dare forma e tono epico a una convenzionale vita di santo».[78] Come
per la tragedia nordica, la rivalutazione è arrivata con l'analisi di Luigi
Tonelli e di alcuni studiosi più recenti. In ogni caso, anche questo
periodo napoletano si rivelò problematico per Tasso, a causa delle precarie
condizioni di salute e delle ristrettezze economiche, a cui si aggiunsero anche
nuove polemiche letterarie e religiose sulla Gerusalemme liberata. Spostatosi a
Bisaccia, Tasso poté vivere un periodo di maggiore tranquillità. Manso ricorda
un episodio curioso: mentre sedeva con l'amico davanti al fuoco, questi disse
di vedere uno «Spirito, col quale entrò in ragionamenti così grandi e
meravigliosi per l'altissime cose in essi contenute, e per un certo modo non
usato di favellare, ch'io rimaso da nuovo stupore sopra me inalzato, non ardiva
interrompergli». Alla fine della visione, Manso confessò di non aver visto
nulla, ma il poeta gli si rivolse sorridendo: «Assai più veduto hai tu, di
quello che forse... E qui si tacque».[79] Viste le rare manifestazioni
allucinatorie di cui abbiamo notizia, (si ricordino quelle che erano state
descritte nel dialogo Il messaggero, in cui è descritto uno spirito amoroso che
appare a Tasso sotto la figura di un giovanetto dagli occhi azzurri, simili a
quelli che Omero alla dea d'Atene attribuisce), la risposta del Nostro assume
una valenza indubbiamente ambigua, e non può escludersi che avesse voluto
mettere alla prova il Manso per vedere se anche lui lo avrebbe considerato un
"folle". A dicembre era di nuovo a Roma, dove giunse nella
speranza di poter essere ospitato dal Papa in Vaticano, confidando negli
illusori pareri di alcuni amici.[80] Ad ospitare Tasso fu invece Scipione
Gonzaga, e il poeta si sentì di nuovo «più infelice che mai». Ricominciava la
routine: richieste d'aiuto a destra e a sinistra, con l'obiettivo di ricevere i
cento scudi che gli erano stati promessi per la stampa delle sue opere: «vorrei
in tutti i modi trovar questi cento ducati, per dar principio a la stampa,
avendo ferma opinione che di sì gran volume se ne ritrarrebbero molto più»,
scrisse ad Antonio Costantini.[82] I destinatari erano ancora una volta i più
disparati: il principe di Molfetta, il Costantini, il duca di Mantova Vincenzo
Gonzaga, gli editori. Il Nostro si umiliò per l'ennesima volta anche con
Alfonso, cui chiese nuovamente perdono, mentre al Granduca di Toscana
Ferdinando I domandò l'intercessione del cardinal Del Monte, lo stesso che
prenderà sotto la propria protezione Caravaggio. Tutte le speranze, però,
furono disattese. Al tempo stesso anche le missive ai medici si rifecero
intense. Tuttavia, in mezzo a tante delusioni e a tanto affanno non venne meno
la verve creativa: oltre ad aver raccolto le Rime in tre volumi, e avervi
scritto il commento, Tasso compose anche un poema pastorale che riprende, anche
se solo nel nome, alcuni personaggi dell'Aminta. È Il rogo di Corinna, dedicato
a Fabio Orsino. La prima pubblicazione dell'opera fu postuma. Per quanto
Grazioso Graziosi, agente del duca di Urbino, dicesse al suo signore del modo
eccellente in cui il Tasso era trattato presso il cardinale Gonzaga, egli
rilevava al contempo le infermità fisiche e mentali di Torquato, che privavano
la sua età «del maggior ingegno che abbian prodotto molte delle passate.
Tuttavia, è bene diffidare della prima quanto della seconda affermazione. Se
«il povero Signor Tasso è veramente degno di molta pietà per le infelicità
della sua fortuna»[85], come si legge in una missiva del Graziosi di due
settimane dopo, perché cacciare il poeta in malo modo, mentre Scipione Gonzaga
non era presente, e costringerlo a una nuova situazione di bisogno? In aiuto
del Tasso vennero ancora i monaci della Congregazione del Tolomei, che lo
ospitarono a Santa Maria Nuova degli Olivetani.[86] Gli ultimi anni del
Tasso, però, non conobbero pace duratura: le sofferenze psichiche si acuirono
nuovamente, certo per le nuove delusioni derivanti da richieste di denaro non
esaudite, dall'obbligo di piegarsi alla composizione di poesie a pagamento, e
il poeta fu costretto a farsi ricoverare nell'Ospedale dei Pazzarelli,
adiacente alla chiesa dei Santi Bartolomeo e Alessandro dei Bergamaschi,
la cui costruzione era appena stata ultimata. Il dolore emerge in modo chiaro
in una lettera inviata il primo dicembre 1589 ad Antonio Costantini, divenuto
ormai suo confidente. Ritornò presso Scipione Gonzaga, sempre lamentandosi per
la scarsa considerazione in cui era tenuto e sempre scrivendo della propria
infelicità.[88] Tasso premeva, come già più volte in passato, per essere
accolto a Firenze dal Granduca di Toscana, e accettò quindi con gioia l'invito
di Ferdinando de' Medici. A Firenze giunse in aprile, ospite prima dei fidati
Olivetani, poi di ricchi e illustri cittadini quali Pannucci e Gherardi. Alla
tranquillità necessaria per rivedere la Gerusalemme si aggiunsero anche
relative soddisfazioni economiche (sempre comunque in cambio di versi
encomiastici): dal Granduca ricevette centocinquanta scudi[89], da Giovanni III
di Ventimiglia, marchese di Geraci, sembrerebbe, duecento scudi.[90] Il
motivo di gioia principale era tuttavia un altro, era l'avvicinarsi dell'evento
più ambito da chi si sentiva, sopra ogni cosa, poeta: «Penso a la mia
coronazione, la qual dovrebbe esser più felice per me, che quella de' principi,
perché non chiedo altra corona per acquetarmi». Non ci fu nessuna
incoronazione. C'è chi ha asserito che questa lettera contenesse solo una
bislacca speranza del Tasso, senza alcun legame con la realtà.[92] Tuttavia, la
sicurezza con cui l'evento viene ormai dato per certo lascia pensare che le
illusioni del Nostro avessero un fondamento, e non fossero una pura
chimera. Un nuovo evento lo indusse all'ennesimo spostamento: papa Urbano
VII era succeduto a Sisto V, incoraggiando il Tasso a fare nuovamente
affidamento sugli aiuti pontifici. C. scese così a Roma, accolto dagli
Olivetani di Santa Maria del Popolo. Giovanni Battista Castagna morì tredici
giorni dopo l'elezione, lasciando il posto a Gregorio XIV. Anche questa volta
le lettere del poeta registrano un amaro scacco: «Ho perduto tutti gli appoggi;
m'hanno abbandonato tutti gli amici, e tutte le promesse ingannato», confidò,
sempre più afflitto, a Niccolò degli Oddi. L'autore della Gerusalemme è ogni
giorno che passa più confuso, sballottato qua e là dagli eventi come una barca
in mezzo al mare. Tutto questo riflette la condizione interiore di una persona
disincantata ma al tempo stesso ancora ingenuamente pronta a fidarsi delle
fallaci promesse che giungono dal mondo intorno, riflette un'instabilità ormai
cronica. È vero che la fede andò radicandosi sempre più in Tasso, ma il fatto
che al duca di Mantova scrivesse di volersi ritirare in un monastero e pochi
giorni dopo accettasse il suo invito a tornare a corte è l'evidente
manifestazione di un'anima senza pace. Ritornato quindi sul Mincio, accolto con
tutti gli onori, poté dedicarsi totalmente al lavoro letterario, e in
particolare alla revisione del capolavoro. La missiva a Maurizio Cataneo del 4
luglio ci informa del fatto che il poeta era già a buon punto, e illustra le
linee direttrici della propria opera correttrice: «sono al fine del penultimo
libro; e ne l'ultimo mi serviranno molte di quelle stanze che si leggono nello
stampeato. Desidero che la riputazione di questo mio accresciuto ed illustrato
e quasi riformato poema toglia il credito a l'altro, datogli dalla pazzia de
gli uomini più tosto che dal mio giudicio». Sono parole che possono parere
sciagurate, ma riflettono gli scrupoli religiosi sempre più pressanti.
Non si era comunque concentrato solo sul poema: aveva raccolto le Rime in
quattro volumi, e con l'editore veneziano Giolito parlava della possibilità
di stampare tutte le opere (esclusa la Gerusalemme) in sei libri. A tutto
questo va aggiunto un nuovo lavoro che aveva intrapreso, lasciandolo poi
incompiuto. La genealogia di Casa Gonzaga, con dedica a Vincenzo, si interruppe
dopo centodiciannove ottave, per essere pubblicato solo nel 1666, tra le Opere
non più stampate dell'edizione romana Dragondelli.[96] Il poemetto è
sicuramente trascurabile, fatto di una versificazione fredda, appesantita da
nozioni e nomi. Tra le fonti il ruolo principale è stato svolto da un regesto
di Cesare Campana, Arbori delle famiglie... e principalmente della Gonzaga,
uscito a Mantova l'anno prima, e dall'Historia sui temporis di Paolo Giovio,
accanto a cui va ricordata la tradizione orale legata alla battaglia del Taro.
La calma, tuttavia, era ormai un ricordo di gioventù, e ogni soggiorno
diventava insopportabile dopo un certo numero di mesi. Così, ridiscese la
penisola, con l'intenzione di raggiungere nuovamente Roma. Il viaggio fu
travagliato e appesantito dal fatto che Tasso si ammalò più volte durante il
tragitto, costretto a sostare in varie località, fra cui Firenze. Giunto
nell'Urbe, ricevette l'ospitalità di Cataneo. Poche settimane dopo era ancora
in viaggio, diretto a Napoli A questo
punto, inaspettatamente, ci fu spazio per qualche luce e qualche reale
soddisfazione. Il soggiorno napoletano non tradì, né per quanto riguarda l'accoglienza
ricevuta (fu ospitato dal principe di Conca Matteo di Capua e poi da Manso con
grandi onori e affetto), né sulle questioni letterarie, né su quelle relative
alla salute dell'artista. In effetti, in virtù della «purità dell'aria,
comincia a sentirsi meglio, e di conseguenza poté dedicarsi in modo più
proficuo alle proprie attività. In questi mesi completò la Conquistata, e,
sempre durante il soggiorno partenopeo, mise mano all'ultima opera
significativa, Le sette giornate del Mondo creato. Gli ultimi tre anni di vita
lo videro prevalentemente a Roma. L'elezione al soglio pontificio di Clemente
VIII lo fece venire nell'Urbe, e anche qui ebbe un trattamento decisamente
migliore rispetto alle recenti esperienze. Poté infatti alloggiare nel palazzo
dei nipoti del Papa, Pietro e CinzioAldobrandini, in procinto di diventare
cardinali. Cinzio sarà di fatto il vero mecenate dell'ultimo periodo. La
produzione letteraria ebbe nuovi sussulti, consacrandosi ormai quasi
esclusivamente agli argomenti sacri: compose i Discorsi del poema eroico e
altri Dialoghi, carmi latini e rime religiose. Addolorato per la morte di
Scipione Gonzaga, gli dedicò, nel marzo 1593, Le lagrime di Maria Vergine e Le
lagrime di Gesù Cristo.Tasso aveva intanto finito di rivedere il poema, e
sempre nel 1593 vide la luce a Roma, per i tipi di Guglielmo Facciotti, la
Gerusalemme conquistata. Esistono inoltre chiare testimonianze del fatto
che ci fosse l'intenzione di incoronare Tasso in Campidoglio, nonostante alcuni
studiosi si siano osti negarlo e a considerarla un'invenzione del poeta. È
veramente degno il Signor Torquato Tasso di esser celebrato in questi medesimi
tempi come raro per la sua poesia, ed è parimente degno della grandezza
dell'animo del Signor Cinzio Aldobrandini di erigergli una statua laureata, con
mill'altre cerimonie e specie, come dicono che tosto si vedrà, e dargli luogo
in Campidoglio fra le più degne ed antiche cerimonie [...]», rivela Matteo
Parisetti in una lettera ad Alfonso II, risalente all'agosto del Lo stesso
Tasso è esplicito al riguardo: «Qui in Roma mi voglion coronar di lauro»,
scrive al Granduca di Toscana il 20 dicembre 1594, «o d'altra foglia».
Sennonché, pur essendo ancora bisognoso di soldi e continuando a fare richiesta
per ottenerli, il poeta sentiva sempre più lontane le preoccupazioni del mondo,
e sempre meno si curava della vanità e dei successi terreni. La salute, dopo la
parentesi napoletana, andava aggravandosi nuovamente, e Torquato cominciava a
capire che la fine non era lontana. Per questo ritornò alle falde del Vesuvio,
per concludere rapidamente in proprio favore la questione legata all'eredità
materna: il risultato fu soddisfacente, acconsentendo il principe di Avellino a
versargli duecento ducati all'anno, ai quali vanno aggiunti cento ducati annui
che il Papa si risolverà a dargli a partire dal febbraio 1595. A Napoli
rimase dal giugno al novembre del 1594, alloggiato al monastero benedettino di
san Severino, sempre più votato alla vita monastica e attratto ancora dalla
letteratura agiografica. Fu probabilmente nei mesi trascorsi presso i
benedettini che Tasso abbozzò l'incompiuta Vita di San Benedetto. Alla fine
dell'anno ritornò a Roma. Cambiò città per l'ultima volta: la fine era
dietro l'angolo. Riconosciuta la definitiva infermità che gli rendeva ormai
impossibile scrivere e correggere, non sentì più che un ultimo bisogno,
tralasciando tutto il resto, il bisogno della «fuga dal mondo». Entra al
monastero di S. Onofrio, sul Gianicolo, senza più nemmeno curarsi del fatto che
il Mondo creato non era stato ancora rivisto. Tutto svaniva, di fronte
all'importanza di prepararsi al trapasso: «Che dirà il mio signor Antonio,
quando udirà la morte del suo Tasso? E per mio avviso non tarderà molto la
novella, perch'io mi sento al fine de la mia vita. Non è più tempo ch'io parli
de la mia ostinata fortuna, per non dire de l'ingratitudine del mondo». Tutto
perdeva importanza, a fronte della dolcezza della «conversazione di questi
divoti padri», che cominciava «la mia conversazione in cielo. Monumento in
Sant'Onofrio Il 25 aprile, all'«undecima ora». Tasso muore. E una morte serena,
ricevuta con tutti i conforti dei sacramenti.La morte del Tasso è
stata accompagnata da una particolar grazia di Dio benedetto, perché in questi
ultimi giorni le duplicate confessioni, le lagrime e insegnamenti spirituali
pieni di pietà e di giudizio, mostrarono che fosse affatto guarito dall'umor
malinconico, e che quasi uno spirito gli avesse accostato al naso l'ampolle del
suo cervello. Venne sepolto nella Chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo.
Presso il monastero, accanto alla strada è ancora visibile la rampa della
quercia, dove si trova il tronco nero di una quercia secolare sostenuto da un
sopporto metallico. Secondo la tradizione locale si tratta della cosiddetta
quercia del Tasso, l'albero alla cui ombra il poeta spesso sedeva per
riposarsi. Albero genealogico Reinerius de Tassis Sconosciuta Omedeo
Tasso ( Sconosciuta Ruggero Tasso SconosciutaBenedetto Tasso SconosciutaPalazzo
de Tassis Tonola de Magnasco, Pasimo (o Paxio) de Tassis. SconosciutaPietro
Tasso. SconosciutaGiovanni Tasso
Catalina de Tassi Gabriel Tasso Porzia de RossiBernardo Tasso Torquato
Tasso Opere Un ritratto a Sorrento. Gerusalemme Scritto quando egli aveva
solo 15 anni il Gierusalemme rappresenta il primissimo tentativo di Tasso di
maneggiare il genere epico nonché il suo primo impegno letterario di rilievo.
Se ne possiedono soltanto centosedici stanze del canto I. Oltre a condividere
con la Liberata l'argomento (la prima Crociata), si notano pure alcune
somiglianze tra il proemio di questo esordio poetico giovanile e quello del
capolavoro della maturità. Rinaldo All'età di diciotto anni Tasso riprese
la materia del romanzo cavalleresco e pubblicò il Rinaldo, poema in ottave che
narra in dodici canti la giovinezza del paladino della tradizione carolingia e
le sue imprese di armi e di amori. Nella prefazione al poema Tasso dichiara di
voler imitare in parte gli "antichi" (Omero e Virgilio), in parte i
"moderni" (Ariosto). Si concentra però su un unico protagonista, secondo
le esigenze di unità proposte dall'aristotelismo. Si tratta di un'opera
tipicamente giovanile, ancora priva di originalità, ma compaiono già alcuni
temi e toni fondamentali che caratterizzeranno il Tasso maturo e formato
culturalmente. Rime Torquato Tasso compose un gran numero di poesie
liriche, lungo l'arco di tutta la sua vita. Le prime furono pubblicate col
titolo di Rime degli Accademici Eterei. Uscirono Rime e prose. Tasso lavorò
fino al 1593 ad un riordino complessivo dei testi, distinguendo rime amorose e
rime encomiastiche. Previde poi una terza sezione, dedicata alle rime religiose
e una quarta di rime per musica, ma non realizzò il progetto. Nelle Rime
amorose è ben riconoscibile l'influenza della poesia petrarchesca e della vasta
produzione petrarchistica del Quattrocento e Cinquecento; contemporaneamente,
però, il gusto per le preziosità linguistiche e l'intensa sensualità rivelano
l'evoluzione verso un linguaggio nuovo che maturerà nel Seicento. L'uso
frequente di forme metriche poco usate dai poeti precedenti, come il madrigale,
e la raffinata musicalità dei versi fecero sì che molti di essi fossero
musicati da grandi autori come Claudio Monteverdi e Gesualdo da
Venosa. Più solenni e classicheggianti le Rime encomiastiche,
dedicate alle figure e alle famiglie signorili che ebbero rilievo nella vita
del poeta. Per la loro creazione si ispira a Pindaro, Orazio e al celebre
Monsignor della Casa. Fra tutte, la più famosa è la Canzone al Metauro,
intessuta di elementi autobiografici. Le Rime religiose sono caratterizzate
dal tono cupo e plumbeo, forse dovuto al fatto che le scrisse negli ultimi anni
di vita. Qui il poeta manifesta il desiderio di sconfiggere l'ansia
esistenziale e il tormentoso senso del peccato attraverso la fede e
l'espiazione. Discorsi dell'arte poetica Attorno alla metà degli Anni
Sessanta scrisse i quattro libri dei Discorsi dell'arte poetica ed in
particolare sopra il poema eroico, letti all'Accademia Ferrarese e pubblicati
molto più tardi, nel 1587, dal Licino. Il testo fornisce una chiara visione
della concezione tassesca del poema eroico, piuttosto distante da quella
ariostesca, che dava la prevalenza all'invenzione e all'intrattenimento del
pubblico. Perché possa essere giudicato di buon livello, deve basarsi su
un evento storico, da rielaborare in modo inedito. Infatti, «la novità del
poema non consiste principalmente in questo, cioè che la materia sia finta, e
non più udita; ma consiste nella novità del nodo e dello scioglimento della
favola. Al verosimile deve essere unito il meraviglioso, e Tasso trova l'unione
perfetta di queste due componenti nella religione cristiana. Intiera, l'opera
deve essere una, ossia prevedere l'unità d'azione, ma senza schemi rigidi: ci
può essere largo spazio per la varietà, e per la creazione di numerosi racconti
nel racconto, e in questo senso la Gerusalemme liberata costituisce una piena
realizzazione delle idee dell'autore. Lo stile, infine, deve adeguarsi alla
materia, e variare tra il sublime e il mediocre a seconda dei casi.
Aminta Magnifying glass icon mgx2.svg Aminta (Tasso). Le sofferenze di
Aminta, dipinto di Bartolomeo Cavarozzi «L'Aminta non è un dramma pastorale e
neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto
lirico, narrazione drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le
tragedie e le commedie e i così detti drammi pastorali in Italia … Essa è in
fondo una novella allargata a commedia, di quel carattere romanzesco che
dominava nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il
Ruffo, la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due
protagonisti, Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si
accavallano con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a
monologhi e capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla
narrazione L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da
partecipi con le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è
tutto nella narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui
concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: "s'ei piace, ei
lice". Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di
caratteri e di avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui,
comparazioni, sentenze, movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza
musicale, piena di grazia e delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima.
Semplicità molta è nell'ordito, e anche nello stile, che senza perder di
eleganza guadagna di naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è
artificio finissimo. Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà
un'apparenza pastorale a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo
raffinato, e la stessa semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un
miracolo di perfezione, e certo non ci è opera d'arte così finamente
lavorata.» (De Sanctis) L'Aminta è una favola pastorale. Presenta un
prologo, 5 atti, un coro. Ogni canto si conclude a lieto fine. Ha
ispirato la composizione della favola pastorale Flori di Maddalena Campiglia
lodata dallo stesso Tasso. Sulle ali dell'entusiasmo per il successo
dell'Aminta Tasso incominciò una tragedia, Galealto re di Norvegia, che però
interruppe alla seconda scena del secondo atto. Il poeta la riprese e la
completò a Mantova, subito dopo la liberazione dall'Ospedale di Sant'Anna
cambiando però il titolo, diventato Re Torrismondo, e il nome del protagonista.
L'ambientazione è nordica: in essa sono frequenti le immagini di distese
boschive. In questo, il Tasso mostra la sua forte curiosità per le leggende
nordiche, come ad esempio mostra la lettura dell'Historia de gentibus
septentrionalibus di Olao Magno. L'editio princeps è quella bergamasca
del 1587; seguirono a ruota le edizioni di Mantova, Ferrara, Venezia e Torino,
ma poi ci fu un lungo silenzio. L'opera fu rappresentata per la prima volta
soltanto al Teatro Olimpico di Vicenza. Trama Torrismondo è intimamente
segnato dal conflitto tra amore e amicizia: il sovrano (d'una ignota regione
nordica, non di Norvegia) ama Alvida, che a causa di un debito passato (Germondo
aveva salvato la vita a Torrismondo) deve sposarsi con l'amico Germondo, re di
Svezia, regno nemico a quello di Alvida poiché Germondo stesso era stato
accusato di omicidio del fratello di Alvida. Germondo dunque non può sposarsi
con la donna amata poiché il padre di quest'ultima lo odia. Germondo decide
allora che Torrismondo per sdebitarsi avrebbe dovuto chiedere la mano di Alvida
e al momento delle nozze avrebbe dovuto scambiare la sposa. Ottenuta da
Torrismondo la mano di Alvida i due consumano l'amore. La storia prenderà
un'altra china quando Torrismondo scoprirà che la donna amata non è altri che
la sorella, la situazione culminerà nel suicidio dei due. Il Re Torrismondo è
molto importante perché anticipa le tragedie barocche, nelle quali si
riprendono alcune caratteristiche fondamentali delle tragedie senecane: la
meditatio mortis (il Memento mori) e il gusto dell'orrido. Nel Tasso, però, ciò
che compare fortemente e caratterizza le sue tragedie è il conflitto intimo che
dilania l'animo dei personaggi: l'uomo si sente intrappolato dal fato, poiché
impossibilitato all'agire, a modificare il corso degli eventi ormai già
predisposti. Tuttavia, la critica non si è espressa positivamente in
merito all'opera: Solerti ed Ovidio si sono mostrati ostili verso il Torrismondo
come lo erano stati nei confronti degli Intrichi d'amore, e severo si è
dimostrato anche Umberto Renda, che alla tragedia ha dedicato una
monografia. Ancora più duro il giudizio
di Eugenio Donadoni, che arrivò a parlare di «opera di un ex-poeta, non più di
un poeta, e nemmeno Giosuè Carducci, pur
apprezzando lo sforzo di unire elementi pagani e religiosi, classici ed
esotici, ha ritenuto il dramma degno dell'ingegno tassesco. Solo Tonelli fa
presente che superava pur sempre «la maggior parte delle tragedie
cinquecentesche e rivaleggiava con le migliori del tempo. Gerusalemme liberata
Gerusalemme liberata. Tasso con la sua Gerusalemme liberata La
Gerusalemme liberata è considerata il capolavoro di Tasso. Il poema tratta di
un avvenimento realmente accaduto, ossia la prima crociata. Tasso iniziò a
scrivere l'opera con il titolo di Gierusalemme durante il soggiorno a Venezia.
