Grice e Colonna: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo romano.
Filosofo lazio.Filosofo italiano. Roma, Lazio. There is already an entry for
this; in Italian it is ‘Egidio Colonna’ --
giles di roma, Rome, original name, a member of the order of the Hermits
of St. Augustine, he studied arts at Augustinian house and theology at the
varsity in Paris but was censured by the theology faculty and denied a license
to teach as tutor. Owing to the intervention of Pope Honorius IV, he later
returned from Italy to Paris to teach theology, was appointed general of his
order, and became archbishop of Bourges. Colonna both defends and criticizes
views of Aquinas. He held that essence and existence are really distinct in
creatures, but described them as “things”; that prime matter cannot exist
without some substantial form; and, early in his career, that an eternally
created world is possible. He defended only one substantial form in composites,
including man. Grice adds: “Colonna supported Pope Boniface VIII in his quarrel
with Philip IV of Franc eand that was a bad choice.” The Latin is EGIDIVS
COLUMNA. The “Corriere” has an article as his book being a bestseller of the
Low Middle Ages!” Cosnisder the claims here: ‘essence and existence are really
distinct in creatures – and each is a thing – prime matter cannot exist without
substantial forml – eternal and created world is not a contradiction – there is
only ONE substantial form in compostes, including man. Grice: “Must say I LOVE Colonna, or
COLVMNA as the printing goes – of course the “Corriere della Sera” hastens to
add that he wassn’t one! In any case, my favourite of his tracts is of course
the one on Aristotle!”. Egidio Romano,
O.E.S.A. arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano
e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Incarichi ricopertiArcivescovo
di Bourges Nato Roma Nominato arcivescovo Roma. Manuale Egidio
Romano, latinizzato come Ægidius Romanus. Dopo la sua morte, gli furono
tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps.
Discepolo d'Aquino. Insegna filosofia. Fu inoltre il tutore di Filippo il Bello
al quale dedica il saggio “De regimine principum”, sostenendo l'efficacia della
monarchia come forma di governo. Considerato tra i più autorevoli filosofi di
ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un
contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche
sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Generalmente
ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo
nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam di Papa Bonifacio VIII e per
il ruolo significativo che assunse il Mæstro degli Eremitani di Sant'Agostino
quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e
autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In Colonna rileviamo subito
una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico. Infatti è
possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il “De regimine principum”,
saggio dedicato a Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente
alla naturalità dello stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel “De
Ecclesiastica potestate”, invece, afferma la superiorità del “sacerdotium” rispetto
al “rex” o “regnum”, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia
papale. In seguito alle condanne di Tempier, difende la tesi d’Aquino, per
la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne
stesse, viene sospeso dall'insegnamento. Gli avversari del papato trovano in Aristotele
gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta in discussione la
sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente
speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale,
di compenetrazione fra stato e chiesa, all'interno del quale Agostino viene a
giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo “De
Civitate Dei” conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della “Civitas
Dei Cælestis” e il piano temporale della vita terrena che è “Civitas Peregrina”),
che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del
sacerdotium rispetto al rex e regnum, costituendo un vero e proprio “partito
del Papa”. Rivendica la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva
dell'auctoritas del Papa in quanto “homo spiritualis”. Sostituisce al concetto
agostiniano di “ecclesia” quello di “regnum” al fine di estendere gli ambiti
del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico, il Papa, dove
esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire
l'ordine mediante una forma di “dominium” che coincide con la sua stessa
missione spirituale. Atre opere: L'edizione critica dell'opera omnia è
stata intrapresa, per Olschki (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus
Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), da Punta. “Quaestio de gradibus
formarum” Ottaviano Scoto, Boneto Locatello. “In secundum librum sententiarum
quaestiones” Francesco Ziletti); Opere, Antonio Blado; “In libros De physico
auditu Aristotelis commentaria”; Ottaviano Scoto; Boneto Locatello, “De materia
coeli” Girolamo Duranti, “Quodlibeta”. Silvia
Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano, “Le opere
prima”; “I commenti aristotelici”, "Documenti e studi sulla tradizione
filosofica medievale", Dizionario biografico degli italiani. DEL GOVERNO
DI SÈ. Del sommo bene. Quale è la maniera di parlare nella scienza de're e de'
principi. Quale è l'ordinanza delle cose che si debbono dire in questo libro. Come
grande utilitate ei re e' principi ånno in udire e in intendere e in sapere
questo libro. Quante maniere sono di vivare e come l'uomo die méttare il
sovrano bene di questa mortal vita in queste maniere di vivere. Com'è grande
utilità e a' re ed ai principi che ellino conoscano il loro fine e'l loro
sovrano bene di questa vita mortale. I re ne i principi, non debbano mettere il
loro sovrano bene in diletto corporale. I re ne i principi non debbono mettere il loro
sovrano bene in avere ricchezze. I re ne
i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere onori. I re ne i
principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere gloria o gran rinomo
di bontà. Nè i re né i principi non debbono méttare il loro sovrano bene in avere
forza di gente. I re ne i principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle
uopere della prudenzia cioé del senno. Come ei re e' principi debbono méttare
el loro sovrano bene nelle opere della prudenza e del. Il prezzo e'l guidardone
dei re e dei principi bene governanti il loro popolo, secondo legge e ragione,
è molto grande. senno. Della virtù. Quante potenze à l’anima e in quali potenze
e la virtù di una buona opera. Come la virtù di una buona opera e divisa nella
volontà e nell’intendimento dell'uomo. Quante virtù di buone opere sono, come
l'uomo die préndare il numero di esse. Delle buone disposizioni che l'uomo à,
alcune sono virtů, alcune sono più degne che virtù, alcune altre sono
apparigliate a virtù. Alcune virtú sono più degne d'alcune altre e più principali.
Che cosa è la virtù dell’uomo ch'è chiamato senno, over prudenza, over sapere.
Ai re ed ai prenzi conviene es sere savi. Quanto e quali cose conviene ai re e
ai prenzi avere acciò che ellino siano savi. Come și re e i prenzi possano fare
loro medesimi savi. Quante maniere sono di drittura ed in che cosa è drittura e
come drittura è divisata dalie altre virtú. Senza drittura e senza iustizia ei
reami non possono durare, nè nulla signoria di città. I re e i prenzi debbono
intendere diligentemente acciò che essi siano dirilturieri e che drittura sia
guardata nelle loro terre. La forza di coraggio e. e quali cose ella die essere,
e come ei re e i prenzi le. possono avere. Quante maniere sono di forza e secondo
la quale ei re e i prenzi debbono essere forti. Che cosa è la virtù che l'uomo
chiama temperanza e in quali cose quella virtù die essere, quante parti a la
temperanza, come noi la potemo acquistare. Ched elli é più disconvenevole cosa
che l’uomo sia distemperato in seguire LI DILETTI DEL CORPO che in essere
paurioso. Il principe debbe essere temperato nel diletto di suo corpo. La virtù
che l'uomo chiama larghezza e'n quale cose cotale virtù de' essere, e come noi
la potemo acquistare. Che a pena può essere el re o'l prenze folle largo e come
è troppo sconvenevole' cosa che essi sieno avari e ch'ellino debbono essere
larghi e liberali. Che cosa è una virtù che l’uomo cjiama magnificenzia e'n
quali cose quella virtù die essere, e come noi potemo avere quella virtù. Come
è cosa isconvenevole che i re e i prenzi sieno di piccola dispesa e di poco
affare, e che maggiormente s'avviene a loro essere di grande spese e di grande
affare. Che condizioni à l'uomo che è di grande spesa e di grande affare, e che
conviene maggior mente averle ai re ed ai prenzi. Che cosa è una virtù che l'uomo
chiama magnanimità, cioè a dire virtù di grand'animo e in quali cose quella
virtù di essere e come noi potemo essere di gran cuore. Quante condizioni à
l'uomo che è di gran cuore, e che maggiormente si conviene ai prenzi d'averle.
Come ei re e i prenzi debbono amare onore, o quale è la virtù che l'uomo chiama
virtù d'amare opore. 68 Cap. XXV. Ca insegna che amare onore ed èssare umile
possono essere insieme e che quelli che è di gran cuore e di grande animo non
può essere senza umiltà. Che cosa é umiltà de la quale il filosafo parla e in
quali cose ella die essere e che maggiormente conviene ai re ed ai prenzi
essere umili. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama dibuonairetà, ed in che cose
la buonairetà die essere e che conviene ai re ed a i prenzi essere dibonarie.
Che cosa è una virtù che l'uomo chiama piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE
PIACEVOLMENTE e in che cose la detta virtù die essere e che si conviene che i
re e i preozi sieno piacevoli. Che cosa è verità e in che cosa ella die essere
usata e come si conviene al principe ch'esse sia veritiero o sincero. Che cosa
è una virtù che l'uomo chiama sollazzevole, quasi dica di sapere sollazzare, e
di essere allegro e gioioso, là ' ve si conviene, e per la quale' l'uomo si sa
avvenevolmente rallegrare nei sollazzi, come ei re e i prenzi debbono essere
allegri e sollazze voli. Conviene al principe avere tutte le virtù, perciò che
perfettamente l’uomo non ne può avere una senza le altre. Quante maniere sono di
buoni e adi malvagi uomini e quale maniera di bontà ei re e i prenzi debbono
avere. Delle passione. Quanti movimenti d'animo sono e donde essi vengono. Quali
movimenti d'animo sono principali che gli altri e come essi sono ordinate. Come
il principe debbe amare e quali cose debbe amare. Come il principle debbe
desiderare e che cosa debbe desiderare. Come ei re e i prenzi si debbono
portare ayvenevolmente in isperare e in disperare. Come avvenevolmente ei re si
debbono portare in avere ardimento. Che differenza elli à intra corruccio e
odio, e come ei te e i prenzi si debbono avvene volmente contenere nei corrucci
e ne le di bonarietà. Come ei re e i prenzi si deb bono ayvenevolmente avere
nei diletti. Come alcuni movimenti d'animo sono mantenuti e ritornano ad alcuni
altri movimenti. Ched ei movimenti dell'animo alcuni sono da biasmare ed alcuni
sono da lodare e come ei re e i prenzi si debbono conferire nei movimenti detti
dinanzi. Della costume. Quale costume e quale maniere de giovani uomini fanno
da lodare, e come il principe debbe avere essa costume ed essa maniera. Quali
costumi e quali maniere dei giovani uomini fanno da biasmare, e come ei.re e i
prenzi debbono ischiſare cotali maniere e cotali co stumi. Quali costumi e
quali maniere dei uomini fanno da biasmare, come ei re e i prenzi ei debbono
ischifare. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da lodare. Che
costume e che maniera ha il gentile uomo, e come il principe debbe avere. Che
costumi e che maniere anno l’uomo ricco e come ei re e i prenzi ei debbono. Che
modi e che maniere ánno coloro che sono possenti ed anno signorie, e come li re
e li principi si debbono avere in verso la gente convenevolmente. Avere. DEL
GOVERNO DELLA FAMIGLIA. Della moglie. L'uomo die naturalmente vivare in
compagnia, e che i re i prenzi il debbono sapere. Che, acciò che la casa sia
perfetta, si vi conviene avere quattro maniere di persone, e come e' conviene
questo secondo libro divisare in tre parti. Quella casa è perfetta ove v'à
assembramento di un uomo e di una femmina, un figliuolo, e servi. L'uomo naturalmente
si die ammogliare e che quelli che non vogliono vivare in matrimonio, o elli
posono bestia, o ellino sono migliori che l’uomo. Ciascuno uomo e ciascuna femmina,
e medesimamente ei re e i prenzi che sono ammogliati, si debbono tenere in
matrimonio senza partirsi o senza divídarsi. A ciascun uomo die bastare una femmina,
e che i re e i prenzi e ciascun altro uomo si die tenere appagato a una
femmina. Un uomo die bastare a una femmina, e che una femmina si die chiamare
contenta d'un uomo. L’uomo non die prendare moglie la quale sia troppo presso a
lui di parentato o di lignaggio. Come le moglie dei re e dei prenzi e di
ciascuno altro uomo debbono avere abbondanza di beni temporali. Come nè i re né
i prenzi, nė cia scuno altro uomo non debbe chiėdare solamente ei beni
temporali delle loro mogli ma anco ei beni del CORPO e quelli dell'anima, e ciò
e il bello e il casto. L’uomo non die governare nė tenere la moglie nella
maniera ch'elli die tenere e governare il suo figliuolo. L’uomo non die tenere
nė governare la moglie nella manera che l'uomo die tenere e governare e fanti.
Che elli non si conviene nė ai re nè ai prenzi ned a nessuno altro uomo,
ch'ellino usino il matrimonio in troppo giovano tempo. L’uomo die piuttosto
fare l'opera del matrimonio nel verno che nella state. Come alcune cose sono
nelle femmine che sono da biasmare. Come ei re e i prenzi e ciascuno altro uomo
die avvenevolmente governare e addrizzare la moglie. Come gli uomini si debbono
portare con le loro mogli. Come la femmina maritata deb bono convenevolmente
adornare il loro corpo. Né I re ne i prenzi, nė li altri uomini, non debbano
essere troppo gelosi delle loro mogli. Che cosa è ' l consiglio della femmina,
e che 'l suo consiglio l'uomo non die credere se non in alcun tempo. Com’l’uomo
non debbe dire il suo secreto alla sua moglie. Dei figli. Il padre die essere
curioso di guardare il suo figliuolo. Che ciò s'avviene maggiormente ai re ed
ai prenzi, cioè ch'ellino sieno guardatori e curiosi dei loro figliuoli. Il padre
governa il suo figliuolo per L’AMORE ch'elli à in lui. L’AMORE NATURALE il
quale die essere da padre a figliuolo prova sufficientemente che il padre debbe
governare i suo figliuolo e il figliuolo debbe ubbidire il padre. Nel quale
dice che i re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine
insegnare la fede ai loro figliuoli. I re e i prenzi e ciascuno altro uomo
debbono da gioventudine insegnare ed appréndare ei buoni costumi e le buone
maniere ai loro figliuoli. Il figliuolo del gentile uomo debbe apprendere le
scienze della chericia, ciò sono, morali, naturali e matematice. Quale arte il
figliuolo di un gentile uomini debbe apprendere. Quale die ėssare il tutore del
figliuolo di un gentile uomo. Il padre die insegnare al suo fanciullo a parlare
e a vedere ed a udire. In quante maniere l'uomo puó peccare in mangiare e come
il garzone si debbe contenere. Come il padre die insegnare al suo fanciullo
acciò che si sappiano portar avvenevolmente nel bere e ne' diletto della
femmina. Come il garzone si debbe contenere nel diletto del corpo. Come in
giovanezza l'uomo die schifare le malvagie compagnie. Che guardia l’uomo die
avere de' figliuoli da che sono nati, insino a’ sette anni. Che guardia l'uomo
die avere de' fanciulli da sette anni fino a quattordici. Che guardia l'uomo
die avere del figliuolo da quattordici anni innanzi. Che il padre non die
insegnare al figliuolo uno medesimo travaglio di corpo. Della casa e dei servi.
L'uomo die diterminare e parlare delle cose donde la vita umana può esser
sostenuta, volendo governare la sua famiglia e la sua casa. Il casino della
villa del’uomo, die esser fatto sottilmente ed in buon áire. Il casamento dei
re e dei prenzi, e di ciascuno altro uomo, die esser fatto in luogo dove abbia
abbondanza di buona acqua e di chiara. Naturalmente l’uomo die avere
possessione in alcun modo e che quellino che rifiutano le possessioni, non
vivono come uomini, anzi sono migliori che uomo. Elli è grande utilità alla
vita umana, che l'uomo possa vivare della sua propria ricchezza. Come l'uomo
die usare dei beni temporali, e quale maniera di vivare è buona e onesta. Nel
quale dice che ciascuno uomo, e medesimamente ei re ei prenzi, non debbono
desiderare troppo grande abbondanza di ricchezze ne di possessioni. Quante
maniere elli sono di vendere e di comperare e perchè ei denari fuoro prima
mente fatti e trovati. L'usura è generalmente malvagia, e ch'ei re ed i prenzi
la debbono difendare ch’ella non sia fatta nella loro terra. Nel quale dice
ch’ei sono diverse maniere di guadagnare denari e che alcuna di queste maniere
è avve nevole ai re ed ai prenzi. Alcuna gente è serva per natura e ch'elli è
loro utilità ch'ellino sieno suggetti ad altrui. Nel quale dice che alcune
genti che sono servi per natura e per legge. Nel quale dice ch’ellino sono
alcune genti le quali sono serve per prezzo ed alcuna gente che servono per
l’amore ch’elli ánno ai suo signore. L'uomo die dare gli ufici ai suoi fanti
nelle case dei re e dei prenzi. Come ei re e i prenzi debbono provvedere ai
loro sergenti robe e vestimento. Che cosa é cortesia e ched e' conviene ai
fanti dei re e dei prenzi ched ellino sia cortese Nel quale dice come ei re e i
prenzi si debbono contenere inverso ei loro sergenti. Che quelli che servono e
quelli che mangiano alla tavola dei re e dei prenzi, e generalmente che il
gentile uomo non debbe molto favellare. DEL GOVERNO CIVILE. Detti dei filosofi
nel governamento delle città. Nel quale dice che la villa e ordinata e stabilita
per alcuno bene. Fu grande utilità alla vita umana che colla comunità della
villa e delle città, li uomini ordinassero la comunità del reame. Nel quale
dice ceme Platone e Socrate dissero che l’uomo dovea ordinare e governare le città.
Nel quale insegna che i re e i prenzi debbono sapere che tutte le cose non
debbono essere COMUNE siccome Platone e Socrate dissero. Nel quale dice quanti
mali avverrebbero se il figliouolo fusse comune. Nel quale dice come la possessione
debbe essere proprie, e come debbono essere comuni, secondo l'utilità delle
ville e delle città. I re ei prenzi non debbono sofferire che una medesima
gente duri sempre in una medesima signoria. Nel quale dice che l'uomo non die
cosi ordinare la città come Socrate disse, che dovieno essere ordinate. Come
l'uomo può trarre a buono intendimento le parole che Socrate disse, al governa mento
delle città. Come un filósafo, ch'ebbe nome Fal lea, disse, che l'uomo dovea ordinare
le città. Le possessioni non debbono essere eguali, siccome disse Fallea. Come
quelli che signoreggia alcuna città, elli die più principalmente intendare a
cessare le malvagie volontà e i malvagi desideri e convoitigine, ched elli non
die intendere a cessare la disuguaglianza delle possessiono. Nel quale dice,
come un filósafo ch'ebbe nome Ippodamo, disse che l’uomo dovea ordinare le
città. Nel quale dice quali cose sono da riprendare in quello che Ippodamo
disse del governamento della comunità. Della migliore maniera di governare le
città. Il quale insegna come l’uomo die governare le città in tempo di pace, e
quante cose l’uomo die guardare in cotale governamento. Quante maniere sono di
signorie e quali sono buone e quali sono rie. Ched o' val meglio che le città e
' rea mi sieno governati e retti per un solo uomo che per molti e che quest' è
la migliore signoria che sia quando un solo uomo signoreggia ed elli intende il
bene comune. Nel quale dice per quali ragioni alcuna gente volsero provare ched
e’ valeva meglio che le terre e le città fossero governale per molti uomini che
per un solo e dice in questo capitolo ciò che si die rispóndare a cotali
ragioni. Ched e' val meglio che le terre e le signorie e' reami vadano per redità
per successione DEL FIGLIOUOLO che per elezione. Nel quale dice quali sono le
cose ne le quali il re die sormontare gli altri, e che diversità elli à intra'l
re 'e'l tiranno. Nel quale dice che la signoria del tiranno è la peggiore
signoria che sia e che i re ei prenzi si debbono molto guardare ch'ellino non
sieno tiranni. Quale dia esser l'ufficio dei re e dei prenzi, e com’essi si
debbono contenere in governare le loro città e i loro reami. Quali sono le cose
che’ l buono re die fare, le quali il tiranno mostra di fare ma non le fa nèmica.
Nel quale dice per quante cautele il tiranno si sforza di guardare sė ne la sua
signoria. Ched elli è molto isconvenevole cosa ai re ed ai prenzi ched ellino
sieno tiranni, perciò che tutte le malizie che sono nell’altre malvagie
signorie, sono ne là signoria del tiranno. Nel quale dice che i re e i prenzi
debbono molto ischifare la compagnia del tiranno, perciò che per molte cose ei
soggetti aguaitano ed assaliscono il loro signore quand’elli é tiranno. Nel
quale dice quali cose guardano e salvano la signoria del re e ched e'conviene
fare al re sed e' si vuole guardare ne la sua signoria e nel suo reame. Quali
cose fanno a consigliare e di quali l'uomo die avere consiglio. Nel quale dice
che cosa è consiglio, e come l'uomo die fare ei consigli. Nel quale dice che
consiglieri ei re e i preozi debbono avere ai loro consigli. Nel quale dice
quante cose conviene sapere a quellino che consigliano ei re e i prenzi e in
quali cose l’uomo die préndare consiglio. Nel quale dice che tutte le cose
donde l’uomo giudica, l'uomo die giudicare secondo le leggi e che l’uomo die
fare pochi giudicamenti e dare poche sentenze per arbitrio o per credenza. Nel
quale dice come l’uomo dic fare ei giudicamenti: e ch’e giudici debbono vetare
che li uomini che piateggiano non dicano parole dinanzi al giudice che’l possa
muovere ad amore nè ad odio contra ad alcuna de le parti. Nel quale dice quante
cose conviene avere a’giudicatori a ciò ch’ellino giudichino bene e
drittamente. Nel quale dice quante e quali cose conviene riguardare al giudice,
acciò ch’elli perdoni e sia più di buonarie che crudele. Nel quale dice ched e’
sono diverse maniere di leggi e diverse maniere di giustizia e che al dritto
natu rale ed al diritto iscritto tutti gli altri dritti sono ridotti e
ramenali. Quali debbono esser le leggi umane e ched elli fu grande utilità ai
reami ed a le città a fare cotali leggi. Nel quale dice che ciascuno non die némica
istabilire nė ordinare le leggi; e ched e' conviene che le leggi sieno
publicate é fạtte sapere acciò ch’ell’abbiano forza d’obbligare le genti. Quante
opere e quali le leggi ch'ei re e i prenzi istabiliscono ed ordinano, debbono contenere.
Nel quale dice quale vale meglio o che le città o i reami sieno governati per
un buono re o per una buona legge. Nel quale dice che co la legge naturale e co
la legge iscritta e' conviene che l’uomo abbia la legge di Dio e la legge del
Vangelo. Come l’uomo può, si die guardare le leggi del paese e ch'elli non è
utile ch'elle si rimutino ispesso. Nel quale dice che cosa è città e che cosa è
reame e chénte die essere il popolo ch’è ne le città e ne' reami. Nel quale
dice che allora è la città e’l reame trasbuono e 'l popolo trasbuono, quand’elli
v’à molte di mezzane persone. Nel quale dice ched elli é grande utilità al
popolo di portare grande riverenza al prenze ed al signore e ched ellino
guardino diligentemente le leggi che i re e i prenzi ánno ordinate. Come il
popolo e generalmente tutti quelli che dimorano nel reame, si debbono mante
nere saviamente, acciò che’l re o’l prenze non abbia corruccio nė odio contra
loro. Come ei re ei prenzi si deb bono mantenere, acciò ch'ellino sieno amati e
temuti dal lor popolo. Ed insegna questo capitolo che tutto debbiano ei re ei
prenzi esser amati e temuti dal lor popolo, ellino debbono maggiormente volere
essere amati che temuti. Del governo in tempo di guerra. Che cosa è cavalleria e
da ch'ella é ordinate. Nel quale insegna in quale terra sono e’migliori
combattieri e quali l’uomo die iscegliere per combattere dell’uomini che
debbono andare a la battaglia. In quale tempo l'uomo die acco stumare il
fanciullo all' opere dela battaglia e per quali segni l'uomo può conosciare ei
migliori battaglieri. Nel quale insegna quante cose e quali e' conviene avere
a' buoni battaglieri, acciò ch'ellino si combattano bene e giustamente. Nel
quale insegna quali sono migliori battaglieri o i gentili uomini, oi villani, o
quellino che nel campo dimorano, ciò sono ei lavoratori. Nel quale insegna
ch’elli è grande utilità ai baltaglieri chedellino sieno bene esercitati
all'arme; e che l’uomo die ei battallieri apprendare a correre ed a saltare ed
andare ordinatamente. Nel quate insegna ched e’si conviene appréndare ai
battaglieri molte altre cose che quelle che sono dette, cioè a córrare ed
assaltare ed andare ordinatamente. Nel quale insegna che l’uomo die fare nell’oste
fossati e castelli. Ed insegna questo capitolo come l’uomo die fare ei castelli
e quante cose l’uomo die guardare in farli. Nel quale dice quante cose l’uomo
die guardare quand’elli vuole o die imprèndare battaglia comune. Nel quale dice
ch’elli è grande utilità ne le battaglie di portare bandiere e gonfaloni: e che
l’uomo die ordinare capitano e maggiore a ciascuna ischiera. E so - nemici migliantemente
questo capitolo insegna quali debbono essere e banderari e i capitani di quelli
a piè e di quelli a cavallo. Nel quale dice che avvedimenti die avere e che die
fare il signore dell’oste acciò che la sua gente non possa essere gravata dai
nemici per la via. Nelquale dice come l’uomo die ordinare le schiere e le
battaglie, quando l’uomo si die combattere contra I Nel quale insegna che
l'uomo die ferire il suo nemico nello battaglia di puntone e non di ramata. Nel
quale dice quante cose fanno gli avversari più forte che quelli dell’oste é
come l’uomo die assalire ei suoi nemici. Nel quale insegna come ei battallieri
si debbono tenere quando vogliono ferire ei loro nemici, e com’ellino ei
debbono inchinare e come l'uomo si die trarre in drieto quando la battaglia non
porta utilità. Nel quale insegna quante maniere ei sono di battaglie; e in
quanti modi l’uomo può prendare le città e le castella ed in che tempo l’uomo
le die assediare. Come quelli dell'oste si debbono fornire e come l'uomo può
vénciare le castella per cava. Come per l’ingegni del legno che l'uomo può
menare al muro del castello, l’uomo lo può prendare. Come l’uomo può e die
edificare le castella acciò ch'elle non sieno leggermente prese ně come l'uomo
può e die guérnire le castella acciò ch'elle non possano esser prese. Nel quale
dice come quelli che sono nel castello assiso possono e debbonsi difendersi da
la cava e dai tra bocchi e dalli altri ingegni che quellino dell'oste vi fanno.
Come l'uomo die fare le navi, e come l'uomo si die combattere nell'acqua o nel
mare, da che cosa tutte le battaglie debbono essere ordinate assediate. Che
cosa è una virtù che l’uomo chia ma piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE
piacevolmente con le genti, e in che cose la detta virtù die essere, e che si
conviene che i re e i prenzi sieno piacevoli. Appresso ciò che noi avemo detto
che cosa è debonarietà, noi diremo d’un'altra virtù, che l’uomo chiama
piacevolezza. E dovemo sapere che le opere e le parole dell'uomo sono ordinate
a tre cose, si come ad avere piacevolezza e verità, ed avere diletti e giuochi
nei solazzi e nelle allegrezze. LA PRIMA RAGIONE: E la piacevolezza si è, in SAPERE
BENE CONVERSARE, unde quelli che sa onorare e riverire gli uomini convene
volmente e secondo ragione, si à la virtù della piacevolezza. La SECONDA
ragione si è, che le opere e le parole dell’uomo sono ordinate sie a verità
che, per le opere e per le parole dell'uomo può l'altro uomo conosciare chi egli
è (“Conversation maketh the man”). Donde, verità non è altro se non che l'uomo
non sia vantatore e che nè per parole nè per fatti elli non dimostri maggior
cosa in lui che vi sia, nè che l'uomo non si faccia ispiacevole nè per parole
nè per fatti oltre quello che ragione insegna, perchè elli sia gabbato ne
dispregiato. La TERZA RAGIONE a che l'opere e le parole dell'uomo sono
ordinate, si è, acciò che l'uomo sia sollazzevole convenevolmente, e si sappia
bene portare nei giochi, e nelle allegrezze e nei sollazzi. Donde, se l'uomo
vuole CONVENEVOMENTE CONVERSARE e' die essere giochevole e piace vole e
veritiere. E di queste tre virtù noi diremo partitamente, ma prima diremo della
piacevolezza. E dovemo sapere che, NEL CONVERSARE, alcuni si mostrano troppo
piacevoli, si come sono e lusinghieri, e quelli che’n ogne cosa vogliono
piacere altrui, che acciò che piacciano altrui, si lo dano tutti ei fatti è
tutti ei detti di ciascuno uomo. E alcuni sono, che anno troppo gran difalta
NEL CONVERSARE co le genti, si come sono ei malvagi e quellino che sono
battaglieri, e tenzonieri; e questi fanno contra a ragione. Chè neuno die
volere essere si piacevole nè si compagnevole, ch’elli ne do venti o ne sia
lusinghieri, e piacere a tutti gli uomini, nė neuno die essere si pieno di
contenzione e di noia, che li con venga cessare della compagnia delli uomini, ma
quelli è da lodare che si sa mezzanamente portare e secondo ragione, nel
CONVERSARE. Donde la virtù che l’uomo chiama piacevolezza cessa la contenzione
dell'uomo e tempera il lusingare, e quello per lo quale l'uomo vuole a tutti
gli uomini piacere. E perciò che l'uomo è per natura compagnevole, si come dice
il filosafo, si conviene dare una virtù per la quale ne le parole e nei fatti
sappia CONVERSARE COOPERATIVAMENTE E convenevolmente e secondo ragione. E
questa virtù che l'uomo chiama piacevolezza, tutto sie cosa che, tutti quelli
che vogliono essere piacevoli e vivare in cooperazione, compagnia ed in
comunità con l’altro, conviene ch'elli abbiano, acciò che siamo cortesi e
piacevoli, non perciò debbiamo essere si cortesi ne si piacevoli ad uno come un
altro: chè la dritta ragione insegna, che, secondo la diversità dei due
conversatori, l'uomo si die portare in maniera appropriata con l’altro. E
perciò che troppa amistà e troppa gran compagnia mostrare ad ogni uomo fa
l’uomo ispiacevole e vile; il gentile uomo si debbe più alteramente contenere
che l’altro, acció che l'uomo lor porti più onore e più reverenza, e che la dignità
de la loro grandezza non sia abbassata nè avvilata. Donde il filosafo dice che
i re e i prenzi debbono mostrare ch’ellino sieno persone degne d’onore e di
reverenza. Chè si come noi vedemo che alcuna vianda fuôra soperchio a uno
infermo che non basterebbe ad uno sano, cosi è nell'essere piacevole e cortese,
che alcuna piacevolezza s’aviene a’re secondo ragione, che non s’aviene cosi ad
un’altra persona comune. L’Enciclopedia italiana cura l’edizione critica del
“Il regime del principe”, testimoniato
da nove manoscritti, tra cui il codice della Biblioteca di Firenze (sig, che si
distingue sia per motivi cronologici (nell’explicit reca la data) sia per la
veste linguistica, in prevalenza senese, verosimilmente molto vicina a quella
dell’originale, ciò che lo rende un documento di lingua privilegiato rispetto
alle coeve attestazioni di varietà toscane non fiorentine tra fine Due- e
inizio Trecento. L’opera discende dal “Il regime del principe”, composto da
Colonna filosofo tra i più autorevoli della sua epoca, nato a Roma. Dedicato a
un principe, di cui Colonna fu tutore e ispirato alla Retorica, la Etica, e la
Politica di Aristotele, esuddiviso in tre libri concernenti la “morale», ossia
l’etica (disciplina dell’individuo), l’oeconomia (della casa), e la politica
(della città o reame o villa) - è il più corposo trattato basso-medievale sul
regime del ‘gentile uomo’ ed ebbe non solo una straordinaria fortuna in Italia
fino a tutto il XV secolo come elogio della cavalleria. Esercita una notevole
influenza sul Convivio, sul “De vulgari eloquentia” e sulla “Monarchia” di
Alighieri. “E lasciando lo figurato che di questo diverso processo dell’etadi
tiene Virgilio nello Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita [il
filosofo appartenne all’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino ne dice nella
prima parte dello Regime del Gentile Uomo. L’ampia Introduzione, oltre a
tracciare il profilo biografico di Egidio illustrando contenuto, fonti e storia
della ricezione del suo capolavoro, esamina nei dettagli il debito di Alighieri,
la fortuna figurative o iconografica del trattato (l’affresco giottesco della
Cappella degli Scrovegni di Padova, precisamente nella Virtù; l’Allegoria ed Effetti
del Buono Governo realizzata da Lorenzetti a Siena, specie nella particolare
raffigurazione della giustizia commutativa e la giustizia distributiva alla
sinistra dell’affresco -- i rapporti tra il De regime e il Livre dou
gouvernement (una drastica riduzione non sempre perspicua, di cui sono noti
trentasei manoscritti) e tra questo e il Livro del governamento, la prima
traduzione, pur parziale, di opere che solo successivamente furono volgarizzate
nella loro interezza, ad opera di un anonimo senese, come avevano già
ipotizzato, tra gli altri, Segre e Castellani. Inoltre si auspica - e intanto
s’imposta in modo acuto e pregnante - un commento dedicato alle fonti del
“Regime”, ormai indispensabile alla luce della ri-valutazione della filosofia
nel vernacolare tra Medioevo e Rinascimento portata avanti dalla bibliografia
più recente. Grazie infatti agli studi degli ultimi due decenni, siamo oggi più
informati sui modi in cui la cultura vernacolare interagì con quella antica,
bolognese, tradizionalmente ritenuta ‘più alta’, e sul diverso pubblico,
dichiarato o reale, cui si indirizzava la trattatistica filosofica dei secoli
dal XIII-XIV in avanti. Infine, si passano in rassegna le altre versioni del De
regimine (quella senese è bensì la più antica, ma non l’unica: se ne conoscono
almeno altre cinque). Nella parte prima della Nota al testo si dà conto
della tradizione manoscritta dei testimoni completi e dei testimoni parziali
(descrizione esterna, descrizione interna, bibliografia), offrendo dati
preziosi sulla tradizione a stampa del De regimine e sulle edizioni del
Governamento. Nella parte seconda si indicano i criterî di edizione e gli usi
del copista. L’appendice prima alla Nota al testo raccoglie le aggiunte
inter-lineari e marginali al Governamento del manoscrito fiorentino, mentre in
una seconda appendice si riportano alcune annotazioni sulle relazioni fra i
testimoni del Governamento. La prima e fondamentale caratteristica della tradizione
è che tutti i mss. paiono al tempo stesso testimoni molto vicini tra loro tanto
che è dimostrabile la presenza di un archetipo a monte della tradizione, ma non
per questo facilmente classificabili nei loro rapporti reciproci, principalmente
perché spesso contaminati dal ricorso alla versione nella lingua antica. Il
secondo volume è interamente dedicato allo spoglio linguistico sistematico
sull’intero testo, tendente per quanto possibile «all’esaustività delle
allegazioni per ciascuna forma»: grafia, fonetica, morfologia, sintassi.
Chiudono il volume un ricco repertorio bibliografico e gl’indici onomastico,
toponomastico, dei nomi e dei manoscritti. Grice: “Poor Ockham is known as
Ockham – god knows, but he is not telling, what his surname was, if any! On the
other hand, the rather pompous Romans have Egidio as a ‘Colonna,’ even if, as the Treccani notes, ‘the links with the
Roman family are unclear’!” -- Romano: Egidio Romano,
arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e
Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Template-Archbishop.svg Incarichi
ricopertiArcivescovo di Bourges Roma Nominato arcivescovo25 aprile 1295
Deceduto22 dicembre 1316, Roma. C., latinizzato come C., indicato anche come C.
(Roma), filosofo. Generale dell'Ordine di Sant'Agostino. Dopo la sua morte, gli
sono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum
princeps. È discepolo d’Aquino a Parigi, dove insegna, prima di diventare
generale degl’agostiniani e arcivescovo di Bourges. È inoltre il precettore di
Filippo il Bello per il quale scrive il trattato De regimine principum,
sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo. -- è considerato tra i più autorevoli filosofi
di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in
un contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre
polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale.
Questo filosofo è generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo VITERBO
(si veda), per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam
di Bonifacio e per il ruolo significativo che assunse il maestro degl’eremitani
d’Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico
famoso e autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In C. rileviamo
subito una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico. Infatti
è possibile rintracciare il De regimine principum, scritto per Filippo il Bello
e di ispirazione aristotelico-tomista (AQUINO (si veda)) inerente alla
naturalità dello stato italiano, erigendola a difensore della potestas regale.
Nel De Ecclesiastica potestate, invece, C. afferma la superiorità del
sacerdotium rispetto al REGNVM, distinguendosi quale rappresentante della
teocrazia papale. La riscoperta del LIZIO e l'agostinismo politico In seguito
alle condanne di Tempier. C. difende la tesi d’AQUINO, per la sua qualifica di bacca-laureus
BACCA-LAVREVS -- formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene
sospeso dall'insegnamento. Gl’avversari del papato trovano nel pensiero del
LIZIO gli strumenti per svolgere un'analisi politica che mette in discussione
la sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente
speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno di compenetrazione
fra stato italiano e Chiesa, all'interno del quale Agostino viene a giocare un
ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo De Civitate Dei
conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della Civitas Dei Cælestis
e il piano temporale della vita terrena che è ROMA CIVITAS PEREGRINA), che
ripropone la teoria delle due città e riafferma la superiorità del sacerdotium
rispetto al REGNVM, costituendo un vero e proprio partito del Papa. C. rivendica
la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva dell'auctoritas del papa in
quanto homo spiritualis. C. sostituisce al concetto agostiniano di ecclesia,
quello di REGNVM al fine di estendere gl’ambiti del potere del SOVRANO
ecclesiastico. Il SOVRANO ecclesiastico, il papa, dove esercitare la sua
sovranità anche sul POTERE TEMPORALE al fine di garantire l'ordine mediante una
forma di DOMINIVM che coincida con la sua stessa missione spirituale.
Opere: Frontespizio delle In secundum librum sententiarum quaestiones
L'edizione critica dell'opera omnia è stata intrapresa, per Leo S. Olschki,
(Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e
Studi), dal gruppo di ricerca di Francesco Del Punta. Quaestio de gradibus
formarum, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, In secundum librum
sententiarum quaestiones, 1, Francesco
Ziletti. In secundum librum sententiarum quaestiones, Ziletti, Opere, Antonio Blado, In libros De
physico auditu Aristotelis commentaria, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto
Locatello, De materia coeli, Girolamo Duranti, Quodlibeta, Domenico de Lapi. TreccaniEnciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Lambertini, Giles of Rome, Zalta, Stanford
Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information
(CSLI), Stanford,. Briggs e Eardley,
A Companion to C., Leiden, Brill,. Silvia Donati, Studi per una cronologia
delle opere di Egidio Romano: I. Le opere prima: I commenti aristotelici.
"Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale", Gian Carlo
Garfagnini, Egidio Romano, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero:
Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Francesco Del Punta-S.
Donati-C. Luna, C., in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Filippo Cancelli, Egidio Romano, in Enciclopedia
dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Papa Bonifacio VIII Teocrazia C.
su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ugo Mariani, C., in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio Romano, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. su ALCUIN, Ratisbona. Opere di Egidio Romano, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. su Egidio Romano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. C.,
in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Cheney, Egidio Romano, in Catholic
Hierarchy. Lambertini, Giles of Rome, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia
of Philosophy, Center for the Study of Language and Information, Stanford. Biografia a cura dell'associazione storico-culturale
S. Agostino, su cassiciaco. Predecessore Arcivescovo metropolita di
BourgesSuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Simone di Beaulie Raynaud de La
Porte. NUMISMATIC
NOTES AND MONOGRAPHS. ITALIAN ORDERS OF CHIVALRY AND MEDALS OF
HONOUR GILLINGHAM THE NUMISMATIC SOCIETY Wonr nl PUBLICATIONS
The Journal of Numismatics. With many plates, illustrations, maps and
tables. Less than a dozen complete sets of the Journal remain on hand.
Prices on application. The numbers necessary to complete broken
sets may in most cases be obtained. An index to the first fifty volumes
has been issued as part of Volume LI. It may also be purchased
separately. The American Numismatic Society. Catalogue of
the International Exhibition of Contemporary Medals. March. New and
revised edition. The Numismatic Society. Exhibition of Colonial
Coins. NUMISMATIC NOTES et MONOGRAPHS Numismatic
Notes and Monographs is devoted to essays and treatises on subjects
relating to coins, paper money, medals and decorations, and is
uniform with Hispanic Notes and Monographs published by The Hispanic
Society of America, and with Indian Notes and Monographs issued by
the Museum of the American Indian Heye Foundation. Publication
Committee Baldwin Brett, Chairman Russell Drowne Reilly,
Jr. Editorial Staff Noe, Editor Wood, Associate
Editor Earle, Assistant . Italy (savoy) Order of the Most Sacred
Annunciation Plaque ITALIAN ORDERS OF CHIVALRY AND MEDALS
OF HONOUR. GILLINGHAM. THE NUMISMATIC SOCIETY Press of The Lent et Graff
Co. ITALIAN ORDERS OF CHIVALRY AND MEDALS OF HONOUR Gillingham. Students
have always found the coinage of Italy of more than passing interest,
and the country of the early Romans is still a far from exhausted
field of numismatic research. Few sections of Europe have had such a
varied history. Few have been more ought over. Greeks, Romans,
Vandals, Goths, Franks, Germans, Normans, Spaniards, Austrians and the
Papal Authorities have had a hand in the mismanagement of
the country’s affairs, and all have left traces of their influence,
but nowhere more definitely than in the field of numismatics. The changing
coinage has always been interesting, and the publication of the
Corpus Nummorum Italicorum, undertaken by His Majesty, Victor Emmanuel
III, is a magnificent demonstration of the value of numismatic research.
In the time of OTTAVIANO, Italia is divided into sections. In the
feudal period many of these had been governed for centuries by
members of the same family. It is a normal condition for these clans
to wage war one upon the other, and this state of affairs exists
almost uninterruptedly until the middle of the Nineteenth
Century. The destinies of Italy were decided in the cabinets and on
the battle-fields of Northern Europe—a Bourbon at Versailles, a
Haps- burg at Vienna or a thick-lipped Lorrainer, with the stroke
of his pen, wrote off province against province, regarding not the population
who had bled for him or thrown themselves upon his mercy.” Through it all,
the Papacy has exerted a powerful influence. In the early period
such a shifting of control was not to the best interests of the
inhabitants. The Kingdom of Italy, as we know it today, did
not exist, of course, until 1870. With the fall of the French Empire
under Napoleon III, the assistance of France was no longer
available, and Rome came under the dominion of Victor Emmanuel. All
of that gieat mountainous peninsula was united and free. For over
seventy years the country has been governed by a Prince of the
House of Savoy. Its population has prospered more during that period than for
many preceding centuries. These changing conditions were not
without effect upon the organisations which we class as Orders of
Knighthood. Many of the Orders of Chivalry founded by the Ducal or
Princely rulers of Italy were named for their patron saints. It has
seemed expedient in this article to treat of the Orders and Decorations
of all of these changing principalities separately. Insofar as is
possible, any repetition which this course involves has been
avoided. Lucca, the most northern province of Tuscany, lies between
the Apennines and the Mediterranean Sea. Its principal city, Lucca,
on the River Sarchio, is famous for a remarkable bridge which is said to
have been built about 1000 A.D. From the time of the Narses, in the
Sixth Century, Lucca was an important city. Here and at Pisa, the
earliest Italian school of painting flourished in the Twelfth and
Thirteenth Centuries. Lucca became an autonomous commune from the
death of Matilda (1115). In 1314 Uguccione della Faggiola seized the
reins of Government, but later he was superseded by the powerful
Castruccio Castracani. Louis of Bavaria, after having occupied it
by his troops, sold it to a Genoese banker, Gherardo Spinola; it was
seized by John, King of Bohemia, pawned by him to the Rossi of
Parma, sold to Florence, relinquished to Pisa, nominally liberated by
Charles IV (Emperor of Germany, 1346- 1^78) and governed by his vicar.
Lucca, MEDALS OF HONOUR 5 subjected to endless
vicissitudes, managed first as a democracy and after 1628 as an
oligarchy, to maintain its independence, alongside of Venice and Genoa,
and painted the word “Libertas” on its banner until the French
Revolution. In 1805, Napoleon I gave Lucca to his sister Eliza, who had
married Bacciochi. It was occupied by the Neapolitans in 1814, and from
1816 to 1847 it was the Duchy of Maria Louisa of Parma (who married
her cousin, Charles IV of Spain), and was ruled by her son, Charles
Louis. It later formed one of the provinces of Tuscany. Under the rule of
the Lombard Dukes, Lucca possessed a coinage of its own.
MILITARY ORDER OF SAINT GEORGE OF LUCCA. Duke Charles Louis Ferdinand,
a Spanish Bourbon, founded this Order on June 1, 1833. It was called Or
dine di San Giorgio per il Merito Militare, and was awarded for
military services to the Duchy. It was also issued to officers and
privates whose service exceeded three years. The Decoration is a
Maltese cross, enam¬ elled white. It is edged with gold for
the first class, with silver for the second, while for the third
class it is silver without the enamel. In the centre is a white
medallion, upon which there is a gold figure of St. George slaying
the dragon, surrounded by the words AL MERITO MI LI TARE on a green
band. The reverse shows the initials of the founder, C.L., crowned, and
the date 183J. The ribbon is bright red with a white stripe.
ORDER OF SAINT LOUIS. Founded on December 22, 1836, by Duke
Charles Louis, and awarded for civil merit. It was reorganized in
1849 by his son, Charles III, Duke of Parma, a Bourbon, for Civil
and Military service; it is, therefore, classed with the Orders of
Parma also. See page 19. The badge of the first class is a
white- enamelled cross, with heavy gold lines and with a large
fleur-de-lis at the tip of each cross-arm. The obverse bears a shield
upon which is an effigy of Saint Louis in golden armour; the
reverse has a shield bearing the Bourbon crest of three lilies. The
second class cross is of silver and white enamel, NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. 1 Parma
Order of Saint Louis while the third is all silver but without
the crown. The ribbon is blue with a yellow stripe on either
side. MEDAL FOR MILITARY SERVICE. Created on June i, 1833,
for officers who had served over thirty years, and called the
Medaglia di Anzianita. The obverse bears a gilt Maltese cross with the
initials C.L. and a crown above; on the reverse are the Roman
figures XXX, denoting the years of service. The ribbon is blue, with
yellow stripes— four of the former and three of the latter. CIVIL
MEDAL OF MERIT. This Dec¬ oration was also instituted by Duke Charles
Louis. It is of silver and bronze. The initials of the founder, C.L.
intertwined, ap¬ pear on the obverse, and the reverse has inscribed
thereon the words, AI BEN EME¬ RITI DELLA SALUTE
PUBBLICA. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR. Mutina, as Modena was
then called, was a Roman colony. For more than twelve centuries
there were constantly changing rulers. In 1288 A.D. Obizzo II
(1240-1293), of the princely house of Este, received the lordship of
Modena. The Este family was one of the oldest of Northern Italy, dating
back to about 917 A.D. Through the marriage of an heiress of the
house of Welf, of Bavaria, with a younger son of the house of Este, this
family became connected with the houses of Brunswick and Hanover,
from which are descended the Sovereigns of England, through the house
of Guelph. At various periods, the Estensi received the
sovereignties of Ferrara, Modena and Reggio. The male branch of the
family lost the duchies of Modena and Reggio on the death of
Hercules Rinaldo, who died in 1803. His only daughter, Maria,
married Ferdinand of Austria, son of Francis I and Maria Theresa.
Their son, Francis IV, in 1816 became the first Hapsburg duke of
AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS Modena. He died in 1846,
and when his son Francis V died in 1875, the male line of the
Austrian Estensi became extinct and the title passed to Francis, son of
Archduke Charles Louis. Members of the Este family and their
descendants had held the Duchy of Modena almost continuously from 1288
until i860. In that year the territory by a plebescite was declared part
of the King¬ dom of Italy. ORDER OF THE EAGLE OF ESTE.
Founded by Francis V on December 27, 1855, and awarded for military and
civil merit. The number of the members of the Order was limited to
20 for the Grand Cross, 40 for the Commander Class and 120 for the
Class of the Knights. The decoration was surrendered on the death of the
Knight. The insignia is a gold Maltese cross with gold knobs at the
points, white-enamelled and edged with blue. Between the arms of
the cross are gold scrolls, and the letters E.S.T.E. are distributed in
the angles. On the blue medallion is the white-crowned eagle of the
house of Este, surrounded by a NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. J L
Modena Order of the Eagle of Este
white-enamelled band, inscribed PROXIMA SOLI MDCCCLV. The reverse centre
of white enamel bears the figure of Saint Con- tardo holding a
cross. It is surrounded by a blue-enamelled band bearing three
stars and inscribed S. CON TARDUS ATESTI - NUS. The ribbon is
white, edged with blue stripes. When awarded for military merit,
the cross is surmounted by a trophy of arms; for civil merit, by an oak
wreath. MILITARY MEDAL FOR LOYALTY. Francis IV, the first
Hapsburg duke of Mo¬ dena (1816-1846), caused a medal to be struck
and awarded to those of his troops who re mained faithful during the riot
of February 4, 1831. This disturbance was organized by Ciro
Menotti, and forced Francis IV to flee from his capital. It was thought
by some that the Duke was in league with Menotti, but as the Duke
caused Menotti to be put to death when the Revolution was
suppressed, this is doubtful. The silver medal given to his supporting
troops bears the inscription FIDELI MILIT 1 MDCCCXXXI. Within a
wreath of laurel, NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR 1
3 and below are two crossed swords. The reverse is inscribed
FRA NCI SC US IV DUX MUTINAE. The ribbon has three stripes, equal
in width; the middle one white, the side ones blue. CROSS FOR
SERVICE. Authorized by Francis V, May 16, 1852. This medal was
awarded to officers who had served 25 years under the banner of the house
of Este. It is a silver cross with a gilt edge. In the centre is
the white eagle of Este, surmounted by a crown and the letters F. V. The
reverse bears the Roma n figures XX V. The cross is surmounted
by the ducal crown, and the ribbon is white, edged with blue.
MILITARY MEDAL OF MERIT. This decoration was created in 1852 for
the junior officers and privates. It is silver. On the obverse
appears a bust of the duke facing left, and the legend FRANCESCO V
DUCA Dl MODENA EC. EC. ARCIDUCA D’AUS¬ TRIA ESTE EC. EC. On the
reverse, within a laurel wreath, PEL MERITO MI LI TARE. The ribbon
is blue, edged with white. AND MONOGRAPHS MEDAL OF FIDELITY.
Francis V ap¬ pears to have been in a struggle with his subjects
during most of the thirteen years of his reign. He was compelled to
seek refuge in Austria in 1849, but he returned to Modena after the
battle of Novara on March 24th of the same year. Ten years later he
was again forced to flee. In i860 Modena became part of United Italy. To
reward those of his subjects who had remained faithful to him
during his exile, he created the Medal of Fidelity in 1863. It is
bronze, 32mm. in diameter. On the obverse it bears the effigy of
the duke and the inscription FRANCESCO V AUST. ATESTENUS DUX MUT 1
NAE ; on the reverse, the words FI DELI TATI ET CONSTANTIAE IN
ADVERSIS MDCCCLXIIL surrounded by a wreath of oak leaves. The ribbon is
of blue and white horizontal stripes, edged with blue and
white. PARMA. Parma was the Eastern section of
Gallia Cispadane at the time of Constantine. It lies in the Lombard
plain, north of the Apennines, south of the River Po and west of
Modena. For the first fifteen centuries of the Christian era, the many
rulers of Parma were of various nationalities. The duchy came into
the possession of the Far- nese family during the early part of the
Six¬ teenth Century. Eight dukes of that family ruled over the
destinies of its people. From Antonio, who died childless in 1731,
the duchy passed to Charles of Bourbon (Don Carlos), Infante of Spain,
who became King of Naples in 1735. Both Austria and Spain governed
it at various times. At the Con¬ gress of Vienna in 1815, the duchy
was granted to Marie-Louise (daughter of Fran¬ cis I of Austria),
second wife of Napoleon I. She died in 1847. Spanish and Austrian
rulers again came into possession. Charles III, a Bourbon and the
grandson of Victor Emmanuel I of Sardinia, reigned until his
assassination. During the regency of his son Robert, Parma was
incorporated in the Kingdom of Italy. ORDER OF CONSTANTINE.
Authori¬ ties differ with regard to the date of the insti¬ tution
of this Order. It has been said that it was founded by Constantine the
Great about the year 313 A.D. Others give credit to thle Byzantine
Emperor Isaac II (Isaac Angelus Comnenus), and fix the year as
1190. This seems the more probable date. The Order is also called the
Order of Saint Angelus, the Order of the Golden Chevaliers, and the
Military Order of Constantine of Saint George, it being under the
patronage of that Saint and Martyr. Late in the Seventeenth Century
its control appears to have been sold to Francis I (Francis of
Farnese), Duke of Parma, who became the Grand Master. The Order came into
high repute because of the rules he observed in its distribution,
and also because of the large domains he conferred upon it, including
the church of the Madonna della Steccata at Par¬ ma. Clark
attributes its revival to Charles V. In 1734 or 1735, after the
extinction of the male line of the Farnese family, the heir to the
Duchy of Parma, Infante Don Carlos (son of Philip V of Spain and
Elizabeth Far¬ nese), became the Grand Master. He trans¬ ferred the
Order to Naples when he ascended that throne. It was abolished in
Naples by Joseph Bonaparte in 1806 but continued in Sicily. Revived
in 1814, it remained in existence until the unification of Italy.
Owing to its transfer to Sicily, it is fre¬ quently classed among the
Orders of the Two Sicilies. The members of the Order consist of
Senators, Commanders, Knights, Serving- brothers and Squires.
On August 8, 1922, the Count d’Caserta of the Austrian line of
Bourbons, and a dis¬ tant cousin of the King of Italy through the
female line, honoured one Michael Cangiano, the official Interpreter of
the Superior Court of Cambridge, Massachusetts. Signor Can¬ giano
was made a Knight of the Order of Constantine of Saint George of Parma
and of Sicily. This indicates that the Order has been continued as
a Family Order by the old rulers of those Duchies Pl. Ill
Parma Order of Constantine MEDALS
OF HONOUR 19 The insignia is a red-enamelled gold
cross, fleurv. On the arms are the letters I.H.S. V. (In hoc signo
vinces). In the centre is the Labarum, or Standard. Greek letters X
and P crossed,and A (Alpha) and et (Omega). Harold Bayley, in his book
entitled Lost Language of Symbolism, London, 1913, writes,—“The
Latin P has the same form as the Greek letter named Rho. One of the
most famous emblems of early Christianity— known as the Labarum,
the seal of Con¬ stantine, or the Chi-Rho monogram—is the letter X
surmounted by a P. The two letters Chi and Rho are assumed to read Chr,
a contraction for the name Christ, but the symbol was in use long
ages prior to Chris¬ tianity.” The first class members of the Order
wear a gold figure of Saint George slaying the dragon, suspended from
the cross. The ribbon is light blue moire. ORDER OF SAINT L
OUIS. Charles III, Duke of Parma, revived this order at Parma, August
11, 1849, as an award of merit. His father Charles Louis (or Charles II)
had originated the order in Lucca in 1836. There are five
classes and the insignia is a cross, composed of four fleurs-de-lis,
bound together by their leaves. On the centre of the obverse in a
blue-enamelled shield are three gold lilies. On the reverse is a figure
of St. Louis, surrounded by the motto DEUS ET DIES (God and light).
The Grand Cross and that for Commanders and Cava¬ liers of the
first class have a gold figure of St. Louis surmounted by a gold crown.
The cross for the second class Cavaliers has a silver figure with a
silver crown, and the fifth class is of enamelled silver without a
crown. The ribbon is light blue and yellow. MEDAL OF MERIT. Founded
during the reign of Marie Louise. Marie Louise was the mother of
the Little King of Rome who, fortunately for Italy, never reigned.
The medal is silver, 20 mm., and bears on the obverse, AI BENEMER-
ENTI DEL PRINCIPE E DELLO STATO. On the reverse is the head of Marie
Louise and the inscription, M. LOUIS ARCID. D. D. AUSTRIA DUCA DI
PARMA PIAZ. E. GUAST. The ribbon is light blue and light red.
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR # 21 SAN MARINO. When
Marinus, the Dalmatian monk, and his companions settled in the Eastern
Apennines, in the third century, they little thought they were
establishing a community with such a future. For a long time San
Marino was something like a buffer state, between hostile Italian
dynasties in that vicinity. In 1631, the Independence of San Marino
was acknowledged by the States of the Church. Napoleon I preserved its
sep¬ arate existence in 1797, and Napoleon III protected it from
the designs of Pope Pius IX in 1854. At the unification of Italy,
1859-1860, San Marino was still allowed its independence, and today it is
the smallest Republic in Europe. ORDER OF CHIVALRY OF SAN
MA¬ RINO. Sometimes called the Equestrian Order of San Marino,
created on August 13, 1859, by the Council of the Republic, in
commemoration of the fifteenth century of its foundation. The purpose of
its founda- AND MONOGRAPHS ITALIAN
DECORATIONS f Pl. IV San Marino
Order of Chivalry of San Marino MEDALS OF
HONOUR tion was to reward those who were promi¬ nent in the welfare
of the country and its people. There are five grades: Grand
Crosses, Grand Officers, Commanders, Offi¬ cers and Chevaliers. The badge
or cross, which is surmounted by a gold crown, is a gold-edged,
white-enamelled cross moline with a gold ball at the end of each arm.
Be¬ tween the arms are four gold towers. The obverse centre bears
the effigy of Saint Marino to left, surrounded by a blue band,
inscribed SAN MARINO PROTETTORE. The reverse bears on a gold shield, in
the cen¬ tre, the arms of the country—the three towers. The shield
is surrounded by a blue band bearing the words MERITO CIVILE E MI
LI TARE. The ribbon is of seven equal stripes, four of blue and three of
white. The writer has four specimens of this cross. Two have
full-faced busts of San Marino, with white hair and beard. One has
a younger face to the left, with black beard and hair, while the
fourth has a bust in gold, facing to the left, but on a
white-enamelled field. Two of the specimens bear on the reverse
MERITO CIVILE. Elvin and AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS
AND Lawrence-Archer give the inscription as “Merito
Militare,” while the Catalogue Musee de VArmte has it “Merito
Civile.” Cappelletti and Puca, the Italian authori¬ ties, give the
former wording, and the figure of San Marino facing to the left; and
this, no doubt, is correct. MEDAL OF MERIT. Instituted
on March 22, i860. This is octagonal in form and of gold, silver
and bronze, according to the importance of its award. In the centre
of the obverse is the Arms of the Republic, the three towers, within an
oak and laurel wreath, below which is the word LIBERT AS; around
this is, REPUBBLICA Dl SAN MARINO. On the reverse, within an oak
wreath, is the word ANZIANITA if the pur¬ pose of the reward is military,
or MERITO, if for civil award. The ribbon is light blue, edged with
red. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR 25
SARDINIA, SAVOY AND THE KINGDOM OF ITALY. Sardinia, one
of the islands of the King¬ dom of Italy, is known to have been settled
by the Carthaginians in 512 B.C. Thence¬ forward Romans, Vandals, Goths,
Saracens, and the Genoese ruled the island. In the year 1325 A.D,
the king of Aragon took pos¬ session. From that time until 1403
Sardinia was an Aragonese province. After the union of Aragon and
Castile, it became Spanish and so remained until 1713, when it was
ceded to Austria by the treaty of Utrecht. In 1720 it w r as given to
Victor Amadeus II (1666-1732), Duke of Savoy, in exchange for the
island of Sicily, and he became King of Sardinia; the title of King of
Savoy was con¬ ferred upon him the same year. This title of King of
Sardinia and Savoy continued until the unification of Italy in
1859-1860. MEDAL OF VALOUR. Created in 1793 by Victor Amadeus
III (1727-1796), King of Sardinia. It is of gold and silver, 38 mm.
AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS in diameter, and bears
on the obverse a bust of the king facing to right and VITTORIO-AM ADEJJS
III. The reverse has a wreath of oak leaves, within which is a tro¬
phy of arms and flags, and the words AL V A LORE. The ribbon is dark
blue. About 1404 Amadeus VIII, (the first Duke of Savoy),
extended his provinces. The teriitory over which he later reigned
extend¬ ed from the Lake of Geneva to the Mediterranean Sea, and from the
River Saone (in France) to,the River Sesia in Italy. The Duchy of
Savoy also included Nice. This section remained almost continually
in the possession of the house of Savoy until i860. It is
said that Napoleon III had a secret treaty with Count Cavour, the Italian
states¬ man, before the French army went to assist the Sardinians
to drive the Austrians from Northern Italy. At the Peace table,
Savoy, the cradle of the house of that name, as well as Nice,
was given to France. Of this set¬ tlement, Garibaldi is reported to have
said, “That man (Cavour) has made me a foreigner in my own
house.” Inasmuch as the Kingdom of Italy has
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR 27 been ruled by
princes of the house of Savoy, it seems proper to describe, in the
subsequent pages, the decorations generally known as Italian Orders
of Chivalry and Medals of Distinction. ORDER OF THE MOST
SACRED ANNUNCIATION. This Order is the high¬ est in rank and most
important of all the Italian Decorations. It ranks with the Golden
Fleece of Spain and the Garter of England. Authorities differ as to its
origin, though many of them give the year 1362 as the date of its
foundation. In that year, the Order of the Neck Chain 01 Order of the
Collar of Savoy was founded by Amadeus VI, Count Verde of Savoy. His
grandfather, Amadeus V, called the Great, assisted the Knights of the
Order of Saint John of Jerusalem at Rhodes, and compelled the
Turks, under Mahomet II, to abandon their siege of that island in 1310
or, as some state, in 1315. For this service Amadeus V was
presented with a collar, bearing the let¬ ters F.E.R.T. Fortitudo ejus
Rhodum tenuit (By his bravery Rhodes was held). He was also granted
for his Arms, the use of the white cross of the Crusaders, which
later became the Cross of Savoy (H. W. Finch- am’s “Order of St.
John of Jerusalem in England”). Although authorities differ as to
the exact meaning of these letters F.E.R.T., the above is the more
generally accepted explanation, and is that given by Bernardo
Giustinian, the Italian authority, in 1692. In 1518, new statutes were
formu¬ lated for the Order by Charles III, Count of Savoy. At that
time the name was changed to the Order of the Most Sacred Annuncia¬
tion. Several changes in the Order have been made by various Counts of
Savoy since that time, among whom were Victor Emman¬ uel II in 1869
and Humbert I in 1889. There is but one class of Members—Chevaliers
or Knights, whose number, exclusive of the Sovereign and Church
Dignitaries and Princes, is limited. They must also be of the Roman
Catholic faith. The insignia consists of a gold medallion on which is
a representation of the Annunciation, above which is a dove,
symbolising the Holy Spirit. This is surrounded by a group of
symbolic NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. Italy
(savoy) Order of the Most Sacred Annunciation 30
ITALIAN ORDERS knots of ribbon (lacs d’amour), on which
are numerous roses, a possible reference to the Mystic Rose. The
whole is suspended from a gold chain, composed of alternate knots
of ribbon and roses, with the letters F.E.R.T. interwoven. The
plaque, or star, is similar to the badge, surrounded by eight rays
of flame, with the letters F.E.R.T. on the sides. The ribbon is
blue moire. (Frontispiece.) ORDER OF SAINT MAURICE AND SAINT
LAZARUS. The Order of St. Mau¬ rice was instituted in 1434, at
Ripaille, near the lake of Geneva, by Amadeus VIII (13^3-1450),
Count and first Duke of Savoy. The Order took its name from the patron
saint of Savoy. Amadeus VIII conferred this Order on ten of his courtiers
when they accompanied him to his retreat at the priory of Ripaille.
He was elected Pope in 1439, taking the name of Felix V, but he
resigned in 1448 and retired to the solitude of Ripaille, where he
died in 1450. He is buried at Lausanne. Shortly after his death, the
Or¬ der became dormant. It was revived in NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. Italy (savoy) Order
of St. Maurice and St. Lazarus 1572 by Duke Emmanuel
Philibert of Savoy, to encourage the Catholics to resist the Cal-
vinistic reforms attempted in Savoy. The Dukes of Savoy were Grand
Masters. The Order of Saint Lazarus was gen¬ erally supposed
to have been founded about the year 1060, during the earlier
crusades, although there was a Fraternity of Ecclesias¬ tical
Knights who as early as 366 A.D. founded a hospital at Jerusalem to care
for the lepers. These were known as the Knights of St. Lazarus.
Elias Ashmole, in his “History of the most noble Order of the
Garter,” London, 1715, writes—“At length, through the incursion of the
Barba¬ rians, and Injury of Time, it (the order) lay extinguished,
but was revived when the Latin Princes joyned in a Holy League to
recover the Holy Land. . . . For in that Time the Monks of this Order
added Martial Discipline to their Skill in Physick; and for their
Services against the Infidels, begat a great Esteem from Baldwin II, King
of Jerusalem, and some of his Successors.” The Order was inactive
for a long period. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR
33 In 1490 it was united with the Hospitallers of St.
John at Rhodes, but in 1565 Pope Pius IV restored it and granted
additional privi¬ leges. In September, 1572, Pope Gregory XIII, at
the request of Emmanuel Philibert, Duke of Savoy, restored the Order of
Saint Maurice and united it with that of St. Lazarus, under the title of
the ORDER OF SAINT MAURICE AND SAINT LAZARUS. Pope Gregory XIII
also appointed the Dukes of Savoy Hereditaries and Masters, and as
Ashmole writes—“oblig’d them to furnish out two Gallies for the Service
of the Papal See, to be employ’d against Pyrates.” There have
been many changes in the Or¬ der by the various sovereigns, but at
present there are five grades: Knights of the Grand Cross, Grand
Officers, Commanders, Officers and Chevaliers. The number of the
last grade is unlimited. Many foreigners have been decorated with
this grade. The pres¬ ent form of decoration was established by
Duke Charles Emmanuel I (1562-1630). The badge consists of a
white-enamelled cross, treflee, of St. Maurice, conjoined at the
* AND angles with the green Maltese cross of St.
Lazarus, which is ball-tipped at the points. The badges of the four
higher grades are sur¬ mounted by a Royal crown, the size of the
cross and of the crown indicating the par¬ ticular grade. It is suspended
by a bright green watered ribbon. The eight-rayed star of the Order
is silver. In the centre is a reproduction of the badge or cross,
without the crown. MEDAL OF SAINT MAURICE. Insti¬ tuted
for Military services by King Charles Albert, 1 King of Sardinia, on July
19, 1839. It was intended as further recognition of those officials
who had received the cross of the Order of St. Maurice and St.
Lazarus, and who had served under the flag 11 per la durati di died
lustri” (lustri meaning a five year enlistment, and died lustri,
therefore, fifty years). The Medal is gold, bearing on the obverse
the equestrian figure of the pa¬ tron saint of Savoy, St. Maurice,
holding the flag of the Order in his right hand. Around this are
the words S. MAURIZIO PRO- NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR TETTORE DELLE NOSTRE ARMI. The reverse is inscribed as
below, AL C A V A LI ERE MAU RIZIA NO PER
DIECI LUSTRI NELLA CARRIERA MI LI TARE
BENEM ERITO space being reserved for the name of the
recipient. There are two sizes of the medal. The larger, 55 mm. in
diameter, is for Gen¬ erals or Admirals who had received the higher
decoration of the Order of St. Maurice and St. Lazarus, and the smaller,
39 mm., for officers who had received the lower grades of the same
Order. The ribbon is green, the same as for the Order. ROYAL
MILITARY ORDER OF SAVOY. Founded at Genoa, on August 14, 1815, by
Victor Emmanuel I (1759-1824). Its pur¬ pose was to reward acts of valour
and magnanimity. The Order was modified on September 28, 1855, by
Victor Emmanuel II, later king of Italy, who also changed the
decoration to the present form. There are five classes: Knights of
the Grand Cross, Grand Officers, Commanders, Officers and
Chevaliers. The cross, which is white- enamelled with curvilinear tips,
is edged with gold. It rests upon a wreath of laurel leaves. On the
red background of the medal¬ lion is the white cross of Savoy,
around which on a circular band are the words AL M ER 1 TO MI LI T
A RE. The reverse medal¬ lion of red enamel has two crossed swords,
points up, above which is the date 1855, and on either side, the initials
V. E. The cross of the first three classes is surmounted by a Royal
crown, that of the fourth class by a trophy of flags and arms, while the
fifth class cross has but the suspension ring. The ribbon is blue
moire, with a red band in the centre. The star, which is of silver,
has eight rays; in the centre is a duplication of the obverse of
the decoration, without the crown. Prior to 1855, the star or plaque bore
the motto AL MERITO ED AL VALORE. CIVIL ORDER OF SAVOY.
Founded at Turin, on October 29, 1831, by Charles Pl.
VII Italy (savoy) Military Order of Savoy
38 ITALIAN ORDERS Albert (1798-1849), King of Sardinia
and Savoy. During most of his reign of eighteen years, he was at
war with Austria. Follow¬ ing the revolution of 1848 in France, he
began war for the Independence of Italy but was compelled to abdicate in
1849 after his defeat by the Austrians at Novara. The object of the
Order was to rewaid ‘those of other professions, not less useful than
that of the army, who have become through long and profound study
the ornaments of the State to which they have rendered important
service.’ There is but one class to the Order, known as
Knights, and it is seldom conferred on foreigners. The decoration is a
light blue Savoy cross edged with gold. The medallion on the
obverse is white with a gold rim; in the centre are the intials of the
founder, C. A. The reverse has AL MERITO CIVILE 1831, in gold
lettering on a white field, on the centre medallion. The moire
ribbon is of three equal stripes—light blue with white either side.
ORDER OF THE CROWN OF ITALY. Created on February 20, 1868, by
Victor Pl. VIII Italy (savoy) Civil Order
of Savoy ITALIAN ORDERS Emmanuel II (1820-1878), the first
King of United Italy, to commemorate the annexa¬ tion of Venice to
that kingdom. This is sometimes called the Order of the Iron Crown.
Doubtless the origin of the name arose from the fact that at the
coronation of Agilif, King of the Lombards (592-615), a crown was
used, composed of gold and precious stones, inset with a band of
iron which was said to have been forged from a nail of the true
Cross. Tradition says that this crown was kept in the Cathedral of
Monza and removed to Mantua in 1859. When Napoleon I became King of Italy
in 1805, it is said he was crowned with this crown. The Order of
the Iron Crown of Italy, founded by Napoleon I in 1805, was
abolished in 1814, although revived in Austria in 1816 by Francis I as
the Austrian Order of the Iron Crown. The first distribution
of the Order of the Crown of Italy, as founded by King Victor
Emmanuel II, occurred on April 22, 1868, when the heir-apparent,
Humbert, married Princess Marguerite of Savoy. There are five
classes of the Order—Grand Pl. IX Italy
Order of the Crown of Italy Cordons, Grand
Officers, Commanders, Officers and Knights. The grade of Knight or
Chevalier is frequently conferred on foreigners. The insignia is a
white-enam¬ elled cross-pattee edged with gold, and convex, with
knots of gold cord connecting the arms. In the blue-enamelled
medallion is a gold crown. On the reverse medallion is the crowned
eagle of Savoy. On its breast is a red shield, bearing the white cross
of Savoy. The ribbon is of red with a white stripe in the centre. The
star of the order, for the highest grade, is of eight silver rays,
on the centre of which is a gold crown on blue field, encircled by a
white band, in¬ scribed VICTORIUS EMMANUEL II REX I TALI A E
MDCCCLXVI. This device is surmounted by a crowned eagle bearing the
Arms of Savoy on its breast. The star of the Grand Officer is an
eight-pointed silver star, on which is a reproduction of the Cross.
ORDER OF INDUSTRY. By a decree of May 9, 1901, Victor Emmanuel III
created a Decoration called the “Cavalieri del Lavoro” (Knights of
Industry). It is awarded to those prominent or proficient in
the Industrial, Commercial or Agricultural work of the Kingdom or of its
Colonies. The decoration consists of a green-enamelled Savoy cross,
edged with gold. On the obverse is a white medallion, bearing the
words AL MERITO/DEL/LAVORO/1901 The reverse medallion bears the initials
of the founder, V. E., in gold on a white field. The rib¬ bon is
dark green with a red stripe in the cen¬ tre. There is but one class to
this order, and its award carries with it no particular privileges.
COLONIAL ORDER OF THE STAR OF ITALY. Founded in 1911 by King Victor
Emmanuel III. Its purpose was to reward those deserving of especial
recognition who were prominent in the work of the Colonies. There
are five classes to the Order: Knights of the Grand Cross, Grand
Officers, Com¬ manders, Officers and Chevaliers. The decoration
consists of a white-enamelled star of five points, edged with gold and
ball- tipped. On the obverse medallion of red, is the gold monogram
(V. E.) of the founder, with crown above. A green-enamelled circle
AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS has at the bottom of it
1911. On the reverse red medallion are the words AL/ ; MERI TO
/COLO NI ALE in gold letters. The ribbon is red, with narrow white
and green bands on either side. All grades of the star have a crown
above, except that of Chevalier, which is plain. The plaque, j
which is worn by the first and second classes only, consists of
thirty-five silver rays, on which is the uncrowned star described
above. MILITARY CROSS FOR SERVICE. On November 8, 1900,
Victor Emmanuel III authorized a cross for long and faithful
service, called the “Croce per anzianita di servizio Militare.” It is of
gold for Officers, and of silver for the troops. The decoration is
a Maltese cross; on the obverse, a medallion bearing the Royal cipher V E
crowned, and on the reverse Roman characters, denoting years of
service —XXV for the Officers and XVI for the troops. If the officers
have served forty years and the troops twenty-five years, the Roman
characters vary accordingly, and the cross has a crown above. The ribbon
is green, with a wide white stripe in the centre. NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. X
Italy Colonial Order of the Star of Italy
46 ITALIAN ORDERS MILITARY MEDAL OF VALOUR. As
early as 1793, during the war between Pied¬ mont and France, Victor
Amadeus III, King of Sardinia (1727-1796), created a Medal of
Valour. This was awarded for individual acts of bravery, and was
struck in gold and in silver. Victor Emmanuel I revived the award
in 1815, at the time of the downfall of Napoleon I, but abolished it in
August of that year when he created the Military Order of Savoy. When
Charles Albert was King of Sardinia and Savoy, he reinstituted the
medal in 1833, for acts of valour not sufficiently important to
war¬ rant the M ilitary Order of Savoy. From the time of its
inception to 1887, it was always awarded in gold or silver, but in that
year Humbert I decreed that a bronze medal should be given for acts
of valour of a lesser degree. This medal ranks in Italy almost as
highly as does the Victoria Cross in Great Britain or the Medal of Honour
in this country. It is frequently called the Sar¬ dinian Medal of
Valour. The earliest model was 38 mm. in diameter, having on the
obverse the bust of the king facing to the NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. Italy (savoy)
Military Medal of Valour ITALI AN ORDERS AND right and the
words VITTORIO AMADEUS III. The reverse had a wreath of oak leaves,
within this is a trophy of arms and flags and the words AL V A
LORE. About the time of the Crimean war, the design was changed.
The size was reduced to 33 mm. The obverse has the Arms of Savoy,
surmounted by a crown in an oval. Below are a palm and laurel
branch, tied at base with a ribbon; and around the whole, the
words AL V A LO¬ RE MI LI TARE. The reverse has two laurel branches
tied with a ribbon, with a space in the centre for the recipient’s name.
