Grice e Beccaria: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di
Milano – filosoia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo
italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I would call Beccaria a Griceian, but I’m
not sure he would call me a Beccarian!” Grice: “His explicit, rather than implicated, Griceian
ideology is in the opening chapter on “Lo stilo conversazionale’ – he notes
that the implicaturum ain’t a part of the ‘sintassi’ of the ‘proposizione’
which is explicated – he adds that ‘senses’ should not be multiplied because
your addressee may get YOUR sense, but trust he will lose interest if you keep
multiplying – “to the risk that he won’t get your sense in the last place!” – Grice:
“Like me, Beccaria was a unitarian philosopher; his tract on ‘I piaceri’ is
delightful, very pleasant read!” – If Austin and us met on different grounds
and pubs, Beccaria met at the caffe, and he liked it – Italians, unfortunately,
only know him for his tract on guilt and punishment!” – Grice: “Most Italians
don’t even consider Beccaria an Italian
philosopher but as a member of the Accademia dei Pigne, as part of the
illuminismo Lombardo --.” Grice: “The philosophical panorama or landscape of
Italian philosophy is much diverse than our Oxonian dialectic!” -- One of the most essential of Italian
philosophersReferred to by H. P. Grice in his explorations on moral versus
legal right, studied in Parma and Pavia and taught political economy in Milan.
Here, he met Pietro and Alessandro Verri and other Milanese intellectuals
attempting to promote political, economical, and judiciary reforms. His major
work, Dei delitti e delle pene “On Crimes and Punishments,” denounces the
contemporary methods in the administration of justice and the treatment f
criminals. Beccaria argues that the highest good is the greatest happiness
shared by the greatest number of people; hence, actions against the state are
the most serious crimes. Crimes against individuals and property are less
serious, and crimes endangering public harmony are the least serious. The
purposes of punishment are deterrence and the protection of society. However,
the employment of torture to obtain confessions is unjust and useless: it
results in acquittal of the strong and the ruthless and conviction of the weak
and the innocent. Beccaria also rejects the death penalty as a war of the state
against the individual. He claims that the duration and certainty of the
punishment, not its intensity, most strongly affect criminals. Beccaria was
influenced by Montesquieu, Rousseau, and Condillac. His major work was tr. into
many languages and set guidelines for revising the criminal and judicial
systems of several European countries. Se
dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la
causa dell’umanità.» (da Dei delitti e delle pene) Cesare Beccaria
Bonesana, marchese di Gualdrasco e di Villareggio (Milano), giurista, filosofo,
economista e letterato italiano considerato tra i massimi esponenti
dell'illuminismo italiano, figura di spicco della scuola illuministica
milanese. La sua opera principale, il trattato Dei delitti e delle pene,
in cui viene condotta un'analisi politica e giuridica contro la pena di morte e
la tortura sulla base del razionalismo e del pragmatismo di stampo
utilitarista, è tra i testi più influenti della storia del diritto penale ed
ispirò tra gli altri il codice penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di
Toscana. Nonno materno di Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria è
considerato inoltre come uno dei padri fondatori della teoria classica del
diritto penale e della criminologia di scuola liberale. nacque a Milano
(allora appartenente all'impero asburgico), figlio di Giovanni Saverio di
Francesco e di Maria Visconti di Saliceto. Educato a Parma dai gesuiti e si
laureò in Giurisprudenza all'Università degli Studi di Pavia. Il padre aveva
sposato la Visconti in seconde nozze, dopo essere rimasto vedovo di Cecilia
Baldroni. Sposò Teresa Blasco contro la volontà del padre, che lo
costrinse a rinunciare ai diritti di primogenitura (mantenne però il titolo di
marchese); da questo matrimonio ebbe quattro figli: Giulia, Maria, nata con
gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni Annibale nato e morto nel
1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772. Il padre lo cacciò
anche da casa dopo il matrimonio, così dovette essere ospitato da Pietro Verri,
che lo mantenne anche economicamente per un periodo. Teresa morì a causa
della sifilide o della tubercolosi. Beccaria, dopo appena 40 giorni di
vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti Barnaba Barbò,
che sposò in seconde nozze ad appena 82 giorni dalla morte della prima moglie.
Da Anna Barbò ebbe un altro figlio, Giulio. l suo avvicinamento
all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu e
del “Contratto sociale” di Rousseau, grazie ai quali si entusiasmò per i
problemi filosofici e sociali ed entrò nel cenacolo di casa Verri, dove aveva
sede anche la redazione del Caffè, il più celebre giornale politico-letterario
del tempo, per il quale scrisse sporadicamente. Dopo la pubblicazione di
alcuni articoli di economia, nel 1764 diede alle stampe Dei delitti e delle
pene, capolavoro ispirato dalle discussioni in casa Verri del problema dello
stato deplorevole della giustizia penale. Inizialmente anonimo è un breve
scritto contro la tortura e la pena di morte che ebbe enorme fortuna in tutta
Europa e nel mondo e in particolare in Francia. Contro le posizioni di
Beccaria uscì, nel 1765 il testo Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei
delitti e delle pene di Ferdinando Facchinei. Le polemiche che ne seguirono
contribuirono alla decisione di mettere il trattato di Beccaria all'Indice dei
libri proibiti nel 1766, a causa della distinzione tra peccato e reato. B.
viaggiò poi controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli
Verri e dei filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve
tempo nel circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la
moglie lontana e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena
possibile tornasse a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro
Verri a proseguire il viaggio verso l'Inghilterra. Il carattere riservato e
riluttante di B., tanto nelle vicende private quanto nelle pubbliche, ebbe nei
fratelli Verri, e soprattutto in Pietro, un fondamentale punto di appoggio e di
stimolo soprattutto quando iniziò ad interessarsi allo studio dell'economia.
Come Rousseau, B. è a tratti paranoico e aveva spesso sbalzi d'umore, la sua
personalità era abbastanza indolente e il carattere debole, poco brillante e
non portato alla vita sociale; ciò non gli impediva però di esprimere molto
bene i concetti che aveva in mente, soprattutto nei suoi saggi. Tornato a
Milano ottenne la cattedra di Scienze Camerali (economia politica), creata per
lui nelle scuole palatine di Milano e cominciò a progettare una grande opera
sulla convivenza umana, mai completata. Perego, L'Accademia dei Pugni. Da
sinistra a destra: Longo, Verri, Biffi, B., Lambertenghi, Verri, Visconti di
Saliceto Entrato nell'amministrazione austriaca, fu nominato membro del Supremo
Consiglio dell'Economia, carica che ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo
alle riforme asburgiche sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Fu criticato per
questo dagli amici (tra cui Verri), che gli rimproveravano di essere diventato
un burocrate. Gli studiosi, però, considerano questi giudizi ingiusti dal
momento che Cesare Beccaria si dedicò ad importanti riforme, che richiedevano
una notevole preparazione intellettuale, non solo amministrativa. Fra queste ci
fu la riforma delle misure dello stato milanese, intrapresa prima di quella del
sistema metrico decimale francese, e a cui B., insieme al fratello Annibale,
dedicò quasi vent'anni della sua vita. (La riforma, notevolmente complessa,
coinvolse alla fine solo il braccio milanese. La successiva riforma dei pesi
non fu mai realizzata.) Il suo rapporto con la figlia Giulia, futura
madre di Manzoni, è conflittuale per gran parte della sua vita; ella era stata
messa in collegio (nonostante B. avesse spesso deprecato i collegi religiosi)
subito dopo la morte della madre e lì dimenticata per quasi sei anni: suo padre
non volle più sapere niente di lei per molto tempo e non la considerò mai sua
figlia, bensì il frutto di una relazione extraconiugale delle numerose che la
moglie aveva avuto. B. non si sentiva adeguato al ruolo di padre, inoltre negò
l'eredità materna alla figlia, avendo contratto dei debiti: ciò gli diede la
fama di irriducibile avarizia. Giulia uscì dal collegio, frequentando poi gli
ambienti illuministi e libertini. La diede in sposa al conte Manzoni, più
vecchio di vent'anni di lei: il nipote Alessandro nacque, ma pare fosse in
realtà il figlio di Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro, e amante di
Giulia. Prima della morte del padre, Giulia abbandona il marito per andare a
vivere a Parigi insieme al conte Imbonati, rompendo i rapporti definitivamente
col padre, e temporaneamente anche con
il figlio. B. muore a Milano a causa di un ictus e trovò sepoltura nel
Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in una sepoltura popolare (dove è
sepolto anche Parini) anziché nella tomba di famiglia. Quando tutti i resti
vennero traslati nel cimitero monumentale di Milano, un secolo dopo, si perse
traccia della tomba del grande giurista. Pietro Verri, con una riflessione
valida ancora oggi, deplorò nei suoi scritti il fatto che i milanesi non
avessero onorato abbastanza il nome di B., né da vivo né da morto, che tanta
gloria aveva portato alla città. Ai funerali di B. è presente anche il nipote
Manzoni (che riprende molte delle riflessioni del nonno e di Verri nella Storia
della colonna infame e nel suo capolavoro, I promessi sposi), nonché il figlio
superstite ed erede, Giulio. B. è influenzato dalla lettura di Locke,
Helvetius, Rousseau e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo
di Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in particolare da
Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria contrattualistica del
diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da Rousseau, che
sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale (nell'omonima opera)
teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo
l'ordine, B. definì in pratica il delitto in maniera laica come una violazione
del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene alla
coscienza della persona e non alla sfera pubblica. La società nel suo complesso
godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura
proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e
secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della
vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito nemmeno il
suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del ginevrino,
aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva certamente
andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto
individuale). Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in
frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni
eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è
necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi
nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire,
è parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare
pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la
loro ingiustizia. Egli è infatti consapevole che i legislatori sono mossi più
dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso
o filosofico. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte
né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Beccaria quindi si
inserisce nel filone utilitaristico: considera l'utile come movente e metro di
valutazione di ogni azione umana. Monumento a B., Grandi, Milano
L'ambito della sua dottrina è quello general-preventivo, nel quale si suppone
che l'uomo sia condizionabile in base alla promessa di un premio o di un
castigo e, nel contempo, si ritiene che sussista fra ogni cittadino e le
istituzioni una conflittualità più o meno latente. Sostiene la laicità dello
Stato. Adotta come metodo d'indagine quello analitico-deduttivo (tipico della
matematica) e per lui l'esperienza è da intendersi in termini fenomenici
(approccio sensista). La natura umana si svolge in una dimensione
edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la moltitudine, agiscono
seguendo i loro sensi. In poche parole l'uomo è caratterizzato dall'edonismo.
Gli individui possono essere parago dei fluidi messi in movimento dalla
costante ricerca del piacere, intesa come fuga dal dolore. L'uomo però è una
macchina intelligente capace di razionalizzare le pulsioni, in modo da
consentire la vita in società; infatti certamente ogni uomo pretende di essere
autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si rende conto della
convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e quindi bisogna
impedire che il cittadino venga sedotto dall'idea di infrangere la legge al
fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il legislatore,
da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in funzione
preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo le
pulsioni antisociali. Tuttavia B. sostiene che la sanzione deve essere sì
idonea e sicura, a garantire la difesa sociale, ma al contempo mitigata e
rispettosa della persona umana. «Il fine delle pene non è di tormentare
ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può
egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il
tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa
inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le
strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già
consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni
ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque
e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione,
farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la
meno tormentosa sul corpo del reo. Parmi un assurdo che le leggi, che sono
l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne
commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio,
ordinino un pubblico assassinio (Dei delitti e delle pene)
Illustrazione allegorica da Dei delitti e delle pene: la giustizia
personificata respinge il boia, con in mano una testa, e una spada. La pena di
morte, una guerra della nazione contro un cittadino, è inaccettabile perché il
bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla volontà del singolo e
dello Stato. Inoltre essa: non è un vero deterrente non è assolutamente
necessaria in tempo di pace Essa non svolge un'adeguata azione intimidatoria
poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un ergastolo perpetuo o di una
miserabile schiavitù: si tratta di una sofferenza definitiva contro una
sofferenza ripetuta. Ai soggetti che assistono alla sua esecuzione, inoltre,
essa può apparire come uno spettacolo o suscitare compassione. Nel primo caso,
essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini al delitto; nel secondo, non
rafforza il senso di obbligatorietà della legge e il senso di fiducia nelle
istituzioni. Questa condizione è assai più potente dell'idea della morte
e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è quindi efficace ed
intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene sostituita alla morte
del corpo la morte dell'anima, il condannato viene annichilito interiormente.
Tuttavia non è la punizione fine a sé stessa l'obiettivo di B., ma egli
utilizza questo argomento dell'afflittività penale per convincere i governanti
e i giudici, in quanto il suo fine resta eminentemente rieducativo e
risarcitivo (il condannato non deve essere afflitto o torturato, ma deve
riparare il danno in maniera economico-politica, come previsto da una
concezione puramente utilitaristica e di giustizia anti-retributiva). Beccaria
ammette che il ricorso alla pena capitale sia necessario solo quando
l'eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno per distogliere gli
altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta tumulti e tensioni
sociali: ma questo caso non sarebbe applicabile se non verso un individuo molto
potente e solo in caso di una guerra civile. Tale motivazione fu usata, per
chiedere la condanna di Luigi XVI, da Maximilien de Robespierre, il quale era
inizialmente avverso alla pena capitale ma in seguito diede il via ad un uso
spropositato della pena di morte e poi al Terrore; comportamenti del tutto
inammissibili nel pensiero di Beccaria, che infatti prese le distanze, come
molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese. La tortura, “l'infame
crociuolo della verità”, viene confutata da Beccaria con varie
argomentazioni: essa viola la presunzione di innocenza, dato che «un uomo
non può chiamarsi reo fino alla sentenza del giudice». consiste in
un'afflizione e pertanto è inaccettabile; se il delitto è certo porta alla pena
stabilita dalle leggi, se è incerto non si deve tormentare un possibile
innocente. non è operativa in quanto induce a false confessioni, poiché l'uomo,
stremato dal dolore, arriverà ad affermare falsità al fine di porre termine
alla sofferenza. è da rifiutarsi anche per motivi di umanità: l'innocente è
posto in condizioni peggiori del colpevole. non porta all'emenda del soggetto,
né lo purifica agli occhi della collettività. B. ammette razionalmente
l'afflizione della tortura nel caso di testimone reticente, cioè a chi durante
il processo si ostini a non rispondere alle domande; in questo caso la tortura
trova una sua giustificazione, ma egli preferisce comunque chiederne la totale
abolizione, in quanto l'argomento utilitario viene in questo caso sopraffatto
comunque da quello razionale (il fatto che è ingiusto applicare una pena
preventiva, sproporzionata e comunque violenta). Il carcere preventivo B.
mostra dubbi e raccomanda cautela nella custodia cautelare in attesa di processo,
attuata negli ordinamenti penali solitamente in casi di pericolo di fuga,
reiterazione o inquinamento delle prove, e alla sua epoca assolutamente
discrezionale e ingiusta. «Un errore non meno comune che contrario al fine
sociale, che è l'opinione della propria sicurezza, è il lasciare arbitro il
magistrato esecutore delle leggi, d'imprigionare un cittadino, di togliere la
libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e il lasciare impunito un amico ad
onta degl'indizi più forti di reità. La prigionia è una pena che per necessità
deve, a differenza di ogni altra, precedere la dichiarazione del delitto; ma
questo carattere distintivo non le toglie l'altro essenziale, cioè che la sola
legge determini i casi, nei quali un uomo è degno di pena. La legge dunque
accennerà gli indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che lo
assoggettano ad un esame e ad una pena.» Può essere necessaria, ma
essendo comunque una pena contro un presunto innocente, come la tortura
(concezione garantista della giustizia), non deve essere attuata tramite
arbitrio di un magistrato o di un ufficiale di polizia. La carcerazione dopo
cattura e prima del processo è ammessibile solo quando ci sia, oltre ogni
dubbio la prova della pericolosità dell'imputato: «pubblica fama, la fuga, la
stragiudiciale confessione, quella d'un compagno del delitto, le minacce e la
costante inimicizia con l'offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono
prove bastanti per catturare un cittadino. Ma queste prove devono stabilirsi
dalla legge e non dai giudici, i decreti de' quali sono sempre opposti alla
libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari di una massima
generale esistente nel pubblico codice. Le prove dovranno essere quanto
più solide quanto la prigionia rischi di essere lunga o pesante: «A misura che
le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri,
che la compassione e l'umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno
agli inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno
contentarsi d'indizi sempre più deboli per catturare». Egli raccomanda
inoltre la piena riabilitazione per la carcerazione ingiusta: «Un uomo accusato
di un delitto, carcerato ed assoluto, non dovrebbe portar seco nota alcuna
d'infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti,
furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è
così diverso ai tempi nostri l'esito di un innocente? perché sembra che nel
presente sistema criminale, secondo l'opinione degli uomini, prevalga l'idea
della forza e della prepotenza a quella della giustizia; si gettano confusi
nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto
un supplizio, che una custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle
leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando
unite dovrebbono essere». Il carattere della sanzione Frontespizio
di Scritti e lettere inediti B.,
incisione da Dei delitti e delle pene Beccaria indica come la sanzione deve
possedere alcuni requisiti: la prontezza ovvero la vicinanza temporale
della pena al delitto l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della
risposta sanzionatoria da parte delle autorità la proporzionalità con il reato
(difficile da realizzare ma auspicabile) la durata, che dev'essere adeguata la
pubblica esemplarità, infatti la destinataria della sanzione è la collettività,
che constata la non convenienza all'infrazione essere la «minima delle
possibili nelle date circostanze» Secondo Beccaria, per ottenere
un'approssimativa proporzionalità pena-delitto, bisogna tener conto: del
danno subito dalla collettività del vantaggio che comporta la commissione di
tale reato della tendenza dei cittadini a commettere tale reato Non dev'essere
comunque una violenza gratuita, ma dev'essere dettata dalle leggi, oltre a
possedere tutti i caratteri razionali citati, e sprovvista di personalismi e
sentimenti irrazionali di vendetta. La pena è oltretutto una extrema
ratio, infatti si dovrebbe evitare di ricorrere ad essa quando si hanno
efficaci strumenti di controllo sociale (non deve inoltre colpire le intenzioni
in maniera analoga al fatto compiuto: ad esempio, l'attentato fallito non è
paragonabile a uno riuscito). Per questi motivi è importante attuare degli
espedienti di “prevenzione indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato
della magistratura, la diffusione dell'istruzione nella società, il diritto
premiale (premiare la virtù del cittadino, anziché punire solo la colpa), una
riforma economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi
sociali disagiate. Beccaria si dichiara inoltre sospettoso verso il sistema
delatorio (cosiddetta collaborazione di giustizia), da usare solo per prevenire
delitti importanti, in quanto incoraggia il tradimento e favorisce dei
criminali rei confessi dando loro l'impunità. Per quanto riguarda
l'istituto premiale nella pena già comminata, cioè le amnistie e la grazia,
essi possono essere usati ma con cautela: al condannato che si comporta in maniera
esemplare durante l'esecuzione della pena o in casi specifici, ma solo in caso
di pene pesanti, esse possono essere concesse; suggerisce però di limitare la
discrezionalità del governante e del giudice, poiché egli teme che lo strumento
della clemenza venga usato per favoritismi, come nell'Antico Regime, eliminando
anche pene lievi a persone che siano potenti o vicini politicamente o
umanamente al sovrano: «La clemenza è la virtú del legislatore e non
dell'esecutor delle leggi», scrive infatti. Pertanto il fine della
sanzione non è quello di affliggere, ma quello di impedire al reo di compiere
altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri, fino a parlare di
"dolcezza della pena", in contrasto alla pena violenta: «Uno
dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità
di esse. La certezza di un castigo, benché moderato farà sempre una maggiore
impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza
dell'impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre
gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di
tutto, ne allontana sempre l'idea dei maggiori, massimamente quando l'impunità,
che l'avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L'atrocità
stessa della pena fa sì che si ardisca tanto più per schivarla, quanto è grande
il male a cui si va incontro; fa sì che si commettano più delitti, per fuggir
la pena di uno solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon
sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo
spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del
parricida e del sicario. Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il
male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di
male deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che
il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò
tirannico.» Il diritto all'autodifesa: sul porto di armi Il pensiero di B.
sul porto di armi, che egli riteneva un utile strumento di deterrenza del
crimine, si riassume nelle seguenti citazioni.Falsa idea di utilità è quella
che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di
troppa conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e
l'acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che
proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i
non inclinati né determii delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter
violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come
rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili
ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l'esecuzione esatta delle quali
toglie la libertà personale, carissima all'uomo, carissima all'illuminato
legislatore, e sottopone gl'innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei?
Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli
assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la
confidenza nell'assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi
non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa
impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione
degl'inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale» Influenza Anche
Foscolo rileverà nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis che "le pene
crescono coi supplizi". L'opera ed il pensiero di Beccaria, inoltre,
influenzarono la codificazione del Granducato di Toscana, concretizzata nella
Riforma della legislazione criminale toscana, promulgata da Pietro Leopoldo
d'Asburgo, meglio conosciuta come "Codice leopoldino" col quale la
Toscana divenne il primo stato in Europa ad eliminare integralmente la pena di
morte e la tortura dal proprio sistema penale. Il filosofo utilitarista
Bentham ne riprenderà alcune idee. Le idee del B. stimolarono un dibattito
(si pensi alle critiche che Kant gli mosse nella sua Metafisica dei costumi)
ancora vivo e attuale oggi. Citazioni e riferimenti Monumento a
Cesare Beccaria, Milano. Venne realizzato un monumento a B., opera dello
scultore Marchesi, posto sulla scalinata richiniana del palazzo di Brera. Venne
inaugurato un secondo monumento in marmo a Milano (oggi piazza B.); a causa del
deterioramento, il monumento fu sostituito da una copia in bronzo. Gli è stato
dedicato un asteroide: 8935 B.. Il carcere minorile di Milano è a lui
intitolato. A lui è intitolato un prestigioso Liceo Classico milanese, il
Ginnasio Liceo Statale B.. A lui è dedicato uno dei 3 dipartimenti della
Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano. Altre saggi: “Del
disordine e de' rimedi delle monete a Milano”; “Del delitto e della pena” (Livorno,
Cortellini). Giovanni Claudio Molini); “Ricerche
intorno alla natura dello stile”; “Elementi di economia pubblica”; “Raccolte di
articoli I saggi di B. in «Il Caffè» Collana «Pantheon», Bollati Boringhieri). Due
volumi, Genealogia Dati tratti da genealogia settecentesca della famiglia
Beccaria con indicazione della discendenza di Cesare Beccaria”; “Simone «attese
a negozi con prosperità”; Gerolamo «tesoriere di vari luoghi pii, uomo di
molti trafici” Sposa Isabella Busnata di Giovanni Stefano. Galeazzo «I.C.
causidico nel civile». Francesco “cassiere generale del Banco
Sant'Ambrogio sino a morte ed agente del luogo Pio della Carità». Sposa Anna
Cremasca.Filippo «Successe al padre nel posto di cassiere suddetto, che poscia
rinunciò e si fece sacerdote». Anastasia«Monaca in Vigevano»
Giovanni «Alla morte di suo padre ebbe un'entrata di scuti 5000 con che la
trattò alla cavalleresca». Sposò Maddalena Bonesana figlia di Francesco («rimaritata
nel conte Isidoro del Careto»). Francesco «Fece aquisto de sudetti
feudi di Gualdrasco e Villareggio nel vicariato di Settimo per istrumento 3
marzo 1705 rogato dal notaio Benag.a. Creato marchese per cesareo diploma».
Sposò Francesca Paribelli di Nicolò da Sondrio nella Valtellina. Giovanni
Saverio Secondo marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Ereditò il cognome
Bonesana del prozio Cesare Bonesana. Con decreto, entrò a far parte del
patriziato milanese. Sposa Cecilia Baldironi Maria Visconti di Saliceto Cesare Terzo
marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Sposò Teresa de Blasco Anna Barbò Giulia Sposò Manzoni. Anna
Maria Aloisia Giovanni Annibale Margherita Teresa Giulio Quarto
marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Sposò Antonietta Curioni de Civati
Francesca Cecilia Cesare Antonio Maddalena Sposò Giulio Cesare Isimbardi Tozzi. Annibale
Sposò Marianna Vaccani Francesco Sposò Rosa Conti (vedova Fè). Carlo Sposò Rosa
Tronconi Giacomo Filippo Mariaabate
Carlo Teresamonaca Chiaramonaca Nicola Francesco Laureato
in legge, membro del collegio dei giurisperiti, fu anche giudice a Milano e a
Pavia. Giuseppe Marianna Ignazio Anna Maria Sposò
un Cattaneo «fisico» Gerolamo «Canonico ordinario del Duomo»
Angiola Sposò Alberto Priorino. Tendente al deismo Il nome di «marchese di Beccaria», usato
talvolta nella corrispondenza, si trova in molte fonti (tra cui l'Enciclopedia
Britannica) ma è errato: il titolo esatto era «marchese di Gualdrasco e di Villareggio»
(cfr. Maria G. Vitali, Cesare Beccaria. Progresso e discorsi di economia
politica, Paris, Philippe Audegean, Introduzione, in Lione) John Hostettler, Cesare Beccaria: The Genius
of 'On Crimes and Punishments', Hampshire, Waterside Press, Indicata come "Ortensia"
in Pompeo Litta, Visconti, in Famiglie celebri italiane. Zorzi, B.. Dramma
della Giustizia, Milano, Pirrotta, art. cit
C. e M. Sambugar, D. Ermini, Salà, op, cit.. Emanuele Lugli, 'B. e la riduzione delle
misure lineari a Milano,' Nuova Informazione Bibliografica non riposa sul
Lario F.Venturi, Settecento riformatore,
Einaudi, Torino, Sambugar, Salà, Letteratura modulare, I Dei
delitti e delle pene, B., la scoperta della libertà, con Lucio Villari, Il
tempo e la storia, Rai Tre Dei delitti e delle pene, Dei delitti e delle
pene, Dei delitti e delle pene, Dei
delitti e delle pene, Delle grazie Dei
delitti e delle pene, capitolo 27 I.
Kant, La metafisica dei costumi, traduzione e note di G. Vidari, revisione di Merker,
Roma-Bari, Laterza, «Il marchese Beccaria, per un affettato sentimento
umanitario, sostiene la illegalità di ogni pena di morte: essa infatti non
potrebbe essere contenuta nel contratto civile originario, perché allora ogni
individuo del popolo avrebbe dovuto acconsentire a perdere la vita nel caso
ch'egli avesse a uccidere un altro (nel popolo); ora questo consenso sarebbe
impossibile perché nessuno può disporre della propria vita. Tutto ciò però non
è che sofisma e snaturamento del diritto».
Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi, su Hispanic Digital
Library. Felice Calvi, Il patriziato
milanese, Milano. Nella genealogia settecentesca è indicato un Nicolò
abbate. Verri, Scritti di argomento
familiare e autobiografico, G. Barbarisi, Roma, Franco Arese, Il Collegio dei
nobili Giureconsulti di Milano, in Archivio Storico Lombardo, B., Ricerche
intorno alla natura dello stile, Milano, Società tipografica de' classici
italiani, B., Scritti e lettere inediti, Milano, Hoepli, B. Opere, I, Firenze,
Sansoni, B., Opere, II, Firenze, Sansoni, Introduzione a Beccaria, Enza
Biagini, Roma-Bari,Laterza, Antoine-Marie Graziani, Fortune de B., Commentaire,
Dei delitti e delle pene Diritti umani Ergastolo Tortura Pena capitale Del
disordine e de' rimedi delle monete nello stato di Milano. Treccani Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
B. in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. B., in Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. B., su Enciclopedia Britannica, B., in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. B., su Find a
Grave. Opere di B., su Liber Liber. Opere di B. / B. (altra versione), su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di B.,. Audiolibri di B. su
LibriVox. Vita di C.Beccaria, su zam. V
D M Coterie holbachiana V D M Illuministi italiani Filosofia Letteratura Letteratura Categorie: Giuristi italiani
Filosofi italiani Economisti italiani Milano Milano Filosofi del diritto Illuministi
Utilitaristi FUTILITARISTA ITALIANO -- Letterati italiani Oppositori della pena
di morte Studiosi di diritto penale Criminologi italiani Storia del diritto Nobili
italiani Studenti dell'Università degli Studi di Pavia. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Beccaria," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Delle idee espresse, e delle idee
semplicemente suggerite. Un altra osservazione non meno importante che generale
sarà intorno al diverso effetto che le idee accessorie pos sono produrre quando
siano espresse coi termini loro corrispondenti, o quando siano semplicemente
suggerite o destate nell' animo di chi legge o di chi ascolta. Espresse
nuocerebbero al fascio intero del le sensazioni; destate solamente lo giovano,
non solo perchè la picciola fatica che facciamo, e l'applauso interno del
nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è
legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza abbiano le idee espresse e
le taciute, e tutt'altra attenzione esigono da noi quel le che queste. Ora le
attenzioni saranno tanto più lunghe o più frequenti, tanto più si nuocono tra
di loro, e scemano l'attenzione al tutto; mentre per lo contrario quei lampi,
rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi per tutte le idee
espresse, e confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione deile parti,
o solamente ad alcune noi faremo idee accessorie e non espresse, accrescono
delle sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo
semplicemente il numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanea non
deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante e non
più la mente umana è capace di una simultanea attenzione: la vivacità degli
oggetti presenti non le concedono una maggior ampiezza ed u na maggiore
comprensibilità. Nelle cose lette o ascoltate, in luogo della vivacità e della
realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità
della parola visibile o auditiva se noi dunque volessimo tutte le accessorie,
che si tacciono, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e
limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo della
mente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune
l'immagine corrispondente alla parola si risveglierà nella mente, ed allora le
altre parole rimanendo insignificanti. Se dunque una parola racchiude nel suo
concetto molte e varie sensazioni, come 'spada', 'esercito', 'nave', ec. cosic
chè la mente dalla parola medesima non sia determinata a considerar più l'una
che l'altra delle sensazioni componenti 1 e terruzione al senso, e
distruggeranno l'effetto delle altre in vece di aumentarlo., faranno i n 43
suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a co nsiderarle tutte in una volta,
accaderà che condensando due o tre di queste parole intorno ad un'idea
principale, vi saranno non due o tre accessorie soltanto unite e destinate ad
aggiunger forza al la principale, ma invece un molto maggior numero, quante
saranno le sensazioni egualmente comprese sotto i nomi di 'spada', 'esercito',
'nave', ec.: tutte queste varie e numerose sensazioni non essendo più
immediatamente le une che le altre suggerite, tutte concorrono
contemporaneamente ad associarsi colla principale; onde l'effetto reale che ne
cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é confusa. Per lo contrario,
se invece de' nomi 'spada', 'esercito', 'nave', ec., si dicesse 'ferro',
'soldato', 'vele', e che questi nomi si condensassero attorno ad un'idea
principale per formarne un senso, si osservi che le tre sole nozioni e precise
sensazioni comprese nel proprio significato delle tres uddette parole si quelle
ogni sono che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia;
saranno quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di
onde associazione non tra lascerà la parola di 'ferro' di suggerire rapidamente
le altre sensazioni comprese sotto la parola 'spada'; quella di 'soldato',
quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priamente
queste sensazioni suggerite pro associate colle parole 'ferro', 'soldato', e
'vele', ma con le idee che nuocere alla principale così facilmente. Ecco chiaramente
spiegato ciò st che io intendo per idee suggerite e per idee espresse, mentre
però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo che nel progresso io avrò
parlato de' nomi speciali ed appellativi, e de' traslati. sono. E de sta que
immediatamente risvegliano, non pos Le idee semplicemente suggerite non entrano
nella sintassi della proposizione, la quale regge senza di quelle: non sono non
SI. Accipite hanc animam, me que his exolvit e curis, quanta folla d'idee si
risveglia in chi legge quelle sole parole, in quella occasione dette, dulces
exuviae: la sintassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente
non trovasi affaccendata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti
diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia,
cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e
contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente! Egli è
evidente che una medesima serie d'idee per intervalli di tempo più lunghi occupa
la mente se siano espresse, di quello che se siano taciute, per chè un maggior
tempo si consuma nella percezione della parola, per la durata della quale si
continua la presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli
nella mente quanto le idee che eccitate sono dalle parole immediatamente,
quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con
minore dispendio ditempo e di forzesi ottiene un più grande effetto. Quando VIRGILIO
fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che
renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del tutto, oppure essunto
nella rapida ed affollata successio ne d'imagini che per forza di associa zione
si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non sarà inutile il qui
osservare che molte espressioni non so no preferibili alle altre, se non
appunto perchè la sensazione auditiva o della parola è materialmente più dell'
altra. È più bella e più nobile pressione la parola cocchio della carrozza non
per es parola visibile breve l'azzardo capriccioso dell'esser meno comune ed
avilita pressione, giacchè tant'altre che nelle bocche di tutti sieno
continuamente; cio nonostante nè si rigettano, nè per meno belle son riputate,
ma soltanto perchè è parola più breve, e l'idea da un più rapido segno è
rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e
ditempo. Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verremmo mente
nostra dividerebbe in più tempi ciò che per l'unità dell'idea principale
dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo l'accessorio principale,
pro la durrebbe e confusione nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e
sproporzionate d'idee fatte nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che
altro nonè per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili) è una
quantità alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le
belle ti e la politica debbono aver considerazione; perchè tutte le più fine e
le più sottili ed interiori, egualmente che le più complicate e più grossolane
ed esteriori operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si
fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle idee accesso rie che si presentano,
quali sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente
destate? In primo luogo, tramolte accessorie analoghe e moltissimo simili fra
di loro, e che si risvegliano reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra,
una sola sarà l'espressa, le altre taciute; perchè se tutte fossero espresse,
ciascheduna espressione replicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe
superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e stanchezza, e d i spendio
di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso. In
secondo luogo, tra la moltitudine delle idee accessorie vi saranno, oltre le
analoghe, quelle che sono più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue
rispettive simili ed associate: di queste ognu na apre la mente ad una serie
d'impressioni, e sono direi quasi capi -idee e c a pi- pensieri; queste saranno
le espresse, perchè non si destano reciprocamente, ed effetto della
ripetizione delle idee principali; queste si rinfrancano come tali nella mente,
e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara;
quelle ripetute annebbiano e dissipano l'attenzione dalle principali: per lo
contrario, se una sola sia 1 espressa, le altre analoghe semplicemente destate,
la quantità d'idee ed'impressione rinchiusa in una sola espressione diviene più
grande, e per conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida
sensazione dell'udito l'occhio, che abbiamo tempo considerabile esige le idee e
dell'immaginazione: così veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve
tempo; problema è solo l'oggetto de'meccanici, ma della morale e della
politica, anzi di tutta la filosofia e del visto che un a che non to spese
del necessa è necessaria l'espressione per eccitare, ossia
perchè la mente possa percorrere tutte queste differenti progressioni d'idee.
Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie colla principale,
in cui tutte le accessorie espresse siano ca pi-pensieri, e non molto analoghi
ed associati tradi loro, e moltissimo colla principale per una delle tre
indicate sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione
soggiungo intorno al l'effetto delle idee espresse e taciute; cioè che tra una
espressione e l'altra, per i limiti e la debolezza de'sensi esterni, tanto per
mezzo dell'occhio quanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di
tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo: se vi sono idee desta te e non
espresse, queste come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stan chezza;
ma se tutte sono espresse, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che
porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica delle
espressioni da leggersi o da ascoltarsi. Quanto più grandi epiù forti saranno
le idee accessorie espresse, tanto più numerose pos ono essere le idee taciute,
ma riamente destate da quelle, perchè l'efficacia delle prime tende e rinforza
l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad abbracciare le idee non
espresse senza pregiudicare all'interesse del tutto, e perchè espressioni più
grandi e più forti fermano l'immaginazione di chi legge o d'ascolta, essendo
manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo
maggiore nella considerazione delle idee a misura che sono più grandi e più
forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora, per così dire,
della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza é grandezza
sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente,
dall'impeto concepito a percorrere una serie d'idee quasi trattenuta, più
facilmente potrà ricevere altre idee rapidamente risvegliate all'occasione di
espressioni forti ed energiche. Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza
dell'animo suo, potrà facilmente scorgere che sempre che un grande ed interessante
o ggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l' immaginazione, questa
dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote e si risveglia dall'
inten sione nella quale trovavasi, per così dire, attuatae raccolta, non si
abbandona su bito all'ordinaria impressione delle cose che le stanno d'attorno,
ma sibbene de stasi in lei una moltitudine d'idee tutte relative non solo a
quella straordinaria impressione che l'ha percossa, ma ancoraa se stessa, ed
alle passioni dalle quali è dominata. È da ciò che i boschi, nei cupi e vari
ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini antiche dei monti
ove signoreggia illimitata la natura, che la vista del mare che si allarga fra
mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti l'attonita immaginazione, som
no ricercati da coloro che più amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar
l'animo liberamente e senza distrazioni dal la considerazione di se medesimi;
mentre coloro i quali odiano di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in
certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero, si gettano nel
minuto e sempre u niforme vortice della vita comune, gli oggetti della quale
sono atti bensi a spin 51 ľ 1 gertato l'animo fuori di se stesso in un
continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pensieroso. Per lo
contrario, più picciole e più deboli saranno le accessorie espresse; la scelta
si farà su di quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza
tra le une e le altre essendo minore, e sovente più importanti e più forti
potendo essere le destate che le espresse, si corre rischio che le idee
dell'autore siano perdute divista, e confuso ed interrotto riesca l'effetto del
tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti ed
esterne sensibili manifestazioni. Le deboli accessorie espresse, secondo
abbiamo di mostrato, debbono essere molte, accioc chè il numero compensi la
debolezza; m a molte idee espresse occupano un tempo ch' esclude molte idee
taciute o sottinte se, altrimenti di troppo allontaneremo il concepimento
dell'idea principale. Le accessorie forti, per una contraria ragio ne, debbono
essere poche in ciascun m o mento d'impressione; m a poche forti la scierebbero
del vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da molte idee non
espresse debb'essere supplito. Delle idee espresse, e delle idee semplicemente
suggerite. Un altra osservazione non meno importante che
generale è intorno al diverso *effetto* che una idea *accessoria* puo
produrre quando è *espressa* col termino corrispondente, o quando è
*semplicemente suggerita o *destata* nell'animo di chi ascolta. Espressa
nuocerebbero al fascio intero della sensaziona; destata solamente lo giove, non
solo perchè la picciola fatica che facciamo e l'applauso interno del nostro
ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è legge
della nostra sensibilità che tutt'altra forza ha la idea espressa e la idea
taciuta, e tutt'altra attenzione esigono da noi quella le che questa. Ora l'attenzione è tanto
più lunga o più frequente, tanto più si nuocono tra di se, e scema l'attenzione
al tutto. Mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di
attenzione che balenano, in noi per la idea espressa, e confusa per il *tutto*
e debolissima è la percezione della *parte* o solamente ad alcune noi
faremo idea accessoria e non espressa, accrescono della sensazioni senza
nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il
numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanee non deve eccedere
che *tre o quattro* sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente
umana è capace di una simultanea attenzione. La vivacità dell'oggetto presenti
non le concede una maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nella cosa
ascoltate, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è
presente, vi è la vivacità e la realità dell'*espressione* se noi dunque
volessimo l'accessoria, che si tacce, esprimere, veremmo ad offendere quella
legge determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale,
o lo sforzo del recipiente si porterà su destate che le attenzione, cioè
solamente di alcune l'immagine corrispondente all'espresione si risveglie nella
mente, ed allora le altre espressioni rimaneno insignificanti. Se dunque
un'espressione racchiude nel suo concetto o senso molte sensazioni -- come
'spada', 'esercito', o'nave' -- cosicchè la mente dall'espressione medesima non
sia determinata a considerar più l'una che l'altra delle sensazioni componenti
e l'interruzione al *senso* della profferenza, e distruggeranno l'effetto delle
altre espressione in vece di aumentarlo., faranno in suc, ma sibbene sia
piuttosto sforzata a considerarle tutte le sensazioni in una volta, accade che,
condensando l'espressione intorno ad un'idea *principale*,
vi è un'idea accessoria soltanto unita e destinata ad aggiunger forza
alla idea principale, ma invece un molto maggior numero, quante sono le
sensazioni egualmente comprese sotto l'espressione 'spada', o 'esercito'
o 'nave'. Le varie sensazioni, non essendo più immediatamente le une che
le altre suggerite, concorrono contemporaneamente ad associarsi coll'idea
principale. Onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta
distratta é *confusa*. Per lo contrario, se invece dell'espressione 'spada', o
'esercito', o 'nave', si dicesse 'ferro', o 'soldato', o 'vele', e che questa
espressione si condensa attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si
osserva che la sola nozione e precisa sensaziona compressa nel proprio
significato dell'espressione 'ferro', o 'soldato' o 'vele', si quelle ogni sono
che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia
-- è quella che immediatamente si une coll'idea principale. Ma per
forza di onde associazione non tra lascerà l'espressione 'ferro' di suggerire
rapidamente altre sensazioni comprese sotto l'espressione 'spada'; quella di
'soldato', quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo
priopiamente questa o quella sensazione *suggerita* propriamente, associata
coll'espressione 'ferro' o 'soldato' o 'vele', ma colla idea che nuocere
all'idea principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io
intendo per una *idea suggerita* e per una *idea espressa*, mentre però tutta
questa teoria è resa più evidente nel nome o espressione speciale,
l'appellativo, e nel traslato. E de sta que immediatamente risvegliano, non
pos. Un'*idea semplicemente suggerita* non entra nella sintassi o forma logica
della proposizione, la quale regge senza di quella. Non sono non. Quando
Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, accipite
hanc animam, me que his exolvit e curis" -- quanta folla d'idee si
risveglia in chi ascolta quelle sole espressioni, in quella occasione dette,
'dulces exuviae'. La sintassi latina regge senza che si risveglino quest'idea
semplicemente suggerita, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare
un *senso complicato* e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la
spada di Enea sotto l'espressione di una spoglia, cioè di una cosa da lui
portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non
ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una medesima idea
per intervalli di tempo più lunga occupa la mente se è espressa, di
quell'idea che se è taciuta, per chè un maggior tempo si consuma
nella percezione dell'espressione, per la durata della quale si continua la
presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente
quanto le idee che eccitate sono dall'espressione *immediatamente*, quantunque
come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore
dispendio di tempo e di forze si ottiene un più grande effetto. a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che
renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del *tutto*, oppure
essunto nella rapida ed affollate imagini che per forza di associazione si
eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non è inutile il qui
osservare che un'espressione E1 non e preferibili ad altr'espressione E2, se
non appunto perchè la sensazione auditiva o dell'espressione è materialmente
più dell' altra. È più bella e più nobile pressione l'espressione 'cocchio' (o
'se p, q') dell'espressione 'carrozza' (o 'p o non q') non per l'azzardo
capriccioso dell'esser meno comune ed avilita epressione, giacchè tant'altra
che nella bocca di tutti è continuamente. Cio nonostante nè si
rigettano, nè per meno bella è riputata, ma soltanto perchè è
espressione più breve e l'idea da un più rapido segno è rappresentata. Onde si
ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo. Ora se l'idee
taciuta divienne espressa, noi verremmo la mente nostra dividerebbe in più
tempi ciò che per l'unità dell'*idea principale* dovrebbe essere rinchiuso in
un solo; il che rendendo l'idea accessoria una idea principale, pro la durrebbe
e *confusione* nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate
dell'idea fatta nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo, che altro non è
per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili, è una quantità
alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti
e la politica debbono aver considerazione. Perchè la più fina e la più sottile
ed interiore, egualmente che la più complicata e più grossolana ed esteriore
operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si
manifestano. Fra l'idea accessoria che si presenta, quali sceglieremo per
essere espressa, quali sceglieeremo per essere *semplicemente destata*? In
primo luogo, tra una accessoria analoga e moltissimo simile e che si risveglia
reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, *una sola* sarà l'espressa
(l'acqua liquida), l'altra *semplicemente* taciuta. Perchè se
'liquida' è espressa, ciascheduna espressione replicando
l'idea è superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e
stanchezza, e di spendio di tempo. La ripetizione di una idea accessoria non
produce lo stesso. Tra l'*idea accessoria* è, oltre l'analoga, quelle
che è più distante (disparata), ciascheduna delle quali ha la sua
rispettiva simile ed associata (acqua liquida, bambino non-adulto). Di questa
ognuna apre la mente del co-conversatore ad una serie d'impressioni, e è direi
quasi capi-idea e capi-pensiero. Questa è l'idea accessoria
*espressa*, perchè non si desta reciprocamente, ed effetto della ripetizione
dell'idea principale ('bambino'). Questa si rinfranca come tale nella mente, e
divienne perciò come un centro di luce che il *tutto* ('il
bambino è un'adulto') riscalda e rischiara. Quella (non-adulto)
ripetuta annebbia e dissipa l'attenzione dall'idea principale ('bambino'). Per
lo contrario, se una sola sia l'idea espressa, le altr'analoga *semplicemente
destata*, la quantità dell'idea e dell'impressione rinchiusa in una *sola*
espressione ('bambino' = umano non adulto) diviene più grande, e per
conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell'udito,
che abbiamo tempo considerabile esige le idee e dell'immaginazione. Così
veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve tempo; Questo problema
non è solo l'oggetto de'meccanici, ma della morale e della politica, anzi di
tutta la filosofia! Abbaimo visto che un a che non to spese del
necessa è necessaria l'*espressione* per *eccitare* (o comunicare), ossia
perchè la mente possa percorrere la progressione dell'idea del discorso. Sarà
dunque eccellente la combinazione di quell'idea accessoria coll'idea
principale, in cui l' accessorie espresse siano capi-pensieri ('ha una
calligrafia bellissima') e *non* molto analoga ed associata e moltissimo
coll'idea principale ('è un pessimo filosofo') per una delle ndicate
sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione soggiungo
intorno al l'effetto dell'idea espresse e dell'idea taciuta. Tra una
espressione E1 e l'altra, E2, per i limiti e la debolezza de' sensi esterni,
tanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di tempo e, per così
dire, di silenzio e di riposo. Se vi è idea semplicemente
destata e non espressa, questa come lampi di mente riempiono questo vuoto senza
stanchezza. Ma se l'idea è espressa, si moltiplicano i vuoti e non si
riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata
fatica dalla quantita d'informazione dell'espressione totale (ill moto
conversazionale) da interpretare. Quanto più grande e più *forte* ('bella
calligrafia) è l'idea accessoria espressa, tanto più numerosa
puo essere l'idea semplicemente taciute, ma riamente destata da quelle, perchè
l'efficacia dell'idea espressa tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi
voli slancia si ad abbracciare l'idea non espressa ('è un pessimo
filosofo') senza pregiudicare all'interesse dell'espressione totale, e
perchè l'espressione più grande e più forte ferma l'immaginazione del
co-discorsante, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi
obbligata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione di una idea
('è un pessimo filosofo?') a misura che è più grande
e più forte. Onde per questo tempo necessario, per questa dimora di
processamento, per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli
medesimo per la forza e grandezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di
attenzione, cio nonostante la mente, dall'impeto concepito a percorrere un'idea
quasi trattenuta, più facilmente puo ricevere altr'idea rapidamente risvegliata
all'occasione di una espressione forte ed energica ('Ha bella calligrafia').
Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza dell'animo suo, puo facilmente scorgere
che sempre che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota
improvvisamente l' immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto,
nell'atto che si riscuote e si risveglia dall' intensione nella quale
trovavasi, per così dire, attuata e raccolta, non si abbandona subito
all'ordinaria impressione delle cose che le stanno d'attorno, ma sibbene
destasa in lei un'idea relativa non solo a quella straordinaria impressione che
l'ha percossa, ma ancora a se stessa, ed alla passione dalla quale è dominata.
È da ciò che i boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il
pensiero, che le solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la
natura, che la vista del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi
e tanto occupanti l'attonita immaginazione, sono ricercati da coloro che più
amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza
distrazioni dal la considerazione di se medesimi. Mentre chi odia di rientrare
in se stessi, e cerca fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo
accusatore pensiero, si getta nel minuto e sempre u niforme vortice della vita
comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a spingertato l'animo fuori di
se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e
pensieroso. Per lo contrario, più picciola e più
debole è l'idea accessoria espressa. La scelta si farà su di
quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza, essendo
minore, e sovente più importanti e più *forti* potendo essere l'idea destata
che l'idea espressa, si corre rischio che le idea, intenzione, significato
dell'autore è perduto (involontariamente) di vista, e confuso ed
interrotto riesca l'effetto del tutto o l'espressione totale sopra
l'immaginazione non legata da sufficientemente forte ed esterne sensibile
manifestazione ('-- è un pessimo filosofo'). L'idea debola
accessoria espressa debbe essere molte, acciocchè il numero compensi la
debolezza. Ma un'idea espressa ('bambino) occupa un tempo ch'*esclude* un'idea
taciuta o sottintesa ('non-adulto'), altrimenti di troppo allontaneremo il
concepimento di un'idea principale. L'idea accessoria forte, per una contraria
ragione, debbe essere minima in ciascun momento d'impressione. Ma poche forti
la scierebbero del vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da
molte idee non espresse debb'essere supplito. Dello
espresso e dello semplicemente suggerito, un’osservazione non meno importante
che generale è intorno al diverso effetto che una proposizione, non principale,
ma *accessoria*, puo produrre quando *espressa* o
quando è semplicemente suggerita dal conversatore, o destata
nell'animo di chi con che conversa. Espressa nuocerebbero al fascio intero
della sensazione; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola
fatica che facciamo e 1'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfrancano
l'attenzione sul restante, ma molto più perche è legge della nostra sensibilità
che tutt’altra forza ha una proposizione espressa e una proposizione taciuta o
semplicemente suggerita, e tutt’ altra attenzione esigono da noi conversatori
civile quella che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più
frequente, tanto più si nuoce tra di se, e scema l’attenzione al tutto
comunicato; mentre per lo contrario quei lampi rapidi e passaggeri
d'attenzione, che balenano bruci per la proposizione accessoria *semplicemente
suggerita* o destata e *non* espressa, accresce il numero di sensazione senza
nuocere all’attenzióne ed all'energia del tutto comunicato. La quantità d’impressione
momentanea non deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per
tante, e non più, la mente umana è capace di una simultanea attenzione. La
vivacità di un oggett presente -- la spada di Enea -- non le concedono ima
maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nell'espresso, in luogo della
vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità
e la realità della *espressione* che representa (di modo iconico o altro) la
spada d'Enea. Se noi dunque volessimo la proposizione accessoria che si taccie
esprimere verressimo ad offendere quella legge che determina e limita la
quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo
d'interpretazione si porterà su il tutto communicato (espresso e semplicemente
suggerito) e confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione delle due
parti (l'espresso e lo semplicementee suggerito) o solamente ad alcune, noi
faremo attenzione cioè solamente di alcune 1'immagine o concetto o segnato o
significato o senso corrispondente all'espressione si risveglie nella mente, ed
allora un altr'espressione rimanendo *insignificanti* o superflua, fa inter-
ruzione al senso della proposizione comunicata, e distrugge l'effetto delle
altre in vece di aumentarlo. Se dunque una proposizione espressa racchiude nel
suo concetto molte e varie sensazioni, come "Questa spada e bella",
"L'esercito e bravo", "La nave va," ec., cosicché la mente
dalla proposizione espressa medesima noù sia determinata a considerar più l'una
che 1'altra delle sensazioni componenti ma sibbene sia piuttosto sforzata a
considerarle tutte in una volta accaderà che condensando due o tre di queste
proposizioni intorno ad un proposizione *principale*, vi saranno non due o tre
proposizioni accessorie soltanto unite e destinate ad aggiunger forza alla
proposizione principale, ma invece un molto maggior numero quante saranno le
sensazioni egualmente comprese sotto la proposizione espressa, "La spada e
bella", "L'esercito e bravo," "La nave va", e tutte
queste varie e uumerose sensazioni, non essendo più immediatamente le uno che
le altre suggerito, tutte concorirono contemporaneamente ad associarsi colla
proposizione principale; onde l'effetto reale che ne succede è, che la fantasia
di nostro conversatore resta distratta e confusa. Per lo contrario, se invece
della proposizione "La spada e bela", "L'esercito e bravo",
"La nave ve", spa* da si dicesse "Il ferro e formidable", "Il
soldato e bravo", "Le vele va", e che questi proposizioni si
condensassero attorno ad una proposizione principale per formarne il senso
complesso, si osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel
proprio significato o senso delle tre suddette proposizione espresse piu
specifica sono quelle che immediatamente e, prima d’ ogn’ altra si risvegliano
nella fantasia. Onde saranno quelle che immediatamente si uniranno colla
principale. Ma per forza di associazione non tralascerà la parola di fer- ro di
suggerire rapidamente le altre sensazioni comprese sotto la parola spada quella
di soldato quelle di;, esercito quella di vele quelle di navi.;, Ma non essendo
queste sensazioni suggerite propriamente associate colle parole ferro, soldato
e vele, ma Con le idee che queste immediatamen- te risvegliano non possono
nuocere, alla principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io
in- tendo per idee suggerite e per idee * espresse, mentre però tutta questa
teoria sarà resa più evidente dopo ‘ che nel progresso io avrò parlato de’ nomi
speciali ed appellativi, e de’ traslati. Ee idee semplicemente, suggerite
3o non entrano nella sintassi della pro- posizione la quale regge senza
di, quelle: non sono durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dal-
le parole immediatamente, quantunque come le altre alla occasione di quelle si
risveglino; onde con mino- re dispendio di tempo e di forze si ottiene uu più
grande effetto. Quando VIRGILIO (si veda) fa dire a Didone: Dulces exuviae dum
fata, Deusque sinebant, Accipite hanc animam, meque his exolvite curi», quanta
folla d’idee si risveglia in citi legge quelle sole parole, in quella occasione
dette, dulces exuviaes la sin- tassi regge senza che si risveglino queste idee,
onde la mente non tro- vasi affacceudata a raccapezzare un senso complicato e
in molte parti diviso; e coll* accennar soltanto la spada di Enea sotto il nome
di una spoglia, cioè di una cosa da lui por- tata e da lui ricevuta in dono
quanto teneri e contrastanti sentimenti noa ci sentiamo fremere interiormente!
Egli è evidente che una medesi- ma serie d’idee per intervalli di tempo più
lunghi occupa la menta se siano espresse, di quello che se siane taciute perchè
un maggior tempo, $T si cotìsuma nella percezione della pa- rola per la
durata della quale si con- tinua la presenza deir idea corrispondente di quello
che sia consunto, nella rapida ed affollata successione d’immagini che per
forza di associa- zione si eccitano reciprocamente. Tan- to è ciò vero, che non
sarà inutile il qui osservare ohe molte espressioni non sono preferibili alle
altre appunto perchè la sensazione auditiva o visibile della parola è
materialmen- te più breve dell’ altra. E più bella e più nobile espressione la
parola cocchio della parola carrozza non per l’azzardo capriccioso dell’ esser
meno comune ed invilita espressione, giacché tant’altre che nelle bocche di
tutti sieno contiuuamente cionono-; stante nè si rigettano nè per meno belle
son riputate, ma soltanto perchè è parola più breve, e l’idea da un più rapido
segno è rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di
forza e di tempo Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verressimo
a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali il che
rende-, rebbe annojaote e faticoso il netto, se non. Sa concepimento del tutto,
oppure fa mente nostra dividerebbe in più tem- pi ciò che per 1’ unità dell’
idea principale [GRICE CENTRALITY] dorrebbe essere rinchiuso in un solo; il che
rendendo 1’accessorio principale, produrrebbe e confusione nella chiarezza, e
noja nelle unioni diseguali e sproporzionate d’ idee fatte nella mente nostra.
Tanto è vero che il tempo (che altro non è per noi che la successione delle
idee degli es- è una quantità alla qua- le non la scienza del moto solamente,
ma le scienze tutte e le belle arti e la politica debbono aver considera- zione
perchè tutte le più fine e le; più sottili ed interiori egualmente, che le più
complicate e più grossolane ed esteriori operazioni dell’ intel- letto, sotto
l’ inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle
idee accessorie che si presentano, quali sceglieremo per essere espresse, quali
serberemo per essere semplicemente destate? In primo luogo tra molte accessorie
analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano reci- procamente
ed infallibilmeute l* una l’ altra uua sola sarà 1’espressa > le y peri
sensibili ) altre taciute perchè se tutte fossero; espresse, ciascheduna
espressione re- plicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe superfluità e
ridondanza che, fastidio produrrebbe e stanchezza e dispendio di tempo. La
ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso effetto della
ripetizione delle idee principali queste si rinfrancano; come tali nella mente,
e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara
quelle ripetute annebbiano e dissipano 1’attenzione dalle principali: per lo
contrario se una sola sia 1’espressa le altre analoghe semplicemente destate,
la quantità d’ idea e d’impressione rinchiusa in una sola espressione di- viene
più grande, e per conseguenza più piacevole restando picciola la, insipida
sensazione dell’udito e dell’occhio che abbiamo visto che uu, tempo
considerabile esige a spese delle idee e dell’immaginazione: così veniamo ad
ottenere un più grand’effetto in più breve tempo problema che; nonè solo
l’oggetto de’meccanici ma della morale e della politica anzi, di tutta la
filosofia. lu secondo luogo, tra la moltituaine dell’idee accessorie vi saran-
no, oltre le analoghe, quelle che sodo più distanti, ciascheduna delle quali
avrà le sue rispettive simili ed asso- ciate; di queste ognuna apre la mente ad
una serie d’impressioni, e sono direi quasi capi-idee e capi-pensieri; queste
saranno l’ espresse perchè non, si destano reciprocamente ed è ne-, cessaria F
espressione per eccitare ossia perchè la mente possa percorre- re tutte queste
differenti progressioni d’ idee. Sarà dunque eccellente la combinazione di
quelle accessorie colla principale in cui tutte le accessorie espresse siano
capi-pensieri, e non molto analoghi od associati tra di loro, e moltissimo
colla principale per una delle tre indicate sorgenti per cui le idee
vicendevolmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno all’effetto delle
idee espresse e ta- ciute; cioè che tra una espressione e F altra, per i limiti
e la debolezza de’ sensi esterni, tanto per mezzo dell’occhio quanto per mezzo
dell’udito, corre un piccolo interval- lo di tempo e, per così dire, di
silenzio e di riposo se vi sono idee; queste come lampi di mente
riempiono questo voto senza stanchezza; ma se tutte sono espresse, moltiplioano
i voti e non si riempiono il che porta diminuzio- mentata fatica delle
espressioni da leg- gersi o da ascoltarsi. Quanto più grandi e più forti
saranno le idee acces- sorie espresse tanto più numerose, destate e non
espresse; ne di piacere e stanchezza per 1’au. possono essere le idee taciute,
ma necessariamente destate da quelle, perchè l* efficacia delle prime tende e
rinforza 1’attenzione che con più rapidi voli slanciasi ad abbracciare le idee
non espresse senza pregiudicare all’interesse del tutto, e perchè espressioni
più grandi e più forti fermano l’immaginazione di chi legge od ascolta, essendo
manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbli- gata ad impiegar un tempo
maggiore nella considerazione delle idee a misura che sono più grandi e più
forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora per così dire della,,
mente su di un oggetto quantunque, egli medesimo per la forza e grandezza sua
esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione ciononostan-, Digitized by Google
36 te la mente, dall’impeto concepito percorrere una serie d’ idee quasi
trat- tenuta più facilmente potrà ricevere, altre idee rapidamente risvegliate
all’occasione di espressioni forti ed energiche: chi ben considera torna sulla
esperienza dell’animo suo potrà facilmente scorgere che sempro che un grande ed
interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l’immaginazione,
questa do- po considerato quell’oggetto, nell’atto che si riscuote e si
risveglia dall’intensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e
raccolta non si, abbandona subito all’ordinaria impressione delle cose che le
stanno d’ at- torno ma sibbene destasi in lei una, moltitudine d’idee tutte
relative non solo a quella straordinaria impressione che l’ha percossa ma
ancora a,, ed alle passioui dalle quali se stessa è dominata. E da ciò che i
boschi nei cupi e varj ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le
solitudini an- tiche de’ monti ove signoreggia illimitata la natura che la
vista del, mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto
occupanti l’attonita immaginazione, sono ricer-, e ricati da coloro che piu
amano di pa- scolare i loro pensieri, ed esercitar l’animo liberamente e senza
distrazioni dalla considerazione di se medesimi; mentre coloro i quali odiano
di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal
sincerissimo accusatore pensiero si, gettano nel minuto e sempre uniforme
vortice della vita comune, gli oggetti della quale sono atti bensì a spioger l’animo
fuori di se stesso in un coutinuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo
attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciole e più deboli saranno le
accessorie espresse, la scelta si farà su di quel- le che ne risvegliano un
minor nu- mero, perchè la differenza tra le mie e le altre essendo minore, e
sovente piu importanti e più forti potendo essere le destate che l’espresse si,
corre rischio che le idee dell’ autore siano perdute di vista e confuso ed,
interrotto riesca l’effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate
da sufficientemente forti ed esterno sensibili manifestazioni. Le deboli
accessorie espresse, secondo ab- biamo dimostrato debbono essere, molte,
acciocché il numero compenti la debolezza; ma molte idee espresse occupano un
tempo eh* esclude molte idee taciute o sottintese, altrimenti di troppo
alloutaneressimo il concepimento dell’ idea principale. Le ac- cessorie forti,
per una contraria ragione debbono essere poche in cia-, scun momento
d’impressione; ma po- che forti lascierebbero del voto ne- gl* intervalli
necessarj dell* espressione che da molte idee non espresse debb’essere
supplito. Cesare Beccaria. Keywords: implicatura
conversazionale, Virgilio, l’implicatura di Didone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Beccaria” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Becchi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’incubo – scuola di Genova
– filosofia genovese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Genova). Filosofo
genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “Becchi
is pretty controversial; a good reason why he is not invited to the New World
for “Italian Studies”! – My favourite is his tract mocking Umberto Eco’s “Il
pnedolo di Foucault,” “L’incubo di Foucault”! – But Becchi is a jurisprudential
philosopher like Hart, and perhaps more than Hart did, knows what’s he’s doing!
Laureato in filosofia,
si è poi trasferito in Germania dove ha collaborato come assistente alla
cattedra di Filosofia e Sociologia del Diritto della Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università del Saarland, e in seguito come borsista per il Deutscher Akademischer
Austauschdienst (DAAD). Attualmente è Professore di Filosofia del Diritto
presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Genova. Inoltre fino al è stato professore presso l'Lucerna. Ha
prodotto circa 200 pubblicazioni su temi concernenti la filosofia del diritto,
la storia della cultura giuridica e la bioetica. Nel si
avvicina al Movimento 5 Stelle, venendo definito dalla stampa l’“ideologo del
movimento” ma a gennaio del lo abbandona
criticandolo duramente e scrivendo ad aprile il libro Cinquestelle et Associati.
Di recente ha focalizzato il discorso politico sulla categoria del sovranismo
ed in particolare sul concetto di sovranismo debole, detto althusiano;
coniugando così, istanze federaliste e sovraniste in linea con la Lega di
Matteo Salvini. I suoi interventi di
natura politica sono raccolti nel suo blog. Fino alla metà del era noto al pubblico del piccolo schermo per
le interviste e i talk show in cui dibatteva.
È attualmente editorialista di Libero e de Il Sole 24 ORE, oltre ad
avere un blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. Altre opere: “Morte cerebrale e
trapianto di organi. Una questione di etica giuridica” (Morcelliana); “Quando
finisce la vita. La morale e il diritto di fronte alla morte” (Aracne); “Giuristi
e prìncipi. Alle origini del diritto moderno” (Aracne); “Il principio dignità
umana” (Morcelliana), “Nuovi scritti corsari (Adagio Editore); “I figli delle
stelle. L'Italia in moVimento” (Adagio); “Colpo di Stato permanente”
(Marsilio); “Apocalypse Euro” (Arianna); “Oltre l'Euro” (Arianna); “Napolitano,
re nella Repubblica. Per una messa in stato d’accusa (Mimesis): “Cinquestelle
et Associati. Il MoVimento dopo Grillo (Kaos); “Referendum costituzionale. Sì o
no. Le ragioni per il no e il testo della «controriforma» (Arianna); “Come
finisce una democrazia. I sistemi elettorali dal dopoguerra ad oggi (Arianna);
“Italia sovrana (Sperling et Kupfer); “Democrazia in quarantena. Come un virus
ha travolto il Paese” (Historica) Note Biografia sul sito Genova Archiviato in.
