Grice e Carle: la ragione conversazionale e le radici del diritto romano – la legge romana – la natura romana – scuola di Chiusa di Pesio – scuola di Cuneo – filosofia piemonese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Chiusa di Pesio). Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Chiusa di Pesio, Cuneo, Piemonte. Grice: “I like Carle – he is like Hart, only better – his Latin tract on ‘exceptio’ is eaxactly what Hart means by defeasibility, only that Carle can found it on Roman law – Like me, he likes the use of ‘principio,’ as when he speaks of a ‘principle of responsibility,’ and his essays on what he calls ‘social philosophy’ is pretty akin to my concerns on cooperation as the epitome of joint behaviour.” Insegna a Torino. Linceo. Esponente del positivismo. La dottrina giuridica del fallimento nel diritto privato internazionale, Napoli, Stamperia della Regia Università); Prospetto d'un insegnamento di filosofia del diritto. Parte generale, Torino, F.lli Bocca); “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Studio comparativo di filosofia giuridica” (Torino, F.lli Bocca); “Le origini del diritto romano: ricostruzione storica dei concetti che stanno a base del diritto pubblico e privato di Roma” (Torino, F.lli Bocca); La filosofia del diritto nello stato moderno, Torino, Unione Tipografico-Editrice); Lezioni di filosofia del diritto” (Torino). Dizionario biografico degli italiani. Positivismo: ius – fatto – non valore – l’implicatura di Romolo e Remo. Naturalism – giusnaturalismo – forza – autorita – ius – “LE ORIGNI DEL DIRITTO ROMANO” -- RICOSTRUZIONE STORICA DEI CONCETTI CHE STANNO A BASE DEL DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO DI ROMA. Fuit haec sapientia quondam Publica privatis secernere, sacra profanis. HOR., poet Ars. LABOR NOR TORINO FRATELLI BOCCA EDITORI LIBRAI DI S. M. IL RE D'ITALIA SUOQURSALI ROMA FIRENZE Via del Corso. Via Cerretapi. DEPOSITI PALERMO NAPOLI CATANIA Università, Piazza Plebiscito, 2 S. Maria al Ros.°, 23 (Carosio ) Carosio )TORINO BONA. La nobile Università di Bologna, commemorando in questi giorni l'ottavo centenario dalla sua fondazione, ci rammenta anche l'epoca, in cui essa iniziando gli studi sul diritto romano si rese benemerita di tutto il mondo civile. Agli omaggi, che in questa occasione solenne convengono costi d'ogni paese, mi sia consentito di aggiungere quello di un'opera ispirata al desiderio di mantenere viva nella gioventù studiosa italiana la tradizione civile e politica di Roma. Di Lei Rettore Magnifico bord Torino, Devot.mo ed obblimo. Ritornato di proposito allo studio del diritto romano, in seguito all'incarico affidatomi di insegnarne la storia nella R.Università di Torino, parvemi di rileggere uno di quei libri, la cui meditazione può riempiere tutta una vita, perché ad ogni lettura e ad ogni età offrono campo ad osservazioni, che prima sono sfuggite. Quegli studii di giurisprudenza comparata, che in questi ultimi anni si vennero facendo sulle istituzioni primitive di quel periodo gentilizio, nel quale debbono essere cercate le fondamenta, sovra cui furono poscia edificate le città, mi parvero irradiare di nuova luce l'antichissimo diritto di Roma, e aprire nuove vie per spiegare il processo, con cui ebbe ad essere iniziata la formazione del medesimo. È strano infatti che, mentre il diritto romano, fra le grandi elaborazioni del genere umano, è certamente quella, che ebbe ad essere maggiormente studiata nei frammenti che a noi ne pervennero e nei suoi ultimi risultati, continui pur sempre ad essere un grande mistero il processo, con cui i romani giunsero ad elevare un cosi grande edifizio, e il motivo per cui essi e non altri riuscirono ad innalzarlo. La causa tuttavia di questa singolarità deve essere riposta in ciò, che per risolvere il problema delle origini del diritto romano non può bastare lo studio staccato dei frammenti, nė l'esegesi applicata ai testi, ma conviene ricomporre le epoche, raccogliere i rottami che ci pervennero di esse, colmarne le la cune, riportarsi col pensiero alle condizioni economiche e sociali del primitivo popolo romano, sforzarsi di rivivere in quel tempo e di pensare in certo modo alla romana, tener conto delle particolari attitudini dell'ingegno romano, far procedere di pari passo la formazione della città e lo svolgimento delle sue istituzioni pubbliche e private. Conviene insomma ricostruire la vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale di Roma, e cercare cosi di decifrare la pagina più splendida della vita del diritto nella storia dell'umanità. Certo era naturale cosa, che uno studioso della vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale mal sapesse resistere alle attrattive di un simile argomento, credendo con ciò, non di venir meno,madi perseverare in quel l'ordine di studii, a cui si è dedicato con tutte le forze. Miproposi pertanto di ricostruire il processo logico e storico, che governa la formazione deldiritto romano, sopratutto nei suoi esordii, non coll'intento di sostituirmi ai dottissimi nella materia, ma con quello più modesto di valermi dei materiali che furono raccolti con tanta diligenza, sopratutto in Germania. Mi accinsi poi all'arduo compito con un entusiasmo, che forse più non conviene alla mia età, ma che ebbe il vantaggio di rendermi aggradevole la lunga fatica, e che vorrei trasfondere nella gioventù studiosa, unitamente alla convinzione profonda, che le grandi elaborazioni dell'ingegno umano, mentre cambiarono in maestri dell'umanità coloro, che giunsero a crearle, hanno anche il pregio di confortare ed elevare il pensiero di coloro, che si travagliano per comprendere il processo natu rale, che ne governd la formazione. Debbo tuttavia una confessione al lettore benevolo: ed è che il presente saggio, cominciato forse coll’idea, non preconcetta, ma latente, che il diritto pubblico e privato di Roma fosse il frutto di una evoluzione determinata dalle condizioni esteriori, in cui si trova il popolo romano, riusci invece a conclusioni alquanto diverse. I romani, cosi nel formare la propria città, come nell’elaborare le proprie istituzioni pubbliche e private, seguirono un processo, che chiamo di selezione. Anziché essere dominati dai fatti esteriori, cercarono invece di dominarli, e di sottometterli alla logica inesorabile del proprio diritto. Come le mura della loro città sono costruite coi massi più solidi delle costruzioni gentilizie, cosi i concetti, che stanno a base del loro diritto pubblico e privato, sono trascelti nel seno stesso della organizzazione gentilizia. Ma trapiantati nella città ed isolati cosi dall'ambiente, in cui si erano formati, si cambiarono in altrettante concezioni logiche, che si vennero poi svolgendo ed accomodando alle esigenze della vita civile e politica. Anche questo e un processo naturale. Ma non è più il processo, che governa la formazione degli strati geologici, che si sovrappongono gli uni agli altri e serbano l'impronta dei bassi fondi sovra cui si vengono precipitando, bensi il processo, che governa la formazione dei cristalli, per cui gli elementi affini, depurati da ogni scoria, si vengono, per dir cosi, ricercando ed attraendo e si dispongono costantemente secondo quelle forme tipiche, che ne governano la formazione. Di quiconseguita, che il diritto romano non èu na produzione determinata esclusivamente dall'ambiente e dalle condizioni esteriori. Ma è già l'opera in parte consapevole dello spirito vivo ed operoso di un popolo, il quale, valendosi di attitudini naturali, che in questa parte si possono chiamare veramente meravigliose, riusci a secernere e ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, a modellarla in concetti tipici, a svolgere i medesimi in tutte le conseguenze, di cui po tevano essere capaci, e a trasmettere cosi alle nazioni moderne un capolavoro di arte giuridica. Questo è il risultato ultimo, a cui sono pervenuto. Per la prova del medesimo invito gli imparziali amici del vero a leggere il saggio, nel quale, malgrado la varietà immensa dei particolari, cerca di riprodurre quella coerenza organica, che è la caratteristica dello svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. Le tradizioni e le leggende da cui appare circondata la fondazione di Roma presentano a primo aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte, Roma ha infanzia. E fondata di pianta da un avventuriero di origine latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata, il quale, dopo aver circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agl’esuli e ai rifugiati dalle dalle comunanze vicine. E il fondatore stesso che da a Roma le sue istituzioni pubbliche e private. Il suo successore le da l'organizzazione del culto, finchè da ultimo Roma già ingrandita, mediante l'incorporazione di popoli e di genti diverse, avrebbe ricevuto una nuova organizzazione civile, politica e militare per opera di Servio Tullio, che si sarebbe così meritato il nome di secondo fondatore della città. Per tal modo, la forza dapprima, poi la religione -- e da ultimo la sapienza civile hanno posto, le fondamenta della città, e le sue istituzioni civili e politiche appariscono come una creazione personale dei re, fra i quali la tradizione avrebbe perfino distribuito il compito. Il suo fondatore è latino, mentre invece è sabino l'organizzatore del culto, e da ultimo è probabilmente di origine etrusca quegli, che ne ha riformato compiutamente l'organizzazione civile e politica e ha stabilito quelle istituzioni, che riceveranno poi il proprio svolgimento durante l'epoca repubblicana. Da un altro lato, invece, la stessa tradizione circonda la fondazione di Roma di cerimonie religiose, di carattere tradizionale, che supponneno una religione già compiutamente formata, e fa apparire Roma nella storia con un nucleo di istituzioni pubbliche e private, che dove poi svolgersi con un rigore pressochè geometrico, ma che intanto suppongono una lunga elaborazione anteriore. Di fronte a questa apparente contraddizione, il maggior problema, che si presenta al filosofo e quello di sostituire alla storia leggendaria delle origini di Roma una storia viva ed organica di essa, ricercando le origini delle istituzioni primitive con cui essa appare nella storia. In questa ricostruzione, la filosofia dapprima si scosto per modo dalle tradizioni a noi pervenute da scorgere in queste poco più di una serie di leggende. Ma dovette poi riaccostarsi alle medesime, e finisce per giungere a questo risultato, che le istituzioni con cui Roma compare nella storia non possono esser ritenute come l'opera esclusivamente personale dei re. Debbono essere riguardate come il frutto di una lunga e lenta elaborazione già compiutasi in un periodo anteriore di organizzazione sociale, che sarebbe il periodo dell'organizzazione gentilizia o patriarcale. Roma secondo i risultati della filosofia, avvalorati anche dagli studii comparativi fatti sui popoli primitivi sopratutto di origine ariana, continua quell'opera di formazione della convivenza civile e politica, iniziata gia dalle altre popolazioni italiche, le cui memorie risalgono ad epoca anteriore a quella che è fissata per la fondazione di Roma. Quindi è presso le genti latine ed italiche, che debbono essere cercate le origini delle primitive istituzioni di Roma. Secondo il computo più universalmente adottato, Roma è stata fondata nell'anno – ANNO I – ed e comparsa fra popolazioni diverse, delle quali alcune in parte già erano uscite dall'organizzazione gentilizia, e stano avviandosi ad una vera e propria organizzazione civile e politica. Senza entrare nella questione dei rapporti, che possono correre fra [Per un riassunto esatto delle tradizioni intorno alla storia primitiva di Roma accompagnato da una critica finissima per separare il nucleo primitivo della tradizione dalle aggiunte che si fecero più tardi, è da vedersi BONGHI, “Storia di Roma”. Per lo studio delle istituzioni poli tiche importa sopratutto la parte che si occupa appunto della costituzione politica di Roma, secondo CICERONE, Livio, Dionisio] le stirpi italiche e le stirpi elleniche e in quella della loro provenienza dall'Oriente, questo è certo che fra le stirpi italiche già erano pervenute ad un certo svolgimento di civiltà e di potenza le stirpi umbro-sabellica, latina ed etrusca. Scavi dimostrano che il sito occupato da Roma dove già essere popolato da un'epoca assai remota e del tutto pre-istorica. E scoperta sull'Esquilino una vasta necropoli, la cui esistenza dimostra che una città etrusca di grande estensione ed importanza (Rasena) esiste anche prima del periodo reale leggendario, e costituisce una prova molto importante contro quella teoria che, attribuendo a Roma un'origine esclusivamente latina e sabina, tende ad escludere o quanto meno ad attenuare l'influenza dell'elemento etrusco. Tale provenienza delle stirpi italiche dalle razze ariane e la conseguente loro, parentela colle elleniche, colle germaniche, celtiche e slave, è oggidì universalmente ammessa, salvo che si mantiene ancora sempre una grande oscurità circa l'origine della razza etrusca. Tra gli autori recenti ha recato un contributo alla dimostrazione di tale provenienza Leist, “Graeco-italische Rechtsgeschichte” (Jena), sopratutto nella parte in cui dimostra l'identità di certi concetti primitivi comuni agl’arii dell'India e alle genti italiche ed elleniche. È da vedersi la parte, che si riferisce alle instituzioni sacrali, in cui discorre dei concetti di rita, themis e ratio. Quest'origine comune è pure ammessa dal BERNHÖFT, “Staat und Recht der Römischen Königszeit” (Stuttgart). Per quello poi che riguarda il vario svolgimento, che le istituzioni elaboratesi nell'oriente dagl’arii primitivi ebbero a ricevere presso gli’arii dell'India, della Persia, e poscia nell'occidente presso i greci, gli’italici ed i germani, mi rimetto a quanto ho scritto in “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino), i cui primi due libri sono appunto dedicati a tale svolgimento. Sono a vedersi in proposito le notizie sugli scavi, che si pubblicano dall'Accademia dei Lincei. Come riassunto degli studii topografici fatti intorno a Roma fino a questi ultimi tempi mi sono valso dell'opera di MIDDLETON, “Ancient Rome” (Edinburgh). Middleton parla di questi scavi e dei resti dell'antichissima Rom. Fra gli autori che tendono a scemare l'influenza del l'elemento etrusco sopra Roma primitiva, abbiamo il MOMMSEN, il LANGE, e il Pelham nella sua storia di Roma antica pubblicata nell’Encyclopedia Britannica, ninth edition, Edinburgh, -- voce: Rome. Combatte questa opinione il Taddei nel suo l”Roma e i suoi Municipii” (Firenze). Senza pretendere di risolvere la questione, è lecito osservare che mal si può sostenere la niuna influenza su Roma primitiva di un popolo come l'etrusco che ha già delle città in siti vicini, che conosceva quei riti con cui Roma fu fondata, e che diede a Roma i tre ultimi re, quelli cioè, che rinnovarono più profondamente non solo l'aspetto esteriore della città, ma anche la costituzione politica della medesima. 