The name of his campaign is placed on the outer edge. The ribbon has
always been a dark blue moire. Victor Emmanuel II caused a number
of these medals, in both gold and silver, to be given to the British and
French troops who took part in the Crimean war. Two of these are in
my collection, and have been awarded to Frenchmen. The reverse has
the name and title of the recipient en¬ graved at the centre, while
around the outer edge of one are the words SPEDIZIONE D’ORIENTE
1855-1856, in relief. The second specimen has the same words en-
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR 49
graved. The Musee de VArm'ee of Paris has a medal with the
recipient’s name engraved and GUERRE DTTALIE 1859 in relief. This
was for the war with Austria. Another has in relief CAMP A GNA DELLA BASS
A ITALIA 1860-1861 . Mr. C. S. Gifford, of Boston, has in his
collection a variant of this Medal of Valour. It is but 25 mm. in
diameter. The reverse has around the edge, outside the wreath, in relief,
the words GUERRA CONTRA VIMPERO D’AUS¬ TRIA. Many of
these medals have been awarded to the men of other countries who
have assisted Italy in her campaigns. It was a Military Medal of
Valour, of gold, which General Diaz placed upon the grave of the
un¬ known American soldier at Arlington on Nov¬ ember 11,1921, by
order of the King of Italy. CIVIL MEDAL OF VALOUR. Au¬
thorized by King Victor Emmanuel II on April 3, 1851. It was given in
gold, silver and bronze. Under a decree of April 29, 1888, Humbert
I authorized a bronze medal also. These are awarded to civilians for per-
AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND sonal acts of courage
and valour, such as rescues at fires and at sea. The medal is 34
mm. in diameter, bearing on the obverse the Arms of Savoy in an
escutcheon, with a Royal crown above. Around this at the top are
the words AL VALORE CIVILE. The r everse has a wreath of oak leaves,
with space in the centre for the recipient’s name. The writer’s
medal is engraved D’ONOFRIO GIO. ANTONIO CERVINARA (AVEL- LINO) 22
XBRE. 1868. The ribbon for this medal is of the Italian National
colours. Three equal stripes—red, white and green. NAVAL
MEDAL OF VALOUR. Insti¬ tuted in March, 1836; modified in 1847, and
again by Victor Emmanuel II in i860, to reward the men of the Navy for
heroism. In 1888, Humbert I established three grades, gold, silver
and bronze, according to the character of the award. The obverse
bears the Arms of Savoy on a shield, with a crown above, and
encircled by a palm and laurel branch tied at the bottom; and round
the outer edge is the motto AL VALORE DI MARINA. On the reverse is
an oak NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR wreath (less
full than that of the Military medal of Valour) with a reserve in
the centre for the name of recipient and mention of the act for
which the medal is awarded. The ribbon is dark blue moire, with one
wide and one narrow white stripe at each side. MEDAL OF MERIT
FOR PUBLIC SAFETY. This decoration was first insti¬ tuted on
September 13, 1854, by Victor Emmanuel II and was called “La Medaglia
di Benemerenza per i Benemeriti della salute pubblica” Its purpose was to
reward the services of volunteers in epidemics of contagious
diseases and those who took part in other ways beneficial to the health
and safety of the public. It is given in gold, silver and
bronze. On the obverse is a bust of the King to left, around which
is inscribed UMBERTO I RE D'IT ALIA. On the reverse are oak and
laurel branches, surrounded by the words SALUTIS PUBLICAE
BENEMERENTI- BUS. A reserve at the centre is left for the name of
the recipient. On the earlier models the bust and title of Victor
Emmanuel AND MONOGRAPHS II appeared on the obverse, and the
reverse motto read AI BEN EMERITI DELLA SALUTE PUBBLICA . The
ribbon is light blue, edged with black. MEDAL FOR VETERANS
GUARDING THE TOMB OF THE KINGS. This medal was authorized on July
14, 1879, and altered on January 1, 1880. It was established to
honour the veterans of the war of 1848-1849 who guarded the tomb of
Victor Emmanuel II. It is 30 mm. in diameter and of silver. The
ribbon is blue with a white stripe in the centre, with one edge green and
the other red. The first model has on the obverse a wreath of
laurel with a superimposed, five- pointed star bearing at the centre the
bust of the King and the words UMBERTO 1° RE D’lTALIA; on the
reverse, VETERAN! 1848-49 / GUARDI
A D’ONORE / ALLA TOMB A DEL RE / VITTORIO EMA- NUELEII. After the death of Humbert
I, Victor Emmanuel III altered the medal. The obverse bore his own
bust and title, and the reverse read / AI/VETERA Nl 1848-1870
/GUARDIA D’ONORE / ALLE TOMBE NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XII Italy
Veteran Guard of the Tomb of the Kings 54
ITALIAN ORDERS DI RE / VIT TO RIO EM AN UELE II / E
UMBERTO I. A specimen of this design is in my collection.
LIFE SAVING MEDAL. Authorized by Royal Decree on March 8, 1888 .
This decoration is awarded to those, not in the Navy, who have
risked their lives to save others from drowning, or shipwreck, or
for other forms ot personal valour at sea. It is issued by the
Ministry of the Marine. The medal is in silver and in bronze only and
is not to be worn on the person. The obverse bears the effigy of
the King, facing left, and the inscription VITTORIO EMANUELE III RE
D J IT ALIA. The reverse has two circles, one within the other; in the
outer circle occur the words MIN1STERO DELLA MARIN A, while the
inner one is left blank for the name of the recipient, the date and
the statement regarding the occasion of the award. MEDAL OF
MERIT. Authorized by a Decree of May 6, 1909. This medal was
awarded to all persons, including many NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XIII
Italy Medal of Merit 56 ITALIAN
ORDERS AND foreigners, who from philanthropic or charitable
motives went to the relief of the inhabitants of Sicily and Southern
Calabria at the time of the earthquake of December 28, 1908. It is
34 mm. in diameter, and was issued in gold, silver and bronze. The
obverse bears the effigy of the King, facing left, and the words VITTORIO
EMA- NUELE III. On the reverse, the inscription TERREMOTO / 28
DICEMBRE 1908 /IN CALABRIA / E IN SICILIA, sur¬ rounded by a wreath
of oak leaves. The ribbon is green with a white stripe on either
side. A variation of this medal was issued, bearing on the obverse the
bust of the king surrounded by the inscription VITTORIO EMANUELE
III RE D’I TALI A. The reverse reads MEDAGLIA/COMMEMO- RA TI V A /
TERREMOTO / C ALABRO SICULO/28 DICEMBRE /1908. The ribbon for this
has 5 stripes, alternately white and green. The writer
possesses an interesting medal, for the official issuance of which no
authority has been found. It is of silver, 33 mm. in diameter. The
obverse bears the head of NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 57 the King of Sardinia and
Savoy, facing left, with A CARLO ALBERTO at the sides. Under the
bust, the letters S.J. (probably standing for Stephano Johnson). The reverse reads I VETERANI/ITALIANI
/IN/PELLEGRINAGGIO /ALLA SUA TOMB A /A SUP ERG A . The ribbon is dark blue
with a yellow stripe each side. It is believed that these medals were
given to the veteran soldiers of Charles Albert who made the
pilgrimage to his last resting place. The Abbey of Superga was founded
by Victor Amadeus III near Turin. In its church rest the remains of
the Princes of Savoy. Charles Albert (1789-1849) died at Oporto in
1849. His body was buried on the heights of Superga. Italy later
recognized his devotion, and pilgrims still journey to his tomb.
CRI MEAN M EDAL. Italy was not back¬ ward in awarding what are
commonly known as Campaign or Service Medals but which the Italian
authorities style “Medaglie Commemorative.” That for the Crimean
war was the first. It was authorized on October 22, 1856, and was
issued to the Piedmont AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS
AND troops serving during that campaign under General La
Marmora. The medal is of silver, 35 mm. in diameter. On the obverse
appears the effigy of the King, facing left, and the inscription VITTORIO
EM AN U ELE II. The reverse has in large letters, in relief,
CRIMEA/1855-1856. The ribbon is light blue with a narrow gold edge.
Some authorities assign a ribbon of the Italian National
colours—red, white and green. MEDAL FOR THE LIBERATION OF
SICILY. This medal was issued to com¬ memorate the dethronement of
Ferdinand II and the union of the ancient Kingdom of Sicily with
the Kingdom of Italy. As a result of that insurrection, Garibaldi
with his thousand troops landed at Marsala, and in three weeks was
master of Messina. The medal (30 mm.) is of silver and bronze. On
the obverse is the bust of the king and the words VITTORIO EM AN U ELE;
below the bust, the initials S.J., probably standing for Stephano
Johnson, the maker. The re¬
verse is inscribed IT ALIA / E CASA DI SA VOIA / LIBERAZIONE DI /
SICILIA NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR. The ribbon is red, with one
white and one green edge. STAR OF THE THOUSAND. Here
might appropriately be mentioned a unique dec¬ oration. On January
9, 1861, General Turr went to the island of Caprera to carry to
that great Italian patriot, General Giuseppe Garibaldi (1807-1882), the
Star of Honour which his famous thousand companions had offered
him. It is a gold star of seven points, loosely set with diamonds. In the
centre on a blue-enamelled field in letters of gold is ARTURO (a
star which is said to protect any one with an ideal). On this is
super¬ imposed a gold Trinacria, the emblem of Sicily. This is
surrounded by an enamelled band of white, green and red, inscribed
in letters of gold I MILLE AL LORO DUCE (The thousand to their
chief). This was the only decoration which that great General
consented to wear; and after his death at Caprera on June 2, 1882, the
star was given by his sons to the Quirinal Museum in Rome where it
may now be seen. AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS
MEDAL OF THE THOUSAND, or MARSALA MEDAL. Issued by the city of
Palermo, and authorized by the Italian government in 1865. It was
presented to the troops of Garibaldi who entered the City in i860,
and is called LA MEDAGLIA DEI MILLE. The obverse has in the centre
an eagle with raised wings, standing on a fillet inscribed S. P. Q.
R. Around this are the words AI PRODI CUI FU DUCE GARI¬ BALDI (To
the brave men who were led by Garibaldi). On the reverse within a
wreath of laurel is IL MUNICIPIO/PALERMI- TANO / RI VENDICA TO /
MDCCCLX. Around this, outside the wreath are the words MARSALA
CALATAFIMI PALERMO. The medal was issued in silver and in bronze.
The ribbon is bright red, with a gold stripe each side, and on the face
of the ribbon is fastened a silver Trinacria, the emblem of Sicily.
MEDAL OF ITALIAN INDEPENDENCE. This decoration was authorized in
1862. It is of silver, and 32 mm. in diameter. On the obverse is
the head of the king, to left, NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XIV
Italy Medal of the Thousand 62
ITALIAN ORDERS around which are the words VITTORIO
EMANUELE II RE D’I TALI A The reverse depicts a standing female
figure, symbolizing Italy, holding in her right hand a spear, and
in the left, a shield with the Arms of Savoy. Around the whole is
in¬ scribed GUERRE PER LTNDIPENDENZA E V UNIT A D’IT ALIA. The
ribbon is composed of six narrow stripes of the National
colours—green, white and red. Bars or barrets are issued in silver to
be attached to the ribbon, as follows: 1848- 1849 (war with
Austria), 1855-1856 (Cri¬ mean War), 1859 (war with Austria), 1860-
1861 (Garibaldi’s expedition in Sicily and the Campaign in central
Italy), 1866 (war with Austria), 1867 (Campaign against Rome), and
1870 (Capture of Rome). MEDAL FOR UNITED ITALY. This medal
was authorized in 1883. It is 32 mm. in size, and of silver and bronze.
On the obverse is the effigy of the King and the words UMBERTO I RE
D’lTALIA. On the reverse, within a laurel wreath the in¬ scription
UNITA/D’ITALI A/1848-1870. NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XV Italy Medal of
Italian Independence ITALIAN DECORATIONS Pl.
XVI Italy Medal for United Italy
MEDALS OF HONOUR 65 The
ribbon has a broad green stripe with a white and a red stripe on both
sides. Unlike the British campaign medals, few of the Italian
medals are inscribed on the edges. The writer has a group of three
medals, inscribed PHILIP FIGYELMESY COM ANDANTE USSERI UNGHERESI.
These are for the Campaign of United Italy, Liberation of Sicily, and for
Italian Inde¬ pendence. MEDAL FOR AFRICA. Created on
November 3, 1894; sometimes called the “Medal for Abyssinia.” It was
awarded to the forces of the Army and Navy which took part in the
operations in Abyssinia, especially in that portion bordering on the Red
Sea, called Eritrea. This included the campaign of 1887-1897
against Menelik II, who was the Negus of Abyssinia. The medal was
issued in bronze, 32 mm., and bears on the obverse the crowned head of
King Humbert I, facing right. On the reverse, within a laurel
wreath, are the words CAMPAGNE D } AFRICA. The ribbon is red with
blue borders. Silver bars, suitably inscribed, AND
MONOGRAPHS 66 ITALIAN
ORDERS were issued to the troops taking part in the
following expeditions, viz: Campagna 1887- 1888, Saati, Dogali Saganeiti,
Keren, Asmara, Adua, Agordat (1890), Halat, Serobeti, Agordat
(1893), Kassala, Halai, Coatit, Campagna 1895-1896 and Cam¬ pagna
1897. MEDAL FOR THE FAR EAST. Au¬ thorized on June 23, 1901,
and also known as the “Medal for China/’ or the “Medal for the
Boxer Uprising.” At the time of that unfortunate affair, when so many
of the Nations went to the relief of their lega¬ tions at Pekin,
Italy was among the first. To all those taking part in this
expedition, and to those who remained as guardians of the territory
until the end of the year 1901, this medal was given. It is of
bronze, 32 mm., and bears on the obverse the effigy of the King
facing left and the words VIT- TORIO EMANUELE III RE D’lTALIA; on
the reverse, within a wreath of laurel, CINA 1900 - 1901 . The ribbon is
yellow, with four dark blue stripes. Another medal for China is
exactly like the above, excepting NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XVII Italy Medal
for Africa ITALIAN ORDERS that the reverse bears the word
CINA only. This was given to the troops and sailors who served in
China from December 31, 1901 to April 1, 1908. The ribbon is
similar. MEDAL FOR THE TURKISH WAR OF 1911 - 1912 . But a few
years ago Italy and Turkey were fighting desperately for the
control of Tripoli, a section of Northern Africa which had been under
Turkish rule for several centuries. It was at this time that
Germany all but precipitated a Euro¬ pean war by insisting upon certain
methods of settlement. Fortunately conflict was averted by the
treaty of Lausanne. To commemorate the triumph over Turkey and to
honor those engaged there, a silver medal of 32 mm. was authorized on
November 21, 1912. The medal was issued to all men of the Army and
Navy who took part in the operations against the Ottoman Empire,
whether in Africa or in Turkish territory. On the obverse of the medal is
the head of the King, facing right, and the inscription, VITTORIO
EM A N V ELE. III. RE NUMISMATIC NOTES Pl. XVI 11
Italy War Cross ITALIAN ORDERS D* I TALI
A. On the reverse, within a wreath of laurel, the words GUERRA /
ITALO-TURCA,/ 1911 - 1912 . The ribbon is of six narrow blue and five
narrow red stripes of equal width. MEDAL FOR THE WAR IN
LIBYA. The treaty of Lausanne did not stop all war operations on
the part of Italy. The tribes of the newly acquired Colonial
possessions continued to make trouble. To reward the troops taking
part in such campaigns, a silver medal of 32 mm. was authorized on
September 6, 1913. This was identical with the Turkish war medal, except
that the re¬ verse bears the words GUERRA/IN LIBIA. The ribbon is
of the same design and colour. WAR CROSS OF ITALY. Authorized
in 1918. It was awarded to those worthy of official recognition
during the World War, but whose service was not of sufficient im¬
portance to warrant the Medal of Military Valour. The Decoration is of
bronze, 38 mm., in the form of the Savoy Cross. On the obverse is
inscribed MER 1 T 0 Dl NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XIX Italy Medal for
the World War 72 ITALIAN ORDERS GUERRA,
above which is the King’s crowned monogram, V. E. and III. On the
lower arm of the cross is an upright sword entwined with a branch of oak.
The reverse has a. star in the centre surrounded by rays. The
ribbon is dark blue with two white stripes. MEDAL FOR THE
WORLD WAR. Created on July 29, 1920 and made from captured Austrian
cannon. It is bronze, 32 mm. On the obverse appears the hel- meted
bust of the King, encircled by the inscription, GUERRA PER V UNIT A
D' I TALI A 1915-1918 and three branches of oak leaves. The reverse has
an allegorical figure of Victory, standing on a support borne by
two helmeted soldiers, and the inscription CONIT A NEL BRONZE N E-
MICO (Coined from enemy bronze). The ribbon has eighteen narrow stripes
of green, white and red—six of each colour. Bars were issued to be
worn on the ribbon to designate the years of service in the war.
These bear the dates of 1915, 1916,1917 and 1918 . NUMIS M
ATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. Italy Medal of
National Gratitude 74 ITALIAN
ORDERS VICTORY MEDAL. Created on De¬ cember 16, 1920, but
not issued until 1922. The medal is bronze, 36 mm. As with the
Victory medals of the other allies, the winged Victory is the dominant
feature. This figure stands facing on a triumphal chariot drawn by
four lions. The reverse shows a tripod above which two doves of peace are
to be seen. At top the inscription GRANDE- G VERRA-PER-LA-Cl VILTA
. In field, at each side of tripod MCMXIV-MCMXVIII, below, in two
lines, AI COMBATTENTI BELLE NAZIONI/ALLEA TE ED ASSO¬ CIATE. The
badge is suspended by the rainbow ribbon as are all the Victory
medals. MEDAL OF NATIONAL GRATITUDE. This medal is awarded to
mothers who lost sons in the World War. The obverse shows an
allegorical figure presenting a wreath to a fallen warrior. Standing
alongside is another female in an attitude of grief. The reverse
has an inscription in eight lines IL FIGLIO / CHE TI NACQUE / DAL
DOLORE / TI RINASCE “0 BEAT A” / NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. Italy Victory Medal ITALIAN
ORDERS AND NELLA GLORIA / E IL VIVO EROE / “PIENA DI GRAZIA”
/ E PECO. The ribbon
is grey with center composed of narrow green, white and red
stripes. MEDAL FOR WAR ORPHANS. This medal has also been
authorized but no information has been received concerning it.
ITALIAN UNITY MEDAL. This medal has not as yet been distributed
and details concerning it are lacking. It is to be sold and the
money received is to go to the widows and mothers of those killed in the
war. MEDAL FOR WAR VOLUNTEERS, Notice has been received that
a medal will be issued shortly to those who volunteered in the
World War. CROWN OF MERIT. At this writing, and before any
confirmation could be secured, advices have come that the Councils
of Ministers have proposed a decoration to be awarded to clerks and
workingmen who have remained faithful to their employers for
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR twenty-five years or more.
Presumably this medal is intended to stimulate a spirit of co¬
operation between the employed and em¬ ployer. No decision as to the
design has been announced. Several of the municipalities of
Northern Italy issued medals to honor those who aided in the
efforts to free that country during the strenuous days of 1848-1849. None
of these medals of the cities are official medals, and consequently
few if any of the authori¬ ties mention them. They are inserted
here in order that the numismatist may have some facts relating to
them. Como had a medal inscribed on the
ob¬ verse, COMO LIBERATA NELLE GLORI- OSE GIORNATE 18-22 MARZO 1848
. The reverse bears
the Arms of the city and the words AL VALORE DEL CITTADINO. Bologna issued a medal inscribed VIT¬ TORIO
BOLOGNA 8 ./ 8 . 1848 . On the re¬ verse, QUANDA IL POPOLO SI DESTA
DIO SI PONE ALLA SUA TESTA. Livorno’s medal bears on the
obverse AI V A LOROSI DIFENSORI DI LIVORNO 10 E 11/5 18 49. The reverse bears the
AND MONOGRAPHS 78 ITALIAN
ORDERS AND Arms of the State and the words MUNICI- PIO DI
LIVORNO. The ribbons for the above medals are red and white.
Milano likewise had a medal to show her appreciation of the efforts
of her citizens for freedom. It bears on the obverse a figure of
Victory and the dome of the Cathedral. The reverse has the Arms of the
State and the inscription COMMUNE DI MILANO. The ribbon is red and
yellow. Cadore, Vicenza and Brescia are also said to have
issued medals, but a dependable description has not been
obtainable. During the war of 1848-1849 against Austria, and
the several Principalities of which Italy is now composed, Rome,
too, became involved. At the time of the Insurrection of 1848, Pope
Pius IX fled to Gaeta, where he remained until 1850. On February 9,
1849, Rome was declared a Republic. To those who took part in the
Insurrection, and who aided in the formation of the short-lived Republic,
as well as for connection with subsequent events, Rome awarded
several medals. As with the others, authentic information is difficult to
obtain. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR
79 MEDAL OF MERIT. Issued for the battle of Vicenza on
June io, 1848. This medal was of both silver and bronze, and 30 mm.
in diameter. On the obverse within a wreath of oak leaves, the Arms of
the city of Rome—a crowned shield, bearing the letters S. P. Q. R.
(Senatus Populus que jRoman us —The Senate and the people of Rome).
Around this device is the inscription ALMAE VRBIS COSS BENEMERENTI.
On a plain reverse is the motto, P VGNA STRENVE / AD VICETIAM/PVGNA
TA / IV.EIDVS VINIAS / M.DCCC. XL VIII. The ribbon is of equal
stripes of magenta and yellow—the colours of Rome. MEDAL OF
MERIT (Rome). Issued in silver and bronze. The obverse has in the
centre, the she-wolf with Romulus and Remus. Around this is
BENEMERITO DELLA PATRIA, with an oak and olive branch beneath. The
reverse has in the centre a group of flags and a trophy of arms,
surrounded by the inscription INDIPEN- DENZA ITALIAN A 1848 . The ribbon
is similar to the preceding. AND MONOGRAPHS ITALIAN
ORDERS MEDAL OF MERIT. Struck in silver and bronze, and is
said to have been issued by the Republic of Rome to those who dis¬
tinguished themselves during the Insurrec¬ tion of 1848. It is 30 mm.,
and has on the obverse the she-wolf with Romulus and Remus,
standing on a pedestal, bearing the letteisS. P. Q. R . The reverse reads
AL MERITO, surrounded by an oak wreath. The ribbon is magenta and
yellow. Another medal is described by one au¬ thority as a
reward to the combatants of 1848. It is 23 mm., bronze, and bears
on the obverse an allegorical female figure, holding a spear in her
right hand and a cornucopia in her left. At her feet is a globe
surmounted by an eagle. Above is a rayed .star. On the edge is
inscribed REPUBLIC A ROM AN A. On the reverse is the motto ALLA
VIRTU CITTADINA within an oak wreath. This is surrounded by the
inscription LA P ATRIA RICONO- SCENTE. No ribbon is described.
According to Padiglione still another Medal of Merit was issued in
commemora¬ tion of September 20, 1870, when Rome was
NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. XXII
Rome. Battle of Vicenza Rome. Medal of Merit 82
ITALIAN ORDERS AND admitted into the Kingdom of Italy.
Scul- fort, a French writer, says this medal was given to
commemorate the proclamation of the Republic of Rome in 1848;
although preference is here given to the Italian authority’s
version. The medal was issued in silver and bronze, 30 mm. in
diameter. On the obverse is a shield bearing the Arms of the City,
surmounted by the she-wolf with Romulus and Remus. This device
rests upon two crossed battle axes and an oak wreath. The reverse bears
within an oak wreath ROMA /RIVENDICA TA,/AI SUOI/LIBERATORI,
surmounted by a star. The ribbon has narrow alternating stripes of
magenta and yellow. Some rib¬ bons have nineteen stripes; others
have eleven. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR THE
TWO SICILIES Even more so than with Italy proper, Sicily has
been a battle-ground from the earliest times. And this condition, as
is usually the case, has made the numismatics of Sicily of great
importance. Before the period of coinage, the Sikels dwelt in the
land. Later the Carthaginians disputed with the Greeks for its control,
both yielding ultimately to the Romans. In addition to the
struggles between the Normans and the Spaniards for its possession, it
had to with¬ stand the onslaught of the Saracens. Sicily,
especially in the mediaeval period, has shared the fate of the kingdom
of Naples, or, as they came to be known, the Kingdom of the two
Sicilies—a title which in itself is a commentary of the relative
importance of Naples. After the Lombard rule in the nth century, the
Normans,under Count Roger, brought about a consolidation of Naples
and Sicily. The conquest dates from 1130 A.D., when he assumed the
title AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND of King
of Naples and Sicily. There were two periods of separation—1282 to
1442 and 1458 to 1504, but after the last-named year the two
kingdoms remained under one crown until the unification of Italy in
1861. It is unnecessary here to dwell upon the constantly
changing rule for the two king¬ doms more than to mention the
conflict between the House of Anjou and of Aragon through the 14th
and 15th centuries. Under Charles VIII (from 1494), the French
ruled, while between 1504 and 1707 the Spanish were in control.
They were followed by the Austrians (until 1720). After that date
Spanish Bourbons held possession. The Napoleonic rule on the
mainland dates from 1805, while Ferdinand IV con¬ trolled the
island of Sicily. The downfall of Napoleon at Waterloo saw the two
kingdoms again united under the Bourbons. The wars for the independence
of Italy, and the efforts of Garibaldi in 1859 and i860, finally
brought both sections into the Kingdom of Italy and under the rule of
the house of Savoy. NUMISMATIC NOTES
M EDALS OF HONOUR 85 ORDER OF THE SHIP. In 1269,
St. Louis founded in France the Order of the Ship or of the Double
Crescent. Upon his death in 1270, his brother, Charles d’Anjou,
established this order in the Kingdom of Naples. Owing to the design of
the collar, this order is sometimes given a third name— The Order
of the Sea Shell. The insignia was a gold collar of scallop shells,
alternating with double crescents. From this was suspended a medal
with a ship as its design. The motto is NON CREDO TEMPORI. Clark, an
Eng¬ lish writer, describes an order founded in 1382 by Charles
III, King of Naples, called the “Order of St. Nicholas,” while Elias
Ashmole styles it “The Order of the Argonauts of St. Nicholas.”
Both give the motto as NON CREDO TEMPORE Apparently, therefore,
this is a survival or a later form of the Order of the Double
Crescent. ORDER OF THE CRESCENT. Favine states that this
order was founded in An- giers, France, in 1464, by Rene, Duke of
Anjou, King of Jerusalem and Sicily. Ashmole quotes St. Marthes as giving
1448 AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND as the
date for its foundation. Rene was unable to hold his island kingdom very
long. The order was not popular, and those honoured with it were
afraid to wear the badge. The insignia consisted of three gold
chains from which is suspended a gold crescent, bearing three letters in
red, L.O.Z., which signify, according to Favine, L’oz en croissant
(Praise by increasing). To the crescent were attached gold tags
indicating the battles and feats of honour in which the knights had
been engaged. 2 Aragon controlled the Island Kingdom of
Sicily from 1282 to 1442. In 1351 Louis I, King of Sicily, founded the
ORDER OF THE STAR to replace that of the CRESCENT MOON. This
insignia was a Maltese cross, in the centre of which is an eight-
pointed star. This Order seems to have been discontinued in 1394.
Giustinian, the Italian writer in 1692, gives a list of eighteen
Grand Masters of the Order of the Crescent Moon and of the Star from 1268
to 1667. This would seem to indicate that the Orders described
above were connected or continued by the several rulers under different
titles. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR
OO ^4 ORDER OF THE SPUR. Founded in 1266 by
Charles d’Anjou, King of Naples and Sicily, to commemorate his triumph
over Manfred near Benevento. The insignia is a white-enamelled
cross, each of the arms having double points. A spur is attached at
the base. The Order was shortlived. ORDER OF THE KNOT OF
NAPLES. Created in 1351 by Louis of Taranto when he married the
Queen of Naples. This was also termed the “Order of the Holy Spirit
of the Right Desire.” It ceased to exist after the death of the founder.
The insignia is a knot of cord entwined with i gold thread.
ORDER OF THE REEL AND LIONESS (Naples). This Order, of short
duration, was instituted by partisans of the house of Anjou, during
the troubles of 1386-1390. The insignia is a yarn reel and a lioness,
the significance of which is difficult to learn. Clark, writing in
1784, states that the followers of Louis II, Duke of Anjou, were
divided into two factions, one of which wore AND
MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND on its arms an
embroidered reel as a sign of contempt for Queen Margaret, widow of
Charles III, who desired to hold the reins of government. This faction
took the name of “Knights of the Reel.” The other, the Knights of
the Lioness, wore on its breast the figure of a lioness with feet tied,
indi¬ cating that it looked upon Queen Margaret as one tied by the
leg. ORDER OF THE ERMINE (Naples). Founded in 1463, by
Ferdinand I (1423- 1494) Aragon, King of Naples, at the end of the
war which he had been waging against John of Anjou, Duke of Calabria. He
was led into this war by his brother-in-law, Marinus Marcianus,
Duke of Sesso, who conspired to murder Ferdinand. Marinus Was not
only pardoned for his treachery but was admitted into this Order. The
motto was MALO MORI QUAM FOEDARI (Death is preferable to dishonor),
and the patron was St. Basil. The badge is a gold ermine suspended
from a gold chain. Au¬ thorities differ as to the exact date of
both the creating and discontinuance of this Order.
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR 89 ORDER OF THE
GRIFFIN (Naples). Attributed to Alphonse by Perrot and by De
Genouillac. The date of its founding is given as 1489. As Alphonse died
in 1458 and was succeeded by his son, Ferdinand I, who reigned
until 1494, it may, therefore, have been instituted by Ferdinand. No
description of the insignia can be found. ORDER OF SAINT MICHAEL
(Naples). This Order is likewise attributed to Ferdi¬ nand I, and
the insignia is described by Ashmole as an oval, bearing the word
DECORUM . No other record has been found. ORDER OF SAINT
JANUARIUS (of the Two Sicilies). Founded on July 6, 1738, by King
Charles of Sicily (1716-1788), to cele¬ brate his marriage with Princess
Amelia, daughter of Augustus III of Poland. Charles was of the
Spanish Bourbons, and second son of Philip V. His army had
conquered Sicily, and he became its King in 1735 at the age of
eighteen, having previously borne the titles of Duke of Parma and
Grand-Duke AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS of
Tuscany. In 1759 he became Charles III of Spain, at which time he
resigned his Neapolitan and Sicilian Kingdom in favor of his son,
Ferdinand. Charles formed the Noble Order of the Immaculate
Conception of the Virgin Mary, often also called “The Order of
Charles III of Spain.” It was he who, as King of Spain, joined France
in sending assistance to the American Colonies in their war of
Independence. At the Peace Treaty following that conflict, he
recovered Florida for Spain from England, to whom it had been ceded
in 1763. Saint Januarius (San Genaro), for whom this Order is
named, was the Patron Saint of Naples. Relics of this Saint, to
whom miraculous cures are attributed, are pre¬ served in the
cathedral named for him in that city. When the French invaded
Naples in 1806, the Order was abolished in that country, though it
continued in Sicily, whither Ferdinand had fled. It was revived
after 1814. At the present time it is classed among the non-active Orders
of Italy. There are two classes: Knights and Honor¬ ary Knights.
The badge of the Order is a NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. Two Sicilies Order of Saint Januarius
ITALIAN ORDERS AND gold Maltese cross, enamelled red
with white edges; gold Bourbon lilies in the angles. The obverse
centre has a figure of the patron saint, San Genaro, clad in a red
robe and hat, with an open book in the left hand. The reverse shows an
open book and two receptacles partly filled with the mirac¬ ulous
blood of this martyr. The ribbon is bright red. The plaque is of silver,
the same design as the cross, and bears the words IN SANGUINE
FOEDUS (the Covenant in Blood). ROYAL MILITARY ORDER OF
SAINT CHARLES. Instituted by Royal Decree of October 22, 1738, by
King Charles, its purpose was to reward citizens and members of the
army and navy who had shown exceptional zeal and fidelity to the
crown. This Order supposedly never received the Apostolic
confirmation of the Pope, and according to an Italian writer, Ruo,
was shortlived, all record of its existence having been lost when
Charles, its founder, assumed the throne of Spain in 1759.
The decoration is a fou r-armed cross, each NUMISMATIC
MEDALS OF HONOUR 93 arm terminating in the form of a
lily, and the whole surmounted by a royal crown. The centre
medallion bears the image of Saint Charles. No description of the
reverse is given. The ribbon is violet. ORDER OF SAINT FERDINAND
and OF MERIT. Founded on April i, 1800 by Ferdinand IV, King of
Naples (also Ferdi¬ nand III of Sicily and I of the Two Sicilies).
It was instituted in commemoration of his having been restored to his
Kingdom after the defeat of the French by the united forces of
England, Austria, Russia and I Turkey. The object of the Order was
to reward the Neapolitans who had remained faithful to the King and
his monarchy. Lord Nelson, Duke of Bronte, was one of the first
foreigners to have this Order bestowed upon him. He was made a
Knight of the Grand Cross. Like the Order of Saint Januarius, this was
suppressed in Naples when the French under Joseph Bonaparte
controlled that country. It was continued in Sicily until 1814 but is
said to have been definitely abolished in i860. AND
MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS There were three classes: Knights
of the Grand Cross, Commanders and Chevaliers. The cross of this
Order is a gold star of six branches, in the form of rays. In the angles
are Bourbon lilies. The whole is surmounted by a crown of gold. The gold-centred
medallion bears a figure of St. Ferdinand in Royal robes and crowned,
holding a laurel wreath in the left and a sword in his right hand.
The encircling blue-enamelled band is inscribed FI DEI ET MERITO.
The reverse centre of gold is inscribed FERD. IV. INST. ANNO 1800 . The
plaque of the Order is similar to the obverse of the cross, without
the crown. A dark blue ribbon with red edges is used for suspension of
the cross. MEDAL OF HONOUR. By a decree of July 25, 1810,
Ferdinand IV added a gold and silver Medal of Honour. This was 33
mm. in diameter, with the obverse similar to the cross. The reverse was
inscribed FI DEI ET MERITO. This was worn with a similar ribbon.
Officers and privates of the Army and Navy were awarded this medal
for distinguished services. NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XXIV Two Sicilies Medal
of Honour 96 ITALIAN ORDERS AND MEDAL OF
MERIT FOR LOMBARDY. Ferdinand IV instituted a medal of silver for
the Neapolitan troops who assisted him in the campaign in Lombardy
against the French in 1796. This was 38 mm., bearing on the obverse
the helmeted effigy of the king and the title, FERDIN. IV UTRI SICILIAE REX P.F.A. ( P-Pio,
devout, F-Forte, brave, A-Augusto, august). On the reverse, within
a laurel wreath, FI DEI/ REGIAE DOM US / PA TRIAE / PROPUG- NA TORI
/OB / EG REGIA FACTA . In the exergue, E. V.A/MDCCXC VI.
MEDAL OF MERIT FOR SIENA. This medal was of gold and awarded by Ferdi¬
nand IV to the troops who distinguished themselves in the Siena campaign
in 1797. On the obverse is the helmeted effigy of the king and his
title FERDIN AN DUS IV UTRIUSQ. SICILIAE REX P.F.A. On the obverse
is an allegorical figure of a woman crowning a soldier with a
laurel wreath. Surrounding this, an inscription reads MI LI TIB US
BENE DE REGE AC PATRIA MERIT 1 S. In the exergue is
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR E. V.A./MDCCXC VII. The ribbon is
blue and white, edged with narrower stripes of blue (Sculfort, p.
176). MEDAL OF HONOUR FOR THE SIEGE OF GAETA. When Napoleon I
sent his brother Joseph Bonaparte to rule over the kingdom of
Sicily, Ferdinand IV fled to Gaeta. This fortress was gallantly de¬
fended in 1806 against the French under Marechal Massena, but was finally
forced to capitulate, and Ferdinand fled to the island of Sicily.
To reward those who valiantly assisted him to hold his kingdom,
Ferdinand IV instituted this Medal of Honour. It is 35 mm., and was
struck in both gold and silver, and is suspended from a deep red
ribbon. The obverse of the medal has a bust of the king facing to
right, the head wearing a helmet, laurel wreathed and surmounted by
a dragon. The inscription is FERDI- NANDUS IV. D.G. SICILIARUM REX.
The reverse has in the centre a view of the fortress of Gaeta, surrounded
by the motto, MERITO ET FI DEI CAJETAE DEFENSORM AND
MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND ROYAL ORDER OF THE TWO
SICI¬ LIES. Created on February 24, 1808, by Joseph Napoleon, when
King > of Naples It was issued in three classes: Grand
Officers, Commanders and Chevaliers. Joachim Mu¬ rat, when ruler,
modified the Order in 1811; its purpose was to reward those who had
assisted in the conquest of the country. The decoration is a red-enamelled
star of five points, ball tipped and with gold edges. Above this is
the Imperial eagle surmounted by a crown. In the centre medallion is
the Arms of Sicily, a Trinacria or Triquetra, having a face in the
centre. This me¬ dallion is surrounded by the title, JOS. NA- POLEO
SICIL. REX INST 1 TUIT. The reverse medallion bears a prancing
horse, the Arms of Naples, encircled by a blue- enamelled band
inscribed PRO RENO V A TA PATRIA. The ribbon is dark blue with a
red stripe in centre. Following the death of Murat on October
13, 1815, the Kingdom was restored to Ferdinand IV, who changed the
design of the above decoration. The star was at¬ tached to the
surmounting crown by a lily N U M I S M ATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR 99 (replacing the eagle). The obverse
medal¬ lion contained the Arms of Sicily and of Naples, surrounded
by the inscription FERDINANDUS BORBONIUS UTRI- USQUE SICILIAE REX
P.F.A. (Pio Forte Augusta). The reverse medallion had in the centre
a Bourbon lily and the motto FELICITATE RESTITUTA X. KAL.JUN. 1815
. The ribbon was changed to azure blue with a red stripe in the centre.
This Order was finally abolished in 1819 and replaced by the “Order
of Saint George of the Reunion.” MEDAL OF HONOUR FOR THE PRO¬
VINCIAL LEGION. On March 29, 1809, Joachim Murat, instituted this medal
for the Provincial Legion. It is of silver and bronze, and bears on
the obverse the effigy of the King, facing to left, encircled by
the words GIOACCHINO NAPOL. RE DELLA DUE SICIL. On the reverse is a
group of fourteen flags and a royal crown, the outer flags bearing,
respectively, the words SICUREZZA/INTERNA. Around this device is
the inscription ALLE LEGIONI AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS
AND PROVINCIALI 26 MARZO 1809 . The ribbon is light blue
moire. Ruo, the Italian writer, states that the inscription on the
obverse is Gioacchino Napoleone, but the previous description is taken
from a medal and various French authorities. MEDAL OF HONOUR
FOR NAPLES. Murat authorized another Medal of Honour on November i,
1814, to reward the guard of Naples for its devotion to his cause. It
is of gold and silver, in the form of a wreath of oak and laurel
leaves, tied with a ribbon and surmounted by a crown. Superimposed
on the wreath are two crossed flags, enam¬ elled in the colours of the
kingdom. On the obverse centre medallion of white is the bust of
the king, facing to left, and the title GIOACCHINO NAPOLEONE (or
GIO¬ ACCHINO RE DI NAPOLI ). On the re¬ verse medallion are the
words ONORE ET FEDELTA. The ribbon is magenta. The Medal for Civil
Merit is similar to the above, except that the reverse is inscribed
ONORE ET MERITO. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR IOI MEDAL OF HONOUR. After the death of
Murat at Pizzo, a medal of 38 mm. was authorized by Ferdinand IV. It was
issued in gold and silver, and worn with a bright red ribbon. On
the obverse is a crowned effigy of the restored king, facing to
left, and the inscription FERDINANDUS IV UTRI USQUE SICILIA E REX
P.F.A. The reverse has in the centre a large Bourbon lily,
surrounded by the inscription OB EGREGIAM URBIS PITH FIDELITA- TEM.
In the exergue, POSTRIDIE NO¬ NAS OCTOBRIS/ANNI R. S./MDCCCXV.
MEDAL OF HONOUR (Sicily). By de¬ crees of August 9 and 30, 1816,
bronze medals were authorized and awarded to soldiers and sailors
who were faithful to the cause of Ferdinand IV. This is a green-
enamelled Maltese cross with gold Bourbon lilies in each angle. The
centre medallion bears the effigy of the king to right, and the
words FERDINANDO IV INSTITUI 1816 . The reverse has in the centre a lily
and the inscription CONSTANTE ATTACCA- MENTO. This was worn with a
red ribbon. AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS
SECURITY GUARD MEDAL. Created on May 30, 1816, and issued in gold
and silver; it was worn with a Bourbon red rib¬ bon. The medal is
surrounded by a wreath of oak leaves and surmounted by a crown,
attached by laurel branches. On the obverse is the effigy of the king
surrounded by the title FERDINANDO IV RE DELLE DUE SI Cl LIE P.F.A.
The reverse bears a lily and the motto ALLA GUARDI A Dl SICUREZZA.
In the exergue, PER LA GIORNATA DE 22 MAGGIO 1815 . ROYAL
MILITARY ORDER OF SAINT GEORGE OF THE REUNION. This order was
created on January 1, 1819, by Ferdinand IV. It commemorated the
reunion of Naples and Sicily, and was awarded for valour, military
distinction and loyalty. There are four classes: Knights of the
Grand Cross, Commanders, Officers and Chevaliers, the decoration varying
in size according to the grade. This Order was discontinued in
i860, with the formation of the present Kingdom of Italy. The
insignia is a red-enamelled cross, fleuree, with i NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. XXV Two
Sicilies Order of Saint George of the Reunion ITALIAN ORDERS
AND concave arms. Two gold swords cross at the angles, and a
wreath of green-enamelled laurel connects the arms of the cross and
the swords. The medallion bears a figure of Saint George slaying the
dragon; around this is a blue-enamelled band inscribed IN HOC SIGNO
VINCES. The reverse is the same, with the word VIRTUTI above. The
ribbon is light blue moire. The decora¬ tion of the Knights of the Grand
Cross is distinguished from the other grades by a gold pendant of
St. George and the dragon. The Chevalier’s cross has no such
pendant; and on the reverse is the word MERITO. MEDAL OF ST.
GEORGE. In addition to the “Order of Saint George of the Re¬
union,” gold medals were awarded for heroism in war, and in silver for
continued service. These are 28 mm., bearing in the centre the
figure of St. George slaying the dragon, encircled by a wreath and the
words VIRTUTI or MERITO according to the purpose of the award. The
obverse and reverse are the same. The ribbon is blue with yellow
edges. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR ORDER OF
CONSTANTINE, (described on page 18). Instituted in Naples and
Sicily by Don Carlos in 1734. Joseph Bonaparte abolished it in 1808,
although it continued in the island of Sicily. Upon the return of
Ferdinand IV to Naples in 1814, it was restored in both Kingdoms.
ROYAL ORDER OF FRANCIS I. Francis I, upon the death of his
father, Ferdinand IV, became King of the Two Sicilies on January 4,
1825. He was of the Neapolitan branch of the Bourbon family. On
September 28, 1829, he founded the Royal Order of Francis I. Though
usually conferred as a reward for Civil Merit, the army was not
debarred from its honours. There are five classes: Grand Cross,
Com¬ manders, Officers, Knights and Chevaliers. The fourth and
fifth classes receive, re¬ spectively, the gold and silver medals,
described later. This Order was discon¬ tinued in i860 when the Kingdom
of the Two Sicilies became part of Italy, though, as a family Order,
it was continued for a while longer. The decoration is a
four-armed, AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND
double-pointed cross of white enamel with gold edges, surmounted by a
gold crown. Bourbon lilies of gold are in each angle. The medallion
is larger than in most of the other Orders. In the centre, on a field
of gold, appear the initials of the founder, F.I., with crown
above. These are surrounded by a laurel wreath of enamel. On the
blue encircling band are the words, DE REGE OP TIME MERITO. The
reverse bears the inscription FRANCISCUS PRIMUS IN- STITUIT
MDCCCXXIX, within a green wreath. The ribbon is bright red with
blue edges. The star or plaque of the order is a silver cross without the
crown, and with the same centre medallion. The gold and
silver medals, worn by the fourth and fifth classes, are 36 mm. in
diam¬ eter, bearing on the obverse the portrait of the founder,
within a laurel wreath, and the inscription FRANCISCUS I.D.G.UTRIUSQUE
SICIL. ETHIER. REX. The reverse has three Bourbon lilies in the centre
within a wreath, and the motto DE REGE OPTIME MERITO 1829 . The
ribbon is dark red with blue edges; not as wide as that for the
Cross. NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl.
XXVI Two Sicilies Order of Francis I
io8 ITALIAN ORDERS AND MEDAL OF CIVIL MERIT.
Authorized by royal decree of December 17, 1727. It is of gold and
silver and worn with a red ribbon. The obverse bears an effigy of
the king, and the title FRANCISCUS I.D.G. REGNI UTRIUSQUE SICIL. ET
HIER. REX. On the plain reverse is engraved the name, date and
cause of award. A medal similar to this was awarded during the
reign of Ferdinand II and may be found with either of the following
inscriptions: FERDI- N AN DUS II REGNI UTRIUSQUE SI CI¬ LIA E ET
HIERUS. or FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE.
Another MEDAL OF CIVIL MERIT was issued, 44 mm. in size. On the
obverse are busts of Francis I and Queen Maria Isabella, facing to
right, surrounded by branches of laurel. On the reverse is a Bourbon
lily, crowned. MEDAL FOR MESSINA. Francis I was
succeeded in 1830 by his son, Ferdinand II, who died in 1859. Ferdinand
II instituted the Medal for Messina for troops faithful to him, in
that city, during the Revolution NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR 109 of 1847. It is of bronze, and 30 mm.
On the obverse, within a wreath of oak and laurel leaves, is the
word FEDELTA with one Bourbon lily. The reverse reads, MESSINA 1
SEPTEMBRE 1847 . The ribbon is light blue and white. A variant of
this medal has on the obverse the effigy of the king and the words
FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE; and on the reverse
the word FEDELTA. LONG SERVICE MEDAL. Ferdinand II also
created a bronze medal for Long Service. It is 38 mm. and bears on
the obverse the king’s bust on a pedestal, surrounded by implements
of war and flags. Above is FERDIN
ANDO II. The reverse reads LODEVOLE SERVIZIO MI LI TARE DI 25 ANNI.
The ribbon is
red. MEDAL FOR THE SIEGE OF MES¬ SINA. After the long siege
of the citadel of Messina in 1848 by Ferdinand II which resulted in
his reconquest of Sicily, a com¬ memorative medal was authorized by
the king. This was to reward the troops who AND
MONOGRAPHS no ITALIAN ORDERS had taken part in
the campaign. The medal for the senior officers was of gold and
enamel, 35 mm. in diameter. On the obverse within a green-enamelled
laurel wreath, is a pentagonal fort; in the corners are five bombs,
the flames of which rest upon the wreath. In the centre is the
fleur-de-lis of the Bourbons, in relief. The reverse is similar, except
that in the centre of the pentagon is the legend, ASSEDIOJ DELLA 1
CITTADELLA / DI MESSINA / 18 ^ 8 . The ribbon is red. For the
junior officers and soldiers the medal was of bronze and of the
same size, without enamel. Obverse and reverse are identical, and
the medal was worn with a red ribbon. A variant of this medal has a
plain reverse, no fort, or bombs, but with the same inscription in relief.
MEDAL FOR SICILY. Created for the troops who, under the leadership
of Filan- gieri, suppressed the Insurrection of 1848- 1849. This is
of bronze-gilt, and displays the effigy of Ferdinand II facing to right
within a wreath of oak leaves. Outside, the wreath are two draped flags,
the whole is NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS
Pl. Two Sicilies Siege of Messina
Long Service Medal, Ferdinand II 112 ITALIAN
ORDERS surmounted by a Bourbon lily. The plain reverse has
CAMPAGNA DI SICILIA 18 J/. 9, in relief. The ribbon has three equal
stripes of light blue and white. MEDAL FOR CAMPAIGN OF 1860
. Francis II came to the throne of Sicily in 1859, about the time
of the Garibaldi campaign for the Independence of Italy. His reign
was short. The Medal for the Campaign of 1860 was created by him
for those troops who were loyal to him and opposed to Garibaldi. It
is bronze, 37 mm., and bears on the obverse the effigy of the king,
facing to left, within a wreath of oak leaves. Surrounding this is
FRANCESCO II RE DELLE DUE SI Cl LIE. The reverse bears the words,
TRIFRISCO, CAIAZZO, S.MARIA,S. ANGELO, GARIGLIANO, sur¬ mounted by
three Bourbon lilies. Around this inscription appear the words, CAM¬
PAGN A DI SETT. OTT. 1860 . The ribbon is red with a blue stripe in the
centre. CAMPAIGN OF EASTERN SICILY. Authorized in i860. It
bears on the obverse NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl.
XXVJ1I Two Sicilies Medal for Sicily, Ferdinand
II the effigy of Francis II facing to right, and the words
SICILIA OCCIDENT ALE/ APRILE E MAGGIO/1860. On the reverse, within
a wreath of laurel, the words AL V A LORE. This is bronze, and 27
mm. in diameter. A variant of this medal was issued without the
likeness of the king on the obverse. MEDAL FOR THE DEFENSE
OF CATANIA. The obverse bears the effigy of Francis II, a trophy of
arms, and the words CATANIA 31 MAGGIO 1860; the reverse, within a
wreath of laurel, the words AL V A LORE. MEDAL FOR
GAETA. Issued to the refugees who fled to Gaeta with the Royal
family in 1860-61 when Garibaldi entered Naples. The medal is silver, 36
mm., having on the obverse the jugated busts of the King and Queen
Maria Sophia of Bavaria and the words FRANCESCO II—MARIA SOFIA. The
reverse shows a view of the city of Gaeta, with GAETA 1860-1861 in
the exergue. A variation of this medal has NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl.Two Sicilies Medal for Gaeta,
Francis II on the reverse the fortress of Gaeta only,
with the same inscription in the exergue. After the Garibaldi
campaign of 1860- 1861 for the freedom of Sicily, and after the
Royal family had given up the Kingdom of Sicily, Francis II by a decree
dated March 12, 1861, authorized medals for all his soldiers who
took part in the second siege of Messina. It appears that dies were
made but only one medal is known to have been struck. That rests in
the famous Ricciardi collection in Naples. The writer is in¬ debted
to Sig. Guido de’Mayo’s article in the May-June 1922 issue of
Miscellanea Numismatica, which describes this medal. It is
silver, 35 mm., and bears on the obverse the jugated busts of the King
and Queen, facing to left (similar to the Gaeta Medal), and the
titles, FRANCESCO II— MARIA SOFIA. The reverse has a design of the
pentagonal fortress of Messina; in the corners of the pentagon are five
bombs, the flames of which rest on the wreath which surrounds the
fort. In the centre is the Bourbon fleur-de-lis. The exergue reads
CITTADELLA DI MESSINA. The ribbon is given as red with blue
stripes. MEDAL FOR SICILY. This is said to have been awarded
to those who took part in the uprising against Ferdinand II in
1848, in the movement for a United Italy, but the purpose of this
award cannot be verified from the several authorities consulted. It
was issued in silver and bronze, 30 mm., and suspended from a ribbon of
the Italian National colours—three equal stripes of green, white
and red. On the obverse is an allegorical figure of Sicily, armed with
a sword; at her feet is a shield with the Arms of Sicily, while in
the sky, a brilliant sun bears the Arms of Savoy. In the distance is
Mt. Aetna in eruption. The reverse has in the centre SICILIA/1848.
Around this is the inscription, INIZIO DEL RISORGIMBNTO
D’lTALIA. AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND
TUSCANY Tuscany, the ancient Etruria, lies south of the
Apennines. On the east it was bounded by the districts of Umbria and
the Marches, while to the south lay the section known in Classical
times as Latium, but which later, with the rise of the Church, was
usually known as the Papal States. None of these provinces had boundaries
that were fixed for any great length of time, and their
geographical history is very com¬ plicated. Between the ioth
and 16th Centuries, Tuscany was composed of several self- governed
communes or Republics, the most important of which were Lucca,
Pisa, Florence and Siena. The Medici family was a dominant factor
in the government for a long period. In 1735 the country came under
Austrian rule. Francis, Duke of Lorraine and afterwards Emperor of
Aus¬ tria (1708-1765), became Grand Duke of Tuscany. He succeeded
John Gaston, the last of his line, and thus the Duchy passed
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR from the control of the Medici and
into that of the Hapsburg family. This had been arranged by
treaty. The Hapsburgs continued in control until the entrance
of the French in 1799 under Napoleon I, though the battle of
Waterloo in 1815 brought back once more their rule in the domain.
Ferdinand III (1769-1824) was succeeded by his son, Leopold II, who
lost the Duchy of Tuscany when the constit¬ uent Assembly voted for its
inclusion in the Kingdom of Italy on August 16, i860. From that
time all the Orders of Tuscany have been discontinued. ORDER
OF SAINT STEPHEN. This Order was founded at Pisa in 1561 or 1562,
by Cosimo I de’ Medici, Duke of Florence, afterwards the first duke of
Tuscany, to commemorate his victory over the French at Siena. The
battle took place on St. Stephen’s day, August 2, 1554 (or August 6
accord¬ ing to some historians). The inhabitants of the city and
the troops under Henry II, after withstanding a siege of fifteen
months, finally capitulated. In 1567, Pope Pius V AND
MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS granted Cosimo the title of the
first Grand Duke of Tuscany. The Order was named in honour of
Stephen IX, Pope and martyr, once bishop of Florence, on whose
festival Cosimo de’ Medici gained his victory. It is said to have
been discontinued in 1565, but Elias Ashmole states that new
statutes were approved in 1590. He also lists it as one of the
Orders extant in 1715; though Hugh Clark informs us that the Order
was “revived in 1764 and put on a respectable footing.” Whatever
its status in the interval may have been, the Order was reorganized
in 1817 by Ferdinand III, Grand Duke of Tuscany (1769-1824), and
its regulations were altered by him at that time. The insignia is a
red-enamelled, gold- edged cross, similar to that of the Knights of
Malta. In the angles are golden fleurs- de-lis and above the cross is a
ducal crown of gold. The ribbon is bright red. ORDER OF SAINT
JOSEPH. Founded by Ferdinand III on March 19, 1807, when as Grand
Duke of Wurtzburg he was ad¬ mitted to the Confederation of the
Rhine. NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XXX Tuscany Order
of Saint Stephen Upon the downfall of the Napoleonic control
of Tuscany in 1814, Ferdinand restored the Order in Tuscany when he again
assumed control of the Duchy. The Order was for meritorious service
and was awarded to civilians, ecclesiastics and the military,
whether native or foreign. Generally the honour was confined to those of
the Roman Catholic faith. There are three classes: Grand Cross,
Commanders and Knights. The Decoration of the first class is
silver, a double-pointed, six-armed cross, with rays between the
arms. An oval medallion in the centre bears the figure of St.
Joseph; around this on the band, likewise of silver, is the motto
UBIQUE SI MI LIS (Everywhere the same), with a branch of laurel and
oak. In the lower centre of the band is the letter F. The cross of
the second class is gold, and similar to the star of the first
class, though smaller. It has white-enamelled arms, and the rays
and the medallion band are of red enamel. It is surmounted by a
gold crown and a suspension ring for the ribbon, which is bright red,
with a white stripe at each edge. The reverse medallion
NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. Tuscany
Order of Saint Joseph AND has in the centre
S.J.F .1807 (SanctoJosepho Ferdinando —Dedicated by Ferdinand to
Saint Joseph). The third class cross is smaller and worn with a narrower
ribbon. ORDER OF THE WHITE CROSS. Instituted by Grand Duke
Ferdinand III in 1814. This was a decoration solely for the
military faithful to him. It is sometimes called the “Cross of Loyalty.”
A MEDAL OF HONOUR was also founded in 1816 for those who had
distinguished themselves in the Duchy. No description of these two
insignia is obtainable from the several authorities consulted.
MILITARY MEDAL. Authorized in 1815 for distinguished service. It
was awarded only to junior officers and soldiers. This medal is
silver, bearing on the obverse a bust of the founder facing to right, and
the title FERDINANDO III.A.D.A.GRAND. DI TOSCANA. The reverse has in relief AI PRODI
E FED ELI TOSCANI 1815 . (To the brave and faithful Tuscans.) The ribbon is half red and
half white. LONG SERVICE MEDAL. Founded in 1816 and issued
to junior officers and sol¬ diers. It is bronze, 37 mm., and bears
on the obverse two crossed swords, with a shield bearing the letter
F superimposed. Above this device is a crown, and below is 1816,
the date of its creation. The reverse reads, in relief, AL LUNGO E FED
EL SERVIZIO. The ribbon is half red and half white.
MEDAL OF MILITARY MERIT. This was founded by Leopold II on May 19,
1841, and bears the effigy of the Duke and the words LEOPOLDO II
GRANDUCA DI TOSCANA. The reverse has in relief FI DELTA E V A LORE.
The ribbon is half red and half black. ORDER OF MILITARY
MERIT. In¬ stituted on December 19, 1853, by Leopold II. The
decoration is a five-armed white- enamelled cross of gold on a gold
laurel wreath, which is surmounted by a gold crown. The obverse
medallion is inscribed L II. surrounded by the words MERITO
AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS MILITARE. On the reverse medallion,
1853 records the date of its creation. The ribbon is of red and black in
equal stripes. MEDAL OF 1848 . Founded by Leopold II for the
war of Italian Independence. This was a service medal for his
troops taking part in that campaign. It is bronze- gilt, and bears
on the obverse the effigy of the Grand-duke and title LEOPOLDO II
GRANDUCA DI TOSCANA. On the re¬ verse within a laurel wreath is the
inscription GUERRA/DELLA/INDIPENDENZA / ITALIANA/18^8. The loop for
the ribbon is a wide bar-like affair, similar to that for many of
the Italian medals. The ribbon is blue, bordered with two red
stripes. MEDAL OF MERIT. Attributed by but one authority to
Ferdinand IV. Issued in five classes; gold, of 40 mm. and 30 mm.;
silver, of 49 mm. and 30 mm., and bronze, 45 mm. in diameter, according
to the impor¬ tance of the award. On the obverse is a bust of the
Grand-duke and FERDINANDO IV GRANDUCA DI TOSCANA. The re-
NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. Tuscany
Order of Military Merit, Leopold II verse bears the
inscription AL MER1T0 within a wreath. The ribbon is dark blue with
black stripes at the sides. LONG SERVICE MEDAL. Instituted by
Leopold II in December, 1850, for officers of the Army who had served at
least thirty years. It is 36 mm., a gilt Maltese cross, having in
the centre medallion of silver the head of Leopold II to left, encircled
by LEOPOLD II G. D. DI TO SC. On the reverse medallion is the word
ANZIANITA, with a crown above. No information concerning the ribbon
is obtainable. NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Plate Venice.
Defence of Venice Tuscany. Long Service Medal. At the time of Augustus, there
was no city of Venice, and Padua was the chief city of the district
which has since come to be known as Venetia. This district occupied
the Northeastern section of that country from the Alps on the North and
East to the Adriatic Sea, and to the River Po on the West. From the
Sixth and Seventh Cen¬ turies, after the foundation and the growth
of Venice, it developed a considerable com¬ merce with its island domains
and became a great maritime power. For many centuries an
independent Republic was maintained, governed by a Senate and a Doge,
elected by the people; his authority, however, was limited.
Constant wars with neighboring peoples and with the Turks did not
exhaust the wealth of Venice; and until the Eight¬ eenth Century
Venice wielded great in¬ fluence in European politics. The Republic
was unable to withstand the French army, however, and on October 17,
1797, was divided—one half of the territory going to
NUMISMATIC Austria and the other half to the Cisalpine Republic. The
Ionian Islands go to France. For years the Venetian Republic
maintains its independence, and exhibits a form of government which
commands universal admiration. GIUSTINIANO (si veda) states
that Leoni was the first Grand Master of the Ordine di San
Marco. He also lists a number of the Grand Masters from that date
to 1688, and gives several authorities. Other writers fix the date
of its origin as 828, when the remains of Saint Mark were taken
from Alexandria to Venice. No exact information is obtainable as to
the discontinuance of the Order, though Ashmole indicates its
existence in 1672, as does Clark in 1784. The insignia is a
gold chain to be worn around the neck. From this a gold medal¬ lion
is suspended. On the obverse is the Arms of Venice —the winged lion of
St. Mark, seated with a sword in the right paw, and with the
left paw resting on an open book, on which is the motto PAX TIBI
MARCE EVANGELISTA MEUS (Peace to thee, Mark, my Evangelist). The reverse
is believed to have been plain, although Ashmole asserts that it had the
name of the Doge then living as well as a portrait—if that is what
may be understood by his words “a particular impress.” This Order
was conferred by the Senate or by the Doge, and later was called
the Order of the Doge of Venice. On late forms, the insignia was
changed to a blue-enamelled cross, on the centre of which was a medallion
with the above described Arms. The reverse bore the effigy of the
reigning Doge, sometimes represented as on his knees receiving a
standard from the hands of St. Mark. All recipients of this Order had to
show records of noble birth and were known as the Knights of Saint
Mark. MEDAL FOR THE DEFENCE OF VENICE. This medal was issued
in 1849, during the second year of the short-lived Republic of Saint Mark —as
Venice was at that time called. It was of silver and bronze, 27
mm., bearing on the obverse the Arms of the Republic. Around this
are the words INDIPENDENZA ITALIAN A. On the reverse is the cross
of St. Maurice surrounded by VESSILLO DI VIT TORI A 18^8. The
ribbon is crimson with a narrow gold stripe at each side. (PI.
XXXIII.) MEDAL FOR BRAVERY. Also issued in 1849. It was of
silver and bronze, but 32 mm. in diameter. The obverse has the lion
of St. Mark and GOVERNO PROVISORIO. On the reverse, within an oak
wreath, are the words DI FEN SORE DI VENEZIA. The ribbon is red
with gold stripes at the sides. MEDAL FOR THE CIVIL
GUARD. Authorized. It was silver and bronze gilt, oval in form, 40
mm. by 34 mm. On the obverse appear two crossed flags and the words
GUARDI A Cl VIC A VENETA. The reverse reads VV/ VI TALIA. The
ribbon is yellow. OBSOLETE ORDERS The following Orders listed by the
several authorities consulted, as having been formed in Italy, have
long been discontinued. Order of the Golden Star of Venice, date not
given. Order of the Golden Stole, date not given. Order of the
Royal Crown of Mantua, was, according to Genouillac, created by
Prince Louis of Gonzaga (son of Witikind, King of Saxony), in honour of
his marriage with Adalgise of Lombardy, daughter of Gisulf, due de
Frioul. Order of the Eagle of Italy. Created February 15,941,
by Hugo II of Gonzaga, to perpetuate the memory of his marriage
with Princess Elizabeth of Gonzaga and Lombardy. New statutes were formed
for the Order in 968. Order of Holy Mary, Mother of
God. Founded in Italy in 1233. Its creation is attributed to
Bartholomew, Bishop of Vincenza. The purpose of its foundation was
to quell the discords which arose NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR between the Guelphs and the Ghibellines and also to defend
and support the Roman Catholic religion. It was approved by Pope
Martin IV, who placed the knights under the protection of St. Augustin.
It was called by some the “Order of the Brothers of the
Jubilation,” later the “Order of St. Mary of the Tower,” and the “Order
of the Chevaliers of the Mother of God.” Towards the end of the
Sixteenth Century the Order had entirely disappeared. Order
of the Black Swan of Italy, founded in 1350 by Amadeus VI and other
Italian Princes, for the purpose of preventing feuds, then so
prevalent. Order of St. George of Genoa. Founded by Frederick
III of Germany. It was to reward the Genoese for the reception he
received during his journey to Rome, where he received the Imperial
Crown. The Order was short-lived. The badge is a plain red cross
suspended from a gold chain. This Order is not to be confused with
the Order of St. George of Austria, founded by the Emperor
Frederick. and monographs Order of St. George of Ravenna.
Founded in 1534 by Alexander of Farnese (then Pope Paul III). Its
award was confined to those who defended the city and its vicinity
from the attack of the Moslems or Corsairs. On the death of its
founder it ceased to exist. Cappelletti says it was suppressed by
Gregory. The insignia was a red-enamelled star of eight points,
over which was a gold ducal crown. Order of the Lily. Founded in
1546 by Alexander of Farnese. Order of the Lamb of God of Tuscany.
Founded in 1568 by John III. Order of the Redeemer or of the
Precious Blood of our Saviour. Founded by Vincent Gonzaga, Duke of
Mantua. It was in honour of the marriage of his son Francis
with the Princess Marguerite, the daughter of Charles Emmanuel I, Duke
of Savoy. The Order survived about a century and lapsed in 1708 on
the death of Ferdinando Gonzaga, Duke of Mantua. An attempt was
made to revive it but without success. The insignia was an oval
medallion, in the centre of which were two angels in adoration.
Around this was the motto NIHIL HOC TRISTE RECEPTO. Order of
the Conception. Instituted on September 8, 1617, by Ferdinand 1 of
Gonzaga, Duke of Mantua, in honour of the conception of the Virgin and
placed under the protection of St. Michael the Archangel. Like many
other Orders founded about this time, the members swore allegiance to the
Church and agreed to fight against the infidels. Order of the
Virgin or the Order of the Virgin Mary the Glorious. Created in Italy
by three gentlemen of Spella, named Peter, John the Baptist, and Bernard,
surnamed Petrignani. The Order was approved by Pope Paul V in 1618,
and placed under the protection of the holy Virgin. The members agreed to
defend and uphold the Roman Catholic religion and make war on the
in¬ fidels. No record has been found of the discontinuance of the
order. Order of Saint Rosalie of Palermo. Founded by Alderon
de Carreto. Charles Albert was of the line of Savoy-Carignano which
was founded by Thomas Francis, son of Charles Emmanuel the Great.
Carignano, a town in the province of Turin, was in 1630 bestowed by
Charles Emmanuel I upon his son Thomas Francis, who was known as the
Prince of Carignano. The present reigning king of Italy is of this
house. Ency. Brit. At this Crescent was fastened as many' small
Pieces of Gold fashion’d like Columns and enamell’d with Red, as the
Knights had been engag’d in Battels and Sieges; for none could be adopted
into this Order unless he had well trod the Paths of Honour.”
Ashmole, E., Hist, of Order of the Garter. Ashmole. ‘‘It was approved and
confirmed by Pope Urban, and the Rule of St. Dominick prescribed to the
Knights.” Armani, E. Insegne Cavaileresche e
Meda- glie del Regno d'ltalia. Rome, Ashmole, Elias. The Institution, Laws and
Ceremonies of the Most Noble Order of the Garter. London.
Ashmole, Elias. The History of the Most Noble Order of the Garter.
London NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR Burke, Sir Bernard. The Book
of Orders of Knighthood and Decorations of Honor. London Cappelletti, Licurgo. Ordini Cavalle-
reschi. Livorno 1904. Cibrario, Luigi. Descrizione e Storica
degli Ordini Cavallereschi. 2 vols. Torino Clark, Hugh A. A Concise History
of Knighthood. London.
Cuomo, Raffaele. Ordini Cavallereschi antichi e moderni. 2 vols.
Naples 1894. Elvin, C. N.
Handbook of the Orders of Chivalry. London 1893. Favine,
Andrew. The Theatre of Honour and Knighthood. London.—Translated
from a French Edition of Genouillac, H. Gourdon de. Diction- naire historique
des ordres de Chevalerie. Paris. Genouillac, H. Gourdon de.
Nouveau Dictionnaire des ordres de Chevalerie. Paris Giorgio, Florindo
de. Dellc cerimonie Pubbliche della
onorificenze della nobilta e de'Titoli e degli Ordini Cavallereschi net
Regno delle Due Sicilie. Naples Giustinian, Bernardo. Historic degli Ordini militari, etc.
Venezia. AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND J. S. The History
of Monastical Conventions and Military Institutions, etc. London.
Lawrence-Archer, Major J. H. The Orders of Chivalry. London. Mennenii,
Francisci. Deliciae Eqyestrivm sive Militarivm Ordinvm et Eorundem
Origines, etc. Coloniae Agrippinae Perrot, A.-M. Collection J Historique
des Ordres de Chevalerie. Paris.
Puca, Antonio. Gli ordini cavallereschi del Regno dTtalia.
Naples. Ricciardi, Eduardo. Medaglie delle due Sicilie.
Naples 1910 and 1913. Ruo, Raffaele. Ordini Cavallereschi instituti
nel regno delle Due Sicilie. Naples. Saint Joachim. An accurate historical
account of all the Orders of Knighthood, by an Officer of the
Chancery of the Order of Saint Joachim. London 1802. (Said to be by Sir
L. Hamon). Sculfort, Lieut. V. Catalogue; Decorations et
Medailles du Musee de VArmee. Paris Trost, L. J. Die Ritter- und
Verdienst Or den, Ehrenziechen und Medaillen aller Sou- ver'dne und
Staaten. Wien et Leipzig 1910. NUMISMATIC NOTES MEDALS
OF HONOUR Lucca Civil Medal of Merit. 8
Military Service Medal. 8 St. George, Order of. 5
St. Louis, Order of. 6 Modena Cross for Service.
13 Eagle of Este, Order of. Fidelity Medal. Military Medal for
Loyalty.Military Medal of Merit. 13 Parma Constantine,
Order of. 16 Medal of Merit. 20 St. Louis, Order of.
San Marino Medal of Merit. 24 Order of Chivalry. 21
Sardinia, Savoy and Kingdom of Italy Africa, Medal for.
65 Boxer Uprising, Medal for (Medal for Far East).
66 China, Medal for (Medal for Far East). AND MONOGRAPHS Civil
Medal of Valour. Civil Order of Savoy. Colonial Order of the Star of
Italy. Crimean Medal. Crown of Merit. Crown of Italy, Order of.
Far East, Medal for. Industry, Order of. Italian Independence
Medal. 60 Italian Unity Medal. Liberation of
Sicily, Medal for. Life Saving Medal. Marsala Medal (Medal of the
Thousand). Medal of Merit. Medal of Merit (Battle of Vicenza).
Medal of Merit (Rome). Medal of Merit (“S.P.Q.R.”). Medal of the
Thousand. Military Cross for Service. Military Medal of Valour.
Most Sacred Annunciation, Order of. National Gratitude, Medal of. Naval
Medal of Valour. Public Safety, Medal of Merit. Royal Military Order of
Savoy. St. Maurice, Medal of. St. Maurice and St. Lazarus, Order of.
Star of the Thousand. NUMISMATIC NOT E S MEDALS OF
HONOUR Turkish War of 1911-1912. 68 United Italy,
Medal for. 62 Valour Medal. Veterans Guarding Tomb of the
Kings Medal. Victory Medal. War Cross of Italy. War in Lybia Medal.
War Orphans Medal. 7War Volunteers Medal. World War Medal. 72 See
also Obsolete Orders. 134 The Two Sicilies Campaign of
1860. 112 Civil Merit, Medal of. 108 Constantine, Order
of. Crescent, Order of the. Defence of Catania, Medal for the. Double Crescent
(Order of the Ship). Eastern Sicily, Campaign of. Ermine (Naples), Order of
the. 88 Francis I, Royal Order of. 105 Gaeta Medal.
Griffin (Naples), Order of the. Holy Spirit of the Right Desire (Order of
the Knot). 8 7 Knot (Naples), Order of. Lombardy, Medal of
Merit for. 96 AND MONOGRAPHS Long Service Medal. 109
Medal of Honour. 94 Medal of Honour Medal of Honour (Sicily).
Messina, Medal for. 108 Naples, Medal of Honour for. Provincial
Legion, Medal of Honour for the 99 Reel and Lioness, Order of.
87 St. Charles, Royal Military Order of. St. Ferdinand, Order of,
and Order of Merit. 93 St. George, Medal of. 104
St. George of the Reunion, Royal Military Order of. St.
Januarius, Order of. St. Michael
(Naples), Order of. 89 Security Guard Medal. Ship, Order of the.
Sicily, Medal for (Ferd. II.). no Sicily, Medal for (Nationalist). Siege
of Gaeta, Medal of Honour for the. . 97 Siege of Messina, Medal for
the. Siena, Medal of Merit for. 96 Spur, Order of the. Two
Sicilies, Royal Order of the. 98 Tuscany Long Service
Medal. ^5 Long Service Medal (Leopold II). NUMISMATIC NOTES
Medal of 1848. 126 Medal of Merit. 126 Military Medal.
Military Merit, Medal of. 125 Military Merit, Order of. 125
St. Joseph, Order of. 120 St. Stephen, Order of. White Cross,
Order of the (Cross of Loyalty). See also Obsolete Orders.
Venice Bravery, Medal for. 133 Civil Guard, Medal for
the. 133 Defence of Venice of 1848, Medal for the. . 132 St.
Mark, Order of. 131 Obsolete Orders Black Swan of
Italy, Order of the. 135 Conception, Order of the. 137
Eagle of Italy, Order of the. 134 Golden Star of Venice,
Order of the. 134 Golden Stole, Order of the. Holy Mary, Mother of
God, Order of the. . 134 Lamb of God of Tuscany, Order of the. Lily,
Order of. 136 Precious Blood of Our Saviour (See Order
of the Redeemer). 13b Redeemer, Order of the. AND MONOGRAPHS
146 ITALIAN ORDERS Royal Crown of Mantua, Order of
the. St. George of Genoa, Order of. St. George of Ravenna, Order of.
136 St. Rosalie of Palermo, Order of. 137 Virgin, Order
of the. NUMISMATIC NOTES Numismatic Notes and Monographs Noe. Coin
Hoards. plates. Newell. Octobols of Histiaea, plates. Newell. Alexander
Hoards Introduction and Kyparissia Hoard. 1921. 21 pages. 2
plates. 50c. 4. Howland Wood. The Revolutionary Coinage plates. Westervelt.
The Jenny Lind Medals and Tokens. plates. Baldwin. Five Roman Gold
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Weinman. plates. Gilbert S. Perez. The Mint of the Philippine Islands. pages. 4
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Jetons. plates. Newell. The First Seleucid Coinage of Tyre.
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Harrold E. Gillingham. French Orders and Decorations. 1922. no
pages. 35 plates. $2.00. 12. Howland Wood. Gold Dollars plates.
Whitehead. Pre-Mohammedan Coinage of N. W. India. plates.
$2.00. 14. George F. Hill. Attambelos I of Characene.
1922. 12 pages. 3 plates. Vlasto. Taras Oikistes (A Con¬
tribution to Tarentine Numismatics). 1922. 234 pages. 13 plates.
$3.50. 16. Howland Wood. Commemorative Coin¬ age of
United States. 1922. 63
pages. 7 plates. $1.50. 17. Agnes Baldwin. Six Roman
Bronze Medallions. 1923. 39 pages. 6 plates. $1.50. 18.
Howland Wood. Tegucigalpa Coinage plates. Newell. Alexander Hoards—
II. Demanhur Hoard. 1923.
162 pages. 8 plates. $2.50. Egidio Romano. Egidio Colonna. Colonna.
Keywords: conversazione cortese, conversazione gentile, padre/figlio, amore
naturale, principe, cavalleria, cavaliere, cavalier attitude, cavalier
implicature. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Colonna” – The Swimming-Pool Library. Colonna.
Grice e Colonnello: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della voce di Boezio – vox significativa – voce che e segno –
parola usata metaforicamente – nome, voce che e segno – significativa – scuola
di Benevento – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Benevento). Filosofo campanese. Filosofo italiano. Benevento,
Campania. Grice: “I like Colonnello; as a typical Italian philosopher, he has
philosophised about ‘all,’ from, first, of course, Croce, to the ‘tedesci’! –
But also about ‘guilt,’ and my favourite, the ‘transcendentale,’ which in
Italian, for lack of ‘n’ becomes ‘trascendentale’ – how many? Colonnello thinks
more than one, if the plural is of any guide!”