M5S, Grillo scomunica (di nuovo) Becchi: “Non ci rappresenta”. Lui: “Tolgo
il disturbo”, ilfattoquotidiano, Perché
dico addio al Movimento 5 Stelle. Parla Paolo Becchi, formiche.net, 5 M5S, B.
lascia il Movimento: “È diventato partito stampella di Renzi. È finito il
sogno”, ilfattoquotidiano, 5 gennaio. 9 gennaio. Per un’idea ‘federativa’ di Stato nazionale,
in "ParadoXa", Skytg24, Becchi: “Repubblica? Il giornale
dell’orfano”. Bellasio lascia lo studio. La redazione della tv si scusa con
Calabresi, ilfattoquotidiano, Paolo Becchi
Blog ufficiale, su paolobecchi. wordpress. Opere di Paolo Becchi,. Registrazioni di Bsu RadioRadicale, Radio
Radicale. Filosofia Politica Politica Filosofo, Accademici italiani, Blogger
italiani Genova Professori dell'Lucerna Professori dell'Università degli Studi
di Genova. Paolo Aureliano Becchi. Paolo Becchi. Becchi. Keywords: l’incubo, filosofia
politica, dignita, soveranita, giurisprudenza, filosofia della giurisprudenza,
repubblica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Becchi” – The Swimming-Pool
Library. Becchi.
Grice
e Bedeschi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dialettica
– scuola di Alfonsine -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di
Gioco di H. P. Grice (Alfonsine).
Filosofo
emiliano. Filosofo italiano. Alfonsine, Ravenna, Emilia-Romagna. Grice: “You
gotta love Bedeschi – at Oxford Jurisprudence is not considered Philosophy, but
in Italy, ‘filosofia politica’ is at the centre of it all – and Bedeschi knows
it – this is because Italians take Hegel seriously with his ‘dialectic;’ and
while I did speak profusely of the Athenian versus the Oxonian dialectic or
dialexis, I skipped the Hegelian dialectic! Bedeschi doesn’t – and Hegel leads
to the reset of it!” -- Giuseppe
Bedeschi (Alfonsine), filosofo. Docente
di storia della filosofia all'Università La Sapienza di Roma, ha insegnato
all'Cagliari e all'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Studioso di
Hegel e del marxismo, ha approfondito in seguito la storia del pensiero
liberale. Caporedattore dell'Enciclopedia del Novecento, direttore
dell'Enciclopedia delle scienze sociali e dell'Enciclopedia dei Ragazzi, è
membro del comitato scientifico della rivista "Nuova storia contemporanea"
e collabora al supplemento domenicale de Il Sole 24 ORE. Altre opere: “Alienazione e feticismo nel
pensiero di Marx” (Bari, Laterza); “Introduzione a Lukacs” (Bari, Laterza); “Politica
e storia in Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione a Marx” (Roma-Bari,
Laterza); “La parabola del marxismo in Italia” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione
a La scuola di Francoforte (Roma-Bari, Laterza); “Storia del pensiero liberale”
(Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Il
pensiero politico di Tocqueville” (Roma-Bari, Laterza); “La fabbrica delle
ideologie: il pensiero politico nell'Italia del Novecento” (Roma-Bari, Laterza);
“Liberalismo vero e falso, Firenze, Le lettere); “Il rifiuto della modernita: saggio
su Jean-Jacques Rousseau” (Firenze, Le lettere); “La prima Repubblica”; Storia
di una democrazia difficile” (Soveria Mannelli, Rubbettino, Opere di Giuseppe Bedeschi,. B. su
Goodreads. Registrazioni di Giuseppe
Bedeschi, su RadioRadicale, Radio Radicale.
Profilo su RAI Educational, su emsf.rai. 16 marzo 21 dicembre ). Giuseppe Bedeschi sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Filosofi
italiani del XX secoloAccademici italiani Professore Alfonsine. Giuseppe
Bedeschi. Bedeschi. Keywords: dialettica, la parabola del Marxism in Italia,
liberalismo, conservatorismo, italia, fabbrica di ideologie”, sulla parte
conservatrice, I conservatori in italia, Scruton, ‘conservatismo’, nel
dizionario di politica del partito, la dialettica hegeliana, dialettica,
dialexis. The two references ‘Sulla parte conservatrice’ and ‘I conservatori’
given in that entry, studio della ideologia nell’italia del Novecento,
Giuliani, prima guerra, veintenna. Refs.: Luigi Speranza, “Bedeschi e Grice” –
The Swimming-Pool Library. Bedeschi.
Grice e Bellavitis: la ragione
conversazionale e l’implicature del Deutero-Esperanto – scuola di Bassano del
Grappa -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice (Bassano del Grappa). Filosofo italiano.
Bassano del Grappa. Citato da VAILATI – “Scritti” -- B. è matematico e
professore di geometria a Padova e autore di un progetto teorico di lingua
filosofica ad uso parlato. Muore a Padova. Riceve la laurea honoris causa in
matematica a Padova. È socio dell'Accademia dei Lincei. In una lettera all'Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti intitolata, “Pensieri sopra una lingua universale e su
alcuni argomenti analoghi,” B. immagina un sistema di comunicazione universale
caratterizzato da uno scarno sistema di derivazione applicato ad un numero
limitato di radici lessicali, una larga varietà di costruzione, un sistema di
desinenze per gl’aggettivi (‘shaggy,’ da ‘shag’) che ne determinino il grado,
una grande diversificazione delle VOCI verbali per ESPRIMERE tempi, modi, INTENZIONI:
indicativo, condizionale, potenziale, dubitativo, interrogativo. E ancora, B.
suggerisce un sistema di composizione delle parole da radici diverse, e propone
un adattamento a numeri e a SEGNI. Dal saggio di Minnaja, «L'Ideologia Della
Lingua, disvastigo.esperanto.it/index.php/it/approfondimenti-lista-di-singola-categoria/293-a130-lideologia- della lingua internazionale. Considera altresì improponibile adottare come
lingua ausiliaria una lingua storico naturale, sia essa il latino, di certo
ampiamente conosciuta tra i dotti, ma incapace di esprimere agevolmente le
nuove teorie scientifiche, nonché di essere compresa da tutto il resto della
popolazione, o il francese, per un semplice discorso di campanilismo nazionale.
Partendo dal presupposto che quando l'uomo ragiona sulle cose sta ragionando
attraverso le parole che a queste sono associate, e che altrimenti la
riflessione non sarebbe possibile, B. deduce che un linguaggio semplice,
rigoroso e perfetto – cf. H. P. Grice, THE FORMALISTS -- conduce delle idee
dalle medesime caratteristiche. Viceversa, un linguaggio ambiguo e impreciso è
sintomo di idee e ragionamenti altrettanto confusi. Padroneggiare una lingua
esatta significa quindi pensare in maniera esatta e ciò è ben visibile nelle
differenze di comunicazione tra matematici e filosofi. È tutta basata sugli
oggett o cose fisici, e soltanto mediante traslati giunge ad esprimere
imperfettissimamente quelle idee astratte, quegli enti d'immaginazione. La necessità di inventare
una lingua precisa, che descrive esattamente la natura e la realtà, risponde
alla concomitante necessità di progresso scientifico e tecnologico e si
configura allo stesso tempo come mezzo di pacificazione tra i popoli. Gli aspetti che B. esamina sono l'etimologia,
la grammatica, l’ortografia, la pronuncia, e la scrittura. I matematici
s'intendono facilmente tra loro, e ben di rado hanno opinioni differenti. Per
lo contrario i filosofi – H. P. Grice, tutore, e il suo alievo, P. F. Strawson
-- difficilmente s'intendono. Forse è precipua ragione il linguaggio preciso e
chiaro di cui si servono i matematici – H. P. Grice: the blue-collar
practitioners of logic --, mentre i filosofi sono costretti a servirsi di una
lingua che creata dal popolo italiano. Riguardante l’etimologia, la lingua
filosofica perfetta deve innanzitutto presentare delle parole composte da
radici brevi, il cui significato sia UNO [Sensi non sunt multiplicanda praeter
necssitatem -- e preciso. Queste radici, che hanno non poche rassomiglianze
colle lingue viventi, conviene che siano composte sia da consonanti (il cui
numero può idealmente variare da due a cinque) che da vocali. B. sostiene che i
cambiamenti nelle parole siano di tre tipologie, che egli chiama derivazione --
quando da una parola si passa ad un'altra di significato simile o traslato –
anima, animale – cf. Grice, animale: bestia --, modificazione -- quando una
parte del discorso si trasforma in un'altra – cf. H. P. Grice, “I’, “me” --, e VARIAZIONE
-- quando si modifica la desinenza della parola – H. P. Grice, “I, me”. Attorno
a ciascun radicale si diramano tutti quei radicali che ad esso sono affini
secondo il significato, e quindi il significante, ottenuti mediante processi di
affissazione, in particolare di PRE-fissazione. Sulla questione se siano da
derivare i nomi dai verbi, o viceversa i verbi dai nomi, o ancora gli aggettivi
(“shaggy”) dai nomi (“shag”), e così via, B. non si espone, sostenendo che le
parole formate dalle voci radicali e dalle particelle pre-positive sono o nomi
o verbi, od aggiunti, secondo che l'una o l'altra idea è quella che prima
naturalmente si presenta, di fatto scaricando ai posteri l'arduo compito di
decidere radicali fondamentali attorno ai quali far poi derivare pre-fissazione.
Sulla questione se sono da derivare i nomi dai verbi, o viceversa i verbi dai
nomi, o ancora gl’aggettivi (“shaggy”) dai nomi (“shag”), e così via, B.
sostene che le parole formate dalle voci radicali e dalle particelle
prepositive sarebbero o nomi o verbi, od aggiunti, secondo che l'una o l'altra
idea è quella che prima naturalmente si presenta, di fatto scaricando ai
posteri l'arduo compito di decidere i radicali fondamentali attorno ai quali
far poi derivare tutti gl’altri. La DERIVAZIONE comunque si ha in primis
tramite apposite desinenze (cfr. l'italiano legno – legnoso, H. P. Grice, shag,
shaggy) e, in alcuni casi particolari, tramite modificazione delle consonanti o
delle vocali radicali, purché questo non infici la riconoscibilità della
famiglia di appartenenza -- cfr. l'italiano amAre - amOre. Sono necessarie
peraltro le parole composte, purché siano ben [Pensieri sopra una lingua
universale e su alcuni argomenti analoghi, Venezia, Segreteria dell'I. R. Istituto] riconoscibili i confini delle
stesse, del tipo it. pianoforte < piano + forte, e non le parole amalgama o
portmanteaau di Humpty-Dumpty, come l'ing. “smog” < smoke + fog, o KANTOTLE.
Questi aspetti rendono la lingua di B. a basso indice di fusione – i confini
tra morfemi devono essere ben riconoscibili -- e di sintesi -- essa presenta al massimo un prefisso e un
suffisso. Riguardane la GRAMMATICA (o letteratura), vista l'evidente difformità
delle congiunzioni - tra cui B. annovera anche le preposizioni tra le varie lingue, queste non possono che essere create ex
novo e secondo il genio della commissione di studiosi che si cimenta nella loro
creazione—as they lay on the bath (Grice). Basta sapere che esse debbono essere
semplici, ma in numero tale da permettere ai parlanti di esprimersi in maniera
chiara e univoca. Le congiunzioni inoltre possono essere utili nel momento in
cui la posizione di soggetto verbo - oggetto all'interno della frase crea dei possibili
fraintendimenti. Qualora non è ben riconoscibile, ad esempio, a quale verbo si
leghi un accusativo o un nominativo – cf. Hardie, “What do you mean by “of” –
the fear of God, genitivo soggetivo, genitivo oggetivo, timor dei --, è
possibile inserire tra i due delle particelle congiuntive, di modo da fugare
ogni dubbio.Ma questo procedimento non è necessario nel caso in cui non vi sia
possibilità di inganno – cf. Hardie, “What do you mean by of”?” --. Il dubbio
comunque sorge spontaneo. In una lingua che si prefigge la massima precisione e
l'immediata riconoscibilità dei suoi elementi, perché inserire variabili
dettate dal contesto? La risposta che ciò risponda alla necessità di rendere
più fluida la comunicazione e la CONVERSAZIONE (cf. “Love that never told can
be”) sembra non reggere bene alle accuse, o meglio sembra avvicinarla, più di
quanto questa non voglia ammettere, alle fattezze di una lingua naturale, cioè
proprio a ciò dal quale dove maggiormente discostarsi. Sono presenti quattro
casi (nominativo – Grice, “I” --, accusativo – Grice, “me” --, genitivo, e
dativo), di cui tutti, escluso il primo, identificati tramite apposite
desinenze (“ego” – “ego”). Gl’articoli, gl’aggettivi indicativi, e i pronomi (Grice,
“I”, “me”) formano insieme una classe a sé stante. Essi possono - non devono -
essere utilizzati dal parlante. L’omissione è permessa qualora il significato
del discorso [Grice, cio che il proferete significa o communica -- sia
ugualmente chiaro. Ad esempio, è possibile omettere l'articolo dinnanzi alla
parola che significa 'luna', ‘congresso’, poiché poca differenza farebbe dire
'la luna', ‘il congresso’ – Strawson. Ma è bene utilizzarlo nel caso di 'Mangio
QUESTA mela e non quella’ – cf. Grice, “The book is on the table” +> “This
book is on this table”. I pronomi – Grice, I, me -- sono soggetti ai casi, di
modo che sia più semplice individuare il sostantivo (“Grice”, “this
distinguished-looking philosopher”) a cui si riferiscono. Per avverbi B. intende invece delle
particolari particelle da anteporre al verbo e che caratterizzino l'azione
indicandone, ad esempio, il tempo, il modo e la persona. In questo modo i verbi risultano
indeclinati -- del tipo 'ieri ho mangiato' > io ieri mangio (“When I was in
Thailand, I refrained from using the past tense of teach, for fear the natives
might not understand me” – cf. Me Tarzan, you Jane”. L'unica indicazione riguarda il MODO – Grice: mode, e non
mood -- potenziale (es. it. amabile) e dubitativo, ottenuti tramite ulteriori
desinenze. I verbi conoscono sempre e
solo la diatesi o voce attiva – cf. Grice on Leibniz: Paride ama Elena, Elena è
amata da Paride. Sotto il nome di aggiunti B. riconosce gl’aggettivi (“shaggy”,
d “shag”) e gli avverbi, cioè quelle parti del discorso che caratterizzano le
cose (il cane e ‘shaggy’) o le azioni. Posti preferibilmente a seguito di ciò
che specificano (‘cane shaggy’), possono eventualmente presentare desinenze che
ad essi li leghino. Per quanto riguarda gl’aggettivi di maggioranza, è
sufficiente preporre loro 'molto' (Verily shaggy, very shaggy) e così anche per
tutti gli altri. I pro-verbi (cf. Grice, Socrates whatted) adempiono per i
verbi alla stessa funzione alla quale adempiono i pronomi per i nomi. Le inter-iezioni (o inter-posti) esprimono
proposizioni intere e la nuova lingua filosofica deve averne in gran numero.
Sono formati da molte vocali e poche consonanti. Il genere non deve
necessariamente essere espresso, ma può essere indicato, qualora si voglia,
mediante apposite parole indicanti il femminile e il maschile (‘l’aquila
maschio,’ non ‘l’aquilo’) o, nel caso dei sostantivi (aquilo, aquila), tramite
l'attribuzione del genere agl’articoli che li precedono (es. 'leone femmina' o
'la leone', la leonessa). Allo stesso modo si indica il numero: cf. Grice (Ex):
some (at least one). I valori aumentativi, diminutivi, vezzeggiativi sono
aggiunti ai sostantivi tramite altre suffissazioni. L'ordine sintattico non marcato è Nome
Sostantivo + Verbo (“Toby eats”). Nel caso contrario, cioè qualora il verbo
preceda il soggetto, al soggetto in caso nominativo (GRICEUS) viene preposta
una particella congiuntiva che indichi la sua relazione con il verbo che lo
precede (PHILOSOPHVS GRICEUVS). Per il resto, l'ordine dei costituenti è libero
purché rimanga intuitivo. Interessante appare il discorso intorno ai pronomi
personali soggetto – Me, Grice, take you, as my... . B. sostiene la necessità
di avere CINQUE pronomi distinti per la prima persona plurale e la seconda
persona plurale. Il primo 'noi' indica un gruppo in cui sia COMPRESSO il
parlante (l’ego d’Entwisle) e l'interlocutore (il tu d’Entwistle), o gli
interlocutori. Il secondo ‘noi’ indica l'unione dell'io con una o più terze
persone – “Kind regards to you and yours”. Il terzo ‘noi’ indica la
collettività in cui ciascuno concorre allo stesso modo ad un'azione. Il primo
'voi' (“ye”) indica più persone – cf. (Ex), some at least one – Grice -- con le
quali si sta parlando. Il secondo “noi” indica un gruppo composto dal 'tu' a
cui si sta parlando e altri interlocutori.
Non è
necessario l'uso del pronome di cortesia. Cf. Grice on nonconventional
implicatures not being conversational in being derived from maxims which are
not universalisable – e. g. moral maxim, aesthetic maxim. Sebbene il problema della pronuncia di una lingua universale
sia uno dei più dibattuti, il punto fondamentale è che ad ogni grafo
corrisponda uno ed un solo fonema e che non esistano lettere che non si
pronunciano – cf. Grice on suit and soot. L'accento è intensivo, non cambia di
posizione durante i processi di affissione e derivazione e, nelle parole
compose, si mantiene sempre sulla prima parola. Inoltre, il segno diacritico
dell'accento può essere posto anche sopra le consonanti ad indicare la pronuncia raddoppiata delle stesse. Scrittura Ogni grafema corrisponde a un fonema
distinto. Il sistema di simboli utilizzabili per la scrittura è simile a quello
alfabetico italiano, in cui però sono stati opportunamente riassegnati i suoni
a ciascuna lettera -- per esempio nei casi ambigui di pronuncia della {s} o
della {c} o dei nessi {sc}, ecc. Anche la forma stessa delle lettere è spesso
modificata, cercando di renderle quanto più omogenee tra loro. Per esempio, B.
suggerisce - ma senza mai fornire al lettore una soluzione definitiva
dell'alfabeto della sua lingua - che le vocali possono essere o co e a nu,
avvicinandosi piuttosto fantasiosamente e solo nella grafia anche a un sistema
di scrittura fonetica. Non sono necessarie scritture corsive, in grassetto, in
maiuscolo – grice, italia, italiani --, ma è sufficiente un solo sistema di
scrittura. È inoltre necessario possedere tre vocabolari. Il primo contene le
voci grammaticali e le loro variazioni, preposizioni comprese. Il secondo
contenente tutte le desinenze in ordine alfabetico. Il terzo contenente tutte
le voci radicali e i loro derivati, elencate secondo l'ordine alfabetico delle
sole consonanti contenute in esse. Sul
finire del suo saggio, e forse anche sulla scia dei lavori precedenti, B. si
preoccupa di rendere fruibile la sua lingua filosofica anche mediante l'uso del
telegrafo. Ogni lettera è indicata da tre segni telegrafici (il punto, il
trattino, la linea) opportunamente combinati. I numeri invece sono indicati da
due di questi segni, e in questo si distinguono dalle lettere. 18 123456789. L'autore propone di
creare un dizionario di 999 frasi, ciascuna associata a un numero di tre cifre.
Ad esempio la frase 'ho sete' è associata al numero 62 del vocabolario, ed è
indicata così – cf. H. P. Grice on J. L. Austin’s SYMBOLO: «- -. -»; questa poi
è ulteriormente speciticata apponendo altri numeri indicanti qualcosa di più
preciso, come, ad esempio, il numero 12 = 'acqua', in codice telegrafico «...
-». B. continua infine il saggio presentando altri due tipi di alfabeto, basati
ugualmente sulla corrispondenza di simboli e numeri alle IDEE, utili al
linguaggio marinaresco, al linguaggio per i ciechi, ecc. B. si innesta perfettamente
nel panorama della glosso-poiesi inter-linguistica, rivelando una particolare
attrazione sia per le teorie filosofiche precedenti che per le teorie
matematico-numeriche. Il risultato comunque, forse dovuto anche al fatto che la
proposta si ferma al solo piano teorico – come il DEUTERO-ESPERANTO, di H. P.
Grice --, rimane poco soddisfacente e in alcune sue parti quasi
contraddittorio. Giusto Bellavitis. Bellavitis. Keywords: Grice. Refs.: Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Bellavitis,” The
Swimming-Pool Library. Bellavitis.
Belleo.
search – Bedoni. search – Belloni, Camillo
--
Grice
e Belluto: all’isola -- la ragione conversazionale el’implicatura
conversazionale dialettica – scuola di Catania – filosofia italiana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Catania).
Filosofo
italiano. Catania, Sicilia. Grice: “You gotta love Belluto; he shows that the
philosopher is the master of grammar – his explanation of modi of the different
‘perfect’ orations—is genial and exactly what I tried to convey in my lectures
on ‘mode’: vocativo, imperativo, optativo, indicativo – That this belongs in
dialettica is obvious – since all modi share the same logic, and that’s
Belluto’s point!” -- Bonaventura Belluto,
o Belluti (n. Catania), filosofo. Nato da distinta e facoltosa famiglia, studiò diritto civile
all'Catania. Entrato nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali nel 1621, emise
la professione religiosa l'anno successivo. A Roma studiò teologia presso il
Collegio sistino di San Bonaventura dove conobbe il confratello Bartolomeo
Mastri di Meldola del quale divenne compagno indivisibile di studio e di lavoro
come reggente degli studi prima al convento di Cesena, quindi a Perugia e poi a
Padova. Durante questo periodo, entrambi operarono per il rinnovamento della
tradizione e per una nuova interpretazione della dottrina scotista tale da
soddisfare la nuova cultura religiosa dell'epoca. Pubblica a Roma con la collaborazione di
Bartolomeo Mastri il primo volume di filosofia scolastica, dal titolo “Disputationes
in Aristotelis libros physicorum, quibus ab adversantibus... Scoti philosophia
vindicator” che ha il fine di essere diffuso nelle scuole francescane per far
conoscere la filosofia di Scoto difendendola dalle critiche d’Aquino i e dai
travisamenti operati da altri interpreti tra i quali i gesuiti. Successivamente
pubblica un piccolo trattato di logica, Institutiones logicæ, quæ vulgo summulas,
vel logicam parvam nuncuparunt, Venezia. Ad opera dei due filosofi è pubblicato
un Cursus integer philosophiæ ad mentem Scoti” che riune le “Disputationes”, le “Disputationes in libros de cœlo et de
metheoris”, le “Disputationes in libros de generatione et corruptione” e le “Disputationes
in libros de anima”. Il “Cursus” e un'opera, con fini esclusivamente didattici
e divulgativi del pensiero scotista, dove manca ogni riferimento alla cultura
filosofica e scientifica contemporanea. Alla fine della comune reggenza a
Padova i due filosofi si separarono. Belluto torna a Catania dove fu ministro
provinciale di Sicilia e di Malta, distinguendosi per intelligenza e saggezza
di governo. In questo periodo esercita anche la carica di consultore e censore
per l'Inquisizione. Nell'ambito del piano di rinnovamento del pensiero di Scoto
oltre all'insegnamento della sua filosofia i due filosofi progettarono un corso
di teologia che Mastri sviluppa con il trattato D”e Deo in se” mentre Belluto
continua l'elaborazione dell'opera “De Deo homine” della quale fu pubblicata
solo la parte riguardante le “Disputationes de Incarnatione dominica ad mentem
Doctoris subtilis”. Tema specifico e quello della predestinazione di Maria:
argomento questo che non apparteneva alla dottrina di Scoto ma che cerca di
risolvere applicando i principi del maestro nel senso che applicò alla
predestinazione della Vergine Maria la dottrina scotista della predestinazione
assoluta di Cristo. Costa, B. Il
religioso, lo scotista, lo scrittore, il FILOSOFO, Roma, La Sicilia e
l'Immacolata: non solo 150 anni: atti del convegno di studio, Palermo, Diego
Ciccarelli, Marisa Dora Valenza, Officina di Studi Medievali, Costa, Il primato
assoluto di Cristo secondo B., OFMConv., in "Miscellanea francescana",
Vasoli, Belluti, Bonaventura, in: Dizionario Biografico degli Italiani, Roberto
Osculati, Gli Opuscoli morali di Bonaventura Belluti. Duns Scoto Mastri V D M
Francescanesimo. INSTITVTIONVM
LOGICALIVM. Nomina transcendentia infinitari possint verbum adiectiuum et substantiuum
de Secundo adiacente sint verba apud Log, de attinentibùs ad formam syllogiſmi,
De oratione, quid sit, quotuplex, oratio necesario debeat constare verbo, quid
sit propositio, seu Enunciatio, quotu De terminis, ac eorum affectionibus, Quanam
sit recta Enunciationis definitio.quotuplex sit terminus. Quomodo Enunciatio
vocalis dicatur vera, vel communi. falſa. Quæ dctiones fubeant rationem,
divisio in catheg. bypotb. sit generi sin termini. Species. An dentur termini
in cap. 4. Quid sit propositio cathegorica b quotuplex. propositione mentali, Determinorum
multiplicitate ratione fignifi Dub. 1, Qualis sit diuisio propusitionis in
veram, falsam, affirmativam, negativam, quid sit signum [segno], a quotuplex uniuersalem o particularem qui sint termini mixti
inter cathegoremati qualis sit diuisio propositionis in modalem cum syncathegorematicum
de inesse qui sit terminus complexus o incomplexys Capo, 5. Quid sit propositio
modalis, et quotuplex, Determinorum multiplicitate in ratione modi qualis sit
divisio propositionis modalis significandi
in compositam o diuitam. Quid fit terminus connotatiuus. n.g Quid sit
propositio bypothetica, oquotuplex, D emultiplicitate terminorum in ordine ad
res fignificatas. Dubi. An bypotbetica propositio benèdefiniatur.n. De Uniuerfalibus,
fue Prædicabilibus. Divisio bypothetice in conditionalem. De Prædicamentis,
primode absolutis. copulativam et disiunctiuam
sit generis in species De prædicamentis respectivis, De legibus eorum, quæ funt
in Predicamento, De oppositione cathegoricarum simplicium. De Terminorum
collatione inter se, An inter contradictoria detur medium, Varia terminorum
supposition quod sint species
oppositionis, An suppositio competat adiectivis de æquipollentia, o conversione
categorical. Quo pacto differente suppositio determinata, rum simplicium et confusa,
Quomodo equipolleant ſubcontraria, De reliquis terminorum proprietatibus, propositio
affirmativa depredicato infins, Determinis componibilibus aquipolleat negative
de predicato finite explicantur quidam termini in fchalis fre è contra quentiffimi,
De oppositione, æquipollentia, &conuersione catbegoricarum, modalium, ac
etiam hypotheticarum propositionibus exponibilibus, insolubili de Propositione
et eius affectionibus, bus, propositiones exponibiless int catheg vel by Comez
de nomine o verba, pot. et quomodo contradicant solum nomen finitum rectum sit
propositiones insolubiles sint catheg, vel by nomen apud Logicum, pot.cies de
Argumentatione, et eius affectionibus de attinentibus ad materiain syllogiſmi. oquotuplex
fit Argumentatio formalis. De syllogismo Demonstrativo. De speciebus
argumentat. Quoi fint argumentationiss pecies, og mun ald. precognitionibus eo perecognitis
quod sint precognitiones, omnis consequentia sit argumentatio de regulis
communibus bona argumentatione. Quid depaſſionepre cognoscatur. nis. De
fcientia demonftrationis effectu liceat argumentariex fuppofitioneimpos Dub.V n.An
dentur scientia de novo. sibili, de neceffitate principiorum, ubi de modis de
inductione, ubi de ascensu, descensu, per feitatis Que predicentur in primo
modo dicendi per Dei. inductio fit bona, formalis consequentia, vel
argumentatio, modus intrinsecuspredicetur in primo modo De syllogifmo, et eius
principis constitutiuis, dicendi per se. n.is obi de figuris eiusdem quo patto
quartus modus dicendiper se disse unde dicantur maior, o minor in syllogism rat
a secundo. Propositio per se convertatur in propositio, conclusio sit de
essentia syllogismi nem per fe. detur quarta figura De demonstratione propter
quid De principis regulatiuis syllogismi Ancaufa virtualis pofit in seruire
demonstra dub us. quodnam sit principium precipuum regulationi siuum syllogismi
quomodo illud axioma propter quod, unum regule generales, especiales
cuiuscunque si quodque tale et illud magis. gure alignantur. De demonstratione
quia Alignantur modi cuiuscumque figura cum. De medio demonstrationis.corum
exemplis. De numero quaffionum modi syllogismorum sint sufficientere numerati.
figura dentur modi indirecte concludentes sicut in prima de syllogiſmo topico,
de inductione modorum imperfectorum ad perfectos. De varis speciebus syllogiſmi
cathegorici. De materia tum remota tum proxima syllogiſmi topici. detur
syllogismus constans ex propositinibus non significantibus de numero
predicatorum de locis topicis de Syllogismo hypothetico et alijs syllogismi, de
locis intrinsecis speciebus de locis extrinsecis un de finepetende divisions
syllogifmi, De locis medijs.fint eſentiales. Digifmus, ut fic, fit genus
demonftratiui, opici, co Sopbiſici.De arte inueniendí medium, ac bene disputan
de syllogismo sophistico de modis seu instrumentis sciendi fallacis in genere An
detur diftin et tiomedia interdiftin et tionem reslem,orationis, de Fallaciis
extra dictionem. Impiegatura del segnare. Ex variis
capitibus solent termini multiplicari et variæ eorum divisiones assignari, ex
parte nimirum significationis, ex parte modi significandi, et ex parte rei
significatæ. Ex primo capite, quantum ad præsens spectat, solet in primis
dividi vocalis terminus in significativum et non significativum. Ille est, qui
aliquid significat, ut hæc vox homo, qui naturam significat humanam, ille est,
qui nihil qui nihil fignificat, ut "blittri", "buf",
"baf". Sed ut ista divisio sit recte tradita intelligi debet de
termino in prima acceptione assignata cap. præced. nam in secunda acceptione omnes
termini sunt significativi, cum esse possint subiectum et prædicatum in
propositione. Terminus igitur vocalis in tota sua latitudine sumptus dividitur
in significativum et non significativum. Quæ divisio ut bene percipiatur, cum
terminus vocalis constituatur in ratione significantis per significationem,
videnduın est quid sit significare et quid signum [segnante, segnare, segnato]
a quo verbum "significare" derivatum est. [A cloud may sign but a cloud does not 'make' [fare] a sign -- you
cannot order a cloud, 'make a sign!' 'Signify', "Fa un segno!"].
Signum (ex August. De Doct. Christ. cap. i) est illud [x], quod præter sui
cognitionem, quam ingerit sensibus, facit nos venire in cognitionem alterius
[y], v. g. hæc vox "homo" præter speciem, quam imprimit in auditu, ut
sonus est, facit nos venire in cognitionem alterius scilicet naturæ humanæ,
unde signum [segnante] debet esse tale, utillo cognito per sensus, mediante
illo deinde veniamus in cognitionem rei, cum qua signut habet *connexionem*
[any link will do]. Hinc significare nil aliud erit, quam aliquid aliud a
se distinctum *re-præsentare* potentiæ cognoscenti. Ex quo patet signum dicere
ordinem et ad potentiam cognoscentem, cui *re-præsentat* et ad rem significatam
[signata, segnata], quam re-præsentat. Dividitur porro signum in formale et est
illud, quod absque sui prævia cognitione aliud nobis [dual scenario]
re-præsentat et in eius cognitionem ducit, quales sunt species impressa et
expressa respectu proprii objecti et in instrumentale, quod præ-supposita sui
cognitione facit nos in alterius cognitionem venire, ut imago respectu Cælaris,
vestigium respectu feræ transeuntis. Qua de causa Scotus 2. d. 3.quæst. 9. et
quol.14, hoc secundum signum appellat medium cognitum, quia ut ducat in cognitionem
*signati* [segnato], prius petit ipsum cognosci, illud vero primum vocat
præcise rationem cognoscendi, quatenus præcise est quo aliud cognoscitur et non
quod cognoscitur. Signum autem instrumentale est, de quo agimus in præsenti et
quod proprie dicitur signum et definitur ab August. citat, ea tamen definitio
etiam formali conveniet, si prima pars dematur et dicatur signum esse, quod
facit nos in alterius rei cognitionem venire. Hæc tamen signi descriptio,
quamvis sit ab August, tradita et ob tanti doctoris authoritatem ab omnibus
passim recepta, non recipitur a Poncio disput. 19. Log. quæst. i, eamque
impugnat quo ad veramque partem. Quo ad primam quidem cum ait signum [segnante]
esse id, quod præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, etc. redarguit,
quia non complectitur omne signum, quia possent dari *signa spiritualia*, quae
deducerent in cognitionem aliarum rerum, nec possent percipi a *sensibus
materialibus*. Quo ad aliam vero partem, in qua ait. Quod signum facit nos
venire in cognitionem alterius eam impugnat, tamquam ab Arriag. traditam, quia
obiectum facit nos in cognitionem sui venire et tanem *non* dicitur signum.
Rursus Deus ipse facit nos venire in cognitionem multarum rerum eas nobis
revelando, nec tamen ab illo vocatur signum illarum rerum. Præterea cognitio
est signum rei quae cognoscitur per ipsam et tamen non facit nos in cognitionem
venire. Sed nimis audacter insiciatur Poncius doctrinam D. Augustini,
quam omnes venerantur, ut communis Magistri, unde mirum esse non debet, quod saepius
hic auctor minimo rubore suffusus doctrinam Scoti praeceptoris audeat
impugnare. Optima enim est illa descriptio quo ad omnes partes, si bene
intelligatur, nam duae solent assignari conditiones alicuius, ut alterius rei
signum dicatur, una est, quod nos ducat in illius rei cognitionem, altera est,
quod ducat in eius cognitionem, quatenus cognita, quarum conditionum utramque
*optime* [cf. optimality] exprimit definitio signi ab Augustino tradita. Nam
per primam partem definitionis secundum exprimit conditionem. Vulc enim rem,
quæ inservire debet pro alterius signo, prius nostris sensibus cognitionem sui
ingerere debere, specificat autem signum esse debere *sensibile*, quia ut notat
doctor 4. d. 1. quæst. 2. et 3. *signa sensibilia* sunt *maxime apta pro statu
ipso excitare intellectum coniunctum a sensuum ministerio dependentem, ut in
alterius rei cognitionem veniat. Per alteram vero partem definitionis altera
quoque conditio exprimirur, contra quam nil urgent instantiæ a Poncio adducta,
quia obiectum facit venire in cognitionem sui, non alterius, nec facit venire
in cognitionem sui, quatenus cognitum, ut facit signum, sed quarenus
cognoscibile. Nec etiam *Deus* hoc modo ad instar signi ducit nos in rerum
cognitionem, quatenus cognitus, sed eas revelando, quod adhuc facere posset,
etiamsi prius a nobis non cognosceretur. Cognitio denique esse signum rei
cognitae per ipsam formale, ut dicebamus, non autem instrumentale, quod solum
*proprie* dicitur signum et ab Aug. definitur et ideo cognitio proprie loquendo
non dicitur facere nos venire in cognitionem rei, quam re-præsentat, quia non
ducit nos in cognitionem illius rei, quatenus cognita, sed ut medium cognitum,
sed ut racio cognoscendi. Solum autem signum instrumentale est illud, quod hic
definitur. Et hoc signum instrumentale adhuc *duplex* [like vyse and vice?]
est, aliud *naturale*, et est quod *ex natura* sua independenter ab hominum
voluntate [those spots mean measles] aliquid [measles] re-praesentat, ut fumus
ignem [where there is smoke, there's fire], et universaliter omnis *effectus*
[causa/effectus] suam causum, qui præsertim si *sensibilis* [fumus] erit,
dicetur signum causae juxta sensum definitionis allatæ. An vero ita e contra
*causa* dici posse signum sui *effectus*, negat Hurtad. disput. 1. sect. 4.
quia etsi causa cognitio ducat in cognitionem *effectus*, tamen, non es
ordinata ad illum re-præsentandum. Sed plane non minus ordinata est cognitio
*causæ* ad nos ducendum in cognitionem *effectus* a priori, quam cognitio
*effectus* sic *ordinata* ad notitiam *cautiam* a posteriori, quare ratio
Hurtad. parum valet. At inquirare alii, quod licet ita res se habeat, sola
tamen cognitio, quae per *effectum* habetur, dicitur haberi per signum, unde
sola demonstratio a posteriori, quae est *per effectum*, dicitur *a signo* et
ideo solum *effectus* dici potest signum *causæ*, non e contra. Verum neque hoc
viget, licet enim cognitio habita *per effectum* veluti sensibiliorem *causa*,
magis proprie dicatur *a signo*, nil tamen impedit, quin et cognitio habita
*per causam* possit dici *a signo* absolute loquendo. Potest igitur etiam
*causa* dici signum sui *effectus*, et praesertim quando *sensibilis* est, unde
a theologis sacramenta dicuntur *signa* *gratia*, cuius sunt *causa*, ita clare
colligitur ex Doctore 4. d. 1. quaest. 2. De secundo
principali et sequitur Casil. cit. et Arriaga disputat. 3. sect. 2. Aliud vero
est *signum artificiale* [not conventional! ars/natura], seu *ad placitum* et
est: quod ex hominum impositione aliud re-præsentat, sic ramus est signum
venditionis vini, sonus campanae est signum lectionis [the bell means the bus
is full], et vox illius rei, ad quam *signi-ficandum* est imposita. Ubi tamen
est advertendum etiam in vocibus ipsis non tamtum significationem ad placitum
reperiri posse, sed etiam naturalem, ut patet de gemitu infirmorum et latratu
canum et ideo terminus vocalis *signi-ficativus subdividi solet in
*significatiuum naturaliter et ad placitum et hic ad dialecticum spectat non
quidem secundum suam realem entitatem, ut vox est, et sonus quidam in aere
*causatus*, sed secundum quod impositus est ad res ipsas *signi-ficandas* et
conceptus mentis exprimendos, in hoc enim sensu voces pertinere dicuntur ad
institutum dialecticum, ut dicemus disp. de vocibus, ubi etiam declarabimus,
per quid constituatur ratio signi. Special
section on ‘sign’ – two sections. General definition of sign, following
Augustine, but with objections by Ponzio. Second section, the criterion between
artificial (‘a piacere’) and mere natural signs. Segno – segnare – segnante, segnatum. Bonaventura Belluti.
Bonaventura Belluto. Keywords: dialettica, “Institutiones logicae, quae vulgo
Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt”, section on ‘segno’ – signum. The teacher ringing the bell means
that Strawson should go to the tutorial. The branch of grapes means that Grice
is selling wine from his orchard. Rather than ‘artificiale’ ‘a piacere’ is
better, ‘ad placitum’. Scottism against Thomism in Italy – x means y in terms
of cause and effect. The problem of God, should sign be always ‘material’?—Etimologia
di ‘segno’ – relazione con greco ‘semeion’ neutro. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Belluto” – The Swimming-Pool
Library. Belluto.
Grice
e Bencivenga: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del
piacere e del compaciere – scuola di Reggio Calabria – filosofo calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Reggio
Calabria). Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Reggio Calabria, Calabria. Grice: You’ve got to
love Bencivenga; my favourite is his little tract on ‘pleasure,’ but he has
philosophised on one of Austin’s favourite concepts – that of ‘game’ – gioco –
which he applies to communication and philosophy – he thinks that Austin took
philosophese too seriously – ‘implicatura,’ ‘perlocution,’ – when it was all
meant in fun – as a joke –“. Dopo
la laurea in filosofia alla Statale di Milano, Bencivenga ha lasciato presto
l'Italia, trasferendosi prima in Canada per gli studi di dottorato e poi negli
Stati Uniti, dove ha intrapreso la sua carriera accademica insegnando
all'Università della California a Irvine.
I suoi interessi di studio, nel corso del tempo, hanno riguardato la
logica formale (negli anni settanta), la storia della filosofia (negli anni
ottanta), l'etica, la filosofia politica. Ha pubblicato numerosi testi sulla
storia della filosofia e su specifici argomenti filosofici, come logica,
estetica, filosofia del linguaggio, in forma dialogica, saggistica, trattatistica
– “Teoria del linguaggio e della mente” (Bollati Boringheri --, con scrittura
aforistica – “Anime danzanti” (Aragno) -- o affrontando singole figure storiche
(come Hegel e Kant). Ha scritto inoltre diversi testi introduttivi alla
filosofia e a sue tematiche, desti un pubblico più vasto, e alcuni libri di
poesie. “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Montadori) è un saggio ripubblicato negli Oscar
Mondadori. Pur potendo essere raccontato a un uditorio di bambini, il saggio si
pone l'obiettivo di rivolgersi al bambino presente in ogni essere umano, che lo
rende capace di stupirsi e incantarsi di fronte alle domande della filosofia.
Il saggio è stato riedito in edizioni aumentate (a quarantadue, cinquantadue,
sessantadue e ottantadue favole). “Giocare per forza: critica della società del
divertimento” (Arnoldo Mondatori) è dedicato all'importanza del gioco e
all'esame critico del sovvertimento di senso di cui esso è stato fatto oggetto
nella società contemporanea: trasformato in industria, il divertimento ha
perduto la sua naturale collocazione, quale manifestazione della sfera
fantastica, ricerca libera e volontaria. Trasposto in una dimensione
'industrializzata' e organizzata, il gioco si qualifica come attività passiva e
ripetitiva, espressa all'insegna di rapporti psicologici coattivi che snaturano
completamente il senso dell’Homo Ludens di Johan Huizinga: il gioco del lotto e
l'intrattenersi con videogame o slot machine diventano forme di subire passivo,
una dimensione alla quale è precluso il manifestarsi dell'agire ludico
dell'uomo attraverso l'attività fantastica della psiche umana. In un mondo in cui domina la dimensione
organizzata del divertimento, si apre all'uomo una prospettiva impoverita
dell'esistenza, in cui si realizza la perdita del senso profondo del gioco, una
prospettiva che l'autore considera esiziale perché, nelle sue stesse parole,
«se perdiamo il gioco perdiamo la stessa umanità». Pubblica il saggio “L'etica di Kant: la
razionalità del bene” (Bruno Mondatori), una riflessione sul concetto di Etica
in Kant e sul fondamento logico-razionale del Bene. L'Etica consiste nel negare la preminenza al
nostro punto di vista, aprendosi all'esperienza altrui, all'ascolto di tutte le
altre voci e presenze che hanno diritto a occupare un posto nella riflessione
comune. Di converso, la negazione dell'etica consiste esattamente nella
negazione di questo diritto, nell'impedire agli altri la partecipazione alla
riflessione collettiva, la possibilità di offrire all'esperienza comune il
contributo particolare della propria ragione. Questa partecipazione coinvolge
ciò che si chiama l'"uso pubblico della ragione", un'espansione della
dimensione privata della ragione, quest'ultima intesa come la sfera d'uso che
ci è concessa, ad esempio, nell'esercizio dei compiti derivanti da necessità e
ruoli della nostra vita e della nostra professione. L'Etica è come un "fuoco
immaginario", impossibile da attingere. Ma ciò che conta veramente è il
percorso attraverso cui ci si muove in direzione di questo "fuoco",
un cammino in grado di aprire l'uomo a nuove acquisizioni, schiudendone gli
orizzonti al di fuori di pregiudizi e preconcetti. Si pone poi il problema di come considerare
l'etica in un contesto dominato dalla corruzione: l'etica non lascia spazio
alla rinuncia e al cinismo, anche se spesso quest'ultimo può presentasi in
forma artefatta, dissimulato da "realismo", e per questo non
immediatamente riconoscibile. Riprendendo la celebre riflessione sulla
«banalità del male» di Arendt (per B., la massima interprete kantiana), il bene
ha una logica e una ragione, un fondamento da cui non è invece sorretto il
male. Quest'ultimo, infatti, trae origine proprio dalla rinuncia alle ragioni
dell'etica, si insinua proprio nelle lacerazioni dell'etica lasciate aperte da
questa rinuncia. Diversi suoi contributi sono apparsi negli anni su vari
giornali italiani, come La Stampa, il Sole 24 Ore, l'Unità, ecc. Altre saggi: “Le
logiche libere” (Bollati Boringhieri); “Una logica nei termini singolari” (Bollati
Boringhieri); “Il primo libro di logica” (Bollati Boringhieri); “Tre dialoghi:
un invito alla pratica filosofica” (Bollati Boringhieri); “Giochiamo con la
filosofia” (Mondadori); “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Mondadori);
“La filosofia in quarantadue favole”; “La filosofia in cinquantadue favole”; “La
filosofia in sessantadue favole”; “La filosofia in ottantadue favole”; “La
libertà: un dialogo. Il Saggiatore); “Oltre la tolleranza. Feltrinelli); “Il
metodo della follia. Il Saggiatore); “Filosofia: istruzioni per l'uso. Arnoldo
Mondadori); “Platone amico mio. Arnoldo Mondadori); “Manifesto per un mondo
senza lavoro, Feltrinelli); “Per gioco e per passione, Di Renzo); “La
rivoluzione copernicana di Kant. Bollati Boringhieri); “Filosofia: nuove
istruzioni per l'uso. Mondadori); “I passi falsi della scienza. Garzanti, Premio
Nazionale Rhegium Julii); “Una rivoluzione senza futuro. Garzanti); “Parole che
contano. Da amicizia a volontà, piccolo dizionario filosofico-politico. Arnoldo
Mondadori); “Le due Americhe. Perché amiamo e perché detestiamo gli Usa”
(Mondadori); “Dio in gioco: logica e sovversione in Anselmo d'Aosta” (Bollati
Boringhieri); “Il pensiero come stile” (Bruno Mondadori); “La dimostrazione di
Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede” (Arnoldo Mondadori
Editore); “La filosofia come strumento
di liberazione” (Cortina); “Parole in gioco. Mondadori); “La logica dialettica
di Hegel. Mondadori); “Il piacere. Indagine filosofica. Laterza); Filosofia in
gioco. Laterza); “Filosofia chimica” (Riuniti); “Il bene e il bello. Etica
dell'immagine” (Il Saggiatore
Prendiamola con filosofia. Nel tempo del terrore: un'indagine su quanto
le parole mettono in gioco); “Giunti La
scomparsa del pensiero. Perché non possiamo rinunciare a ragionare con la
nostra testa. Feltrinelli); “Filosofo anche tu. Siamo filosofi senza saperlo.
Giunti); “La stupidità del male. Storie di uomini molto cattivi” (Feltrinelli);
“L'arte della guerra per cavarsela nella vita” (Rizzoli Bur); “100 idee di cui
non sapevi di aver bisogno” (Rizzoli Bur); “Critica della ragione digitale.
Feltrinelli); “Nel nome del padre e del figlio. Hoepli; “I delitti della
logica” (Mondadori); “Abramo, tragedia in tre atti. Aragno Case. Cairo
Il giorno in cui non tornarono i conti. MdS, “Annibale, tragedia in tre
atti” (Aragno); Amori. MdS; “Alessandro, tragedia in tre atti” (Aragno); Ada.
Lettera a mia madre. Arsenio. Poesia Panni sporchi. Garzanti); Un amore da
quattro soldi. Aragno); Polvere e pioggia. Aragno Poesia dei miei coglioni. Galassia Arte); “Le
parole della notte. Di Felice Amore per
Milla. Di Felice. Interventi di Ermanno Bencivenga Archiviato il 13 giugno in. da SWIFTSito web italiano per la
filosofia premio Rhegium Julii, su
circolorhegiumjulii.wordpress.com. Blog ufficiale, su sites. uci.edu. Opere di B., su openMLOL, Horizons Unlimited
srl. Opere di B,. Profilo dal sito
dell'UCI Department of Philosophy Testi di e su Ermanno Bencivenga dal sito
dell'UCI Department of Philosophy Biografia dal sito del Festivaletteratura di
Mantova. Da
un quarto di secolo ormai parlo di gioco, e intorno a questo tema ho raccolto
tutte le attività che hanno per me il più profondo significato. Ho detto che il
linguaggio e la mente sono spazi ludici, che lo sono la soggettività e la
politica, che letteratura e filosofia sono giochi intellettuali. Ho scritto un
libro polemico nel quale criticavo varie attività che nel mondo contemporaneo
sono presentate e propagandate come forme di gioco e invece ne rappresentano
l’opposto: una violazione e repressione del gioco. Ma non ho mai spiegato con
cura che cosa intendo per gioco, non ho mai articolato i molteplici risvolti di
questo intricato concetto. Lo faccio qui, e forse è bene che lo faccia alla mia
età e dopo tante vicissitudini e traversie: forse un libro così, su un
argomento per me di tale importanza, poteva solo presentarsi come sommario di
un’esperienza di vita, come enunciazione della sua morale. Questo dunque
è il libro di tutti i miei libri e ogni mia forma espressiva è stata un suo
episodio. Che io mi sia dedicato alla logica o alla poesia, abbia esplorato
problemi metafisici o dialogato con i grandi della storia del pensiero, abbia
insegnato, parlato in pubblico o scritto articoli di giornale, non ho fatto che
pratica della sua composizione, non ho trovato che esempi delle sue tesi. Di
conseguenza, nel prepararlo, ho dovuto affrontare una difficoltà: quella di
mantenere una precisa misura. Il libro non poteva diventare un’enciclopedia:
doveva essere chiaro ed efficace, breve anzi, e gli stimoli che avrebbe offerto
alla lettura non dovevano causare distrazioni per un percorso che volevo
coerente e risolto in sé stesso. Se ho realizzato i miei scopi non sta a me
dire; aggiungerò solo una nota di commiato. In quella costellazione variegata
che è il mio lavoro di quarant’anni c’è un sole (un faro, l’aveva chiamato
l’amico Luciano Genta in un’intervista di molto tempo fa): Immanuel Kant. E c’è
un centro di forza, a lungo nascosto per quanto instancabilmente operoso e ora
infine venuto alla luce. Ringrazio Alessandro Giuliani, Ignazio Licata, Cinzio
Lombardi, Pasqualino Masciarelli, Daniela Mazzoli, Fabio Paglieri e Paolo
Zorzato per i loro commenti a una versione precedente del libro. Un
ringraziamento e un ricordo particolari vanno a Nuccia, antica compagna di
giochi, che, fin quando ha potuto, ha seguito queste pagine con l’intelligenza,
il rigore e la sensibilità di sempre. Roma, novembre Avvertenza Di regola, le
citazioni sono accompagnate dall’autore, dal titolo della fonte e dai numeri
delle pagine (le altre informazioni bibliografiche sono contenute nella
Bibliografia in fondo al volume), con le eccezioni seguenti: Quando mancano
autore o titolo è perché sono menzionati nel testo che accompagna
immediatamente la citazione, nel libro viene citata una sola opera di
quell’autore e l’opera è già stata menzionata, oppure la citazione è tratta
dalla stessa fonte della citazione precedente. Quando mancano le pagine è
perché sono le stesse della citazione precedente. Infine, quando una citazione
è inserita nel testo (anziché presentata a parte, in corpo minore), la sua
iniziale maiuscola o minuscola è stata adattata alle esigenze del
contesto. 1. Il gioco Una bambina di due anni entra in una stanza per lei
nuova, cosparsa di oggetti ignoti. Si muove incerta dall’uno all’altro; li
prende in mano, osservandoli curiosa e perplessa da ogni punto di vista; li
assaggia e li mordicchia con i suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per
aria; li fa rotolare sul pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci
infila dentro le mani cercando di smontarli, di farli a pezzi; li picchia con
forza per trarne un suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia
in un angolo, raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in
forme sempre nuove: un cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una
pila di pentole e stoviglie, un orsacchiotto che guarda in cagnesco un
altoparlante. Il portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe
rilanciare lungo, oltre il centrocampo; ma preferisce l’appoggio al difensore
di fascia, appena fuori dall’area. Il terzino scatta veloce: gli avversari sono
sbilanciati dall’altro lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il
centinaio di metri che lo separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per
le sue doti di velocista potente e armonioso. In affanno, sopraggiunge infine
un marcatore, ma prima che si stringa troppo il terzino si ferma di botto in un
fazzoletto di terra. Ha spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un
cross morbido per la testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a
dieci metri dal portiere. L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo
strattonano rischiando il rigore e gli bloccano la visuale della porta, così
invece di schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui
piedi dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il
pallone varca la linea bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di
perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali non è durato neanche un
minuto. Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto
evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi
un arbitrio, un capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di
occupare il tempo. La bambina agisce in assoluta libertà, guidata solo
dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò che è
in gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non
contempla un limite temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà
sempre e comunque interromperla, e quando lo si farà lei manifesterà con vigore
il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla – null’altro,
cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che
dura esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è
compito dell’arbitro e dei suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e
che domani provocheranno discussioni a non finire sui giornali e nei bar); hanno
l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e per
questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci può
offrire l’uso di una stessa parola con significati tanto diversi se non una
penosa confusione? E non è finita, non per me almeno. Consideriamo infatti un
passo come il seguente, dalla Critica del giudizio: È un principio
trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a
priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra
conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso
rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui
concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente
determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come
sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il
loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che
quel mutamento debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che
il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri
dell’intelletto) – per esempio, come sostanza – per conoscere a priori la
proposizione; laddove nel secondo deve essere messo a fondamento di questa
proposizione il concetto empirico di un corpo (come una cosa mobile nello
spazio), ed allora si può vedere interamente a priori che l’ultimo predicato
(del movimento prodotto solo da una causa esterna) conviene al corpo. Queste
frasi compaiono in un libro che rappresenta uno dei massimi vertici della
filosofia occidentale, e io ho sostenuto a più riprese che la filosofia è un
gioco. Non solo la filosofia, perché l’ho detto pure dell’arte e della
letteratura, ma anche la filosofia. E che cosa giustifica l’accostamento di
espressioni così nobili dell’ingegno umano a una partita di calcio o alle
peripezie di una bimba da poco in grado di reggersi in piedi? In filosofia si
fa terribilmente sul serio, ci si concentra sui temi che più contano, che dànno
senso alla vita e all’esperienza del mondo, e si fa di tutto per sviscerarne la
struttura, per arrivare in proposito all’unica, esatta verità; non ci si sta
divertendo (sviando, cioè: andando a spasso) per godere della novità e della
sfida. In ballo non ci sono soldi o il plauso delle folle, e neppure il piacere
che deriva da qualche ora trascorsa spensieratamente. Tutt’altro: il pensiero
qui è acuto come uno spillo e profondo come l’oceano, diretto come un raggio
laser verso problemi per cui le folle non provano (ahimè) alcun
interesse, anche perché sono spesso trattati in termini (come quelli del passo
citato) che le folle troverebbero incomprensibili; e talvolta l’esito di tanto
ossessivo impegno, di tanta rigorosa dedizione, di tanta puntuale insistenza
sull’uso di formule corrette e ragionamenti apodittici è un infuso di cicuta
propinato al tramonto o il rogo in una piazza romana, fra i pellegrini
convenuti per l’anno santo. Anche questo è un gioco: quello che stiamo
conducendo adesso, voglio dire, quello suggerito dall’inizio del mio libro. Ed
è importante capire che gioco sia. Potrebbe essere come quando si mettono
accanto due vignette che raffigurano situazioni del tutto diverse – che so io?,
il varo di una nave e un compito in classe – e si chiede che cosa abbiano in
comune. E, aguzzando bene la vista e non lasciandosi distrarre dalle forme più
prominenti, si finisce per scoprire che la superficie di un banco coincide con
la bandiera spiegata, o la barra del timone con il righello. Un gioco così non
è nuovo, per rispondere alle domande che ho posto qui sopra. Si mettono accanto
un ragazzo che costruisce un castello di sabbia, un campione di scacchi alle
prese con un’apertura inconsueta, Guernica ed Essere e tempo e ci si interroga
su quali siano i dettagli che si ripresentano identici in ciascuna situazione.
Stabilendo, per esempio, che si ha sempre a che fare con un esercizio fine a sé
stesso o con un affrancamento dell’essere umano dalla servitù del bisogno.
Identificando il gioco, insomma (quel che lo rende tale), con una singola,
astratta caratteristica di ogni gioco particolare, tanto astratta da far
scomparire ciò che un gioco particolare ha di vivido e intenso, di suggestivo e
appassionante. Che cosa rimane dell’inventiva del trasformare un passeggino in
un’automobile, dell’eccitazione di tirare un rigore all’ultimo istante, della
sconfinata ingegnosità (e sublime impertinenza) della prova ontologica
anselmiana quando le dichiariamo ridotte a una qualsiasi concisa definizione
che ci dia l’essenza del gioco? Non è questo il gioco a cui voglio giocare. È
invece un gioco analogo a quello del labirinto. C’è un punto di partenza e noi
siamo lì, carichi di tutta la nostra individualità, di tutto ciò che ci rende
irripetibili, inconfondibili con chiunque altro. Davanti a noi ci sono bivi e
ostacoli, comodi varchi che potrebbero finire in un vicolo cieco e strettoie
malsane per cui potremmo trovare il passaggio agognato. E c’è una meta che ci
aspetta al termine di un tracciato arduo e sofferto; ma una meta da raggiungere
interi, non assottigliati in un’ombra priva di peso e di spessore, anzi avendo
acquisito maggior peso e spessore per le avventure vissute e i rischi corsi,
avendo visto maturare anziché spegnersi le nostre opinioni e i nostri
sentimenti. Nel linguaggio della filosofia, i due giochi che ho descritto
sarebbero ribattezzati con i nomi di Aristotele e di Hegel: il primo fautore di
una logica analitica che divide (analizza) oggetti ed esperienze nelle loro
molteplici caratteristiche e quindi astrae le caratteristiche comuni
costituendo concetti universali che diventano il luogo privilegiato della sua
azione; il secondo, invece, di una logica dialettica che unisce (lega) oggetti
ed esperienze fra loro, senza perdere nulla della loro complessità, mediante un
tessuto narrativo, una storia che gradualmente trascende l’uno nell’altro
mantenendo però l’uno presente e attivo nell’altro, un po’ come il monello
dodicenne è trasceso, ma ancora presente e attivo, nell’attempato capitano
d’industria. Più avanti potremo riprendere in mano questa terminologia
filosofica e precisarla meglio; ora è tempo di giocare, di trovare la via nel
labirinto. Dovremo spiegare il punto di partenza: il gioco della bimba di due
anni – spiegarlo come si spiega una vela, mostrando tutto quel che le pieghe
nascondono. Dovremo avere sempre chiaro in mente l’obiettivo: ritrovare quel
gioco e quella bambina nella Critica del giudizio, passando per il gioco del
calcio e molte altre tappe. E dovremo affrontare false piste e pericoli, cioè
tutte le domande e obiezioni che già ci siamo posti e quelle che dovremo ancora
porci, e superarle senza lasciare sul terreno alcun elemento significativo del
punto di partenza: senza smarrire l’incanto che affascina la bimba, il brivido
con cui tenta un nuovo gesto o una prospettiva strampalata, il piacere riflesso
nel suo sorriso, il paziente e prezioso sviluppo della sua personalità che si
realizza attraverso questi um ili, intimi passi. 2. Il punto di
partenza Cominciamo con la bimba, dunque; studiamone la situazione e (per quel
che possiamo capirlo) lo stato d’animo. La prima cosa da notare è che il suo
comportamento è trasgressivo: sovverte ogni abitudine sull’uso «corretto» degli
oggetti con cui ha a che fare e ogni aspettativa che chiunque si sia formato in
proposito. Parte di questa sua natura rivoluzionaria è dovuta al semplice fatto
che la bimba non sa quale sia l’uso corretto degli oggetti: non sa, per
esempio, che con una spillatrice si cuciono dei fogli e se ne serve invece come
di un grosso pesce nella cui bocca spalancata inserire l’«esca» di una pedina
della dama, e chi la vede sorride e osserva bonario quanto ingegnoso sia il suo
spirito, quanto la sua immaginazione sia in grado di sopperire ai difetti
dell’ignoranza. Magari il benevolo spettatore prenderà la spillatrice e ne
dimostrerà con sapiente manovra pedagogica il funzionamento: la userà per
realizzare in quattro e quattr’otto un bel quadernetto degli appunti che
porgerà alla sua pupilla, perché colga subito un elemento decisivo della sua
educazione formale prossima ventura – perché l’esperienza attuale non rimanga
«solo un gioco». E avvertirà una profonda frustrazione quando l’indisciplinata
(presunta) scolara in erba si guarderà bene dall’imitare il suo esempio e
realizzare altri dieci quadernetti, e cercherà piuttosto di infilare le dita
dentro la spillatrice e strapparle i punti, cioè i piccoli denti affilati di
questo pesce goloso, intenzionato a divorare tutte le pedine della dama.
Scuoterà la testa, il nostro insegnante per il momento mancato, e si consolerà
pensando che è solo questione di tempo: prima o poi la bimba imparerà il minimo
indispensabile per un comportamento «come si deve» e allora ci si potrà
costruire sopra e darle altre utili lezioni, senza questo continuo cambiare le
carte in tavola che sarà forse motivo d’allegria per lei ma è anche, per tutti
gli altri e per la sua stessa crescita, un’inutile distrazione. Il secondo
commento va in senso opposto al primo, indicando che con il suo procedere
caotico e informale la bimba impara un’enorme quantità di cose molto
importanti. Non quante siano state le guerre puniche o chi abbia malgovernato
l’Italia negli ultimi anni; questi contenuti li apprenderà a scuola,
quando ci andrà, o da altre autorevoli e comunque successive fonti
d’informazione. Ora invece impara a vivere nel suo corpo, a distenderlo e
ritrarlo; impara quali resistenze è in grado di superare e a quali altre deve
cedere; impara a valutare le distanze fra le pareti e fra gli oggetti sparsi
per la stanza; impara la struttura complessa di quegli oggetti, rigirandoli fra
le mani e guardandoli e toccandoli da ogni angolo. Vocalizzando reazioni
emotive alle sue vicende, impara a padroneggiare la sua voce, ad articolarla e
modularla: a trasformare suoni rozzi e primitivi in un flusso sonoro di grande
ricchezza e flessibilità, nel quale inscenare il dramma del linguaggio. Non è
un’esagerazione dire che tutto quel che facciamo sul serio lo abbiamo un giorno
imparato giocando, purché non si dia dell’imparare – cioè della conoscenza –
un’interpretazione puramente intellettuale, che lo legga come una relazione fra
un soggetto ed entità astratte quali idee o proposizioni (i «contenuti» cui
accennavo). Certo sarebbe possibile, e per me desiderabile, imparare il teorema
di Pitagora o le valenze chimiche giocando; ma sta di fatto che la maggior
parte di noi li impara in situazioni d’imbarazzante rigidità. Non potrebbe
impararli affatto, però, se non avesse acquisito abilità «elementari» che
tendiamo a prendere per scontate ma che, riflettendoci, ci riempiono di
ammirato stupore: nel caso specifico, l’abilità di comprendere quel che ci
viene detto, di coglierlo come uguale a sé stesso nelle mille differenze di
tono e pronuncia di parlanti diversi, di adattarlo al contesto nel quale è inserito.