4 Queste varie stirpi, che abitavano il suolo italico, per quanto ora si ritengano tutte uscite dalla stirpe aria, hanno però dimenticata la provenienza comune ed apparivano distinte fra di loro di origine, di costumi e non hanno fra di loro comunanza di matrimonii. Solo sono ravvicinate da feste religiose e da certi luoghi di mercato, ove taceno i conflitti e si praticao gli scambi ed i commerci. Quanto alla loro organizzazione sociale, esse, secondo l'opinione di Mommsen, del Leist, del Lange, si trovano nel periodo di transizione dall'organizzazione gentilizia di carattere patriarcale all'organizzazione politica della città e del municipio. Però anche a questo riguardo si presentano in stadii e gradazioni diverse. La stirpi umbro-sabellica apparisce con un carattere pro fondamente religioso. Sono dedite ancora più alla pastorizia che al l'agricoltura. Preferiscono per formarvi le proprie sedi i luoghi montani e conservano ancora quel carattere di fiera indipendenza, che è proprio degli abitanti della montagna. Esse non abitano ancora in vere e proprie città, ma in villaggi aperti, che costituiscono al trettante comunanze rurali, e serbano le traccie di una potente organizzazione gentilizia, di cui puo trovarsi un notevole esempio nella gens “Claudia”. Queste stirpi anche più tardi dimostrarono poca attitudine alla formazione di un vero e proprio stato, come lo provano le sorti dei bellicosi sanniti, che sono appunto derivati dal ceppo umbro-sabellico. Trovansi invece già in condizione più progredita, per quel che riguarda l'organizzazione sociale, la stirpe latina. Il Lazio infatti appare diviso in altrettante comunanze di villaggio aperte, che sono costituite da una aggregazione di famiglie e di genti, le quali discendono da un antenato comune, di cui portano il nome e professano il culto gentilizio. Tali aggregazioni di genti, che chiamansi tribù, abitano nei vici e nei pagi. Ma, riconoscendo la loro origine comune, anzichè avere una esistenza del tutto separata ed indipendente, sono già a far parte di un'aggregazione più vasta, che costi [In ciò sono d'accordo Mommsen, Histoire Romaine. Trad. De Guerle. Paris, ed anche il Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier. Paris. Lange attribuisce alle genti sabine un carattere più conservatore che non alle Latine [-tuisce poi il “populus” e la “civitas”. Questa aggregazione più vasta non solo ha comune la lingua, il costume e la religione, ma eziandio la legge, l'amministrazione della giustizia e la difesa contro gl’attacchi e l’aggressioni esterne. Essa quindi abbisognava di un centro comune, a cui potessero metter capo le diverse comunanze di villaggio, il quale centro comune era l'”urbs”, così chiamata dall'*orbita* sacra che la circonda, nel cui recinto trovavasi l'arx o fortezza, a cui riparare nei momenti di pericolo, il tempio del divino patrono – “dius,” “dius-piter” -- dell'intiera comunanza, il luogo ove si amministra giustizia, il sito per il mercato e per le pubbliche riunioni. Questi stabilimenti pertanto, più che vere e proprie città quali noile intendiamo, sono piuttosto inizii di città future, in quanto che esse contenevano sopratutto quegl’edifizii, che hanno pubblica destinazione. L'urbs era in certo modo il centro della vita pubblica per le diverse comunanze di villaggio, come lo dimostrano anche le varie porte esistenti nel muro di cinta, le quali porgevano modo di accedervi agl’abitanti dei diversi villaggi. Si aggiunge che le varie città latine, le quali, secondo la tradizione, sarebbero state in numero di XXX, erano anche confederate fra di loro e mettevano capo ad una capitale: Alba Longa. Cid dimostra come le popolazioni latine già fossero abbastanza progredite nella loro organizzazione sociale, poichè, pur continuando ancora a vivere nelle comunanze di villaggio, sono pero già pervenute a concepire e in parte ad attuare quella vita pubblica comune, che dove poi svolgersi nella città e nel municipio. Vengono infine la stirpe etrusca, la cui civiltà è ancora oggidi celata nel mistero, perchè le traccie di essa furono in certo modo cancellate ed assorbite da Roma. Non può tuttavia esser dubbio, che esse già erano in condizione di maggior progresso eco nomico e civile delle altre popolazioni italiche, in quanto che posse devano vere e popolose città, conoscevano le arti e la moneta, e per essere dedite al commercio si trovano in comunicazione maggiore cogli altri popoli e sopratutto coi Greci. Anche presso di queste era largamente svolto l'elemento religioso, come lo dimostra la sapienza loro attribuita nell'arte augurale e nella consultazione degli auspizii, come pure la tradizione, che presso di essi esistessero libri, MOMMSEN, FUSTEL DE COULANGES, La cité antique (Paris) - che determinano i riti con cui le città dovevano essere fondate, e davano le regole secondo cui la loro popolazione dove essere ripartita in tribù ed in curie. Del resto anche l'antica costituzione della città etrusca, secondo Mommsen, si accosta nei suoi tratti generali a quella della città latina, salvo che in essa il passaggio dall’organizzazione patriarcale all'organizzazione muicipale già erasi spinto più oltre, in quanto che la stirpe etrusca, per essere sopratutto dedite alla navigazione ed al commercio, erano state naturalmente condotte a svolgere di preferenza le comunanze urbane, che non le comunanze di carattere esclusivamente rurale. I capi etruschi avevano il nome di Lucumoni. La popolazione delle loro citt dividevasi in nobili ed in plebei, come pure in tribù ed in curie, e se al disopra delle singole città apparivano eziandio delle confederazioni, i vincoli pero che stringevano insieme le varie città, che entravano a costituirle, non sono cosi intimi e stretti come quelli che esisteno fra le città della confederazione latina. Esse infine pure presentano le traccie dell'organizzazione gentilizia, ma queste sono già alquanto più alterate per il maggior svolgimento a cui è pervenuta la comunanza civile e politica. È a questo punto dello svolgimento dell'organizzazione sociale e della convivenza civile, che Roma compare nella storia. Per quanto possano esservi dei dubbi sull'influenza, che su di essa abbiano esercitato più tardi l'elemento latino e l'elemento etrusco, questo è certo che il primo nucleo di essa ebbe ad essere costituito da un gruppo di uomini armati di origine latina. Sono i Ramnenses -- guidati da Romolo -- e usciti come colonia o per secessio da Alba Longa, che hanno fondato quella Roma palatina, che, per la forma quadrangolare delle sue mura, di cui sussistono ancora gli avanzi, suole essere indicata col nome di “Roma quadrata”. Festo, v° Rituales: “Rituales nominantur etruscorum libri, in quibus prae scriptum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur; qua sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae, centuriae distribuantur, exercitus consti. tuentur, ordinentur, caeteraque eius modi ad bellum ac pacem pertinentia . MOMMSEN. LANGE cerca di distinguere il popolo dei “Rasennae”, che sarebbero secondo lui i veri Etruschi, che egli ritiene di origine aria ma di provenienza settentrionale, dagli abitanti del “vicus tuscus”, che apparterrebbero invece ai Tursci, da lui ritenuti di origine umbra. È questa la Roma, il cui pomoerium è stato descritto da TACITO. Nulla vi ha di ripugnante nella tradizione, che questa mano di guerrieri, stabilitasi colla forza in un sito chiuso e fortificato, siasi dapprima trovata in lotta aperta colle altre comunanze, che erano stabilite in prossimità del Palatino. Essa però ben presto esercita una attrazione potente sulle popolazioni vicine, e si trasforma in un centro per la vita pubblica di una confederazione di varie comunanze di villaggio, che sono disperse in quell'antico septimontium, che ci è descritto dal giureconsulto M. Antistio Labeone, il quale avrebbe compreso il Palatino, il Fagutale, la Subura, il Cermalo, l'Oppio, il Celio e il Cespio. Cosi pure dovette presto entrare nella federazione anche una comunanza di origine sabina, che era stabilita sul Quirinale. Di qui la conseguenza, che le tradizioni antiche ed anche gli studi recenti, fatti sulla topografia di Roma, condurrebbero a conchiudere che Roma primitiva avrebbe attraversato nel periodo, che suole essere assegnato al regno del suo fondatore, due stadii ben distinti nella propria formazione. Nel suo primo comparire infatti Roma non è ancora che lo stabilimento romuleo, il quale, malgrado la denominazione che già assume di vera e propria città, consiste nella sede fortificata di una tribù di origine latina, che è quella dei Ramnenses, ancorchè intorno ad essa già si trovi in via di formazione una plebe, il cui numero sarebbesi accresciuto, secondo la tradizione, mediante l'asilo aperto ai rifugiati ed agli esuli delle comunanze vicine. Più tardi invece questo nucleo agreste di guerrieri di origine latina entra dapprima in ostilità e poscia viene in alleanza con comunanze già prima stabilite sui colli vicini. Allora Roma diviene centro e capo di tale federazione, e mutasi in una vera urbs, secondo il con È pur nota la questione relativa al pomoerium, che alcuni vorrebbero collocare entro le mura fondandosi su Livio, I, 44, mentre altri sostengono che fosse al di là delle mura, come lo indicherebbe la stessa parola post-moerium. La questione fu di recente trattata con grande corredo di erudizione da CARLOWA (“Romische Rechtsgeschichte” Leipzig). Carlowa sembra propendere per l'opinione, che il pomoerium serve di confine fra il territorio dell' “urbs” e l' “ager” circostante. Cf. MIDDLETON Il testo di LABEONE è riportato da HUSCHKE, “Iurisprudentiae anti-Iustinianeae quae supersunt”, Lipsiae. Un accenno a questo concetto trovasi in Lange, “Histoire intérieure de Rome”. Tuttavia non pare che il medesimo consideri lo stabilimento romuleo come una semplice tribù.] cetto latino, ossia nella sede della vita pubblica di queste varie comunanze. Questi due stadii nella formazione di Roma primitiva, di cui non si tiene sempre sufficiente conto, sono accennati da diversi autori e fra gli altri anche dal giureconsulto Pomponio, secondo il quale Romolo non procede alla divisione della città in curie subito dopo la fondazione di essa. Ma vi sarebbe invece addivenuto soltanto “aucta ad aliquem modum civitate” -- cioè quando altre comunanze già eransi incorporate o meglio federate con essa nel l'intento di partecipare ad una vita pubblica comune. Gli elementi primitivi, che secondo la tradizione sonno entrati a far parte della comunanza romana in questo suo primo periodo di ingrandimento, sono dalla stessa tradizione ridotti a TRE tribù, cioè alla tribù dei TRIBU I -- Ramnenses, che era quella dei fondatori, a quella TRIBU II -- dei Titienses, di origine Sabina, stabiliti sul Quirinale, i quali sarebbero entrati nella comunanza mediante un foedus aequum, come lo dimostra il fatto che i capi delle due tribù avrebbero regnato insieme e poscia i loro successori si sarebbero alternati nel comando, e a quella infine TRIBU III -- dei Luceres, coi quali sembra in vece sia seguito un foedus non aequum. L'origine di questo ultimo elemento è incerta, ma dovette probabilmente essere etrusca, quando si consideri, unitamente alla loro denominazione, l'esistenza di un antichissimo Vicus Tuscus, la serie degli ultimi re che furono di origine etrusca, e si tenga conto del fatto che le recenti scoperte dimostrano come le genti etrusche già avessero da epoca ante riore fondato delle vere e proprie città in prossimità del sito, ove Roma e edificata, Cosi intesa la formazione di Roma primitiva, si dovrebbe venire alla conclusione, che la incorporazione delle tre tribù nella comunanza romana avrebbe dovuto operarsi fin dal periodo assegnato dalla tradizione al regno di Romolo -- il che però non toglie, ed [POMPONIUS, L. 2 Dig. Credo doversi accogliere questa opinione nell' intricatissima questione, perchè non si comprenderebbe la divisione tripartita della città, che viene attribuita a Romolo, quando il concorso delle tre tribù non si fosse effettuato durante il suo regno. Vero è, che nella storia primitiva di Roma havvi un momento storico, in cui per l'aggiunzione di nuovi elementi si raddoppia il numero dei membri dei collegi sacerdotali e quello delle centurie dei cavalieri, ma il raddoppiamento si fa sempre sulla [ 9 anzi spiega anche meglio come Roma, risultando di elementi diversi fin dalla propria origine, ha poi accolte nella comunanza nuove genti di origine latina, come di origine sabina e di origine etrusca, ed abbia in certo modo esercitata una specie di attrazione sopra queste varie stirpi italiche, come lo dimostrano le tradizioni relative alla cooptazione delle genti albane, quelle relative a Celes Vi benna e alla venuta di Tarquinio a Roma colla sua gente, ed all'in corporazione, avvenuta negli inizii del periodo repubblicano, della gente Claudia di origine sabina. Intanto però il fatto, che Roma avrebbe preso le mosse da uno stabilimento romuleo di origine latina, fondato in guisa analoga a quella con cui si fondavano anche più tardi le colonie e con una analoga ripartizione dal territorio occupato, spiega il carattere che Roma ha poi sempre a ritenere di città eminentemente latina, in quanto che gli elementi, che si vennero aggiungendo al nucleo primitivo, dovettero entrare nei quadri propri dello stabilimento latino. Ciò accadde per mezzo di successive federazioni, una delle quali, quella coi Luceres, sarebbe stata un foedus non aequum, in quanto che il nuovo elemento sarebbe entrato nella comunanza in una condizione inferiore . Conviene quindi conchiudere, che Roma primitiva, oltre all'essere di origine latina, fu anche foggiata sul modello delle città latine, e che quindi, al pari dell'urbs delle popolazioni del Lazio, diventa fin dapprincipio una città federale, che può essere considerata come il centro della vita pubblica di varie comunanze di villaggio. È però naturale, che questa trasformazione, per cui Roma cessa di essere esclusivamente la sede fortificata di una tribù per diventare centro e capo di una confederazione, abbia fatto sentire la necessità di fortificare anche il Capitolino, e di munire di un vallum od agger l'Aventino, costruzioni queste, che, secondo Dionisio, si sarebbero compiute dallo stesso Romolo, ma di cui non rimasero più gli avanzi, che sono base di tre, il che indica che già anteriormente dovevano esservi tre tribù, che con correvano alla formazione di Roma. Cfr. Bloch, “Les origines du Sénat Romain” (Paris) e per l'opinione contraria Bouché-LECLERCQ, “Manuel des institutions romaines” (Paris). Il principio “prior in tempore, potior in iure” è dai Romani applicato non solo in tema di diritto privato, ma anche in tema di diritto pubblico. Questo concetto è ancora espressansente enunciato nella legge 74, 1, Cod. Theod. 