Insegna a Callabria. Privilegia l'arco
tra criticismo trascendentale e fenomenologia, esistenza, ermeneutica di
Pareyson, storicismo di Croce, Nicol, Dussel. La sua proposta è verificare
l'interazione, in chiave storico-critica, del kantismo, della fenomenologia e
la filosofia dell'esistenza. Altre
opere: “Esistenzialismo kantiano” (Studio Editoriale di Cultura, Genova);
“Croce e i vociani” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Tempo e necessità”
(Japadre, L'Aquila-Roma); “Tra fenomenologia e filosofia dell'esistenza”
(Morano, Napoli); “Ermeneutica esistenzialista del concetto di ‘colpa”
(Loffredo, Napoli); “Percorsi di confine: esistenza e libertà” (Luciano,
Napoli); Croce (Bibliopolis, Napoli); “Ragione e rivelazione” (Borla, Roma);
“Melanconia ed esistenza” (Luciano, Napoli); “Storia esistenza liberta. Rileggendo
Croce, Armando, Roma); Martin Heidegger
e Hannah Arendt, Guida, Napoli); “Orizzonte del trascendente e dell’immanente,
Mimesis, Milano); “Inter-soggettivita riflessiva” L’itinerario dei corpi”
(Mimesis, Milano). Corpo, mondo, Fenomenologia (Mimesis, Milano); Fenomenologia
e patografia del ricordo, Mimesis, Milano Udine). Primum oportet
constituere, quid nomen et quid verbum, postea quid est negatio et adfirmatio
et enuntiatio et oratio. sunt ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in
anima passionum NOTAE et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce. et
quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. quorum autem
haec primorum NOTAE, eaedem omnibus passiones animae et quorum hae
similitudines, res etiam eaedem.de his quidem dictum est in his quae sunt dicta
de anima, alterius est enim negotii. est autem, quemadmodum in anima
aliquotiens quidem intellectus sine vero vel falso, aliquotiens autem cui iam
necesse est horum alterum inesse, sic etiam in voce; circa conpositionem enim
et divisionem est falsitas veritasque. Nomina igitur ipsa et.verba consimilia
sunt sine conpositione vel divisione intellectui, ut homo vel album, quando non
additur aliquid; neque Titulus ex nisi quod de gr. in lat.
om. hic, hahet in suhscriptione. enim adhuc verum aut falsum est. huius autem
SIGNUM hoc est: hircocervus enim significat aliquid, sed nondum verum vel
falsum, si non vel esse vel non esse addatur, vel simpliciter vel secundum
tempus. Nomen ergo est vox significativa secundum placitum sine tempore, cuius
nulla pars est significativa separata. in nomine enim quod est equiferus ferus
nihil per se significat, quemadmodum in oratione quae est equus ferus. at vero
non quemadmodum in simplicibus nominibus, sic se habet etiam in conpositis. in
illis enim nullo modo pars significativa est, in his autem vult quidem, sed
nullius separati, ut in equiferus ferus. secundum placitum vero, quoniam
naturaliter nominum nihil est, sed quando fit nota. nam designant et iuhtterati
soni, ut ferarum quorum nihil est nomen. Non homo vero non est nomen. at vero
nec positum est nomen, quo illud oporteat appellari. neque enim oratio aut
negation est, sed sit nomen infinitum. Catonis autem vel Catoni et quaecumque
talia sunt non sunt nomina, sed casus nominis. ratio autem eius est in aliis quidem
eadem, sed diifert quoniam cum est vel fut vel erit iunctum neque verum neque
falsum est, nomen vero semper; ut Catonis est vel non est, nondum enim neque
verum dicit neque mentitur. Verbum autem est quod consignificat tempus cuius
pars nihil extra significat, et est semper eorum quae de altero dicuntur nota.
dico autem quoniam consignificat tempus, ut cursus quidem nomen est currit vero
verbum, consignificat enim nunc esse. et semper eorum quae de altero dicuntur
nota est, ut eorum quae de subiecto vel in subiecto. Non currit vero et non
laborat non verbum dico. consignificat quidem tempus et semper de aliquo est,
differentiae autem huic nomen non est positum; sed sit in finitum verbu,
quoniam similiter in quolibet c.est, vel quod est vel quod non est. similiter
autem vel curret vel currebat non verbum est, sed casus verbi. differt autem a
verbo, quod hoc quidem praesens consignificat tempus, illa vero quod
conplectitur. Ipsa quidem secundum
se dicta verba nomina sunt et significant aliquid. constituit enim qui dicit
intellectum et qui audit quiescit. sed si est vel non est, nondum
significat; neque enim esse signum est rei vel non esse, nec si hoc ipsum
est purum dixeris. ipsum quidem nihil est, consignificat autem quandam
conpositionem, quam sine conpositis non est intelleger. Oratio autem est vox
significativa; cuius partium aliquid significativum est separatum, ut dictio,
non ut adfirmatio. dico autem, ut homo significat aliquid, sed non quoniam est
aut non est, sed erit adfirmatio vel negatio, si quid addatur. sed non una
hominis syllaba. nec in eo quod est sorex rex significat, sed vox est nunc
sola. in duplicibus vero significat quidem, sed non secundum se, quemadmodum
dictum est. Est autem oratio omnis quidem significativa non sicut instrumentum,
sed, quemadmodum dictum est, secundum placitum. enuntiativa vero non omnis, sed
in qua verum vel falsum inest. non autem in omnibus, ut deprecatio oratio
quidem est, sed neque vera neque falsa.et ceterae quidem relinquantur;
rhetoricae enim vel poeticae convenientior consideratio est; enuntiativa vero
praesentis est speculationis. Est autem una prima oratio enuntiativa
adfirmatio, deinde negatio; aliae veroconiunctione unae. necesse est autem
omnem orationem enuntiativam ex verbo esse vel casu. etenim hominis ratio, si
non aut est aut erit aut fuit aut aliquid huiusmodi addatur, nondum est oratio
enuntiativa. quare autem unum quiddam est et non multa animal gressibile bipes
neque enim eo quod propinquedicunt ur ununi erit, est alterius hotractare
negotii. est autem una c. oratio enuntiativa quae unum significat vel
coniunctione una, plures autem quae plura et non unum vel inconiunctae. nomen
ergo et verbum dictio sit sola, quoniam non est dicere sic aliquid
significantem voce enuntiare, vel aliquo interrogante vel non, sed ipsum
proferentem. harum autem haec quidem simplex est enuntiatio, ut aliquid de
aliquo vel aliquid ab aliquo, haec autem ex his coniuncta velut oratio quaedam
iam conposita. est autem simplex enuntiatio vox significativa de eo quod est
aliquid vel non est, quemadmodum tempora divisa sunt. Adfirmatio vero est
enuntiatio alicuiusde aliquo, negatio vero enuntiatio alicuius ab aliquo.
quoniam autem est enuntiare et quod est non esse et quod non est esse et quod
est esse et quod non est non esse et circa ea quae sunt extra praesens tempora
similiter omne contingit quod quis adfirmaverit negare et quod quis negaverit
adfirmare: quare manifestum est, quoniam omni adfirmationi est negatio opposita
et omni negationi adfirmatio. et sit hoc contradictio, adfirmatio et negatio
oppositae. dico autem opponi eiusdem de eodem, non autem aequivoce et
quaecumque cetera talium determinamus contra sophisticas inportunitates.
Quoniam autem sunt haec quidem rerum universalia, illa vero singillatim; dico
autem universale quod in pluribus natum est praedicari, singulare vero quod
non, ut homo quidem universale, Plato vero eorum quae suntsingularia: necesse
est autem enuntiare quoniam ines aliquid aut non aliquotiens quidemeorum
alicui quae sunt universalia, aliquotiens autem eorum quae sunt singularia. si
ergo universaliter enuntiet in universali quoniam est aut non, erunt contrariae
enuntiationes. dico autem in universali enuntiationem universalem, ut omnis
homo albus est, nullus homo albus est. quando autem in universalibus non
universaliter, non sunt contrariae, quae autem significantur est esse
contraria. dico autem non universaliter enuntiare in his quae sunt universalia,
ut est albus homo non est albus homo. cum enim universale sit homo, non
universaliter utitur enuntiatione. omnis namque non universale, sed quoniam
universaliter consignificat. in eo vero, quod praedicatur universale,
universale praedicare universaliter non est verum; nulla enim adfirmatio erit
in qua de universali praedicato universale praedicetur, ut omnis homo omne
animal est. opponi autem adfirmationem negationi dico contradictorie, quae
universale significat eidem, quoniam non universaliter, ut omnis homo albus
est, non omnis homo albus est nullus homo albus est, est quidam homo albus; contrarie
vero universalem adfirmationem et universal negationem, ut omnis homo iustus
est, nullus homo iustus est. quocirca has quidem inpossible est simul veras
essehis vero oppositas contingit in eodem, ut non omnis homo albus est est
quidam homo albus. quaecumque igitur contradictiones universalium sunt
universaliter, necesse est alteram veram esse vel falsam et quaecumque in
singularibus sunt ut est Socrates albus, non est Socrates albus; quaecumque
autem in universalibus non universaliter, non semper haec vera est, illa vero
falsa. simul enim verum est dicere quoniam est homo albus et non est homo
albus, et est homo pulcher (probus) et non est homo pulcher (probus). si enim
foedus (turpis, et non pulcher (probus); etfit aliquid, et non est. videbitur
autem subito inconveniens esse idcirco quoniam videtur significare non est homo
albus simul etiam quoniam ut om. esfet est © (xat habent Arist. codices praeter
duos) pro v.aX6q et cctaxQos in editione prima posuit pulcher et foedus, in
editione secunda probus et turpis jiemo homo albus. hoc autem neque idem
significat neque simul necessario. Manifestum est autem quoniam una negatio
unius adfirmationis est; hoc enim idem oportet negare negationem, quod
adfirmavit adfirmatio, et de eodem, vel de aliquo singularium vel de aliquo
universalium, vel universaliter vel non universaliter. dico autem ut est
Socrates albus, non est Socrates albus. si autem aliud aliquid vel de alio
idem, non opposita, sed erit ab ea diversa. huic vero quae est omnis homo
albus est illa quae est non omnis homo albus est, illi vero quae est aliqui
homo albus est illa quae est nullus homo albus est, illi autem quae est est
homo albus illa quae est non est homo albus. Quoniam ergo uni negationi
una adfirmati opposita est contradictorie et quae sint hae dictum est et
quoniam aliae sunt contrariæ et quae sint hæ et quoniam non omnis vera vel
falsa contradictio et quare et quando vera vel falsa. Una autem est ADFIRMATIO et
negatio quæ unum de uno SIGNIFICAT vel cum sit universale universaliter vel non
similiter, ut ‘OMNIS HOMO ALBVS EST’ – Grice: (x) all --, ‘NON EST OMNIS HOMO
ALBVS,’ ‘EST HOMO ALBVS,’ ‘NON EST HOMO ALBVS’, ‘NVLLVS HOMO ALBVS EST, ‘EST
QUIDAM HOMO ALBVS’ – Grice : Ex: some (at least one) --, si album (‘shaggy’)
unum SIGNIFICAT. sin vero duobus unum Vel—singularium om. postremum vel om. T
aliquis MT est homo albus ed. II. Ar.: h. a. est codices (hæ) Mc locus in
paucis admodum codicibus exstat; habent lianc falsam versionem ex BOEZIO
expositione natam: Manifestum ergo quoniam una negatio uuius affirmationis est.
quoniam aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae et quae sint hae dictum
est. duplicem versioncm et superiorem veram et lianc falsamexhibent solam veram
D, falsam omisso initio: Manifestum — aff. est. E, veram in marg. Xsint edictum
et om. BE uel quoniam uel quando E est homp a. non est h. a. om. nomen est
positum, ex quibus non est unum, non est una adfirmatio, ut si quis ponat nomen
tunica homini et equo, est tunica alba haec non est una adfirmatio nec negatio
una. nihil enim hoc differt dicere quam est equus et homo albus. hoc autem
nihil differt quam dicere est equus albus et est homo albus. si ergo hae
multa significant et sunt phires, manifestum est quoniam et prima multa vel
nihil significat; neque enim est aliquis homo equus. quare nec in his necesse
est hanc quidem contradictionem veram esse, illam vero falsam. In his ergo quae
sunt et facta sunt necesse est adfirmationem vel negationem veram vel falsam
esse, in universalibus quidem universaliter semper hanc quidem veram, illam
vero falsam, et in his quae sunt singularia, quemadmodum dictum est; in his
vero, quae in universalibus non universaliter dicuntur, non est necesse; dictum
autem est et de his. in singularibus vero et futuris non similiter. nam si
omnis adfirmatio vel negatio vera vel falsa est, et omne necesse est vel esse vel
non esse. nam si hic quidem dicat futurum aliquid, ille vero non dicat hoc idem
ipsum, manifestum estquoniam necesse est verum dicere alterum ipsorum, si omnis
adfirmatio vera vel falsa. utraque enim non erunt simul in talibus. nam si
verum est dicere quoniam album vel non album est, necesse est esse album vel
non album, et si est album vel non album verum est vel adfirmare vel negare; et
si non est, mentitur, et si mentitur, non est. quare necesse est aut
adfirmationem aut negationem veram esse. nihil igitur neque est neque fit nec a
casu nec utrumlibet nec erit nec non erit, sed ex necessitate nomen
quod(quod est M) affirm. una una neg. differre et om. E dicere equus est MT est
autem MT6 veram esse vel falsam D Ar. omnia et non utrumlibet. aut enim qui
dicit verus est aut qui negat. similiter enim vel fieret vel non fieret;
utrumlibet enim nibii magis sic vel non sic se habet aut habebit. amplius si
est album nunc, verum erat dicere primo quoniam erit album, quare semper verum
fuit dicere quodlibet eorum quae facta sunt, quoniam erit. quod si semper verum
est dicere quoniam est vel erit, non potest hoc non esse nec non futurum esse.
quod autem non potest non fieri, inpossibile est non fieri; quod autem
inpossibile est non fieri, necesse est fieri. omnia ergo qua futura sunt
necesse est fieri. niliil igitur utrumlibet neque a casu erit; nam sia casu,
non ex necessitate. at vero nec quoniam neutrum verum est contingit dicere ut
quoniam neque erit neque non erit. primum enim cusit adfirmatio falsa, erit negatio
non vera et haec cum sit falsa, contingit adfirmationem esse non veram. ad haec
si verum est dicere quoniam album est et magnum, oportet utraque esse; sin vero
erit cras esse cras; si autem neque erit neque non erit cras, non erit
utrumlibe, ut navale bellum; oportebit enim neque fieri navale bellum neque non
fieri navale bellum. Quae ergo contingunt inconvenientia haec sunt et
huiusmodi alia, si omnis adfirmationis et negationis vel in his quae in
universalibus dicuntur universaliter vel in his quae sunt singularia necesse
est oppositarum hanc esse veram, illam vero falsam, nihil autem utrumlibet esse
in his quae fiunt, sed omnia esse vel fieri ex necessitate. quare non oportebit
neque consiliari neque negotiari, quoniam si hoc facimus, erit hoc, si veroho,
non erit.nihil enim prohibet in millensimum annum hunc quidem dicere hoc et
quod hnp. 1et cum liaec oportet esse cras ut est oportet E aHa om. affirmatio
et negatio oppositarumj oppositionem eorum quidem futurum esse hunc vero non
dicere. quare ex necessitate erit quodlibet eorum verum erat dicere tunc. at
vero nec hoc differt, si aliqui dixerunt contradictionem vel non dixerunt;
manifestum est enim, quod sic se habent res, et si non hic quidem adfirmaverit,
ille vero negaverit; non enim propter negare vel adfirmare erit vel non erit
nec in millensimum annum magis quam in quantolibet tempore. quare si in omni
tempore sic se habebat, ut unum vere diceretur, necesse esset hoc fieri et
unumquodque eorum quae fiunt sic se haberet, ut ex necessitate fieret. quando
enim vere dicit quis, quoniam erit, non potest non fieri et quod factum est
verum erat dicer semper, quoniam erit. Quod si haec non sunt possibilia:
videmus enim esse principium futurorum et ab eo quod consiliamur atque agimus
aliquid et quoniam est omnino in his quae non semper actu sunt esse possibile
et non, in quibus utrumque contingit et esse et non esse, quare et fieri
et non fier. et multa nobis manifesta sunt sic se habentia, ut quoniam hanc
vestem possibile est incidi et non incidetur, sed prius exteretur. similiter
autem et non incidi possibile est. non enim esset eam prius exteri, nisi esset
possibile non incidi. quare et in ahis facturis, quaecumque secundum potentiam
dicuntur huiusmodi: manifestum est, quoniam non omnia ex necessitate vel sunt
vel fiunt, sed alia quidem utrumlibet et non magis vel adfirmatio vel negatio,
alia quare quod quare quoniam praedicere habeat habeanfc E et si non ego:
etiamsi non b: uel si (om. non) codices neg. ille vero aff. G alt. in om. E
habeatest erat habere et in quibus sese ©Tincidetur — exteretur b: inciditur —
exteritur codices facturisque {om.cumque futuris quaecumque negatio uera est
Tvero magis quidem et in pluribus alterum, sed contingitfieri et alterum,
alterum vero minime. Igitur esse quod est, quand es, et non esse quod non est,
quando non est, necesse est; sed non quod est omne necesse est esse nec quod
non est necesse est non esse. non enim idem est omne quod est esse necessario,
quando est, et simpliciter esse ex necessitate. similiter autem et in eo quod
non est.et in contradictione eadem ratio. Esse quidem vel non esse omne necesse
est et futurum esse vel non; non tamen dividentem dicere alterum necessario.
dico autem ut necesse est quidem futurum esse bellum navale cras vel non esse
futurum, sed non futurum esse cras bellum navale necesse est vei non futurum
esse futurum autem esse vel non esse necesse est. quare quoniam similiter
orationes verae sunt quemadmodum et res, manifestum est quoniam quaecumque sic
se babent, ut utrumlibet sint et contraria ipsorum contingent necesse est
similiter se habere et contradictionem. quod contingit in his, quae non semper
sunt et non semper non sunt. borum enim necesse est quidem alteram partem
contradictionis veram esse vel falsam, non tamen hoc aut illud, sed utrumlibet
et magis quidem veram alteram, non tamen iam veram vel falsam. quare manifestum
est, quoniam non est necesse omnis adfirmationis vel negationis oppositarum
banc quidem veram, illam vero falsam esse. neque enim quemadmodum in bis quae
sunt, sic se habet etiam in his quae non sunt, possibilibus tamen esse aut non
esse, sed quemadmodum dictum est. Quoniam autem est de aliquo adfirmatio
signifi- ut add. b: om. codices necesse est post cras MT futurum quidem eorum A
omnes adfirmationes uel negationes codices et b (Arist.) oppositionum esse post
quidem illam autem hic ficans aliquid, hoc autem est vel nomen vel in nomine,
unum autem oportet esse et de uno hoc quod est in adfirmatione (nomen autem
dictum est et in nomine prius; non homo enim nomen quidem non dico, sed
infinitum nomen; unum enim quodammodo significat infinitum, quemadmodum et non
currit non verbum, sed infinitum verbum), erit omnis adfirmatio vel ex nomine
et verbo vel ex infinito nomine et verbo. praeter verbum autem nulla adfirmatio
vel negatio. est enim vel erit vel fuit vel fit, vel quaecumque alia huiusmodi,
verba ex his sunt quae sunt posita; consignificant enim tempus. quare prima
adfirmatio et negatio est homo, non est homo, deinde est non homo,
non est non homo; rursus est omnis homo, non est omnis homo; est omnis non
homo, non est omnis non homo. et in extrinsecus temporibus eadem ratio est.
quando autem est tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur
oppositiones. dico autem ut est iustus homo; est tertium dico adiacere nomen
vel verbum in adfirmatione. quare idcirco quattuor istae erunt, quarum duae
quidem ad adfirmationem et negationem sese habebunt secundum consequentiam ut
privationes, duae vero minime. dico autem quoniam est aut iusto adiacebit
aut non iusto, quare etiam negatio. quattuor ergo erunt. intellegimus vero quod
diciturex his quae subscripta sunt. est iustus homo, huius negatio non est
iustus homo; est non iustus homo, huius negatio non est non iustus homo. est
enim hoe loco et non est iusto et non iusto adiacet. haec igitur, quemadmodum
in resolutoriis dictum est, sic sunt innomine ego ex ed. II: in nominat Qm vel
innominabile codices item quodammodo significat et (ut add. S) non uerbum est
inf. nom. et uerbo erit MTES vel fit om.cons.—tempus om.consignificat T) ergo
erunt] enim sunt huius disposita. similiter autem se habet et si universalis
nominis sit adfirmatio, ut omnis est homo iustus, non omnis est homo iustus;
omnis est homo non iustus, non omnis est homo non iustus. sed non similiter
angulares contingit veras esse.contingit autem aliquando hae igitur duae
oppositae sunt, aliae autem ad non homo ut subiectum aliquid addito, ut est
iustus non homo, non est iustus non homo; est non iustus non homo, non est non
iustus non homo. magis plures autem his non erunt oppositiones. hae autem extra
illas ipsae secundum se erunt ut nomine utentes non homo. in his vero in quibus
est non convenit, ut in eo quod est currere vel ambulare, idem faciunt sic
posita ac si est adderetur, ut est currit omnis homo, non currit omnis homo;
currit omnis non homo, non currit omnis non homo. Non enim dicendum est non
omnis homo sed non negationem ad homo addendum est. omnis enim non universale
significat, sed quoniam universaliter. manifestum est autem ex eo quod est
currit homo, non currit homo; currit non homo non currit non homo.
haec enim ab illis difiPerunt eo quod non universaliter sunt. quare omnis vel
nullus nihil aliud consignificat nisi quoniam universaliter de nomine
veladfirmat vel negat. ergo cetera eadem oportet adponi. Quoniam vero contraria
est negatio ei quae est omne est animal iustum illa quae significat
quoniam nullum est animal iustum, hae quidem manifestum est quoniam
numquam erunt neque verae simul neque in eodem ipso, his vero oppositae erunt
aliquando ut non omne animal iustum est et est aliquod animal affirmatio
sithaec ac uero non om. non ullus T ergo et opponi apponi E ut E, om. ceteri et
om. quoddam et est iustum om.B c. iustum. sequuntur vero hae: lianc quidem quae
est nullus est homo iustus illa quae est omnis est homo non iustus illam vero
quae est est aliqui iustus homo opposita quoniam non omnis est homo non iustus.
necesse est enim esse aliquem. manifestum est autem, quoniam etiam in
singularibus, si est verum interrogatum negare quoniam et adfirmare verum
est, ut putasne Socrates sapiens est? non; quoniam Socrates igitur non sapiens
est. in universalibus vero non est vera quae similiter dicitur, vera autem
negatio, ut lO putasne omnis homo sapiens? non. omnis igitur homo non sapiens.
hoc enim falsum est. sed non omnis igitur homo sapiens vera est; haec autem est
opposita, illa vero contraria. Πρῶτον δεῖ θέσθαι τί ὄνομακαὶ τί ῥῆμα, ἔπειτα τί ἐστιν ἀπόφασιςκαὶ κατάφασις καὶ ἀπόφανσις καὶ λόγος. Primum oportet constituere quid sit NOMEN et quid
verbum, postea quid est negatio et ADFIRMATIO et ENVNITIATIO et ORATIO. First we must define the
terms 'NOMEN' and 'VERBVM, then the terms 'NEGATIO' and 'AD-FIRMATIO', then ‘ENVNTIATIO'
and 'ORATIO'. Ἔστι μὲν οὖν τὰ ἐν τῇ φωνῇ τῶν ἐν τῇ ψυχῇ παθημάτων σύμβολα, καὶ τὰ γραφόμενα τῶν ἐν τῇ φωνῇ καὶ ὥσπερ οὐδὲ γράμματα πᾶσι τὰ αὐτά, οὐδὲ φωναὶ αἱ αὐταί• ὧν μέντοι ταῦτα σημεῖα πρώτων, ταὐτὰ πᾶσι παθήματα τῆς ψυχῆς, καὶ ὧν ταῦτα ὁμοιώματα πράγματα ἤδη ταὐτά. Sunt ergo ea quæ sunt in voce earum quæ sunt in anima PASSIONVM NOTÆ,
et ea quæ scribuntur eorum quæ sunt in voce. Et quem admodum nec litteræ
omnibus eædem, sic nec eædem voces. Quorum autem hae primorum notæ, eædem
omnibus PASSIONES ANIMÆ sunt, et quorum hæ SIMILITVDINES, res etiam eædem. A spoken
word is the SYMBOL of a mental experience and a written word is the symbol of a
spoken word. Just as all men have NOT the same writing, so all men have NOT the
same speech sounds. The mental experiences, however, which these directly
symbolize, are THE SAME for all, as also are those THINGS (res – Locke, way of
things) of which our experience is the image. περὶ μὲν οὖν τούτων εἴρηται ἐν τοῖς περὶ ψυχῆς, ἄλλης γὰρ πραγματείας De his quidemdictum est in
his quæ sunt dicta de anima -- alterius est enim negotii. This matter has,
however, been discussed in the essay about the soul, for it belongs to an
investigation distinct from that which lies before us. ἔστι δέ, ὥσπερ ἐν τῇ ψυχῇ ↵ ὁτὲ μὲν νόημα ἄνευ τοῦ ἀληθεύειν ἢ ψεύδεσθαι ὁτὲ δὲ ἤδη ᾧ ἀνάγκη τούτων ὑπάρχειν θάτερον, οὕτω καὶ ἐν τῇ φωνῇ περὶ γὰρ σύνθεσιν καὶ διαίρεσίν ἐστι τὸ ψεῦδός τε καὶ τὸ ἀληθές. Est autem, quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus sine
vero vel falso, aliquotiens autem cum iam necesse est horum alterum inesse, sic
etiam in voce; circa compositionem enim et divisionem est falsitas
veritasque.As there are in the mind thoughts which do not involve truth or
falsity, and also those which must be either true or false, so it is in speech.
For truth and falsity imply combination and separation. τὰ μὲν οὖν ὀνόματα αὐτὰ καὶ τὰ ῥήματα ἔοικε τῷ ἄνευ συνθέσεως καὶ διαιρέσεως νοήματι, οἷον τὸ ἄνθρω↵πος ἢ λευκόν, ὅταν μὴ προστεθῇ τι• οὔτε γὰρ ψεῦδος οὔτε ἀληθές πω. σημεῖον δ’ ἐστὶ τοῦδε• καὶ γὰρ ὁ τραγέλαφοςσημαίνει μέν τι, οὔπω δὲ ἀληθὲς ἢ ψεῦδος, ἐὰν μὴ τὸ εἶναι ἢ μὴ εἶναι προστεθῇ ἢ ἁπλῶς ἢ κατὰ χρόνον.Nomina igitur ipsa et verba consimilia sunt sine compositione vel
divisione ↵intellectui, ut
'homo' vel 'album', quando non additur aliquid; neque enim adhuc verum aut
falsum est. Huius autem signum: 'hircocervus' enim significat aliquid sed
nondum verum vel falsum, si non vel 'esse' vel 'non esse' addatur vel
simpliciter vel secundum tempus.Nouns and verbs, provided nothing is added, are
like thoughts without combination or separation; 'man' and 'white', as isolated
terms, are not yet either true or false. In proof of this, consider the word
'goat-stag.' It has significance, but there is no truth or falsity about it,
unless 'is' or 'is not' is added, either in the present or in some other tense.
Ὄνομα μὲν οὖν ἐστὶ φωνὴ σημαντικὴ κατὰ συνθήκην ↵ ἄνευ χρόνου, ἧς μηδὲν μέρος ἐστὶ σημαντικὸν κεχωρι- σμένον• ἐν γὰρ τῷ Κάλλιππος τὸ ιππος οὐδὲν καθ’ αὑτὸ σημαίνει, ὥσπερ ἐν τῷ λόγῳ τῷ καλὸς ἵππος .Nomen ergo est vox significativa secundum placitum ↵sine tempore, cuius nulla
pars est significativa separata; in 'equiferus' enim 'ferus' nihil per se
significat, quemadmodum in oratione quae est 'equus ferus'.Chapter 2 By a noun
we mean a sound significant by convention, which has no reference to time, and
of which no part is significant apart from the rest. In the noun 'Fairsteed,'
the part 'steed' has no significance in and by itself, as in the phrase 'fair
steed.' οὐ μὴν οὐδ’ ὥσπερ ἐν τοῖς ἁπλοῖς ὀνόμασιν, οὕτως ἔχει καὶ ἐν τοῖς πεπλεγμένοις• ἐν ἐκείνοις μὲν γὰρ οὐδαμῶς τὸ μέρος ση↵μαντικόν, ἐν δὲ τούτοις βούλεται μέν, ἀλλ’ οὐδενὸς κεχωρισμένον, οἷον ἐν τῷ ἐπακτροκέλης τὸ κελης.At vero nonquemadmodum in simplicibus nominibus, sic se habet et in
compositis; in illis enim nullo modo pars significativa est↵, in his autem vult quidem
sed nullius separati, ut in 'EQVIFERVS' <'FERVS'>.Yet there is a
difference between simple and composite nouns; for in the former the part is in
no way significant, in the latter it contributes to the meaning of the whole,
although it has not an independent meaning. Thus in the word 'pirate-boat' the
word 'boat' has no meaning except as part of the whole word. ↵τὸ δὲ κατὰ συνθήκην, ὅτι φύσει τῶν ὀνομάτων οὐδέν ἐστιν, ἀλλ’ ὅταν γένηται σύμβολον• ἐπεὶ δηλοῦσί γέ τι καὶ οἱ ἀγράμ- ματοι ψόφοι, οἷον θηρίων, ὧν οὐδέν ἐστιν ὄνομα."Secundum
placitum" vero, quoniam naturaliter nominum nihil est sed quando fit nota;
nam designant et inlitterati soni, ut ferarum, quorum nihil est nomen.The
limitation 'by convention' was introduced because nothing is by nature a noun
or name-it is only so when it becomes a symbol; inarticulate sounds, such as
those which brutes produce, are significant, yet none of these constitutes a
noun. τὸ ↵ δ’ οὐκ ἄνθρωπος οὐκ ὄνομα• οὐ μὴν οὐδὲ κεῖται ὄνομα ὅ τι δεῖ καλεῖν αὐτό, —οὔτε γὰρ λόγος οὔτε ἀπόφασίς ἐστιν ἀλλ’ ἔστω ὄνομα ἀόριστον.↵ 'Non homo' vero non est
nomen; at vero nec positum est nomen quod illud oporteat appellari -- neque
enim oratio aut negatio est -- sed sit nomen infinitum.The expression 'not-man'
is not a noun. There is indeed no recognized term by which we may denote such
an expression, for it is not a sentence or a denial. Let it then be called an
indefinite noun. ↵τὸ δὲ Φίλωνος ἢ Φίλωνι καὶ ὅσα (16b.) τοιαῦτα οὐκ ὀνόματα ἀλλὰ πτώσεις ὀνόματος.'Catonis' autem vel 'Catoni'
et quaecumque talia sunt non sunt nomina sed casus nominis.The expressions 'of
Philo', 'to Philo', and so on, constitute not nouns, but cases of a noun. λόγος δέ ἐστιν αὐτοῦ τὰ μὲν ἄλλα κατὰ τὰ αὐτά, ὅτι δὲ μετὰ τοῦ ἔστιν ἢ ἦν ἢ ἔσται οὐκ ἀληθεύει ἢ ψεύδεται, —τὸ δ’ ὄνομα ἀεί,— οἷον Φίλωνός ἐστιν ἢ οὐκ ἔστιν• οὐδὲν γάρ πω οὔτε ἀλη↵θεύει οὔτε ψεύδεται.Ratio autem eius est in aliis quidem eadem sed
differt quoniam, cum 'est' vel 'fuit' vel 'erit' adiunctum, neque verum neque
falsum est, nomen vero semper; ut 'Catonis est' vel 'non est' -- nondum enim
aliquid neque rerum dicit neque mentitur.The definition of these cases of a
noun is in other respects the same as that of the noun proper, but, when
coupled with 'is', 'was', or will be', they do not, as they are, form a
proposition either true or false, and this the noun proper always does, under
these conditions. Take the words 'of Philo is' or 'of or 'of Philo is not';
these words do not, as they stand, form either a true or a false proposition. ↵Ῥῆμα δέ ἐστι τὸ προσσημαῖνον χρόνον, οὗ μέρος οὐδὲν σημαίνει χωρίς• ἔστι δὲ τῶν καθ’ ἑτέρου λεγομένων σημεῖον. VERBVM AVTEM EST QVOD
CONSIGNIFICAT TEMPVS cuius pars nihil extra significat. Et est semper eorum quæ
de altero prædicantur nota. A verb is that which, in addition to its proper
meaning, carries with it the notion of time. No part of it has any independent
meaning, and it is UN SEGNO of something said of something else. λέγω δ’ ὅτι προσσημαίνει χρόνον, οἷον ὑγίεια μὲν ὄνομα, τὸ δ’ ὑγιαίνει ῥῆμα• προσσημαίνει γὰρ τὸ νῦν ὑπάρχειν. καὶ ἀεὶ ↵ τῶν ὑπαρχόντων σημεῖόν ἐστιν, οἷον τῶν καθ’ ὑποκειμένου. Dico autem quoniam consignificat tempus, ut ‘cursus’
quidem NOMEN est, 'currit' vero VERBVM -- consignificat enim nunc esse -- ; et
semper eorum quæ de altero dicuntur nota est, ut eorum quae de subiecto vel in
subiecto. I will explain what I mean by saying that it carries with it the
notion of time. 'CVRSVS' is a noun, but 'is ‘CVRRIT' is a verb. For, besides
its proper meaning, it indicates the PRESENT existence of the state in
question. Moreover, a verb is always a sign of something said of something
else, i.e.,of something either predicable of or present in some other thing. τὸ δὲ οὐχ ὑγιαίνει καὶ τὸ οὐ κάμνει οὐ ῥῆμα λέγω προσσημαίνει μὲν γὰρ χρόνον καὶ ἀεὶ κατά τινος ὑπάρχει, τῇ διαφορᾷ δὲ ὄνομα οὐ κεῖται• ἀλλ’ ἔστω ἀόριστον ῥῆμα, ὅτι ὁμοίως ἐφ’ ὁτουοῦν ὑπάρχει καὶ ὄντος καὶ μὴ ὄντος. 'Non CVRRIT' vero et 'non LABORAT'
non verbum dico. Consignificat quidem tempus et semper de aliquo est, differentiæ
autem huic nomen non est positum. Sed sit infinitum verbum, quoniam similiter
in quolibet est vel quod est vel quod non est. Such expressions as 'NON CVRRIT', 'NON LABORAT', I do *not*
describe as verbs. For,though they carry the additional note of time, and
always form a predicate, there is no specified name for this variety [cf.
Grice, UN-PUBLICATION]; but let each be called an indefinite verb, since it
applies equally well to that which exists and to that which does not. ὁμοίως δὲ καὶ τὸ ὑγίανεν ἢ τὸ ὑγιανεῖ οὐ ῥῆμα, ἀλλὰ πτῶσις ῥήματος• διαφέρει δὲ τοῦ ῥήματος, ὅτι τὸ μὲν τὸν παρόντα προσσημαίνει χρόνον, τὰ δὲ τὸν πέριξ. Similiter autem vel 'CVRRET' vel
'CVRREBAT' non verbum est sed *casus* verbi. Differt autem a verbo quoniam hoc quidem præsens SIGNIFICAT
TEMPVS, illa vero quod complectitur. Similarly 'CURRET' or 'CVRREBAT' is not a verb,
but a *case* of a verb. The difference lies in the fact that the verb indicates
present time. The CASVS of the verb indicates a different time which lies
outside the present. αὐτὰ μὲν οὖν καθ’ αὑτὰ λεγόμενα τὰ ῥήματα ὀνόματά ↵ἐστι καὶ σημαίνει τι, ἵστησι γὰρ ὁ λέγων τὴν διάνοιαν, καὶ ὁ ἀκούσας ἠρέμησεν, ἀλλ’ εἰ ἔστιν ἢ μή οὔπω σημαίνει• οὐ γὰρ τὸ εἶναι ἢ μὴ εἶναι σημεῖόν ἐστι τοῦ πράγματος, οὐδ’ ἐὰν τὸ ὂν εἴπῃς ψιλόν αὐτὸ μὲν γὰρ οὐδέν ἐστιν, προσσημαίνει δὲ σύνθεσίν τινα, ἣν ἄνευ τῶν συγκειμένων οὐκ ἔστι νοῆσαι. Ipsa quidem secundum
se dicta verba NOMINA sunt et SIGNIFICANDI aliquid -- constituit enim qui dicit
[Grice, UTTERER] intellectum, et qui audit [Grice, RECIPIENT] quiescit -- sed
si est vel non est non dum significat. Neque enim 'esse' SIGNVM est rei vel
'non esse', nec si hoc ipsum 'est' purum dixeris. Ipsum quidem nihil est, CONSIGNICANT
autem quandam compositionem quam sine compositis non est intellegere. A verb, in and by itself, is
substantival and has significance, for he who utters such an expression arrests
his addressee's mind, and fixes his attention. But iy does not, as it stands,
express any judgement, either affirmative or negative. For neither is 'ESSE' or
'NON ESSE' the participle 'EST' significant of any fact, unless something is
added. For it does not itself indicates anything, but IMPLIES a copulation, of
which we cannot form a conception apart from the things coupled. Λόγος δέ ἐστι φωνὴ σημαντική ἧς τῶν μερῶν τι σημαντικόν ἐστι κεχωρισμένον ὡς φάσις ἀλλ’οὐχ ὡς κατάφασις. ORATIO autem est vox SIGNIFICATIVA cuius partium aliquid
significativum est separatum -- ut dictio, non ut affirmatio. A sentence is a
significant voice, some parts of which have an independent meaning, that is to
say, as an utterance, though not as the expression of an affirmation. λέγω δέ οἷον ἄνθρωπος σημαίνει τι, ἀλλ’οὐχ ὅτι ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν ἀλλ’ ἔσται κατάφασις ἢ ἀπό↵φασις ἐάν τι προστεθῇ ἀλλ’οὐχ ἡ τοῦ ἀνθρώπου συλλαβὴ μία οὐδὲ γὰρ ἐν τῷ μῦς τὸ υς σημαντικόν, ἀλλὰ φωνή ἐστι νῦν μόνον. Dico autem ut 'HOMO'
significat aliquid -- sed non quoniam est aut non est; sed erit affirmatio vel
negatio, si quid addatur -- sed non una ‘HOMO’ -- 'HOMINIS' syllaba. Nec in hoc
quod est 'SOREX' 'REX' SIGNIFICAT sed
vox est nunc sola. Let me explain.
The word 'HOMO' [cf. Grice, ‘shaggy’] *has* meaning, but does not constitute a
proposition, either affirmative or negative. It is only when aother word is added
that the whole forms an affirmation or denial. But, if we separate one syllable
of the word 'HOMO' from the other – HO HO HO – Santa Claus – You called her a
prostitute three times --, it has no meaning. Similarly in the word 'SOREX',
the part 'REX' has no meaning in itself, but is merely a sound – cf. PIROT. – or the fart of a voice, as Occam prefers –
vocis flatus. ἐν δὲ τοῖς διπλοῖς σημαίνει μέν, ἀλλ’οὐ καθ’ αὑτό ὥσπερ εἴρηται. In duplicibus vero significat quidem sed non
secundum se, quem admodum dictum est. In composite words, indeed, the parts
contribute to the meaning of the whole. Yet, as has been pointed out, each part
has not an independent meaning. ἔστι δὲ λόγος ἅπας μὲν σημαντικός οὐχ ὡς ὄργανον δέ, ἀλλ’ὥσπερ εἴρηται κατὰ συνθήκην ἀποφαντικὸς δὲ οὐ πᾶς ἀλλ’ἐν ᾧ τὸ ἀληθεύειν ἢ ψεύδεσθαι ὑπάρχει οὐκ ἐν ἅπασι δὲ ὑπάρχει οἷον ἡ εὐχὴ λόγος μέν ἀλλ’οὔτ’ἀληθὴς οὔτε ψευδής. Est autem ORATIO omnis quidem
significativa non sicut instrumentum sed (quem admodum dictum est) secundum
placitum. Enuntiativa vero non omnis sed in qua
verum vel falsum inest. Non autem in
omnibus, ut deprecatio oratio quidem est sed neque vera neque falsa. Every
sentence has meaning, not as being the natural means by which a physical
faculty is realised, but, as we have said, by convention. Yet, every sentence
is not an enunciative sentence. Only such is a proposition as has in it either
truth or falsity. Thus, a prayer is a sentence, but is neither true nor false. οἱ μὲν οὖν ἄλλοι ἀφείσθωσαν, ῥητορικῆς γὰρ ἢ ποιητικῆς οἰκειοτέρα ἡ σκέψις, ὁ δὲ ἀποφαντικὸς τῆς νῦν θεωρίας. Et cæteræ quidem relinquantur
(rhetoricæ enim vel poeticæ convenientior consideratio est. ENUNTIATIVA vero præsentis
considerationis est. Let us therefore dismiss all other types of sentence but
the enuntiative sentence, for this last concerns our present inquiry, whereas
the investigation of the others belongs rather to the study of, not dialectics,
but rhetoric or of poetry. Ἔστι δὲ εἷς πρῶτος λόγος ἀποφαντικὸς κατάφασις, εἶτα ἀπόφασις οἱ δὲ ἄλλοι συνδέσμῳ εἷς. Est autem una prima ORATIO ENUNTIATIVA
AFFIRMATIO, deinde negatio; aliæ vero coniunctione unæ. The first class of simple
propositions is the simple affirmation, the next, the simple denial. All others
are only one by conjunction. ἀνάγκη δὲ ↵πάντα λόγον ἀποφαντικὸν ἐκ ῥήματος εἶναι ἢ πτώσεως καὶ γὰρ ὁ τοῦ ἀνθρώπου λόγος, ἐὰν μὴ τὸ ἔστιν ἢ ἔσται ἢ ἦν ἤ τι τοιοῦτο προστεθῇ οὔπω λόγος ἀποφαντικός διότι δὲ ἕν τί ἐστιν ἀλλ’ οὐ πολλὰ τὸ ζῷον πεζὸν δίπουν, οὐ γὰρ δὴ τῷ σύνεγγυς εἰρῆσθαι εἷς ἔσται, ἔστι δὲ ἄλλης τοῦτο πραγματείας εἰπεῖν.Necesse est autem omnem
orationem enuntiativam ex verbo esse vel casu. Et enim, HOMO hominis rationi si
non aut 'EST' aut 'ERIT' aut 'FVIT' aut aliquid huiusmodi addatur, nondum est
oratio enuntiativa. Quare autem unum quiddam est et non multa 'ANIMAL RESSIBILE
BIPES -- neque enim eo quod propinque dicuntur unum erit -- est alterius hoc
tractare negotii. Every proposition
must contain a verb or the tense of a verb. The phrase which defines the
species 'HOMO', if no verb in past (FVIT), present (EST), or future (ERIT) time
be added, is not a proposition. It may be asked how the expression 'a risible animal
with two feet' can be called single; for it is not the circumstance that the
words follow in unbroken succession that effects the unity. This inquiry,
however, finds its place in an investigation foreign to that before us. ἔστι δὲ εἷς λόγος ἀποφαντικὸς ἢ ὁ ἓν δηλῶν ἢ ὁ συνδέσμῳ εἷς, πολλοὶ δὲ οἱ πολλὰ καὶ μὴ ἓν ἢ οἱ ἀσύνδετοι. Est autem una oratio enuntiativa quae unum SIGNIFICAT
vel coniunctione una, plures autem quæ plura et non unum vel inconiunctæ. We
call those propositions single [ATOMIC] which indicate a single fact, or the
conjunction of the parts of which results in unity. Such a proposition, on the
other hand, is separate and comprises many an atomic proposition in number,
which indicate more than one fact, or many facts, or whose parts have no
conjunction. τὸ μὲν οὖν ὄνομα καὶ τὸ ῥῆμα φάσις ἔστω μόνον ἐπεὶ οὐκ ἔστιν εἰπεῖν οὕτω δηλοῦντά τι τῇ φωνῇ ὥστ’ἀποφαίνεσθαι, ἢ ἐρωτῶντός τινος, ἢ μὴ ἀλλ’αὐτὸν ↵προαιρούμενον. Nomen
ergo et verbum DICTIO sit sola, quoniam non est DICERE sic aliquid SIGNIFICANTEM
voce ENUNTIARE, vel aliquo INTERROGANTE [Grice: ?p] vel non sed ipsum
proferentem. Let us, moreover,
consent to call a noun or a verb an expression only, and not a proposition,
since it is not possible for a man to speak in this way when he is expressing
something, in such a way as to make a statement, whether his utterance is an
answer [?q] to a QUESTION [?p] or an act
of his own initiation. τούτων δ’ ἡ μὲν ἁπλῆ ἐστὶν ἀπόφανσις, οἷον τὶ κατὰ τινὸς ἢ τὶ ἀπὸ τινός, ἡ δ’ ἐκ τούτων συγκειμένη, οἷον λόγος τις ἤδη σύνθετος. Harum autem haæ quidem
simplex est ENVNTIATIO, ut aliquid de aliquo vel aliquid ab aliquo, hæc autem
ex his coniuncta, velut oratio quædam iam composita. To return: of propositions
one kind is simple, i.e. that which asserts or denies something (“shaggy”) of
something (“Fido”), the other composite [MOLECULAR], i.e. that which is
compounded of simple propositions. Ἔστι δ’ ἡ μὲν ἁπλῆ ἀπόφανσις φωνὴ σημαντικὴ περὶ τοῦ εἰ ὑπάρχει τι ἢ μὴ ὑπάρχει, ὡς οἱ χρόνοι διῄρηνται. Est autem simplex ENUNTIATIO
(“Fido is shaggy”) vox significativa de eo quod est aliquid vel non est,
quemadmodum tempora divisa sunt. A simple proposition (“Fido is shaggy”) is a
statement, with meaning, as to the presence of something (shagginess) in a
subject -- or its absence or privation --, in the past, present, or future,
according to the divisions of time. Κατάφασις δέ ἐστιν ἀπόφανσις τινὸς κατὰ τινός, ἀπόφασις δέ ἐστιν ἀπόφανσις τινὸς ἀπὸ τινός. Affirmatio vero est enuntiatio alicuius
de aliquo, negatio vero enuntiatio alicuius ab aliquo. An affirmation is a
positive assertion of something about something, a denial a negative assertion
(“It is not green” – Grice, “Negation”). ἐπεὶ δὲ ἔστι καὶ τὸ ὑπάρχον ἀποφαίνεσθαι
ὡς μὴ ὑπάρχον καὶ τὸ μὴ ὑπάρχον ὡς ὑπάρχον καὶ τὸ ὑπάρχον ὡς ὑπάρχον καὶ τὸ μὴ ὑπάρχον
ὡς μὴ ὑπάρχον, καὶ περὶ τοὺς ἐκτὸς δὲ ↵τοῦ
νῦν χρόνους ὡσαύτως ἅπαν ἂν ἐνδέχοιτο καὶ ὃ κατέφησέ τις ἀποφῆσαι καὶ ὃ ἀπέφησε
καταφῆσαι ὥστε δῆλον ὅτι πάσῃ καταφάσει ἐστὶν ἀπόφασις ἀντικειμένη καὶ πάσῃ ἀποφάσει
κατάφασις. Quoniam autem est
enuntiare et quod est non esse et quod non est esse et quod est esse et quod
non est non esse, et circa ea extrinsecus præsentis temporis similiter omne
contingit quod quis affirmaverit negare et quod quis negaverit affirmare; quare
manifestum est quoniam omni affirmationi est negatio opposita et omni negationi
affirmatio. Now it is
possible both to affirm and to deny the presence of something which is present
or of something which is not, and since these same affirmations and denials are
possible with reference to those times which lie outside the present, it is possible
to contradict any affirmation or denial. Thus, it is plain that every
affirmation has an opposite denial.Similarly, every denial has an opposite
affirmation. καὶ ἔστω ἀντίφασις τοῦτο, κατάφασις καὶ ἀπόφασις αἱ ἀντικείμεναι λέγω δὲ ἀντικεῖσθαι τὴν τοῦ αὐτοῦ κατὰ τοῦ αὐτοῦ, μὴ ὁμωνύμως δέ, καὶ ὅσα ἄλλα τῶν τοιούτων προσδιοριζόμεθα πρὸς τὰς σοφιστικὰς ἐνοχλήσεις. Et sit hoc contradiction (~p –
Grice, “Lectures on negation”), affirmatio et negatio oppositæ. Dico autem opponi eiusdem de
eodem, non autem æquivoce et quæcum quecætera talium determinamus contra sophisticas
importunitates. We will call such a pair of propositions a pair of
contradictories. An affirmative proposition and a negative proposition are said
to be contradictory which have the same subject (Fido) and predicate (‘shaggy’).
The identity of subject and of predicate must *not* be equivocal (He is in a
grip of a vice, but he is not in the grip of a vice). Indeed there are
definitive qualifications besides this, which we make to meet the casuistries
of sophists. Ἐπεὶ δέ ἐστι τὰ μὲν καθόλου τῶν πραγμάτων τὰ δὲ καθ’ ἕκαστον, λέγω δὲ καθόλου μὲν ὃ ἐπὶ πλειόνων πέφυκε ↵κατηγορεῖσθαι, καθ’ ἕκαστον δὲ ὃ μή, οἷον ἄνθρωπος μὲν τῶν καθόλου Καλλίας δὲ τῶν καθ’ ἕκαστον, ἀνάγκη δ’ἀποφαίνεσθαι ὡς ὑπάρχει τι ἢ μή ὁτὲ μὲν τῶν καθόλου τινί ὁτὲ δὲ τῶν καθ’ἕκαστον. Quoniam autem sunt hæc quidem rerum universalia,
illa vero singillatim (dico autem universale quod in pluribus natum est prædicari,
singulare vero quod non, ut 'HOMO' quidem universale, 'PEGASVS' vero eorum quae
sunt singularia, necesse est autem enuntiare quoniam inest aliquid aut non,
aliquotiens quidem eorum alicui quæ sunt universalia, aliquotiens vero eorum quæ
sunt singularia. Some things are universal, others individual. By universal I
mean that which is of such a nature as to be predicated of many subjects, by
individual that which is not thus predicated. Thus 'HOMO' is a universal, 'CICERO'
or ‘PEGASVS’ an individual. Our proposition necessarily sometimes concern a
universal subject, sometimes an individual. ἐὰν μὲν οὖν καθόλου ἀποφαίνηται ἐπὶ τοῦ καθόλου ὅτι ὑπάρχει ἢ μή, ἔσονται ἐναντίαι ↵ἀποφάνσεις, λέγω δὲ ἐπὶ τοῦ καθόλου ἀποφαίνεσθαι καθόλου οἷον πᾶς ἄνθρωπος λευκός, οὐδεὶς ἄνθρωπος λευκός ὅταν δὲ ἐπὶ τῶν καθόλου μέν, μὴ καθόλου δέ, οὐκ εἰσὶν ἐναντίαι, τὰ μέντοι δηλούμενα ἔστιν εἶναι ἐναντία, λέγω δὲ τὸ μὴ καθόλου ἀποφαίνεσθαι ἐπὶ τῶν καθόλου, οἷον ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος, οὐκ ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος καθόλου γὰρ ὄντος τοῦ ἄνθρωπος οὐχ ὡς καθόλου χρῆται τῇ ἀποφάνσει τὸ ↵γὰρ πᾶς οὐ τὸ καθόλου σημαίνει ἀλλ’ὅτι καθόλου. Si ergo universaliter enuntiet
in universali quoniam est aut non, erunt contrariæ enuntiationes (dico autem in
universali enuntiationem universalem ut 'OMNIS HOMO ALBVS EST', 'NVLLVS HOMO
ALBVS EST’). Quando autem in universalibus non universaliter, non sunt contrariæ,
quæ autem SIGNIFICANTVR est esse contraria (dico autem non universaliter
enuntiare in his quæ sunt universalia, ut 'EST ALBVS HOMO', 'NON EST ALBVS
HOMO’. Cum enim universale sit homo, non universaliter utitur enuntiatione; 'OMNIS'
namque non universale sed quoniam universaliter CONSIGNIFICAT. If, then, a man
states an affirmative and a negative proposition of universal character with
regard to a universal, these two propositions are contrary. By a proposition of
universal character with regard to a universal, such a proposition as 'OMNIS
HOMO ALBVS EST', 'NVLLVS HOMO ALBVS EST' are meant. When, on the other hand,
the affirmative proposition and the negative proposition, though they have
regard to a universal, are yet not of universal character, they will *not* be
contrary, albeit the meaning intended is sometimes contrary. As an instance of such
a proposition made with regard to a universal, but not of universal character,
we may take the proposition 'EST ALBVS HOMO', 'NON EST ALBVS HOMO'. 'HOMO' is a
universal, but the proposition is not made as of universal character. The word
'OMNIS' does not make the *subject* a universal, but, rather, gives the
proposition a universal character. ἐπὶ δὲ τοῦ κατηγορουμένου τὸ καθόλου κατηγορεῖν καθόλου οὐκ ἔστιν ἀληθές• οὐδεμία γὰρ κατάφασις ἔσται ἐν ᾗ τοῦ κατηγορουμένου καθόλου τὸ καθόλου κατηγορηθήσεται, οἷον ἔστι πᾶς ἄνθρωπος πᾶν ζῷον. In eo vero quod prædicatur universaliter universale
prædicare universaliter non est verum. Nulla enim affirmatio erit, in qua de
universaliter prædicato universale praedicetur, ut 'OMNIS HOMO OMNE ANIMAL'. If, however, both predicate
and subject are distributed, the proposition thus constituted is contrary to
truth. No affirmation is, under such circumstances, true. The proposition 'OMNIS
HOMO OMNE ANIMAL EST' is an example of this type. Ἀντικεῖσθαι μὲν οὖν κατάφασιν ἀποφάσει λέγω ἀντιφατικῶς τὴν τὸ καθόλου σημαίνουσαν τῷ αὐτῷ ὅτι οὐ καθόλου, οἷον πᾶς ἄνθρωπος λευκός—οὐ πᾶς ἄνθρωπος λευκός, οὐδεὶς ἄνθρωπος λευκός ἔστι τις ἄνθρω↵πος λευκός• ἐναντίως δὲ τὴν τοῦ καθόλου κατάφασιν καὶ τὴν τοῦ καθόλου ἀπόφασιν, οἷον πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος οὐδεὶς ἄνθρωπος δίκαιος. Opponi autem affirmationem
negationi dico contradictorie quæ universal SIGNIFICAT eidem quoniam non
universaliter, ut 'OMNIS HOMO ALBVS EST', 'NON OMNIS HOMO ALBVS EST' – Grice:
“(x), all” --, 'NULLVS HOMO ALBVS EST,' 'QUIDAM HOMO ALBVS EST' – Grice: “(Ex),
some (at least one)” -- ; contrarie vero universalem affirmationem et
universalem negationem, ut ‘OMNIS HOMO IVSTVS EST,’ ‘NVLLVS HOMO IVSTVS EST.’ ;An
affirmation is opposed to a denial in the sense which I denote by the term
contradictory, when, while the subject remains the same, the affirmation is of
universal character and the denial is not. The affirmation 'OMNIS HOMO ALBVS
EST' is the contradictory of the denial 'NON OMNIS HOMO ALBV EST, or again, the
proposition 'NVLLVS HOMO ALBVS EST' is the contradictory of the proposition 'QUIDAM
HOMO ALBVS EST'. But two propositions are opposed as contraries when both the
affirmation and the denial are universal, as in the sentences 'OMNIS HOMO ALBVS
EST', 'NVLLS HOMO ALBVS EST', 'OMNIS HOMO IVSTS EST’, ‘NVLLVS HOMO IVSTVS EST. Grice: “I used ‘body’ informally in my ‘Personal
identity’, where I suggested, that “I fell down the stairs” could be replaced
by “MY body fell down the stairs” – there is yet an essential indexical.
Different if two wrestlers unison say, ‘Both our bodies are oiled” – where
again the dual “both our” is used. We have not the second person but the FIRST
PERSON dual. “Our bodies” “Both our bodies”. Pio Colonnello. Colonnello. Keywords:
la voce, rivista La Voce, Croce e i vociani, patografia, German for ‘body’
Lieb, cognate with ‘life’ so that ‘Das Leib ohne Leben’ would be odd. The
Anglo-Normans solved the problem with ‘corpse’, corpus, vita, corpore, vita,
vivere, German ‘leben’, ‘live’ meaning with ‘remain’, creature construction,
thing, living thing, living body, personal human living being. Bodily movement. Method in philosophical psychology,
manifestation in behaviour, bodily behaviour, brain state, different from
bodily movement, voce, ‘vox significativa’ ‘voce significativa’, voce che e
segno di… la voce dei animali, uso metaforico di ‘voce’ – the voice of
Alighieri, la voce di, la voce di Mussolini, la voce di, voice, etimologia di
voce. phone, phonic, suono – voce e suono – immagine acustica del suono,
riconoscimento della voce, voce come sinonimo di parola, o espressione – una
‘voce toscana’ -- ‘la voce umana’ –
‘sine voce’ – the voiceless – voce come schema distintivo – voiced and
voiceless – nome come voce, verbo come voce, predicamento. Voce come SIMBOLO
dell’afezione dell’animo, ma SCRITTURA come SEGNO della voce --. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Colonnello” – The Swimming-Pool Library. Colonnello.
Grice e Colorni: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della diadologia – scuola di
Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Milano).
Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo
italiano. Milano, Lombardia. Grice: “To understand the passion in Italian
philosophy, as the pasdsion I experienced with Austin in the postwar and with
Hardie on the golfcourse in the good old days, one has to understand Colorni –
he was a socialist, and thus an empiriociritic! He found opposition in the
Gentileians. Oddly, Colroni’s main interest is the ‘monad,’ but he also
explored what we would at Oxford call ‘science’ – rather than philosophy. Lay
the blame on his tutor at Milano!”. Promotore del federalismo europeo. Mentre era
confinato a Ventotene, su saggio, “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Figlio
di Alberto Colorni, di Mantova, e Clara Pontecorvo, milanese di famiglia pisana
(zia di Pontecorvo, del regista Gillo, del genetista Guido e del giurista
Tullio Ascarelli). Studia al ginnasio di
Milano. Si appassiona al Breviario di estetica di Croce. La sua formazione
adolescenziale, come raccontò egli stesso nella “Malattia filosofica”, fu
influenzata dal rapporto intrattenuto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio
Sereni, tutti più grandi di lui. Fu Enzo, che era un convinto socialista ad esercitare su di lui una forte influenza
ideale. Studia sotto Borgese e Martinetti. Si laurea sotto Martinetti con “Il
concetto di individuo”. Strinse amicizia con Guido Piovene, che però verrà
interrotta per via di certi articoli anti-semitici scritti da Piovene su
L'Ambrosiano. Partecipa nel gruppo goliardico
per la libertà di Basso e Morandi. Saggio sull'estetica d’Ardigò. Si
accosta alla divisione milanese del “Giustizia e Libertà”. Collabora in seguito
col nucleo giellista torinese, che fece capo prima a Ginzburg e poi a
Foa. Incontra Croce, con il quale conversa a lungo. Saggi per Il
Convegno, La Cultura, Civiltà Moderna, Solaria e la Rivista di filosofia di Martinetti,
e presso la società editrice "La Cultura" di Milano, uno studio
critico su L'estetica di Croce. Saggio sulla monada e la diada, vinse il
concorso per l'insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima
assegnazione al liceo Grattoni di Voghera, ottenne la cattedra di filosofia a
Trieste. Qui conobbe e frequentò, fra gli altri, Saba (ritratto poi in Un
poeta) ed anche Gambini, Pincherle ed Curiel. Nella collana scolastica
che Giovanni Gentile diresse per Sansoni, pubblica “Diadologia”. La diadologia lo
costrinse ad affrontare studi di logica e semantica. Riparte da Kant e dalla
problematica kantiana, e medita sulle conseguenze che la fisica quantica e la
psicanalisi potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche
tradizionali. Quando, come si legge in Un poeta,Saba gli domanderà, ‘Perché fa filosofia?’,
Colorni concluse che da quel giorno, ‘io non faccio più filosofia’. Non e la
filosofia che rifiuta, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano
seguaci Croce come Gentile e Martinetti. In occasione di un congresso di
filosofia a Parigi, incontra Rosselli eTasca. In quanto ebreo e rinchiuso a Varese.
I giornali pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli “di
razza ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti
in Italia e all'estero”. La
sottolineatura sul “complotto ebraico” serviva a giustificare la legislazione
anti-semita appena varata in Italia dal regime, per potersi così allineare alla
linea politica seguita dagli alleati nazisti. Confinato a Ventotene, dove
prosegue i suoi studi filosofici, e conversa intensamente con gli altri
compagni confinati, Rossi, Doria e Spinelli. Un'eco fedele di quelle discussioni
si ritrova in “Conversazioni di Commodo”. Risale a questo periodo la sua
adesione alle idee federaliste europee, stesurando il Manifesto per un’Europa
libera e unita. Saggio: Problemi della Federazione Europea, che raccoglieva il
Manifesto ed altri scritti sul tema. Nella sua "Prefazione" al
Manifesto, auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro “universalista”,
come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra. In
tale ottica, la creazione di una federazione di stati europei era da lui
considerata come condizione indispensabile per un profondo rinnovamento sociale,
anche per iniziativa popolare, che partendo dagli enti territoriali avrebbe
coinvolto tutta l’Italia e, quindi, l’intera Europa. Circa le dinamiche
che portarono alla stesura del Manifesto, è generalmente ricondotto ai soli
Spinelli e Rossi il contributo maggioritario del testo, sebbene, alcuni recenti
studi storiografici, abbiano seriamente rivalutato il suo ruolo. Di trinità si
tratta, e lo spirito santo della situazione è lui, che partecipa alle
discussioni preparatorie alla stesura del Manifesto assieme a poche altre
persone, ed ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo e
di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista, verso i due
autori del documento, fino al suo trasferimento a Melfi, benché comunque i
contatti non cessassero del tutto. Grazie anche all'intervento di Gentile,
riusce ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante
lo stretto controllo della polizia, riusce ad avere contatti con alcuni degli
anti-fascisti locali. Assieme con Geymonat, elabora il progetto di una
rivista di metodologia scientifica. Riuscì a fuggire da Melfi,
rifugiandosi a Roma, dove visse da latitante. Dopo la capitolazione di Mussolini
si dedica all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità
Proletaria, nato dalla fusione del PSI col gruppo del Movimento di Unità
Proletaria. Partecipò, assieme a Spinelli, Rossi, Doria, Braccialarghe e
Foa, in casa di Rollier a Milano, alla riunione che diede vita al Movimento
Federalista Europeo. Il movimento adottò come proprio programma il
"Manifesto di Ventotene". Svolse nella capitale un'intensissima
attività nelle file della Resistenza. Prese parte alla direzione del PSIUP e
s'impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione Socialista Italiana e
nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti. “Io ero da
poco stato nominato segretario della Federazione Socialista per suggerimento e
per decisione di Pertini, che era membro della segreteria del partito in
quell'epoca. Avevamo organizzato una chiamiamola brigata, anche se era un
gruppo armato che era comandato da Colorni che poi è assassinata alla vigilia della liberazione di
Roma. Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestine. Così Pertini ricorda il suo
impegno per la stampa del giornale socialista: «Ricordare l'Avanti!
clandestino di Roma vuol dire ricordare prima di tutto due nostri compagni che
a forte ingegno unevano una fede purissima, entrambi caduti sotto il piombo
fascista: C. e Fioretti. Ricordo come C., mio indimenticabile fratello
d'elezione, si prodiga per far sì che l'Avanti! uscisse regolarmente. Egli in
persona, correndo rischi di ogni sorta, non solo scrive gli articoli
principali, ma ne cura la stampa e la distribuzione, aiutato in questo da Fioretti,
anima ardente e generoso apostolo del socialismo. A questo compito cui si sente
particolarmente portato per la preparazione e la capacità della sua mente, C. dedica
tutto se stesso, senza tuttavia tralasciare anche i più modesti incarichi
nell'organizzazione politica e militare del nostro partito. Amava profondamente
il giornale e sogna di dirigerne la redazione nostra a Liberazione avvenuta e
se non fosse stato strappato dalla ferocia fascista, sarebbe stato il primo
redattore capo dell'Avanti! in Roma liberata e oggi ne sarebbe il suo
direttore, sorretto in questo suo compito non solo dal suo forte ingegno e
dalla sua vasta cultura filosofica, ma anche dalla sua profonda onestà e da
quel senso del giusto che ha sempre guidato le sue azioni. Per opera sua e di Fioretti,
l'Avanti! era tra i giornali clandestini quello che aveva più mordente e che
sapeva porre con più chiarezza i problemi riguardanti le masse lavoratrici. La
sua pubblicazione veniva attesa con ansia e non solo da noi, ma da molti
appartenenti ad altri partiti, i quali nell'Avanti! vedevano meglio interpretati
i loro interessi. Nella Roma occupata dalle forze naziste, in una tipografia
nascosta di Monte Mario, fece stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine
intitolato Problemi della Federazione Europea, contenente il "Manifesto di
Ventotene". Pochi giorni prima della liberazione della capitale,
venne fermato in via Livorno da una pattuglia di militi fascisti della
famigerata banda Koch. Tenta di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da
tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, muore sotto l’identità
di ‘Franco Tanzi’. Indomito assertore della libertà, confinato durante la
dominazione fascista, evadeva audacemente dedicandosi quindi a rischiose
attività cospirative. Durante la lotta antinazista, organizzato il centro
militare del Partito Socialista Italiano, dirigeva animosamente partecipandovi,
primo fra i primi, una intensa, continua e micidiale azione di guerriglia e di
sabotaggio. Scoperto e circondato da nazisti li affrontò da solo, combattendo
con estremo ardimento, finché travolto dal numero, cadde nell'impari gloriosa lotta.
Tre lapidi esistenti, una, posta dalla III Circoscrizione del Comune di Roma è
semilleggibile perché scurita dal tempo, un'altra, posta dal Partito Socialista
Italiano, è spaccata in due e un'ultima, posta sempre dalla III Circoscrizione
del Comune di Roma, contiene un errore. Foto delle tre lapidi. Altre opere: “Scritti, Norberto Bobbio, la
Nuova Italia, Firenze); “Il coraggio dell'innocenza, Luca Meldolesi, La Città
del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli); “Un poeta” (Il
Melangolo, Genova); “La malattia della metafisica” (Einaudi, Torino).
Dizionario Biografico degli Italiani. L'itinerario politico di C., in Id., Il
socialismo riformista tra politica e cultura, Il socialismo federalista di
Eugenio Colorni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze, Anno
Accademico, Gaetano Arfé, Eugenio Colorni, l'antifascista, l'europeista, in,
Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli,
Milano, Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e
dopoguerra. Piovene e C., Einaudi, Torino e Hoepli, Milano,. Geri Cerchiai,
L'itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di Storia della
Filosofia», Stefano Miccolis, C. e Croce”. Talvolta non si distingue debitamente
fra l’emergere originario di un testo nell’opera di un filosofo e il suo
riemergere, o diffondersi, in altri tempi o contesti. In tal modo, proprio la
tragedia del Novecento ha spostato spesso, rispetto alla composizione, la
diffusione di scritti intrisi di attualità. Poche volte, come nel Novecento, è
stato così vistoso il fenomeno delle letture differite. Ora, e al di là della
nota di polemica che affiora da un montaggio tendenzioso fino al limite delle
falsificazione – questo è quanto è all’incirca avvenuto per Colorni: scoperti
(o riscoperti), dopo la morte dell’autore, in quel particolare contesto del
quale si sono nutrite le due stesse riviste, “Analisi” e “Sigma” – che, insieme
con «Aretusa», li hanno per prime pubblicati, a tale contesto sono rimasti
giocoforza legati, venendo così ad essere proiettati all’interno di una
tradizione e di un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro, condotto in un
altro linguaggio. Si è parlato, a proposito di tale linguaggio, dello spirito
del ’45, e sovente si è visto in esso, da parte degli stessi animatori, una
vera e propria prosecuzione, in campo culturale, delle istanze portate avanti
dalla Liberazione. Alla “dittatura dell’idealismo”– il cui [Razionalismo e
prassi a Milano: La cultura milanese vive profondamente quello “spirito del
’45” fatto anche di semplificazione e di attivismo, di fiducia ingenua
nell’anno zero, nella svolta politico-sociale in corso, ma soprattutto di un
nesso inscindibile con la liberazione e la Resistenza. La dittatura dell’idealismo
è il titolo dato da Cantoni ad un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini.
Espressione di un comune sfondo sociale e di una comune struttura economica, le
filosofie di Croce e Gentile si sarebbero unite, nella prospettiva di Cantoni,
in una sorta di convergenza sociologica con il regime, riuscendo così a
rimediare una posizione di singolare monopolio per la cultura idealista.
Certamente, e una grossolanità speculativa e un errore storico identificare il
destini del fascismo col destino dell’idealismo, anche se questa identificazione
di fatto si verifica nella persona del maggior rappresentante filosofico dell’idealismo
italiano, Gentile. In realtà, molti idealisti, dal Croce al De Ruggiero,
staccarono, prima o dopo, le loro sorti da quelle del regime. Eppure, al di
sotto della dichiarata e sincera avversione, un filo, inconscio spesso ma tenace,
lega tra loro gli avversari e ne permetteva una, sia pure scomoda, convivenza.
Questo filo era costituito dal loro comune, e inconfessato carattere
*conservatore*. Lo spiritualismo idealista agì come una dittatura logica. Avendo
in mano cattedre e riviste, gli idealisti facevano il bello e il cattivo tempo
nella filosofia, facendo decadere al piano della non-filosofia gli avversari
positivisti ed logico-empiristi. Alcune opinioni sul crocianesimo che, oltre ad
essere meno drastiche, risultano per certi aspetti accostabili ad analoghi
spunti della critica colorniana. Vale la pena di rimettersi a una revisione
intelligente dell'idealismo italiano, rimanendo idealisti] filosofia viene
assimilata alla sorte del regime – si è così tentato di opporre una filosofia
più aperta al dibattito contemporaneo ed internazionale, fosse esso
identificabile con le correnti fenomenologico-esistenziali o con quelle più
strettamente epistemologiche ispirate al positivismo o empirismo logico del
Circolo di Vienna. Quest’ultimo, d’altro canto, viene in Italia presentato da
Geymonat con parole quanto mai indicative del clima che ne accoglieva i
principi. L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato è e
vuole essere un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla
ragione un valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantano
il medesimo nome. Gli è che il razionalismo deve essere ben più agguerrito e
penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati. Deve essere:
critico, ossia capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la
pura ragione dalla filosofia mistica e decadente; costruttivo, cioè in grado di
soddisfare le esigenze di ri-costruzione e di logicità caratteristiche della
nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la
scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano. Gli Studi per un nuovo
razionalismo, che raccoglievano le ricerche di un intero ventennio (il testo
più datato, Le idee direttive del neo-empirismo, era stato pubblica Ciò che si
può apprezzare in Croce, da questo punto di vista, è il suo tentativo di
sciogliere il pensiero dai legami colla filosofia metafisica per avvicinarsi a
una filosofia intesa come chiarificazione dell’esperienza, intesa cioè come
trapasso dalla metafisica alla metodologia. Croce si sarebbe in tal modo
inserito nella corrente più viva della filosofia, non riuscendo tuttavia (e in
questo consisterebbe il suo maggior limite) a rompere completamente i ponti con
la metafisica specuativa. Croce non ha quindi tanto combattuto la metafisica
speculativa quanto sostituito alla metafisica trascendente la metafisica
immanente. Per una ricostruzione più esaustiva delle diverse posizioni di
Cantoni su Croce, si rimanda a R. Franchini, Remo Cantoni critico di Croce, in
C. Montaleone e C. Sini (a cura di), Remo Cantoni, filosofia a misura della
vita, Milano, Guerini, Cfr. Bobbio, Introduzione, in C., Scritti, Firenze, La
Nuova Italia. Avviene la crisi dell’idealismo, cui segue la ricerca di nuove
vie, proprio ad opera della generazione di C. le vie battute per uscire dalla
crisi sono soprattutto due: quella che passa attraverso una riflessione sulle
trasformazioni avvenute in seno al sapere scientifico e che dà origine a una
filosofia scientifica, risolutamente anti-metafisica, qual è il positivismo
logico, cui aprono la strada gli studi di Geymonat; e quella che passa
attraverso l’esistenzialismo (Abbagnano, il primo Luporini)». Geymonat, Studi
per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore. Come ha fatto notare Mario Dal
Pra, e a conferma di quanto si scriveva di sopra, l’accostamento in questo
passaggio dei termini “ricostruzione” e “logicità” sembra diretto a far pensare
che «l’avversione alla metafisica del neoempirismo e l’avversione alla
dittatura fascista da parte del movimento di liberazione abbiano per Geymonat
una comune radice» (M. Dal Pra, Il razionalismo critico, in Bausola, Bedeschi
et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza. Geri
Cerchiai 4 to per la prima volta con il titolo Nuovi indirizzi della filosofia
austriaca), fu significativamente fatto uscire con la medesima data di stampa
del giorno della Liberazione di Milano; e in quello stesso mese di aprile
apparve il primo numero della rivista «Analisi» che, come si è accennato,
contribuì fra le prime, con la pubblicazione del frammento intitolato Filosofia
e scienza, alla diffusione dell’epistemologia colorniana9. Ed è proprio da una
lettura di «Analisi» e «Sigma» che è possibile sommariamente inquadrare il
contorno di quel periodo storico al quale si deve la prima scoperta
dell’epistemologia colorniana. Voluta da Fachini, «Analisi» fu stampata per
cinque numeri, mutando il nome, nel corso delle pubblicazioni, in quello di
«Analysis». L’«esperienza personale che io avevo fatto», racconta Fachini circa
la nascita della rivista, mi aveva convinto della necessità di una piattaforma
di incontro interdisciplinare. Allora in Italia mancava qualcosa di simile. La
guerra spezzò agli inizi i miei tentativi. Gli eventi bellico-politici stessi,
per conto loro, mi portarono a profonda solidarietà mentale con Gratton. Nasce così
l’idea di «Analysis»: con ambizioni editoriali infantilmente dissonanti col
momento. Trovammo poi nel Buzzati-Traverso un biologo “fisicalista” ma aperto
ad ogni esperienza. Tra i filosofi professionali (a formazione cioè
tradizionalmente filosofico-letteraria) Banfi, cui mi ero rivolto, mi indica
l’allievo suo Preti, come fornito di interessi e preparazione
fisico-matematica, allora rara nel filosofo. Per inciso, ricordo i miei
contatti con un altro filosofo con preparazione e interessi analoghi: C. I temi
portati avanti dalla rivista furono sostanzialmente due: l’interesse per la
metodologia delle scienze – attraverso la quale indagare la possibilità di un
fondamento comune alle diverse discipline – e la volontà di mantenersi
all’interno di un’impostazione strettamente antimetafisica. La collaborazione
fra 8 In «Rivista di filosofia». Cfr. C., Filosofia e scienza, in «Analisi». D’ora
innanzi si indicheranno gli scritti raccolti in questa edizione col solo titolo
seguito dal numero di pagina. Di «Analisi» e «Sigma», con specifico riferimento
alla figura di C., si è occupato M. Quaranta, La scoperta di C. nelle riviste
del secondo dopoguerra. Gli scritti sulla relatività, in Cerchiai e Rota (cur.),
C. e la cultura italiana fra le due guerre, Manduria-Bari-Roma, Lacaita.
“Analysis”: testimonianza di Fachini, in Analisi. Milano, riletta da Quaranta,
con testimonianze di Fachini, Ceccato, Geymonat, Gratton, Poli, Bologna, Forni.
Aggiunge Fachini, a proposito della sua formazione, che l’impulso a uno sforzo
collettivo interdisciplinare era sorto in me dai primi contatti con l’ambiente
mentale del neopositivismo logico», ma che la soluzione positivista, verso cui
ero in un primo tempo quasi costretto, mi si rivelò presto insoddisfacente per
l’irrigidimento formale, verso cui stava avviandosi. Il «periodico», si
affermava nel Programma pubblicato sul primo numero, era «inteso ad offrire un
luogo di libera discussione a quanti abbiano interesse ai problemi di
metodologia e di critica della scienza, nello sforzo di purificare ed
universalizzare il linguaggio Cinque scritti metodologici di C. 5
scienziati e filosofi fu uno degli aspetti qualificanti della pubblicazione, ma
fu anche d’impedimento ad un’armonica composizione delle sue diverse anime,
concorrendo in definitiva alla conclusione dell’esperienza. L’incontro con i
fondatori e la rivista, racconta a questo proposito Ceccato, avvenne per
chiamata gentile. Io mi trovavo in parabola positivistica o logico-empiristica
discendente. Il filone che comincia ad interessarmi era ormai piuttosto quello
di Bridgman e Dingler, comunque un filone operativo. Questo difficilmente
avrebbe permesso una intesa con i filosofi del gruppo, Geymonat e Preti. Una
collisione non poteva tardare anche con il più aperto filosofo ufficiale, Banfi,
più storico, più umanista. Un certo divario di lavoro si venne a creare anche
con gli scienziati in quanto per lo scienziato di discipline assestate e
floride, come la fisica, la biologia, l’anatomo-fisiologia, etc., la metodologia
si può aggiungere come ornamento, come divertimento. Ma non per me. Così
terminate le pubblicazioni di «Analisi», la sua eredità venne raccolta, in
quello stesso anno, dalla rivista romana «Sigma», fondata da Somenzi e Giuseppe
Vaccarino. Il periodico – che riporta il sottotitolo di «Conoscenza unitaria» –
si propone di riunire, come si legge nella seconda di copertina, una limitata
quantità di elementi atti a determinare una concezione unica della conoscenza. La
nota di presentazione della rivista precisava poi i confini all’interno dei
quali si intendevano muovere i curatori: «si va facendo evidente che esaurire
la scienza nel tecnicismo dello specialista è dannoso – non solo ai fini della
costituzione di un sistema unitario della conoscenza scientifica, ma anche nei
riguardi degli stessi progressi tecnici nei singoli settori. Da qui
specialistico verso una comune impostazione dei modi fondamentali, pur essi
comuni, con cui si edifica e modifica il sapere scientifico». Unico limite, in
tal senso, era quello di non «travalicare di là dalla metodologia in una
sistematica della scienza [per] fare della metafisica insaputa e inutile» (Il
programma, in «Analisi»). “Analysis”: testimonianza di Ceccato, in Analisi.