Prima dei tre anni un bambino impara tutto ciò senza sforzo – alcuni bambini in
più lingue – mentre i cultori dell’intelligenza artificiale ancora non sono
riusciti a produrre un meccanismo di traduzione automatica decente. E impara a
riconoscere e categorizzare oggetti nello spazio, distinguendoli dallo sfondo;
a interagire ed empatizzare con altri esseri umani; a bilanciarsi sulle gambe e
muoversi disinvoltamente in ogni direzione. Se pensiamo alla fatica con cui, in
età posteriori, quello stesso bambino ormai cresciuto tenterà d’impadronirsi di
una lingua straniera, di una teoria scientifica o di uno strumento musicale,
non possiamo non rimpiangere la facilità con cui l’apprendimento avveniva
nell’infanzia, e il fatto che l’infanzia sia terminata. Ho menzionato
l’apparente contrasto fra il carattere sovversivo del gioco e la sua sconfinata
capacità di insegnare. Sembra esserci un contrasto, qui, perché di solito
concepiamo la conoscenza (oltre che in termini astratti) come rispecchiamento
di una realtà data, da acquisire senza modificarla. Io vengo a sapere che piove
osservando in modo neutrale lo spettacolo che mi si porge attraverso i
vetri della finestra, piegandomi con assoluta deferenza all’indipendente
oggettività della pioggia e facendo del mio meglio perché i miei piani, le mie
esigenze e la mia immaginazione non la turbino. Se avvertissi troppo forte
l’anelito per una bella giornata di sole e una fantasia troppo vivida me ne
rappresentasse una davanti, finirei forse per illudermi (parola importante,
sulla quale ritornerò) che non piova, per rimanere vittima del gioco delle mie
emozioni e delle mie facoltà mentali – e non saprei più che tempo fa. Il che
senz’altro è ragionevole, ma non va frainteso. Non c’è nulla di sbagliato nel
desiderio di una conoscenza che rispecchi la realtà; ma non ne segue che il
metodo migliore per soddisfare tale desiderio sia adagiarsi in una supina e
passiva registrazione di circostanze a noi aliene. La realtà va costantemente
sfidata, messa sotto pressione come farebbe uno scienziato con i suoi
esperimenti di laboratorio: il suo carattere oggettivo non è un dono che ci
viene generosamente elargito ma il residuo di un’attività ininterrotta da parte
nostra. Per essere conosciuta, la realtà va esplorata; e il gioco è il
paradigma di questa esplorazione. La tensione fra trasgressione e apprendimento
può così essere risolta. Senza arrivare agli estremi di Bacone, per il quale
dovremmo costringere la natura con le sevizie a rivelarci i suoi segreti,
l’apprendere è un fare, non un puro constatare, o meglio è un constatare che
risulta da un fare. Se ci fossimo limitati a guardare la luce che emana dal
sole e da altre fonti luminose, la concepiremmo ancora come un fluido che
pervade l’aria. Invece abbiamo proiettato un fascio di luce su uno schermo
attraverso due fessure, osservando fenomeni d’interferenza e concludendo che
eravamo in presenza di onde. Prove successive ci hanno convinto che la luce si
comporta anche come se fosse costituita da particelle, e ragionando su questo
paradosso siamo arrivati alla meccanica quantistica che, sebbene in certa
misura inintelligibile, dà previsioni più accurate di ogni altra teoria nella
storia della fisica. Possiamo dire di aver raggiunto una perfetta conoscenza
della realtà? No di certo; ma non credo ci siano dubbi che abbiamo imparato
sulla luce molto più di quanto ne sapessimo in passato, e che abbiamo fatto
grandi progressi perché non siamo rimasti con le mani in mano, perché in
analogia con i grandi viaggiatori e scopritori di continenti del Rinascimento
ci siamo inoltrati in un terreno ignoto e lo abbiamo percorso in lungo e in
largo come cavalieri erranti, scrutando qua e là e menando fendenti
all’impazzata e a volte commettendo veri e propri errori – scambiando mulini a
vento per giganti. Il primo cavaliere errante è il bambino; il terreno ignoto
che esplora è il suo ambiente; i continenti che scopre sono oggetti di
uso comune, il che potrà sembrare banale solo a chi non consideri quanto
indispensabili, irrinunciabili siano tali scoperte e non ricordi che non c’è
altro modo di scoprire alcunché. Si potrebbero seguire alla lettera delle
istruzioni, ovviamente, e se ne diventerebbe prigionieri. Pensate per esempio
ai diversi atteggiamenti che un ragazzo e un adulto hanno spesso nei confronti
di un nuovo dispositivo elettronico. Il secondo segue istruzioni; il primo
invece schiaccia tutti i tasti e tenta tutte le combinazioni operative; come
risultato, quando il secondo si trova in difficoltà deve chiedere aiuto al
primo. Perché il primo ha errato, in entrambi i sensi della parola, quindi ha
imparato davvero: non solo quel che gli era stato detto ma anche, forse, quel
che nessuno gli avrebbe potuto dire, quel che nessuno sapeva, quel che stava
intorno a quel che ognuno sapeva e che mai si sarebbe visto se non si fosse
andati a zonzo, girovagato, per divertirsi – per deviare cioè dalla strada
battuta. Le parole «divertimento» e affini sono usate sovente come sinonimi di
«piacere» e affini; «mi sono divertito molto» ha nella maggior parte dei casi
lo stesso significato di «è stata un’esperienza molto piacevole». Il legame che
ho appena tracciato fra divertirsi e imparare getta una luce provvidenziale su
questa particolarità semantica: provvidenziale come sa esserlo l’evoluzione. Ha
fatto bene la natura, operando per mutazione e selezione, ad associare un vivo
piacere alla nutrizione e al sesso, come incentivo ad attività essenziali per
la sopravvivenza dell’individuo e della specie, e altrettanto ragionevole si è
mostrata nel farci vivere il divertimento, la divagazione, come fonte di gioia,
se è vero che divagare è il modo migliore di apprendere. L’ampio spettro
d’intercambiabilità fra piacere e divertimento suggerisce addirittura che
esplorare ed errare abbiano un valore adattativo più alto, o almeno più
capillare, di mangiare e accoppiarsi: non esiste occupazione umana che non
provochi «divertimento» per qualcuno, ma non sempre le stesse occupazioni
sarebbero definite dalle stesse persone «erotiche» o «gustose». Ad ogni buon
conto, arriviamo così a identificare un’ulteriore caratteristica della scena
ludica primaria: la bimba prova un indubbio piacere, che sembra durare per
tutto il tempo in cui gioca. Lo tradiscono talvolta i suoi sorrisi e gridolini
di eccitazione, ma in modo più ovvio (perché più continuo) la sua assoluta
concentrazione e apparente instancabilità, le sue proteste quando viene
interrotta, il suo pronto ritornare a quel che tanto la avvince quando le
proteste hanno effetto. Ed è il piacere che prova a motivarla a giocare: non
c’è in questa attività nessun secondo fine; l’attività è fine a sé stessa,
perseguita in completa autonomia (in accordo con una delle possibili
definizioni analitiche di gioco). La bimba non si aspetta nessun risultato, non
intende conseguire nessun obiettivo, o quantomeno nessun risultato o obiettivo
esterni. Nonostante tutto quel che ho detto sulla funzione pedagogica del
gioco, non è per imparare che si gioca: quale che sia il vantaggio adattativo
che il gioco procura, ognuno di noi gioca all’unico scopo di giocare. Nelle
prime pagine del suo I giochi e gli uomini, Roger Caillois lascia
apparentemente la porta aperta a un’interpretazione strumentale delle attività
ludiche, nel senso di un loro contributo all’addestramento fisico:
Contrariamente a quanto si sostiene spesso, il gioco non è un apprendistato del
lavoro. Esso non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto. Il gioco
non prepara a un mestiere preciso, esso allena in generale alla vita aumentando
ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà. È
assurdo, e non serve a niente nella vita reale, lanciare il più lontano
possibile un martello o un disco di metallo, o riprendere e rilanciare
continuamente una palla con una racchetta. Ma è utilissimo avere dei muscoli possenti
e dei riflessi pronti (p. 12; corsivo aggiunto). Alla fine del libro, però, la
chiude con decisione: Il gioco non è esercizio, non è neanche gara o prodezza,
se non in sovrappiù. Le facoltà che esso sviluppa beneficiano certamente di
questo allenamento supplementare, che è per di più libero, intenso, divertente,
creativo e protetto. Ma funzione specifica del gioco non è mai quella di
sviluppare una capacità. Scopo del gioco è il gioco stesso. A testimonianza del
fatto che il gioco non è facile da capire, affiora in queste ultime battute un
nuovo elemento di tensione. È naturale infatti porre in contrasto il gioco fine
a sé stesso con quanto si fa «sul serio»; ma che cosa c’è di più serio, per la
bimba, dell’immersione totale, dell’assorta partecipazione con cui vive le sue
trasgressioni e i suoi esperimenti? È quando le si vorrà imporre un
comportamento giudicato desiderabile dai grandi che si mostrerà svogliata e
distratta come chi non prenda la cosa sul serio; lo farà anche quando le si
vorrà dare da mangiare, una volta soddisfatta la fame più immediata, e si
calmerà e riprenderà il suo sguardo intento e le sue mosse accurate appena i
grandi si saranno allontanati e le sarà possibile giocare con il cibo. In Homo
ludens, Johan Huizinga conferma l’esistenza di un problema quando scrive:
l’opposizione gioco-serietà non pare né conclusiva né stabile. E più avanti
dichiara: «Bambini, calciatori, scacchisti giocano con la massima serietà senza
la minima tendenza a ridere» (p. 24). «L’autentica, spontanea mentalità del
gioco può essere quella della profonda serietà. Il giocatore può arrendersi al
gioco con tutto l’essere. Càpita spesso che termini ritenuti descrittivi di
come va il mondo abbiano un valore assai più decisamente prescrittivo: fungano,
cioè, da ricette implicite su come il mondo dovrebbe andare. Una persona
è spesso detta normale non perché rappresenta una media statistica ma perché
meglio si adatta alle norme di chi così la descrive, e il senso comune è spesso
comune solo a chi lo chiama in causa per dar credito a una propria tesi. Qui
siamo di fronte a una situazione analoga. Le cose che si fanno sul serio sono
quelle cui si dedica pazienza, sforzo, attenzione costante, e per chi sia stato
«appropriatamente» socializzato pazienza, sforzo e attenzione dovrebbero essere
profusi nell’andare al lavoro, nel preparare la cena e nel lavare i piatti. Che
nel fare cose del genere si risulti svogliati e distratti, che non si riesca a
prestar loro la cura che meritano, è giudicato un’anormalità, per quanto sovente
succeda, per quanto oneroso sia adempiere alla norma che viene così
(implicitamente) assunta. La bimba che stiamo osservando ci rivela la vanità di
tali pretese: rivela nel modo più chiaro che per lei il gioco è l’attività più
seria, anzi perché qualcosa sia davvero preso sul serio (non si voglia soltanto
che lo sia) deve entrare a far parte di un gioco. Superata anche questa
difficoltà, sembriamo aver ottenuto un’immagine incondizionatamente positiva
del nostro oggetto di studio. Il gioco sovverte abitudini e aspettative, ma non
solo questa sua natura irrispettosa è compatibile con una sua funzione
educativa: sembra che non ci sia un modo migliore, forse non ci sia un altro
modo, di educare che sfidando lo status quo ed esaminandone minuziosamente tutte
le possibili alternative. Il gioco è piacevole ed è praticato per il piacere
che dà; eppure è l’attività più seria, forse l’unica attività che venga
condotta con autentica serietà. C’è però ancora un aspetto del gioco che
occorre discutere, ed è un aspetto stavolta inquietante. Il gioco è pericoloso;
violando abitudini e aspettative ci si può far male, ed è probabile che i
grandi lo sappiano – che, se la bimba è stata lasciata sola nella stanza a
giocare, gli spigoli più acuti siano stati tolti di mezzo, le prese di corrente
siano state coperte e le finestre siano ben chiuse (già il fatto che avesse a
disposizione una spillatrice avrà sollevato qualche perplessità). Abitudini e
aspettative richiamano alla mente un’atmosfera di inerzia, di tedio, di mediocrità;
e nell’immagine che ne abbiamo dato finora il gioco emerge, per contrasto, come
eroico e innovativo, fantasioso ed eccitante. Ma su abitudini e aspettative si
fondano contesti che ci rassicurano, che ci permettono di guardare al futuro
con fiducia, almeno finché il futuro somiglierà al passato – a quel passato che
ha gradualmente dato luogo al costituirsi di abitudini e aspettative. Chi
gioca, d’altra parte, non mette in crisi solo il suo ambiente e magari le altre
persone che lo popolano: mette in gioco, e in crisi, anche sé stesso, e questo
comportamento avventato implica inequivocabilmente dei rischi. Di gioco
si può morire. «Il gioco può sempre diventare un fatto pauroso», afferma lo
psicoanalista Winnicott in Gioco e realtà. «I giochi regolamentati [in
inglese games, parola che in seguito dovrà essere discussa] e la loro
organizzazione debbono essere considerati come parte di un tentativo inteso a
tenere a bada l’aspetto pauroso del gioco. Incontriamo così un ulteriore
ostacolo sul nostro cammino, un enigma da risolvere prima di poter raggiungere
la prossima tappa. Stabilito che il gioco ha tutte le caratteristiche positive
che ho elencato, urge però un’analisi di costi e benefici se vogliamo
mantenerne una concezione generalmente provvidenziale. Vale la pena di educarsi
attraverso una piacevole attività di trasgressione se tale attività minaccia la
nostra integrità fisica o psicologica? Non sarebbe stato meglio per
l’evoluzione scegliere percorsi meno arditi: associare un vivo piacere, per
esempio, proprio a quell’ascolto e a quell’applicazione degli insegnamenti di
un esperto cui il gioco, irridente, fa gli sberleffi? Sarà anche vero che
giocando impariamo di più; ma non è preferibile talvolta, o sempre, imparare
meno, se l’imparare mette a repentaglio la nostra esistenza e il nostro
benessere – le ragioni, cioè, per le quali vorremmo imparare qualsiasi cosa? In
che senso un’attività che ci fa spesso correre pericoli può essere funzionale
alla nostra sopravvivenza? 3. Caos e ordine Nell’antica mitologia greca
non esiste una creazione dal nulla. Quel che dà origine al mondo così come
abbiamo imparato a conoscerlo e abitarlo è invece una variante globale delle
pulizie primaverili: al caos originario (quindi in particolare privo di inizio)
si sostituisce un cosmo, cioè una struttura ordinata che obbedisce a leggi
definite. Noi da tempo non crediamo più nella storia di Zeus e delle sue lotte
sanguinose con Crono, i Titani e svariate altre forze oscure e ancestrali
(forse non ci credevano davvero neanche i greci); in secoli di sviluppo
scientifico abbiamo elaborato un modello ben più articolato e plausibile
dell’universo e delle sue origini. Solo recentemente, però, tale sviluppo ha
cominciato a incidere in modo critico su quello che era rimasto un elemento
fondamentale di accordo con le favole antiche: risiediamo in un cosmo e di
conseguenza basta (in linea di principio, perché poi la cosa è difficile e
magari impossibile da realizzare) scoprire le leggi che lo regolano per poterne
prevedere con assoluta certezza il comportamento futuro. Se così fosse, non
sarebbe una cattiva idea fidarsi delle istruzioni di chi è più esperto di noi:
le leggi del cosmo dovrebbero essere sempre le stesse e chi le ha viste
all’opera più a lungo di noi dovrebbe essere in grado di darci in proposito
indicazioni preziose. Non sembrerebbe economico o vantaggioso che ciascuno di
noi dovesse invece riscoprire – giocando, esplorando e contestando – quel che è
comunque già noto. Se pure traessimo un grande piacere da queste pratiche, ci
sarebbe da chiedersi – riformulando in altri termini le domande con cui ho
chiuso il capitolo precedente – perché la biologia associ un piacere simile a
un’attività che nella migliore delle ipotesi è inutile e nella peggiore è
controproducente. Certo è possibile che le leggi «scoperte» da chi è vissuto e
ha operato prima di noi siano sbagliate; nella scienza non solo le teorie si
sono spesso reciprocamente confutate e avvicendate ma sembra addirittura
all’opera una perversa induzione in base alla quale ogni teoria un tempo
ritenuta corretta si è poi rivelata fallace – dunque, probabilmente, lo saranno
anche le teorie che oggi riteniamo corrette. Questa allarmante conclusione,
però, varrebbe solo per quel che la scienza offre di più profondo e sofisticato,
non per quella sua solida struttura intermedia che appare costituita di verità
inoppugnabili. Nel saggio Sulla libertà John Stuart Mill, paladino di una
discussione pubblica il più possibile aperta e coraggiosa, considera un
problema il fatto che su un numero crescente di tesi il progresso scientifico
abbia pronunciato una sentenza definitiva (quindi, in particolare,
indiscutibile) e auspica che si ricorra a espedienti fittizi – che so io? a
sostenere accanitamente che la Terra sia piatta – per ridar significato e
vividezza a credenze che altrimenti rischiano di trasformarsi in puri dogmi. In
assenza di dibattito non vengono dimenticati solamente i fondamenti di
un’opinione, ma viene dimenticato sovente il significato dell’opinione stessa.
Le parole che la esprimono cessano di suggerire idee, o suggeriscono solo una
piccola parte di quelle idee che in origine comunicavano. In luogo di un
concetto vivido e di una convinzione viva, rimangono soltanto alcune frasi
ritenute meccanicamente; oppure, se rimane qualcosa, è solo l’involucro o il
guscio del significato, mentre la sua essenza più pura è andata dissolta. Col
progresso dell’umanità, il numero delle dottrine che non vengono più messe in
discussione o in dubbio sarà costantemente in aumento, e il benessere del
genere umano può essere quasi misurato dal numero e dalla rilevanza delle
verità che hanno raggiunto la condizione di verità incontestate. Il venire meno
di un aiuto così importante all’intelligente e viva comprensione di una verità
– com’è quello offerto dalla necessità di spiegarla o di difenderla dagli
avversari – rappresenta un inconveniente non di poco conto. Là dove questo
vantaggio viene a mancare, confesso che sarei contento di vedere i maestri del
genere umano sforzarsi per trovarne un sostituto, un espediente per far sì che
le difficoltà della questione siano presenti alla coscienza di colui che la
affronta, allo stesso modo in cui lo sarebbero se gli venissero imposte da un
avversario agguerrito, impegnato a convertirlo. Con tutto il rispetto per Mill,
però, siamo daccapo: sarà appassionante riscoprire il senso di opinioni
generalmente accettate sottoponendole a critiche fittizie ma, al di là
dell’intensa emozione che provoca, a che cosa serve questo esercizio? Non converrebbe
invece riservare le nostre risorse ludiche per le questioni che si collocano ai
margini della conoscenza, dove non si è ancora raggiunto un pacifico accordo e
quindi le opinioni attuali saranno verosimilmente contestate in futuro? Una
modesta replica alla sfida suggerita da queste domande emergerà nel quinto
capitolo: se non mantenessimo attiva in noi la pratica della contestazione, sia
pure senza vantaggi diretti, non potremmo risvegliarla quando lo giudichiamo
opportuno. Come suggerivo poc’anzi, però, la scienza contemporanea ha fatto di
meglio: ha mostrato che è vantaggioso contestare non solo quel che è in
discussione o in dubbio (esercitandosi magari prima con quel che non lo è) ma
anche tutto ciò che si ritiene ormai acquisito. Un primo passo in tal senso
viene dalla teoria del caos. A dispetto del suo nome, questa teoria non
dichiara che il mondo non sia mai uscito da una condizione di disordine e non
ci siano leggi che ne regolano il funzionamento. Le leggi ci sono, codificate
come sempre nella fisica moderna da equazioni matematiche, ma le equazioni sono
altamente non-lineari. Per esse, cioè, non vale la condizione seguente (tipica
delle equazioni lineari): a variazioni minime nell’input (diciamo, nell’istante
di tempo considerato) corrispondono variazioni minime nell’output (diciamo,
nella posizione spaziale di un certo corpo; quindi in istanti molto vicini fra
loro il corpo sarà in posizioni molto vicine fra loro). In un’equazione
non-lineare, una variazione impercettibile nell’input può causare conseguenze
catastrofiche nell’output, secondo la metafora suggerita dal famoso
effetto-farfalla: il battito d’ali di una farfalla in un punto della Terra può
causare, dopo un certo numero di passi, un uragano di spaventose dimensioni in
un altro punto. Nel linguaggio tecnico della filosofia, la teoria del caos non
cambia la sostanza metafisica dell’universo, e infatti il caos che essa evoca è
descritto come deterministico, fedele alla posizione tradizionale (per quanto
oggi un po’ in crisi) secondo cui il passato determina necessariamente il
futuro. Sconvolge però l’epistemologia del nostro rapporto cognitivo con il
mondo. In ogni situazione in cui ci troviamo, sapremo solo in misura
approssimativa come stanno le cose: i nostri strumenti di osservazione e di
controllo hanno una portata limitata e, se per caso non l’avessero, perderemmo
la testa davanti alla quantità infinita di dati (perlopiù irrilevanti) che ci
fornirebbero (un po’ come la perdiamo davanti all’incontrollabile quantità di
dati fornita da Internet). Il che non creerebbe problemi se una conoscenza
approssimativa delle cause ci desse una conoscenza approssimativa degli
effetti: se potessimo stabilire grosso modo che cosa seguirà da che cos’altro.
L’effetto-farfalla ci costringe ad accantonare questa ipotesi favorevole:
informazioni che al momento sono sotto la soglia osservabile dai nostri
strumenti o che, se osservabili, rimarrebbero alla stregua di un fastidioso
rumore di fondo, potrebbero in seguito acquisire un peso decisivo e confutare
drasticamente ogni nostra previsione – trasformarla in qualcosa che non è vero
approssimativamente, o fino a un certo punto, ma non è vero per nulla. In un
caos del genere, il fatto che esistano leggi (cioè equazioni matematiche che ne
descrivano il comportamento) o che le conosciamo ha scarso peso ai fini della
nostra capacità di adattarci al mondo. Le equazioni non-lineari, in generale,
non sono solubili con i metodi dell’analisi matematica; il meglio che si possa
fare, in generale, è simularle a un computer e osservarne il percorso –
senza peraltro mai sfuggire al problema che ho indicato: la nostra simulazione
sarà efficace nella misura in cui avremo dato i valori «giusti» ai parametri
significativi, ma spesso basterà un’alterazione infinitesima in uno di questi
valori per cambiare radicalmente la situazione. Che cosa ci converrà fare
allora? Le equazioni non-lineari attraversano fasi anche estese di linearità;
nel caos esistono nicchie anche cospicue di cosmo. In tali nicchie il futuro
somiglia al passato e, per chi ci vive, le previsioni degli esperti risultano
accurate e le loro istruzioni valide. Sarebbe una pessima idea, però,
estrapolare da un’accuratezza e validità locali una loro variante universale,
perché le cose possono cambiare enormemente e molto in fretta. È preferibile
procurarsi una polizza di assicurazione: rispettare previsioni e istruzioni
finché dànno buona prova di sé, ma continuare anche incessantemente a
sperimentare concezioni alternative del mondo e modalità alternative di azione.
Vale a dire: conviene incoraggiare la trasgressione dell’autorità
(intellettuale e operativa) costituita, l’esplorazione fine a sé stessa e il
rischio che vi si accompagna – perché il gioco, secondo il detto popolare, vale
la candela. E, siccome (già vi accennavo e ci ritornerò) non si può
improvvisare un atteggiamento trasgressivo da un momento all’altro, dopo aver
seguitato per anni a genuflettersi deferenti verso «chi ne sa più di noi»,
conviene (alla natura e anche a noi, in quanto capiamo che in questo caso è
meglio non ostacolarla) lasciare i cuccioli umani liberi di godersi il loro
gioco, precisamente nel senso delineato nel capitolo precedente. Fin qui la
teoria del caos, ma c’è di più. C’è la teoria della complessità, dove (in una
lettura, lo ammetto, un po’ radicale, che peraltro si accorda bene a mio parere
con importanti conclusioni kantiane) la sfida alla visione tradizionale è di
carattere metafisico, dove anzi si mette in discussione il concetto stesso di
metafisica. La conclusione raggiunta dalla teoria del caos è che il mondo sia
troppo complesso perché noi possiamo conoscerlo in modo certo ed esauriente, e
questa tesi (epistemologica) continua a essere vera nel nuovo scenario, ma come
conseguenza di una tesi assai più forte, in base alla quale non esiste «il
mondo», inteso come ente unico e onnicomprensivo, dotato di una sua propria
struttura, indipendente dal fatto che lo si conosca o meno. Esiste invece un
numero indefinito di descrizioni diverse, formulate in vocabolari fra loro
incommensurabili; quindi prima di poter accedere a domande su che cosa ci sia e
che natura abbia occorre scegliere un vocabolario e così determinare un
particolare ambito descrittivo, nel quale sarà possibile fornire una risposta a
quelle domande. Non si può dire come stiano le cose, insomma (ed eventualmente
fino a che punto siamo in grado di conoscerle), finché non si sia deciso
in che linguaggio dirlo. (E parole come «scegliere» e «deciso» vanno prese alla
lettera: la selezione di un linguaggio non è un evento a sua volta determinato;
è invece condizione necessaria perché possa darsi, nel suo ambito, una
qualsiasi determinazione.) Vediamo di capirci con un esempio. Davanti ai nostri
occhi allibiti si svolge una seduta del Senato italiano, con il solito contorno
di urla, parolacce, insulti e spintoni. Questa, verrebbe da dire, è la realtà
oggettiva, e non c’è che da diventarne consapevoli. Si potrà provare a
spiegarla, ma prima di lanciarsi in una siffatta operazione bisogna appurare
che cosa sia effettivamente successo – e debba essere spiegato. E su questo non
ci sono dubbi. Davvero? Certo per me è naturale, essendo io un essere umano,
leggere la situazione in termini di esseri come me e di oggetti di media
grandezza (scranni, sedie, microfoni) come quelli con cui sono abituato ad aver
a che fare. Ma la stessa identica scena potrebbe essere descritta in un
linguaggio, per esempio, di particelle elementari, e in quel linguaggio la
frase «X ha dato una bastonata a Y» (memore in ciò dell’infelice destino di
Tiberio Gracco, in un altro Senato di epoche remote ma di clima analogo) non
avrebbe corso: non potrebbe essere né direttamente formulata né tradotta in
un’altra frase di uso corrente (o insieme di tali frasi). Oppure, invece di
spostarci dalla media grandezza a uno sguardo microscopico, potremmo andare in
direzione inversa ed esprimere in un linguaggio ideale e astratto la nostra
accorata testimonianza di quanto sia caduta in basso la civiltà occidentale e
di come atti di ingiustizia, violenza e volgarità siano conseguenze inevitabili
di una perdita dei valori di riferimento, e in questo linguaggio non ci
sarebbero bastoni e nemmeno particolari individui ma solo, appunto, valori e
princìpi, contraddizioni logiche e (forse) loro risoluzioni dialettiche. Oppure
potremmo muoverci lateralmente, per così dire, e, rimanendo sempre al livello
degli oggetti di media grandezza, vedere la scena con gli occhi non di un
giornalista affascinato dai pettegolezzi della politica ma di un usciere che
appena il baccano sarà finito e gli onorevoli si saranno allontanati dovrà
pulire l’aula. (E si noti come l’ultima possibilità citata permetta di affinare
e approfondire quel che ho detto in precedenza: che io sia un essere umano
potrà influire in parte su come mi viene «naturale» leggere una situazione, ma
molto dipenderà anche, al riguardo, da che tipo di essere umano sono – fra
l’altro, da qual è la mia occupazione.) Secondo la teoria della complessità,
vale per molti dei linguaggi in cui «la stessa» situazione può essere descritta
che nessuno di essi sia riducibile a un altro: ciascuno rappresenta un punto di
vista autosufficiente che costituisce la sua realtà, e non c’è una realtà
neutrale e autonoma, «sottostante» a queste diverse costituzioni. Un
particolare linguaggio potrà essere o non essere deterministico, nel suo ambito
descrittivo il futuro potrà somigliare o non somigliare al passato; ma anche
chi avesse un controllo assoluto di un linguaggio deterministico e potesse
formulare in esso previsioni del tutto certe rimarrebbe in presenza di un’infinita,
irrimediabile apertura a linguaggi diversi e dovrebbe operare una scelta fra
tali linguaggi, sia pure implicitamente o inconsciamente, prima di poter
emettere qualsiasi frase dotata di senso. Una delle difficoltà più ardue con
cui si è costantemente confrontata l’intelligenza artificiale è il cosiddetto
frame problem: il problema della cornice. Un computer è uno strumento di
prodigiosa efficienza una volta che gli sia stato assegnato un compito preciso:
sa ricordare, calcolare e combinare dati a velocità e con rigore sovrumani.
Perché ciò accada, però, deve prima ricevere questi dati; qualcuno glieli deve
dare. Qualcuno, cioè, deve configurare per lui il compito da eseguire e
assegnarglielo: incorniciare un quadro ben definito della situazione e
chiedergli un intervento specifico entro quella cornice, alle condizioni che
essa pone. Sono esseri umani quelli che provvedono alle cornici dei computer, e
gli esseri umani non hanno bisogno che altri lo facciano per loro: ovunque si
trovino, sono in grado di decidere da soli quale sia il compito prima di
tentare di eseguirlo – e magari poi lo eseguiranno con prontezza inferiore a un
computer, ma è proprio per questo che sono stati gli esseri umani a inventare
dei computer che li assistessero e non viceversa. Che cosa fa la differenza fra
gli uni e gli altri? Una volta inquadrato, un problema sarà risolto applicando
istruzioni valide in quel quadro; ma non possono esserci istruzioni su quali
siano le istruzioni da applicare prima che il problema sia inquadrato, perché ciò
presupporrebbe che l’inquadramento fosse già avvenuto; quindi un approccio che
si serva solo di istruzioni (come è stato finora quello disponibile a un
computer) non può avere successo. Posto di fronte a un quesito analogo, Kant
invocava il giudizio, che, in contrasto con le istruzioni, non può essere
imparato a memoria e poi eseguito meccanicamente ma solo essere stimolato e
perfezionato mediante l’esercizio e l’esempio. Il quesito però rimane:
esercizio di quale pratica? esempio di quale comportamento? La mia
riformulazione del quesito ci riporta al tema principale della nostra
discussione. Quel che un essere umano impara (e a tutt’oggi un computer non ha
imparato) a fare è selezionare un punto di vista appropriato dal quale vedere
le sue circostanze, e nessuna selezione può avvenire nel vuoto. L’esercizio
che è opportuno per acquisire questa capacità deve dunque consistere nel
mettere in gioco i punti di vista più svariati e adattarli alle circostanze,
finché uno fra essi ci sembri (a torto o a ragione) il più appropriato e
facendolo nostro (almeno temporaneamente) noi procediamo a interagire con le
circostanze in quell’ottica, applicando le istruzioni, o regole, che l’ottica
determina (con modalità che studieremo nel prossimo capitolo). L’esempio che può
aiutarci in proposito avrà a che fare con altre persone che fanno la stessa
cosa. E la «cosa» di cui stiamo parlando ha un nome, che non a caso ho già
usato: gioco. Senza la continua, piacevole trasgressione di abitudini e
aspettative che abbiamo identificato con il gioco, rimarremmo bloccati in
un’unica prospettiva e forse qualcuno (dall’esterno) dovrebbe premere un nostro
tasto per farci scattare in una prospettiva diversa. Violando l’uso appropriato
di tutto ciò che ha intorno, il bambino sta addestrandosi a sviluppare un suo
senso di appropriatezza che gli permetta di inquadrare un compito senza che
altri lo facciano per lui. E, se volessimo davvero che un computer acquistasse
la stessa capacità, dovremmo avere il coraggio di lasciar giocare anche lui – come
suggerivo anni fa, un po’ preoccupato delle conseguenze del mio stesso
suggerimento, in Giocare per forza. Riassumendo, l’itinerario che stiamo
percorrendo nel continente gioco ci aveva posto davanti a un ostacolo: sembrava
irragionevole che i nostri istinti privilegiassero un’attività che avrà sì
valore educativo ma comporta gravi rischi. L’ostacolo è stato affrontato e
superato, chiarendo che non ci sono alternative plausibili al correre rischi di
questo tipo. Indipendentemente dal fatto che ogni ricetta di vita elaborata in
passato potrebbe rivelarsi sbagliata, è comunque vero che le ricette che
fossero al momento «giuste» sono state elaborate sulla base delle regolarità
riscontrate finora e saranno prima o poi contraddette dalla natura caotica del
mondo; quindi è bene adottare un atteggiamento sperimentale ed esplorativo che
allarghi l’ambito delle nostre possibilità di concezione e di azione ben al di
là di quanto è utile adesso – perché non possiamo sapere che cosa sarà utile in
futuro, quando la nostra nicchia diventerà inospitale. Inoltre, questo stesso
sperimentare ed esplorare è indispensabile se vogliamo essere più che semplici
esecutori di compiti: se vogliamo determinare quali siano i compiti da
eseguire. C’è qualcosa di eccessivo nel gioco; esso sembra richiedere qualcosa
(o molto) di più del necessario (ricordiamo la segnalazione da parte di
Caillois del suo «sovrappiù»). Stiamo cominciando a capire, però, che per
ottenere il necessario si deve spesso scommettere sull’eccessivo, su ciò che al
momento non conta, che al momento è solo possibile. 4. Regole
Avendo così tutelato la natura provvidenziale della sua attività, torniamo alla
bimba che gioca e portiamone alla luce un aspetto che era rimasto in ombra. Per
quanto trasgressivo ed esplorativo, impertinente e creativo, il gioco ha dei
limiti. La bimba può percorrere la stanza in lungo e in largo, ma si scontrerà
infine con le pareti; può rigirare per ogni verso gli oggetti disponibili e
combinarli nei modi più inaspettati, ma dovrà piegarsi al fatto che questi
oggetti hanno una certa forma, sono composti di un certo materiale, hanno un
certo peso e certe dimensioni, una superficie ruvida o levigata, sono rossi
piuttosto che neri, sonori piuttosto che ottusi, luccicanti piuttosto che
opachi. E lo stesso varrebbe per qualsiasi altra situazione e in qualsiasi
altro ambiente: ci sarebbero sempre dei parametri che determinano
l’impossibilità di certe mosse e l’irraggiungibilità di certi obiettivi. Quando
gioca, la bimba può fare molto, e molto di sorprendente, ma non può fare tutto.
Per dirla altrimenti, la mia descrizione del gioco ne ha sottolineato la
tendenza a ribellarsi a ogni fonte di autorità, sia essa la tradizione, il
buonsenso, gli espliciti comandi o divieti di un «superiore» o la soggezione
che proviamo nei confronti di quanto è utile o opportuno – e ci costringe a
comportarci in un modo specifico per conseguirlo. In contrasto con ogni
attività asservita e deferente (a una persona, a un compito, a un ruolo, a uno
scopo esterno), il gioco si presenta come spontaneo: pronto a seguire
idiosincrasie e ghiribizzi, a cambiare direzione, a ricominciare da capo senza
sentirsi vincolati a quel che si è già realizzato o raggiunto, per nessun altro
motivo che il puro piacere di giocare. Ha insomma tratti che normalmente
associamo alla libertà, e Huizinga è d’accordo: «Ogni gioco è anzitutto e
soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco» (p. 26). Da qui
a trovare nella libertà, quindi nel gioco, l’essenza della nostra umanità e a lanciarsi
in un peana celebrativo di una specie biologica che sacrifica il proprio
tornaconto alla pratica del superfluo, del gratuito, dell’errabondo il passo
sarebbe breve; ma non cederò (per ora) a questa tentazione. Mi chiederò invece
che cosa si debba intendere per libertà e risponderò che di solito non
s’intende un’infinita capacità di arrivare dappertutto e ottenere qualsiasi
risultato bensì la capacità di operare una scelta entro un ambito più o meno
ristretto di opzioni. La libertà che noi conosciamo non è una condizione
assoluta, sciolta cioè da ogni legame, da ogni relazione; è sempre e solo un
determinato grado di libertà, come quello che mi è consentito dai miei arti,
che certo mi dànno una notevole libertà di movimento ma non mi rendono possibile
ogni movimento. Nel primo capitolo ho mostrato quanto ambigua appaia la parola
«gioco» e mi sono proposto di riscattare questa (apparente) ambiguità: di
raccontare una storia in cui i suoi vari significati siano connessi, nascano
l’uno dall’altro per motivi comprensibili. In lingue diverse dall’italiano
l’ambiguità sembra ancora maggiore: parole come «play», «spielen» e «jouer»
possono anche significare che si recita o si suona uno strumento – e anche
questi significati dovranno essere catturati dalla mia storia. Qui però voglio
notare un’altra vicissitudine semantica del gioco (Huizinga ci informa che essa
«è comune al francese, all’italiano, allo spagnolo, all’inglese, al tedesco,
all’olandese e al giapponese», illustrativa della tesi che sto articolando
adesso. Chiamiamo «gioco», infatti (o «play», o «Spielraum», o «jeu»), lo
spazio libero che (per esempio) una vite ha nel suo foro filettato, quando non
aderisce a perfezione, quando «balla». È anche in questo senso che la bimba
gioca: le pareti, il pavimento e i vari oggetti che vi giacciono sopra le
permettono un certo gioco, un certo (limitato) spazio di discrezione, che lei
occupa ballandovi, riempiendolo con le sue piroette e i suoi salti. Ed è questo
il ruolo principale, ritengo, che il gioco ha nella nostra vita, il fondamento
ultimo di ogni suo contributo alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere.
Quella che ho appena enunciato è una tesi controversa e audace, una sfida
a inoltrarsi per un ispido percorso nel labirinto e una promessa che per tale
via procederemo più spediti verso il traguardo. Devo dunque giustificare la
tesi, convincere i miei compagni di avventura ad accettare la sfida. Per farlo,
torniamo al valore adattativo del gioco. In primo luogo, ho detto, esso funge
da polizza di assicurazione: esplora comportamenti alternativi cui rivolgersi
quando le equazioni non-lineari che controllano il mondo dovessero impazzire;
risponde al caos esterno dando luogo a un microcaos privato, cercando di
anticipare le prossime sorprese che l’ambiente ci offrirà con mosse a loro
volta imprevedibili e destabilizzanti. In secondo luogo, ci educa a slittare
costantemente da una prospettiva all’altra, a non rimanere inchiodati a un
singolo modo di percepire la nostra situazione, a «incorniciarla» dagli angoli
più diversi, perché questo slittamento diventi a sua volta un’abitudine e ci
aiuti a scegliere in ogni occasione la cornice adeguata in cui inquadrare i
nostri problemi e le nostre esigenze. Entrambe le funzioni implicano una
medesima conseguenza: il gioco deve avere un oggetto, ci deve essere qualcosa
con cui si gioca, quindi qualcosa che inevitabilmente offre resistenza al
gioco. I comportamenti alternativi cui mi rivolgerò quando quelli attuali
facessero cilecca devono trovar posto in un qualche ambiente specifico: per
folle che sia diventato il mondo, devo comunque sperare che ci sia ancora
intorno a me un mondo oppure non varrebbe la pena di indulgere in nessun
comportamento. Lo stesso vale per le mutazioni prospettiche: una prospettiva è
sempre di, o su, qualcosa; una cornice racchiude sempre un quadro. Il gioco
dunque potrà (e dovrà) essere sovversivo ma non uniformemente distruttivo; la
libertà che in esso si esprime ci porterà a varcare la soglia di quanto finora
era stato considerato lecito o vantaggioso ma non ad annullare la legittimità
di ogni soglia e di ogni limite e ad azzerare ogni possibile struttura in
un’esplosione universale e universalmente catartica. Al di là della soglia che
varchiamo ne troveremo un’altra, che definirà la nostra azione ludica; fatta a
pezzi una struttura ne appronteremo un’altra, che darà alla nostra azione
concretezza e sostanza. La sostanza e la concretezza di un sogno, forse; ma non
del nulla. A rendere difficile lo studio e la valutazione della nostra forma di
vita è soprattutto il suo mantenersi in precario equilibrio tra fattori e
istanze contrastanti, il cui peso opposto va tenuto in debito conto, evitando
facili ma deleterie riduzioni a uno dei piatti della bilancia. Questa
considerazione cade a proposito con il termine che stiamo esaminando, nella
fase in cui siamo dell’esame: che il gioco trasgredisca le aspettative è vero
ma non va portato all’estremo, dando luogo a una retorica della trasgressione
in quanto tale, aprendo la strada a una trasgressione così generalizzata e
globale che alla fine non le rimanga più niente da trasgredire. Sapete bene di
che cosa sto parlando: di quegli intellettuali (o artisti, o politici
rivoluzionari) che il film C’eravamo tanto amati rappresentava con sapiente
ironia nel personaggio interpretato da Stefano Satta Flores, sempre «oltre»,
sempre terrorizzato dall’eventualità di poter andare d’accordo con qualcuno e
infine schiacciato nella più banale e televisiva delle ossessioni. Non è strano
che questa retorica copra spesso atteggiamenti conservatori, quando non
biecamente reazionari: se la nostra trasgressione equivale semplicemente a far
saltare in aria tutte le polveriere, allora nel vuoto che avremo creato
(e sotto la protezione del fumo con cui avremo oscurato la vista) si rifaranno
avanti per inerzia le solite mosse e i soliti valori. Negarli è un momento
essenziale della costruzione di un’alternativa, ma non può essere l’unico
momento perché una negazione, in sé e per sé, non costruisce nulla; e se
nessuna nuova costruzione è disponibile ci adatteremo, magari a malincuore (e
con la coscienza un po’ sporca), nelle baracche cui siamo abituati, per quanto
danneggiate siano dalla nostra azione trasgressiva. L’umile gioco della vite ci
offre un antidoto a tanto mal riposto entusiasmo. Ci invita a non trasformare
il gioco in una condotta esorbitante, cioè ex orbe, fuori dall’orbe terracqueo;
ci ricorda che il gioco avviene sempre in un contesto, ha sempre un orizzonte
(vale per l’orizzonte, come per la soglia, che varcatone uno se ne troverà un
altro) e consiste nel modulare le nostre reazioni al contesto, nel navigarne
con perizia le correnti, nel manipolare con gesti insospettati e inauditi
quanto popola il contesto senza però rifiutarlo in blocco, senza chiudere gli
occhi davanti alla sua specifica consistenza, alle sue particolari proprietà,
che possono essere manipolate in certi modi ma non in altri. È gioco (come
quello della vite) approfittare del grado di libertà che mi è lasciato dai miei
impegni di lavoro per imparare il russo o andare in palestra; non sarebbe gioco
bruciare la casa e tutti i miei averi e allontanarmi senza meta nella notte. Ci
sono circostanze in cui può essere giusta una scelta così radicale, ma solo
come premessa per un gioco ancora da inventare, in un ambiente ancora da
scoprire, non come essenza di un gioco già in atto. Chi risulterà convinto da
queste mie argomentazioni sarà ora disposto a seguirmi per la via che ho
intrapreso e avrà nel contempo imparato, vedendola all’opera in un caso paradigmatico,
un’importante lezione: quanta pazienza occorra per evitare prevaricazioni e
assurde semplificazioni, quanta saggezza sia necessario conservare nel mezzo
delle pratiche più dissacratorie. Incontreremo altri esempi con la stessa
morale; per ora riaffermiamo la conclusione raggiunta con una variazione sulla
metafora dell’orizzonte. Il gioco è sempre parzialmente trasgressivo; ci sono
sempre per esso una figura che il gioco mette in discussione e uno sfondo che
rimane fuori portata. E si badi che questa è una metafora, quindi lo sfondo può
benissimo far parte della figura quando «figura» sia presa in senso letterale
(e viceversa). Per la bimba che gioca (in un certo modo) con la spillatrice, il
normale uso di tale strumento fa parte della figura che viene contestata, ma la
sua forma e solidità fanno parte dello sfondo – oppure, tornando alla metafora
precedente, fanno parte del foro filettato nel quale balla la vite. A
riprova della pazienza che ho definito indispensabile, quest’ultimo sommario
del risultato acquisito ha già bisogno di una correzione, o almeno di una
precisazione contro possibili malintesi. Potrebbe sembrare infatti che la forma
e la solidità della spillatrice, o di qualunque altro elemento appartenga allo
sfondo, vi appartengano in senso oggettivo, siano presupposti del gioco della
bimba indipendentemente da come lei agisca; e questa apparenza è errata. Ma,
come con molti errori, discuterlo ci aiuterà a capire meglio l’intera faccenda.
I bambini non sono soltanto simpatici e allegri scavezzacollo, non passano
tutto il loro tempo giocando con fantasia e con profitto. Talvolta fanno i
capricci, urlano e strepitano, si divincolano e picchiano i pugni per terra, o
su quello che fino a un istante prima era l’oggetto del loro gioco. Quando si
abbandonano a simili sfoghi, spesso il motivo è che l’oggetto si rivela un
ostacolo ai loro piani, sordo alle loro richieste, impermeabile alle loro
sollecitazioni. Il cubo non vuole saperne di rotolare come una palla; la palla
continua a scivolare giù dal cubo sul quale si vuole che stia ferma, e neanche
il cubo riesce a stare sopra la palla. Allora il bambino, frustrato e irritato,
afferrerà cubo e palla e li getterà contro il muro, e manifesterà una
disperazione tanto insanabile quanto, per fortuna, solitamente di breve durata.
Non sta a me dire quanto durano in media i capricci di un bambino o come
risolverli il più in fretta possibile; non sono uno psicologo, dell’età dello
sviluppo o di altra età. So però come descrivere e spiegare quel che accade,
nella migliore delle ipotesi, quando i capricci si siano risolti; so fornire
un’impalcatura concettuale per comprenderlo e servirmene per articolare
ulteriormente l’impalcatura concettuale del gioco. Il bambino può perdere
interesse per un oggetto così recalcitrante, così poco collaborativo, e
rivolgere la sua attenzione altrove. Può farsi distrarre e consolare dalla
mamma. Ma può anche – e questa è per noi la migliore delle ipotesi, quella che
ci aiuta a proseguire nel nostro cammino – accettare quanto nell’oggetto si è
mostrato recalcitrante: accettare che l’oggetto non possa essere contestato in
quel modo, a quel livello. Un cubo può passare per mille peripezie, entrare in
mille storie, ma non rotola; ed è necessario prenderne atto se si vuole davvero
farci qualcosa – qualcosa di diverso dal gettarlo contro il muro. Quando il
bambino ne ha preso atto, questa proprietà del cubo recede sullo sfondo, ma ciò
non vuol dire che perda importanza. Tutt’altro: ognuna delle figure che il
gioco costruisce e sostituisce a quella originaria, a quella che viene violata
e trasgredita, è un elemento variabile del gioco, può esserci o non esserci,
comparire o sparire, senza che il gioco cambi, perché esso consiste
proprio nel generare figure così variabili. Lo sfondo, al contrario, definisce
il gioco: ne detta le condizioni. Accompagneremo il cubo per mille peripezie
compatibili con il fatto che non rotola. Chi pensasse che il cubo rotoli
starebbe giocando (senza troppo successo, presumo) un altro gioco. Appropriata
soggettivamente dal bambino, la resistenza esercitata da un oggetto diventa
interna al gioco: ne diventa una regola. «L’attributo essenziale nel gioco»,
dichiara Lev Vygotskij in Il processo cognitivo, «è una regola che è diventata
un desiderio» (p. 146), e continua: è una regola interna, una regola di
autorepressione e autodeterminazione, come dice Piaget, e non una regola a cui
il bambino obbedisce come a una legge fisica. In breve, il gioco dà al bambino
una nuova forma di desideri. Gli insegna a desiderare mettendo in relazione i
suoi desideri con un «Io» fittizio, con il suo ruolo nel gioco e con le regole
di questo. Inoltre per Vygotskij, a differenza che per Piaget, «si potrebbe
proporre che non esiste gioco senza regole, e Huizinga è d’accordo: «L’essenza
del gioco sta nel rispetto alle regole» (p. 86). Da un po’ di tempo nel nostro
paese si parla una strana lingua, soprattutto in ambienti giovanili, aziendali
e in generale «al passo» con la cultura popolare più avanzata. A un italiano
rozzo e approssimativo si mescolano termini inglesi, insieme con strafalcioni
che vorrebbero essere termini inglesi ma invece non hanno corso (o senso) in
nessuna lingua. Chi parli questo gergo (o se preferite lingo) non sarà rimasto
particolarmente colpito dal mio giustapporre, nel primo capitolo, il gioco
della bimba e il gioco del calcio; si tratta chiaramente, avrà pensato, della
differenza tra play e game, quindi non c’è motivo di perplessità. Sarebbe
facile obiettare che le due parole, in inglese, sono assai più intimamente legate
di quanto questa semplice distinzione faccia supporre: che si dice «to play a
game», i partecipanti a un game si dicono players e l’italiano «giocoso» si può
tradurre altrettanto bene con «playful» e «gamesome». Io qui intendo, però,
fare un altro discorso, che riprende la chiusa di quello stesso primo capitolo:
rilevare l’importanza della strategia intellettuale sottesa alla distinzione e
chiarire che, per motivi altrettanto importanti, me ne dissocio. Ho detto che
la logica aristotelica è analitica perché fondata sull’analisi, sulla
divisione; e ho aggiunto che adotterò invece una logica dialettica, hegeliana.
Aggiungo ora che le due logiche nascono da due diversi atteggiamenti nei
confronti della contraddizione, dell’incoerenza. Nella logica analitica, la
contraddizione è il più terribile spauracchio e, ogniqualvolta se ne profili la
minaccia, il rimedio universale è appunto il divide et impera: il significato
che sembrava contraddittorio consta in realtà di due (o più) significati
distinti, che sarebbe meglio, per evitare confusioni, etichettare con due
distinte parole – se è il caso, con termini tecnici introdotti all’uopo. Non
c’è vera contraddizione, per esempio, fra l’educazione intesa come formazione
di una personalità e come passaggio di contenuti nozionistici (che non forma
nessuno): è che la stessa parola è usata in sensi diversi, quindi sarebbe
meglio usare parole diverse, diciamo «educazione» e «istruzione». La logica
dialettica, invece, si nutre di contraddizioni come se ne nutre una storia e, in
generale, ogni struttura vitale: è affrontando e superando il contrasto
radicale fra il suo desiderio d’indipendenza emotiva da un lato e quello di
stabilire un legame affettivo dall’altro che un adolescente arriva a
ridefinirsi non più come membro della sua famiglia di origine ma come partecipe
della fondazione di una nuova famiglia; e in questa ridefinizione i due
elementi del contrasto che lo lacerava non sono dimenticati – sono anzi la
sostanza stessa della nuova fase del suo sviluppo, che è ora quella di una
persona tanto indipendente quanto emotivamente legata. È bene per me reiterare
qui la mia scelta logica di fondo e specificarla meglio perché siamo arrivati a
un punto nodale del nostro percorso, in cui si apre chiaramente un bivio fra le
due strategie. Tutto quel che ho detto finora del gioco della bimba, del suo
significato adattativo, dei rischi che comporta e dell’opportunità di correre
tali rischi può essere considerato appartenente a un singolo significato
(analiticamente inteso) della parola «gioco». Un significato complesso e
intricato, da svolgere con cura, ma ciò nonostante un unico significato perché
non infetto da alcuna contraddizione. Ora però ci troviamo di fronte al fatto,
apparentemente innegabile, che il gioco del calcio è identificato da un insieme
di regole e il gioco della bimba no; quindi, da un punto di vista analitico,
deve trattarsi di «giochi» distinti. In questo spirito Caillois, per fare solo
un esempio (ne farò un altro più avanti), divide i giochi in categorie contrapposte,
affermando: «I giochi non sono regolati e fittizi. Sono piuttosto o regolati o
fittizi. E poi precisa: «la classificazione proposta che distingue giochi di
competizione, di fortuna, di travestimento e di vertigine non avrebbe alcuna
validità se non si vedesse con evidenza che le suddivisioni che essa stabilisce
corrispondono a degli impulsi essenziali e irriducibili. Il lavoro svolto in
questo capitolo mi consente, nello spirito della logica dialettica, di gestire
la contraddizione in altro modo, perché mi consente di riconcettualizzare
alcuni aspetti della situazione della bimba come regole del suo gioco e di
stabilire così la parentela fra i due tipi di gioco, che in questa luce
sarebbero meglio detti due fasi del gioco – di un gioco che, nella sua
evoluzione da una fase all’altra, rimane sempre uguale a sé stesso.
Ridefinizioni come quella che incontriamo qui sono possibili solo a uno sguardo
retrospettivo. Se le nostre osservazioni e i nostri dati fossero limitati al
gioco della bimba, sarebbe peregrino parlare del fatto che la bimba rinuncia a
far rotolare il cubo come della sua assunzione di una regola. Per dirne una,
questa è una «regola» che nessuno ha formulato e di cui addirittura forse
nessuno è cosciente. Ma dal successivo punto di vista di giochi come il calcio,
le cui regole sono sancite da istituzioni ufficiali e applicate (si spera) alla
lettera da tutti i praticanti, è possibile cogliere l’analogia con quella
primitiva forma di adeguamento: vederla come il germe che sarebbe poi fiorito
in regole precisamente codificate e trasmesse, come una manifestazione ancora
implicita di una caratteristica che si sarebbe successivamente fatta largo con
evidenza. Tale è appunto la logica della vita. Il senso dell’essere un bambino
subito quietato da una ninna nanna, o affascinato da oggetti di forma semplice
e pura, si coglierà solo quando l’adulto che quel bambino sarà diventato si
rivelerà un critico musicale o un geometra di prima grandezza; solo allora sarà
possibile raccontare la storia che è quel senso. Così, almeno, si procede nella
logica dialettica che ho adottato; in logica analitica, si potrebbero solo
smembrare le situazioni ed esperienze infantili e definirle in base ad alcuni
tratti (essenziali) che risultassero dallo smembramento, e andrebbero
nettamente distinti dai tratti che definirebbero le situazioni ed esperienze
dell’adulto. Nel caso specifico del gioco, come già accennavo, Piaget nega che
quelle del bambino molto piccolo siano regole, e dichiara (aprendo un tema sul
quale dovrò ritornare): prima del gioco in comune non potrebbero esistere delle
regole vere e proprie: esistono già delle regolarità e degli schemi
ritualizzati, ma simili rituali, essendo l’opera di un individuo solo, non
possono comportare quella sottomissione a qualcosa di superiore all’io,
sottomissione che caratterizza l’apparire di ogni vera regola -- Il giudizio
morale nel bambino.. Vygotskij, invece, scopre le sue carte hegeliane (e quelle
della sua fonte) quando, nella stessa pagina in cui esprime il suo disaccordo con
Piaget, cita il detto di Marx secondo cui «l’anatomia dell’uomo è la chiave
dell’anatomia della scimmia. Decenni più tardi, e senza citare nessuno, Steve
Jobs avrebbe affermato che si può ricostruire il senso della propria vita – in
inglese, connect its dots – solo per il passato, non per il futuro. Ecco allora
come la ridefinizione del gioco della bimba si estende alle prossime fasi del
nostro itinerario: Se è vero che il gioco è trasgressivo, è anche vero però che
la sua trasgressione ha luogo in un ambito che non viene a sua volta
trasgredito. Questo ambito dà al gioco condizioni, cioè regole, precise e ne
definisce l’identità – determina che gioco sia: il gioco condotto a quelle
regole. Nell’ambito delle sue regole, un gioco rimarrà tale in quanto è
trasgressivo e anche esplorativo, piacevole e rischioso; ma, più complesse e
articolate sono le sue regole, più complesse e articolate dovranno essere la
sua trasgressione, esplorazione eccetera. Un buon giocatore di scacchi
conoscerà bene le regole e avrà studiato molte partite dei grandi maestri del
passato, ma sarà un buon giocatore non perché ricorda e saprebbe ripetere
fedelmente le une e le altre quanto piuttosto perché, sapendo tutto quel che
sa, è in grado di sorprendere il suo avversario con una variante inedita o un
misterioso sacrificio – anzi, tanto più sarà bravo quanto più saprà sorprendere
un avversario che abbia conoscenze pari alle sue, magari usando le conoscenze
stesse per elaborare tattiche ancora più originali e sorprese ancora più intense.
Nelle parole di Caillois: «Il gioco consiste nella necessità di trovare,
d’inventare immediatamente una risposta che è libera nei limiti delle regole.
Tutto bene, sembra. O forse no. L’unificazione dialettica che abbiamo così
realizzato fra giocare con palle e cubi e giocare a calcio o a scacchi reagisce
ora in modo inquietante con la giustificazione provvidenziale che avevo dato
del gioco. È straordinariamente utile, dicevo, per un cucciolo umano imparare
giocando a controllare il suo corpo e i suoi movimenti, a riconoscere e
manipolare oggetti nello spazio, a dialogare ed empatizzare con i suoi simili.
Quando però questi straordinari progressi siano già stati effettuati, qual è il
senso e il valore del correre dietro un pallone o dello scervellarsi su
un’apertura di cavallo? Se il mondo è caotico, sarà una buona idea esercitarsi
ad abitare scenari diversi da quello attuale; ma che idea è concentrarsi su
attività come quelle appena citate? Ci aspettiamo che il mondo diventi un
giorno un gigantesco stadio o una gigantesca scacchiera? O abbiamo invece a che
fare, in questi casi, con delle forme di tic, di dipendenza: con circostanze in
cui quel che una volta dava piacere per ottimi motivi adesso continua a dare
piacere senza nessun motivo, e noi non sappiamo farne a meno? Microcosmi
Che un’attività o un’inclinazione originariamente proficue si cristallizzino in
un vano manierismo, in un’assurda coazione a ripetere è certo possibile, e nel
caso del gioco accade di frequente. In Giocare per forza, dicevo, ho esaminato
varie patologie ludiche, varie sembianze posticce in cui si presenta qualcosa
che non è più se non lo spettro del gioco, un parassita che ne ha invaso l’area
vitale soffocandone l’energia, la scoperta e il piacere; le patologie non
insorgerebbero se non si desse la perversa possibilità che ho appena
riconosciuto – se il gioco non potesse andare alla deriva, non ci andrebbe così
spesso. Per quanto ampiamente diffuso, però, questo esito negativo non ha
portata universale per il gioco condotto, soprattutto dagli adulti, in ambienti
fittizi e addomesticati come un campo di calcio o una scacchiera. Al contrario,
rimane vero in tali casi che l’esito negativo è una perversione e che esistono
modi legittimi di abitare quegli ambienti fittizi e ottime ragioni per cui
debbano essere fittizi. O forse «fittizi» non è il termine giusto; più oltre
dovremo riprendere in esame la questione, con risultati su cui al momento
converrà soprassedere. Cominciando con la ragione più semplice, chi non gioca
mai finirà per atrofizzare completamente la sua capacità ludica così come chi
non si muove mai finisce per atrofizzare i suoi muscoli; una certa quantità di
gioia trasgressiva, di istruttiva esplorazione deve trovar posto nella nostra
esistenza se non vogliamo trasformarci in automi, morti prima del tempo pur
continuando a respirare e a metabolizzare il cibo. Se occupazioni e pratiche
quotidiane non ci lasciano molto tempo per il gioco, non avremo alternativa a
trovarlo in spazi riservati, in microcosmi di libertà entro i quali sfuggire a
obblighi e impegni. (E sarà un destino tanto più atroce e beffardo vedere
questi presunti spazi serrarci in nuove forme di schiavitù: vedere la nostra
presunta libertà arenarsi nel tetro cerimoniale di una slot machine o del
«gioco» del lotto.) L’agilità non si conquista una volta per tutte ma va
mantenuta con uno sforzo costante: in ambito fisico, con le corse e le
flessioni mattutine; in ambito mentale, con il sudoku e le parole crociate; in
ambito ludico, improvvisando una discesa da centrocampo o un arrocco – se
non si dànno altre circostanze in cui ci sia lecito improvvisare. Per
addentrarci più a fondo e nelle pieghe più complesse del problema, riprendiamo
in considerazione il carattere rischioso del gioco. È necessario tollerarlo,
dicevo nel terzo capitolo, perché senza correre rischi non potremmo sostenere
il delicato equilibrio, sempre temporaneo e sempre da rinegoziare e
reinventare, richiesto da un mondo caotico e costituzionalmente imprevedibile.
Elaborare nuove strategie e comportamenti inusuali è a sua volta una strategia
preziosa se nessuna strategia sarà efficace per sempre, e il gioco assolve
questa indispensabile funzione. C’è però una strada intermedia fra l’arrivare
impreparati alla prossima catastrofe (ecologica, finanziaria, sociale) e
l’affrontare ogni catastrofe possibile prima che diventi reale: affrontare
piccole catastrofi sostitutive e rappresentative di quelle che potrebbero
capitare, giocare non direttamente nel mondo, e con il mondo, ma ancora una
volta in un microcosmo, una palestra che ci permetta di compiere qualche
avventata manovra senza correre gravi pericoli. Non proprio le avventate
manovre di cui avremmo bisogno quando si prospettasse un’autentica catastrofe,
forse; ma manovre abbastanza simili a quelle da darci una speranza di salvezza.
In altra sede ho articolato questa tesi commentando un passo del Principe di
Machiavelli; qui riassumerò in breve l’aspetto che ci riguarda. Il principe,
dice il Nostro, deve ininterrottamente addestrarsi alla guerra; ma come può
farlo quando la guerra non c’è e manca l’opportunità di farne pratica?
Risposta: in periodi di pace l’esercizio bellico del principe dovrà essere
condotto andando a caccia. Si metteranno così in azione doti che in guerra
saranno di grande utilità: la resistenza alla fatica, il compatto e
disciplinato lavoro di gruppo, la disinvoltura nel gestire varie configurazioni
del terreno. E lo si farà in modo tanto più adeguato allo scopo finale quanto
più quello scopo sarà presente al principe e ai suoi compagni: quanto più essi
non si lasceranno assorbire inerti dai meccanismi della caccia ma se ne
serviranno attivamente come di una scusa per giocare alla guerra. Immaginando
nemici appostati su una collina o nascosti nella macchia; ragionando su come
sventarne la minaccia e ridurli in proprio potere. Certo sarebbe più
realistico, quindi più efficace, inscenare una vera guerra, con vero
spargimento di sangue; numerose narrative distopiche molto popolari di questi
tempi raccontano un futuro angoscioso in cui un’umanità perduta si diletta con
simili trastulli. Chi (come me) ritenga inviolabile il rispetto per l’integrità
fisica e psicologica di ogni persona rifuggirà con orrore da
manifestazioni di tale vividezza e preferirà «accontentarsi» della lezione di
Machiavelli. Una lezione che dobbiamo generalizzare e dalla quale dobbiamo
trarre importanti conseguenze. Prepararsi alle sorprese che il futuro ci
riserba esige che abbandoniamo la serena, un po’ soporifera certezza delle
abitudini consolidate e ci mettiamo in gioco. Non necessariamente in modo
estremo, però, se arrivare all’estremo significa far violenza a noi o ad altri.