12, 1. “Anteriore tempore adscitos ipsa aequum est antiquitate defendi” [- invece notevoli quanto alla primitiva Roma quadrata. Vero è che questa narrazione di Dionisio e posta in dubbio dalla critica contemporanea. Ma Dionisio è certo che in se stessa non ha nulla di improbabile, in quanto che era ben naturale, essendosi estesa la comunanza colla federazione di altre popolazioni vicine, che anche il caput ed il centro di Roma fosse trasportato in un sito, a cui fosse più facile l'accesso dalle varie comunanze, e che non fosse la dimora pressochè esclusiva di una delle tribù confederate, come era della città palatina. Si comprende pertanto come, sotto lo stesso Romolo o sotto i sei re che lo seguirono, la fortezza della città e il tempio del divino patrone comune – “dius”, “dius-piter” -- siansi fondati sul Capitolino e come a poco a poco gl’edifizii pubblici di Roma antica siansi venuti concentrando fra il Palatino ed il Capitolino, in quel sito appunto in cui ancora oggidi si ammirano le grandi reliquie degli edifizii pubblici di Roma antica -- edifizii che al tempo d’Ottaviano già sono considerati come una specie di museo, e come tali erano divenuti oggetto di venerazione e di culto, ed erano custoditi qual memoria di una vita politica, che ormai ha cessato di esistere. A questo periodo però, che può dirsi di semplice confederazione, ne succedette un altro, in cui comincia ad effettuarsi una vera e propria incorporazione delle varie comunanze di villaggio in una città, la quale, fortificata e chiusa in se stessa, apparisse paurosa e potente alle popolazioni vicine. Due cose si richiedevano per una simile trasformazione. Convenne anzitutto che alla distinzione delle tre tribù primitive, che ricorda ancor sempre la loro origine diversa, si facessero sottentrare altre distinzioni, le quali sostituissero al vincolo genealogico il vincolo territoriale, e che gl’elementi diversi, che sono entrati a far parte della stessa comunanza politica e militare, fossero anche stretti insieme, mediante la coabitazione entro le medesime mura. Fu allora, che, secondo la vigorosa espressione di Floro, comincia a mescolarsi insieme il sangue di elementi originariamente diversi, i quali finirono col tempo per costituire un unico corpo ed un organismo coerente in tutte le sue parti. Dion. Cfr. MIDDLETON, Ancient Rome. FLORUS, III, 18. “Quippe cum populus romanus etruscos, latinos, sabinosque miscuerit et unum ex omnibus sanguinem ducat, corpus fecit ex membris et ex omnibus unus est. Questi sono i divisamenti, che, incominciando da Tarquinio Prisco, già cominciano a delinearsi nella mente dei re. È noto infatti che Tarquinio Prisco già avrebbe tentato, secondo la tradizione, di aggiungere nuove tribù alle tre primitive e di rompere così il modello primitivo, sovra cui Roma erasi venuta formando. Il suo tentativo però trova opposizione nell'augure sabino Atto Navio, che qui evidentemente si fa interprete dello spirito conservatore del patriziato romano, e quindi l'opera di Tarquinio Prisco dovette limitarsi a fare entrare gl’elementi sopraggiunti nei quadri delle tribù primitive. Gli è perciò, che gli viene attribuito di aver raddoppiato il numero delle vestali, di aver duplicato il numero delle centurie degl’equites, aggiungendo alle tre centurie dei Ramnenses, Titienses, Luceres primi le tre dei Ramnenses SECUNDI, Titienses SECUNDI, Luceres SECUNDI, e di avere infine anche raddoppiato o quanto meno portato a CCC il numero dei senatori con aggiungere ai “patres MAIORUM gentium” quelli “patres MINORUM gentium” Così pure è ormai dimostrato che i re anteriori a Servio Tullio già iniziano dei lavori di cinta e di fortificazione, che poi furono com presi nella cinta Serviana, e che la grande opera di questa nuova cerchia di Roma già e incominciata sotto Tarquinio Prisco. L'una e l'altra opera fu poi continuata da Servio Tullio, che forte dell'appoggio della plebe e di parte anche del popolo, sembra aver fatto a meno anche dell'approvazione dei padri. Egli infatti, senza distruggere la primitiva organizzazione di Roma, fondata ancora sulla discendenza, riusci a creare, accanto alla medesima, una nuova organizzazione militare, politica e tributaria, per cui la popolazione romana ricevette una nuova ripartizione in V CLASSI ed in centurie, e il suo territorio venne ad essere diviso in tribù locali. Così pure riusci a compiere quell'opera gigantesca della cinta, che fu dal nome di lui chiamata Serviana, i cui avanzi formano ancora oggi la meraviglia degli investigatori dell'antichità e dimostrano da soli la grandiosità e l'unità del concepimento, malgrado che parecchi re avessero partecipato alla costruzione di quelle mura e di quell'agger, che poi furono chiamati Serviani; costruzione, che sarebbe pressochè incomprensibile se non fosse stata compiuta col concorso di quelle “plebs”, ormai già fatta numerosa, che con Servio [Cic. de Rep., LANGE -- Tullio sarebbe entrata a far parte del Populus Romanus Quiritium. È da questo momento che Roma appare chiusa e fortificata nelle proprie mura, già splendida di edifizii, ricca eziandio di una popolazione urbana, che può ancora essere accresciuta senza che occorra di estenderne il pomoerium. È da quest'epoca parimenti, che Roma, forte del rigore del proprio diritto e della propria disciplina domestica e militare, si mette in lotta aperta con tutte le tribù o genti, che non siano disposte ad accettarne la superiorità o l'alleanza. Noi ci troviamo così di fronte alla Roma storica, conquistatrice e legislatrice prima dell'Italia e poscia dell'universo, degna di essere studiata nelle sue lotte intestine e nella sua unità compatta di fronte alle altre genti.Tuttavia, anche dopo Servio Tullio, Roma non giunge mai a chiudere nelle proprie mura tutta la sua popolazione, ma soltanto le quattro tribù urbane, mentre è ben maggiore il numero delle tribù rustiche. e lo spazio dalle medesime occupato. Per tal modo essa continua ancor sempre ad essere il centro della vita pubblica, a cui mettono capo le popolazioni sparse nelle comunanze di villaggio o pagi, che la circondano, ed è la sua persistenza in questo processo già seguito in Roma primitiva e non mai abbandonato anche più tardi, che spiega come Roma abbia potuto cambiarsi in una città, i cui cittadini erano sparsi dapprima in tutto il Lazio, poi per tutta l'Italia, e da ultimo per tutto il territorio dell'impero. Se insisto alquanto lungamente sopra questo concetto, gli è per dimostrare come non possa accettarsi l'opinione che sull'autorità di Mommsen e di altri fu pressochè universalmente accolta e che a mio avviso rende del tutto incomprensibile la storia primitiva di Roma, secondo cui questa sarebbe stata fin da principio l'unione, la fusione, l'incorporazione di varie tribù e genti e dei territorii dalle medesime occupati. Ciò è smentito dal processo seguito nella formazione delle città latine, quale è descritto dallo stesso Mommsen, ed è in contraddizione con tutta la storia primitiva di Roma. Roma nei proprii inizii e modellata sull'urbs dei popoli latini, e come tale non e che la capitale di una federazione e il centro della sua vita pubblica, mentre lascia che le genti e le famiglie con [V. in proposito BARATTIERI, “Sulle fortificazioni di Roma all'epoca dei re”, Nuova Antologia] -- tinuassero la propria vita domestica e patriarcale nelle comunanze di villaggio, alle quali continud a lasciare i proprii territorii gentilizii. La sua formazione pertanto non è dovuta ad un processo di aggregazione, ma ad un processo di *selezione*, cosa che sarà più largamente dimostrata a suo tempo. Qui basta il notare che questo modo di spiegare la formazione di Roma primitiva conduce a conseguenze molto diverse da quelle, ch e furono pressochè universalmente adottate. Partendo infatti dall'idea di una semplice aggregazione si giunge a trasportare le gentes fra le ripartizioni delle città, come ha fatto Niebhur; a sostenere con Mommsen che la primitiva proprietà di Roma e una proprietà collettiva come quella delle gentes, ciò che è smentito assolutamente dal diritto primitivo di Roma, a dare collo stesso autore un carattere assolutamente patriarcale alla primitiva costituzione di Roma, e ad una quantità di altre illazioni, che rendono del tutto inesplicabile e contradditoria la storia primitiva di quel popolo, che ha usato una maggior logica nello svolgimento delle proprie istituzioni. Con questo sistema si dove necessariamente giungere a considerare la storia primitiva di Roma come una serie di leggende, che sarebbero state inventate da un popolo, che in tutto il resto si è dimostrato invece ben poco fantastico, nell'intento di combinare l'umiltà delle proprie origini colla grandiosità dello svolgimento, che ebbe a ricevere dappoi. Pare strano che nella mia pochezza venga a combattere opinioni, le quali appariscono suffragate da un così gran cumulo di erudizione e di studii. Nè io l'avrei fatto quando si trattasse di questo o di quel documento storico, ma dal momento che trattasi di ricostruire in base alle induzioni più probabili il processo, che Roma segue nella propria formazione, mi parve di doverlo fare, poichè sono appunto le opinioni inesatte dei grandi filosofi, che pongono gli altri sopra una falsa via. È incredibile la quantità di induzioni errate, che produsse nella storia di Roma la confusione fatta da Niebuur dell'organizzazione gentilizia coll'organizzazione politica allorchè volle scorgere nelle dekódeS di Dionisio le gentes, e sostenne così che queste fossero una divisione politica della città. Tutta la critica storica tedesca si pose in questa via e tutti vollero scorgere nella città un'aggregazione di gentes, il che rese del tutto inesplicabile la storia primitiva di Roma. Mi basterà citare fra gli altri; MOMMSEN che dice che le genti erano incorporate tali e quali nello stato con tutti i loro territorii e con tutte le famiglie, che contenevano e che il gruppo della famiglia e della gens continuava a sussistere nello Stato. LANGE, con uno sforzo mirabile, ma sfortunato, di sottigliezza, vuol trovare ad ogni costo i caratteri della famiglia nello Stato romano. Parmi invece un processo assai più logico e che può condurre a risultati assai più verosimili quello, che ha già ad esser iniziato da Bonghi, di prendere Roma, quale essa si presenta nelle tradizioni esaminate col sussidio della critica. Dal momento che Roma si è veramente staccata da una popolazione latina, è naturale che essa sia stata dapprima foggiata sul modello delle città latine, e che abbia continuata tenacemente l'opera già da queste incominciata di organiz zare, accanto alla vita patriarcale e gentilizia, quella vita pubblica, che dispiegasi appunto nell'urbs e nella civitas. Roma si presenta nella storia memore di tutte le tradizioni, che già si erano formate nel periodo anteriore dell'organizzazione gentilizia, ed è con queste tradizioni, che si accinge ad organizzare un nuovo aspetto di vita sociale, che è quello della vita pubblica e municipale. Essa quindi non assorbe di un tratto nè le tribù nè le gentes, ma lascia che esse continuino ad essere campo alla vita domestica e patriarcale. Solo richiama a se lentamente e gradatamente tutti quegli ufficii di carattere pubblico, che prima si compievano nel seno dell'organizzazione gentilizia, ed è in tale intento che essa intraprende l'elaborazione del proprio diritto. Una volta poi che quest'opera è iniziata, Roma, con quella tenacità di proposito, che è sopratutto propria del popolo romano, non si arresta nell'opera sua sinchè non sia pervenuta non solo ad organizzare nel proprio seno una vita pubblica e municipale, ma a cambiare il mondo allora conosciuto in un complesso di città, di colonie, di provincie organizzate tutte a somiglianza di se medesima, e gli abitanti dell'impero in cittadini di un'unica città. La qual opera e compiuta da Roma seguendo sempre quel medesimo processo, a cui erasi attenuta nella sua primitiva formazione. È per questo motivo, che era impossibile comprendere le origini delle istituzioni di Roma senza tener dietro alla sua formazione esteriore, quale può ricavarsi dagli studii topogra e il Sumner Main [E, “L'ancien droit,” trad. Courcelle Seneuil,dove, dopo aver detto che la gens era una aggregazione di famiglie, e la tribù un ' aggregazione di gentes, finisce per dire che la città non è essa stessa che “un'aggregazione di tribù e la repubblica una collezione di persone legate per discendenza comune all'autore di una famiglia primitive” -- il che certamente non può ammettersi. Del resto la gravissima questione sarà trattata più a lungo quando si discorre della costituzione primitiva di Roma. [fici recentemente fatti intorno all'antica Roma. Si potrebbe poi fa cilmente dimostrare, che questa formazione progressiva, che risulta dall'estendersi della cerchia stessa di Roma, viene anche ad essere provata dal formarsi progressivo della sua religione, del suo senato, dell'ordine dei cavalieri, del suo esercito, dei suoi collegi sacerdotali, ma cid risulta anche più chiaramente dalla formazione delle sue istituzioni, poichè ciascun popolo imprime sopratutto il proprio carattere in quella parte dell'opera sua, in cui giunse senz'alcun dubbio a maggiore grandezza. A ciò si aggiunge la considerazione già stata fatta da un autore assai benemerito della ricostruzione della storia primitiva di Roma, che è Rubino, secondo il quale le tradizioni, che a noi pervennero circa i primi tempi di Roma, debbono distinguersi in due specie. Vi hanno quelle relative alla costituzione primitiva di Roma ed agli istituti religiosi e giuridici, che sono collegati con essa, e queste fino a prova contraria debbono essere ritenute per vere. Perchè trattasi [Vi ha questo di particolare nella storia di Roma, che lo svolgimento di essa, sotto qualsiasi aspetto sia considerato, presentasi organico e coerente in tutte le sue parti. Ne deriva che tanto le investigazioni pazienti e minute quanto le ricostruzioni ardite, che si vennero succedendo, finirono per sussidiarsi a vicenda per l'intelligenza di Roma primitiva. Vi conferirono gli studiosi della topografia di Roma antica, della sua arte militare, della sua letteratura, della sua filosofia, dei suoi monumenti, della sua costituzione politica e delle sue istituzioni giuridiche. Che anzi la coerenza del suo svolgimento appare così meravigliosa, che vi sono autori che, seguendo soltanto il formarsi della sua religione e dei suoi collegi sacerdotali, cercano di inferirne gli stadii della sua formazione progressiva, come tenta di fare Bouché-LECLERCQ (“Les Pontifes de l'ancienne Rome”, Paris, e “Manuel des institutions romaines”, Paris). Altri, che tentarono di venire allo stesso risultato, seguendo lo svolgimento di un istituto particolare, come sarebbe quello del senato, come WILLEMS, “Le sénat de la république romaine” (Paris), come pure Blocu (“Les origines du sénat romain,” Paris), od anche quello dell'ordine dei cavalieri, come tenta di fare Belot (“Histoire des chevaliers romains,” Paris). Non può però esservi dubbio che penetrarono più profondamente nella