L'opera fu pubblicata integralmente con il titolo di Gerusalemme liberata. In
seguito alla pubblicazione del poema il poeta rimise mano all'opera e la
riscrisse eliminando tutte le scene amorose e accentuando il tono religioso ed
epico della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme conquistata. In realtà
la Conquistata fu immediatamente dimenticata e la redazione che continuò ad
avere grande successo e ad essere ristampata, in Italia e nei paesi stranieri,
fu la Liberata. Trama Goffredo di Buglione nel sesto anno di guerra
raduna i crociati, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio
Gerusalemme. Uno dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato
Tancredi. Chi vince il duello vince la guerra. Il duello però viene sospeso per
il sopraggiungere della notte e rinviato. I diavoli decidono di aiutare i
musulmani a vincere la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con
uno stratagemma riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani, tra cui
Tancredi, in un castello incantato. L'eroe Rinaldo per aver ucciso un altro
crociato che lo aveva offeso viene cacciato via dal campo. Il giorno del duello
arriva e poiché Tancredi è scomparso viene sostituito da un altro crociato
aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in
battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra quando arrivano gli
eroi imprigionati liberati da Rinaldo che rovesciano la situazione e fanno
vincere la battaglia ai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una
torre per dare l'assalto a Gerusalemme ma Argante e Clorinda (di cui Tancredi è
innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e
viene uccisa in duello proprio da colui che l'ama, Tancredi, che non l'aveva
riconosciuta. Tancredi è addolorato per aver ucciso la donna che amava e solo
l'apparizione in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno
lancia un incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire
la torre. L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, prigioniero
della maga Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e
alla fine lo trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e
permette ai crociati di assalire e conquistare Gerusalemme. I Dialoghi La
stesura di prose dialogiche impegnò Tasso fin dal 1578, anno della composizione
del Forno overo de la Nobiltà. La dialogistica tassiana è stata da sempre
relegata al margine dalla critica: De Sanctis accenna soltanto al Minturo overo
della Bellezza, limitandosi ad asserire che Tasso da giovane fu “infetto dalla
peste filosofica”. Un giudizio a dir poco sminuente se si considera che il
poeta compose venticinque dialoghi (e questa è solo la cifra canonica; non si
fa riferimento, infatti, agli abbozzi e ai rimaneggiamenti) e vi pose il suo
impegno fino alla morte. Una valutazione più precisa è fornita da
Donadoni: lo studioso dedica un intero capitolo della sua monografia ai
Dialoghi indagandone trame, fonti e suggestioni. La prima edizione moderna
del corpus dialogico tassiano è quella di Guasti, il quale, però, non riuscendo
a reperire tutti i manoscritti dei Dialoghi si basa sui testimoni a stampa,
dando vita ad un’edizione, che presenta corruttele da far rabbrividire i
moderni filologi. Un grande passo in avanti nella fortuna dei Dialoghi è
rappresentato dall’edizione critica di Ezio Raimondi pubblicata nel 1958, di
capitale importanza per gli studiosi tassiani i quali, ancora oggi, continuano
a considerarla punto di riferimento. Raimondi considerò i Dialoghi tassiani
come opere postume, scegliendo la versione più attendibile fra manoscritti e
stampe in base alla loro storia individuale. Questo criterio non è stato
accettato da Stefano Prandi e Carlo Ossola, i quali hanno proposto un’edizione
storica dei Dialoghi che tenesse conto dei testi effettivamente circolanti
all’epoca dello scrittore. L’edizione in realtà non ha mai visto la luce e si è
fermata ad uno specimen che avrebbe dovuto anticipare una successiva edizione
completa. Negli ultimi anni gli studiosi della prosa tassiana sono
aumentati: si è posta attenzione al Tasso politico, con due edizioni commentate
della Risposta di Roma a Plutarco e al Tasso egittologo di cui si è occupato
Bruno Basile. Non mancano letture dei singoli dialoghi: Basile e Arnaldo Di
Benedetto si sono occupati del Padre di Famiglia (rispettivamente, Fonti
culturali e invenzione letteraria nel «Padre di famiglia» di Torquato Tasso; e
Torquato Tasso, «Il padre di famiglia»); Emilio Russo del Manso (Amore e
elezione nel "Manso" di Tasso), Massimo Rossi del Malpiglio Secondo e
del Rangone (Io come filosofo era stato dubbio. La retorica dei "Dialoghi"
di Tasso); Maiko Favaro, dopo la monografia di Prandi/Ossola, ha offerto una
puntuale lettura del Forno, premiata con il premio Tasso (Le virtù del tiranno e le passioni
dell’eroe. Il “Forno overo de la Nobiltà” e la trattatistica sulla virtù
eroica); Angelo Chiarelli si è, invece, occupato del Malpiglio overo de la
corte (Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di
aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa
tassiana), preceduto dal contributo di Massimo Lucarelli sullo stesso argomento
(Il nuovo «Libro del Cortegiano»: una lettura del «Malpiglio» di C.) e del
Costante («Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una
contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso).
L'edizione critica di Raimondi fornisce il testo dei venticinque dialoghi
tassiani, con un'appendice che ci permette di conoscere i manoscritti
superstiti e le stampe. Questo il titolo dei vari dialoghi: Il Forno
overo de la Nobiltà; Il Beltramo overo de la cortesia; Il Forestiero Napoletano
overo de la gelosia; Il N. overo de la pietà; Il Nifo overo del piacere; Il
messaggiero; Il padre di famiglia; De la dignità; Il Gonzaga secondo overo del
giuoco; Dialogo; Il Rangone overo de la pace; Il Malpiglio overo de la corte;
Il Malpiglio secondo overo del fuggir la moltitudine; La Cavalletta overo de la
poesia toscana; Il Gianluca overo de le maschere; Il Cataneo overo de gli
idoli; Il Ghirlinzone overo l'epitaffio; La Molza overo de l'amore; Il Costante
overo de la clemenza; Il Cataneo overo de le conclusioni amorose; Il Manso
overo de l'amicizia; Il Ficino overo de l'arte; Il Minturno overo de la
bellezza; Il Porzio overo de le virtù; Il Conte overo de le imprese. Le sette
giornate del mondo creato È un poema in endecasillabi sciolti, accanto ad altre
opere di contenuto religioso di impronta chiaramente controriformistica. Il
poema venne pubblicato postumo. Si fonda sul racconto biblico della creazione
ed è suddiviso in sette parti, corrispondenti come dice il titolo ai sette
giorni nei quali Dio creò il mondo, e presenta una continua esaltazione
della grandezza divina della quale la realtà terrena è un pallido
riflesso. Le lacrime di Maria Vergine e Le lacrime di Gesù Cristo Si
tratta, come nel caso de Le sette giornate del mondo creato, di due scritti
facenti parte delle cosiddette "opere devote" del Tasso. Nello
specifico, sono due poemetti in ottave che riprendono la tradizione della
"poesia delle lacrime", in voga nella seconda metà del Cinquecento,
appena qualche anno prima della morte. Influenze culturali Statua
di Tasso a Sorrento La figura del Tasso, anche per la sua pazzia, divenne
subito popolare. La lucidità delle opere scritte durante il periodo di
prigionia nell'Ospedale di Sant'Anna fece diffondere la leggenda secondo cui il
poeta non era veramente pazzo ma fu fatto passare per tale dal duca Alfonso che
voleva punirlo per aver avuto una relazione con sua sorella, imprigionandolo
(anche se, come si è visto, è assai più probabile che la vera ragione della reclusione
consistesse nell'autoaccusa del poeta di fronte al tribunale
dell'Inquisizione). Questa leggenda si diffuse rapidamente e rese
particolarmente popolare la figura del Tasso, fino a ispirare a Goethe il
dramma C.. In età romantica il poeta divenne il simbolo del conflitto
individuo-società, del genio incompreso e perseguitato da tutti coloro che non
sono in grado di comprendere il suo talento straordinario. In particolare
Giacomo Leopardi, che quando si recò a Roma il giorno venerdì 15 febbraio del
1823 pianse sul sepolcro del Poeta in S. Onofrio (commentando in una lettera
che quella esperienza era stata per lui "il primo e l'unico piacere che ho
provato in Roma"), considerava Torquato Tasso come un fratello spirituale,
ricordandolo in numerosi passi dei propri scritti (tra cui quello citato) e nel
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (una delle Operette
morali). Molta parte della poesia recanatese è impregnata di stile
tassesco: i notturni di alcuni canti, come La sera del dì di festa o Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, richiamano quelli della Gerusalemme,
mentre nella canzone Ad Angelo Mai Leopardi crea una forte empatia con il
«misero Torquato, spirito fraterno «concepito come un alter ego. I due nomi
femminili più celebri presenti nei Canti, Silvia e Nerina, furono ripresi
dall'Aminta. In generale, l'attenzione si spostò dai personaggi della
Liberata al dramma esistenziale vissuto dal suo autore. Ferretti scrisse le
parole del Torquato Tasso, melodramma in tre atti musicato da Gaetano Donizetti
e rappresentato per la prima volta al Teatro Valle. Il "mito"
conquistò anche Franz Liszt: era quando l'apostolo del Romanticismo metteva in
musica l'opera byroniana Il lamento del Tasso, dando vita al poema sinfonico
Tasso. Lamento e Trionfo. Il poeta vicentino ottocentesco Jacopo Cabianca
ha dedicato al Tasso un poema in dodici canti intitolato appunto Il Torquato
Tasso. Nei primi anni del ventesimo secolo il compositore catanese Pietro
Moro si concentrò sugli ultimi momenti di vita del poeta con Ultime ore di
Torquato Tasso, carme in un atto sulle parole di Giovanni Prati (riviste per
l'occasione da Rojobe Fogo). Torquato Tasso nel cinema Torquato Tasso,
regia di Luigi Maggi, Torquato Tasso, regia di Roberto Danesi. Adattamenti
cinematografici de La Gerusalemme liberata Il primo regista a girare un film
sull'opera fu Enrico Guazzoni. Ne farà due remake; Gerusalemme liberata,
di Enrico Guazzoni; La Gerusalemme liberata, di E. Guazzoni); La Gerusalemme
liberata, di Carlo Ludovico Bragaglia; I due crociati, parodia di Giuseppe
Orlandini con Franco e Ciccio. Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus,
Laurea poetica nastrino per uniforme ordinariaLaurea poetica (postuma) — Roma.
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«Giornale storico della Letteratura Italiana», Giovan Battista Manso, Vita di
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Tecnica dei «Dialoghi» Tassiani, in «Italianistica, Rivista di Letteratura
Italiana», Baldassarri Guido, L’arte del dialogo in Torquato Tasso, in «Studi
Tassiani», Guido Armellini e Adriano
Colombo, Torquato TassoL'uomo, in Letteratura italianaGuida storica: Dal
Duecento al Cinquecento, Zanichelli Editore, Luperini, Cataldi, Marchiani, La
scrittura e l'interpretazione, Palumbo, L. Tonelli, C., Torino); Lettere di
Torquato Tasso (Firenze, Le Monnier); L. Tonelli, G. Natali, Torquato Tasso,
Roma, G. Natali, cA. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino. Altri pensano
invece che queste sperimentazioni risalgano al periodo patavino o addirittura a
quello bolognese. G. Natali, cit., Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e
l'interpretazione, Palumbo, G. Natali, cG. Natali, Tonelli, cit.68 G. Natali,
L. Tonelli, Durante, A. Martellotti, «Giovinetta Peregrina». La vera
storia di Laura Peperara e Torquato Tasso, Firenze, Olschki, W. Moretti, C., Roma-Bari Baldi, Giusso,
Razetti, Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Milano:
Paravia, L. Tonelli, cil rapporto
amoroso è stato ipotizzato in particolare da Angelo de Gubernatis in T. Tasso,
Roma, Tipografia popolare, L. Tonelli, c Lettere, cit., I22 L. Tonelli, cit.89 L. Tonelli, Lettere, cit., I49 Secondo Doglio la data non è casuale e si
inserirebbe nella tradizione petrarchesca. Petrarca avrebbe infatti visto per
l'unica volta Laura, cfr. Doglio, Origini e icone del mito di C., Roma Lettere,
c Lettere, Lettere, Si tratta di
un'epistola al Gonzaga; Lettere, cit.,
L. Tonelli S. Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario, Milano,
Principato, L. Tonelli, Lettere, Si
trattava comunque di uno stipendio oggettivamente basso, che a una persona
comune avrebbe garantito a stento la sopravvivenza; L. Tonelli, cit.172 Lettere, L. Chiappini, Gli Estensi, Milano,
Dall'Oglio, A. Solerti, cA. Solerti, cit., II,
120-121 A. Solerti, L. Tonelli,
cit. G. B. Manso, Vita del Tasso, in Opere del Tasso, Firenze, M. Vattasso, Di un
gruppo sconosciuto di preziosi codici tasseschi, Torino, M. Vattasso, cA.
Solerti, L. Tonelli, c M. L. Doglio, I. De Bernardi, F. Lanza, G. Barbero,
Letteratura Italiana, 2, SEI, Torino,
Lettere, cit., I298 Lettere, cit.,
I299 A. Solerti, ccosì scrive al
cardinale Luigi un suo informatore L. Tonelli, Lettere, Tonelli, Solerti, Lettere, Guasti, Napoli, Rondinella, A. Corradi, Delle infermità di Torquato
Tasso, Regio Instituto Lombardo, Tonelli, M. L. Doglio, cit., 41 e ss.
Opere di Torquato Tasso, Firenze, Tartini e Franchi, L. Tonelli,
cInfarinato era il nome accademico assunto dal Salviati Tra parentesi sono indicate le date di
pubblicazione L. Tonelli, Opere, cit.,
Tra parentesi si indicano due date, quella di composizione e quella di
pubblicazione Lettere. La prima versione di quelli che saranno Gli
intrichi d'amore non ci è pervenuta L.
Tonelli, L. Tonelli, Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, Non fu più tenero
il Solerti; L. Chiappini, c L. Tonelli, cit.188
L.Tonelli, Solerti, cLettere, L.
Tonelli, cit., 266-267 Lettere, c L. Tonelli, Mazzoni, Del Monte
Oliveto e del Mondo creato di C., in Opere minori in versi di Torquato Tasso,
Bologna, Zanichelli, E. Donadoni, C.,
Firenze, Battistelli, G. B. Manso, Vita
di T. Tasso, in Opere di C., Firenze; Lettere, Così al Costantini;
Lettere, Lettere, L. Tonelli, Passo riportato in A. Solerti, A.
Solerti, L. Tonelli, Lettere, Lettere, cit.,Lettere, cit., Lettere, A niuno
sono più obligato che a Vostra Eccellenza, ed a niuno vorrei essere maggiormente;
perché è cosa da animo grato l'esser capace de le grazie e de gli oblighi.
Laonde non ho voluto più lungamente ricusare il secondo suo dono di cento
scudi, bench'io non abbia mostrato ancora alcuna gratitudine del primo; ma la
conservo ne l'animo, e ne le scritture: e ne l'uno sarà forse eterna, e ne
l'altre durerà tanto, quanto la memoria de le mie fatiche. Niuno de' presenti o
de' posteri saprà chi mi sia, che non sappia insieme quant'io sia debitore a la
cortesia di Vostra Eccellenza, ed a la sua liberalità; con la quale supera
tutti coloro che possono superar la fortuna." Così scrive il Tasso al
marchese Giovanni Ventimiglia da Firenze. Soltanto C. dedica al marchese due
composizioni encomiastiche, non portando però a compimento il promessogli poema
Tancredi normando. Lettera a Scipione
Gonzaga, Lettere. E. Rossi, Il Tasso in Campidoglio, in Cultura, Lettere, cit.,
V6 L. Tonelli, cit.278 Lettere, cit., V62 L. Tonelli, Cipolla, Le fonti storiche della
«Genealogia di Casa Gonzaga», in Opere minori in versi di Torquato Tasso,
cit., I
L. Tonelli, G. B. Manso, L.Tonelli, L. Tonelli, E. Rossi, c A. Solerti,
Lettere, cit., Lettere, cLettera ad Antonio Costantini, in Lettere, Lettera di
Maurizio Cataneo a Ercole Tasso; A. Solerti, cit., II363 Lettera di monsignor Quarenghi a Giovan
Battista Strozzi, A. Solerti, cAlmanach du gotha, de J.-H. de Randeck, Les plus
anciennes familles du monde: répertoire encyclopédique des 1.400 plus anciennes
familles du monde, encore existantes, originaires d'Europe, de Karl Hopf, Historisch-genealogischer
Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de A. M. H. J. Stokvis, Manuel
d'histoire: Les états de Europe et leurs colonies, de Pierantonio Serassi, La
vita de Torquato Tasso8. de Niccolò
Morelli di Gregorio, Della vita di Torquato Tasso, de Pierantonio Serassi, La
vita di Torquato Tasso10. (DE) de Karl
Hopf, Historisch-genealogischer Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit,
de Heinrich Léo Dochez, Histoire d'Italie pendant le Moyen-âge C., Discorsi
dell'arte poetica, I, 12 in Le prose diverse di Torquato Tasso (C. Guasti),
Firenze, Monnier, Discorsi dell'arte poetica, cit., I, 15 A. Solerti, F. D'Ovidio, Saggi critici,
Napoli, Morano, U. Renda, Il Torrismondo di Torquato Tasso e la tecnica tragica
nel Cinquecento, Teramo, E. Donadoni, G. Carducci, Il Torrismondo, testo
premesso all'ed. Solerti delle Opere minori in versi di Torquato Tasso, L.
Tonelli, C., Risposta di Roma a Plutarco, Res, Risposta di Roma a Plutarco e
marginalia | Edizioni di Storia e Letteratura, su storiaeletteratura. Angelo
Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di
aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa
tassiana, in «La Rassegna della letteratura italiana». Questa concordia è
sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo
de la clemenza» di Tasso, in «Filologia e Critica», Sul muro esterno della
Chiesa di S. Onofrio, a Roma, una tavola con iscrizione tedesca ricorda il
soggiorno di Goethe e l'ispirazione che lo portò a scrivere il dramma, dopo
aver veduto la tomba del poeta custodita all'interno dell'edificio sacro Ad Angelo Mai, v. 124 G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria,
Dal testo alla storia dalla storia al testo, Milano, Paravia, S. E. Failla,
Ante Musicam Musica. C. nell'Ottocento musicale italiano, Acireale-Roma,
Bonanno, Emersioni seleniche nelle Rime di C. Colella | Griselda Online, su
griseldaonline. 2Torquato Tasso, commedia goldoniana Tasso, dramma di Goethe,
Torquato Tasso, opera di Gaetano Donizetti Dialogo di Torquato Tasso e del suo
Genio familiare, dalle Operette morali di Giacomo Leopardi Thurn und Taxis,
ramo austriaco della famiglia Tasso di Bergamo, fondatori delle prime poste
europee Museo tassiano, museo dedicato a Torquato Tasso Accademia dei Catenati
Cella del Tasso, attuale ubicazione a Ferrara. TreccaniEnciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Torquato Tasso, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Torquato Tasso, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
Inc. To Tasso, su BeWeb, Conferenza
Episcopale Italiana. Opere di Torquato
Tasso, su Liber Liber. Opere di C., su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Torquato Tasso,. Opere Progetto
Gutenberg. Libri Vox. C., in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.
Spartiti o libretti di Torquato Tasso, su International Music Score Library
Project, Project Petrucci Tasso, su Internet Movie Database, IMDb.com. Torquato Tasso Testi completi e cronologia
delle opere. Opere integrali in più volumi dalla collana digitalizzata
"Scrittori d'Italia" Laterza Opere di C., testi con concordanze,
lista delle parole e lista di frequenza Due segregazioni: il Cantico spirituale
di Giovanni della Croce e Il Re Torrismondo di C., su midesa). Opere di C.
colle controversie sulla Gerusalemme poste in migliore ordine, ricorrette
sull'edizione fiorentina, ed. illustrate dal professore Gio. Rosini, Pisa,
presso Niccolò Capurro, Le lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di
tempo e illustrate da Cesare Giusti, 5 voll., Firenze, Felice Le Monnier, I
dialoghi, Cesare Guasti, Firenze, Felice Le Monnier, Le rime di Torquato Tasso.
Edizione critica su i manoscritti e le antiche stampe Angelo Solerti, Bologna,
presso Romagnoli-Dall'Acqua, Opere di C.. DELL'ARTE DEL DIALOGO. Voi mi
pregate, pad* molto reverendo, nelle vostre lettere, eh' io voglia darvi alcuno
ammaestramento: e i chiedete, se non m'inganno, dello scrivere i
dialoghi, perchè son quelle medesime nelle quali m'av- visate d' aver
ricevuti quelli della poesia toscana e della pace. E se propriamente
ragionale, io non posso compiacervi, perchè tanto a me disdioevol sarebbe
la persona di maestro, quanto a voi quella di sco- lare: né rifiutandola
io temo di poterne esser biasimato, come Giotto, perch'agli ricusò convenevole
onore: io non accetto ufficio non conveniente. Bla se volete onorarmi con
questo nome, e ammaestramento chiamate l' opinione» io la scriverò;
perchè niuna cosa debbo tenervi celata, la qual possa giovar agli altri, oppure
a me stesso'; ed allora sti- merò buone le mie ragioni» che dal vostro
giudicjo saran confermate. E se -delle regola avviene quel che delie
leggi : siccome altre leggi hanno i Genovesi diverse da quelle oV
Veneziani o de/ Ragusei, oasi potrebbero avere altri precetti nell'artificio
del bene scrivere» Ma io non gli voglio dar questo nome, nò voi gliele
scrivete in fronte ; perciocché io l'ho raccolte in un'operetta assai
breve per assomigliar alcuni dottori cortigiani, i quali' non potendo
sostener persona così grave, vestono di corto. E a' in questo abito
potranno sensa fastidio esser lette dagli amid ' e da parenti, non v'
incresca di leggere.Nell'imitazione o s'imitano l' azioni degli uomini o i
ragionamenti: e quantunque poche operazioni si facciano alla mutola, e
pochi discorsi senza operazione, almeno dell' intelletto, nondimeno assai
diverse giu- dico quelle da questi : e degli speculativi è proprio il
discorrere, sicco- me degli attivi l'operare. Due sàran dunque i primi
generi dell'imi- tazione: l'un dell'azione, nel quale son rassomigliati
gli operanti: l' altro delle parole, nel quale sono introdotti i
ragionanti. E. 1 primo genere si divide in altri, che sono la tragedia e
la commedia, ciascuna delle quali patisce alcune divisioni: e '1 secondo
si può divider pari- mente. Ed Aristide un de' più famosi Greci, i quali
scrissero e non parlarono, così parve che gli dividesse, dicendo che
Platone avea comi- camente rappresentato Ippia, Prodico, Protagora,
Gorgia, Eutedemo, Bonisidoro, Agatone, Cinesia e gli altri: e ch'egli
medesimo chiama le sue leggi tragedia, e si confessa ottimo tragico. Ma
tra' moderni v*è chi gli divide altramente, facendone tre specie: l'una
delle quali può montare in palco, e si può nominare rappresentativa,
perciocché in essa vi siano persone introdotte a ragionare cioè in
alto, com' è usanza di farsi nelle commedie e nelle tragedie: e
simil maniera è tenuta da Platone nei suoi Ragionamenti, e da Luciano ne'
suoi; ma un'altra ce n' è, che non può montare in palco, perciocché
conservando1' autore la" sua persona, come isterico narra quel che
disse il tale e '1 cotale: e questi due ragionamenti si possono domandare
istorici o narrativi, e tali sono per- lo più quelli di Cicerone. E c'è
ancora la terza maniera ed è di quelli, che son mescolati della prima e
della seconda maniera, conservando l'autore la sua prima persona, e
narrando come istorio): e poi introducendo a favellar tyafiarix&s
come s'usa <fi far nelle tra- gedie e nelle commedie: e può e non
montare in palco, cioè non può montarvi, in quanto l' autore conserva la
sua persona ed è come 1* isto- rico: e può montarvi in quanto
s'introducono le persone rappresenta- tivamente a favellare: e Cicerone
fece alcuni ragionamenti sì fatti. E quantunque questa- divisione sia
tolta dagli antichi e paia diversa dal- l' altra, nondimeno l'intenzione
forse è l'istessa; perchè la tragedia si divide in quella che si dice
tragedia propriamente, e nell'altra nella qual parla il poeta: e tragedia
sì fatta compose Omero. E questa divi- stone perchè è fatta in due
membri, è più perfetta; nondimeno i àia- Ioghi sono stati detti tragici e
comici per similitudine, perchè le trage- die e le commedie propriamente
sono l'imitazione dell'azione; però tragici si posson chiamar sopra tutti
gli altri il Critone e 1 Fedone: Dell' un de' quali Socrate condannato
alla morte, ricusa di fuggirsene con gli amici: nell'altro dopo lunga
deputazione dell' immortalità del- l'anima bee il veleno. E comico è il
convito nel quale Aristofane è impedito dal rutto nel favellare; ed
Alcibiade ubriaco si mescola fra i convitati. Ma il Menesseno par misto
di queste due specie: perciocché Socrate battuto dalla maestra Aspasia è
persona comica; ma lodando i morti ateniesi innalza il dialogo all'
altezza della tragedia. Pur questi medesimi dialoghi non son vere
tragedie, ovvero commedie; perchè nell' une e nelT altre le quistioai e i
ragionamenti son descritti per l'azione; ma ne' dialoghi l'azione è quasi
giunta de' ragionamenti : e 8' altri la rimovesse, il dialogo non
perderebbe la sua l'orma. Dunque in lui queste differenze sono
accidentali piuttosto che • altramente ; ma le proprie si terranno dal
ragionamento jslesso e da' problemi in lui contenuti, cioè dalle cose
ragionate, non sol dal modo di ragionare. Per eh' i ragionamenti sono o
di cose che appartengono alla contempla- zione, oppur di quelle che son
convenevoli all' azione e negli uni sono i problemi intenti all' elezione
e alla fuga, negli altri quelli che riguar- dano la scienza, e là verità;
laonde alcuni dialoghi debbono esser detti civili e costumati,, altri
speculativi. E '1 soggetto degli uni e degli altri; o sarà la quistione
infinita, come se la virtù si possa insegnare; o la finita che debba far
Socrate condannato alla morte. E perciocché gran parte de' platonici
dialoghi sono speculativi e quasi in tutti la quistione è infinita, non
pare che lor si convenga la scena in modo alcuno, né meno agli altri che
son de' costumi, perchè son pieni d' altissime spe- culazioni. Anzi
piuttosto non si conviene ad alcun dialogo, se non forse per rispetto
dell'elocuzione, la quale alcuna volta pare istrionica, sic- come disse
il Falereo, awengachè nella scena si rappresenti l'azione o atto dal
quale son denominate le favole e le rappresentazioni dramma-* tiche. Ma
nel dialogo principalmente s' imita il ^ragionamento il qual non ha
bisogno di palco: e quantunque vi fosse recitato qualche dia- logo di
Platone, l'usanza fu ritrovata dopo lui senza necessità. Perchè se in
alcuni luoghi l'elocuzione pare accomodata all'istrione, come nell'Eri-
demo, può leggersi dallo scrittore medesimo, ed aiutarsi colla pronuncia.