Possiamo metterci in gioco per procura, compiendo mosse che in parte somigliano
a quelle che dovremmo compiere nei momenti effettivi di crisi, e sperare che
quando tali momenti verranno ciò che abbiamo imparato, per quanto
insoddisfacente rispetto all’originale (quel che in parte somiglia è anche in
parte diverso), ci aiuti a sopravvivere e a prosperare. È questo il ruolo del
calcio e degli scacchi (oltre al loro contributo, già menzionato, nel tenere il
corpo o la mente «in forma»): chi sa sfuggire con destrezza a un marcatore
riuscirà forse a farlo davanti a un attacco ben più insidioso; chi sa
anticipare dieci mosse del suo avversario saprà forse anticipare il percorso di
una meteora o di un tornado. Poco fa ho chiamato questi «giochi per procura»;
voglio ora insistere sul termine perché è indice di un cruciale slittamento
semantico. Ogni sportivo sa quanto valgano gli allenamenti per far bene in gara
o nella partita; e sa che, per quanto preso tremendamente sul serio, un
allenamento non è mai la stessa cosa di una gara o di una partita. Troppi
fattori emotivi entrano in circolo quando si è alle prese con i cento metri di
una finale olimpica o l’ultimo incontro di un torneo: fattori che, per quante
volte si siano ripetute le mosse che si eseguiranno allora, rendono quella
situazione totalmente diversa – diversa proprio perché in essa non si può
ripetere nulla, perché è unica e irripetibile. Propongo di concepire la
grandissima maggioranza di quelli che comunemente denominiamo giochi come
allenamenti in questo senso. In certi casi noi stessi, o qualcosa o qualcuno
che conta molto per noi, siamo letteralmente in gioco; e questo è il gioco che ci
definisce, che ci qualifica come animal ludens, come l’animale che non ha una
nicchia ecologica ma, forzando costantemente i limiti della sua adattabilità e
sopportazione, ha fatto del mondo intero (questo mondo, per ora, e domani,
chissà, anche altri) la sua nicchia. Quelli che denominiamo giochi sono spesso
forme di allenamento al gioco per antonomasia, in cui si corrono i veri rischi
e si ottengono i veri benefici: un gioco che è bene in generale rimandare fino
a quando non diventerà inevitabile. Ottenendo in tal modo il doppio vantaggio
di assaporare la stabilità degli angoli di cosmo che si annidano in un universo
caotico e coltivare al tempo stesso, senza farsi troppo male, abilità e
mosse che potrebbero servirci quando il caos reclamerà il suo dominio. Con una
(già menzionata) limitazione, frutto scomodo della relativa comodità dei giochi
per procura: un allenamento non è mai la stessa cosa della partita. In quanto
puramente rappresentativo della partita, è vittima della logica della
rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, da qualcosa
di diverso. La mia immagine nello specchio mi rappresenta, ma non posso
accarezzarla; i deputati in Parlamento mi rappresentano (o almeno dovrebbero
farlo), ma solo in quanto accetto di ridurmi a una particolare costellazione di
interessi; la caccia rappresenta la guerra, o il calcio rappresenta
un’invasione del terreno avversario e una violazione della sua porta, della sua
intimità, o gli scacchi rappresentano una raffinata combinazione di intrighi,
trappole e agguati, ma da queste violazioni e da questi agguati nessuno
dovrebbe uscire menomato o deflorato. (E forse è questo il motivo per cui
eccellono in tali rappresentazioni coloro che ne marginalizzano il più
possibile il carattere rappresentativo e in un certo senso lo dimenticano:
riescono cioè a disattivare nella loro pratica la consapevolezza che si tratta
solo di un gioco – su questo tema di grande importanza ritornerò alla fine del
capitolo.) Ernst Gombrich, che citerò ancora in seguito a proposito del
rapporto fra gioco e arte, rileva in A cavallo di un manico di scopa che per un
bambino un manico di scopa rappresenta un cavallo solo in quanto può essere
cavalcato, non perché gli somiglia. E, in Arte e illusione, conferma ed estende
il rilievo: L’essenziale dell’immagine non è la sua verosimiglianza, ma la sua
efficacia in un certo contesto operativo. Può essere anche verosimile, allorché
si ritiene che questo possa contribuire alla sua efficacia. Ho detto che i
giochi per procura si svolgono in microcosmi: ambienti ristretti e fittizi che
simulano condizioni reali. Potrebbe sembrare un paradosso che la bimba da cui è
iniziato il nostro percorso giochi nel mondo e i membri di una squadra di
calcio, invece, in una copia in miniatura del mondo, considerando quanto è
piccola la stanza in cui si muove la bimba in confronto allo stadio affollato e
urlante in cui ha luogo la partita; e sarà bene allora sottolineare che la
miniatura di cui stiamo parlando si riferisce a dimensioni non spaziali ma
esistenziali. Nel suo piccolo spazio la bimba investe tutta sé stessa, e
bisogna farle attenzione e proteggerla per evitare che questa sua assoluta
dedizione abbia effetti distruttivi; davanti alle folle oceaniche degli stadi
si compie invece un rito dalla fisionomia precisa ed esclusiva, in cui
solo alcuni movimenti e atteggiamenti sono legittimi. Le barriere che
separano questo microcosmo dal mondo sono assai porose, certo; il gioco vero è
sempre sul punto di prendere la mano a quello finto, con effetti talvolta
tragici; ma la possibilità che l’uno si trasformi nell’altro non nega la loro
distinzione. Fa solo notare che non si tratta di una distinzione neutrale,
definita una volta per tutte: come la repressione freudiana, va mantenuta a
ogni istante esercitando appropriate resistenze, e nel momento in cui le
resistenze vengono meno il microcosmo è inghiottito dal gioco globale, in cui
ci si fa male davvero. Quest’ultima osservazione ci costringe a rivisitare le
conclusioni del capitolo precedente. (In un labirinto, oltre a girare a vuoto e
percorrere sentieri tortuosi, si deve talvolta fare qualche passo indietro.) Lo
sfondo, cioè le regole, avevo concluso, definiscono il gioco a cui stiamo
giocando; le figure che tracciamo sullo sfondo costituiscono la nostra attività
ludica. Le regole determinano la topologia del microcosmo in cui abbiamo deciso
di risiedere e a quelle regole noi vi risiederemo con maggiore o minore
creatività e godimento, da buoni o cattivi giocatori quali siamo. Occorre però
evitare il malinteso che la distinzione tra figura e sfondo, tra regole e
creatività, sia, una volta decisa, mai più contestabile, che non sia essa
stessa in gioco. In una scena esilarante di Butch Cassidy, Paul Newman viene
sfidato a duello da un membro della sua banda, un bruto gigantesco che dà
l’impressione di poterlo sbudellare con facilità. Senza scomporsi, Butch/Paul
lo avvicina e gli dice che, prima di lottare, devono mettersi d’accordo sulle
regole. Il mostro lo guarda allibito; in quell’attimo di sconcerto Butch gli
assesta un poderoso calcio al basso ventre e poi, quando si piega in avanti,
una robusta mazzata in faccia con i due pugni congiunti. Il duello è finito
prima ancora di cominciare, prima ancora di stabilire le regole alle quali
doveva essere condotto. Siamo così tornati per altra via alla complessità
sancita dalla fisica e quel che sembravamo aver capito quando ne abbiamo
parlato la prima volta si trasforma ora in un oscuro dilemma. (In un labirinto,
càpita di ripassare per lo stesso punto e di non riconoscerlo.) Il mondo è
infinitamente ambiguo, avevamo concluso: non obbedisce a regole univoche ma
risulta invece da una sovrapposizione di sistemi di regole fra loro
incommensurabili, entro ciascuno dei quali si potranno anche fare previsioni
senza però poter prevedere, di volta in volta, in che sistema sceglieremo di
vivere. Non c’è, anzi, il mondo ma ci sono questi sistemi molteplici, e nello
slittare dall’uno all’altro ci spostiamo da un mondo all’altro. Nel linguaggio
che stiamo utilizzando adesso, potremmo dire che ciascun sistema è un
microcosmo, un particolare ambiente ludico; ma qui abbiamo anche detto
che ogni microcosmo corre sempre il rischio che i suoi confini non tengano, che
il mondo reale (il mondo del gioco reale) che fa pressione su quei confini li
sfondi e a un tratto ci si possa far male davvero. Come la mettiamo, allora?
Esiste un mondo reale che fa pressione sui microcosmi, sui sistemi di regole,
sui giochi; oppure vale quel che si è detto nel terzo capitolo, che esiste un
mondo solo dopo che si sia scelto un sistema di regole? Una risposta semplice e
lapidaria a questa domanda è: valgono entrambe le cose. Non c’è nulla di
semplice, tuttavia, nel significato della risposta. Per cominciare, occorre
intendersi: se un «mondo» dev’essere una struttura definita, che contenga
oggetti specifici con specifiche proprietà e relazioni, allora non esiste un
mondo senza la scelta del vocabolario che lo fonda (in accordo con le
spiegazioni date nel terzo capitolo). Possiamo anche dire, però, che «così va
il mondo», cioè che esso non va come si pensava un tempo (e come ancora pensano
in molti): non è indipendente da una scelta; le cose non stanno in nessun modo
finché non si sia deciso come descriverle – e anche questo è, in senso lato, un
modo in cui stanno le cose. Da questa banale distinzione terminologica segue
una conclusione tutto men che banale: se «al mondo» non ci sono che microcosmi,
allora quel che fa «realmente» pressione su un microcosmo, «il mondo» che
minaccia di sommergerlo, sono altri microcosmi. Un gioco è sempre e soltanto
minacciato da altri giochi (nel senso che è sempre possibile slittare dall’uno
agli altri). Giocare con le regole invece che alle regole di un particolare
gioco (come faceva Butch Cassidy) non significa situarsi in una dimensione
neutrale, fuori da ogni gioco, dalla quale il gioco e le sue regole possano
essere contestati; significa sempre e soltanto collocarsi in un altro gioco.
Nel percorso compiuto finora abbiamo già provato qualche sconvolgimento
prospettico; abbiamo già visto talvolta l’anatra tramutarsi sotto i nostri
occhi in un coniglio. Qui siamo arrivati a un nuovo episodio dello stesso tipo.
In partenza, sembrava ovvio che la bimba stesse giocando e i suoi genitori no
(quando, per esempio, si assicuravano che fossero coperte tutte le prese e
chiuse tutte le finestre prima di lasciarla giocare indisturbata); che gli
atleti su un campo di calcio giocassero ma gli operai che montavano le porte
no; che ci fosse differenza tra giocare alla guerra e fare la guerra (davvero,
invece che per finta). Ora questa ovvia differenza non solo non è più ovvia;
non è più nemmeno una differenza. O meglio, una differenza c’è ma non è quella
tra un gioco e un non-gioco, o tra un ambiente fittizio e uno reale. Se per la
bimba non c’è niente di più serio del suo gioco, e se in generale i
giocatori prendono il loro gioco molto sul serio, è perché non c’è distinzione
sostanziale fra gioco e attività serie: un’attività seria è un gioco preso sul
serio, un’attività definita da uno sfondo di regole in cui una o più persone
decidono di immergersi, un microcosmo entro i cui confini una o più persone
decidono di abitare. Prendere sul serio qualcosa vuol dire assumere un
atteggiamento di completa concentrazione e rifiutarsi di ammettere qualsiasi
distrazione, qualsiasi alternativa alla pratica corrente. Succede ai bambini
che giocano, agli adulti ossessionati dal poker o dalla roulette e agli altri
adulti, molto più maturi e responsabili, che si dedicano anima e corpo al loro
lavoro. L’analogia fra tutte queste situazioni è evidente, o almeno dovrebbe
esserlo, ma noi di solito riusciamo a non vederla inforcando gli occhiali
normativi (o prescrittivi) di cui ho parlato nel secondo capitolo: chi si
concentra sul proprio lavoro fa bene perché sul lavoro ci si deve concentrare;
chi si concentra sulle avventure di una bambola dimostra il proprio carattere
infantile; chi si concentra sul poker è dipendente e malato. Mettiamo da parte
queste norme introdotte di straforo, senza valutazione e senza critica, e
rimaniamo su un piano descrittivo, là dove l’evidenza dell’analogia è
innegabile. Ci apparirà allora con improvvisa chiarezza una nuova prospettiva
sull’intera faccenda: la realtà «seria» non è che un gioco senza alternative
riconosciute, su cui non si avverte la pressione di altri giochi. Il lavoro è
la realtà di chi non vive le sue regole come una scelta; il poker è la realtà
del giocatore ossessivo. (Il che non modifica il fatto che alcuni giochi
possono [a] essere più ampi e ramificati di altri, meno disponibili alla
ripetizione, a provare e riprovare le stesse mosse, e più propensi a esiti
dolorosi e devastanti o [b] rappresentarne altri, con tutte le ambiguità
connesse alla rappresentazione, quindi che [c] si possono limitare i danni
giocando «per procura» a giochi puramente rappresentativi di quelli più
rischiosi.) C’è un’importante precisazione da fare su quel che ho appena detto:
è necessario correggere subito la rotta per non andare fuori strada.
Sembrerebbe, a questo punto, che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato
nel prendere un’attività sul serio, il che non è vero. Torniamo ancora una
volta alla bimba: sbaglia forse, lei, a immergersi in modo assoluto, totale,
nelle figure che costruisce? Niente affatto: praticare un gioco con pazienza,
con dedizione, nell’oblio di ogni alternativa, è il modo migliore per
familiarizzarsi con il suo particolare microcosmo, per esplorare tutta la
creatività, tutto il «gioco» consentiti dalle sue regole. Ma domani la bimba
sarà in un’altra stanza, o in giardino, o sul sedile posteriore di
un’automobile, dove incontrerà altre resistenze che accetterà come regole
di un altro gioco; ed è questa flessibilità che la protegge dall’ossessione,
che anzi trasforma la sua momentanea ossessione in un punto di forza. Ogni
gioco, mentre è giocato, va preso sul serio; quel che ne conserva anche il
carattere di gioco (oltre a quello di serietà), per chi lo pratica, è il fatto
che gli siano presenti, magari implicitamente, altri giochi. Nell’Essere e il
nulla, Sartre parla di un cameriere che si è trasformato nello stereotipo di un
cameriere, e che cerca così di sfuggire alla coscienza di essere un cameriere.
Adattando il suo esempio al mio discorso, direi che al cameriere manca ogni
senso di alterità e che senza alterità non c’è vera identità: c’è solo un magma
indifferenziato nel quale siamo avvolti senza rimedio. Gli manca un lampo di
quell’ironia che segnala l’alterità e gli permetterebbe di vedere (da un altro
punto di vista) quel che sta facendo come uno dei tanti giochi possibili – come
qualcosa che non lo inchioda fatalmente a un ruolo e proprio per questo gli
permette di vivere il suo ruolo con serenità. Ho avuto la fortuna, talvolta, di
veder affiorare questo lampo d’ironia (che sarebbe come dire, per me, d’intelligenza)
in un bambino, di solito intorno ai due anni, e mi sono reso conto allora che
avevo davanti un essere umano. In Verso un’ecologia della mente, Gregory
Bateson arriva a una conclusione analoga, formulata nei termini
logico-matematici che gli sono abituali. Un gioco, dice, è generalmente vissuto
in un’atmosfera paradossale: nell’ambito della premessa «Questo è un gioco» e
quindi di indicazioni contrastanti a prendere sul serio quel che si fa e anche
a non prenderlo sul serio. «È nostra ipotesi che il messaggio “Questo è gioco”
stabilisca un quadro paradossale, paragonabile al paradosso di Epimenide [cioè:
quel che sto dicendo adesso è falso]» Ma tali paradossi, analoghi a quelli
della teoria degli insiemi (come «l’insieme di tutti gli insiemi che non si
appartengono si appartiene e non si appartiene») non vanno esorcizzati (come fa
Bertrand Russell introducendo la sua teoria dei tipi logici), perché nella loro
assurda, irriducibile complicazione sono l’essenza stessa dell’attività e della
vita. La nostra tesi principale può essere riassunta in un’affermazione della
necessità dei paradossi dell’astrazione. L’ipotesi che gli uomini potrebbero o
dovrebbero obbedire alla teoria dei tipi logici nelle loro comunicazioni non
sarebbe solo cattiva storia naturale; se non obbediscono alla teoria non è solo
per negligenza o per ignoranza. Riteniamo, viceversa, che i paradossi
dell’astrazione debbano intervenire in tutte le comunicazioni più complesse di
quelle dei segnali di umore, e che senza questi paradossi l’evoluzione della
comunicazione si arresterebbe. La vita sarebbe allora uno scambio senza fine di
messaggi stilizzati, un gioco con regole rigide e senza la consolazione del
cambiamento o dell’umorismo. Alla fine del capitolo precedente mi ero posto un
problema: qual è il senso di giochi dai quali non sembriamo imparare nulla
d’importante, che sembrano servire solo a passare (ad ammazzare?) il tempo? La
«soluzione» del problema ha finito per negarlo, ridisegnando l’intera
cartografia che ne tracciava il territorio. Non ci sono giochi utili per
conoscere il mondo reale e altri oziosi e gratuiti. Ci sono solo giochi, che
rimangono tali finché rimangono al plurale e smettono di esserlo (diventano
reali) quando ne perdiamo di vista la molteplicità. Anche in questo caso, la
molteplicità non cesserà di esistere e noi dovremo pur sempre difenderci dalla
sua intrusione; la nostra difesa però non sarà (per usare ancora una volta
metafore freudiane) un consapevole, versatile negoziato fra istanze ugualmente
legittime e in grado di scambiarsi le parti, di mescolarle e così rinnovarsi
continuamente, ma una rimozione di fissità nevrotica che con l’altro non
dialoga e che proprio per questo all’altro prima o poi si arrenderà. 6.
Calma e gesso Nel gioco del biliardo, che un mio compagno di liceo definiva
«giusto e saggio», càpita di trovarsi davanti a situazioni molto complicate. La
palla che dobbiamo colpire è coperta dal pallino o dal castello (sto parlando
di un biliardo all’italiana, o eventualmente alla goriziana, con due palle, un
pallino e cinque birilli, o eventualmente nove); possiamo prenderla solo di
sponda, quindi invece di sparare subito d’istinto conviene esaminare le nostre
opzioni con calma, e meglio ancora se nel frattempo ingessiamo la stecca per
evitare che dopo tante elucubrazioni scivoli malamente nel tiro (probabilmente
a effetto) che decideremo di tentare. Fuor di metafora, quando si percorre un
itinerario tortuoso e accidentato come quello attuale è buona idea fermarsi
ogni tanto e considerare la nostra posizione, che magari dopo numerose
giravolte è cambiata e va rivalutata nella nuova forma che ha assunto e nelle
nuove condizioni e opportunità che ci offre. È quanto mi propongo di fare in
questo capitolo, prima di riprendere il cammino. Nelle ultime pagine abbiamo
compiuto, ho detto, un rivolgimento prospettico. Naturalmente, mi sono
affrettato a trarne le conseguenze e a ridisegnare alla sua luce il nostro
territorio. Ma qualche minuto di pausa supplementare e qualche riflessione più
articolata sono opportuni, per apprezzare la radicale novità della mappa che
sta emergendo. Siamo partiti con una distinzione forse talvolta (in casi
limite) vaga ma di solito, apparentemente, piuttosto chiara. A nascondino e a
pallacanestro si gioca; quando si prende il tram per andare in ufficio o si
prepara la cena non si gioca – e chi lo facesse non starebbe davvero preparando
la cena o andando in ufficio; starebbe facendo chissà che cosa, con l’alibi di
preparare la cena o andare in ufficio. Ora però abbiamo detto che ci sono solo
giochi. Vogliamo dire che quella distinzione apparentemente chiara (ma, ho
affermato, non «sostanziale») va abbandonata? E che senso ha parlare di gioco,
di attività ludica, se non esiste nessun altro tipo di attività: se il fatto
che un’attività sia un gioco non la pone in contrasto con nient’altro di quel
che possiamo fare? Non abbiamo così inopinatamente perso per strada il concetto
stesso di cui volevamo rendere conto, alla cui comprensione abbiamo
dedicato tanti sforzi? Ho detto che un gioco è definito da uno sfondo su cui il
gioco elabora le sue figure; ho detto che c’è concorrenza, e lotta, sulla
natura di questo sfondo, che si gioca non solo alle regole ma anche con le
regole. E ho detto che quello che stiamo conducendo qui è un gioco, di
carattere trasformativo (o dialettico): che esso ci porta (per esempio) a
vedere il gioco di una bimba trasformarsi nel gioco del calcio. Stiamo ora
arrivando a capire meglio che gioco è. Parte di quel che questo gioco fa è
trasformare il rapporto tra figura e sfondo nell’essere umano (dove «essere» è
inteso come verbo; alla fine del viaggio suggerirò che la qualifica «umano»
potremmo lasciarla cadere e che la trasformazione riguarda tutto l’essere).
Normalmente (e ricordiamo la norma sempre implicita in simili espressioni) si
pensa che il gioco sia una figura un po’ strana e misteriosa tracciata sullo
sfondo delle comuni, serie occupazioni quotidiane. Il suo posto è marginale,
letteralmente ai margini della vita ordinaria: pertiene all’infanzia, ai giorni
di festa, alla vita di scioperati e nullafacenti («Chi ha fame non gioca», dice
Caillois). E c’è da chiedersi se serva a qualcosa. Il rivolgimento prospettico
che abbiamo attuato ci mostra un quadro completamente diverso: una condizione
umana in cui lo sfondo, la normalità, la norma sono attività ludiche, condotte
per il puro gusto e il puro piacere che dànno, e le attività strumentali, tese
a uno scopo esterno a sé stesse, al conseguimento di un risultato, sono un
mistero da spiegare. Nell’Educazione estetica Friedrich Schiller arriva a una
conclusione analoga quando afferma: «l’uomo gioca soltanto quando è uomo nel
senso pieno del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca. E la spiega,
anche, in modo simile all’articolazione che ho fornito qui, come il risultato
di una costante tensione fra esigenze opposte: «deve esservi un elemento comune
tra impulso formale e impulso materiale, cioè un impulso al gioco, perché solo
l’unità della realtà con la forma, della contingenza con la necessità, della passività
con la libertà porta alla perfezione il concetto di umanità» (p. 54). In una
famosa scena di 2001: Odissea nello spazio un nostro antenato ominide solleva
da terra un lungo, robusto osso e lo agita senza senso e senza intenzione di
qua e di là. Per gioco, potremmo dire. Finché, casualmente, l’osso urta un
cranio che giace lì vicino e lo frantuma, e così lo scimmione scopre (con
enorme eccitazione) di avere in mano un’arma e nella prossima scaramuccia con
un gruppo di avversari la usa per commettere un omicidio. Kubrick vuole
raccontarci la storia di una specie (la nostra) feroce e sanguinaria; ma storie
simili e meno cruente si potrebbero raccontare su un’altra scimmia che con
la medesima casualità scopra come far cadere un cespo di banane da un
albero, o come adagiare un tronco per traverso su un ruscello e usarlo da
ponte. Jerome Bruner, in Natura e usi dell’immaturità, riassume storie analoghe
in questo modo: Sarei tentato di avanzare l’ipotesi poco ortodossa secondo la
quale nello sviluppo dell’uso degli strumenti è stato necessario un lungo
periodo di attività combinatoria opzionale e libera da qualsiasi pressione. Per
sua natura l’uso di strumenti (o l’incorporazione di oggetti in attività
qualificante) ha richiesto la preliminare possibilità di un’ampia varietà di
esperienze sulla quale potesse poi operare la selezione. Una caratteristica
fondamentale dell’uso di strumenti negli scimpanzé come nell’uomo è la tendenza
a sperimentare varianti del nuovo pattern di attività in differenti contesti. Probabilmente
è proprio questa «spinta alla variazione» (piuttosto che la fissazione per
rinforzo positivo) che rende tanto efficace la manipolazione nello scimpanzé.
Il gioco, data la sua concomitante libertà da rinforzi e il suo collocarsi in
un ambiente relativamente libero da pressioni, può produrre la flessibilità che
rende possibile l’uso di strumenti. La
libertà espressa nel gioco sarebbe dunque il serbatoio inesauribile da cui
sfociano tutte le attività serie: cristallizzazioni perlopiù temporanee e locali
cui ci affezioniamo e che ripetiamo con fedeltà perché si sono rivelate
inaspettatamente preziose, mentre il gioco continua. (Ritroviamo così, come
cifra del gioco, l’investimento nell’eccessivo e nel puramente possibile, da
cui viene distillato con pazienza ciò che finisce per apparire utile o anche
necessario.) L’immagine che stiamo disegnando è quella di uno spettro di
comportamenti (analogo allo spettro dei colori), a un’estremità del quale c’è
pura libertà (comportamenti del tutto caotici e imprevedibili) e all’altra pura
costrizione (comportamenti del tutto fissi e stereotipi). In modo analogo,
Caillois sovrappone alla sua già citata categorizzazione analitica di vari tipi
di gioco un’ulteriore tassonomia organizzata in modo graduale: [Si possono]
ordinare [i giochi] fra due poli antagonisti. A un’estremità regna, quasi
incondizionatamente, un principio comune di divertimento, di turbolenza, di
libera improvvisazione e spensierata pienezza vitale, attraverso cui si
manifesta una fantasia di tipo incontrollato che si può designare con il nome
di paidia. All’estremità opposta, questa esuberanza irrequieta e spontanea è
quasi totalmente assorbita, e comunque disciplinata, da una tendenza
complementare, opposta sotto certi aspetti, ma non tutti, alla sua natura
anarchica e capricciosa: un’esigenza crescente di piegarla a delle convenzioni
arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti, di contrastarla sempre di
più drizzandole davanti ostacoli via via più ingombranti allo scopo di renderle
più arduo il pervenire al risultato ambìto [...]. A questa seconda componente
do il nome di ludus (p. 29). E anche Piaget parla di polarità: il gioco non
costituisce una condotta a parte o un tipo particolare di attività tra le
altre: esso si definisce soltanto mediante un certo orientamento della condotta
o in virtù di un «polo» generale verso cui converge quest’attività nel
suo complesso restando caratterizzata così ogni azione particolare dall’essere
più o meno vicina a questo polo e dal tipo di equilibrio che c’è tra le
tendenze polarizzate (La formazione del simbolo nel bambino). il gioco si
riconosce da una modificazione, variabile di grado, dei rapporti di equilibrio
tra il reale e l’io. Si può sostenere dunque che, se l’attività ed il pensiero
adattati costituiscono un equilibrio tra l’assimilazione [del reale all’io] e
l’accomodamento [dell’io al reale], il gioco comincia quando la prima predomina
sul secondo. Ora, per il fatto stesso che l’assimilazione interviene in ogni
pensiero e che l’assimilazione ludica ha per solo segno distintivo il fatto di
subordinarsi l’accomodamento invece di realizzare un equilibrio con esso, il
gioco si deve considerare collegato al pensiero adattato da una gamma di stati
intermedi, e solidale con tutto il pensiero, di cui esso non costituisce che un
polo più o meno differenziato. Io però intendo proporre qui un’operazione più
radicale. Invece di trovare il gioco in una parte dello spettro e il non-gioco
in un’altra (o, come fa Caillois, giochi diversi da una parte e dall’altra), intendo
rivoluzionare il senso della parola «gioco», decidendo che il gioco sia non
un’attività specifica («questo è un gioco e quello non lo è») ma un aspetto di
ogni attività, un suo parametro: il parametro che misura quanta libertà
l’attività esprima. Che ci siano solo giochi vorrà dire allora che tutte le
attività possono essere misurate relativamente a questo parametro, anche se per
alcune la misurazione darà un valore assai vicino allo zero. In modo
inversamente proporzionale alla libertà di un comportamento cresce, nello
spettro, la presenza e l’importanza delle regole; quindi, se ammettiamo che gli
estremi dello spettro (il grado zero di libertà e il grado zero di regole)
siano astrazioni puramente ideali, confermeremo quanto si è detto nel quarto capitolo,
che cioè ogni gioco si svolge a determinate regole – intendendo la frase nel
nuovo senso che ha ora acquisito: ogni attività ha insieme un aspetto
regolamentato e uno ludico. Mentre varchiamo una soglia per affrancarci dalle
strettoie che al suo interno ci opprimono, troveremo un’altra soglia; e sarà
nell’interazione tra il nostro desiderio di affrancamento e i limiti con cui
quel desiderio si deve confrontare che la nostra libertà guadagnerà contenuto e
sostanza, e realizzerà strutture sempre più articolate, complesse e funzionali.
Quando siamo d’accordo che così stanno (così vediamo) le cose, nulla ci
impedisce di ammettere un uso informale e colloquiale della parola «gioco» in
riferimento a specifiche attività. Un gioco, potremmo dire, è un’attività il
cui parametro ludico è elevato, o almeno significativo; un non-gioco è
un’attività il cui parametro ludico è trascurabile. In modo analogo, gli esseri
umani potrebbero essere disposti su uno spettro in base alla loro altezza, e da
un certo punto in avanti (impossibile da determinare con esattezza) le persone
con un’altezza elevata, o almeno significativa, verrebberro dette,
semplicemente, alte. Rimarrebbe vero, con questa convenzione, che in
generale (il senso della precisazione sarà chiaro tra breve) il nascondino e la
pallacanestro sono giochi ma il preparare la cena e l’andare in ufficio no; e
sarebbe anche vero che le slot machines e il «gioco» del lotto, avendo un
parametro ludico praticamente nullo, non sono giochi ma imposture. Che
all’indomani del rivolgimento prospettico si possano dire le stesse cose di
prima non equivale però ad averne moderato l’impatto, ad avergli spuntato le
unghie. Categorizzare le attività umane in termini di uno spettro come quello
che ho descritto non è un’operazione innocente, perché implica che ogni
attività, per quanto scontata e ripetitiva, abbia almeno implicito, almeno
potenziale, un certo grado di libertà, e che dunque in essa ci sia spazio (ci
sia gioco, come quello della vite) per esplorare e apprendere, per rischiare e
trasgredire. (Così come ogni attività ludica può venir soffocata da un eccesso
di regole.) Nel mondo ordinato degli antichi greci, ogni cosa aveva il suo
posto e lo stato naturale era la quiete – lo stato, cioè, in cui era ogni cosa
quando aveva raggiunto il suo posto. (Questo valeva sulla Terra. Nei cieli, i
corpi si muovevano con il moto più simile alla quiete: il moto circolare
uniforme, che ritorna sempre su sé stesso.) E capire quel mondo voleva dire
«tagliarlo seguendone le nervature»: riflettere nelle nostre classificazioni
concettuali la precisa e definitiva articolazione delle sue differenze. In base
a questa logica, fra gioco e non-gioco esisterebbe uno scarto qualitativo: si
tratterebbe di qualità diverse, anzi opposte, e nulla potrebbe essere l’uno e
l’altro insieme. Che il nostro mondo sia caotico implica che in esso sia
naturale non la quiete ma un movimento costante e irregolare, e non solo il
movimento di una cosa da un posto all’altro ma anche un movimento che riguarda
l’essere di quella cosa, che costantemente e irregolarmente ne cambia la
definizione e le caratteristiche più intime. La nostra nuova prospettiva sul
gioco s’inquadra in un mondo siffatto, in cui l’essere gioco non è un destino
degli scacchi o del tennis e l’essere non-gioco un destino dell’avvitare un
bullone o dello spolverare il mobilio. Gioco e non-gioco sono invece
opportunità sempre aperte; e può essere sufficiente, a volte, il battito d’ali
di una farfalla perché la più ottusa delle routine si accenda d’improvvisa
follia (manifestando il pizzico di follia che già conteneva) o perché la più
audace delle avventure s’incagli su un binario morto. 7. Illusioni Nel
quarto capitolo ho detto che quella di figura e sfondo è una metafora: che le
«figure» non hanno necessariamente nulla di visivo. Una metafora estende l’uso
di una parola al di là dei suoi contesti abituali, dandole un senso traslato,
inappropriato e incongruo ma spesso suggestivo (in quanto suggerisce
associazioni, emozioni, ricordi). È anch’essa un gioco, di parole appunto; e
come tale ce ne dovremo occupare a tempo debito. Per ora mi limito a osservare
che se una metafora può traslare, trasferire il senso di una parola allora quel
senso, si presume, ha un’origine da cui essere trasferito: che si diano sensi
metaforici presuppone che ne esista uno letterale. Giulietta non è,
letteralmente, il sole; ma quel che ci permette di capire che cosa il poeta
intenda con questa frase è la nostra familiarità quotidiana con un astro che è
il sole nel senso più proprio del termine. Anche questa distinzione verrà in
seguito contestata; ma qui prendiamola per buona perché ha molto da insegnarci.
Un cambiamento di prospettiva, di punto di vista, può essere un evento di
natura astratta, che ci coinvolge solo a livello concettuale. Abbiamo sempre
pensato a noi stessi come a fedeli esecutori di istruzioni ricevute
dall’esterno, da una guida o un capo più o meno benevoli, e tutt’a un tratto
comprendiamo («ci salta agli occhi», metaforicamente parlando) di quante
microdecisioni sia intessuta la nostra esecuzione di un compito, e quanto siano
quelle decisioni, quelle scelte forse inconsapevoli ma importanti, a
determinarne il successo, invece della pedestre acquiescenza a modelli alieni.
Se pure adoperiamo un vocabolario percettivo per descriverla (dicendo per
esempio che abbiamo imparato a «vederci» in modo diverso), questa
trasformazione è di carattere intellettuale, logico; riguarda una «prospettiva»
che è un’interpretazione, non una direzione nello spazio. Esistono però anche casi
come il seguente (ne parla fra gli altri Jacques Lacan). Il famoso quadro Gli
ambasciatori di Hans Holbein, se guardato di fronte, presenta una strana forma
in basso (Lacan la paragona a uova fritte); ma se, mentre ce ne allontaniamo,
ci giriamo ancora una volta a guardarlo (forse perché quella forma misteriosa
ci ha inquietato) ecco che da quel punto, letteralmente, di vista scorgiamo
infine l’immagine che il pittore voleva mostrarci (e capiamo il messaggio
che voleva lanciarci – ogni trasformazione percettiva ha una ricaduta
intellettuale, ma non vale l’inverso). Le uova fritte sono diventate un
teschio. Nell’universo infantile, cambiamenti letterali di prospettiva (su un
corpo, un oggetto, una situazione) sono tra le fonti più intense di gioia. È un
mondo popolato di smorfie, guizzi, voltafaccia, nel quale nulla diverte di più
del vedere personaggi di dimensioni gigantesche, che normalmente costringono a
guardarli dal basso in alto, rotolarsi per terra, camminare a quattro zampe,
magari con un bambino in groppa per fargli vedere dall’alto spettacoli di
solito inaccessibili: una nuca, del cuoio capelluto, delle stanghette di
occhiali. Nella vita adulta, occasioni del genere sono più rare, limitate come
sempre accade con il gioco a ricorrenze catartiche (il carnevale, le vacanze,
il sesso) e occupazioni specifiche (l’attore, il clown). Quel che conserva una
frequenza più costante sono non tanto occasioni quanto particolari oggetti
multiformi, insieme artistici e illusori, anzi artistici perché illusori (come
ben aveva capito Gombrich, che al tema dedicò il suo capolavoro Arte e
illusione). A questi loro aspetti mi rivolgerò adesso, cominciando dal secondo.
Abbiamo già incontrato il paradosso della rappresentazione: di una cosa, cioè,
che ne rappresenta un’altra, diversa da sé stessa. Una rappresentazione,
aggiungo ora, è in certa misura un’illusione; in particolare, una
rappresentazione percettiva come quelle su cui mi concentrerò qui è (in certa
misura) un’illusione percettiva. Nel linguaggio ordinario, «illusione» non è un
termine neutrale: accenna a qualcosa di falso, di ingannevole; è legato a
giudizi di valore negativi, usato con intento critico. Dobbiamo evitare di
rimanere vittime di illusioni; dobbiamo conoscere la realtà che le illusioni ci
nascondono. Voglio prendere le distanze da tali giudizi e dalle norme che essi
sottintendono: norme che favoriscono stabilità e conformismo nella visione del
mondo. Osservo invece che dentro «illusione» c’è la radice del gioco e il
prefisso «in» annuncia (se solo stessimo a sentire quel che diciamo) che
un’illusione (ci) mette in gioco. Questo è il senso in cui voglio usare la
parola, respingendo ogni ipotesi di inganno o di frode e sostituendola con un
richiamo positivo alla sfera ludica. È in questo senso, per esempio, che nubi
di una certa forma possono illuderci che un destriero stia galoppando per il
cielo: rimettendo in discussione il fatto che quelle siano nubi, che il cielo
abbia una sua determinata, fissa configurazione, che certe cose (certi animali)
non vi abbiano corso. L’epigrafe del capitolo L’immagine nelle nubi, in Arte e
illusione, è tratta da Antonio e Cleopatra di Shakespeare, e recita:
Talvolta noi vediamo una nuvola prendere forma di drago; talvolta un cirro la
forma di leone o d’orso o di turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta
montagna, di azzurri promontori vestiti d’alberi, che fanno cenno colle chiome
al mondo giù e ci illudono gli occhi con un gioco d’aria. A mente fredda diremo
poi, forse, che le nubi hanno rappresentato un cavallo, sigillando il gioco in
un’espressione paradossale che lo esorcizza invece di spiegarlo (e, se viene
ripetuta abbastanza spesso, darà probabilmente l’illusione di aver capito – metterà
in gioco che cosa voglia dire «capire»); quando invece il gioco ci catturerà,
ci accoglierà in sé, vedremo davvero – e nessuno potrà dirci che non lo vediamo
– il cocchio di Fetonte scalpitare a precipizio verso il suo infelice destino.
L’«in» di «illusione» è una particella, una preposizione, ambigua (ha un
significato che è a sua volta in gioco). Può introdurre un complemento di moto
a luogo («vado in piazza») e allora indicherà oggetti che ci attirano, ci
seducono a entrare in un gioco; ma il complemento può anche essere di stato in
luogo e allora s’insinuerà che il gioco ci ha avvolto, che abitiamo al suo
interno. L’ambiguità, e la tensione che l’accompagna, traspaiono nel nostro
rapporto con le nubi, se oscilliamo fra il notarne (dall’esterno) una semplice
ma affascinante analogia con la criniera di Pegaso e l’abbandonarci
all’altalena cui l’analogia allude, senza riposare nell’una o nell’altra
condizione. Sono anche attivate da oggetti creati proprio a tale scopo, creati
ad arte; e così slittiamo da una delle nostre parole all’altra. «Artificiale»
si oppone a «naturale», ed è un contrasto da prendere con beneficio
d’inventario. Molto ci sarebbe da dire su quanto sia naturale per gli esseri
umani costruire oggetti diversi da quelli che trovano già fatti. Ma non è il
discorso che m’interessa qui; accetterò l’idea che un albero è un oggetto
naturale e la casetta che gli è stata costruita sopra è artificiale, e dirò
quindi che gli oggetti che ci imprigionano in un gioco perpetuo, o almeno di
una certa durata (ci imprigionano in un comportamento libero? poco fa ho detto
che il gioco può catturarci; c’è una guerra condotta su queste parole, su che
cosa vogliano dire «libertà» e «schiavitù», ed espressioni del genere fanno
ampie concessioni all’avversario), sono in gran parte artificiali e, quando
acquisiscono una buona reputazione sociale, vengono qualificati come artistici.
L’anatra/coniglio cui ho fatto riferimento in precedenza appartiene a questa
classe di oggetti: basta continuare a guardarlo, senza fare altro, per veder
apparire alternativamente l’una e l’altra figura. E si noti a che livello
l’oggetto agisce: quel che stiamo guardando non sono nubi che diventano un
cavallo, stelle che diventano un leone e nemmeno un’anatra che diventa un
coniglio – è un disegno di un’anatra che diventa il disegno di un
coniglio. L’anatra/coniglio è un giocattolo: non una parte dell’ambiente che
noi sottoponiamo a pressioni e rivoluzioni ludiche, ma un oggetto deputato
precisamente a consentirci e facilitarci tali pressioni e rivoluzioni – un
oggetto nato per essere elemento di un gioco. E per questa via siamo arrivati
una prima volta a dama; abbiamo raggiunto nel nostro percorso una prima sublime
manifestazione dell’ingegno e della perizia umani. Abbiamo raggiunto l’arte,
che possiamo ora definire come la costruzione di oggetti che consentano e
facilitino il gioco percettivo, il sovrapporsi e lo scambiarsi di immagini
multiple, l’illusione percettiva. Torniamo al quadro di Holbein e trascuriamo
la sorpresa con cui saprà accomiatarci. Rimane il fatto che questo oggetto
artificiale ci dà l’impressione di essere al cospetto di due distinti
gentiluomini, riccamente vestiti e circondati da svariati simboli di potere,
cultura e intrattenimento; ma, anche mantenendo la nostra posizione frontale
rispetto alla scena, scorrendo gli occhi è facile vedere al loro posto una
tavola bidimensionale ricoperta di colori a olio, e poi tornare a vedere i
gentiluomini, e poi ancora la tavola, e magari, se il gioco ci appassiona,
sforzarci di svelare il segreto di tale sortilegio – avvicinarci e allontanarci
dal dipinto per cogliere il punto esatto in cui un’immagine dà luogo all’altra,
in cui i gentiluomini si fanno avanti, robusti e vitali, dal legno e dal
pigmento che ne evocano la presenza. Lo stesso vale per i sobri tratti che in
uno schizzo o in un fumetto dànno vita a un personaggio e al suo umore, per le
trombe e i timpani che nella Sesta di Beethoven ci immergono in un temporale,
per le volte e le vetrate che da una cattedrale gotica ci trasportano in una
selva oscura, attraversata da lampi di luce divina. Ogni oggetto artistico sa
illuderci, invitarci a un gioco aperto fra le sue molteplici incarnazioni,
ispirarci a un’oscillazione gestaltica che ne costituisce, in quanto appartiene
all’arte, la ragion d’essere. Lo stimolo è infinitamente ambiguo, e l’ambiguità
in sé non può esser vista: può solo essere indotta dal confronto di diverse
letture che tutte si adattano a una stessa configurazione. Credo che il dono
dell’artista sia di questo genere. Egli è un uomo che ha imparato a guardare
criticamente, a saggiare le sue percezioni provando interpretazioni diverse o
opposte, sia per gioco che seriamente. Il piacere che proviamo davanti a un
quadro, affermava il grande critico neoclassico Quatremère de Quincy citato da
Gombrich, dipende esattamente dallo sforzo che la mente fa per creare un ponte
tra arte e realtà. È proprio questo piacere che viene distrutto allorché
l’illusione è troppo completa. «Allorché un pittore costringe una grande
estensione in uno spazio ristretto, quando mi porta attraverso gli abissi dell’infinito
su una superficie piatta e fa sì che l’aria circoli mi piace abbandonarmi
alle sue illusioni; ma voglio che ci sia la cornice, voglio essere certo che
ciò che vedo in realtà non è altro che una tela o un semplice piano. Se questo
gioco viene a mancare, se l’illusione diventa inganno, allora in modo solo
apparentemente paradossale per chi abbia seguito la parola nella deriva
semantica che ho proposto, l’illusione scompare: «la perfezione dell’illusione
ne ha segnato anche la fine. E talvolta l’artista gioca anche con l’illusione
(gioca con il gioco stesso) e con le aspettative culturali che le sono
associate: l’orinatoio di Duchamp ci riporta indietro, al bambino per cui i
migliori oggetti con cui giocare sono quelli d’uso comune, e insieme ci ricorda
che un oggetto non è mai solo, è sempre vissuto in un ambiente che ne determina
il ruolo; quindi un orinatoio in un museo è qualcosa di più (e di meno) di un
orinatoio in un bagno e ci racconta qualcosa non solo di sé ma anche di noi
stessi. Siamo noi a illuderci (a giocare con il fatto) che visitare un museo
sia un’operazione equivalente a guardare dal buco della serratura, lasciando
tutto – tutta l’arte – com’è; mentre invece è proprio quella nostra visita a
costituire l’arte. In molti punti del labirinto in cui ci siamo inoltrati si
aprono altri labirinti: la struttura tortuosa dell’insieme si riflette nella
struttura di molte delle sue parti (simile in ciò agli strani attrattori della
teoria del caos, in cui ogni dettaglio ha complessità tanto infinita quanto il
tutto). Qui siamo arrivati a un punto siffatto: sull’arte si potrebbe scrivere
un altro libro, o una biblioteca. Ma resisterò anche a questa tentazione e mi
rimetterò in marcia, dopo aver fatto tre precisazioni. In primo luogo, devo
insistere che non ho collegato gioco e arte in modo analitico, scoprendo delle
loro caratteristiche comuni. L’attività artistica è attività ludica, più
precisamente un gioco percettivo che ci porta a vedere oggetti in prospettive e
con risultati diversi da quelli abituali; dunque è la stessa attività praticata
da un bambino che rigira un cubo fra le mani per vederlo da ogni lato. Se il
cubo è una scatola che ha trovato in cucina, il caso è identico a quello delle
immagini nelle nubi; se invece è un oggetto (un giocattolo) che gli è stato
comprato apposta perché lui esegua tali rotazioni, corrisponde al quadro di
Holbein (e chi ha costruito il giocattolo corrisponde al pittore). Gli oggetti
ufficialmente giudicati artistici sono più raffinati di quelli con cui si diletta
un bambino (anche se ciò non vale sempre per l’arte contemporanea, da Duchamp
in poi); ma ciò vuol dire solo che un’attività (ludica, in questo caso) può
essere praticata con maggiore o minore maestria, non che si tratta di
attività diverse. Chiunque abbia partecipato a una settimana bianca ha sciato,
pur non danzando sulla neve con la grazia di Ingemar Stenmark. E non lasciamoci
turbare, nell’enunciare questa tesi, dalle inevitabili proteste di chi sostiene
che l’arte ha valore solo per sé stessa (l’art pour l’art) e non va
assoggettata alla funzione quasi-evolutiva che le ho conferito. Nessuno meno di
un appassionato giocatore, totalmente immerso nella sua partita, è in grado di
apprezzarne il contributo a un più vasto ambito d’interessi. Al limite, questo
genere di passione acceca, come osserva Gombrich in A cavallo di un manico di
scopa: gli scrittori di estetica ci dicono da tempo che cosa l’arte non è, e si
sono tanto preoccupati di liberare l’arte da valori eteronomi, che hanno finito
con il creare al centro di essa un vuoto, alquanto impressionante. In secondo
luogo, l’arte è solitamente concepita come prodotta da certe persone (gli
artisti) e fruita da altre (il pubblico); le prime sono considerate attive e le
seconde ricettive, passive. Nel modello freudiano del motto di spirito, nucleo
di una generale teoria estetica, il piacere provato da chi ascolta una
barzelletta e il riso che ne segue sono causati proprio dal suo essere inerte e
trovarsi a un tratto libere energie psichiche che prima servivano a reprimere
dei contenuti inaccettabili, in seguito all’azione di un altro (chi racconta la
barzelletta, usando a tale scopo le stesse energie e quindi provando meno
piacere e non ridendo affatto). È un modello che potrà andar bene per le oscene
vicissitudini dell’industria artistica contemporanea: per opere teatrali e
liriche davanti alle quali beatamente assopirsi dopo una lauta cena o per
croste e installazioni rifilate da furbi mercanti a ricchi e incolti borghesi.
È anche un modello, però, che viola e stravolge la comunità d’intenti e
d’impegno che esiste fra un pittore, un architetto, un musicista e il suo
pubblico. Chi guarda un quadro, ammira un edificio o ascolta una sonata non
saprebbe, perlopiù, dipingere, progettare o comporre con la stessa abilità, ma
può godere dell’esperienza solo in quanto è coinvolto nelle stesse scoperte e
sorprese dell’artista: solo in quanto l’artista (come l’animatore di un gioco
di società) sa coinvolgerlo in quelle attive scoperte e sorprese. Si può essere
autentici spettatori di un’opera d’arte solo nella misura in cui si è a propria
volta artisti: solo in quanto si è in grado di far riecheggiare in sé la stessa
esplosione gestaltica che l’autore ha provato. Ancora Arte e illusione di
Gombrich e ancora una sua citazione, questa volta da Filostrato, biografo del
filosofo pitagorico (contemporaneo di Cristo) Apollonio di Tiana: «Ma
questo non significa forse – propone Apollonio – che l’arte dell’imitazione ha
un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per
realizzare imitazioni, l’altro quello che realizza la somiglianza unicamente
con la mente?». Anche la mente dell’osservatore ha la sua parte
nell’imitazione. Anche una pittura a monocromo, o un rilievo in bronzo ci
colpiscono come qualcosa di somigliante: li vediamo come forma ed espressione.
«Perfino se disegnassimo uno di questi indiani con del gesso bianco, – conclude
Apollonio, – apparirebbe nero perché ci sarebbero sempre il suo naso
schiacciato, i suoi spessi capelli ricciuti e la sua mascella sporgente a
rendere nera l’immagine per chi sa usare gli occhi. Per questo dico che coloro
che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa»
(p. 173). In terzo luogo, chi propone una «naturalizzazione» di un aspetto della
nostra vita caratterizzato da pesanti risvolti normativi è spesso accusato di
farne evaporare ogni norma e lasciarci privi di ogni criterio o giudizio di
valore. Tale è il caso, per esempio, dell’etica, disciplina normativa per
eccellenza, quando la si riduca alla teoria della scelta «razionale»: d’accordo
che mi converrà accettare e rispettare certi patti, ma che cosa resta allora
dell’intuizione che, indipendentemente dalla convenienza, sia giusto accettarli
e rispettarli? La mia posizione complessiva non ha simili conseguenze; l’etica
(normativa) ha in essa un ruolo sostanziale, anche se diverso dalla
ricognizione e dal chiarimento concettuale che competono alla metafisica. In
questo libro, destinato alla ricognizione del territorio ludico e al chiarimento
dei concetti che lo popolano, di etica non mi occuperò; ma non voglio
congedarmi dall’argomento che stiamo trattando senza notare che definire l’arte
un gioco percettivo ci offre un coerente e plausibile sistema di valori interno
per oggetti artistici. C’è chi gioca a scacchi e chi a filetto; chi a bridge e
chi a briscola. Tutti quanti possono divertirsi; ma è indubbio che, in quanto
giochi, gli scacchi siano meglio del filetto e il bridge meglio della briscola.
Il filetto è decidibile: esiste una strategia sicura per chiudere in parità
ogni partita. A briscola (quella comune, tralasciando le sue infinite e
complicate varianti) di solito vince chi pesca i carichi (soprattutto quelli di
briscola). Dopo un po’, ci si annoia. Gli scacchi e il bridge, invece, non
stancano mai: con un repertorio limitato a trentadue pezzi o cinquantadue carte
sanno proporci una messe inesauribile di combinazioni diverse e richiedere usi
sempre nuovi del nostro talento e della nostra ingegnosità. Si può capire come
per molti diventino un’ossessione; è difficile immaginare persone altrettanto
ossessionate dal filetto o dalla briscola. Con l’arte è lo stesso. Ogni oggetto
artistico ci mette in gioco, ma talvolta il gioco è esile e di scarso respiro.
L’orinatoio di Duchamp ha rivoluzionato la nostra prospettiva su pratiche
sociali consolidate (e ne ha irrimediabilmente scosso la solidità); ma dubito
che l’ennesimo esempio di arte «trovata» solleciti più di una scrollata
di spalle o di uno sbadiglio (in chiunque non sia un critico che su queste cose
ci vive o uno sciocco in cerca di «investimenti»). Guardiamo invece al viso
della Gioconda: le labbra atteggiate a un sorriso, gli occhi tristi e pensosi,
e il conflitto fra questi due poli della condizione umana proposto (ma non
risolto) in un’espressione di incomprensibile, miracoloso, fragile equilibrio.
Se anche avessimo un tempo infinito, potremmo non smettere mai di oscillare
dall’uno all’altro «suggerimento» e di stupirci di un ossimoro presentato con
tanto candore e tanta armonia. Il capolavoro di Leonardo è un perfetto oggetto
artistico perché in esso potremmo a lungo e ripetutamente perderci (illuderci)
e da ogni siffatta avventura emergeremmo con uno sguardo nuovo sul
mondo. Il fattore in gioco Una cosa che ho appena detto può dare adito a
perplessità, quindi devo affrontarla e risolvere il relativo problema prima di
proseguire. Ho detto che chi gioca a filetto o a briscola può divertirsi.
Questo magari succede perché non ha grandi doti intellettuali e il filetto e la
briscola sono alla sua altezza. Ma che dire di quanti si dilettano di giochi
semplici proprio nella loro semplicità, pur cogliendone perfettamente i limiti?
Di quanti godono della tombola natalizia con un piacere forse regressivo ma non
per questo meno intenso? Una volta a Parma, durante una presentazione di
Giocare per forza, uno spettatore mi rivolse una domanda analoga. «Quando ero
ragazzo» disse «i miei compagni e io “giocavamo” a guardar le macchine passare
per strada, e ci eccitava molto vedere una macchina inconsueta. In che senso un
gioco così è innovativo, esplorativo, istruttivo o trasgressivo? È di una
banalità assoluta; eppure noi ci divertivamo un sacco». L’osservazione è acuta
e pertinente: un buon esempio di quanto ci sia da imparare se, in un’occasione
pubblica in cui si parla del proprio lavoro e si dovrebbe avere completo
controllo della situazione, invece di reiterare una predica risaputa e inutile
si accetta di mettersi in gioco e di raccogliere gli stimoli straordinari che
ci vengono dispensati da chi dialoga con noi. Ma veniamo al punto. Supponiamo
dunque che una famiglia (allargata) costituita da persone di notevole spessore
intellettuale si ritrovi durante le vacanze di Natale per giocare a tombola.
Tutti sono consapevoli dell’estrema semplicità del rito; eppure le ore
trascorse in questa operazione d’imbarazzante infantilismo sono serene ed
eccitanti, gradevoli e ilari. Come spiegarlo? Se interrogati, i protagonisti
potrebbero giudicarla una forma di abbrutimento: una provvida parentesi fra occupazioni
di rigore e profondità encomiabili ma anche, a lungo andare, insostenibili.
Dobbiamo crederci? Dobbiamo ammettere che, in qualche caso, il gioco e il suo
piacere vadano cercati proprio nel carattere brutale ed elementare di certi
comportamenti? Nel puro sfogo che essi esprimono? Non necessariamente. Basta
osservare che, se stiamo giocando e se il presunto oggetto del nostro
agire è un’attività socialmente considerata ludica, non ne segue che questa
attività sia il gioco cui stiamo giocando. Forse stiamo giocando ad altro, con
la scusa di giocare a quel gioco socialmente riconosciuto. Che cosa succede
quando una famiglia (allargata) si ritrova per le vacanze di Natale? Che
persone con scarsa dimestichezza reciproca oppure (peggio ancora) con ricordi di
una dimestichezza ormai tramontata, alla luce del modo in cui sono cresciute e
maturate, si costringono a condividere spazi ristretti per qualche giorno, con
l’obbligo supplementare di manifestare ripetutamente reazioni estatiche a tale
improvvisa, temporanea, spesso faticosa vicinanza. Non devo dilungarmi in
dettagli: drammi di notevole veridicità (e crudeltà) sono stati scritti in
proposito. La tombola o la briscola possono allora costituire un’area neutra
nella quale sperimentare senza troppi rischi mosse e atteggiamenti che in altri
contesti potrebbero far male ma qui, nell’atmosfera lieve di un gioco, hanno
«corso legale» e consentono preziosi passi avanti nel difficile compito di
trasformare quella che di nome è una famiglia nel senso di una concreta familiarità.
Stiamo dunque assistendo a una scena in cui si sovvertono e si rinnovano le
proprie competenze e i propri ruoli, si esplorano i propri rapporti con altri
che, nonostante il disagio e l’occasionale ostilità, sono pur sempre cari e
s’imparano strategie per distillare l’affetto dal disagio, e tutto questo
accade mentre si gioca a tombola, ma non riguarda la tombola. La delicatezza e
la sottigliezza dei tentativi che vengono condotti in quest’area protetta e la
ricchezza di insegnamenti che se ne derivano (senza rifletterci, senza neppure
esserne consapevoli, ma in modo estremamente utile per il prosieguo e il
successo dell’effimera convivenza) sono lontane toto coelo dall’insulsaggine
degli ambi e delle cinquine. Considerazioni analoghe valgono per i ragazzi che
«giocano» a veder passare le macchine, o a chi scorreggia più forte o dice più
parolacce. Se pensiamo che il fattore in gioco, in casi del genere, siano le
scorregge o le parolacce, dovremo modificare radicalmente la nozione di gioco
che abbiamo elaborato. Ma non bisogna pensarla così; e per capirne le ragioni
dobbiamo distanziarci dalle etichette correnti e anche da quelle che gli stessi
giocatori (si) attribuiscono. Le competizioni di cui sopra sono giochi, ma non
è detto che chi gioca partecipando a tali competizioni stia giocando a
scorreggiare, e si stia divertendo perché scorreggia. Forse sta giocando,
esattamente nel senso in cui ho definito il gioco, a qualcos’altro di ben più
complesso (a socializzare con dei coetanei, a mettere sotto pressione la sua
fisicità ed emotività), mentre tutti i presenti (e lui stesso) sono distratti
dalle scorregge; ed è anzi importante che ne siano distratti, perché
altrimenti il gioco cui stanno davvero giocando non sarebbe altrettanto
trasgressivo e innovativo, esplorativo e istruttivo, e piacevole. Questa
osservazione mi consente di precisare il punto con cui ho chiuso il capitolo
precedente e di prendere posizione rispetto a un tema che per molti autori ha
grande importanza nel definire il gioco ma nella mia trattazione, finora, è
stato oggetto di commenti piuttosto negativi. Cominciamo con la precisazione.
Ho detto che la Gioconda è un oggetto artistico di sublime efficacia e ho
liquidato quanti salutano con entusiasmo un po’ di sassi dispersi «ad arte» in
un museo come stupidi o conniventi. Devo ammettere che non è sempre così (per
quanto riguarda i sassi). Talvolta l’entusiasmo è genuino, e genuinamente
ludico. Se è vero che la fruizione di un’opera d’arte è un gioco che coinvolge
insieme i sapienti indizi lasciati dall’autore e l’attivo contributo dello
spettatore nel trasformare quegli indizi in un gioco percettivo, è anche vero
che i due elementi coinvolti in questa interazione possono esserlo in misura
molto diversa: esiste anche qui uno spettro di opzioni, che va da uno
spettatore inerte, sedotto suo malgrado, a uno invece iperdisponibile a
raccogliere ogni più remoto, implicito invito – perfino ciò che non potrebbe
essere vissuto come un invito senza tale sua immensa disponibilità. Socialmente,
molte delle persone che si collocano all’estremità benevola dello spettro sono
vittime di una posa, di una moda, di chiacchiere senza sostanza e senza
costrutto. Per noi però, qui, non importa: non stiamo facendo sociologia ma
disegnando uno spazio logico, una struttura concettuale, quindi è sufficiente
che sia possibile un’alternativa meno funesta per doverne rendere conto. E il
conto è presto reso: così come si può giocare con passione e con gioia, da
bambini, con gli oggetti più banali, e impararne fondamentali lezioni di vita,
lo si può fare da grandi con le molte banalità che popolano i musei d’arte
contemporanea. In entrambi i casi, gli oggetti con cui si gioca sono solo
minimamente responsabili dell’emozione e del piacere provati e
dell’apprendimento che ne segue. Non sono essi il principale fattore in gioco:
è lo spettatore (o il bambino) a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro.
All’estremo opposto dello spettro, oggetti come la Gioconda hanno un valore
universale in quanto sanno parlare anche a chi non è disposto a impegnarsi
personalmente per dar vita a un dialogo – sanno parlargli anche se resiste,
anche se fa di tutto per convincersi che non gli si stia dicendo nulla. Il tema
che finora è stato trascurato (o peggio) e su cui è bene spendere qualche
parola è il gioco d’azzardo. Un autore che gli attribuisce sovrana
importanza è Caillois, che se ne serve per porre un’ulteriore radicale
distinzione in campo ludico – tra il gioco infantile (e animale) e quello
adulto: I giochi d’azzardo appaiono giochi umani per antonomasia. Gl’animali
conoscono i giochi di competizione, d’immaginazione e di vertigine. In cambio,
gli animali, esclusivamente immersi nell’immediato e troppo schiavi dei loro
impulsi, non sono in grado di immaginare una potenza astratta e insensibile al
cui verdetto sottomettersi anticipatamente per gioco e senza reagire. Attendere
passivamente e deliberatamente un pronunciamento del fato, rischiare su questo
una somma per moltiplicarla proporzionalmente al rischio di perderla, è
atteggiamento che esige una possibilità di previsione, di rappresentazione e di
speculazione, di cui può essere capace solo un pensiero oggettivo e
calcolatore. Ed è forse nella misura in cui il bambino è vicino all’animale che
i giochi d’azzardo non hanno per lui l’importanza che ricoprono per l’adulto.
Per il bambino, giocare è agire. Buona parte dei giochi comunemente detti
d’azzardo può già essere inclusa nella rete concettuale che ho esposto. Nel
poker, per esempio, sia le carte che mi vengono di volta in volta offerte dal
caso sia gli avversari che affronto (e su cui amplieremo il discorso nel
prossimo capitolo) possono essere visti come condizioni oggettive del gioco,
sue regole né più né meno della particolare natura geometrica di un cubo o di
una palla; e a queste condizioni io esprimerò la mia capacità e creatività né
più né meno che se giocassi a scacchi o a calcio. Sembra rimanere totalmente
esclusa da questo ambito, però, una classe di giochi in cui non si può
manifestare nessuna capacità o creatività, in cui non si può mai migliorare,
mai diventare buoni giocatori, in cui si può solo assistere imbelli al modo in
cui la sorte gioca con noi: il lotto, la roulette, le slots... Nella maggior
parte dei casi chi «partecipa» a tali giochi, ho sostenuto in Giocare per forza
e ripetuto qui, è vittima di un imbroglio, di un asservimento truffaldino delle
sue legittime aspirazioni liberatorie a rituali il cui unico scopo è
l’estorsione di (suo) denaro; il che contrasta con l’esaltazione prometeica,
nobile, perfino mistica dell’azzardo in Caillois e altri. Hanno semplicemente
torto, questi autori? Sarebbe un errore affermarlo, e l’osservazione fatta
sopra ci permette di capire perché. Il gioco del lotto, ho detto nel sesto
capitolo, è molto vicino al grado zero di ludicità; se mantenuto a livelli
moderati, ha l’unico effetto (e senso) di causare una periodica emorragia
pecuniaria e magari saldare alcuni debiti psicologici che una persona ha con sé
stessa (o con altri). Può anche essere praticato, però, a livelli eccessivi, e
allora il suo senso cambia. Allora, su basi del tutto inconsistenti ma con
esiti non per questo meno fatali, una persona può trovarsi alle prese con un
gioco che non accetta di farsi rinchiudere entro limiti precisi, il cui ambito
invade tutti i microcosmi limitrofi e attenta a quella che è considerata la sua
vita vera – la sua sopravvivenza e il suo benessere. Depurato di ogni
altro aspetto, qui il gioco compare nella pura forma di rischio; ed è
innegabile che in esistenze ordinate e ripetitive, consuetudinarie e noiose
l’affiorare del rischio sia vissuto come il richiamo a una vocazione
dimenticata, a un impegno tradito con sé stessi. Chi sperpera le proprie
risorse puntando sui numeri del lotto, o della roulette, o sulle combinazioni
di una slot, sta dunque talvolta giocando – o meglio, direi, formulando una
solenne promessa di un gioco a venire. Ma tutto ciò non riguarda il lotto: il
lotto, in quanto tale, non ha un parametro ludico di valore abbastanza cospicuo
da poter essere considerato un gioco, così come non si può considerare alto un
nano. Con la scusa del lotto, il giocatore sta mettendosi alla prova,
rinunciando alla sua sicurezza economica, emotiva e anche familiare e
personale, chiamando in causa tutto quanto per lui appariva già deciso, già
stabilito, in attesa di un rispettoso necrologio. Siccome questo mettersi alla
prova è l’essenza stessa della vita, il fascino di un simile azzardo è
comprensibile; purtuttavia voglio insistere che, senza negare il fascino, non
siamo in presenza di un vero gioco ma (ripeto) della promessa di un gioco. Ho
detto nel quarto capitolo che la semplice trasgressione non costruisce nulla e
che far saltare in aria la propria dimora e incamminarsi nella notte può essere
il preambolo di un nuovo gioco ma non ne costituisce lo svolgimento. Il puro
azzardo va spiegato allo stesso modo: è il ripido crinale su un precipizio che
minaccia di inghiottire tutto quel che siamo e suggerisce che potremmo essere
altro, radicalmente altro. Ma non sarebbe gioco buttarsi giù per il precipizio
e non lo sarebbe rimanere immobili e attoniti sul crinale, nonostante l’intenso
brivido che entrambe le esperienze ci darebbero. Sarebbe gioco, invece,
familiarizzarsi con il crinale o il precipizio e realizzarvi un inaspettato
insediamento, o percorrere con destrezza crescente il crinale fino alla
prossima valle. Non compiacersi del brivido e del rischio, insomma, o
lasciarsene sopraffare, ma integrarli in quell’equilibrio con atti educativi e
costruttivi che Schiller giudicava manifestazione del vero impulso ludico e
della vera umanità. Un discorso analogo, ma che poco ha a che vedere con
l’azzardo, si potrebbe fare per molti di quanti giocano al lotto con
moderazione; anche loro non giocano al lotto, ma facendo finta di giocare al
lotto partecipano a un gioco sociale costituito da messaggi onirici,
numerologia superstiziosa e magia metropolitana. Un gioco che diventa un
linguaggio per una comunità, e talvolta una sfida per quella comunità
«ufficiale» che è basata su rigorose procedure scientifiche, leggi comprovate e
soprattutto «autorità competenti» sentite come estranee e predatrici. Un
ulteriore esempio, questo, di come sia necessario chiedersi, per ogni caso di
esperienza presunta ludica, A che gioco giochiamo? Il fascino e l’esaltazione
mistica dell’azzardo sono spesso legati, in autori quali Caillois e Huizinga,
all’attribuzione al gioco di una natura sacrale; è opportuno quindi chiarire la
mia posizione al riguardo. Sono d’accordo che esista un’analogia formale tra il
gioco e il sacro, in quanto entrambi sono definiti da precise barriere
(regole): «Formalmente la nozione di delimitazione è assolutamente una e
identica per un fine sacro o per un puro gioco» (Homo ludens). E sono d’accordo
che ci sia un’altra analogia fra la presenza dell’azzardo (del rischio) nel
gioco e nel sacro: L’esito del gioco d’azzardo è di natura una sacra decisione.