vita primitiva di Roma quelli sopratutto, che, come Vico e Niebuur, ne ricercano la storia nelle lotte degl’ordini, che entrano a costituirla e nello svolgimento delle istituzioni giuridiche e politiche. Il diritto è la grande occupazione di Roma, e quindi è quello che conserva meglio le vestigia di un'epoca pre-romana. Il diritto forma la filosofia costante non solo dei sacerdoti, dei patrizi, e dei giureconsulti, ma ancora dei poeti, per modo che fuvvi un autore, il quale raccogliendo, come egli dice, “disiecti membra poetae” potè giungere a ricostruire in parte l'edifizio giuridico di Roma, anche nei particolari minuti della sua procedura. Henriot, “Maurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome” Paris] d'un argomento che ha un carattere pressochè sacro per il popolo romano, e in cui concentra tutta la propria vita, per guisa che esso continua sempre a svolgere con pertinacia e con co stanza quei concetti e quelle istituzioni, che furono posti durante lo stesso periodo regio. Hanvi invece le tradizioni, che si riferiscono a racconti di guerre e ad incidenti, che le avrebbero accompagnate, a vicende di uomini illustri, a quei particolari insomma che danno vita ed attrattiva alla storia romana, e queste rimasero per lungo tempo affidate alla leggenda popolare e poterono cosi essere alterate sia dalla vanità nazionale che dalla vanità delle grandi famiglie di Roma. Bene è vero, come osserva Bonghi, che anche nella prima parte possono essersi introdotte dell’alterazioni, che sono causate dal partito diverso, a cui appartengono gli scrittori, ma siccome trattasi di istituzioni, che hanno un processo storico non mai interrotto, cosi egli è ben più facile di ristabilire la verità, che non quando trattasi di semplici incidenti della storia di Roma, che, non collegandosi così strettamente col resto, potevano dare argomento ad altrettante leggende, che si arricchivano di nuovi particolari, a misura che si veniva ripetendone la narrazione. Dopo aver cosi seguita la formazione progressiva della comunanza romana vediamo ora gli elementi, che si trovano in lotta nell'in terno della medesima. È da vedersi al riguardo Bonghi, “La fede degli storici superstiti di Roma antica”, che anche ora non è pubblicato, malgrado il desiderio che l'illustre autore e gl’italiani tutti hanno di vedere pubblicata un'opera, che egli solo è in condizione di compiere. Rivista storica italiana. IUna delle circostanze più accertate della condizione di Roma primitiva si è, che nella popolazione della medesima comincia fin dai primordii a manifestarsi un dualismo potente, quello cioè fra il patrizii – descendenti dei ‘patres patriae’ -- e la plebe. La tradizione cerca di spiegare questo dualismo dicendo, che Romolo apre un asilo, ove si potessero rifugiare coloro che per qualunque ragione avessero dovuto abbandonare la propria città. Ciò farebbe credere che la distinzione fra i “patres” della “patria” (e suoi descendenti) e la plebe e in certo modo nata con Roma, quando non e certo, che cotale distinzione già esiste in altre città, e non vi fossero formole antiche, che accennassero al doppio elemento coi vocaboli di populus et plebes. Sembra anzi che le stesse tribù primitive, che entrarono nella costituzione della più antica comunanza romana, già avessero con sè una propria plebe, indipendentemente da quella che si sarebbe rifugiata nell'asilo aperto da Romolo, in quanto che, secondo il racconto di Dionisio, uno dei primi provvedimenti di Romolo e quello di affidare al plebeio la coltura dei campi, l'allevamento del bestiame e l'esercizio delle arti manuali, e di collocarle sotto la clientela del padre, il che sarebbe anche confermato da Cicerone come pure da un luogo di Festo, secondo cui il senatore e chiamato “pater”, in quanto che e incaricato di fare distribuzione di terre ad un ordine inferiore di persone (tenuioribus). La distinzione fra il populus e la plebes trovasi ancora in un documento importantissimo, cioè nella lex latina tabulae Bantinae, ove è ripetuta più volte la frase “quisque eorunt sciet hanc legem populum plebemve iousisse” -- formola che ha certo grande importanza quando si consideri che era tradizione romana quella di conservare le formole arcaiche nel tenore della propria legge. Quella formola dimostra che populus e plebes dovevano dapprima essere distinti e che, quando i due elementi si fusero insieme nella comunanza, per qualche tempo ancora i due vocaboli serbarono rispettivamente la primitiva loro significazione. V. la lex latina tabulae Bantinae nel Bruns, Fontes, Friburgi. Quanto al testo di Dionisio, esso è riportato nella traduzione latina nel Bruns, Fontes. Quanto a quello di Festo, vº Patres, è bene di C., “Le origini del diritto di Roma”. Questo è certo che il pater e il plebeio, anche quando giungono a considerarsi come parti della medesima comunanza e a far parte dello stesso popolo, il che è accaduto molto tempo dopo l'epoca della fondazione, continuano sempre a costituire due ordini e pressochè due caste compiutamente distinte, fra le quali non esiste ne identità di istituzioni, nè comunanza di tradizioni, nè il diritto di connubio. Mentre il pater si presenta colla tradizione di un passato, le cui origini si perdono nel l'oscurità dei tempi e deve forse essere cercate nello stesso Oriente, e con una organizzazione potente, le cui traccie si mantengono ancora durante il periodo storico. Il plebeio, invece presentasi dapprima come una massa mobile, composta di elementi eterogenei e di origine probabilmente diversa. Il plebeio ha pochissima importanza negl’inizio di Roma, ma viene sempre più crescendo in numero e in potenza, anche perchè, a differenza del pater, può continuamente accogliere nel proprio seno nuovi elementi. Durante il periodo regio, il plebeio non sembra ancora essere in condizione di affrontare la lotta col “pater”, ma cominciando dalla repubblica i conflitti si fanno pressoché quotidiani, cosi in materia di diritto e dalle discussioni, che seguono fra I due ordini, si può raccogliere che le differenze essenziali, che servivano a distinguerli, erano essenzialmente le seguenti. Il pater anzitutto e e si ritene il fondatore della urbs e il solo membro della civitas. Il plebeio e un elemento, che trovasi in condizione inferiore e che per la maggior parte e sopravvenuto più tardi, nè puo quindi, secondo le idee del “pater”, pretendere ad un pareggiamento completo. Il “pater” ha un'organizzazione potente, che era quella per gentes, la cui forza venne ancora ad accrescersi mediante l'istituto della qui riportarlo. “A patres senatores ideo appellati sunt, quia agrorum partes attri buerant tenuioribus, ac si liberis propriis.” V. Bruns. Questi passi unita mente a quello di CICERONE, De rep. “Romulus habuit plebem in clientelas principum descriptam” -- rispondono abbastanza all'opinione di coloro, che come LANGE (“Histoire intérieure de Rome”) e Padelletti (“Storia del diritto romano”) ostengono, che l'origine della plebe sia posteriore alla fondazione della città, ed abbia solo avuto origine coll'ammissione di persone libere nella cittadinanza e nel territorio dello stato, avvenuta per atto pubblico e accompagnata dalla concessione in proprietà di terreni da coltivare. Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., clientele. Il “pater” quindi puo indicare la serie dei proprii antenati e dimostrare che i medesimi sono sempre stati ingenui e che niuno di essi erasi trovato in condizione servile. Il plebeio, invece, se si deve credere alle ragioni poste innanzi molto più tardi dagl’oratori patrizii, allorchè trattavasi di Roma di respingere la legge Canuleia diretta a togliere il divieto dei connubii fra i due ordini, non conosce ancora la famiglia organizzata in base al potere del padre ed al culto degli antenati, per cui una unione plebea non e dal “pater” considerata come “iusta nuptia”, nè santificate dalla partecipazione al medesimo culto. E un semplice “matrimonium”, in cui il vincolo di parentela e determinato piuttosto dalla cognazione *maternal*, che dall'agnazione paterna. Di qui la conseguenza, che ancora dopo la legge di Le XII Tavole il pater non puo comprendere una comunanza di connubio – iusta nuptia – fra un pater (say, Charles III) e una plebea (say, Diana), come lo dimostrano le parole di Livio relative al plebiscito Canuleio. “Rogationem promulgavit, qua contaminari sanguinem suum patres confundique iura gentium rebantur.” Da ultimo, una differenza importantissima consiste anche in questo, che solo il pater possede un “auspicium”, cosicchè tutti gl’atti, che lo riguardavano, assumevano un carattere solenne e religioso. Il plebeo, pur avendo una religione e feste [ Gellio, Noc. Att., 10, 20 chiama la plebe quella parte della popolazione romana, nella quale “gentes patriciae non insunt.” È poi noto che, secondo Livio, nelle discussioni fra pater e plebeo gl’oratori di questa attribuivano ai primi di vantarsi di esser soli ad avere le gentes con parole, che riassumono i titoli di superiorità del pater. “Semper ista audita sunt eadem: penes vos solos au spicia esse, vos solos gentes habere, vos solos iustum imperium et auspicium domi militiaeque ecc.” Pare tuttavia che non possa affatto escludersi l'esistenza di gentes plebeiae, le quali però costituivano una eccezione. La causa di questo fatto può essere duplice. O queste gentes potevano derivare dalle popolazioni delle città latine, che già avevano un'organizzazione simile a quella delle genti patrizie, sebbene non fossero più state ammesse nel patriziato, – o la formazione di queste gentes accade più tardi, quando una parte della plebe, entrata a far parte della nobiltà, cerca essa pure di imitare l'organizzazione gentilizia, il che comincia ad es sere possibile dopo la legge Licinia Sestia, colle quali il plebeo e ammesso al console. Così Cicerone ci attesta, che la famiglia dei Marcelli erasi staccata dall'antica gente patrizia dei Claudii (De Orat.). Così pure Cicerone ci parla di una “gens” Minucia, che sarebbe stata *plebea* (In Verr., I, 45 ). Fra i filosofi sull'argomento sono da vedersi il Voigt, “XII Tafeln”, Leipzig, e il KARLOWA, Röm., R. G., -- Liv., – “popolari, non possedeva gli auspicia, nè aveva un proprio culto gentilizio -- “sacrum gentilicium”. Queste differenze sono tali, che sebbene le circostanze conducessero col tempo i due ordini a far parte della stessa comunanza, e pero naturale, che essi non potessero entrarvi alle stesse condizioni. Dalle differenze sovra enumerate questo intanto si può inferire, che in Roma primitiva la superiorità, che si attribuiva il pater sul plebeo, trova sopratutto la propria causa in ciò, che esso era già era più progredito nell'organizzazione sociale, ed era prima uscito dallo stato di confusione, di privata violenza e di promiscuità primitive, che esso riteneva in parte essere ancora proprie della plebe. Il pater sa indicare i proprii antenati, ha conservato gelosamente le proprie tradizioni, ed e già pervenuto al l'organizzazione di un culto gentilizio. Di più e la “gens”, che aggruppandosi insieme avevano dato origine alla tribù, come pure erano le tribù, che, confederandosi insieme in conformità di certi riti e dopo aver assunto solennemente gli auspicii, erano pervenute a fondare la città, in cui provvedevano ai comuni interessi ed obbedeno ad una legge, espressione della volontà comune. Bene è vero che, per accrescere la forza della loro città del loro esercito, e spediente di incorporare in essi anche le plebes cioè le moltitudini, che naturalmente si venivano raccogliendo ove era fondata e fortificata un'aggregazione di genti patrizie. Ma chi tenga conto della umana natura, che in questa parte non sembra ancora essersi modificata, non può certo meravigliarsi se le genti patrizie abbiano applicato colla plebe la massima – “prior in tempore, potior in iure” --, e si siano cosi prevalse del vantaggio, che loro somministra una più antica esperienza delle cose civili ed umane, per conservare a lungo una posizione privilegiata nella comunanza civile. Piuttosto è da ammirarsi la tenacità e perseveranza del plebeo, il quale, composta [Quinto all'origine ed al carattere del patriziato primitivo di Roma, contiene delle buone ed acute osservazioni l'articolo di FREEMAN nell'Encyclopedia Britannica, vº Nobility, ove il pater romano è posto a paragone cogli Eupatridi di Grecia, colla nobiltà feudale, coi Pari Inghilterra ecc. È pure a vedersi il Duruy, “Histoire des Romains,” Paris, chi parla del “pater” come di un'istituzione propria della società primitiva e nota le analogie e le differenze fra il pater di Roma e i bramano dell'India. Cfr. Muirhead] dapprima di elementi eterogenei e priva di qualsiasi organizzazione sociale, seppe col tempo in tutto e per tutto imitare l'organizzazione propria dei pater, creare genti plebee accanto alle genti patrizie, contrapporre le tribù alle curie, i tribuni ai veri magistrati, e che, appena potè ottenere il riconoscimento di un diritto, di quello cioè della proprietà quiritaria, riusci a valersi del medesimo come di strumento e di mezzo per ottenere a poco l'uguaglianza giuridica e politica, e perfino l'ammissione a quegli auspicia, a quei sacerdotia, e a quella scienza del diritto, che solo molto tardi vennero ad essere comunicati al plebeo. Questo intanto può aversi per certo, che la formazione del pater e del plebeo costituisce in certo modo la questione fondamentale della storia politica e giuridica di Roma. Vero è che accanto ai plebei trovansi pur anche i servi ed i clienti, ma questi due elementi non hanno certo l'importanza della plebe, che dove poi avere tanta parte nella storia di Roma, in quanto che un servo entra a far parte della famiglia ed il cliente ri-entra anch'essi nell'organizzazione gentilizia. Di più tanto il servo come il cliente, al lorchè riescono a svincolarsi dal “pater”, entrano a far parte della plebe, che è quella veramente, che sostiene e vince la lotta per il pareggiamento giuridico e politico col “pater”. Quindi è che nè il servo, né il cliente come tali riescono ad avere una piena personalità giuridica e civile. Il cliente scomparisce a poco a poco o si trasforma in semplice salutator. Il servo si mantenne bensì, ma non giungono mai, durante il predominio di Roma, ad essere riconosciuti come capaci di diritto. La questione limitasi pertanto al pater ed al plebeo ed è quindi l'origine di questi due elementi, che è il maggior problema, che offra la storia primitiva di Roma. Cio non ostante, sinchè non siansi esaminate l'organizzazione dei patres e la composizione della plebe, non pud certo affrontarsi il problema della origine delle due classi. Basterà unicamente, per l'intelligenza di ciò che verrà dopo, di osservare che le differenze, che esisteno fra di esse negli inizii. Queste lotte per il pareggiamento sono largamente esposte da LANGE, “Histoire intérieure de Rome”. I risultati poi della lotta sono riassunti nel dotto lavoro del GENTILE, “Le elezioni e il broglio nella