Né egli conviene ancora il verso, come hanno detto, mala prosa ;
perciocché la prosa è parlar conveniente allo speculativo e all' uomo
civile, il qual ragioni degli uffici e delle virtù. E i sillogismi, e
l'induzioni, e gli entimemi e gli esempi non potrebbono esser
convenevolmente fatti in versi. E se leggiamo alcun dialogo in versi,
come è l'amicizia bandita di Ciro predentissimo, non stimeremo lodevole
per questa cagione, ma per al* tra: e diremo, che il dialogo- sia
imitazione di ragionamento scritto in prosa senza rappresentazione per
giovamento degli uomini civili e spe- culativi : e ne porremo due specie,
1' una contemplativa, e Y altra co- stumata : e 1 soggetto nella prima
specie sarà la quistione infinita o la finita : e quale è la invola nel
poema, tale è nel dialogo la qui- stione : e dico la sua forma, e quasi Y
anima. Però se una è la favola, uno dovrebbe essere il soggetto, del
quale si propongono i problemi. E nel dialogo sono oltre di ciò T altre
parti, cioè la sentenza^ e '1 costume,* e Y elocuzione ; ma trattiamo
prima della prima. Dico adunque, che la quistione si forma della dimanda
e della risposta; e perchè 1 dimandare s'appartiene particolarmente
al dialettico, par, che lo scrivere il dialogo sia impresa di lui : ma '1
dia- lettico non dee richieder più cose d' uno, oppur una cosa di molti
; perchè se altri rispondesse non sarebbe una V affermitene o la
ne- gazione: e non chiamo una cosa quella, ch'ha un nome solo se
non si fa una cosa di quelle: come l'uomo è animai con dne piedi e
mansueto : ma di tutte questo si fa una sola cosa ; ma dell' esser bianco e
dell'essere uomo e del camminare, come dice Ari- stotile, non se ne fa
uno; però s' alcuno affermasse qualche cosa, non sarebbe, una
affermazione ; ma una voce, e molte l' affermazio- ni. Se dunque
l'interrogazione dialettica ò una dimanda della ri- sposta, ovvero della
proposizione, ovvero dell'altra parto della con- tradizione: e la
proposizione è una parte della contradizione, a que- ste cose non sarà
una risposta, né una dimanda. Ma se al dimostrativo non s' appartiene il
dimandare, a lui non converrà di scriver dialo- go. E par, che Aristotile
assai chiaramente faccia questa differenza nel primo delle prime
risoluzioni fra la proposizkm dimostrativa e la dialettica, dicendo, che
la dimostrativa prende l'altra parte della contradizione; perciocché 'colui,
il qual dimostra, non dimanda, ma piglia ; ma la dialettica è dimanda
della contradlzione. Nondimeno nel primo delle posteriori egli dice, che
s' è il medesimo l' interro- gazione sillogistica e la proposizione : e
le proposizioni si fanno in cia- scuna scienza, ancora si posson fare le
dimando. Laonde io raccolgo, che si posson fare i dialoghi
nell'aritmetica, nella geometria, nella musica e nell' astronomia e nella
morale e nella naturale e netta divina filosofia, e in tutte F arti e in
tutte le scienze si posson fu le richieste e conseguentemente i dialoghi.
E se oggi fossero in looe dell'arte del dialogo i dialoghi scritti da
Aristotile, non ce ne sarebbe perawentura dubbio alcuno. Ma leggendo quei
di Platone, i quali son pieni di proposizioni appartenenti a tutte le scienze,
potremo chiaramente conoscere lMstcsso. Nondimeno siccome il dimandare è
proprio al dialettico, così a lui si conviene il dialogo più; che a tutti
gl’altri. Laonde Aristotele nel capitolo seguente pare, che faccia
differenza fra le matematiche e ì dialoghi, dicendo, che se fosse impossibile
mostrar dal falso il vero, sarebbe
facile il risolvere, perchè, si convertirebbono di necessità. Ma si
convertono più quelle, che son nelle matematiche, perchè non ricevono alcuno
accidente, e in ciò son differenti da quelle, che son ne’ dialoghi. E dialoghi
chiama i parlari dialettici, i quali son composti della dimanda e della
risposta. Al dialetttico dunque converrà principalmente di scrivere il dialogo,
o a colui, che vuol rassomigliarsi. E'1 dialogo sarà imitazione d' una disputa
dialettica. Va perchè quattro sono i generi delle dispute, il dottrinale,
il dialettico, il tentativo e il contenzioso, l'altre dispute ancora si
possono imitare ne' dialoghi. E forse in quelli d'Aristotele sono tutte IV.
Ma in quelli di Platone si troverebbono similmente, perchè Socrate per via d'
ammaestramento e d'esortazione parla con Alcibiade, con Fedro e con
Fedone, e come dialettico disputa con Zenone, e con Parmenide;. e come
tale riprova Ippia, GORGIA, Trasimaco e gli altri sofisti e talora gli
tenta. Ma i sofisti son contenutosi, e vaghi di gloria, come appare nell'
Eutiemo, detto altramente il Litigioso. Nondimeno questi IV generi non
sono così partitamente distinti dagl’interpreti di Platone i quali
pongono tre mdftUre di dialoghi; l'una, nella quale Socrate esorta i
giovanetti; nell’altra riprova i sofisti; la terza è mescolata dell' una
e dell' altra, la qual senza dubbio è più soave per la mescolanza.
Ma chi volesse scriver dialoghi secondo la dottrina ó? Aristotele e
arricchir di questo ornamento le scuole peripatetiche, potrebbe scriverli
in tutte IV le maniere. Ma principalmente son lodevoli le due prime: la
dottrinale e la dialettica, l'artificio della quale consiste
principalmente nella dimanda usata con mollo artificio di Socrate ne’ libri
di Platone, come appare nel primo dialogo nel quale Socrate richiede ad
Ipparco quel, che sia la cupidigia del guadagno; e in tutti gli altri
simiglianlt, non eccettuando quelli, ne’ quali sotto la persona di forestiero
ateniese dà le nuove leggi d’una città: e 'n quelli di Senofonte ancora
con arte molto simile Socrate chiede a Critobulo se l'economia è
nome di scienza, come la medicina e l'architettura. E nel Tirreno
Simonide a Jerone, che differenza aia fra la vita reale e la privata: e
dalla risposta, eh' è fatta, prendono occasione d'insegnare. Ma da questo
artificio si dipartì M. Tullio, Il quale nelle partizioni oratorie pone
la dimanda in bocca, non di quel, eh' insegna, ma di colui, ch'impara.
Ed. egli medesimo ci dimostra la diversità fra i ROMANI in quelle parole
di CICERONE: figlinolo, tuo) dunque eh' io ti dimandi scambievolmente IN
LINGUA LATINA di quelle cose medesime, delle quali tu mi suoli
addomandare nella Greca ordinatamente? Laonde pare, che la dimanda, fatta dal
discepolo, 6ia derivata da CICERONE, e l' artificio sia proprio de’ROMANI,
il quale s’usò dal Possevino e da altri nella dottrina peripatetica,
perchè forse è più facile. Ma è non così lodevole, né fu, eh' io mi
ricordi, usata dagl’antichi. E per questa ragione M. Tullio nelle
Quistioni Tuscalane più s' avvicina all' arte de’ Greci ; perciocch' egli
comandava, che alcun de' suoi famigliari ponesse quello, che gli pareva,
ed egli contraddiceva alla conclusione in questo modo. Auditore. La
morte mi pare esser male. M. A quelli che son morti o a quelli eh' han da
morire P La quale è vecchia e Socratica ragione di disputar contra l'
altrui opinione. Tuttavolta il por la conclusione ha dello scolastico: e però dice
d'aver poste ne' V libri le scuole de' V giorni. Tanto potè l' amor della
filosofia in un vecchio senator romano, padre della patria, il qual
quistiona secondo il costume de' Greci forse per ingannar se stesso in
questo modo e consolarsi nella servitù. Ma non si dimenticò ne’ libri dell'
oratore di quel, eh' era convenevole a' romani Senatori; laonde CRASSO e MARC’ANTONIO
in altra maniera introduce a favellare. Ma fra tutti i dialoghi Greci,
lodevorrssimi sono que' di Platone; perciocché superano gl’altri d'arte,
di SOTTILITÀ, d'acume, e d'eleganza e di varietà di concetti e
d'ornamento di parole. E pel secando luogo son quei di Senofonte; e quei di LUCIANO
nel terso. Ma CICERONE è primo fra' LATINI, il quale volle forse
assomigliarsi a Platone: nondimeno nelle quistioni, e nelle dispute alcuna
volta è più simile agli oratori, che a' dialettici. Ma nel secondo luogo non so
che se gli avvicini, o chi possa paragonare a' Greci. E NELLA NOSTRA LINGUA coloro,
che hanno scritto dialoghi, per la maggior parte hanno seguita la maniera
meno artificiosa, nella quale dimanda quegli, che vuole imparare, non quel, che
riprova. E se alcuno s'è dipartito da questo modo di scrivere, merita
lode maggiore: e tanto basti della prima parie, che è la quistione. Ma
perchè il dialogo è imitazione del ragionamento, e il dialogo dialettico
imitazione della disputa, è necessario, che i ragionanti e i disputanti abbiano
qualche opinione delle cose disputate, e qualche costume, il qual si
manifesta alcuna volta nel disputare. Da quelli derivano l'altre due
parti nel dialogo, io dico la sentenza, e il costume: e lo scrittore del
dialogo deve imitarlo non altramente, che faccia il poeta ; perchè egli è
quasi mezzo fra il poeta e ri dialettico. E niun meglio l'imita, e
meglio l'espresse di Platone, che, descrive nella persona di Socrate il
costume d'un uomo dabbene, che ammaestra la gioventù, e risveglia gli
ingegni taidl e raffrena i precipitosi, e richiama gli erranti, e riprova
la falsità de' sofisti, e confonde l'insolenza e la vanità, amator del
giusto e del vero, magnanimo, non che. mansueto nel tollerar l'ingiurie,
intrepido nella guerra, costante nella morte. Ma in quella d'Ippia, e di GORGIA
DI LEONZIO, e d'Eutidemo, e degl’altri sì fatti si descrivono gl’avari, e
ambiziosi, e amatori di gloria, i quali non hanno vera scienza d'alcuna
cosa, ma parlano per opinione. In quella di Menoue e di Grifone descrive
il buon padre e il buon amico, e in quella d'Alcibiade, di Fedro, e di Carmide
i costumi de' nobili son descritti maravigliosamente. Oltra queste parti del
dialogo ci sono le digressioni, come nel poema gli episodj : e tale è quella d'
Eaco, e di Minos, e di Radamanto nel GORGIA, e quella di Teutdemone degl’Egizi
nel Fedro, d'Ero Panfilio ne' dialoghi della Repubblica. Ma perchè abbastanza
s'è ragionato del soggetto del dialogo, e della sentenza, e de' costumi
di coloro, che sono introdotti a favellare; resta, che parliamo
dell'ultima parte, la quale è l'elocuzione: e se crediamo ad Artemone,
che ricopiò l'epistole d'Aristotele, bisogna scriver col medesimo stilo
il dialogo e l'epìstola, perchè il dialogo è quasi una sua parte. Ma
Demetrio Falereo dice, che il dialogo è imitazione del ragionare
all'improvviso. Ma l'epistola si scrive, e si manda in dono in qualche
modo. Però dee esser fatta e polita con maggiore studio. Tultavolta nò
Platone, ne M. Tullio pare, che sempre avessero questa considerazione. Perchè
ne' dialoghi l'elocuzione dell'uno e dell'altro non è meno ornata, che quella
dell'epistole: e in tutti gli altr’ornamenti i dialoghi paiono superiori. E ciò
non par fatto senza molta ragione. Conciossiacosaché i dialoghi di
Platone e di M. Tullio sono imitazione de' migliori, e nell'imitazioni sì
fatte, le persone e le cose imitate debbono piuttosto accrescere che diminuire,
come ci insegna Demetrio medesimo, il qual vuole, che la magnificenza sia nelle
cose, se il parlare è del cielo o della terra. Oltre di ciò laddov/egli
parla od periodo ne fa tre generi : il primo isterico, il secondo
dialogico» il teno oratorio: e vuole, che ristorico sia nel meno dell'uno
e dell'altro, non molto ritondo, né molto rimesso: ma la forma
dell'oratorio sia contorta e circolare: e quella del dialogico più
semplice dell'istoria) in guisa che appena dimostri d' esser periodo. I
quali ammaestramenti sono stati meglio osservati da' Greci, che, da M.
Tullio, che imitò Platone solamente; perchè egli così nel periodo, come in
tiascun'-altra parte, ricercò la grandezza più dr Senofonte e degli
altri. Laonde usa le metafore pericolosamente in luogo delle Immagini,
che sono osate da Senofonte: e somiglia colui, 11 quale cammina in luogo,
dove è peri- colo di Bdrucciolare, compiacendo a se medesimo, e avendo
molto ar- dire, siccome è proprio delle nature sublimi ; talché fu detto
di lai, ch'egli molto s'innalzava sovra il parlar pedestre: e che il suo
par- lare non era in tutto, simile al verso, né in tutto simile alla
prosa : e ch'egli usava l'ingegno non altramente, che i re facciano la
podestà: e insomma niun ornamento di parole, niun color rettorico, ninn
lume d'orazione par, che sia rifiutato da Platone. Ma s’in alcuna parte
del dialogo dobbiamo aver risguardo agli avvertimenti di Demetrio, è
in quella, nella qual si disputa, perchè in lei si conviene la purità, e
la simplicità dell'elocuzione, e '1 soverchio ornamento par che
impedisca gli argomenti, e che rintuzzi, per così dire, l'acume, e la
sottilità. Ma l' altre parti debbono essere ornate con maggior diligenza :
e dovendo lo scrittore del dialogo assomigliare i poeti nell'espressione,
e nel per le cose innanzi agli occhi, Platone meglio di ciascuno ce le fa
quasi vedere, il qual nel Protagora parlando d'Ippocrate, che s' era
arrossito, essendo ancora di notte, soggiunge: Già appariva la luce, onde
il color pareva esser veduto e la chiarezza, die evidenza è chiamata dai
La- tini, nasce dalla cura usata nel parlare, essersi ricordato, che
Ippo- crate era da lui veduto di notte. E nel medesimo dialogo
leggiamo con maraviglioso diletto, che l'eunuco portinaio, perchè i
sofisti gli erano venuti a noia, serra con ambe le mani la porta a
Socrate e al com- pagno : e appena l' apre, udendo, che non erano di
loro. E ci piace il passeggiar di Protagora e degli altri, che
passeggiando con tanto or- dine ascoltavano il ragionare : e ci par
vedere lppia seder nel trono, e Prodico giacere avviluppato. E con piacer
incredibile leggiamo simil- mente che due giovanetti appoggiati sovra il
gomito descrivessero ccr-3!i, e altre inclinazioni della sfera : e che Socrate
pur col gomito, di- mandasse, di chi ragionavano. Né con minor
espressione ci pone in- nanzi agli occhi Garmide e gli amici : e quasi
veggiamo gli estremi, che sedevano da questa parte e da quella, l'uno
cadere e l'altro es- ser costretto a levarsi. Ma sopra tutte le cose
c'empie di compassione e di maraviglia il venir di Garmide alla prigione
innanzi al giorno, e l'aspettar, che si destasse Socrate, condannato alla
morte: e poi, che il medesimo raccolga la gamba, la quale era stata
legata, e grattandosi discorra del dolore e del piacere, l'estremità de' quali
son con- giunte insieme : e distendendosi, e postosi a sedere sovra la
lettiera dia principio a maggiore e più alta contemplazione. E nel
medesimo dialogo tempera il dolore, quando scherza colle belle chiome di
Fedone, le quali dovevano il giorno tagliarsi : e nella descrizione
parimente è maravi- glioso. E se leggiamo i ragionamenti di Socrate sotto
il platano, e quelli del forestiero ateniese all'ombra degli alberi
frondosi, mentre col La- cedemonio e col Gandiano vanno all'antro di
Giove, ci par di vedere, e ascoltare quello, che leggiamo. Queste son le
perfezioni di Platone, veramente maravigliose: le quali, sebben saranno
considerate, non ci rimarrà dubbio alcuno, che lo scrittore del dialogo
non sia imitatore, o quasi mezzo fra il poeta e il dialettico. Àbbiam
dunque, che IL DIALOGO sia imitazione di ragionamento, fatto in prosa per
giovamento de- gli uomini civili e speculativi, per la qual cagione egli
non ha bisogno di scena o di palco : e che due sian le specie, l' una nel
soggetto della quale sono i problemi, che risguardano l'elezione e la
fuga: l'altra speculativa, la qual prende per subietto quistione, jche
appartiene alla verità e alla scienza; e nell'una e nell'altra non imita
splamente la disputa, ma il costume di coloro, che disputano, con
elocuzioni in alcune parti piene di ornamento, in altre di purità, come par,
che si convenga alla materia. Tasso. Tasso. Cornello. Keywords: l’arte del
dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tasso”, “Grice e Cornello” – The
Swimming-Pool Library. Cornello.
Grice e Cornificio: la ragoone
conversazionae e la vera etimologia -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza. (Roma). Filosofo
italiano. Autore di un’opera etimologica in tre libri, composta fra il tempo di
Cicerone e Ottaviano. Das Werk des C. Longus de etymis deorum. a) Prise. GLK, C. in 1 de etymis
deorum. Macr. C. etymorum libro tertio. Cornificius in etymis: vgl. noch wo
Anschlufs an die stoische Philosophie (vgl. W. A. Baehrens, Hermes; K.
Reinhardt, Kosmos und Sympathie, München); Arnob., Festus, M. bemerkt bezüglich
der Etymologie von Minerva: C. vero, quod fingatur pingaturque minitans armis,
eandem dictam putat. (nare); (nuptiae); (oscillare); (Rediculus; s. Ed. Meyer,
Herm. (lalassus). Der bloße Name
Cornificius ohne Glosse erscheint. Das diese Glossen aus dem Werk „de etymis
deorum" geflossen sind, vermuten R. Merkel. Ovids Fasten, Berlin.; Th. Bergk, Kl. phil. Schr.
Willers, De Verrio Flacco glossarum interprete disput. crit., Halle. C. hat
dann auch andere als Götteretymologien behandelt, vermutlich wenn er von
Kultusgebräuchen und Kultus-einrichtungen sprach. Wahrscheinlich dürfen wir den
gleichen Schriftsteller finden auch in dem C. Longus bei Serv. Aen., wo es sich
ebenfalls um Etymologien handelt: invenitur tamen apud C. Longum lapydem et
Icadium profectos a Creta in diversas regiones venisse, lapydem ad Italiam,
Icadium vero duce delphino ad montem Parnasum et a duce Delphos cognominasse et
in memoriam gentis, ex qua profectus erat, subiacentes campos Crisaeos vel
Cretaeos appellasse et aras constituisse.
Dieser kann dann aber nicht
identisch sein mit dem Dichter und Feldherrn C. (Bergk.), der nie den Beinamen Longus trug,
den außerdem die Zeitverhältnisse unmöglich machen. Denn der Verfasser der
etymo'ogischen Schrift zitiert nach Macr.das Werk Ciceros de natura deorum, das
im J. 44 erschien, so das sie in den folgenden drei Jahren von dem stark
beschäftigten Statthalter Afrikas hätte geschrieben sein müssen. Benutzt hat
dann Verrius die Abhandlung 'de etymis deorum'. — J. Becker, C.Longus und C.
Gallus, Ztschr. für die Altertumsw. Wissowa, Realenz.; Funaioli 473. A stoic
wrote a book on etymology. Cornificio
Lungo. Cornificio.
Grice
e Cornuto: la ragione conversazionale a Roma antica -- filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). A slave in Rome, he became one of the city’s leading
intellectuals. A member of the porch. The name Anneo points to a connection of
some kind with the family of Seneca. He taught rhetoric and philosophy, his
pupils including Agathino, Petronio Aristocrate, Lucano, and Persio. In his
will, Persio left C. his books, which he accepted, and his money, which he
rejected. He was sent into exile by Nerone. He wrote an influential commentary
on Aristotle’s Categories. He argues that the categories reflect divisions
within language, rather than within reality. In a different essay, the
Epidrome, he surveys the myths and by means of linguistic analysis and
allegorical interpretation he seeks to extract what he considers to be their
true meaning. Lucio
Anneo Cornuto Cornuto. Cornuto.
Grice e Corrado: la ragione
conversazionale e la dieta di Crotone e
la semiotica magica– scuola d’Oria – filosofia brindisese – filosofia pugliese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Oria). Filosofo
brindisese. Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Oria, Brindisi, Puglia. Grice:
“I like Corrado; of course we have the beefsteak, the English do; but Corrado
philosophised on the near ‘cibo pitagorico’ a Crotone and produced a
philosophical cookbook for the noblemen!” --
Uomo di grande cultura, fu soprattutto grande gastronomo e uno dei
maggiori cuochi che si distinsero tra il '700 e l'800 nelle corti nobiliari di
Napoli, simbolo del suo tempo nella variegata realtà partenopea. E il primo
cuoco che mette per iscritto la "cucina mediterranea", il primo, a
valorizzare la grande cucina regionale italiana. Scrisse “Il cuoco
galante”, definito all'epoca un libro di alta cucina, testo richiesto in tutto
il mondo dalle principali autorità dell'epoca, e ristampato per ordini del
principe per ben 6 volte. Preparava elegantissimi banchetti in principio
alla corte di Don Michele Imperiali Principe di Francavilla presso il palazzo
Cellamare di Napoli, dove coordinava un piccolo esercito di maggiordomi,
domestici, volanti e paggi e preparava i pranzi o le cene con particolare
assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari
accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia
sontuosa e raffinata. Figlio di Domenico e di Maddalena Carbone. Rimasto
orfano per la morte del padre, ancora adolescente, divenne paggio alla corte di
Michele Imperiali che era Principe di Modena e Francavilla Fontana, Marchese di
Oria e Gentiluomo di camera di S.M. il Re delle due Sicilie, che lo condusse a
Napoli dove risedette per diversi anni. Appena maggiorenne, entrò a far parte
della Congregazione dei Padri Celestini nel convento di Oria. Dopo l'anno
di noviziato, fu chiamato dal Superiore Generale De Leo nella residenza
napoletana di San Piero in Maiella, dove si specializzò negli studi di filosofia.
Dallo stesso padre generale fu avviato, anche, allo studio delle scienze
naturali e dell'arte culinaria, per la quale divenne famoso. Non diventò mai
sacerdote per cui, dopo la soppressione degli ordini religiosi si stabilì a
Napoli, ove risedette per oltre cinquant'anni, insegnando la lingua francese ai
figli delle famiglie aristocratiche della città, pubblicando contemporaneamente
molte sue opere che gli diedero successo e notorietà. Per i molti impegni che
ebbe a Napoli, non tornò più ad Oria, anche se non mancarono momenti di
nostalgia per la lontananza dalla sua famiglia e dalla sua città natale.
Il Principe di Francavilla gli attribuì la mansione di Capo dei Servizi di
Bocca -- antica mansione con cui veniva chiamato colui che era preposto a
sovrintendere alla cucina, alla preparazione delle vivande e all'organizzazione
dei banchett -- di Palazzo Cellamare,
sito sulla collina delle Mortelle prospiciente il golfo di Napoli e della
famiglia del Principe, poiché molti illustri personaggi di un certo livello e
rango, che venivano a Napoli, invitati a mensa poterono constatare la fama di
questa opulenta ospitalità più spagnolesca e tipicamente partenopea che era in
uso al tempo. Parlando del suo lavoro Vincenzo Corrado così si
esprimeva: «L'abbondanza, la varietà, la delicatezza delle vivande, la
splendidezza e la sontuosiotà delle tavole richiedevano una schiera di uomini
d'arte, saggi e probi. Questa mastodontica organizzazione, era guidata proprio
da lui. Alle sue dipendenze lavoravano un maestro di casa, un maestro di cucina
ed un maestro di scalco che aveva il compito di acquistare, di cucinare, di
dissodare e di trinciare ogni tipo di animale, mentre una schiera di cuochi,
rispettando la gerarchia allora in uso, lavorava secondo la propria
specializzazione (oggi le grandi cucine dei Ristoranti hanno i cuochi di rango):
vi era il cuoco friggitorie, quello per le insalate, il pasticciere, il
bottigliere e il ripostiere. Tutti questi erano aiutati da una serie di
sguatteri e di serventi che avevano il compito di girare intorno al tavolo per
esibire lo spettacolo fantasioso delle portate prima ancora di servirle. Tutta
questa organizzazione era coadiuvata da un piccolo esercito di maggiordomi,
domestici, volanti e paggi che interveniva non appena il servizio di cucina
consegnava le varie portate artisticamente decorate. Vincenzo Corrado, a
seconda degli ospiti del Principe preparava i pranzi o le cene con particolare
assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari
accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia
sontuosa e raffinata. Egli stesso ci descrive queste splendide composizioni con
pregevole gusto e raffinatezza, lasciando, anche, delle visioni grafiche. Gli
elementi decorativi della tavola erano affidati al maestro ripostiere che usava
gusto artistico e genialità: grandi vasi in porcellana ricolmi di fiori
variopinti, alzate di cristallo e argento a tre o quattro piani colmi di
dessert o frutta o fiori o ortaggi, bianchi gruppi di porcellana raffiguranti
scene arcadiche o bucoliche; puttini d'argento; gabbiette dorate con piccoli
uccellini cinguettanti; coppe di cristallo di varie fogge in cui guizzavano
pesciolini tra foglie di rose ed altri fiori. Il centro veniva racchiuso da una
cornice di frutta, di fiori freschi e di ortaggi, secondo la stagione variante,
disposti, intervallati da piccole spalliere di agrumi in porcellana con
ortolani nell'atto di raccoglierli. La composizione era la sintesi di un
artista di provata esperienza, di raffinata fantasia e di vivace estro, capace
di accoppiare tanti svariati elementi fondendoli insieme a formare uno
spettacolo di gran gusto e di particolare gradevolezza. Il valore del tavolo di
gala completato dal vasellame, cristalleria e argenteria di grande pregio era
inestimabile. Questo senso artistico, anche, nell'arte culinaria C. lo
aveva ereditato da un suo antenato letterato di mestiere. Ma per quanto dotato
di una cultura autodidatta, di vivacità d'ingegno, di originalità e di una
particolare facilità nell'insegnamento, se non avesse avuto la fortuna di
conoscere Don Michele Imperiali, che ne coltivò le particolari doti
incoraggiandolo a scrivere della sua specifica arte per tramandarla ai posteri,
probabilmente sarebbe rimasto un ottimo organizzatore, un appassionato gastronomo,
ma la sua fama si sarebbe estinta con lui. Le opere “Il cuoco galante’. Il
primo libro vegetariano della nostra storia. il credenziere: colui che si
prendeva cura della credenza. L'opera fu sottoposta a ben 7 ristampe. Prodotta
in 7500 copie, Dalla dedica si ricava il leitmotiv dello scritto nonché la
filosofia in cui credeva l'autore, che è di questo tenore: il “buon gusto nella
tavola” inteso come “sano pensare”. Di questo trattato di gastronomia, il
successo fu istantaneo e inaspettato, in quanto la precedente opera
gastronomica, La lucerna dei cortigiani, stampata presso Napoli e dedicata a
Ferdinando II duca di Toscana, non era riuscita ad attirare l'interesse del
pubblico che la trascurò ignorandola. Invece grande successo ottenne la
prima edizione del "Cuoco Galante" che si esaurì rapidamente, tanto
che il Principe ne ordinò una seconda edizione che ebbe eguale successo.