Milano. In una lettera a Vaccarino, Somenzi rilegge la storia di «Sigma»:
“Sigma” è nata con la modesta intenzione di pubblicare il vecchio materiale
tuo, di C. e Cotone, mio. E di esaurirlo coi primi numeri. Poi si è visto che,
se non altro dato il costo della carta e stampa, conveniva pubblicare un tentativo
di sintesi organica, sia pure provvisoria, del tuo – e limitare quello dei due
C. e mio a ciò che può avere ancora interesse dal punto di vista filosofico.
Infine è sorta l’idea, con la crisi di “Analisi”, di prenderne il posto con il
programma serio di Metodo. Già l’impostazione dei primi due numeri ci alienerà
le simpatie dei Castelli, Blanc, Fantappié ecc., ma anche dei Filiasi e
Geymonat (l’interessamento di quest’ultimo è condizionato alla possibilità di
una nostra conversione al materialismo dialettico/razionalista tipo “La
Pensée”). Attualmente spero solo nei Servadio e magari Spirito, Savinio e stop»
(“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo
Somenzi, Attività professionale, Carte di lavoro non organizzate,
Collaborazione con Vaccarino, b. 1, Vaccarino. Da ora in avanti, il Fondo sarà
abbreviato con la sigla “FS”, seguita dall’indicazione dei riferimenti completi
d’inventario. La conoscenza unitaria, in «Sigma». Scriveva Vaccarino a Somenzi
riguardo a questa nota. Rileggendo la tua edizione riveduta della conoscenza
unitaria penso che possa andare come presentazione anonima, specie se sarà
da Geri Cerchiai 6 avrebbe anche dovuto discendere il ruolo della ricerca
metodologica, che – comprendendo un discorso più largamente critico-filosofico
– avrebbe dovuto fissare le norme dirette ad unificare in sistema le scienze
particolari o la conoscenza in genere. Come «Analisi», anche «Sigma» ha però
vita breve, e dopo sei numeri una nota editoriale ne annunciava la confluenza
nella rivista «Methodos». Questo fu dunque lo sfondo culturale che vide nascere
l’interesse per la filosofia colorniana, un interesse che, attraverso la
pubblicazione di alcuni testi del filosofo milanese, richiamava alla
ricostruzione della filosofia empiristica italiana (come la proposta del
ebraico-britannico Ayer a Oxford) come tradizione anti-metafisica e
anti-idealistica e capace di attuare un profondo rinnovamento negli orientamenti
teoretici nazionali. D’altra parte, che il pensiero di Colorni fosse in certa
misura vicino alle posizioni espresse da «Analisi» e «Sigma» è testimoniato,
oltre che dalle singole scelte di politica editoriale delle due riviste, da
quanto raccontato dagli stessi protagonisti: «Ricordo con precisione», ha
scritto ad esempio Fachini sul secondo numero di «Analisi», le conversazioni di
quell’epoca: credo di poter affermare, per esperienza personale, che C. sia
stato tra i primi italiani di preparazione filosofica a tentare di accogliere e
di comprendere, in modo serio, le nuove affermazioni epistemologiche. La più
gran parte dei suoi saggi sono inediti: molte pregevoli cose egli ha lasciato:
e forse potrebbe indicarci vie nuove. Gli amici di «Analisi» auspicano di poter
far conoscere in cerchio vasto il suo lavoro, a vantaggio della ricerca
metodologica e in omaggio alla sua memoria Somenzi, a sua volta, scrivendo a
Vaccarino della pubblicazione degli scritti colorniani su «Sigma», afferma: Per
Sigma convinciti che i nostri scritti, incomprensibili per virtù proprie dalla
maggioranza dei competenti, l’hanno irrimediabilmente “condannata” e che quelli
di C. sono ancora i migliori che potessimo o possiamo esibire, oltre che i più
vicini al nostro ordine di idee. “Fisica teorica e filosofia” di Colornimerita
senz’altro la pubblicazione sul numero che spero di riuscire a dedicare a
questo argomento. Rievocando poi il Progetto di una rivista di metodologia
scientifica – da C. discusso fra gli altri con Geymonat durante gli anni della
guerra – ante ulteriormente ampliata. Effettivamente rileggendo il mo testo
subito dopo averlo scritto non avevo avuto una buona impressione. Ma ora mi è
piaciuto» (FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza
scientifica, gen. 28, 135, Vaccarino. La conoscenza unitaria. Cambi,
Razionalismo e prassi a Milano, G. Fachini, C., in «Analisi». Si tratta di C., Critica
filosofia e fisica teorica. Lettera di Somenzi a Vaccarino. Alcuni inediti
riconducibili a tale progetto sono presentati in M. Quaranta, La scoperta di C.,
cit., cfr. in part. le pp. 126-130. Per i testi di FS destinati alla rivista
metodologica. Saggi metodologici di C. 7
cora Somenzi ha sottolineato come esso corrispondesse «nella sostanza a molte
realizzazioni degli ultimi quarant’anni, da riviste come “Analysis” a collane
di volumi di filosofia della scienza e di storia della scienza quali quelle
impostate a Milano e Torino dallo stesso Geymonat e da Rossi. A partire da
queste premesse, appare evidente come la storia della riscoperta colorniana nel
dopoguerra possa concorrere a gettare luce su alcuni fondamentali aspetti dello
stesso pensiero dell’autore; essa ne evidenzia difatti la novità di prospettiva
e la conseguente, connaturata disposizione a dialogare coi più avanzati
ambienti filosofico-culturali del nostro Paese. Ciò che tuttavia rende affatto
esemplare la filosofia colorniana, concorrendo a fare di essa un importante
«contributo alla comprensione del travaglio della filosofia italiana al momento
del declino della preponderanza idealistica, non è soltanto la particolare
modalità della sua ricezione, ma anche la complessiva parabola intellettuale
seguita dal giovane studioso per giungere alle posizioni metodologiche degli
ultimi anni. C. è allievo di Borgese e Martinetti a Milano. Nel raccontare
della formazione universitaria di c., Tagliacozzo scrive. Va ricordata
l’influenza che sui suoi studenti ha allora una personalità come quella di
Borgese, che C. e compagni chiamano
scherzosamente G.A. Era uno di quei pochi professori che non disdegnano allora
di soffermarsi a discutere dopo la lezione con i propri studenti. Altra
influenza determinante per i suoi studenti quella dell’austero Martinetti che
spiega Kant alle otto del mattino. Martinetti avvia gli studenti al rigorismo
dell’etica kantiana, mentre il brillante G.A., più alla mano, discute di
estetica e letteratura comparata. I debiti con l’insegnamento di Borgese,
d’altro canto, sono resi espliciti dallo stesso C., che in un suo curriculum
universitario afferma: Durante i miei studi mi sono occupato specialmente di
problemi filosofici ed estetici e, sotto la direzione del Borgese, ho redatto
lavori su L’estetica d’Ardigò. 21 V.
Somenzi, C. filosofo della scienza, in «Filosofia e società», Bobbio, Introduzione, cit., p. VI. 23
Tagliacozzo, L’uomo C., in «Tempo presente». Prosegue poi Tagliacozzo nella
pagina seguente: «Martinetti indusse [Eugenio] ad approfondire Kant, amò
Spinoza dopo la prima infatuazione per l’idealismo italiano. E chi in quegli
anni non lesse Croce e Gentile, ma specie Croce? Eugenio conobbe Hegel, ma non è
mai hegeliano. Studiò dal punto di vista filosofico Marx, ma non fu mai
marxista. Dopo un’esercitazione sul positivismo – e si noti l’influenza
borgesiana nell’approfondimento dei problemi estetici – si indirizzò verso
Leibniz» (ivi, p. 54). Geri Cerchiai 8 gò e del positivismo italiano,
L’estetica bergsoniana e L’estetica di Croce. Quest’ultimo studio è stato
pubblicato più tardi a Milano dalla casa editrice “La Cultura”24. Più
complesso, e forse maggiormente studiato, è il rapporto di C. con Martinetti,
col quale l’autore si laurea su Sviluppo e significato dell’individualismo
leibniziano. Il primo, fondamentale impulso all’approfondimento di Leibniz;
l’introduzione alla filosofia di Kant; il rifiuto del metodo dialettico;
l’urgenza di rinvenire una nuova, diversa organizzazione del nesso fra
individuale ed universale, sono elementi che stringono C. al magistero
martinettiano e che risultano fondamentali per la più generale formazione del
filosofo milanese. Al di sotto di tutti è poi presente l’esigenza di
individuare il corretto rapporto fra l’analisi della realtà e la sua
organizzazione sistematica, esigenza il cui movimento e la cui parabola
all’interno della propria maturazione intellettuale sono così descritte, ne La
malattia filosofica, dallo stesso protagonista: 24 Curriculum vitae di Colorni,
s.d., in Archivio Hirschmann, Roma, citato in Gerbi, Tempi di Malafede. Guido
Piovene e C.. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra, nuova edizione
Milano, Hoepli. Cfr.: C., L’estetica di Croce. Studio critico, Milano, La
Cultura; Id., Ardigò, in «Pietre», firmato con lo pseudonimo di Carlo
Rosemberg; per una storia di questa pubblicazione rinvio ad Vigorelli,
Antifascismo: il caso di “Pietre”, in Eugenio C. e la cultura italiana, a cura
di G. Cerchiai e G. Rota); lo scritto sul bergsonismo è tuttora inedito. È lo
stesso C., ne La malattia filosofica, a raccontare come si svolgevano, durante
le lezioni di Borgese, le esercitazioni dalle quali è nato ad esempio lo studio
su Croce. All’università si dà continuamente battaglia contro Croce. Ogni
settimana, uno studente sale sulla cattedra per discutere coi compagni e col
professore. Salire anche lui su quella pedana, gli piacerebbe tanto: ma per che
dire? Tenterà, ad ogni modo» (C., La malattia filosofica). Sul rapporto fra C.
e Borgese rimando a Riosa, Borgese e C. tra letteratura e politica, in Cerchiai e Rota,
C. e la cultura italiana. Nello stesso periodo nel quale si laurea C., altri
due allievi di Martinetti, Barié e Gadda, venivano indirizzati dal maestro allo
studio del filosofo di Lipsia. Si veda, a mero titolo di esempio, quanto lo
stesso Martinetti scrive a Gadda: «Se fra tre o quattro anni Ella potesse
uscire con una bella esposizione di Leibniz (non tema d’avere concorrenti in
questo argomento!) la via dell’università (per storia della filosofia) Le
sarebbe aperta» (Lettera di Martinetti a Gadda; in Martinetti, Lettere a Gadda,
a cura di Lucchini, in «I quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani», Cfr.
anche: Cerchiai, Due inediti di Emanuele su Leibniz, in «Rivista di storia
della filosofia»; C. lettore di Leibniz, in C. e la filosofia italiana. Si veda
la testimonianza di Tagliacozzo riportata poco sopra. Per il clima nel quale
poteva essere riletto Kant durante le lezioni martinettiane (con particolare
riferimento alle vicende relative a C.), si rimanda a S. Gerbi, Tempi di
malafede, cit., p. 39. 27 Una delle poche citazione dirette di C. presenti nel
libro sull’estetica crociana rinvia proprio allo scritto di Martinetti
intitolato Il metodo dialettico,Rivista di filosofia, là dove C. scrive:
«perché, per quale forza o per quale principio questa implicazione dei contrari
debba presentarsi quasi come una generazione dell’uno da parte dell’altro, è
difficile a intendersi. Perché si deve dire che il Non-io, il quale è, per la
sua stessa definizione, inseparabile dall’Io, sgorga, si svolge, si origina da
esso? Che il particolare nasce dall’universale?» (C., L’estetica di Croce).
Cinque scritti metodologici di C.. Il problema che lo occupa è sempre il posto,
la collocazione delle facoltà nel mondo dello spirito. A un certo punto, gli
balena la possibilità che questi elementi di cui cercava con tanto accanimento
l’ordine e la collocazione, non patiscano alcun ordine: possano vivere così, separati,
paralleli, autonomi. L’idea lo entusiasma. Gli sembra di avere ora fatto
veramente un passo innanzi. E non pensa più tanto a definire e a ordinare, quanto
a descrivere. Ma questo procedere dovrà pure avere una sua giustificazione
teorica, dovrà pure inquadrarsi in una visione del mondo, avere un suo nome che
termina in -ismo. Pierino [alter ego di C.] si butta sui pluralisti, sugli
empiriocriticisti: studia Mach e Avenarius, si addentra nel labirinto di
Leibniz. Su queste basi, si può dire che quello che altrove ho definito il
“problema dell’ordine” divenga, talvolta anche solo per contrasto, uno dei fili
conduttori dell’intera riflessione colorniana: impostato fin da L’estetica di
Benedetto Croce, esso cercherà una prima, instabile sistemazione nella
filosofia di Leibniz, per trovare poi nella rilettura metodologica ed
epistemologica del criticismo kantiano una soluzione – o, come potrebbe dirsi:
dissoluzione – affatto originale. Al fine di seguire il movimento del pensiero
di Colorni da questo punto di vista, può essere utile rileggere le parole
dell’autore stesso. C., La malattia filosofica; cfr. anche ibidem, n. 19 del
curatore. Di Leibniz dirò in seguito, in questo stesso paragrafo. Per quanto
riguarda l’accenno agli empiriocriticisti, si rimanda a quanto scritto da
Guzzardi, il quale, esaminando precisamente la radice dei riferimenti
colorniani a Mach, Avenarius e Schuppe, ne ha riconosciuto l’origine proprio
nell’insegnamento di Martinetti. C., spiega Guzzardi, trova una valutazione
positiva di questo pluralismo, nonché delle filosofie dell’esperienza di
Schuppe, Avenarius e Mach, nell’Introduzione alla metafisica di Martinetti.
D’altra parte, M. indirizza allo studio di Mach, Avenarius e Schuppe, un allievo,
Pelazza. Tali circostanze, secondo Guzzardi, fanno ritenere», insieme con altre
che dovrebbero essere approfondite, che l’interesse originario di C. per
l’empirio-criticismo sia da collegare a Martinetti e Pelazza (Guzzardi, Lo
specchio della natura. C. e la cultura del suo tempo, in C. e la cultura
italiana, a cura di Cerchiai e Rota). Prosegue Guzzardi. Non solo Schuppe e
Avenarius vengono citati da C. nella recensione all’Introduzione alla metafisica.
Qui si trova pure accennato fra i meriti di Martinetti quel concetto di
esperienza pura e obiettiva che egli sembra indicare come via di uscita dalle
difficoltà in cui il pensiero moderno si trova impigliato” – e l’esperienza
pura [reine Erfahrung], attorno a cui Pelazza ha costruito la propria
presentazione dell’empirio-criticismo, aveva costituito il punto d’approdo
della filosofia di Avenarius. La recensione Sull’“Introduzione alla metafisica”
di Piero Martinetti si trova nell’edizione Einaudi degli scritti colorniani. A
tutto ciò si può aggiungere che C. accostò all’empirio-criticismo anche la
filosofia di Croce. L’individualismo del Croce non è necessariamente in
contrasto col suo idealismo: risolve piuttosto il principio dell’auto-coscienza
– che è essenziale all’idealismo – in una coscienza del pensiero nella
effettualità del suo pensare; identifica il punto di partenza soggettivo col
suo necessario correlato oggettivo, l’universale col particolare. In questo
senso si avvicina piuttosto a forme di contingentismo e di empirio-criticismo;
e in questo senso appunto è giustificabile il suo tenersi al dato e partire da
esso: in quanto questo dato non può essere inteso che come uno stato d’animo,
un’esperienza che debba essere vissuta intensamente, e da cui si debba trarre a
volta a volta l’assoluto. C., L’estetica di Croce. Cfr. Cerchiai, L’itinerario filosofico di C.,
in «Rivista di storia della filosofia, Cerchiai. Nel libretto su Croce, il
problema dell’ordine è inquadrato a partire dalla questione del rapporto fra la
«soprastruttura» 30 dialettica del sistema e l’effettivo valore delle singole
osservazioni: «Ciò che sta sotto l’organizzazione esteriore», scrive C., è nel
crocianesimo il vero sistema, non ancora chiaro e formulato, ma agile e ricco
di molteplici possibilità. Ricercare tale ricchezza sotto un’impalcatura in
gran parte insoddisfacente è il compito che s’impone a chiunque viva quel
pensiero come un’esperienza della propria vita. E seguirne la possibilità di
sviluppo anche di là dalla forma che ha dato a se stessa, ci pare il miglior
omaggio che si possa rendere a una filosofia31. Se il “metodo individualistico”
così identificato nella filosofia di Croce conduce C. a liberare le singole
osservazioni «dall’interpretazione che Croce stesso ne ha data allo scopo di
adattarle ad un suo schema presupposto di organizzazione», per cercare di
«renderle di nuovo pure» e «ravvisare» di conseguenza «in esse» un sistema «non
imposto in precedenza, ma derivante e identico coi dati stessi forniti»32, non
può stupire l’interesse teorico nutrito dal filosofo milanese per il secondo
dei suoi “auttori”, ossia per il pensiero di Leibniz. Quest’ultimo, infatti,
pare offrire precisamente la possibilità di chiudere in un circolo coerente
l’analisi empirica del particolare e l’organizzazione sistematica del tutto.
Scrive C. Leibniz non parte mai con l’intento esplicito di costruire un
sistema. La sua attività filosofica si presenta a tutta prima come una grande
raccolta di prese di posizione particolari. Eppure il sistema non manca in
esse: è anzi continuamente presente. I singoli problemi si mostrano a poco a poco
connessi l’uno all’altro; le soluzioni convergono, si giustificano e confermano
a vicenda. Il sistema non è una pura esteriorità, un concordanza sopravvenuta;
è anzi l’anima di ciascuno osservazione, attraverso cui tutto si spiega e si
giustifica33. Per tali motivi, Leibniz rappresenta quasi il contraltare dello
storicismo crociano o, meglio ancora, il rimedio alle sue lacune; «Leibniz»,
infatti, «differisce [proprio] in questo da altri pensatori, apparentemente più
coerenti e organizzati, ma la cui ricchezza va cercata al di là del sistema,
nelle varie formulazioni particolari: vi differisce cioè per il fatto che, come
si è visto, il suo sistema si C., L’estetica di CROCE (si veda), cit. Scrive
ancora C.: «chi parta dal mondo stesso e, rendendo eterno e universale ciascun
dato di questo, voglia costruire una scienza delle forme possibili di questa
universalizzazione e di qui giungere ad una visione complessiva dei modi eterni
della realtà e delle loro reazioni reciproche, non pone il sistema all’inizio,
come premessa della sua ricerca; ma ad esso giungerà al termine ideale del suo
cammino. C., Nota bio-bibliografica, in G. W. von Leibniz, La monadologia,
preceduta da una esposizione antologica del sistema leibniziano, a cura di C.,
Firenze, Sansoni. Il riferimento sembra rinviare precisamente alla critica
della filosofia crociana. Cinque scritti metodologici di C.11 sviluppa
spontaneamente dalle singole osservazioni e l’insieme si mostra nella sua completezza
attraverso il complesso dei suoi aspetti. E tuttavia, lo scacco della
prospettiva leibniziana giungerà a sua volta quando, muovendo da simili
presupposti, Colorni dovrà constatare il carattere prettamente soggettivo del
tentativo di sistematizzazione da quella realizzato: Leibniz, spiega così C.
nel suo ultimo scritto sull’argomento, applica all’ordine spirituale quella
continuità, quel passaggio ininterrotto, quel procedere da ogni legge ad una
legge più vasta, che egli crede di scorgere come l’essenza più profonda del
mondo naturale. Che questa stessa continuità e questo allargarsi sia, più che
una legge della natura, un’esigenza dello spirito nella considerazione della
natura stessa, egli non sospetta36. L’insuccesso del punto di vista leibniziano
consentirà però anche a C. di schiudere un più libero sguardo, sciolto ormai
dai condizionamenti delle diverse scuole filosofiche, sul criticismo kantiano e
sugli strumenti da questo forniti per lo studio dei meccanismi di funzionamento
del pensiero. C. aveva anticipa le due linee – leibniziana e kantiana – della
propria filosofia, là dove aveva scritto, in Di alcune relazioni fra conoscenza
e volontà, che la monade di Leibniz avrebbe dovuto completarsi con la dottrina
kantiana, di modo che l’«universalità della monade, intesa come realtà cosciente,
puo coincidere con la trascendentalità del conoscere, inteso come conoscenza
reale»37. L’effettivo passaggio ad un più maturo kantismo segna tuttavia per
Colorni un punto di svolta fondamentale o, come afferma l’autore stesso, una
vera e propria «operazione di cataratta»38, capace di conquistare una diversa
prospettiva sul mondo: esso, infatti, consente al giovane studioso di voltare
le spalle alla “conoscenza filosofica” e di approdare infine a quella
particolare metodica ch’egli presenta come conoscenza prettamente scientifica,
intesa cioè come padronanza di un processo. La domanda impossibile (senza
senso) della filosofia, spiega così Colorni, pur nella loro rigida formulazione
teoretica, sono sempre espressione di qualche tendenza, di qualche profonda
esigenza dell’animo. La risposta si dà dunque divenendo padroni del meccanismo
psicologico mediante cui la domanda viene posta; essendo capaci di riprodurlo,
di seguirlo nelle sue fasi, di variarlo all’infinto. Al problema della realtà,
si risponde fabbricando animi per cui l’expressione “realtà” non ha senso. Alla
domanda se esiste un mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo
non sia uguale a due angoli retti, si risponde costruendo una geometria in cui
tale somma sia effettivamente maggiore o minore di due retti, e mostrando che
tale geometria non è né più né meno vera di quell’altra; ma è, rispetto
all’altra, essenzialmente nuova C., Libero arbitrio e grazia nel pensiero di
Leibniz, C., Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà. C., Critica filosofia
e fisica teorica, C., Filosofia e scienza. C., Critica filosofia e fisica
teorica; Cerchiai 12 È in questo contesto, all’interno del quale Colorni
ritiene di essere definitivamente guarito dalla sua «malattia filosofica»41,
che vanno collocati i titoli di seguito trascritti e conservati presso la
“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo
Vittorio Somenzi. Di tali scritti, e degli altri pubblicati dalle riviste
«Aretusa», «Analisi» e «Sigma», è lo stesso Somenzi a raccontare la storia nel
già citato testo su C. filosofo della scienza. 3. La metodologia colorniana
negli scritti del Fondo Somenzi «Nel 1945», scrive difatti Somenzi, comparve
sulla rivista «Aretusa» un Ricordo di C. scritto dall’amico Guido
Morpurgo-Tagliabue, accompagnato da due inediti stimolanti: Il bisogno
dell’unità e Sul complesso di Edipo. Altri inediti mi pervennero attraverso la
rivista «Analisi» […], e di questi una parte venne pubblicata su «Analisi» e sulla
rivista romana «Sigma» che ad essa si affiancò per iniziativa di Giuseppe
Vaccarino e mia. Dal carteggio fra Vaccarino e Somenzi emergono altre
importanti informazioni sui dattiloscritti conservati in FS, che con ogni
evidenza i due fondatori di «Sigma» si inviavano in reciproca lettura. Di
quanto scriveva Somenzi a Vaccarino nel maggio del ’47 si è già reso conto nel
§ 1. Il 27 gennaio di quel medesimo anno, è Vaccarino a dire a Somenzi di
sperare «tra qualche giorno di inviar[gli] i C.»; il giorno appresso, e quello
successivo ancora, Vaccarino aggiunge poi quanto segue: Spero domani di
inviarti i Colorni. Molto interessanti e brillanti. Comincerei con i dialoghi
di “Commodo”, combinandoli in modo che abbiano tra di loro un certo legame.
Ieri sera ho riletto i C., che ti rimando tranne l’ultimo, che ti invierò tra
qualche giorno. “I dialoghi” si potrebbero pubblicare in 3 puntate – (La
seconda notevolmente più lunga delle altre 2) – Vi è una quarta puntata
sull’economia, che mi piace meno. Nel testo ho cambiato qualche parola a matita
(in modo che tu possa eventualmente ricorreggere). Ho creduto anche opportuno
evitare il “dialogo nel dialogo” nel primo n°, introducendo invece del “fisico
ribelle” il “Curiosus” del secondo n°. L’Apologo ed il Ritorno alla natura
vanno anche benissimo. Forse si potrebbero pubblicare unitamente al terzo
dialogo, che è molto breve. Le idee di Colorni mi sembrano meglio espresse nei
dialoghi che nel capitolo sulla fisica, data la forma brillante 41 La malattia
filosofica è per l’appunto il titolo che C. diede alla sua più completa
biografia intellettuale, già qui ricordata nelle pagine precedenti. Somenzi. Prosegue
poi Somenzi citando di fatto alcuni dei titoli dei quali si sta qui discutendo:
«La rivista doveva contenere articoli di fondo dedicati a problemi come: il
concetto di esperienza, costanti universali e unità di misura, l’illusione
finalistica nella fisica e nella biologia, l’illusione realistica nella fisica,
geometria ed esperienza, l’assiomatica dei principi della meccanica,
l’assiomatica della teoria della relatività e quella della meccanica
quantistica, fisica puntuale e fisica di campo, il concetto di istinto, la
polemica tra meccanicismo e vitalismo, la costruzione di una economia
indipendente da premesse psicologiche. dell’espressione. In quanto alle
opinioni espresse (l’io, la storia, l’amore, ecc.) non c’è coincidenza con la
metaconoscenza, anzi piena opposizione43. Su «Analisi», uscì Filosofia e
scienza44, mentre un più consistente numero di titoli apparve su «Sigma»; si
trattava, in particolare, dei testi seguenti: Apologo su quattro modi di
filosofare; Della lettura dei filosofi; Del finalismo nelle scienze;
Dell’antropomorfismo nelle scienze; Sugli idoli della scienza fisica; Critica
filosofica e fisica teorica; Il ritorno alla natura; Filosofi a congresso45.
Oltre a questi – e presumibilmente appartenenti al medesimo gruppo di testi del
quale Somenzi afferma di aver pubblicato solo una parte – in FS sono conservati
altri dattiloscritti, di cui sono qui trascritti quelli maggiormente compiuti46.
I primi tre scritti appartengono con ogni evidenza al gruppo di testi destinati
dall’autore alla rivista di metodologia scientifica progettata con GEYMONAT (si
veda). Questa, oltre a note di varietà, rassegne e recensioni, avrebbe infatti
dovuto ospitare una sezione dedicata ad «Articoli e saggi», fra i cui titoli C.
indica per l’appunto Geometria ed esperienza e Assiomatica delle leggi della
meccanica. Il testo intitolato II: Relatività generale è, come mostrato dalla
numerazione romana, il secondo paragrafo di Sull’assiomatica della teoria della
relatività (anch’esso menzionato nel Progetto di una rivista di metodologia
scientifica), il quale comincia proprio con l’indicazione di un paragrafo (I)
La relatività ristretta. Tutti e tre i testi fanno riferimento al discorso
intorno all’idea di esperienza che per C. discende dalla scoperta del carattere
relativo delle categorie: «la coscienza che abbiamo acquistato della nostra
possibilità di modificare [i] dati elementari»48 della conoscenza, infatti,
costringe secondo C. sia a riformare i concetti di a priori e di a posteriori,
sia a rivedere coerentemente la nozione di esperienza. «A priori», spiega così
C., «non significa più della ragione. A posteriori non significa più dei sensi.
Sia i dati della ragione, sia i dati dei sensi, ap43 Lettere rispettivamente
del 28 e del 29 gennaio 1947; quest’ultima è scritta di seguito all’epistola
del giorno precedente, sul medesimo foglio. Il 17 gennaio 1947, Vaccarino aveva
informato Somenzi del suo scritto sulla metaconoscenza, col quale confronta qui
gli scritti colorniani: «Avevo preparato uno scritto sui rapporti tra la
conoscenza e la religione, il quale in definitiva risultò troppo lungo ed
infarcito di considerazioni metagnosologiche. Ho pensato perciò che è meglio
direttamente attaccare la questione della metaconoscenza». Tutte le lettere
sono in FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza
scientifica, Vaccarino Giuseppe. Il “fisico ribelle” è probabilmente il Fisico
che Colorni inserisce quale interlocutore (appunto: quasi come dialogo nel
dialogo) in Del finalismo nelle scienze, e che nella stampa definitiva su
«Sigma» non viene poi effettivamente sostituito dal Curiosus interlocutore di
Dell’antropomorfismo nelle scienze. Il testo comprende parzialmente anche: Sul
concetto di esperienza e Intorno al principio di identità. Cfr. infra, la Nota del curatore. C.,
Filosofia e scienza. Cerchiai 14 paiono come elementi in cui il fattore
soggettivo e quello oggettivo si presentano mescolati, ma di cui è in nostro
potere, mediante un procedimento logico e psicologico insieme, modificare la
struttura»49. L’esperienza, a sua volta, «anziché rivelare leggi naturali»,
dovrà suggerire, secondo le contingenti necessità degli studiosi, «determinate
forme di definizione e di misura», utili a proseguire nel lavoro di ricerca
scientifica51. Siamo qui di fronte a quel progetto di “liberazione” della
fisica «dalle premesse realistiche-finalistiche» che deve per Colorni
rappresentare non solo «uno degli scopi essenziali della rivista»52, ma anche
il fine ultimo della sua stessa critica epistemologica. Di tale progetto il più
lungo e strutturato Programma contribuisce a tracciare ulteriormente i contorni
teorici. Il nucleo dello scritto ruota intorno alla considerazione secondo la quale
la «filosofia odierna dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in
mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine. Criteri che, ormai ciò è
chiaro a tutti, trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta che ci
fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato». La constatazione del
carattere condizionato della realtà diviene in tal modo, e nuovamente, il punto
di partenza – tutto kantiano – della metodologia di C.. Il criticismo
trascendentale, aggiunge però l’autore, «ha messo tutti sul chi vive», sì che
«la curiosità di vedere al di là del velo di Maja delle categorie si è fatta
sempre più intensa»; sarà tuttavia soltanto la capacità della conoscenza
scientifica di disubbidire all’«ammonimento di Kant» per trascurare «i limiti»
da questo imposti che consentirà, ancora una volta, di compiere il secondo,
decisivo passo lungo la strada già intrapresa dalla Critica della ragione pura:
«La domanda da porsi», chiarisce Colorni in un passo cruciale di Critica filosofica
e fisica teorica, Non [è]: “È il mondo del nostro pensiero, o non è, quello
reale?”; bensì: “Come potrebbe essere conformato un mondo di pensiero diverso
dal nostro?”. La prima domanda parte da quella esigenza di sicurezza e
stabilità che è sempre collegata col pensiero del reale [e che appartiene
all’atteggiamento filosofico]. La risposta che essa cerca è una risposta che
assicuri tale sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi; nel reale, o in qualche
cosa che lo sostituisca. La seconda domanda [propria dell’atteggiamento
scientifico] muove invece da una esigenza di novità […]. Si tratta qui del
secondo passo della rivoluzione copernicana. Il primo era consistito
nell’accorgersi che le leggi della realtà non sono che forme del nostro
intelletto. Il secondo consiste nel domandarsi se queste forme siano proprio
necessarie ed immutabili e irresolubili. Anzi, non 49 Ibid. A priori diviene
perciò il «nostro potere di modificazione che si riferisce sia agli oggetti
della nostra ragione, sia a quelli dei nostri sensi. Mentre poi «la geometria
definisce gli oggetti su cui opera mediante i suoi assiomi, la fisica definisce
quei medesimi oggetti mediante definizioni reali, cioè facendoli corrispondere
a determinati fenomeni naturali. Mentre dunque la prima gode di una completa
libertà nella scelta degli assiomi, la seconda è legata alle conseguenze
implicite nella scelta di quelle particolari definizioni; libera però di mutare
le definizioni, qualora le conseguenze non la soddisfacessero. C., Sul concetto
di esperienza. Cinque scritti metodologici di C. 15 nel domandarsi se siano
irresolubili (domanda che presuppone l’uso di quelle forme stesse) ma nel
tentare senz’altro di scioglierle53. In tal modo, spiega C. al termine di
Programma, è la conoscenza scientifica a raggiungere quell’“al di là” che alla
prospettiva kantiana era negato, ma l’“al di là” al quale essa perviene «non è
una negazione del “di qua”, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di
nuove categorie», un mondo al quale si viene portati, in primo luogo, dalla
consapevolezza che la «legge essenziale della natura è la ragione, e la ragione
è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto l’uomo non fa che
proiettare fuori di sé l’essenza della propria natura»54. L’ultimo testo qui
trascritto, Commodo a Ritroso, appartiene ad un gruppo di dialoghi, noto come
Dialoghi di Commodo, stesi a più mani durante il periodo del confino a
Ventotene55. Commodo, come ha spiegato la moglie Ursula Hirschmann in occasione
dei primi tentativi di pubblicazione integrale dei frammenti colorniani, è lo
stesso Colorni; Ritroso è Ernesto Rossi56. Lo scritto prende spunto da
argomenti economici per chiarire alcune questioni che, venendo a teorizzare una
sorta di “dilettantismo metodologico”, rendono conto della stessa natura
dell’indagine colorniana. L’«appartenenza professionale», dice C. all’amico
Ritroso/Rossi in uno dei dialoghi già [C., Critica filosofica e fisica teorica.
55 Racconta Altiero Spinelli nella sua autobiografia, ben descrivendo non solo
la genesi dei Dialoghi di Commodo, ma anche l’atteggiamento di Colorni nelle
discussioni: «Parlavamo ogni giorno delle cose più varie, di politica, di
geometria non euclidea, di nostri compagni di confino, delle nostre letture,
delle nostre storie personali, dei grandi della storia, ma sentivo che
[Eugenio] stava sempre attento a scoprire un qualche mio coperto punto malato,
che egli avrebbe messo in luce, curato e guarito – poiché la vocazione del
guaritore d’anime l’aveva proprio nel sangue. Mi affascinava la precisione
quasi infallibile con la quale scopriva il punto errato di un ragionamento, il
punto equivoco di un atteggiamento, il momento retorico di un’espressione.
Talvolta uno di noi, ripensando la sera alle parole scambiate durante il
giorno, le proseguiva scrivendo un dialogo nel quale diceva la sua e immaginava
quel che l’altro avrebbe risposto. Talvolta il dialogo aveva un seguito,
scritto dall’altro, prima di terminare a voce» (A. Spinelli, Come ho tentato di
diventare saggio, Il Bologna, Mulino). 56 Gli pseudonimi principali utilizzati
negli altri dialoghi sono i seguenti: Severo è Altiero Spinelli, Manlio
Rossi-Doria è Modesto, Ursula Hirschmann è Ulpia. Così scrive Landi a Hirschmann.
Penso che i tempi stiano maturando per
un’edizione in volume degli scritti lasciati da C.: come sono maturati, dopo
tanti decenni, per la ripresentazione ai lettori italiani di quelli diVailati,
che fu studioso per tanti versi affine ad Eugenio e che, rimasto quasi sepolto
fin da prima della Prima Guerra Mondiale, ricomparirà ora presso Laterza e
presso Einaudi su mia iniziativa». RossiLandi faceva poi riferimento alle
pubblicazioni di «Analisi» e «Sigma». Ho potuto prendere visione della corrispondenza
relativa ai diversi tentativi di pubblicazione degli scritti filosofici di C.
(prima presso l’editore Laterza e poi per la Feltrinelli) grazie alla cortesia
di Renata C., che ancora conserva una parte del carteggio e che qui debbo
ringraziare per la sua disponibilità. 57 Esso va dunque letto insieme a Dello
psicologismo in economia, pubblicato nella ed. Einaudi alle pp. 322-342. Per
una più precisa contestualizzazione dei frammenti economici colorniani cfr
infra, la Nota del curatore. Cerchiai 16 pubblicati da «Sigma»
nell’immediato dopoguerra, «comporta un legame così stretto con la scienza e un
interesse così diretto ai vari problemi particolari in cui la ricerca si
articola momento per momento, che è difficile avere la possibilità di riprendere
in esame i problemi iniziali e i principi fondamentali da cui si è partiti»58;
proprio per questo, secondo Colorni, i «dilettanti e gli outsider», sono forse
maggiormente in grado, attraverso l’esercizio di un «tranquillo, pacato,
spregiudicato esame dei punti di partenza e delle definizioni iniziali»59, di
«sconvolgere dalle fondamenta tutto l’edificio del proprio sapere»60. Certo,
dovendo rispondere all’accusa di «presumere di rivedere i principî di tutte le
scienze, senza averle mai praticate»61, lo stesso C. – che alla scienza è
giunto passando per la filosofia – parla in qualche modo pro domo sua. E
tuttavia, egli va anche a puntualizzare, in tal modo, il «arattere
pragmatistico del proprio pensiero, il quale deve giocoforza confrontarsi con
le più differenti discipline scientifiche. In Commodo a Ritroso, C. riprende
questi medesimi argomenti, insistendo però con maggior vigore su quello spirito
d’indipendenza – indispensabile ad un proficuo sviluppo dell’opera scientifica
e filosofica – il cui significato teorico è già stato indagato in Programma.
Scrive C.: «Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e
passivo, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sbagliate e confuse,
sfondando porte aperte ad ogni passo, desideroso di scontri e di battaglie».
Emerge qui, accanto alla consapevolezza di un metodo teorico ormai chiaramente
precisato, una componente particolare del carattere del giovane filosofo:
quella irrequietezza, ironicamente descritta ne La malattia filosofica, che
contribuisce a rendere conto della stessa, febbrile attività politica
colorniana. Essa rivela una vivacità intellettuale che si mostrò sempre
incapace di fermarsi ai risultati volta per volta raggiunti e che, trascorrendo
dai primi studi storico-filosofici a quelli metodologici degli ultimi anni,
viene a costituire l’anima, per così dire, anche dei dattiloscritti colorniani
conservati nel Fondo Somenzi. C., Dell’antropomorfismo nelle scienze. Com’è
noto, e a dispetto della sua formazione umanistica (lit. hum.), Colorni si
cimenta direttamente nella ricerca fisica, con particolare attenzione alla
teoria della relatività. Cfr. nello specifico i titoli seguenti: Unités de
misure et relativité; Le trasformazioni di Lorentz come caso particolare e Deduzione
del campo elettromagnetico di una carica in movimento rettilineo e uniforme. 63
E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Nota del curatore I testi di
Colorni in FS – tutti dattiloscritti – sono per lo più approntati per la
composizione a stampa, spesso con indicazione del corpo e della impaginazione
da utilizzarsi. Alcune correzioni e integrazioni, la segnalazione «a penna»
talvolta riferita ai titoli o alla firma, i commenti a margine sulla
opportunità o meno della pubblicazione, fanno supporre che ci si trovi per lo
più di fronte a trascrizioni battute a macchina dagli originali. Salvo che dove
diversamente segnalato (come ad esempio – per i motivi lì esposti a pié di
pagina – in Programma), ci si è generalmente attenuti al criterio di integrare
le eventuali sviste od errori ortografici direttamente nel testo, senza
ulteriore indicazione. Ugualmente ci si è comportati per le correzioni e gli
interventi a penna o a macchina. Il dattiloscritto di Programma presente in FS
conserva la conclusione, che risulta invece assente nelle precedenti edizioni
in volume. Oltre ai titoli qui riportati, e a quanto si dirà qui appresso, in
FS sono conservati anche i testi seguenti: Il bisogno dell’unità; Sul complesso
di Edipo; I primitivi e le categorie dello spirito; Filosofi a congresso; Sul
concetto di esperienza; Costanti universali e unità di misura; Sull’assiomatica
della teoria della relatività. I. Relatività ristretta, tutti già raccolti
nelle diverse edizioni dei frammenti colorniani. A partire da Sul concetto di
esperienza, le pagine sono numerate, a mano o a macchina, in sequenza, sì da
creare un complesso unico comprendente anche: II. Relatività generale (da
inserirsi dopo Relatività ristretta), e di seguito: Sull’assiomatica delle
leggi della meccanica e Geometria ed esperienza. In FS sono inoltre presenti
due ulteriori scritti di argomento economico: Batti, ma ascolta! e Ritroso a
Commodo: meno compiuti degli altri, essi saranno da me trascritti in un volume
di prossima uscita. Già nella nota introduttiva a Dello psicologismo in
economia, pubblicato nella edizione Einaudi alle pp. 322-342, si ricostruiva,
anche grazie agli elenchi dei titoli stesi da Ursula Hirschmann per Rossi-Landi,
la genesi degli scritti economici colorniani, che qui ci si limiterà dunque ad
integrare con quanto emerge dai titoli presenti in FS. Dello psicologismo in
economia risulta composto da tre blocchi. Il primo, intitolato È possibile
costruire una scienza economica indipendente da premesse psicologiche e
sociologiche?, è citato anche nel Progetto di una rivista di metodologia
scientifica fra i possibili «Articoli e saggi», e prosegue dall’inizio del
dialogo fino al terzo capoverso: sarebbe una differenza di grado e non di
natura. Del secondo (Robbins considera), che comincia subito dopo il primo e
termina in ivi, E m’invita a prendere tutto l’argomento non troppo sul serio»),
è conservato in FS il solo ultimo foglio, del quale così scriveva Silvio
Ceccato a Somenzi il 5 febbraio del 1943: «Ho guardato fra le carte di Colorni.
Spaiato trovo un foglio, numero 5, che mi sembra appartenere al dialogo fra
Commodo e Severo [che in effetti è l’interlocutore di quella parte del
dialogo]. Se vuoi te lo mando, o lo do a Vaccarino. Altro non c’è, mi sembra,
che possa interessarti. Stampa pure. Quando hai ben deciso, fammelo però
sapere, che, per cortesia, ne avvisi la sorella» (FS, sez. 3, Attività
professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste,
enciclopedie e progetti editoriali, 1, Sigma Analysis, b. 5, Analysis Methodos
(Ceccato). Il terzo blocco, Vedo che riprendi (cfr. C., Dello psicologismo in
economia), rappresenta il nucleo centrale e la con- Geri Cerchiai 18 clusione
del dialogo. Per quanto riguarda i titoli di FS: Ritroso a Commodo – come si
evince dai numerosi riferimenti a Vedo che riprendi – prosegue il dialogo già
iniziato in quest’ultima parte di Dello psicologismo in economia; Commodo a
ritroso è la risposta a Vedo che riprendi; Batti ma ascolta è l’«accluso
foglietto» menzionato in Commodo a Ritroso. Le note in calce ai testi sono
tutte del curatore. Desidero Ringraziare Giovanni Battimelli, Responsabile del
Fondo Vittorio Somenzi, e Libutti, Direttrice della Biblioteca del Dipartimento
di Fisica (“Sapienza” Università di Roma), per la disponibilità e cortesia che
mi hanno dimostrato durante la consultazione dell’Archivio. G. C. Cinque
scritti metodologici 19 II. Relatività generale1 Se vogliamo estendere quanto
si è detto per la relatività ristretta3 al caso di sistemi in movimento
qualsiasi4, il problema della relatività generale diverrà quello di determinare
le misure spazio-temporali per un osservatore in movimento qualsiasi rispetto
ad un sistema inerziale nel quale valga la geometria euclidea. La
determinazione di tali misure sarà fatta di nuovo assumendo come fissa la
distanza fra due punti5, e come costante la velocità della luce. In linea
generale risulterà che la geometria tridimensionale del sistema in questione
non sarà euclidea. Viceversa dovrebbe essere dimostrabile che se le misure
assunte da un osservatore col metodo di cui sopra, danno luogo ad una geometria
non euclidea, si potrà sempre trovare un sistema i cui punti siano mossi
rispetto all’osservatore in questione in modo tale che la sua geometria sia
euclidea. In tale sistema non vi sarà alcun campo gravitazionale. Una tale
impostazione del problema differisce un poco da quella classica della
relatività generale. Non si tratta qui di trovare una formulazione delle leggi
di natura che sia invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, e quindi di
attribuire ad ogni sistema la geometria richiesta dal campo gravitazionale in
esso vigente, ma piuttosto di trovare le trasformazioni che permettono di
passare da un sistema ad un altro qualsiasi6, avendo assunte per tutti i
sistemi determinate convenzioni7 riguardo alle misure spazio-temporali; e
questo senza fare alcuna ipotesi riguardo alla forma delle leggi naturali. 1
FS, sez. 3, Attività professionale, serie 2, Carte di lavoro non organizzate,
5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, Sigma Analysis, b. 6, Articoli,
Il titolo è cancellato nel dattiloscritto, così come è barrata la numerazione
“5” (a penna) della pagina, numerazione che, insieme con quella romana, segnava
il foglio come seguito di C., Sull’assiomatica della teoria della relatività.
I. Relatività ristretta (cfr. la Nota del curatore), del quale lo scritto è il
secondo paragrafo. 2 All’inizio del dattiloscritto sono inserite a penna delle
virgolette basse (chiuse al termine del terzo capoverso), che spiegano
l’intervento del quale si rende conto infra, n. 4. 3 Il riferimento è a Sull’assiomatica
della teoria della relatività, che infatti è numerato: La relatività ristretta.
A penna è stato qui aggiunto: «prosegue C.». 5 Cfr. E. Colorni,
Sull’assiomatica della teoria della relatività. Anziché assumere come unità di
misura fondamentali una lunghezza o un intervallo di tempo per poi dedurne le
altre grandezze cinematiche, si potrebbe assumere come unità primitive la
distanza fra due punti dati e la velocità di propagazione di un dato fenomeno».
6 Si tratta qui precisamente dell’idea di revisione del concetto di esperienza
in relazione a quello di definizione che costituisce uno dei nuclei del
programma metodologico colorniano. 7 Sono molti i riferimenti di Colorni al
carattere convenzionale della scienza e delle sue definizioni. Riporto, per il
suo carattere “generale”, quanto affermato nella Postilla al programma della
rivista di metodologia scientifica (in M. Quaranta, La “scoperta” di C.): «Si
tratta, in breve, di partire da una concezione “convenzionalistica” o
“idoenistica” della scienza; non limitandola però, come fa in sostanza la
scuola di Vienna o anche il Gonseth, alla interpretazione filosofica dei fatti
scientifici; applicandola invece ai concetti basilari su cui poggia l’edificio
della scienza, e mostrando come un chiarimento rigoroso delle ipotesi che sono
implicite nell’assunzione di tali concetti possa trasformare effettivamente e
rendere più chiare molte formulazioni scientifiche, e forse risolvere alcuni
dei problemi più scottanti della scienza moderna». C. 20 Formulando in questo
modo il problema, si giungerebbe probabilmente alle medesime conclusioni della
relatività generale riguardo alla gravitazione; ma la nuova impostazione
permetterebbe forse di aggredire in maniera diversa da quella consueta altri
problemi (in particolare quello dell’elettromagnetismo). Non si tratterebbe più
in questo caso di formulare le leggi del campo elettromagnetico in forma
invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, ma di rendersi ragione della
loro struttura, studiando sistematicamente il comportamento di cariche in
movimento, mediante “Transformation auf Ruhe”. Questo saggio si riferisce a
studi ancora in corso e ben lungi dalla conclusione8 ). 8 L’ultimo capoverso è
barrato a penna nel dattiloscritto. L’inciso fra parentesi riprende quello
analogo – non riportato nelle edizioni dei testi colorniani, ma presente nei
dattiloscritti di FS – posto al termine di Sull’assiomatica della teoria della
relatività. I.- Relatività ristretta, il quale recita nel modo seguente:
«Questo saggio si riferisce ad un lavoro già terminato, in cui lo sviluppo qui
descritto viene eseguito» (FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte
organizzate da Vittorio Somenzi, Scatole grigie, 1, C. e Cotone, b. 3, C.). Sull’assiomatica
delle leggi della meccanica. Il principio d’inerzia è notoriamente una
definizione camuffata. Esso definisce come non soggetto ad alcuna forza il
corpo dotato di movimento uniforme; quindi come soggetto ad una forza il corpo
dotato di movimento non uniforme. È possibile considerare i principi della
conservazione della quantità di movimento e dell’energia come delle estensioni
del principio d’inerzia, cioè anch’essi come delle implicite definizioni della
forza? Crediamo di sì. Consideriamo infatti un sistema di due corpi. Diremo che
il sistema non è stato sottoposto all’azione di alcuna forza, non solo quando i
due corpi proseguono nel loro moto rettilineo ed uniforme, ma anche quando
hanno modificato tale loro moto dopo essersi urtati. Ciò che dovrà essere
rimasto immutato nel sistema non sarà dunque più il moto dei due corpi, ma una
funzione di tale moto; funzione che si tratta di determinare, ponendole delle
condizioni derivanti da esigenze plausibili. Anzitutto si può richiedere che il
mutamento provocato dall’urto nello stato di moto di uno dei due corpi sia
misurato dal mutamento provocato dal medesimo urto nell’altro corpo: cioè che
ciò che rimane costante nel sistema sia la somma delle funzioni in questione
riferite a ciascun corpo. Individuato poi ciascun corpo mediante una costante
caratteristica di esso (la sua “massa”), si può richiedere che il cambiamento
provocato in un corpo successivamente da due altri corpi di uguale massa e
uguale velocità, sia identico al cambiamento provocato da un corpo di massa
doppia e di uguale velocità: il che equivale a dire che la nostra funzione
dovrà essere della forma mf(v). Si potrà poi osservare che la funzione in
questione deve poter esprimere sia un mutamento nel valore assoluto della
velocità di ciascun corpo, sia un mutamento nella sola direzione: le funzioni
in questione devono cioè essere due, l’una vettoriale, l’altra scalare. Infine
si osserverà che, poiché due corpi in movimento uniforme rispetto ad un sistema
inerziale lo sono pure rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale, la
costanza delle nostre funzioni deve essere invariante rispetto a trasformazioni
di Lorentz. Tutte queste condizioni limitano la scelta delle nostre funzioni in
modo da determinarle univocamente; e ne risultano le espressioni relativistiche
della quantità di movimento e dell’energia. Ciò è stato mostrato da Langevin2,
il quale parte però da premesse un po’ diverse. Gli sviluppi precedenti possono
avere un’importanza per il seguente motivo: la teoria della relatività giunge
alle sue espressioni dell’energia e della quantità di movimento, partendo dalle
equazioni di Maxwell, che suppone assicurate dall’esperienza. Ma il controllo
sperimentale di tali equazioni suppone che si 1 FS, sez. 3, Attività
professionale, serie 1, Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole grigie, 1, C. e
Cotone, Nel dattiloscritto, le pagine riportano la numerazione, a penna in
rosso, da 6 a 7 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e la Nota del
curatore). Langevin e un fisico francese che, non diversamente da Eddington – altro
autore colorniano e griceiano – fu abile divulgatore scientifico. disponga di
una definizione dell’energia e della quantità di moto. Inoltre, quando si siano
definiti i principi fondamentali della meccanica indipendentemente
dall’elettromagnetismo, rimane aperta la possibilità di dedurre le leggi stesse
dell’elettromagnetismo servendosi di alcuni risultati della relatività, e raggiungendo
così una più profonda comprensione di quelle leggi. (Anche questo articolo si
riferisce a studi in corso, di cui la prima parte, riguardante la relatività
ristretta e l’elettromagnetismo, è terminata; ma avrebbe carattere troppo
tecnico per la rivista4.) 3 Assente nel testo. 4 Per un’analisi degli scritti
colorniani sulla teoria della relatività, si rinvia a M. Quaranta, La
“scoperta” di C. sulla teoria della relatività. Per l’inciso fra parentesi,
cfr. supra, II. Relatività generale. La rivista è la progettata rivista di
metodologia scientifica, sulla quale si rimanda ancora a quanto scritto supra,
§ 3. Cinque scritti metodologici 23 Geometria ed esperienza1 Gli assiomi della
geometria sono delle definizioni implicite, o meglio rappresentano delle
limitazioni imposte alla nostra libertà di definire gli oggetti ai quali essi
si riferiscono. Tali oggetti però possono essere di due tipi: o sono tali che
per ottenerne una rappresentazione concreta è necessario immaginarli realizzati
da un fenomeno fisico (p. es. la linea retta realizzata dalla traiettoria di un
raggio luminoso nel vuoto); in tal caso la definizione implicita negli assiomi
è una definizione “reale” (Zuordnungsdefinition2 ), e gli assiomi limitano il
numero degli oggetti o dei fenomeni che possono essere assunti per realizzare
fisicamente quel determinato ente geometrico. Oppure l’ente geometrico in
questione è tale da poter essere definito mediante un’opportuna combinazione di
altri enti precedentemente definiti (p. es. l’angolo uguale ad un angolo dato
può essere definito senza ricorrere ad alcuna sovrapposizione, quando sia stata
definita precedentemente la distanza fra due punti); e allora gli assiomi
limitano il numero degli accorgimenti che noi possiamo usare per definire quel
determinato ente geometrico. Agli scopi della costruzione fisica di un sistema
galileiano, è opportuno distinguere questi due tipi di definizione; e può
essere utile studiare da questo punto di vista le “Grundlagen” di Hilbert3. Non
è detto che si possa sempre trovare un insieme di fenomeni fisici capaci di
realizzare contemporaneamente tutti gli assiomi di una geometria. Per esempio,
se si vuol realizzare la geometria mediante raggi luminosi assunti co1 FS, sez.
3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole
grigie,1, C. e Italo Cotone, b. 3, C., 1945-1993. Numerato a penna 8 (cfr.
supra, II. Relatività generale, n. 1, e Nota del curatore). Il titolo è
anch’esso sottolineato a penna con l’indicazione: a mano. A margine, scritto a
matita in rosso e cancellato, alcune segnalazioni per il tipografo: «Corpo 10/10
tondo // Giustezza 27». Scrive Colorni in Filosofia e scienza. Ora, mentre la
geometria definisce implicitamente gli oggetti di cui tratta, mediante gli
assiomi, la fisica li definisce direttamente, mediante definizioni reali
(Zuordnungsdefinitionen). Con queste parole, C. richiama il concetto
reichenbachiano di Zuordnungsdefinition, per cui cfr. H. Reichenbach, Axiomatik
der Raum-Zeit-Lehre, Braunschweig, Vieweg et Sohn Akt.-Ges.,; Id., Philosophie
der Raum-Zeit-Lehre, Berlin- Leipzig, W. de Gruyter et Co. In una lettera
firmata da Hirschmann (ma in realtà scritta da Colorni) e indirizzata a GEYMONAT
(si veda) per il tramite della moglie Virginia, l’autore afferma di possedere
il primo dei due titoli, e a questo rinvia per la comprensione del proprio
pensiero. Noi abbiamo qui l’importante saggio di Reichenbach, “Axiomatik der relativistischen
Raum-Zeit-Lehre”, che mette le cose da un punto di vista molto affine a quello
che Eugenio vorrebbe sviluppare. La lettera, conservata nel Fondo Geymonat
presso la Biblioteca del Museo civico di storia naturale di Milano, è citata da
M. Quaranta (La scoperta di Eugenio Colorni), il quale commenta: «Ora, se è
rintracciabile in Kant una nozione rigida dell’a priori, letture kantiane
sviluppate in quegli anni da Cassirer e Reichenbach, in Italia da Preti, vanno
nella direzione di accogliere la fecondità del “metodo trascendentale”; le
indagini epistemologiche di Colorni si inseriscono in questa linea di ricerca. Questo
capoverso, da Agli scopi fino a Hilbert, è cancellato a penna nel testo
dattiloscritto. Il riferimento è ai Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della
geometria) di Hilbert. me rettilinei e di velocità di propagazione uniforme,
non è detto che risulti verificato l’assioma di Euclide; e questo assioma, se è
verificato per il sistema costruito da un determinato osservatore,
necessariamente non è verificato per il sistema costruito da un altro
osservatore, dotato rispetto al primo di movimento non uniforme. Cinque scritti
metodologici Programma1 Supponiamo che l’uomo viva in un palazzo le cui porte
sono tutte chiuse. Egli non ha le chiavi. Cioè egli ne possiede un mazzetto, ma
non sa se esse si adattino alla serratura, né quale chiave a quale serratura.
Prova, riprova, si costruisce nuove chiavi nella continua speranza di potere un
giorno abitare tutto il palazzo. Lo scienziato è un uomo al quale è riuscito di
aprire una porta. Una chiave, per sua fortuna, o per sua abilità, ha girato
nella toppa. Egli apre, e trova nella camera immensi tesori, li utilizza3, li
mette a disposizione degli altri uomini che lo ringraziano ammirati. Da quel
momento4 la camera è accessibile a tutti. Entusiasmato, lo scienziato vorrebbe
aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe
aprire tutte le porte5. La chiave comincia a diventare uno strumento pericoloso
nelle sue mani. Egli la vuole usare dappertutto. Il risultato è che sfonda le
serrature. Ci vorrà6 poi una gran fatica per accomodarle e per trovare o
costruire una nuova chiave che permetta di aprirle (Fuor di metafora: p. es. la
medicina è stata rovinata per secoli dall’ossessione del metodo meccanicistico,
che aveva fatto meraviglie nel campo della fisica. E si è voluto risolvere
tutto a base di anatomia, di rapporti e di modificazioni di tessuti. Nella
maggioranza dei casi non si è cavato un ragno dal buco). Il filosofo, invece, cosa
fa? Egli non ha avuto la fortuna o l’abilità di aprire una porta, ma anche lui
è preso dall’ossessione di aprirle tutte. Con la chiave9 dello scienziato o con
un’altra di sua fattura. La sua ossessione è forte, meno pericolosa10 che
quella dello scien1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte
organizzate da Vittorio Somenzi, 1929- 2000, 2, Scatole grigie, 1, C. e Italo Cotone,
b. 3, Colorni. Nel dattiloscritto un primo titolo, barrato, recita come segue:
«SCIENZA E MATERIALISMO // È un caso che tutti gli scienziati tendano ad essere
materialisti? // PROGRAMMA». A margine, scritto a penna, il titolo è fissato
così: «SCIENZA E REALISMO». Un asterisco rimanda alla seguente nota
manoscritta: «(V[edi]. l’“Apologo su quattro modi di filosofare”, altro inedito
di C., in Sigma. Sempre a margine, si ha l’indicazione di stampa, a penna:
«Corpo 10 tondo 11 // giustezza – 10 su 12. Poiché lo scritto si discosta
spesso – nella forma, mai nella sostanza – dalle precedenti edizioni (nelle
quali esso risulta per altro incompiuto), è parso utile indicare in nota le
differenze fra le diverse versioni. Per questo stesso motivo ho talvolta
esplicitato le correzioni e gli interventi sul dattiloscritto. La sigla FS rimanda
al testo presente fra le carte di Somenzi; la sigla E a quello dell’edizione
Einaudi. Benché sia barrato, e per consentire una più chiara identificazione,
si è preferito mantenere il titolo Programma. 2 per sua fortuna, o per sua
abilità FS: per sua fortuna o per sua abilità E. 3 immensi tesori, li utilizza
FS: immensi tesori. Li utilizza Di seguito nel testo di E. 5 lo scienziato
vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza.
Vorrebbe aprire tutte le porte FS: lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte
E. 6 le serrature. Ci vorrà FS: le serrature, ma ci vorrà E. 7 (Fuor di
metafora FS: di aprirle. (Fuor di metafora E 8 Il filosofo, invece, FS: Il
filosofo invece, E aprirle tutte. Con la chiave FS: aprirla con la chiave E. 10
è forte, meno pericolosa FS: è forse meno pericolosa E. Eugenio Colorni ziato,
ma più intensa. Per lo scienziato essa è necessaria accessoria11. Il massimo
sforzo è già stato compiuto12 nel trovare la chiave. Il tentativo di
allargamento è spesso solo abbozzato. Il filosofo, invece, è tutto fatto di
questo bisogno. Egli è abbastanza accorto per avvedersi che il correre da una
parte13 all’altra con la medesima chiave si risolve in un danno e in un
disordine. Egli vuole soddisfare alla sua esigenza in un modo sistematico, che
non lasci residui. La sua ossessione è che il palazzo sia completamente
abitabile, aperto in tutte le camere, dai saloni ai ripostigli. Che cosa fa per
soddisfarsi? Si costruisce un palazzo a suo uso e consumo, simile il più
possibile a quello vero, in cui tutte le serrature siano apribili con una sola
chiave, o con le varie chiavi che ha a sua disposizione. Lì si rinchiude; lì15
gli sembra di vivere tranquillo. Ma il palazzo è di cartapesta. In poco tempo
crolla. Le camere sono identiche a quelle dell’altro palazzo, ma sono vuote. Il
poterle aprire non dà all’uomo maggior ricchezza e maggior17 potenza. A volte
avviene che nel lavoro di costruire, al filosofo venga fatto di scoprire o
inventare una chiave nuova, che gli altri uomini possono usare, e provare nelle
varie serrature. In questo caso egli sarà ammirato e studiato solo per questa
invenzione fortuita o strumentale, che nelle sue intenzioni non doveva essere
che un dettaglio del grande edificio. E il grande edificio scompare. Dopo un
secolo nessuno ci crede più, nessuno può più abitarvi dentro. Lo si considera
come un bel rudero, come l’interessante documento di un’epoca; lo si apprezza
per un certo impulso che indirettamente, nei coi suoi contorni, ha dato alle
lotte e alle ricerche dell’umanità. Gli storici, gli esegeti, cominciano a
scuoterlo per vedere se, non potendosene più servire in blocco, non si trovi
del buono fra il materiale della costruzione. E cominciano a distinguere “ciò
che è vivo e ciò che è morto” e a manipolare il sistema ai propri fini. Ne
risulta che ogni pensatore viene, di regola, apprezzato dai posteri per motivi
che egli non avrebbe immaginato e che sono estranei alle sue intenzioni
fondamentali. Quello che egli aveva creduto il suo vero apporto alla cultura e
alla civiltà viene considerato inutile. Il dispendio di energie è enorme.
Vediamo gli uomini più intelligenti dell’umanità dirigere tutti i loro sforzi
per raggiungere mete che andranno poi completamente perdute; e 11 necessaria
accessoria. FS: accessoria, sopraggiunta. E. già stato compiuto FS: già compiuto E. parte FS: porta E. 14 sola chiave, o con FS:
sola chiave o con E. 15 Lì si rinchiude; lì FS: Là si rinchiude, là E. 16 di
cartapesta. In poco tempo crolla. Le FS: di cartapesta, non di mattoni veri. In
poco tempo crolla, si disfa. Le E. 17 ricchezza e maggior FS: ricchezza o
maggior E. scoprire o inventare FS: trovare E. 19 possono usare, e provare
nelle varie FS: possono usare nelle varie E. 20 rudero FS: rudere E. 21 nei coi
suoi FS: nei suoi E. scuoterlo FS:
smontarlo E. ogni pensatore viene, di regola, apprezzato FS: ogni pensatore
(come spesso anche ogni poeta) viene di regola apprezzato E. 24 immaginato e
che FS: immaginato, e che E. Cinque scritti metodologici: 27 siamo costretti a
racimolare con fatica alcuni residui del loro lavoro. Nella25 scienza le cose
sembrano andar meglio. Siamo per lo meno nel palazzo vero, dove le camere sono
piene di ricchezze; e là dove la chiave ha aperto la porta, la potenza dell’umanità
ne è stata infinitamente aumentata. Ma se la porta non si apre? Dai Greci al
Rinascimento, per duemila anni, gli uomini si sono affaccendati a costruir26
chiavi di tutti i generi e magnifici palazzi di cartapesta. Ma nessuna porta
dell’edificio vero si è aperta ai loro sforzi. Da Galilei e Bacone27 in poi,
alcune sembrano cedere. Una, quella28 del meccanicismo fisico si è addirittura
spalancata. Ma quante restano ancora chiuse[!]?29 Quale sarà per esse la chiave
giusta? L’abbiamo già in mano o dobbiamo ancora costruircela? E come sfuggire
alla continua tentazione di usare per ogni porta quella che ha fatto una volta
buona prova, col rischio di rovinare tutto? La filosofia odierna, anziché
costruire bei palazzi di cartapesta, dovrebbe proporsi il compito di
affacciarsi a questi problemi, e tentare di mettere un certo ordine, allo scopo
di evitare sforzi inutili e raggiungere risultati il più possibile concreti.
Dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di
ricerca, i metodi d’indagine coi quali noi affrontiamo il reale e cerchiamo di
renderlo utile ai nostri usi. Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti,
trasformano31 radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa scorgere
solo ciò che da essi può essere afferrato. Ciò che noi chiamiamo realtà è
evidentemente condizionato non solo dai nostri sensi, ma da tutto l’insieme
delle forme, delle categorie, dei criteri associativi e interpretativi senza
dei quali non ci è possibile di pensare e di percepire alcunché. Criteri che
noi potremo studiare, scomporre, modificare; senza però poter mai uscire dal
campo di un’attività del soggetto costitutiva della realtà stessa. Noi34 non
possediamo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, alcun nesso mezzo per
eliminare il sole lato35 soggettivo della nostra nozione della realtà; anzi
abbiamo seri elementi per propendere a ritenere che la nozione di una realtà
oggettiva, da noi indipendente,36 sia un’ipostasi della nostra mente,37 do25 A
capo in E. costruir FS: costruire E. Da Galilei e Bacone FS: Da Galileo a
Bacone E. Una, quella FS: Quella E. 29 Chiuse[!]? FS: chiuse! E. 30 d’indagine
a penna nel testo FS: ermeneutici E. che, ormai ciò è chiaro a tutti,
trasformano FS: che – ormai ciò è chiaro a tutti – trasformano E. Queste righe, e quelle immediatamente
successive, rappresentano una sorta di compendio della filosofia colorniana,
ossia del ruolo essenzialmente critico-metodologioco che, muovendo «dalla
grande scoperta kantiana» (E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 240), essa
dovrebbe svolgere. A capo in E.Di seguito in E. alcun nesso mezzo per eliminare
il sole lato a mano nel testo FS: alcun mezzo per eliminare il polo E. 36
oggettiva, da noi indipendente, FS: oggettiva da noi indipendente E. 37 mente, FS:
mente E. C. vuta ad un nostro
fondamentale bisogno di contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci contro
qualche cosa, di polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un passivo
ed un attivo. Vedi Fichte (Trascendenza interna)38. Ciò che chiamiamo realtà
non è dunque né l’oggetto né il soggetto39, ma alcunché nella costituzione del
quale il soggetto, con i suoi criteri e le sue categorie, ha una gran parte e41
che noi, per comodità di studio, consideriamo per un istante come dato di
fronte a noi, coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi qualche cosa
cui partecipiamo noi stessi. Ora questo “qualche cosa” gli uomini si sforzano
di manipolarlo ai loro usi, di penetrare nella sua costituzione, di prevedere
il suo divenire, di costruire in base alle previsioni. A seconda che si
accentui il carattere oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo consideriamo
un “penetrare nelle leggi della natura” oppure un estrarre dalla natura un
certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, un cedere alla natura”
o un “farle violenza”, e si chiamano positivisti o pragmatisti. Ma questa
distinzione riguarda il significato metafisico dell’attività umana, non la sua
conformazione, i suoi procedimenti, il suo fine: che è ciò che c’interessa qui
di indagare per contribuire al progresso dell’umanità46. Lo scienziato non
conosce concretamente un problema del carattere pratico e teorico47 della sua
attività. Egli non si domanda mai, seriamente, se ciò che lo spinge alla
ricerca sia il “bisogno di sapere” inteso come fine a sé stesso, o la speranza
che gli uomini possano ricavare un utile dalla sua scoperta. Egli si dedicherà
secondo la sua attitudine ad un campo più vicino alla ricerca pura o più vicino
alle applicazioni. Ma nella sua mente ricerca e applicazione costituiscono un
tutto unico di cui solo per comodità di studio e per la necessità della
divisione del lavoro egli scinde a volte le parti. La scoperta si considera
come la naturale, evidente premessa dell’invenzione:51 l’invenzione come la
conseguenza della scoperta. L’antitesi positivismo-pragmatismo non ha senso per
lo scienziato, e non moVedi Fichte (Trascendenza interna) FS: (Vedi Fichte,
Trascendenza interna) E. Su questo aspetto della metodologia colorniana, si
legga quanto affermato da Ferruccio RossiLandi, che rileva fra l’altro, negli
scritti colorniani, la presenza di «quel disimpegno dalla visione realistica
del mond che è merito della migliore critica idealistica, soprattutto negli
sviluppi dell’attualismo» (Su i saggi di C., in «Rivista critica di storia
della filosofa né l’oggetto né il soggetto FS: né il soggetto né l’oggetto il soggetto, a mano nel testo FS: l’uomo parte
e FS: parte; e E. A capo in E. un estrarre dalla natura un certo numero di
elementi regolari per usarli a loro vantaggio, FS: un “estrarre dalla natura un
certo numero di elementi, regolarli per usarli a loro vantaggio”; E. 44 “un
cedere FS: un “cedere E. 45 violenza”, e FS: violenza”. E E. 46 per contribuire
al progresso dell’umanità FS: per raggiungere risultati utili e teorico FS: o
teoretico sé FS: se E. 49 dedicherà secondo la sua attitudine ad FS: dedicherà,
secondo le sue attitudini, ad E. Ma nella sua mente ricerca FS: Ma, nella sua
mente, ricerca dell’invenzione:
dell’invenzione; E. Cinque scritti metodologici: difica in nulla il suo agire.
Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che egli ha di fronte a sé e della
quale sono elementi costituenti alcune “forme” e “categorie” che provengono
dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela rendono comprensibile e
afferrabile. Di queste forme o categorie egli ne considera alcune come
appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di fuori di sé. Quali sono?
Sono quelle cui egli si sente necessariamente legato, di cui non può in alcun
modo fare a meno, senza le quali gli sarebbe impossibile vedere e pensare. Kant
ne ha elencato5 alcune: spazio, tempo, causalità, numero ecc. Egli ha
riconosciuto sì che esse vengono imposte alle cose dallo spirito dell’uomo; ma
col dare ad esse un carattere necessario ed a priori, ha ammonito gli uomini
sulla impossibilità di uscire da esse. Infatti gli uomini comuni, senza
preoccuparsi della loro provenienza e accontentandosi del fatto che di quelle
categorie non si può fare a meno, le attribuiscono senz’altro alla realtà. Ma
l’osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive; e la curiosità di vedere al
di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta sempre più intensa. Si può
dire che la filosofia si sia scissa a questo proposito in due opposte
direzioni, a seconda che l’ammonimento di Kant sia stato seguito o no. Fra
quelli che l’hanno seguito, gli scienziati60 hanno continuato a considerare le
categorie come reali, e a lavorare in un mondo costruito sulla base di queste
categorie, contentandosi a volte di mantenere nello sfondo l’ombra di un
inconoscibile (Spencer, positivisti), oppure62 di acquisire coscienza della
relatività dei loro sforzi, limitando63 il compito della scienza alla
costruzione di ipotesi semplici e maneggevoli (Poincaré, pragmatisti). Su
questa via essi hanno continuato ad ottenere un buon numero di successi,
proseguendo quell’indagine e quello sfruttamento della natura che era cominciato
con Galilei e Newton, e che consisteva nell’uso sistematico di quelle categorie
che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche tempo l’impressione che il campo
stia per esaurirsi e che non restino da fare in questa direzione se non
scoperte particolari di importanza ristretta. I filosofi invece, insofferenti
di qualsiasi dualismo o relativismo, e preoccupati di saldare l’unità del
reale, preferiscono eliminare la tentazione del52 A capo in A capo in E. 54
impossibile FS: assolutamente impossibile E. elencato FS: elencate E. spazio FS: Spazio E. numero
ecc. FS: numero, ecc. E. A capo in E. filosofico FS: filosofico scientifico E.
60 no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati FS: no. (I) Fra quelli
che l’hanno seguito gli scienziati E. categorie, contentandosi FS: categorie;
contentandosi positivisti), oppure FS:
positivisti); oppure E. sforzi, limitando FS: sforzi; limitando E. 64 Newton, e
FS: Newton e di FS:, di I filosofi invece, FS: (b) I filosofi, invece,
C. 30 la “cosa in sé” col negarne addirittura l’esistenza; e attribuire realtà
assoluta al pensiero nella sua forma universale68. In tal modo essi
soddisfecero contemporaneamente all’esigenza Kantiana69 di non uscire dalle
leggi del pensiero e al bisogno tipicamente filosofico di risolvere senza
residui il problema della realtà; incuranti d’altronde se questo loro sistema
li conducesse o no a un qualsiasi risultato apprezzabile che non si limitasse
alla soddisfazione del loro bisogno di completezza. Coloro invece71 che “hanno
disubbidito” sembrano a tutta prima disprezzare l’ammonimento di Kant e
trascurare i limiti da lui posti: ma in realtà sono essi suoi figli molto più
che gli ubbidienti. Quel limite, quella barriera appunto li ha eccitati ad
andare al di là: ha indicato loro la direzione verso cui rivolgersi
Cominciamo74 questa volta dai filosofi. a) - Il filosofo vuol gustare il frutto
proibito. Ma egli sa oramai che non potrà mai raggiungerlo con le categorie,
con75 le quali Kant gli ha indicato così chiaramente i limiti. Egli abbandona
per sempre le illusioni della metafisica e della teologia, cioè i tentativi di
afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed76 è alla
continua ricerca di un altro strumento che gli permetta di raggiungere il suo
scopo. Volontà, fede, intuizione, ispirazione: in una parola l’irrazionale è
ciò cui egli si affida. Ad esso egli attribuisce tutte le possibilità che
mancano alle categorie della ragione. Con esso egli afferma di poter aprire tutte
le porte del palazzo. Ma che garanzie gli dà la nuova chiave? Semplicemente di
non essere79 la vecchia. Ogni interpretazione irrazionalistica del mondo, là
dove non consista in esplosioni di entusiasmo, è una polemica contro
l’impotenza della ragione. Polemica spesso acuta e giusta, ma che non
costituisce un motivo bastante per accettare come criterio definitivo tutto ciò
che ragione non è. Le80 esplosioni d’entusiasmo81, invece, sono a volte più
interessanti e fruttifere. Esse ci permettono di penetrare, sia pure in modo
confuso, nella costituzione interna di queste attività irrazionali; di
conoscere un po’ meglio quali siano i loro procedimenti. Ciò che ha paralizzato
però tale indagine e non le ha permesso di dare finora se non scar e FS: ed E. Evidente
riferimento all’idealismo nei suoi diversi modelli. 69 Kantiana FS: kantiana E.
70 se FS: che E. 71 Coloro invece FS: (2) Coloro, invece, E. disubbidito” FS:
disubbidito”, E. appunto FS: appunto, E. 74 Di seguito in E. 75 categorie, con
FS: categorie delle E. 76 teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà
assoluta con gli strumenti della ragione; ed FS: teologia – cioè i tentativi di
afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione – ed E. 77 parola
FS: parola, E. 78 A capo in E. essere FS:
esser E. A capo in E. d’entusiasmo FS: di entusiasmo E. Cinque scritti
metodologici: 31 sissimi risultati,82 è che tali attività sono sempre state
descritte appunto col presupposto e con l’esigenza di attribuire ad esse un
valore assoluto, molto superiore a quello della ragione. Preconcetto il quale
ha naturalmente deformato la descrizione ed ha impedito qualsiasi seria
indagine sull’uso che di questi atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare.
Anche qui la fretta di chiudere il circolo e il bisogno filosofico di
rinchiudersi in un edificio abitabile in tutte le sue parti ha impedito di
compiere qualsiasi vero progresso. E le interpretazioni irrazionalistiche della
realtà si sono succedute l’una all’altra senza condurre l’umanità ad alcuna
conquista stabile. È questo un fenomeno che si ripete da secoli; ché la
constatazione delle insufficienze della ragione e il tentativo di affidarsi ad
attività irrazionali non data da Kant, ma è vecchio, si può dire, quanto la
nostra civiltà. E la massa di esperienze che si è venuta raccogliendo è83, se non
ordinata, pure imponente; e dà l’impressione di una grande miniera
inesplorata85 in cui il materiale prezioso è unito con le scorie. Siamo qui ad
uno stadio di evoluzione e di sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo
della ragione. Il materiale della ragione è stato esplorato a fondo,
inventariato, ordinato dal pensiero greco e dalla scolastica. Con Galilei e
Newton ha trovato il campo cui applicarsi, conducendo ai vastissimi risultati
che conosciamo. Kant infine88 ne ha tracciato i limiti segnando insieme (forse
un po’ in anticipo) l’esaurirsi della miniera dal89 quale esso traeva
ricchezze. Il campo dell’irrazionale probabilmente comprende regioni
infinitamente più vaste che quelle della ragione, contenenti materiale dal
carattere più eterogeneo, atto agli usi più disparati. Il fatto solo che siamo
abituati a classificarlo secondo la rubrica negativa del “non rientrare nella
ragione” ci mostra lo stato disordinato delle nostre conoscenze al proposito.
Ordinare questo mondo in modo che ci possa servire, analizzarlo con mente
tranquilla e senza preconcetti entusiasmi od avversioni, liberarlo dal continuo
incubo del confronto con la ragione ed infine tentare se alcuni dei dati così
ottenuti ci possono90 servire come criterio per risolvere qualche problema,
come chiave per aprire qualche porta: ecco il compito che s’impone oggi alla
nostra indagine91. Va92 da sé che i metodi da usarsi non saranno i medesimi che
si sono usati per il mondo razionale: e che l’ordine ottenuto non assomiglierà
neppure da lontano a quello che noi conosciamo nel campo logico-matematico. La
parola 82 risultati, FS: risultati E. raccogliendo è, FS: raccogliendo, è, E.