repubblica romana” (Milano) e sopratutto in “Le assemblee elettorali”] di Roma, la superiorità pressochè incontestata del “pater” e l'ossequio pressochè servile del plebeo nei primi tempi della città dimostrano abbastanza, che la loro distinzione non potè certamente essere opera della legge, nè delle circostanze storiche speciali, in cui Roma ha a trovarsi. Dovette essere il frutto di una lunga evoluzione storica, la cui preparazione deve essere cercata in un periodo anteriore di organizzazione sociale. Non può esservi dubbio, che l'origine di una distinzione, così altamente radicata nel costume e nelle abitudini delle due classi, deve essere cercata in quei cataclismi, che dovettero avverarsi nell'urtarsi e nel sovrapporsi delle stirpi italiche, di origine aria, sovra altre stirpi, che già abitavano il suolo, sovra cui esse si arrestarono nelle proprie migrazioni. Essa è una distinzione, che deve certamente rannodarsi ad una divisione ben più antica, e le cui traccie si mantengono sempre nella storia dell'umanità, che è quella fra la classe dei conquistatori, dei vincitori, dei primi pervenuti a stabilirsi in un determinato suolo, e quella dei soggiogati, dei vinti, e dei sopraggiunti più tardi a porre la propria sede in un suolo, che altri hanno prima occupato e sovra cui i medesimi già si erano stabiliti e fortificati. Egli è certo, che nel sopraggiungere delle stirpi italiche migranti dall'Oriente dovette certamente avverarsi un periodo di privata violenza non dissimile da quello, che accadde più tardi allorchè le popolazioni germaniche invasero il principato. Anche allora dovettero esservii vincitori ed i vinti, e frammezzo a quella promiscuità di genti e a quella prevalenza della forza, che ci ricordano ancora gli filosofi latini quando ci parlano di “connubia more foerarum” e di “viri duro ex robore nati”, dovette sentirsi urgentissimo il bisogno di una protezione giuridica e di una forte organizzazione sociale. Dovettero [Sono sopratutto i filosofi latini, come interpreti delle primitive tradizioni e leggende, che alludono frequentemente a questo stato primitivo, in cui si trovano le genti italiche, ora descrivendo una età dell'oro, che assegnano al regno di Saturno, che sembra corrispondere al Savitar degli Arii, ed ora accennando eziandio a un periodo, in cui avrebbe imperato la forza e la violenza. È veramente preziosa in proposito e riflette mirabilmente la coscienza primitiva delle genti italiche la raccolta, che l'Henriot ha a fare dei testi dei filosofi latini, che possono avere qualche attinenza col diritto, nella sua opera col titolo: “Mæurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome d'après les poètes latins” (Paris) sull’età dell'oro e sull'imperio della forza. È poi notabile come tutti i filosofi accennino al concetto di un “diritto” della “natura”, preesistente alla formazione del civile consorzio, e tutti esprimano con grande efficacia l'altissima importanza, che dovette avere per l'umanità l'origine della legge] allora succedere fra le popolazioni italiche dei cataclisminon minori di quelli, che si attribuiscono al nostro suolo, e furono questi cataclismi, che condussero necessariamente alla formazione di un aristocrazia – il pater del patriarcato -- territoriale, militare e patriarcale ad un tempo, che era il solo ed unico mezzo per uscire da uno stato di promiscuità e di violenza. Fu questa patriarcato – ottimati -- che comprende il padre nella famiglia, il patre nella gente e il pater nella tribù, ed abbraccia cosi tutte quelle genti, le quali, memori forse di istituzioni che eransi altrove elaborate, trapiantarono frammezzo al disordine ed alla lotta la potente organizzazione gentilizia, che una volta formata si chiuse in certo modo in se stessa e riguardo come di origine inferiore tutti coloro che non appartenevano alla medesima. Fu questa aristocrazia del ‘pater’ potentemente organizzata per gentes, che costituì la classe privilegiata e che merita dapprima anche di essere considerata come tale. Ma accanto alla medesima dovette naturalmente formarsi una classe subordinata, i cui gradi corrispondono precisamente ai varii stadii dell'organizzazione gentilizia, in quanto che comprende il servo nella famiglia, il cliente nella gente, ed il plebeo, che cominciano a comparire colla tribù. Per tal modo nelle popolazioni, che si vengono così organizzando, si disegnano per spontanea e naturale formazione, due strati, che si corrispondono fra di loro, e mentre in una lunga e lenta evoluzione, di cui non sopravisse alcun ricordo, salvo nella lingua e negli oggetti trovati nelle tombe, il ‘pater’ della famiglia si cambiano in ‘pater’ nella gente e quindi in ‘pater’ nella tribù, anche i servi mano messi dal ‘pater’ mutansi in clienti del ‘pater’ ed il cliente rimasnne senza ‘pater’] formano il primo nucleo della plebe. Il pater – qua Padri, patrone e patrizio – e, in sedimenti successive, la classe alta dei vincitori, dei proprietari delle terre, dei primi organizzatori di una vita sociale. Il servo, il cliente ed il plebeo rappresentano i varii stadii, per cui passa la classe inferiore dei vinti, e di quelli che, per avere una prot zione, si accalcano intorno allo stabilimento di una casata patrizia. Il primo puo indicare suoi proprii antenati ed escludere qualsiasi origine servile. Il plebeo, se giunsero col tempo ed essere indipendenti dal patriziato, appartennero probabilmente alla classe del servo e del cliente, e non ha dapprima quelle giuste nozze, che accertano la discendenza per la linea maschile. È in questo modo che il patriziato venne formandosi l'alto concetto della propria superiorità e che giunse fino a dire, se non a credere, che discende dal divino (il che del resto non era intieramente falso dal momento [ - che ha elevato a divinio il proprio antenato). Mentre la plebe, memore forse della servitù antica, trovasi dapprima in una abbiezione pressochè servile, da cui non venne a liberarsi che quando ebbe ad essere rigenerata da un nucleo potente di famiglie latine, che appartenevano alle città conquistate da Roma. Intanto pero fra le due classi vi ha questa differenza. La prima tende a tircoscriversi, anche per la difficoltà di far entrare nuovi elementi in una organizzazione così gerarchica, come era l'organizzazione gentilizia, la quale non poteva accogliere degli individui ma soltanto delle altre gente. La plebe, appena viene ad affermare la propria esistenza, tende invece ad incorporarsi nuovi elementi, senza vagliarne l'origine, per modo che essa puo accogliere i vinti che non siano ridotti in ischiavitù, gl’emigranti che non siano ricevuti come cliente. Non solo può aggregare nel proprio seno delle famiglie, ma anche individui, che essendosi disgiunti dal gruppo, a cui erano uniti, abbisognino di protezione e di tutela. Intanto pero fra l'uno e l'altro ordine, la grande differenza è questa, che nelle origini, solo il pater ha una vera posizione di diritto. Il plebeo non ha dapprima che una posizione di fatto. Il pater e il popolo da esso costituito è un ordine. La plebe non è che una moltitudine, una folla non ancora organizzata. Il pater ha tradizioni militari, religiose, giuridiche. Il plebeo non ha dapprima che quelle costumanze e quegli usi, che possono formarsi in una folla di provenienza diversa e di formazione del tutto recente. Il pater ha una religione gentilizia, formatasi nel suo seno mediante il culto degli antenati. Il plebeo non ha che un complesso di credenze popolari, che ancora abbisognano di ricevere una forma religiosa. Ben si comprende quindi, che la distanza e grande e che dove essere assai malagevole di raccogliere i due elementi nella stessa comunanza, elaborando un diritto, che potesse essere comune ad entrambi. Fermi cosi i caratteri generali dei due ordini, importa di ricercare più particolarmente l'organizzazione già formata del pater, e quella ancora in via di formazione, che dovrà poi comprendere il plebeo – Livio: “En unquam fando audistis patricios primo esse factos, non de caelo demissos, sed qui patrem ciere possunt, id est nihil ultra quam ingenuos.” Non può esservi dubbio, che a costituire il patriziato primitivo di Roma concorsero elementi diversi, usciti per la maggior parte da quelle tre stirpi di popoli, che secondo la tradizione entrarono a for mare la comunanza romana. Sonvi quindi genti di origine latina, e fra queste sonovi quelle che figurano come più antiche, genti di origine sabina, ed altre, in numero forse minore, di origine etrusca. L'origine diversa poi facilmente persuade, che le loro istituzioni tradizionali dovevano anche essere dissimili, e che quindi quella completa analogia di istituzioni, che in esse apparisce più tardi, do vette essere l'effetto di una lenta assimilazione, che vennesi operando gradatamente mediante la loro partecipazione ad una stessa comunanza civile e politica. Tuttavia, malgrado le differenze che potevano esservi nelle sue tradizioni, il pater romano, comunque fosse originariamente composto, presenta fin dalle origini della città le traccie di un'organizzazione potente di carattere patriarcale, che è l'organizzazione gentilizia. Non è qui il caso di cercare, se questa organizzazione per genti sia stata una necessità storica per uscire da quello stato di conflitto e di privata violenza, che dovette avverarsi all'epoca delle migrazioni, e se sia stata invece una istituzione, che le stirpi migranti già avevano elaborata altrove e che loro servi per sovrap porsi alle popolazioni indigene, il che sembra essere più probabile. L'enumerazione delle primitive genti patrizie col riassunto delle opinioni di. verse intorno alla loro origine e alle molteplici dirainazioni, che partirono da cia scuna di esse, può trovarsi in Bonghi, “Storia di Roma”, Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., in princ. Ivi l'autore cerca perfino di determinare la parte, che nel diritto si attribuisce alle varie stirpi] questo in ogni caso deve aversi per certo, che è in virtù di questa organizzazione, che le primitive genti patrizie, per quanto potessero essere diverse di numero e di potenza, appariscono pero foggiate sul medesimo modello. Tale organizzazione tuttavia nel periodo storico già trovasi in via di dissoluzione; ed anche quello che ne rimane già presentasi alquanto alterato nelle sue primitive fattezze per essersi confuso coll'elemento civile e politico, dal quale è assai difficile sceverarlo. Ciò non ostante dalle vestigia, che ne rimangono e che sono dovute sopratutto allo spirito eminentemente conservatore del popolo romano, si può dedurre che l'organizzazione gentilizia dovette nel patriziato romano presentarsi in gradazioni diverse, tutte strettamente connesse fra di loro. Esse sono: la famiglia fondata sull'agnazione, la gente accresciuta ed afforzata dalla clientela, e da ultimo la tribú, in cui già compare nei proprii inizii la distinzione fra il patriziato e la plebe. Sarebbe certo cosa di grande interesse il ricercare qui se nelle prime origini l'organizzazione gentilizia ha prese le mosse dalla famiglia, o dalla gente, o dalla tribù. Ma ciò ci recherebbe a quel l'epoca e a quel sito, in cui le stirpi arie ponevano le prime basi dell'organizzazione patriarcale, cominciando probabilmente dal più piccolo e più naturale dei gruppi, che era la famiglia. Qui pero non e inopportuno il mettere innanzi, almeno a titolo di congettura, che dei varii gradi dell'organizzazione gentilizia quello, che probabilmente servi per la migrazione delle varie stirpi dall'Oriente all'Occidente, dovette essere il gruppo della “gens”. Ciò è dimo [Questa stessa gradazione è accolta dal SUMNER MAINE, Ancien droit, ma non è invece quella seguita da Leist, Graeco- Italische R. G., il quale parmi non distingua sempre abbastanza due cose affatto diverse fra loro, che sono l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica, considerando come altrettante divisioni del populus, non solo le tribus e le curiae, ma anche le gentes. Senza voler quientrare in una questione, chemi trarrebbe troppo per le lunghe, non posso però tralasciare di notare, che la così detta famiglia patriarcale non deve ritenersi come la famiglia veramente primitiva, poichè essa è già una famiglia, le cui fattezze vengono ad essere trasformate a causa del suo entrare a far parte della organizzazione gentilizia. È nota in proposito la discussione, anche oggi non definita, fra il Sumner MAINE, “Early law and custom” (London) da una parte, e MORGAN e Mac-Lennan dall'altra, come pure la cri tica fatta, alla teoria patriarcale del SUMNER Maine, dallo SPENCER, Principes de sociologie, strato dal fatto, che è dalla gente che il patrizio romano deriva quel nome, che esso ha ricevuto dall'antenato comune e che deve trasmettere poi ai proprii discendenti, e che, anche nei tempi storici di Roma, allorchè accade qualche nuova incorporazione nel patriziato mediante la cooptatio, questa non si effettua nè per famiglie, nè per tribù, ma per genti. Mentre la famiglia è il gruppo più ristretto ed unificato in tutte le sue parti e la tribù è già una vera e propria comunanza di villaggio, in cui si preparano gli elementi costitutivi della città, la gente invece è il gruppo intermedio, che da giustamente il suo nome e la propria impronta all'organizzazione gentilizia, perchè di sua natura è un gruppo più elastico e pieghevole di tutti gl’altri, e che può meglio accomodarsi a qualsiasi evenienza in un periodo di migrazione. La “gens” infatti è più forte e numerosa della famiglia, perchè continua a stringere insieme le famiglie, che per discendere da un comune antenato sono anche unite tra di loro da un medesimo culto, e intanto è più compatta della tribus, la quale essendo già l'aggregazione di più genti, che o sono di origine diversa o hanno già dimenticata l'origine comune, può già fornire argomento a dissidii fra i capi delle varie genti, che entrano a costituirla. La gente poi è per sua natura tale, che ora può cambiarsi in una carovana in migrazione, ora attendarsi e stabilirsi in un determinato sito, ed ora anche raccogliersi a guisa di un ma nipolo di soldati, e tutto ciò senza che possa mai sorgere questione di preminenza, perchè è la consuetudine, che designa chi debba esserne il capo e perchè il vincolo della comune discendenza fa sì che tutti i suoi membri ne subiscano volenterosi il comando. In tanto è nella gente, che si vengono formando e distinguendo le famiglie, come pure sono le genti che, aggregandosi intorno ad una preminente fra le altre, danno origine alla tribù, la quale è già più atta ad arrestarsi in un determinato sito e ad essere così di avviamento alla convivenza civile e politica. I tre gruppi tuttavia sono sedimenti di una spontanea e naturale formazione, che si vengono sovrapponendo l'uno all'altro per modo, che appariscono tutti foggiati sul medesimo modello, che è quello del gruppo patriarcale, e si vengono reciprocamente influenzando per guisa, che tutti appariscono come strati diversi di un'unica organizzazione. Di