Intanto Vincenzo Corrado migliorò e ampliò il testo di questa opera e ne
preparò una terza edizione. La fama del libro superò i confini del Regno
di Napoli e dell'Italia; infatti dall'estero giunsero richieste da tutti quegli
stranieri che avevano conosciuto ed apprezzato il Corrado alla corte degli
Imperiali, per cui si pervenne ad una quarta edizione, seguita dalla quinta e
infine la sesta pubblicata. Assolute novità introdotte dall'autore erano allora
la patata, il pomodoro, il caffè e la cioccolata. Altre saggi:
Incoraggiato dal successo del Cuoco Galante, il Principe spinse l'autore a
pubblicare nel un Credenziere del buon gusto, del bello, del soave e del
dilettevole per soddisfare gli uomini di sapere e di gusto. Egli scrive e
pubblica inoltre “Il cibo Pitagorico”, “Trattato sulle patate”, “Manovre del
cioccolato” e “Manovra del caffè”; “Trattato sull'agricoltura e la pastorizia
ed infine, “Poesie baccanali per commensali”. -- è il faro della cucina moderna
della nobiltà a cavallo del periodo della rivoluzione francese. Egli privilegia
i personaggi di rango in visita alla mensa del principe con opulenta
ospitalità. Orbene in questo contesto di sfarzo godereccio, di lusso e di differenze
sociali abissali, rimase fin abbagliato dalla nobiltà, la gente ricca e
potente, verso la quale nutre sempre sentimenti di grande reverenza se non
addirittura di venerazione. Proprio per riconoscenza al Principe, dando alle
stampe i suoi due libri, confessa. “Questi due libri che del buon gusto
trattano, con la guida e norma scrissi, e pur mercé la tua generosità mandai
alle stampe, e tu di propria mano ne *segnasti* il titolo “Il Cuoco Galante” --
l'uno e “Il credenziere del buon gusto” l'altro, tutti e due a te li porgo come
frutto di un albero dalla mano piantato. Mio Scopo egli è di richiamare alla
memoria dei nobili uomini dei quali tu fosti la gloria l'ornamento alla memoria
e la lode. Ah? Ma qual Tu fosti non basterebbe di dire di cento e mille lingue,
per cui io stimo meglio il tacere e con il silenzio benedire gli anni che ti fu
appresso. L'organizzazione dei magnifici
banchetti e delle cene lussuose gli diedero l'appellativo di “il cuoco
galante”. La cosa straordinaria è che dietro gli scenari di un favoloso pranzo
o cena vi era una preparazione, quasi orchestrale della quale il direttore era
il filosofo. Alle sue dipendenze vi era una vera e propria squadra di addetti
alle cucine formata da precettori cuochi e servienti. La presentazione
estetica, oltre al gusto, acquista la sua importanza in cucina, ed dedica
grande spazio alle decorazioni e al modo di imbandire le tavole dei banchetti.
Nell'opera sono anche presentati i sorbetti, in vari gusti, ed il caffè, che, a
differenza dall'attuale espresso, veniva bollito in apposite caffettiere.
Precettori un precettore di alloggio e sistemazione posti per gli invitati, un
precettore di preparazione dei cibi, un precettore abile con utensili
domestici, che aveva la mansione di far provviste e comperare il necessario al
mercato per le mense, di dissodare e di affettare ogni tipo di carne o pesce.
Chef e Cuochi “Il cuoco friggitore”, il cuoco per le insalate, il pasticciere,
il bottigliere, il ripostiere. Serventi lavapiatti,
camerieri, maggiordomi, domestici, volteggianti e giullari che
intervenivano non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate
artisticamente decorate. Non era solo una semplice cena, era un vero e
proprio spettacolo, fuori dall'immaginato. A volte comprendeva l'utilizzo di
100 persone per altrettanti o più invitati. I banchetti o le cene con
caratteristiche e assortimenti di piatti erano accoppiate con tanta inventiva e
particolari astuzie architettoniche ed eleganti al fine di plasmare una
scenografia sfarzosa e affinata. Egli stesso nelle sue opere e nei suoi
diari ci descrive queste splendide composizioni culinarie come opere d'arte,
quasi uno spreco consumarle. Bicchieri e coppe di cristallo, posate in argento
intagliate, tovaglie di pizzo fiorentino, buche e composizioni floreali, piatti
in porcellana di Capodimonte. Termini culinari "Il Cuoco Galante",
proprio nella terza edizione, alfine di una maggiore comprensione, spiega
alcuni termini "cucinarj" usati per la preparazione delle varie
pietanze, ne riportiamo un esempio: Bianchire: Far per poco bollire in
acqua quel che si vuole; Passare: Far soffriggere cosa in qualsiasi grasso;
Barda: Fetta di lardo; Inviluppare: Involgere cosa in quel che si dirà;
Arrossare: Ungere con uova sbattute cosa; Stagionare: Far ben soffrigere le
carni o altro; Piccare: Trapassar esteriormente con fini lardelli carne; Farsa:
Pastume di carne, uova, grasso ecc.; Farcire: Riempire cosa con la sarsa;
Adobare: Condire con sughi acidi, erbette, ed aromi; Bucché: Mazzetto d'erbe
aromatiche che si fa bollire nelle vivande; Salza: Brodo alterato con aromi,
con erbe, o con sughi acidi; Colì: Denso brodo estratto dalla sostanza delle
carni; Purè: Condimento che si estrae dai legumi, o d'altro; Sapore: La polpa
della frutta condita, e ridotta in un denso liquido; Entrées: Vivande di primo
servizio; Hors-dœuvres: Vivande di tramezzo a quelle di primo servizio;
Entremets: Vivande di secondo servizio; Rilevé: Vivande di muta alle zuppe, potaggi,
o d'altro. Pitagora nell’atto, che dalla
cattedra nella nostra italica scuola dettava sistemi, che riguardavano quanto
mai fosse fuori di esso lui, e di noi per pascere l’animo e l'intelletto, non
trascure di sistemare peranche ciò che meglio, e piu opportunamente al
nutrimento ed alla conservazione del meccanico nostro vivere conducesse. E però
dettando il canone o la legge, come dir si voglia, per la cucina delli suoi
mentati, non di *carni* di animali ei ditte quadrupedi, o volatili, o di pelei
imbandite vengano le mente di quanti han voglia di più lungamente, e più
lanamente vivere, ma soltanto di vegetabili erbe, di radici, di foglie, di
fiori. Ebbe cotesso filosofante la somma disgrazia di non essere da ogni
filosofo inteso, come sovente la savia donna stobeo sua moglie e espose li g
luf'J\ l&- r menti: e com’egli la tras-migrazione dell’anime avesse
ingegnata, così dalli silenziari scolari suoi, e da parecchi altri prevenuti da
quel di lui fatto sistema si divieta del cibo animalesco, e la preferizione del
solo cibo erbaceo furon pref nel sinistro senso di una supertiziosa venerazione,
cK egli aveffe per l’animale, nella macchina del quale l’anima dell’uomo dopo
la morte fojfcro tras-migrate. Ma ’ che chefané di ciò, egli è indubitata cosa,
che il cibo erbaceo fallo più confacenti all’verno, per cui vedef la più parte
dei Naturalifi a quella opinione indicimata, che l'uomo naturalmente non è
carnivoro. E se noi ponghiamo mente al parlare dell’antica filosofia, rilevaremo
con tutta chiarezza che le frutta della terra defluiate vennero al nutrimento
dell'uomo, e che sopra del pesce, dell’animale terrestre, e del volatile n eh
he lo fie[fio uomo soltanto il domini; Jlcchè l efifierfii poi dati alcuni
uomini ad alimentarsi di animali j'offe fiata una necessità di alcuni luoghi,
oppure un lusso! Non senza ragione quindi la italiana gente, ansi avvedutamente
oggi più che in altro tempo la legge pitagorica ha ripigliata ad oficrvare con
tutto impegno nella cucina del filosofo galante, e nelle mensa: e le nazioni
anche più culte, che da Italia sono lontane, han preso il gufo di dare al corpo
nutrimento più sano, gusiosso, e facile per mezzo dell’erba. Ed ecco perciò
tutta la scuola cucinaria pofia in movimento per inventar un nuovo modo a poter
preparare e condire l’erba per mezzo di altri fingili vegetabili, onde non
solamente grato al palato si renda il semplice pitagorico cibo, ma eziandio
pofia sioddisfarsii al lusso nell' imbandire laute Menfie da filmili
siempìicità compofie. E quesio è il fine della mia filosofia, difiefio, ed a
comune uso e utilità. Vero egli è, che non tutti li vegetabili dei quali ferie
preferìve qui la preparazione filano li più perfetti, e giovevoli ai nutrimento
nostro. Ma ciò ha dovuto farsi per accomodarsì af gufo comune, ed alla moda
presiente della tavola fu,di che qualunque Aristarco non avrà che opporre.
Nella mia filosofia volendosi imitare la filmile semplicittà della materia del
soggetto, con sempiice e chiaro discorso si da la pratica come ogni erba
italiana dando il suo proporzionato condimento con fughi di carne, con latte
Animali, e di fórni, con butirro, con olio, con uova, e con altr’erbe odorifere
e gusiofe debano preparar f. E intanto per a et tare, ad ogni articolo alcuna
cosa verrà premefi, che rifguarda la natura, e le virtù del vegetabile di cui
fe ne voglidn preparare la vivanda. E già qui fiegue in prima, la maniera di
far i brodi, i coli e le buri neceJTarj
pel condimento: ed in secondo luogo h nòta del vegetabile del quale nella mia
filosofia fe ne preferivo il modo di prepararli: avendo io in ciò fare
procurato di mettere in J'alvo anche il Injjo nell' imbandire con simili generi
una mensa di formalità e gala, e nel tempo Jìeffo di soddisfare il gusto
delicato dei nobili, e di provvedere alla conservazione dell’utterato. INDICE:
Velli Brodi, Coli, e Purè p. I Velli Coli a Velie Purè i tutta la c minarla
prepa- ragione de’ vegetabili, Lattuca, Spinaci, Cavolo Cappuccio, Selleri,
Zucca, Zucca lunga ia Delle Zucche Vernine ivi Cavai fiore Finocchi Iudivia
Cardoni Cavoli Torgi Carciofi Broccoli Boraggine Senape Cipolle ivi Rape
Ravanelli CicoriaPetronciane Pafiinacbe Pomidoro Cedriuoli Peparoli Pifelli
Sparaci Raperortzpli Velli Ceci Fave Faggioli 3^ De//** I-enfe 39 Funghi
Tartufi Erba per condiment, Maggiorana, Targone, Pimpinella, Santa Maria
Crefcione Origano Timo Acetofa Salvia Menta Cerfoglio Porcellana Bafiltco Ruta
Sambuco Rosmarino Tralci Vite Zafferano Anafi Cappari Scalogne Dettagli Rafano
o Ramolaccio Bettonica Idea dell'ufo delle frutta ivi. Grice: “My favourite chapter from ‘Il cuoco galante’ is the
philosophical one, on Pythagoras! I vitto pitagorico consiste l’erba fresca,
la radice, il fiore, la frutta, il seme, e tutto cid che dalla terra produce
per nostro nutrimento. Vien detto pittagorico poiche Pitagora, com’ è
tradizione, di questi prodotti della terra soltanto fece uso. Pitagora mangia
l’erba semplice e naturale, ma gli uomini de’ nostri di li vogliono conditi, e
manovrari; ed io nel voler conversare con distinzione dell’erba procuro
eseguire l’uno, e soddisfare l’altro, con escludere le carni, e di servirmi del
condimento, anche pitagorico, com'è il ſugo di carne, il lasase, le uova,
l’olio, ed il burirro per compiacere qualche particolar palato, servirmi pure
delle parti più delicate degli animali. Molte fonti filosofica
suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la semiotica e la
filosofia: entrambe le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo e sono
a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio: "In
verità, Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la
divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due
pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite
come originariamente collegate. E un effettivo stretto collegamento esse lo
trovano nella figura antichissima dello iatromantis, il
filosofo-cum-medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la
capacità di curare le malattie. L'appellativo del filosofo come iatromantis è
riferito in prima istanza allo stesso dio Apollo; ma passa poi a una serie di
filosofi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e
della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento
fondamentale che caratterizza la figura dell filosofo iatromantis è la sua
capacità di usare una procedura diagnostica: trattandosi di un veggente, egli
è in grado di individuare la causa nascosta (il segnato) di una malattia (il
segnante), causa che è da attribuirsi sempre a un intervento sopra-naturale.
In epoca antichissima, la malattia è concepita infatti come miasma, come
contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità divina o demonica. Si
tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in
una religione italica pre-olimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata;
Detienne; Dodds; Lloyd; Parker. Un'ampia panoramica sul movimento magico e
catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde. Per questa ragione, c'è
bisogno di un filosofo-cum-medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli
rendono accessibile il mondo delle forze oscure e sopra-naturali alle quali è
imputato il presente stato di contaminazione; in seguito alla sua diagnosi, il
filosofo-cum-iatromantis [those spots mean measles, black cloud means
rain] può indicare gli strumenti magici atti a purificare il miasma. Questa
concezione è ben iliustrata da una notizia di un filosofo della scuola
pitagorica a Crotona, Poliistore, che cita le "Memorie
pitagoriche"."L'aria, secondo i pitagorici, è piena di anime. Ed essi
le considerano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uomini
i sogni e i segni premonitori (semeia) e le malattie, e non solo agli uomini,
ma anche alle greggi e agli altri animali da pascolo. E a questi demoni ed
eroi sono dirette le cerimonie catartiche e apo-tropaiche e tutta la mantica e
i vaticini e tutto ciò che è di tal genere" (Diog. Laert., Vitae, D-K). Va
notato, di sfuggita, che il carattere italico molto arcaico della concezione
espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle
stesse vicende della comunità umana. C'è la rappresentazione di una comunità
agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile (Cfr. Deticnne.
Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una semiologia SACRA e
magica abbinata a una filosofia esoterica e medicina magica. I demoni sono la
fonte delle malattie che affliggono gli uomini. Ma, contemporaneamente, sono
anche la fonte dell'informazione che concerne il mondo in-visibile o
in-perceptibile, in-sensibile, inviando agli uomini i segni (compreso quel
particolare tipo di segno che sono i sogni) dai quali si rende riconoscibile
l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si chiude
attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i riti
catartici e apo-tropaici. In particolare, le cerimonie apo-tropaiche sono
costituite dalla recita di epoidai, cioè di formule verbali incantatorie,
ritenute idonee a scongiurare il male. Si tratta di segni linguistici che da
una parte chiudono il circuito comunicativo con il sopra-naturale, dall'altra
sono efficaci, nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo.Grice:
“Oddly, my mother was keen on Mrs. Beeton, I’m keen on Signore Corrado!”
La cucina e la credenza, ad esami parlando, son sorelle gemelle, poichè
le due appartengono al buon gusto del cibo, e le due nacquero, cresceron, e
s’ingrandirono nello stesso temp, e nella nostra Italia che in altri luoghi,
sotto i fastosi e dominanti romani, e divennero tutte e due arti d’ingegno, di
piacere, e di utile; ed il cuoco ed il credenziere debbono esser d'accordo nel
loro, quantunque dissimile, lavoro. Della estesa ed elevata cucina se n’è
discorso abbastanza. Dico abbastanza ma non già al fine; e compimento, poichè
ciò accade quando non vi saranno più uomini al mondo. Ora vengo a trattare di
quanto la credenza include, e di quanto un credenziere dee esser fornito. E se nel
dar l’istruzione per la cucina pensai e scrissi da cuoco, ura collo stesso
metodo filosofo da credenziere. Come tale intendo ragionare al dilettante.
Procuro di aggiugnere quanto di bello, di buono, e di dilettevole mi ha potuto
suggerire la fantasia. Gradisci dunque, o cortese mentato, questa mia fatica, e
sappi, ch’io resto soprabondevolmente pagato col piacere di avervi servito.
Vivi felice. Vincenzo Corrado. Corrado. Keywords: la dieta di Crotone, il cibo
pitagorico, il concetto di conversazione galante, gala --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corrado” – The
Swimming-Pool Library. Corrado.
Grice
e Corsano: la ragione conversazionale (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma. Il pensiero di Bruno nel suo
svolgimento storico; a cura di Adele Spedicati users.png Galatina, : Congedo, mas.png
Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la
disponibilità qui 2. : Il pensiero di.. users.png Galatina, : Congedo,
1999 mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac:Controlla
la disponibilità qui 6. : Umanesimo e rel... users.png Napoli, :
Guida mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla
la disponibilità qui Bayle, Leibniz e la ...CORSANO, Antonio
users.png Milano : Signorelli, mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui:
Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui De la causa,
princip...BRUNO, Giordano users.png mas.png Materiale a stampa Lo
trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui G. B. Vico /
Antoni...CORSANO, Antonio users.png Napoli, : Libreria Scientifica,
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disponibilità qui Leibniz / Anton...users.png Bari, : Laterza, mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ.
di Salerno Opac:Controlla la disponibilità qui Giambattista Vico / ... users.png
Firenze, : Sansoni, stampa 1940 mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ.
di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui tutti checked_false.png
Il pensiero educativo del Rinascimento italiano / Antonio Corsano, Maria
Ricciardi Ruocco users.png Firenze, : La Nuova Italia, 1952 mas.png
Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la
disponibilità qui Il pensiero educativ... users.png Bari : Laterza mas.png
Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ. di Salerno Opac: Controlla la
disponibilità qui Il pensiero religios...CORSANO, Antonio users.png
Galatina, : Congedo, 2002?- rgrafbi.png Grafica Lo trovi qui: Univ. di Salerno
Opac: Controlla la disponibilità qui Opere scelte / Anton...
users.png Bologna, : Cappelli- mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui:
Univ. di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Storia del problema ..
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di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui U. Grozio : l'umanis...
users.png Bari, : Laterza, mas.png Materiale a stampa Lo trovi qui: Univ.
di Salerno Opac: Controlla la disponibilità qui Umanesimo e religion...
<18... 11 - 20 di 19 risultati tro. Antonio Corsano. Corsano. Refs.: L.
Speranza, “Grice e Corsano”, The Swimming-Pool Library. Corsano.
Grice e Corsini: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia in roma antica –
scuola di Fellicarolo – filosofia modenese – filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Fellicarolo). Filosofo modenese. Filosofo
emiliano. Filosofo italiano. Fellicarolo, Modena, Emilia-Romagna. Grice: “I like Corsini; if we at Oxford had a sublime history as they do
in Italy, we surely would be philosophising about it! Corsini taught philosophy
at Pisa and spent most of his efforts in deciphering what the Romans felt
interesting about Greek philosophy!” Grice: “Corsini also explored the roots of
Roman philosophy from the earliest times – ab urbe condita,’ as the Italians
put it!” Studia
nel Collegio dei padri scolopi fananesi, dove in seguito entra quale novizio e si trasferì nel Noviziato di Firenze. Le
sue capacità lo portarono a diventare docente di filosofia a soli vent'anni presso
la stessa scuola. Si trasferì quindi a Pisa dove insegna. Eletto Superiore
Generale e dovette trasferirsi a Roma. I principali campi di studio ai
quali si applica furono: la filosofia, la cronologia, l'epigrafia, la filologia
e la numismatica ma si interessò anche di matematica, di logica, di fisica, di
idraulica, di didattica, di storia e di lettere antiche e moderne. Altre
opere: “Illustrazione relativa alle recensioni su De Minnisari e Dubia de
Minnisari pubblicate ne gli Acta Eruditorum; “Illustrazione relativa all'Epistola
ad Paulum M. Paciaudum, pubblicata negli Acta Eruditorum”; “Ragionamento
istorico sopra la Valdichiana” (Firenze); “Index notarum Graecarum quae in
aereis ac marmoreis Graecorum tabulis observantur” (Firenze); “De Minnisari
aliorumque Armeniae regum nummis et Arsacidarum epocha dissertation” (Firenze);
A. Fabbroni, Vitae Italorum..., Pisis E. de Tipaldo, Biografie degli italiani
illustri, X, Venezia); Dizionario
biografico degli italiani. Elogio di C. (con lettere di Fananese a Rondelli). Fanani
nianae, quod in ditione est oppidum Ducum provinciae Ateftinorum Fri, III. Non.
natus eft C. optimis quidem parentibus, honestissimaque familia, quippe quae
jamdiu civitate Mutinensi donata fuerat. Is ubi primum adolevit Sodalitatem
hominum Scholarum Piarum, quos praeceptores puer in patria habuerat, ingressus
est. Multa diligentia, multoque labore in humaniorum litterarum [cf. Grice,
Lit. Hum.], philosophiae ac theologiae studiis Florentiae se exercuit apud
suos; et cum omnes condiscipulos gloria anteiret, ab omnibus tamen in deliciis
habebatur. Erat enim bonitate suavitateque morum prope singulari; et cum
plurimuin faceret non solum in excolendis studiis, sed etiam in officiis
omnibus religiosi hominis obeundis, minimum tamen ipse de se loquebatur. Vix
ferre poterat Eduardus peripateticos quofadam horridos, durosque oratione et moribus,
quibuscum versari cogebatur; intelle xeratque jam falsos hujusmodi sapientiae
magistros de veritate jugulanda potius, quam de fendenda assidue certantes, philosophiam
artem fecisse subtiliter et laboriose infaniendi. Relictis igitur disputandi
spinis, ad Academiam se convertit, cujus ratio inquirendi verum libero
folutoque judicio, et fine ulla contentio ne et pertinacia non poterat non
magnope reprobari homini natura leniſſimo. Nec forum in philosophorum libris
corum dogmata, quae disputationibus huc et illuc trahuntur, ut ipse per se perpenderet,
inveſtigavit C., sed etiam philosophiae adminicula et an ſas, qualem Xenocrates
geometriam appellabat, in Euclide, Apollonio et Archimede quae sivit. Quo in itinere
felicem adeo habuit exitum, ut fervore quodam aetatis impulsus, břevi condere
potuerit libellum de circulo quadrando, quem ad Guidam Grandium mi fit. Novit
in eo Grandius eximium et admirabile adolescentis ingenium, eumdemque hortatus
est, ut pergeret porro in eo studio, quod ceteris et studiis et artibus
antecede ret, et in quo ipse futurus effet excellens. At C. praeſertim
trahebatur ad humaniores litteras, quibus a puero mirifice dedicus fuerat,
quaſque vel in sublimiorum disciplinarum occupationibus, ne obsoleſcerent,
legendo renovaverat. Itaque moleste tulit demandatam fibi a majoribus fuisse provinciam
tradendi publice FIRENZE philosophiam, quasi ad ea detru deretur, quae sui non
essent ingenii. Principio sequi coactus est Goudinium, cui brėvi substituit
Hamelium. Atque hos auctores sic interpretatus est, ut facile intelligeretur non
eſſe ex illorum doctorum numero, pud quos tantuin opinio praejudicata poteſt,
ut etiam fine ratione valeat auctoritas eo rum, quos ſequi ſe profitentur.
Poftremo ad ſcholae fuae utilitatem et ornamentum maxime pertinere exiſtimavit,
fi e multis, quae ſunt in philoſophia et gravia et utilia a recentioribus
praefertiin FILOSOFI tracta ta, quantum quoque modo videretur deli geret, in
quo adoleſcentes exerceret. Sa pienter etiam faciebat, quod ipſos non ſolum
quibus luminibus ab illa omnium laudanda rum artium procreatrice Philoſophia
petitis a mentem illuſtrare, fed etiam quibus virtuti bus omnem vitam tueri
deberent fedulo e rudiebat. Quare minime eſt mirandum fi in tantam claritudinem
brevi pervenerit, ut fuis et Florentinis vehementer carus, quibuſdam vero
hominibus nudari ſubfellia ſua, et cor nicum oculos configi dolentibus eſſet
invim diofifſimus. Fuerunt et nonnulli (tantum in vidia, aut inſcitia potuit ) qui
apud eos, quorum munus eſt providere, ne quid er roris in religionem moreſque
irrepat, Corſi nium accufarunt, multa illum tradere, in exponendis praeſertim
Gassendi et Cartesio ſententiis, a recta religione abhorrentia. Stomachatus eft
homo religiofiflimus, caftif fimuſque obtrectatorum temeritatem. Hos ve ro ut
falſae et iniquae inſimulationis publi ce convinceret, utque ab omni metu diſci
pulos fuos liberaret, ftatuit in lucem profer re, quae in ſchola et domi iiſdem
expoſue rat. Quod cum praeftitiffet, id evenit, ut alteros reprehendiſſe
poeniteret, alteri fe di diciſſe gauderent. Inſcripfit opus: Inſtitutio nes
philoſophicae ad ufum Scholarum Piarum, et illud in quinque volumina diſtribuit
si ma mum continet hiſtoriam philoſophiae et lo gicam; ſecundum verfatur in
indagandis prin cipiis, et tanquam feminibus unde corpora funt orta et concreta,
horumque proprieta tibus et qualitatibus; agit tertium de cor poribus
inanimatis, quae caelo, aere, ri et terra continentur; examinat quartum animata
corpora, multipliceſque eorum fpecies, et elementa metaphyſicae tradit; quia
tum denique morum doctrinam complectitur. Nec folum in conficiendis his libris
res no vas inveſtigavit C., fed etiam eas, quae funt ab antiquis traditae,
quarum cognitionem eo utiliorem putavit, quod faepe. philoſophos nova proferre
judicamus, cum pervetera proferant. Praeter quam quod in ea erat opinione C.,
illi, fitum eſt veritatem invenire, fingulas nofcen das effe diſciplinas, ut ex
omnibus, quod probabile videri poſſit, eliciat, praeſertim cum doceamur a
ſapientiffimis viris, nullam fectam fuiffe tam deviam, neque philoſopho rum
quemquam tam delirantem, qui non vi derit aliquid ex vero. Nec modo quid fibi
probaretur, fed aliorum etiam fententias, et quid cui propo quid in quamque
ſententiam dici poſſet, pera fecutus eſt, quod ea modeſtia praeſtitit, ut: non
vincere maluiſſe, quam vinci oſtenderid. Hanc opinionum varietatem ex fuis fone
tibus fincere deductam, ut potentius in die fcipuloruin animos influeret, non
modo ora, vine diſpoſuit., ſed etiam claritate et nitore, LATINO SERMONE
illuſtravit. Praeclare enjin, CICERONE: mandare quemquam litteris cogitationes
fitas, qui eas nec difponere poffit, nec illuftra-: re, nec delectationé.
aliqua lectorem allicere, hominis est. intemperanter abitentis otio et like
cris. Sunt nonnulli qui in hiſce. Insitus, rionibus dum pleniflimo ore laudant
ima menſam prope eruditionis copiam,, politio remque elegantiam, quibus
ornantur, defide; rare videntur abditiorem 'reconditioremque tractationem earum
rerum, quae primum ii) phyſica tenent locum, quales ex. gr. ſunt Trotus.,
Newtoniana' attractia, harumque lo ges, non tam.ut ceteros, quam ut ſe ipſum,
qui nunquam adduci potuit, ut Newtoni fententiae affentiretur, convinceret. Sed
ii meminiſſe debent quibus ſcripſerit:C., hribuſque temporibus ſcripferit.