Lo è ancora laddove un regolamento dice: a parità di voti decide la sorte. Solo
in una fase progredita dell’espressione religiosa, sorge la nozione che verità
e giustizia si manifestano perché un dio guida la caduta dei dadi o la vittoria
nella lotta. Giurisdizione e ordalìe sono radicate insieme in una pratica di
decisione propriamente agonale, ottenuta sia con un sorteggio sia con una
lotta. La lotta per vittoria o perdita è sacra per se stessa. Quando è animata
da concetti formulati di giustizia e di ingiustizia, allora si eleva nella
sfera giuridica, e quando è dominata da concetti positivi d’una forza divina,
allora si eleva nella sfera della fede. Qualità primaria di tutto questo è però
la forma ludica. La mia coscienza laica si rifiuta di andare oltre. Uomini e
donne giocano in ogni sfera della loro esistenza; in particolare, esistono
sacerdoti scherzosi e autori come Gilbert Chesterton che parlano della
religione come di una forma suprema di umorismo. Ma esiste anche un sacro che è
oppressione e nevrosi, gerarchia e cieca obbedienza, nel quale vedo ben poco di
ludico; e c’è un gioco che è sberleffo fatto a Dio (pensate alla morte del
Perozzi/Philippe Noiret in Amici miei) e violazione della barriera o del
recinto che ci rinchiudono – sacri o meno che siano. Perché il legame fra
gioco e sacro possa apparire convincente bisogna appunto insistere sull’azzardo
come elemento più autentico del gioco e quindi spingerlo all’estremo, finché
diventi l’Azzardo con la A maiuscola di Abramo o di Pascal. E l’azzardo così
concepito e vissuto ha un effetto paralizzante, che può essere riscattato solo
da un intervento esterno: da un’entità trascendente che ci conferisca
arbitrariamente una grazia. Non voglio negare che la grazia e l’abbandono a
essa ci salvino (anche se, per me laico, è la grazia che l’un l’altro ci
facciamo); ma in questa rarefatta atmosfera oracolare non trovo più nulla della
serena intraprendenza, dello sforzo ingegnoso, del piacere insolente e, sì, del
brivido presto dominato e a sua volta goduto che tessono per me la trama del
gioco. 9. Compagni di gioco Torniamo ancora una volta alla bimba che
gioca in una stanza. Il suo gioco incontra resistenze, ho detto, che ne
definiscono lo sfondo e ne articolano le regole. Nel modo in cui ho descritto
la situazione finora, le resistenze sono offerte da quelli che comunemente
denominiamo oggetti: le pareti, la palla, la spillatrice. Immaginiamo però ora
di introdurvi un altro essere umano: affianchiamo alla bimba Sara un coetaneo
di nome Tommaso e osserviamoli mentre giocano insieme. In un certo senso,
Tommaso e la palla presentano gli stessi problemi. Anche di Tommaso bisogna
tener conto, come della palla. La palla non vuol saperne di rimanere in
equilibrio sul cubo e Tommaso non vuol saperne di dare la palla a Sara, quando
l’ha afferrata dopo l’ennesimo scivolone dal cubo. In entrambi i casi, questi
inconvenienti possono causare violente frustrazioni (nel caso della palla, come
abbiamo visto, Sara potrebbe fare i capricci; con Tommaso potrebbe litigare)
oppure con entrambi si può arrivare (magari dopo una successione di capricci e
litigi) a una pacifica convivenza. Se e quando ci si arriverà, Tommaso incarnerà
un ulteriore insieme di regole cui il gioco deve adeguarsi, un ulteriore
insieme di spigoli esistenziali da scansare con abilità, manipolandoli come si
fa con gli spigoli fisici di una scatola o con la rotondità della palla. Il
comportamento di Tommaso diventerà parte della struttura che Sara imparerà a
riconoscere e sulla quale il suo gioco eserciterà pressione, traendone lezioni
di grande influsso su giochi futuri. (I maschi sono prepotenti, concluderà per
esempio Sara, ma facilmente distratti. Tommaso stringe tanto forte la palla
proprio perché io mostro di volerla per me. Basta non farci caso, dedicarmi
interamente a qualcos’altro, e la lascerà andare.) Nel quarto capitolo ho
citato un passo in cui Piaget giudica impossibile che un bambino si dia regole
da solo. Per il tramite di Émile Durkheim, secondo cui la religione nasce dalla
pressione del gruppo sull’individuo («Il gruppo [...] non potrebbe imporsi
all’individuo senza rivestire l’aureola del sacro e senza provocare il
sentimento dell’obbligo morale», Il giudizio morale nel bambino, p. 98), questo
giudizio lo porta a collegare una volta di più il gioco e il sacro: La
regola collettiva è dapprima qualche cosa di esterno all’individuo e per
conseguenza di sacro, poi a poco a poco si interiorizza ed appare come il
libero prodotto del consenso reciproco e della coscienza autonoma. Ora, per ciò
che riguarda la pratica, è naturale che al rispetto mistico della legge
corrisponda una conoscenza ed un’applicazione ancora rudimentali del loro
contenuto, mentre al rispetto razionale e motivato corrisponda una conoscenza
ed una pratica dettagliate di ogni regola. Una volta di più, non sono
d’accordo: il bambino, come ho spiegato, può darsi regole da solo purché queste
siano viste come regole con il senno di poi di chi ricostruisce
retrospettivamente il suo sviluppo. Eppure, per una via che Piaget non
approverebbe, anch’io arriverò a concepire una forma di comunità come
condizione, se non proprio necessaria, almeno predominante di ogni gioco, che
per me è quanto dire di ogni gioco regolamentato: non tanto la comunità di cui
parla lui, costituita spesso da figure autoritarie che decretano le regole
(«Dal momento in cui un rituale viene imposto ad un bambino da adulti o da
ragazzi maggiori per i quali egli ha del rispetto oppure da quando un rituale
risulta dalla collaborazione di due bambini, esso acquista per la coscienza del
soggetto un carattere nuovo, che è precisamente quello della regola», pp.
27-28), quanto piuttosto la comunità del suo teatro interiore. L’itinerario cui
ho appena accennato includerà questo capitolo e il successivo, e il suo primo
passo consiste nel notare che le situazioni descritte finora non equivalgono a
un giocare insieme. L’espressione «Sara gioca con Tommaso», e in generale «X
gioca con Y», può infatti essere intesa in due sensi piuttosto diversi. Quello
che ho descritto è il senso in cui Sara gioca con Tommaso come gioca con la
palla, o un adulto che disponesse di grande potere (e si compiacesse di averlo,
e di darne prova) potrebbe giocare con i suoi simili come se fossero pedine
della dama o birilli del bowling: il «con» in tali casi introduce un
complemento di mezzo. È anche possibile, e auspicabile (vedremo perché), che il
«con» introduca un complemento di compagnia: che Sara giochi con Tommaso, o un
adulto meno squallido di quello immaginato prima giochi con i suoi simili, nel
senso che Tommaso o gli altri adulti siano non elementi o pezzi ma compagni del
gioco. Che cosa succede quando si manifesta questa seconda possibilità? Per capirlo,
stabiliamo che un gioco sia costituito da una serie di sfide rivolte
all’ambiente (inteso sempre come ambiente esistenziale, non soltanto fisico,
quindi inclusivo di abitudini e aspettative), ciascuna produttrice di una
figura possibile ma di solito non realizzata in quell’ambiente. Il letto è
fatto per dormirci sopra e io (con grande fatica) mi ci infilo sotto;
l’interruttore è fatto per tenere la luce accesa o spenta e io lo manovro in
continuazione causando un costante lampeggiare (e, a lungo andare, fulminando
la lampadina); il tavolinetto è fatto per appoggiarci bicchieri e tazzine
e io lo uso come scalino per arrampicarmi sulla credenza. Quando un gioco è
praticato insieme da due o più compagni, quando cioè due o più persone presenti
al gioco vi sono presenti come giocatori, non come pezzi del gioco (o come
spettatori), ciascuno contribuisce ad accrescere il repertorio di sfide di cui
il gioco è costituito. Le sfide anzi si accavallano le une sulle altre: se
Tommaso usa il tavolinetto per arrampicarsi sulla credenza, Sara ci metterà
sopra un paio di grossi libri perché si riesca a salire più in alto; se Sara
s’infila sotto il letto, Tommaso vi trascinerà anche palle e cubi, e tenterà di
replicarvi tutte le evoluzioni che riuscivano più facili all’aperto. Con tanta
inventiva a disposizione, capiterà che qualche sfida sconvolga le resistenze
accettate come regole dai giocatori e cambi la natura del gioco. D’accordo che
la porta è chiusa e le pareti non retrocedono; ma, guarda un po’, se spingi
questa levetta la finestra si apre e tuffandosi oltre il davanzale si esce in
giardino! Ho detto che «costruire figure» è un’espressione metaforica; talvolta
però il gioco costruisce in senso letterale. Seguiamo uno di questi episodi per
un attimo, perché si tratta di un tipo di costruzione che in seguito acquisterà
notevole importanza. Spostiamo Sara e Tommaso (più grandicelli) su una spiaggia
e osserviamoli mentre edificano un castello di sabbia. L’idea generale è
semplice: si scava, con le mani o con la paletta, e si usa il secchiello pieno
di sabbia umida per innalzare torri o il rastrello per raccogliere sabbia a
forma di mura. Se un solo bambino fosse responsabile dell’operazione,
lavorerebbe eccitato per un po’ e quindi forse rimarrebbe a corto di idee e si fermerebbe,
contento di rimirare il risultato; in due, invece... Uno pensa che con il
secchiello si può raccogliere acqua dal mare e circondare il castello con un
fossato; l’altra s’industria immediatamente a metterci sopra un rametto a mo’
di ponte, e il primo allora va in cerca di una corda perché il ponte diventi
levatoio. Una si serve di una pietra per rappresentare il portone e l’altro
ricopre il palazzo e le mura di finestre e feritoie, e allora la prima fa
sporgere armi dalle feritoie, puntandole contro il nemico. Ogni nuova idea che
l’uno offre cambia il contesto in cui il gioco si muove, e nel contesto così
mutato «viene naturale» all’altra un’altra idea, che a sua volta cambia il
contesto aprendosi a ulteriori avventure, in una rincorsa ininterrotta di
coraggio e creatività. Un gioco coinvolge un certo numero di oggetti (talvolta
puramente mentali, o ideali), che il gioco usa entro limiti accettati come sue
regole, e ha almeno un soggetto che conduce la manipolazione: ha almeno un
giocatore. Gli oggetti possono essere inanimati, animati o anche umani; il
soggetto sembra dover essere animato (cani e gatti giocano, con gomitoli
di filo, con topi o con i loro padroni; al termine del libro suggerirò – già vi
avevo accennato – che la restrizione a soggetti animati, e forse la distinzione
stessa fra enti animati e non, sia da mettere in discussione). Un gioco che
abbia un solo soggetto sarebbe un solitario, e nel prossimo capitolo mostrerò
come gli autentici solitari siano rarissime eccezioni; ora m’interessa
elaborare un altro punto, illustrato dalla discussione condotta qui sopra. Un
gioco che non sia un solitario risponde infinitamente meglio alla sua natura di
gioco, così come due specchi paralleli dànno luogo a infinite riflessioni,
perché moltiplica le opportunità di trasgressione ed esplorazione, di
apprendimento e relativo piacere, permettendo a ognuno dei partecipanti di
trarre spunto dal contributo degli altri per mosse più libere e devianti di
quanto lui mai sarebbe riuscito a scoprire da solo. C’è però un risvolto meno
edificante della faccenda: se è vero che un gioco giocato insieme è più un
gioco di uno giocato in solitudine allora è anche vero che un gioco giocato
insieme è più pericoloso di un solitario. Quando prima ho parlato dei due bimbi
che, riunendo le loro forze, riescono a spalancare la finestra, molti avranno
rabbrividito e io mi sono affrettato a rassicurarli facendo capire che si
trattava di una finestra al pianterreno. Ma il problema era solo rimandato, non
risolto, perché è chiaro che i bambini di un altro esempio (come alcuni bambini
reali, diciamo il figlio di Eric Clapton) potrebbero fare la stessa scoperta ai
piani alti di un grattacielo, con esiti disastrosi. Il rischio continua, e anzi
si accentua, fra gli adulti, soprattutto fra i giovani adulti, che sovente si
trovano spronati dall’essere in gruppo a mosse devianti che ne mettono a
repentaglio l’incolumità (o la salute altrui) – e che non compirebbero isolati.
Ogni genitore avrà considerato eventualità del genere e molti, purtroppo, hanno
dovuto affrontare non il timore di un’astratta considerazione ma il dolore di
una concreta tragedia, non potendo capacitarsi di come il loro «bravo ragazzo»
(o brava ragazza) avesse potuto lasciarsi trascinare dalle «cattive compagnie»
a comportamenti distruttivi o criminali, e per lui (o lei) del tutto anomali,
addirittura irriconoscibili come suoi. Non intendo certo negare l’intensità o
la validità di tali preoccupazioni e sofferenze (sono un genitore anch’io), ma
insisto sulle tre tesi seguenti: (a) Le varie caratteristiche del gioco ne sono
componenti organiche e vitali, quindi il gioco va preso (o rifiutato) in
blocco, tutto insieme. Esplorazione e apprendimento non possono essere
disgiunti da violazione e rischio (per quanto il rischio possa essere ridotto
giocando «per procura»). Il gioco è prezioso per la nostra forma di vita (direi
anzi per la vita in quanto tale), ne è una componente irrinunciabile: meno
gioco vuol dire meno umanità. (c) Il gioco è tanto più gioco se giocato
insieme, quindi (in ossequio alla formula aristotelica che fa dell’uomo un
animale sociale) siamo tanto più umani quanto più giochiamo con altri (dove il
«con» introduce un complemento di compagnia). Come gestire allora i pericoli e
i timori di cui ho detto? La mia risposta si applica in generale a tutti i
rischi in cui il gioco (anche solitario) incorre e a tutti i mali che può
causare: per proteggersene è opportuno non meno ma più gioco, e non meno ma più
gioco fatto insieme. Un ragazzo che sia stato troppo a lungo «bravo» e poco
avvezzo alla compagnia e all’esempio di altri sarà facilmente travolto dalla
prima circostanza in cui si ritrovi in un gruppo che agisca in modo
trasgressivo ed eccitante: per prepararlo a vivere questa circostanza con un
minimo di ragionevolezza nulla funziona meglio di una socializzazione ludica
precoce e continua, che lo metta in grado di riconoscere gli straordinari
vantaggi ma anche le trappole di una reazione a catena che può tanto riscaldare
le nostre emozioni e il nostro ingegno quanto bruciarli. L’unica cosa che mi ha
dato fiducia, quando ho pensato ai miei figli in tali circostanze (e in mia
assenza) è stato il fatto di sapere che in circostanze analoghe (pur se meno
estreme) c’erano già stati, in tempi in cui potevo ancora evitarne le
conseguenze più gravi. Il gioco dunque, e in particolare il gioco in compagnia,
è, direbbe Huizinga, «innegabile» (p. 20). Stabilita questa tesi, è il momento
di affrontare un aspetto del gioco che finora ho tralasciato e che per molti ne
è invece (come per altri l’azzardo) caratteristica essenziale: il fatto che
esso si presenti come competizione, come scontro, come lotta. In Giocare per
forza ho parlato di teoria dei giochi, come uno dei vari modi in cui il gioco è
violato e la sua natura distorta. La teoria dei giochi ha avuto origine
definendo «gioco» un’attività competitiva in cui si affrontano avversari con
l’obiettivo di batterli – di vincere quel che loro perdono (la teoria lo chiama
un «gioco a somma zero») – e su questa base ha conosciuto fortunate (e
sciagurate) applicazioni in politica e in economia. (Solo più recentemente ha
cominciato a studiare anche i giochi cooperativi, in cui i giocatori vincono
insieme.) In modo analogo, Piaget afferma che i giochi regolamentati (i quali,
come abbiamo visto, non esauriscono per lui tutti i giochi) sono
necessariamente competitivi e hanno necessariamente come obiettivo la sconfitta
di uno o più avversari: i giochi di regole sono giochi di combinazioni
sensorio-motrici o intellettuali con competizione degli individui (senza di che
la regola sarebbe inutile) e regolati sia da un codice trasmesso di generazione
in generazione sia da accordi momentanei (La formazione del simbolo nel
bambino, p. 209; corsivo aggiunto). il gioco di regole [...] è ancora soddisfazione
sensorio-motrice o intellettuale e, inoltre, tende alla vittoria
dell’individuo sugli altri. È un sintomo rivelatore del diverso atteggiamento
espresso dalla mia teoria che le nozioni di avversario, di competizione (o
combattimento) e di vittoria non vi abbiano una dignità autonoma o un senso
unitario: in esse s’incontra ambiguamente una pluralità di esperienze distinte,
fra cui è bene non fare confusione. Per capirci, supponiamo che io giochi a
tennis con qualcuno. Posso giocarci come con uno spigolo o una parete: dopo un
certo numero di tentativi ed errori, capirò come avere la meglio e ripeterò
religiosamente (a proposito del sacro, e di quanto spesso non sia ludico) le
stesse mosse – quelle che hanno dimostrato di «funzionare. Smetterò di esplorare,
di trasgredire, di correre rischi e quindi di imparare; il mio non sarà più un
gioco. Posso anche, però, entrare in un dialogo con l’altro giocatore in cui
ciascuno inciti l’altro a mosse ignote e avventate, per vedere che cosa càpita,
e prima o poi l’ignoto diventerà familiare e ciò che era avventato verrà
eseguito con maestria; starò allora giocando con un compagno e traendone tutta
la ricchezza di stimoli, l’inventiva e la soddisfazione che sempre derivano dal
giocare insieme. Oppure posso fare l’una o l’altra cosa per ottenere poi (c’è
di solito uno scarto temporale, in tal caso: il gioco è stato piegato alla
logica di una prudente e oculata gestione delle proprie risorse) un premio in
denaro o una fama di ottimo tennista; di conseguenza, se pure esploro e mi
metto alla prova, corro rischi e imparo, quello non è un gioco perché ha un
fine strumentale ed esterno (oppure è un gioco solo in quanto riesce ad
affrancarsi da questo fine esterno e a liberarsi, magari inconsapevolmente,
dalla logica della prudenza). La percezione del mio «avversario», in questi
diversi casi, sarà molto diversa, e sarà molto diverso che cosa voglia dire
«combattere» o «vincere». Nel primo caso si combatterà e si vincerà
letteralmente: si affronterà un altro e lo si ridurrà in proprio potere,
perpetuando i sinistri riti della violenza (più o meno simbolica). Nel secondo
caso si combatterà per fare un passo avanti nel gioco e si vincerà se si
riuscirà a farlo; potrei dire che si combatterà con (e si vincerà su) sé
stessi, salvo che, come appunto spiegherò nel prossimo capitolo, si è raramente
soli quando si gioca, quindi preferisco dire che i due giocatori combatteranno
e vinceranno insieme superando lo stadio che il gioco aveva prima raggiunto per
ciascuno di loro. Nel terzo caso questa opportunità di crescita, e il
contributo che le dànno la presenza e l’azione del compagno, saranno a loro
volta asserviti alla volgarità e alla miseria dell’esercizio del potere
sull’altro – che può non essere il compagno stesso, il quale può fungere
invece da complice (da allenatore, per esempio). Non c’è nulla di oggettivo o
di neutrale, in conclusione, nel chiedersi chi sia il mio avversario in un
gioco o chi alla fine abbia vinto. Se queste domande sono intese nel modo più
comune, e sancito dalla più tradizionale teoria dei giochi, ciò che ne traspare
è un’istanza maligna che nega al gioco la sua libertà, il suo abbandono e anche
il suo specifico piacere (che non è quello di abbattere e umiliare un altro
giocatore). Dobbiamo cogliere l’ambiguità e – qui davvero, e nel senso più
ovvio – combattere perché il gioco non ne esca con le ossa rotte. 10.
Azione! Il gioco che più appassiona i bambini è quello di impersonare chi li
circonda, soprattutto chi li incuriosisce o li attrae (in senso positivo o negativo).
Talvolta mimano attività in cui hanno visto occupati i protagonisti del loro
universo familiare – genitori, zii, fratelli maggiori. Li vediamo allora
affaccendarsi intorno a finti fornelli, sgridare una bambola che fa le bizze,
distendersi su una sedia abbandonati alle cure di un «parrucchiere»; la mia
figlia più piccola, quando aveva da poco imparato a parlare, riempiva quaderni
di geroglifici incomprensibili e, a chi le chiedesse che cosa stava facendo,
rispondeva con sussiego «Faccio i compiti». Talaltra ricalcano con imbarazzante
fedeltà gli atteggiamenti, le espressioni, i manierismi di un altro: li vedi
corrugare la fronte, spingere avanti il petto, usare parole e frasi
idiosincratiche in un modo così sfacciato ed estremo (proprio per la sua
innocenza) che non può non sembrare caricaturale e invitare al sorriso (ma vedi
più avanti). Il tutto culmina in manifestazioni molto appariscenti: le
mascherate con lenzuola e tovaglie davanti allo specchio, le facce dipinte con
colori di guerra, le vite alternative vissute con amici, parenti e spesso figli
immaginari. Le feste commerciali rivolte a pratiche analoghe e destinate a
rinvigorire periodi di stanca del mercato – il vecchio carnevale, il più
recente Halloween – non sono che citazioni esauste di tanta passione,
sensibilità e allegria. Gli adulti non sono da meno. L’umanità, ho sostenuto
altrove, non è che una forma superiore (cioè più raffinata, più articolata) di
scimmiottamento: tutti riceviamo frammenti di personalità da amici del cuore,
sconosciuti intravisti una volta sul tram, artisti di successo o anche
individui odiosi e ributtanti ma tali da imporsi alla nostra attenzione, sia
pure per un minuto. E niente ci dà più piacere dell’inscenarli in una
pantomima: complici una buona bevuta o una situazione di alto tenore emotivo,
imitiamo con gusto, con abilità, con estrema attenzione ai dettagli. Il momento
migliore di Djokovic, secondo me, non è stato uno dei suoi servizi fulminanti o
dei suoi incredibili recuperi difensivi, e neppure uno dei tanti trionfi nello
Slam o nella Coppa Davis: si è verificato in uno dei primi turni di Flushing
Meadows, qualche anno fa, quando ancora aveva vinto poco e a un tratto,
prima di una partita, dilettò il pubblico copiando con sorprendente precisione
i tic in fase di battuta di Nadal e Sharapova. Il piacere che ne provarono gli
spettatori era analogo a quello di cui ho parlato nel settimo capitolo,
esaminando il rapporto fra un artista e il suo pubblico: l’artista crea e noi
ne riconosciamo l’azione perché abbiamo in noi la capacità (magari latente) di
vedere o ascoltare quel che lui vede o ascolta (e quindi mostra); l’attore
«entra» in un personaggio e noi ne godiamo perché comprendiamo che cosa voglia
dire entrarci. Nell’antica Atene la naturale teatralità dell’essere umano era
non solo praticata e apprezzata: in un mondo privo di scritture sacre in cui
sentenze e parabole erano raccolte dai testi poetici, drammaturghi e
commediografi dominavano la vita culturale. Da ciò Platone si dissocia con
severità nella Repubblica, bandendo ogni rappresentazione teatrale dal suo
Stato perfetto. Anzi, non proprio ogni rappresentazione: il filosofo ha una sua
teoria in proposito, e ragionarne ci aiuterà a proseguire nel nostro cammino.
La teoria si compone di due tesi principali, una descrittiva e una normativa.
In primo luogo, Platone sostiene che ogni recita ha delle conseguenze sul
carattere di un individuo: assumere un ruolo significa identificarsi, per
quanto parzialmente e temporaneamente, con quel ruolo, e l’identificazione
lascerà tracce nella nostra identità – la contaminerà con le caratteristiche
del personaggio di cui ci siamo presi carico. Da allora in avanti, volenti o
nolenti, non saremo più soltanto noi stessi: avremo incorporato un estraneo che
continuerà ad abitarci, anche se forse in sordina e in disparte. Questo
estraneo potrebbe essere un criminale o un mostro: pensiamo a Ganz che recita
la parte di Hitler nel film La caduta, oppure a Medea o Riccardo III. Ma
potrebbe essere Gandhi interpretato da Ben Kingsley, o Atticus Finch
interpretato da Gregory Peck, o semplicemente una brava persona come il Mr.
Smith di James Stewart che va a Washington a dire la sua. Qualcuno vorrebbe
fare delle differenze fra questi casi: può essere pericoloso imitare un
malvagio, direbbe, ma non c’è nulla di preoccupante nel farlo con individui
normali, o addirittura encomiabili. Qui interviene la seconda tesi di Platone,
quella normativa, che stigmatizza non solo la cattiveria ma ogni forma di
diversità: ciascuno dei cittadini della repubblica è «tagliato» per uno
specifico compito, cui deve assolvere con la pazienza di una formichina, e
qualunque attività possa distrarlo da tanta devozione va rifuggita come la
peste. Bando a ogni passione estranea, dunque; bando a ogni musica ritmata e
suggestiva; e bando soprattutto all’infezione che il contatto con ogni
altra indole, con ogni altro repertorio di mosse e di abitudini potrebbe
causare in un individuo così letteralmente «tutto d’un pezzo». Se pure si
trovasse su un palco, davanti a un pubblico, il nostro eroe non dovrebbe che
recitare monologicamente, monodicamente e (diciamolo!) monotonamente sé stesso,
per confermare e rafforzare quella coerenza inesorabile del suo io che sarebbe
invece attenuata e imbastardita dall’affiorare di impulsi e gesti alieni (e
queste sono le uniche rappresentazioni teatrali ammesse da Platone nella sua
repubblica). Ho già detto che in questo libro eviterò perlopiù i discorsi
normativi. Sono in totale disaccordo con i valori enunciati da Platone, ma
caliamoci sopra un velo e limitiamoci a una considerazione. La repubblica
ideale sarà forse di casa nel mondo della realtà più autentica, quella
illuminata dal sole che i prigionieri della caverna non vedono; nella caverna,
però (dove i prigionieri, varrà la pena di notare, sono continuamente testimoni
di uno spettacolo, anzi di uno spettacolo fatto di ombre, un vero e proprio
antesignano del cinema), domina non quella realtà, con tanto di noiosa
conformità alle proprie tendenze e funzioni e «sano» orrore per ogni tentazione
ad allargarne l’ambito, ma invece l’«apparenza» difettosa e biasimevole di cui
Platone ci ha appena dato una brillante descrizione. Ciascuno di noi (nel mondo
terreno) non fa che scimmiottare e scopiazzare il suo prossimo, e l’operazione
(Platone insegna) non è innocua: nel compierla, ciascuno di noi diventa un po’
il suo prossimo, lo incarna, fa del suo corpo un palcoscenico su cui l’altro
può giocare il suo ruolo. È una delicata questione metafisica se, quando un
attore recita un personaggio, faccia appello a qualcosa che gli appartiene o si
adegui a un modello esterno; anche a tale riguardo ho le mie idee e le passerò
qui sotto silenzio. Perché in ogni caso la pratica di un attore e di tutti noi
in quanto attori, in quanto osservatori e imitatori della molteplicità, umana e
non, che abbiamo intorno, è sempre la stessa: che il germe di un personaggio ci
ingravidi a sorpresa con una sua forma che possiamo solo accogliere
passivamente, come avrebbe detto Pirandello, o giaccia invece sepolto negli abissi
della nostra psiche, come avrebbe detto Stanislavskij, l’unico modo per far
crescere tale germe, per attualizzarne la possibilità, per farlo venire al
mondo, consiste nel prestare attenzione a come si è sviluppato ed è maturato in
altri, nell’emulare questi altri passo passo, nel rifletterne movenze ed
espressioni – forse inconsapevolmente ma efficacemente. E magari facendo loro
violenza, perché riduciamo la loro complessità a un ritratto in filigrana, a
una singola voce che arricchisce il nostro coro, o perché perdiamo di vista
il loro significato schiacciandolo su uno schema puramente motorio. Come
farebbe un bambino: il bambino che rimane dentro di noi e lì non cessa di
godere del suo gioco più intenso e appassionante. (Un gioco che, sia detto fra
parentesi, spesso finisce per indispettire quel che c’è di più platonico negli
adulti: quando un bambino fa il verso a qualcuno, è facile passare dal
divertimento e dalla tenerezza all’irritazione e al rimprovero.) La recente
scoperta dei neuroni specchio ha dato dignità scientifica a questa intuizione:
gli esseri umani si riflettono l’uno nell’altro e si capiscono perché vivono
sia pur vicariamente, sia pure in modo traslato le medesime esperienze. Io so
quel che fai perché mentre lo fai in certa misura (come preparazione all’atto,
non come atto vero e proprio, e comunque in senso appunto solo motorio) lo
faccio anch’io: mi atteggio e mi dispongo come vedo fare a te, e con tali
atteggiamenti e disposizioni sono in grado di seguirti nel tuo percorso. La prossima
volta forse, in tua assenza, saprò inoltrarmici da solo. Incontriamo così di
nuovo la biologia e di nuovo stupiamo dell’avvedutezza con cui un piacere tanto
vivo è associato a una qualità di grande importanza evolutiva. L’essere umano
(ci ricorda ancora Aristotele) è un animale sociale: non si realizza, non
diventa quel che dovrebbe essere se non in comunità con altri esseri umani,
traendone esempio e stimolo per foggiare il suo comportamento. La microfisica
dell’umanità, dunque, l’atto elementare che, costantemente ripetuto e
ricombinato in mille forme con sé stesso, ci rende umani, è il modesto miracolo
dell’imitazione di un esempio. Di alcuni di questi atti saremo intimamente
consapevoli: guarderemo ai loro archetipi con venerazione e sentiremo un profondo
impegno nei loro confronti; ne riceveremo ispirazione e indimenticabili modelli
di vita e di saggezza. Ma casi tanto sublimi non avrebbero luogo (né lo
avrebbero le mode che con stanca regolarità uniformano un’intera generazione a
uno stereotipo) senza l’umile sottobosco del rispecchiamento quotidiano: di
quegli impercettibili aggrottamenti di sopracciglia, torsioni del naso, accenti
peregrini con cui ci riscopriamo bambini impertinenti. Quel nostro aspetto così
serio e edificante ci è possibile perché da piccoli abbiamo giocato e da grandi
abbiamo continuato, spesso nostro malgrado, a giocare, a impersonarci l’un
l’altro. A impersonare anche i malvagi, perché anche da loro c’è da apprendere,
fosse solo per rimanerne alla larga: nel dramma della vita, insegna Plotino,
servono anche i cattivi caratteri, per dare la massima completezza all’insieme.
C’è di più. Quello dell’imitazione non è solo uno dei tanti giochi che,
inaugurati con aspetto dimesso nell’infanzia, sanno crescere con l’età fino
a raggiungere splendide vette. È la base che sottende tutti i giochi, il
materiale di cui ogni altro gioco si nutre. Per capirlo, torniamo sui nostri
passi e riprendiamo in esame un contrasto che avevo segnalato nel capitolo
precedente (suggerendo che potesse risultare poco significativo): quello tra
giochi solitari e giochi fatti in compagnia. Chiediamoci: esistono davvero, i
solitari? Tanto per cominciare, un bambino non giocherebbe affatto se non fosse
coinvolto in un ambiente emotivo in cui si sente (comunque stiano concretamente
le cose) in compagnia di qualcuno, sotto gli occhi (benevoli) di qualcuno. «Il
“bambino in carenza”» dice Winnicott «è notoriamente irrequieto ed incapace di
giocare. Questo perché «il gioco implica fiducia e appartiene allo spazio potenziale
tra (quelli che erano in origine) il bambino e la figura materna, con il
bambino in uno stato di dipendenza quasi assoluta e la funzione adattativa
della figura materna presa dal bambino per scontata» (p. 90; traduzione
modificata). In termini epigrammatici, «il bambino è solo soltanto in presenza
di qualcuno. Che dire allora dell’adulto? Osserviamo una situazione in cui io
stesso sono occupato in un gioco senza altri partecipanti o testimoni, magari
in uno di quei giochi di carte che si chiamano proprio «solitari», e poniamoci
riguardo a questo particolare episodio la stessa domanda formulata sopra: sono
davvero solo, mentre gioco? Posso immaginare circostanze in cui la risposta sia
«Sì», ma si tratta di circostanze aberranti, eccezionali. Se giocassi
automaticamente, pensando ad altro, potrebbe capitarmi di fare una mossa a caso
e poi, ritornato improvvisamente in me stesso, rendermi conto che la mossa è
vantaggiosa e acquisirla come strategia consapevole, perfino abituale. Oppure
la casualità potrebbe essere frutto di disperazione: le ho provate tutte e
niente funziona, quindi provo una mossa assurda, che assurdamente funziona.
Circostanze del genere non sono da escludere: anche un comportamento
individuale obbedisce alle leggi dell’evoluzione, dunque non è escluso che in
esso si verifichino mutazioni stocastiche. Ma non è così che il mio
comportamento si evolve nella maggior parte dei casi. Quasi sempre mentre gioco
«da solo», prima di fare una mossa, io esploro più o meno sistematicamente e
consciamente una serie di alternative, e ne traccio almeno per un po’ le
conseguenze, cioè mi colloco, colloco svariati «me stesso», in un certo numero
di mondi possibili – ciascuno contraddistinto da una particolare mossa – e
confrontando fra loro queste diverse eventualità decido infine quale sia la
mossa da fare, o il mondo possibile da abitare davvero. I vari me stesso
coinvolti nel processo di deliberazione appena descritto avranno caratteri
diversi: qualcuno sarà più audace e qualcun altro più cauto, ci sarà chi
ama le carte rosse e chi le nere, chi non si dà pace se non saltano fuori
presto i re e chi è disposto a lasciarli nel mazzo fino all’ultimo; e a loro
volta tutti questi diversi caratteri li avrò mutuati, in generale, da persone
che ho incontrato, da cui ho tratto lezioni e le cui lezioni adatto alla
situazione in cui mi trovo, selezionando quelle che mi sembrano più opportune.
Insomma, se conduco il gioco in quel modo specifico è perché altri, le cui
mosse e strategie ho incorporato, stanno giocando con me (complemento di
compagnia) e aiutandomi a vedere la situazione in tanti modi diversi – a
metterla appunto in gioco. La morale di questo discorso è che gli autentici
solitari sono, come già accennavo, rarissimi. Succede assai raramente che
quello spostamento di prospettiva, quell’esplorazione di terreni non altrimenti
battuti, quella violazione di quanto è noto e consueto che costituiscono il
gioco mi arrivino dal nulla, non abbiano a fondamento che un mio cieco
arbitrio. Quel che succede più di frequente, invece, è che gli apparenti
solitari (e le apparenti «idee originali» con cui dò un contributo «creativo» a
un gioco fatto con altri) siano giochi fatti in compagnia di persone
fisicamente assenti ma ben presenti nella mia pratica. E come ottengono la loro
presenza tali persone assenti? Ho usato la parola «incorporato» poco fa,
applicando la stessa metafora di quando prima ho parlato del fare del nostro
«corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo» (e prima ancora
ho espresso il rifiuto platonico di questa forma di metabolizzazione del nostro
prossimo): la presenza degli assenti si ottiene imitandoli – scimmiottandoli
oppure atteggiandosi e disponendosi come loro secondo il modello dei neuroni
specchio. Fatta salva la sporadica occorrenza di mosse devianti e ludiche che
emergano dal puro caso, l’imitazione è la madre di tutti i giochi: ogni altro
gioco si svolge su una scena che il gioco dell’imitazione ha popolato di
personaggi e storie. Ho sempre trovato affascinante il fatto che la battuta che
dà inizio a ogni ripresa cinematografica sia «Azione!». A prima vista, la
battuta non ha senso: quel che la segue non è un’azione; al massimo la
rappresenta; coloro che vi «agiscono» non stanno facendo quel che pretendono di
fare, e tutti lo sanno – loro stessi, il regista, il pubblico. Perché
«Azione!», allora? Ci saranno senz’altro motivi contingenti che hanno dato
origine alla battuta, ma non m’interessano; m’interessa invece che sia rimasta,
perché se è rimasta il motivo è, ritengo, che c’è in essa una profonda,
illuminante giustizia. Nella rivoluzione concettuale proposta nel quinto e
sesto capitolo la vita umana era intesa come un insieme di giochi più o meno
regolamentati, più o meno vincolati a parametri fissi, e per converso più
o meno espressione di libertà; il gioco era la norma e le attività solitamente
giudicate serie erano giochi ristretti e limitati. Qui possiamo arrivare alla
medesima radicale costellazione di idee per una strada diversa (in un
labirinto, strade diverse ci portano spesso a un’identica meta). Che cos’è
un’azione? È corsa sul posto, routine, acquiescenza a ogni abitudine e
aspettativa? È ripetizione del già agito? Forse, ma solo nel senso della
straordinaria intuizione kierkegaardiana per cui l’unica vera ripetizione sarebbe
una novità, e le stesse cose non sono mai le stesse cose. Nel comune senso
della parola, invece, nella comune ideologia che informa il senso della parola,
una ripetizione non è un’azione. Il mio computer non agisce quando applica alla
lettera (ripetutamente) le istruzioni che gli ho dato: tutto quel che c’era da
fare l’hanno fatto le istruzioni, il computer non «fa» che confermarle. Solo
una mossa che cambia qualcosa, che stupisce, che scombina le carte è un’azione,
solo allora siamo attivi. Quindi solo il parametro ludico del nostro
comportamento lo costituisce come azione, nella misura in cui si manifesta.
Solo il gioco è azione. Ma è nella teatralità, ho detto, che il gioco trova il
suo humus, il terreno fertile sul quale crescere, e una produzione cinematografica
ha il pregio di mostrarci questa teatralità ridotta a scene elementari, a
quella che ho chiamato la microfisica dell’umanità, il modesto miracolo
dell’imitazione di un esempio. Niente più di tale costante e ripetuto (!)
miracolo merita di essere annunciato con «Azione!». 11. Giochi di parole
A questo punto del nostro percorso ci troviamo davanti a un abisso, non meno
impervio e minaccioso di quello che nel canto XVII dell’Inferno separa Dante da
Malebolge, e che il poeta e la sua guida riescono a superare solo aggrappandosi
a Gerione, mostruosa e malevola bestia. Abbiamo compiuto un’accurata
perlustrazione di tutta l’ampia e variegata area dei giochi fisici, quelli che
coinvolgono i nostri organi e sensi corporei e ci permettono di percepire altri
oggetti nello spazio e di interagire con essi. Abbiamo scoperto nel gioco di
una bimba elementi con un ruolo identico a quello delle regole del calcio;
abbiamo esplorato il gioco fatto insieme, nello stesso modo, da bambini e da
adulti; abbiamo perfino catturato nella nostra rete le arti figurative,
plastiche e musicali come giochi sensoriali. Rimane però il fatto, sembra, che
il nostro corpo non esaurisce il nostro essere: che quest’ultimo contiene
anche, molti direbbero, componenti spirituali che non occupano spazio, che
palesano anzi una radicale alterità nei confronti di tutto ciò che occupa
spazio. A una di tali componenti ho accennato nel secondo capitolo, quando ho
paragonato il modo in cui la bimba apprende qualcosa dal suo gioco al procedere
della scienza. Chiaramente quello della scienza è un procedere metaforico, un
metaforico «inoltrarsi in un terreno ignoto»: la scienza non si muove (per
quanto gli scienziati lo facciano) e non può letteralmente procedere o
inoltrarsi. Lo stesso vale per la poesia, la filosofia e tutte le altre
discipline di natura verbale o mentale; se pure riuscissimo a dimostrare che
queste discipline hanno un carattere ludico, come potrebbe esserci più di
un’analogia fra il loro carattere ludico e quello, diciamo, del tennis? Come
potrei continuare a insistere che il tennis e il «gioco» dell’Etica spinoziana
sono (sia pur dialetticamente) la stessa cosa? Qui sono in ballo (in gioco) due
cose diverse, ci ha insegnato Cartesio: la nostra anima è una cosa distinta dal
nostro corpo, dunque gioca ad altri giochi. Il meglio che io possa fare, si
concluderà, è trascurare questa differenza ed evidenziare alcuni tratti che
tali diversi giochi hanno in comune: tornare cioè precipitosamente a una
visione analitica del gioco che lo riduca a un’essenza astratta e abbandoni al
suo destino tutta la zavorra – in particolare la zavorra fisica – che
finora mi sono trascinato dietro. Non sono d’accordo. Ai giochi verbali e
mentali voglio arrivare come ALIGHIERI (si veda) arriva in Malebolge, con tutto
il mio corpo e ancora vivo (cioè giocoso), non facendomi sostituire da un
ectoplasma. E, se ciò cui intendo aggrapparmi per eseguire questo salto mortale
non è una bestia mostruosa, è però un’inversione che qualcuno giudicherà
altrettanto mostruosa nell’ordine logico in cui solitamente (e ingannevolmente)
vengono disposti i termini della questione. Qui sopra ho accennato un po’ di
corsa a «discipline di natura verbale o mentale»; ora però è bene rendersi
conto che verbale non è lo stesso che mentale – uno si riferisce a parole e
l’altro a idee o concetti – quindi se verbale viene associato a mentale si
tratta d’intendersi su come funziona l’associazione. Più precisamente, si
tratta di decidere se verbale vada spiegato partendo da mentale, cioè mentale
sia la base, il fondamento e verbale quel che gli si associa, che su tale
fondamento si regge, o se invece valga l’inverso. Chi accetti la radicale
distinzione fra anima e corpo sceglierà il primo corno del dilemma. Per
esempio, un filosofo del linguaggio come Geach (che, non a caso, ha scritto
anche su Cartesio) ci dirà che, se pure una scimmia o il vento nel deserto
emettessero un suono del tutto indistinguibile dalla parola «albero», quella
non sarebbe un’occorrenza della parola «albero» perché ciò che rende «albero»
una parola non è il suo suono ma il suo significato, e solo una mente (che,
presumibilmente, né la scimmia né il vento hanno) ha accesso a quelle cose
astratte, ideali, non spaziali, spirituali insomma, che sono i significati.
Quasi un secolo prima di Geach, il fondatore della linguistica contemporanea
Ferdinand de Saussure aveva addirittura stabilito che il rapporto di
significazione valesse fra due oggetti mentali – la rappresentazione mentale
del suono «albero» (non il suono stesso) e la rappresentazione mentale di un
albero – trasformando di fatto la linguistica in una branca della psicologia e
il linguaggio in qualcosa che compete solo a enti che abbiano una psiche
(un’anima, appunto) e solo in quanto tali enti esercitino le loro funzioni
psichiche (non in quanto abbiano un corpo). La drastica scissione che
cartesianamente attraversa ciascuno di noi viene così esaltata a livello
cosmico: tutto l’essere, non solo il mio, è radicalmente diviso fra uno spirito
che parla perché è consapevole del significato di quel che dice e una natura
che è irreparabilmente muta – anche se emette suoni, e quale che sia la
ricchezza e complessità di tali suoni, non vuole dire nulla. Se in principio
era il Verbo, non si trattava del Verbo in quanto lo sentono le mie orecchie,
ma in quanto lo capisce la mia mente. Io scelgo la direzione inversa: è la
mente a reggersi sul linguaggio e non c’è differenza sostanziale, sebbene certo
ci siano molte differenze specifiche, tra il linguaggio di un essere umano e
quello di una scimmia o del vento. Ci vorrà una buona dose di testardaggine per
rimanere attaccati a questa mostruosità, ma confido che facendolo sarò in grado
di superare il baratro che incombe e traghettare il gioco verso sublimi
creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità. Nel resto di questo
capitolo mi occuperò dunque di giochi verbali e nel prossimo di quelli mentali.
Cominciamo definendo con esattezza il problema. La teoria tradizionale del
linguaggio, cui io mi oppongo e di cui Geach e de Saussure sono autorevoli
rappresentanti, afferma quanto segue: Il linguaggio è un mezzo di comunicazione
fra menti. Quando io parlo con un interlocutore A, ho un certo contenuto B
(un’idea, un desiderio, un giudizio) nella mia mente, lo codifico in un linguaggio
che suppongo A conosca ed emetto dei suoni che in quel linguaggio significano
B; A recepisce i suoni, li decodifica e acquisisce il contenuto B, che d’ora in
poi avremo in comune. La comunicazione ha avuto successo e il linguaggio ne è
stato prezioso ma in fondo inessenziale strumento. Se io so che sono le cinque
meno un quarto e ti dico «Sono le cinque meno un quarto», anche tu verrai a
sapere che sono le cinque meno un quarto; ma è un peccato che per informarti di
che ora sia io debba scegliere un percorso così tortuoso. Sarebbe tanto più
semplice se tu potessi leggere nella mia mente, se la comunicazione potesse
avvenire per via telepatica. C’è da stupirsi che per una volta l’evoluzione si
sia impegolata in un rituale maldestro e aperto a ogni sorta di inconvenienti
(cattiva pronuncia da parte mia, cattiva ricezione da parte tua, insufficiente
competenza linguistica, rumori di fondo...). Come combatterò questa teoria?
Dimostrandola sbagliata? Solo un ingenuo si porrebbe un simile obiettivo: introducendo
opportune complicazioni, una teoria può essere protetta da dati empirici
«recalcitranti» o sue inerenti assurdità. Il modello geocentrico afferma che
Mercurio e Venere girano intorno alla Terra ma noi li vediamo sempre molto
vicini al Sole? Niente paura: basta aggiungere un certo numero di epicicli e i
conti tornano. Il mondo è sovrappopolato e io rifiuto categoricamente ogni
forma di controllo delle nascite? Perché dovrei preoccuparmi? Forse che un Dio
onnipotente, dopo averci detto «Crescete e moltiplicatevi», non saprà salvare
capra e cavoli? Una teoria avversa non si affronta cercando di confutarla ma
costruendole accanto un’altra teoria più plausibile, più potente, più elegante
e lasciando che sia il pubblico a decidere. Nella peggiore delle ipotesi, se il
pubblico rimanesse fedele alla concorrenza, avremmo almeno ampliato il numero
delle opzioni disponibili: avremmo allargato il gioco. Albert Mehrabian,
professore di psicologia alla Ucla, afferma che, quando una persona ci comunica
i suoi sentimenti o stati d’animo, solo il 7% della fiducia che ci ispira,
quindi dell’efficacia della comunicazione, dipende dalle parole che usa, mentre
il 38% dipende dal suo tono e il 55% dal suo comportamento non verbale, o body
language – il che spiegherebbe fra l’altro perché veicoli eterei e immateriali
come la posta elettronica diano origine a tanti malintesi e corti circuiti
emotivi. A riprova della capacità di resistenza delle teorie, un fautore della
posizione tradizionale non si lascerebbe turbare da fatti del genere.
Categorizzerebbe malintesi e corti circuiti come incidenti di percorso
(privilegiando così la norma sui dati, per quanto frequenti) e aggiungerebbe al
modello un epiciclo: la mente non codifica il suo significato in un messaggio
soltanto verbale ma in una performance inclusiva di gesti, atteggiamenti del
viso e del corpo, ritmi e inflessioni di voce. (Già il fatto che il relativo
comportamento venga qualificato come body language segnala il tentativo di
asservire il corpo a ulteriore elemento di trasmissione di un contenuto che non
gli appartiene.) Io invece prendo questi fatti molto sul serio e ne traggo la
morale opposta: noi comunichiamo, cioè ci capiamo reciprocamente e mettiamo in
comune non solo sentimenti e stati d’animo ma anche idee e opinioni, perché
siamo innanzitutto corpi e una lunga consuetudine a vivere in mezzo ad altri
corpi (e a rispecchiarne le mosse) ci ha educato a coglierne ogni variazione,
ogni indugio, ogni forzatura come significativi, né più né meno di quanto un
esperto marinaio sappia trarre le conseguenze di ogni minimo trasalimento della
massa d’acqua al cospetto della quale vive e opera (o una scimmia sappia fare
con un’altra scimmia, con il mare o con i visitatori dello zoo – per il vento
occorrerà attendere la fine del libro) Una piccola parte delle mosse fisiche
che comprendiamo e mediante le quali comunichiamo è costituita dall’emissione
di suoni, e anche qui capiremo di più e comunicheremo meglio quanta più
familiarità avremo con il corpo che ci funge da interlocutore – con il tipo di
suoni che ce ne possiamo aspettare. Con uno sconosciuto adotteremo
comportamenti guardinghi e stilizzati, sintomo dell’incertezza e apprensione
che proviamo; chiederemo per esempio nel tono più neutro possibile che ore
siano, ed è paradossale che la tradizione che qui sto contestando assuma casi
di natura così marginale e deviante come modelli ideali di comunicazione. Per
me l’ideale sono invece i casi in cui varie persone sono immerse in un progetto
o in un impegno comune, e le parole che si scambiano sono perlopiù ridondanti,
echi di quel che si è già comunicato in modo non verbale: un’asserzione
diffonde e ufficializza quanto tutti hanno già riconosciuto, un’espressione
d’incoraggiamento conferma il sostegno emotivo che tutti già avvertono. (E,
invece di suggerire parlando di body language che il comportamento sia una
specie del genere linguaggio, preferisco suggerire che il linguaggio sia una
specie del genere comportamento usando termini come linguistic behavior.) Ma,
si dirà, il linguaggio non è usato solo in situazioni come quelle che ho
descritto, in cui l’ascoltatore è in presenza di quel che gli viene comunicato:
in cui un sentimento, un’intenzione o un’idea sono espressi da un parlante che
gli è direttamente accessibile, con tutto il suo essere, e quel che il parlante
dice è in buona parte superfluo, considerando in quanti altri modi «dice» la
stessa cosa. Il linguaggio è un prezioso mezzo di comunicazione perché ci
permette di comunicare anche significati che ci sono assenti. Il parlante può
raccontarci che cosa gli è capitato ieri in ufficio, o che disastro ferroviario
sia avvenuto in India, e non solo: può essere lui stesso assente e raccontarci
queste cose al telefono, o scrivercene in una lettera o per posta elettronica;
e noi acquisiremo comunque tali informazioni, ne sapremo di più alla fine dello
scambio di quanto ne sapessimo all’inizio. Non è comunicazione, questa? E non è
suo strumento un linguaggio distaccato dal corpo? Non intendo negare simili
ovvietà. Teorie alternative devono spiegare gli stessi fatti, non scegliersi i
fatti più convenienti, ma li spiegheranno stabilendo diverse relazioni di
dipendenza, collocando diversamente gli accenti; dunque mi prenderò la libertà
di rimandare a più tardi la spiegazione del linguaggio come racconto e
formulerò invece una domanda che sembrerà, a chi sostenga la priorità del
mentale, mettere il carro davanti ai buoi. Mi chiederò: se la funzione
fondamentale del linguaggio non è quella comunicativa, quale potrebbe essere?
Ai miei avversari sembrerà che io possa porre tale domanda solo dopo aver
fornito un’interpretazione convincente, dal mio punto di vista, del carattere
narrativo del linguaggio; ma cambiare teoria (ripeto) vuol dire anche cambiare
priorità, e in particolare ritengo che il racconto linguistico diventi
perfettamente comprensibile se prima rispondo alla mia domanda. Nel quinto
capitolo ho detto che un gioco come il calcio o gli scacchi è un
microcosmo nel quale rappresentare mosse ludiche che sarebbe in generale troppo
rischioso praticare «dal vivo» e ho discusso la logica della rappresentazione:
qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, quindi gli è simile per certi
aspetti ma se ne differenzia per altri. Se mai si verificasse una situazione in
cui il gioco vicario che abbiamo condotto dovesse rivelare la sua utilità (in
cui l’elaborazione di piani intricati per guadagnare un alfiere dovesse
aiutarci in una manovra di aggiramento diretta a conseguire una promozione),
c’è da sperare che a risultare decisivi siano gli aspetti in cui i due contesti
sono simili, non l’infinità di aspetti in cui non lo sono. Stando così le cose,
una rappresentazione che somigli di più all’originale sarà più utile di una che
gli somigli di meno: più riuscirà a seguirlo nei suoi dettagli, nelle sue
modulazioni, nella sua incalcolabile architettura frattale, più sarà probabile
che, quando si abbia a che fare con l’originale, si sappia come muoversi con i
dettagli che allora risulteranno pertinenti. Nessun mezzo rappresentativo
disponibile agli esseri umani può rivaleggiare su questo terreno con il
linguaggio (sebbene il computer, affermavo in Giocare per forza, stia emergendo
come un pericoloso candidato): l’eccezionale quantità e qualità di suoni che
riusciamo a produrre ci permette di costruire rappresentazioni estremamente
particolareggiate di oggetti, situazioni ed eventi, e di esplorare ludicamente
queste rappresentazioni con vantaggi potenziali molto maggiori di quelli
consentiti da un gioco sportivo o da un gioco di carte. Il linguaggio è, in
primo luogo, uno spazio di gioco.nGuardate al modo in cui un bambino vive il
linguaggio. Spezza le parole, le stiracchia, le unisce in aggregati inconsueti
e scorretti, è attratto dalle loro risonanze, dal rumore che fanno, e spesso
combina quei rumori con altri che noi giudicheremmo «inarticolati»; per lui le
parole sono oggetti da manipolare, mettere sotto pressione e violare tanto
quanto palle e cubi. Questa, per me, è la scena primaria del linguaggio, il
prototipo che ne chiarisce il ruolo e il senso. In età adulta, a rimanere più
vicini all’intimità e al calore della scena primaria sono i poeti; sono loro
più di chiunque altro a giocare con le parole e a trattarle, giocandovi, come
cose. Ancora una volta reinterpretando il passato alla luce del suo futuro,
dunque, vedendo il bambino alla luce del poeta che promette di diventare,
potremmo dire che l’uso primario del linguaggio è quello poetico. Il che
equivarrebbe a riascoltare bene questa parola: poieo è fare, in greco, quindi
il poeta è creatore, e lo è proprio in quanto gioca, perché solo chi gioca
inventa, supera l’esistente nel nome di un processo innovativo che solo il
gioco consente di realizzare. Se le parole sono (trattate come) cose le si
potrà associare ad altre cose, e mediante tali associazioni costituire quelle
corrispondenze fra parole e cose che sono alla base del significato delle
parole. Quando ero piccolo a casa dei miei nonni, d’estate, raccoglievo tappi
di bottiglia (di birra, di Coca-Cola) e poi li usavo per rappresentare eserciti
e battaglie. Ogni tappo era un soldato, e quando il tappo era rovesciato il
soldato era morto. Detta altrimenti: ogni tappo significava un soldato, e che
il tappo fosse rovesciato significava che il soldato era morto. Nel linguaggio,
invece di tappi, pedine o gettoni, e invece delle configurazioni in cui possono
comparire tappi e pedine, usiamo nomi e verbi e loro configurazioni, di cui
abbiamo imparato il significato (le associazioni) osservando e scimmiottando
padri e madri, cugini e amici di famiglia, e acquistando attraverso i nostri
errori una dimestichezza sempre più sottile con le mille sfumature, cadenze e
intonazioni che organizzano quei significati, in modi mille volte più complessi
di tappi e pedine, mille volte più disponibili a scatenare la fantasia ludica.
Ogni gioco ha delle regole, abbiamo visto: va a sbattere contro spigoli e
pareti. Nel caso di un gioco linguistico, del linguaggio in quanto gioco, le
regole non sono ostacoli o limiti fisici ma sociali. Ho usato il termine
«scorretto» per spiegare come un bambino opera con le parole; un atto è
scorretto (o corretto) in relazione a una norma, ed è la società a imporre le
norme linguistiche e a designare quello del bambino come un comportamento
linguistico scorretto. Lasciato a sé stesso, il linguaggio non fa che seguire
un’inarrestabile deriva metaforica e metonimica, trasformato costantemente dai
poeti che lo abitano (cioè da tutti coloro che lo parlano) e che tendono a
volgerlo in un gergo familiare o di gruppo e infine in un idioletto, comprensibile
solo a chi lo parla. Ma la libertà – lo sappiamo – è rischiosa; bisogna
limitarne l’ambito e il potere. Intervengono allora discipline (ascoltiamo
anche questa parola: anche le sue associazioni ci dicono qualcosa) normative:
grammatica, logica, semantica, retorica, stilistica, che sanciscono quali
combinazioni di parole siano accettabili, quali associazioni fra parole e
(altre) cose siano significanti, a quali fra le molteplici tappe della deriva
linguistica si possa attribuire l’etichetta di un significato letterale
(cercando così di fermare la deriva: un significato letterale è una metafora o
metonimia su cui ci siamo arenati), quali ritmi e cadenze abbiano valore
estetico. L’uso comune del linguaggio si colloca su uno spettro analogo a quello
discusso nel sesto capitolo (anzi, è proprio lo stesso spettro). A un estremo
c’è l’assoluta licenza di una vocalizzazione esasperata; all’altro gli anodini
enunciati della filosofia del linguaggio anglosassone – «The fat cat sat on the
mat; he saw a big rat», «Il gatto è sulla stuoia»: perfettamente grammaticali,
costruiti con termini assolutamente privi di ambiguità, ciascuno
indissolubilmente legato a una singola associazione, e proprio per questo,
direi, incapaci di esprimere un qualsiasi significato o dar vita ad alcuna
comunicazione. Né l’uno né l’altro degli estremi (per quanto citato nei testi
di filosofia del linguaggio) è mai effettivamente realizzato; quel che
incontriamo nelle nostre quotidiane vicissitudini è un universo multiforme di
mediazioni fra gli estremi. Incontriamo parole e frasi che in certa misura
fanno ossequio alle norme (tanto maggior ossequio quanto minor fiducia abbiamo
nell’ambiente) e in certa misura le trascendono colorandole di esperienze
personali, immettendovi il gusto saporito, talvolta un po’ nauseante, di una
sceneggiata che coinvolge tutto il corpo, non solo le labbra e la lingua. Come
in ogni altro caso, regole rigorose diventano l’occasione per una creatività
più raffinata, per un gioco più sagace anche se indubbiamente più difficile,
come il bridge è più difficile della briscola. Pensate a quanto è costrittiva
la forma di un sonetto: quattordici endecasillabi divisi in due quartine e due
terzine, rimati secondo pochi e precisi schemi. Come ci sarebbe da aspettarsi, la
grandissima maggioranza dei sonetti è mediocre e noiosa – adiacente all’estremo
regolamentato dello spettro linguistico. Quando però recitiamo (la poesia va
recitata ad alta voce, per motivi che ora dovrebbero essere ovvi!) un
capolavoro di Dante, Petrarca o Foscolo, ci rendiamo conto che senza quelle
costrizioni non avremmo potuto scoprire tanta ingegnosa libertà, e goderne. E
la medesima libertà è espressa, non sempre a questi livelli, da ogni
parlante/poeta in ogni linguaggio: quando inventa una battuta, adatta a nuovo
uso una parola, raccoglie e concentra le sue emozioni in una frase a effetto,
improvvisa una cantilena per un figlio che non vuol saperne di dormire. In
ciascuna di queste occasioni la vocazione ludica del linguaggio si riattiva: le
regole diventano un trampolino per un tuffo ancor più avvitato e carpiato,
invece che una camicia di forza. È arrivato il momento di affrontare il
linguaggio dell’assenza e, nel farlo, di distinguerne con cura le due modalità
che prima avevo indicato. Il linguaggio, dicevo, può essere usato da un
parlante per descrivere qualcosa di cui il suo interlocutore non è e non è
stato testimone; in tal caso, è il significato del linguaggio a essere assente
(a chi ascolta). Ma, aggiungevo, anche il parlante può essere assente:
l’interlocutore può essere fisicamente solo e il linguaggio apparirgli come
testo scritto. Questa seconda modalità sembra ora la più inquietante, per la
mia posizione. Che cosa ne è in essa della corporeità della comunicazione,
delle parole trattate come cose, della libertà di giocarvi e di creare? Quando
leggo un resoconto scritto di una seduta parlamentare o di una sparatoria, di
solito non ne conosco l’autore (il suo è per me «un mero nome»): capisco quel
che c’è scritto perché le parole hanno il loro significato abituale e le frasi
sono composte in modo grammaticalmente corretto. Sarà vero che molti testi di
filosofia del linguaggio mi restituiscono un’immagine stantia e retriva del
loro argomento; ma anche questi testi sono scritti in un linguaggio, e io li
leggo e li capisco. Capisco «The cat is on the mat» e capisco il senso di
questo esempio. Non è vero dunque che i testi scritti suggeriscono una visione
del linguaggio del tutto opposta alla mia, e affine a quella tradizionale?
Andiamo per gradi. Consideriamo prima il caso in cui il contenuto di un
racconto ci sia assente (non ne siamo stati testimoni) ma la persona che lo
racconta ci sia presente, e immaginiamo che più persone ci facciano un racconto
con lo stesso contenuto, descrivano per esempio lo stesso disastro ferroviario
in India. Ne segue che tutti ci comunicano la stessa cosa? Che, pur assumendo
che controllino al massimo i loro movimenti e mantengano un volto impassibile,
ne riceviamo le medesime informazioni? Forse sì, se intendiamo «informazione»
nel senso più comune, e profondamente legato al modello mentalistico del
linguaggio: un pacchetto di enti immateriali (chissà come faranno degli enti
immateriali a entrare in un pacchetto!) che va trasferito da una mente
all’altra. No, invece, se ascoltiamo quel che «informazione» ci sta dicendo: se
a contare per noi è quanto una comunicazione ci forma, ci cambia, ha un
influsso temporaneo o permanente su di noi. Se prendiamo il termine in questa
seconda accezione (che io preferisco), dovremo ammettere che le parole scelte
da ciascuno dei narratori fanno un’enorme differenza per l’efficacia del suo
discorso: che il loro suono, il tono e il ritmo con il quale sono pronunciate,
le loro associazioni, le risonanze o dissonanze che hanno con altre parole
dello stesso discorso, la forza con cui tutte queste parole sono concatenate
l’una con l’altra suggerendo un’immagine unitaria e l’inventiva con cui questa
immagine si rinnova senza sosta, illuminando angoli oscuri e chiamando in causa
prospettive balzane, possono coinvolgerci in un gioco vivido ed eccitante, in
cui costantemente elaboriamo aspettative sul prossimo passo e le vediamo
confermate o contraddette, e proviamo sorpresa e frustrazione e incanto e
disgusto, e alla fine sentiamo di aver percorso noi stessi quel territorio e di
conoscerlo bene anche se ciò non è vero – anche se il territorio non somiglia
affatto a quel che ci è stato comunicato e ci ha informato. Oppure le parole
possono essere spente e banali, sfilacciate e risapute, e dovremo fare un
grosso sforzo per mantenere desta l’attenzione su quel che vogliono dire perché
sembra che non vogliano dire niente, e alla fine ci sarà difficile ricordarle e
capire che cosa è successo, in India. Un logico sentenzierebbe che entrambi i
discorsi esprimono lo stesso pensiero e hanno lo stesso valore di verità, e
magari sarà così, quando «pensiero» e «valore di verità» siano stati definiti
in modo opportuno; ma allora si dovrà concludere che pensieri e valori di
verità hanno poco a che fare con quel che succede quando ci raccontiamo
qualcosa. Il linguaggio non è mai dell’assenza. L’assenza esiste, non ci sono
dubbi: cose e persone ci mancano, spesso per sempre. Ma il racconto non ha
altra funzione che evocare queste cose o persone: la parola è innanzitutto
magica. Con le sue limitate risorse – qualche nota, qualche alterazione di
timbro o volume – richiama quel che non c’è e lo fa essere, anzi fa essere
qualcosa che s’ispira a quel che non c’è, e che forse ne è molto diverso ma
adesso con questa scusa ci è diventato presente. E la magia del linguaggio non
è mai disgiunta dal suo carattere ludico: la seconda volta che ascoltassi lo
stesso racconto, formulato con le stesse parole, non evocherebbe più nulla e io
mi troverei a pensare ad altro. Solo un linguaggio che esplora e sovverte,
inquieta e soddisfa, solo un linguaggio giocoso, può raccontare. Anzi, meglio:
solo un linguaggio in quanto giocoso, in quanto esplora e sovverte, inquieta e
soddisfa, perché come al solito i nostri racconti quotidiani sono compromessi
fra trasgressione e conformismo, scoperta e stereotipo, quindi sono racconti
fino a un certo punto. Al limite, se il linguaggio fosse usato in modo
puramente rituale e prefissato, non lo staremmo nemmeno a sentire. Veniamo ora
alla scrittura. Anche qui c’è uno spettro di possibilità, e anche qui la mia
posizione e quella avversa assumono come paradigmatici i due diversi estremi
dello spettro. Per i miei avversari il modello di comunicazione scritta, cui
ogni altra si deve uniformare, è il dispaccio d’agenzia: «Ieri alle ore 18.05
la Corea del Nord ha lanciato un missile verso Seoul». Io parto dall’estremo
opposto: così come l’archetipo del linguaggio è per me la poesia, l’archetipo
del linguaggio scritto è la prosa letteraria. In un dispaccio d’agenzia – anzi,
per la precisione, secondo il modo ideologico in cui la posizione avversa
interpreta un dispaccio d’agenzia – le parole non contano: basta esprimere il
significato giusto, inteso come entità astratta e mentale. In un testo
letterario, invece, è chiaro che le parole contano, e noi le sentiamo anche se
leggiamo «a mente»; e sono parole scelte con creatività e maestria (con la
maestria di un grande giocatore) a far nascere per noi dalla pagina dei
personaggi, delle avventure, delle passioni, un mondo. Parole diverse, se pure
dicessero «la stessa cosa» (quella che la posizione avversa concepirebbe come
la stessa cosa) non avrebbero lo stesso effetto, o non avrebbero alcun effetto.
E, se un dispaccio d’agenzia mi colpisce, se entra davvero in circolo nella mia
persona, se non si perde fra i rumori di fondo, è perché sa trasmettermi
tutt’altro che un resoconto neutrale e oggettivo di un semplice fatto (come
vorrebbe l’ideologia cui mi oppongo): perché il suo linguaggio economico ed
essenziale conferisce invece maggiore urgenza ai timori e alle ansie che si
sono immediatamente scatenati in me appena ho visto queste parole insieme –
«Corea del Nord», «missile», «Seoul», «ieri». A suo modo, questo dispaccio
(fittizio) è un riuscito aforisma. Riassumiamo. Ho forse dimostrato che non
esistono i significati come entità astratte e accessibili solo a delle menti, e
che non è il rapporto con significati astratti a qualificare il linguaggio come
tale? a fare di un suono o di uno scarabocchio una parola o una frase? No di
certo. Dopo tutto quel che ho detto, anche chi volesse accettarlo potrebbe
credere che, in aggiunta a tutto quel che ho detto, ci sono i significati
astratti ed è la loro presenza a conferire dignità linguistica a suoni e
scarabocchi. Ma non era mia intenzione dimostrare niente del genere. Quel che
ho cercato di fare è stato difendere una tesi più debole ma per me d’importanza
cruciale: dei suddetti significati non abbiamo bisogno, possiamo farne a meno.