qui la [Cfr. Willems, “Le droit public romain,” Paris] conseguenza, che tutti questi gruppi, dal momento che difetta an cora una vera convivenza civile e politica, compiono l'uffizio ad un tempo di convivenza domestica e di convivenza civile, colla differenza tuttavia, che nella famiglia prevale ancor sempre il vincolo del SANGUE, e nella tribù già si fa strada il vincolo civile e politico, mentre la gente è quella, che ha il carattere più schiettamente patriarcale. Cio premesso quanto ai caratteri generali della organizzazione gentilizia, cerchiamo di ricostruirne le principali fattezze, desumendole dalle traccie che ancora ne rimangono nella storia primitiva di Roma, nella quale vi ha questo di particolare che, anche quando un'istituzione si dissolve, si sanno mantenere le forme esteriori della medesima. In cio sarà bene incominciare dalla famiglia, come quella che ha ad esser meglio conservata e intanto costituisce il gruppo più ristretto dell'organizzazione gentilizia. Per quanto sia vero che la famiglia, quale presentasi più tardi nel diritto quiritario, sia una istituzione comune così al patriziato che alla plebe, sonvi tuttavia forti argomenti per credere che la sua primitiva organizzazione fosse di origine patrizia. Fra gli altr’argomenti l'importantissimo è questo, che una moltitudine come la plebe, che era di provenienza diversa e di formazione ancora del tutto recente, non poteva possedere fin dai suoi inizii una organizzazione famigliare, che presuppone una lunga serie di antenati e perciò una lunga elaborazione anteriore. Ciò del resto è anche dimostrato da che nelle origini il vocabolo di “patres” indica sopratutto i capi delle *famiglie* patrizie, e perfino gli stessi senatori, che certo usci [Quanto ai caratteri comuni al gruppo patriarcale degl’arii, alla “gens” romana ed al gévos dei greci ed alla letteratura copiosissima sull'argomento, mi rimetto alla mia opera: “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino), ed all'opuscolo, “Genesi e svolgimento delle varie forme di convivenza civile e politica” (Torino). Recarono un nuovo contributo allo studio comparativo delle istituzioni primitive presso le genti di origine aria, oltre le opere già citate del Sumner Maine, il BERNHÖFT, Staat und Recht der röm. Königszeit, Stuttgart, e Leist] vano dal patriziato, al modo stesso che il vocabolo di “patricii” indica “figlio del pater.” Lo stesso provano eziandio le nozze confarreate, certamente proprie del patriziato, che nella leggi attribuita a Romolo ed a Numa sembrano essere il solo modo con cui si puo contrarre le giuste nozze. Si aggiunge infine il carattere agnatizio della famiglia primitiva di Roma, il quale non è e non può essere un carattere originario, ma è una conseguenza della stessa organizzazione gentilizia, di cui la famiglia entra a far parte. Dal momento infatti, che in questo periodo non esiste ancora una vera comunanza civile e politica, diveniva inevitabile che l'organizzazione gentilizia ne assumesse le funzioni e le veci, e che perciò anche la famiglia, in quanto ne fa parte, venisse a ricevere un'organizzazione piuttosto fondata sul potere del PADRE, che non sul vincolo del SANGE. È questa la causa per cui la famiglia primitiva Romana sembra, almeno in apparenza, soffocare i naturali affetti del SANGUE, per guadagnare in forza ed in potenza, unificandosi sotto la potestà del proprio capo. Una volta poi che il fondamento della unione domestica si riponeva nella potestà del PADRE, er una conseguenza logicamente inevitabile, che come il PADRE prevaleva nella costituzione e nel governo della famiglia, cosi l'agnazione, ossia la DISCENDENZA dal padre, per la linea MASCHILE, dove prevalere nella composizione diessa. È in questo senso, che la famiglia primitiva Romana viene a costituire un organismo potente, che può essere considerato come il primo anello e come il nucleo più ristretto dell'organizzazione gentilizia. Essa infatti ha una costituzione eminentemente monarchica, perchè tanto le persone, che la costituiscono, quanto le cose, che ne formano il PATRI-MONIO, dipendono esclusivamente dalla potestà del padre. La famiglia patrizia poi è un vero e proprio organismo, che può considerarsi in due momenti diversi. Finchè infatti vive il PADRE, nel cui potere essa trovasi unificata, la famiglia è un vero corpo vivente, che può andar soggetto a continui mutamenti, in quanto che vi hanno persone che possono uscirne ed altre che pos sono entrarvi. Quando poi il padre muore, quelli che un tempo erano soggetti alla sua potestà possono ancora continuare a tenere [Dion., 2, 25 e 2, 63, testo è riportato da Bruns, Fontes “Leges Regiae”] indiviso il patrimonio comune, assecondando un antico costume romano, che si esprimeva colle parole conservateci da Gellio “ercto non cito” -- le quali significano in sostanza che non si dovesse procedere alla divisione immediata del patrimonio. In tal caso si mantiene fra gli agnati un di soggetti alla patria potestà una specie di società universale di tutti i beni, per cui sembra in certo modo che si perpetui ancora l'esistenza della famiglia, e si ha così quella famiglia in largo senso, di cui ci parlano ancora i giureconsulti, che la chiamano “familia omnium agnatorum.” Questa indivi sione dove certamente essere frequente nei tempi primitivi e fu questa la causa per cui, oltre la famiglia nel vero senso della parola, che comprende tutti quelli che sono soggetti alla “patria potestà”, venne delineandosi una famiglia più vasta, che è quella degli agnati, la quale sebbene abbia cessato di essere unificata dalla potestà del padre, continua tuttavia ancora ad essere unita insieme e a costituire un tutto – “consortium” -- stante l'indivisione del patrimonio. Ciò però non toglie che il concetto della famiglia agnatizia siasi poscia cambiato e che si siano compresi col nome di agnati tutti coloro, che [Mi fo lecito di mettere innanzi questa interpretazione delle parole arcaiche “ercto non cito” e ciò in base a quello che ci attesta Servio, il quale interpretando questa espressione, dice appunto, che essa significa “patrimonio vel hereditate non divisa” -- Serv., in Aen., VIII, 642 (Bruns, Fontes). Queste parole furono poi applicate per indicare in genere la societas omnium bonorum in virtù della quale, secondo l'attestazione di Gellio. “Comnes simul in cohortem recepti erant, quod quisque familiae, pecuniae habebat in medium dabat, et coibatur societas in separabilis, tamquam illud fuit antiquum consortium, quod iure atque verbo romano appellatur cercto non cito.” Che poi queste parole siano in certo modo un'antica clausola testamentaria, con cui il padre proibiva la divisione immediata appare da ciò, che “ercto” deriva certamente da “ercisco” e “cito” è un avverbio che deriva da cieo e significa prontamente . Vedi BRÉAL e Bailly, Dictionnaire étymologique latin, Paris, pº Ercisco e Cieo. Che poi veramente presso gli antichi romani fosse consuetudine di mantenere, per quanto fosse possibile, l'indivisione, appare dal seguente testo, che trovo citato da KARLOWA, Röm. R. G., ricavato dalle PETRI, Excep. legum romanarum, lib. I, cap. 19, De vendenda hereditate. Consuetudo antiquorum esse solebat, ut frater de rebus suis immobilibus non venderet nisi fratri, propinquus propinquo, nec consors nisi consorti, si emere vellent. È questo forse il motivo, per cui presso i romani un heredium potera conservarsi integro nella stessa famiglia per parecchie generazioni, e un vicus poteva essere costituito per intiero di famiglie appartenenti alla stessa gens, senza mescolanza di elementi estranei. Cid sarà meglio dimostrato ove trattasi appunto prietà nel periodo gentilizio >. della pro -- - - 31 erano stati sotto la patria potestà della stessa persona, come quelli che avevano formato parte di una medesima casa ed erano usciti dalla medesima gente. Tuttavia, per ben comprendere il carattere della famiglia patrizia primitiva, vuolsi sempre aver presente, che essa non è già un organismo isolato, ma è parte di un organismo maggiore di cui costituisce il nucleo più ristretto. Diqui la conseguenza che quel potere del padre, che giuridicamente considerato sembra essere senza confini, trovasi nella realtà limitato sia dal tribunale domestico, che circonda il capo di famiglia, sia dal consiglio dei padri, che trovasi nella gente e nella tribù, per guisa che i temperamenti, che non vi sarebbero nella natura del potere paterno, si incontrano invece nel costume e nell'organizzazione gerarchica, di cui la famiglia entra a far parte. È per questo motivo, che tutti gli atti, che toccano in qualche modo l'organizzazione gentilizia, quali sarebbero l'adrogatio, che serve a perpetuarla quando manca una prole diretta, il testamento, che modifica le regole con suetudinarie relative alla successione, ed anche il matrimonio per confarreatio di uno dei membri della famiglia, devono essere fatti coll' intervento, colla testimonianza e perfino coll'approvazione dei capi di famiglia, che entrano a formare la gente e la tribù; il che ancora appare dalle formalità, che accompagnarono questi atti nei primitempi di Roma. Intanto è incontrastabile, che anche la successione legittima e la tutela assumono un carattere del tutto gentilizio, in quanto che l'una e l'altra, sebbene non stabiliscano delle differenze per causa del sesso o per causa di primogenitura, mirano però fino all' evidenza a conservare il patrimonio e l'amministrazione di essa nella [Leg. 195, $ 2 e 196, Dig., De verb. signif. (50, 16 ): Communi iure, scrive Ulpiano, familiam dicimus omnium agnatorum, nam, etsi patre familias mortuo, sin guli singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte eiusdem familiae appellabantur, quia ex eadem domo et gente proditi sunt. Qui viene ad essere evidente, che la giurisprudenza classica, che non poteva più favorire quella indivisione che era tanto accetta agli antichi romani, conserva però sempre il concetto della famiglia degli agnati, non più desumendolo dalla indivisione del patrimonio famigliare, ma dalla circostanza che gli agnati erano un tempo dimorati nella stessa casa ed erano stati sotto la patria potestà del medesimo capo. È da vedersi sull'agnazione l'articolo di SEMERARO, “Enciclopedia giuridica italiana”, vº “agnazione”, vol. I, parte 2*, 720. 32] linea agnatizia. Il che può scorgersi ancora nella legislazione decemvirale, la quale, come si vedrà a suo tempo, in questa parte riusci a far prevalere pressochè intieramente il sistema di successione e di tutela, che dovevano essere in vigore presso il patriziato durante il periodo gentilizio. Quanto al testamento, esso era certamente conosciuto in questo periodo, ma collo spirito che prevale nell'organizzazione gentilizia si può affermare con certezza, che esso, dovendo essere fatto coll'approvazione del consiglio degli anziani e nelle riunioni gentilizie della tribù, anzichè servire qual mezzo per sottrarre l'eredità alla gente, dovette invece servire per ritardare od impedire la soverchia divisione dei patrimoni. Intanto è pure da notarsi il carattere speciale, che assumeva la famiglia primitiva nel periodo gentilizio, in quanto essa comprende eziandio nella propria cerchia un numero più o meno grande di servi, che in antico sono anche detti “famuli”, dal vocabolo “famel”, che in lingua osca significa appunto “servo”; dal quale, secondo Festo, sarebbe anche derivato l'antico vocabolo “famuletium”, che avrebbe significato servitium. È infatti per mezzo dei servi, a cui era [Si può ricavare l'importantissima conseguenza, che a suo tempo servirà a spiegare molte istituzioni del diritto romano primitivo, che il concetto di comproprietà, in virtù del quale i figli durante la vita del padre sono comproprietarii dell'heredium, e dopo la morte di esso in certa guisa eredi di se stessi (“heredes sui”), come pure quello, in virtù di cui è dal novero degli agnati, che si debbono ricavare i tutori delle femmine, degli impuberi e dei furiosi, sono tutti concetti, la cui origine rimonta ed è anzi un effetto della stessa organizzazione gentilizia, di cui la famiglia entra a far parte. Quanto al testamento fra le genti patrizie non dove certo essere applicazione del principio: a uti paterfamilias super familia tutelave suae rei legassit, ita ius esto, ma doveva mirare sopratutto all'”ercto non cito”. Il testamento esiste, ma nell'intento di serbare il patrimonio indiviso e di trasmetterlo tale di generazione in generazione. L'importante concetto di questa comproprietà famigliare già trovasi nettamente espresso in uno degli ultimi lavori di Dubois, alla cui memoria mando qui un riverente saluto, nel suo ultimo diligentissimo lavoro col titolo: “La saisine héréditaire en droit ro main” (Paris) pubblicato nella “Nouvelle revue historique de droit français et étranger”, ove, combattendo iMaynz ed altri autori, dimostra che gli eredi suoi erano immediatamente investiti dell'eredità, senza che occorresse accettazione della medesima e ciò appunto in base a questa comproprietà famigliare. Al concetto del DuBois è solo da aggiungersi, che cið era un effetto dell'organizzazione gentilizia prima esistente, idea, che egli già aveva in germe, come lo dimostrano le parole con cui egli conchiude il suo lavoro, ma che non ebbe più campo di svolgere. V. Festo, vº Famuli (Bruns, Fontes, 338 ). 