84 imponente; FS: imponente: E. 85 inesplorata FS: inesplorata, E. 86 unito FS:
misto E. 87 A capo in E. 88 Kant infine FS: Kant, infine, E. dal FS: dalla
possono FS: possano Nietzsche», afferma C. in Critica filosofica e fisica
teorica aveva indicato, con acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi lo
seguì col pacato distacco dell’indagatore, ove il riferimento è chiaramente al
metodo psicoanalitico. Di seguito in E. Eugenio Colorni stessa “ordine” non
vuole avere qui che un significato analogico. Si tratterà di attingere nel
mondo stesso dell’irrazionale per trovare in esso dei punti intorno a cui
quella materia possa coagularsi e offrirci dei punti di appiglio per essere da
noi usata. Sarebbe assurdo e avventato dare qui direttive e indicazioni. La
riuscita di questo lavoro dipenderà dalla fantasia e dal fiuto di chi lo
compie, dalla sua capacità di servirsi liberamente di esperienze fatte in altri
campi senza lasciarsene suggestionare, dalla mobilità e ricchezza della sua
facoltà di combinazione. Il risultato massimo sarà di mettere l’umanità in
possesso di una o più nuove chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale o,
se preferite, di costruire nuovi sistemi di concordanze che si offrano al
nostro uso e ci permettano di soddisfare alcuni nostri bisogni. b) - Lo
scienziato che dalla messa a punto kantiana ha ricevuto l’impulso ad andare al
di là delle categorie, non s’indugia però nella ricerca dell’irrazionale, che
non offre, finora, alcuna presa ai suoi metodi. La sua mentalità è ancora
imperniata completamente sul razionalismo logico-matematico, che ha permesso ai
secoli scorsi di compiere le grandi scoperte di cui vive la nostra civiltà. Ed
il superamento che egli vuol compiere non98 è un superamento di principio,
trasportandosi di un salto in un mondo completamente diverso, ma graduale,
volta a volta seguendo le esperienze che non sono giustificabili mediante le
leggi finora conosciute. Egli non si domanda quale sia la realtà assoluta che
si cela agli occhi degli uomini dietro il velo delle categorie; ma piuttosto
come sia possibile apprendere e organizzare il materiale secondo categorie che
siano diverse da quelle finora usate. In questo senso egli è molto meno
realista che il del filosofo idealista o mistico o che lo dello scienziato
positivista. E in questo senso si può quasi dire che egli porti una conferma
sperimentale, se non alla necessità a priori delle categorie kantiane, almeno
alla dottrina kantiana delle categorie. Lo scienziato di regola non ha letto
Kant. dei FS: quei E. campi senza FS:
campi, senza E. concordanze FS: concordanza E. E. logico-matematico, che FS:
logico-matematico che compiere non FS: compiere, non E. di un FS: d’un E. e FS: ed E. che il del FS:
che il E. 102 che lo dello FS: che lo E. Proprio in questo comune punto di
arrivo», scrive Colorni in Critica filosofica e fisica teorica trattando delle
diverse forme della filosofia e della epistemologia postkantiane, «in questa
medesima esigenza, in questa eguale preoccupazione di raggiungere una base
stabile cui si possa attribuire un valore obbiettivo, tali diversi modi di
procedere riconoscono forse tra di sé quella parentela di premesse e di fini
che permette loro di attribuirsi il nome comune di filosofia. La scienza, al
contrario, e precisamente perché figlia della rivoluzione kantiana, rifiuterà
al contrario di operare secondo il criterio delle affermazioni di verità per
muoversi attraverso un procedimento di composizione e scomposizione della
propria materia. sperimentale, se FS: sperimentale se E. 105 Kantiane FS:
kantiane E. Kantiana FS: kantiana E. Cinque scritti metodologici. Ma
l’atmosfera diffusa del Kantismo e la nozione stessa della categoricità del
reale gli suggeriscono di porsi, di fronte ad una nuova esperienza
inspiegabile, nell’atteggiamento di colui che attribuisce tale inesplicabilità
alla violenza che le categorie tradizionali operano sulla ricerca organizzando
ogni dato secondo le loro forme. Dal quale atteggiamento deriva direttamente il
tentativo di modificare le categorie e provarle di nuovo, così modificate, sul
metro della interpretazione scientifica. Modificare, ho detto, non abolire. Qui
si mostra la modestia dello scienziato, il suo voler provare una dopo l’altra
le chiavi, il suo volontario limitare il proprio orizzonte. Da quando egli si è
accorto di usare delle categorie nella formulazione delle sue leggi, è
continuamente tentato di provare che cosa avverrebbe se queste categorie
fossero fatte altrimenti. Come si comporterebbero i fenomeni in uno spazio che
non sia quello euclideo? Materia, energia, sostanza, causalità. Che aspetto
avrebbe un mondo in cui queste categorie si presentassero con caratteri diversi
da quelli che hanno finora avuto? L’elemento a priori del reale, divenuto
cosciente nell’uomo, comincia ad eseguire un gioco di spostamenti, di
retrocessioni, di modificazioni tale da trasformare completamente l’immagine
della realtà sulla quale gli uomini lavorano: come un obbiettivo che abbia
imparato ad aprirsi e a chiudersi, a mettersi a fuoco a seconda delle esigenze
dell’oggetto da ritrarsi. E se da un lato si può dire che questo accomodamento
delle categorie viene imposta dalle modalità della ricerca scientifica, cioè
dalle esperienze e dalle osservazioni che non è possibile far rientrare nelle
categorie finora usate (cioè quelle dell’universo newtoniano), d’altro lato è
avvenuto forse che gli scienziati, tratti dalla vaga sensazione di essere sul
punto di crearsi nuovi strumenti per l’apprensione del reale, fossero attratti
appunto da quelle esperienze che dei nuovi strumenti potessero aver bisogno.
L’esperienza non è mai evidentemente qualche cosa di puramente passivo, e vi è
sempre un motivo perché lo sperimentatore raccolga la sua attenzione su di un
fatto piuttosto che su di un altro108. Comunque se la conformazione delle
singole categorie è stata fortemente modificata dalla scienza moderna, non è
stata modificata, anzi è stata rafforzata la coscienza della categoricità del
reale. Il filosofo può giungere con ragione alla conclusione che le nuove
teorie fisiche non hanno intaccato la concezione Kantiana del mondo. Noi
diremmo che esse hanno tratto da quella concezione le uniche conseguenze che
aprono alla mente umana nuove indefinite prospettive di ricerca. Le quali non
consistono in una vaga e problematica evasione dalle categorie, ma in una
tranquilla accettazione del fatto che non è possibile prescindere da una
“categoricità”. Accettazione che permetta però la continua revisione delle
esistenti. Kantismo e la nozione stessa FS: kantismo e la nozione stessa E. Da
questo punto comincia la conclusione assente nelle precedenti edizioni del
testo. Sulla revisione colorniana del concetto di esperienza, cfr. supra § 3.
109 C. non si astiene mai dal sottolineare, nei suoi scritti metodologici,
«quanto vantaggio derivi alla scienza stessa dall’eliminazione del suo
substrato metafisico-finalistico» (C., Del finalismo nelle scienze. Cfr. p.e.
Id., Critica filosofica e fisica teorica. Non c’è miglior propaganda per un
nuovo atteggiamento intellettuale e morale che il fatto che esso si dimostri
una chiave capace di aprire molte porte nel campo della scienza e della
conoscenza». C. 34 categorie; cioè di quelle categorie dalle quali la mente
umana al suo stato attuale non può prescindere. Non è forse inutile precisare
che tale revisione non ha nulla a che fare con quelle discussioni sulle
classificazioni delle categorie di cui i filosofi così spesso si dilettano. Non
si tratta affatto di discutere se le categorie siano dodici o dieci, o quattro
o una. Se il “finalismo” costituisca una categoria a sé o rientri in un’altra.
Se l’“economico” e l’“estetico” siano modi autonomi o meno di considerare le
cose. Non si tratta di organizzare le forme conosciute del pensiero, e
accordarsi su quali si debbano considerare originarie, quali derivate. Il
lavoro da compiersi è molto più profondo e creativo. Si tratta di dare allo
spirito umano la possibilità di vedere le cose in modo completamente diverso da
quello usato finora; di fornirlo di un nuovo senso, mediante il quale egli
possa scoprire cose finora sconosciute, risolvere problemi finora insolubili.
L’atteggiamento “critico” in senso kantiano si mostra così come l’ultima fase
di tutta un’epoca e di un modo di prendere contatto col reale. La scienza messa
nella possibilità di prendere piena coscienza non solo dei propri metodi, ma
delle premesse necessarie di ogni sua costruzione, riceve da ciò l’impulso a
superare tale necessità ed a crearsi premesse nuove. Il lavoro che qui compie
lo spirito non ha solo i caratteri di una ricerca intellettuale. Ne fanno parte
alcuni atteggiamenti che possiamo raccogliere sotto il nome generico di morale.
Si tratta di uno sforzo violento contro un modo di considerare le cose cui
tutto ci tiene legati, di tendenze alla liberazione, di salti fuori dal mondo
cui si apparteneva. Si cerca di rifarsi una “nuova mentalità”, di vedere le
cose con occhi diversi, di ritornare semplici, di rifiutare le costruzioni già
fatte. Ci si affida alla fantasia, all’invenzione, all’intuizione, per
immaginarsi mondi diversi da quello che siamo abituati a vedere. Tutti questi
movimenti di conversione dello spirito, che siamo abituati [ad] attribuire al
mistico o all’uomo desideroso di purificazioni o di visio. È questo il tema
affrontato fra l’altro nel dialogo di Commodo dedicato a Dell’antropomorfismo
nelle scienze, là dove C., stabilendo la necessità di rovesciare l’umana tendenza
a ricreare una natura fatta a propria immagine e somiglianza, distingue due
differenti forme di antropomorfismo, a seconda che si sia o meno consapevoli –
e si sappia quindi controllarne i risultati – della nostra impossibilità di
prescindere dalla “categoricità del reale”: il primo antropomorfismo è «una
constatazione, o meglio una necessità, dalla quale non siamo riusciti a uscire,
l’altro è invece una esigenza. Ora io odio le esigenze. Non ho nemmeno alcun
motivo di amare le necessità, ma da queste non vedo alcun modo per liberarci,
se non illusoriamente. Evidente riferimento allo storicismo crociano, su cui Si
mostra qui, in tutta la sua originalità, il senso più profondo che Colorni
attribuisce al kantismo all’interno della storia del pensiero filosofico e
scientifico della modernità. C., Critica filosofica e fisica teorica, ove si
sottolinea il carattere essenzialmente morale che caratterizza il primo impulso
alla scoperta scientifica: «alla base di ogni grande scoperta, di ogni
rivoluzione nel campo della scienza, c’è una conquista morale; l’abbattimento
di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le pieghe della nostra
anima, di cui è estremamente difficile accorgersi, estremamente doloroso
liberarsi; idolo fatto per lo più di un cieco ed infantile amore per noi
stessi, di un bisogno di sentirsi circondati da forze a noi congeniali, di
veder ripetuto nell’universo, nella realtà oggettiva, ciò che sperimentiamo nel
nostro intimo». Cinque scritti metodologici: 35 ni, non devono essere stati
estranei a chi si è sforzato per il primo di immaginare la terra rotonda
anziché piana, o il sole immobile e non la terra in mezzo ai pianeti, o lo
spazio a quattro e non a tre dimensioni. Solamente che mentre il mistico suole
descrivere molto accuratamente il processo della conversione, ma si ferma solo
ad esso e non ci dà alcuna garanzia quando comincia a parlare di ciò che egli
trova “al di là”, lo scienziato invece compie la conversione silenziosamente,
spesso quasi inconsciamente; ma giunto al di à, cioè al nuovo punto di vista, è
sollecito ad occuparsi solo di ciò che sia non dico vero in senso assoluto, ma
usabile, cioè organizzabile in un ordine, in una legge. E per giungere a ciò
escogita esperimenti e controlli che gli diano la garanzia di camminare su un
terreno sicuro, sul quale sia possibile ai suoi strumenti di far presa. L’“al
di là” non è affatto una negazione del di qua, non è un assoluto privo di
categoria. È un mondo di nuove categorie che pretendono di essere più vaste, di
comprendere in sé anche le vecchie. Rotondo anziché piano, meccanismo anziché
finalismo, probabilità statistica anziché determinazione causale. La validità
delle nuove chiavi è determinata dal loro uso, cioè dalla maggiore o minore
possibilità che esse offrano di spiegare fenomeni, di risolvere problemi, di
formulare leggi. La maggiore difficoltà consiste nell’abituarsi al nuovo modo
di vedere. Non esiste neppure un vocabolario che permetta di esprimere le cose
nei termini delle nuove categorie, e si è comunemente costretti a ricorrere a
metafore tratte dal mondo vecchio. Gran parte del lavoro, nei primi tempi,
consiste nell’escogitare una formula di trasformazione che permetta di passare
agevolmente dai termini delle vecchie categorie a quelli delle nuove. Come le
leggi della prospettiva mi permettono di rappresentare su un piano ciò che ha
un volume nello spazio, così le “trasformazioni di Lorentz” mi permettono di
usare gli strumenti a mia disposizione (calcolo, misura, ecc.) nello spazio
normale, per il nuovo spazio einsteniano; analogamente la psicanalisi tenta di
tra Il dominio della natura è divenuto così il prezzo dell’incredulità. È come
se la grazia venisse a toccare proprio colui che ha cessato di sperarla. Il
coraggio di riconoscersi abbandonato da Dio, di rinunciare ad essere il centro
e lo scopo dell’universo, apre immediatamente l’occhio agli uomini, li
arricchisce d’un immenso patrimonio. A bella posta abbiamo espresso queste cose
in un linguaggio mistico. Quando Kant parla di rivoluzioni dovute all’ardimento
di un sol uomo, di illuminazioni subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi
brancolava alla cieca, c’è in lui sicuramente la coscienza che una vera grande
conquista conoscitiva è sempre frutto – più che di uno sforzo logico o di uno
sviluppo dialettico – di un capovolgimento affettivo e morale; di una
inversione di valori, di una vittoria conquistata contro se stessi e contro ciò
cui con più profondi e tenaci ed inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per
primo un capovolgimento deve anzitutto combattere nel suo intimo una lotta non
molto diversa da quella che combatte l’uomo che voglia raggiungere lo stato di
perfetta passività ed umiltà di fronte al suo dio. Molinos diceva che non
bisogna chiedere nulla a Dio, neppure la propria salvazione. Lo scienziato deve
pure rinunziare all’idolo di una natura che parli il suo medesimo linguaggio,
di un mondo organizzato in vista dei suoi bisogni e dei suoi organi. Solo
questa assoluta vuotezza e purità, questa mancanza di anticipazione gli
permetterà di aprire gli occhi su se stesso e sul mondo». L’osservazione
rientra pienamente nell’antirealismo della metodologia colorniana. D’altra
parte, risulta di particolare interesse il tentativo di delineare le
caratteristiche che dovrebbero assumere le nuove categorie rispetto a quelle
che volta per volta si vanno ad abbandonare. Eugenio Colorni sformare in
termini della coscienza ciò che è inconscio. Mediante tali trasformazioni si
aiutano anche gli altri uomini a trasportarsi sul nuovo piano; si forniscono
loro, per così dire, gli occhiali che permettono di vedere con la nuova
illuminazione, finché non si sarà tanto avvezzi da poter fare a meno di
occhiali, ed usare un linguaggio diretto. Ma il linguaggio appunto serba sempre
le tracce di ciò, e le etimologie documentano spesso tali mutamenti di registro.
Tale è, presso a poco, lo stato delle cose attualmente. Si veda, fra i
riferimenti colorniani alla psicoanalisi e a mero titolo di esempio, quanto è
dall’autore affermato nel dialogo intitolato Della lettura dei filosofi. La
psicanalisi è una scienza ad uno stadio che corrisponde circa a quello
dell’astronomia prima di Copernico, e dell’alchimia prima della chimica. Ha
individuato in modo vago, mitico, pieno di pregiudizi e di troppo rapide
generalizzazioni, delle relazioni e dei rapporti finora inosservati. Ha
abbozzato una parvenza di metodo di ricerca: metodo talmente incerto e
malsicuro che il più delle volte conduce a risultati opposti a quelli che si
volevano ottenere. Ma insomma, si muove in un campo completamente sconosciuto,
e il materiale che sta portando alla luce è di un tale interesse, che il
rifiutarlo solo perché non è stato ancora capace di organizzarsi secondo gli
aurei schemi del metodo scientifico mi sembra il colmo del filisteismo
professorale». L’accenno alla possibilità di una condurre una vera e propria
analisi categoriale attraverso lo studio del linguaggio è forse uno degli
aspetti più interessanti ed originali di queste pagine Cinque scritti
metodologici Commodo a Ritroso Vedo che non sei sazio di facili vittorie. Se il
tuo scopo era di dimostrare che tu sai l’economia e io no, l’hai raggiunto
pienamente, a tua perenne gloria e soddisfazione. Ma se io volessi ritorcere le
tue intimazioni sulla mia abilità nelle scienze di cui mi occupo, ti direi che,
con tutta la tua bravura, non sei stato neppure capace di chiarire il mio
dubbio. Non te lo dico, perché sono sicuro che ci saresti riuscito facilmente,
solo che ti fossi occupato di capire attraverso gli sbagli e le imprecisioni,
quello che ho cercato di dire, anziché limitarti a sfogare a tua rabbia. Se un
dilettante o un principiante di teoria della scienza mi viene a parlare di
corpo rigido in un senso errato e diverso da quello usato dai fisici, io cerco
di capire quale concetto egli cerchi di adombrare dietro al termine improprio;
e mi guardo dal cedere alla meschina soddisfazione di prenderlo in castagna ad
ogni parola. Il fare così, con tua buona pace, si chiama in italiano pignoleria.
Io non voglio prendere sul serio questo tuo modo di discutere che è
probabilmente solo una reazione alla mia aggressività, e il riflesso di
arrabbiature prese non in questa ma in altre discussioni. E non ho ancora perso
la speranza di trovare in te un esperto ed aperto iniziatore ai problemi
dell’economia, anziché un geloso e gretto sacerdote del tempio della scienza.
Questo metodo, hai ragione, è supremamente irritante e presuntuoso; ma a me è
molto utile, perché mi permette, fra l’altro, di appropriarmi i concetti
fondamentali con maggiore consapevolezza, senza subirli, e mantenendo rispetto
alle scienze quel certo distacco che è pur necessario al critico e al
metodologo. Una nozione si forma molto più salda nella mia mente, quando ha
resistito vittoriosamente ai miei ripetuti attacchi, che quando l’ho dovuta
imparare dalle pagine di un manuale. 1 FS, sez. 1, Carte personali, serie 2,
Documenti diversi, b. 3, Inediti di C. Per la storia di questo scritto in
relazione agli altri dialoghi economici colorniani, si rinvia alla Nota del
curatore. Così si rivolge Commodo a Ritroso in C., Dell’antropomorfismo nelle
scienze. Mi pare che tu sia un po’ troppo attaccato, o Ritroso, alle
prerogative professionali. Sei proprio sicuro che l’aver frequentato una scuola
ufficiale e aver letto molti trattati, e avere una lunga consuetudine coi ferri
del mestiere, sia una condizione assolutamente necessaria per capire qualche
cosa dei principî fondamentali di una scienza? Non vi è mai capitato di dover
dire a una persona una di quelle cose scottanti, dopo le quali non si ha più il
coraggio di guardarsi negli occhi? Ebbene, se voi scegliete il partito di
prenderlo in disparte con tono mansueto e fraterno, mostrandogli comprensione
ed affetto, e lo consolerete, e cercherete di addolcirgli in tutti i modi la
pillola; se farete questo, siete dei volgari istrioni, innamorati di voi
stessi, infatuati della vostra funzione, incapaci di comprendere e di amare
l’amico. Voi vorreste assestargli il colpo che darà inizio per lui a una
dolorosa lotta contro se medesimo, e in più avere la sua gratitudine, la sua
ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente basso e spregevole,
apparirgli voi come l’arcangelo liberatore, il puro, il disinteressato,
l’immacolato. Se vi prende a calci, è il meno che possa fare. Ditegli invece le
medesime cose in un accesso di rabbia, in una lite violenta, in cui voi avrete
almeno altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia queste verità come
veleno che schizzi dalla vostra lingua; dategli un appiglio per difendersi,
un’occasione di odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite come falso e
malvagio. Il vostro C. Non so se questo possa servire agli occhi tuoi da
giustificazione. Non credere che questo metodo sia in me qualche cosa di
cosciente e di voluto. Me ne accorgo oggi per la prima volta, cercando di
analizzare perché le tue accuse mi colpiscono e insieme non mi colpiscono.
Delle tue osservazioni incasso senz’altro la lezione sulla matematica; io non
avevo avuto altra intenzione che di riinventare per conto mio quell’ombrello; e
naturalmente l’ho inventato più brutto, più goffo e confuso di quello che c’è
già. Il solo punto che non mi è ancora chiaro è quello indicato nell’accluso
foglietto. Mi basta che tu risponda a monosillabi e credo che non ci perderai
più di un quarto d’ora. Da principio mi sono preso una solenne arrabbiatura, e
ti avevo già risposto una lettera piena d’insolenze. Poi, nel rileggere tutto
insieme a mente più calma, ho visto che in fin dei conti hai tutte le ragioni.
Ma, poiché le tue accuse mi toccano solo in un certo speciale modo, vorrei
spiegarti quanto segue a puro titolo di chiarimento personale: Da uno che si
avvicina ad una scienza che non conosce è giusto di pretendere che lo faccia
“con le ginocchia della mente inchine” pronto ad apprendere anziché a
criticare. Gli s’impone, e ben a ragione, un lungo e silenzioso noviziato, solo
finito il quale gli si potrà accordare voce in capitolo. Tutto questo è giusto
(e lo dico senza la minima ironia). Ma il risultato è che un uomo, di solito,
di questi noviziati ne fa uno solo, e vi resta legato per tutta la vita. Si
specializza in una materia, e da essa non esce, salvo che per excursus curiosi
e dilettanteschi. Ora a me questo non è concesso, giacché i miei interessi più
specifici si rivolgono alla metodologia delle scienze. E dato che mi farebbe
schifo risolvere il mio problema dall’alto, escogitando un paio di criteri
filosofici e applicandoli poi come chiavi capaci di aprire tutte le porte6;
sono costretto ad avvicinarmi a insegnamento allora penetrerà nel suo cuore in
modo umano, lieve, benefico. Egli sarà libero di accoglierlo come cosa sua, e
avrà modo di stimare se stesso per non avervi serbato rancore. Nella sua
accettazione ci sarà il senso di fare una conquista, di costruire qualche cosa.
Non vi temerà. Che sia questo il senso del mito di Nereo, l’indovino col quale
bisognava azzuffarsi perché si decidesse a profetare?». Su questa immagine del
mito di Nereo, rinvio ad A. Cavaglion, «Il mio poeta». Colorni, Saba e la
psicoanalisi, in G. Cerchiai e G. Rota, C. e la cultura italiana fra le due
guerre, Cfr. quanto spiegato nella Nota del curatore. Citazione a senso da
Vergine bella, che di sol vestita, dal Canzoniere di Petrarca. E. C.,
Giustificazione, Colorni disprezza coloro che chiamano filosofia l’aver trovato
una formula per interpretare il mondo. La metafora della chiave è spesso
utilizzata da Colorni per indicare precisamente l’errore di scambiare la
ricerca filosofico-scientifica con la scoperta di un criterio esplicativo unico
ed onnicomprensivo. Su tale metafora cfr. anche Programma. ciascuna scienza,
non per esserne genericamente informato, ma con l’impegno di osservarne con
occhio critico gli interni meccanismi e cavarne conclusioni non genericamente
filosofiche, ma che possono aiutare il procedere della scienza stessa. Se
voglio far questo è chiaro che non posso pretendere di sfuggire al noviziato
più severo, in ciascuna delle scienze cui mi avvicino. E non mi sogno di
sfuggirvi. Posso però cercare di rendermelo più piacevole. Il metodo che,
inconsciamente, ho trovato, è questo: Anziché accostarmi a grossi trattati con
fare accogliente e passivo, pronto ad imparare e ad adagiarmi nell’ordine della
loro esposizione, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sballate e
confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo, ed inventando ombrelli,
desideroso di scontri e di battaglie. Da ogni scontro esco ammaccato e contuso
(come da questo con te) ma con un’idea più chiara. Ogni knoch out subito mi fa
fare un passo avanti nella comprensione della scienza. Così non evito
naturalmente, lo studio; e della lettura dei trattati non posso certo fare a
meno: ma mi riesce più piacevole leggerli come appassionati combattenti,
piuttosto che come amorosi pedagoghi. A patto, s’intende, di non impuntarsi
mai, e di essere pronto a riconoscere la sconfitta. Laboratorio dell’ISPF. Geri
Cerchiai ISPF-CNR, Milano. Laboratorio dell’ISPF. Saggi di Colorni conservati
presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica,
Fondo Somenzi. In essi Colorni espone alcuni dei punti chiave della propria
metodologia, delineando una proposta epistemologica destinata ad essere
riscoperta e apprezzata dopo la caduta del regime fascista, nel secondo
dopoguerra. Carlo Rosenberg. ‘G.
Rosenberg’. ‘Agostini’. ‘Franco Tanzi’. Oggettivismo e armonia. - L a filosofia
leibniziana ha ai suoi inizi un carattere nettamente oggettivistico.
Intendiamo 'lire con questo che non si trova al cent ro di essa alcun problema
che riguardi la maggiore o minor validità della nostra conoscenza
delmondo esterno, nè in genere che tratti dei rapporti fra conoscente e
conosciuto. 11 relativismo che deriva al sofista dall’osservazione che «
l’uomo è misura di tutte le cose » è estraneo a Leibniz: egli studia il
reale in sè stesso, nella sua essenza divina od umana, secondo le sue
leggi razionali o empn iene. Egli parte dal dato di fatto del mondo in tutti i
suoi aspetti, che vuole scrutare, comprendere, ridurre a unità, a
formule semplici e facilmente apprendibili, trasportando nel campo
filosofico e metafisico l’atteggiamento onde i suoi grandi predecessori o
contemporanei, Copernico, Galileo, Newton, ave\uno improntato la loro indagine
del mondo fìsico: un tentativo di visione complessiva, armonica, coerente di
tutti i latti presi a studiare; una ricerca di ipotesi che diano
una spiegazione del tutto, quanto più omogenea e lineare possibile.
A un tale atteggiamento egli si avvicina, piuttosto che a quello di
Cartesio, il quale vuole dedurre il mondo con le sue leggi da un solo
principio posto inizialmente come unico valido. . me ! ltre con la
filosofia cartesiana molti saranno i rapporti di Leibniz nella formulazione
e nello sviluppo dei vari proficui 1, egli se ne differenzia però
fondamentalmente per la sua concezione essenziale del mondo come un
complesso a sè stante, di cui si debba ricercare un principio
unificatore, e non come qualche cosa di inizialmente problematico, la cui
esistenza e le cui leggi debbano venir dimostrate e dedotte. Se in
quest'ultimo atteggiamento si vuol far consistere la linea direttrice del
moderno gnoseologismo e in genere della filosofia moderna, bisognerà dire che
da tale direzione Leibniz si discosta, tenendosi piuttosto per questo
riguardo sulla linea del pensiero greco, in un atteggiamento che potremmo
avvicinare a quello di Aristotele. La filosofia (sapientia)
consiste essenzialmente nella conoscenza perfettissima della natura. E da che
cosa, se non dalla filosofia, sono dimostrate con tanta evidenza
non solo l'essenza e le funzioni della natura, ma la cura speciale che
essa ha per ogni singola cosa, e il fatto che essa non si è limitata a
creare ima volta le cose dal nulla, ma continuamente le crea e risuscita
? Devo dire che, quando ebbi compreso tutta la forza di questi
ragionamenti, esultai e mi rallegrai per la filosofìa, la quale sembra
finalmente volersi l’appacificare con la religione; con la quale,
non per sua colpa, ma per le opinioni e i giudizi temerari degli uomini,
o anche a causa di espressioni e termini mal scelti, sembrava male
conciliarsi. Cessino dunque gli uomini pii e accesi dallo zelo della
gloria divina, di aver timore della ragione; basta che si studino di
raggiungere la ragione retta.... E i filosofi, dal canto loro, tralascino
di riferire tutto all' immaginazione e a figure, e di accusare come
vanità o impostura tutto ciò che si oppone a quelle nozioni crasse e
materiali, nelle quali taluni credono di poter circoscrivere tutta la
natura. (Dialogo Pacidius Philalelhi). Questo studio
oggettivo della natura nelle sue leggi, e questo sforzo di una visione
unitaria del tutto, conduce Leibniz a complessi e armonici panorami, in
cui fede e ragione, mondo divino e mondo umano, scienze naturali e
scienze metafisiche si organizzano in un ordine omogeneo. L'arniomo è ciò
cui egli tende con tutte le sue forze di scienziato e di pensatore.
Fin dai suoi anni giovanili, il miraggio di un'armonia universale è al centro
dei suoi pensieri. L fisici dei nostri tempi, ricercando le cause
materiali delle cose, trascurano quelle razionali. E invece la
sapienza dell Autore supremo riluce principalmente nell’aver così
costruito I orologio del mondo, che tutto ne derivasse come per
necessità, per la suprema armonia dell’ universo. Vi è dunque bisogno li
filosofi naturali che non introducano soltanto la geometria nel campo
delle scienze fisiche (dato che la geometria manca di cause finali) ma
rendano anche manifesta nelle scienze naturali un’organizzazione,
per così dire, civile. 11 mondo è infatti come una grande repubblica in
cui gli spiriti corrispondono agli uomini liberi (cittadini o nemici) le
altre creature agli schiavi. (Lettera al Thomasius). In
questa su prema armonia tutte le scienze, tutti i modi di considerazione
del mondo si conciliano ed unificano. Risolvere inizialmente il labirinto
del continuo e del movimento, che avvolge nelle sue complicazioni tutti
gli ingegni, è impresa di grande importanza per stabilire i
fondamenti delle scienze e rintuzzare la vanagloria degli scettici ; per
dare una solida base alla geometria degli indivisibili e alla aritmetica degli
infiniti, generatrici di tanti e così importanti teoremi; per elaborare
un" ipotesi fisica di coerenza universale; infine, e questo è
l'essenziale, per arrivare a dimostrazioni assolutamente geometriche,
e finora mai raggiunte, sull intima essenza del pensiero e sull
eternità dello spirito (1) e sulla causa prima. Di qui sgorgano le fonti
della bontà e dell’equità, del diritto e delle leggi, così chiare e
limpide, così piccole d’estensione e insieme profonde di contenuto, da
poter valere come grandi volumi, e da poter bastare alla soluzione di
qualsiasi problema, con una compendiosita stupefacente per []. CON
LA PAROLA ‘SPIRITO’ TRADURREMO IL TERMINO LATINO “MENS”] chi ne faccia uso, e
di cui il volgo, io erodo, non ha neppure 1’ idea (1).
(Hgpothesis phyaica nova, T /noria motus abstracti, pref.). A quest’
idea della coincidenza di ogni forma di realtà e di ogni metodo d’
indagine nella suprema armonia e coerenza della natura, si riallacciano i
progetti, perseguiti da Leibniz lungo tutta la sua carriera, di
un’organizzazione sistematica delle scienze, di un’ Enciclopedia in cui
di tutto il sapere si desse una visione complessiva, concordante e
concaten antesi in tutte lo sue parti; progetti, questi, che richiamano
alla Pansofia eomoniana e per realizzare i quali Leibniz si fece
promotore di società scientifiche e fondatore di accademie.
Quest'armonia, però, come si è visto, non deriva in alcun modo da
un concepire tutte le scienze come prodotto dello spirito umano, quindi
soggette alle leggi di esso; essa è l’espressione di una realtà divina
oggettiva, a sè stante, con le sue leggi concordanti e armoniche. La
scienza scopre questa unità noi mondo, attraverso lo leggi dello spirito,
che corrispondono, in virtù dell armonia stessa, alle leggi del mondo.
Verità di ragione e di fatto. - Questa realtà oggettiva può
presentarsi sotto due aspetti : come verità di ragione « verità di fallo
; anno questi i due modi di essere del reale, retto ciascuno da leggi
proprie, ciascuno con proprie inconfondibili caratteristiche, cui
corrispondono poi anche i due diversi modi di apprensi one del reale:
razionale e sensibile. Ecco due definizioni di questi due tipi di verità, prese
da due opere distantissime per data e per argomento: Le verità di
ragione sono necessarie, quelle di fatto sono contingenti. Le verità
primitive di ragione sono (1) Quale sia il significato (lei
termini .j ni adoperati (continuità, indivisibile, infinito, pensiero, ecc.),
si vedrà in seguito. Comenio, noto principalmente nel campo della
pedagogia per la Bua Dì*ìar.tica Magne r, concepì il sapere come un'organizzazione
di ogni elemento della conoscenza secondo leggi universali (Pansofia),
trasformando il concetto di enciclopedia da quello di una semplice
raccolta di dati, a quello di una sistemazione unitaria dei dati stessi.
Leibniz conobbe ed apprezzò grandemente le sue opero. quelle che io
chiamo con nome generale identiche, poiché sembra che esse non facciano
che ripetere la medesima cosa, senza insegnarci nulla. Esse sono
affermative o negative. Le affermative sono sul tipo delle seguenti: Ogni
casa è ciò che è. e in qualsivoglia esempio A è A, lì è B; io sarò quel
che sarò; ho scritto quel che ho scritto. Le proposizioni copulative, le
disgiuntive, e altre, sono pure suscettibili di tale identità; e io
considero affermativa anche la seguente: Non-A è nou-A; e l'ipotetica: se
A è non-B, ne segue che A è non-B. Similmente se non-A è BC, ne segue che
non-A è BC. Vengo ora a parlare delle identiche negative che sono rette o
dal 'principio di con trad izione (1) o da quello dei disparati. Il
principio di contradizione è in generale il seguente: una proposizio-ne è vera
o falsa. Il che contiene due enunciazioni vere: l una che il vero e il
falso non sono compatibili nella medesima proposizione, ovvero che
una proposizione non può esser vera e falsa contemporaneamente ;
l'altra che l’opposto o la negazione del vero e del falso non sono
compatibili, ovvero che non vi è via di mezzo fra il vero e il falso; o,
in altri termini, che non è possibile che una proposizione non sia nè vera nè
falsa (2). Óra. tutto ciò è vero anche in tutte le proposizioni particolari
immaginabili, come: ciò che è A non potrebbe essere non-A,...
Quanto ai disparati, sono quelle proposizioni che dicono che I oggetto di
un’ idea non è l’oggetto di un’ altra idea; per esempio, che il calore
non è la medesima cosa che il colare, oppure che uomo e animale non sono
la medesima cosa, per quanto ogni uomo sia mi animale. Tutto questo si
può stabilire indipendentemente da qualsiasi Leibniz, come molti altri,
chiama « principio rii contradizionc >; quello che dovrebbe essere
chiamato più esattamente « principio di non contradizionc ». È questo il
principio che si suole chiamare del «terzo escluso», prova o dalla
riduzione all' assurdo o al principio di contradizione, quando tali idee siano
abbastanza evidenti da non aver bisogno di analisi: ma in caso contrario
c’è pericolo d’ ingannarsi: infatti, dicendo che triangolo e trilatero non sono
la medesima rosa, si cadrebbe in errore: perchè, a ben considerare, si
vede che i tre lati e i tre angoli vanno sempre insieme. Dicendo che il
rettangolo quadrilatero e il rettangolo non son la medesima cosa,
si sbaglierebbe ancora, perchè solo il poligono a quattro lati può
avere tutti gli angoli retti. Tuttavia si può sempre dire in astratto che
il triangolo non è il trilatero, o che le ragioni formali del triangolo e
del trilatero non sono le medesime, per dirla coi filosofi. Sono
espressioni diverse della medesima cosa. Taluno, dopo aver
ascoltato con pazienza ciò che abbiamo detto finora, la perderà infine, e dirà
che noi ci divertiamo a fare frivole enunciazioni, e che tutte le
verità identiche non servono a nulla. Ma un tale giudizio dipeli derrebbe
dal non aver abbastanza meditato su queste materie. Le dimostrazioni di logica,
per esempio, procedono dai principi dell - identità : e i geometri hanno
bisogno del principio di contradizione nello loro dimostrazioni per assurdo.
Contentiamoci qui di mostrare l’uso delle proposizioni identiche nelle
dimostrazioni degli sviluppi di ragionamento. Segue lo
sviluppo di queste tesi e altre considerazioni sulI applicazione del principio
di contradizione ai procedimenti logici. Ciò mostra che anche
le pili pine e apparentemente inutili fra le proposizioni identiche, sono
di grande utilità TI tonnine è scolastico-aristotelico, come del resto
tutti i concetti logici di cui si parla in questo brano. nei
procedimenti astratti e generali: e ci può insegnare che non si deve
disprezzare nessuna verità. Quanto alle verità primitive di fatto, sono le
esperienze immediate interne di una immediatezza di sentimento.
(Nuovi saggi). Bisogna avvertire che tutta l'arte
combinatoria si rivolge a teoremi, o proposizioni di verità eterna,
che hanno validità non per arbitrio di Dio, ma per loro propria
natura. Quanto alle proposizioni singolari e per cosi dire storiche, come
p. es. « Augusto fu imperatoredei Romani ». o alle osservazioni cioè alle
proposizioni clic sono sì universali, ma la cui verità non si fonda sull’essenza
ma sull’ esistenza, e che sono vere quasi per caso, cioè per arbitrio di
Dio. come p. es. « tutti gli uomini adulti in Europa hanno cognizione di
Dio»; di tali proposizioni non si dà dimostrazione, ma induzione, salvo
il caso in cui sia possibile dedurre un’osservazione da un'altra
osservazione attraverso un teorema. A tali osservazioni si riferiscono tutte le
proposizioni particolari che non siano inverse o subalterne di una
universale (2). È chiaro da ciò in qual senso si soglia dire che dell’
individuale non si dà dimostrazione, e per qual ragione il profondissimo
Aristotele abbia collocato nella Topica i luoghi degli altri argomenti in
cui le proposizioni sono contingenti e le ragioni probabili, mentre il
luogo delle dimostrazioni è uno solo: la definizione (3). Ma quando di
una cosa si deve dire ciò che non si desume dalle sue stesse
viscere, I/artc combinatoria, cui questo passo si riferisce, verrà presa
in considerazione in seguito. Inverse o subalterno di una universale
sarebbero per esempio le prò posizioni particolari dei sillogismi, le
quali hanno sempre carattere analitico. (3) Aristotele tratta nei
libri Topici dei «luoghi » (TÓ7tot)o aspetti sotto i quali ciascuna cosa
può venir considerata. Ivi tiene anche conto dei criteri di probabilità, di
induzione; mentre la dimostrazione e il sillogismo venzono trattati nei
due Analitici. p. es. che
Cristo è nato a Betlemme, nessuuo potrà arrivare a tali proposizioni attraverso
le definizioni, ma la materia sarà fornita dalla storia, e i testi
sovverranno alla memoria. (Ars Combinatoria). Lo verità di
ragione si fondano dunque su puri principi logici ; quelle di fatto invece
sull’esperienza. Le une riguardano 1 'essenza, le altre V esistenza-,
quelle il necessario, queste il contingente. Le verità di ragione
sono analitiche. Esse non tanno ohe sviluppare ciò che è già contenuto nelle
viscere di ciascun concetto, non aggiungono cioè nulla alla nostra conoscenza
delle cose; costituiscono la base del ragionamento deduttivo. Le
scienze che da esse derivano sono le logiche e matematiche; i principi su
cui si fondano sono quelli di non còntradizione, del terzo escluso, che
poi si riducono tutti al principio di identità. Le verità di fatto
sono empiriche. Nelle proposizioni che da esse derivano il predicato non
è, come in quelle di ragione, già contenuto nel soggetto: vi si aggiunge
come qualche cosa di nuovo, che lo aumenta ed arricchisce, ma che non gli
appartiene necessariamente per la sua stessa essenza; la cui presenza
deve invece essere concretamente constatata, sperimentata volta per volta. Ad
esse si applica 1’ induzione ; di esse si occupano le scienze naturali, quello
storiche, tutte le indagini che partono dal dato concreto e contingente.
Si reggono, queste verità, sul principio di causalità odi ragion sufficiente.
(Ofr. p. 17 ss.). LE VERITÀ di ragione come possibili. Le v erità di ragione
hanno dunque su quelle di fatto il vantaggio della assoluta certezza e
necessità, o dell’ impossibilità del contrario; esse costituiscono una
incrollabile base su cui tutta la realtà poggia, un punto di riferimento
assoluto e infallibile. D’altra parte, però, hanno una staticità che non
permette loro alcuno sviluppo nè variazione: rimangono immobili nella
loro fissità. Le verità di fatto, invece, sono bensì casuali,
contingenti; non dipendono da nessuna legge a priori ; ma appunto
questo carattere di non poter venir dedotte da principi già
conosciuti, quindi di non essere mai dimostrabili, ma solamente percepibili
attraverso i sensi, fa di esse lo portatrici di ciò che è nuovo,
imprevisto, mutevole; le pone come l’espressione della realtà del mondo
nel suo concreto divenire. Si potrebbe dire che le verità di ragione
costituiscono l’ordine necessario di relazioni, di rapporti entro cui
tutte le cose avvengono, quasi la cornice, la forma della realtà: e le
verità di fatto il contenuto, la realtà stessa in tutti i suoi particolari. E
infatti, le verità di ragione vengono da Leibniz concepite piuttosto
come relazioni che come cose-, il che egli esprime col dire che le verità
di ragione, necessarie, ci dànno la sola 'possibilità delle cose, che non
implica ancora affatto la loro realtà effettiva. Infatti, se ogni
possibile, e tutto ciò che ci si può immaginare (anche se assolutamente
biasimevole) dovesse avvenire un giorno, se ogni favola o finzione fosse stata
o dovesse divenire storia effettiva, in tal caso non vi sarebbe
nuli’ altro che la necessità e non vi sarebbe nè scelta nè
provvidenza. (Polemica pubblicata nel Journal de# Savants). Questo
mondo delle possibilità, datoci dalle verità di ragione, può assumere
infiniti aspetti, conformarsi in infinite guise, che rappresentano tutte
le forme in cui potrebbe manifestarsi la realtà; la quale poi
concretamente si manifesta in una sola di esse. Ciò che noi vediamo e
sperimentiamo è la realtà d[ fatto, che si svolge e manifesta entro
l’ambito segnatole dai principi della ragione (infatti qualsiasi fatto
concreto non potrebbe derogare al principio di non contradizione). Tali
principi però potrebbero inquadrare infinite altre forme di realtà,
diverse da quella di questo mondo, concretamente esistente. È
questo il principio dell’ infinità < lei mondi possibili, cioè dell’
infinità delle possibilità che sono racchiuse nelle verità di
ragione, schemi logici necessari entro cui si svolge ogni e qualsiasi
realtà. Quando dico che vi è un’ infinità di mondi possibili, intendo che
non implichino contradizione, così come si possono fare romanzi che non si
effettueranno mai e che sono tuttavia possibili. Per essere possibile
basta che una cosa sia intelligibile. (Lettera al Bourguet).
È chiaro quale sia un’ idea vera e quale falsa. Vera è un’ idea,
quando la nozione ne è possibile, falsa quando implica contradizione. La
]x>ssibilità di una cosa. poi. la conosciamo a priori o a posteriori. A
priori, quando risolviamo una nozione nei suoi elementi, cioè in altre
nozioni di riconosciuta possibilità e sappiamo che in esse nulla vi
è di contradi ttorio...; a posteriori quando sperimentiamo attualmente
resistenza della cosa: infatti ciò che esiste o è esistito attualmente, è
senz'altro possibile (I). E ogni qualvolta si ha una conoscenza adeguata, si ha
la conoscenza della possibilità a priori; condotta poi l'analisi a
termine, se non si manifesta alcuna contradizione, la nozione è
certamente possibile. (i Meditai iones de Cogitinone, Ventate et
'de in, 1684, G. IV, 425). Alle verità di ragione c di fatto
corrispondono anche i due modi di conoscenza razionale e sensibile. Ma
quelle verità appartengono anzitutto - all'ordine oggettivo del reale. In
questo senso si deve intendere l’opposizione di Leibniz alle idee
chiare e distinte poste da Cartesio come criterio delle verità di
ragione. Tale criterio non consiste per lui in una qualsiasi
evidenza conoscitiva, ma nella possibilità e non contradizione.
Egli [Cartesio] aveva posto come criterio della verità la nostra
percezione chiara e distinta. Cioè, la verità del fatto che il circolo
sia la figura di massima area con dato perimetro non sarebbe secondo lui
altrimenti riconoscibile se non attraverso la chiara e distinta percezione
che noi abbiamo ili tale sua proprietà. E se Dio avesse conformato la
nostra natura in modo che noi avessimo chiara e distinta percezione del
contrario, il contrario sarebbe vero. Questa è la sua opinione, che io
non approvo punto. E non è assolutamente vero quel suo principio
metafìsico universale, che di tutte le cose che pensiamo o di cui
ragioniamo sia necessariamente in noi l' idea, p. es. del po li)
Oiòsignilìca che resistenti) deve rientrare nelle leggi della
possibilità, ma cho queste leggi possono anche andare molto al ili fuori
dal campo dell’attualmente esistente. ligono di mille lati o
dell'ente sommamente perfetto: principio col quale, come armato dello scudo di
Achille, egli disprezzo non senza arroganza tutti coloro che
dubitarono delle sue dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Con tale argomento,
egli avrebbe certo potuto facilmente far sì che in noi fosse anche 1'
idea di cose impossibili, p. es. del movimento sommamente veloce; fra le
quali cose impossibili, coloro che vogliono opporsi alle sue
dimostrazioni porranno anche l'ente sommamente perfetto, lo so, per parte
mia. clic altro è l'ente sommamente perfetto e altro il movimento
sommamente veloce: ritengo però che i ragionamenti di Cartesio siano
imperfetti, e che chi li voglia condurre a compimento, vi debba
aggiungere molto di suo. (Frammento). Dio e i,e verità
di ragione e di fatto. - Con queste affermazioni, Leibniz sottomette de idee
chiare, e distinte al criterio oggettivo della pos sila 1 ita logica, o «non
cont ra dizio ne ». E a questo criterio sottomette anche il concetto
dell’ente sommamente perfetto, sul quale si fonda la cartesiana
prova ontologica dell esistenza di Dio (2). L' idea dell’ente sommamente
perfetto, egli dice, potrebbe essere contradittoria, come quella della
velocità massima o del numero più grande di tutti (iflee contradittorie,
queste, perchè sarà sempre possibile concepire una velocità o un numero
maggiori di una qualsiasi altra velocità o numero presi a piacere: quindi
non si potrà mai giungere al massimo) v J)eirente perfettissimo, dunque,
non basta aver l’idea: bisogna anche dimostrarne la possibilità, dimostrare
cioè che esso non appartiene solo al mondo delle nostre rappresentazioni,
ma anche al mondo delle verità eterne di ragione. Questa data mi 6
stata gentilmente comunicata dal prof. Ritter, direttore della
Commissione leibniziana dell'Aceademia delle Scienze di Berlino.
(2) La prova ontologica, clic Cartesio ha ripreso da Anseimo
d'Aosta (1033-1109), afferma che Tessere sommamente perfetto deve
contenere, fra le sue perfezioni, anche resistenza: quindi esiste. Tale
prova considera quindi l’esistenza come un attributo dell'essenza
dell’essere perfettissimo.
L'obiezione di Leibniz contro la prova ontologica si ferma generalmente
a questa dichiarazione di incompletezza; e non mancano poi in lui le
affermazioni che l'ente sommamente perfetto sia effettivamente possila le
e implichi la propria esistenza. Tuttavia in lui già è chiaro il concetto che
le verità di ragione e quelle di fatto appartengono a due sfere
diverse e - per cosi dire - incommensurabili, sì che non sia
possibile far rientrare l’una nel campo dell’altra. Ma in
generale non si può dire che Leibniz si preoccupi troppo di provare
resistenza di Dio. Abbiamo già visto che il suo problema non è tanto di
dimostrare e dedurre i concetti fondamentali del suo sistema, quanto di
organizzarli in unità armonica. Dio è una premessa dalla quale Leibniz
parte, non una conclusione cui egli arrivi. Quale ora il
rapporto fra Dio e le verità di ragione c di fatto ( Anche a questo
proposito la posizione di Leibniz si contrappone a quella di Cartesio ; il
(piale, dedotta a priori l'esistenza di Dio, fa poi discendere da Dio,
per un atto libero della sua volontà, tutto il mondo delle verità, sia di
ragione, sia di fatto (1). A questa dipendenza delle verità di ragione
dall'arbitrio divino, Leibniz si oppone recisamente. Per lui sono
rappresentato, in queste verità, relazioni assolute regolatrici dell’
univorso, tali ohe in esso si devono inquadrare perfino i decreti della
volontà divina. Si è già visto che le verità di ragione valgono «non per
l'ar bitrio divin o ma per loro propria natura»; e tale opinione circola
in tutti gli scritti di Leibniz, fin dalla sua prima giovinezza.
È necessario che tutto si rifaccia ad una qualche ragione, nè ci si deve
fermare finché non si arrivi alla prima. C'fr. per esempio, Meditazioni
metafisiche, Risposte alle seste obbiezioni,!). U: «...lo dico che è impossi
bile che una tale idea [del bene o del vero] abbia preceduto la
determinazione della volontà di Dio.... in modo che questa idea del bene abbia
portato Dio a scegliere l'una cosa piuttosto che l’altra. Por esempio,
non per aver visto cho era meglio che il mondo fosse creato nel tempo
piuttosto cho dall’eternità, egli ha voluto crearlo nel tempo; o non ha
voluto cho i tre angoli di un triangolo fossero uguali a due retti per
aver visto cho non poteva essere altrimenti, etc. Ma all'opposto: per il
fatto che egli ha voluto creare il mondo nel temilo, per questo ò meglio
così che se fosse stato creato dall'eternità; e solo perchè egli ha
voluto che i tre angoli di un triangolo fossero necessariamente uguali a due
retti, ciò è ora vero o non può essere altrimenti; e così di tutte le
altre cose». E iiuale. è dunque
l’ultima ragione della volontà divina? L’ intelletto divino. Quale la
ragione dell' intelletto divino? L’armonia delle cose. Quale dell'armonia
delle cose ? Nulla. Per esempio, della proposizione 2:4=4 : 8 non si
può dare alcuna ragione, neppure attraverso la stessa volontà
divina. Quella verità dipende dall'essenza stessa o idea delle cose.
i (Frammento De resurrectione corporum). L’ intelletto divino
è insomm a determinato dalle verità di ragione, e la volontà divina non
può agire se non nell’ambito segnato da esse. La volontà divina, ora, si
esplica nelle verità di /atto. Esse, ed esse sole, sono create da Dio per
un atto libero della sua volontà. Dio è la ragione prima delle cose
: poiché quelle che sono limitate, come tutto ciò che noi vediamo e
sperimentiamo. sono contingenti e non hanno nulla in sé che renda la loro
esistenza necessaria; essendo chiaro che il tempo, lo spazio e la
materia, uniti e uniformi in sé stessi, e indifferenti a tutto, avrebbero
potuto ricevere movimenti e figure totalmente diversi e in tutt' altro
ordine. Bisogna dunque cercare la ragione dell esistenza del mondo, che
è tutto l'insieme delle cose contingenti: e bisogna cercarla nella
sostanza che contiene la ragione della sua esistenza in se stessa (1), e
che, per conseguenza, è necessaria ed eterna. Bisogna pure che tale causa
sia intelligente: poiché dato che questo mondo che esiste è contingente, essendo
egualmente possibili ed egualmente pretendenti all'esistenza per così dire al
pari di esso una infinità di altri mondi, bisogna che la causa del mondo
abbia avuto rapporto e riguardo a tutti questi mondi possibili, por
determinarne uno. E questo riguardo o rapporto di una Tale sostanza è Dio.
Cfr. la prima definizione dell’ FI tea di Spinoza: Per caiuiam e ui
intelligo id, cujus esse alia invaivi t existenliam; vive id, cujus
natura non potest concipi, nini existensv. sostanza esistente con
semplici possibilità, non può essere altro che 1‘ intelletto che ne ha le
idee; e a determinarne una non può essere altro che l'atto della mhmtà
che sceglie. Ed è la potenza di questa sostanza che ne rende la
volontà efficace. La potenza tende all'essere, la saggezza o l' intelletto
al vero, la volontà al bene. E questa causa intelligente deve essere infinita
in tutti i modi, e assolutamente perfetta quanto a potenza, saggezza e
bontà, poiché essa tende a tutto ciò che è possibile. E siccome tutto è
connesso. non vi è ragione di ammetterne più di una. 11 suo intelletto è
la fonte delle essenze, la sua volontà è l'origine delle esistenze. Ecco in
poche parole la prova di un Dio unico con le sue perfezioni e, per suo
mezzo, l'origine delle cose. (Teodicea). Le
verità di ragione sono dunque il contenuto fieli intelletto di Dio, le
verità di f atto il prodotto della sua volontà, fra le infinite
possibilità che potrebbero realizzarsi entro gli schemi del principio di
non contradizione, Dio ne sceglie una, e la pone in atto. Anche in
questo, Leibniz si oppoue a Cartesio, il quale ritiene che la materia
assuma tutte le forme possibili. Egli cita, per confutarlo, questo passo
dei Princip { rii Filosofia (parte III, art. 47): a Poiché la materia
assume successivamente tutti' le forme di cui è capace, se consideriamo ordinatamente
queste forme, giungeremo infine a quella che appartiene a questo nostro mondo,
in modo che non sia da temere alcun errore per colpa di una eventuale
falsa i potesì. Leibniz risponde: Non credo che si possa
enunciare una proposizione più pericolosa di questa. Poiché, se la
materia riceve successivamente tutte le forme possibili, ne deriva che non
si Cartesio ò costretto alla concezione che tutti i mondi possibili
siano effettivamente esistenti, dal suo impegno di dedurre il mondo dalle
sole idee chiare e distinte o di ragione. Leibniz, col suo principio di
una netta separazione Ira la possibilità c l’esistenza, può esimersi da
questo passaggio per tutte le forme della possibilità, e risolvere il
problema dell origine del mondo sensibile con un diretto ricorso al
principio delle verità di fatto. VERITÀ DI RAGIONE E DI FATTO possa
immaginare nulla di tanto assurdo nè di tanto bizzarro e contrario a quello che
noi chiamiamo giustizia, che non sia accaduto o che non debba accadere un
giorno.... È questo, a mio avviso, il 7rpwxov tpeòSoq (primo inganno) e il
fondamento della filosofia atea, la quale non tralascia mai, in
apparenza, di dire belle cose di Dio. Ma la vera filosofia deve darci ben
altra nozione della perfezione di Dio, che possa servirci tanto nella fisica,
quanto nella morale. (Lotterà al Philippi). Il
principio di ragion sufficiente. La realtà contingente posta in atto da Dio è
il mondo sensibile che noi sperimentiamo. Per la giustificazione di esso, le
immutabili leggi della logica non sono sufficienti. TI mondo, la realtà
di fatto è, ma potrebbe anche non esserci, o essere diverso da quello
che è. Esso non deriva da nessuna verità assoluta. 11 principio logico
clic si dovrà applicare per rendersi conto di esso, non è il principio di
non conti-a dizione, ma quello di ragion sufficiente, quel principio cioè per
cui da un dato di fottìi si risale alla sua causa, e da essa di nuovo
alla causa, e cosi fino alla causa jprima, cioè Dio. 11
principio universale nihil esse sine catione (1) risolve quasi tutte le
discussioni metafìsiche.... Is’ulla avviene, del cui esser stato prodotto
piuttosto che non essere stato (cur factum sit polius quam non sii) Dio,
se voglia, non possa render ragione. (Frammento sulla
Selenita Media). È il principio di ragion sulKcicnle. Non bisogna far
confusione fra questo, che Leibniz chiama a volte anche semplicemente -
principio di ragione », e le verità di ragione. 11 pri n c imo d i rag ione è
la forma generalo che regola lo verità di fatto. Le verità di ragione si
contrappongono invece a queste ultimo, e si fondano sul principio di non
contradizione. La somiglianza di due termini dal significato così differente e
quasi opposto, deriva ila un diverso uso del termino « ragione ». Nella
locuzione principio di ragione » osso equivale a « motivo, causa ». Ora bisogna
elevarsi alla metafisica, servendoci del gran principio, comunemente poco
impiegato, il quale afferma che nulla si verifica senza una ragione
sufficiente, cioè che nulla accade senza che sia possibile a colui che
conosca sufficientemente le cose, di dare una ragione che basti a
determinare perchè è così e non altrimenti. Posto questo principio, la
prima domanda che si avrà il diritto di porre, sarà : Perchè ri è qualche
cosa piuttosto che nulla ? poiché il nulla è più semplice e più facile
che il qualche cosa. Inoltre. supposto che cose debbano esistere, bisogna che
si possa rendere ragione del perchè esse debbano esistere così, e
non altrimenti. Ora questa ragione sufficiente dell esistenza dell
universo non si può trovare nell' ordine delle cose contingenti,
cioè dei corpi e delle loro rappresentazioni nelle anime : poiché,
essendo la materia indifferente in sè stessa al movimento e al riposo e a
questo movimento o ad un altro, non si può trovare in essa la ragione del
movimento e ancor meno di questo movimento. E. benché il movimento attuale
che è nella materia derivi dal precedente, e questo ancora da un
precedente, non si avanzerà affatto, per quanto lontani si possa andare:
poiché resterà sempre la medesima domanda. Così bisogna che quella
ragione sufficiente che non ha più bisogno di un'altra ragione, sia fuori
di questo ordme di cose contingenti, e si trovi in una sostanza che ne
sia la causa o che sia un essere necessario il quale porti con sè la ragione
della sua esistenza : altrimenti non si avrebbe mai una ragione
sufficiente, alla quale arrestare il processo. E questa ultima ragione
delle cose è chiamata Dio. ( Principe# de la nature et de la
grane). La causa FINALE E il « mkiliore ». Dio è dunque la
causa o ragion sufficiente rii tutte le verità di fatto, cioè del
mondo sensibile. Ma con quale criterio ha egli scelto, nella sua creazione,
fra le infinite possibilità che gli si offrivano, proprio questa e non un
altra? Che cosa lo ha guidato nella scelta? Nulla avviene senza un
perchè sufficiente, o senza una ragione determinante. In virtù di questo
principio, che ci conduce oltre i limiti raggiunti dai nostri
predecessori, Dio non cambia mai volontà e operazione senza averne qualche
valida ragione. E quando la cosa di cui si tratta è di natura uniforme e
semplice, siamo in condizione di giudicare (per quanto povere creature si
sia) se vi può essere una ragione o no. Quando la volontà di Dio è impiegata
da sola, senza che nella natura delle creature vi sia la ragione di
questa volontà, nè il modo del suo operare, si tratta di un puro miracolo :
criterio poco opportuno in filosofia, come se Dio volesse (per esempio) che
i pianeti si muovessero in linea curva senza essere spinti da altri
corpi Ogni volta che noi conosciamo qual che cosa delle opere di Dio, vi
troviamo dell' ordine. (Lettera allo Hartaoekcr). II
principio della ragion sufficiente, dunque, come vale per risalire
attraverso le cause dai dati esistenti lino a Dio, cosi lieve essere
applicato a Dio stesso, il quale, creando questo mondo, non ha agito
arbitrariamente, ma è stato guidato da un criterio della sua azione. Non
ha agito, neppur lui, senza una ragione del suo agire; e questa ragione
che. determina la sua volontà, è i l criterio del massimo be ne, della
massima perfezione. A q uest o criterio Dio si è ispirato nel
creare il mondo, e a questo criterio si deve ricorrere dunque come alla
ultima ragione di tutta la creazione. Il bene e la perfezione come motivo
dell esistenza delle cose, viene chiamato A n '\{ è±. Io ritengo
che, ben lungi dal dover escludere le cause finali dalla considerazione
fisica, come pretende Descartes nei Principi di Filosofia, parte 1, art.
28, sia piuttosto per mezzo di esse che tutto si debba determinare,
poiché la causa efficiente delle cose è intelligente, avendo una
volontà e perciò tendendo al bene. (Lettera al Philipp!, 1080, 0.
IV, 281). Dio mette in opera, dunque, uno solo degli infiniti
mondi possibili ; ma è retto da un criterio in tale creazione.
Questo criterio fa sì che il mondo da luf scelto sia il migliore fra
i mondi possibili. Questa infinita saggezza, unita ad una
bontà non meno infinita, non ha potuto fare a meno di scegliere il
migliore; poiché, come im male minore è, in certo senso, un bene,
cosi mi minor bene è, in certo senso, un male, se fa ostacolo ad un bene
più grande: e vi sarebbe qualche cosa da correggere nelle azioni di Dio,
se vi fosse modo di far meglio. E come in matematica, quando non vi
è nè massimo nè minimo e nulla, insomma, di distinto, tutto avviene
ugualmente, o, quando ciò è impossibile, non avviene addirittura nulla ;
si può dire lo stesso a proposito della perfetta saggezza, la quale non è
mono regolata che la matematica : che, se non ci fosse stato il migliore
(optimum) fra tutti i mondi possibili, Dio non ne avrebbe prodotto nessuno.
Chiamo mondo tutta la serie e tutto 1 insieme di tutte le cose esistenti,
affinchè non si dica che più mondi hanno potuto esistere in differenti
tempi e in differenti luoghi. Giacché bisognerebbe considerarli
tutti insieme come un solo mondo, o se volete, come un universo. E
quando si riempissero tutti i tempi e tutti i luoghi, resta pur sempre
vero che si sarebbero potuti riempire in una infinità di maniere, e che
vi è ima infinità di mondi possibili, di cui Dio deve aver scelto il
migliore, perchè egli non fa nulla senza agire secondo la suprema
ragione. (Teodicea). Dio dunque non scoglie
arbitrariamente. Anche qui egli si ispira ad un principio - il principio
del migliore - che regola la sua azione nel metterò in opera la realtà del
mondo. In che cosa consiste questo principio? Che cos’è il
«migliore», questa causa finale deile verità di fatto? Un criterio di massima
realizzazione, di massima perfezione, di massima felicità, bontà, etc. :
insomma di armonia, che tende a che nei limiti della possibilità venga
realizzato il massimo di esistenza possibile. Discende dalla
perfezione suprema di Dio che, producendo T universo, egli abbia scelto il
miglior piano possibile, nel quale vi è la massima varietà, col massimo
ordine; il terreno, il luogo, il tempo meglio organati; il massimo
effetto prodotto coi mezzi più semplici; il massimo di potenza, il massimo di
conoscenza, il massimo di felicità e di bontà nelle creature, ammissibile
nell' universo. Infatti, dato che tutti i possibili pretendono
all'esistenza nell intelletto di Dio in proporzione delle loro perfezioni,
il risultato di tutte queste pretensioni deve essere il mondo attuale, il
più perfetto che sia possibile. Altrimenti non sarebbe possibile rendere
ragione del perchè le cose siano andate così piuttosto che in altro modo.
(Pricipes de la Nature et de la (brace). È un mio principio,
che tutto ciò che può esistere ed è conciliabile con le altre cose,
esista. Poiché la ratio exiatendi a preferenza di tutti gli altri possibili,
non deve essere limitata da altra ragione, se non da quella che non
tutte le cose sono conciliabili fra di loro. L' unica ragione
determinante è dunque ut exislant / totiora, quae plurimum involvant
realitatis. (Ii'rammonto del 1070, C. 530). Vi è una
ragione in natura per cui esiste qualche cosa piuttosto che nulla. Ciò è
una conseguenza del grande principio che nulla avviene senza una ragione, così
come deve esservi anche una ragione per cui esista una cosa piuttosto che
un' altra. Tale ragione deve essere in qualche ente reale o causa.
Infatti la causa non è altro che una realis ratio, e le verità di possibilità e
di necessità (cioè di cui viene negata la possibilità del contrario) non
produrrebbero nulla se le possibilità non si fondassero su qualche cosa
di attualmente esistente. Questo ente poi dovrà essere necessario:
altrimenti si dovrebbe ricercare di nuovo (contro l' ipotesi), di là
da esso, una causa per cui esso esista piuttosto che no. Quell'ente è
insomma l'ultima ragione delle cose, e in una parola lo si suole chiamare
Dio. Vi è dunque una ragione per cui 1 esistenza debba prevalere
sulla non-esistenza. e cioè Ens necessarium est existentificans. Ma
quella causa che fa sì che qualche cosa esista, cioè che la possibilità
esiga l'esistenza, fa anche sì che ogni possibile abbia una tendenza
all'esistenza; poiché non si può trovare in generale una ragione di
restrizione all esistenza dei possibili. Così si può dire che ogni
jmsibile è un inizio di esistenza ( I ) in quanto si fonda su di un ente
necessario attualmente esistente, senza il quale non vi sarebbe
alcuna via per la quale potesse possibilmente giungere ad attuarsi. Ma da
questo non deriva che tutti i possibili esistano: ciò avverrebbe sì se tutti i
possibili fossero compossibili. Ma poiché vi sono alcune cose che
sono incompatibili con altre, ne segue che alcuni possibili non giungano
all'esistenza. E le cose possono essere incompatibili non solo
relativamente al medesimo tempo, ma anche universalmente parlando, perchè nelle
cose presenti sono implicite le future. Intanto però, dal conflitto
di tutti i possibili che pretendono all' esistenza, deriva questo almeno, che
esista (1) Traduciamo così il termine existilurire.
quella serie di cose per la quale
giunge all'esistenza il massimo numero di cose, cioè la serie massima di
tutti i possibili. E questa serie unica è determinata, così come
tra le linee è determinata la retta, tra gli angoli l'angolo retto, tra
le figure e i solidi quelle di massima capacità, cioè il circolo e la
sfera. E come vediamo che i liquidi si raccolgono spontaneamente in gocce
sferiche, così nell' universo esiste la serie di massima capacità.
Esiste dunque la massima perfezione; e non consiste se non nella
quantità di realtà. Inoltre la perfezione non si deve soltanto
ravvisare nella materia, cioè in ciò che riempie il tempo e lo spazio,
la cui quantità sarebbe sempre costante in qualsiasi modo, ma nella
forma o varietà. Ne consegue che la materia non è ovunque simile a
sè stessa, ma viene resa dissimile dalle forme; altrimenti non
otterrebbe tanta varietà quanta . le è possibile.... Ne consegue
anche che ha prevalso quella serie dalla quale derivava il massimo di
pensabilità distinta. E la pensabilità distinta dà ordine alla cosa
e bellezza a chi pensa. L 'ordine, non è altro infatti che relalio plurium
dislinctiva, e confusione si ha quando sono presenti bensì più cose, ma
non vi è un criterio por distinguere l una dall'altra. Cade
così il concetto eli atomo e in generale di qualsiasi corpo in cui non vi sia
un criterio di distinzione di una parte dall'altra. E ne
deriva universalmente che il mondo è un y.óapoc. un organismo armonico,
cioè fatto in modo da soddisfare massimamente chi comprenda.
Il piacere di chi comprende (voluptas intelligentis ) non è altro
infatti che la percezione della bellezza, dell' ordine, della perfezione;
e ogni dolore contiene qualche cosa di disordinato, ma solo riguardo a
chi lo percepisce, perchè, assolutamente parlando, tutto è
ordinato. Così, quando alcunché ci dispiace nella serie delle cose,
ciò deriva da un difetto di comprensione. Infatti non è possibile che
ciascuno spirito comprenda tutto distintamente; e a chi osservi solamente
alcune parti piuttosto che altre, 1’ armonia non può apparire nel suo
complesso. Consegue da ciò che nell'universo è osservata anche
la giustizia, non essendo la giustizia altro che un ordine o
perfezione riguardo agli spiriti. (Frammento).
Necessità e libertà. - Anche questo criterio di perfezione, di
bontà, di armonia è, aqalogamente alle verità di ragione, assoluto,
oggettivo, a sè stante, indipendente dalla volontà di Dio, imposto dalla
necessità delle cose. Dio sceglie il migliore: ma non avrebbe potuto
scegliere altrimenti. Siamo qui in presenza della celebre questione della
conciliazione fra necessità e libertà-, la quale riguarda solo da lato il
nostro argomento, e rientra piuttosto nel problema della Teodicea. Anche
a questo proposito Leibniz si oppone a Cartesio. Contro coloro che
sostengono che non vi è bontà nelle opere di Dio o che le regole della
bontà e della bellezza sono arbitrarie. Io sono molto lontano
dall'opinione di coloro che sostengona che non vi siano affatto regole di bontà
e di perfezione nella natura delle cose, o nelle idee che Dio ne
ha; e che le opere di Dio non siano buone se non por la ragione formale
che Dio le ha fatte. Poiché, se ciò fosse, Dio, sapendo che egli ne è
l'autore, non avrebbe avuto ragione di guardarle in seguito e trovarle
buone, come testimonia la Sacra Scrittura (1), la quale non pare si sia
servita di questo linguaggio umano, se non per mostrarci che la loro
eccellenza si riconosce a guardarle in se stesse, anche se non si fanno
riflessioni su questa semplice denominazione esteriore, che le riattacca alla
loro causa. E ciò è Leibniz allude qui al racconto del Co p. I della
Genesi, in cui a ciascun atto della creazione seeue la frase: «E Dio vide che
ciò era buono». tanto più vero, in quanto proprio attraverso la considerazione
delle opere si può valutare chi le ha operate. Bisogna dunque che queste opere
portino in sè il suo carattere. Confesso che l'opinione contraria mi
sembra estremamente pericolosa e molto vicina a quella degli ultimi
novatori (1), i quali ritengono che la bellezza dell' universo e la bontà
che noi attribuiamo alle opere di Dio non siano se non chimere degli
uomini che concepiscono Dio a modo loro. Cosi, dicendo che le cose non
sono buone per nessuna regola di bontà, ma per la sola volontà di Dio, si
distrugge, mi semina, senza pensarci, tutto l'amore di Dio e la sua
gloria. Infatti, perchè lodarlo di ciò che egli ha fatto, se egli sarebbe
ugualmente lodevole facendo tutto il contrario? Dove sarà dunque la sua
giustizia e la sua saggezza, se non rimane che un certo potere dispotico, se
la volontà tiene il posto della ragione e se, secondo la definizione dei
tiranni, ciò che piace al più potente è, appunto per ciò, giusto? Inoltre
sembra che ogni volontà supponga qualche ragione di volere, e che questa
ragione sia naturalmente anteriore alla volontà. È per questo che
io trovo anche molto strana l’espressione di altri filosofi, i quali
dicono che le verità eterne della metafisica e della geometria, e
conseguentemente anche le regole della bontà, della giustizia e della
perfezione non sono che effetti della volontà di Dio, mentre mi sembra
che esse non siano che conseguenze del suo intelletto, il quale non
dipende affatto dalla sua volontà, così come non ne dipende la sua
essenza. Contro coloro che credono che Dio avrebbe potuto far
meglio. Non posso neppure approvare l’ opinione di alcuni moderni
(’.i) i quali sostengono arditamente che quello che Dio Allude agli
spinozisti (cfr. l’ed. cit. del Ijestibnnk). I/opinione che Lei lini/, ha
della dottrina di Spinoza, è per molti aspetti errata e turbata da
preconcetti. Cartesio (cfr. ibid.). Gli scolastici del suo tempo
(efr. ibid.). fa. non è l’assoluta perfezione, e che egli avrebbe
potuto agire assai meglio. Poiché mi semina che le conseguenze eli
questa concezione siano assolutamente contrarie alla gloria di Dio. Ufi
minus malum habet ratiouem boni, ita mimi* bomttn habet rationem mali. E
si chiama agire imperfettamente, agire con minor perfezione di quello che
si sarebbe potuto. E trovare a ridire sull' opera di un architetto il mostrare
che egli avrebbe potuto farla meglio. Questi moderni credono anche di
provvedere così alla libertà di Dio; come se non fosse la piìi alta
libertà quolla di agire in perfezione seguendo la ragione sovrana.
Poiché credere che Dio agisca in qualche cosa senza aver alcuna
ragione della sua volontà, oltre che apparire impossibile, è opinione
poco conforme alla sua gloria. Per esempio, supponiamo che Dio scelga fra A e
li. e che egli prenda A senza avere alcuna ragione di preferirlo a B: io
dico che questa azione di Dio, per lo meno, non sarebbe affatto
lodevole; poiché ogni lode deve essere fondata su qualche ragione
che non si trovi già ex hypothesi . Ritengo invece che Dio non faccia
nulla per cui non meriti di essere glorificato. (Discours de
métaphysique). I l criterio della, bontà e del «migliore», non è
dunque conseguenza della volontà divina: è piuttosto la volontà divina
che si ispira a questo criterio, il «piale ha una validità oggettiva a sé
stante, altrettanto come le verità di ragione. L'azione di Dio è da un
lato circoscritta dai limiti della possibilitòj dati dal principio di non
contradizione, nell’ambito del «piale essa si devo svolgere: dall’altro
lato è determinata da epiesto finalismo, da questo principio del «
migliore », della bontà, che costituisce l’oggetto necessario della sua
scelta. D'ambo i lati dunque, essa si trova determinata: e questa
determinazione costituisce la legge stessa «Iella sua perfezione.
Necessità nelle verità di ragione, dunque, poiché i principi di
esse sono inderogabili, tali che non potrebbero venir concepiti diversi da
«piel che sono; necessità anche nelle verità di fatto, in quanto la loro
ragion sufficiente non può non essere il principio della suprema
perfezione e bontà. Ma queste due forine «li necessità onde consta l'
intelletto e la volontà divina, quindi tutte le cose del mondo, non sono
identiche fra di loro: se lo fossero, cesserebbe, si può dire, ogni
distinzione fra verità di ragione e di fatto, e le une discenderebbero
dai medesimi principi che le altre, si baserebbero sulle medesime leggi.
La necessità di fatto ha invece caratteristiche sue proprie. Essa non
implica quella impossibilità «lei contrario che è essenziale caratteristica
della necessità di ragione. La necessità morale. - La necessità di
ragione è una legge regolativa dell’ intelletto divino. La necessità di
fatto e la ragion sufficiente che determina la volontà di Dio: e questa
ragione è necessitante sì, ma non in modo che il contrario sarebbe
impossibile. Questo secondo tipo di necessità, Leibniz lo distingue a
volte dalla necessità di ragione col chiamarlo motivo inclinante
(contrapposto a necessitante), necessità inorale. Bisogna distinguere
tra necessità assoluta e necessità ipotetica. Bisogna pure distinguere
fra una necessità che ha luogo perchè l’opposto implica contradizione, e
che vien chiamata logica, metafisica, o matematica, ed una necessità olio
è morale, che fa sì che il saggio scelga il migliore, e che ogni spirito
segua l' inclinazione più grande. La necessità ipotetica è quella
che viene imposta ai futuri contingenti dalla supposizione o ipotesi
della previsione e preordinazione da parte di Dio.11 bene, sia vero sia
apparente, in una parola il motivo, inclina senza necessitare, senza
imporre cioè una necessità assoluta. Infatti, quando Dio, per esempio,
sceglie il migliore, ciò che egli non sceglie e che è inferiore quanto a
perfezione, non cessa di essere possibile. Ma se ciò che Dio sceglie
fosse necessario, ogni altra scelta sarebbe impossibile, contro T ipotesi;
poiché Dio sceglie tra i possibili, cioè fra vari partiti, dei quali nessuno
implica contradizione. Ma dire che Dio non può scegliere se non il
migliore, e volerne inferire che ciò che egli non sceglie è
impossibile, è confondere i termini, la potenza e la volontà, la necessità
metafisica e la necessità morale, le essenze e le esistenze. Giacché ciò che è
necessario, lo è per la sua essenza, poiché l'opposto implica
contradizione; ma il contingente che esiste deve la sua esistenza al principio
del migliore, ragione sufficiente delle cose. Ed è per questo che
io dico che i motivi inclinano senza necessitare; e che vi è ima certezza
e ima infallibilità, ma non una necessità assoluta nelle cose
contingenti. Ed ho mostrato a sufficienza nella mia Teodicea
che questa necessità morale è felice, conforme alla perfezione
divina, conforme al gran principio delle esistenze, che è quello del bisogno
di una ragione sufficiente; mentre la necessità assoluta e metafisica
dipende dall' altro grande principio dei nostri ragionamenti, che è
quello delle essenze, cioè quello dell’ identità o della contradizione;
poiché quello che è assolutamente necessario è l’unico possibile
fra i vari partiti, e il suo contrario implica contradizione.
(Polemica con Clarke). Bisogna distinguere tra il necessario
e il contingente, quantunque determinato. E non solo le verità
contingenti non sono punto necessarie, ma anche i loro legami non
sono sempre di necessità assoluta, poiché bisogna riconoscere che
vi è differenza, nel modo di determinare, fra le conseguenze che hanno luogo in
materia necessaria e quelle che hanno luogo in materia contingente. Le
conseguenze geometriche e metafìsiche necessitano, ma le
conseguenze fìsiche e morali inclinano senza necessitare; avendo il fisico
stesso in sé qualche cosa di morale e di volontario rispetto a Dio,
poiché le leggi del movimento non hanno altra necèssità che quella del
migliore. Ora Dio sceglie liberamente, benché egli sia determinato a scegliere
il meglio. E, poiché i corpi stessi non scelgono (avendo Dio scelto
per essi), 1’ uso ha voluto che fossero chiamati agenti necessari ;
denominazione cui non mi oppongo, purché non si confonda il necessario
col determinato, e non si vada ad immaginare che gli esseri liberi
agiscano in una maniera indeterminata: errore, questo, che ha prevalso in alcuni
spiriti e che distrugge le più importanti verità, ed anche l'assioma
fondamentale che nulla accade senza ragione; assioma senza il quale nè l'
esistenza di Dio, nè altre grandi verità potrebbero essere ben
dimostrate. (Nuovi Saggi). Su questo argomento della necessità e
libertà, come su moltissimi altri con questo comiessi (origine del male e sua
giustificazione nel mondo, libero arbitrio, responsabilità etc.) si
imperniano molteplici problemi, riguardanti un altro aspetto del pensiero
leibniziano, che non dobbiamo qui esaminare: ([nello della Teodicea. Verità
di ragione e di fatto sono dunque ciò di cui è costituita là realtà. Le une
assolute, necessarie, imi versali, ma di una universalità astratta, che
ha luogo solo nel mondo ideale delle possibilità, delle essenze. Le altre
concrete, tangibili, esistenti, ma insieme contingenti, individuali, tali che
la loro esistenza non può venire ilimostrata a priori, nè
discendere matematicamente da alcuna forma inerente alla
costituzione del reale. La necessità morale, basata sul principio ili
ragione e finalistico, non elimina, come si è visto, la
contingenza: non dà quella assoluta certezza clic appartiene alle verità
di ragione e deriva dall’ impossibilità del contrario. Il
problema di Leibniz è ora la ricerca di una universalità anche nel campo
del contingente; o, in altri termini, la riduzione del principio di ragion
sufficiente a una linea altrettanto fissa e immutabile che quella del
principio di non contradizione. La sostanza individuale sarà la soluzione di
questo problema: e con essa Leibniz raggiungerà a suo modo, e sempre
nell’ambito della sua concezione oggettivistica della realtà, una sintesi
di universale e individuale. La carattkkistica. - Miraggio di Leibniz è
ili ottenere una certezza matematica in tutte le cose conosciute, in modo
ila eliminare tutto ciò che si fonila sull'opinione, e di ridurre
ogni ragionamento a un calcolo. È questo il fondamento di quella
Scienza generale, Caratteristica, Ars inveniendi di cui egli vagheggia 1 idea,
a partire dal suo saggio sull’Arte Combinatoria, fino alla fine della sua
vita. Posso dire senza vanità che, tra i miei contemporanei, sono
uno di quelli che pili ha approfondito la scienza matematica; ed ho scoperto
metodi e procedimenti completamente nuovi, che portano questa scienza di là dai
limiti che le erano stati prescritti. 1 saggi che ne ho dati hanno avuto
successo in Francia ed in Inghilterra: e mi sarebbe facile darne ancora
molti altri ; ma io non faccio gran caso delle scoperte
particolari, e ciò che desidero maggiormente è di perfezionare l’arte
d’ inventare in generale, e di dare piuttosto metodi che soluzioni di
problemi; poiché un solo metodo comprende un’ infinità di soluzioni.