Il nostro linguaggio, anzi il nostro comportamento linguistico, è parte del
flusso continuo di tutto il nostro comportamento, che noi siamo in grado di
interpretare nei nostri simili o in noi stessi (perché ho detto quel che ho
detto?) così come interpretiamo l’annuvolarsi del cielo o il latrato di un
cane. Come con ogni altro aspetto del nostro comportamento, anche con il
linguaggio possiamo giocare; ed è qui che esso rivela la sua unicità, perché
nessun altro mezzo a nostra disposizione è tanto duttile, tanto articolato,
ricco di tanti dettagli e aperto a tante variazioni, quindi tanto generoso
nell’offrirci giochi d’insondabile profondità e complessità – microcosmi
infinitamente interessanti e istruttivi. Questa essenziale natura ludica del
linguaggio si combina con le sue altre caratteristiche dando luogo a ogni sorta
di mediazioni. Capiamo un altro che parla come capiamo un altro che cammina;
ma, parlando, quell’altro può esplorare e trasgredire e farci piacere e farci
paura molto meglio che camminando, e possiamo capire anche questo, e lasciarci coinvolgere
in questo gioco, e farcene trasportare in posti dove non siamo mai stati, in
compagnia di persone che non abbiamo mai visto. E possiamo creare lo stesso
miraggio senza nemmeno parlare, scrivendo parole in un libro come questo; e le
parole scritte evocheranno un significato se sono scelte con cura, la stessa
cura con cui uno scacchista prepara la sua prossima mossa – cura di rassicurare
e stupire al tempo stesso, di confermare e destabilizzare. Ho chiarito come si
possa arrivare, partendo da questa visione, a spiegare l’uso del linguaggio per
chiedere che ora sia, ma sono convinto che, se questo fosse l’uso principale
del linguaggio, esso sarebbe da tempo diventato non meno vestigiale dei denti
del giudizio. Temo che possa diventarlo, ho detto, che all’orizzonte si profili
minaccioso un terribile concorrente. Ma so che se non lo è ancora diventato è
perché nel linguaggio, più e meglio che altrove, si gioca. All’inizio di questo
capitolo mi ero assegnato il compito di «traghettare il gioco verso sublimi
creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità». Che il lettore sia
o meno d’accordo con le idee che sono venuto sviluppando, avrà capito in che
senso io intenda riconoscere un importante elemento di fisicità in sublimi
creazioni come sono spesso quelle poetiche o letterarie. È ancora lecito, però,
potrebbe chiedere, che io qualifichi tali creazioni come spirituali? Non ho
lasciato cadere lo spirito, o anima o mente che dir si voglia, rifiutando la
dualità cartesiana? Non sono rimasto, quindi, in un universo che non ha più
nulla di spirituale – un universo fatto solo di corpi, eventualmente poetici o
letterari? Non è, lo stesso obiettivo che mi sono posto, prova evidente di una
mia confusione, come se volessi ammettere oggetti, o attività, che appartengono
contemporaneamente all’ambito fisico e spirituale? In realtà sono queste
domande a provare qualcosa: quanto sia difficile liberarsi di un pregiudizio.
Per loro tramite il cartesianesimo, scacciato dalla porta, rientra dalla
finestra. Detta nel modo più semplice e chiaro possibile, lo spirito (o la
mente, o l’anima) può solo essere un modo di vivere il corpo: non esiste uno
spirito indipendente dal corpo. Un corpo si anima quando i suoi atteggiamenti e
le sue mosse si colorano di spirito ludico: è spirito (o mente, o anima) in
quanto gioca. (Potrei dire «in quanto danza», purché per danza s’intenda una
pratica creativa, non puramente rituale e aperta ai movimenti della parola e
del pensiero: una danza nello spazio esistenziale.) La visione cartesiana ci
fornisce uno spirito a buon mercato: anche se giaccio del tutto inerte, o la
mia vita è inchiodata senza speranza di salvezza alla routine più inflessibile,
sono comunque una mente, una sostanza pensante; all’ottusità del mio corpo è
comunque offerto questo riscatto. Per me invece lo spirito compare quando il
corpo si accende di vitalità; il suo fiato è quello che avverto quando qualcosa
mi stimola, mi provoca e mi risveglia; e occuparsi di libri o concetti non dà
nessuna garanzia che lo spirito sia presente – basta guardare al mondo
accademico per rendersene conto. Siccome anche gli estremi di questo spettro
sono astrazioni teoriche e ogni nostra vicenda ha luogo come mediazione fra di
essi, tutti noi siamo in ogni momento corpi/spiriti, in parte animati e in
parte inerti. Lo siamo, però, non come convivenza di due entità radicalmente
distinte ma come coesistenza di due distinte modalità di comportamento di una
medesima entità. E, in conclusione, posso approvare Huizinga quando dice che
«il gioco, qualunque sia l’essenza sua, non è materia» (p. 21) ma non perché si
riveli in esso un carattere soprannaturale. Il gioco non è materia perché è
spirito, cioè materia che si reinventa incessantemente, così come il non-gioco
(cioè la materia) è spirito in coma. I Pensieri stupendi dell'Aosta sono
stupendi. L’aspetto fondamentale della tradizione cartesiana è stato denominato
in tempi recenti (posteriori a Cartesio) «accesso privilegiato». Consiste nella
tesi seguente: la mia vita mentale, privata, mi è del tutto trasparente; io ne
colgo con assoluta limpidezza ogni particolare; in proposito non posso
sbagliarmi. Posso sbagliarmi sul fatto che ci sia un elefante in questa stanza,
ma non sul fatto che io lo veda e sia sicuro di vederlo. E sono l’unico
detentore di tale certezza: chiunque voglia sapere che cosa provo, penso o
voglio, non può far altro che chiederlo a me – io sono l’unica autorità al
riguardo.Ci sono voci molto accreditate che si oppongono a questa tesi. La
psicoanalisi stabilisce quali siano le mie intenzioni o i miei desideri in base
a un’osservazione del mio comportamento ed eventualmente in contrasto con le
intenzioni e i desideri che io mi attribuisco. La neurofisiologia ritiene di
poter determinare se ho un’emozione consultando immagini del mio cervello. Ma,
per quanto in difficoltà fra gli specialisti, l’idea cartesiana che io sia
padrone a casa mia (cioè nella mia mente) continua ad aver fortuna nella
cultura popolare, sostenuta da potenti alleati: la responsabilità religiosa che
ognuno deve assumersi per i suoi peccati, la responsabilità legale che deve
assumersi per i suoi crimini, la responsabilità politica che deve assumersi per
il suo voto. In tutti questi casi, il fattore decisivo è quel che l’individuo
ha voluto fare, e solo lui (e magari il suo divino) sa che cosa sia. Gli altri,
al massimo, potranno fare congetture sulle sue intime motivazioni ed emettere
un verdetto al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò che è comunque al di là di
ogni dubbio, ragionevole o irragionevole, è il cogito: il rapporto che il
soggetto ha con sé stesso come sostanza pensante. A giustificare questa
convinzione c’è il modo in cui viene concepito il rapporto: lo amministrerebbe
la funzione nota come coscienza, un flusso continuo di attenzione rivolto alla
nostra vita interiore, incapace di errore, custode della verità del nostro
essere. Io so che cosa provo, penso e voglio perché la mia coscienza me ne dà
un responso infallibile; nessun altro ha la mia coscienza, dunque nessun altro
ha diretto accesso ai miei dati. Ho affermato altrove che la coscienza così
concepita è un mito: non esiste un flusso continuo di attenzione a sé stessi
che abbia il compito di farci appurare tutto quel che accade in noi, ma una
serie di episodi indipendenti e frammentari in ciascuno dei quali dalla
molteplicità che noi siamo (che ciascuno di noi è) emerge un giudizio negativo,
un’obiezione, verso l’istanza che in quel momento occupa il proscenio e sta
dirigendo i lavori. La coscienza come flusso continuo e coerente è il risultato
di un’azione politica (reazionaria): di uno stravolgimento di tale episodico
esercizio critico che ha come scopo la conservazione dell’ordine sociale –
ritenendoci costantemente osservati, si spera che ci comporteremo bene. Qui non
intendo sviluppare ulteriormente l’argomento, se non per notare un punto in cui
questo discorso interseca i nostri temi attuali. La visione mentalistica del
significato sostiene che siano le mie esperienze mentali, le stesse che
Cartesio giudicava infallibili, a determinare la dignità linguistica delle
parole e frasi che pronuncio o scrivo, dicevo nel capitolo precedente, e io
sostengo l’inverso (e sostengo che quelle esperienze siano tutt’altro che
infallibili). La mia posizione richiede così che si contesti il presunto
carattere originario del mentale, caratterizzandolo invece come dipendente dal
non-mentale, e per raggiungere questo obiettivo comincerò ascoltando ancora una
volta una parola. «Privato», che nella tradizione cui mi oppongo è sinonimo di
«mentale», è un termine negativo, perché ciò che è privato lo è in quanto
privato di qualcosa, come un bimbo è privato d’affetto o un operaio del suo
lavoro. Qual è dunque la privazione che costituisce il dominio privato del
soggetto e della sua mente? Il gioco è rischioso, e abbiamo visto quante
barriere si erigano per evitare che faccia troppo male. Un adulto proteggerà lo
spazio in cui giocano i bambini: chiuderà porte e finestre, toglierà di mezzo
gli oggetti che possano essere ingoiati, nasconderà i fiammiferi. Quando sarà
lui stesso a giocare, troverà più conveniente scagliarsi contro un avversario
su un campo di calcio o tessere trame su una scacchiera piuttosto che nel
quartiere o in fabbrica. E spesso parlerà soltanto di quel che potrebbe fare
invece di farlo: si accontenterà di esplorare microcosmi linguistici in cui
ogni mossa è lecita invece di coinvolgere in analoghi movimenti il (resto del)
suo corpo. Ma non si è mai abbastanza cauti: una parola avventata, detta con
sovversivo spirito ludico, può ferire l’interlocutore, suscitare i sospetti del
principale, essere presa troppo sul serio da una «testa calda». Allora la
nostra specie (e forse non solo, ma è arduo decidere la questione) ha
introdotto un’ulteriore misura cautelare: molte parole sovversive, molte
associazioni inappropriate, molti racconti fantastici che attentano alle norme
del vivere civile li enunciamo solo a noi stessi, li vocalizziamo senza
emettere alcun suono, senza neanche muovere le labbra – li priviamo di ogni
contatto con l’esterno. Ecco in che senso il mentale dipende dal verbale: i
pensieri sono parole non dette – immagini mnestiche di tali parole, secondo
l’espressione freudiana – perché l’interlocutore giusto, che potrebbe capirle e
apprezzarle, non c’è o forse non c’è mai stato, e noi abbiamo imparato, dopo
molti sforzi e qualche delusione, a farle risuonare in un pubblico silenzio,
unici testimoni della loro presenza. Lo spazio abitato dai pensieri è l’esatto
opposto di quello cartesiano. Quello era popolato di infinite idee, acuto e
perspicace nel cogliere quanto sfuggisse ai sensi del corpo, solidamente
risolto in sé stesso e pronto a sollevare dubbi su tutto ciò che non gli
appartenesse. Questo è parassitario, anaclitico, povero di contenuto e di
struttura, in costante pericolo di venire assorbito nel pubblico
chiacchiericcio. Non voglio negare che esistano persone con straordinarie
capacità di concentrazione; la realtà di noi comuni mortali, però, è che ci
risulta estremamente difficile seguire un’idea senza perdere il filo, o
cogliere il rapporto che questa idea ha con quell’altra che abbiamo avuto ieri;
e intanto il mondo incombe e disturba il fragile equilibrio che siamo
penosamente riusciti a costruire, e dopo un attimo tutto crolla e non
ricordiamo più nemmeno che cosa stavamo pensando, o perché ci sembrava così
importante. Se uno di noi comuni mortali vuole far chiaro «dentro sé stesso» e
capire che cosa sta pensando, deve fare un passo indietro in questo percorso e
abbozzare un testo, un diagramma, un disegno su un pezzo di carta. Si chiama «pensare
attraverso la scrittura» ed è un luogo comune per chiunque si occupi di
processi creativi; ma l’ipoteca cartesiana ci impedisce di comprendere la
lezione che ci sta impartendo. Il pensiero è fondato sul linguaggio; i singoli
pensieri non sono che parole o frasi private dell’audio; la mente non è altro
che la capacità di parlare un linguaggio silenzioso (e si noti che sto parlando
della mente, non del cervello, cioè dell’organo di enorme complessità ed
efficienza che presiede, perlopiù inconsciamente, a tutte le nostre funzioni).
Quando questa capacità mostra i suoi limiti, si ritorna alla base: talvolta ci
si racconta ad alta voce quel che si stava cercando di seguire nel pensiero,
più spesso lo si scrive. Con buona pace di Cartesio, non è proprio vero che la
mente ci fornisca idee più chiare e distinte di quanto faccia il corpo: nella
mente regna di solito una grande oscurità e confusione, che si può dissipare
solo eseguendo movimenti fisici – scrivendo, per esempio. Fra le cose che
potremo scrivere ci sono novelle e romanzi, e ho già suggerito come sia da
intendere questo gioco; qui aggiungerò solo qualche dettaglio. Buona parte
dell’esperienza ludica dei bambini consiste nel raccontarsi storie; se sono
fortunati, incontreranno anche degli adulti che ne racconteranno a loro,
trascinandoli fra misteri e sorprese, spaventi e salvataggi, facendo loro
saltare il cuore in gola e tirare sospiri di sollievo. Uno scrittore compie la
stessa benefica azione con i suoi lettori: si sceglie un bambino ideale (i critici
letterari direbbero: un lettore ideale) di cui conosce gusti e passioni, sogni
e desideri, e lo asseconda e lo scoraggia e lo deprime e lo esalta evocando con
parole incisive e frasi seducenti un mondo fittizio che starà al bambino (al
lettore) completare a suo modo, partendo dalle tracce che le parole e le frasi
dello scrittore avranno sparso, come molliche di pane, per le pagine del libro.
L’azione è benefica perché il bambino ne trae godimento: non sono molti i
giochi che offrano tanto piacere quanto una simile altalena di vicende, scenari
e affetti. Ed è benefica anche perché il bambino per suo tramite impara a
conoscere i personaggi e gli eventi del mondo fittizio, come s’impara qualsiasi
cosa – partecipandone attivamente: anticipando la prossima mossa e verificando
le sue ipotesi, piangendo insieme con le vittime e delirando insieme con gli
amanti, immaginandosi a sua volta martire o raddrizzatorti – e così amplia il
repertorio di atteggiamenti e strategie a sua disposizione correndo rischi
minimi: il rischio di una crisi emotiva o di un estraniamento dalle urgenze
quotidiane, il rischio di cercare invano un’Anna Karenina, il rischio di
scambiare per Anna Karenina una persona molto diversa; certo non il rischio di
finire sotto un treno. Anche la filosofia nasce come racconto, ma con un
accento diverso, più insolente. Nel testo che la inaugura, i dialoghi di
Platone, si comincia narrando aneddoti su un discolo che si rifiuta di
crescere, di trovarsi un lavoro, di badare alla sua famiglia, perfino di cambiarsi
d’abito, perché è troppo impegnato a contestare ogni forma di autorità, a
prenderla in giro, a insistere con i suoi infantili «Perché?», a giocare con le
parole degli esperti in modo che, qualunque definizione propongano, «ci gira
sempre dattorno e non c’è verso che voglia star ferma nel punto dove la
mettiamo» (Eutifrone, p. 21). Sembra di leggere Pinocchio, solo che qui non c’è
nessuna fata turchina che salvi il discolo dall’esecuzione. Più avanti il
racconto si complica: il discolo prende ancora la parola, ma non solo per far
esplodere l’arroganza e la presunzione dei grandi. Ora, invece di distruggere i
castelli in aria degli altri, ne costruisce di propri, con acume, scrupolo e
pazienza (gli stessi con cui si costruiscono bei castelli di sabbia), e li
presenta con atteggiamento di sfida a quanti ritengono di vivere in un castello
e invece abitano in una stamberga, convinto che questa sia la forma più
efficace di critica: invece di perder tempo rivelando le stamberghe per quel
che sono, edifichiamo loro accanto una reggia e tutti vorranno abbandonarle.
(Così infatti ho trattato la posizione cartesiana in questo capitolo e nel
precedente; ho avuto buoni compagni di gioco.) Alcuni elementi della repubblica
platonica provocano la nostra indignazione: che si debba mentire al popolo per
il suo bene; che le unioni fra uomini e donne debbano essere decise dal governo
per motivi eugenetici. Altri ci sembrano di grande ragionevolezza: che i
governanti debbano essere educati con cura e il loro carattere messo alla prova
prima di affidar loro lo Stato; che le donne non meno degli uomini possano
governare, perché la loro differenza biologica non implica una differenza di
abilità. Quel che è comune a entrambi è il coraggio, la sfacciataggine quasi,
con cui vengono proposti, la risolutezza con cui s’insiste sulla loro
inevitabilità, sulla loro consequenzialità logica, la noncuranza con cui
vengono trattate le proteste del «senso comune», l’ambizione e la genialità con
cui tutti gli elementi vengono combinati in un colossale affresco,
nell’immagine di un mondo, di esseri umani, di una società totalmente nuovi. Se
un bambino vero (sotto i dieci anni d’età) mai avesse le risorse intellettuali
per compiere un’opera del genere, certo non gli mancherebbero queste altre doti;
certo non avrebbe ancora imparato il conformismo, la soggezione, la viltà.
Platone come Socrate è un bambino che si rifiuta di crescere, che a risorse
intellettuali mature accompagna le qualità innocenti e sfrontate dell’infanzia:
il maestro a settant’anni scherza con i suoi accusatori e con la giuria; il
discepolo a quasi ottanta non smette di aggiungere dettagli al suo racconto.
All’inizio del nostro itinerario ho citato un passo della Critica del giudizio;
ora, vicini al termine del viaggio, occorre riprenderlo in esame e renderne
conto. Che cosa sta facendo Kant? Sta esponendo uno degli elementi del suo
castello, da lui opposto a una tradizione che considera derelitta. La stamberga
da cui vuole che gli altri fuggano è la concezione realista della conoscenza:
Da una parte ci sono io (anzi, la mia mente) e dall’altra c’è un tavolo. Nella
mia mente si forma un’idea del tavolo che gli corrisponde fedelmente; quindi io
conosco bene il tavolo, al punto di poter prevedere con certezza le sue
risposte a varie sollecitazioni. Come sia possibile che fra due oggetti
distinti e tanto diversi fra loro (la mia mente e il tavolo) si stabilisca una
così perfetta corrispondenza, la tradizione non sa spiegare; Leibniz in
proposito invocava il miracolo divino di un’armonia prestabilita. Kant non si
occupa di questa scalcinata tradizione; la liquida con una battuta pesante
(essa dà «il comico spettacolo di uno che munge il becco [cioè il montone]
mentre l’altro tiene lo staccio [cioè il setaccio, Critica della ragion pura, e
suggerisce invece di fare un nuovo «tentativo» (p. 10), un «rivolgimento» di
prospettiva analogo a quello di Copernico. Supponiamo, dice, che un oggetto sia
proprio ciò di cui possiamo prevedere il comportamento, per cui se quello che
sembra un tavolo avesse un comportamento imprevedibile non sarebbe un oggetto
(ma, diciamo, un’allucinazione); allora non sembrerà più strano che riusciamo a
prevedere il comportamento degli oggetti. Il principio di cui ci serviamo per
siffatte previsioni, che cioè a ogni causa seguano precisi effetti, non è da
noi imposto dall’esterno alla natura; è ciò che costituisce internamente la
natura – non sarebbe una natura, ma un sogno, se non esibisse tale regolarità.
Perseguendo il suo tentativo Kant, come Platone, costruisce un mondo nel quale
non solo la conoscenza ma anche i valori morali, l’apprezzamento estetico, Dio
e l’immortalità assumono ruoli diversi che nella tradizione. E, nel farlo, come
tanti altri giocatori alle prese con le loro costruzioni originali e bizzarre,
usa parole magiche: termini antiquati, imponenti ed enigmatici che colloca in
contesti e in reti associative devianti rispetto a quelli già noti, talvolta
devianti fra loro, gettando i lettori nello sbalordimento e nello scompiglio –
lo stato d’animo giusto per chi voglia aprirli a un punto di vista radicalmente
nuovo. Qui, per esempio, compaiono due di queste parole formidabili: il
principio in base al quale il tavolo non sarebbe un oggetto se il suo
comportamento non fosse regolare e prevedibile viene detto «trascendentale» e
l’altro principio per cui niente sarebbe un oggetto se non fosse nello spazio
viene detto «metafisico», violando gli usi comuni di entrambi i termini e
quelli cui lo stesso Kant li adatta in altri passi. Mentre gioca con la nostra
visione dell’universo, il filosofo sta giocando anche con il linguaggio.
Giocando s’impara, quindi il gioco della filosofia può essere istruttivo, nello
stesso modo caotico e imponderabile di ogni altro gioco. Per caso, una delle
elaborate, ambiziose costruzioni filosofiche di mondi, esseri umani o Stati
alternativi a quelli esistenti entra in contatto, talvolta, con la realtà
quotidiana (con il gioco che è diventato abitudine) e la cambia in modi che
vengono giudicati vantaggiosi; può anche capitare che in una di queste
costruzioni decidiamo di traslocare e quella diventi, per un po’, la nostra
realtà quotidiana (il nuovo gioco diventi una nuova abitudine). Quando ciò
càpita, riteniamo di aver imparato qualcosa e pensiamo che la costruzione
filosofica abbia dato un contributo alla nostra conoscenza – un contributo che
viene detto scientifico. Giocando abilmente con le lenti, BONAIUTI (si veda) Galileo
riuscì a trasformare il nostro senso di che cosa significhi osservare: ora, se
vogliamo osservare un pianeta, guardiamo uno schermo invece di sollevare la
testa e aguzzare la vista. Ma il mondo fisico di BONAIUTI (si veda) Galileo non
esiste più, come non esiste più quello di Aristotele (noi non ci viviamo più);
altre costruzioni filosofiche ne hanno preso il posto e sono oggi al cutting
edge della scienza. Nel frattempo, i nostri giorni continuano a essere popolati
di pratiche e oggetti che sono il lascito di giochi «scientifici» a lungo
accantonati – di ciò che quei giochi sono stati in grado d’insegnarci. La
macchina a vapore fu inventata in base alla teoria del flogisto, l’esempio più
tipico di teoria screditata; molte persone colpite da tubercolosi sono state
curate dallo pneumotorace, anche se la teoria «meccanica» su cui lo
pneumotorace aveva basato il suo successo, avanzata da Forlanini, si è volta
presto in una simpatica curiosità. Nel prossimo (e ultimo) capitolo tirerò le
fila dei nostri sforzi. Qui voglio chiudere con una storia: un esempio di come
funzioni il gioco filosofico/scientifico, di come possa cambiare – forse in
meglio, forse orribilmente in peggio – le nostre condizioni di vita. (I fatti
che riferisco sono tratti da un articolo di Michael Specter intitolato The
Mosquito Solution e pubblicato sul «New Yorker) Le zanzare sono state
responsabili del 50% delle morti umane nella storia. La malaria, la febbre
gialla, varie forme di encefalite e numerose altre piaghe le vedono come
protagoniste. Fra le zanzare più letali c’è Aedes aegypti, che fa strage in
Africa e in Brasile ed è da poco rientrata negli Stati Uniti (vi aveva già
prosperato fino agli anni Sessanta del secolo scorso). Uno dei metodi con cui
si cercava di combattere Aedes era sterilizzando milioni di insetti con dosi
massicce di radiazioni e impedendo così loro di riprodursi. Ma, per quanto efficaci
con altri agenti patogeni, le radiazioni funzionavano male con animali piccoli
come le zanzare. Un genetista di nome Luke Alphey incontrò per caso un collega
che gli parlò della tecnica di sterilizzazione e delle sue difficoltà.
Immediatamente, vista la sua formazione professionale, pensò che, invece di
sterilizzare le zanzare, si potesse cambiarne il codice genetico in modo che si
autodistruggessero. C’erano due problemi, però. In primo luogo, bisognava
intervenire solo sui maschi, perché le femmine mordono gli esseri umani e
avrebbero potuto infettarli con chissà quale variazione genetica. In secondo
luogo, bisognava che i maschi rimanessero in vita abbastanza a lungo, e fossero
abbastanza vigorosi, per trasmettere i geni mortiferi ai loro discendenti.
Vuole il caso che, nella specie Aedes aegypti, le femmine siano molto più
grandi dei maschi, quindi facilmente identificabili; il primo problema poteva
essere risolto. E presto anche il secondo lo fu, ugualmente per caso. Alphey
infatti capitò in un seminario in cui si parlava di come la tetraciclina funga
da antidoto contro l’azione di un gene. Il piano era pronto: si sarebbero
creati milioni, miliardi di maschi Aedes con il gene autodistruttivo
proteggendoli in laboratorio con la tetraciclina; una volta immessi
nell’ambiente, avrebbero avuto il tempo e la forza di accoppiarsi prima di
soccombere (ormai privi dell’antidoto) insieme con tutta la loro progenie.
Detto fatto, il piano è già in fase di realizzazione in Brasile e in altri
paesi. Negli Stati Uniti, però, vari gruppi ambientalisti sono insorti
protestando: Possiamo prevedere tutto ciò che accadrà quando avremo scatenato
questo nuovo Frankenstein? Certo allora non potremo più rimettere il genio
nella bottiglia. Per esempio, che cosa succederà se anche solo poche femmine
sopravviveranno dopo il contatto con il gene e morderanno un essere umano?
Oppure, che conseguenze avrà la scomparsa di Aedes aegypti per la nicchia
ecologica che adesso occupa e per l’intera ecologia del sistema? Sullo sfondo,
intanto, si agitano domande filosofiche di grande profondità (cioè domande
globali sul tipo di vita che vogliamo vivere): È meglio sbarazzarsi di un
pericolo o imparare a conviverci? Può essere desiderabile un mondo in cui una
specie sia stata distrutta? È lecito considerare il bene degli esseri umani
come decisivo? È lecito per gli esseri umani giocare il ruolo di Dio? È un
esempio paradigmatico della natura ludica della ricerca più avanzata e
prestigiosa. Si procede (quando si procede e non si corre sul posto) non con un
disciplinato esame della questione e un lavoro certosino teso a scoprire che
cosa sia necessario per dirimerla (come vorrebbe la più comune ideologia) ma
invece ascoltando discorsi che non c’entrano, combinando contributi eterogenei,
mutando radicalmente prospettiva e contando molto sulla fortuna (se volete
giocare bene a briscola, o anche a bridge, fatevi venire delle carte). E, una
volta che, in questo modo macchinoso e fortuito, abbiamo eventualmente trovato
qualcosa che sembra risolvere la questione, dobbiamo confrontarci con il fatto
che ci sono rischi forse tragici nello scegliere una strada così inedita.
Potremmo illuminare la stanza o bruciare la casa, e, per quanto a lungo abbiamo
giocato per procura con una rappresentazione verbale o mentale delle
conseguenze della nostra scelta, girare l’interruttore è un’altra cosa. Prima
che ci si decidesse a esplodere una bomba atomica, c’erano fisici nucleari che,
sulla base della stessa teoria dei loro colleghi «interventisti», prevedevano
che l’atmosfera ne sarebbe stata consumata e la vita sulla Terra si sarebbe
estinta. È facile dire che avessero torto, dopo aver girato l’interruttore. E
dobbiamo confrontarci con il fatto che una questione non è mai davvero risolta:
che ogni risposta suscita nuove domande, che il gioco che ha prodotto quella
soluzione la supererà, come supererà ogni altra soluzione, perché il gioco non
ha mai fine. Sono i Labirinti dell’essere. Abbiamo compiuto il viaggio
promesso. Partendo dal gioco di una bimba di due anni abbiamo raggiunto giochi
fisici come il calcio e il tennis, intellettuali come gli scacchi e il bridge,
giochi in compagnia e solitari; abbiamo catturato nella nostra rete ludica
l’arte, la letteratura e la filosofia. E lo abbiamo fatto, converrà ripetere,
non riducendo il gioco a un’eterea silhouette, non facendo del «gioco»
filosofico o letterario una metafora che mostra presto la corda – perché se è
vero che ci sono analogie fra l’etica e il tressette, si sarebbe pronti a
obiettare, è anche vero che ci sono molte differenze. La bimba che ha
inaugurato la nostra avventura non ci ha mai lasciato; ha acquisito per strada
competenze e capacità che nessuno può avere a due anni, ma il suo universo
ludico è rimasto lo stesso, una versione adulta del medesimo gioco infantile.
Ha incorporato le pareti contro cui andava a sbattere come regole; collabora
con maggiore efficacia con i suoi compagni o li manipola con maggiore
destrezza; le sue vocalizzazioni hanno preso la forma di un linguaggio
articolato; ha imparato, quando è il caso, a parlare senza farsi sentire. Ma
l’acqua che scorre fra questi meandri (creati, è importante notarlo e ci
ritornerò fra breve, dall’acqua stessa) è ancora quella della sorgente: a
dispetto delle complicazioni, per la bimba cresciuta giocare (a calcio, a
scacchi, all’arte, alla filosofia, alla letteratura...) è pur sempre immergersi
senza alcun fine esterno in un’attività trasgressiva ed esplorativa, piacevole
e istruttiva, appassionata e rischiosa. Ogniqualvolta entro le regole che si è
imposta o le hanno imposto, o contro le regole, una persona riesce a ritrovare
lo spirito che l’animava a due anni, la bimba ritorna e riprende il controllo
delle operazioni: seria, intenta, un po’ inquieta, audace, intimamente
soddisfatta. Ancora Huizinga: «Il gioco del bambino possiede la qualità ludica
qua talis e nella sua forma più pura» (p. 40). La peculiarità di questo
atteggiamento risulta più chiara quando se ne considerino le conseguenze sul
piano dei valori. Se la filosofia avesse una sua definizione indipendente,
diciamo di essere tesa alla scoperta della realtà o della verità o della
saggezza, e fosse un gioco solo in senso metaforico, perché praticata con
creatività e passione, ne seguirebbe che una buona filosofia è quella che
meglio approssima la scoperta della realtà o della verità o della saggezza,
senza riguardo alla creatività o passione con cui è condotta. Chi eventualmente
potesse pervenire alle stesse scoperte senza creatività o passione avrebbe, in
ambito filosofico, gli stessi meriti (e dimostrerebbe che la metafora ha fatto
il suo corso: Giulietta non brilla più come il sole). Se invece la filosofia è
definita come un gioco, sia pure il gioco di cercare la realtà, la verità o la
saggezza, non ci può essere buona filosofia senza creatività e passione – e
trasgressione, e apprendimento, e rischio. Quali che siano le sue pretese di
verità e saggezza, una filosofia è degna della nostra attenzione e
partecipazione se ci spiazza e ci avvince, ci irrita e ci lusinga, ci fa vivere
ripetute Ah-ha experiences e ci suscita obiezioni e disaccordo a non finire.
Nello stesso modo, se il linguaggio è innanzitutto uno spazio di gioco, avremo
scritto una bella lettera, un bel racconto o una bella comunicazione d’ufficio
se le nostre parole sapranno riscuotere il lettore e implicarlo in un progetto
comune, il che tanto meglio faranno quanto più porteranno le tracce del respiro
e della saliva in cui sono nate, dell’eco che ci hanno fatto risuonare dentro,
dell’entusiasmo o dello sconforto, delle lacrime di gioia o di dolore che ne
hanno accompagnato l’accesso alla pagina. Ciò corrisponde esattamente,
peraltro, ai nostri giudizi empirici ordinari su testi filosofici e
comunicazioni d’ufficio, salvo che le nostre concezioni di tali oggetti non
fanno giustizia alle nostre intuizioni, e così rimaniamo perplessi davanti a un
testo filosofico o una comunicazione d’ufficio «che non hanno niente di
sbagliato» perché dicono quel che devono dire e contengono solo enunciati veri,
eppure ci sembrano, chissà perché, da buttare. Il discorso sarebbe terminato,
dunque: avremmo percorso il labirinto e saremmo arrivati nella stanza dove si
ritirano i premi. Ma mi piace pensare che la stanza non sia chiusa e che anzi
il premio consista in una porta aperta su un altro sentiero tortuoso da
percorrere, in un bosco stavolta anziché in una claustrofobica caverna. Non mi
lancerò qui nel nuovo viaggio cui il sentiero invita, ma getterò lo sguardo in
quella direzione per stimolare la mia e forse l’altrui curiosità. In questo
libro ho parlato del gioco come di un’attività esclusivamente animale, e
perlopiù umana. L’ambiente inanimato è stato visto come strumento del gioco
(palle, cubi, carta e penna) o come suo ostacolo (pareti, spigoli), non come
suo soggetto. La cosa sembra ragionevole: se il gioco, come ho detto, è vita,
allora è riservato agli organismi viventi; se consiste in una serie di mosse –
devianti, istruttive, pericolose, ma pur sempre mosse – allora per praticarlo
occorre potersi muovere, il che fra gli organismi viventi sembrerebbe escludere
le piante. Ma è poi tanto certo che così stiano le cose? Proviamo a giocare con
le apparenti tautologie che ho enunciato. Se la vita richiede funzioni che noi
siamo in grado di riconoscere come respiratorie, metaboliche e riproduttive, allora
è chiaro che un orso, un pappagallo e una quercia sono vivi ma una pietra no;
se il movimento richiede che un ente con una sua precisa struttura si stacchi
(almeno in parte) dalla sua posizione spaziale e ne assuma un’altra, allora
formiche ed elefanti si muovono ma un geranio o un cipresso no. Supponiamo però
di invertire l’equazione che ho appena citato: se il gioco è vita, la vita è
gioco. E ricordiamo che il movimento che conta per il gioco/vita si svolge in
uno spazio esistenziale, non sempre fisico. Con tali premesse, non è forse
gioco/vita quello di un cielo che non appare mai due volte nella stessa
configurazione, di un corso d’acqua che costruisce i suoi meandri o della
sabbia che costruisce un lido, di cristalli di neve di forme delicate e idiosincratiche
(ciascuno, sembra, un esperimento a sé stante), di una foresta che alterna
grovigli e radure, tronchi giganteschi e canne flessuose? E non è forse vero
allora che al mondo non esiste nulla di inanimato? Nel nono capitolo ho parlato
dei diversi modi in cui possiamo giocare con un altro: trattandolo da strumento
o da compagno. Vorrei aggiungere ora che trattare un altro da strumento
significa trattarlo come un oggetto inanimato: anche se l’altro è un essere
umano, il mio rapporto con lui (o lei) sarà basato sul controllo che esercito,
schiacciando i suoi tasti per ottenere l’effetto voluto. Il limite di questo
controllo sarà percepito come un’oscura minaccia e sarà causa di disagio o di
terrore; sentimenti così penosi hanno però un ruolo significativo – segnalano
la possibilità ancora indistinta di passare da un’utilizzazione a un incontro,
quando si riescano a dominare l’ansia e la paura. La medesima pluralità di
atteggiamenti ci è disponibile nei confronti di tutto l’essere. Possiamo
giocare con la natura come con una risorsa, e oscillare dalla boria sprezzante
di averla ridotta al nostro servizio all’inquietudine che quando meno ce lo
aspettiamo ci si apra la terra sotto i piedi (dal bruciare allegramente carbone
e petrolio al preoccuparci per il buco d’ozono e il riscaldamento globale),
oppure come con un compagno, raccogliendone i suggerimenti, facendole delle
proposte, cercando di costruire insieme un bel castello. Chi vive il rapporto
in questo secondo modo (molti lo fanno, pur se spesso non hanno parole per
dirlo) sente che una montagna lo sfida ma anche lo assiste premurosa nel
trovare una via per scalarla, che il mare ti avverte quando vuole lottare con
te, che la macchina ha piacere a distendersi veloce fra curve e dislivelli con
sapienti cambi di marcia, che il caffè mattutino parla di energia, di fiducia,
di piani ambiziosi per la giornata. Sarà bene che la smetta, prima che qualcuno
pensi che il gioco mi ha preso la mano – che poi sarebbe il suo, e il nostro,
destino. Ma non posso che congedarmi con una provocazione. Ho percorso un
labirinto per dipanare il senso di un’attività che è a sua volta labirintica,
ferocemente intricata. A quello che sembrava il termine del labirinto ho
trovato un’indicazione, ancora in buona parte misteriosa: che non si tratti di
un labirinto qualsiasi, che la sua natura labirintica sia la natura dell’essere
in quanto tale. Perché solo chi gioca, nelle mille disparate manifestazioni in
cui il gioco si realizza, è: è vivo, esiste. I labirinti ludici dell’essere sono
l’essere; il resto è uno zombie, un fantasma, uno spettro. Basta una risata
divertita per farlo scomparire. Ermanno
Bencivenga. Keywords: il piacere, teoria del linguaggio, logica libre, metodo
della logica, calcolo di predicati di primo ordine, logica di termini
singolari, piacere, bello, logica dialettica, implicatura, Hegel, Kant, gioco. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Bencivenga” – The Swimming-Pool Library. Bencivenga.
Grice
e Bene: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Tancredi
– scuola di Taranto – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Maruggio). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Maruggio,
Taranto, Puglia. Grice: “Molto bene”. Figlio da Lupo e da Perna Longo, entra nell'ordine
dei Teatini e fu professore. Lascia importanti opere come l'Apologia del
Tancredi e la Summa Theologica. A Maruggio, in sua memoria è stato intitolato
l'istituto comprensivo e una via cittadina.
Opere: “Apologia del Tancredi”, “Summa Theologica” “De officio S.
inquisitionis circa haeresim” “De immunitate, et iurisdictione ecclesiastica”,
“Theologiae moralis Tractatus”. Tommaso del Bene. Nacque in
Maruggio -- luogo nella diocesì, non già della diocesì di Taranto,
come li è scritto da molti; perchè è nullius come Tuoi dirli, ed è Commenda
della Religione di Malta -- e dopo di aver apprese le latine lettere, e le
greche, la matematica, e l’astronomia, entra fra’ Teatini, e ne professa
l’instituto in SS. Apolidi di Napoli. Sostenne l’ impiego di lettore di
filosofia. Ma avendo poi pubblicato il "De comitiis" per cui ebbe in
Napoli qualche disgusto, gli convenne di trasferii in Roma. Quivi pensando e
scrivendo in modo da piacere a quella corte, incontra miglior sorte, e fu predo
decorato delle cariche di esaminator del clero, di qualificator del S. Uffìzio,
e di confaitore di più congregazioni (a). Fu incaricato inficine co’Tea- tini
Vincenzio Riccardi, ed Aeoftino de Bellis della revifione ed y emendazione
dell’ Eucologio de Greci: e da Papa Alessandro VII. fu messo nella
congregazione indituita per l'esame delle proposizioni di Gianfenio. In premio
de’ fuoi fermisi furongli offerti alcuni Vcfcovadi ch’egli Rimò meglio di
modedamente rifiutare. On-? de terminò di vivere da semplice religioso in Roma.
(b). Le sue opere sono molte. Brieve Apologia del Tancredi, Poema di Ascanio
Grande. Si trova dietro l'Apologia dell’ iftefio poema fatta dall'arcidiacono
Palma, e Rampata in Lecce i Ò35. in 8. Niuno ha fatta menzione di
quell'opuscolo del P. Del Bene, dell’ Ab. de Angelis in fuori, il quale ne ha
parlato con lode nc’ Letterati Salentini Par. z. nella Vita del Grande pag.
i$z. a. De Comitiis yfeu Parlamenti! •, ac inciijfnter (T corollarie de aliis
moralibas marerii!, precipue de ecclefinQica immunitate, Dubitationes morale!.
Lugduni fttmpt. Nemejìi Trichet i6\g in 4. con dedicatoria dell’autore a Papa
Urbano Vili, e poi, da lui deffo ri- veduto ed ampliato, Avemonefumpt. Guill.
Halli inf. cor. dedicatoria al Card. Francesco Albizi. Quedo su il libro, per
cui dovette partir di Napoli il P. Del Bene. Prese in elfo a trattare della
morale, che nfguarda i tribunali regi, e gli delfi sovrani. Materia assai
di!icata,e che vuole altri lumi di quelli, che aver fuole il volgo de’ moralidi
3. De immunitate jurifdittione eccleftajlìca Opus abfolutìjfimum in z. parte!
di/lributttm. Ivi Jumpt. Phil. Borie, Laur. Arnaud, <5* Claud.
Rigaud in f. (c) 4. Summa theologica.
Ivi fumpt. Jo. Ant. Huguetan, O* Mar. Ant. Ravaud in f. 5. Trattarui morale!:
videlicet de Conscientia; de radice re/litu- rioni1 aliarumque obligationum
<2Tpcenarum,ut eucommunicatio- nii et irregularitatt! eu delitto de Comieiii
seu Parlamenti!, ubi etiam da alagiti (5“ contrattibus; de donativi! tributis
(T fubjìdio Caritativo. Avtnione Guill. Halli ió%8. in f. (d) ó.De (a) Di
tatti cotefli titoli fi fregia in virj suoi libri. (b) Cosi il Vezzoli Senti.
Titt. che cita i reijitlri di S.Ao'* ea della Val- le; e perciò debboao
correggerli il SavanaroU Gtrarth. Eccl. Tttt. p. 6j. e fegg. il Mazzucch.
Striti, $ lui. ed altri (c) E poi Avtniont Jo. Fiat. T.z. in f. Il MazzuecheHi
s’è inganna- to r eli attribuire a quell’ Opera le aggiunte fatte dall’Autore
al libro dt Offi. ti Y. Inquisitionit. (d) Il Vezzofi lot. tit, p.i 15.
annoi, z. cenfura il Mazzucchelii d’aver det-. t». BENE BENEDETTI.,99
• 6. De Officio S. Inquisitionis circa h<trejim cum Bulli* tam voteti- bus
quam recentioribus etc. Lugd. Jumpt. ] A. Huguetan, T. 2. in f. L’ autore poi
compose, e vi uni le seguenti: Additiones de loci theologicis ad tomo de
Officio S. Inquisitionrs perneceffa• ria in f. Opuscolo di pag. sa il quale fi
riftampò in 8. fenz’ alcu- na data, coi titolo di Trattanti in vece di
Additiones. 7. De Juramento, in quo de ejus 0" voti rclaxationibus &c.
cui Dectftonet S- Rotte Romana accedunt &C- Lugd. fumpt. guetan, 0" G.
Barbier. in f, CXI. da Capoa, ha rime nel Sello libro delle Rime di
diverfi eccell. Autori nuovamente raccolte ec. da G. Rufcelli. Vene*. G.M-
Bottelli 1553. in 8. (a), CXII. e Canonico Aquilano, diede alla luce: L'
Imprefe della Mae/là Cattolica di D. Filippi di Auflria II. Re di Spttgna
rapprefentate nel tumolo ptr la Jua, morte eretto dalla fedèlifs. citta de.’f
Aquila ec. Aquila Lepido Faci 1599. in 4. Toppi Bibl. Nap. CXIII. BENEDETTI (Giuf.
dilettò di Poefia volgare, ed era Paftor A/cade della Colonia Ater- nino, di
cui fu Vicecuftode, e vi fi denominò Alcidalgo Spai da- te (b) Nell’ Accademia
de’ Velati di fua patria egli era Principe
(r). Fu anche accademico Infenfato di Perugia (d). Di lui fi ha alle
{lampe la vita di Biagio Aleffandrò dall’Aquila nel- le Notiss. Iftor. degli
Arcadi morti BENEDETTO, Arciv. di Milano. V. Crifpo (Benedetto ), BE-. to,
edere (lato il libro de Comìtiis unito dal P. del Bene in un corpo, o to- mo il
Trattanti moralts: elfendo quello un libro didimo, comechè in alcuni efemplari
fi trovi a quello unito. Ora in primo luogo il Mazzucchelli non dice nè punto
nè poco di tutto ciò; e foltanto riferifee 1’ edizione de’ Trattatus moralts,
come io pure ho fatto, unendovi deCom'niis etc. La qual co- fa è ben diverta,
come ognun vede. Ma poi non fo, fé il Vezzofi nella cosa (Iella abbiali ragione.
Io non’ ho il libro, ma lo trovo riferito nel Cara!. Cafanattenfe alla voce
Detiene (sbaglio prefo pure dal Toppi B'bl. Nap. } infieme eoa quello de
Comìtiis; e ciò, eh' è più, il Nicodemo Addìi. al Toppi p.i]4. chiaramente
dice:,, Io oltre l’ultima edizione del libro de Co-,, mitiis etc. fi regillri
nel modo, che fiegue: Tbeologia moralis trattetus fextut. „ I. de Comìtiis etc.
II. de Alagiis etc. Un trattato fello ne fuppone cin- que, a’ quali dee unirli.
(a) Quadrio, Crefcimbeai, Tafuri.
Tommaso Del Bene. Keywords: Tancredi, Monteverdi, Tasso. Moralia, mos, morale,
cavalleria. Il santo cavaliere, mendacio, mentire, iuramento, morale, moralia,
abiuratio, conscienza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bene” – The
Swimming-Pool Library. Bene.
Grice
e Benedetto: l’implicatura conversazionale – scuola di Crema – filosofia
lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crema). Filosofo lombardo. Flosofo italiano. Crema,
Cremona, Lombardia. Insegna a Padova, di cui divenne in seguito rettore. È
ritratto in un dipinto di Giovanni Busi detto il Cariani, allievo del
Giorgione. L'iscrizione e lo stemma presenti sulla tenda a destra attestano che
il personaggio raffigurato è Giovanni Benedetto Caravaggi, filosofo e medico
appartenente a una nobile famiglia di Crema. Laureatosi nell'università di
Padova nel 1507 e divenutone lettore e rettore, Caravaggi era fratello di
Giovanni Antonio, anch'egli eternato in un ritratto del Cariani (Ottawa,
National Gallery of Art). E' probabile che il ritratto della Carrara origini dalle
proprietà della famiglia Caravaggi a Crema, visto che, come ricorda il
Piccinelli, postillando le Vite di F. M. Tassi, il 15 aprile 1828 Lochis
acquistò l'opera proprio a Crema (Bassi Rathgeb, 1959). Un'esecuzione cremasca
sarebbe anche confermata dal fatto che negli anni 1518-1520 Cariani esegui alcune opere in
quella città ed è quindi probabile che in questo stesso periodo cada anche il
ritratto in questione. Il pittore, nativo di Fuipiano al Brembo, si era trasferito
precocemente a Venezia dove si formò nell'orbita di Bellini e Giorgione e dove
compì la maggior parte della sua carriera. Nel periodo 1517-1527 tornò a
Bergamo con incursioni a Crema per adempiere ad alcuni incarichi, quale
probabilmente quello relativo al nostro ritratto, ed ebbe modo di sfoggiare il
suo elegante linguaggio giorgionesco, come emerge dal paesaggio montuoso oltre
la tenda, rischiarato da un cielo al tramonto dai toni rosati e cerulei.
Risalente a Tiziano è invece l'impostazione del ritratto dalla posa ruotata di
tre quarti e dalla sapiente costruzione prospettica, che ha i suoi punti di
forza nel braccio sinistro in scorcio e nel realistico volume appoggiato sul
tavolo. La posa naturale dello studioso, che pare interrompersi in meditazione
dalla lettura del ponderoso volume, è anch'essa un portato di Tiziano, i cui
ritratti sono liberi e naturali, lontani da schemi precostituiti. Curiosa la
presenza di un'altra firma sotto la cornice scura dipinta, che il recente
restauro ha appurato essere contestuale
alla realizzazione dell'opera.Giovanni Benedetto da Caravaggio. Benedetto.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benedetto” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Benincasa: l’implicatura conversazionale del nudo maschile nella statuaria
italiana all’aperto – scuola d’Eboli – filosofia campanese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Eboli).
Filosofo
campanese. Filosofo italiano. Eboli, Salerno, Campania. Grice: “Benincasa is a
good one; my fvaourite is his ‘la svolta dell’interpretatzione,’ for that is
what Boezio knew ‘hermeneias’ was! a turning point!” – Studia a Roma. Dopo aver completato tutti i suoi studi iniziò a lavorare
come traduttore di testi letterari (tra altri, Hans Urs von Balthasar) per poi
organizzare e curare mostre d'arte. Membro
della Commissione Consultiva Arti Visive della Biennale di Venezia e
consigliere del Ministro per i Beni Culturali e Ambientali. Insegna a Macerata, Firenze e Roma. Scrisse saggi
storico-critici su vari artisti. Opere: “Chiesa e storia di Suhard e il Concilio
Vaticano II, Paoline; “L'interpretazione tra futuro e utopia” (Magma, Roma); “Poetica
della negazione e della differenza” Il Giudizio Universale (Magma, Roma); “Sul
manierismo: come dentro uno specchio” (La Nuova Foglio); “Babilonia in fiamme:
saggi sull'arte contemporanea” (Electa, Milano); “Architettura come
dis-identità” (Dedalo, Bari); “L'altra scena: saggi sul pensiero antico,
medioevale e contro-rinascimentale” (Dedalo); “Anabasi Architettura e arte” (Dedalo,
Bari); “Alle soglie del sapere” Ed. del Tornese” Joan Miró 2C, Roma); Oskar
Kokoschka La mia vita” (Marsilio, Venezia); Oriente allo specchio 2C, Roma); Georges
Braque” (Marsilio, Venezia); Jackson Pollock: opere” (mostra, Bari, Castello Svevo)
Marsilio, Venezia); “Verso l'altrove: Fogli eretici sull'arte contemporanea” Electa,
Milano); Alvar Aalto” Leader); Umberto Mastroianni Monumenti” (Ed. Electa,
Milano); Il colore e la luce L'arte contemporanea” (Ed. Spirali, Milano); “André
Masson “L'universo della pittura” Mondatori, Milano; Spirali/Vel, "Alfio Mongelli: infinito futuro",
Joyce et Company, Il tutto in frammenti: arte Professore: una nuova interpretazione
storica” (Giancarlo Politi, Milano). La citta disalerno ricerca repubblica
repubblica archivio repubblica
biennale-il- psi-fa-incetta-di-poltrone. html1http://ricerca. repubblica. it repubblica/archivio/
repubblica artisti-rasputin-nel- mondo- dei- telefoni. html2 lacittadisalerno/
cronaca /benincasa-fece-amare-l-arte-all-italia-~:text=È%20morto %20ieri%20a%20
Roma, autore importanti%2 0opere letterarie Dal Benincasa 20 Beni
Culturali%20e%20 Ambientali. La Repubblica_1, su ricerca.repubblica. Errori
giudiziari, su errorigiudiziari.com
Carmine Benincasa. Keywords: il nudo maschile nella statuaria italiana
all’aperto, implicatura plastica, la svoglia dell’interpretazione, umberto
mastroianni, nudo maschile, statuaria, il segno del teatro: rito, mascara,
anabasi, arte come dis-identita, futurismo, arte futurista, Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Benincasa”– The Swimming-Pool Library.
Grice
e Benvenuti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola
di Montadine – filosofia cremonese – filosofia lombarda -- filosofia italiana –
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Montodine). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Montodine, Cremona, Lombardia. Grice:
“A good thing about Benvenuti’s discussion of Agostino’s semiotics is that
Benvenuti has a strictly philosophical background, rather than in grammar or
linguistics or belles lettres, or even ‘theory of communication.’ Therefore, he
INTERPRETS Augustine as *I* do!” -- Grice:
“You gotta love Benvenutti. He dedicated his life to the semiotics of Agostino
(who never knew he was a saint), the first Griceian. Benvenutti divides his
discussion of Agostino’s semiotics in three: the semiotic triangle, the
taxonomy of signs, and inferenza – For Agostino, ‘segno’ contrasts with ‘cosa.’
And a sign can signify ‘naturaliter’ (fumo, orma, volta). Or non-naturaliter – daglia
animali including homo – prodotto dall’uomo – a ‘gesture’ that has to be
perceived by one of the five senses – or by the senses – auditum (parola detta)
– visum (segno scritto).” --. Cesare
Benvenuti Cesare Donato Benvenuti Don
Cesare Donato Benvenuti (Montodine) filosofo. A partire dal 1708 ricoprì la
carica di Abate Generale Lateranense. Fece stampare un'opera sulla vita di
Sant'Agostino e una traduzione in italiano della Città di Dio Biografia Cesare Benvenuti nacque dal conte
Girolamo Benvenuti e dalla contessa Domitilla Scotti di Piacenza. La prima
istruzione fu nella casa paterna di Crema, successivamente nelle scuole tenute
dai Barnabiti. All'età di 16 anni volle seguire l'esempio dei suoi due fratelli
entrando nella vita ecclesiastica prendendo l'abito della Congregazione
lateranense a San Leonardo di Verona. Dopo sette anni di studi di filosofia e
teologia venne nominato lettore e come tale risiedette in varie città. Nel 1708
a Roma venne dichiarato abate perpetuo privilegiato con l'incarico di
presiedere alla Congregazione dei casi di coscienza e di emanare i giudizi
relativi. Per questo suo incarico che esercitò per otto anni crebbe la sua fama
di teologo tanto che dal cardinale Barberini lo volle accanto a sé come teologo
ed esaminatore sinodale. Benvenuti fu anche postulatore della cause dei santi e
si adoperò in particolare per la beatificazione del venerabile Pietro Fererio
che fu beatificato da papa Benedetto XIII.
Cesare Benvenuti era anche dotato di particolari capacità diplomatiche
tanto da ricevere incarichi in tal senso in Germania e a Vienna. Assieme a
questi ufficii curiali Benvenuti esercitò anche le pratiche caritative della
sua ordinazione sacerdotale visitando e prendendosi cura dei poveri e degli
ammalati. Trasferitosi da Roma a Napoli fu colpito da apoplessia e quivi
morì. Altre opere: “Vita del
gloriosissimo padre santo Agostino, vescovo e dottore di S.Chiesa” (Stamperia
Barberina); “Discorso Storico-Cronologico-Critico della vita comune dei
chierici de' primi sei secoli della Chiesa” (Stamperia di Antonio de Rossi); “La
città di Dio, opera del gran padre s. Agostino vescovo d'Ippona, tradotta
nell'Idioma italiano, Stamperia di Antonio de Rossi). stone lo Stato di
Grazia. I. Sono sua eredità, Vita comune deg'apostoli &the sono i primi
Sacerdoti di Gesù-Cristo.V.S. Lucanonne parla: la rispondechica vedere la poca
forza dell'argomento negativo. Vita comune de primi fedeli. Uti. Vita comune e
votiva de Santi Apostoli e de primi Fedeli Passò succesivamen s e la Vita
comune ne Ministri dell'Alrare. De' terapeuti, che se ne dice. Persecuzione
della Chiesa. Comunità di Vergini Sagre nelle decadenze di questo primo secolo,
è fa nell'incominciare del secondo Sentimenti d'Origene. Della Comunità
Apostolica come parli Cipriano. Del i modo di vivere degli Ecclesiastici Jocto
Dionigi. Paolino. SE G10LO 1L Comunità de' beni nello stato dell'innocenza.
Sacerdoti istituiti daGesù-Cria Vita comune votiva del clero di Gerusalemme
secondo la decretale afsritta a Clemente. Della comunità del clero ďAntiochia.
Della Vita, de Fedeli e reSpettivamente degli Eclesiastici cosa scrissero:
Giustino martire, Policarpo, Ireneo, Dionigi di Corinta ed Apollonia. Della
Vita comin g ne del Clero di Mans SECOLO III. Clemente Alessandrino come
parla della Continenza. Della vita comune votiva, triferita da Urbano Papal.
relativamente a quella descritra da Clemente PapaI. III. praticoinse la Povertà
Apostolica. Del celebre Pierio Prete della Chiesa diAlessandria. Genulfo Uomo
Apostolico promove la Vita Comunono Fedelida lui convertitieconfa. gratialculeo
del Signore on la Cornunità de'Cherici ly Vira Comune nel Clero di
Vercelli. Come de Cherici iparla Ilario Pittavienfe. Esortazione del
SantoDiaconoEfrem Siro agli Ecclessastici. Comunità de'Cherici della Chiesa
Rinocorurese. Basilio come parla a' CanoniciedaleCanonicbese. Basilio che
scrise di Ermogene e di Zenon neilPelusota, ed i molti Vescovie Preri Se
Epifanig. Che racconta Severo Sulpizio della Povertà d'u n Prece, Tofimonio
Postumiano. Del Clero vivente in commune nela Chiesa di Salaming in Cipre. De
Clero di Ambrogio di Milano. De Cherici d'Aquileja. Della Chiesa Cartaginesi.
Della Comunità di Agostino nelle vicinanze di Tagasta. Sentimenti di Girolamo
sopra lot Staro di Chorici. Comunità di Agostino Prete in Ippona. Della Comu
nità d'Agostino nel PalazzoVescovile–Ippona. Ii Concilio Cartaginese ci porta
la Comunità di Vescovi coloro Cherici. SEGOLO V. La Comunità Chericale Sparsa
perl'Africa. Di Mario Arelatenfee del suovina vere Chericale. Del Clero
Africano corso à Roma à cagione de'Vandali forto il Papa LeoIne. Cheg indižio
possa farlidelaperforiadit. Prospero e delsuo vivere Chericale, Della Vita
comunend Clero d'Ibernią foto,S.Rørrizio Vescovo.VI. Della Vita Regolare degli
Ecclesiastici della Chiesa di Calcedonia. Che dice Giuliano Pomerio de
Chericie, de Cherici del suo tempo. Del Pontefice Gelafio Primiera mente
tratasi delMonte Celio. De Laterani e loro Palazzo, che fù convertito nela
Basilica Lateranense, Del vivere comune de ChericiLao "teranefo,
Che's.Gelafio è Africano, Dell' antica puncupazione di Canoni, Dell'invasione
di Longobardi nel Monte Cassino e venutdai que' Monacià Roma, e loro dimora; e
dell'oratorio di Pancrazio, De Priori della Chiesa 1 Lateranense Canonici
Regolari SECOLO VI, m. Della Vita Chericale comune secondo quella d'Ippona
indicata negl'tti di Lorenzo detta! Illuminatore. Che cosa prescrive il
Concilio Ilerdense. Che il Concilio di Toledo, Che i Padri del Concilio
d'Orlans. Che ferive di Baudino Gregorio SICOLO:Ivi. Povertà Evangelica
sandria. Ill.Zin Canone del Concilio Romano, atribuito à Silvestro vien
intejaper Buplio Diacono. Comunità Chericalen e laChiesa d Ales O o. DI 1 1
Turonense. Che fece Leobina Vescovo nella Chiesa Carnotenje. Dalle proibizioni
del Concilio Arelaten fededucesi il metodo del vivere Chericale di que'
tempi.Vita Regolare ne' Cherici espressa nel Concilio di Tours. De vivere in
comune de Chericj in Romaforzo il Pontificato di Gregorio Magno. Note Fonte:
Francesco Sforza Benvenuti, Storia di Crema, p.37Filosofia Filosofo del XVII
secoloTeologi italiani 1669 1746 Montodine NapoliTraduttori dal latino. Don
Cesare Donato Benvenuti. Cesare Donato Benvenuti. Cesare Benvenuti. Keywords:
paganismo, religione romana antica, paganesimo ario in Italia, i romani, i
ostrogoti, i longobardi, religione romana, religione ostrogota, religione
longobarda, mitologia romana, mitologia ostrogota, mitologia longobarda,
cultura romana, cultura ostrogota, cultura longobarda, le fonte pagane della
teoria del segno in Agostino – semeion, signum, segno, segnare, segnante,
segnato. Antecedenti di una teoria unitaria del segno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuti” –
The Swimming-Pool Library. Benvenuti.
Grice
e Benvenuto: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del
grido – scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Napoli).
Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice:
“Benvenuto is a good one; my fiavoruite is his ‘stupore e grido,’ the
functionalist idea that after some sensorial input (stupor) you get the
manifestation in behaviour alla Witters – the ‘grido’ – and then there’s one
which is J. L. Austin’s favourite: his “a man of words and not of deeds is like
a garden full of weeds,” – difficult to translate, but Benvenuto offers,
‘dicieria,’ and ‘dicitura,’ which aptly combines with ‘empiegatura, or in my
more Latinate (or learned) terminology, ‘in-plicatura’!” Già Primo Ricercatore presso l'Istituto di Scienze e
Tecnologie della Cognizione (ISTC) del CNR a Roma. Professor Emeritus di
Psicoanalisi presso l'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di
Kiev (gemellata all'Nizza). Ha fondato (nel 1995) e diretto l'European Journal
of Psychoanalysis. Ha compiuto gli studi universitari all'Università Paris
VIIDenis-Diderot dal 1967 al 1973, dove ha ottenuto la Maîtrise in Psicologia.
Nel frattempo, ha seguito i seminari di Roland Barthes e di Jacques Lacan. In
seguito ha preparato un dottorato in Psicoanalisi con Jean Laplanche
all'Università Parigi 7. A Milano si è formato in psicoanalisi attraverso gli
psicoanalisti della S.P.I. Elvio Fachinelli e Diego Napolitani, fondatore della
Società Gruppo-Analitica Italiana.
Trasferitosi in seguito a Roma, si divide tra la ricerca in psicologia
sociale al CNR, l'attività privata come psicoanalista, e il lavoro di
pubblicista. È stato cofondatore e caporedattore della rivista Lettera
Internazionale (fondata nel 1984) ed è tuttora assiduo collaboratore del
trimestrale Lettre Internationale di Berlino, e Magyar Lettre di Budapest. Nel
1995 ha fondato a New York il semestrale Journal of European Psychoanalysis,
divenuto poi EJPsy, European Journal of Psychoanalysis, che tuttora dirige.
Dal insegna psicoanalisi all'Istituto
Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev e all'Istituto di
Psicoanalisi Moderna di Mosca. Pensiero
Benché Benvenuto si sia occupato di campi in apparenza alquanto diversi tra
loropsicologia sociale, filosofia del linguaggio e della politica,
psicoanalisi, teoria della politicaa partire dagli anni 90 ha articolato un
progetto predominante che tocca i vari campi: sostituire al primato della
riflessione sulla Verità (tipico della cultura occidentale) una riflessione che
punti al Reale. In questo modo egli cerca una terza via tra le due culture
predominanti e in opposizione in Occidente: l'epistemologia positivista
(interessata alle condizioni di verità degli enunciati) da una parte, la
fenomenologia e l'ermeneutica dall'altra (interessata al disvelamento di una
Verità che si dipana nella storia umana).
Egli mutua il concetto di Reale dal pensiero di Jacques Lacan, ma ne
allarga il senso, includendovi tutto ciò che resta esterno (origine e resto) a
ogni assetto di senso, sia esso scientifico, estetico, o etico-politico. Il
Reale è quel fondo attorno a cui gira ogni teoria scientifica, ogni produzione
artistica, la psicoanalisi di ciascun soggetto, ogni assetto etico, e che resta
sempre in eccesso rispetto a tutti questi “discorsi”. Così, il Reale di ogni
teoria scientifica è il Caos che si pone come limite e sfondo di ogni processo
causale. Il Reale in psicoanalisi è il fondo pulsionale, corporeo,
irriducibilmente individuale, di fronte a cui ogni interpretazione si
arresta. In Dicerie e pettegolezzi (dove
articola una teoria delle leggende metropolitane) mostra come quasi tutto il
nostro sapere di fatto sia costituito da leggende metropolitane, oltre le quali
fa capolino la realtà dell'evento che ogni discorso sociale aggira. In Un
cannibale alla nostra mensa affronta la questione del relativismo moderno, a
cui oppone un “relativismo relativo”, facendo notare come ogni impostazione relativista
rimanda necessariamente a qualcosa di assoluto che resta non tematizzato,
presupposto e schivato. Accidia è una storia della malinconia dal Medio Evo
fino a oggi: il senso e la natura che ogni epoca dà alla “depressione” rimanda
a un vissuto opaco che nella storia viene interpretato diversamente. In “Sono uno spettro, ma non lo so” analizza
la cultura degli spettri e il nostro rapporto con i morti, notando come la
morte “viva” tra noi proprio come istanza di Reale inassimilabile a ogni
progetto di vita, ma che avvolge la costituzione di questi progetti. In
particolare (ad esempio in La strategia freudiana e in Perversioni) si è
dedicato a una rilettura originale della teoria di Freud, e della psicoanalisi
in generale, come fondata su una metafisica precisa della “carne significante”.
Il tessuto interpretativo ed esplicativo di Freud rimanda però a sua volta a
qualcosa di non interpretabile né spiegabile: la pulsione come sorgente opaca e
non-significante della soggettività.