33 affidato il servizio rustico od urbano (familia rustica, familia urbana) che la famiglia primitiva veniva ad essere organizzata per modo da bastare a qualsiasi bisogno ed emergenza. Cio diede un carattere speciale alla vita economica dell'antichità e coopera a dare alla famiglia antica il carattere di un tutto organico e coerente in tutte le sue parti. La servitù ebbe per effetto, come ben nota Padelletti, di fare in guisa che i prodotti non venissero a cambiare di possessore in tutto il corso del loro processo produttivo, perchè il servo e impiegato non soltanto nella produzione, ma benanche nella trasformazione e nel trasporto dei prodotti. Per tal modo ogni famiglia tende a supplire a tutti i suoi bisogni, e intanto ogni capo di famiglia poteva apparire come possessore difondi, essere ricco di greggi ed armenti, che costituivano in certo modo il primo capitale, e intanto attendere eziandio al commercio dei proprii prodotti Puo tuttavia affermarsi con certezza, che durante il periodo gentilizio le genti patrizie fossero sopratutto ricche di greggi ed armenti, come lo dimostra l'uso frequentissimo di vocaboli anche di carattere giuridico de rivanti dall'industria pastorale (quae ex pecoribus pendent), il che, secondo Festo e Varrone, deriva appunto da cid, che presso imaggiori le ricchezze ed i patrimoni si componevano sopratutto di greggi e di armenti . e PADELLETTI, Storia del dir. rom. Sull'importanza della servitù nella famiglia primitiva è da vedersi PERNICE, M. Antistius Labeo, Halle, ove parla dei rapporti degli schiavi colla casa di cui fanno parte, sopratutto MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, Leipzig. Fra questi vocaboli basti citare quello, che ebbe poi tanta parte nel vocabolario giuridico, di “agree”, che, secondo BRÉAL, nel suo significato primitivo suo nava spingere, stimolare, e si applica sopratutto al gregge; quello di grex talvolta applicato al popolo; quello di ovilia adoperato per significare i recinti (septa ) ove il popolo era distribuito per dare il voto nei comizii; i vocaboli di abgregare, adgregare, congregare citati appunto da Festo come vocaboli di origine pastorale (Bruns, Fontes, 331); quelli di pecunia, di peculium, di peculatus, di ager compascuus, e molti altri i quali spiegano come VARRONE (Bruns, Fontes, p. 388 ) finisca per esclamare. Romanorum populum a pastoribus esse ortum, quis non dicit? Mulcta etiam nunc, ex vetere instituto, bubus et ovibus dicitur, et aes anti quissimum, quod est flatum, pecore est notatum. Si vedrà invece a suo tempo che mentre la ricchezza del patriziato primitivo consisteva di preferenza in greggi, in mandre ed armenti, che pascolavano nei compascua della tribù, e poscia nell'ager pubblicus della città, la plebe invece fin dagli inizii diede sopratutto opera all'agri coltura, concentrandosi nella coltura del proprio heredium o mancipium. Questo G. C., Le origini del diritto di Roma. Del resto quello, che qui importa, e sopratutto di mettere in evidenza il carattere gentilizio della famiglia; poichè essa, fra le istituzioni anteriori alla comunanza, è certamente quella che conserva più lungamente il suo carattere primitivo. Quindi anche nel periodo storico si troveranno nel patriziato romano quelle stesse formalità solenni e quelle cerimonie religiose, che dovevano accompagnare gli atti relativi alla famiglia durante il periodo gentilizio. La sola differenza consiste in questo, che all'approvazione dei padri del gruppo gentilizio nella comunanza civile e politica sottentrerå - o la testimonianza dei dieci Quiriti che rappresentano le curie in cui divi devasi la tribù e l'intervento dei Pontefici, siccome accade nelle confarreatio, - o l'approvazione delle curie, coll'intervento pure dei Pontefici, siccome accade nella adrogatio e nel testamento, che per il patriziato verranno a compiersi davanti all'assemblea delle curie, cioè in calatis comitiis (curiatis). Credo ad ogni modo, che anche questa breve esposizione dei caratteri della famiglia del patriziato romano dimostri abbastanza che essa non deve essere riguardata come una istituzione del tutto primitiva, come alcuni vorrebbero considerarla, in quanto che la medesima già erasi scostata in parte dalle sue primitive e naturali fattezze, a causa della influenza, che ebbe ad esercitare su di essa l'organizzazione gentilizia, di cui e entrata a far parte. Essa in sommanon è più la famiglia, quale dovette uscire dagli istinti e dalle tendenze naturali del genere umano; ma è già una famiglia che in parte ha soffocato i naturali affetti onde fortificarsi per la lotta per l'esistenza e per entrare in un'organizzazione, che funge da associa zione domestica, religiosa,militare e politica ad un tempo. Ed è anche questa la ragione, che la renderebbe a noi pressochè incomprensibile, se non fosse riportata nell'ambiente in cui ebbe a formarsi. svolgimento storico pertanto conferinerebbe il risultato, a cui giunsero SPENCER ed altri sociologi, secondo il quale sarebbe stato sopratutto il periodo della vita pastorale, che avrebbe determinato la formazione e l'afforzamento di quell'organizzazione gentilizia, che trovasi così profondamente radicata presso il primitivo patriziato romano (V. SPENCER, Principes de sociologie, Paris). Tale è ad esempio l'opinione del Sumner Maine, che in questa parte fu com battuto dallo SPENCER. La gens e la sua importanza per il patriziato di Roma. 28. Se la famiglia, quale comparisce più tardi nel diritto Quiri tario, riproduce pur sempre i caratteri dell'antica famiglia patrizia, altrettanto invece non può dirsi della gens, la quale perciò è assai più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Sebbene in fatti la gens mantengasi ancora lungamente durante la comunanza civile e politica, viene tuttavia fin dalle origini della convivenza civile e politica, ad essere sottoposta ad un processo di dissoluzione, in quanto che una parte delle sue funzioni di un tempo, quelle cioè che avevano un carattere politico o militare o legisla tivo, finiscono per essere a poco a poco assorbite dalla città. A cid si aggiunge, che in questa parte la grande autorità di Niebhur, sulla fede di un testo di Dionisio, a cui diede una interpretazione che non può essere ammessa, pose gli investigatori della storia primitiva di Roma in un indirizzo erroneo, in quanto che condusse a cre dere per lungo tempo, che la gens non fosse che una ripartizione politica della città. Per tal modo l'organizzazione politica della [NIEBHUR, Histoire romaine, trad. Golbery, Paris, ove parla: des maisons patriciennes et des curies e specialmente a pag. 19. Ivi l'illustre storico, avendo trovato che Dionisio divideva in dekádec le curie, pensò che queste decurie non potessero essere che le gentes e trasportò così l'organizzazione gentilizia nella città, concetto, che d'allora in poi ha dominato le ricerche contempo ranee intorno a Roma primitiva, per guisa che occorre pressochè universalmente di trovare che la città di Roma si divideva in tribù, queste in curie e queste ul time in gentes. Così, ad esempio, anche gli autori più recenti, pur avendo modifi cato il concetto della gens con ritenerlo un ampliamento naturale della famiglia, continuano pur sempre in questa distinzione. Citerò fra gli altri KARLOWA, Röm. R. G., il quale continua ad essere intitolato: “Das Volk und seine Gliederungen (tribus, curiae, gentes)”, quasi che il popolo romano sia stato mairipartito in gentes; ed iLeist, Graeco- Italische R.G. che segue pure la stessa distinzione. Così pure il WILLEMS (“Le droit public romain,” Paris)che continua ancor esso a dire, che le curie si suddividono in gentes. Questa distin zione non fu mai accennata dagli antichi scrittori, i quali soltanto ebbero a dire con Gellio, che i comiziä сuriati si raccoglievano ex generibus hominum, il che significa solamente, che nella composizione delle curie si teneva conto della discen denza, mentre invece nei comizii centuriati si badava al censo e nei tributi alle lo calità. Il populus insomma è ricavato dalle gentes,ma non fu mai diviso in gentes.] città venne ad essere confusa con quella patriarcale della gente e i due elementi gentilizio e politico si confusero per modo che per qualche tempo fu impossibile riuscire a sceverarli, ed anche oggi si scorgono evidenti, anche in dottissimi scrittori, le conseguenze di tale confusione. Allora soltanto le indagini furono rimesse in una via, che poteva condurre a qualche risultato, allorchè gli studii, che si vennero facendo sul gruppo patriarcale nell'Oriente, dimostrarono che anteriormente alla città era lungamente durato un altro pe riodo di organizzazione sociale, che riceveva appunto il suo carat tere fondamentale dalla gens, la quale, formatasi nell'Oriente, era poi stata trasportata nell'Occidente tanto dalle stirpi Elleniche, quanto dalle stirpi Italiche. Fu quindi collo studiare il gruppo patriar cale nell'Oriente, ove per circostanze storiche speciali erasi mante nuto stazionario ed immobile nelle sue principali fattezze, che si cominciò a comprendere e a ricostruire nel suo carattere primitivo quella gente, che in Grecia ed in Roma era stata in parte trasfor mata colla creazione dell'urbs e della civitas. Questo lavoro di ricostruzione poté per le genti italiche essere agevolato da ciò, che Quanto alle dekádes di Dionisio, il MUELLER ebbe a dimostrare che esse sono invece una divisione delle centurie degli equites, al modo stesso, che esse erano pure una divisione del senato -- MUELLER, Philologus. Si può infatti comprendere che i senatori, che erano cento prima e trecento dappoi, si dividessero in decurie, e che così pure si facesse delle tre centurie primitive degli equites, ma non si può veramente capire come le curie, divisione dei Quiriti, che erano uomini di arme, potessero suddividersi in gentes, le quali, essendo un ampliamento della fa miglia, comprendevano maschi e femmine,maggiori e minori di età e così di seguito. Il merito di aver richiamato l'attenzione sul gruppo patriarcale presso le stirpi Arie, è da attribuirsi sopratutto al Sumner MAINE, L'ancien droit, chap. V. La société primitive et l'ancien droit,107 a 163. Tuttavia mi pare giustizia il far notare, che il primo che abbia, se non provata, almeno intuita questa organizzazione patriarcale delle genti primitive fu sopratutto il nostro Vico, il quale per compro varla ebbe a citare quegli stessi versi di Omero, in cui parlasi delle istituzioni pri mitive dei Ciclopi (V. 22, Scienza nuova, ediz. Ferrari, Milano, ove parla dell'economia poetica e dice che i Polifemi furono i primi padri di famiglia del mondo), dai quali prende appunto le mosse il SUMNER Maine (pag. 118 ); versi del resto, che già erano stati citati da Platone nel dia logo delle Leggi, quando voleva appunto dimostrare che il patriarcato era stata l'organizzazione sociale primitiva non solo presso i Greci, ma anche presso i Barbari. Plato, Leges, III, Ed. Didot, Paris, 1848. Del resto che l'organizzazione gentilizia sia stata comune a tutti gli Arii e quindi anche ai Greci e agli Italici è cosa, che oggidì non forma più argomento di discussione. (Per maggiori particolari vedi C., La vita del diritto, lib. I e II, e sopratutto a90 e seg.) i 37 esse più di tutte le altre stirpi hanno saputo attribuire al gruppo gentilizio quei contorni precisi e determinati, che solo si rinvengono presso quelle popolazioni, che svolgono le proprie istituzioni sotto un aspetto essenzialmente giuridico. Di qui la conseguenza, che, a parer mio, i veri caratteri dell'organizzazione per gentes possono più facilmente essere trovati nelle poche reliquie delle primitive genti del Lazio, che non nella stessa India, ove l'elemento religioso preponderante fini per assorbire e soffocare ogni altro aspetto della vita primitiva. 29. Intanto questo ormai si può affermare con certezza, che la gente, anzichè essere una divisione artificiale della città, deve invece es sere considerata come il perno, intorno a cui si esplica l'organizza zione gentilizia. Essa è un naturale ampliamento della famiglia pa triarcale, in quanto che non comprende più soltanto coloro, che dipendono dalla stessa patria potestà, maabbraccia tutte le famiglie, che, memori dell'antenato comune, da cui sono discese, non solo ne portano il nome, ma ne professano e perpetuano il culto. Però oltre questo carattere, che la gens latina ha comune colle genti Arie, essa ha eziandio un carattere suo peculiare, ancorchè comune forse alle genti elleniche, il quale consiste in ciò che le gentes sono considerate come proprie di quelle aggregazioni domestiche, che oltre all'avere uno stipite comune, sono riuscite a mantenersi perennemente ingenue, immuni cioè da qualsiasi rapporto di servitù e di clientela. Delle gradazioni del gruppo patriarcale, la “gens” è quella che possiede elasticità maggiore, perchè talvolta può avere le proporzioni soltanto di una famiglia, col qual vocabolo infatti è talora indicata la stessa gens. E talvolta invece può avere già dato origine a tante pro [Il vocabolo ad esempio di familia è adoperato per significare la “gens” nel seguente passo di Festo. “Familia antea in liberis hominibus dicebatur, quorum dux et princeps generis vocabatur pater et materfamilias; unde familia nobilium Pompiliorum, Valeriorum, Corneliorum (Bruxs, Fontes). Si possono vederne molti altri esempi nel Voigt (“Die XII Tafeln”, Leipzig). In ciò si ha una nuova prova che la familia e la gens fanno parte della stessa organizzazione, per guisa che i due vocaboli si scambiano fra di loro. Mentre è difficile trovare negli antichi scrittori il vocabolo di familia per indicare il populus, loro pare invece di essere più esatti, paragonandolo ad un grez e dividendolo al pari di questo in altrettanti capita. Del resto sono abbastanza noti i significati molteplici, che ha il vocabolo familia nel diritto primitivo di Roma, ove significa ora un complesso di persone o 38 paggini diverse da prendere quasi le proporzioni di una grande e numerosa tribù, come la tradizione ci narra essere accaduto della gens Claudia, da cui sarebbe originata la tribù dei Claudienses, e della gens Fabia, le cui proporzioni pervennero a tale che essa poté colle sole sue forze affrontare, secondo la tradizione o leggenda che voglia chiamarsi, una impresa militare, che in tristi circostanze appariva ardua alla intiera città. Non è dubbio tuttavia, che le popolazioni italiche e sopratutto quelle del Lazio dovettero avere un criterio per scindere la gens propriamente detta dalla familia in stretto senso e se fosse lecita una congettura avvalorata da una quantità notevole di indizii, la stregua dovette essere la seguente. Non vi ha dubbio che i caratteri distintivi della famiglia primitiva erano due, cioè la patria potestà del suo capo e l'esistenza di un patrimonio, probabilmente chiamato here dium, che apparteneva esclusivamente alla famiglia nella persona del proprio capo. Di qui la conseguenza, che tutti i discendenti nella linea maschile (comprese anche le femmine non ancora uscite dal gruppo per matrimonio e quelle entrate in esso per la stessa causa ) che dipendevano da un solo capo costituivano la famiglia in stretto senso; ma questa poi continuava ancora a mantenersi e a considerarsi tale, anche dopo la morte del padre, finchè il pa trimonio indiviso di essa perpetuava in certo modo l'unità fami gliare. Che se invece i fratelli, dipendenti un tempo dall'autorità di un solo padre, venivano a dividersi il patrimonio famigliare e a rompere così anche quanto ai beni l'unità primitiva, in allora venivano ad esservi altrettante famiglie, di cui ciascuna aveva un proprio capo, ma che tutte facevano parte di una medesima gens, perchè continuavano ad avere il medesimo nome e il culto comune per il proprio antenato. La “gens” comincia pertanto quando cessa l'unità indivisa della famiglia, e quindi nel periodo gentilizio quelli che erano agnati e che come tali costituivano ancora la famiglia omnium agnatorum, finchè il loro patrimonio era indiviso, costituivano già il primo grado della gentilità, allorchè questa divisione era seguita. È di qui che provenne la difficoltà, ancora non superata, per distin di cose, ora un complesso di persone, ora soltanto un complesso di cose (fa milia pecuniaque) – ed ora infine il complesso dei servi (familia rustica ed urbana).] guere gli agnati dai gentiles, perchè colla divisione del patrimonio gli uni si potevano convertire negli altri e fu solo posteriormente allorchè diventò più rara questa indivisione, che si chiamarono agnati tutti coloro, che un tempo si erano trovati sotto la patria potestà della stessa persona, ai quali si aggiunsero poi anche quelli, che lo sarebbero stati se