Quoniam ve to plurima ſunt in phyfica, quae fine 'gea metriae ope tractari non
poffunt, hoc quo que adjumențum a fe afferri oportere diſci pulis ſuis putavit.
Itaque Philoſophicis Ma thematicas Institutiones adjecit, in quibus fi ordinem
excipias (initium enim facit a pro portionibus, quas nemo ignorat difficillimam
effe geometriae partem) cetera ſatis belle procedunt. Neque multo poft retexuit
hoe ipſum opus, in quo eo elaboravit attentius, quod fperabat aditum fibi
facturum ad mu nus tradendi mathematicas diſciplinas in LIZIO Florentino.
Acceptum illud cum plauſu fuit propter dilucidam brevitatem atque ele gantiam,
licet in eo acutiores peritioreſque geometrae pauca quaedam jure ac merito
teprehenderint. Praeſtantiam, quam conſe cutus fuerat C. in rebus geometricis,
yoluit ad hydroſtaticam transferre; cumque fedulo evolviffet quae in ea
facultate ſcris ptis mandaverant poft GALILEI (vide), BRUNI Torricellius,
Michelinius, Guglielminius, Grandius, alii. que pauci, in ſcenam prodire non
dubitavie fuftinens perſonam non modo conſiliarii et arbitri de dirigendis
avertendiſque aquis, ſed etiam ſcriptoris. Etenim ex ejus officina prow diit
liber, qui infcriptus eft: Ragionamenti intorno allo stato del Fiume Arno e
dell' acque della Valdinievole, quique editus fuit fum ptibus. Marchionis
Ferronii, cujus cauffam praeſertim defendebat. Spe dejectus Eduar dus
perveniendi in LIZIO Florentini docto rum numerum, qui praeter modum iis tem-.
poribus. creverat, animum ad Academiam Piſanam convertit, petiitque dari ſibi
va cuum eo tempore logicae interpretis locum. Celeriter quod optabat impetravit,
propte rea quod Joannes Gaſto Magnus Etruriae Dux eximiam illius ſcientiam in
omni re philo ſophica cognoverat. Vir non tam doctrina praeſtans, quam docendo
prudens (etenim quaedam etiam ars, eſt docendi ) magno erat emolumento
ſtudiofis adoleſcentibus, qui non uſitata frequentia fcholam illius celebrabant.
Cum vero de fchola in otium folitudinem que se conferret, tempus potiffimum
conſu mebat in augendis. perficiendiſque ſuis Phi lofophicis Institutionibus,
abſolvendoque, quod inſtituerat, opere de Practica Geometria. Ins ter haec
magna fuit amnis Arni inundatio,ut fi inundationes excipias, quae annis
acciderunt, nul lam unquam majorem fuiſſe conſtaret. Pere vaſerat opinio per
animos Florentinorum huic luctuofae calamitati cauſſam praefertim dediffe
Clanis aquas in Arnum deductas, et quae ad eaſdem moderandas aquas facta fue
rant opera. Hunc errorem ut eriperet Edu. ardus, utque perſuaderet eadem opera
fuiſſe utiliffima ac faluberrima, libro expoſuit qua lis fuiſſet, et quis eſſet
ſtatus Claniae val lis, quidque conſultum et actum ad fua uſque tempora, ut
peſti lentiſſima regio convaleſcere aliquando et fa nari poſſeti, utque
controverſiae inter finia timos Principes de dirigendis aquis ejuſdem regionis
tollerentur. Piſis erat C. con tubernium cum Alexandro Polito, qui hum maniores
litteras profitebatur, cujuſque vi tam ſupra explicavimus. Hominis Graecis et Latinis
litteris eruditiffimi exemplum et vo. ces, ſelectiſſimorumque librorum copia,
qua is abundabat, C. per fe jam flagran tem vehementiffime incenderunt ad eas
ar tes, quibus ab ineunte aetate deditus fuerrat, celebrandas. Sciebat Graece,
cujus ſermonis elementa juvenis Florentiae acce perat a ſodali ſuo Franciſco
Maria Baleſtrio, fed non luculenter. Itaque multo ſudore ac labore in arte
grammatica primum ſe exer euit, poftea Graeca multa convertit in LATINVM,
Graecorumque libros et eos pracſer tim, qui res geſtas et orationes ſcripſe
runt, utilitatem aliquam ad dicendum aucu- | pans, ftudiofiffime legebat. Cum
vero ei eſſet perſuaſum ingentes ac prope immenſos cam pos illi proponi, qui
eloquentiae ceterife que humanioribus litteris vacare cupit, acom mico hac de
re aliquando ſciſcitanti reſpon dit: percipiendam ei effe omnem antiquitatem,
cognoscendam hiſtoriam, omnium bonarum artium ſcriptores et doctores et legendos
et pervolu tandos, et exercitationis cauſa laudan.los, in terpretandos,
corrigendos, refellendos; diſputan dumque de omni re in contrarias partes, et quid
quid erit in quaque re, quod probabile videre poffit, eliciendum atque dicendum.
Hujuſmodi exercitationes, quas diu incluſas habuit, Core finius in veritatis
lucem tandem proferre ſe poffe putavit, cum Faſtos Atticos illustrandos
fuſcepiſſet; magnum ſane opus et prae clarum, quod omnem fere Athenienfium hi
ftoriam complecti debebat, cum qua philofophiae, omniumque laudatarum artium hi
ſtoria arctiſfime eſt conjuncta. Diviſit illud ipſum opus in partes duas,
quarum prio rem veluti apparatum Faftorum effe voluit, quod in illa fuſe
lateque ea exponerentur, quae commode in ipfis Faftis, ad quos ta men
pertinebant, 'exponi haud poffe vide bantur. Agit itaque de Archontum inſtitu
tione, numero, varietate, muneribus et re rie, de Archontico anno, atque ordine
men fium Athenienfium. Cum vero Archontigiis annus non in menſes ſolum, ſed in
Pryta nias etiam diviſus eſſet, ac Tribuum Athe nienfium fingulae aequali
temporis, annique parte Prytaniae munere fungerentur, de ie pſarum Tribuum ac
Prytaniarum numero, ordine ac ſerie, deque Atticae populis, ex quibus illae
conſtabant, eruditiſſime differit. Neque ab his ſeparandam putavit tractatio
nem de Athenienſium Senatu et Ecclefiis, dcque Proedrorum, ac Epiſtatum numero,
diſtinctione et officiis. Tranſit inde ad contexendam Archontum ſeriem
diſtinguens eponymos a pseudeponymis. Quam diſtinctionem licet nonnulli
agnoverint, nemo tamen exſtitit, qui Pſeudeponymorum Archontum feriem
illuftrandae Atticae hiſtoriae maxime neceffariam recenſere tentaverit. Agit de
mum de civilibus Graecarum gentium annis, ipfarumque menfibus, cyclis atque
periodo, cum antea declaraſſet tempus, verumque di em, quo varia Athenienſium
feſta peragi et redire confueverant. Id facere neceſſe fuit propterea quod
eadem fefta, veluti perſpi cuae certaeque temporis notae, rerum gefta rum
memoriaé ſaepiffimè a ſcriptoribus adji ciuntur. Haec quidem in priori operis
par te. In fecunda vero Fafti exponuntur a pri ma Olympiade, qua Coroebus
palman retus lit, uſque ad Olympiadein cccxvi. Causa fuit juſta C. praetereundi
antiquiora tempora, quod iſta laterent craſſis occultata tenebris, et circumfuſa
fabulis. Ne tamen primam Athenienfis imperii formam deſpice. re videretur (nam
Athenis initio Reges, inde perpetui Archontes, mox decennales, tandemque annui
imperarunt) qui Reges et Archontes perpetui, et qua aetate fuerint in
Prolegomenis perſecutus eft. Ceterum Fa. ftos fic contexuit C., ut nullum ad
nos pervenerit nomen Archontum, Olympioni čarum et Pythionicarum, nulla lex,
neque pax, neque bellum, neque caſus neque res illuſtris et memoranda populi
Athenien fis, quae in iis ſuo tempore non fit notata. Interdum etiam attigit
Spartanorum, Phoceli fium, Thebañoruin, aliorumque Graecorum gefta, conſilia,
pugnas, diſcrimina, quod ca maxime ſint Atticae hiſtoriae conjuncta. Graecos
vero philosophos, poetas, oratores, cete roſque tum pacis, tum inilitiae
artibus claros viros ita commemoravit, ut quibus Olympicis annis, et quo loco
in lucem fint editi, vitam que ' finierin't intelligi poffit. Atque haec o
Innia capitulatim ſunt dicta. Etenim nimis lon gus effem fi praecipua, et nova
vellem deſcri bere, quae in his Faftis continentur. Nihil poſuit in iis C. fine
locuplete auctori täte et teſte, aut faltem ſine probabili conje: ctura;
quodque difficillimum fuit, fcriptorum Graecoruin loca aut vitiata aut minime
intel lecta, aut mutilata'ſic reſtituit, illuſtravit, fupplevitque, ut dubitari
poffe videatur plus ne jis reddiderit luminis, quam ab iiſdem aco ceperit.
Neque minori perſpicientia Athe nienfium nummos vidit, ex quibus non pau. ca
quidem in rein ſuam hauſit; ſed multo plura e marmoreis monumentis fumpfit, ta
li modo dirimens controverſiam, quae ex fufcitata fuerat a ſummis viris
Spanhemio, et Gudio, nummis ne, an inſcriptionibus princeps locus dandus effet
in explicandis ri tibus, feſtis, Numinibus, ludis, magiſtrati bus, rebuſque
geſtis Athenienfium. Inter nobiliores inſcriptiones, quas refert Corfi nius, et
miro prorſus acumine atque eru ditione explicat, et interdum etiam fupplet, eft
Florentina quaedam apud Riccardios ile luſtrandis Athenienfium Tribubus maxime
idonea. Sed haec mirifice corrupta erat, au gebatque corruptelam collocatio.
Etenim cum ex tribus fragmentis conſtaret, imperi tus artifex fic illa in
pariete diſpoſuerat, ut media pars primae, finiſtra mediae, dextera vero omnium
poftremae partis locum Occu paret. Vidit haec mala Corſinius, qui 2 tutiſſime
indagabat omcia, iifque remedia goadhibuit. At puduit Joannem Lamium ſe non
adeo lynceum fuiffe, cum ufus effet sadem inſcriptione in ſuis ad Meurfium
Scholiis, et ex pudore orta eſt invidia. Ex quo intelligi poteſt quare is
debitas mun quam tribuerit laudes operi, quod omnium judicio longe multumque
ſuperat quidquid in hoc rerum Atticarum genere ſcripſerunt Sigonius, Scaliger,
Petavius, Petitus, Sponius, et vel ipfi Meurfius, et Dodwellus, quorum errorés
dum faepe corrigit C., et dum minime ab iis animadverſa pro fert, fatis
declarat iiſdem detrahere voluiffe Haerentem capiti multa cum laude coro nam.
Rumor erat ea parare Lamium, quibus fpe rabat hominibus fe probaturum, C. in
emendanda illuſtrandaque Riccardiana in fcriptione ſurripuiffe fibi fegetem et mate
riem gloriae ſuae. Porro Lamius poft edi tas Corſinii emendationes fupponere
cogita verat in locum impreſſae jam paginae in I. Meurſii operum volumine, quae
prae fe fe rebat inſcriptionem corruptam, aliam pagi nam, in qua emendatior
inſcriptio legebatur; C.: 1 bancque mutationem, omnibus occultari pof ſe
putaverat, quod Meurſii liber nondum efe ſet in vulgus editus. Non latuit certe
Core finium, in cujus manus pervenit etiam pria mum impreffa pagina, qua omnem
a fe prow pulſare poterat injuriam. Id ut audivit Lami mius aliam rationem
iniit perficiendi confi lii ſui. Dedit ad Angelum Bandiniun litte ras plenas
iracundiae ac minarum, ſpecie qui dem ut ea, quae jamdiu ſepoſuerat ad
Riccardianum marmor explanandum, aliquando proferret; re autem ipſa ut quae a C.
didicerat, perpaucis additis aut mutatis, le ctori aut occupato aut indiligenti
vendita Yet pro ſuis. Atque id utrumque ſcriptorem conferenti luce clarius eft.
Quare mirari ſa tis non poffum hominis frontem, qui furti C. infimulet in eo
loco, in quo ipfo cum re aliena, atque etiam cum telo eſt de prehenſus. Atque
haec an. v. ſunt geſta, cum Fafti Attici anno ſuperiori lu cem vidiſſent. Sed
tamen res defenſionem apud multitudinem potuit habere uſque ad cum annum, quo
Meurſii opera cum Lamii animadverſionibus vulgata funt fimul universa. Tum
enini primum jejuna illa marmoris interpretatio, quam ante annos xxII. Lamius
in l. operum volumen intulerat, lecta eft.: ad calcem vero ejus voluminis
ſecundae Aucto ris curae in eum lapidem, et quaſi retra Statio quaedam ante
dictorum edita eſt. Qua in mantiſſa bina extant indicia Corſinii cauffam mire
tuentia, alterum quod nihil hoc in loco proponatur, quod non ille in Faſtorum
libro occupaverit; alterum quod mantiſſae characteres ab ejuſdem voluminis
characteribus forma et figura longe abſunt, teſtanturque non niſi poſt annos
multos quam liber fuerat impreſſus, diſtractis jam aut obſoletis formis illis
prioribus, additam eſſe appendicem, de qua meminimus. Sed jam fatis multa de
homine meo quidem judicio paucis comparando, niſi regnum in litteris, quod FIRENZE
perdiu tenuit, malis inter dum artibus et clarorum virorum vexatione
confirmandum putaſſet. Quamvis in Fa. Hujus rei narrationen pluribus etiam
verbis exa pofitam vide in libello cujus eſt infcriptio: Paffatem po Autuntile,
quo in libcllo Si quis est qui dictum in se ir clemencius Exis. Atis Articis
elaborare C, maxime glorio fum fuerit, non minorem tamen laudem rea portavit ex
Agoniſticis Differtationibus, de qui bus Ludovicus Muratorius, intelligens
ſane. judex, dicere folebat, poſſe eas per ſe ſo las aeternum nomen Auctori
comparare. His Diſſertationibus oftendere voluit C., quo tempore Graeci
celebrare conſueverunt ludos Olympicos, Pythicos, Nemeaeos, et Iſthmiacos, quod
tempus eatenus fuerat vel incompertum, vel faltem obſcurum. In hoc autem non
mediocrem utilitatem chronolo giae et hiſtoriae ſe allaturum putavit, quod
iiſdem ludis fcriptores uterentur ad notanda deſignandaque rerum geſtarum
tempora. Ab Olympicis exordiens, qui ceteros fplendore et frequentia ſuperabant,
breviter cos percurrit, quos ab Hercule primum inſti tutos Trojano bello
deſiiſſe, moxque ab. Iphito reftitutos iterum intermiffos fuiffe fcriptores
narrant. Etenim illud caput eſſe videbatur, ut de Olympiade illa quaereret, qua
Coroe bus palmam accepit, et quae prima dicitur, omnes Exiflimayit ele, fit
exiſtimet Reſponſum, d.ctum effe, qu'a
lacris prior quod ab illa ceterarum Olympiadum ordo et feries incipiat. Hanc
celebratam fuiſſe putat an. periodi Julianae circiter folftitium aeſtivum, plenilunii tempo
re, qui mos ſemper manſit non folum anti quioribus, quibus civiles Graecorum
anni lunares erant, fed recentioribus etiam, qui bus ſolares anni a Romanis ad
Graecos tran. fierunt. Primus is erat anni menſis, in quem incidiffent
Olympici ludi. Quinque diebus eorum certamina abſolvebantur, inter quae curſus,
quo, uno certatum eſt ad Olympia dein uſque, primas tenebat. Neque. in Aelide
folum, fed et in aliis Graeciae ur bibus fumma cum populi frequentia ac faca.
crorum caeremonia Olympici celebraba ntur, donec v. ineunte reparatae falutis
faeculo, jidem cum Pyticis. ſublati fuerunt., Pyticos primum inftituit Apollo,
eofque jamdiu in-. termiffos, confecto. Criſſenfi bello, Olympiade. Amphictyones
revocarunt. Ii dem Olympicorum inſtar pentaéterici erant; neque ſecundis annis,
aut quartis, ut Petavius et Dodwellus, exiſtimarunt, ſed tertiis, hiſque
exeuntibus circa Elaphebalionis menfis finem, tum Delphis, tum in aliis
Graeciae urbibus peragi confueverunt, Proxime poft Pythia Olympiade ſcilicet
Lill. inſtaura ta fuerunt Nemea, quorum origo reperitur a ſeptem Argivis
ducibus, qui ad lenien dum defiderium pueruli Archemori a ſerpen te occiſi
funebres hoſcę agones ante Olympiadem primam prope Ne meaeum nemus inftituerunt.
At Nemeadem illam, ex qua veluti cardine ceterae infe quentes numerari
coeperunt, in annum Olympiadis LxxII. poft Marathoniam pu gnam incidiffe fatis
probabiliter Eduardus af firmat. Nemeades aeſtivae aliae, aliae hibere nae,
omnes vero trietericae fuerunt; eaeque alternis annis ita peragebantur, ut
hibernae quidem in medios ſecundos, aeſtivae vero in quartos ineuntes
Olympiadum annos in currerent. Cum Nemeis ludis quaedam erat Iſthmicis a Theſeo,
ut ferțur, conſtitutis fia militudo. Funebres erant ambo, ambo trie terici, et qui
utrolibet in certamine viciſſent apio coronabantur, Ithmici quoque alii em rant
aeſtivi, non tamen alii hiberni, ut qui dem Dodyellus putabat, fed verni brabantur
illi primis Olympiadum annis Hea catombeone menſe, hi Thargelione, exeun te
fere tertio Olympico anno. Sic definivit C. tempora quatuor illuſtrium Graea
ciae ludorum, patefaciens obſcura et ignota vel ipſis chronologiae luminibus
Scaligero Petavio, et Dodwello, quorum auctoritate abreptus ipfe in primo
Faſtorum Atticorum libro Pythiades ſecundis Olympicis annis cona cefferat.
Agoniſticis hiſce Differtationibus, veluti faftigium operis, idem adjecit
feriem Hieronicarum alphabetico, ut dicitur, ordi ne diſpoſitam, et Dodwelliana
longe ube riorem accuratioremque. Nam feptuaginta. ſupra centum vitores
recenſuit, qui Dod weilum prorſus fugerant; fonteſque indic cavit (in quo
Dodwelli diligentia ſaepiffi, me deſiderabatur ) unde uniuſcujufque vin ctoris
nomen, aud patria, aut aetas, aut tertaminis genus, quo viciffet, hauriebatur.
Hoc opus vehementer adeo Auctori fuo pro batum erat, ut vir modeftiffimus in eo
quo daininodo gloriari videretur. Etenim, ut At rico fcripfit CICERONE, fua
cuique Sponfa,fuus quiqua Quoniam autein tumuin his Agoniſticis
Diſſertationibus, tum in Faltis ſcribendis faepe uſus eſt C. ſubſidio
marmoreorum monumentorum, in quibus multae occurrunt notae, quarum neque fa
cilis, neque prompta fuit explicatio, fepara tum opus. a ſe expectare putavit
Graecarum antiquitatum ftudiofos, quo in opere non ſolum ex marmoreis, fed
etiam ex aereis Graecorum tabulis: varias eorum notas colli geret, haſque
explicaret atque illuſtraret. Quae dum animo verſaret, fcriptionique jam manum
admoviffet, ecce in lucem prodit Scipionis Maffeii liber de Graecorum figlis
l.z pidariis, in quo trecenta fere vocum com pendia ingeniofe: feliciterque
enodantur.. Cum
C. ab amico librum accepiſſet, ei epi ſtolam fcripfit (relata haec fuit in
volumen. diarii Litteratorum. Florentiae editi ) in qua ſummas tribuit Maffejo
laudes, quod primus ex omnibus materiem hanc ſeorſim tractandam füfceperit,,
magnam in illam con ferens.eruditionis copiam, et acre: prudenſ que judicium..
Non, propterea tamen: ſpar tam, quam fibi ſumpſerat, ille deſeruit, quia, ut
ait Auſonius, is crat campus, in quo alius alio plura invenire poteft, nemo om.
nia. Et plura certe C. invenit, cum
mille fere notas, aut numerorum vocum que compendia uno volumine colligere po
tuerit et explicare illo ſuo acutiffimo inge nio, cui inquirenti et contemplanti
omnia occurrere ſe ſeque oftendere videbantur. Ut vero delectatione aliqua
alliceret adoleſcen tes, quibus inſuavis fortaſſe et aſperior via deri poterat
ſiglarum inveſtigatio, poftquam multa eruditiſſime praefatus effet de notarum
origine, vi, utilitateque, opportune ſparſit in toto libro non pauca ad
hiftoriam, geos graphiam, chronologiam, ac mythologiam ſpectantia. Ex quibus
aliiſque diſciplinis ube riora etiam hauſit, ut ornaret dissertatio nes ſex,
quas, abſoluta univerſa notarum ſerie, confecit, ut eſſent operis corollarium.
Explicant illae inſignes quaſdam Chriſtianac et profanae antiquitatis
inſcriptiones, ficque explicant, ut facile exiſtimari queat, eum qui non
comprehenderit rerum plurimarum ſci entiam, quique judicio certo et ſubtili non
fit praeditus, in his antiquitatis ftudiis ſatis callide verſari et perite non
poſſe. Inſcriptit C. hoc ſuum opus: Norse Graecorum five vocum et numerorum
compendia, quae in gereis atque marmoreis Graecorum, tabulis obſer vantur,
dedicavitque Cardinali Quirinio, a quo pecuniam ad illud ipſum evulgandum dono
accepit. Etenim his temporibus haud illi magna res erat, quae vix fatis efle
vide batur ad vitam ſuſtentandam, neceſſarioſque. libros emendos. Praepoſitus dialecticae ſcholae, nihil aliud annui ſtipendii obtinuit nifi
octingentos denarios. Hoc eſia fatum videtur nobiliilimae. quidein diſcipli nae,
ut pote quae per omnes diſciplinas ma: nat ac funditur, ut qui illam
profitentur me: diocribus afficiantur praemiis. Vel ipſi Graeci, quamvis ellent
aequi liberalium artium aeftimatores, minam, eſſe voluerunt inerce dem
Dialecticorum. Coin.nodiori in ftatu res C. eſſe coeperunt cum traductus fuit ad
metaphyſi cam atque ethicam docendam. Tunc eniin ipfius ftipendium erat bis
millenorum et am plius denariorum, poſteaque illud ipſum ad quatuor. mille
ducentos quinquaginta uſque pervenit, cum proſperae. res multae confecutae
fuiſſent. Satis
ſuperque id erat homi ni temperato ad vitam beatiſſimam; videba turque libi
ſuperare Craffum divitiis. Quan tum vero ſorte ſua contentụs, quantiſque a
moris vinculis Academiae Piſanae obftrictus effet, ex eo conjici poteſt, quod
mortuo Lu dovico Muratorio Mutinenfis Ducis bibliothe cae praefecto in illius
locum fuccedere recu favit, quamvis liberaliſſime ipfius Ducis ver bis
invitaretur. Quo cognito ab Emmanue le Comite Richecourtio, qui Franciſci I.
Cae faris nomine res Etruriae adminiſtrabat, ipſe fingularibus verbis ei
gratias agendas cenſuit, eidemque prolixe de ſua non modo, fed et Cae aris
voluntate pollicitus eſt. Id non potuit C. non fumme eſſe jucundum; utque viro
de fe et de Sodalitate ſua bene ſemper merito gratum fe oftenderet dedica vit
illi PLUTARCO opus de Placitis Philoſopho. tum a se LATINVM factum, vitaque
Scriptoris, fcholiis, et diſſertationibus ornatum. Causam ſuſcipiendae novae
interpretationis ei dem dederunt naevi quidam, quibus maçı lantur Budaei,
Xylandri, et Crụſerii honi num ceteroquin doctiſſimorum interpretationes;
ſuſceptam vero ita perfecit, ut ver bu pro verbo reddiderit, multaque etiam
attulerit de fuo, quae funt diverfo chara ctere notata, ne attenuata nimis
diligentia perſpicuitati officeret, et ne res ipfa omni LATINAE orationis
dignitate cultuque deſtitu ta ſordeſceret. In limine operis Plutarchi vi tam ex
illius aliorumque veterum ſcriptis a ſe diligentiſſime colletam, et feriem
philo ſophorum, quorum placita a Plutarcho pro feruntur, aetatemque, in qua
vixerunt, ex. poſuit. Singulis vero operis capitibus brevia adjecit commentaria,
quae aut mutilos et hiulcos Plutarchi locos ſupplent, aut de pravatos emendant,
aut obſcuros atque per plexos, opportune allatis aliorum philoſo phorum
ſententiis, illuſtrant. Siquando au tem longioris eſſe orationis putavit Corſi
nius lucem aliquam afferre rebus obſcuriſſi mis, cum non Heraclitus ſolum, ſed
et quiſ que fere antiquitatis philofophorum, quo rum ſententias coarctavit et peranguſte
re ferſit PLUTARCO, Exotélv8 cognomen me reatur, hujuſmodi illuſtrationes ad
finem li bri rejecit. Quo in loco voluit etiam recenfere illuſtriores
ſententias, quae propriae di cuntur recentiorum philoſophorum, cum ea rum tamen
manifeſta appareant veſtigia in Plutarchi libro, quod profecto ad veterum
gioriam amplificandam plurimum valet. Ta les ſunt attractionis leges, vireſque,
ut di cuntur, centripeta et centrifuga, Charteſiani vortices, lunae phaſes,
maculae, quod que haec fit terra multarum urbium et mone tium, converfio folis,
planetarum, fiderum que certa quadam celeritate ac periodo cir ca axes ſuos,
natura, coſtans motus, rever lioque cometarum, telluris motus, quodque ex eo
cauſſa ' maris aelus repetenda fit jegew’ewe explicatio, aliaque hujuſmodi mul
ta tum ad corporum, tum ad animi na turam pertinentia. Profecto nihil dulcius
erat Corfinio quam per abdita remotioris antiqui• tatis permeare, et inde nova
et inexpecta ta deferre, quae hominibus contemplanda bono in lumine exhiberet.