Altre opere: “La strategia freudiana, Napoli, Liguori); "Traduzione / Tradizione" in
Moderno Postmoderno, Feltrinelli, Milano); La bottega dell' anima, Milano,
Franco Angeli); Capire l'America, Genova, Costa et Nolan); Dicerie e
pettegolezzi, Bologna, Il Mulino); Un cannibale alla nostra mensa. Gli
argomenti del relativismo nell'epoca della globalizzazione, Bari, Dedalo);
Perversioni. Sessualità, etica e psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri);
“Accidia. La passione dell'indifferenza, Bologna, Il Mulino); “Lo jettatore,
Milano, Mimesis); “La gelosia, Bologna, Il Mulino); “Alle origini del
relativismo moderno”, Dei cannibali, Mimesis, Milano); “Confini
dell'interpretazione. Freud Feyerabend Foucault, Milano, IPOC); “Sono uno
spettro, ma non lo so, Milano, Mimesis); “Wittgenstein. Lo stupore e il grido,
Milano, meditare; Sette conversazioni per capire Lacan, Milano, MIMESIS, La
psicoanalisi e il reale. 'La negazione' di Freud, Orthotes, Napoli-Salerno.
Godere senza limiti. Un italiano nel maggio '68 a Parigi, Milano, Mimesis, Leggere Freud. Dall'isteria alla fine
dell'analisi, Orthotes, Napoli-Salerno. Il significante, tra Saussure e Lacan,
su journal-psychoanalysis.eu. su psychomedia. Il progetto della psichiatria
fenomenologica, su mondodomani.org. Sergio Benvenuto. Keywords: il grido, segnante,
segno, segnato, arbitrario, naturale, convenzionale, established, recognised,
stabile, stabilito, sistema di communicazione, iconico, non-iconico,
convenzionale, assoziativo, artificiale, non-naturale, non-artificiale,
procedimento, repertorio di procedimento, idio-lecto, idio-sincrasia,
popolazione, interprete, interpretante, mittente, recipiente, nozione di
consequenza come nozione comune a segno naturale e segno no naturale, Hobbes
sulla consequenza del segno convenzionale, segno naturale, segnare
naturalmente, segnare non naturalmente, l’adverbio ‘naturaliter’, ‘ad
placitum’, a piacere, natura, convenzione, posizione, natura, phusei, thesei,
positio, positione (ablativo di positio) – thesei – ‘natura’ (ablativo di
natura), imago Acustica, naturalita dell’imago, segno come imago, Benvenuto su
Plato sulla aribtrarieta del segno, Benvenuto su Heidegger sulla arbitrarieta
del segno, l’impiegatura della dicitura, segnante, meaner, one-off
communication, communicatum, segnaturm, one-off segnatum, iconico, non-iconico,
confine dell’interpretazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuto” – The
Swimming-Pool Library. Benvenuto.
Grice
e Berardi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale telepatica
– scuola di Bologna – filosofia bolognese – filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Bologna).
Filosofo
italiano. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Bologna, Emilia-Romagna. Grice:
“You gotta love Berardi, but I wonder if his background is in the classics – he
has written on ‘il futuro della comunicazione,’ and coined some nice
neologisms, like ‘psiconautica,’ – which is like my telementationalism, only
different – and dialogued with Guattari --
While Berardi is into ‘il futuro della comunicazione,’ we at Oxford,
them with a lit.hum. are usually into the PAST of communication!” -- Franco
Berardi (n. Bologna), filosofo. Detto
“Bifo” -- Agitatore culturale italiano. All'età di quattordici anni si iscrive
alla FGCI, ma ne viene espulso tre anni più tardi per "frazionismo".
Partecipa al movimento del '68 nella facoltà di lettere dell'Bologna, ove
conosce Negri. Si laurea in Estetica con Luciano Anceschi e aderisce a Potere
Operaio, gruppo della sinistra extraparlamentare di cui diviene figura di
spicco a livello nazionale. Nel 1970 pubblica il suo primo libro, Contro il
lavoro (edito da Feltrinelli). Fonda la rivista A/traverso, un foglio che era
espressione dell'ala "creativa" del movimento bolognese. Nei suoi
scritti mette al centro della propria analisi il rapporto tra movimenti sociali
e tecnologie comunicative. Partecipa alla fondazione dell'emittente libera
Radio Alice e subisce l'arresto per l'accusa di partecipazione alle Brigate
Rosse, da cui viene assolto un mese dopo. Per richiederne la scarcerazione,
Radio Alice organizza una festa in Piazza Maggiore, a cui partecipano oltre
diecimila persone. Berardi viene scarcerato poco dopo, e diviene il leader
dell'"ala creativa" della protesta studentesca bolognese del 1977.
Dopo la chiusura della radio da parte della polizia, contro Berardi viene
spiccato un mandato per "istigazione di odio di classe a mezzo
radio", per sottrarsi all'arresto fugge da Bologna. Si rifugia a Parigi
dove frequenta Félix Guattari e Michel Foucault e pubblica il libro Le Ciel est
enfin tombé sur la terre (Éditions du Seuil).
Negli anni ottanta rientra brevemente in Italia e poi si trasferisce a
New York dove collabora alle riviste Semiotext(e), Almanacco musica e Musica
80. Viaggia a lungo in Messico, India, Cina e Nepal. In quel periodo inizia ad
occuparsi della crescita delle reti telematiche e preconizza la futura
esplosione della rete quale vasto fenomeno sociale e culturale[senza fonte]. Alla
fine degli anni ottanta si trasferisce in California dove pubblica alcuni saggi
sul cyberpunk. Ritorna a Bologna e, in veste di protagonista, partecipa al
documentario Il trasloco di Renato De Maria, prodotto dalla RAI nel 1991,
incentrato sulla storia del suo appartamento. Collabora poi con varie riviste
culturali fra cui Virus mutations, Cyberzone, Millepiani e varie case editrici
fra cui la Castelvecchi e DeriveApprodi. Collabora, inoltre, alla stesura di
testi per MediaMente, la trasmissione televisiva prodotta da RAI Educational e
condotta da Carlo Massarini dedicata al mondo di Internet e delle nuove
tecnologie di comunicazione. Collabora
alla rivista DeriveApprodi insieme a Sergio Bianchi e altri. Cura con
Pasquinelli l'ambiente di rete Rekombinant. Nel 2002 fonda Orfeo Tv, la prima
televisione di strada italiana. Nel 2005 un suo pamphlet che si scaglia contro
le politiche sociali del nuovo sindaco di Bologna Sergio Cofferati viene
ripreso con enfasi dalle testate giornalistiche nazionali. Lavora come
insegnante presso l'istituto tecnico industriale Aldini Valeriani di Bologna.
Pubblica regolarmente sul quotidiano Liberazione, sulla rivista alfabeta2 e sul
sito Through Europe. Collabora alla rivista canadese Adbusters. Anima la
mailing-list Rekombinant con Pasquinelli.
Altre opere: “Contro il lavoro”; “Scrittura e movimento” (Marsilio); “Teoria
del valore e rimozione del soggetto: critica dei fondamenti teorici del
riformismo” (Verona, Bertani); “Primavera” (Roma, Stampa Alternativa); “Chi ha
ucciso Majakovskij” (Milano, Squi/libri); “L'ideologia francese: contro i
"nouveaux philosophes"” (Milano, Squi/libri); “Finalmente il cielo è
caduto sulla terra. Milano, Squi/libri); “La barca dell'amore s'è spezzata.
Milano, SugarCo); “Dell'innocenza” (Bologna, Agalev); “Presagi. L'arte e
l'immaginazione visionaria” (Bologna, Agalev); “Terzo dopo guerra” (Bologna,
A/traverso); “La pantera e il rizoma” (Bologna, A/traverso); “Una poetica
Ariosa” (Milano, ProgettoArio); “Più cyber che punk. Bologna, A/traverso); “Politiche
della mutazione. Milano-Bologna, Synergon), “Dalla psichedelia alla telepatica”
(Milano-Bologna, Synergon); “Hip Hop rap graph gangs sullo sfondo di Los
Angeles che brucia. Milano-Bologna, Synergon); “Cancel et Più cyber che punk. Milano-Bologna,
Synergon); “Come si cura il nazi. Castelvecchi); “Mitologie Felici. Milano,
Mudima); “Mutazione e cyberpunk. Immaginario e tecnologia negli scenari di fine
millennio. Costa et Nolan); “Lavoro zero. Castelvecchi); “Neuromagma. Lavoro
cognitivo e infoproduzione. Castelvecchi); “Ciberfilosofia”; “Dell'innocenza”,
“Premonizione. Verona, Ombre Corte); “Exit. il nostro contributo all'estinzione
della civiltà. Costa et Nolan); “La nefasta utopia di Potere operaio. Castelvecchi);
“Alice è il diavolo. storia di una radio sovversiva”; “Shake edizioni. La
fabbrica dell'infelicità: new economy e movimento del cognitariato. Roma,
DeriveApprodi); “Felix. Narrazione del mio incontro con il pensiero di
Guattari, cartografia visionaria del tempo che viene. Luca Sossella Editore),
“Quando il futuro incominciò. Fandango Libri); “Un'estate all'inferno”; “Telestreet.
Macchina immaginativa non omologata. Baldini Castoldi Dalai); “Il sapiente, il
mercante, il guerriero. Dal rifiuto del lavoro all'emergere del cognitariato” (Roma,
DeriveApprodi); “Da Bologna (serie A) a Bologna (serie B). DeriveApprodi);
“Skizomedia. mediattivismo. Roma, DeriveApprodi); “Europa 2.0 Prospettive ed
evoluzioni del sogno europeo, edito da ombre corte, Un'utopia senile per
l'Europa. Run. Forma, vita, ricombinazione, Mimesis); L'eclissi. Dialogo
precario sulla crisi della civiltà capitalistica, Manni Editori); “La
Sollevazione. Collasso europeo e prospettive del movimento. Manni Editori); “L'anima
al lavoro, DeriveApprodi); “After the future AKPress, Oakland); “Dopo il
futuro. Dal futurismo al cyberpunk. L'esaurimento della modernità,
DeriveApprodi); “La nonna di Schäuble. Come il colonialismo finanziario ha
distrutto il progetto europeo, Ombre corte,
Heroes Suicidio e omicidi di massa, Baldini et Castoldi, Asma, C&P Adver Effigi); “Contro il
lavoro, DeriveApprodi); “Il secondo avvento. Astrazione apocalisse comunismo,
DeriveApprodi); “Futurabilità, Produzioni Nero); “Respirare. Caos e poesia,
Sossella), “Il trasloco”, “Io non sono un moderato”. Note
Filmato audio Alexandra Weitz, Andreas Pichler, L'eterna rivolta, su
YouTube, 2006, a 0 min 47 s. 6 agosto.
Cronologia di Radio Alice, radiomarconi.com. 6 agosto. E-text s.r.l. (http://e-text/), MediaMente:
Franco Berardi, su mediamente. rai.).
Bifo: "Con la Gelmini non insegno" Sospeso dall'insegnamento |
Bologna la Repubblica Cominciamo a
parlare del collasso europeo, alfabeta2
rekombinant liste.rekombinant.org, su
rekombinant.liste.rekombinant.narkive.com. 6 aprile. A/traverso | Casa Editrice Etichetta
Discografica | AlterAlter Erebus press et label, su Alter Erebus. Guattari
Deleuze Movimento del 'Radio Alice Telestreet Internet Movie Database,
IMDb.com. //th-rough.eu/Pagina personale di Bifo sul Through Europe Interregno[collegamento
interrotto]Hacer lo imprevisible… después del 68: Entrevista con B. Bifo (Español)
Rekombinant"Listblog" animato da Franco Berardi e Matteo Pasquinelli
radioalice.orgsito web su Radio Alice Il Trasloco (scaricabile) su New Global
Vision, su ngvision.org. podcast. Fm la tribu.com Podcast en castellano Entrevista
con Bifo en FM La Tribu, Buenos Aires Articoli su arte e sensibilità, European
School of Social Imagination San Marino; scepsi.eu.). Interviste a Franco
Beradi di Christian Brogi, su ltmd. B. su Bookogs. Biografie Biografie Letteratura Letteratura Politica Politica Categorie: Saggisti italiani Filosofi
italiani Professore Bologna Militanti di Potere Operaio Movimento Studenti
dell'Bologna Fondatori di riviste italianeAttivisti italiani. Franco Berardi.
Keywords: telepatica, implicatura del presagio, poetica ariosa, progetto ario,
telepatia, pre-sagio, sagio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Berardi” – The Swimming-Pool Library. Berardi.
Grice
e Bernardi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del duello
– scuola di Mirandola – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Mirandola). Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Mirandola, Modena, Emilia-Romagna.
Grice: “We discussed Bernardi with Sir Peter – when we were tutoring on
‘Categoriae’ – “Surely this is not propedeutic logic! This is pure metaphysics,
and even pure physics!” Bernardi held the same view! On top, I love Bernardi
because he does not use ‘logica,’ which he thinks for ‘kids,’ but ‘dialettica,’
which is real philosophy!” Aristotelico,
nominato vescovo di Caserta. Duomo di Mirandola. Compiuto gli studi presso Bologna
avendo come maestri Boccadiferro (l’autore di un trattato sui luoghi comuni
d’Aristotele) e Pomponazzi. Si trasferì poi a Roma presso la corte di Farnese,
dove frequenta Bembo, Casa e Giovio, e si conquista una fama di filosofo
aristotelico e letterato. Consacrato
vescovo di Caserta. Poi a Parma nel
monastero di San Giovanni dei Cassinesi. Fu tumulato nel Duomo di Mirandola. In occasione del centenario della sua nascita,
il Centro Internazionale Pico gli dedicò
un convegno. Saltini utilizzat la figura di B. come personaggio del suo romanzo
storico L'assedio della Mirandola. Atre
opere: “La Monomachia” -- dove si sostiene che il duello è legittimo secondo la
ragione e la filosofia morale ma illecito sotto il punto di vista
religioso. Duello cavalleresco.,
Antonio Bernardi della Mirandola. Un aristotelico umanista alla corte dei
Farnese. Atti del convegno "Antonio Bernardi nel V centenario della
nascita" (Mirandola), M. Forlivesi, Firenze, Olschki, Aristotelismo. Zambelli,
B., in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 9, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia Categorie: Vescovi cattolici italiani Filosofi italiani Professore Mirandola Bologna.
EVERSIONIS SINGVLARIS
CERTAMINIS. PROPOSITVM NOBIS EST, SINGVLARE certamen, quantum quidem
poterimus, fundamentis ſanctiſsimæ religionisnoſtræinnitentes, euertere, ac pe
nitus ex animis hominum extirpare, (utpote quod ab homine qui Chriſti
ſeruatoris noftri religionem et pie tatem profitetur, abhorreat.) Sed quia
edituseſtliber quidam, infcriptus Contra uſum duelli,in quo multa e tiam
diſputanturcontra libros noſtrosDehonore,ubi agitur de ſingulari certamine: qui
libri ſub nomine loan nis Baptiſtæ Poſleuinifallò in lucem prodierunt:etlino
lateat nos illud Ariſtotelis, to gasto TutóvG-gvarſíce tas Sofaes espolwaulio
agorti{ eup vxbés oszy: tamen faciendum nobis primùm uidetur,ut ea refellere
conemur, quæ contra libros noſtros De honore fcripta ſunt: ut,qui tantű. modò
uerborum faciem intuentes, interius autem non expendentes reconditam rerum
ueritatem, putauerunt eius libri quem diximus, auctorem, Ariſtotelis ſenten
tiam, ueritatem ipſam omnino affequutum effe, facileintelligant,non folùm no.
ftra quæ is refellit Peripateticorum doctrinæ prorſus conſentire, fed etiam
tantum abeſleut ille (quiquidem magnum ſeadiumentum fuo hoclibro generi humano
at tuliſſe putauit) ex doctrina Ariſtotelis, et ex philoſophiamoralilingulare
certamē euerterit,ut id etiam ex ipfiuſmet uerbis dari ac permitti in omnibus
fere cauſis per, ſpicuè appareat.At ita plane intelligetur,fierinon poſſe
utſingulare certamene, uertatur,niſiex fundamentis ſanctiſsimæ religionis
noftræ. Quæ quidem res potiſ fimùm nos impulit,ut ad hæcſcribenda aggrederemur.
Hocigitur (niſi fallimur) cum ita futurum ſit contra id quod ſibi iſte
propoſuerat,magis probandữmihiqui dem uidetur eius conſilium, uoluntas, quàm eo
ipfe laudandus, quòd quæ uel let præſtiterit. Sed primùm loquamur generaliter,
ponentes id quod ipfe fatetur totius ſuæ cau fæ fundamétum efle,uidelicet
ipſius ſingularis certaminis plura eſſe genera. Verùm antequam ueniamus
adipfius uerba, uideamus quam facilè hoc eius fundamentum
peruertamus:accipientes ex eis quæ ipfe conceſsit &dixit, arma, quibus eius
impe, tus aduerſusnoftrum librum labefactetur atą frangatur. Sed quia nos, qui
deopi nione Ariſtotelis diſſerimus, hujus controuerſiæ iudicem Ariſtotelem
conſtitui mus: afferemus in omnibus uerba ipſius Ariſtotelis, ponentes ea ante
oculos, ucho mines qui non certis quibuſdam, deſtinatis ſententijs addicti
confecratiga funt, fed ueritatem amplecti deſiderant, facile intelligant quam
iniuſtè, quàm etiam con. tra hominum utilitatem, iſte in me quali grauiſsimum
aliquod facinus admiſillem, inuaferit. Sed iam ad rem ueniamus. Omnia
ſingularia certamina, quæ ex fundamentis naturæ, non ex fancta noftra religione
permitti poffunt, ſuntunius generis,uel fpeciei(utiſte loquitur:)ergo fun
damentum eius à ueritate abhorret, quod ſcilicet fint plura genera: et quòd ob
hanc caufam unum genus fuerit permiſſum, &aliud nõ permiſſum. Ex quo
poftmodum emanat, me in libro Dehonore non eſſe lapſum, quia ignorauerim nomen
&no. tionem, uim; et originem fingularis certaminis,cum dixerim eius nomen
apud GræcosfuiffeMonomachiam,apud Romanos Singulare certamen: quia non fue runt
generalia nomina(ut ipſe dicit )fed folùm nomina unius fpeciei uel generis.
Conſequentia perſpicua eft: id uero quod antecedit, probemus in hunc modum.
Illa certamina quorum eft idem finis, effe etiam eiuſdem generis uel ſpeciei
neceſſe eſt.hoc enim loco pro eodem ſumuntur genus et ſpecies. Propofitio ifta
conceſſa eſt ab ipſo, etenim a diltinctione finium ſumpſit diſtin, a ctioncm
EVERS. SING CERTA M. ctionem illorum certaminum:ut ex fine,qui erat
honor,concluſit unum genus cer, 2. Deanima. taminis. Sed probemus ipfam ex
Ariſtotele. etenim ipſe inquit: Quoniam autem à text.49. fineappellariomnia
iuſtum eſt. Item inquit: Determinatur enim et definitur u. 3.Ethic.o. numquodą
fine. Siquidem &ſuperabundantia ut nominetur ad finem, &excellen "
tia uirtutum oporter. Si ergo unumquodq; determinatur &definitur fine:
ſingu laria ergo certamina decerminabuntur et definientur fine. Ergo ſi finis erit unus, una erit ſpeciesſingularis certaminis:ſi
plures,ergo plures ſpecies. De cælo Item Ariſtoteleshæc ſcripta reliquit:Cuius
enim cauſa unumquod eſt, &factű mundo,tex.116 eſt ipſum eſt illius
ſubſtātia. Quæ ergo certamina habent eundē finē, ut fint etiam 1.Oeconom.
eiuſdem ſpeciei neceffe eft: etenim ſunt eiufdé fubftantiæ et formæ,necefTech
eſt ut materia tantùm differant. Sed omnia illa ſingularia certamina quæ ipſe
conceſsit ex fundamentis naturæ, et illud etiam genus quod nos conceſsimus in
libris Deho. nore, ſunt certamina ſingularia, quorum eſt idem finis:ut igitur
ſint eiuſdem gene. ris uel ſpeciei,neceſſe eſt. Minor probaturſic:llla
quorum honeſtum eſt finis, ſunt eiuſdem finis. Propofi tio iſta perſpicua eſt.
Sed omnium illorum quæ ipfe conceſsit (utpugnare pro pa tria,pro coniuge,pro
regnis, honeſtum eſt finis:ergo habent eundem finem. Sed oftendanus pofterioris
huiusſyllogiſmiminorem. Sienim honeſtum non effet eo. rum finis, non eſſent
concedenda a Republica bene inſtituta: quandoquidem Rer publica bene inſtituta
nunquã concedicinhoneſta, alioquin nõ eſec bene inſtituta. 1. Rhet... Item inquit Ariſtoteles:Ėc fimpliciter bona ſunt honeſta, et quæcunq
pro patria facit,perdens fua. Qui ergo facit pro patria, facit propter
honeltatem. " Item, Viri fortis finis eſt honeſtum. Qui pugnant pro
patria, pro coniugibus, pro filijs, prore. gno,ſuntuirifortes:ergo eorum
quipugnant pro patria, pro coniugibus,pro filijs, pro regnis,eſt finis
honeſtum. Maior etli perſpicua ex ſe eſt, declaraturtamen ab Ariſtotele his
uerbis, quæ ſư 3. Ethic.io. prà etiam citauimus ad aliud probandum: Finis enim,
inquit, omnis actionis eft fe., cundum habitum: &uiro forti fortitudo eft
honeſta, &talis eſt finis: determinatur, ' et definitur unumquodq;
fine.Honeſtienim gratia fortis ſuſtinet &agit ea quę funt, ' ſecundum
fortitudinem Ergo uiri fortis eſt finis honeſtum. Deinde paulo pòſt
inquit: Oportet autem non propter neceſsitatem fortem el so ſe,ſed quia
honeſtum eſt. Item paulo poſt inquit:Fortes enim agunt propter honeſtā
ira aūtadiuuatipſos." 1. Rhet... Item inquit:Quæcunq; funt opera
fortitudinis, funt honeſta et iufta: et opera iu. ftè facta,ſupple ſunt
honeſta. Bernardi (Ant., Mirandulani, Episcopi Casertani ). B. / di
Mirandulani, epiſcopi Caſertani, Eversionis / Singvlaris Certaminis Libri XL. /
In quibvs cvm omnes inivriæ ſpecies declarantur: tum uerò offenſionum, et côtentionum,
quæ ex illis nafcuntur, honeſtė atque ex uirtute tol- / lendarum ratio traditur:
et præter multos, ac propè in- ! finitos locos Ariſtotelis, qui ſunt
difficilimi, obiter explicatos. Animi etiā immor talitas ex ipfius ſententia
oſten- / ditur: Aſtrologiæ quoq; diuinatio omni pene autoritate fpoliatur,
atque libertas humana ſtabilitur. Ad amplißimum
uirum Alexandrrm Farnesium Cardinalem, S. R. E. Vicecancellarium. Acceſsit
locuples rerum et uerborum toto Opere memorabilium, Index. --- Basilea, Per
llenricum Petri. [ W - 1 '] In folio, al princ. Di queste: 3 per la dedica e 13
pel Rerum atqve verborum locuple tibimus Index. Nel testo alcune iniziali con
vignette. La stessa opera di questo autore, detto da alcuni il Mi randola,
dalla patria, e da altri il Caserta dalla dignità, è stata pure pubblicata
sotto l'altro titolo: - Mirandulani, epiſco- i pi Caſertani, 1 Dispvtatio /
nes. I – In qvibvs primvm ex professo / Monomachia (quam Singulare certamen
Latini, recentio- res Duellum uocant) philoſophicis ra tionibus aſtruitur, et mox. diuina authoritate labefactata penitùs
euertitur: omnes quoq: iniuriarum ſpecies declarantur, easq'; conciliandi / et è
medio tollendi certiſsimæ rationes traduntur. Deinde uerò omnes utriuſque Phi
lofophiæ, tam contemplatiuæ quàm actiuæ, Loci obfcuriores, et ambiguæ
Quæſtiones, / (præſertim de Animæ immortalitate, et Aſtrologiæ iudi- / ciariae
diuinationibus) Ariſtotelica methodo / luculentiſsimè examinantur et / expli
cantur. Ad amplißimum uirum Alexandrem Farnesirm / Cardinalem,
S. R. E. Vicecancellarium. Acceſsit locuples rerum et uerborum toto
Opere / memorabilium, Basileae, Per Henriccm / Petri, et Nicolarm SCIENZA
CAVALLERESCA ANTICA Bryling. | - (In
fine:) Finis Qvadragesimi et vltimi i libri Euerfionis fingularis certaminis. /
[ Fer] In folio p. 694 con iniziali con vignette. Al princ. 18 p. 1. n. pel
titolo, pella dedica al Cardinale Farnese (nella quale accusa di plagio
Possevino, uditore suo, per essersi appropriata un'opera sull'Onore da esso
scritta ) e pell' Index. Il Tiraboschi nel t. 1.o della Bibliot. Modenese a p.
241 erroneamente sem brasa credere, che questa seconda edizione losse la stessa
cosa della 1.a edizione, della quale essố aveva trovato il titolo nel
Mazzuchelli. – Di quest'opera voluminosa del Bernardi, divisa in 40 libri e
scritta col preteso assunto di abbattere il duello, stampa il Maffei, che è
stata stesa; « con metodo sco « lastico e coll'argomentazione usata in quegli
scrittori, che si chiamano di Filosofia; ma procedendo sempre con « equiroci, e
confusion di vocaboli e con perpetui sofismi talvolta intrigatissimi e
difficili e talvolta manifesti e palesi » Eppure, narra lo stesso Maffei, che
dell'opera del Bernardi quattro doppie si stimava modesto prezzo. In
quell'epoca i libri di scienza cavalleresca erano tanto ricercati, che, scrive
lo stesso Maffei, quattro doppie è pur stata valutata un'edizione dell'Ariosto,
quella di Venezia per il Valvassori, « sol per poche righe, che in alcuni
luoghi vi si trovano con titolo di Pareri in Ducllo ». - In quanto all'accusa
di plagio dita apertamente dal Bernardi a G. B. Possevino, essa è abbastanza
giustificata. Il G. B. Posse vino era scolaro del Bernardi e questi ebbe dal
maestro il suo lavoro sul duello per copiarlo, ma il Pos sevino non si fece
alcuno scrupolo di rafazzonarlo alquanto per poterlo far passare come proprio.
È vero peró, che la pubblicazione dello scritto non avvenne per opera del
Possevino, ma di suo fratello Antonio, che appartenne alla Compagnia di Gesù,
ed anzi vuolsi, che G. B. Possevino morendo raccomandasse al fratello di non
pubblicare quell'opera sul duello da esso lasciata, ma Antonio Possevino non
avrebbe però tenuto conto di questa raccomandazione, tanto più, che al dire del
Tiraboschi, a vincer i suoi scrupoli gli era oppor tanamente giunta
all'orecchio la falsa notizia della morte avvenuta a Ferrara del Bernardi, vero
autore del trattato sul duello, ed egli a tale notizia aveva prestato fede. Il
Tiraboschi, che dapprima aveva difeso G. B. Possevino dall'accusa di plagio
doveva finire per persuadersi, che tale accusa era ben fondata. Antonio Bernardi. Keywords: il duello, L’assedio della
Mirandola. i duellisti, la legittimita del duello, i duellisti, mono machia,
duo machia. Il duello nell’antichita romana, roma antica, il duello, statua di
due duellisti antichi, armi bianchi, Boccadiferro, Pomponazzi, aristotelismo
Bolognese. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardi” – The Swimming-Pool
Library. Bernardi.
Grice e Bernardo: la ragione
conversazionale e l’implicatura
conversazionale della tradizione iniziatica italica – scuola di Benne –
filosofia piemontese -- filosofia italiana -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (Benne). Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. Benne, Biella, Piemonte. Grice: “I like
Bernardo: he is a philosophical mason – but then most Italian philosophers are,
as a way of NOT being Roman!” Massone. Gran maestro del Grande Oriente
d'Italia, ha poi fondato la Gran Loggia Regolare d'Italia. Diplomato in
ragioneria e poi impiegato in banca, si laureò in Sociologia presso
l'Università degli Studi di Trento. Nello stesso ateneo seguì la carriera
accademica, divenendo docente ordinario di Filosofia della scienza e di Logica,
nonché pro-rettore. È inoltre autore di nmerosi saggi e pubblicazioni sul tema
della filosofia delle scienze sociali e della logica delle norme. Fu iniziato alla massoneria nella loggia
bolognese "Risorgimento-VIII agosto" divenendo Maestro venerabile
della loggia "Zamboni-De Rolandis". Nello stesso anno chiese e
ottenne di venire inserito tra i massoni coperti per ragioni di riservatezza
legata alla sua professione di docente. Stessi requisiti di riservatezza ebbe
la sua appartenenza al Capitolo Nazionale del rito scozzese antico e accettato.
Eletto Gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Negli anni della sua
maestranza tenne posizioni di aperto contrasto con la Chiesa cattolica,
dichiarò espressamente il proprio sostegno al Partito Socialista Italiano, e
dovette confrontarsi con la cosiddetta "inchiesta Cordova" (dal nome
del pubblico ministero di Palmi Agostino Cordova). Al centro di polemiche anche
con i vertici del GOI, Di Bernardo decise di dimettersi dalla carica di Gran
maestro al termine della Gran Loggia annuale a Roma alla quale si era
presentato dopo aver redatto atto costitutivo e statuto di una nuova
Obbedienza, la Gran Loggia Regolare d'Italia. Al vertice del GOI gli succedette
il reggente Eraldo Ghinoi. La neonata
Obbedienza si regge su uno sparuto gruppo di Logge fuoriuscite dal GOI,
caratterizzandosi per l'uso esclusivo del rito inglese Emulation. Otto anni dopo
la fondazione, viene espulso dalla GLRI; gli succede alla guida dell'Obbedienza
Venzi. Quindi avvia un nuovo progetto di un ordine paramassonico, denominato
Dignity Order, che tuttavia non è un'Obbedienza regolare. Pur dichiarando di
essere fuoriuscito dalla Massoneria, Di Bernardo da anni si presta a rilasciare
interviste e dichiarazioni sull'argomento sia a giornalisti che ad organi
inquirenti. Nel ha polemizzato con il
GOI dopo aver reso una dichiarazione alla Commissione Antimafia relativa a
presunte rivelazioni di Loizzo (vedi ). Il GOI ha annunciato l'intenzione di
denunciare Di Bernardo per diffamazione e calunnia. Il lo stesso Di Bernardo
annuncia di voler a sua volta querelare il Gran Maestro del GOI Stefano Bisi
per diffamazione. La querela di B. a carico di Bisi viene archiviata per insussistenza. Aldo Alessandro Mola, Gelli e la P2: fra
cronaca e storia, Bastogi Editrice Italiana, Giuliano Di Bernardo, unitn. Il Gran Maestro: chi è B. Mola. Pubblicazioni di Giuliano Di Bernardo, unitn. Fra
tradizione e rinnovamento: la lunga traversata del deserto, GOI. Aldo A. Mola,
801 e ss. Mola, Di Bernardo fonda
la nuova Grande loggia, in Corriere della Sera. Sito ufficiale del Dignity
Order, dignityorder.com. Aldo Alessandro Mola, Storia della massoneria
italiana, Bompiani, Gran loggia regolare d'Italia Massoneria in Italia
Massoneria Citazionio su Giuliano Di Bernardo
Intervista a Giuliano Di Bernardo del, Predecessore Gran maestro del
Grande Oriente d'Italia Successore Square compasses.svg Armando Corona. Eraldo Ghinoi
(reggente) Predecessore Gran maestro della Gran Loggia Regolare d'Italia SuccessoreSquare
compasses.svg Carica inesistente Fabio VenziB Filosofia Università Università Filosofo del XX secolo Filosofi
italiani Professore Penne Gran maestri del Grande Oriente d'Italia. Giuliano Di
Bernardo. Bernardo. Keywords. la
tradizione iniziatica italica, logica dei sistemi normativi, normativa sociale,
l’implicatura del massone, psicologia filosofica, Homo sapiens sapiens. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Bernardo” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Berneri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia
italiana nel ventennio fascista – scuola di Lodi – filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Lodi).
Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Lodi, Lombardia. Grice: ‘I like Berneri;
of course we need to know more about his philosophical background and education
– he represents the epitome of what Italian philosophers call ‘filosofia
militante,’ but then I fought the Hun – so I was militante, too!” – Figlio di padre
originario di Ronco, frazione di Corteno Golgi (nella Val Camonica, in
provincia di Brescia) e da madre emiliana, ben presto, si trasferì con la
famiglia dapprima a Milano, poi a Palermo, e Forlìdove, a Varallo Sesia (in
provincia di Vercelli) e, infine, a Reggio nell'Emilia. Qui, da una testimonianza di Angelo Tasca
risulta che Camillo Berneri militava nella Federazione Giovanile Socialista di
Reggio Emilia (da "Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo
Berneri, Pier Carlo Masini, Milano). Dopo essere stato membro del Comitato
Centrale della Federazione Giovanile Socialista reggiana, e dopo aver
collaborato all'Avanguardia (organo nazionale della FGS), rassegna le
dimissioni dalla FGS, attraverso una lettera ai compagni, avendo maturato
convinzioni anarchiche. Sarà colpito dal gesto dei compagni che, nonostante le
dimissioni, vorranno che presieda un'ultima riunione della FGS a Reggio, e dal
gesto del mentore Camillo Prampolini, che lo convocherà per conoscere le
ragioni del suo dissenso. Berneri ricorderà sempre "i dolci ricordi del
mio catecumenato socialista". Si trasfere ad Arezzo dove frequenta il
liceo. Chiamato alle armi ed escluso
dall'Accademia Militare di Modena per le sue idee, fu inviato al fronte;
quindi, ancora in servizio, venne confinato nell'isola di Pianosa in occasione
dello sciopero generale. Iniziava intanto con lo pseudonimo Camillo da Lodi la
sua copiosa attività pubblicistica collaborando per anni a vari periodici
libertari: da Umanità Nova a Pensiero e Volontà, da L'avvenire anarchico di
Pisa a La Rivolta di Firenze e a Volontà di Ancona. Laureatosi in filosofia, insegnò tale materia
per qualche tempo a Camerino. Pronta e decisa si manifestava la sua avversione
al fascismo e, dall'Umbria in particolare, egli manteneva i contatti con gli
antifascisti fiorentini diffondendo il battagliero giornaletto Non mollare.
Molto intensa fu in quegli anni l'attività nell'Unione anarchica italiana.
Inaspritasi la dittatura fascista, dovette espatriare clandestinamente in
Francia e lo raggiunse poco dopo la moglie con le figlie; sua moglie era
Caleffi anche lei militante anarchica così come poi le figlie Marie Louise
Berneri e Berneri. Scoppiata la guerra civile spagnola, fu tra i primi ad
accorrere in Catalogna, centro dell'attività di massa libertaria esprimentesi
nella Confederación Nacional del Trabajo: qui si trovò a fianco di Rosselli con
tanta parte dell'antifascismo italiano e internazionale. Al di là della
solidarietà militante, a Rosselli lo legava anche l'atteggiamento critico, e
l'apertura mentale verso le prospettive del socialism. Collabora con l'organo
clandestino del movimento socialista-liberale "Giustizia e Libertà",
argomentando con Rosselli sull'alternativa secca tra socialismo libertario e
socialismo dispotico ("Gli anarchici e G.L.", B. e Rosselli,
Giustizia e Libertà). Furono gli ultimi mesi febbrili della sua vita: inadatto
alle fatiche del fronte, si dedicò con entusiasmo all'opera formativa, al
dibattito ideale e alle incombenze politiche pubblicando un proprio periodico
dal titolo “Guerra di classe” che sintetizza la sua precisa interpretazione del
conflitto in corso. In esso infatti Berneri, preoccupato per il crescente
isolamento non tanto del legittimo governo repubblicano quanto delle più
tipiche realizzazioni rivoluzionarie e libertarie conseguite in Catalogna,
Aragona e altre regioni, si batté vigorosamente per la stretta connessione di
guerra e rivoluzione ponendo agli antifascisti e ai suoi stessi compagni
anarchici il dilemma: vittoria su Franco, grazie alla guerra rivoluzionaria, o
disfatta. Tale la sostanza di numerosi suoi articoli e discorsi come della
famosa Lettera aperta alla ministra anarchica della Sanità Federica Montseny
che con altri tre anarchici era nel governo di Largo Caballero. Molteplici, seppure inascoltati, furono anche
i suoi suggerimenti politici per colpire le basi operative del fascismo
proclamando l'indipendenza del Marocco, coordinare gli sforzi militari,
potenziare gradualmente la socializzazione. Fu dunque quella di Berneri una
funzione singolarmente impegnata che lo espose ben presto alle feroci
repressioni condotte dai comunisti ormai prevalsi dopo l'avvento del governo di
Juan Negrín: scomparvero così tragicamente, vittime dei massacri di massa,
migliaia di combattenti antifascisti non comunisti, anarchici ma anche comunisti
non stalinisti, come i miliziani del POUM. L'assassinio di B., sulle cui esatte
circostanze esistono diverse versioni, si colloca precisamente nella sanguinosa
resa dei conti tra stalinisti e loro avversari antifascisti conosciuta come le
giornate di Maggio. B. fu prelevato insieme con l'amico anarchico Barbieri
dall'appartamento che i due condividevano con le rispettive compagne. I
cadaveri dei due anarchici italiani furono ritrovati crivellati di proiettili.
La moglie allevò i figli di Cieri, anche lui caduto in Spagna. In morte di B.,
il leader socialista Nenni scrisse: "Se l'anarchico B. fosse caduto su una
barricata di Barcellona, combattendo contro il governo popolare, noi non
avremmo niente da dire, e nella severità del suo destino ritroveremmo la severa
legge della rivoluzione. Ma Berneri è stato assassinato, e noi dobbiamo dirlo"
(Pietro Nenni, Nuovo Avanti, Parigi).
Altre opere: “Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane
anarchico” (Orvieto); “I problemi della produzione comunista” (Firenze); “Le
tre città” (Firenze); “Un federalista russo. Kropotkin, Roma); “Mussolini
normalizzatore, Zurigo); “Lo spionaggio fascista all'estero, Marsiglia); “Nozioni di chimica antifascista”;
“L'operaiolatria, Brest); “ll lavoro attraente, Ginevra); “Ed ancora: Mussolini normalizzatore La donna e la
garçonne”; “Pensieri e battaglie Il cristianesimo e il lavoro” – “Il Leonardo
di Freud”. da "Mussolini-Psicologia di un dittatore", B., Edizioni
Azione Comune, Masini, Milano, Mirella Serri, I profeti disarmati, la guerra
fra le due sinistre, Milano, Corbaccio, Cfr. Nicola Fedel, Introduzione e
criteri di edizione in B., Lo spionaggio fascista all'estero, Fedel (prefazione
di Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano, Enciclopedia POMBA. B.,
Anarchia e società aperta, Pietro Adamo, M&B Publishing, Milano, Errico,
Anarchismo e politica. Nel problemismo e nella critica all'anarchismo del
Ventesimo Secolo, il "programma minimo" dei libertari del Terzo
Millennio. Rilettura antologica e biografica di Camillo Berneri, Mimesis,
Milano 2007. Roberto Gremmo, Bombe, soldi e anarchia: l'affare Berneri e la
tragedia dei libertari italiani in Spagna, Storia Ribelle, Biella 2008. Mirella
Serri, I profeti disarmati. La guerra tra le due sinistre, Milano, Corbaccio,
2008. Flavio Guidi, "Nostra patria è il mondo intero". B. e
"Guerra di Classe" a Barcellona, pubblicato dall'autore, Milano.
Berti, Sacchetti, Un libertario in Europa. B.i: fra totalitarismi e democrazia.
Atti del convegno di studi storici, Arezzo, Archivio famiglia Berneri A.
Chessa, Reggio Emilia. B., Lo spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel (e
prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano,, Antifascismo Archivio Famiglia Berneri Guerra
civile spagnola Giornate di maggio Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Camillo
Berneri, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Camillo Berneri, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Camillo Berneri, su Liber
Liber. Opere di B., su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. B. B. su Goodreads.
Altri particolari sul sito dell'ANPI di Roma, su romacivica.net. Maria Un
convegno e una nuova stagione di studi su B. su storiaefuturo). Socialismo
LibertarioProfili biobibliografici libertari, su socialismolibertario.
Abolizione ed estinzione dello stato, Anarchismo e federalismo di Camillo
Berneri, su magozine. Antifascismo. Anarchia
Anarchia Biografie Biografie
Politica Politica Storia Storia Filosofo Scrittori italiani del XX
secoloAnarchici italiani Lodi
BarcellonaAntifascisti italianiAssassinati con arma da fuocoVittime di
dittature comuniste. Camillo Berneri. Berneri. Keywords: normalizazzione,
delirio racista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berneri” – The Swimming-Pool
Library. Berneri.
Grice
e Berti: la ragione conversazionale e l’implicatura della morte di Cicerone – scuola
di Valeggio sul Mincio – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Valeggio sul Mincio). Filosofo veneto. Filosofo italiano. Valeggio sul
Mincio, Verona, Veneto. Grice: “I like Berti; of course he has philosophised on
the only two philosophers worth philosophising about Plato and Aristotle – his
interest is in the ‘number idea’ in Plato, the unity in Aristotle, and various
other things – notably Socratic dialectic as the basis for both!” -- Grice: “I also love his courtesy: cf. Sir
Peter, “Introduction to logical theory,” versus the gentle “Un invite alla
filosofia,” – for philosophy needs to be invited to, rather than intro- and
extro-ducted to and fro’!” Professore emerito di storia della filosofia, presidente
onorario dell'Istituto internazionale di filosofia. Laureatosi in filosofia all'Padova, è stato
allievo di Marino Gentile. Assistente
presso l'Padova. Nel diventa professore di storia della filosofia antica
all'Perugia e di storia della filosofia nella stessa Università. Si trasferisce all'Padova, dove insegna
storia della filosofia. È poi docente anche nelle Ginevra, di Bruxelles, di
Santa Fé (Argentina) e alla Facoltà di Teologia di Lugano. Presiede la Società Filosofica Italiana. Vince
il premio dell'Associazione internazionale "Federico Nietzsche" per
la filosofia, il premio Iannone per la filosofia antica, il premio Santa
Marinella e il premio Castiglioncello per la filosofia, il premio "Athene
Noctua" e nel il premio
giornalistico Lucio Colletti. Nel è nominato "doctor honoris causa"
dell'Università nazionale capodistriana di Atene e nel Honorary Fellow dell'"Interdisciplinary
Centre for Aristotle Studies" dell'Salonicco. Pensiero Interessato particolarmente alla
filosofia di Aristotele, Enrico Berti ne ha intravisto le tracce nella
metafisica, nell'etica e nella politica contemporanea in particolar modo per il
problema della contraddizione e della dialettica. Berti si è poi inserito nella dibattuta
questione del rapporto tra filosofia e scienza, cercando di definire la specificità
della filosofia, che si fonda su una razionalità non rapportabile a quella
scientifica, ma piuttosto alla dialettica e alla retorica. Su un piano più
propriamente teoretico si è interessato alla possibilità di riproporre oggi una
filosofia di tipo metafisico, formulando una concezione «umile« o «povera»
della metafisica come consapevolezza della problematicità, e quindi
dell'insufficienza, del mondo dell'esperienza, considerato nella sua totalità
(comprendente scienza, storia, individuo e società). Altre opere: “L'interpretazione neo-umanistica
della filosofia presocratica” (scuola di Crotone, la porta di Velia); “La filosofia del primo
Aristotele” (Padova, Milani); Il "De republica" di Cicerone e il pensiero
politico classico”; “L'unità del sapere in Aristotele”; “La contraddizione” (la
porta di Velia, la dialettica della struttura originaria, Bontadini); “Studi
sulla struttura logica del discorso scientifico”; “Studi aristotelici”;
“Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima” (Padova, Milani); “Ragione
scientifica e ragione filosofica” (Roma, La Goliardica); “Profilo di
Aristotele, Roma, Studium); “Il bene” (Brescia, La Scuola); “Le vie della ragione” (Bologna, Il Mulino);
“Contraddizione e dialettica negli antichi” (Palermo, L'Epos);:Le ragioni di
Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Storia della filosofia” (Roma-Bari, Laterza);
“Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza); “Introduzione alla metafisica,
Torino, POMBA); “Il pensiero politico di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Aristotele
e altri autori, Divisioni, con testo greco a fronte, coll. Il pensiero
occidentale); “In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia
antica, Laterza, Roma-Bari); “Il libro primo della «Metafisica» (Laterza,
Roma-Bari); Sumphilosophein. La vita
nell'Accademia di Platone, Roma-Bari, Laterza); “Nuovi studi aristotelici”
(Morcelliana); “Invito alla filosofia, Brescia, La Scuola); “La ricerca della
verità in filosofia, Roma, Studium. Ha scritto un dialogo satirico, un
"falso d'autore" attribuito ad Aristotele, Eubulo o della ricchezza:
dialogo perduto contro i governanti ricchi.
Traduzioni Aristotele, Metafisica, traduzione, introduzione e note di E.
Berti, Collana Biblioteca Filosofica, Roma-Bari, Laterza. Onorificenze e
riconoscimenti Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica
Italiana È membro delle seguenti
accademie e istituzioni scientifiche:
Accademia nazionale dei Lincei Institut international de philosophie
Istituto veneto di scienze, lettere ed arti Société européenne de culture
Fédération internationale des sociétés de philosophie Pontificia accademia
delle scienze Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino Accademia galileiana
di scienze, lettere ed arti Società filosofica italiana Note festivalfilosofia, su
festivalfilosofia). Enciclopedia
multimediale delle Scienze filosofiche, su emsf.rai.). Biografia Enrico Berti [collegamento interrotto], su
comune.ancona. Aristotele Opere di B., su openMLOL, Horizons Unlimited
srl. Opere di B.,. Registrazioni di B.,
su RadioRadicale, Radio Radicale.
Intervista a Enrico Berti () Enrico Berti scheda nel sito dell'Padova
(con l'elenco delle pubblicazion. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani Professore Valeggio sul MincioProfessori dell'Università degli Studi
di Padova Studenti dell'Università degli Studi di Padova Professor dell'Università
degli Studi di Perugia Accademici dei LinceiStorici della filosofia italiani. I
pitagorici -- Gli eleati -- Parmenide -- Zenone, Melisso -- Empedocle --
Gorgia --. LA FILOSOFIA A ROMA Lo stoicismo medio il neo-epicureismo e
Lucrezio -- L’Accademia nuova e Cicerone -- Il neo-stoicismo romano Seneca,
Epitteto, Marc'Aurelio, Enrico
Berti. Berti. Keywords. la morte di Cicerone, Cicerone res publica – “De
republica” – cf. il bene/il buono/il bello, “il bene e il buono”, Cicerone e la
filosofia politica classica, il De Republica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Berti” – The Swimming-Pool Library. Berti.
Grice
e Bertinaria: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’indole
e le vicende della filosofia italiana – scuola di Genova – filosoia genovese –
filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grce, The Swimming-Pool Library (Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice:
“I like Bertinaria; he is, like me a philosophical cartographer – in his case,
of ‘filosofia italiana’ for which he has identified ‘indole’ e this or that
‘vicenda,’ – now J. L. Austin once remarked that ‘sake’ has no denotatum – but
‘vicem’ does!” Studia a Pisa. Si trasfere a Torino
per collaborare con l'editoria Pomba. Curato la traduzione Abriss der
Geschichte der Philosophie di Kennegieszer, professore dell'Breslavia. Si occupa
anche di filosofia orientale e di filosofia italiana. Oottenne la cattedra di filosofia
della storia a Torino. È chiamato a Genova. Muore a Genova. Altre saggi:
“La filosofia italiana” (Pomba, Torino); “Compendio di storia della filosofia”
(Pomba, Torino); “Discorso sull'indole e le vicende della filosofia italiana” (Pomba,
Torino). “Concetto della filosofia e delle scienze inchiuse nel dominio di essa,
«Antologia italiana»”; “Disegno di una storia delle scienze filosofiche in
Italia dal Risorgimento delle lettere sin oggi, Antologia italiana», “Concetto
scientifico della storia, Stamp. sociale degli artisti tipografi, Torino);
“Saggi filosofici” (Tip. Fory e Dalmazza, Torino); “Prospetto dell'insegnamento
della filosofia della storia” (Stamperia dell'unione tipografico editrice,
Torino); “Della teoria poetica e dell'epopea latina, Torino); “Dell'importanza
della filosofia della storia e sue relazioni con le altre scienze” (Torino);
“L'antica filosofia del diritto” (Tip. Cavour, Torino); “Principi di biologia e
di sociologia, Negro, Torino); “La storia della filosofia e la filosofia della
storia” «Riv. cont.», Estr.: Baglione, Torino); “Sulla formola esprimente il
nuovo principio dell'enciclopedia” «Riv. cont.»,Il positivismo e la metafisica”
«Riv. cont.», Estr.: Negro, Torino); “Scienza,
Arte e Religione, «Gerdil», Estr.: Tip. Torinese, Torino); “Dell'origine,
progresso e condizione presente della filosofia civile, Riv. bol., “Saggio
sulla funzione ontologica della rappresentazione ideale, FSI); “Concetto del
mondo civile universale, FSI); “La dottrina dell'evoluzione e la filosofia
trascendentale” (Tip. Ferrando, Genova); “Ricerca se la separazione della
Chiesa dallo Stato sia dialettica ovvero sofistica, FSI, Estr.: Tip. dell'Opinione,
Roma); “Il problema dell'incivilimento, ossia come possano essere conciliate
fra loro le dottrine della civiltà nativa di Vico e della civiltà nativa di
Romagnosi, FSI); “La psicologia fisica ed iperfisica” (Unione tipografico-editrice,
Torino); “Ricerca se l'odierna società civile progredisca ovvero retroceda,
FSI); “L'odierno antagonismo sociale. Discorso inaugurale nella Genova”
(Martini, Genova); “Il problema critico esaminato dalla filosofia trascendente,
FSI); “Discorso per l'inaugurazione dei corsi filosofici e letterari nella R.
Genova, Tip.Martini, Genova); “Idee introduttive alla storia della filosofia,
RIF, Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma); “Determinazione
dell'assoluto. Saggio di filosofia esoterica, «Giornale della Società di
letture e conversazioni scientifiche di Genova», Estr.: Tip. A. Ciminago, Genova); “Il problema
capitale della scolastica risoluto dalla filosofia trascendente. Nota
storico-critica, RIF, Estr.: Tip. alle Terme Diocleziane di Giovanni Balbi,
Roma); “Scritti Bulgarini, G. B., Recensione dell'articolo del prof. F.
Bertinaria apparso sulla «Rivista Italiana»: Idee introduttive alla storia
della filosofia, «Rosmini», B.. Studio biografico, «Annuario della R. Genova»,
Estr.:Martini, Genova, CecchiL., Francesco Bertinaria. Commemorazione, Martini,
Genova); D'Ercole, P., Notizie biografiche del prof. F. Bertinaria, «Annuario
della R. Università degli studi di Torino», Estr.: Torino; Mamiani, T., Rec. di
B., La dottrina della evoluzione e la filosofia trascendente.Discorso, Genova FSI);
“Mamiani T., Intorno alla sintesi ultima del sapere e dell'essere. Lettere a B.,
FSI, Estr.: Roma; Tolomio. B., su dif.unige.
Piero Di Giovanni, Un secolo di filosofia italiana attraverso le riviste,
FrancoAngeli. Opere di Francesco Bertinaria, su openMLOL, Horizons Unlimited
srl. Biografie Biografie
Letteratura Letteratura Filosofo
Saggisti italiani Insegnanti italiani Professore Genova. TAVOLA GENETICA
DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA (Secondo
la legge di creazione) I. Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne
fanno condi zionalmente un essere razionale, vale a dire un ente creato,
soggetto alle condizioni della sua vita presente ossia all'orga namento
terrestre. = UOMO MORTALE. A ) Teoria o Autotesia; quello che v’ha di dato
nello spirito dell'uomo per istabilirne le facoltà fisiche ossia create. a )
Contenuto, ossia costituzione psicologica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ
ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE.
a4) Elemento fondamentale ossia neutro; facoltà di sapere, = COGNIZIONE
(Kenntniss]. Elementi primordiali ossia polari. Cognizione del Non - Io. =
RAPPRESENTAZIONE (Vorstellung]. Per la lettura delle nostre Tavole genetiche
noi.dobbiamo far notare alle persone non peranco abituate a siffatta
esposizione tabellare, che, a seconda della divisione dicotomica, ch'è la sola
rigorosamente logica, le due sottoclassi di ciascuna classe suddivisa sono
notate colle lettere a) e b) a destra accompagnate da un numero superiore d'un'unità
a quello che ha il medesimo indice della classe così suddivisa. In tal maniera,
muo vendo dai due generi primitivi, designati da A) e B), ciascuno di questi
due generi ha due classi designate rispettivamente da a) e b); ciascuna di
queste classi a) e 6) può avere di nuovo due sottoclassi a2) e 62 ); ciascuna
di queste ultime classi a2) e può avere di nuovo due sotto classi, designate
rispettivamente da a3) é 73 ); e così di seguito finchè ciascuna di queste
diverse sottoclassi ammette divisioni ulteriori. BERTINARIA -3 34 TAVOLA
GENETICA Cognizione dell'Io. = COSCIENZA (Bewusztsein ).(III) 63) Elementi
derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati immediati ossia distinti.
a5) Combinazione della Cognizione colla Rappresen tazione. = SENSIBILITÀ. (IV)
Nota. Qui hanno luogo i Sensi esterni ed il Senso interno. 65) Combinazione
della Cognizione colla Coscienza. = INTELLETTO. (V) Nota. Qui hanno luogo
l'Intelligenza, il Giudizio e la Ragione condizionale (quella che si trova
incarnata nel. l'organismo fisico ossia terrestre dell'uomo). 64) Elementi
derivati mediati ossia transitivi. = IM MAGINAZIONE, a5) Transizione dalla
Sensibilità all'Intelletto. = IM MAGINAZIONE RIPRODUTTIVA. (VI) Nota. —Qui
hanno luogo la Memoria e la Previsione. 65) Transizione dall'Intelletto alla
Sensibilità. = IM MAGINAZIONE PRODUTTIVA. (VII) Nota. — Qui hanno luogo la
Costruzione e la Fantasia. 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in
numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi
primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza della Rappresentazione nella
Coscienza. = SENTIMENTO. (I) 65) Influenza della Coscienza nella Rappresenta
zione. = COGNIZIONE. Influenza reciproca di questi elementi primordiali;
armonia sistematica tra la Rappresentazione e la Coscienza per mezzo del loro
concorso teleologico alla generazione delle Cognizioni. = COMPRENSIONE. ( Qui
hanno luogo il Giudizio teleologico (per la cognizione dell'ordine ), ed il
Gusto estetico (per la cogni zione del bello e del sublime). DELLA FILOSOFIA
DELLA PSICOLOGIA 35 63) Identità finale nella riunione sistematica dei due ele
menti distinti, della Sensibilità e dell'Intelletto, per mezzo dell'elemento
fondamentale ossia neutro, for mante la Cognizione. = POTENZIALITÀ. Qui hanno
luogo, nell'aspetto speculativo, ch'è quello della cognizione senza causalità,
il GENIO, e nel l'aspetto pratico, che è quello della cognizione colla cau
salità, la VOLONTÀ. b ) Forma, ossia relazione psicologica. a2) Nella parte
elementare della costituzione psicologica. a3) Per le facoltà primitive. a4)
Per l'elemento fondamentale; forma della Cogni zione. = ATTENZIONE) Per gli
elementi primordiali. Forma della Rappresentazione. = OBJETTIVITÀ. b5) Forma
della Coscienza. = SUBJETTIVITÀ. 63 ) Per le facoltà organiche: a4) Immediate o
distinte. a5) Forma della Sensibilità. = INTUIZIONE (An schauung). 65) Forma
dell'Intelletto. = CONCETTO (Begriff) Mediate o transitive. Forma
dell'Immaginazione riproduttiva. = IM MAGINE. Forma dell’Immaginazione
produttiva. = SCHEMA. Nella parte sistematica della costituzione psicologica.
a3) Nella diversità sistematica. a4 ) Per l'influenza parziale degli elementi
primordiali. a5) Forma del Sentimento. = APPRENSIONE. 65) Forma della
Cognizione. = APPERCEZIONE. Per la loro influenza reciproca; forma della Com
prensione. = RIFLESSIONE. Nell'identità
finale degli elementi distinti; forma della Potenzialità. = AZIONE [Thaetigkeit
).TAVOLA GENETICA Tecnia o Autogenia; quello che bisogna fare pel compimento
delle facoltà fisiche ossia create nell'uomo. Nel contenuto ossia nella
costituzione psicologica. a2) Nella parte elementare di questa costituzione.
Per gli elementi immediati ossia distinti. al) Compimento della Sensibilità. =
PERFEZIONE ESTE TICA. Compimento dell'Intelletto. = PERFEZIONE LOGICA. I
caratteri di questa doppia perfezione, estetica e logica, sono: l'estensione,
la chiarezza, la varietà, la precisione, il complesso e la certezza. 63) Per
gli elementi mediati o transitivi. Compimento dell'Immaginazione riproduttiva,
per la legge d'associazione delle immagini. = As SIMILAZIONE (spiritualizzazione
delle intuizioni. Compimento dell'Immaginazione produttiva, per la legge di
schematizzazione delle idee. = MOSTRA (corporificazione dei concetti ). 62)
Nella parte sistematica di questa stessa costituzione. Per il compimento
dell'armonia prestabilita (préfor mation primitive] nei due elementi
primordiali, nella Rappresentazione e nella Coscienza; la quale armonia
prestabilita fornisce le ragioni sufficienti per la desi gnazione reciproca (facultas
signatrix ) dei concetti per mezzo delle intuizioni, e delle intuizioni per
mezzo dei concetti. = LINGUAGGIO (in generale). Per il compimento dell'identità
primitiva negli ele menti distinti, nella Sensibilità e nell'Intelletto; la
quale identità fornisce il compimento della Potenzialità per via d'indefinita
ascensione ai principii, e per mezzo d'indefinita deduzione delle conseguenze,
siccome legge suprema delle umane cognizioni. = RAGIONE INCONDI ZIONALE. 6 )
Nella forma ossia nella relazione psicologica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA
Nella parte elementare di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà
organiche in ordine all'uniformità nella generazione delle cognizioni umane,
siccome regola ossia canone psicologico. = METODO. (DESTINO ). 62) Nella parte
sistematica di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà sistematiche
in ordine all'identità finale negli oggetti delle cognizioni umane, siccome pro
blema universale della Psicologia. = IDEE (trascendenti) (RAGIONE ASSOLUTA ).
II. Facoltà spirituali ed iperfisiche dell'uomo, le quali ne fanno in
condizionatamente un essere razionale, vale a dire un ente assoluto,
indipendente da qualsivoglia condizione. = UOMO IMMORTALE. Nota. - Questa
seconda parte della vera psicologia, da niuno finora avvertita, appartiene
solamente alla filosofia assoluta del Messianismo. Essa non potrebbe in alcun
modo venir raggiunta dall'esperienza, perchè le facoltà che ne formano
l'oggetto sono, non solamente iperfisiche, ma al tresì creatrici, vale a dire
poste fuori del mondo creato, dove si trovano gli oggetti dell'osservazione e
dell'espe rienza. Eccone la genesi assoluta. A) Teoria o Autotesia; quello che
vha di dato nell'ipostasi dello spirito dell'uomo per poterne ricavare le sue
facoltà iper fisiche ossia creatrici. a) Contenuto ossia costituzione
eleuterica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ CREATRICI ELEMENTARI (in numero di
sette ). Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale o
neutro; principio ipo statico nell'uomo. = COSCIENZA POTENZIALE. Elementi
primordiali o polari. a5 ) Coscienza potenziale del Non - 10. = ALTERIETÀ.
Coscienza potenziale dell’Io. = IPSEITÀ. (III) 38 TAVOLA GENETICA. Elementi
derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. Elementi derivati immediati o distinti. a5)
Combinazione della Coscienza potenziale coll’Al terietà. = ETERONOMIA. (IV) 65)
Combinazione della Coscienza potenziale con l'Ipseità. = AUTONOMIA. Elementi
derivati mediati o transitivi. a5) Transizione dall'Eteronomia all'Autonomia. =
RELIGIONE RIVELATA. Transizione dall'Autonomia all'Eteronomia. = RELIGIONE
ASSOLUTA. (VII) 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di
quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi primordiali.
a4) Influenza parziale. a5) Influenza parziale dell'Alterietà nell'Ipseità. =
ETEROTELIA. (Influenza parziale dell'Ipseità nell’Alterietà. = AUTOTELIA.
Influenza reciproca di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra
l’Alterietà e l'Ipseità, per mezzo del loro concorso teleologico alla creazione
propria dell'uomo. = SPIRITO (Geist]. (III) Nota. Questo è il principio più
alto della filosofia di Hegel; ma si vede ch'esso non raggiunge il Verbo e nem
meno l'Assoluto, del quale secondo riesce, in certa ma niera, solamente
peristilio. Identità finale nella riunione sistematica degli ele menti distinti
dell'Eteronomia e dell'Autonomia per mezzo dell'elemento fondamentale o neutro,
formante la Coscienza potenziale. = ASSOLUTO nella coscienza ossia COSCIENZA
ASSOLUTA. Forma o relazione eleuterica. Nella parte elementare della
costituzione eleuterica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 39 a3) Per le facoltà
primitive. a4) Per l'elemento fondamentale; formadella Coscienza potenziale. =
GENIALITÀ. Per gli elementi primordiali. a5) Forma dell'Alterietà. =
RECETTIVITÀ (nella co scienza ). 65) Forma dell'Ipseità. = PROPRIETIVITÀ (nella
co scienza ). 63) Per le facoltà organiche: a4) Immediate o distinte. a5) Forma
dell'Eteronomia. = MORALITÀ. 65) Forma dell’Autonomia. = MESSIANITÀ. 64 )
Mediate o transitive. a5) Forma della Religione rivelata. = GRAZIA. 65) Forma
della Religione assoluta. = MERITO. Nella parte sistematica della costituzione
eleuterica. Nella diversità sistematica. Per l'influenza parziale degli
elementi primordiali. a5) Forma dell'Eterotelia. = DIPENDENZA PROVVI DENZIALE.
65 ) Forma dell'Autotelia. = INDIPENDENZA UMANA. 64) Per l'influenza reciproca;
forma dello Spirito. = SPONTANEITÀ. Nell'identità finale degli elementi
distinti; forma dell'Assoluto nella coscienza. = RAZIONALITÀ CREATRICE) Tecnia
o Autogenia; ciò che bisogna fare pel compimento delle facoltà iperfisiche o
creatrici nell'uomo. a) Nel contenuto o nella costituzione eleuterica. a2)
Nella parte elementare di questa costituzione. a3) Per gli elementi immediati o
distinti. a4) Compimento dell’Eteronomia; stabilimento proprio, operato
dall'uomo stesso, del suo essere assoluto. = AUTOTESIA. 40 TAVOLA GENETICA
DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA Compimento dell'Autonomia; stabilimento
proprio, operato dall'uomo stesso del suo sapere assoluto. = AUTOGENIA. 63) Per
gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento della Religione rivelata. =
Per mezzo della LEGGE DEL PROGRESSO. Compimento della Religione assoluta. = Per
mezzo della LEGGE DI CREAZIONE) Nella parte sistematica di questa stessa
costituzione. Per il compimento dell'armonia prestabilita (préfor mation
primitive] nei due elementi primordiali, nella Alterietà e nell'Ipseità;
armonia che fornisce le ra gioni sufficienti per l'esplicazione della
Virtualità creatrice nell'uomo. = VERBO) Per il compimento dell'identità
primitiva nei due elementi distinti, nell'Eteronomia e nell'Autonomia; identità
che fornisce il compimento dell'Assoluto nella coscienza per mezzo della sua
identificazione col Verbo, come legge suprema della creazione propria dell'ờomo.
= ARCIASSOLUTO ossia ciò che è INDICIBILE (nell'ipostasi della coscienza umana
). Nella forma o nella relazione eleuterica. Nella parte elementare di questa
relazione; compimento delle facoltà organiche in ordine all'uniformità nella
pro pria creazione umana, come regola o canone eleuterico per la liberazione
dell'uomo dalle sue condizioni fisiche. = RIGENERAZIONE SPIRITUALE DELL'UOMO.
62) Nella parte sistematica di questa stessa relazione; com pimento delle
facoltà sistematiche in ordine all'identità finale nel risultamento della
propria creazione umana, cioè in ordine all'individualità assoluta dell'uomo,
come problema universale di questa parte eleuterica della Psi cologia. =
CREAZIONE PROPRIA DELL'UOMO (Immortalità ). COMMENTO ALLA TAVOLA GENETICA DELLA.