il comune capo non fosse premorto. Non è quindi il caso di dover supporre col Muirhead, che l'ordine degli agnati, cosi nella successione che nella tutela legittima, sia stata una creazione artificiale della legislazione decemvirale per provvedere alla successione e alla tutela dei plebei, che mancavano di genti. Gl’artificii nelle epoche primitive sono meno frequenti che non si creda, e non si possono supporre che quando ve ne siano prove dirette, quale è quella, ad esempio, che abbiamo quanto alla fin zione di postliminio ed altre analoghe. Per contro il gruppo degli agnati può benissimo essere attribuito ad una formazione spontanea durante il periodo gentilizio, poichè era cosa naturale, come notd più tardi il giureconsulto, che l'essere stati un tempo sotto la patria potestà della stessa persona e l'aver partecipato al godimento dello stesso patrimonio dovesse distinguere il gruppo degli agnati da quello più remoto dei semplici gentiles, che solo avevano comune la discen denza da uno stesso antenato, ma che non avevano mai dimorato nella stessa casa, nè avevano mai formato parte della stessa famiglia. D'altronde sarebbe veramente strano ed incomprensibile, che la le gislazione decemvirale avesse dovuto essa creare il concetto degli agnati, mentre è appunto quest'agnazione, che sta a base delle or ganizzazioni domestica e gentilizia, le quali certo già esistevano pre cedentemente. C [Che l'ordine degl’agnati sia stata una creazione della legislazione decemvi. rale, è uno dei concetti veramente nuovi enunciati dall'illustre autore dell' “Historical Introduction”. Egli quindi insiste più volte sul medesimo e dopo averlo accennato a43 nel testo e nelle note 2 e 3 vi ritorna sopra a121 e 172 e note relative. Il solo suo argomento però consiste nei due testi di Ulpiano da lui citati, ove il giureconsulto mentre dice che: lege duodecim tabularum testamentariae hereditates confirmantur, usa invece, quanto alla successione legittima, l'espressione che legitimae hereditatis ius ex lege duodecim tabularum descendit, espressione che pure adopera altrove quanto alla tutela legittima. È però evidente, che qui il giureconsulto non parla solo della successione degli agnati, ma di tutta la succes sione legittima, e quindi anche degli heredes sui, e dei gentiles, per guisa che, se stesse il ragionamento del MUIRHEAD, converrebbe dire, che secondo il giureconsulto tutto il sistema della successione legittima discende dalle XII tavole. E questo ve [La gente intanto, dopo essere partita dal gruppo degli agnati, che avevano diviso il patrimonio paterno, poteva poi prendere uno svol gimento grandissimo, in quanto che essa poteva abbracciare tutte le diramazioni per la linea maschile, che si staccavano da ciascuno di questi agnati e non cessava mai di costituire una sola aggregazione gentilizia, finchè tutte le famiglie continuassero ad avere lo stesso nome e a professare il culto del medesimo antenato. Potevano perd darsi dei casi, in cui la gente cosi pervenuta ad un numero stragrande di persone venisse a ripartirsi essa stessa in diramazioni diverse; tuttavia anche allora il nome primitivo della gens è sempre conservato, ma ciascuna delle diramazioni prende un proprio agnomen o cognomen, che ne costituisce in certo modo la caratteri stica, ed è seguendo la serie dei cognomina, che si possono seguire le propaggini tutte della stessa pianta. Cosi accadde, ad esempio, della “gens” Claudia, la quale già numerosissima conserva ancora una sola denominazione, ma che più tardi venne assumendo una quantità di cognomina diversi, che indicano in certo modo il punto, in cui sopra un unico ceppo cominciarono ad apparire diramazioni diverse. Lo stesso è a dirsi della “gens” Cornelia e di molte altre, il che serve, anche a spiegare come nel tempo in cui anche quella parte della plebe, che già era pervenuta alla nobiltà cerca di imitare l'organizzazione gentilizia, si veggano delle gentes plebeiae staccarsi da un fusto patrizio. Ciò infatti deve probabilmente indicare un antico vincolo di clientela, che stringe l'antenato, da cui parti la formazione della gente plebea, a gente patrizia. Bastano queste considerazioni per spiegare l'energia vitale, che ramente fu quello, che volle dire il giureconsulto; poichè furono appunto le XII tavole, che, nell'intento di appoggiare l'organizzazione gentilizia, trasportarono di peso la successione legittima esistente nelle tradizioni patrizie anche alla plebe, nel che può vedersi uno dei motivi, per cui il cittadino romano, per sottrarsi ad un sistema di successione, che era disadatto alla città e conduceva all'esclusione di per sone care, credevasi quasi dimorire disonorato, se moriva senza testamento. Fu quindi tutta la successione legittima e non soltanto l'ordine degli agnati, che fu creazione dei decemviri, i quali la tolsero dipeso dell'organizzazione gentilizia; in cui già eranvi le distinzioni di heredes sui, di agnati e di gentiles, come appare dal fatto, che tutta l'organizzazione gentilizia è fondata sull'agnazione, il che è pure ammesso dal MUIRHEAD. Ciò del resto sarà meglio comprovato quando si tornerà sul gravissimo argomento, discorrendo della successione legittima in base alle XII tavole. Quanto all'agnazione e ai caratteri di essa è pure da vedersi il Voigt (“Die XII Tafeln”) - poteva avere un gruppo, che, ad una compattezza pressochè uguale a quella della famiglia, accoppiava talvolta il numero e la forza della tribù, sopratutto allorchè essa era capitanata da uomini di energia tenace e di propositi costanti, come furono per parecchie genera zioni quelli, che guidavano la gens Claudia o la gens Valeria, e come in essa potessero anche perpetuarsi tradizioni diverse, ostili o favorevoli alla plebe dapprima e poi al partito popolare. È questo carattere della gens, che spiega la perennità di un numero origi nariamente piccolo di genti patrizie, malgrado una quantità di influenze, che tendevano a dissolverle e a circoscriverne l'azione. Così pure deve spiegarsi il fatto che, mentre le tribù primitive, di fronte alla potenza assorbente della città, finirono per scompa rire fin dal periodo regio con Servio Tullio, le genti invece per. durarono per parecchi secoli, sostennero in poche una lotta lunga e pertinace con una plebe, il cui numero veniva facendosi sempre maggiore, ed anche vinte continuarono sempre a dare un contri buto larghissimo a quegli onori e a quelle magistrature, che per secoli erano stati loro privilegio esclusivo, finchè da ultimo anche l'impero fini per consolidarsi per un certo tempo nei discendenti di antiche genti patrizie, che si erano imparentate fra di loro. Del resto questa potenza del gruppo gentilizio fu anche sentita da quella parte della plebe, che mediante l'ammessione agli onori fini per costituire una nuova nobiltà, come lo dimostra il fatto, che essa per afforzarsi non trovò mezzo più efficace di quello di ricorrere al ius imaginum e di imitare cosi una organizzazione, che ormai trovavasi in decadenza. Intanto i due caratteri fondamentali della gens, quali si pos sono raccogliere dalle vestigia che ci rimangono delle antiche genti italiche,malgrado le divergenze, che possono esistere nella descrizione dei particolari minuti, si riducono essenzialmente ai seguenti, cioè, primo, alla discendenza da un antenato comune, la quale rivelasi nel nome, nel culto, e nel sepolcro comune; secondo, ed alla ingenuità perenne dei membri, che entrano a costituirla, per modo che essa deve essersi ser bata immune da qualsiasi mescolanza con persone di origine servile. Il primo di questi caratteri è quello che costituisce la forza, la compattezza e la perennità dell'organizzazione gentilizia, ed il se condo, che il pontefice Q. Muzio SCEVOLA volle si aggiungesse alla deffinizione dei gentiles serbataci da Cicerone, è quello che spiega la superiorità delle genti patrizie di fronte alla plebe. Esse avevano attraversato un lungo periodo di lotta e di privata violenza vincitrici sempre e non vinte mai, e quindi la loro gentilitas era indizio, che esse appartenevano alla classe dei vincitori, il cui sangue non erasi mai mescolato con quello dei vinti, dei servi e dei clienti, donde la conseguenza eziandio, che il vocabolo patricii in sostanza non significava che gli ingenui, il quale ultimo vocabolo allude ap punto alla niuna mescolanza del loro sangue con quello servile. Questi due caratteri sono dimostrati anzitutto dalle varie diffinizioni della gens stateci trasmesse da Varrone, da Festo, da Isidoro e da altri, le quali accennano tutte alla discendenza dei gentili da un antenato comune, e da quella anche di Cicerone, il quale, parlando di un nome comune – “qui inter se codem nomine sunt” -- non esclude certamente, ma conferma il carattere della comune discendenza e in tanto vi aggiunge quello della ingenuità non interrotta dei gentiles. Questa del resto è pur confermata da ciò, che la plebe stessa nelle sue discussioni coi patrizii se non ammetteva la loro discendenza dal divino riconosce però, che il vocabolo “Patrizio” nelle sue origini significa “ingenuo”. Di qui intanto si comprende come dapprima il patrizio e poscia tutti i cittadini romani avessero *tre* appellazioni. La prima – “prae-nomen” -- indicava l'individuo. L’altra e il vero nome – “nomen” -- designa la gente, a cui egli appartene in quanto la gente e in certo modo il gruppo che contene le diverse famiglie. La terza infine – “cognomen” – designa la famiglia, in quanto questa era una particolare diramazione, della gente. A queste appellazioni si potevano poi anche aggiungere Festus, vo Gentilis: Gentilis dicitur ex eodem genere natus, et is qui simili nomine appellatur . Bruns, Fontes; VARRO, De lingua Latina. “Ut in hominibus quaedam sunt agnationes ac gentilitates, sic in verbis; ut enim ab Aemilio homines horti Aemilii ac gentiles, sic ab Aemilio nomine declinatae gen tilitates nominales.” Bruns, Fontes, Isidoro. “Gens est multitudo ab uno principio orta, appellata propter generationes familiarum, id est a gi gnendo uti natio a nascendo.” Bruns; CICERO, Top. “Gentiles sunt qui inter se eodem nomine sunt.” “Qui ab ingenuis oriundi sunt.” “Quorum maiorum nemo servitutem servivit.” “Qui capite non sunt deminuti.” V. anche Livio. Per ciò che si riferisce ai nomi romani è da vedersi il MICHEL, “Du droit de cité romaine” (Paris), e sopratutto la trattazione veramente magistrale del MarQUARDT, “Das Privatleben der Römer,” che nota come vi fossero gruppi, che non avevano cognomen, come gli Antonië, i Duilii, i Flaminii ecc. Quanto agl’esempi citati nel testo a pag.40, è pare a vedersi Bonghi, “Storia di Roma”, “Appendice sulle primitive genti patrizie”, nella parte, che si riferisce alla gens Claudia e Cornelia] uno o più soprannomi – “agnomina” -- che servivano a contraddistinguere l'individuo stesso o per essere egli stato adottato da altra famiglia, o per impresa da lui compiuta, o per indicare le suddistinzioni operatesi nella stessa famiglia. Può darsi che in antico potesse esservi anche qualche indicazione della località abitata dalla gente, a cui apparteneva l'individuo, come lo dimostrano i soprannomi di “Regillensis”, “Collatinus,” e simili. Di questo si ha un indizio nel fatto, che allora quando il territorio di Roma e veramente distribuito in tribù locali, anche la indicazione della tribù comparve a completare le denominazioni del cittadino romano, e precedette anzi il soprannome suo particolare. Del resto, questi caratteri particolari della “gens” sono anche comprovati dalla radice “gen,” comune alla “gens” latina e al “genos” dei greci, che significa “generare” e produrre; come pure da ciò, che i nomi gentilizii sono nomi di persona piuttostochè di luoghi, e che i diritti gentilizii, come il ius hereditatis, il ius curae, il ius sepulchri sono di carattere eminentemente privato. Così è pure dei sacra gentilicia, i quali da Festo sono annoverati fra i sacra privata, che sono a spese delle singole genti, e contrapposti ai sacra pubblica, che si compiono invece a pubbliche spese. Solo sembra far eccezione il ius decretorum. Ma oltrecchè questo diritto sembra nel periodo storico esercitarsi di preferenza in cose d'ordine privato, il medesimo puo facilmente essere spiegato quando si consideri, che la genteha compiuto un tempo funzioni politiche, che non puo scomparire di un tratto anche colla formazione di Roma. Tali sono le appellazioni di Publius Cornelius Scipio Aemilianus, di Lucius Cornelius Scipio Asiaticus, di Publius Cornelius Lentulus Spinther, ecc. V. Mar QUARDT. VARRO, De ling. lat. “In hoc ipso analogia non est, quod alii no mina habent ab oppidis, alii aut non habent, aut non, ut debent, habent.” BRUNS. FESTUS, p Publica: “Publica sacra, quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro montibus, pagis, curiis, sacellis, et privata, quae pro singulis hominibus, familiis, gentibus fiun.” Bruns. I casi ricordati dalla storia, in cui le gentes si sarebbero valse del ius decretorum, sarebbero i seguenti. La gens Fabia vieta ai suoi membri il celibato e la esposizione degl’infanti (Dionisio). La gens Manlia proscrive il prenome di Marcus (Livio). Affine, la gens Claudia proscrive il prenome di Lucius (Svet., Lib. I), che ri chiamavano per esse tristi ricordi. Più tardi però e il Senato, che prende simili provvedimenti, vietando il prenome di Marcus agl’Antonië (Plut., Cic., 19), e quello [È invece assai più difficile l'argomentare quale potesse essere l'organizzazione interna della gens da quelle poche traccie, che ne rimangono nel periodo storico. Non si può anzitutto accertare, se la gens ha sempre e costantemente un proprio capo – “princeps gentis” --, o se il medesimo invece fosse eletto dal consiglio dei padri o indicato dall'anzianità di nascita, solo allorchè trattavasi di qualche impresa da compiere, come quando, ad esempio, Atto Clauso abbandona Regillo per recarsi a Roma. Questo però è certo, che la gente dove avere un consiglio di anziani o di padri, che raccoglieva in sè la somma dei poteri, e conserva e trasmetteva le tradizioni della gente. Era nel suo seno, che si sceglievano gli arbitri e gli amichevoli compositori delle controversie, che potevano sorgere fra i varii capi di famiglia, che appartenevano alla medesima gente. Era questo consiglio parimenti, che sull’ “ager gentilicius” fa degli assegni di terre ai clienti, ed attribuie gl’ “Heredia” alle nuove famiglie che si formavano nel seno della gente. E il medesimo ancora, che poteva richiedere il servizio militare non solo dei suoi membri – “gentiles” -- ma anche dei dipendenti da essa – “gentilicii”. Cosi pure era questo consiglio, che sovra intende alla condotta dei singoli capi di famiglia, prevenne e reprime l’abuso dell'autorità domestica, ed impede eziandio che i capi di famiglia, contro il buon costume della gente, disperdessero quei beni – “bona paterna avitaque” -- di cui in certo modo erano custodi nel l'interesse proprio e
Wednesday, January 8, 2025
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