Nam, ut Ari ſtoteles inquit, fuo quiſque artifex ftudio atque opera impenſius
delectatur. Cum igi tur accepiffet ab Antonio Franciſco Gorio amiciſſimo ſuo
graphidem eximii cujųſdam anaglyphi, quod Romae viſitur in Aedibus Farneſianis,
non magnopere hortandus fuit, ut in illo exponendo elaboraret. Exhibet hoc
ſuperiori in parte Herculem cuin Eų. ropa, Hebe, Satyriſque quieri, voluptati
que poſt exantlatos labores indulgentem, in inferiori vero tripodem Apollini
ſacrum, Ar givae Junonis Sacerdotem, atque alatam Virginem, et Herculem demum
ipſum ſe ſe expiantem, ut purus ad Deorum conci lium afcenderet. Hinc et illinc
anaglyphum ornant binae columnae cum Graeca inſcrie ptione, quae multis verſuum
decadibus Her culis geſta commemorat: in ſupremo tan dein anaglyphi loco
octodecim hexametra car mina exculpta ſunt, quibus Herculis labores et certamina
declarantur. Praeclariſſimi hujus monumenti explicationem Eduardus libello quem
ad Scipionem Maffejum inſtituit, com plexus eſt; ex eoque judicari poteft, vehe
mens afiiduumque ftudium ipfi copiam eru ditionis dediſſe, naturam vero
tribuiſſe in genium ad conjiciendum divinandumque fa ctum. Et fane divinationis
cujuſdam vide illum potuiſſe laceras ac depravatas multorum verſuum lacinias
feliciſſime corri gere atque ſupplere. Magnae antiquitatis ar gumentum praebere
ſuſpicatus eſt Doricam dialectum, qua exarata eſt inſcriptio, ne- ! que ipfe
affirmare. dubitat opus paullo poſt Alexandri tempora', antequam Q. Flaminius
priſtinam Graecis libertatem redderet, perfe &um fuiſſe. Sed aliter alii
ſentiunt qui bus nunc plerique affentiri videntur. Hoc ipſo ferme tempore
Corſinius ejuſdem Gorii poſtulationibus Diſſertationes quatuor con ceſſit, quae
impreſſae funt ab illo in vi. vo lumine Symbolarum litterariarum. Extricat pri
ma epigraphen ſculptam in labro interiori cujuſdam crateris ahenei Mithridatis
Eupa toris, qui crater in muſeo Capitolino, Vide Winkelman, Monumenti antichi
inediti Trel. Prelim. Idem quaedam alia notat in quibus deceptum fuiſſe C.
arbitratur Sic interpretatur C. mire
involutam in. ſcriptionem: Regis Mithridatis Eupatoris Regni anno 54.
Eupatoriftts GYMNASII-- hoc eft civibus Eupatoriae, qui IN GYMNASIO certarunt --
ſenectutem conſeival, quod erat ad laudem vini, quo plenus crater vi &ori
con cedebatur. Alii aliter interpretanda extrema pracſertim inſcriptionis verba
exiſtimarunt, quorum fententiam plerique nunc fequuntur affervatur. Secunda
patefacit obſcuros igno ratoſque dies natalem et fupremum Plato nis, qua
occafione aliorum etiam virorum illuſtrium Archytae, Philolai, Iſocratis, Ly
fiae, Dionis, et Socratis aetates et tempora perſequitur. Explicat tertia
adverſam par tem numiſmatis Antonini Caeſaris, in qua Prometheus humanum corpus
ex luto fin gens, et Pallas capiti mentem, papilionis imagine expreſſam,
inſerens confpiciuntur. Curioſa ſunt quae excogitavit C., ut perſuaderet
hominibus morem repraeſentandi humanam mentem ſub papilionis imagine non ex
miris hujus volucris affectionibus et natura, non ex ipſa animi immortalitate,
circuitu, aut tranſmigratione, non ex Chal daicae, Graecaeque fapientiae
fontibus, non ex arcanis amoris myſteriis, fed ex fola ar tificum imperitia
profluxiſſe. Cum enim unum idemque nomen pſyches papilionem et ani nium
deſignet, rudis artifex, qui primus ani mum exprimendum ſuſcepit, non putavit
hu jus ideam poffe melius excitari, quam obje eta imagine illius rei, quacum is
commune nomen habet. Quarta Diſſertatio demum in eo verſatur, ut oftendat
mentitam et falfam effe LATINAM quamdam inſcriptionem, quae Piſis vilitur in
Scortianis aedibus. Summi labores, quos C. impendit in conficien dis, quos
retulimus, libris, magna compen ſati fuerunt gloria, ut unus e multis, qui
illuſtrandae Graecae praefertim antiquitati ſe ſe dederunt, excellere
judicaretur. Cujus de praeſtanti in hoc rerum genere doctrina tan ta etiam
judicia fecit Scipio Maffejus, quan ta de nullo; cujus teſtimonii auctoritas ma
xima reputari debet non folum quod ab hox mine prudentiſſimo proficifcitur, fed
etiam quia figulus invidens figulo, faber fabro, ut eſt Heſiodi dictum,
alterius laudi et gloriae | minime favere ſoleat. Ex mutua opinione doctrinae,
fimilitudineque ftudiorum orta eft inter cos jucundiffima amicitia, cujus tanta
vis fuit, ut C. aeſtate an.quamvis non bene valens, Veronam venerit aliquot
menſes commoraturus apud amicum. Quo tempore inter eos fuit familiariſſima
focietas, et communicatio ftudiorum. Dono accepit C. a Maffejo tercentum fere
Graecas inſcriptiones (has Chici1shullius collegerat, et fecundae Afiaticarum
antiquitatum parti reſervaverat ) ea conditio; ne, ut eas Latine redderet atque
illuſtraret, Satisfecit ille aliqua ex parte promiffo ſuo, cum anno inſequenti
edidiſſet eas inſcriptio. nes, quae ad Athenas ſpectabant; eaſdem que iterum
cum commentariis edidit quam driennio poft, ut eſſent ornamento quarto Faftorum
volumini. Nono menſe poftquam in Etruriam rediit C., moritur Alexander Politus,
quocum ille ita vixit, uit. quem pauci ferre poterant propter difficilli mam
naturam, hujus fine offenfione ad fum. mam fenectutem retinuerit benevolentiam.
Mortuo autem Polito neque inquirendum neque conſultandum fuit quis illi
ſucceſſor in Academia Piſana daretur, cum omnium oculi ftatim in C.conjecti
fuiſſent. Ita hic exeuntė poftquam octodecim fere annos philoſophiam tradidif
ſet, munus docendi humaniores litteras li bentiſſimo animo ſuſcepit. Initio
propoſuit fibi (nam muneris ratio, et adolefcentium utilitas ab eo poftulabant,
ut cum Graecis Latina conjungeret ) explanare Plutarchi parallelas ROMANORVM
vitas, ut inde occaſionem ſumeret utriuſque populi leges inter ſe conferendi.
Memoriter dicebat e ſuperiori loco, quod ad praeceptoris et ſcholae dignitatem
plurimum tum conferre putabatur; et quae tradebat inſignita e rant luminibus
ingenii, et conſperſa erudi tionis ſententiarumque flore. Genus dicen di erat quiétum et lene, purum et elegans, ut maxime teneret
eos qui audiebant, et non folum delectaret, fed etiam fine fatieta te
delectaret. Nulli diſcipulorum aditum ſermonem, congreſſumque fuum denegabat,
quin immo eos bis in hebdomada domum ſuam invitabat, ut in ftudiis exerceret ROMANORVM
ANTIQVITATVM. Domi etiam tradebat metaphyſicam, quo onere non placuit Academiae
Moderatoribus illum libe rare niſi quo
quidem tem pore Venetiis evulgavit ſuas Inſtitutiones Me taphyficas. In his
adornandis illud unum pro pofitum fibi fuit, ut in animis adoleſcentium rectas
de animae immortalitate, arbitrii li bertate, Dei exiſtentia, ceteriſque
naturalis theologiae dogmatibus notiones infereret, quibus in gravioribus aliis
diſciplinis veluti praeſidiis uti pofſent, quibuſque caverent a peſte quadam
hominum non tam religioni, quam reipublicae infeſta, quae rationem per vertendo
ubique venenatas opiniones diffe minare non veretur. Subaccuſent aliqui, fi
lubet, C., quod nimis, parcus fuerit in pertractandis quibuſdam rebus, quae in
ca, in qua nunc ſumus, luce ignorari mi nime poſſe videntur; omnes profecto uno
ore fateri debent tales effe hafce Inſtitutio nes, ut cupidi metaphyſicae
nullibi poffint refrigerari ſalubrius atque jucundius. Poftre mum hoc operum
fuit, quae C. Phi loſophiae dicavit, nifi dicere velimus, eti am cum minime
videretur tum maxime ila lum philofophari conſueviſſe, Quod declarant ejus
Latinae orationes ad Academicos Piſanos refertae Philoſophorum fententiis,
faluberri ma praecepta, quibus adoleſcentes ad omne officii munus inftruebat,
doctiflimoruin Philoſophorum familiaritates, quibus ſemper flo ruit, et ars
illa diſtinguendi vera a falſis, colligendi ſparſa, eaque inter ſe conferendi,
diligenter examinandi omnium rerum verbocum rumque pondera, nihilque afferendi
fine evi denti ratione, aut faltein probabili conjectu ra in qua arte quantum
inter omnes un Aus excelleret, praeſertim oftendebat, in vetuftatis monumenta
inquireret. Hujus inquiſitionis uber fane fructus fuit Diſſertatia illa de
Minniſari, aliorumque. Armeniae Regim nummis, Et. Arſacidarum epocha, quam idem
in lucem extulit. Difficulta tis maximae fuit oftendere Minniſari num mum, quem
praecipue illuſtrandum C. ſuſceperat, ad illum fpectare Maniſarum Armeniae et Meſopotamiae.
Regem, de quo Dio Caffius in libro ROMANAE HISTORIAE mentionem fecit, et Arſacidarum
epocham uon in Parthiae. folum, fed etiam in: Arme niae regum nummis inſcriptam
fuiffe, eam. que ab anno Urbis conditae Dxxv. initium duxiſſe. Antea quidem
doctiſſimorum viro rum Uſſerii, Petavii, Noriſii, Spanhemii, Vaillantii, et Froelichij
fententia fuerat, ſe rius. Arſacidarum imperium incepiſſe, adver ſus quam
ſententiam C. ita pugnavit, ut veritas non minus quam modeſtia eluxe rit.
Quoniam vero in antiquitatis ftudio multae res inter fe ita nexae et jugatae
funt, ut, inventa una, aliae, quae prius latebant, ſe ſe contemplandas offerant,
ean ob rem Corfinius in Minniſari regis num mo explicando varia ſcriptorum loca
corri gere et ſupplere, verum Darii genus expo nere, Tiridatem alterum, Arfamem,
aliof que Armeniae Reges Vaillantio prorſus in cognitos proferre potuit. Res in
hac Differ tatione contentae, non fine laude oppugnatae fuerunt a Jeſuitis
Froelichio et Zacharia, reſponditque ad ea, quae objecta fuerunt, ſine
iracundia C.. Eteniin veritatis unice amans alios a fe diffentire haud ini quo
ferebat animo, ſemperque deteſtatus eſt eos, qui ſuis ſententiis quaſi addicti
et con. fecrati etiam ea, quae plane probare non poſſent, conſtantiae, non
veritatis cauſſa de. fenderent. Propugnationem quoque Corſinii libello (*)
ſuſcepit ejus convictor et fodalis Huic titulus eſt. Lettere critiche di
un Pafton r Arcade ad un Accademico Erruſco nelle quali ſi ſciola gono le
difficoltà fane contro un'opera del Reverendiſſia mo Padre Corſini nel Tom. IX.
della Storia leveraria of lialia &e, in Pisa in Carolus Antoniolius, qui
quidem non me. diocria adjumenta illi praebuit, cum pluri mum valeret in omni
genere ftudiorum quae ipſe excolebat. Magni quoque Acade miae fuit Antoniolii
opera in Graecis littea ris tradendis toto illo ſexennio, quo C., coactus
capeſſere, ſummum Sodalitatis fuae magiſtratum, bona Principis cum ve nia, et fine
ulla ſtipendiorum jactura Piſis abfuit. Hic Romam venit menſe. ardens.
defiderio indicia veteris memoriae, quibus mirabiliter urbs. illa abun dat (quacumque
enim quis ingreditur in aliquam hiſtoriam veftigium ponit ) cogno ſcendi. Sed
raro ei poteſtas dabatur huic ſuo. deſiderio, fatisfaciendi, cum podagrae
dolori bus ſaepiſſime vexaretur, et munus ſuum diligentiſſime exequi vellet.
Quanta vero pru dentia ac dexteritate fuerit in tractandis ne. gotiis, quanta
aequitate in conſtituendis, temperandiſque, ſi res pofcebat, conſtitutis jam
legibus, quanta humanitate erga omnes, quantaque vigilantia ac providentia in
con fulendo rebus. praeſentibus, praecavendoque futuras, fatis praedicari non
poteft. Cum autem nihil ſine aliorum conſilio agere ei mos eſſet, et facilitate
ſumma uteretur in füos adjutores procuratoreſque, inde norza nulli materiem
ſumpſerunt falſae criminatio nis, quod ad aliorum magis quam ad ſuun arbitrium
res Familiae adminiftraret. Omnino totum fe tradidit Sodalitati, to tamque fic
rexit, ut oblitus commodorum ſuorum omnibus proſpexerit. Non eſt credi bile
quanto animi dolore angeretur, fi ali quis ſuorum in crimen vocabatur. Horrebar
enim homo innocentiſſimus vel ipfam pecca ti ſuſpicionem. Sed non propterea
fontibus iraſcebatur, hofque clementia magis atque manſuetudine, quam
animadverſione et ca ftigatione ad frugem revocare ſtudebat. Cum vero
feveritatem, fine qua reſpublica adıni niftrari non poteſt, adhibere cogebatur,
similis, ut praeclare admonet CICERONE, legum erat, quae ad puniendum non
iracundia, fed aequitate ducuntur. In his occupationi bus muneris ſui, ne plane
ceſſäre a fcriben do videretur, extare voluit explicationem đuarum Graecarum
inſcriptionum, quae mus ſeum ornant Bernardi Nanii Veneti Senatoris. quam
feliciter id praeftiterit, perſcrutata prius litterarum priſcarum, quibus illae
con fcriptae ſunt, forma atque vi, facile judica bunt ii, qui ſunt harum
deliciarum amato Tes. Tentaverat eamdem rem Franciſcus Za nettus, ſed
longiſſime aberravit a vero ejus interpretatio. Ipſe C. cum Anconae effet
ineunte eoque prae ſente cum multis aliis detecta fuiſſent atque agnita corpora
Sanctorum Cyriaci, Marcelli ni et Liberii, quos ſingulari obfequio ea dem
civitas venerațur, incitatus fuit, ut ali quid laboris impertiret illorum
Sanctorum illuſtrandae hiſtoriae, definiendoque praeſer tim tempori, quo
tranſata eorumdem cor pora fuerunt in eum, ubi nunc jacent, lo cum, et quo
Anconae coli coeperunt. Haec C., edito commentariolo, accidiffe - ftendit
exeunte faeculo et ex ipfis an tiquitatis monumentis quibus ſententiam ſuam
confirmavit, quatuor Anconitanorum Epiſcoporum nomina in lucem protulit, quaç
uſque ad id tempus fuerant incognita, Per pauca in hoc commentariolo attigit de
S, Liberio, quod ejus hiſtoriam involutam tenebris et fabulis exiſtimabat, Mox
cum ei aliquid luminis affulfiſſet, et monumentorum ope, et mirabili illa ſua
conjiciendi arte pa tefacere potuit Liberium fuiſſe unum ex fo ciis S.
Gaudentii Abfarenſis Epiſcopi, qui circiter an. MxXxx. Anconam venit, fo
litariam vitam acturus in ſuburbano mona ſterio Portus Novi. Harum rerum
inventio multis laudibus. celebrata fuit a Scriptoribus annalium Camaldulenſium:
pergrata quo que fuit. Benedicto XIV. pro ejus. fingulari ftudio in Anconitanam
Ecclefiam. Hic cum ſaepe ad congreffum colloquiumque ſuum invitaret Eduardum,
quod ejus ſummum in genium, fuaviffimos. mores, atque eximiam probitatem et nofſet
et diligeret, ſaepe quo que ipſum hortabatur,, ut ea pergeret man dare litteris,
quae abdita Chriſtianae anti quitatis patefacerent. Sed fuerunt juftae ca uffae
quare. C. amantiffimis. Pontificis M. conſiliis minime obtemperavit; et quid
quid fubciſivorum temporum incurrebat, quae perire non patiebatur, libentiffime
concedebat ſuis priſtinis ftudiis. Ruſticabar cum eo in Tuſculano, quando
epiſtolam ſcripſit ad Paullum Mariam Paciaudium, in qua plura de Gotarzis
eximio nummo, ejuſque, Bar danis, et Artabani Parthiae Regum hiſtoria
perſecutus eſt, et pro jure noftrae amicitiae ab ipſo poftulabam, ut in otio,
quod raro da batur, et peroptato illi dabatur, ceffaret a libris et a ftilo.
Verum cuin is eſſet ut fi ne his ftudiis vitam inſuavem duceret, di cere
folebat hujuſmodi ſcriptiones non pre mere, ſed relaxare animum. Et relaxatione
certę aliqua ille indigebat, cui grave adeo erat, quod multi appetunt, ceteros
regendi munus, ut onus Aetna majus ſibi ſụſtinere videretur. Poterat quidein
illi eſſe lovaniens to recordatio multorum benefactorum, inas ter quae maximum
illud reputari debet quod eo ſexennio, quo ad Sodalitatis gum. bernaculum ſedit,
viginti domus, five cole legia conſtituta sunt. Interim advenit tem pus, quo
magiſtratu fe abdicare, et extre mos auctoritatis fuae fructus capere debe bat
in provehendo digno viro, qui fibi fuc cederet. Verum minime illi: contigit, ut funt ancipites variique caſus comitiorum,
quem optabat, exitus. Peractis comitiis, fine mora rediit ad Academiam Piſanam
et ad il lamºquietam in rerum contemplatione et co gnitione maxime poſitam
degendae vitae rae tionem, qua qui frueretur, negabat ei aliquid deeffe ad
beatė vivenduin. Liber de Praefe. ctis Urbis ei erat in manibus; Graecas in
fcriptiones in Aſia repertas, quas, ut ſupra retulimus, a Scipione Maffejo dono
accepe rat, quafque jampridem Latinas fecerat, co pioſis commentariis
explicabat; aderat diſci pulis ſuis; veniebat frequens in Academiam, afferebat
res multum et diu cogitatas, facie batque fibi audientiam hominis erudita, com
pta et mitis oratio. Idem efflagitatu et coae tu amicorum inftituta. hoc
tempore opera abrupit, ut explicationem lucubraret cujuf dam nummi recens in
Auſtria reperti, in quo erat nomen et imago Sulpiciae Dryan tillae Auguſtae.
Conjecit ille feminam hanc libertam fuiſſe, libertatémque accepiffe a Sul picio
quodam, ab eoque in Sulpiciam ģen tem receptam; nupfiffe demum Carinó fcea
leftiffimo Imperatori. Haec porro incerta. Illud unuin ſine ulla dubitatione
colligi pof fe videtur ex nummi fabrica, characterum forma, feminaeque ornatu,
illum ipſum num mum cuſum fuiſſe inter Elagabali et Diocle tiani imperium,
proptereaque Dryantillam ad aliquem Imperatorum, qui illo intervallo re
gnarunt, pertinere. Neque his contentus Edu ardus voluit etiam excutere
hiſtoricorum et rei nummariae interpretum mire inter fe dif ſidentes opiniones
de Aureliani ac Vaballa thi imperio atque aetate, ac poftremo ſuam ſententiam
proferre. Fuit haec, Aurelianum exeunte Julio, vel ineunte Auguſto imperium
ſuſcepiſſe, eaque multis et gravibus confirmatur argumentis. Ad ex vero
diluenda, quae contra dici poterant ex illorum ſententia, qui praeſertim niti
vide bantur lege quadam data a Claudio VII. Kal. Novembris Antiochiano et Orfito
Con ſulibus, ut ſerius Aurelianum inchoaffe im perium perſuaderent, diſtinguit
Conſules or dinarios a ſuffectis. Hac autem conſtabilita diſtinctione, quae
maxime apta erat non fo lum ad id, quod requirebat, ſed etiam ad expediendos
alios, quos vel ipſe Scaliger in diffolubiles in Chronologia exiſtimaverat now
dos, concludit eamdem legem editam fuiffe anno quando An tiochianus et Orfitus
ſuffecti Conſules erant, minime vero anno cclxx. iiſdem Confuli bus ordinariis.
Nec minor difficultas erat o ſtendere, qui fieri potuerit, ut Aurelianus ad
vil. Imperii annum perveniffe dicatur, et explicare locum Euſebii, qui tradit
in ejuſdem tempora incidiffe in. Antiochenam Synodum: exploratnm eft enim hanc
Sya nodum anno cclxix. incoeptam et abſolutam fuiſſe. Feliciter haec praeftitit
Corſi nius, cum probaſſet Aurelianum anno et ultra antequam a legionibus poft
mortem Claudii Imperator fieret, ab ipfo Claudio deſtinatum ſibi fuiſſe
ſucceſſoreni, adeoque ampla poteſtate donatum ut ab hoc tema pore nonnulli ejus
Imperii initium ſumere potuerint. Quae vero de Vaballatho diſream ruit C. haec
ferme ſunt. Illum Ze nobia procreavit ex Athena priori viro, ejuf demque nomine
ab uſque dum Claudius in Gothicum bellum uni ce intentus vixit, Orientis
imperium te H4 ut nuit. Ex quo factum eſt, ut quae hoc tem pore cuſa funt
Vaballathi numiſmata, Impe. satorem Caefarem Auguftum illum nominent. Poftquam
vero ille deſciviſſet a matre, Aureliano adhaereret, huic quidem conjun octus
in nummis repraefentari voluit, minime vero paludamento, radiata corona,
fplendi doque Augufti nomine decoratus, ſolo Im peratoris contentus. Praetereo
alia multa Scitu digniſſima in hac Diſſertatione conten ta, ne, cum nimis
longus in recenfendis ſcriptis operibus fuerim, videar oblitus con ſuetudinis et
inſtituti mei. Hujus libelli (cil ra liberatus C. totus in eo fuit, ut ab
Solveret ſeriem Praefectorum Urbis ab Urbe con dita ad annum afque five a Chri
fto nato DC. Etenim poſteriora tempora mi nime inquirenda putavit, quibus,
penitus fere exſtincto Urbanae Praefecturae fplendo re ac dignitate, nonniſi
tenue nomen, ac leviſſima priſtinae majeſtatis umbra ſuperfuit; ex quo fiebat,
ut nihil inde lucis facra et profana ſperare poffet hiſtoria, cum contra
uberrimam fplendidiffimamque utraque acci. peret ex veterum Praefectorum ferie,
horumque aetate rite conſtituta. Ut vero non utilitate ſolum, ſed etiam
jucunditate lecto res invitaret C., operi varia opportu ne admifcuit, quae
marmora et ſcriptores, quorum teftimoniis ubique fere utitur, cor rigunt et illuſtrant,
interpretumque falſas opiniones atque errores emendant. Non ego ſum neſcius
multos anteceſſiſſe Corſinium in hujuſmodi pertractando argumento; ex qui bus
omnibus, ac praefertim Jacobo Gotho fredo ac Tillemontio plurima in rem ſuam
tranftulit. Sed ii exiguis finibus operam fuam continuerunt, fi unum excipias
Feli cem Contelorium, qui contextam a Panvi. nio Praefectorum ſeriem ad annum
uſque traduxit. Tale tamen non fuit Contelorii opus, quin eadem de re aliquid
politius, copiofius, perfectiuſque proferri a C. potuerit. Et protuliffe certe
ipſum oportet, cum magna fuorum laborum prac conia ab intelligentibus viris
reportaverit. Mi rari hi tantummodo viſi ſunt quod aut is in gnoraverit hac ipſa
in re plurimum quoque elaboraſſe Almeloveenium, aut quod hujus fcripta
conſulere praetermiſerit. Id profecto et praeſtitiſfet abundantius et copiofius
pro poſitae fibi rei ſatisfacere potuiſſet, neque poftea ventofiffimi homines
triftem fuftinuif fent notam calumniatorum, qui nullo in pre tio ob pauca
quaedam a C. praetermif ſa hujus opus habendum inflatis buccis clamitarunt. Ne
hi verbofis fibi famam ad quirerent ſtrophis vel apud imperitam mul titudinem,
factum eſt diligentia Cajetani Mari nii, qui librum Bononiae edidit, quo non
folum eorum obftitit injuriis, verum etiam nova a ſe inſcriptionum ope detecta
Praefectorum Urbis nomina in lucem protulit. Sed ad C. revertor, qui dum fine
intermiſſione obſequebatur ftudiis ſuis et adoleſcentium utilitati, oblitus
vide batur fe jam fenem factum (quando enim typis mandavit librum de Praefectis
Urbanis ſexageſimum primum aetatis annum agebat ) et infirma aegraque
valetudine effe. Sed ac Hujus eſt inſcriptio: Difefa per la ſerie de' Pree
fetti di Roma del Ch. P. Corfini contro la cenſura farie. le nelle offervazioni
ſul Giornale Piſano, in cui le della Serie si suppliſce anche in affai luoghi e
le emenda. In Bon logna e AQUINO (si veda) in 4. Vide Pilanas Ephcm meridcs eidit
miſerabilis caſus, qui repente ipſi onga nem ſpem non folum litteris, ſed etiam
na: turae vivendi praecidit. Erat haec conſuetu. do Academiae Piſanae, ut qui
humaniores lite teras profitebantur, Kalendis Novembris, quo tempore inftaurari
ftudia folebant, LATINAM om rationem haberent ad vehementius inflamman
dam cupidam doctrinarum juventutem. Di cebat eo ipſo die Eduardus (vertebat
tunc annus tertius fupra fexageſimum hujus fae tuli ) de viris, qui et ſcriptis
editis, in ventiſque rebus in Academia maxime florue runt, eaque erat oratio,
ut nunquam is di xiſſe melius judicaretur. Cum eo pervenirſet, ut exultaret in
immenſo GALILEI (si veda) laudum campo, repente apoplexis ipſum perculit, ac
ſemivivum reliquit. Dolore hujus caſus o ſtenſum eft quantum ille Academiae
eſſet ac ceptus. Aegre domum deductus, ibi quatri duo cum morte conflictatus
eſt. Quinto die, multis adhibitis remediis, levari coepit, ac praeter ſpem
paullatim convaluit. Ut arden ter deſideraret priſtinas recuperare vires,
efficiebat ille fuus ſingularis amor in Aca demiam, cui majus ſe non poſſe
munus afferre videbat, quam fi inſtitutum juſſu Prin cipis biennio fere ante
opus de ejuſdem Academiae ortu, progreſſu ac vicibus ad umbilicum perduceret.