E poiché ho avuto la fortuna di perfezionare considerevolmente l'arte d'
inventare o analisi dei matematici, ho cominciato ad avere certe
concezioni nuovissime, per ridurre tutti i ragionamenti umani ad una specie di
calcolo che servirebbe a scoprire la verità, nei limiti ili ciò che
è possibile ex datis, posto cioè quel che ci è dato o conosciuto. E
quando le conoscenze date non bastano a risolvere la questione proposta, questo
metodo servirebbe, come nelle matematiche, ad accostarsi il più possibile alla
soluzione e a determinare esattamente ciò che è pili probabile.
Un tale calcolo generale formerebbe nello stesso tempo una specie
di scrittura universale che avrebbe i medesimi vantaggi che quella dei
cinesi, perchè ciascuno la potrebbe intendere nella sua lingua. Ma
supererebbe infinitamente la cinese in quanto la si potrebbe imparare in
poche settimane, avendo essa caratteri ben collegati secondo 1 ordine e la
connessione delle cose; mentre i cinesi hanno una infinità di caratteri
secondo la varietà delle cose, e occorre la vita di un uomo per imparar
tiene la loro scrittura. I caratteri cinesi si avvicinerebbero, secondo
Leibniz, a quelli della sua caratteristica, in quanto rappresentano, così
come i geroglifici egiziani, non le lettere di cui ciascuna parola ó
forniate, ma l'oggetto stesso che essa Questa scrittura o LINGUA (se si
rendessero enunciabili i caratteri) puo essere presto accolta nel mondo,
perchè la si puo imparare in poche settimane, e fornirebbe un mezzo generale di
comunicazione: il che sarebbe di glande importanza per la diffusione
della fede e per 1 istruzione dei popoli lontani. Ma questo sarebbe
il minore dei suoi vantaggi; giacche questa medesima scrittura sarebbe
una specie di algebra geneiale, e darebbe modo di ragionare calcolando,
sicché, invece di discutere, si potrebbe dire: contiamo. E si troverebbe
che gli errori di ragionamento non sono che errori di calcolo,
riconoscibili mediante prove, come nell’ aritmetica. Gli uomini avrebbero
così un giudice delle controversie veramente infallibile. Poiché
potrebbero sempre sapere se è possibile decidere la questione j>er
mezzo delle conoscenze che essi posseggono già, e quando non fosse
possibile soddisfarsi intieramente, potrebbero sempre determinare
ciò che è più verosimile. J ci giungere dunque a questa scrittura o
caratteristica, che contiene un calcolo così sorprendente, bisogna
cercare le definizioni esatte dei concetti. Poiché infatti le
nostre parole sono assai oscure e non ci dà imo spesso che nozioni
confuse, si è obbligati a sostituire ad esse altri caratteri, la cui
nozione sia precisa e determinata; ora le definizioni non sono se non
un'espressione distinta dell’ idea della cosa. E avendo io
studiato con cura non solamente la storia e le matematiche, ma anche la
teologia naturale, la giurisprudenza e la filosofia, ho portato molto avanti
questo progetto, e mi sono fatto una quantità di definizioni. Per rappresenta.
Differiscono però dai geroglifici inquanto «sono forse più filone;. e sembrano
fondati su considerazioni più intellettuali, come quelle chedànno i
numeri, l’ordine, le relazioni ». (Lettera inedita
citata in J. Bakuzi, Leibniz et l' organisation reXigieuse de la terre,
Paris). esempio
la definizione della giustizia per me è la seguente : La giustizia è la
carità del saggio, o una carità conforme alla saggezza. La carità non è
altro clxe la benevolenza generale; la saggezza è la scienza della
felicità, la felicità è lo stato di gioia durevole, la gioia è un
sentimento di perfezione, la perfezione è il grado di realtà.
Penso di poter dare definizioni analoghe di tutte le passioni. virtù,
vizi e azioni umane, quanto ve ne è bisogno. E con questo mezzo si potrà
parlare e ragionare con esattezza. E siccome i nuovi caratteri comprenderanno
sempre le definizioni delle cose, ne segue che essi ci daranno modo
di ragionare calcolando, come ho appunto detto sopra. Ma per
portare a termine un progetto di tanta importanza. il quale fornirebbe al
genere umano una specie di strumento così adatto a perfezionare la vista
dello spirito come gli occhiali servono a quella del corpo,
occorrerà molta meditazione ed un poco di assistenza. (Lettera
al Duca <li Hannover, 1 ti86 ( I ), il. Vii, 25-27). È
principalmente per attuare questo vastissimo progetto che Leibniz
propugnò durante tutta la sua vita la fondazione di società di scienziati
ed accademie. Il progetto rimase sempre inattuato. Ma è interessante lo
sviluppo che gli studi compiuti per esso dettero al pensiero di Leibniz. 11
metodo per raggiungere quegli elementi semplici o « caratteri "
dalla cui composizione derivano tutti gli oggetti della conoscenza umana,
è un metodo di scomposizione delle idee che troviamo di fronte a noi già
composte, partendo dalle loro definizioni. Data comunicatami da Ritter. Ecco
la primitiva formulazione di questo metodo nell’Arte Combinatoria:
i L'analisi avviene nel modo seguente: Dato un qualsiasi termine, lo si risolva
nei suoi elementi formali, cioè se ne ponea la definizione; questi
clementi si risolvano di nuovo in elementi, cioè si ponga la definizione
dei termini della definizione stessa, fino agli elementi semplici o
termini indefinibili; poiché „ non di tutte lo cose si deve ricercare la
definizione. E questi ultimi In greco nel testo: citazione da
Aristotele. Con tale metodo sarà possibile qualsiasi dimostrazione. Conosciuta,
infatti, 1 intima costituzione di ciascun concetto, si potrà sempre
stabilire in qualsiasi proposizione se il predicato rientri nel soggetto,
abbia cioè con esso in comune i suoi elementi costitutivi. Di
qualsiasi cosa, nulla ci può essere dimostrato, neppure da un angelo, finché
noi non conosciamo i termini costitutivi (requisita) di essa. Infatti in
ogni verità tutti i termini costitutivi del predicato sono compresi fra i
termini costitutivi del soggetto, e i termini dell’effetto ricercato
comprendono i mezzi che sono stati necessari per produrlo.
(Initia et specimina scientiae generali). termini non si
comprendono più per definizione, ma per analogia. Trovati tutti questi primi
termini, si pongano in una classe, e si indichino con segni qualsiasi; il
più comodo sarà numerarli. Fra i termini primi si pongano non solo lo cose ma
anche i modi o rapporti (**•). Poiché i termini composti variano in
distanza dai termini primi, a seconda del numero di termini primi di cui
si compongono - cioè a seconda dell’esponente della combinazione, - si
facciano tante classi, quanti sono gli esponenti, e in ciascuna classe si
pongano i termini che constano di un ugual numero di termini primi. I termini
sorti da una combinazione di due non si potranno indicare altrimenti che
scrivendo i termini primi di cui si compongono; c poiché i termini primi
sono indicati da numeri, si scrivano due numeri che indichino i due termini.
Ma i termini derivati da una combinazione di tre o anche da una
combinazione di maggior esponente - cioè quelli che sono nella classe
terza e seguenti - si possono indicare ciascuno in tanti modi diversi
quanto sono le combinazioni che compongono il suo esponente, considerato non
più come esponente, ma come numero Per esempio, siano alcuni
termini primi indicati dai numeri 3, 6, 7, 9; sia un termine composto della
classe terza, cioè formato da una combinazione di tre, p. es. dai tre
termini semplici 3, 6, 9; e siano nella seconda classe le seguenti
combinazioni: I.°) 3.6; 2.<>) 3.7; 3.°) 3.9; 4.°) 6.7; 5.®) 6.9; fi»)
7.9. Pico che quel dato termine della classe terza si può scrivere o cosi
: 3. 0. 9, Per analogia Leibniz e Grice intendeno un modo di apprensione
più immediato e diretto che non sia il processo logico definitorio; per esempio
un’ immagine sensibile. Altrove egli dice che i termini semplici si apprendono
coi sensi. Questo significa che i termini semplici non si devono
intendere solamente come dati concreti, di fatto, sensibili, ma comprendono
anche dati astratti, relazioni ecc. Quale sia la vera natura di questi
termini semplici o molto poco chiaro, o Leibniz si ò espresso in
proposito sempre in modo vago e impreciso. Criterio della
verità è dunque che il predicato rientri nell'ambito del soggetto; e questo
rientrare è perfettamente calcolabile. Ma tale criterio vale solamente
per le verità di ragione ohe sono analitiche. In esse sole il predicato è già
contenuto nel soggetto, poiché solo in esse tutto ciò che si afferma
(predica) a proposito di una cosa deve essere già nella cosa stessa. Se io
dico che gli angoli di un triangolo sono uguali a due retti, non
faccio altro che mettere in rilievo, nel concetto di triangolo, una qualità
già implicita in esso. Il predicato (essere uguali a duo retti) fa parte
già a priori del soggetto (angoli di un triangolo). Ma posso io affermare
che nel concetto di GIULIO (si veda) Cesare, per esempio, sia già
contenuta, a priori, l’azione di PASSARE IL RUBICONE? La proposizione: Cesare
passò il Rubicone—GIULIO CESARE PASSA IL RUBICONE – (Grice, Actions and Evnts) non
è analitica, il suo predicato cioè non è già compreso nel sog esprimendo
tutti i suoi termini semplici; oppure esprimendo un semplice o, in luogo
degli altri duo semplici, la loro combinazione, p. es. così ; 1 /2 -9 oppure
8/2 . 6, oppure 5 / 2 .3..Ogni qualvolta un tonnine composto viene usato
fuori della sua classe, lo si scrive sotto forma di una frazione il cui
numero superiore o numeratore è il numero d’ordine nella classe, e quello
inferiore o denominatore il numero della classe. È più comodo, nell’
indicare i termini oomposti, di non scrivere tutti i termini primi, ma gli
intermedi, per diminuirne il gran numero, e fra questi intermedi di
scegliere quelli che più facilmente vengono in mente a chi consideri
quella determinata cosa. Ma sarebbe più rigoroso scrivere tutti i termini
primi. Stabiliti questi principi, si possono trovare tutti i soggetti 0 i
predicati, sia affermativi sia negutivi, sia universali sia particolari.
I predicati di un soggetto dato sono infatti 1 suoi termini primi; così
pure tutti i termini composti più vicini di esso ai primi, i termini
primi dei quali sono compresi nel soggetto dato. Se dunque il termino
dato che viene considerato come soggetto è scritto in funzione dei suoi
termini primi, sarà facile trovare quei primi che di esso si predicano, o
si potranno anche trovare i composti che di esso si predicano, se si conserverà
l’ordine nel formare le combinazioni. Se invece il termine dato è indicato
corno una composizione di composti, o in parte di composti, in parte di
semplici, tutto ciò che si può predicare dei composti che lo compongono
si può predicare anche del termine dato In tal modo sara facile indagare per
mezzo del calcolo tutto ciò che si può predicare di qualsiasi soggetto
dato. ARS COMBINATORIA). P. es. 5/2 . 3 significa la combinazione del
termine semplice 3 col termine composto che ha il quinto posto nella seconda
classe; e cioò, secondo la lista indicata sopra, con 6.9. La notazione 5
/2 - 3 indica dunque il termine composto 3.6.9. Questo ò, in
sostanza, lo schema dol procedimento sillogistico, in cui iò che si
predica del termine più generale si può predicare anche del particolare in esso
contenuto. getto, ma vi viene aggiunto per esperienza diretta, contingente.
Questa proposizione appartiene alle verità di fatto. Ora, è possibile una
dimostrazione rigoros.a in questo campo, se ogni dimostrazione è, come si
è visto, un semplice calcolo per stabilire che i termini componenti il
predicato fanno parte del complesso dei termini componenti il
soggetto? Leibniz dice a volte che la dimo strazione, quanto alle proposizioni
di fatto, da solo IìT PROBABILITÀ e non la certezza – cf. Grice, “Probability, Desirability,
and Mode Operators”. Ma egli tenta anche di fondare in modo più rigoroso
la sistemazione logica di queste verità, e di far rientrare anche esse
nella regola del predicato contenuto nel soggetto. A tale scopo egli si
serve del principio di causalità, cui sottostanno tutte le verità di
fatto. I termini dell’effetto ricercato - si è visto comprendono i mezzi
necessari a produrlo. L'effetto (measles), cioè, comprende già nella sua
nozione tutte le cause (those spots) che 1’hanno determinato. E,
reciprocamente, potremo dire che la nozione della causa racchiude in sè
già implicitamente tutti gl’effetti – cf. Grice, CONSEQUENTIA -- cui da
luogo. Ora, poiché ogni dato di fatto appartiene alla serie delle cause e
degl’effetti, ed è insieme effetto e causa, si può affermare che ogni
nozione individuale contiene in se le nozioni delle cause che 1’hanno
prodotta e degl’effetti cui da luogo. Questa causa e questi effetti a
loro volta conterranno le loro cause e i loro effetti, e così via, fino alla
causa prima del tutto e causa di sè, cioè il divino. Sicché ciascun
singolo dato e collegato, attraverso tali rapporti causali, con
tutto l’universo. La conoscenza di tutti questi infiniti nessi
causali è superiore alle forzi dell ingegno umano, il quale perciò si contenta
di ricorrere all’esperienza del dato di fatto, rinunciando a dedurlo dalle sue
cause. È però, in linea di principio, possibile. Le proposizioni
certe per sè stesse sono di due tipi; le ime hanno la loro validità nella
ragione, e cioè nel contenuto dei loro termini e io le chiamo note per sè
stesse o anche identiche. L’altre sono di f'atdoT e ci sì manifestano
attraverso esperienze indubitabili. Tali sono anche le testimonianze
immediate della coscienza. Anche le proposizioni di fatto hanno le loro
ragioni, e perciò potrebbero essere risolte nella propria costituzione. Ma
noi non potremmo conoscerle a priori attraverso le loro cause, se non
conoscendo la totalità dell'universo – COGNITA TOTA SERIE RENIVI -- il che
supera la forza dell' intelletto umano. Perciò le apprendiamo a
posteriori, sperimentalmente. Ma poiché spesso dobbiamo agire riguardo a
cose per le quali manchiamo di una sicura scienza, è preferibile che
almeno sappiamo di sicuro che una certa proposizione è PROBABILE. Præ-cognita
<id Encyclopatdiam). L’apprensione per via sperimentale e il metodo
della PROBABILITÀ derivano dalla imperfezione della conoscenza umana. In linea
di principio, anche di qualsiasi verità di fatto si può avere una nozione
ANALITICA A PRIORI tale che contenga in sè già sviluppati tutti i
predicati, cioè tutti gl’effetti e le cause. Il segno d’una conoscenza
perfetta si ha quando non c'è nulla della cosa trattata di cui non si
possa render ragione, e non vi sia nessun avvenimento di cui non si
possa predile l'avverarsi. Frammento De la Hagense). Ora, tale
conoscenza a priori dei contingenti, se è impossibile alla mente umana, non è
impossibile a Dio che li ha scelti e li ha messi in atto. Di
qualsiasi verità si può rendere ragione. Infatti, la connessione del
predicato col soggetto o è evidente eli per sè, come nelle proposizioni
identiche (“Grice = Grice, relative to time t), oppure si deve spiegare, il che
avviene con la scomposizione dei termini. E l'unico c massimo criterio
della verità, beninteso nelle proposizioni astratte e non derivanti dall'
esperienza, è di risolversi nell’identità – VT SIT REI IDENTICA VEL AD
IDENTICAS REVOCABILIA. Di qui si possono dedurre gl’elementi della eterna
verità e il metodo in ogni problema, purché si sap Oioè potrebbero essere
considerate come analitiche. pia procedere in modo altrettanto
dimostrativo che nella geometria. Così, tutto viene compreso da Dio a
priori e al modo delle verità eterne; poiché egli non ha bisogno di
esperienza, ed ogni cosa viene conosciuta da lui in modo adeguato, mentre
da parte nostra quasi nessuna cosa è conosciuta adeguatamente, poche a
priori, e le più per via sperimentale. E per quest'ultimo modo di conoscenza
si devono usare altri principi ed altri criteri. (Ve Synthesi et Analysi
universali). Qualsiasi cosa creata, dunque, nella sua considerazione
a priori, così come è nella mente di Dio, contiene in sè come
predicati tutti gl’altri contingenti che sono stati o saranno in una
qualsiasi connessione causale con essa. In una parola, tutto il suo
passato e tutto il suo avvenire. Ciò che sono i termini semplici nella
costituzione dei concetti di ragione, sono, nelle verità di fatto, questa
serie di cause e di effetti. Intesa ciascuna verità di fatto in questo
modo, come soggetto di infiniti predicati, Leibniz la chiama sostanza individuale.
Essa racchiude in sè, quando sia intesa in tutta la sua comprensione, con
gl’infiniti suoi collegamenti, tutto l'universo. Per distinguere l’azioni
di Dio e delle creature, viene spiegato in che consista il concetto di
sostanza individuale. Poiché l’azioni e le passioni appartengono propriamente
alle sostanze individuali (actiones sunt mppositorum), è necessario spiegare
che cosa sia u mutale sostanza. E pur vero che quando si
attribuiscono piìi PREDICATI ad un medesimo soggetto, e questo soggetto non si
attribuisce come predicato a nessun altro, lo si chiama sostanza individuale. Ma
ciò non è sufficiente, ed una tale spiegazione non è che nominale. Bisogna
dunque considerare che cosa significa l'essere attribuito veramente ad un
certo soggetto. Ora è evidente che ogni vera predicazione ha qualche
fondamento nella natura delle cose, e quando una proposizione non è identica,
quando cioè il predicato non è compreso espressamente nel soggetto,
Insogna che vi sia compreso virtualmente: ed è ciò che i filosofi
chiamano in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto. Così occorre
che il termine del soggetto comprenda sempre quello del predicato, in modo
che colui che intende perfettamente la nozione del soggetto, giudicherebbe
anche che il predicato gli appartiene. Posto ciò, possiamo dire che
la natura di una sostanza individuale o di un essere completo è che la
sua nozione è così compiuta, da bastare a comprendere e a farne
dedurre ogni predicato del soggetto cui questa nozione si attribuisce.
Mentre l’accidente è un essere la cui nozione non comprende affatto tutto ciò
che si può attiibuire al soggetto (GRICE – HAZZING AND IZZING) al quale si
attribuisce questa nozione. Così la qualità di re che appartiene ad
Alessandro Magno – o GIULIO (vedasi) CESARE, o meglior, ROMOLO, facendo
astrazione dal soggetto, non è abbastanza determinata ad un individuo, e non
comprende affatto le altre qualità del medesimo soggetto, nè tutto ciò che
è compreso nella nozione di quel principe o dittatore. Mentre Dio,
vedendo la nozione individuale o /«eccetto* d’Alessandro o GIULIO
(vedasi) CESARE, o meglior ROMOLO (vedasi) vi vede nello stesso tempo il
fondamento e la ragione di ogni predicato che gli si possono veramente
attribuire, come per esempio che egli vince Dario e Poro – o ch’è
assassinato da suo proprio figlio – o ch'assassina a suo proprio fratello --,
fino a conoscervi a priori, e non per esperienza, se egli è morto di
morte naturale o per veleno o coltello – o come sacrifizio dai sequaci di Numa;
cose che noi non possiamo sapere se non dalla storia della ROMA ANTICA.
Inoltre, quando si consideri bene la connessione delle cose, si può dire
che vi sono d’ogni tempo nell’anima d’Alessandro o GIULIO CESARE o ROMOLO
resti di tutto ciò che gli e Cioè, nelle proposizioni identiche
(analitiche) il predicato è contenuto nel soggetto per la conformazione
del soggetto stesso (espressamente). Nelle proposizioni di fatto, invoee il
predicato è contenuto nel soggetto in quanto collegato ad esso da una
relazione di causa ad effetto (virtualmente)] accaduto, e segni di tutto ciò
che gli accadrà, perfino tracce di tutto ciò che accade nell’universo;
benché non appartenga che a Dio di riconoscerle tutte (Discours de
métaphysiqtu:,-- hence ‘God knows’ – cf. Kenny, The god of the philosophers,
the Wilde Oxford lectures on natural religion). A questa stregua
possiamo dire che l’atto di PASSARE IL RUBICONE – essempio di Grice, “ACTIONS
AND EVENTS” -- non si aggiunge alla nozione di GIULIO (vedasi) Cesare come
qualche cosa di nuovo, di contingente, d’imprevisto. GIULIO (vedasi) Cesare,
per chi intenda questa nozione in tutti i suoi collegamenti, contiene in sè
già a priori tutto lo sviluppo della sua personalità, COMPRESSO L’ATTO DI
PASSARE IL RUBICONE -- il quale, quando si attuerà, non è che la CONSEQUENZA
(Grice, CONSEQUENTIA) necessaria delle cause che 1’hanno prodotto, quindi
lo sviluppo ili ciò che è già contenuto in esse. Libertà e
causalità. Sorge qui di nuovo, analogamente a ciò che si è visto poc’anzi
a proposito della determinazione di Dio a scegliere il migliore, il
problema della libertà – cf. Grice on FREE FALL in “Actions and Events”.
Se ogni fatto contingento È presente nella mente di Dio, non cessa
esso di essere contingente? Non è per ciò stesso necessario, pre-determinato? E
non cade così anche qualsiasi libertà nell azione dell’uomo, la quale si
svolge nel campo delle verità di fatto? E insieme con essa, ogni
responsabilità umana nel biute e nel male? Anche a proposito di questo problema,
strettamente collegato con l'altro citato, Leibniz fa una distinzione fra
connessione necessaria e inclinante. Poiché la nozione individuale d’ogni
persona comprende una volta per tutte ciò che mai le accade, si redono in
essa le prove a priori dell’avverarsi di ciascun avvenimento, o le
ragioni per cui è avvenuta una cosa piuttosto che un’altra. Ina queste
verità, benché sicure, nondimeno sono contingenti, in quanto fondate sul LIBERO
ARBITRIO di Dio o delle CREATURE – cf. Grice/Pears/Thomson, Freedom of the
will, the Oxford seminars --, la cui scelta dipetuie sempre da ragioni che
inclinano senza necessitare. Bisogna cercare di risolvere una grave
difficoltà che può nascere dai fondamenti che abbiamo fissato qui
sopra. Abbiamo detto che la nozione di una sostanza individuale comprende
una volta per tutte tutto ciò che le può mai accadere, e che,
considerando tale nozione, vi si può vedere tutto ciò che si potrà veramente
enunciare di essa, come possiamo vedere nella natura del circolo tutte le
proprietà che se ne possono dedurre. Ma semi ira che venga con ciò
distrutta la differenza fra le verità contingenti e le necessarie, che non vi
sia più alcuna libertà umana, e che una fatalità assoluta venga a regnare
su tutte le nostre azioni come su tutto il resto degli avvenimenti del
mondo. Al che io rispondo che bisogna fare distinzione fra ciò che è
certo e ciò che è necessario: tutti sono d'accordo che i futuri
contingenti sono assicurati, poiché Dio li prevede; ma non si riconosce,
dicendo ciò, che siano necessari. Ma, si dirà, se qualche conclusione si
può dedurre infallibilmente da una definizione o nozione, essa sarà necessaria.
Ora. dato che noi sosteniamo che tutto ciò che deve accadere a qualsiasi
persona è già compreso virtualmente nella sua natura o nozione, così come
nella definizione del circolo sono comprese le sue proprietà, la
difficoltà sussiste ancora. Per risolverla in modo plausibile, dico che
la connessione o consecuzione è di due specie : l’ una è assolutamente
necessaria, e il suo contrario implica contradizione (e questo modo di
deduzione ha luogo per le verità eterne, come quelle di geometria).
L’altra non è necessaria che ex hypothesi e, per così dire,
accidentalmente, ma in sè stessa è contingente: e ha luogo quando il
contrario non implica contradizione. E questa connessione è fondata non
sulle pure idee e sul semplice intelletto di Dio, ma anche sui suoi
liberi decreti e sull'ordine dell’universo. Veniamo ad un esempio:
poiché Giulio Cesare diverrà dittatore perpetuo e capo della repubblica,
e rovescerà la libertà dei Romani, tale azione è compresa nella sua nozione,
poiché noi supponiamo che la natura di una tale nozione perfetta di un
soggetto sia di comprendere tutto, affinché il predicato vi sia compreso,
ut possit inesse subjecto. Si potrebbe dire che non è in virtù di questa nozione
o idea che egli deve commettere questa azione, poiché essa non gli
conviene se non perchè Dio sa tutto. Ma si insisterà che la sua natura o
forma risponde a questa nozione, e poiché Dio gli ha imposto questa
parte, gli è ormai necessario sostenerla. Io potrei rispondere invocando
l’analogia dei futuri contingenti, i quali non hanno ancor nulla di reale
se non nell’ intelletto e nella volontà di Dio, e poiché Dio ha dato loro
inizialmente questa forma, bisognerà in ogni modo che vi
rispondano. Ma preferisco risolvere le difficoltà che giustificarle
con l’esempio di altre difficoltà simili; e ciò che dirò, servirà a
chiarire sia l una sia l'altra. È dunque ora il momento di applicare la
distinzione fra le connessioni; ed io dico che ciò che accade
conformemente a questi precedenti è sicuro, ma non necessario: e se
qualcheduno facesse il contrario, non farebbe nulla d’
impossibile in sé, quantunque sia impossibile (ex hypothesi) che ciò accada.
Poiché, se qualche uomo fosse capace di portare a termine tutta la dimostrazione
in virtù della quale potrebbe provare questa connessione del soggetto che è
Cesare col predicato che è la sua fortunata impresa, mostrerebbe
effettivamente che la dittatura futura di Cesare ha il suo fondamento
nella sua nozione o natura: che vi si vede una ragione per cui egli
ha deciso di passare il Rubicone piuttosto che di arrestarvisi, e per cui egli
ha vinto piuttosto che perso la giornata di Farsaglia, e si vede pure che era
ragionevole e perciò sicuro che ciò sarebbe accaduto, ma non che
ciò fosse necessario in sé stesso, nè che il contrario implicasse
contradizione. Press’ a poco come è ragionevole e sicuro che Dio farà sempre il
migliore, benché ciò che è meno perfetto non implichi affatto
contradizione. Infatti si troverebbe che tale dimostrazione di
questo predicato di Cesare non è altrettanto assoluta che quella dei
numeri o della geometria, ma che essa presuppone l’ordine delle cose che
Dio ha scelto liberamente, e che è fondato sul primo Ubero decreto di Dio
- il quale comporta di fare sempre tutto ciò ohe è più perfetto - e
sui decreto che Dio ha fatto (in seguito al primo) riguardo alla natura
umana, cioè che l’uomo farà sempre (per quanto liberamente) ciò che
parrà il migliore. Ora ogni verità che sia fondata su questa specie di
decreti è contingente, benché sia certa; poiché questi decreti non
cambiano affatto la possibilità delle cose e, come ho già detto, benché
Dio scelga sempre sicuramente il migliore, ciò non impedisce che ciò che
è meno perfetto non sia e non resti possibile in sé stesso, sebbene non
accadrà ; perchè non è la sua impossibilità, ma la sua imperfezione che
lo fa respingere. Ora nulla è necessario, di cui sia possibile
l’opposto. Si sarà dunque in condizione di risolvere queste
specie di difficoltà, per quanto grandi appaiano (ed infatti esse
non sono mono impellenti a questo riguardo che tutte le altre che si sono
mai riferite a tale materia), purché si consideri bene che tutte le
proposizioni contingenti hanno ragioni per essere piuttosto così che
altrimenti, oppure (ciò che è lo stesso) che esse hanno delle prove a
priori della loro verità, le quali le rendono certe e mostrano che
la connessione del soggetto e del predicato di queste proposizioni ha il suo
fondamento nella natura dell’ imo e dell'altro: ma che esse non hanno
dimostrazioni di necessità, poiché queste ragioni non sono fondate
che sul principio della contingenza o dell'esistenza delle cose,
cioè su ciò che sembra il migliore fra varie cose ugualmente possibili : mentre
le verità necessarie sono fondate sul principio di contradizione e sulla
possibilità o impossibilità delle essenze stesse, senza riguardo, in ciò,
alla volontà libera di Dio o delle creature. ( Discour « de
métti physique). D’altra parte, Leibniz usa anche altri argomenti
per salvare la libertà e la responsabilità in questa connessione causale
universale. Libertà non è sempre necessariamente un contrapposto di
determinazione causale. Quanto al libero arbitrio, sono dell'
opinione dei tomisti (1) e di altri filosofi, i quali credono che tutto
sia predeterminato: e non vedo ragione di dubitarne. Ciò però non
impedisce che noi abbiamo ima libertà esente non solo dalla costrizione,
ma anche dalla necessità: ed in ciò la nostra situazione è analoga a
quella di Dio stesso, il quale è pure sempre determinato nelle sue
azioni, poiché non potrebbe fare a meno di scegliere il migliore. Ma
se egli non avesse da scegliere, e se ciò che egli la, fosse 1 unico
possibile, egli sarebbe sottomesso alla necessità. Piu si è perfetti, più
si è determinati al bene, ed anche più liberi nello stesso tempo. Poiché
si ha una facoltà e conoscenza tanto pili estesa ed una volontà tanto più
rinchiusa nei limiti della perfetta ragione. (Lettera al
Bayle). Quantunque tutti i fatti dell’universo siano ora certi
in rapporto a Dio. o (ciò che è poi lo stesso) determinati in sé
stessi ed anche legati fra di loro, non ne viene di conseguenza che il loro
legame sia sempre di una vera necessità. cioè che la verità la quale stabilisce
che un fatto è conseguenza dell altro, sia necessaria. Ed è questo principio
che bisogna applicare particolarmente alle azioni volontarie.
Quando ci si propone una scelta, per esempio di uscire o di non
uscire, il problema è se, con tutte le circostanze interne od esterne,
motivi, percezioni, disposizioni, impressioni. passioni, inclinazioni prese
insieme, io sia ancora in istato di contingenza, o se io sia necessitato
a scegliere, per esempio, di uscire. Cioè è da domandare se la proposizione
vera ed effettivamente determinata: « in tutte queste circostanze prese
insieme io sceglierò di uscire », sia con- Il principio ohe il mondo
sensibile sia retto dalla leggo di causalità appartiene alla tradizione
ari»toteliea, ricevuta da Leibniz attraverso la scolastica. tingente
o necessaria. A ciò io rispondo che è contingente; perchè nè io nè alcun
altro spirito più illuminato di me potrebbe dimostrare che l'opposto di
questa verità implichi contradizione. E supposto che per libertà il' indifferenza
et intenda una libertà opposta alla necessità (come ho or ora spiegato),
io accetto tale concetto della libertà. Poiché sono effettivamente
d'opinione che la nostra libertà, così come quella di Dio e degli spiriti
beati, è esente non solo da coazione, ma anche da una necessità
assoluta; benché essa non possa essere esente dalla determinazione
e dalla certezza. Ma io penso che in questo argomento sia
necessaria una grande precauzione, per non cadere in una concezione chimerica
che urta contro i principi del buon senso: la quale sarebbe ciò che io
chiamo indifferenza assoluta o di equilibrio: concetto che taluni introducono
nella libertà, e che io ritengo chimerico. Bisogna dunque considerare che
questo legame di cui ho parlato, assolutamente parlando non è punto
necessario, ma che non jier questo è men vero; e che in generale, ogni
volta che. in tutte le circostanze prese insieme, la bilancia della
deliberazione è piìi carica da una parte che dall’altra, è certo e
immancabile che questo partito vincerà. Dio, o il saggio perfetto,
sceglieranno sempre il migliore conosciuto, e se un partito non fosse migliore
dell'altro, essi non sceglierebbero nè l'uno nè l’altro. Nelle altre
sostanze intelligenti, le passioni spesso terranno luogo di ragione, e si
potrà semine dire, riguardo alla volontà in generale, che la scelta segue la
jiiù grande inclinazione-, nella quale io comprendo sia le passioni, sia
le ragioni vere o apparenti. So bensì che qualcuno immagina
che ci si determini qualche volta per il partito meno carico di ragioni,
che Dio scelga qualche volta, tutto considerato, il minor bene, e
che l’ uomo scelga a volte senza motivo e contro tutte le sue ragioni,
disposizioni e passioni; insomma che si scelga a volte senza che vi sia
alcuna ragione che determini la scelta. Ma ciò, io lo ritengo falso e
assurdo, poiché è uno dei massimi principi del buon senso che nulla
accada senza causa o ragione determinante. Così, quando Dio
sceglie, lo fa secondo il criterio del migliore; quando l'uomo sceglie,
sceglierà il partito che l'avrà colpito maggiormente. E se scegliesse ciò
che vede meno utile e meno piacevole, sarà magari perchè gli è
divenuto piacevole per capriccio, per spirito di contradizione, o per
analoghe ragioni di gusto depravato; le quali però non per questo saranno
meno determinanti, anche quando non fossero concludenti. E non si troverà
mai un esempio contrario a ciò. Così, quantunque noi abbiamo una
libertà di indifferenza che ci salva dalla necessità, non abbiamo mai una
indifferenza di equilibrio che ci esima dalle ragioni determinanti. C’è sempre
qualche cosa che ci inclina e ci la scegliere, ma senza che ci possa
necessitare. E come Dio e sempre portato infallibilmente al migliore, per
quanto non vi sia portato necessariamente (se non per mia necessità
morale), noi siamo sempre portati infallibilmente a ciò che ci colpisce
di più, ma non necessariamente. Poiché il contrario non implicava alcuna
contradizione, non era punto necessario nè essenziale che Dio creasse
alcunché nè che creasse particolarmente questo mondo: benché la sua
saggezza e la sua bontà ve lo abbiano indotto. (Lettera al Coste,
1707, 6. Ili, 400-102). Previsione e predeterminazione. - Posto
ciò, è possib ile pensare che la previsione dei predicati contingenti da
partedi Dio non contraddica alla libertà. P reveder e non significa
predeterminare. Dio sceglie fra i possibili una serie nella quale
soiuTdpaT contenute determinate azioni col carattere di libertà. Nello
sceglierle, egli non le crea nè le determina: non fa che metterle in
azione, attualizzare la loro possibilità. Nel farlo, egli vede tutta la
serie, ne prevedo gli sviluppi: con ciò non ha però determinato quelle
azioni, le quali mantengono, nella serie attuale come in quella
possibile, la loro caratteristica di libertà. Dio inclina la
nostra anima senza necessitarla ; non si ha il diritto di lamentarsi, e
non si deve domandare perchè Giuda pecchi, ma solamente perchè il
peccatore Giuda sia ammesso all' esistenza a preferenza di altre persone
possibili. Imperfezione originale prima del peccato e gradi della
grazia. Quanto all’azione di Dio sulla volontà umana, vi sono
moltissime considerazioni assai difficili, che sarebbe lungo esporre qui.
Ciò nonostante, ecco che cosa si può dire all' ingrosso: Dio, concorrendo
ordinariamente alle nostre azioni, non fa che seguire le leggi che egli
ha stabilite; egli conserva, cioè, e produce continuamente il nostro essere,
in modo che i pensieri ci arrivino spontaneamente o liberamente
nell'ordine determinato dalla nozione della nostra sostanza individuale,
nella quale essi si potevano prevedere fin dall’eternità. In più, in
virtù del suo decreto secondo cui la volontà tende sempre al bene
apparente, esprimendo o imitando la volontà di Dio sotto certi
aspetti particolari, riguardo ai quali questo bene apparente ha
sempre qualche cosa di reale, egli determina la nostra alla scelta di ciò
che sembra il migliore, senza però necessitarla. Poiché, assolutamente
parlando, essa è nell’ indifferenza, in quanto la si oppone alla necessità, ed
ha il potere di fare altrimenti o anche di sospendere affatto la
propria azione; l'uno e l'altro partito essendo e rimanendo possibili.
Dipende dunque dall'anima di premunirsi contro le sorprese
dell’apparenza, attraverso una ferma volontà di fare riflessioni, e di
non agire nè giudicare in determinate occasioni, se non dopo aver maturamente
deliberato, fi vero però, ed anche è assicurato da tutta f eternità, che
qualche anima non si servirà affatto di questo potere in una
tale circostanza. Ma chi ne ha colpa? può essa lagnarsi d'altri che
di sè stessa ? Poiché tutte queste lagnanze post factum sono ingiuste,
quando sarebbero state ingiuste ante factum. Ora quest’anima, un poco
prima di peccare, avrebbe motivo di lagnarsi di Dio come se egli la
determinasse al peccato? Essendo le determinazioni di Dio in questa materia
imprevedibili, d’onde sa essa di essere determinata a peccare, se non
quando essa pecca già effettivamente? Non si tratta che di non volere; e
Dio non potrebbe proporre condizione più agevole e piii giusta; così tutti
i giudici, senza cercare le ragioni che hanno disposto un uomo ad
avere una cattiva volontà, si fermano a considerare soltanto quanto questa
volontà sia cattiva. Ma forse è fissato da tutta l’eternità che io
peccherò? Rispondete voi stessi: forse no. E senza pensare a ciò che voi
non potete conoscere e che non può darvi alcun lume, agite seguendo
il vostro dovere, che conoscete. Ma qualche altro dirà : D onde
consegue che quest'uomo commetterà sicuramente questo peccato ? La
risposta è facile: è che altrimenti non sarebbe quest’ uomo. Poiché
Dio vede dall’eternità che vi sarà un certo Giuda la cui nozione o idea
posseduta da Dio contiene questa azione futura libera. Non resta dunque
se non questo problema: perchè un tal Giuda, traditore, che non è se non
possibile nell’ idea di Dio, esista attualmente. Ma a tale domanda
non è da aspettare risposta quaggiù, se non che in generale si deve dire che,
poiché Dio ha trovato giusto che Giuda esistesse nonostante il peccato
che egli prevedeva, bisogna che questo male si compensi ad usura nell -
universo, che Dio ne tragga un bene maggiore, e che insomma questo
ordine di cose, nel quale l'esistenza di tale peccatore è compresa, sia il più
perfetto fra tutti gli altri ordini possibili. Questo concetto del male
come parte integrante e necessaria dell’armnnia universale, sarà il tenia
fondamentale della Tendiceli. Ma spiegare sempre l' ammirevole economia di
questa scelta, non si può, durante il nostro passaggio su questo mondo; e
basti saperlo, senza comprenderlo. Questo è il momento di riconoscere
altitudinem divitiarum, la profondità e l’abisso della saggezza divina,
senza voler sviluppare problemi di dettaglio, che implicano considerazioni
infinite. Si vede però bene che Dio non è la causa del male.
Poiché non soltanto dopo la perdita dell’ innocenza degli uomini il
peccato originale si è impossessato dell' anima, ma ancor prima vi era
una limitazione o imperfezione originale connaturale a tutte le creature,
che le rendeva soggette al peccato e capaci di errare. Così non vi è maggior
difficoltà riguardo ai supralapsari (1) che riguardo agli altri. Ed a
ciò, a mio avviso, si deve ridurre l'opinione di S. Agostino e di altri autori,
che l’ orìgine del male sia nel nulla; cioè nella privazione o
limitazione delle creature, alla quale Dio rimedia graziosamente col
grado di perfezione che gli piace di dare. Questa grazia di Dio,
sia ordinaria o straordinaria, ha i suoi gradi e le sue misure, è sempre
efficace in sé stessa a produrre un certo effetto proporzionato; ed
inoltre essa è sempre sufficiente, non solo a preservarci dal peccato, ma
anche a condurci alla salvazione, supponendo che l’uomo si unisca ad essa
per quanto dipende da lui. Ma essa non è sempre sufficiente a
superare le inclinazioni dell' uomo, perchè altrimenti egli non terrebbe
più a nulla; e ciò è riservato alla sola grazia assolutamente efficace, che
è sempre vittoriosa; o che lo sia per sè stessa, o per l'accordo delle
circostanze. (Discount de mélaphysiqne). L supralapsari
sostenevano, contro gli infialapsari, che la predeterminazione divina si
esercitasse anche prima del peccato originale (sujrra lapsum, prima della
caduta) e che quindi il fallo di Adamo non fosse stato compiuto per un
atto di libera volontà. Leibniz, con questu sua conciliazione di
predeterminazione e contingenza o libertà, rende ozioso il problema, Leibniz,
La monadologia. Ma a parto questi problemi di necessità, libortà,
previsione predeterminazione, che rientrano piuttosto nell’ambito
della Teodicea, il punto essenziale toccato qui è V universalità
della sostanza indimdmle che, con lo infinite connessioni che racchiude
in sè, diviene l’universo stesso visto da un particolare punto di vista.
Essa comprende il proprio passato e il proprio avvenire, e insieme il
passato e l’avvenire di tutto l'universo; raggiunge cioè il massimo del
l'universalità: è una visione totale, complessiva del tutto. E
d'altra parte conserva tutta la sua individualità. 11 punto di partenza è
sempre il singolo dato di tatto, specifico, particolare, contingente. Esso non
scompare nel tutto: rimane ben chiaro e visibile come capo dell’ immenso
filo svolgentesi alI' infinito, al seguito di tutte le connessioni causali.
Rimane e garantisce un punto di appoggio, una possibilità di percorrere
ordinatamente tutto 1’ interminabile cammino. E d’altra parte ammette la
possibilità di infiniti altri punti di partenza. Le sostanze individuali
sono tante quanti sono i dati di fatto, cioè infinite. E ciascuna è tutto
l’imiverso. Ma ciascuna da un diverso punto di vista, con diverso punto
di partenza. L’universo è uno: ciascun particolare è una infinitesima parte
di esso: ma da ciascun particolare si ha la possibilità di risalire
alla totalità nel suo complesso. In questa unione di particolare e
universale nella sostanza individuale, sta la prima grande scoperta di
Leibniz, il nu cleo fon damentale del concetto di monade. Un altro
campo del! attività di pensiero loibniziana è la filosofia della natura; campo
ben distinto da quello che si è visto fin ora, e trattato con strumenti e
metodi di tutt’altro genere. I problemi qui analizzati hanno particolare
affinità con quelli dello scienze fisiche: c ostituzione della m ateria,
esistenza o meno degli atomi, del vuoto, origine e funzione del
movimento, dell’energia, etc. Leibniz non fa discendere la soluzione di
questi problemi dai principi generali della sua filosofia
metafisica: li tratta per sè stessi, secondo una tecnica ad essi
propria, seguendo in questo il suo uso di entrare sempre nel vivo
di ogni ricerca e di appropriarsi le caratteristiche particolari di
ogni scienza. In seguito poi, una volta giunto a determinate soluzioni e
ad atteggiamenti definitivi, li metterà in rapporto con le soluzioni
ottenute negli altri campi, giungendo così a sintesi sempre più ricche e
comprensive. La continuità e la materia. - Le idee di Leibniz
nella filosofia fisica subiscono una profonda evoluzione, dalla giovanile
Hypothesis physica nova, alle concezioni più mature. E nel corso di
questa evoluzione si formano i suoi concetti fondamentali in questo campo. Egli
comincia come atomista, al seguito del Gasa elidi, il quale rinnovava le
dottrine di Epicuro e di Democrito, e concepiva la materia in tutti
i suoi aspetti come formata dalla varia combinazione degli atomi nel
vuoto. Ben presto però Leibniz abbandona questa teoria, la quale è
inconciliabile col suo principio di continuità. È questo uno dei
fondamenti del suo pensiero, e si applica non solo alla considerazione
della materia, ma anche a molti altri aspetti della sua speculazione. Per
esso non esistono arresti, interruzioni, distacchi nello sviluppo delle
cose. Per esso natura non facil saltus. Applicato alla considerazione
logica del mondo sensibile, questo principio è il fondamento del
passaggio ininterrotto dalla causa all’effetto e dall’effetto alla causa,
senza ammettere posto una volta il miracolo iniziale della creazione nuove
creazioni ex novo, nuovi miracoli. Per questo principio tutto il mondo è
comiesso in tutte le sue parti; sì che dalì’una si può, attraverso un
procedimento ininterrotto, passare a qualsiasi altra. Nulla
avviene ad un tratto. Una delle mie grandi massime, e delle più ricche di
applicaziomi, è che la natura non fa mai salti : 1' ho chiamata legge
della continuità; e l’uso di questa legge è molto importante nella
fisica: essa stabilisce che si passi sempre dal piccolo al grande e
viceversa, attraverso il medio, nei gradi come nelle parti, e che mai mi
movimento nasca immediatamente dal riposo, nè vi giunga se non attraverso un
movimento più piccolo; che non si possa mai finire di percorrere
alcuna linea o lunghezza prima d’aver percorso una linea più
piccola; quantunque coloro che hanno formulato finora le leggi del
movimento, non abhiano affatto osservato questa legge, credendo che un
corpo possa ricevere in mi istante un movimento contrario al precedente.
Tutto ciò permette di stabilire che anche le percezioni evidenti^derivano
per gradi da quelle che sono troppo piccole per essere osservate.
Giudicare altrimenti significa non conoscere a sufficienza 1’ i mm ensa
sottigliezza delle cose, che implica sempre e ovunque un infinito
attuale. (Nuovi Saggi, 1701 segg., Prefazione. G. V, 49).
Applicato alla considerazione del mondo materiale, il principio di
continuità stabilisce che la materia è divisibile all’ infinito, e che
non è possibile concepire un arresto in questa divisibilità, o pensare un
elemento che sia indivisibile e possa rappresentare un punto ili
partenza per la costituzione dei corpi. Viene così a cadere la dottrina
dell’ atomo (1) come elemento primo e semplice, dalla cui composizione
derivino i diversi aspetti della materia. Qualsiasi elemento materiale,
sia pur piccolissimo, è concepito come composto di parti.
Poiché il continuo è divisibile all'infinito, qualsiasi atomo sarà,
in certo modo, come un mondo di infinite specie, e vi saramio mundi in
mundis in infinitum. ( Hypothesis pkyeica nova, Theoria molli e
concreti). Tutta la natura è piena di corpi organizzati, cioè
animali e piante o altre specie ancora, e non vi è atomo che non
contenga un mondo di creatine, poiché tutto è diviso attualmente all'
infinito. (lettera al Burnott, 1699, G. Ili, 250). Il
movimento. La materia, dunque, non è formata di atomi: è divisibile
all’infinito, continua, omogenea, tale che mai si potrà arrivare
all’elemento più piccolo di essa. D’altro lato, essa non è riducibile a
pura estensione, come voleva Cartesio. Tale concezione, che terrebbe conto
nella materia dei soli elementi geometrici e la considererebbe solo in
funzione dello spazio che occupa, non è sufficiente per Leibniz. La materia
è per lui qualche cosa di più: è anzitutto compattezza, movimento,
inerzia. È ciò che oppone resistenza. Che la natura normale della sostanza
corporea sia costituita dall’estensione, mi pare sia affermato da molti
con grande sicurezza, ma da nessuno dimostrato; certamente, non
derivano dal l’estensione nè il movimento o azione, nè la resistenza o
passione; e neppure le leggi della natura che regolano il movimento e
l’urto dei corpi. E veramente il concetto dell'estensione non è
primitivo, ma risolubile ATOfioq significa appunto indivisibile.
(2) Ricordiamo che Cartesio, nella sua deduzione del mondo da Lio,
prende come punto di partenza le due sostanze: ree cogitane (principio spirituale)
e ree exietcne (principio della materia). in altri. Infatti, da ciò che è
esteso si richiede che sia un tutto continuo in cui coesistano vari
elementi. E, per dir tutto, all estensione, il cui concetto è relativo, è
necessario qualche cosa che si estenda o sia continuo, così come
nel latte la bianchezza, nel corpo ciò stesso che ne costituisce
l’essenza. La ripetizione di questo quid (qualunque esso sia) è
l’estensione. E io sono pienamente d'accordo con lo Huygens ( I ) (del
quale ho grande stima in questioni naturali e matematiche), cho spazio
vuoto e pura estensione siano un solo e medesimo concetto: nè, a mio giudizio,
la mobilità o la dcvriTUTtla (2) possono spiegarsi con la pura
estensione, ma solo con un soggetto dell’ estensione il qualo non solo
determini, ma riempia anche uno spazio. (Animadvtraionee in pariem
generabili Prinoipiorum eurtesianorvm, prima del 1692, G. IV,
I)a che cosa derivano, ora, queste qualità della materia? Questa
azione, questa resistenza etc., in cui consiste l’essenziale di essa? Nei suoi
primi studi, Leibniz fa derivare tutte le qualità della materia dal
movimento. La materia prima è la massa stessa, nella quale non
è nuli altro che estensione e àvTiTtmta, ovvero impenetrabilità:
('estensione le deriva dallo spazio che riempie; ma la vera natura della
materia consiste nell'essere alcunché di denso (crassum) e impenetrabile, e in
conseguenza tale che, incontrandosi con qualche cosa d'altro, si
muova (dato che l’uno dei due deve cedere). Questa massa continua che
riempie il mondo mentre tutte le sue parti ri ti) Cristiano Huvobns grande
scenziato olandese, autore della teoria ondulatoria della luco e primo
applicatole del principio del pendolo alla costruzione degli orologi, 6 uno di
coloro ohe hanno maggiormente influito sullo sviluppo dello idee
scientifiche di Leibniz. La loro amicizia c corrispondenza dura da iranno della
loro conoscenza a Parigi finn alla morte della Huygens. E fin dal 1669, Leibniz
aveva tratto dalle leggi di Huygens sugli urti lo spanto per alcune sue
idee sulla costituzione della materia. (2) Antitypia è il termine
usato da Leibniz por indicare la compattezza e impenetrabilità della
materia. mangono in quiete, è la materia prima, dalla quale
ogni cosa deriva attraverso il movimento, e nella quale tutto si
dissolve attraverso la quiete. In essa non vi sarebbe’ infatti nessuna
diversità, ma una pura omogeneità, se non vi fosse il movimento....
Dalla materia passiamo ora alla forma. Se supponiamo che la forma
non sia altro che figura, troveremo di nuovo una mirabile concordanza.
Infatti, poiché la figura è il limite ( terminus ) del corpo, per formare
le figure della materia sarà necessario un limite. E per far sorgere
vari limiti nella materia, bisogna ricoiTere alla discontinuità
delle parti, dato che (piando le parti sono discontinue, ciascuna di esse
ha termini separati (infatti Aristotele definisce i continui come quelli il cui
limite è uno (1)); ma la discontinuità, in quella massa inizialmente
continua, può essere prodotta in duplice modo : o togliendole insieme anche
la contiguità, il che ha luogo quando avviene una separazione fra le parti, in
modo che si produca un vuoto; oppure conservando la contiguità, come
quando le parti, pur rimanendo accoste, si muovono tuttavia in
direzioni diverse: così per esempio due sfere, comprese l una nell'altra,
possono muoversi in direzioni diverse e tuttavia rimanere contigue cessando di
essere continue. Di qui è chiaro che se la massa è stata creata
inizialmente discontinua o interrotta da vuoti, alcune forme devono esser
state create contemporaneamente alla materia; se invece la massa è
inizialmente continua, è necessario che le forme sorgano dal movimento
perchè dal movimento deriva la divisione, dalla divisione il limite
delle parti, dai limiti delle parti le loro figure, dalle figure le forme,
quindi dal movimento derivano le forme. È chiaro da ciò che ogni
tendenza alla forma è movimento: e questa è la soluzione della contrastata
questione sull’origine delle forme lu greco nel tosto: uv Tà cacata sv.
Ci resta da occuparci dei mutamenti. Come mutamenti si enumerano
volgarmente (e giustamente) i seguenti: generazione, corruzione, aumento,
diminuzione, alterazione, e mutamento di luogo o movimento. I moderni
ritengono che tutti questi mutamenti si possano spiegare attraverso
il solo mutamento di luogo. E la cosa è chiara quanto all’ aumento e alla
diminuzione : infatti mutamento di quantità avviene, in un tutto, quando una
parte muta di luogo e si aggiunge o viene tolta. Resta da spiegare
attraverso il movimento la generazione e la corruzione e l’ alterazione....
E tanto la generazione e la corruzione quanto l’alterazione possono
spiegarsi attraverso mi sottile movimento delle parti: per esempio, poiché è
bianco ciò che riflette molta luce e nero ciò che ne riflette poca,
saranno bianche le cose le cui superficie contengono molti piccoli
specchi; e questa è la ragione per cui la spuma dell’acqua è bianca,
constando di innumerevoli bollicine che sono altrettanti specchi.... E chiaro
da ciò che i colori derivano dal semplice mutamento di figura e di
situazione nella superficie ; altrettanto potremmo facilmente spiegare,
se ne avessimo lo spazio, della luce, del calore e di tutte le qualità. E
invero, se le qualità mutano a causa del solo movimento, per ciò stesso muterà
anche la sostanza: mutati infatti tutti gli elementi (perciò anche alcuni
di essi) si elimina la cosa stessa; per esempio, se elimini o la
luce o il calore, avrai eliminato il fuoco. (Lettera al Thomasius).
Tutto dunque deriva, nella materia, dal movimento; e senza il
movimento, quando cioè sia in quiete, essa perde ogni sua solidità e
consistenza, quindi ogni sua caratteristica di materia. Leibniz afferma
ripetutamente « nullam esse cohaesionem seu consistenliam quiescentis.
Devo dire che Cartesio ha tutt’ altra opinione, sembrando a lui che
alla stabilità della coesione nei corpi non necessiti altro elemento collegante
( gluten ) che la quiete. Io sono di opinione contraria : questo glutine
è il movimento. Ciò che è in quiete è spazio vuoto. (Lettera
ali’Oldenburg, Ale.). Bisogna spiegare la causa della connessione
maggiore o minore e quindi della eterogeneità nei corpi. Si domanda
perchè i corpi abbiano le parti più o meno coerenti: affermo che non si deve
cercare altra causa di ciò se non nel fatto che queste parti stanno o si
muovono insieme. Si muovono insieme perchè in una così grande varietà
di movimenti generali in tutta la massa complessiva era in ogni modo
necessario che alcune parti si allontanassero di molto dalle loro vicine,
altre poco in paragone. E la medesima causa che ha fatto sì che queste
parti poco o nulla si allontanassero dalle loro vicine, fa anche sì
che esse tendano a perseverare nel medesimo stato, perchè la causa
permane. La causa è la combinazione stessa dei movimenti generali : e i
movimenti generali permangono sempre. Li turba dunque chi muti improvvisamente
un qualsiasi effetto da essi prodotto e stabilito, e nel quale tutta la
natura consente. Ne deriva chiaramente che la pressione esterna è la causa
prima della solidità, e che la quiete o il movimento cospirante delle
parti ne è la causa prossima, ma soltanto quando deriva da una causa
esterna permanente. Così dunque come la concomitanza, cioè la quiete
o il movimento cospirante costituiscono il corpo solido, analogamente il
movimento vario delle parti costituisce il liquido. E questo è il principio
della diversità specifica nei corpi, e del fatto che alcuni sono più
densi degli altri, cioè più solidi o composti di parti solide più grandi.
Questa tesi è anche confermata dall’esperienza. (Lettera a zFabri,
FABRI (vedasi). li. «conatcs». — Il concetto di materia dun que si
dissolve in quello di movimerfto. Ma "come avviene, ora, tale
creazione di materialità'? Qual^dl punto di partenza dell'azione del movimento
? K su che cosa si svolge, inizialmente, tale azione? Leibniz non può
ricorrere agli atomi, come elementi primi, avendoli già negati in nome
del principio di continuità. Egli modifica il suo punto di partenza,
rendendolo privo di estensione: considerandolo non più come la particella più
piccola di materia (la quale sarebbe pur sempre materiale, estesa),
ma come un limite o un inizio, qualche cosa quindi di inesteso. In tale
principio, che egli chiama, riprendendo un termine dello Hobbes, comtus, fa
coincidere l’ inizio della materialità e l’ inizio
derTìTTTvtrnrnto. Vi sono degli indivisibili o inestesi, altrimenti
non sarebbe concepibile nè l’inizio nè la fine del movimento corporeo. Ecco la
dimostrazione di ciò : Si vuol trovare 1’ inizio o la fine di uno spazio, di un
corpo, di un movimento 0 di un tempo qualsiasi: sia, ciò di cui si
vuol cercare 1 inizio, indicato da una linea ab il cui punto
mediano sia c, e il mediano fra a e c sia d, e quello fra a e d sia
e, e così via. Si cerchi 1‘ inizio della parte sinistra, verso il
lato a. Dico che ac non è 1‘ inizio, perchè gli si può togliere de senza
toccare I' inizio; nè lo è ad, perchè gli si può togliere ed, e così via;
non si può mai dunque considerare come inizio ciò a cui si può togliere
qualche cosa dalla parte destra. Ciò a cui non si può togliere alcuna
estensione, è inesteso; dunque 1’ inizio del corpo, o dello spazio, o del
movimento, o del tempo, (cioè il punto, il conatus, I istante) o è nullo,
il che è assurdo, oppure è inesteso, il che era da dimostrarsi. Il /muto
non è ciò che non ha parti, e neppure ciò di cui non si considerano
le parti; ma ciò la cui estensione è nulla, cioè ciò le cui parti
non hanno distanza fra di loro, la cui grandezza non è da considerarsi, è
inassegnabile, è minore di qualsiasi grandezza die possa avere un rapporto non
infinito con una altra grandezza sensibile ; minore di una qualsiasi
assegna Iòle: e ciò è il
fondamento del metodo di Cavalieri (1) e dimostra in modo chiaro, la
verità di quel suo principio per il quale si concepiscono dei rudimenti,
per così dire, o inizi delle linee e delle figure, minori di qualsiasi
assegnabile 11 conatus sta al movimento come il punto allo spazio, cioè
come l’unità all' infinito; è cioè 1’ inizio o la fine del movimento.
Perciò tutto ciò che si muove, sia pur debolmente, sia pure urtando contro
qualsiasi ostacolo, propagherà il conatus all ’ infinito per tutto ciò che gli
si oppone nella materia, e perciò imprimerà il suo conatus a tutte le
altre cose : nè si può negare che, quando anche cessi di procedere,
tuttavia abbia un conatus; e perciò tenda ( conetur ), o — che è lo stesso
imprima un inizio di movimento a tutto ciò che gli si oppone, anche se
venga superato da questi ostacoli. Così in ciascun corpo vi possono essere
contemporaneamente più conati contrari. Nel tempo di una spinta, di un
urto, di un incontro, i due estremi dei corpi, o pimti, si penetrano,
ovvero sono nel medesimo punto dello sjxtzio : infatti quando, di
due corpi che s incontrano, l'uno tende a penetrare nel luogo dell
altro, comincerà ad essere in esso, cioè comincerà a penetrare in esso, a
unirsi con esso. Infatti il conatus è inizio, penetrazione, unione; quei
due corpi sono perciò all inizio dell unione, cioè i loro estremi si
uniscono: dunque i corpi che si premono o spingono, hanno coesione.
Infatti i loro estremi sono uno, poiché le cose i cui termini sono uno (2),
sono continue o coerenti, anche pel li) Bona vkstuka Cavai.ihri, autore
della Geometria indivisihiliurn. ebbe, eoi suo concetto di indivisibile, «rande
influenza sul pensiero matematico di Leibniz. T3«!i può essere
considerato forse come il principale precursore della scoperta del
calcolo infinitesimale, dovuta al Leibniz e al Newton. (2) In
greco nel testo. Cfr. sopra, p. 55. definizione di .Aristotele; e
se due cose sono in un solo luogo, l’una non può essere spinta senza
l’altra. (Hypothe.sis phyatea nova, Theoria molun abftraeti).
Corpo e spirito. il conatus è dunque, per così dire, l' inizialo punto di
contattoTra “materia e movimento: l'atto in cui il movimento,
applicandosi 'ad un punto" spaziale, segna I' inizio del corpo. Ma
che cos’ò il movimento rispetto alla materia, se non un principio
spirituale? La lisica tratta della materia e della unica
affezione risultante dalla sua combinazione con altre cause, cioè
del movimento. Lo spirito (mena) infatti, per ottenere una figura e
situazione delle cose buona e a lui gradita, fornisce alla materia il
movimento. Infatti la materia di per sè è priva di movimento. Principio
di ogni movimento è lo spirito. (Lotterà al Thouiasius).
Così Leibniz, in una formulazione ancora immatura: e, giunto al
concetto di conattie . in esso egli fa consistere il principio dello
spirito. L'estendersi e svilupparsi del conati ts nello spazio, dà luogo
alla materia; l’estendersi nel tempo (sotto forma di memoria) dà luogo
allo spirito. TI corpo sta così allo spirito come l’ istante sta al
tempo; lo spirito al corpo come il punto allo spazio. Nessun
conato senza movimento dura più di un istante, se non negli spiriti (in
mentibus). Infatti ciò che nell'istante è il conato, quello è nel tempo
il movimento del corpo: qui si apre la porta a chi vorrà proseguire verso
la vera distinzione di corpo e spirito, che non è ancora stata
spiegata da alcuno : Dinne enirn corpus est mens momentanea, seu carena
recordalione, poiché non ritiene per piìi di un istante insieme il
proprio conato e un altro contrario ; due elementi, infatti, sono
necessari alla sensazione e al piacere o al dolore, senza i quali non vi
è sensazione alcuna: l'azione e la reazione, cioè la comparazione e quindi
Y armonia ; perciò il corpo manca di memoria, manca del senso delle
azioni e delle passioni, manca di pensiero (cogitatio). (llypothesis
physica nova, Theoria motus abxtracli. Come le azioni del corpo
consistono nel movimento, così consistono le azioni dello spirito nel
conatun o, per così dire, nel minimo movimento o punto; infatti
anche lo spirito stesso consiste propriamente soltanto in un punto
dello spazio, mentre il corpo comprende spazio, li questo, per parlare
popolarmente, lo dimostro dal fatto che lo spirito dev'essere nel luogo d
: incontro di tutti i movimenti che ci vengono impressi dagli oggetti dei
sensi. Dato che, quando voglio stabilire che un dato corpo è oro,
prendo insieme la sua lucentezza, il suo suono, il suo peso, e ne
conchiudo che è oro, bisogna dunque che lo spirito sia in un luogo in cui
tutte le linee della vista, dell’udito e del tatto si incontrano, cioè in
un punto. Se noi dessimo allo spirito uno spazio maggiore che un punto,
esso sarebbe già un corpo e sarebbe divisibile in parti; e perciò non
sarebbe sempre intimamente presente a sè stesso e così non potrebbe anche
riflettersi su tutti i suoi elementi e le sue azioni. Eppure in ciò
consiste proprio l’essenza dello spirito. Posto dunque che lo spirito
consista in un punto, è indivisibile e indistruttibile. Da questi
principi e da altri ancora, ho dimostrato molte cose meravigliose
riguardo alle caratteristiche dell'anima umana e in generale di
tutti gli spiriti intelligenti; cose alle quali nessuno finora
aveva pensato, benché da esse sgorghi in modo finora mai visto la
verità della religione, della provvidenza divina, dell immortalità della nostra
anima e la possibilità di molti sublimi misteri (come quello della giustizia
divina, della predestinazione e della presenza nel sacramento). Ed
io spero una volta di poter mostrare tutto ciò nel modo più chiaro
possibile, e di acquistarmi così qualche benemerenza presso tutti gli
uomini intelligenti, ehe odiano l’ateismo oggi invadente e si preoccupano
dell’ eternità.(Lettera al duca ili Hannover). Da questo contatto
fra sostanza spirituale e materiale nel conatus, Leibniz trao le sue
prime conclusioni verso la funzione della spiritualità nel mondo fisico, e 1
importanza dello spirito in rapporto a qualsiasi elemento corporeo e
materiale. Sono capace di dimostrare dalla natura del
movimento nel campo fisico, da me scoperta, che il movimento non
può esistere nei corpi presi per sè, se non vi si aggiunga lo
spirito;.... che lo spirito è incorporeo; che lo spirito agisce su sè
stesso, che nessuna azione su sè stesso può essere movimento, che
l'azione ilei corpo non è se non il movimento, e che quindi lo spirito
non è corpo. Che lo spirito consiste in un punto o centro, e che perciò è
indivisibile, incorruttibile, immortale. Come nel centro concorrono tutti i
raggi, così concorrono insieme nello spirito tutte le impressioni
sensibili attraverso i nervi; e dunque lo spirito è un piccolo mondo
concepito in un punto, il quale consiste delle proprie idee così come il
centro consiste degli angoli, poiché l’angolo è mia parte del centro,
nonostante che il centro sia indivisibile. Così può essere spiegata
geometricamente tutta la natura dello spirito. (Lettera al duca di
Hannover, 1071, U. 1, (il). La conservazione della forza. Queste sono le
teorie fisiche del giovane Leibniz. Ha una nuova scoperta fa sì che
egli abbandoni il suo concetto del movimento come essenza dei corpi, e lo
sostituisca con quello di forza. Cartesio aveva affermato la immutabilità
e costanza della quantità di movimento nell’universo; cioè, ehe quanto
movimento viene perduto da un corpo, tanto viene acquistato da un altro,
sì ehe la somma complessiva neH ! universo sia sempre costante:
intendendo per quantità di movimento il prodotto della massa per la
velocità. Leibniz dimostra che tale principio nou è esatto, e che ciò la cui
somma rimane costante non è la quantità di movimento, ma la quantità di
forza viva 0 ! azione motrice, che è eguale al prodotto della massa
per il quadrato della velocità. Quale sia la portata di
questa scoperta nel campo fisico, non è il caso qui di notare. Per
intendere l'uso che Leibniz ne farà in questioni filosofiche e
metafisiche bisogna osservare che I azione motrice non rappresenta più
come la quantità di movimento - la semplice traslazione di un corpo da un
luogo ad un altro, ma la possibilità di produrre un determinato effetto,
per esempio, di sollevare un corpo ad una determinata altezza. Questa
azione motrice di Leibniz è quella che oggi si chiama energia.
In generale la forza assoluta deve essere stimata per 1
effetto violento che essa può produrre. Chiamo effetto violento ciò che
consuma la forza dell'agente, come, per esempio, imprimere una certa
velocità ad un corpo dato, elevare un corpo determinato ad ima
determinata altezza, etc. E si può giudicare comodamente la forza di un
corpo pesante, attraverso il prodotto della massa o della pesantezza per
1 altezza alla quale il corpo potrebbe salire in virtù del suo
movimento.... Quando un corpo pesante ha progredito discendendo
liberamente, ed ha acquistato impeto o forza' viva, le altezze a cui questo
corpo potrebbe allora arrivare non sono affatto proporzionali alle
velocità, ma al quadrato delle velocità. Ed è per questo che nel
caso della forza viva le forze non sono affatto come le quantità di movimento,
o come i prodotti delle masse per le velocità. Si verifica per via di
ragione e di esperienza, che è la forza viva assoluta - quella
determinata dall'effetto violento che può produrre - che si conserva, e
non già la quantità di movimento. Poiché se questa forza viva potesse mai
aumentare, si avrebbe un effetto più potente che la causa, oppure si
avrebbe il moto perpetuo meccanico, cioè mi movimento che potrebbe
riprodurre la sua causa e qualche cosa di più ; il che è assurdo. Ma se la
forza potesse diminuire, essa perirebbe alla line completamente perchè,
non potendo mai aumentare, e potendo però diminuire, andrebbe via via
decadendo : il che è senza dubbio contrario all'ordine delle cose. Anche
l’esperienza lo conferma. Adesso mi piace di guardare la questione da un
altro punto di vista, e di mostrare anche la conservazione di
qualche cosa di più prossimo alla quantità del movimento, cioè la
conservazione dell'azione motrice. Ecco dunque la regola generale che io
stabilisco. Qualunque cambiamento possa accadere tra corpi concorrenti,
qualunque sia il loro numero, bisogna che vi sia sempre nei corpi concorrenti
in un sistema chiuso la medesima quantità di azione motrice nel medesimo
intervallo di tempo. Per esempio, v i deve essere durante questa ora
tanta azione motrice nelT universo o in dati corpi che agiscono fra di loro in
un sistema chiuso, quanta ve ne sarà durante un'altra ora
qualsiasi. Per comprendere questa regola, bisogna spiegare la valutazione
deh' azione motrice, tutta diversa da quella della quantità di movimento,
intesa la quantità di movimento secondo l’uso che si è spiegato sopra.
Ora, affinché 1 azione motrice possa essere valutata, bisogna prima
valutare 1 effetto formale del movimento. Tale effetto formale o essenziale al
movimento consiste in ciò che è cambiato dal movimento, cioè nella quantità
della massa trasportata, e nello spazio o nella lunghezza attraverso cui
questa massa è trasportata. È questo l'effetto essenziale del
movimento, o il cambiamento che esso determina: poiché il tal corpo
era lì, ora è qui: il corpo è tanto grande e la distanza è tanta. Bisogna
ben distinguere quello che io chiamo 1 effetto formale o essenziale al
movimento, da ciò che ho chiamato più sopra l' effetto violento. Poiché 1
effetto violento consuma la forza e si esercita su qualche cosa di fuori;
ma l'effetto formale consiste nel corpo in movimento preso in sè
stesso, e non consuma affatto forza, anzi la conserva: poiché la medesima
traslazione della medesima massa si deve sempre continuare, se nulla dal
di fuori non F impedisce. È questa la ragione per cui le forze assolute
sono come gli effetti violenti che le consumano, ma non già come
gli effetti formali. Ora sarà più facile d' intendere che cosa sia
F azione motrice: bisogna diuique stimarla non solo per l’effetto formale che
essa produce, ma anche per il vigore e la velocità con la quale essa lo
produce. Si vogliono far trasportare 100 libbre alla distanza di un
miglio; questo è l’effetto formale che si domanda. Uno lo vuol compiere
in un’ora, un'altro in due; io dico che Fazione del primo è doppia
di quella del secondo, essendo doppiamente rapida, su ili un medesimo
effetto. Questa definizione dell azione motrice si giustifica abbastanza a
priori, perchè è chiaro che in un' azione puramente formale presa in sè stessa,
come è qui quella di un corpo in movimento considerato a sè, vi sono due
punti da esaminare: l’effetto formale o ciò che è cambiato, e la
rapidità del cambiamento; poiché è ben chiaro che colui che produce il
medesimo effetto formale in minor tempo, agisce di più. (Enfiai/ de Dynamique sur lei laix dii mouvemenl, M. VI, 218-21).
La
forza come attività. — La forza, l’energia, è dunque sostituita al
movimento. Dalla' semplice e obbiettiva traslazione dei corpi HaTun luogo
all’altro, Leibniz sposta il centro della attenzione su ciò che della
traslazione è la causa, su ciò che contiene già in sè - per così dire -
il movimento allo stato potenziale, e lo produce. Il movimento perde così
realtà a favore della forza. La forza viene considerata come
assoluta e il movimento come relativo. Bisogna sapore
anzitutto che la forza è qualche cosa di assolutamente reale, anche nelle
sostanze create: ma che lo spazio, il tempo e il movimento hanno qualche
cosa dell’ente di ragione, e non sono veri e reali per sè stessi,
ma solo in quanto attributi divini involventi 1* immensità, l’ eternità,
l'azione o la forza delle sostanze create. Ise consegue che non esiste un vuoto
nello spazio nè nel tempo, che il movimento separato dalla forza, cioè
quando non si considerino in esso se non le caratteristiche
geometriche, cioè la grandezza, la figura o i loro mutamenti, non è
altro che un mutamento di luogo; e che perciò il movimento, rispetto ai
fenomeni, consiste in una semplice relazione-, il che fu anche riconosciuto da
Cartesio, quando definì il movimento come una traslazione dalle
vicinanze di un corpo alle vicinanze di un altro corpo. Ma nel
trarne le conseguenze, dimenticò la sua definizione, e stabili le
regole del movimento come se il movimento fosse qualche cosa di reale e
assoluto. Bisogna dunque ritenere che, quando più corpi qualsiasi sono in
movimento, non è possibile dedurre, dal loro aspetto esteriore, in quali di
essi sia un determinato movimento assoluto oppure la quiete; ma
ciascuno di essi a piacere può essere considerato in quiete, pur restando
uguali le manifestazioni esteriori. (Specimen Dynamicum, parte 11,
M. VI, 247). 1 1 movimento è relativo: la forza sola è assoluta. E
il concetto di forza ha, molto più che quello di movimento, una
chiara impronta di attività. Pare che in esso il conatus degli
scritti giovanili abbia trovato il suo completamento e la sua realizzazione.
Abbiamo altrove avvertito che negli esseri corporei vi è qualche
cosa al di là dell'estensione, anzi prima dell’estensione : la forza della
natura, riposta ovunque dall’autore supremo, la quale non consiste soltanto in
una semplice facoltà, come si contentavano di dire gli scolastici, ma
anche in un conatus o sforzo, il quale avrà il suo effetto pieno se non
sia impedito da un conatus contrario. Questo sforzo si mostra da ogni parte ai
nostri sensi; e, a mio parere, può essere dimostrato per via razionale
ovunque nella materia, anche là dove non è evidente ai sensi. Che se questa
forza non si deve attribuire a Dio come un miracolo, bisogna certamente
che sia immessa da lui nei corpi, in modo da costituirne 1' intima
natura; poiché l'agire è il carattere essenziale delle sostanze, e
l’estensione, lungi dal determinare la sostanza stessa, non indica altro
che la continuazione o diffusione di una sostanza già data, la quale tenda e si
opponga, cioè resista. Nè importa che ciascuna azione corporea derivi dal
movimento, e il movimento non derivi se non da mi altro movimento
esistente già da prima in quel corpo o impressogli dal di fuori. Infatti il
movimento (così come il tempo) non esiste mai, a considerare la cosa
rigorosamente; giacché non esiste mai tutto, non avendo parti coesistenti. E
nulla vi è in esso di reale, se non quel quid istantaneo che consiste
nella forza tendente al mutamento. A ciò dimque si riduce tutto ciò che è
nella natura corporea al di fuori dell’oggetto della geometria, cioè al
di fuori deH’estensione. (Speri intra Jji/namicum).
11 corpo, la materia, contiene dunque in se una t’i*s adiva clic
supera, la materialità ed ha carattere spirituale. Tò Su o
ii.ty.óv, la potenza, 1 è duplice nel corpo: passiva e attiva. La forza
passiva costituisce propriamente la materia o massa, quella attiva la
entelechia (5) o forma. La forza passiva è la resistenza stessà^per la
quale il corpo resiste non soltanto alla penetrazione, ma anche al mo
li) Entelechia, da èvreXé? (compiuto) e exetv (avere) ò il termine usato
da Aristotele per indicare la lorma pienamente realizzata. Leibniz lo
riprende per definire l’aspetto attivo della sostanza e della monade.
Questo termine 6 anche usato spesso da lui come sinonimo ili monade.