PSICOLOGIA FISICA ED IPERFISICA DI HOENATO WRONSKI PARTE PRIMA PSICOLOGIA
FISICA Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi
zionatamente un ESSERE RAZIONALE, vale a dire un ente creato, soggetto alle
condizioni della sua vita presente, ossia all'organamento terrestre. UOMO
MORTALE. In questa prima parte della tavola genetica della filosofia della
Psicologia l'autore tratta solamente delle facoltà spirituali da lui dette
fisiche per ciò ch'esse sono date immediatamente dalla natura, e si svolgono
per necessità della costituzione naturale dell'uomo, riserbandosi di trattare
delle facoltà iperfisiche nella seconda parte della Tavola stessa. L'Autore
dice che le facoltà fisiche fanno dell'uomo condizio natamente un essere
razionale, e spiega l'avverbio, chiamando l'uomo, in quanto egli è solamente
fornito di tali facoltà, un ente creato soggetto alle condizioni della sua vita
presente. Chiun que non conosca l'ontologia wronskiana, e si trovi solamente
iniziato alla psicologia ancora comunemente coltivata oggidì, avrà motivo
d'inarcare le ciglia udendo queste espressioni; ma colui il quale sappia che
l'Autore ammette due sorta di creazione, delle quali la prima è opera dell'Ente
supremo, e costituisce, rispetto alla mente umana che la contempla, l'ordine
eterono mico governato dalla necessità, e la seconda è opera dello Spi ſito
creato, e costituisce, rispetto allo spirito stesso, l'ordine autonomico
governato dalla libertà di cui egli è dotato, capirà pure facilmente che
l'uomo, quale creatura del dvino, è essenzial mente eteronomico, e per
conseguenza soggetto alle condizioni dell'organamento terrestre, al quale la
sua vita è vincolata in forza delle leggi necessarie del cosmo; e quale autore
del proprio svolgimento, egli è essenzialmente autonomico, vale a dire crea
tore di se stesso. Posta questa teoria ontologica, si debbono pure ammettere
due ordini di umane facoltà, fra loro così distinti che non vadano mai fra loro
confusi, sebbene siano fra loro collegati come qualità di un medesimo soggetto,
ed il primo si trovi logi camente e cronologicamente anteriore al secondo, che
in dignità gli è superiore. Laonde, chiamando naturale o fisica l'entità
eteronomica, e soprannaturale od iperfisica l'entità autonomica dell'uomo, si
vengono a caratterizzare benissimo i due ordini di facoltà fra loro così
diversi, che quelle del primo fanno dell'uomo bensì un ente razionale, ma
condizionato, laddove quelle altre del secondo rendono l'uomo stesso ente
razionale incondizionato cioè assoluto. A Teoria o Autotesia. Presso le
colonie greche nell'Italia inferiore, le quali erano per lo più composte di
Dori ed Achei, ebbe luogo molto svolgimento di vita esteriore ed interna;
imperocchè vennero a rinomanza per le legislazioni di Saleuco e Caronda, per
l'arte orato ria e la poesia lirica, per un'eccellente scuola me dica stabilita
in Crotone, città salita a prospera for tuna, e per molti vincitori ai giuochi
olimpici, che quivi ebbero i natali. PITAGORA portossi a CROTONE e dimora per
lo più nella Magna Grecia. La sua vita è oscura e molto favolosa. Egli fu dotto
particolarmente in matematica, musica teoretica, astronomia e ginnastica. Le
favole lo dicono tau maturgo e rivelatore di sapienza divina. Egli deve essere
figlio d'Apollo e d'Ermete, con una gamba d'oro, e fu veduto in più luoghi
nello stesso tempo. Gl’animali seguivano la sua chiamata. Da Ermete ebbe il
dono della ricordanza della sua vita ante riore, come Euforbio, e seppe
ridestare la medesima in altri. Egli sentiva l'armonia delle sfere celesti, e
venne considerato come una divinità. Però è che si parla di un culto sacro e di
orgie pitagoriche. Egli deve aver conosciuto Ferecide e Talete, ed essere stato
educato dai sacerdoti egiziani; ma da se stesso si procacciò la maggior parte
di sue cognizioni. Fonda a CROTONE una società segreta in cui si professavano i
principii politici dell'aristocrazia: Prima che un individuo venisse accettato
in quella do veva subire prove. I membrisi distinguevano in eso. terici ed
essoterici, cioè più e meno iniziati. In tale società praticavanşi esercizii
corporali e spirituali, vita e costumi comuni e regole, parole simboliche,
invocazioni al fondatore (aútòs špa), banchetti (ovo oltia) e funerali; ma non
già comunione di beni. I fini principali della società erano prima la mo rale
religiosa, poi la scienza, particolarmente la matematica e la musica. La
società pitagorica ebbe influenza diretta sugli interessi politici nelle città
di CROTONE, SIBARI, METAPONTO, LOCRI, e TARENTO. Ma essendo stata cagione di
una guerra, molti Pitago rici perirono e fors’anche lo stesso Pitagora mori a
Metaponto, e dopo morte fu onoratissimo. I pitagorici perseguitati e scacciati,
conservarono pure influenza politica. A molti di essi, come Timeo, Archita ed
Ocello da Lucania, sono attribuiti scritti, e le lettere attribuite a Pitagora
ed a sua moglie o figlia Teano, come pure i versi d'oro, sono d'ori gine
posteriore. Fra gli ultimi Pitagorici i migliori sono Filolao ed Archita, e dei
primi scritti riman gono ancora frammenti. Quantunque la filosofia pitagorica
abbia seguito varie direzioni, pure dobbiamo considerarla nella sua unità.
L'esporre la medesima riesce difficile sia pella diversità delle vedute
de'varii scrittori che le appartengono, sia pei segni simbolici di cui servi
vasi quella scuola per significare le idee ed i varii sensi a cui
s'impiegavano. Come Ferecide, miti camente esprimendosi, diceva che Erebo aveva
dato forma al Caos e ne venne il Tempo, Pitagora volle la pluralità generata
dall'unità, ossia dal numero. Que sto è l'essenza (ovoia) od il principio
(apxn) di tutte le cose. Il numero è pensato come uno, però anche quale unità
di due antitesi, del pari e dispari. Onde la monade e la diade sono i principii
delle cose. La diade è il principio della sostanza informe, ossia il numero
indeterminato; la monade è il principio ordinatore. La sostanza informe viene
alla pluralità ed alla varietà per mezzo dell'unità; però tutte le cose si
fanno ad imitazione del nu mero, possono considerarsiqualinumeri. Il numero. è
il principio generale tanto della natura, quanto della cognizione. Cosi l'uno è
l'essenza del numero, il numero semplicemente, il fondamento di tutti i numeri,
l'unità suprema, la divinità nel mondo. I Pitagorici dissero triade il numero
del tutto consi derato nell'integrità di principio, mezzo e fine. La tetrattisi
è importante, perchè i primi quattro nu meri formano assieme dieci, ed i primi
quattro pari e dispari formano trentasei; parimente im portante è la deca, e
vale come l'unità per sim bolo del principio di tutte le cose. Nell'essenza del
numero, ossia nell'unità suprema, si contengono tutti i numeri, e per
conseguenza gli elementi della natura e dell'universo. Questa teoria si accorda
colla divisione dei toni del monocordo inventato da Pitagora. Dividendo in due
parti una corda tesa, la metà produce l'ottava; cosi il tono fondamentale della
corda intiera sta all'ottava come 2: 1, che è la perfetta proporzione musicale.
La corda divisa in tre parti dà 2/3 della corda divisa, la quinta che sta al
tono fondamentale come 2: 3; così 3/4 della corda dà la quarta, che sta al tono
fondamen tale come 3: 4. Questi tre intervalli formavano l'ar monia degli
antichi, onde l'importanza dei segni 1, 2, 3, 4. L'unità suprema è pari-
dispari. Gli elementi della natura sono compresi nelle seguenti dieci antitesi:
1. Limitato, illimitato: 2. Dispari, pari: 3. Uno, più: 4. Destro, sinistro: 5.
Mascolino, femminino: 6. Quiete, moto: 7. Retto, curvo: 8. Luce, tenebra: 9.
Buono, cattivo: 10. Quadrato, rettangolo. Tuttavia non furono escluse altre
antitesi. L'uno è solo nella terza antitesi, perchè ha due signifi cati, come
principio e come sintesi di tutte le an titesi. Nelle antitesi il primomembro
significa sem pre il più perfetto, in quanto che tutto nel mondo risulta dal
perfetto e dall'imperfetto. L'uno essendo il fondamento di tutti i numeri,
perchè è pari e dispari nello stesso tempo, non solamente è il principio del
perfetto, ma anche dell'imperfetto. Il perfetto, ossia il buono, non è dunque
primamente, ma coesiste all'imperfetto nell'uno come diade; perciò avviene in
prima che l'uno forma il mondo, ossia quanto è possibile; imperocchè
l'efficacia di Dio è limitata, ed ogni cosa recà al meglio solamente secondo
sua potenza. Ma perchè i Pitagorici non prendono l'antitesi per fondamento
delle cose, bensi il numero ossia il pari- dispari come dispari e pari? Nella
tavola si presentano il limite, ossia il limitanté, ed il limitato. Il
limitante è secondo loro, rispetto ai corpi, una pluralità di punti che formano
un numero. L'illimitato significa il mezzo tra il limite, ossia lo spazio di
mezzo; la quale espressione aveva grande significato nella musica e geometria
loro. Dagli spazii musicali mezzani, ossia intervalli, essi derivavano
l'accordo de'varii toni. I punti di limite costituendo il principio e la fine,
l'illimitato è nel mezzo e produce l'espansione, e precisamente la geometria
secondo le tre misure. Il cubo è pro dotto da tre intervalli, la superficie da
due, la linea da un solo; il punto non ha intervallo, è l'u nità. Dal limite e
dall'illimitato, ossia dalle unità e dagli intervalli, viene la grandezza dello
spazio. Ma d'onde lo spazio mezzano? Il secondo membro delle loro antitesi è il
negativo; perciò l'illimitato, o lo spazio mezzano, è il vacuo. La separazione
delle unità, ossia numeri, avviene per mezzo del vacuo; questo è dunque
principio e solamente un'altra espressione dell'illimitato o pari, perchè tutti
i membri posteriori delle antitesi possono es sere mutati, e cosi anche i
membri anteriori. Qual fu l'opinione dei Pitagorici intorno l'origine del mondo?
Le cose provengono dalle unità in diversi spazii mezzani, esse formano un
numero di unità, ed in ciò consiste la loro natura e la loro origine, non
'secondo il tempo, ma secondo la maniera umana di pensare. L'unità suprema come
circon data dall'infinito, ossia dal vacuo, si sforza di di vidersi in antitesi
e di ricongiungersi di nuovo. L’uno si divide in una pluralità di cose per
mezzo dello spazio vacuo, perció l'illimitato si partisce in più parti affinchè
entri nel limitante. Il vero essere ha dunque il suo fondamento nel limite.
L'entrare dell'illimitato nel limitato vien detto l'alito ossia la vita del
mondo. Perciò bisogna prendere il mondo come numero, come unità, le quali sono
congiunte in Dio, che è l'unità primitiva, e separate dallo spazio mezzano.
Dalla composizione delle unità provengono diverse relazioni, che sono ordinate
armonicamente e con simmetria. Il legame di ogni relazione è l'armonia. Ora
l'unione delle antitesi trovandosi nell'unità suprema, essa è il principio
dell'armonia e l'universo numero ed armonia, ed anche l'armonia è di bel nuovo
il principio dell'unità di tutte le cose. Ma nell'armonia è pur anco compreso
il concetto di ordine. Avuto riguardo all' importanza della deca, adottavano
dieci corpi mondani che si trovano in armoniche distanze. Rispetto ai sette
toni, dal tono fondamentale all'ot tava adottavano sette -vocali. La monade è
il punto, la diade la linea, la triade la superficie, la tetrat tisi il corpo
geometrico, la pentattisi i corpi fisici. In questo modo arbitrario
continuavano essi a porre cinque elementi, e dicevano paragonando: Il cubo
significa la terra, la piramide il fuoco, l'ottaedro l'aria, l'icosaedro
l'acqua, ed il dodecaedro l'etere come quinto elemento. Il migliore di questi
ele menti è il fuoco, probabilmente perchè fra le dieci antitesi la luce e
l'inerte significano il perfetto. Il fuoco riposa nel mezzo del mondo ed è la
guardia ο castello di Giove (Διός φυλακή.Ζηνός πύργος), ha la forma di un cubo,
perché questo, essendo consi derato il corpo più perfetto a cagione dei tre
inter valli simili, secondo i Pitagorici era l'altare dell'u niverso; il qual
fuoco si forma prima da sè e guida poi la formazione del mondo. Dal mezzo il
fuoco si spande per tutto l'universoe lo abbraccia. Attorno al fuoco centrale
sono ordinati i dieci corpi mon dani, cioè il cielo delle stelle fisse, i
cinque pianeti, il sole, la luna, la terra e la controterra (artiyJabí), il
quale ultimo corpo è invisibile. Essi si vibrano in direzione circolare, ad
eccezione della terra im mobile nel mezzo (probabilmente con la contro terra ),
e la quale contiene il fuoco; perchè anche il mondo intiero corrispondente alla
deca è una palla: onde l'armonia delle sfere, perchè ogni corpo vibrandosi
rende un tono. Tuttavia noi non sentiamo quell'armonia, giacchè appartiene alla
nostra so stanza, e come ogni tono si può solo sentire pel contrapposto del
silenzio, l'armonia delle sfere è senza pausa. I corpi circolanti sono otto
solamente, e questi sono ordinati in quattro intervalli e sette toni, talchè la
sfera delle stelle fissé ha il tono più basso, quello della luna il più alto.
L'imperfezione è particolarınente sulla terra; però la luna e gli altri mondi
sono più perfetti e più belli. Sulla terra ba luogo il cangiamento disordinato
ed in appa renza molto fortuito; essa stessa è soggetta all'in stabilità. Si
annodano ai numeri anche i concetti di per fezione e d'imperfezione in senso
morale. La diade è principalmente il simbolo dell'immorale. L'anima dell'uomo è
parimenti un numero od armonia, l'intelletto o pensiero è l'uno, la scienza il
due, l'immaginazione il tre, il sentimento il quattro. L'anima è inserita nel
corpo pel número e relazione armonica del corpo, perciò non è corporea, ma solo
apparente in una relazione corporale. Vi sono anche anime prive di corpo che
hanno vita di fan tasma, e le quali non sono mai entrate in alcun corpo o di
nuovo ne sono uscite; queste sono i de moni. A questo si riferisce la dottrina
esoterica della metempsicosi e la fede nella ricompensa dopo morte, a cui
conseguita la personalità e l'immor talità dell'anima. L'unione dell'anima con
un corpo è la pena di qualche empietà; la vita terrena è uno stato d'infelicità,
ma necessario ed ordinato al buo no per mezzo dell'unione col tutto. L'anima
umana possiede l'essenza ragionevole e l'essenza irragio nevole, quella delle
bestie solamente la seconda, però ha qualche germe d'intelligenza. La virtù è
armonia, la giustizia è detta anche numero uguale. Tutta la vita è sotto la
cura divina: il suicidio è da condannarsi. Pare che la morale e la politica dei
Pitagorici si appoggiasse a massime separate di ca rattere ascetico; essi
inculcavano la moderazione nei desiderii e nelle passioni, la fedeltà, l'amore,
l'amicizia, il lavoro, la costanza e l'educazione ri gorosa. Cosi la dottrina
pitagorica è in parte etica, rappresentata dall'armonia e dalla musica, in
parte fisica per la matematica, pei fenomeni fisici derivanti dalla forma della
sensibilità; la quale si ricava da ciò che l'unità del principio si risolve in
una pluralità di cose. La presupposizione della ori ginale imperfezione deve
unire ambe queste parti. L'unità suprema è semplice, ma considerata nella sua
attività, nello sviluppo mondano della sensibi lità è composta; il
soprasensibile ossia l'unità su prema è indeterminato. In ciò sta riposta senza
dubbio l'idea di Dio come creatore del mondo, ma è offuscata dal modo forzato
con cui si presenta all'uopo di spiegare l'origine del mondo, la natura delle
cose singolari e la loro connessione, e dalla nozione simbolica e
particolarmente matematica della provvidenza divina. Onde l'applicazione
di questa dottrina alla parte spirituale è difficilissima. Pertanto la dottrina
pitagorica è nell'etica tanto difettosa, quanto pare siano stati eccellenti i
parti giani di essa nell'esercizio della virtù. I lonii e Pitagorici
tentarono spiegare l'origine del mondo; essi ammettendo la produzione delle
cose riuscirono realisti. Per l'opposto gli Eleati sono idealisti, tendono alla
cognizione del non -sensibile ed affermano: Nulla viene all'essere, tutto
esiste. Il nome loro proviene dalla città d'Elea nella Magna Grecia, dov'era la
sede principale di questa scuola filosofica. SENOFANE da Colofone, sede della
poesia epica e gnomica, contemporaneo di Pitagora, si porta a VELIA nella Magna
Grecia, ed e prima poeta epico ed elegiaco. Rimangono solo frammenti delle sue
opere. La sua tesi fondamentale è questa: Dio è, e non può divenire; come pure
in generale nissuna cosa può cominciare ad esistere; imperocchè il generato
dovrebbe essere uguale al generante, epperò ambi non sarebbero fra loro
differenti; ma l'ineguaglianza, come per esempio, che il più pic colo nasca dal
più grande e vi ritorni, si deve attri buire all'opinione insussistente che
alcuna cosa non esistente possa venir prodotta da ciò che esiste. Per ciò vi ha
solamente l'uno, e questi è il divino, il quale forma col cielo e la terra un
essere solo, unico (in TÒ öv xai tò Tây). Per conseguenza il politeismo o la
mitologia parvegli un'empietà, particolarmente i miti immorali. Sostenne contro
le scuole jonica e pitagorica che Dio non è mosso e limitato, nè inerte ed
illimitato, perchè le prime limitazioni sono pro prie della pluralità, le altre
appartengono al non esistente. Dio è perfettamente uguale perchè non ha parti;
considerato spiritualmente è pura intelli genza, considerato corporalmente è da
paragonarsi ad un globo. Secondo tali principii era impossibile una spiegazione
della natura. Cosi egli oppose alla verità l'opinione, ossia l'intuizione
sensibile; ep però non seppe trovare il nesso tra l'unità e la pluralità. Per
la qual cosa si duole che l'ignoranza sia retaggio dell'umana schiatta.
Senofane è pan teista; ma importante il suo pensiero dell'essere assoluto.
PARMENIDE da VELIA fa con Zeno ne un viaggio ad Atene, dove forse conobbe Socrate.
Egli sviluppò il sistema di Senofane; tuttavia non prese le mosse dal concetto
di Dio, ma da quello dell'essere e del non-essere, della certezza e dell'o
pinione, riconducendosi poi all'idea di Dio siccome quella che è riposta
nell'esistente. Secondo lui v'ha un doppio sistema di conoscenza, quello della
ra gione ossia del vero, e quello dei sensi ossia del l'apparenza. Il suo poema
sulla natura trattava di ambe le maniere, ma dai frammenti che pervennero a noi
conosciamo la prima meglio della seconda. Es sere, pensare e conoscere è
tutt'uno. Il non-essere è impossibile, tutto l'essere è identico; perciò il
reale non lią cominciamento, è invariabile, indivisibile, riempie tutto lo
spazio, da se stesso si limita, sussi ste per legge di necessità: onde
qualunque cangia mento, qualunque movimento è mera apparenza. Ciò non ostante
la stessa apparenza è regolata da una legge, per cui le rappresentazioni delle
cose sono costanti (80% a ). A fine di spiegare la natura di tali
rappresentazioni ricorre a due principii, il caldo, ossia il fuoco etereo, il
freddo ossia la notte della terra; il primo è penetrante, positivo, reale,
pensante (Saucoupyós), epperò più vicino alla verità; il secondo è denso,
pesante (@an), negativo, sola mente una limitazione del primo. Questa dottrina
della natura è meccanica. Da tali due principii de rivò egli tutti i
cangiamenti ed anche i fenomeni del senso interno. L'uomo è un composto di
fuoco etereo e di notte, per conseguenza partecipa alla cognizione della verità
ed all'apparenza. MELISSO da Samo, celebre an che come politico e capitano di
flotta contro Pericle, adottò lo stesso idealismo, e prese a combattere
particolarmente la filosofia naturale della scuola ionica. Non si deve far
parola degli dei, perchè gli uomini non hanno cognizione alcuna di tali enti.
Presso Melisso ritorna il concetto di perfezione. Ciò che esiste è infinito,
non è prodotto, nè può perire. Non v'ha movimento o trasformazione, perché avvi
un essere solo e nissun vacuo; epperò non si danno la porosità e la densità.
L'esistente non può essere diviso, cosi non ha parti, non è corporeo. La plu
ralità è sola apparenza sensibile. Quello che in ve rità esiste è dotato di
vita. ZENONE di VELIA (il VELINO), discepolo ed amico di Parmenide, fece con
questo un viaggio ad Atene e si distinse tanto per acume d'intelletto e sottile
dialettica, quanto per fortezza d'animo, avendo sacrificata in battaglia la
propria vita a difesa della patria. Egli sostene va il sistema di Parmenide in
ciò che nega la plu ralità delle cose, il movimento e lo spazio. Data la
pluralità delle cose, ne dovrebbe conseguitare che nello stesso tempo fossero
infinitamente piccole ed infinitamente grandi; la prima condizione perchè
risultano di ultime unità indivisibili, il cui aggregato non può produrre
grandezza; la seconda con dizione perchè risultano da una quantità infinita di
parti sempre più estese e per conseguenza divisi bili. Qui il sofisma consiste
in ciò, che nel primo caso suppone l'indivisibilità, nel secondo la rigetta. In
seguito diceva: la pluralità è ad un tempo limitata ed illimitata; limitata
perchè più o meno determinata, illimitata perchè ogni distanza da un punto di
una grandezza fino all'altro è infinito, avuto riguardo all'infinita quantità
di parti di mez Egli contestava il movimento per le contrad dizioni inerenti a
questo concetto; imperocchè bi sogna che lo spazio misuratore, il quale consta
di parti infinite, venga percorso in un intervallo limi tato. Onde l'argomento
detto l'Achille, con cui af fermava che se una testuggine avesse il vantaggio
d'un passo avanti, non potrebbe essere raggiunta da Achille, perchè la distanza
non cesserebbe mai appieno, quantunque si facesse sempre più breve. Diceva poi
che non dovevasi accettare la dottrina del movimento, risultando da semplici
momenti di quiete, in quanto ciò che si muove perpetuamente si sviluppa in
qualche parte. Lo spazio vacuo è ines cogitabile, appunto perché la pluralità
ed il mo vimento non sono pensabili. Che se fosse alcun che reale, esso
dovrebbe trovarsi in uno spazio, giac chè ogni realità è compresa in quello,
epperò una continuazione senza fine dovrebbe trovare luogo in uno spazio che la
contenesse. Queste prove apago giche, appoggiate all'assurdità dell'opinione
con traria, sono sofistiche per lo scambio delle forme rappresentative logico
-matematiche di valore su biettivo e delle forme razionali di valore obiettivo.
Nell'Achille si trova una falsa applicazione della ce lerità all'espansione,
ossia del tempo allo spazio. Per mezzo dell'antitesi della ragione e dell'espe
rienza Zenone pose le fondamenta della dialettica e dello scetticismo, che ben
presto venne continuato dalla scuola di Megara e finalmente corruppe tutta la
filosofia greca. EMPEDOCLE di GIRGENTI in Sicilia, naturalista, medico, celebre
come taumaturgo, perfezionò la fisica degli Eleati, siccome Zenone la
metafisica. L'unità delle cose è il mondo, simile ad un globo, ragione per cui
lo chiama opalpos, opera perfetta dell'amore, da lui governata, a lui identica.
La materia e la forza non si decompongono. L'amore irradiandosi dal centro
penetra tutto ed è ad un tempo necessità: dipende da tutto pel con trasto delle
forze. Essendo l'uomo solamente una parte della divinità, la cognizione umana
non può essere che imperfetta,' e quantunque conosca gli elementi del tutto,
non può penetrarne l'unità, che Dio solo può comprendere. Egli distingue dalla
mas sa la forza movente. Le forze solamente movono, ma non variano le cose;
però questa dottrina della natura è meccanica. Egli è impossibile che il nulla
produca alcuna cosa, e che venga a mancare ciò che esiste. Egli ammette quattro
elementi, fra i quali dà preferenza al fuoco, considerandolo come l'essenza
divina delle cose; imperocchè tutto si ri cava dal fuoco ed in esso tutto si
risolve. La sepa razione avviene per odio, ma senza che riman gano intervalli
vacui. L'amore congiunge le cose eterogenee, l'odio le omogenee, operando la
sepa razione del composto. Vi sono periodi nella for mazione del mondo. Ma il
mondo mosso è sola mente una parte del tutto, il dominio dell'odio solo
sottordinato, ed anche solo presente nella rappre sentazione. Prima si formano
le cose elementari, il sole, l'aria, il mare, la terra, poi da questi pro
vengono le organiche per mezzo dell'amore; le piante e gli animali si formano
dal concorso degli elementi, ma in principio le membra esistendo se paratamente
hanno prima luogo i mostri. La na tura organica essendo formata dall'amore è il
pas. saggio alla vita beata nello sfero. Gli spiriti sono trasmigrati in corpi
per delitto, epperò sono neces sarie le purificazioni. Tutto è ripieno di
ragione e partecipa alla conoscenza. Gli elementi non godono di vita pacifica,
essendo svelti dallo sfero, mossi dall'odio, epperciò ricevono diverse forme
senza propria metempsicosi. Tale migrazione per tutte le forme è la miseria
delle cose, conseguenza dell’o dio. Rimedio contrario è l'intiero abbandono
all'a more. Non v'ha guarentigia d'intelletto se ci diamo alla vita sensuale.
La cognizione de' corpi ha per fondamento l'osservazione sensibile, ed è opera
dell'unione meccanica de'corpi per mezzo dei tras corrimenti á toppolai) e
delle correnti che pene trano in altri corpi per via de'pori (xotha ). L'unione
delle impressioni sensibili nella coscienza, spiegasi col congiungersi del
sangae nel cuore. Questa co gnizione procura l'opinione, ma non il vero sapere.
La cognizione divina è somministrata dalla ragione ed avviene in maniera
mistica per mezzo della pu rificazione. La filosofia di GIRGENTI (si veda) è il
primo tenue saggio per rettificare le nozioni sensibili coi puri concetti della
ragione, e disgiungere dai feno meni fisici la cognizione del vero reale, ossia
il fondamento sensibile delle cose. La sua fisica ha tutti i difetti della
spiegazione meccanica della na tura. Anch'egli si duole della ristrettezza
dell'uma no intendimento. Si racconta che incontrò la morte nel cratere
dell'Etna. Empedocle aveva scritto un poena didattico sulla natura, ma non ne
perven nero a noi che frammenti. GORGIA
da Leonzio, discepolo d’Empedocle, e anche maggior dispregiatore di Protagora
di quanto è vero e buono. Egli si portò in Atene in qualità d'ambasciatore, si
attirò gli sguardi per una nuova maniera oratoria, viaggið all'intorno,
raccolse molto danaro dall'insegna mnento e morì in età avanzata. Le sue
orazioni sono meramente pompose, svolte per mezzo di antitesi, epperciò fredde.
Egli si vantava di parlare all'im provviso di tutto, sia brevemente sia a
lungo, e di sapere a tutto rispondere. Il suo insegnamento nel l'arte oratoria
consiste in artifizii, specialmente in paralogismi. Egli sprezzava la virtù,
tenendo l'arte di persuadere per la suprema. In luogo dell'esistente degli
Eleati pose il non - esistente. Egli sosteneva tre tesi: 1 ° egli v'ha niente,
nè l'essere nè il non essere, nè ambi assieme. L'essere non è perchè o non deve
aver principio o deve averlo, od ambi assieme. Se non ha principio è eterno,
perciò un non - essere, è come eterno anche infinito, ma poi dovrebbe essere od
in se stesso od in -un altros ma in se stesso dovrebbe essere ad un tempo
contenente e contenuto, in un altro vi sarebbe un infinito in un altro infinito;
però ambi i casi sono impossibili. Se ha principio, dev'essere prodotto o
dall'esistente o dal non esistente. Nel primo caso sarebbe contro la
presupposizione eterno e non avrebbe principio, nel secondo dovrebbe il nulla
come non esistente, produrre alcuna cosa. Ma il nulla esistendo, l'es sere
dovrebbe essere non esistente, perchè il nulla e l'essere sono contrapposti.
L'essere poi non po trebbe avere principio e non averlo nello stesso tempo per
essere un'antitesi. Parimenti il non essere non può essere, perchè altrimenti
l'essere stesso non potrebbe essere. Quand'anche qual che cosa fosse, tuttavia
non si potrebbe conoscere, perchè non si può pensare che il pensabile, non il
reale che è fuori del pensiero. Vi ha differenza tra il pensato ed il reale
(questa distinzione è vera, ma LEONZIO (si veda) ne fece un'applicazione falsa
). 3° Quando anche alcuna cosa fosse pensabile, essa pero non sarebbe
comunicabile, perchè solamente il concetto ed il discorso si possono
comunicare, non già la cosa stessa.- Zenone aveva già adoperato gli ele menti
delle nozioni sensibili per mostrare in esse stesse la loronullità a
frontedella verità puramente razionale; Gorgia si prevalse degli elementi della
dottrina eleatica intorno alla ragione per annullare l'ultima stessa, essendo
contraria alla verità delle nozioni sensibili, ed il pensiero potendo solamente
produrre apparenze. $ 80 In tal maniera fini il primo periodo della filosofia
greca. I lonii partirono dalla natura, ossia dalmondo, gli Eleati da Dio; i
primi rifletterono meno alla Di vinità, facendone conto solamente come
dellaforza prima della natura o della vita; imperocchè per essa solamente
intendevano a spiegare l'origine del mondo o per via dinamica o meccanica,
finchè Anassagora separò Dio dalla materia, però ad ambi attribuendo pari
originalità e concedendo solo al primo la direzione del mondo. Gli Eleati
rigetta rono cotesto dualismo, ritornarono al monismo, ma non poterono
accordare la perfezione di Dio coll'im perfezione del mondo, cercando un
rifugio col dire che il mondo non è alcuna cosa reale, ma solo ap parente. Fu
questo il grave errore, che sempre più ingrandito aboli finalmente Dio, la
religione e la moralità. Già la scuola ionica aveva lasciato la mo rale in un
canto. Pitagora, il quale trattò l'origine ed il governo del mondo col suo
ingegnoso ma farzato e sterile paragone colla matematica, ebbe riguardo al
morale, però meno in teorica che in pratica. –La filosofia ebbe poi un nuovo
eccita mento della parte morale per - mezzo di Socrate, quantunque egli non
abbia seguito la direzione scientifica, ma solo la pratica e religiosa. A ciò
conseguitarono i sublimi saggi di Platone e d'Aristo tele per investigare la
natura, Dio e la moralità; ma anche questi uomini dovettero soccombere al
grande incarico, per quanto inspirato sembrasse il primo e circospetto il
secondo. Finalmente la scuola epicurea prese, come gli Atomisti e Sofisti sul
finire del primo periodo, a proteggere la sensualità e l'ateismo. Per opera
degli Scettici prese a domi nare il dubbio; si cercò invano di risolvere il pro
blema dell'unione della materia e dello spirito, dell'intuizione e del pensiero,
e bisogno gettarsi nelle braccia del teosofismo: Così terminava la fi losofia
greca, avendola dal principio alla fine ac compagnata il dubbio e la tristezza.
Il Cristiane simo salvo poiil mondo dalla corruzione intellettuale e morale. I romani
non hanno mente filosofica. Essi accolgeno la filosofia greca, particolarmente la
apparetenente all’Orto, che risponde al loro lusso, e Tito LUCREZIO TERZO
PERIODO -ECLETTICI E SINCREBISTI. ne fa soggetto di un poema didattico, cui da
l'antico titolo: Della natura delle cose; anche più famigliare si resero la
dottrina del PORTICO, che accor dandosi all'antico carattere romano, esercita
influenza sulla loro legislazione ed amministrazione, e trova ancora rinomati
partigiani al tempo del l'impero, cioè Lucio ANNEO SENECA, maestro di NERONE,
autore di molti scritti filosofici, EPITTETO da Terapoli in Frigia, verso lo
stesso tempo, schiavo, il cui discepolo FLAVIO ARRIANO da Nicomedia compila un
piccolo manuale secondo le lezioni del maestro, e MARCO AURELIÓ ANTONINO,
imperatore romano, autore di meditazioni
sotto il titolo: Eis éautóv. Seneca e più eclettico, Epitteto si attenne
ai voti della natura e ridusse la dottrina stoica alla formola ανέχον και
απέχου, 81 stine et abstine. Lo scritto di Antonino ha carattere di dolcezza e
pietà; tutti e tre abbracciarono sola mente la parte etica della filosofia
stoica. Che se questi romani dell’orto e il portico a Roma si mantennero fedeli
ad un solo sistema, CICERONE (si veda) da esempio di un compiuto eclettismo, e
tanto egli contribui co'suoi numerosi saggi e dialogi a rendere accessibile ai
Romani la filosofia quanto gli manca originalità filosofica. Nella pratica
prefere il sistema del portico, nella teoretica l'accademia, accettandovi anche
l'orto e il lizio. In generale poi le dottrine di Platone ed ancora più quelle
di Aristotele rimaneno pei Romani tesori nascosti. Francesco Bertinaria. Keywords: l’indole e le vicende della
filosofia italiana. Refs.: determinazione dell’assoluto. Luigi Speranza, “Grice
e Bertinaria” – The Swimming-Pool Library. Bertinaria.
Grice
e Berto: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della reduzione
all’assurdo – scuola di Venezia – filosofia veneziana – filosofia veneta -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Venezia).
Filosofo
veneziano. Filosofo veneto -- Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Grice: “I like Berto, but then, my first
unpublication is on negation and privation! Against my tutee, Sir Peter, I
always took Aristotle’s tertium non datur pretty seriously, but the
consequentia mirabilis I had to re-label implicature; for, as Tertulliano used
to say, ‘Just because it is deaf (ab-surdum), I believe it!” -- Grice: “If Peirce (I lectured on him for
years, and deem him my friend) is right that ‘dictum,’ in Roman, is cognate
with Hellenic ‘deixis,’ Boezio was too hasty to translate ‘anti-phasis’ as
‘contra-dictio,’ for ‘phrasis’ is indeed Hare’s phrastic, while the dictio can
be just a signal – as a spoon casting the shadow of a fork, to use Berto’s
genial example!” – Grice: “Berto likes to pose the thing as an x-rhetorical
question: che cosa e una contradizione, -- implicaturum: ‘if anything AT ALL!”
– “He is friends with Priest, so what can you expect!? J). Francesco Berto (Venezia), filosofo. Laureatosi a Venezia
con una tesi su Emanuele Severino, ha conseguito il dottorato presso la stessa
università con una tesi sulla dialettica hegeliana. Dopo aver conseguito un
post-doc in Filosofia teoretica all'Università degli Studi di Padova è stato
Chaire d'Excellence Fellow al CNRS di Parigi, dove ha insegnato Ontologia
all'École Normale Supérieure ed è stato membro dell'Istituto di Filosofia della
Scienza e della Tecnica della Sorbona. È stato Research Fellow all'Institute for Advanced
Study della University of Notre Dame (Indiana, USA). Ha insegnato Logica anche all'Università Ca' Foscari di
Venezia e all'Università Vita-Salute San Raffaele. È stato Structural Chair of
Metaphysics alla Universiteit van Amsterdam e membro del Northern Institute of
Philosophy di Wright alla University of Aberdeen. Attualmente tiene la Chair of
Logic and Metaphysics al dipartimento di Filosofia dell'University of St
Andrews ed è Research Chair all'Institute for Logic, Language and Computation
alla Universiteit van Amsterdam. Premio Filosofico Castiglioncello, nella sezione giovani,
con il libro Teorie dell'assurdo. I rivali del Principio di
Non-Contraddizione. Nel l'Università Ca' Foscari di Venezia gli ha
assegnato il Premio Ca'Foscari alla Ricerca per ricercatori. Nel ha
ottenuto dall'AHRCResearch Council di Gran Bretagna un finanziamento per il
progetto "The Metaphysical Basis of Logic". Nel ha
ottenuto dall'European Research Council un finanziamento di 2.000.000 di euro
per il progetto "The Logic of Conceivability". Altre opere: “Logica” (Roma, Carocci); “Che
cos'è una contraddizione” (Roma, Carocci); “L'esistenza non è logica: dal
quadrato rotondo ai mondi impossibili” (Roma-Bari, Laterza); “Tutti pazzi per
Gödel. La guida completa al Teorema di Incompletezza” (Roma-Bari, Laterza);
“Logica da Zero a Gödel” (Roma-Bari, Laterza); “Teorie dell'Assurdo. I rivali
del Principio di Non-Contraddizione” (Roma, Carocci); “Che cos'è la dialettica
hegeliana? Un'interpretazione analitica del metodo” (Padova, Il Poligrafo); “La
Dialettica della struttura originaria, Padova, Il Poligrafo). “Il Pensiero”;
“Sistemi intelligenti”; “Iride”, “Rivista di estetica”, “Divus Thomas” “Il
Giornale di metafisica. Comune
RosignanoLivorno, su comune.rosignano.livorno ). Università Ca'Foscari di Venezia, su unive.
Aberdeen Amsterdam Archiviato il in. Aberdeen Archiviato il 9 settembre in.
Phil Papers.org Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Dialetheism, su plato.stanford.edu. Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Impossible Worlds, su plato.stanford.edu. Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Cellular Automata, su plato.stanford.edu.).Filosofia
Filosofo Logici italiani Accademici italiani Professore Venezia Professori
dell'Università Ca' Foscari Professori dell'AmsterdamStudenti dell'Università
Ca' Foscari Venezia. Francesco Berto. Keywords: reductio ad absurdum, pegaso, il
quadrato redondo, incompletezza goedeliana, Grice’s System Q, Myro’s System G,
Speranza’s System GHP, R. J. Jones’s System C., dialettica, contradizzione,
negazione, quadratto di opposizione, Hegel e l’opposizione, Hegel e la
contradizione, che e inompleto secondo Godel? Sistema G incompieto,
incopetiezza, Bellorofonte in sistema G, Parmenide, neo-Parmenide, Severino
come neo-Parmenidiano, circolo quadrato, la quadratura del circolo, calcolo di
predicate di primo ordine con identita, la struttura originaria della
dialettica, dialettica, posizione, contraposizione, composizione – Oxonian
dialectic, dialettica hegeliana, severino, dialettica oxoniense, dialettica
ateniense. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berto” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Betti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della lupa;
ovvero, problemi di storia della costitutzione politica e sociale nell’antica
Roma – filosofia romana – scuola di Camerino – filosofia marchese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Camerino).
Filosofo marchese. Filosofo italiano. Camerino, Macerata, Marche. Studia
a Parma e Bologna (con una tesi sulla Crisi della repubblica e la genesi del
principato in Roma). Insegna per un anno Lettere al Liceo classico di
Camerino e vince il concorso per la libera docenza presso l'Università di
Parma. Trascorre lunghi periodi di studio all'estero, grazie a diverse borse di
studio, nelle più prestigiose università europee (Marburgo, Friburgo e
altre). Professore ordinario all'Università degli Studi di Camerino. In
seguito insegna diritto nelle Università degli Studi di Macerata, Pavia, Messina,
dove ha tra i suoi allievi Giorgio La Pira e Tullio Segrè), Parma, Firenze,
Milano, Roma. Come Gastprofessor e visiting professor svolge corsi nelle
Università di Francoforte sul Meno, Bonn, Gießen, Colonia, Marburgo, Amburgo,
Il Cairo, Alessandria d'Egitto, Porto Alegre, Caracas. Betti è stato uno dei
più importanti giuristi italiani di tutti i tempi e fu tra i principali
artefici del codice civile italiano. Chiamato a insegnare ius romanum alla
Pontificia Università Lateranense. Nel corso della sua attività
accademica ha coperto tutti i rami del diritto, in particolare il diritto
romano, civile, commerciale e processuale[2]. Fonda presso le Università di
Roma e di Camerino l'Istituto di Teoria dell'interpretazione. È stato socio
corrispondente dell'Accademia dei Lincei e dottore honoris causa delle
Università di Marburgo, Porto Alegre e Caracas. Per il suo sostegno intellettuale
al fascismo, alla Liberazione fu messo agli arresti a Camerino e imprigionato
per circa un mese per decisione del CLN. Sospeso dall'insegnamento e sottoposto
a giudizio di epurazione. Il procedimento lo prosciolse da ogni
imputazione. Produzione scientifica Le sue scelte politiche comunque non
hanno compromesso il pregio e l'importanza delle sue opere. Le sue opere principali
sono: Teoria generale del negozio giuridico, Teoria generale delle
obbligazioni, Teoria generale della interpretazione. Fa parte delle
commissioni ministeriali che hanno redatto il codice civile. L'influenza di B. e
determinante nella soluzione, adottata dal guardasigilli Grandi, dell'abbandono
del progetto italo-francese delle obbligazioni e dei contratti, che negli
intenti originari del piano per la nuova codificazione avrebbe dovuto
costituire l'attuale quarto libro del codice civile. Altre opere: “Sulla
opposizione dell'exceptio sull'actio e sulla concorrenza tra loro”; “La
vindicatio romana primitiva e il suo svolgimento storico nel diritto privato e
nel processo”; “L'antitesi storica tra iudicare (pronuntiatio) e damnare
(condemnatio) nello svolgimento del processo romano”; “Studii sulla litis
aestimatio del processo civile romano”; “Sul valore dogmatico della categoria
contahere in giuristi proculiani e sabiniani”; “La restaurazione sullana e il
suo esito: contributo allo studio della crisi della costituzione repubblicana
in Roma”; “La struttura dell'obbligazione romana e il problema della sua
genesi”; “Il concetto dell’obbligazione costruito dal punto di vista
dell'azione”; “Trattato dei limiti soggettivi della cosa giudicata in diritto romano”;
“La tradizione nel diritto romano classico e giustinianeo”; “Esercitazioni romanistiche
su casi pratici”, “Anormalità del negozio giuridico”; “Diritto romano”; “Diritto
processuale civile italiano”; “Teoria generale del negozio giuridico”; “Interpretazione
della legge e degli atti giuridici: teoria generale e dogmatica”; “Teoria
generale delle obbligazioni”; “Teoria generale della interpretazione”; “Teoria
delle obbligazioni in diritto romano”; “L'ermeneutica come metodica generale
delle scienze dello spirito” (Città Nuova, Roma); “Attualità di una teoria
generale dell'interpretazione”; “La crisi della repubblica e la genesi del
principato in Roma”. Note ^ La sua dottrina ha costituito oggetto di studio
approfondito da parte di Tonino Griffero. ^ Crifò Giuliano, Maestri del
Novecento: Emilio Betti: il ruolo del giurista, Milano: Franco Angeli, Ritorno
al diritto: i valori della convivenza. Fascicolo 7, 2008. ^ Sull'intervento a
suo favore di Giuseppe Ferri, v. S. Truzzi, Stefano Rodotà, l’autobiografia in
un’intervista: formazione, diritti, giornali, impegno civile e politica, Il
Fatto quotidiano. Crifò, B.. Note per una ricerca, in Quaderni fiorentini per
la storia del pensiero giuridico, Ciocchetti, Mario, Emilio Betti,
Giureconsulto e umanista. Belforte del Chienti. Brutti, B. e l'incontro con il
fascismo. Roma Tre-Press. Filosofia del diritto Ermeneutica giuridica
Collegamenti esterni Dizionario Biografico, su treccani.it. Portale Biografie
Diritto Portale Diritto Categorie: Giuristi italiani Storici italiani
Accademici italiani Nati a Camerino Accademici dei Lincei Professori della
Sapienza - Università di RomaProfessori dell'Università degli Studi di Camerino
Professori dell'Università degli Studi di FirenzeProfessori dell'Università
degli Studi di Macerata Professori dell'Università degli Studi di Messina Professori
dell'Università degli Studi di Milano Professori dell'Università degli Studi di
ParmaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università
di Marburgo Professori dell'Università di ViennaStudiosi di diritto
romanoStudenti dell'Università degli Studi di ParmaStudenti dell'Università di
BolognaStudenti dell'Università di FriburgoStudenti dell'Università di
MarburgoStudiosi di diritto civile del XX secoloStudiosi di diritto commerciale
Studiosi di diritto processuale civile del XX secolo[altre] ISTITUTO DI TEORIA
DELLA INTERPRETAZIONE PRESSO LE
UNIVERSITÀ DI ROMA E DI CAMERINO PROFESSORE
ORDITARIO NELLA UNIVERRITÀ DI ROMA TEORIA GENERALE DELLA
INTERPRETAZIONE MVLTA PAYCISI
AG MILANO DOTT. A: GIUEFRÈ. PROLEGOMENI. POSIZIONE
DELLO SPIRITO RISPETO ALL'OGGETTIVITÀ. Oggettività reale. Oggettività ideole.
Rispettiva posizione dello spirito. Rigetto della concezione soggettivistica e
relativistica. Problema del nesso fra coscienza e valori dello spirito. Limitazione
e ortentamento prospettiço della coscienza. Conseguente variabilità storica
delle valutazioni. Nesso fra coscienza e valori. Sensibilità per i valori. Processo
di scoperta. Dialettica di soggetto ed oggetto nella fenomenologia dello spirito.
La spiritualità sul piano oggettivo della comunione. Compito dell'iniziativa
individuale nell'attuazione di valori. Loro
atuazione nel proceseo dell'arte, della conoscenza, dell’azione Ri-evocazione spontanea e ri-evocazione
attraverso forme rappresentative. IL PROBLENA EPISTEMOLOGICO DELI'ENTENDERE,
QUALE ASPETTO DEL PROBLEMA GENERALE DEL CONOSCERE.Oggetto dell'intendere. Concetto
di forma rappresentativa. Processo
dell'intendece. Suo carattere triadico. L'intendere come fenomeno psicologico e
gnoseologico. L'intendere come processo gnoseologico. [Cf. Grice, “the analysis
of understanding in terms of meaning”].Delimitazione dell'intendere d’altri
modi del conoscere per segni. La semeiotica, quale teori generale dei segni. Delimitazione
dell’intendere interpretativo secondo l'oggetto. Differenza tra l'intendere ed
il costruire speculativo (eruten). Sua controllabilità. Analogia di fenomeni e
confusione di concetti. Esigenza dell'oggettivazioni, come presupposto
dell'intendere. Oggettivazione dello spirito e stile. Struttura e congogeo del
simbolo. Del simbolo linguistico in particolare. Simbolo e segno [cf. Grice:
Words are not signs]. Possibili oggettivazioni dello spirito e varietà di forme
rappresentative. Forme rappresatative mnemoniche. Estensione dell’oggettivazioni
dello spirito attraverso il ricordo
Differenza tra ri-cognizione di propri ricordi e ri-cognizione
interpretativa. Tipi e concorso di qualificazioni delle forme rappresentative. Fenomenologia
e tradizione delle forme rappresentate. Antinonia fra attualità ed oggettivazioni
nella fenomenologia dello spirito. Sua dialettica. Fenomenologia delle
oggettivazioni. Usura e dependibilità della forma rappresentativa. Il metodo
della scienza dello spirito nella ricostruzione del mondo storico, secondo Dilthey.
Esigenza di tipizzazione che legittima l'uso di concetti rappresentativi con
fonzione excictica e interpretativa. Critica dello storicismo atomistico e
adialettico. Ancora dello storicismo atomistico e adialettico avverso
all'esigenza della tipizzazione. Ancora dello storicismo atomistico e
adialetico. IL PROCESSO INTERPRETATIVO IN GENERALE. GNOSEOLOGIA ERMENEUTICA. Dato
elementare del processo intrapretativo. Il rapporto tra chi parla e chi ascolta nel colloquio (cf. Grice
without an audience). Discorso nel vivo [face to face] colloquio – in conversation,
understanding resolves in the process – Collingwood -- e discorso messo per
iscritto. Attualità del parlare e oggetività della lingua. Problema del rapporto
fra lingua e discorso. Grice on RYLE on GARDINER. Genesi della mancata o inesatta
intelligezza Premesse dell'esigenza d’identità
ergnaletica. Surrogati matematici del processo intepretativo conformi al meccanizzarsi
dell'incivilimento materiale. Surrogati automatici (TURING) del processo
interpretativo proposti dal neo-positivismo logico. Critica del positivismo
logico. Surrogati automatici del processo interpretativo indotti dalla civiltà
di massa. Interpretare ed intendere. Azione ed evento [cf. Grice, “Actions and
Events”] del processo comunicativo. Contesto del discorso come totalità.
Presupposti di una COMMUNICAZIONE – Grice on Stevenson – d’intelligenza tra
spirito e spirito. L'intendimento significativo o il suo appugamento nella sintesi
della conoscenz. Analisi fenomenologica [Grice
on Austin on linguistic phenomenology]. Funzione predicativa (Let Fido be
shaggy] del giudizio e sua espressione linguistica. Criteri per la qualifica di un'attività
spirituale asccodanes siccome interpretazione. Differenza intercedente fra
l'intendere e l'attività teoretica inventiva. Rispettiva delimitazione. Indebita
identificazione dell'intendere con qualsiasi esperenza o fatto di auto-conscienza. Interpretare e conoscere
per intelligenza dialettica. Rispettiva delimitazione. Esigenza di ricollegare
il pensiero all'autore (GRICE – utterer). Inversione dell'iter genetico nell’iter
ermeneutico. Indirizzo a destinatari – Grice: RECIPIENT, ADDRESSSEE -- del
proceso comunicativo. Sociologia ermeneutica. Atteggiamenti meta-teorici
prelimitari al processo interpretativo. Ancora degl’atteggiamenti preliminari
al processo interpretativo. La fusione affettiva (empatia) del ri-vivere, o suo
uffcio differente (preparatocio o integrativo) in ordine all’esigenza del
riconocere ovvero de riprodure. Impedimenti al retto esito del processo
interpratativo. METODOLOGIA ERMENEUTICA. Momenti teoretici avvinodastici nel processo
interpretativo. Del momento assiologico concomitante e sosequente all'interpretazione.
Canoni, la cui osservanza garantisce l'esito epistemologico dell'interpretazione.
Canoni attitenti all'oggetto. Autonomia dell'oggetto ed immanenza del criterio
ermeneutico. Totalità e coerenza dell'apprezzamento ermeneutico. Canoni ermenutici
attinenti al SOGGETTO – inter-soggetività -- Attualità dell'intendere. Adeguazione
dell'intendere. Corrispondenza e congenialità ermemeutica. Fondamento della
corrispondenza ermenutica, e suo valore.
Interferenza tra il criterio dell'autonomia e il criterio dell'attualità
ermenutica. Valore ermeneutico del giudicio di qualificazione. Analisi del
concetto di stile. Senso dla formoa. Spirito oggettivato. Interpretazione ed
integrazzione ermeneutica. Potenziamento dell'intendere. Conversione
interpretativa d’istrumentari rappessentativi. TIPI D'INTERPRETAZIONE. INTERPRETAZIONE
IN FUNZIONE MERAMENTE RI-COGNITIVA. L'INTERPRETAZIONE FILOLOGICA. Prevalenza
dell'un momento sull'altro e classificazione dei tipi d'interpretazione. Clasificazione
dei tipi d'interpretazione secondo la differenza della rispettiva funzione. Meramente
ri-cognitiva. Ri-produttiva o ra-ppresentativa. Normativa. L'interpretazione filologica
(in senso staetto); leggere ed inte-leggere. Concetto di testo. Il testo come
tessitura del discorso e formulazione del pensiero. De-cifrazione e critica
della gentinità. Fasi dell'interpretazione grammaticale. Predromi dell’interpretazone
filologica. Sue fasi. Criterii metodici dell'interpretazione filologica. Correlazione
del criterio grammaticale (“Pirots karulise elatically”) col criterio
psiocogico – GREGORIO; il solecismo dello spirito santo -- nel proceso
interpettativo. Psicologia dell'espressione – alla CROCE. Vicende dell'usus
loquendi e influenza della concezione soggettiva nell’interpretazione filologica. Indirisso psicologico
dell’interpretazione filologica. Meta ideale del metodo
filologico (BLAKE, Love that never told can be). La ri-evocazione
del pensiero, discorsivo o intuitivo. Deficienza ed ecceenza di contenuto rappresentativo.
Interpretazione o integrazione.
Interpretazione allegorica (“You’re the cream in my coffee”). Eccedenza di
valore significativo. Interpretzione di simboli. ECCEDENZA [cf. Grice,
IMPLICATURA/DISIMPLICATURA di valore significativo Interpretazione della leggenda
di ROMOLO e del semastema mitico. L'INTERPRETAZIONE
STORICA. L'interpretazione storica (Il suicidio di Catone). Suoi vari aspetti.
Oggetto immediato d'interpettazione storica. Forme rappresentative tramandate
dalla tradizione, o conservate nel ricordo (storiografico o personale –
Amaccord da Harborne – Grice Fellini. Criteri ermeneutici dell'interpretazion
aterica. Loro differenziarsi secondo
l'oggetto. Concetto di fonti e di questione storica. Criteri d'interpretazione
storica delle fonti rappresentative tramandate dalla tradizione o conservate
nel ricordo. Critica dell'attendibilità e integrazione delle fonti storiche secondo
l'individualità dell'autore – LIVIO contro SALUSTIO. Interpretazzione di comportamenti
aventi interesse storico nelle vita di singoli – CATONE -- o di società – il circolo
degli Scipioni. Criteri ermeneutici. Posizione della questione storica. Insufficente
apprezzamento della vita storica colle sole catogorie psicologiiche e pratiche,
etiche o politiche. Auto-critica dello storicismo. Problematica ulteriore proposta
dal complesso carattere di comportamenti. Eccedenza di significato ed indagine
di concatenazioni. Compito ermeneutico d’assignare a una storia della civiltà
interiore (Kultur-geschichte) ed ad una storia della spiritualità (Geistes-geschichte).
Indirizo d'interpretazione storica rivolto all’evoluzione della spirtualità. Totalità
e coerenza dello spirito nella dialettica del pensiero mitico. Totalità e coerenza
della srpiritualità attraverso le vicende del suo svolgimento. L'INTERPRETAZIONE
TECNICA IN FUNZIONE STORICA. L'interpretazione tecnica. Senso della qualifica. Differenza
dell'intepretazione tecnica dalla verificazione di collaut. lnterpretazione psicologica
e tecnica d’un’opera o d’una condotta. Problemi ricorrenti nella vita storica. Nessi
fra tecnica e inventiva individuale. Formazione di nuovi tipi artistici o letterari, comunicativi o strumentali
– GRICE ON TOOL --.. Tecnica e forma interiore. Storia del concetto di forma
interiore Interprtazione psicologico-stilistica
del fare artisticel variare degli stili.
I problemi di configurazions, come criteri basi dell'interpretazione tecnico-artistica, in generale. Costanti
fenomenologiche del fare artistico e criteri basilari ermeneutici. Ancora
dell'interpectazione tecnico-artistica. Revizione critica dei criteri basilari d’orientamento. Varietà delle
prospettive determinanti la formazione degli stili (e delle concezioni
interpretative – IL FUTURIMO, la decadenza ellenistica dell’arte romano --). Differenziarsi
delle prospettive che determinano lo stile secondo le varie generazioni. Tecnica
e spiritualità. La azione reciproca. Indirizzo dell’interpretazione tecnico-artistica
secondo la psicologia dello stile. Interpretazione tecnico-artistica in
particolare. Inversione dell'iter genetico nell'iter ermeneutico. Corollario
che se ne trae pell'interpretazione tenico-artistica. Cenno sul processo genetico dell'opera d'arte e di poesia (Grice
on BLAKE). Contenuto e liricità
nell'opera d'arte. Autore e contemplatore. Interpretazione tecnico-sociologica
(WEBER protestante): suo compito specifico di riconoscere strutture ricorenti nelle
formazioni sociali e correlazioni tendenzialmente costanti, tra fenomeni
storici rispondenti a problomi analoghi della vita sociale. Interpretazione
tecnico-economica. Il concetto di stile dlla economia. Esigenza di totalità ed
unità cui rispondo nella interpretazione della storia economica. Interpretazione tecnico-economica. Valore
ermeneutico del concetto di stile INTERPRETAZIONE
RIPRODUTTIVA. Riproduzione transitiva attraverso una mutata dimessione Requisito della mutata dimesione
nell'interpretazione con funzione riproduttiva. Integratzione rappesentativa. Criteri
metodici dei vari tipi d'interpretazione in funzione riproduttiva. Antinomia
tra il vincolo di fedeltà e l'esigenza d'integrazione nell'attualità del ri-esprimere.
Deviazioni dell'interpretazioue in funzione riproduttiva. Equivocazione tra
formola e senso. L'INTERPRETAZIONE TRADUCENTE. Traduzione ed interpretazione.
Presupposto d’ogni traduzione. Una interportazione meramente ricognitiva.
Esigenza di fedeltà al testo. Distinzione fra pensiero e formulazione
linguistica. Errore del comune preguidizio a favore della traduzione letterale.
Critica dell’equivocazione tra formoula (gergo) e seaso. Indirizi del tradurre.
(TRADUTORE, TRADITTORE). Differenza tra traduzione e libere eborazioni cognoscitive,
parafrasi, commento, versione in altro idioma. Ibridismo dei rifacimenti, dell’epitome
riassuntivo, del’interpolazioni La traduzione
come arte. Scoperta del ritmo e dello stile adeguato. INTERPRETAZIONE IN
FUNZIONE RIPRODUTTIVA.L'INTERPRETAZIONE DRAMMATICA. Esigenza di concrta
individuazione rappresentativa. Problematica del processo triadico di
mediazione fra testo, spettacolo e pubblico (GRICE: WHAT HAMLET SAW, WHAT
MACBETH SAW). Indirizzi e vedute differenti
circa il rapporto de messa in scena col testo drammatico (Is there a suicide at
the end of AIDA?). Processo dell’individuazione rappresentativa. Esigenza d’unità
(cf. WAGNER – a whole week!),
coordinazione e sintesi degl’elementi. Rcerca della chiave spettacolare
del testo dramatico. Ancora dei criteri metodici dell'interpretazione drammatica.
Ufficio del regista. IL TEATRO DEL MONDO --. Rapporto d’animzione direttiva. Indirizzo
dell'intergrotazione drammatica, secondo le vedute di Craig e Copeau. Compito e
metodo dell'attore nel proceeo dell'individuzione rappresentativa (PLAYING THE
ROLE). Ancora dol processo
dell'individuarione rappresentativa per opera dell'attore. Sul metodi della
regia nel processo dell’individuazione. Rischi ed esigenze Criteri dell'interpretazione drammatica proposti
da Stanilawski. Impegzo richiesto all'attore secondo i canoni dell'autonomia e
della totalità ermeneutica. Esigenza di subordinazione, unità e consonanza. Varietà
delle concezioni interpretative esprimentisi in funzione riproduttiva. Variare
della sensibilità uditiva e visive. Rapporti fra rappreseatazione teatrale o
cinematografca. Raffrento tra i compiti dei rispettivi registi.(HOME, SWEET
SWEET HOME). Deviazioni della rappresentazione del compito ereneutico. Della tendenza
diretta a porre l'interpretazione teatrale sullo stesso piano della realizzazione
cinematografica. Deviazioni della
rappresentazione del compito ermeneutico, per
l'arbitrio conferito all'interprete (HOME SWEET SWEET HOME – PAVANE --).
L'INTERPRETAZIONE MUSICALE (“Meistersinger is for children” – Grice). Problematica
dell'interpretazione musicale. Processo d’indiviuazione ed integrazione. Tecnica
e arte riproduttiva. Presupposto dell'esecuzione. Una interpretazione
ricognitiva del testo musicale. Premesse ai criteri metodici
dell'interpretazione musicale. Ricerca delle chiave orchestrale del testo
musicrie. Appezzamento dalla rispondenza dei mezzi allo scopo riproduttivo. Nesso
intercedente tra contenuto lirico d'anima e istrumentario tecnico dell'expressione
MELODICA nella composizione e nell’interpretaziona musicale. Esigenza di
totalita, e consonanza tra penseoro discorsivo e immagine visiva e musicale.
Opera (“Meistersinger” is for children! – Grice) e dramma. Sceneggiatura e film.
(Oxford Film Society, Grice). Le situazzioni evocate nel libretto, come fonte
d'ispirazione. INTERPRETAZIONE IN FUNZIONE NORMATIVA. Probloma dell'intendere
por decidere (agire). Problematica comune all'interpreazione giuridica e a quella
teologica. Nesso dialettico tra linguaggio o pensiero, fra espressione ed azione.
Esigenza di tenerlo presente anche nella interpretazione in fonzione normativa.
Antinomia fra vincolo di subordinazione ed esigenza d’iniziativa. Eterogenesi
di significati in orientamento dogmatico. Differenziarsi d’un siguificato più
conforme all'indirizzo valutativo nell'attualità dell'agire. INTERPRETAZIONE
GIURIDICA. Hampshire and Hart – on Grice and vice versa. L'interpretazione
nella vita del diritto. Funzione normativa dell'interpretazione d‘un DIRITTO IN
VIGORE (AUSTIN on internal and external reading). INTERPRETAZIONE ED applicazione. Interpretazione
e qualiicazione giuridica. Interpretazione e costruziona dogmatica. Nesso fra riscostruzione
storica e sviluppo integrativo della norma – CITTACIDANZA NELL’ANTICA ROMA -- .Esigenza
di mantenere l'intrinseca coerenza dell'ordine giuridico, nella sucessione di norme
o del concorso con altri odinamenti. Compito d’adattamento. Eficienza evolutiva
dell'interpretazione. Nesso intercedente fra ricognizione storica e sviluppo
integrativo dalla norma giudica nelle massime di decisioni. Questione della portata evolutiva
dell'interpretazione giuridica. Deficienza della disciplinn legislativa. Criteri
d’integrazione. Analogia iuris. Funzione emaneutica dei principa generali di
diritto. Lacuna e caso dubbio. Del modo di concepire i principi generali di
diritto Deita competenza a identifcare i
principi generali di diritto Del compito
della giurisprudenza quale organo della consicenza socale. L'INTERPRETAZIONE TEOLOGICA Oggetto: testi sacri. Qualifica di testo
sacro nell'orbita d’una chiesa – GRICE: THE 39 ARTICLES -- o confessione religiosa. Interpretazione
letterale – GRICE MOUNT SINAI -- Interpretazione
allegorica – Grice PHILOSOPHICAL ESCHATOLOGY --. Interpretazione teologica. Ermeneutica
sacra o profana. Analogia fidei. Vincolo dell'interprete a un credo religiono,
a una dogmatica teologica – THE 39 ARTICLES -- , o ai criteri ermeneutici
fisati’un tradizione chiesastica. Conoscenza di sè attinta alla civiltà dell’epoche
storich. Funzione educativa
dell'interpretazione storica quale ricostruzione dell’intero orizzonte
spirituale dell’oggettivazione ri-evocata. Radicale trascendenza destinata al
singolo nella comunione Magra viventivat
ac defunctorum communio. Educazione del genere umano. Formazione del senso
storico come senso di continuità e
spirito di tolleranza. Emilio Betti. Keywords: la lupa; ovvero, problemi di
storia della costituzione politica e sociale nell’antica Roma, auslegung,
auslegungslehre, storia della repubblica romana, diritto romano, exception,
action, vindication, dirittop rivato, iudicare, pronuntiatio, damnare,
condemnation, processor omano, litis aestimatio, processo civile, contaheer,
giurista proculiano, giurista sabiniano, restauraziones ullana, constitutziane
rpeubblicana, obbligazioner omana, cosa giudicata, diritto romanoc lassico,
diritto romano guistinaneo, diritto processuale civile, negozio giuridico,
interpretazione, genesi del principato, lingua romana, lingua latina, base
etnica della antica Roma, i latini, l’eta monarchica, il signficato di ‘rex’
(regere, cf. lex, legare), l’eta repubblicana, res pubica used during l’eta
monarchica, Romolo, il primo re, Tarquino, l’ultimo re, l’eta repubblicana, la
stirpe dei patrizi, patrizio, cepo aristocratico, Caesar dittatore, assassinio
di Caesar, il principato, Augusto, significante ‘consacrato’, ‘Imperator
Augusto Ottaviano’, imperio, imperatore, pater familias, paternalism, diritto
consuetudinario, il fuhrer, l’hero, autorita carismatica, civilita, ius civile,
romanita, diritto romano ostrogotico, diritto romano longobardi, popolo romano,
nazione romana, romano e sabini, diritto per romani e diritto per pellegrini,
vocabulario del diritto romano, dizionario di diritto romano, lexicon di
diritto romano, concetto autenticamente romano di auctoritas, lex, legare,
eddictum, decretum, suggestion, agere, diritto processuale, contratto, negozio,
diritto penale, diritto civile, crisi della repubblica, Antonio e Ottaviano,
stato autoritario, concetto di stato, Ponzio Pilato e la morte di Gesu,
pontificex massimo, laicitia del diritto romano, senatus, PSQR, Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Betti: Vico ed il circolo dell’implicatura” – The
Swimming-Pool Library.
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