Plurima collegerat at que vulgaverat ad hanc hiſtoriam pertinen tia vir
diligentiſſimus Stephanus Maria Fa bruccius Juris civilis in eadem Academia do
ctor, quae quidem ampla et bella materies effe poterant ad novum aedificandum
opus. Hoc igitur ſubſidio inſtructus Eduardus, ala cer ſe ſe ad rem accinxit.
Et primo quidem ILLUSTRIVM ITALICORVM GYMNASIORVM ori ginem ſubtexuit,
diſſerenfque quatuor prio ribus capitibus de prima GYMNASII PISANIi institutione,
neque ab xi. neque a xiv. Chris fti faeculo, ut multi ſcripſerunt, fed ab ine
unte XIII. vel exeunte xii. illam repeten dam effe exiſtimavit. Ex hoc tempore
ad annum uſque, quo anno Fa bruccius contendit coepiſſe Academiam Piſa nam,
hanc fi nullam dicere nolumus, mi nimain certe fuiſſe oportet. Conſecutae des
inceps yices multae, ut ipſa modo langues ſcere, modo ad interitum properare,
vires vitamque modo recuperare, ac faepe etiam veluti extorris ſedem mutare
viſa fuerit, Quae omnia octo conſeqılentibus capitibus perſecutus eft Eduardus.
Cum vero Acade miae res, imperante Coſmo I. ceteriſque.non solum Mediceis, sed
etiam Lotharingis Principibus, feliciflime proceſſiſſent, quibus ab his
beneficiis, ſplendore atque gloria aucta, quibuſque gubernata legibus
consuetudinibusque, variis interdum pro temporum varietate, exposuit in
quatuordecim capitibus, quo rum nonnulla adumbrata magis quam de fçripta
videntur. Haec omnia primam ope ris partem conficere debebant, cum refer vafſet
alteram, quam tamen minime attigit, Doctorum vitis. Dum haec scripta legebam
videbatur mihi pofſe ab Auctore defiderari major rerum copia, magiſque apta ac
preſ fa oratio. Inest quidem in omnibus C. scriptis luxuries quaedam, quae, ut
in herbis ruſtici ſolent, depaſcenda erat; quod fi eft vitium in omni oratione,
maximum tamen eſt in hiſtoria, in qua pura et illu fțris brevitas expetitur.
Eodem tempore, quo Eduardus in Academiae historiam incumbebat, ne plane superioris
aetatis Audia de servisse videretur, epistolam fcripfit ad ami cum et collegam
fuum Franciſcum Albi zium, in qua de Auſonii Burdigalensi consulatu egit,
Desperaverant vel ipsi chronologiae Patres Panvinius et Pagius, computationem
quamdam annorum ah. Auſonio factam in e pigrammate, ad Proculum, in quo, ab Urbe
condita ad consulatum suum annos enumeravit, conciliari posse, cum Varroniana epocha,
ideoque, novam excogitarunt epocham XIII. annis Varroniana pofte riorem, qua
non solum Ausonium, sed etiam Arnobium usos fuisse scripserunt. Horum aliorumque
Auſonii interpretum errorem ut corrigeret Eduardus, probare debuit. Auſonium
non Romanum, modo, fed et Bur digalenſem geffiffe consulatum, et Romanorum et Burdigalenfium
Consulum fastos conscripsisse. Qua distinctione constabilita, facile fuit
oftendere eumdem Aufonium in ea pigrammate, quod ad Heſperium filium ini fit
cum Romanis faſtis, de Romano, a ſe ges: ſto consulatu, in epigrammate autem
illo, quod est ad Proculum, de patrio, municipali, quinquennali (etenim in
municipis omnibus majores magiſtratus quinquennales eſſe ſolebant) de
Burdigalenſi nimirum con. ſulatu locutum fuisse. Hanc epistolam secuata est
altera ad Joannem Chrysostomum Trom. bellium Canonicum Regularem, in qua do
nummo quodam ab Athenienſibus Livia Augustae dicato, illiuſque aetate
differens, feminam illam non ſupremis tabulis, ſed matrimonii jure a marito
nomen Auguſtae accepiſſe pluribus monumentis comprobat. Quae quidem aliaque ex
abditiſſima antiqui. tate deprompta, quae fparfit C. in hac epiſtola, ut
jucunda lectoribus, ita iif dem plena moeroris fore arbitror, quae in extrema
pagina ejuſdem epifolae Trombel lius adnotavit. Scribit enim ille: Dum extre
mam hujus epiſtolae partem edimus, monemur, eodem fere tempore, quo Brixiae egregius
Maza zuchellius, inclytum Corfinium noftrum Pisis apoplexi repente ereptum.
Eheu litterae aflicłae ! o amicos incomparabiles ! o annum vere calami 10fum et
peffimum ! Dies, quo illum apople xis iterum invafit, fuit v. ante poft quem
caſum tribus ferme diebus vixit fine ſenſu, Sepultanta tus eft in Aede S.
Euphraſiae totius Acade miae luctu, quae hanc calamitatem acerbif fime doluit,
doletque adhuc reminiſcens ſe orbatam homine, in quo plurimae erant lit terae
eaeque interiores, divinum ingenium, ac induſtria fumma; fruebatur vero nominis
celebritate, ut hac fola muneris fui fplendorem tueri potuiſſet. Atque haec vi
tae decorabat dignitas et integritas. Quan tả gravitas mixta comitati in yultu
et moribus ! quantum pondus in verbis ! ut nihil inconſideratum exibat ex ore !
quam diligen ter inquirebat in fè ſe, atque ipſe ſe ſe ob Servabat I Oinnino
tantus erat in ipso ordo, conſtantia, et moderatio dictorum omnium atque
factorum, ut probitatem et religio nem prae se ferret, et ad omne virtutis de
cits natus videretur. Quidquid come loquens, et omnia dulcia dicens mirabiliter
ad se diligendum omnium ani mos alliciebat; si vero in familiari sermo ne a
quopiam dissentiret, contentiones disputationesque vitabat, quod non tam na
turae quam virtutis erat. Etenim iracun diae aculeos aliquando sentiebat, sed
hos perpetuus cupiditatum domitor frangebat, pla neque occultabat. Secum ipſe
vivens animi triftitiam frequenter patiebatur, praeſertim si contemplaretur
misera, in quae incidimus, tempora, quibus corrumpere, et corrumpi saeculum
vocatur. Quod vero nonnulli per verſe adeo abuterentur philofophia, ac prae
ſertim metaphyſica, ut ea animos a religio ne avocarent, tanto illum
perfundebat horrore, ut vehementer poenitere eum non nunquam videretur
industriae suae, quam in erudienda juventute ad recentiorum philoſo phorum
dogmata inſumpſerat. Quae quidem poenitentia injurioſa mihi videtur; omnium
artium parenti philosophiae, quasi ejus culpa, quae deflebat mala C., accidif
ſent. Etenim ſunt unicuique ſcientiae: certi fines ac termini ab omnium rerum
modera tore Deo constituti, quos qui tranfilit, nae ille devius in praecipitem locum
ruat necese est. Sed ad C. revertor, de cujus laudibus non eft tacendum ſummae
illum bonitati ingenuitatique ſummam dexterita tem, ſi oportuiſſet, conjűxisse.
Liberalis minimeque cupidus pecuniae hanc facile a se extorqueri patiebatur.
Virorum litteris illus ftrium amicitias ftudiofillime coluit, amavitque in
primis Trombellium et Paciaudium, quo rum mentionem fupra fecimus, quorumque
conſuetudinis magnum cepit fructum eo prae sertim tempore, quo Romae fuit.
Dolui in pſum combufliffe, quas ab amicis accipere solebat, epistolas, quia
ſciebam in iis erudita multa contineri: eae quidem mihi non me diocri subsidio
futurae fuiſſent huic explican dae vitae. De qua fatis erit dictum, fi hoc unum
addam, eumdem ineditas reliquiffe bi nas Dissertationes de S. Petro Igneo, et B.
Joanne delle Celle; librum de civitatibus, quarum mentio sit in graecis nummis,
ſex que Latinas orationes habitas in Academia Piſana, ex quibus lenitas ejus
fine nervis cognoſci potest. Opere: “Instıutiones philosophicae, ac
Mathemaricae ad ufum Scholarum Piarum: Florentiae typis Paperini, continens
physicam generalem, continens libros de coelo Es mundo, continens tractarum de
anima, E metaphysicam continens ethicam
vel moralem continens institutiones mathematicas Editae iterum fucrunt hae
institutiones in V. mos diſtributae Bononiac ex ty pograghia Laclii a Vulpe cum
hoc titulo Cl. Reg: Scholarum Piarum, et in Pisana Academia Philosophiae
Professoris Institutiones Philosophicae ad un fum scholarum Piarum edirio
altera auctior et emendarior; Ragionamenti intorno allo fato del fiume Arno, dell
acque della Valdinievole, In Colania appresso Heng Werergroot, in 4. “Elementi
di Matiemasica, ne' quali sono con migliori ardine e nikovo metodo dimostrare
le più nobili e necesaria proposizioni di Euclide, Apollonio, e Archimede, Ch.
Reg. delle Scuole Pie: in Firenze. nella Stamperia di S. A. R. per li Tartini,
e Frasa ahi in 8. Hace elementa mathematica edita secundo fuerunt Year I 2 1
netiis apud Antonium Perlinum, in qua edie tione quaedam mutata ſunt,
emendatufque error, quo cao ptus fuerat Auctor, dum in priori editione exposuit
propoíitionem XXXV Venetae huic editioni a djc&us est ejusdem Auctoris liber
della Geometria Pranica; Ragionamento Istorico Sopra la Valdichiana, in cui si
descrive la antica e presente suo stato” (Firenze, Moucke); “Faſii Anici in
quibus Archonium Athenienfium sea ries, Philosophorum, aliorumque illustrium
Virorum deras arque praecipua Acicae historiae capita per Olympicos annos
disposita describuntur, novisque observationibus illustrantur: ACl. Reg. Scholarum Piarum in Pisana Academia Philosophiae Professore, Florentiae,
ex typographia. Giovannelli
ad insigne Palmae in Platea S. Eliſabeth. ex Imperiali typographia Cl. Reg. Scholarum
Piarum in Acadeo mia Pisana Philosophiae Profeſoris Differtationes. Agonisticae,
quibus Olympiorum, Phychiorum, Nemeurum, ale que Isthmorum lempus inquiriiur ac
demonftrarur: Aco redit Hieronicarum catalogus eduis longe uberior Es accurarior.
Florenciae ex typographia Imperiali. In cxtrema pagina hujus libri öxhibetur
integra feries menfium Macedonicorum, Atticorum, et Romanorum ad de mondirandun
veruna corum ficum ac connexionem; quam ſeriem hoc quoque in loco nos exponemus,
quia rem gratam antiquitatis ſtudioſis facturos arbitramur. Series enim a C. contexta
differt nonnullis in nienſibus ab ca quam Scaliger, Uſterius, Petavius,
Dodwellus, aliique descripferunt, i Macedonici Atrici Romani Lous Gorpiaeus
Hyperbercraeus Dlus Apellaeus Audynaeus Peritius Dystrus Xanthicus Artemisius
Daiſius Panemus Hecatombeeon Meragirnion Boedromion Pyanepſion Maemacterion
Pofideon Gamelion Anthefterion Elaphebolion Murychion Thargelion Scirrhophorion
Julius Augustus September October November December Januarius Februarius
Marrius Aprilis Majus Junius Lettere intorno al saggio di Maffei intitolato:
Graecorum Siglae lapidariae. Extat del Giornale de’ Letterati pubblicaro in
Firenze notae graecorum, five vocum Ex numerorum compen dia, quae in aereis
atque marmoreis Graecoruin rabulis ob. fervantur. Collegii, recenſuit,
explicavit, eaſdemque cabu las opportune riluftravia C. Cl. Reg. Scholas) rum
Piarum in academik Piſina Philoſophiae Profesor. Accedunt Differtationes ſex,
quibus marmora quaedam rum facra cum profana exponuntur ac emendantur.
Florentine Tographio Imperiali in fol. Plutarchi de
Placitis Philofophorum libri V. Larine reddidit, recenſuir, adnotationibus,
variantibus lectionibus, diferrationibus illuſtravit C. Cl. Reg. Schoe laruan
Piarum in Pisana Acad. Philosophia Professor Flo. seniige ex Imp. Typographio, Disertationes
quibus antiqua quaedam insignia moc sumente illuſtrantur. Vide eas, Symbolarara
litercriarum Antonii Francisci Gorii. Herculis quies et expiatio in eximio
Farnesiano mere more expresa: in fol. Inscriptiones Articae nunc primum ex Cl. Maffeii
Schea dis in lucem editae latina interpretatione brevibusque observationibus
illuſtratae Cler. Regul. Schole sunr Puarum in Academia Pisana
Philosophiae Professore. Florenciae ansio ex typographio Jo. Pauli
Giovannel li in 4. Solecta ex Graeciae Scriptoribus in usum ſtudiosae Juvent.
sutis, Florentiae ex Imperiali rypographio ir 8. Inſtitutiones Metaphyſicae in
ufus Academicos auctore Eduardo Corfi:n0 Clericorum Regularium Scholarum Piaruz
in Academia Pifana. Philoſophiae Profeſore. Vesieriis ex Typographia
Balleoniana in 12 C. Cl. Reg. Scholarum Piarum in Accodemia Pisana humaniorum
litterarum Profeſſoris de Minni fari aliorumque Armeniac Regum nummis, et Arſacidarum
Epocha Differtario Liburni typis Antonii Santini et Sociorum in 4. Spiegazione
di due antichiſſime inſcriçroni Greche indie ricare al Reverendiffimo Padre
Anton Franceſco Vezzofi, Prepoſto Generale de Cherici Regolari, Lettore nella
Seo pienza Romana, ed Eſaminatore de' Vefcovi da Edoardo Corfini Ch. Reg. delle
Scuole Pie. In Roma, nella Stamperia di Giovanni Zempel; Relazione dello scuoprimento
e ricognizione fatta in Ancona dei Sacri Corpi di S. Ciriaco, Marcellino, e Lia
berio Proiettori della Circà; e Riflefroni ſopra la translazione, ed il culto di
queſte Sanci. In Roma, nellu Stamperia di Zempel in 4. Eduardi Corfini Cler.
Regul. Scholarum Piarum, En in Academia Piſana humaniorum literarum Profeffuris
Dis Seseario, in qua dubia adverſus Minniſari Regis nummum, et novam
Arſacidarum epocham a Cl. Erasmo Froelichio s. J. proposita diluuntur. Romae ex
typographio Palla dis in 4. C. Cler. Regul. Scholarum Piarum et in Academia Pisana
humaniorum lirerarum Profeſoris ad Cles riflimam virum Paulum Mariam Paciaudium
Epiſtola, ir qua Gotarzis Parthiae Regis nummus hactenus ineditos expli Catur,
et plura Parthicae hiſtoriae capita illustrantur. Romae, in Typographio Palladis. Excudebant Nicolaus et Marcus Palearini ir
4.Cl. Reg. Scholarum Piarum in Pifar:& Academia humaniorum
litterarum Profeſoris Epiftolae rres, quibus Sulpiciae. Dryantillae, Aureliani ac Vaballathi Avea guſtorum nummi explicantur et illuſtrantur.
Liburni apud Jo. Paullus Fanthechiam ad fignum Verit. in 4. Series Praefeciorum
Urbis ab Urbe condira ad annum uſque sive a Chriſto naro DC. collegit, rem
cenſuit, illuſtravir Eduardus Corſinus Cler. Reg. Scholarum Piarum in Academia
Piſana humaniorum liuerarum Professor Pisis excudebar Joh. Paulus Giovane
nelius Academiae Pifunae Typographus cum Sociis in 4. Notizie Iſtoriche
intorno a S. Liberio ſepolto e venera 10 nella Cattedrale della città di Ancona
all' Eminentiffimo Signor Cardinale Acciajuoli Veſcovo di detta città. In Are
cona nella Sramperia Bellelli in 4. Cl.
Reg. Scholarum Piarum, in Academia Piſana humaniorum litterarum Profeſoris
Epiſtola de Burdigalenfi Aufonii Confulatu. Piſis Exe cudehar Joh. Paulus
Giovannellius Academiae Pifanae inyo pographus cum Sociis in 4. Clericor.
Regular. Scholarum Pia rum Ex- generalis, et in Pifana Univerſitare Primarii
Les coris ed Joannem Chryſostomum Trombellium canonicorum Regularium
Congregationis S. Salvatoris Ex-generalem et S. Salvatoris Bononiae Abbatem
Epistola, Bunoniae, ex typographia Longhi
in 4; Disertazione sopra S. Pietro Ignes, sopra il B. Giovanni delle Celle; De
Civitatibus, quarum mentio sit in Graecis nummis, Pars I. Historiae Academiae
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segni naturali, segni artificiale, i segni, il segno di Romolo. Refs.: Luigi
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Grice e Cortese: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del segno naturale -- del
principio del significato – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia
lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo
milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. e alpinista.
Grice: “I love Cortese; first he wrote on Frege, whose
views on ‘aber’ are very much like mine on ‘but’! – But then he also wrote on
‘irony,’ alla Socrates – as per Kierkegaard’s example, “He’s a fine fellow!
=> He’s a scouncrel --, and most ‘theoretically,’ as the Italians put it –
on the ‘principle of meaning’ – significato – which had me thinking – I very
freely speak of the principle of conversational helpfulness, but somehow,
principle of ‘signification’ sounds obtuse! Signification seems too natural to
require a principle! If helpfulness and benevolence are evolutionary traits,
they are certainly NOT ‘instituted’ as principles, even if they are
requirements for trust and the ‘institution of decisions’!” “I am anything but
a contractualist, and principle has to be taken with a pinch of salt!” If I
speak of a rational constraint, the idea of a principle evaporates: it’s
conversation as rational cooperation – as I put it – as different from and
stronger than ‘conversation as mere cooperation’ – but this slogan frees us
from a commitment to the existence of a ‘principle’ to which we might want
later to provide with some sort of ‘psycho-logical’ validation!” Di una
famiglia originaria di Sant’Angelo Lodigiano. Si laurea a Trieste e Milano
sotto Bontadini e Noce. Insegna a Trieste. Studia Kierkegaard, Gioberti. Italianismi
in Kierkegaard. Altre opere: “Kirkegaardiana” (Milano); “Esistenzialismo e fenomenologia”
SEI, Torino); “Protologia e temporalità, Gregoriana, Roma); “Kierkegaard”
(Milan); “Del principio di creazione o del significato” Liviana, Padova, Kierkegaard”
(La scuola, Brescia); “Ironia” (Marietti, Genova); La Creazione: Un'apologia
accidentale della filosofia” (Marietti, Genova); “Il negozio del sapone,
Liviana, Padova); “Enten-Eller ([Victor Eremita” (Adelphi, Milano); “L'attrice”
(Antilia, Treviso); “Un discorso edificante” (Marietti, Genova); Il naturale e
il sovra-naturale (Padova); Ermeneutica” (Lint, Trieste), “Il responsabile” –
“Eden” – “Introduzione all’introduzione” del Gioberti – “Frege: signare il
concetto”; “Liberalismo”Meteorologia branca delle scienze dell'atmosfera Lingua
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meteorologia non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti.
La meteorologia[1] (dal greco μετεωρολογία, letteralmente "studio dei
fenomeni celesti"[2]) è il ramo delle scienze dell'atmosfera e della Terra
che studia i fenomeni fisici che avvengono nell'atmosfera terrestre
(troposfera) e responsabili del tempo atmosferico. Cumulonembo
calvus, nube convettiva in atmosfera StoriaModifica Magnifying glass icon
mgx2.svg Storia della meteorologia. Rappresentazione di venti e
meteorologia in una tavola degli Acta Eruditorum del 1716 Il termine deriva dal
greco μετεωρολογία, meteōrología, da μετέωρος metéōros, "elevato" e
λέγω légō, "parlo", quindi "discorso razionale intorno agli
oggetti alti": la parola μετέωρος ha un'etimologiaincerta, forse derivato
dal termine metá in italiano ‘’oltre’’ e ourea ovvero il termine arcaico greco
per ‘’montagne’’ quindi Oltre i Monti [3], o forse da μετά metá "con,
dopo" e αἴρω áirō "alzo".[4] Dopo le prime intuizioni dei greci
si è dovuto attendere fino alla seconda metà del XX secolo quando, con l'arrivo
dei calcolatori elettronici, l'uomo ha avuto la possibilità di eseguire in un
tempo ragionevole le tante operazioni di calcolo che caratterizzano
l'elaborazione a mezzo di un modello meteorologico. Gli oggetti che cadono dal
cielo più frequentemente sul nostro pianeta sono le idrometeore, vale a dire
particelle costituite da acquanella sua forma liquida (pioggia) o solida (neve,
cristalli di ghiaccio, grandine o neve tonda). DescrizioneModifica
Circolazione generale dell'atmosfera Ciclone extratropicale Fronte
caldo Fronte freddo Fronte occluso In particolare lo studio
dell'atmosfera è lo studio sia sperimentale dei suoi parametri fondamentali
(temperatura dell'aria, umidità atmosferica, pressione atmosferica, radiazione
solare, vento), attraverso l'uso di osservazioni e misurazioni dirette e
indirette a mezzo di stazioni meteorologiche, palloni, sonde, razzi e satelliti
meteorologici equipaggiati della necessaria strumentazione, sia teorico,
facente cioè uso dell'astrazione propria del linguaggio della fisica matematica
per la quantificazione delle leggi fisiche o processi (appartenenti alla fisica
dell'atmosfera) che intercorrono tra essi. I due approcci confluiscono
nel risultato finale ovvero l'ideazione, l'implementazione e l'inizializzazione
di modelli matematici in grado di ottenere una previsione o prognosi a breve
scadenza dei vari fenomeni atmosferici (nubi, perturbazioni, vento,
precipitazioni tramite i cosiddetti modelli meteorologici) su un dato
territorio (previsione del tempo). Tempo meteorologico e climaModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tempo
meteorologico, Clima e Variabilità meteorologica. Obiettivo della meteorologia
è quello di misurare direttamente i parametri fisici atmosferici istantanei e
cercare di fornire previsioni su determinati eventi atmosferici futuri,
studiando dunque i fenomeni di breve durata che caratterizzano il tempo
meteorologico; la raccolta di dati sul lungo periodo è utile invece a livello
climatologico studiando l'andamento medio del tempo atmosferico di una regione
in un certo lasso temporale: mentre il tempo atmosferico è definito come
l'insieme delle condizioni atmosferiche in un certo istante temporale su un
dato territorio, il clima invece è l'insieme delle condizioni meteorologiche
medie di un territorio su di un arco temporale di almeno 30 anni, come stabilito
dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM): talune analisi che si
riferiscono in primis all'ambito meteorologico non possono dunque essere estese
all'ambito climatologico essendo questo una media statistica sul lungo periodo,
oggetto di studio di quella scienza affine che è appunto la climatologia;
quindi mentre la meteorologia ha come finalità ultime la comprensione dei
fenomeni atmosferici a breve scadenza con relativa previsione, la climatologia
studia invece i processi dinamici che modificano le condizioni atmosferiche
medie a lunga scadenza, come ad es. i cambiamenti climatici. Principali
fenomeni meteorologiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Fisica dell'atmosfera. L'atmosfera terrestre è un gigantesco
sistema termo-fluidodinamico, accoppiato con il sistema oceanico, la biosfera e
la criosfera, e mosso da una sorgente di energia termica sotto forma di
radiazioni che è il Sole. La natura dinamica e intrinsecamente caotica o
turbolenta dell'atmosfera si esplica attraverso la circolazione generale
dell'atmosfera e una serie innumerevole di fenomeni atmosferici che
quotidianamente osserviamo. Gran parte di questi fenomeni possono essere
inclusi in tre grandi categorie di processi: i processi di redistribuzione
del calore, sia in verticale attraverso il trasferimento radiativo e
convettivo, sia in orizzontale (a piccola, media e larga scala) attraverso i
venti e la circolazione generale dell'atmosfera. i processi atmosferici
coinvolti nel ciclo dell'acqua, innescati a loro volta dai processi radiativi,
quali evaporazione, condensazione, nubi, precipitazioni e i fenomeni
perturbativi ad essi associati (a piccola, media e larga scala) quali fronti
meteorologici, cicloni extratropicali, cicloni tropicali, temporali, rovesci,
tornado ecc. i processi legati all'elettricità atmosferica, come i fulmini. Le
prime due categorie di processi sono intimamente connesse giacché evaporazione,
condensazione e formazioni cicloniche contribuiscono anch'esse al trasporto
dell'energia nel sistema sia in verticale che in orizzontale e allo stesso
tempo da essi innescati. I vari fenomeni meteorologici sono classificati
all'interno della cosiddetta scala dei moti atmosferici a seconda delle
dimensioni del territorio, del tipo di analisi richiesta e dell'intervallo
temporale di interesse in cui essi insistono.