C’fr. Monadologia, §§ 18, 48. vimento. e per la quale avviene che
un altro corpo non possa subentrare al suo posto senza che esso ceda: d
altra parte, esso non cede se non ritardando alquanto il movimento del
corpo che lo spinge, e così tende a perseverare nel proprio stato anteriore, in
modo non soltanto da non scostarsene spontaneamente, ma anche da
resistere a ciò che tende a mutarlo. Così vi sono due resistenze o
masse: la prima, quella che chiamano antitypia o impenetrabilità; la seconda,
quella che Keplero chiama inerzia naturale dei corpi e che Cartesio in
qualche luogo del suo epistolario riconobbe dal fatto che per essa i
corpi non accolgono un nuovo movimento se non per forza, e perciò resistono
al corpo che li preme e ne indeboliscono la forza. J1 che non avverrebbe,
se nel corpo, oltre all'estensione, non vi fosse tò Su jo gtxó, cioè il
principio delle leggi del movimento, per il quale avviene che la quantità
delle forze non può essere aumentata, e che un corpo non può essere
spinto da un altro corpo se non diminuendo la forza di quello/
La forza attiva, che si suole anche dire senz altro forza, non è da
concepirsi come la semplice potenza volgare della scuola, cioè come ima
recettività di azione, ma implica un conatus, cioè mia tendenza
all'azione, cosicché, se non vi sia impedimento, ne derivi l'azionepE in
ciò propriamente consiste l'entelechia, mal compresa dalla scuola: una
tale potenza infatti comprende 1 atto, nè permane una semplice facoltà,
benché non sempre proceda direttamente all'azione cui tende; a volte
infatti vi si oppone un impedimento.! In secondo luogo, la forza attiva è
duplice, primitiva'? derivativa, cioè sostanziale o accidentale. La
forza attiva primitiva, che vien chiamata da Aristotele la prima
entelechia (è'.veXé/ev/ •?) 7tpoVr/;) e nel linguaggio comune forma della
sostanza, è il secondo principio naturale che, insieme con la materia o forza
passiva, costituisce la sostanza corporea; la quale è in sè un unità, cioè
non un semplice aggregato di più sostanze: come per esempio vi è grande
differenza tra un animale e un gregge di animali. E perciò questa
entelechia è o un'anima, o qualche cosa di analogo all'anima, e sempre
attua naturalmente qualche corpo organico, il quale, quando fosse preso
separatamente in sè stesso, cioè toltane o allontanatane l’anima, non sarebbe
un'unica sostanza, ma un aggregato di molti, insomma un artificio della
natura.... La forza derivativa è ciò che alcuni chiamano
impetus, cioè conatus, o la tendenza, per così dire, ad un qualche
movimento determinato, attraverso il quale la forza primitiva o principio
dell'azione viene modificato. Quanto a questa forza, ho mostrato che non
si mantiene sempre la medesima nel medesimo corpo, ma che, comunque sia
distribuita in piìi corpi, rimane sempre nella medesima quantità
complessiva, e differisce dal movimento stesso, la cui quantità non si
conserva..,. A stabilire una forza attiva nei corpi ci inducono
molte ragioni, e principalmente l'esperienza stessa, la quale mostra che
nella materia vi sono movimenti i quali devono bensì essere attribuiti
originariamente alla causa universale delle cose, cioè a Dio; ma immediatamente
e specificamente devono essere spiegati attraverso la forza posta da Dio
nelle cose^'infatti, dire che Dio nella creazione ha dato ai corpi una
legge di aziono, non è altro se non dire che ha dato ad essi qualche cosa
in virtù di cui quella legge sia osservata; altrimenti dovrebbe sempre
egli stesso procurare continuamente per via straordinaria
l'osservanza di quella legge; mentre è piuttosto la sua legge stessa
che ha efficacia, ed egli ha reso i corpi attivi, cioè ha dato ad
essi ima forza insita} Bisogna inoltre considerare che la forza
derivativa e l'azione sono qualche cosa di modale, perchè sono soggetti a
mutamento. E ogni modo consiste in qualche modificazione di alcunché di
pexsistente, o meglio di assoluto. Come la figura è in certo modo una
limitazione o modificazione della forza passiva o massa estesa, così la
forza derivativa e l'azione motrice è in certo modo una modificazione non
già di qualche cosa di puramente passivo (altrimenti la modificazione o
limite conterrebbe più realtà di ciò stesso cho è limitato), ma di
qualche cosa di attivo, cioè dell' entelechia primitiva. Onde la forza
derivativa e accidentale o mutevole sarà una qualche modificazione
della vìrtus primitiva essenziale che perdura in qualsiasi sostanza
corporea. Perciò i cartesiani, non riconoscendo alcun principio attivo
sostanziale modificabile nel corpo, furono costretti a negare ad esso qualsiasi
azione ed a trasferire l'azione nel solo Dio: un Deus ex machina,
principio tutt' altro che filosofico. ( Frammento).
Valore metafisico della forza. Questa entelechia, questa forza di qui è
formata la materia, che ne costituisce anzi la piii intima essenza, è
qualche cosa di analogo all'anima. La materia ha essenzialmente in
sè il principio del movimento, ma secondo me ciò non si deve intendere se
non nel senso che vi sono delle anime nella materia, le quali sono
indivisibili e indistruttibili (Lettera a Burnett, G.). E
questo principio delTanimazione della materia che spinge Leibniz ad una
considerazione del mondo corporeo diversa da quella puramente meccanica:
che gli fa vedere in esso, attraverso il principio spirituale, un elemento
finalistico e, attraverso questo, la mano di Dio. Devo dichiarare
inizialmente che a mio parere tutto avviene meccanicamente nella natura e
che, per rendere una ragione esatta e compiuta di qualsiasi fenomeno particolare
(come per esempio della pesantezza o della elasticità), bastano le nozioni di
figura e ili movimento. Ma i principi stessi della meccanica e le leggi
del movimento sorgono a mio parere da alcunché di superiore, che
dipende piuttosto dalla metafisica che dalla geometria e che non si
può raggiungere con 1 immaginazione, benché lo spirito lo possa molto ben
concepire. Così io penso che nella natura, oltre alla nozione di estensione,
convenga impiegare quella di forza, che rende la materia capace di agire
e di resistere. E per forza o potenza non intendo il potere o la
semplice facoltà; che non è se non una possibilità prossima di agire e che,
essendo come morta, non produce neppur mai un'azione senza essere
eccitata dal di fuori Ma intendo qualche cosa di mezzo fra il poterete
l’azione che implica imo sforzo, un atto, un’entelechia, poiché la
forza passa per sua virtù all" azione finché nulla ne la impedisce.
Questa è la ragione per cui io la considero come 1 elemento costitutivo
della sostanza, essendo essa il principio dell azione che della sostanza
è il carattere essenziale(^l) Così io vedo che la causa
efficiente delle azioni fisiche deriva dalla metafisica; nella quale
opinione sono molto lontano da coloro che non riconoscono nella natura
se non ciò che è materiale o esteso, e che perciò si rendono
sospetti con qualche ragione presso le persone pie. Ritengo pure che il
concetto del bene o della causa finale, I>er quanto contenga in sé
alcunché di morale, si possa anche impiegare utilmente nella spiegazione
dei fenomeni naturali; poiché l'autore della natura agisce secondo
il principio dell ordine e della perfezione, con una saggezza alla
quale nulla si può aggiungere: e ho mostrato altrove, a proposito della
legge generale dell" irraggiamento della luce, come il principio
della causa finale basti spesso a scoprire i segreti della natura, finché
non se ne sia trovata la causa prossima efficiente, che é più difficile a
scoprirsi. Tì) (Système novi eon jkivr erpliqvtr la nature des
subitanee», primo abbozzo, 1(395, G. IV, 472). La vera scienza
tìsica deve essere tratta dalle sorgenti ilelle perfezioni divine. Dio
infatti è l' ultima ragione delle cose, e la conoscenza di Dio è il
principio delle scienze, così come la sua essenza e la sua volontà sono i
principi delle cose. Quanto piii si è versati nelle profondità
della filosofia, tanto più facilmente si riconosce ciò. Ma pochi
finora sono riusciti a dedurre, dalla considerazione delle proprietà
divine, verità di qualche importanza nella scienza. Vi sono forse alcuni
che potranno essere spinti da questi esempi. La filosofia si santifica
così coll’ immissione in essa delle correnti sgorgate dalle sacre
sorgenti della teologia naturale. E così lontana dal vero è la tesi che
si debbano rifiutare le cause finali e la considerazione di uno
spirito sapientissimo che agisce secondo bontà (onde la bontà e la
bellezza diverrebbero arbitrarie o soltanto relative a noi e non attribuibili a
Dio: opinione quella, di Cartesio, questa di Spinoza ( 1 ), che invece,
dalla considerazione dello spirito, si possono dedurre principi
essenziali della fisica. (Principium quoddam generale, M. VI,
134). In questa organizzazione divina del mondo noi vediamo
la forza pervadere e permeare tutta la natura. Non più atomi
corporei: qualche cosa di altrettanto unitario e indivisibile, ma privo
di qualsiasi materialità. Queste unità sostanziali stanno al confine fra
materia e spirito, potendosi sviluppare in ambedue le direzioni ; e racchiudono
in sé una forza che permette loro una spontaneità di sviluppo verso
l’universale. In tale spontaneità e attività consiste il carattere
spirituale degli elementi della sostanza corporea, ciò che li avvicina all’
anima e all’ io. Poiché è necessario che vi sieno nella natura
corporea delle vere unità, senza le quali non vi sarebbe affatto
(1) Cartesio fa derivare, secondo Leibniz, le regole della bontà e
dell’armonia dall’arbitrio di Dio (Cfr. sojira, p. 13). Per Spinoza invece la
bontà è un rapporto della creatura individuale alla Sostanza assoluta,
cioè Dio. Tri molteplicità uè aggregati, bisogna che ciò che
costituisce la sostanza corporea sia alcunché di rispondente a ciò
che si suol chiamare io in noi, che è indivisibile e tuttavia
agente; poiché questo io, essendo indivisibile e senza parti, non potrà
essere un essere composto, ma, essendo agente, sarà qualche cosa di
sostanziale. (Syitcmc un uveali, primo abbozzo, I 695, G. IV,
47ii). Costituzione e funzione della monade. - Si sono studiati nei
capitoli precedenti due principi fondamentali della filosofia leibniziana:
l’universalità della sostanza individuale, e il principio spirituale
della f orza n el mondo materiale. Il primo, derivato dalla elaborazione
dT” concetti logici; il secondo dal rigoroso pensamento di teoremi
fisici. L’unione e la fusione di questi due principi, dà luogo alla
mònade (1). Ciò ebe essi hanno in comune è il fatto di racchiudere
ambedue in sè, allo stato potenziale, un infinita possibilità di
sviluppo: la sostanza individuale, punto di partenza di una catena di
causo e di effetti che racchiude nelle sue maglie il passato e
l’avvenire di tutto 1 universo; l'unità animata del mondo corporeo,
forza capace di svilupparsi in movimento e, pur col suo carattere
spirituale, di dar luogo ad una formazione di materialità. Dei due
elementi, l’uno è universale ma astratto, puramente logico; l’altro concreto,
reale, spirituale, ma ancora privo di universalità. Nella loro fusione l’uno
fornisce ciò che all’altro manca: e la monade sarà un principio
spirituale e universale insieme, ma pur concreto, tale che di esso consti
effettivamente il mondo esistente. La monade è « l’atomo della natura e 1
elemento delle cose ». Ad essa vengono dati da Leibniz nomi diversi:
entelechia, anima, sostanza, etc., a seconda delle varie occasioni in cui
ne parla. (1) Monade ò parola greca ebe significa unità. ]|
termine è stato usato anche da Giordano Bruno per indicare gli elementi
primi delle cose. Non è però sicuro ohe Leibniz abbia derivato da lui
questa denominazione. L : atomo di Epicuro, benché fornito di parti, è
ima cosa unita nel suo interno, mentre l'anima, quantunque senza
parti, racchiude in sé un gran numero, o meglio un numero infinito di
varietà, per la molteplicità delle rappresentazioni di cose esterne, o
piuttosto per la rappresentazione dell'universo che il Creatore vi ha
posto. ( Osservazioni al dizionario del Bayle). Le
monadi sono i principi primi c più semplici onde è costituito il mondo:
non sono materiali, ma da esse deriva tutta la materia: sono individuali,
molteplici (in quanto sono sempre punti di vista particolari presi sull’universo,
e i punti di vista possono essere infiniti); e d’altra parte ciascuna racchiude
in sè una visione del tutto. L’unità sostanziale richiede un essere
compiuto, indivisibile e indistruttibile per natura, poiché la sua
nozione involve tutto ciò che gli deve accadere; e ciò non si potrebbe
trovare nè nella figura nè nel movimento, che implicano anzi entrambi alcunché
d’ immaginario - come potrei dimostrare —, ma bensì in un’anima o forma
sostanziale, sull’esempio di ciò che si suol chiamare io. Sono questi i
soli veri esseri compiuti, come avevano riconosciuto gli antichi e soprattutto
Platone, il quale ha ben chiaramente mostrato che la sola materia non è
in sè sufficiente a formare una sostanza. Ora 1’ io sopraddetto, o
ciò che gli risponde in ciascuna sostanza individuale, non può essere nè
fatto nè disfatto dall'avvicinamento o dall'allontanamento delle parti,
procedimento puramente esteriore a ciò che è la sostanza. Non saprei dire
precisamente se vi siano altre sostanze corporee effettive, oltre quelle
che sono animate, ma almeno le animo servono a darci qualche conoscenza
delle altre per analogia. (Lotterà all' Arnauld, 1086, G. 11,
76-7). Non so se sia possibile spiegare la costituzione dell'
anima meglio che dicendo: l.° che è una sostanza semplice, ovvero ciò eli
e io chiamo una vera unità; 2.° che tale unità esprime tuttavia la
molteplicità, cioè i corpi, e che li esprime il meglio possibile secondo
il suo punto di vista o il suo rapporto ; 3.° che così essa è espressiva
dei fenomeni secondo le leggi metafisico-matematiche della natura,
cioè secondo 1 ordine più conforme alla intelligenza e alla ragione. i\e
deriva inline, 4.° che 1" anima è una imitazione di Dio, nel massimo
grado possibile alle creature, che essa è come lui semplice eppure anche
infinita, e avvolge tutto attraverso percezioni confuse; ma che, riguardo
a quelle distinte, essa e limitata. Invece tutto è distinto nella sostanza
sovrana, dalla quale tutto emana, e che è la causa ilcll esistenza e dell
ordine e, in una parola, l'ultima ragione delle cose. Dio contiene 1
universo eminentemente, e l'anima o l'unità lo contiene virtualmente,
essendo imo specchio centrale, ma, per così dire, attivo e vitale. Si può
anche dire ohe ogni anima è un mondo a parte, ma che tutti questi
mondi si accordano e sono rappresentativi dei medesimi fenomeni, secondo
rapporti differenti; e che questa è la maniera più perfetta di
moltiplicare gli esseri quanto è jiossibile, ed il meglio
possibile. (Lettera a) Bayle, 1702, G. Ili, 72). Il
concetto di sostanza individuale è stato formulato da Leibniz por la
prima volta nel Dìscours de Méta physìque del 1686. La parola monade è
introdotta da lui nel 1696. Verso il mezzo della sua vita, cioè, egli è
giunto in possesso dell’elemento fondamentale onde per lui è costituito il
mondo. Trovato questo, il problema che gli si pone è di spiegare, attraverso
tale elemento, la costituzione del mondo stesso. Come nell arte
combinatoria' si dovevano trovare, per mezzo della scomposizione dei
concetti, i termini semplici di cui consta il pensiero umano, e poi,
attraverso la varia combinazione di essi, formare di nuovo ogni possibile
concetto, così ora un’ indagine analitica nel campo logico, fisico, metafisico,
ha condotto alla nozione di monade come sostanza semplice, costituente
il mondo. Si tratta ora di mostrare concretamente come il
mondo consti di monadi, come ogni aspetto, ogni fenomeno di esso sia
spiegabile attraverso le combinazioni, le modificazioni, i diversi
aspetti delle monadi. Inizio e fine della monade. - Donde nasce la
monade? Che cosa 1’ ha prodotta? Qnal’è la sua origino? Noijl
è possibile concepirla come derivata da ini qualsiasi ente naturale:
essere prodotta significa sempre in qualche modo essere causala ; c,
poiché essa comprende già in sé tutta la serie infinita delle causo e
degli effetti, non si può attribuirle una causa al di fuori di sé stessa:
qualsiasi sua causa sarebbe sempre compresa nel suo interno.
Analogamente, non è concepibile neH’ordine naturale la fine della monade;
implicando tale fine un interruzione nella serie delle cause e degli
effetti, che è invece continua e infinita. L’origine e la fine delle
monadi deve essere dunque ricercata fuori deU’ordino causale dell'
universo; o piuttosto si può dire che le monadi non hanno origine: sono nate
insieme con l’universo stesso, sono concreate ad esso; e il creatore di
esse è il medesimo creatore deH'universo: Dio. Quanto all' inizio
e alla fine di queste forme, anime, o principi sostanziali, bisogna dire
che esse non possono avere origine se non dalla creazione, e non possono
aver fine se non da un annullamento compiuto espressamente dalla
potenza suprema di Dio.... Così queste forme non cominciano nè finiscono
naturalmente. E perchè non avrebbero esse il medesimo privi egio degli
atomi, i quali, secondo i seguaci di Gassendi, devono sempre conservarsi?
Tale privilegio bisogna accordarlo a tutto ciò che è veramente una
sostanza; perchè la vera unità è assolutamente indissolubile. Dato ciò, bisogna
credere che queste sostanze sono state inizialmente create insieme col
mondo. (Syslème noiweau, primo abbozzo). Così
(eccezion fatta per le anime che Dio vuole ancora creare espressamente)
fui obbligato a riconoscere che le forme costitutive delle sostanze sono
state create insieme col mondo e che sussistono in eterno. (Syntènu
nouveau, seconda stesura, 1095, G. IV, 479). Individualità e
universalità della monade. - Lo monadi hanno in se stesse il doppio
carattere di essere ciascuna un elemento costitutivo del mondo, e insieme
di implicare ciascuna, in se, 1 assoluta totalità di sviluppo del mondo
stesso. 11 mondo è composto di monadi: ma ciascuna monade è, da un
certo punto di vista, il mondo stesso. Da va certo punto di vista :
questo è il criterio che permette di conservare e conciliare quelle due
caratteristiche. Ciascuna monade mantiene la sua individualità* e la sua
distinzione dalle altre, in quanto implica e rappresenta il medesimo
tutto, ma da un diverso punto di vista. E i punti di vista sono infiniti;
così sono infinite le monadi. L individualità della monade si concilia in
tal modo con la sua universalità. Benché ciò possa parere
paradossale, è impossibile a noi di avere conoscenza degli individui e di
trovare il mezzo per determinare esattamente l'individualità di qualsiasi
cosa.se non prendendo la cosa stessa: infatti tutte le circostanze
possono ripetersi; le piti piccole differenze ci sono insensibili; il luogo e
il tempo, lungi dal determinare, hanno anzi bisogno di essere essi stessi
determinati dalle cose che contengono. Ciò che vi è di più notevole in
questo principio, è che Y individualità involve l'infinito; e solamente colui
che è capace di comprendere ciò, può aver conoscenza del principio di
individuazione di questa o di quella cosa: principio il quale deriva
dall" influenza rettamente intesa di tutte le cose dell' universo le une
sulle altre. E vero che non sarebbe punto così, se il mondo fosse
composto di atomi, come vuole Democrito; ma in tal caso non vi sarebbe
pure alcuna differenza tra due individui differenti aventi la medesima figura e
la medesima grandezza. [Nuovi Saggi. Proprio Inaili
versali tà della monade è ciò che garantisce la sua individualità. Due
atomi di ugual forma e grandezza, con le medesime caratteristiche
esteriori, sarebbero indistinguibili 1 uno dall altro. Due monadi non
possono invece essere indistinguibili e perfettamente 'identiche. II fatto di
essere due, implica che esse rappresentano il mondo da due punti di
vista: e ciascun punto di vista comporta legami e rapporti all’ infinito
che necessariamente saranno diversi da quelli di ciascun altro punto di
vista. Due monadi perfettamente identiche in tutto il complesso dei
rapporti implicati, non sono concepibili: sarebbero una sola e medesima monade.
È questo il principio che Leibniz chiama della identità degli indiscernibili.
Per esso ogni monade ha garantita la sua individualità e inconfondibilità
fra tutte le altre. K eli grande importanza in tutta la filosofia e
anche nella teologia il principio che non esistono denominazioni
puramente estrinseche; e questo a causa della connessione delle cose tra
di loro. Due cose non possono diff erir e solo locabnente o
temporalmente, ma è sempre necessario che interceda tra di esse qualche
altra differenza interna. Così non è possibile che vi siano due atomi
simili per forma e uguali per grandezza : per esempio due cubi uguali.
Queste sono nozioni matematiche, cioè astratte, non reali. Tutto
ciò che è differente deve distinguersi per qualche cosa; e la sola
posizione non basta a differenziare le cose reali. Per questo principio
si sconvolge tutta la filosofia puramente atomistica. In primo luogo, non è
possibile che vi siano atomi, altrimenti vi sarebbero due cose che non
differirebbero se non dall’esterno. In secondo luogo, se la sola
posizione presa per sè non costituisce un mutamento, ne deriva che non vi
è alcun mutamento che sia puramente di luogo. E, in generale, il luogo, la
posizione, la quantità (come p. es. il numero), la proporzione, non
sono se non relazioni che risultano da altre cose che costituiscono per
sè stesse il mutamento. Così, essere in un determinato luogo,
astrattamente parlando, non sembra indicare altro che una posizione. Ma
effettivamente bisogna che ciò che è in un determinato luogo, esprima in
sè quel luogo stesso; cosicché la distanza e il grado di distanza
implica anche un modo di esprimere in sè la cosa distante, di agire su di
essa, e di essere da essa affetto. Ed effettivamente la posizione implica un
grado di espressione. Tutte le cose da noi qui esposte derivano dal
principio fondamentale che il predicato è contenuto nel soggetto;
principio che colpì l’Arnauld(l) quando una volta gliene feci cenno: - j’
en ay esté frappe - mi scrisse. (Frammento, C. 8-10).
Rappresentazione e appetito. - Proseguiamo nel caratterizzare la struttura
della monade. Essa contiene in sè tutto il proprio sviluppo futuro,
insieme con lo sviluppo del mondo. Ma quello che determina la sua
particolarità e il suo valore, è di contenerlo non esplicito ed esteso
nel tempo e nello spazio, ma implicito, in modo pregnante, allo stato
potenziale. Se noi volessimo immaginare in ciascuna monade,
attualmente sviluppato, tutto il suo svolgimento completo,
perderemmo, per così dire, il vantaggio essenziale della monade:
avremmo di fronte a noi il mondo stesso in tutta la sua immensa e inafferrabile
molteplicità. Il vantaggio consiste proprio nel raccogliere la molteplicità del
mondo nella individualità; di contenere allo stato implicito ciò che allo stato
esplicito sarebbe Superiore ad ogni facoltà di percezione o di
apprensione. Ora, come si svolge e quale aspetto assume
concretamente, nella monade, tale implicazione della totalità ? Assume
l’aspetto di forza o appetito da un lato, di rappresentazione
dall'altro. Ciascuna monade ha una rappresentazione di tutti gli
stati futuri che essa contiene in sè, e contemporaneamente ha un
impulso, una tendenza che la spinge a passare a questi futuri, dal
presente in cui si trova. In tali due forme si svolge, nelI - individuo, il
passaggio all'universale. (1) Antonio Arnauld (1012-1604), teologo
e filosofo francese di scuola cartesiana e giansenistica, intrattenne una
lunga e importantissima corrispondenza col Leibniz. Lo stato dell'anima,
come quello dell'atomo, è imo stato di cambiamento, una tendenza: l'atomo
tende a cambiare di luogo, l'anima a cambiare di pensiero; l'uno e
l’altro cambiano nel modo piìi semplice e più uniforme che il loro
stato permetta. Come mai allora (mi si domanderà) c'è tanta semplicità
nel cambiamento dell'atomo e tanta varietà nei cambiamenti dell'anima? Il fatto
è che l'atomo (così come lo si i mm agina, benché veramente non
esista in natura), quantunque sia composto di parti, non ha nulla
che determini varietà nel suo tendere, poiché si suppone che queste parti non
mutino i loro rapporti reciproci ; mentre l'anima, per quanto
indivisibile, contiene una tendenza composta, cioè una molteplicità di pensieri
presenti dei quali ciascuno tende a un particolare cambiamento, a
seconda di ciò che esso contiene; e questi pensieri si trovano tutti insieme
nell'anima, in virtù del suo rapporto essenziale con tutte le altre cose
del mondo. E anzi, è fra 1 altro la mancanza di tale rapporto che rende
impossibili in natura gli atomi di Epicuro. Infatti ogni cosa o parte
dell' universo deve rappresentare tutte le altre; Sicilie 1 anima, quanto alla
varietà delle sue modificazioni, non deve paragonarsi all'atomo
materiale, ma piuttosto all universo, che essa rapprasenta dal suo punto
di vista, e anche in qualche maniera a Dio, di cui essa rappresenta
in modo finito 1 infinità (a causa della sua percezione confusa e imperfetta
dell' infinito). 11 sentimento del piacere, per esempio, sembra
semplice, ma non lo è; e chi lo volesse notomizzare troverebbe che
esso implica tutto ciò che ci circonda e conseguentemente tutto ciò cir conila
ciò che ci circonda. E la ragione del cambiamento dei pensieri nell'anima
è la medesima ragione del cambiamento delle cose nell’ universo che
essa rappresenta. Infatti i rapporti meccanici che sono sviluppati nei
corpi, sono riuniti e, per cosi dire, concentrati nelle anime o entelechie, ed
hanno anzi in esse 0. — Leibniz, La monadologia. la loro origine. È vero che non tutte le
entelechie sono, come la nostra anima, immagini di Dio, poiché non
tutte sono fatte per essere membri di una società o di uno stato di
cui egli sia il capo; ma esse sono sempre immagini dell'universo. Sono mondi in
compendio, a modo loro: semplicità feconde ; unità di sostanze ; ma
virtualmente infinite, por la molteplicità delle loro modificazioni;
centri che esprimono una circonferenza infinita. (Polemica
col Bayle). Non potrebbe Dio forse dare inizialmente alla
sostanza una natura o forza interna che le faccia produrre ordinatamente
(come in un automa spirituale o formale, ma libero, in quanto gli è
attribuita la ragione) tutto ciò che le accadrà, cioè tutte le
impressioni o espressioni che essa avrà ; e ciò senza 0 soccorso di
alcun' altra creatura ? Tanto più che la natura della sostanza richiede
necessariamente e implica essenzialmente im progresso o un cambiamento, senza
il quale essa non avrebbe la forza di agire. E poiché questa natura
dell'anima è rappresentativa dell" universo in modo esattissimo
(benché più o meno distinto), la serie delle rappresentazioni che l'anima
produce in sé risponderà naturalmente alla serie dei cambiamenti
dell’universo stesso. (Syxtème nouveau, lt>95, G. IV,
IS.">). Una monade, in sé stessa e in un istante, non può
essere distinta da un'altra, se non per le sue qualità e azioni
interne, le quali non possono essere altro che le sue percezioni (cioè le
rappresentazioni del composto o di ciò che sta al di fuori, nel
semplice), e le sue appetizioni (cioè il suo tendere da una percezione
all'altra) che sono i principi del cambiamento. Infatti la semplicità della
sostanza non impedisce la molteplicità delle modificazioni che si
devono trovare insieme in questa medesima sostanza semplico; e tali
modificazioni consistono nella varietà dei rapporti rispetto alle cose che
stanno al di fuori. Così in un centro o punto, per quanto semplice, si
trova un' infinità di angoli formati dalle linee che ad esso
concorrono. ( Principe « de la Mature et de la Grace). Tn
tal modo si viene anche a configurare il concetto di rappresentazione e in
generale di conoscenza, come Leibniz lo tratta dal punto di vista
gnoseologico. Percezione è espressione delia molteplicità nell’unità; e,
d’altro lato, è azione. 11 pensiero, essendo l’azione di una cosa
su sè medesima, non ha luogo nella figura e nel movimento, i quali
non possono mostrare il principio d ima azione veramente interna:
d’altronde è necessario che vi sieno esseri semplici, altrimenti non vi
sarebbero esseri composti o esseri per aggregazione, i quali sono
piuttosto fenomeni che sostanze, ed esistono piuttosto \óp<p che (potrei
(cioè piuttosto moralmente o razionalmente che fisicamente) per parlare
con Democrito. E se non vi fosse cambiamento nelle cose semplici, non ve
ne sarebbe neppure nelle composte, tutta la realtà delle quali non consiste se
non nella realtà delle cose semplici. Ora i cambiamenti interni
nelle cose semplici sono analoghi a ciò che noi concepiamo nel
pensiero, e si può dire che in generale la percezione è V espressione
della molteplicità nell' unità. Ella non ha bisogno, Signore (1), di questi
schiarimenti sulla immaterialità del pensiero di cui Ella ha parlato in modo
ammirevole in molti luoghi. Tuttavia, unendo queste considerazioni con la mia
ipotesi particolare, mi pare che l'una serva a dar luce alle altre.
(Lotterà ni Bayle). (1) Piotro Bayle (1647-1706), cui Leibniz
qui si rivolge, b il principale rappresentante della lilosofia scettica
in quel tempo. Fondatore delle 1 Voltvelles de la republique des lettres,
autore del Dictionnaire historique et crilique, ebbe col Leibniz lunghe
od interessantissime polemiche su vari argomenti, quali l’ipotesi
dell’armonia prestabilita, e il problema della conciliazione fra fede o
ragione. I pensieri sono azioni; e le conoscenze o verità, in quanto
sono in noi, anche quando non vi si pensa, sono abitudini o disposizioni;
e noi sappiamo molte cose alle quali non pensiamo punto. (
Nuovi Saggi, 1701 segg. I, I, § 26, G. V., 79). Mi meraviglio,
Signore, che Ella insista nel volgere le mie opinioni in modo
completamente diverso da ciò che io intendo. Ella pretende che, secondo
me, noi non facciamo altro che accorgerci di ciò che avviene dentro di
noi. Non so d onde Ella abbia ricavato quest’ idea; io ritengo invece che
noi facciamo tutto ciò che avviene in noi. (Lettera al Jaquelot).
II pensiero come unità della molteplicità e come azione: ecco due
concetti che saranno propri della filosofia idealistica postkantiana, cui
Leibniz giunge già qui con l’ approfondi mento del concetto di monade
come spirito. Le piccole percezioni. - Da tale concetto Leibniz
trae anche argomenti per affermare l’ innatismo, contro la negazione del
Locke, il quale nel suo * Saggio sull’ intelletio umano, si era opposto
al razionalismo cartesiano affermando che tutto viene aU’anima
esclusivamente dai sensi, cioè dal di fuori, come segni che si imprimano
su di una tabula rasa. I Nuovi saggi sull’ intelletto umano di Leibniz
sono tutti destinati ad una presa di posizione di fronte alle tesi del
Locke. Di essi verrà trattato in un volume a parte. Qui ci interessa solo
notare come raifermazione dell’ innatismo in Leibniz non si fondi
soltanto, come in Cartesio, su motivi razionalistici. Ciò che è innato allo
spirito, non deriva per lui unicamente dalle idee di ragiono. È innato anche
tutto ciò che è contenuto nell’anima, intesa come monade, cioè tutta la
serie dei rapporti di causa e di effetto di cui essa ha rappresentazione.
Tutto ciò costituisce il contenuto dell’anima, e non viene ad essa dal di
fuori ma fa parte di essa già fin dalla sua creazione; tutto 1 universo,
insomma, è già insito a priori nell’anima. Ma l’anima non ha
nozione attuale di tutto questo suo contenuto. Il campo della sua conoscenza è
limitato e si estende LA MONADE solo a ciò che le è pili
immediatamente a contatto. Come si concilia questo con la sua
universalità e con l’innatismo? Leibniz ricorre a* questo proposito alle
piccole percezioni o percezioni insensibili, le quali non cessano di influire
sull’anima, pur senza giungere alla sua coscienza. Esse appartengono
bensì dia rappresentazione deH’anima: l’anima però non ne ha consapevolezza.
In tal modo si viene a far concordare l’assoluto innatismo di ogni
verità, sia necessaria sia contingente, sia di ragione sia di fatto, con
la limitazione attuale delle nostre conoscenze. Le piccole percezioni
permettono a Leibniz di concepire la monade limitata insieme e
universale. La questione dell’origine delle nostre idee e dei
nostri principi non è preliminare nella filosofia, e bisogna esser
molto avanzati per risolverla bene. Credo tuttavia di poter dire che le nostre
idee, anche quelle delle cose sensibili vengono dal nostro proprio
intimo.... Non sono affatto favorevole alla tabula rasa di Aristotele; e vi è
del giusto in ciò che Platone chiamava reminiscenza. Vi è anzi di
piii, giacché noi non abbiamo soltanto una reminiscenza di tutti i nostri
pensieri passati, ma anche un presentimento di tutti i nostri pensieri
futuri. È vero che ciò avviene in modo confuso e senza distinguere questi
pensieri, press’ a poco come quando io odo il rumore del mare: odo
allora il rumore di tutte le onde particolari che compongono il
rumore totale, pur senza distinguere un'onda dall'altra. Così è vero, in
un certo senso, ciò die ho spiegato : cioè die non solo le nostre idee,
ma anche le nostre sensazioni (sentiments) nascono dal nostro fondo, e
che l'anima è più indipendente di quanto non si pensi; benché resti
pur vero che nulla avviene in essa che non sia determinato, e che
nulla è nelle creature, che non sia continuamente creato da Dio.
(Suri' Essay de l'entendement liutnain de Momùur Loci. dc.j o il ]( f-3,
G.Y, l(i). Si tratta di sapere se l' anima in se stessa sia
compietamente vuota, come delle tavolette in cui non si sia ancora scritto
nulla (tabula rasa), secondo l'opinione di Aristotele e dell'autore del
Saggio, e se tutto ciò che vi è tracciato derivi unicamente dai sensi e
dall'esperienza: oppure se l'anima contenga originariamente i principi di
varie nozioni e dottrine che gli oggetti esterni risvegliano soltanto
nelle varie occasioni, come credo io, d’accordo con Platone e anche
con la Scuola e con tutti coloro che prendono in questo significato il
passo di S. Paolo (Rom. 2,15), dove egli dice che la legge di Dio è
scritta nei cuori.... Possiamo noi negare che vi sia molto d’
iimato nel nostro spirito, dal momento che siamo innati - per così
dire - a noi stessi, e in noi stessi vi sono l’essere, l'unità, la
sostanza, la durata, il cambiamento, l'azione, la perfezione, il piacere e
mille altri oggetti delle nostre idee intellettuali? Ed essendo questi
oggetti immediati al nostro intelletto e sempre presenti (benché non possano
esser sempre percepiti a causa delle nostre distrazioni e dei
nostri bisogni), perchè meravigliarsi se noi diciamo che queste idee ci
sono innate con tutto ciò che ne dipende? Mi sono servito anche del
paragone di una pietra di marmo che abbia delle venature, anziché essere
tutta unita come le tavolette vuote o ciò che i filosofi chiamano
tabula rasa. Poiché, se l'anima somigliasse a queste tavolette vuote,
le verità sarebbero in noi come la figura d' Ercole è in un marmo, quando
questo marmo è completamente indifferente a ricevere questa figura o
qualche altra. Ma se vi fossero delle vene in quella pietra, elio
indicassero la figura di Ercole a preferenza di altre figure,
questa pietra sarebbe piii determinata, e Ercole vi sarebbe come
innato in qualche maniera ; quantunque sarebbe necessario un certo lavoro
per scoprile queste vene e polirle, eliminando ciò che impedisce loro di
apparire. E in questa guisa le idee e le verità ci sono innate come
inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali, e non
come azioni; benché queste virtualità siano sempre accompanate da qualche
azione, spesso insensibile, ad esse rispondente.... D'altronde, vi sono mille
segni i quali mostrano che in ogni istante vi è in noi un' infinità di percezioni,
prive però di appercezione e di riflessione, cioè cambiamenti nell’anima
stessa, di cui noi non ci accorgiamo perchè le impressioni sono troppo
piccole o troppo numerose o troppo unite fra di loro in modo da non aver
nulla che lo distingua partitamente ; ma, unito ad altre, non
mancano di produrre il loro effetto e di farsi sentire per lo meno
confusamente nell’ insieme. Così l'abitudine fa sì che noi non ci
accorgiamo del movimento di im mulino o di una cascata, quando vi abbiamo
abitato vicino per qualche tempo. Ciò non significa che tali movimenti
non continuino a colpire i nostri organi, e che non avvenga anche
nell’anima qualche cosa che vi risponda ...., ma queste inpressioni che sono
nell’anima e nel corpo, prive dell'attrattiva della novità, non sono abbastanza
forti per attirare la nostra attenzione e la nostra memoria, le quali
sono rivolte ad oggetti più interessanti. Giacché ogni attenzione
richiede memoria, e spesso, quando non siamo per così dire ammoniti ed
avvertiti di prestare attenzione a talune delle nostre percezioni
presenti, le lasciamo passare senza riflessione e senza neppur notarle; ma se
qualcuno ce ne avverte subito dopo, e ci fa osservare per esempio un qualsiasi
suono che si sia appena inteso, ce ne ricordiamo, e ci accorgiamo di
averne avuto poco fa una sensazione. Così si trattava di percezioni di cui
non ci eravamo accorti immediatamente, derivando in questo caso l'appercezione
solo dall' avvertimento venuto dopo un intervallo sia pur minimo. Non si
dorme mai tanto profondamente da non aver qualche sensazione debole e
confusa, e non si sarebbe mai svegliati neppure dal più grande rumore del
mondo, so (1) Appercezione » significa percezione cosciente (A
j>ercevoir: accorgersi) Cfr. Monadologia non si avesse una qualche
percezione del suo inizio, che è piccolo; cosi come, neppure col più
grande sforzo del mondo, non si romperebbe mai una corda so essa
non fosse tesa e allungata un poco attraverso sforzi minori; per
quanto questa piccola estensione da essi prodotta, non appaia.
(Nuovi .Saggi, Prelazione). Do Ila rappresentazione e percezione si
parlerà più a lungo nel volume che tratterà dei Nuovi Saggi. Qui è
interessante notale come lo sviluppo del concetto di monade influisca direttamente
anche su tutti i problemi gnoseologici. La monade assume sempre più le
caratteristiche dello spirito. Universale, priva di estensione, eterna,
indistruttibile, dotata di rappresentazione e azione, essa diviene come
la pietra con cui l’edificio deH’universo è stato costruito. Essa è
spirito; ma tutto, anche la materia, consta di monadi; sia, il mondo
materiale sia il mondo spirituale la devono assumere come punto di partenza. Da
questa concezione della monade come elemento costitutivo del mondo, e
dall’ impegno di giustificare tutto attraverso essa, sorgono nuovi
sviluppi. Non si tratta più ora di studiare questo principio sostanziale
nella sua. intima costituzione: si tratta di vederlo agire nel
mondo. I problemi che si pongono a questo proposito si
possono ridurre a tre: quello dei rapporti della monade con la
suprema sostanza spirituale, cioè Dio; quello dei rapporti delle
varie monadi tra loro; e quello della giustificazione di una natura
corporea. Vedremo corno questi problemi siano vicendevolmente collegati.
Le monadi e dio; accordo tra le monadi. - La rappresentazione di tutto
l'universo e la tendenza alla propria realizzazione che ciascuna monade
tiene in sè, sono analoghe alla tendenza e alla rappresentazione che
caratterizzano la divinità. Per questo riguardo la monade non è diversa da
Dio. L) altro lato essa è una creatimi di Dio; e il suo aspetto di
creatura consiste proprio nel punto di vista particolare da cui essa
agisce e si rappresenta il mondo. In tale rappresentazione ciascuna
monade è completa in sè stessa, nè è possibile che alcunché provenga ad
essa dal di fuori: tutte lo sue affezioni, passate, presenti e future,
sono già contenute in ossa. La sua rappresentazione del mondo è già
chiusa in sè: il suo contenuto corrispondo al contenuto delle altre
monadi, allo stosso modo che due panorami di una città da punti di vista
diversi si corrispondono senza influenzarsi a vicenda. Questa completezza
della monade chiusa in sè stessa, è espressa da Leibniz con due detti
celebri: il primo, che le monadi non hanno finestre', il secondo, che basta
all’esistenza e universalità della monade, che ci sia Dio ed essa sola al
mondo. Dio produce diverse sostanze, a seconda delle visioni
differenti che egli ha dell' universo -, e, attraverso V intervento di
Dio, la natura propria di ciascuna sostanza fa sì che ciò che accade all'
una, corrisponda a ciò che accade a tutte le altre, senza però che l’una
agisca immediatamente sull’ altra. È in primo luogo
chiarissimo che le sostanze create dipendono da Dio, il quale le conserva, anzi
le produce continuamente per ima specie di emanazione, così come noi
produciamo i nostri pensieri. Infatti, dato che Dio volge, per così dire,
da tutte le parti e in tutte la maniere il sistema generale dei fenomeni
ch’egli crede bene di produrre per manifestare la sua gloria, e guarda
tutti gli aspetti del mondo in tutti i modi possibili (poiché nessun rapporto
sfugge alla sua onniscienza); ne consegue che il risultato di ciascuna visione
dell’universo da un determinato punto di vista, è una sostanza che
esprime l’universo in modo conforme a tale visione, se Dio crede bene di
rendere il suo pensiero effettivo e di produrre tale sostanza. E
poiché la visione di Dio è sempre veritiera, lo sono altresì le nostre
percezioni : ma ciò che ci inganna sono i nostri giudizi, che dipendono
da noi. Ora noi abbiamo detto sopra, e discende dalle nostre ultime
affermazioni, che ciascima sostanza è come un mondo a parte,
indipendentemente da qualsiasi altra cosa all’ infuori di Dio. Così tutti
i nostri fenomeni, cioè tutto ciò che ci potrà mai accadere, non è che
una conseguenza del nostro essere. E poiché questi fenomeni conservano un
certo ordine conforme alla nostra natura, o. per così dire, al mondo elio
è in noi - onde possiamo fare osservazioni utili a regolare la nostra
condotta e giustificate dall' avverarsi dei fenomeni futuri, e possiamo
spesso arguire senza errare 1’ avvenire dal passato . basterebbe questo
per dire che tali fenomeni sono veri, senza preoccuparsi se essi
siano fuori di noi e se anche gli altri li percepiscano. Tuttavia è
pur vero che le percezioni o espressioni di tutte le sostanze si rispondono
vicendevolmente, in modo che ciascuno, seguendo accuratamente certe ragioni o
leggi che ha osservate, s’ incontra con l' altro che fa altrettanto ;
così come, quando più persone si sono accordate di trovarsi insieme
in un determinato luogo e in un determinato giorno, lo possono fare
effettivamente se vogliono. Ora. nonostante che tutti esprimano i
medesimi fenomeni, non per questo le loro espressioni sono perfettamente
simili, ma basta che siano proporzionali: così come vari spettatori
credono di vedere la medesima cosa, e infatti si intendono vicendevolmente, per
quanto ciascuno veda e parli secondo la misura della sua vista.
Ora solamente Dio (dal quale emanano continuamente tutti gli
individui, e il quale vede l'universo non solo come lo vedono essi, ma
anche in modo completamente diverso) è causa di tale corrispondenza dei
loro fenomeni, e fa sì che ciò che è specifico di uno sia comune a
tutti; altrimenti non vi sarebbe alcun legame. Si potrebbe dunque dire —
in certo modo e in senso esatto, per quanto lontano dall'uso comune che
una sostanza particolare non agisce mai su di un'altra sostanza
particolare nè è affetta da essa, se si considera che ciò che accade a
ciascuna non è che una conseguenza della sola sua idea o nozione completa
; poiché tale idea contiene già tutti i predicati o eventi, ed esprime
tutto l’universo. Infatti, niente ci può toccare se non pensieri e
percezioni, e tutti i nostri pensieri e le nostre percezioni future non
sono che conseguenze (sia pur contingenti) dei nostri pensieri e
percezioni precedenti; in modo che, se io fossi capace di considerare
distintamente tutto ciò che mi accade o mi appare in questo istante, vi
potrei vedere tutto ciò che mi accadrà o mi apparirà in eterno; e ciò non
verrebbe a manóare e mi accadrebbe pur sempre, se anche tutto ciò che è
fuori di me fosse distrutto, purché non rimanesse se non Dio e io stesso. (Discovra
de métaphysique). La differenza fra la monade e Dio consisto dunque in
ciò, die la monade è rappresentazione del mondo da un solo punt o
di vista; mentre Dio li raccoglie e riassume tutti in sé. E <|uesto è
anche il fondamento dell’accordo delle monadi fra di loro, pur mantenendo
ciascuna la sua autonomia e indipendenza. Le percezioni confuse e
l’azione reciproca delle monadi. - Ma anche per un altro lato si distingue la
monade da Dio: perla minor chiarezza e precisione della sua
rappresentazione. Con le percezioni confuse Leibniz riprende il concetto
delle piccole percezioni. Ma mentre quelle servivano a dimostrare in ogni anima
la presenza - sia pure incosciente e indistinta - di tutto il contenuto del
mondo, queste fanno ravvisare in tale incoscienza e confusione la causa
della imperfezione propria di ciascuna monade. Nella rappresentazione delle
monadi sono contenuti bensì tutti i legami di causa ed effetto che
costituiscono l’universo: ma non come percezione chiara, distinta,
perfettamente sviluppata. Man mano che ci si allontana dal punto di
partenza che costituisce 1 individualità essenziale di ciascuna
monade, tale percezione si fa indistinta e confusa. E la deficienza
deriva dalla imperfezione che è propria delle creature. In Dio, che
è il luogo, per così dire, di tutte le monadi e raccoglie in sé gli
infiniti punti di vista, la rappresentazione dell’universo nella sua
totalità è sempre perfettamente chiara e distinta. Le percezioni dei
nostri sensi, quand' anche sono chiare, devono necessariamente contenere
una qualche sensazione confusa; poiché, dato che tutti i corpi
dell'universo simpatizzano, il nostro riceve 1’ impressione di tutti gli altri
: e quantunque i nostri sensi siano in rapporto col tutto, non è
possibile che la nostra anima possa por mente a tutto
particolareggiatamente. Questa è la ragione onde le nostre sensazioni
confuse sono il risultato di una varietà di percezione assolutamente
infinita. Così il mormorio confuso che vien udito da chi si avvicini alla riva
del maro deriva dalla riunione delle risonanze di imvumerevoli
onde. Ora, se fra varie percezioni (che non s'accordano affatto a
costituirne mia complessiva) non ve n’è alcuna che eccella al di sopra delle
altre, e se esse producono press’ a poco impressioni di uguale intensità
o ugualmente capaci di determinare l'attenzione dell'anima, l'anima non
può accorgersene se non confusamente. ( Discoltra de mélaphysique).
La differenziazione nella chiarezza della percezione è dunque ciò
che costituisce l'individualità di ciascuna monade e ciò che differenzia
le monadi una dall’altra. E anche spiega, in certo qual modo, come si
possa parlare - impropriamente però di azione, di una monade sull’altra.
Poiché noi attribuiamo ad altre cose, come a cause che agiscano su
di noi, ciò che percepiamo in un certo modo, bisogna considerare il
fondamento di questa opinione e ciò che vi è in essa di vero.
L'azione di una sostanza finita sull’altra no>i consiste se non nell’accrescimento
del grado della sua espressione, unito alla diminuzione di quello dell'altra,
in quanto Dio le obbliga ad accordarsi. Ma senza entrare in una
lunga discussione, basta ora, per conciliare il linguaggio metafisico con
la pratica, osservare che noi attribuiamo a noi stessi, e con
ragione, piuttosto i fenomeni che esprimiamo più perfettamente; e
clie attribuiamo alle altre sostanze ciò che ciascuna di esse esprime
meglio. Così ciascuna sostanza, clie è di estensione infinita in quanto esprime
tutto, diviene limitata per il modo della sua espressione più o meno
perfetta. In tal modo dunque si può concepire che le sostanze si impediscano
e limitino vicendevolmente; e quindi si può dire in questo senso che esse
agiscono l’ima sull'altra e sono obbligate, per così esprimersi, a
adattarsi l una all'altra. Giacché può avvenire che un cambiamento che
aumenti l’espressione dell - una, diminuisca quella dell'altra. Ora
la virtù di mia sostanza particolare è di bene esprimere la gloria
di Dio; ed è questo l'aspetto onde ossa è meno limitata. E qualsiasi cosa,
quando esercita la sua virtù o potenza, cioè quando agisce, cambia in
meglio e si sviluppa, in quanto agisce. E dunque, quando avviene un
cambiamento da cui più sostanze sono affette (e effettivamente ogni cambiamento
le tocca tutte), credo che si possa due che quella che per questo
cambiamento passa immediatamente ad un maggior grado di perfezione o
ad una espressione più perfetta, esercita la sua potenza e agisce;
e quella che passa ad un grado minore di perfezione, mostra la sua debolezza e
'patisce. Ritengo inoltre che ogni azione della sostanza che abbia una
qualche percezione, comporti un qualche 'piacere ; e ogni passione un
qualche dolore, e viceversa. Ma può tuttavia accadere che un vantaggio
presente sia distrutto da un male maggiore in seguito. D’onde deriva che
si può peccare pur nell' agire o nell’ esercitare la propria potenza e
provando piacere. (Discovra de méiuphysique). Le
percezioni confuse come corpo. - Percezione distinta è dunque nella
monade l’elemento attivo; percezione confusa l’elemento passivo. Ora noiT
si e già visto, a proposito delle leggi della forza e del movimento, che
Leibniz definisce l’azione come il principio spirituale, e la passione (o
passività) come quello materiale? Le percezioni confuse, in quanto
passive, rappresentano nella monade il principio corporeo. Ho
già detto che da un punto di vista rigorosamente metafisico, considerando
come azione ciò che a va- iene alla sostanza spontaneamente e dal suo
stesso fondo, tutto ciò che è propriamente una sostanza non fa (thè
agire, poiché tutto le proviene da sé stessa dopo che da Dio, e non è
possibile che una sostanza creata abbia influenza sull’altra. Ma, considerando
come azione un esercizio di perfezione, e passione il contrario, non vi è
azione nelle vere sostanze se non quando la loro percezione (e io
attribuisco percezione a tutte) si sviluppa e diviene più distinta;
e non vi è jxissione se non quando diviene più confusa. Di modo che
nelle sostanze capaci di piacere e di dolore, ogni azione è un avviamento
al piacere, e ogni passione al dolore. ( Nuovi Saggi).
Le ideo e verità innate non possono essere cancellate; ma sono
oscurate in tutti gli uomini (al loro stato attuale) dalla loro tendenza
verso i bisogni del corpo, e spesso ancor pili dalle cattive abitudini
sopravvenute. Tali caratteri di illuminazione interna sarebbero sempre
splendenti nell" intelletto e darebbero calore alla volontà, se le
percezioni confuse dei nostri sensi non si impossessassero della nostra
attenzione. È questa la lotta di cui parla la Sacra Scrittura e anche la
filosofia antica e la moderna. ( Nuovi Saggi). Si ha ragione
di chiamare, coi filosofi antichi, perturbazione o passione ciò che consiste
nei pensieri confusi, in cui vi è dell' involontario e dello sconosciuto
; ed è ciò che nel linguaggio comune si attribuisce non ingiustamente
alla lotta fra corpo e spirito, poiché i nostri pensieri confusi rappresentano
il corpo o la carne, e costituiscono la nostra imperfezione.
(Polemica eoi Bayle). D’altro lato, è interessante notare
elio Leibniz, proprio contemporaneamente alla definizione delle percezioni
confuse come provenienti dalla natura corporea, riafferma che esse non
hanno nulla di essenziale che no distingua la natura da quella
delle percezioni distinte; che è come dire che la natura corporea
non differisce essenzialmente dalla natura spirituali'. Si
concepiscono generalmente i pensieri confusi come di un genere
completamente diverso dai pensieri distinti, e il nostro autore (1)
giudica die lo spirito sia più unito al corpo attraverso i pensieri
confusi che attraverso quelli distinti. Ciò non è senza fondamento,
poiché i pensieri confusi indicano la nostra imperfezione, le nostre passioni,
la nostra dipendenza dall' insieme delle cose esteriori o dalla materia, mentre
la perfezione, forza, dominio, libertà e azione dell’anima consistono principalmente
nei nostri pensieri distinti. Tuttavia non è men vero che, in fondo, i
pensieri confusi non sono altro che ima molteplicità di pensieri in sé
stessi uguali ai distinti, ma tanto piccoli che ciascuno
separatamente non eccita la nostra attenzione e non è
distinguibile. Si può dire anzi che nelle nostre sensazioni ve ne è compresa
insieme una quantità veramente infinita. E in ciò consiste proprio la
grande differenza fra i pensieri confusi e quelli distinti....
. Così non bisogna punto concepire le sensazioni contuse come
qualche cosa di primitivo e di inesplicabile ; altrimenti le si mettono press’
a poco a pari con le antiche qualità di alcuni filosofi scolastici, (2) alle
quali non si farebbe (1) Il benedettino Francesco Lami, autore di
una Connotane de soy, nènie ( Parici, 1«99), con cui Leibniz è qui in
polemica. (2) Leibniz allude qui alla concezione scolastica
Becondocuiognisensa. zinne deriva da differenti « qualità sensibili » che
si muovono dai corpi esterni che sostituire queste sensazioni se si
volesse sostenere tale differenza essenziale; e ciò non sarei) he che
spostare la difficolta. E, quantunque sia vero che la loro
spiegazione completa superi le nostre forze a causa della troppo
grande molteplicità che esse implicano, non si cessa tuttavia di
penetrarvi sempre più, per mezzo di esperienze che fanno scoprire in esse
i fondamenti dei pensieri distinti. La luce e i colori ci forniscono
esempi di ciò. Queste sensazioni confuse, non sono neppur esse
arbitrarie; e io non sono d’accordo con l'opinione accettata oggi dai più
e seguita dal nostro autore, che non vi sia somiglianza o rapporto
fra le nostre sensazioni e le loro tracce corporee. Direi piuttosto che
le nostre sensazioni rappresentano ed esprimono perfettamente tali tracce.
Taluno dirà forse che la sensazione del calore non assomiglia al
movimento: sì. senza dubbio, non assomiglia a un movimento
sensibile quale quello della ruota di una carrozza; ma assomiglia
all' insieme dei piccoli movimenti del fuoco e degli organi che ne sono
la causa; o piuttosto non è se non la loro rappresentazione. Così la
bianchezza non assomiglia a uno specchio sferico convesso, e tuttavia non
è che 1' insieme di una quantità di piccoli specchi convessi quali si
vedono nella schiuma, guardandola da vicino. E se noi potessimo sempre
scoprire con la medesima facilità la causa delle nostre sensazioni,
troveremmo che essa si riduce sempre a qualche cosa del genere.
(Addition à l'Explication du systeme nouteau). Corporeità
nella monade. Immortalità. - Si è giunti dunque a concepire il corpo come
un semplice aspetto dello spirito: o meglio, corpo e spirito come due
diversi aspetti della per penetrare in noi. Tale concezione faceva
di ogni sensazione alcunché di primitivo, originario, irresolubile. Le
varie sensazioni derivano invece per Leibniz dal differente comportarsi
di un’unica sostanza, e la differenza fra confuso e distinte — cioè fra
anima e corpo - è differenza di grado, non essenziale. I.kihniz, La
monadologia. sostanza semplice originaria, o monade; la quale non è
in sè corporea, ma può, anzi deve svilupparsi in quanto aumenti o
diminuisca il suo grado di perfezione - come spirito o come corpo. Le
percezioni possono infatti divenire da confuse distinte, e viceversa.
Oltre alle percezioni di cui l'anima ha ricordo, essa ne ha una
quantità infinita di confuse, di cui non viene in chiaro; e attraverso
queste, essa rappresenta i corpi esterni, e giunge a pensieri distinti
diversi dai precedenti : perchè i corpi che essa rappresenta sono passati
d’ un tratto a qualche cosa che colpisce fortemente il suo. Cosi l’ anima
passa qualche volta dal bianco al nero o dal sì al no, senza sapere come,
o almeno in modo involontario. Poiché ciò che i suoi pensieri confusi e
le sue sensazioni producono in essa, si attribuisce al corpo. E non
Insogna dunque meravigliarsi se un uomo che mangia un dolce, e si
trova punto da un qualche animale, passa immediatamente, suo
malgrado, dal piacere al dolore. Intatti l animale era già in relazione
col corpo dell'uomo avvicinandosi ad esso prima di pungerlo, e la
rappresentazione di ciò colpiva già la sua anima, ma insensibilmente.
Tuttavia a poco a poco F insensibile passa al sensibile, nell' anima come
nel corpo ; e così l’anima si modifica da sè anche contro la sua
volontà; poiché essa è schiava, attraverso le sensazioni e i pensieri
confusi che si formano secondo gli stati del suo corpo e degli altri
corpi in rapporto al suo. Ecco dunque per quale meccanismo i piaceri si
interrompono, e a volte succedono i dolori senza che l'anima ne sia
sempre avvertita o vi sia preparata; come per esempio nel caso che
l'animale il quale pungerà si avvicini senza rumore; oppure, se fosse per
esempio una vespa, quando una distrazione ci impedisce di fare attenzione al
ronzio della vespa che si avvicina. Così non bisogna punto dire che
non è avvenuto nulla di nuovo nella sostanza di questa anima, per cui
essa passi alla sensazione della puntura: sono i presentimenti confusi o,
per meglio dire, le disposizioni insensibili dell'anima che rappresentavano la
disposizione alla puntura nel corpo. Osservazioni al Dizionario del Bayle,
G.). Discende anche necessariamente da tutto ciò che ogni monade, e
perciò ogni anima, sia fornita di un corpo. E, poiché ogni monade è
eterna e ind istrutt ibile, non solo l'anima è immortale, ma è anche
indistruttibile il corpo; e di morte, a ligoie, nella natura, non si può
parlare, ma solo di una composizione e scomposizione di vari elementi semplici
tra loro. Io ritengo non solo che queste anime o entelechie abbiano
tutte con sè un qualche corpo organico proporzionato alle loro percezioni; ma
anche che Io avi-anno sempre e lo hanno sempre avuto da quando esistono:
così non solo l'anima, ma anche l'animale stesso (o ciò che è analogo all
anima e all animale, per non fare questioni di parole) permane, e la
generazione e la morte non possono essere se non sviluppi e involuzioni
di cui la natura ci mostra visibilmente alcuni saggi, secondo il suo uso,
per aiutarci a indovinare ciò che nasconde. E quindi nè il terrò,
ne il fuoco, ne tutte le altre violenze della natura, qualunque rovina
portino nel corpo di un animale, non possono impedire all'anima di conservare
un qualche corpo organico, in quanto l'organismo, cioè l'ordine e
l'artificio, è qualche cosa di essenziale alla materia prodotta e organizzata
dalla sovrana saggezza: poiché la produzione deve sempre conservare
traccia del suo autore. Questo mi fa pensare anche che non vi sia alcuno
spirito separato Quanto è qui affermato contraddice solo in parte all'
ipotesi dell’armonia prostabilita, secondo la quale corpo e spirito sono due
sistemi separati, privi di influenze reciproche. Le percezioni confuse
dell’anima sono qui intese non come veraracute corporee, ma come
rappresentatrici nell'anima di ciò ohe avviene nel corpo. È innegabile però
clic Leibniz a volte attribuisce invece alle percezioni confuse un
carattere nettamente corporeo. completamente dalla materia, salvo l'essere
primo e sovrano. (Lettera a Mnsham). In natura e
secondo un rigore metafisico, non vi è nè generazione nè morte, ma solo
sviluppo e involuzione di un medesimo animale. Altrimenti vi sarebbe un
salto eccessivo, e la natura uscirebbe troppo dal suo carattere di
uniformità per un cambiamento essenziale inesplicabile. L’esperienza
conferma tali trasformazioni in alcuni animali, nei quali la natura
stessa ci ha mostrato un piccolo saggio di ciò che essa nasconde altrove.
L' osservazione anche permette ai più accorti osservatori di notare che
la generazione degli animali non è altro che un accrescimento aggiunto alla
trasformazione; il che consente di giungere alla conclusione che la morte
non può essere se non il contrario; consistendo la differenza solamente nel
fatto che in un caso il cambiamento si produce a poco a poco, e
nell’altro d’ un tratto e come violentemente. D'altronde, l'esperienza
mostra anche che un numero troppo grande di piccole percezioni poco
distinte, come quelle che vengono quando si è ricevuto un colpo alla testa, ci
stoidisce: e che in un deliquio avviene che noi ricordiamo - e dobbiamo
ricordare — così poco di tali percezioni, come se non ne avessimo avute
affatto. Dunque la regola delT uniformità ci deve permettere di non giudicare
diversamente anche della morte degli animali, secondo l'ordine naturale;
poiché la cosa è facile a spiegarsi in tale maniera già conosciuta e
sperimentata, ed è inesplicabile in qualsiasi altra maniera. Non è
intatti possibile concepire come cominci o termini 1 esistenza o 1 azione
del principio percettivo, nè la sua disgregazione. (Lettera
alla regina Sofia Carlotta di Prussia). (1) Cioè Dio, in uni non
esistono percezioni oscure, nò passività, e in cui tutto ò
realizzato. Gerarchia delle monadi. - La concezione delle
percezioni distinte e confuse come criteri di perfezione o
imperfezione, dà a Leibniz il modo di stabilire una graduazione tra le
varie monadi. Le percezioni più elevate e complesse saranno segni
distintivi delle monadi più elevate. Si forma così una vera e propria
gerarchia, i cui gradi inferiori rappresentano gli infimi staili della
vita vegetativa, i superiori le più alte vette della spiritualità. La
monade dell’uomo sta al culmine di questa ascesa; e ciò che le
attribuisce tale titolo di nobiltà sono le percezioni riflesse, onde essa
giunge alle idee astratte, all’autocoscienza, alla memoria di sè che le
garantisce la conservazione dellasua personalità individuale. AI di sopra
di tutto poi, come percezione sommamente distinta e completa, e oggetto
pure di ogni percezione particolare da parte delle monadi, è Dio. Ogni
monade, con un corpo particolare, costituisce una sostanza vivente. Così
non vi è solamente vita dappertutto, imita alle membra o organi, ma questa vita
si mostra in un' infinità di gradi nelle monadi, dominando le une più o
meno sulle altre. Ma quando la monade ha organi così bene adattati, che
per loro mezzo vi sia rilievo e distinzione nell' impressione che essi
ricevono, e quindi nelle percezioni che rappresentano tali impressioni
(come per esempio quando, per la conformazione degli umori degli
occhi, i raggi della luce sono concentrati e agiscono con maggior forza),
allora ciò può giungere fino al sentimento ( 1 ), che è una percezione
accompagnata da memoria, della quale cioè resta a lungo una certa eco,
per farsi sentire occasionalmente. E un tale essere vivente è chiamato
animale, così come la sua monade è chiamata anima. E quando quest’anima
s’ innalza fino alla ragione, essa è qualche cosa di più sublime, e la si
annovera fra gli spiriti, come spiegheremo or ora. È vero che gli animali
sono a volte nello stato di semplici esseri viventi e le loro anime Questo
termine (sentiment) è stato da noi a volte anche tradotto con la parola «
sensazione ». nello stato di semplici monadi: quando cioè le loro percezioni
non sono abbastanza distinte perchè ci se ne possa ricordare, come nel
caso di un sonno profondo senza sogni, o di uno svenimento. Ma le
percezioni divenute interamente confuse si devono sviluppare di nuovo negli animali....
Così è bene far distinzione fra la percezione, che è lo stato interiore
della monade che rappresenta le cose esterne, e la appercezione, che è la
coscienza o conoscenza riflessiva di quello stato interiore, e non è data
a tutte le anime, nè sempre alla medesima anima. Vi è nelle percezioni
degli animali un legame che ha qualche somiglianza con la ragione, ma non
è fondato che sulla memoria dei fatti o effetti, e non sulla conoscenza
delle cause. Così un cane fugge il bastone da cui è stato colpito, perchè
la memoria gli rappresenta il dolore che questo bastone gli ha prodotto. E gli
uomini, in quanto empirici, cioè nei tre quarti delle loro azioni,
non agiscono che come bestie: per esempio, prevediamo che domani
farà giorno perchè si è sempre fatta una tale esperienza: ma solo l'astronomo
lo prevede per via di ragione. E anche questa previsione fallirà una
volta, quando la causa del giorno, che non è eterna, cesserà. Ma il
vero ragionamento dipende dalle verità necessarie o eterne,come quelle
della logica, dei numeri, della geometria, che costituiscono la connessione
indubitabile delle idee e le conseguenze immancabili. Gli animali nei quali
tali conseguenze non si osservano, sono eliiamati bestie. Ma quelli che
conoscono queste verità necessarie, sono propriamente quelli che si
chiamano animali ragionevoli, e le loro anime sono chiamate spiriti.
Queste anime sono capaci di compiere atti riflessivi, e di considerare
ciò che si chiama io, sostanza, anima, spirito, insomma le cose e le verità
immateriali. Ed è questa facoltà che ci rende partecipi delle scienze o
dello conoscenze dimostrative. ( Principe* (Iti la nature et de la
yrucel). Differenza fra gli spiriti e le altre sostanze, anime o
forme sostanziali ; e dimostrazione che V immortalità di cui si vuol
sostenere l’esistenza, implica la memoria. Supposto che i
corpi che costituiscono unum per se, come l'uomo, siano sostanze e
abbiano fonile sostanziali, e che le bestie abbiano anima, bisogna
riconoscere elio tali anime e forme sostanziali non possono perire completamente,
non meno che gli atomi o le ultimo parti della materia, secondo
l’opinione degli altri filosofi; giacché nessuna sostanza perisce, per quanto
possa mutarsi. Esse esprimono tutto l’universo, benché più imperfettamente
che gli spiriti. Ma la principale differenza consiste nel fatto che esse
non conoscono ciò che sono, nè ciò che fanno, e quindi, non potendo fare
riflessioni, non possono scoprire verità necessarie e universali. La
mancanza di riflessione su sé stesse è pure la ragione per cui esse
non posseggono alcuna qualità morale : ne deriva che, passando esse
per mille trasformazioni - press’a poco come un bruco si muta in farfalla
- ciò equivale per la morale o pratica ( 1 ) a dire che esse periscono. Si
può anzi dirlo, da un punto di vista fisico, così come diciamo che i
corpi periscono per corruzione. Ma l' anima intelligente, conoscendo ciò
che essa è, e potendo dire quella parola io che ha un così profondo
significato, non solo permane e sussiste metafisicamente anche piii delle
altre, ma rimane la medesima anche moralmente, e costituisce il medesimo
personaggio. Giacché è il ricordo o la conoscenza di quell’ io che la
rende passibile di castigo o di ricompensa. Così 1’ immortalità
ciie si richiede nella morale e nella religione non consiste nella sola
sussistenza perpetua che appartiene a tutte le sostanze; poiché, senza il
ricordo di ciò che si è stati, non (1) Morale, ha per Leibniz e
per tutti i filosofi del suo tempo anche il significato di pratico,
contingente, empirico. Si ò già visto (p. 27 ss.) come la nooessità
morale si applichi alle verità di fatto e si contrapponga alla necessità di
ragione, che dà l’assoluta cortezza, l’impossibilità del contrario.
avrebbe nulla di desiderabile. Supponiamo che un privato qualsiasi debba
divenire ad un tratto re della Cina, ma a condizione di dimenticare ciò
ch'egli è stato, come se nascesse di nuovo. Ebbene, in pratica e quanto
agli effetti di cui ci si può accorgere, non è forse come se egli dovesse
essere annientato, e dovesse venir creato nel medesimo istante al suo posto un
re della Cina? Cosa che questo privato non ha alcuna ragione di
desiderare. Eccellenza degli spiriti, che Dio considera a
preferenza delle altre creature. Oli spiriti esprimono piuttosto Dio che il
mondo, ma le altre sostanze esprimono piuttosto il mondo che Dio.
Ma, per permettere di giudicare attraverso ragioni naturali che Dio
conserverà sempre non soltanto la nostra sostanza, ma anche la nostra persona,
cioè il ricordo e la conoscenza di ciò che noi siamo (benché la conoscenza
distinta ne sia a volte sospesa nel sonno e negli svenimenti),
bisogna unire la morale alla metafisica: cioè non bisogna soltanto
considerare Dio come il principio e la causa di tutte le sostanze e di tutti gh
esseri, ma anche come il capo di tutte le persone o sostanze
intelligenti, e come il monarca assoluto della più perfetta città o repubblica,
quale è quella dell' universo, composta di tutti gli spiriti insieme;
essendo Dio stesso insieme il più completo di tutti gli spiriti e
il massimo di tutti gli esseri. Sicuramente infatti gli spiriti
sono le sostanze pili perfette e che esprimono meglio la divinità. Ed
essendo la natura, il fine, la virtù e la funziono delle sostanze nuli’ altro
che di esprimere Dio e l’universo (come è già stato spiegato a sufficienza) non
vi è ragione di dubitare che le sostanze che lo esprimono con
conoscenza di ciò che esse fanno, e che sono capaci di conoscere grandi
verità riguardo a Dio e all' universo, non lo esprimano incomparabilmente
meglio che quelle nature che sono o brute e incapaci di conoscere le
verità, o completamente prive di sentimento e di conoscenza: e la differenza
fra lo sostanze intelligenti e quelle che non lo sono è così grande come
quella che c’è fra lo specchio e colui che vede. E poiché Dio
stesso è il piii grande e il più saggio degli spiriti, è facile
comprendere che gli esseri coi quali egli può, per così dire, entrare in
conversazione e perfino in società comunicando ad essi i suoi sentimenti
e le sue volontà in modo particolare e in guisa che essi possano
conoscere ed amare il loro benefattore, lo devono interessare infinitamente pi
fi che il resto delle cose, le quali non possono essere considerate se
non come strumenti degli spiriti: così come noi vediamo che tutte le
persone sagge hanno molto maggior stima dell'uomo che di qualsiasi altra
cosa, sia pur preziosissima. E la pili grande soddisfazione che possa
avere un’anima, per altri riguardi contenta, è di vedersi amata dagli
altri. Vi è tuttavia, riguardo a Dio, questa differenza: chela sua gloria
e il nostro culto non possono aggiungere nulla alla sua soddisfazione; non
essendo la conoscenza delle creatine se non una conseguenza della
sua sovrana e perfetta felicità, ben lungi dal contribuirvi o dall’esseme
in parte la causa. Tuttavia, ciò che è buono e ragionevole negli spiriti
finiti, si trova eminentemente in lui. E come noi loderemmo un re che
preferisse conservare la vita di un uomo che quella del più prezioso e
più raro fra i suoi animali, così non dobbiamo affatto dubitare che
il più illuminato e il più giusto di tutti i monarchi non abbia il
medesimo sentimento. Dio è il monarca delta più perfetta repubblica
composta di tutti gli spirili-, e il suo principale intento è la felicità
di questa città di THo. Effettivamente gli spiriti sono le
sostanze massimamente sus*cettibili di perfezione. E le loro perfezioni
hanno questo di particolare: che non si intralciano a vicenda, anzi
si aiutano; poiché soltanto i piti virtuosi potranno essere i più perfetti
amici. Ne segue chiaramente che Dio. il quale tende sempre alla massima
perfezione universale, avrà più cura degli spiriti e darà ad essi non
soltanto in generale ma anche a ciascuno in particolare, il massimo di
perfezione permesso dall'armonia universale. Si può anzi dire che
Dio. in quanto è uno spirito, è l'origine delle esistenze; altrimenti, se
gli mancasse la volontà per scegliere il migliore, non vi sarebbe alcuna ragione
affinchè esistesse un possibile a preferenza di altri. Così la qualità
posseduta da Dio, di essere egli stesso uno spirito, precede tutte le
altre considerazioni che egli può avere riguardo alle creature: solo gli
spiriti sono fatti a sua immagine, appartengono quasi alla sua razza e
sono come i figli della casa, perchè essi soli possono servirlo li
fieramente e agire coscientemente ad imitazione della natura divina: un solo
spùito vale tutto un mondo, perchè non solo lo esprime, ma lo conosce
pure, e vi si comporta al modo di Dio. Così sembra che, quantunque ogni
sostanza esprima tutto l'universo, pine le altre sostanze esprimono piuttosto
il mondo che Dio, ma gli spiriti esprimono piuttosto Dio che il mondo. E
tale natura così nobile degli spiriti, ohe li avvicina alla divinità
quanto è possibile a semplici creatine, fa sì che Dio tragga da essi
gloria infinitamente maggiore che dagli altri esseri : o piuttosto
gli altri esseri non fanno che dare agli spiriti argomenti per
glorificare Dio. Questa è la ragione per cui quella qualità morale
di Dio che lo rende signore o monarca degli spiriti, lo tocca, per
così dire, personalmente in modo affatto smgolare. È in ciò ch'egli si
umanizza, ch'egli soffre rapporti umani, eh' egli entra in società con
noi, come un principe con i suoi sudditi; e tale rapporto gli è così
caro, che lo stato felice e fiorente del suo impero, consistente nella
massima felicità possibile dei suoi abitanti, diviene la suprema
delle sue leggi. Poiché la felicità è per le persone ciò che la perfezione è
per gli esseri. E se il primo principio dell'esistenza del mondo fisico è il
decreto di dargli il massimo di perfezione possibile, il primo disegno del
mondo morale o della città di Dio, clie è la parte pili nobile dell'universo,
sarà di diffondervi il massimo di felicità possibile. Non bisogna
dunque affatto dubitare che Dio non abbia ordinato il tutto in modo che
gli spiriti non solo possano vivere sempre, il che è inevitabile, ma
anche ch'essi conservino sempre la loro qualità morale, affinchè la sua
città non perda alcuna persona, così come il mondo non perde alcuna
sostanza. E quindi gli spiriti saranno sempre ciò che sono, altrimenti
non sarebbero suscettibili di ricompensa nè di castigo: il che d'altra parte
appartiene all'essenza di qualsiasi repubblica, ma sopratutto della
più perfetta, nella quale nulla può essere negletto. Ingomma,
essendo Dio contemporaneamente il più giusto e il più benevolo dei
monarchi, e non richiedendo se non la buona volontà, purché sia sincera e
seria, i suoi sudditi non potrebbero desiderare una condizione migliore.
E, per renderli perfettamente felici, egli vuole soltanto che lo amino.
Gesù Cristo Ita scoperto agli uomini, il mistero e le leggi ammirevoli
del regno dei cieli e la grandezza della suprema felicità che Dio prepara
a coloro che lo amano. I filosofi antichi non hanno abbastanza
conosciuto queste importanti verità: Gesù Cristo solo le ha espresse divinamente
bene, o in modo così chiaro e famigliare, che gli spiriti più grossolani
le hanno potute concepire. Così il suo Evangelo ha cambiato completamente
la faccia delle cose umane: egli ci ha mostrato il regno dei cieli, o
quella perfetta repubblica degli spiriti che merita il titolo di
città di Dio, di cui ci ha scoperto le leggi ammirevoli: egli solo
ha mostrato come Dio ci ami, e con quale esattezza abbia provveduto a
tutto ciò die ci riguarda; che. preoccupandosi dei passerotti, non trascurerà
le creature ragionevoli che gli sono infinitamente più care; che tutti i capelli
della nostra testa sono contati; che cadranno il cielo e la terra, prima
che sia cambiata la parola di Dio e ciò che riguarda l'economia della
nostra salvezza; che Dio ha più riguardo alla minima anima intelligente,
che a tutta la macchina del mondo; che noi non dobbiamo temere ciò
che può distruggere il corpo ma non può nuocere all' anima, perchè solo
Dio può rendere l'anima febee od infebee; che le anime dei giusti sono
nella sua mano al coperto da tutte le rivoluzioni dell'universo, e nulla
può agire su di esse se non Dio solo; che nessuna delle nostre azioni
viene dimenticata; che tutto viene messo in conto, anche lo parole
oziose, anche un cucchiaio d’acqua ben impiegato: infine, che tutto deve
riuscire per il maggior bene dei buoni; che i giusti saranno come dei
soli, e che nè i nostri sensi nè il nostro spirito non hanno mai gustato
nulla che si avvicini aUa febeità che Dio prepara a coloro che lo
amano. ( JJiecours de mélaphysique. Così termina il
Discours de métaphysique : nel quale, dal principio della differente
chiarezza di percezione nelle varie monadi, si giunge ad una gerarchia
degli esseri, e alla definizione deU’anima o della personalità umana in sè e
nei suoi rapporti con la natura divina. Tale costruzione permette a
Leibniz uno di quegli sguardi armonici e complessivi su tutto
("universo, in cui fenomeni tìsici, concetti scientifici o filosofici,
principi morali, dogmi religiosi coincidono in una suprema armonia.
La materia come aggregato. - Si è studiata finora la natura del corpo
come elemento essenziale della monade, inseparabile. dall'anima. Ma c’è per
Leibniz un modo rii considerare il mondo materiale da un altro punto di vista.
La materia può essere vista anello altrimenti che come forza passiva, appartenente
a ciascuna delle sostanze fondamentali onde consta il mondo, o come ciò
che vi è di confuso e indistinto nella percezione della monade. Materia
è, pili concretamente, tutto ciò che ci sta intorno; tutto ciò che, nei
suoi vari aspetti, cade sotto i nostri sensi. Ora, questa materia, a
volerla analizzare più a fondo, consterebbe anch essa di unità
sostanziali, di monadi: pur tuttavia ci si presenta, così composita,
senza caratteri di attività o di spiritualità. La sua materialità non
dipende dalle unità che la costituiscono (e sappiamo che non esistono
unità che siano puramente materiali), ma dal fatto stesso di non essere
un’unità, ma un gruppo di unità: un <kj gregaio. Quanto alle
forme sostanziali o entelechie primitive..., io non le approvo se non
quando le si considera sostanze semplici, capaci di percezione e di
appetito, insomma anime, o qualche cosa che abbia analogia con l’anima, e
che si potrebbe chiamare principio di vita: e ritengo infatti che
tutta la natura sia piena di corpi organici viventi. Così non ritengo in
verità che una pietra sia essa stessa una sostanza corporea animata o
dotata di un principio di Ilo unità o di vita; ma ritengo
che in essa vi siano dappertutto di tali principi; e che non vi sia alcuna
parte di materia nella quale non si trovi un animale o una pianta o
qualche altro corpo organico vivente (quantunque di organico vivente noi
non conosciamo che le piante e gli animali). Così una massa di materia
non è propriamente ciò che io chiamo una sostanza corporea, ma
un'ammasso e una risultante ( aggregatovi ) di una infinità di tali sostanze,
come lo è un gregge di pecore o un mucchio di vermi. (
Éclaircissement sur les natures plastiques, G. VI, 550). Non dirò,
come mi si accusa, che ci sia una sola sostanza di tutte le cose e che
questa sostanza sia lo spirito. Vi sono invece tante sostanze distinte
quante sono le monadi, e tutte le monadi non sono spiriti. E queste
monadi non compongono affatto un tutto effettivamente unitario. Questo
tutto, se esse lo componessero, non sarebbe in nulla uno spirito. Mi
guardo pure dal dire che la materia sia un'ombra o un nulla. Sono
espressioni esagerate. Essa è un ammasso, non substantia seti substa
ntiatum, cosi come sarebbe un esercito, un gregge; e in quanto la si
consideri come componente una cosa unica, è un fenomeno; fenomeno ben
reale effettivamente, ma la cui unità è determinata dal nostro
concepirla. (Frammento, G.). L aggregato come eenomeno.
- La materia, intesa in questo modo, non viene ad avere nulla di reale. La sua
essenza consiste appunto nel fatto di essere una riunione di
sostanze reali: in sé stessa, essa è dunque qualche cosa di
costruito, (li artificiale. Quando viene osservata a fondo, si dissolve
necessariamente nei suoi componenti. Leibniz esprime ciò col dire che
essa ha natura fenomenica { 1). (1) Fenomenico (da «palvopai,
appaio), è termine usato fin da Platone per indicare ciò che non ha
realtà assoluta, ma è una apparenza. Sembra che a rigore i corpi non
meritino affatto il nome di sostanze; e questa pare esser già stata
l’opinione di Platone, il quale ha osservato che essi sono esseri transeunti,
i quali non sussistono mai più di un istante. Ma questo è un punto che
richiede più ampia discussione; e io ho altre ragioni importanti che mi
conducono a rifiutare ai corpi il titolo e il nome di sostanze, metafisicamente
parlando. Perchè, per dirla in una parola, il corpo non ha affatto una
vera unità; non è che un aggregato, che la scuola chiama puro accidente ; un
insieme, come mi gregge. La sua unità deriva dalla nostra perfezione. È
un essere di ragione o piuttosto di immaginazione, un fenomeno.
(Evlretien de Philarète et d’ Ariste, G. VI, 58(>). I
corpi non possono essere sostanze propriamente dette, poiché sono sempre
solamente delle unioni, risultanti di sostanze semplici o vere monadi, le
quali non sono estese e perciò non sono veri corpi. Onde i corpi
presuppongono sostanze immateriali. ( Lettera a Masham).
II continuo e il discreto. — Di qui Leibniz trae nuovi argomenti
per dimostrare 1 irrealtà della natura corporea in generale e la
necessità di ricorrere, di là da essa, a qualche cosa che sia fornito di
più solida validità. Acquista anche nuova forza la sua negazione del
concetto di estensione. La monade in sè non è estesa; non è considerabile
se non come un « punto metafìsico ». L'*estcnsione non può derivare che
da una molteplicità, una ripetizione: in questo senso essa è
puramente fenomenica, così come lo è l’aggregato. La differenza
consiste nel fatto che la materia come aggregato è discreta, cioè composta
di un ammasso di unità indivi si biìn e Féstensione invece è continua, cioè
divisibile all" infinito. A maggior ragione essa non sarà nulla di
reale, ma un semplice ordine di rapporti spaziali, così come il tempo è
un ordine di rapporti successivi. Non vi sono se non gli atomi di
sostanza, cioè le unità reali e assolutamente prive di parti, che siano
le origini delle azioni e i primi principi assoluti della composizione
delle cose, e come gli ultimi elementi dell’analisi delle cose sostanziali.
Si potrebbe chiamarli punti metafìsici : hanno alcunché di vitale e una
specie di percezione, e i punti matematici sono i loro punti di vista per
esprimere l'universo. Ma (piando le sostanze corporee sono ristrette
insieme, tutti i loro organi non costituiscono se non un punto fisico riguardo
a noi. Così i punti fìsici non sono indivisibili se non in apparenza: i
punti matematici sono esatti, ma non sono che modalità; e solo i punti
metafisici o sostanziali (costituiti dalle forme o anime) sono esatti e reali.
E senza di essi non vi sarebbe nulla di reale, poiché senza le vere
unità non vi sarebbe alcuna molteplicità. ( Syslème noureau).
Benché la materia consista in un ammasso di sostanze semplici
innumerevoli, e la durata delle creature, così come il movimento attuale,
consista in un ammasso di stati momentanei, tuttavia bisogna dire che lo
spazio non è affatto composto di punti nè il tempo di istanti, nè il movimento
matematico di momenti, nè la tensione di gradi estremi. Il fatto è che la
materia, lo scorrere delle cose, e insomma ciascun composto attuale, è
ima quantità discreta, ma che lo spazio, il tempo, il movimento matematico,
la tensione e l’ accrescimento continuo nella velocità e in altre qualità, e
insomma tutto ciò la cui valutazione appartiene al campo delle possibilità, è
una quantità continuata e indeterminata in sé stessa, o indifferente alle
parti che vi si possono prendere e che vi si prendono attualmente in
natura. La massa dei corpi è divisa attualmente in modo determinato, e nulla
non vi è esattamente continuato; ma lo spazio o la continuità perfetta
che è nell' idea, non indica se non una possibilità indeterminata
di dividere come si vuole. Nella materia e nelle realta attuali, il tutto
è un risultato di parti: ma nelle idee e nei possibili (che comprendono
non solamente questo imiverso, ma anche qualsiasi altro che possa essere
concepito e che T intelletto divino si rappresenti effettivamente),
il tutto indeterminato è anteriore alle ilivisioni, come la nozione dell'
intero è più semplice che quella delle frazioni, e la precede....
Per meglio concepire la divisione attuale della materia all'
infinito e l'esclusione che vi è in essa di ogni continuità esatta e
indeterminata, bisogna considerare che Dio vi ha giti prodotto tanto
ordine e tanta varietà, quanto era possibile di introdurvi finora, e che
così nulla vi è rimasto di indeterminato, mentre 1' indeterminazione è
l'essenza della continuità. Questo apprende il nostro spirito dalla
perfezione divina; e l'esperienza lo conferma attraverso i sensi. Non vi è
goccia d'acqua così pura, che non vi si possa osservare qualche varietà,
guardandola bene. Un pezzo di pietra è composto di determinati granuli, e
al microscopio questi granuli appaiono come rocce nelle quali vi
sieno mille giochi di natura. Se la forza della nostra vista aumentasse
continuamente, troverebbe sempre campo per esercitarsi. Dappertutto vi
sono varietà attuali, e mai una perfetta miiforinità. Nè vi sono due
parti di materia completamente simili l ima all’altra, sia nel grande,
sia nel piccolo. (Lotterà alla elettrioe Sofia di Hannover).
Materia trema e seconda. - Il continuo è dunque spazialità (o temporalità
eco.) astratta; il discreto è aggregato, o materia. E della materia
Leibniz ha due concezioni diverse: da un lato quella che abbiamo vista al
Capitolo 111, come potenza passiva primitiva, come quel substrato di resistenza,
densità, « anti tip' a», al quale si applica la forza, trasformandola in
attività, entelechia; d’altro lato questo concetto di aggregato, composizione,
costruzione artificiale posteriore alla monade, non avente in sè una vera e
propria sostanzialità. Per distinguere tali due modi diversi di
considerare la materia, Leibniz usa i due termini di materia prima e
materia seconda. H. Leibniz, La mvnailoloi/ia.
Nei corpi io distinguo la sostanza corporea dalla materia, e distinguo la
materia prima dalla seconda. La materia seconda c un aggregato o composto di
varie sostanze corporee, come un gregge è composto di vari animali.
Ma ogni animale e ogni pianta, dal canto suo, è una sostanza
corporea, la quale ha in sè il principio dell' unità che fa sì die sia
veramente una sostanza e non un aggregato. E questo principio di unità è
ciò che si chiama anima, oppure qualche cosa che ha analogia con l'anima.
Ma oltre al principio dell’ unità, la sostanza corporea ha la sua
massa e la sua materia seconda, che è ancora un aggregato di altre sostanze
corporee più piccole, tino all' infinito. Tuttavia la materia primitiva o presa
in sè stessa, è ciò che si concepisce nei corpi mettendo da parte
tutti i principi dell' unità, è cioè ciò che vi è in essa di
passivo. Di qui derivano due qualità: resistenti a et restitantia
vel inertia. Cioè, un corpo non può essere penetrato, e cede
piuttosto a un altro corpo, ma non cede senza difficoltà e senza
diminuire il movimento complessivo di quello che lo spinge. Così si può
dire che la materia, in sè stessa, involve, oltre l'estensione, ima potenza
passiva primitiva. Ma il principio dell’unità contiene la potenza attiva
primitiva, o la forza primitiva, la quale non si perde mai e persevera
sempre in un ordine esatto delle sue modificazioni interne che rappresentano
quelle esterne. (Lettera a Burnett). L’anima e il
corpo. Attraverso il concetto di aggregato, Leibniz spiega anche la
costituzione dei .corpi organici e degli animali. TI loro corpo, egli
dice, è un aggregato, con una monade, per così dire, dominante e ordinatrice,
di natura sujieriore. Tale monade è l’anima e costituisce l’elemento permanente
di ciascun individuo. Definisco 1* organismo, o macchina naturale,
come una macchina, ciascuna parte della quale sia una macchina a sua
volta (1). Perciò la sottigliezza del suo artificio va all ? infinito,
poiché nulla è tanto piccolo da poter essere trascurato; mentre le parti
delle nostre macchine artificiali non sono a loro volta macchine. Questa
è la differenza essenziale fra la natura e forte, che i nostri moderni
non hanno ancora considerato abbastanza. (Lettera a Lady
Magliari), G. Ili, 356). lo distinguo: l.°) fentelechia primitiva o
anima. 2.°) La materia prima o potenza passiva primitiva. 3.°) La
monade, composta di queste due. 4.°) La massa, o materia seconda, o
macchina organica, a formare la quale concorrono innumerevoli monadi
subordinate. 5.°) L'animale o sostanza corporea, la cui unità è
determinata dalla monade dominante nella macchina. (Lettera al Le
Volder). E attraverso i due concetti di materia prima c seconda, si
formano pine duo concetti differenti di anima. Il primo, come principio
attivo insito nella monade, inseparabile dalla sua passività ; l’altro, come
quella monade a carattere più strettamente spirituale, che permane in
ciascun individuo, mentre le monadi formanti la massa del suo corpo
variano e si trasformano. La materia, senza le anime e forme o
entelechie, non è che passiva, e le anime senza materia non sarebbero
che attive: poiché la sostanza corporea completa veramente una,
chiamata dalla scuola unum per se (opposta all'essere per aggregazione),
deve risultare del principio dell' unità, che è attivo, e della massa che
costituisce la molteplicità e che sarebbe solamente passiva se essa non
contenesse se non la materia prima. Invece la materia seconda o
massa, che costituisce il nostro corpo, è tutta composta di parti che
sono in sé sostanze complete quando sono (1) Con la parola «
macchina » Leibniz intende qui, come già altrove, un organismo composito,
cioè formato di parti eterogenee.
altri animali o sostanze organiche animate o attuate a
parte. Ma l'ammasso di queste sostanze corporee organizzate che costituisce il
nostro corpo, non è imito alla nostra anima se non per quel rapporto che
deriva dall'ordine dei fenomeni naturali rispetto a ciascuna sostanza
particolare. £ tutto ciò mostra come si possa dire da un lato che l' anima
e il corpo sono indipendenti l'uno dall'altro, dall'altro che limo è
incompleto senza l'altro, poiché in natura l'uno non è mai privo
dell'altro. ( Additimi il l’explication <lu lyslèine noiueau, U.
JY, 572-3). Le lecci del mondo materiale e del mondo spirituale. In
qualunque modo la si intenda, sia come materia prima o potenza passiva,
sia come materia seconda o aggregato, la natura corporea ha dunque
qualche cosa di irreale. Nel primo caso essa è un’astrazione, anteriore,
|>er così dire, alla monade; qualche cosa che senza la forza attiva di
essa non è ancor nulla: semplice aspetto inizialmente passivo di quella
che sarà un’attiva unità. Nell'altro caso è pure un'astrazione; posteriore,
questa volta, alla monade: una riunione, un aggruppamento che rimanda però
sempre alla monade come al suo elemento costitutivo essenziale.
D’altro lato, però, la materia non è eliminabile dalla monade. Essa
le si accompagna sempre, come un momento, quasi, della sua natura. Momento
astratto sì, ma essenziale; attraverso il quale necessariamente si deve
passare per raggiungere la vera concretezza dell’entelechia, o
perfectihabies, nella traduzione di BARBARO (si veda). Questa materia che,
analizzata nel fondo della sua costituzione, si dissolve e perde ogni
realtà, puro ha ima parte fondamentale nel mondo concreto, naturale e
umano, come se lo rappresenta Leibniz. La monade è immateriale, si è
visto, eppure ritiene un suo aspetto materiale; così non vi è anima senza
corpo. Affermato questo, Leibniz va più in là, dimenticando quasi le sue
premesse che fanno della materia qualche cosa solo in funzione
dell’anima; e cerca leggi autonome e proprie del mondo materiale, ben
distinte da quelle del mondo spirituale. Egli ritorna quasi alla
concezione cartesiana, che aveva sempre combattuto, dell'anima e del corpo come
due sostanze separate. E, per giudtifìcare la distinzione, attribidsce al corpo
la legge meccanica sella causa efficiente, all'anima la legge vitale
della finalità. Questo due leggi, che abbiamo viste unite là dove il
principio della ragion sufficiente, nelle verità di fatto, rimandava
direttamente a Dio (1), ora sono applicate separatamente all’anima e al
corpo. Ciò è giustificabile anche, in parte, con la natura della
monade. Essa, si è visto, contiene in sè tutto lo sviluppo futuro
dell’universo allo stato di implicazione causale: l’effetto, cioè, è già
contenuto nelle cause che dovranno necessariamente produrlo. E questa
connessione causale puramente meccanica e deterministica, ha carattere
materiale. Per tale aspetto, la monade è materia: è cioè un punto
dell’universo perfettamente e necessariamente determinato dalle cause da cui
discende. D altro lato però, l’universalità si esplica nella monade come
rappresentazione e appetito. La totalità dei rapporti è contenuta in essa
allo stato di implicazione pregnante, cosciente e attiva. In questa
percezione e appetito, che Leibniz immagina tendente al bene e retta
dalla causa, finale del v migliore », egli fa consistere l’anima. Leibniz fa
anche coincidere questa nuova distinzione di anima-corpo, con l’altra in cui si
concepisce il corpo come percezione confusa e l’anima come percezione
distinta. Tutto nei corpi avviene meccanicamente, cioè attraverso le
qualità intelligibili dei corpi, quali la grandezza, la figura, e il
movimento; e tutto nelle anime deve essere spiegato vitalmente, cioè
attraverso le qualità intelligibili dell anima, quali la percezione e
l’appetito. E nei corpi animati noi vediamo esservi una mirabile armonia
tra vitalità e meccanismo, se ciò che avviene nel corpo meccanicamente
viene rappresentato vitalmente nell’anima; e ciò che viene percepito
esattamente nell’anima, nel corpo ottiene la sua completa
esecuzione. Ne deriva che, conosciute le qualità del corpo,
possiamo curare le malattie dell’anima e, conosciute lo qualità dell’anima,
curare le malattie del corpo. È infatti a volte più facile sapere ciò che
avviene nell’ anima che ciò che avviene nel corpo; a volte viceversa. E
ogni volta che noi usiamo delle indicazioni dell’ anima per essere d
aiuto (l) Cfr. sopra, p. 19. al corpo, possiamo
parlare di una medicina vitale : metodo questo che ha più ampia
estensione di quanto non si creda comunemente, perchè il corpo non
soltanto risponde al1 anima nei movimenti che vengono chiamati volontari,
ma anche in tutti gli altri; quantunque, per l'abitudine che ne abbiamo,
noi non ci accorgiamo che l’anima viene influenzata o consente coi movimenti
del corpo, o che questi corrispondono alle percezioni e agli appetiti
dell' anima. Infatti le percezioni del corpo sono confuse, in modo
che la corrispondenza non appare così facilmente. E l'anima comanda
al corpo in quanto abbia percezioni distinte, gli obbedisce in quanto
abbia percezioni confuse. Ma pure, chiunque abbia una qualsiasi
percezione nell’anima, può essere certo di avere un qualche effetto di
essa nel corpo e viceversa.... E le cose avvengono in modo tale, che
a volte anche nei fatti naturali noi ricerchiamo la verità attraverso le
cause finali, quando non si può giungere facilmente ad essa attraverso le cause
efficienti. (Frammento, C. 12- 13). Separazione dei due
mondi. — Ora, formulata questa distinzione, Leibniz rinuncia, in certo senso, a
proseguire per quella via che, attraverso la concezione del rapporto di
causa ed effetto come un rapporto di soggetto c predicato, lo aveva
condotto alla sostanza individuale e gli aveva permesso la risoluzione
dei concetti di corpo e spirito l’uno all’ altro. Qui egli accentua
invece la distinzione: corpo e spirito divengono due mondi separati, due entità
parallele ma prive di rapporti fra di loro. La loro situazione viene ad essere
analoga a quella di due monadi distinte: il contenuto di ciascuna cori
ispoude a quello dell altra, senza che perciò si possa dire che I una
influisce sull altra. Così, ciò che avviene meccanicamonte nel corpo,
corrisponde a ciò che è nella rappresentazione dello spirito: ma non per
influenza dell'uno sull’altro o per una qualsiasi unificazione. 1
rapporti dovranno essere stabiliti attraverso un intervento della
divinità. Cfr. sopra, p. 89 ss. Noi sperimentiamo che i corpi
agiscono fra di loro secondo leggi meccaniche, e che le anime producono in
sè stesse azioni interne. E non vediamo alcun modo di concepire l'azione
dell'anima sulla materia o della materia sull’ anima, nè alcunché di
analogo, poiché non è affatto spiegabile attraverso un qualsiasi
artificio che lo variazioni materiali, cioè le leggi meccaniche, facciano
nascere una percezione; nè che dalla percezione possa derivare un cambiamento
di velocità o di direzione negli spiriti animali e negli altri corpi,
siano essi sottili o grossi a piacere. Così, sia l' inconcepibilità di
un'altra ipotesi, sia il buon ordine della natura uniforme in sè stessa
(per non parlare qui di altre considerazioni), mi hanno portato alla
conclusione die l'anima e il corpo seguano perfettamente la loro
legge, ciascuno la sua separatamente, senza che le leggi corporee
siano turbate dalle azioni dell'anima, nè che i corpi trovino finestre per far
penetrare il loro influsso nelle anime. Si domanderà dunque: D'onde viene
questo accordo delf anima col corpo? (Lettera a Lady Masharn, 1704,
G. Ili, 340-11). L’armonia prestabilita. - 11 problema che sorge
ora è quello di questa corrispondenza del mondo corporeo con quello
spirituale. Ma una così netta distinzione dei due mondi non era
necessaria alla dottrina della monade. Leibniz fu forse indotto ad
accentuarla, dal fatto di trovarsi in polemica col Malebranche e con gli
occasionalisti (1) e di aver trovato un’ ipotesi più plausibile per
risolvere il loro medesimo problema. 11 desiderio di correggere 1'
ipotesi occasionalistica e di applicare la propria, gli fece forse formulare
il problema negli stessi termini che i suoi interlocutori, più di quanto
non Malebranche autore della Recherete de la viri té h il rappresentante
principale dell'occasionalismo, dottrina che spiegava la corrispondenza
tra l'ordine corporeo e l’ordine spirituale attraverso un intervento continuo
di Dio. In occasione di ciascun fatto avvenuto nel mondo corporeo, Dio,
secondo questa dottrina, suscita la corrispondente rappresentazione nello
spirito, e viceversa. Questo problema presuppone naturalmente una netta
separazione fra l'ordine corporeo e l’ordine spirituale: separazione di
marca prettamente cartesiana. Avessero riohiesto i precedenti della sua
dottrina. L’ ipotesi di cui parliamo è quella famosa dell’ armonia
prestabilita, di cui riportiamo qui alcune fra lo molte esposizioni
lasciatene dal Leibniz. I mmaginate due orologi che si
accordino perfettamente. l 'iò può avvenire in tre maniere : la prima
consiste nella mutua influenza di un orologio sull’altro: la seconda
nella cura di mi uomo che vi provveda: la terza nella loro propria
esattezza. La prima maniera è quella dell’ influenza. La seconda maniera di far
sempre accordare due orologi anche cattivi, potrebbe essere di farvi
sempre provvedere da un abile operaio che li accordi ad ogni istante: e
questa è quella che io chiamo la maniera dell’ assistenza. Infine
la terza mainerà sarà di fare da principio queste due pendolo con tanta
arte e giustezza, da potersi assiemare il loro accordo per il futuro. E questa
è la via dell’accordo prestabilito. Mettete ora l'anima e il corpo
al posto di questi due orologi: il loro accordo o simpatia avverrà pure
in una di queste tre maniere. La maniera dell' influenza è quella
della filosofia volgare; ma poiché non si possono concepire particelle
materiali, nè specie o qualità immateriali che possano passare dall’ima
di queste sostanze nell’altra, si è obbligati ad abbandonare questa
opinione. La maniera dell assistenza è quella del sistema delle cause
occasionali: ma ritengo che ciò significhi introdurre un Deus ex
machina ili un fatto naturale e ordinario, nel quale, secondo
ragione, egli uon deve intervenire se non nolla medesima maniera
nella quale concorre a tutti gli altri fatti della natura. Così non resta
che la mia ipotesi, cioè la maniera dell'armonia prestabilita attraverso un
artificio divino preventivo, il quale, fin da principio, abbia formato queste
sostanze in un modo cosi perfetto e regolato con tanta esattezza che, non
seguendo se non le sue proprie leggi ricevute insieme col proprio essere,
ciascuna si accordi tuttavia con l’altra: proprio come se vi fosse una
mutua influenza o come se Dio vi mettesse continuamente la mano,
oltre il suo concorso generale. (Tetterà). Vi è ordine
e connessione nei pensieri, come ve ne è nei movimenti; poiché l’uno
risponde perfettamente all'altro, quantunque la determinazione nei
movimenti sia bruta, e sia invece libera o con scelta nell’ essere che pensa,
il quale non è se non inclinato ma non costretto dal bene e dal
male (1). Infatti l’anima, rappresentando il corpo, conserva le sue
perfezioni; e, benché essa dipenda dal corpo (se ben si guardi) nelle
azioni involontarie, ne è indipendente e fa dipendere il corpo da se stessa
nelle altre. Ma questa dipendenza non è se non metafisica, e
consiste nel riguardo che Dio ha per l’uno regolando l'altro, o più per
1’ uno che per l’ altro, a seconda delle perfezioni originali di ciascun
individuo (2) ; mentre la dipendenza fisica consisterebbe in un’
influenza immediata che l’imo riceverebbe dall’altro, dal quale
dipenderebbe. (Nuovi Saggi). L'armonia prestabilita fa
sì che al cane entri il dolore nell' anima, quando il suo corpo è
colpito. E se il cane non dovesse essere colpito ora, Dio non avrebbe
dato fin dall’ inizio alla sua anima una costituzione tale da
produrre attualmente tale doloro in esso, e la rappresentazione o
percezione che risponde al colpo del bastone. Ma se (cosa impossibile)
Dio si pentisse e, senza mutare la natura dell’anima e il corso naturale dello
sue modificazioni, mutasse il corso delle nature corporee in modo tale
che il colpo Abbiamo già visto come in ragione delle sue percezioni più
distinte o più confuse, ciascuna monade partecipi più dello spirito o del
corpo, abbi» cioù maggiore o minore perfezione. Cfr. sopra, p. 94
ss. non arrivasse, ramina sentirebbe ciò che corrisponde a
questo colpo, mentre il suo corpo non lo riceverebbe affatto. Ma - dirà il
signor Bayle - io comprendo le ragioni per le quali il corpo del cane è
colpito dal bastone, ma non comprendo affatto come mai l'anima del cane
che prova piacere mentre mangia con appetito, passi così subitamente
al dolore senza che il bastone ne sia la causa (come vorrebbe la tesi
scolastica), nè ne sia causa Dio in particolare (come vorrebbero gli
ocxasionalisti). Ma il signor Bayle non comprende neppure come mai il
bastone possa influire sull’ anima, nè come possa avvenire l'operazione
miracolosa attraverso la quale Dio accorda continuamente l'anima ai
corpi. Invece io ho cercato di spiegare come tale accordo avvenga naturalmente,
col supporre che ogni anima sia uno specchio vivente rappresentante l'
universo secondo il suo punto di vista, ed eminentemente in rapporto
col suo corpo. Così le cause che fanno agire il bastone (cioè l’uomo
posto dietro al cane, preparato a colpirlo mentre esso mangia, e tutto
ciò che nell'ordine corporeo contribuisce a disporre quell’uomo a quell'azione)
sono anche rappresentate fin da principio nell'anima del cane in
modo esatto sì, ma debole, per mezzo di percezioni piccole e
confuse e senza appercezione, cioè senza che il cane se ne accorga;
perchè anche il corpo del cane non ne è influenzato se non impercettibilmente.
E come, nell’ordine delle nature corporee, queste disposizioni conducono
finalmente al colpo ben assestato sul corpo del cane, analogamente
le rappresentazioni di queste disposizioni conducono nell'anima del cane alla
rappresentazione del colpo di bastono: rappresentazione la quale, essendo
distinta e forte (come non lo erano le rappresentazioni delle predisposizioni.
poiché le predisposizioni influenzavano solo debolmente anche il corpo del
cane), il cane se ne accorge ben distintamente: ed è questo che determina
il suo dolore. Così non si deve affatto immaginare che l'anima del cane,
in questo caso, passi dal piacere al dolore senza alcuno sviluppo e senza
alcuna ragione interna. (Osservazioni al Dizionario del Bayle) Nel
corpo tutto avviene meccanicamente secondo le leggi del movimento, e
nell'anima tutto avviene moralmente o secondo le apparenze del bene e del
male: in modo che, anche (piando si tratta dei nostri istinti o delle
azioni involontarie alle quali sembra partecipare solamente il corpo, vi
è nell'anima un appetito di bene o una fuga dal male che la spinge;
benché la nostra riflessione non possa ben districarne la confusione. Ma
se l'anima e il corpo seguono così ciascuno separatamente le sue proprie
leggi, come si incontrano essi e come avviene che il corpo obbedisca all'
anima, e che l'anima risenta del corpo? Per spiegare questo mistero
naturale bisogna ben ricorrere a Dio, così come quando si tratta di dare
la ragione primordiale dell’ordine e dell'armonia nelle cose. Ma questo ricorso
non avviene che una volta per tutte, e non come se Dio turbasse le leggi
dei corpi per farli corrispondere alle anime, e viceversa. Egli ha invece
fatto fin da principio i corpi in modo tale che, seguendo le loro leggi e
le tendenze naturali dei movimenti, essi verranno a fare ciò che l'anima
chiederà quando ne verrà il momento; e d'altra parte ha fatto le anime
tali che. seguendo le tendenze naturali del loro appetito, giungeranno
anche sempre alle rappresentazioni degli stati del corpo. Giacché, come il
movimento conduce la materia di figura in figura, così l’appetito conduce
l'anima di immagine in immagine. E così l’anima è inizialmente dominante
ed obbedita dal corpo nella misura in cui il suo appetito è accompagnato da
percezioni distinte che la fanno pensare ai mezzi adatti quando
essa vuole qualche cosa; ma è soggetta al corpo, pure fin dal1’ inizio,
in misura delle sue percezioni confuse. Noi sperimentiamo infatti che tutte le
cose tendono al cambiamento; i corpi per la forza movente, e l’anima per 1
appetito che la conduce a percezioni distinte o confuse, secondo la
sua maggiore o minore perfezione. E non bisogna affatto meravigliarsi di
quest’accordo primordiale delle anime e dei corpi, essendo tutti i corpi
organizzati secondo le intenzioni di uno spirito universale, ed essendo tutte
le anime essenzialmente rappresentazioni o specchi viventi dell universo,
secondo la portata e il punto di vista di ciascuna, essendo essi perciò
altrettanto durevoli che il mondo stesso. È come se Dio avesse variato 1
universo tante volte quanto sono le anime, o come se egli avesse creato
tanti universi in compendio, accordantisi nel fondo o differenziati nell'apparenza.
Non vi è nulla di così ricco come questa semplicità uniforme, accompagnata da
un ordine perfetto. E si può ben pensare come ciascuna anima in sè stessa
debba essere perfettamente disposta, essendo ciascuna ima particolare
espressione dell'universo e come un universo concentrato; e ciò risulta anche
dal latto che ciascun corpo, e quindi il nostro pure, è affetto in
qualche modo da tutti gli altri, ed anche l'anima dunque vi partecipa.
Ecco in poche parole tutta la mia filosofia. (Lettera alla
regina Sofia Carlotta di Prussia). Tale ò l' ipotesi dell'armonia
prestabilita; la quale termina e corona il sistema di Leibniz, ma non si
può dire che aggiunga molto di essenziale alla dottrina della monade. TI
principio qui introdotto è quello medesimo onde viene dimostrata la
corrispondenza del contenuto di ciascuna monade con quello di tutte, pur
senza un’ influenza reciproca. Ma l’applicarlo ai rapporti fra anima e
corpo, obbliga ad una distinzione e separazione fra l’ordine corporeo e
l’ordine spirituale; mentre proprio nel superamento di tale separazione e
nella sintesi dei due ordini abbiamo ravvisato il valore piu specifico
del concetto di monade. Ma questa separazione è posteriore
idealmente a quel concetto. Nell’ applicare i principi trovati, nel far agire
la sua monade come elemento costituente del mondo, Leibniz ricade a volte
in posizioni da lui già inizialmente superate, e mal interpreta sè stesso. Ciò
che rimane essenziale in quanto si è visto ilei suo pensiero è la
struttura interna del concetto di monade : questa sintesi di universale e
individuale, di materia e spirito, ili attività e passività, che è un
punto di arrivo e un punto di partenza nella storia della filosofia. /La
monade, di cui parleremo qui, non è altro che ima sostanza semplice che
entra nei composti; semplice, cioè senza parti. 2. ° E
bisogna che vi siano sostanze semplici, dato che vi sono composti; poiché
il composto non è altro che un ammasso o aggrega tum di semplici.
•1." ^ h-a. dove non vi sono parti, non vi è nè estensione, nè
figura, nè divisibilità possibili (2). E queste monadi sono i veri atomi
della natura; in una parola gli elementi delle cose. 4.° Non
vi è neppure alcuna dissoluzione da temere, e non vi è alcuna maniera
concepibile nella quale una sostanza semplice possa perire
naturalmente. ó.° Per la medesima ragione, non v'è alcun motivo
per il quale una sostanza semplice possa aver principio naturalmente;
poiché essa non può essere formata per composizione. 1 m ricerca (logli
eleuiyuti semplici, (la cui cleri vano per composizione tutte le altro
cose, è una dello idee fondamentali di Leibniz. Applicato al campo
logico, questo concetto dà luogo ai progetti di arte combinatoria, carattcristica,
scienza generale, lingua universale ecc. Cfr. p. 33 s. Sul concetto di
aggregato, cfr. p. 100 s. Si toglie così olla monade ogni carattere di
materialità. (3) Atomi immateriali, metafisici; non naturalmente le
particelle materiali indivisibili di cui parlano gli atomisti, e che Leibniz
combatteva. Così si può dire che le monadi non possono aver
principio nè fine se non d un tratto; cioè esse non possono aver principio se
non per creazione, ne fine se non per annullamento; mentre ciò che è
composto comincia o finisce per parti (1). 7» Neppure c'è modo di
spiegare come una monade possa essere alterata o cambiata nel suo interno
da qualche altra creatura; poiché in essa non e possibile
trasposizione, nè è concepibile movimento interno che vi possa essere
eccitato, diretto, aumentato o diminuito, ciò invece è possibile nei
composti, dove si danno cambiamenti fra le parti. Le monadi non hanno finestre
pei le quali qualche cosa vi possa entrare o uscire. Gli accidenti non
possono staccarsi nè passeggiare fuori delle sostanze. come facevano una volta
le specie sensibili deg scolastici. Così nè sostanza, nè accidente, non
possono entrare dall’ esterno in ima monade (2). 8° Tuttavia
occorre che le monadi abbiano qualche qualità; altrimenti non sarebbero
neppure degli esseri. E se le sostanze semplici non differissero affatto
per le loro qualità, non si avrebbe modo di accorgersi d. alcun cambiamento
nelle cose, poiché ciò che è nel composto non può venne se non dagli
ingredienti semplici; e se le monadi fossero prive di qualità, sarebbero
indistinguibili una dall'altra. giacché esse non differiscono neppure nella
quantità: e quindi, ammesso il pieno, ciascun luogo non riceverebbe mai, nel
movimento, se non l'equivalente (lei movimento che aveva già avuto : e uno
stato di cose sarebbe y indiscernibile dall altro. deducono
dall’ immaterialità delle monadi la imposeibilUtà r ^
C,t (2) a N°elS monade, soggetto eomprendentegt arnese può
dire cl/e £ de™ da, di lucri, se tutto quanto le avviene è già compreso m
essa. Occorre inoltre che ciascuna, monade sia differente da ogni altra.
Poiché non vi sono in natura due esseri che siano perfettamente uguali, e
nei quali non sia possibile trovare una differenza interna o fondata su di
una denominazione intrinseca. Considero inoltre come ammesso, che ogni
essere creato, e quindi ogni monade creata, sia soggetta a mutamento: e
anzi che questo mutamento sia continuo in ognuna. Da quanto abbiamo
detto, consegue che i mutamenti naturali delle monadi derivano da mi
j)rinci]iio interno, dato che ima causa esteriore non potrebbe influire
sul loro interno. Ma occorre pure che, oltre il principio del mutamento, vi sia
un dettaglio (3) di ciò che muta-, il quale determini, per così dire, la
specificazione e la varietà delle sostanze semplici. Tale dettaglio deve
implicare una molteplicità nell'unità o nel semplice. Infatti, poiché ogni
cambiamento naturale avviene per gradi, qualche cosa cambia e
qualche cosa resta; e quindi bisogna che nella sostanza semplice vi
sia una pluralità di affezioni e di rapporti, benché essa non abbia
parti. Lo stato transitorio che implica e rappresenta una
molteplicità nell’unità o nella sostanza semplice, non (1) Nei §3
8-9 è affermata la differenziazione fra le varie monadi; In quale deve
fondarsi su alcunché di qualitativo, interno alla monade stessa,
riguardante la sua intima costituzione, e non le sue relazioni esteriori.
Questo principio intorno di ditTerenziazione è costituito dal diverso
punto di vista, secondo cui ciascuna monade rappresenta l’universo. Sul
principio dell’ identità degli indiscernibili, Il mutamento nolla monade
consiste nello sviluppo c nella realizzazione di quanto è già implicito in
essa. In questo sviluppo essa manifesta la sua facoltà attiva o quella
conoscitiva: percezione c appetito. Traduciamo cosi, non trovando vocabolo
migliore, la parola ilétail, che altri traduce con a particolarità » o in
modo affine. Essa vuole indicare uno sviluppo completo, disteso e
particolareggiato in tutti i suoi dettagli. è altro che ciò che si chiama
percezione, da distinguersi y dalla appercezione o dalla coscienza, come
si vedrà in seguito. A cpiesto proposito i cartesiani hanno gravemente
errato, non avendo tenuto conto delle percezioni di cui non ci si accorge
(2). E ciò puro li ha indotti a ritenere che i soli spiriti fossero
monadi e che non vi fossero affatto anime di bestie nè altre entelechie;
ed a confondere, come fa il volgo, un lungo stordimento con la morto
propriamente detta: il che li ha fatti anche cadere nel pregiudizio
scolastico delle anime interamente separate, ed ha pure confermato gli spiriti
mal disposti nell'opinione della mortalità dell'anima. L’azione del principio
interno che determina il mutamento o il passaggio da ima percezione ad un
altra, può chiamarsi appetizione ; è vero che l’appetito non sempre può
giungere completamente all’ intera percezione cui tende; ma ne ottiene
pur sempre qualche cosa, e giunge a percezioni nuove (4).
16.° Noi stessi sperimentiamo una molteplicità nella sostanza
semplice, quando troviamo che il minimo pensiero La percezione, questo
fatto dolio spirito, permetto dunque la sintesi dell’uno e del
molteplice, necessaria a conciliare l’unità e immaterialità della monade
oon la varietà e mutevolezza del suo contenuto. Percepire è cogliere una
molteplicità e riferirla ad un unico soggetto. 11 contenuto, diremmo noi.
è molteplice, la forma ò una. Cosi è nella monade; e ciò spiega conio la varietà
e mutevolezza in essa venga concepita da Leibniz in termini di percezione. Accorgersi
« traduce il francese aptrCLVoir. Appercezione (aptreeptiev) significa
dunque l’accorgersi, cioè il percepire coscientemente, contrapposto al
percepire senza accorgersene, come nel caso delle piccole percezioni. Cartesio,
che considera ogni attività conoscitiva come razionale, quindi cosciente,
non può attribuire tale attività se non all’uomo, e la tiene nettamente
separata da tutto ciò che è corporeo. Pi qui gli inconvenienti sopra
elencati, cui Leibniz vuole ovviare col suo concetto di una percezione di
cui non ci si accorge, e priva di ragione (la piccola percezione), che
sia quindi attribuibile anche agli animali e che segni come un punto di contatto
fra la materia e lo spirito. Cfr. pp. 84 ss., 94 ss., 99 ss. Vedi anche
in seguito, §§ 19 ss. (4) L’appetito ò l’altra attività della
monade, secondo cui essa può passare dall’uno al molteplice. Cfr. p. 80
ss. di cui ci accorgiamo, implica una varietà nell'oggetto. Così
tutti coloro che riconoscono che l’ anima è una sostanza semplice, devono
riconoscere questa molteplicità nella monade; e il Bayle non avrebbe dovuto
trovarvi difficoltà, come ha fatto nel suo dizionario, all'articolo
Borariua. Peraltro bisogna pur
riconoscere che la percezione e ciò che ne dipende, è inesplicabile
mediante ragioni meccaniche, cioè mediante ligure e movimenti. E supposto
che vi sia una macchina la cui struttura faccia pensare, sentire, aver
percezione, si potrà concepirla ingrandita, conservando le medesime
proporzioni, in modo che vi si possa entrare, come in un mulino. E posto
ciò, non si troverà, visitandola al! interno, se non pezzi spingentisi vicendevolmente,
ma nulla di che spiegare una percezione. E dunque nella sostanza semplice
e non nel composto o nella macchina bisogna cercare la percezione. Anzi,
non vi è se non questo che si possa trovare nella sostanza
semplice: percezioni e i loro cambiamenti. E solo in ciò possono
consistere tutte le azioni interne delle sostanze semplici. Si
potrebbe dare il nome di entelechie a tutte le sostanze semplici o monadi
create, poiché esse hanno in sè stesse una certa perfezione (l/oum tò è
tsXéc); vi è una autosufficienza (afiràpxet*) che le rende fonti
delle loro azioni interne, e, per così dire, automi incorporei.
l‘J.° Se vogliamo chiamare anima tutto ciò che ha percezioni e
appetiti nel senso generale che ho spiegato or ora. tutte le sostanze
semplici o monadi create potrebbero essere chiamate anime; ma siccome il
sentimento è qualche ( 1) Nell’artieolo Korarius dei suo
Dizionario, il Bayle discute P ipotesi leibniziana dell'anuouia
prestabilita; e a questo proposito trova contradjttoria la. tesi cho una
sostanza semplice e priva di parti sia soggetta a cambiamento. (2)
Ragioni meccaniche, lìgura, movimento sono caratteristiche della pura in
viaria. Leibniz le contrappone alle cause finali, che sono proprie del
mondo immateriale e spirituale. Cfr. p. 116 ss. cosa di più che ima
semplice percezione, io acconsento a che il nome generale di monadi e
entelechie basti per le sostanze semplici che non hanno se non la pura
percezione: e che si chiamino anime solamente quelle la cui percezione è
più distinta e accompagnata da memoria (1). 20. ° Infatti noi
sperimentiamo in noi stessi uno stato in cui non ci ricordiamo di nulla e
non abbiamo alcuna percezione distinta; come quando cadiamo in deliquio
o quando siamo immersi in un sonno profondo senza sogni. In questo
stato, l'anima non differisce sensibilmente da ima semplice monade; ma
siccome questo stato non è durevole, e l’anima se ne Ubera, essa è qualche cosa
di più. 21. ° E non ne consegue punto che in tale stato la
sostanza semphee sia priva di percezione; ciò non è anzi possibile, per
le ragioni suddette; poiché essa non può perire. nè può sussistere senza
qualche affezione, che non è poi altro che la sua perceziome. Ma quando
vi è una grande moltitudine di piccole percezioni, nelle quali non vi
è nulla di distinto, si è storditi; al modo che quando si gira
continuamente nello stesso senso per più volte di seguito si è presi da
una vertigine che può farci svenire e che non ci permette di distinguere
nulla. E la morte può determinare questo stato per un certo tempo negh
animali. 22. ° E, poiché ogni stato presente di una sostanza semplice
è naturalmente conseguenza del suo stato precedente, sicché il presente
in essa è gravido dell’avvenire; dunque, poiché, appena desti dallo
stordimento, ci si accorge delle proprie percezioni, bisogna pure che
se (1) La percezione pura e semplico, incosciente o priva di
appercezione tasta a costituire la monade; ma le monadi più complesse c
perfette si distinguono appunto per una percezione più perfezionata, dotata di
coscienza, di memoria eoe. Leibniz introduce qui incidentalmente un suo
principio fondamentale: il principio di causalità o di ragion
sufficiente. Ogni stalo della monade deriva da cause e produce effetti, c
se si segue tale connessione causale in tutto il suo sviluppo, si va all’
infinito e si comprende tutto l’universo passato e avvenire. ne siano avute
immediatamente prima, quantunque non ce ne siamo accorti ; poiché una
percezione non può venire in natura se non da un'altra percezione, come
un movimento non può venire in natura se non da un movimento. Si vede da ciò.
che se noi non avessimo nulla di distinto e, per dir così, in rilievo e
di un più forte sapore nelle nostre percezioni, saremmo sempre in uno
stato di stordimento. E questo è lo stato delle monadi pure e
semplici. Così noi vediamo che la natura ha dato percezioni in rilievo agli
animali, dalla cura che essa si è presa di fornirli di organi che
raccolgono più raggi di luce o pili vibrazioni di aria per aumentarne
l'efficacia con l’unione. E vi è qualche cosa di simile nell'odorato, nel
gusto e nel tatto, e forse in una quantità di altri sensi che ci
sono sconosciuti. E spiegherò fra poco come ciò che avviene nell’anima
rappresenti ciò che avviene negli organi. La memoria fornisce alle anime
una specie di concatenazioM che imita la ragione, ma che deve
esserne distinta. Noi vediamo che gli animali, quando hanno percezione di
qualche cosa che li colpisce e di cui hanno già avuto anteriormente una
percezione simile, si attendono, per la rappresentazione della loro
memoria, a ciò che vi era unito in quella percezione precedente, e sono
portati a sentimenti simili a quelli che avevano provati allora.
Per esempio, quando si mostra il bastone ai cani, essi si rammentano del
dolore che esso ha loro causato, e abbaiano e fuggono. Si riferisce
qui al principio di continuità, secondo il quale natura non facil
saliti)). Leibniz stabilisce, in questi paragrafi e nei seguenti, i tre gradi
della gerarchia: lo monadi pure c semplici fornite di sole percezioni
incoscienti; quelle fornite di momoria, o animali, quelle fornite anche
di ragione, o spiriti. E la forte immaginazione che li colpisce e li commuove,
deriva o dall’ intensità o dal numero delle percezioni precedenti. Poiché
spesso un' impressione forte produce d’un sol tratto l’ effetto di una lunga
abitudine o di molte percezioni mediocri ripetute. 28. ° Gli
uomini agiscono come le bestie, in quanto la concatenazione delle loro
percezioni non avviene se non per il principio della memoria;
assomigliano, per questo riguardo, ai medici empirici che hanno una
semplice pratica senza teoria; e noi non siamo che empirici nei tre
quarti delle nostre azioni. Per esempio, quando ci si attende che domani faccia
giorno, si fa ciò empiricamente, perchè finora è sempre avvenuto così.
Soltanto l’ astronomo giudica ciò per Ada di ragione. Ma la conoscenza delle
verità necessarie ed eterne è ciò che ci distingue dai semplici animali e
ci dà la ragione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e
di Dio. E ciò si chiama in noi anima ragionevole o spirito. Inoltre,
mediante la conoscenza delle verità necessarie e delle loro astrazioni, noi
siamo elevati agli atti riflessivi che ci fanno pensare a ciò che si
chiama io, o considerare che questo o quel contenuto è in noi ; ed è così
che, pensando a noi, noi pensiamo all’essere, alla sostanza, al semplice e al
composto, all' immateriale e a Dio stesso, col concepire che ciò che in
noi è limitato, è in lui senza limiti. E questi atti riflessivi
forniscono i principali oggetti dei nostri ragionamenti. I nostri
ragionamenti sono fondati su due grandi principi: quello delia
contradizione, in A T irtù del quale giudichiamo falso ciò che implica
contradizione, e vero ciò che è opposto o contradittorio al falso; Passa
ad altro argomento: le grandi forme costitutive della realtà, c insieme i
fondamentali principi logici: verità di ragione, rette dal principio di
non contradizione, verità di fatto, rette dal principio di ragion
suflìciente o di causalità. Cfr. p. (i ss., 17 s. e quello
della ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo clic nessun
fatto può esser vero o esistente, nessuna proposizione veritiera, se non
vi è una ragione sufficiente per cui sia così e non altrimenti; benché tali ragioni
il più delle volte non possano esserci note. y 33° Vi sono pure due
specie di verità: quelle di ragione e quello di fatto ; le verità di ragione
sono necessarie e il loro opposto è impossibile; quelle di fatto sono contingenti
e il loro opposto è possibile. Quando una verità è necessaria, se ne può
trovare la ragione per mezzo dell'analisi, risolvendola in idee e in verità più
semplici, finché si giunga alle primitive. Così nelle matematiche i teoremi
speculativi e i canoni pratici sono ridotti, per mezzo dell’analisi, a
definizioni, assiomi e 'postulati, Vi sono infine idee semplici, di cui non si
può dare la definizione; vi sono pure assiomi e postulati o, in una
parola, principi primitivi che non possono essere dimostrati, e non ne
hanno bisogno ; e sono le proposizioni identiche, il cui opposto contiene
un'espressa contradizione. 36° Ma la ragion sufficiente deve
trovarsi anche nelle verità contingenti o di fatto, cioè nell'ordine
delle cose diffuse nell'universo delle creature ; nel quale la
risoluzione in ragioni particolari potrebbe procedere fino a un frazionamento
senza limiti, a causa della varietà immensa delle cose della natura e
della divisione dei corpi all' infinito. Vi è un" infinità di figure
e di movimenti presenti e passati, che entrano nella causa efficiente
della mia scrittura attuale; vi è un' infinità di piccole inclinazioni e
disposizioni della mia anima, presenti e passate, che entrano nella causa
finale. È questo il metodo ilollu « caratteristica» e « combinatoria »; cfr. p.
.'iUtss(2) La causa liliale, che Leibniz usa con significati diversi secondo le
occasioni, rappresenta qui, per cosi dire, una causa efficiente rivolta
verso l’avvenire. ICssa dà il fine, lo scopo, l’intenzione secondo cui
una determinata E siccome tutto questo dettaglio non implica se non
altri contingenti anteriori o più dettagliati, ciascuno dei quali ha
ancora bisogno di una simile analisi perchè se ne possa rendere ragione,
per questa via non si procede affatto; e conviene che la ragion
sufficiente od ultima sia fuori dell’ ordine o seriett di questo
dettaglio di contingenze, * per quanto infinito esso possa essere.
38. ° E cosi la ragione ultima delle cose deve consistere in una sostanza
necessaria, nella quale il dettaglio dei cambiamenti non si trovi se non
in modo eminente, come in una fonte; e tale sostanza noi la chiamiamo
Dio. Ora, essendo tale sostanza ragion sufficiente di tutto quel dettaglio,
il quale inoltre è concatenato universalmente, non vi è che un nolo Dio, e
questo Dio è suflì-V dente. È da ritenere inoltre che questa sostanza suprema,
che è unica, universale e necessaria, non avendo nulla fuori di sè che
sia da essa indipendente, ed essendo semplice conseguenza dell'essere
possibile, debba essere incapace di limiti e contenere la massima quantità
possibile di realtà. Donde consegue che Dio è assolutamente perfetto;
non essendo la perfezione altro che la grandezza della realtà positiva
intesa precisamente, eliminando i limiti o confini nelle cose che ne
hanno. E là dove non vi sono confini, cioè in Dio, la perfezione è
assolutamente infinita. cosa è avvenuta. Contribuisce quindi a
determinare Je « ragioni della cosa stessa e rientra cioè nella sua
ragion sufficiente. Da causa tinaie serve a Leibniz per indicare un aspetto più
spontaneo, attivo, spirituale, morale del principio di ragion sufficiente. Essa
si contrappone in questo senso alla causa efficiente, la quale indirà un
rapporto puramente materiale e meccanico. Cfr. pp. li) s., 1 lfi
ss. (1) Questa dimostrazione di Ilio è basata sul principio di
rugion sufficiente. Dio è la causa prima di tutta la serie delle cose del
mondo, delle verità di fatto empiriche e contingenti. Egli non può però
appartenere all’ordine delle cose contingenti, altrimenti dovrebbe avere
una causa fuori rii sè, e non sarebbe più causa prima. Appartiene quindi
all’ordine delle essenze necessario. Ne consegue pure che le
creature ricevono le loro perfezioni dall' influsso di Dio, ma che
derivano le imperfezioni dalla loro propria natura, incapace di essere
senza limiti. Poiché in questo appunto esso sono distinte da Dio.
Tale imperfezione originaria delle creature, si riscontra nelf inerzia naturale
dei corpi (1). 43. ° È anche vero che Dio è non solo la fonte
delle esistenze, ma anche quella delle essenze in quanto reali, o
di quanto vi è di reale nella possibilità. Infatti V intelletto di Dio è la
regione delle verità eterne, o delle idee da cui esse dipendono; e senza
di lui non vi sarebbe nulla di reale nelle possibilità, e non solamente
nulla vi sarebbe di esistente, ma neppure alcunché di possibile. Infatti,
se vi è mia realtà nelle essenze o possibilità, o nelle verità eterne, bisogna
pure che questa realtà si fondi su qualche cosa di esistente e di
attuale; si fondi quindi sull - esistenza dell'essere necessario, in cui
l’essenza implica l’esistenza, o cui basta di essere possibile per
essere attuale. Così Dio solo, ovvero l'essere necessario, ha
questo privilegio: che. se è possibile, bisogna che esista. E siccome
nulla può impedire la possibilità di ciò che non implica alcun limite,
alcuna negazione, quindi alcuna contradizione, ciò solo basta per
riconoscere a priori la esistenza di Dio. Noi l’abbiamo anche dimostrata
per (1) Perfezione è per Leibniz il massimo di realtà, di fatto
compatibile eoi principi della possibilità, determinati dalle verità di
ragione. Cfr. p. 21 ss. Imperfezione è una limitazione di realtà.
L’intero complesso del mondo dunque, cosi come 6 messo in opera da Dio,
rappresenta il massimo di realtà possibile, ed è perfetto. Solo le cose
particolari sono imperfette, in ragione appunto della loro particolarità.
Questa concezione àia medesima die Leibniz svolge nella Teodicea.
(2) Questa è la prova ontologica del resistenza di Ilio. Leibniz lui
aggiunto alla formulazione cartesiana di essa il criterio della
possibilità. Bisogna anzitutto, secondo lui, dimostrare che il concetto
dell’ente perfettissimo ò possibile, cioè noninvolve contradizione. Sia poiché
esso è effettivamente possibile, ne segue che esso contiene in sé anche
l'attributo dell’esistenza. Cfr. p. 13 ss. mezzo della realtà delle
verità eterne (1). Ma l'abbiamo dimostrata or ora anche a 'posteriori, poiché
esistono esseri contingenti, i quali non possono avere la loro ragione
ultima o sufficiente se non nell essere necessario che ha in aè stesso la
ragione della sua esistenza. 40.° Tuttavia non bisogna punto
immaginarci, come fa taluno, che le verità eterne, essendo dipendenti da
Dio, siano arbitrarie e derivino dalla sua volontà, come sembra
aver inteso Cartesio e dopo di lui il Poiret (3). Ciò non è vero se non
delle verità contingenti, il cui principio è la convenienza o la scelta
del migliore : laddove le verità necessarie dipendono unicamente dal suo
intelletto e ne sono l'oggetto interno. Così Dio solo è f unità
primitiva, o la sostanza semplice originaria di cui tutte le monadi
create o derivate sono prodotti; e queste monadi nascono, per così
dire, per fulgurazioni continue della divinità, di momento in
momento, limitate dalla recettività della creatura, alla quale è
essenziale di essere limitata. 4 8.° \ i è in Dio la potenza, che è
la sorgente di tutto, la conoscenza che contiene il dettaglio delle idee,
e la volontà che determina i mutamenti o le produzioni secondo il
principio del migliore (5). E ciò corrisponde a quello che nelle monadi
create costituisce il soggetto o base, la facoltà percettiva, e la facoltà
appetitiva. Ma in Dio questi Teologo protestante. Questa affermazione
correggo in parte quunto fc stato attenuato ai SS 43 o 44. Le verità di
ragione, clic danno la possibilità delle cose, hanno pure una loro realtà
di esseri possibili. Questa realtà deriva loro da Dio. Ma la loro conformazione
in quanto principi regolativi dell’universo, ha una validità a sò stante,
indipendente anche dalla volontà di Dio. Solo le esistenze o realtà di fatto
sono messe esplicitamente in opera da lui, secondo il criterio del
«migliore». Cfr. pp. 13 ss., 18 ss. (5) L’intelletto divino Ita
come contenuto le verità di ragione; la sua volontà mette in opera le
realtà di fatto. attributi sono assolutamente infiniti e perfetti; e
invece nelle monadi create o entelechie (o PERFECTIHABIES, secondo
la traduzione di questa parola data da BARBARO (si veda)) essi non sono se non
imitazioni, in ragione della perfezione di ciascuna. 49. ° La
creatina è detta agire verso l’ esterno in quanto essa ha perfezione, e
{Mire da parte di un’altra in quanto è imperfetta. Così si attribuisce
azione alla monade in quanto essa ha percezioni distinte, e passione in
quanto ha percezioni confuse. E ima creatura è più perfetta di un'altra,
in quanto si trova in essa ciò che serve a render ragione a priori
di ciò che avviene nell'altra; ed appunto per ciò si dice che l una
agisce sull’altra. 51. ° Ma nelle sostanze semplici non si tratta
che di un' influenza ideale di una monade sull’altra; influenza che
non può avere il suo effetto se non per 1" intervento di Dio, in
quanto, nelle idee di Dio, una monade pretende con ragione che Dio,
regolando le altre fin dal principio delle cose, abbia riguardo ad essa.
Infatti, giacché una monade creata non può avere influenza fisica sull'
interno dell'altra, solo per questa via può verificarsi una dipendenza
dell’ima dall’altra. Per questo appunto, fra le creature, le azioni
e passioni sono reciproche. Infatti Dio, paragonando due sostanze
semplici fra loro, trova in ciascuna ragioni che l’obbligano ad adattarvi
l'altra; e quindi ciò che è attivo per certi riguardi, è passivo da un
altro punto di vista; attivo in quanto ciò che in esso vien conosciuto distintamente
serve a render ragione di ciò che accade in un altro; e passivo in quanto
la ragione di ciò che accade Filologo e filosofo italiano, tradusse in
latino vario opere di Aristotele. Sulle percezioni confuse, in esso
si trova in ciò che vien conosciuto distintamente in un altro. Ora,
poiché vi è un' infinità di universi possibili nelle idee di Dio, e invece non
ne può esistere che uno solo, bisogna che vi sia una ragione sufficiente
della scelta di Dio, che lo determini a scegliere uno piuttosto che
l’altro. E questa ragione non può trovarsi se non nella convenienza o nel
grado di perfezione che questi mondi contengono; poiché ogni possibile ha
diritto di pretendere all'esistenza, in ragione della perfezione
che racchiude. E ciò appunto è la causa dell’esistenza del
mondo migliore, che la saggezza fa conoscere a Dio, la sua bontà gli fa
scegliere e la sua potenza gli fa produrre. Ora questo legame o adattamento di
tutte le cose create a ciascuna singola, e di ciascuna a tutte le
altre, fa sì che ogni sostanza semplice contenga in sé rapporti Le
monadi, ohe sono senza Maestre, non possono agile l una sull’altra. Il
contenuto di ciascuna corrisponde a quello di tutte le altre, in quanto
ciascuna è un punto di vista preso sul medesimo universo. Ciascuna contiene nel
suo intimo tutto il proprio sviluppo; e tutto le viene dal suo intorno,
nulla dal di fuori. Solo in senso improprio c metaforico si può parlare
d’influenza di una monade sull’altra. 11 diverso punto di vista dal quale
l’ universo viene rappresentato, costituisce la particolare individualità
di ciascuna monade; esso viene indicato dalla diversa sfera delle percezioni
distinte che rappresentano, per così dije, la zona centrale di ogni
monade, mentre le confusene rappresentano la periferia. Questa varia
collocazione reciproca dei centri e delie periferie ò ciò che permette una
differenziazione fra le varie monadi. Ora, se si vuol chiamare attivo il
centro, incili si hanno percezioni distinte, e passiva la periferia che ha solo
percezioni confuse, si potrà parlare anche di una sfera di attività in
ciascuna monade, cui corrisponde una sfera di passività nelle altro;
insomma di una certa azione ideale dcH’una sull’altra. I mondi possibili,
cioè concepiti dall’ intelletto di Dio secondo i principi di ragione, sono
influiti. Dio sceglie fra di essi uno, il migliore, cioè il piò perfetto.
È più perfetto quello che, una volta attuato, cioè passato dalla pura
possibilità alla effettiva esistenza, contiene il massimo di realtà. Ogni
possibile, insomma, è tanto più perfetto, a quanta maggior quantità di esistenza
può dar luogo. clic esprimono tutte le altre, e sia per conseguenza uno
specchio vivente perpetuo dell'universo. E come una medesima città,
guardata da differenti punti, sembra diversa ed è come moltiplicata in
prospettiva, analogamente avviene che, per la molteplicità infinita di sostanze
semplici, vi sono come altrettanti universi differenti, i quali non sono
peraltro se non le prospettive di un universo solo, secondo i differenti
punti di vista di ciascuna monade. ò8.° È questo il modo di
ottenere il massimo di varietà possibile, ma con quanto pili ordine si può;
cioè il massimo di perfezione possibile. Dunque solo questa ipotesi (che
io oso dire dimostrata) esprime in modo adeguato la grandezza di Dio. Ciò fu
riconosciuto anche dal Bayle, quando, nel suo Dizionario (articolo Rorarius),
mosse ad essa obiezioni; fu anzi spinto a credere che io attribuissi
troppo a Dio, e più che non sia possibile. Ma egli non potè addurre
alcuna ragione che dimostrasse 1' impossibilità di questa armonia
universale, la quale fa sì che ogni sostanza esprima esattamente tutte le altre
per i rapporti che ha con esse. Si vedono fi altronde, in ciò che ho
esposto, le ragioni a priori per cui le cose non potrebbero
procedere diversamente. Dio infatti, regolando il tutto, ha avuto
riguardo a ciascuna parte, e particolarmente ad ogni monade; la cui
natura essendo rappresentativa, nulla la può limitare a non rappresentare
se non una parte delle cose; benché sia vero che questa rappresentazione
non è se non confusa nel dettaglio di tutto l'universo, e non può essere
distinta che per una piccola parte delle cose, per quelle cioè che sono o
più vicine o pili glandi rispetto ad ogni monade; altrimenti ogni
monade sarebbe una divinità. Non nell’oggetto, ma nella modificazione
della conoscenza dell'oggetto, le monadi sono li mitate. Esse tendono
tutte confusamente all’ infinito, al tutto; ma sono Limitate e
differenziate secondo i gradi delle percezioni distinte. E i
composti in ciò corrispondono ai semplici. Intatti, siccome tutto è pieno
(il che fa sì che tutta la materia sia concatenata), e siccome nel pieno
ogni movimento opera qualche effetto sopra i corpi distanti in ragione
della distanza, di modo ohe ogni corpo non solo è affetto da quelli che
lo toccano e risente in qualche modo di tutto ciò che accade ad essi, ma
anche per mezzo loro risente di quelli che toccano i primi da cui esso
è toccato immediatamente; ne consegue che questa comunicazione va a
qualsiasi distanza. E quindi ogni corpo risente di tutto ciò che avviene
nell' universo; sì che chi avesse la facoltà di veder tutto, potrebbe
leggere in ciascun corpo ciò che avviene ovunque, ed anche ciò che è
avvenuto e avverrà; osservando nel presente ciò che è lontano, sia
secondo il tempo, sia secondo lo spazio: ffup.7r.oia 7ràvTa, diceva
lppocrate. Ma mi' anima non può leggere in sè stessa se non ciò che vi è
rappresentato distintamente; essa non saprebbe svolgere in una sola volta
tutte le sue pieghe, perchè esse vanno all' infinito. Così, quantunque
ogni monade creata rappresenti tutto l'universo, essa rappresenta piii
distintamente il corpo che lo si riferisce particolarmente e di cui essa
costituisce l’entelechia: e siccome tale corpo esprime tutto l'universo
a causa della connessione di tutta la materia nel pieno. Ciascuna monade,
in quanto rappresentativa ili tutto l’universo, è analoga alla divinità.
Solo la minor foiza di questa rappresentazione la rende imperfetta e la
ditTerenzia dalla divinità e dalle altro monadi. In Dio tutto è chiaro e
distinto. Nella monade sono distinte solo le percezioni più vicino al
contro, come si è già visto. Leibniz non ammette il vuoto, per il suo principio
della continuità applicato alla materia.Ecco un’altra formulazione della
concatenazione universale secondo il principio di causalità, considerato
questa volta nel suo aspetto fisico. i Tutto ù conspirante
». l’anima, nel rappresentare questo corpo clie le appartiene in
maniera particolare, rappresenta insieme tutto runiverso. Il corpo
appartenente ad una monade che ne è l’entelechia o l’anima, costituisce
con l’entelechia ciò che si può chiamare un vivente, e coll'anima ciò che
si può chiamare un animale. Ora questo corpo di un vivente o di un
animale è sempre organico; poiché, essendo ogni monade a suo modo uno
specchio dell’ imiverso, ed essendo l'universo regolato in un ordine
perfetto, bisogna pure che vi sia un ordine nel rappresentante, cioè a
dire nelle percezioni dell’ anima, e per conseguenza nel corpo, secondo
il quale l'universo è rappresentato nell’anima. Così il corpo organico di
ogni vivente è ima specie di macchina divina o di automa naturale che
supera infinitamente tutti gli automi artificiali. Perchè una macchina
fatta dall’arte dell' uomo non è macchina in ciascuna delle suo parti.
Per esempio, il dente di una ruota di ottone ha parti o frammenti che non
sono più per noi qualche cosa di artificiale e non hanno più nulla con
carattere di macchina riguardo all'uso cui la ruota è destinata. Ma
le macchine della natura, cioè i corpi viventi, sono ancora
macchine nelle loro più piccole parti, all' infinito. Ciò determina la
differenza fra la natura e l'arte, cioè fra l’arte divina e la nostra
(2). 65.° E 1 autore della natura ha potuto operare questo
artifìcio divino e infinitamente meraviglioso, perchè ogni porzione di
materia non solo è divisibile all’ infinito, come hanno già riconosciuto
gli antichi, ma è anche suddivisa attualmente senza fine, ogni parte in
parti, ognuna LI corpo - commenta il Boutroux, attraverso lo
infinite percezioni confuse relative all’univerBO che esso determina ncll’auima,
ò il nesso che riunisce l’anima al resto del mondo, che fa cioè comunicare lo
anime fra di loro. È questa un’altra applicazione del principio di continuità
alla materia. Lkiuniz, La monadologia. delle quali ha qualche movimento
proprio; altrimenti sarebbe impossibile che ogni porzione della materia
potesse esprimere tutto l’ universo. Donde si vede che vi è un mondo
di creatine, di viventi, di animali, di entelechie, di anime anche
nella minima particella di materia. Ogni porzione di materia può essere
concepita come un giardino pieno di piante, e come uno stagno pieno
di pesci. Ma ogni ramo della pianta, ogni membro dell' animale, ogni
goccia dei suoi umori, è ancora un giardino, uno stagno. E quantunque la
terra e l'aria interposta fra le piante del giardino, o l’acqua
interposta fra i pesci dello stagno, non siano punto pianta nè pesce,
esse ne contengono tuttavia ancora; ma per lo più di una piccolezza a noi
impercettibile. Cosi non vi è nulla di incolto, di sterile, di morto
nell'universo; e non vi è caos nè confusione se non in apparenza; press' a poco
come apparirebbe confusione in uno stagno, ad una distanza dalla quale si
vedesse un movimento confuso, un brulichio, per così dire, di pesci,
senza discernere i pesci stessi. Si vede da ciò che ogni corpo vivente ha
una entelechia dominante che è f anima nell'animale; ma le membra
di questo corpo vivente sono piene di altri viventi, piante, animali,
ciascuno dei quali ha ancora la sua entelechia, o la sua anima dominante. Ma
non bisogna immaginare, come fece taluno che aveva male inteso il mio
pensiero, che ogni anima abbia una massa o porzione di materia propria o
applicata ad essa per sempre, e che essa possieda quindi altri viventi
inferiori, destinati sempre al suo servizio. Poiché tutti i corpi sono in
un flusso perpetuo, come fiumi; e parti vi entrano e ne escono
continuamente. Così l’anima non cambia di corpo se non a poco a
poco, per gradi, di modo che essa non è mai spogliata ad un tratto di
tutti i suoi organi; e vi è spesso metamorfosi negli animali, ma non mai
metempsicosi nè trasmigrazione delle anime; non vi sono neppure anime completamente
separate, nè genii senza corpo. Dio solo è staccato interamente dal
corpo.Perciò anche non vi è nè generazione assoluta, nè morte perfetta,
intesa rigorosamente, come separazione dall’anima. E ciò che noi
chiamiamo generazione, è sviluppo e accrescimento; come ciò che noi
chiamiamo morte, è involuzione o diminuzione. I filosofi sono stati molto
imbarazzati sull’origine delle forme, entelechie, o anime; ma oggi che ci
si è accorti, per mezzo di ricerche esatte sulle piante, sugli insetti e sugli
animali, che i corpi organici della natura non sono mai prodotti da caos
o da putrefazione, ma sempre dai semi nei quali vi ora senza dubbio qualche preformazione,
si è ritenuto che, prima della concezione, vi fosse già non solo il corpo
organico, ma anche un’anima in questo corpo, insomma l'animale stesso; e
che per mezzo della concezione questo animale sia stato solamente disposto
ad una grande trasformazione per divenire un animale di un'altra specie. Si
vede pure qualche cosa di simile fuori del campo della generazione; come quando
i vermi divengono mosche e i bruchi farfalle. La menade, elio ò
assolutamente immateriale, non è però priva di un suo aspetto di
materialità. La materialità viene definita da Leibniz in vari modi: come
percezione confusa; come aggregato. Sempre però come un modo di essere della
monade, un suo particolare « fenomeno ». Posto ciò, e dato che la monade
è eterna e indistruttibile non si può a rigore parlare di morte neppure nella
materia; si potrà parlare solo di aggregazione e di disgregazione, di
passaggio do uno stato all’altro. Cosi non si può parlare di una
materia clic sia pura materia, separata da un’anima che sia pura anima. Le
teorie biologiche del suo tempo servono qui a Leibniz come sostegno e conferma
delle sue concezioni metafisiche. Leibniz, La monadologia. Gli
animali dei quali alcuni sono elevati al grado di animali più grandi per
mezzo della concezione, possono essere chiamati spermatici-, ma quelli
fra di essi che rimangono nella loro specie, cioè la maggior parte,
nascono, si moltiplicano, e vengono distrutti come i grandi animali,
e non vi e che un piccolo numero di eletti che passi ad un teatro
più vasto. Ma questo non era che la metà della verità; ho dunque ritenuto
che se 1 animale non ha mai inizio naturalmente, non avrà neppure fine
naturale, e che non solo non vi sarà generazione, ma neppure distruzione
intera, nè morte rigorosamente intesa. E questi ragionamenti fatti
a posteriori e tratti dalle esperienze si accordano perfettamente coi miei
principi dedotti a priori qui sopra. Così si può dire che non solamente
l'anima (specchio di un universo indistruttibile) è indistruttibile, ma
che lo e anche 1 animale stesso, benché la sua macchina perisca spesso in
parte, e lasci o prenda spoglie organiche. Questi principi mi hanno dato
modo di spiegare naturalmente l’ unione o conformità dell'anima e del
corpo organico. L' anima segue le sue proprie leggi, ed il corpo le
sue; ed essi si incontrano in virtù dell'armonia prestabilita fra tutte le
sostanze, poiché le sostanze sono tutte rappresentazioni di un medesimo
imiverso. Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali, per
appetizioni, fini e mezzi. 1 corpi agiscono secondo le leggi delle cause
efficienti o dei movimenti. E i due regni, quello delle cause efficienti
e quello delle cause finali, sono armonici fra di loro. Cartesio ha
riconosciuto che le anime non possono attribuire forza ai corpi, perchè
vi è sempre la medesima Questa teoria ha il suo corrispondente nella
dottrina della gerarchia delle monadi, secondo cui solo alcune di esse
possono elevarsi agli stadi superiori di animale o spirito ragionevole.
Sui rapporti fra le cause efficienti e le finali, cfr. la nota a] j;
3fi.quantità di forza nella materia. Pur tuttavia egli lia creduto che l’anima
potesse cambiare la direzione dei corpi. Ma egli credeva ciò, perchè ai
suoi tempi non si conosceva la legge naturale che stabilisce anche la
conservazione della medesima direzione totale nella materia: se egli
avesse notato questa legge, sarebbe giunto al mio sistema dell’armonia
prestabilita. Tale sistema stabilisce che i corpi agiscono come se
(ipotesi assurda) non vi fossero anime; che le anime agiscono come se non
vi fossero corpi; e che entrambi agiscono come se l’uno influisse
sull’altro. Quanto agli sjnriti,o anime ragionevoli, benché io
ritenga, come ho detto or ora, che tutti i viventi e animali siano in
fondo conformati ugualmente (cioè che l’animale e l'anima comincino col
mondo e non finiscano se non col mondo stesso), vi è però di particolare
negli animali ragionevoli, il fatto che i loro piccoli animali
spermatici, fino a che non sono che tali, hanno soltanto anime cornimi
o sensitive: ma appena quelli che sono eletti, per così dire,
pervengono per ima effettiva concezione alla natura umana, le loro anime
sensitive vengono elevate al grado della ragione e alla prerogativa degli
spiriti. Tra le differenze che intercedono fra le anime comuni e gli
spiriti, e di cui già ne ho notato alcune, vi è anche questa: che le
anime sono in generale specchi Questo leggo tisica, secondo cui si
oonserva anche la direzione totale (o quantità di progrosso) - cioè a
qualsiasi cambiamento di direzione, in un sistema chiuso, deve corrispondere un
altro cambiamento di direzione eguale o contrario-, contribuisce a fare
del mondo meccanico un sistema a sè, chiuso a qualsiasi influenza elio
provenga dall’esterno, por esempio dnll’aninia. Cartesio credeva alla
oonsorvazione della quantità di movimento (cui Leibniz sostituisce la
conservazione della forza viva); ma non conosceva la conservaziono della
direzione totale. Egli pensava cioè che l'anima potesse mutare la dirozionedi
un movimento, lasciando invariato il sistema. Una tale influenza
dell’anima è impossibile, posta la legge di Leibniz. Anima e corpo
rimangono due sistemi separati, privi di influenze reciproche, cosi come
lo sono le monadi fra di loro. E il loro accordo dovrà essere stabilito
attraverso l’armonia prestabilita. Sulle leggi tìsiche leibniziane, viventi
o immagini dell'universo delle creatine; ma che gli spiriti sono anche
immagini della divinità stessa, o dell’autore stesso della natura; capaci di
conoscere il sistema dell universo e di imitarne alcunché, per mezzo di
saggi architettonici; essendo ogni spirito come una piccola divinità nel
suo ambito. Appunto questo fa sì che gli spiriti siano capaci ili
entrare in una specie di società con Dio, e che egli sia rispetto a loro
non solo quello che un inventore è per la sua macchina (ciò che Dio è
rispetto alle altre creature), ma altresì quel che mi principe è per i
suoi sudditi, ed anzi un padre per i suoi figli. Donde è facile
concludere che l’insieme di tutti gli spiriti deve compone la città di
Dio, cioè il più perfetto stato possibile sotto il più perfetto dei
monarchi. 86. ° Questa città di Dio, questa monarchia
veramente universale, è un mondo morale nel mondo naturale, è ciò
che vi è di più di elevato e di più divino nelle opere di Dio. E proprio
in essa consiste la gloria di Dio; poiché non vi sarebbe gloria, se la
sua grandezza e la sua bontà non fossero conosciute ed ammirate dagli
spiriti; e anche solo in rapporto a questa città divina egli è propriamente fornito
di bontà, laddove la sua saggezza e la sua potenza si mostrano ovunque. Come
abbiamo stabi lito pili sopra una perfetta armonia fra due regni
naturali, l’uno delle cause efficienti, 1 altro delle finali, dobbiamo
notare qui anche un’altra armonia fra il regno fisico della natura e il
regno morale della grazia, cioè fra Dio considerato come architetto
della macchina dell universo, e Dio considerato come monarca della
città divina degli spiriti. Tale armonia fa sì che le coso conducano
alla grazia per le vie medesime della natura, e che questo globo,
per esempio, debba essere distrutto e riparato per vie naturali, nel
momento in cui il governo degli spiriti lo richieda, per il castigo degli
uni e la ricompensa degli altri. Si può dire ancora che Dio, in
quanto architetto, soddisfa in tutto a Dio in quanto legislatore; e che
così i peccati devono portare con sè la propria pena per ordine di
natura e hi virtù anche della strattura meccanica delle cose; e che
analogamente le belle azioni debbono attirare a sè la propria ricompensa
por vie meccaniche rispetto ai corpi; benché ciò non possa e non debba
avvenire sempre immediatamente. Insomma, sotto questo governo perfetto,
non vi sarebbe azione buona senza ricompensa, nè cattiva senza
castigo; e tutto deve risolversi nel bene dei buoni, cioè di coloro che
non sono malcontenti in questo grande stato, che si fidano della
Provvidenza dopo aver fatto il loro dovere, e che amano e imitano come si
conviene l’Autore di ogni bene, compiacendosi nella considerazione delle
sue perfezioni, secondo la natura del vero puro amore veritiero, che fa
prendere piacere alla felicità di colui che si ama. E ciò fa sì che le
persone sagge e virtuose lavorino a tutto ciò che sembra conforme alla
volontà divina presuntiva o antecedente, e si contentino, d'altra parte,
di ciò che Dio fa accadere effettivamente per mezzo della sua
volontà segreta, conseguente e decisiva; riconoscendo che, se noi
potessimo intendere a sufficienza bordine dell'universo, troveremmo che esso
supera tutti i desideri dei piii saggi, e che è impossibile renderlo
migliore di quello che è, non solo quanto al tutto in generale, ma
anche La volontà presuntiva o antecedente rappresenta ciò che
deriva dalla natura stessa di Dio, ohe ò connaturato con la sua essenza;
la volontà conseguente e decisiva rappresenta l’atto effettivo con cui Dio
ha messo in opera la realtà di fatto: atto non necessario, quindi non
prevedibile, « segreto ». Questa distinzione richiama quella fra le verità di
ragione, necessarie, e le verità di fatto, contingenti. quanto a noi stessi in
particolare, perchè ci teniamo legati, come è giusto, all'autore del tutto, non
solamente come all architetto e alla causa efficiente del nostro
essere, ma anche come al nostro signore e alla causa tinaie che
deve costituire tutto lo scopo della nostra volontà, e solo può
procurarci la felicità. E qui accennato al concetto fondamentale della
Teodicea, secondo cui tutto oiò che apparo come malo cessa di essere
tale, quando venga considerato in connessione con l'arinonia del tutto, nella
quale anche i lati oscuri hanno una loro funziono, e le ombreggiature
contribuiscono alla perfezione del quadro. Cfr. p. 4(5 ss. Eugenio
Colorni. Colorni. Parole chiave: diadologia, il concetto dell’individuo,
l’idealismo filosofico como malatia, indice alla malatia metafisica, scritti
filosofici curati da Bobbio, scienza unificata, ebreo-italiano,
ebreo-britannico Ayer, circolo di Vienna, Reichenbach, Hilbert, Eddington.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colorni” – The Swimming-Pool Library. Colorni.
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