StrumentazioniModifica Strumentazione di una stazione meteorologica
Satellite meteorologico(Meteosat) Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Stazione meteorologica. L'uomo ha anche costruito nuovi
strumenti per osservare le varie interazioni; i seguenti strumenti sono stati
approvati dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM), e molti di essi
vengono utilizzati in ogni stazione meteorologicamondiale:
radiometri e scatterometri localizzati su satelliti meteorologici
misurano l'energia elettromagnetica reirradiata dal pianeta verso lo spazio
esterno, fornendo quindi un'immagine dello stato dell'atmosfera e della
presenza di nuvole termometri (es. a minima e massima), per la misurazione
della temperatura; igrometri, per la misurazione dell'umidità; psicrometri, per
la misurazione dell'umidità; termoigrometri, per la registrazione della
temperatura e dell'umidità; pluviometri/pluviografi, per la misurazione delle
quantità di pioggia; nivometri, per la misurazione dell'accumulo di neve al
suolo; anemometri, per la misurazione della forza e della direzione dei venti;
trasmissometri, per la misurazione della visibilità; palloni sonda per
radiosondaggi: attraversano verticalmente l'atmosfera per ottenere profili
verticali di pressione, temperatura, umidità e vento (sono per ora la
principale fonte di dati per i modelli meteorologici); boe galleggianti e navi
meteorologiche, per l'osservazione delle condizioni meteorologiche in mare
aperto; radar meteorologici. Irradiano energia elettromagnetica e ricavano
informazioni sull'atmosfera analizzando le caratteristiche del segnale da essa
riflesso. Sono utilizzati per individuare eventi di precipitazione, stimarne l'entità
e prevederne l'evoluzione a breve termine (nowcasting), e in alcuni casi per
sondare la struttura interna delle nubi. Possono essere installati a terra o su
satellite; satelliti meteorologici, cioè satelliti che ruotano attorno alla
terra per inviare al suolo immagini del movimento delle nubi e le mappe della
temperatura. I satelliti si dividono in geostazionari e a orbita polare. Si
possono visualizzare le immagini dei satelliti su molti siti web. Previsioni
meteorologiche Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Previsione meteorologica. Manica a vento, uno dei simboli della
Meteorologia Immagine del NOAA Carta meteorologica di previsione a
500 hp Le previsioni meteorologiche si ottengono solitamente dalla seguente
procedura: osservazione e misurazione delle variabili atmosferiche (es.
velocità e direzione del vento, temperatura dell'aria, umidità, pressione);
trascrizione, studio ed elaborazione dei dati rilevati su carte sinottiche o
assimilando i dati attraverso modelli matematici che girano su calcolatori
numerici, dove in quest'ultimo caso, viene prodotta la situazione meteorologica
di un determinato momento, chiamata analisi; prognosi futura a partire dalle
carte sinottiche oppure facendo evolvere la condizione iniziale tramite uso dei
modelli matematici meteorologici (previsione). Ambiti di studioModifica
All'interno della disciplina vi sono vari ambiti di studio: la
meteorologia sinottica che studia in maniera qualitativa e quantitativa
l'evoluzione delle condizioni atmosferiche di vaste porzioni dell'atmosfera
stessa (superiori ai 1000 km) tramite l'uso di carte meteo, nozioni empiriche,
metodo delle analogie ecc. la meteorologia dinamica che, partendo dalle
equazioni di base della fluidodinamica, cerca di spiegare formazione e sviluppo
dei fenomeni osservati (detta anche meteorologia fisica o teorica). la
meteorologia numerica, si occupa di definire e affinare i modelli numerici di
previsione meteorologica la meteorologia satellitare, che si avvale delle
analisi di telerilevamento atmosferico e quindi dei relativi dati trasmessi a
terra dai satelliti meteorologicicome ad esempio i satelliti Meteosat. la
radarmeteorologia che si avvale dei dati raccolti dai radar meteorologici
dislocati sul territorio per affrontare la previsione meteo a brevissima
scadenza (nowcasting). la meteorologia aeronautica, che si occupa
principalmente dei fenomeni rilevanti per la navigazione aerea; la meteorologia
spaziale che si occupa del cosiddetto tempo meteorologico spaziale in alta atmosfera;
la meteorologia ambientale che studia pollini e dinamica degli inquinanti in
atmosfera; l'agrometeorologia che studia le relazioni tra tempo atmosferico e
agricoltura[5]; Meteorologi famosiModifica Edmondo Bernacca Andrea Baroni
Plinio Rovesti Guido Caroselli Mario Giuliacci Guido Guidi Paolo Sottocorona
Paolo Corazzon Luca Mercalli Andrea Giuliacci Daniele Izzo NoteModifica ^ Anche
se spesso viene usata, la grafia metereologia non è corretta, come dimostra
l'etimologia greca; cfr. anche l'abbreviazione meteo. ^ meteorologìa in
Vocabolario, su Treccani Con la stessa etimologia delle antiche divinità della
cosmogonia greca Ouranos (Cieli) e Ourea (Montagne) ^ Franco Montanari,
Vocabolario della lingua greca, Torino, Loescher, Mariani Clima e agricoltura
Rivista I tempi della terra su itempidellaterra.org. Navarra, Le previsioni del
tempo, Il Saggiatore, Agrometeorologia
Atmosfera Anticiclone Avvezione Barometro Carta meteorologica Circolazione
atmosferica Formula ipsometrica Fisica dell'atmosfera Igrometro Isobara
(meteorologia) Isoterma (meteorologia) Grandine Ghiaccio Geopotenziale Legge
della persistenza Legge della compensazione Meteorognostica Nube Neve Pressione
atmosferica Precipitazione (meteorologia) Promontorio di alta pressione
Riscaldamento stratosferico Storia della meteorologia Stazione meteorologica
Saccatura Satellite meteorologico Strato limite Teoria del caos Temperatura
Termometro Tempo (meteorologia) Umidità Variabilità meteorologica Vortice
polare Altri progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene sulla
meteorologia Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su
meteorologia «meteorologia» Collabora a
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a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su
meteorologia Collegamenti esterniModifica ( IT, DE, FR )
Meteorologia, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Modifica su
Wikidata ( EN ) Meteorologia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
Inc. Da questa sezione sono stati rimossi e reinseriti ripetutamente alcuni
link vietati. Organizzazioni nazionaliModifica (IT) Meteo Aeronautica Servizio
Meteorologico dell'Aeronautica Militare AMPRO Associazione Meteo Professionisti
Organizzazioni internazionali World Meteorological Organization Organizzazione
Meteorologica Mondiale (EN) European Centre for Medium-Range Weather Forecasts
Centro europeo per le previsioni meteo a medio termine (EN) Eumetnet
Raggruppamento di 29 servizi meteo nazionali europei (EN) Eumetsat
Organizzazione europea per i satelliti meteorologici European Meteological
Society Portale Meteorologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di
meteorologia Ultima modifica 3 mesi fa di Pav03 Storia della meteorologia
Meteorologo Previsione meteorologica Wikipedia Il contenutoGrice: Can a sign
have a different meaning for utterer and recipient? – If so, why do we keep
calling communication – signare seems to be still good enough! -- Alessandro
Cortese. Cortese. Keywords: del principio del significato, Kierkegaard, soap,
sapone, actress, attrice, edifying discourse, discorso edificante,
naturale/sopra-naturale/preter-naturale, Paul Carus, hyperphysical. Those spots
means she has the devil inside her. Praeter-natural implicatura, supra-natural
implicature, non-natural implicature, natural implicature. “Del significato”,
ironia socratica, sapone, Savona, signare il concetto, sovrannaturale,
liberalismo, il responsabile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cortese” – The
Swimming-Pool Library. Cortese.
Grice e Corvaglia: la ragione
conversazionale, il pessimismo e
l’implicatura di Tantalo – scuola di Melissano – filosofia leccese – filosofia
pugliese-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Melissano). Filosofo leccesse. Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Melissano,
Lecce, Puglia. Grice: “I love Corvaglia – or corvus in diluvio, as he called
himself! – a very Italian philosopher and thus interested in the history of
Italian philosophy, especially Vannini – the fact that he wrote plays on
philosophical subjects – La casa di Seneca – helps!” Opera nel campo della filosofia del rinascimento.
Tra gli studi filosofico-scientifici si distinguono per vastità e profondità i
volumi Le opere di Vanini e le loro fonti, e Vanini Edizioni e plagi, risposta
polemica condotta contro le veementi critiche ricevute Porzio. Pubblica
il romanzo Finibusterre, trasfigurazione quasi sacra della sua amata terra e
del popolo del Basso Salento, ch'egli incitava con ogni mezzo, anche se spesso
travisato e intralciato e persino calunniato a crescere, per migliorare
materialmente e moralmente. Il romanzo fu ben accolto dalla critica. Benedetto
Croce, a cui Corvaglia lo aveva dedicato, rimarcò "lo sfondo storico
rappresentato in modo assai vigoroso" e il "trattamento dei caratteri
e degli effetti". Con maggiore puntualità Annibale Pastore (già suo
professore all'Torino) gli confidava di sentire emergere nella sua mente,
attraverso figure e temi del romanzo, ricordi sepolti, "struggente
malinconia", un mondo molto simile a quello del Manzoni, "anch'esso
celato alla superficie, soffuso d'ironia-limite", e tuttavia turbato da
altri affascinanti caratteri, quali: "il sorprendente realismo, la
perfetta armonia, l'effusione poetica, l'occhio acuto e sicuro, che scruta
l'animo umano fin nelle più remote pieghe". Si dedica totalmente
alla filosofia del Rinascimento, animato dal bisogno di trarre alla luce
obliterate sorgive e percorrendo il
movimento spesso alquanto sconosciuto della filosofia, che dal Rinascimento
risale fino al Medio Evo. S'apre nella sua vita uno spiraglio di fiducia
verso gli uomini impegnati, e si prestadoverosamente secondo la sua fede
politica all'attività politica, accogliendo e votandosi alla cultura mazziniana,
cui rimane Fedele.. È di questo periodo la pubblicazione, tra l'altro, dei
Quaderni Mazziniani: “Noi Mazziniani”, “Mazzini ed il Partito di Azione”, “L'Acherontico
retaggio”, “Il Partito Repubblicano italiano”, il discorso Ai giovani, la
conferenza (edita da Laterza) su Giuseppe Mazzini. Dopo la proclamazione
della Repubblica, però, si allontana da ogni azione politica, ritenendola del
tutto estranea e lontana dall'ideale da lui vagheggiato e sperato. Si
trasferisce a Roma, nell'ambiente culturale a lui più consono, ritornando agli
studi tra i suoi libri, dove soltanto sente di vivere senza alcun compromesso,
in assoluta libertà. Cascata di S.M. di Leuca. Scaligero, un saggio di
"speleologia". Saggio su Cardano. Su iniziativa del comune di Melissano,
è stato avviato un "Biennio di Studio su Corvaglia", al fine di
approfondirne e divulgarne la conoscenza. Alla realizzazione del progetto
collaborano, come protagonisti, anche l'Amministrazione Provinciale di Lecce,
l'Università degli Studi del Salento e l'Istituto Comprensivo Statale di
Melissano, che chiuderanno il biennio dei lavori, organizzando un Convegno su Corvaglia",
al fine di dibattere argomenti di particolare interesse presenti nella sua
opera. A tale riguardo si sta già operando non solo sul piano della ricerca
specialistica e accademica, ma anche sulla promozione d'iniziative, che
coinvolgano biblioteche e settori culturali degli enti locali, creando
opportunità per sviluppare in maniera articolata e organica la ricognizione e
la valorizzazione del patrimonio culturale salentino in generale e melissanese
in particolare, lasciato in eredità da Corvaglia. La casa di
Seneca- Commedia di L. Corvaglia. Altre opere: “La casa di Seneca” (Tipografia
Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Rondini (dedicata "Al mio povero
innocente Nova, fuggevole visione di un Infinito", che avvampa e dilegua
in vicenda amara di avventi senza natale"; Tipografia Fratelli Carra,
Matino (Lecce); “Tantalo” Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce), Santa
Teresa e Aldonzo (L. Cappelli Editore, Bologna); Rondini- Commedia; “Romanzo
Finibusterre, Editrice Dante Alighieri, Milano); “Le fonti della filosofia di
Vanini” (Anphitheatrum Aeternae Providentiae, Società Dante Alighieri, Milano);
“Introduzione semi-seria dialogata per il lettore Vanini” (Edizioni e plagi,
Tipografia Carra di Casarano); “Ricognizione delle opere di G.C. Vanini, in
"Giornale Critico della Filosofia Italiana”; La poetica di Scaligero nella
sua genesi e nel suo sviluppo, in "Giornale Critico della Filosofia
Italiana", Quaderni Mazziniani; “Noi Mazziniani” Tipografica di Matino
(Lecce), “Mazzini e il partito d' azione (critica), Tipografica di Matino
(Lecce), “ L'acherontico retaggio (con l'elogio della vita comune), Tipografica
di Matino (Lecce), Quaderni Mazziniani n° 4. Il partito repubblicano italiano,
Tipografica di Matino (Lecce). Discorso tenuto a Lecce nel Teatro Paisiello.
Giuseppe Mazzini, Discorso commemorativo tenuto a Lecce nel Teatro Apollo,
Laterza, Bari,"Rinascenza salentina", Un Paese del Sud. Melissano.
Storia e tradizioni popolari, Tipografia di Matino. Meridionalista e Polemista,
La Poetica di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo,
Musicaos Editore, Sulla Poetica di G.C. Scaligero. Convegno sy Corvaglia. Il pensiero
politico di Corvaglia. Popolo Sacralità Religiosità. Wikipedia Ricerca
Tantalo personaggio della mitologia greca, figlio di Zeus, legato al famoso
supplizio Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai
cercando altri significati, vedi Tantalo (disambigua). Tàntalo Tantalus by J.Heintz
the Elder, jpg Tantalo Nome orig.Τάνταλος SessoMaschio Luogo di nascitaLidia
ProfessioneRe di Lidia Tàntalo (Τάνταλος) è un personaggio della mitologia
greca. Re di Lidia (o della Frigia) che per i suoi numerosi peccati fu
punito dagli dei e gettato nel Tartaro, la sua punizione è divenuta una figura
retorica con cui si indica una persona che desidera qualcosa che non può
raggiungere. EtimologiaModifica Secondo Platone, accordandosi alla radice
greca τλα-/τλη- del verbo greco τλάω (che significa "soffrire"), il
nome Tantalo deriverebbe da talànatos(infelicissimo) Genealogia Modifica Figlio
di Zeus o di Tmolo[4] e della ninfa Pluto sposò la ninfa Dione[2] (figlia di
Atlante) o Eurinassa (figlia di Pattolo) o Euritemiste (figlia di Xanto) o
Clizia (figlia di Anfidamante) e fu
padre di Pelope, Brotea, Niobe e Dascilo[10]. MitologiaModifica Tantalo
visse presso il monte Sipylos in Anatolia, dove fondò la città di
Tantalis[11]. Il banchetto di Tantalo I misfattiModifica Tantalo, che
grazie alle sue origini era ben voluto dagli dei si rese responsabile di
diverse offese nei loro confronti e violò le regole della xenia cercando di
rapire Ganimede, rubando dell'ambrosia che in seguito distribuì ai suoi sudditi
ed organizzando il furto di un cane d'oro creato da Efesto e posto a guardia di
un tempio di Zeus a Creta (di tale furto l'artefice materiale fu Pandareo ma
Tantalo giurò il falso ad Hermes, inviato dagli dei proprio per recuperare
l'animale; secondo un'altra versione il cane era in realtà Rea trasformata in
quel modo da Efesto). Il re infine organizzò un banchetto a cui invitò
gli dei stessi e, per mettere alla prova la loro onniscienza, uccise suo figlio
Pelope e lo fece servire come pasto: Demetra, disperata per la perdita della
figlia Persefone, non si accorse di nulla e consumò parte di una spalla del
ragazzo, ma gli altri dei notarono immediatamente l'atrocità e gettarono i
pezzi di Pelope in un calderone[13]. Il supplizioModifica Il
supplizio di Tantalo Gli dei punirono Tantalo gettandolo negli inferi[12] e
condannandolo ad avere per sempre una fame e una sete impossibili da placare schiacciato dal peso di un masso, legato ad un
albero da frutto e immerso fino al collo in un lago d'acqua dolce: appena prova
ad abbeverarsi il lago si prosciuga e non appena prova a prendere un frutto i
rami si allontanano o un colpo di vento li fa volare lontano. Il sepolcro
di Tantalo sorgeva sul monte Sipylos ma gli onori gli furono pagati ad Argo, la
cui tradizione locale sosteneva anche di possedere le sue ossa[3]. Miti
successiviModifica I mitografi successivi cercarono in tutti i modi di
discolpare gli dei da un possibile atto di cannibalismo stravolgendo in tutto
la storia di Tantalo: secondo tale versione, infatti, egli era un sacerdote che
rivelò ogni segreto ai non iniziati, al che colpirono suo figlio con una
malattia orrenda. I chirurghi di allora, con varie operazioni, riuscirono a
ricostruire il corpo originale anche se di lì in poi esso portò innumerevoli
cicatrici. Filosofia Il mito di Tantalo venne successivamente ripreso dal
filosofo Arthur Schopenhauer nella sua opera più nota, Il mondo come volontà e
rappresentazione, come esempio della eterna insoddisfazione dell'uomo per cui
"contro un desiderio che viene appagato ne rimangono almeno dieci
insoddisfatti; la brama dura a lungo, le esigenze vanno all'infinito mentre
l'appagamento è breve e misurato con spilorceria". Curiosità. Il
furto dell'ambrosia a vantaggio degli esseri umani lo accomuna a Prometeo, ma
in questa veste il suo mito si trasforma da peccatore a benefattore. Tantalo,
alla stregua di Licaone, era uno dei re originali a cui era concesso, con il
favore degli dei, di condividerne la mensa: il suo gesto viene visto come un
atto di separazione fra divinità e umanità, che verrà poi ripreso da molti
altri miti come nel caso di Achille. Il supplizio di Tantalo viene citato anche
da Primo Levi in Se questo è un uomo nella frase: "Si sentono i dormienti
respirare e russare, qualcuno geme e parla. Molti schioccano le labbra e
dimenano le mascelle. Sognano di mangiare (...). È un sogno spietato, chi ha
creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo." Oriana Fallaci, in Se il
sole muore, cita il mito di Tantalo dal momento che nella missione Apollo
11l'astronauta Michael Collins sarà costretto ad avvicinarsi alla Luna senza
avere la risposta a: "Com'è la Luna? Assomiglia alla Terra? È più bella?
Più brutta? Che effetto fa camminarci?". La tortura di Tantalo viene
ripresa anche da Thomas Mann in La montagna incantata. Un personaggio
dell'opera, la signora Stohr, riferendosi al prolungarsi indefinito delle
prescrizioni per le cure, afferma: «[omissis] Dio buono si è sempre allo stesso
punto, lo sa anche lei. Si fanno due passi avanti e tre indietro... Quando uno
ha fatto cinque mesi, arriva il vecchio e gliene rifila altri sei. Ah, è la
tortura di Tantalo. Si spinge, si spinge e quando si crede d'essere in
cima...». È evidente la confusione che la signora, avvezza alle gaffes, fa tra
Tantalo e Sisifo. L'interlocutore, il sarcastico e dotto umanista Settembrini,
risponde sul punto: «Oh, brava e generosa! Finalmente concede al povero Tantalo
un diversivo. Per variare gli fa spingere il famoso pietrone! È un atto di vera
bontà! [omissis]». Ne La valle dell'Eden John Steinbeck fa dire a Kate:
"Chi era quello che non riusciva a bere da un setaccio? Tantalo?".
Tantalo appare come sostituto di Chirone nel secondo libro della Saga di Percy
Jackson Il mare dei mostri. Il tantalio, elemento chimico di numero atomico 73,
prende il nome da Tantalo, e si trova sotto il niobio, il cui nome deriva
proprio da sua figlia Niobe. Platone, Cratilo, Igino, Fabulae Pausania il
Periegeta, Periegesi della Grecia, su theoi Scholia ad Euripide, Oreste Tzetzes
a Licofrone,Scholia ad Euripide, Oreste, Pausania il Periegeta, Periegesi della
Grecia, III, 22.4, su theoi Igino, Fabulae Apollodoro, Biblioteca, III, 5.6, su
theoi.com. il Scolio ad Apollonio Rodio, Le Argonautiche, Plinio il Vecchio
Naturalis historia, Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, su theoi Pindaro,
Olimpiche, 1.60 ff, su perseus.tufts Euripide, Oreste Liberale, Metamorfosi Apollodoro, Biblioteca,
Epitome II, 1, su theoi Tzetze, a Licofrone Pindaro, Olimpiche, 1, 59-63.
BibliografiaModifica Fonti primarie Esiodo, Teogonia Pausania, Pindaro,
Olimpica III, 41 Igino, Fabulae Graves, I miti greci, Milano, Longanesi Cerinotti,
Miti greci e di roma antica, Prato, Giunti, Ferrari, Dizionario di mitologia,
Litopres, UTET, Carassiti, Dizionario di mitologia classica, Roma, Newton,
Prometeo Issione Tizio Sisifo Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia
Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Tantalo
Collegamenti esterniModifica Tantalo, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Carlo Gallavotti,
TANTALO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Tantalo,
su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. La storia di Tantalo,
su haidukpress.Portale Mitologia greca: accedi alle voci di Wikipedia che
trattano di mitologia greca Ultima modifica 3 giorni fa di Nicola Gotti Enomao
re di Pisa nella mitologia greca, figlio di Ares Clitennestra personaggio
della mitologia greca, moglie di Agamennone e amante di Egisto Minia re e
fondatore di Orcomeno in Beozia nella mitologia greca Wikipedia Il
contenutoAlles Wollen entspringt aus Bedürfniß, also aus Mangel, also aus
Leiden. Diesem macht die Erfüllung ein Ende; jedoch gegen einen Wunsch, der
erfüllt wird, bleiben wenigstens zehn versagt: ferner, das Begehren dauert
lange, die Forderungen gehen ins Unendliche; die Erfüllung ist kurz und
kärglich bemessen. Sogar aber ist die endliche Befriedigung selbst nur
scheinbar : der erfüllte Wunsch macht gleich einem neuen Platz : jener ist ein
erkannter, dieser ein noch unerkannter Irrthum. Dauernde, nicht mehr weichende
Befriedigung kann kein erlangtes Objekt des Wollens geben: sondern es gleicht
immer nur dem Almosen, das dem Bettler zugeworfen, sein Leben heute fristet, um
seine Quaal auf Morgen zu verlängern. – Darum nun, solange unser Bewußtseyn von
unserm Willen erfüllt ist, solange wir dem Drange der Wünsche, mit seinem
steten Hoffen und Fürchten, hin- gegeben sind, solange wir Subjekt des Wollens
sind, wird uns nimmermehr dauerndes Glück, noch Ruhe. Ob wir jagen, oder
fliehn, Unheil fürchten, oder nach Genuß streben, ist im Wesentlichen einerlei:
die Sorge für den stets fordernden Willen, gleichviel in welcher Gestalt,
erfüllt und bewegt fortdauernd das Bewußtseyn; ohne Ruhe aber ist durchaus kein
wahres Wohlseyn möglich. So liegt das Subjekt des Wollens beständig auf dem
drehenden Rade des Ixion, schöpft immer im Siebe der Danaiden, ist der ewig
schmachtende Tantalus. Luigi Corvaglia. Corvaglia. Keywords: Tantalo,
Schopenhauer, Sisifo, assurdo, Camus, tragico. Refs.: Vanini, Bordon, poetica,
Mazzini, Pomponazzi, Cardano --. Luigi Speranza, “Grice e Corvaglia” – The
Swimming-Pool Library. Corvaglia.
Grice
e Corvino: la ragione conversazionale a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Imbevuto di discorsi socratici, insigne per le sue attività
politiche e militari, scrittore e protettore di poeti. C. studia in Atene
con Orazio e poi coltivò l’eloquenza, la grammatica, la poesia. C. e
incluso nelle liste di proserizione perchè avversario di Cesare, ma salva la
vita. C. combattò con Bruto e Cassio a Filippi, poi si unì ad
Marc'Antonio.In seguito, C. strinse rapporti con Ottaviano. C. e console,
combattè ad Azio ed ebbe comandi in Oriente. Per una vittoria
sugl'Aquitani, C. consegue il trionfo.C. rimase però sempre fedele alle antiche
convinzioni politiche, e perciò, dopo sei giorni dalla nomina, abbandona l’ufficio
di praefectus urbis. C. e curator aquarum. A nome del Senato, C.
salutò Augusto "pater patriae."Corvino fu capo di un circolo
filosofico al quale appartennero Tibullo e Ligsdamo.C. scrive carmi bucolici e
orazioni. Come oratore, C. e molto lodato da Tacito e Quintiliano.C.
compose un’opera storica, probabilmente di memorie.Alcuni hanno rilevato
influssi dell’Epicureismo, altri di Posidonio, nel lungo frammento che ci
rimane di un poema sulla caccia ("Cynegetica") composto da Grattio,
vissuto al tempo di Augusto.Ma abbiamo elementi troppo scarsi per determinare
le direttive del suo pensiero. Del poeta Linceo (probabilmente questo
era uno pseudonimo), Properzio, suo amico e rivale in amore, dice che attingeva
la sua sapienza ai libri socratici e che avrebbe potuto trattare del corso
delle cose, del sistema del mondo e di problemi, escatologici e naturali. Marco
Valerio Mesalla Corvino. Corvino.
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