Grice e Camilla: la ragione
conversazionale e l'literae Humaniores – in literabus humanioris -- dell’huomo
– opp. Lit. div. – scuola di Genova – filosofia gnovese – filosofia ligure -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Genova). Filosofo
genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “You
gotta love Camilla; I mean, if his name were not Camilla, I would call him
Grice: he philosophised on all that I’m into: mainly ‘uomo’ (since he was an
ancient Italian, he used the mute ‘h’ (dell’huomo’): his anima, the concetti
dell’animma that he ‘dichara’ in il suo palare – la bellezza is without equal
--.” De'
misterii e maravigliose cause della compositione del mondo, 1564 Giovanni
Camilla (scritto anche Camilli o Camillo) (Genova), filosofo. Opere Giovanni Camilla, De' misterii e
maravigliose cause della compositione del mondo, In Vinegia, Gabriele Giolito
de Ferrari, 1564. Note Camilla, Giovanni
CERL cnp Filosofia Matematica Matematica
Categorie: Medici italianiFilosofi italiani ProfessoreXVI Genova. Ma che dirassi
parlar del della lingua e diverso parlare cosi pronunciato distintamente,
beneficio de i denti e delle labra, il quale cosi bene DICHIARA I CONCETTI
DELL’ANIMA? CAM. Pensate che se piu l'huomo andasse considerando le cose maravigliose
del divino, tanto piu se gli infiammerebbe l'animo di riconoscerne altre e
contemplarne, e quanto piu sta involto e privo delle scienze e cognitione di
tai cose tanto manco ne prende maraviglia, e se ne in fiamma. Liv. Avanza,
l'uomo tutti gl’altri animali di sottigliezza di sangue, di memoria, bellezza
di corpo, e larghezza di spalle. cresce sino a XXII anni. Hora che veggiamo al
trissino da piccioli atti e quasi instrutti benissiino in diverse scienze oarti,
è cosa manifesta. Onde quel Mercurio gran filosofo Mercurio Trimegisto chiama
l'huomo Tremigi - un grande miracolo. Oltre poi, che con l'intelletto sto.
intende, capisce e discorre sopra ogni cosa, e chiamato un picciol mondo; e
tantage, cosi bella dignità di eso ON Elle 80 E. =.. 0. cica. la conoscevano
benissimo quegli ans huomo viene tutta dall'anima. E questo ui basti qudra to
alla dichiaratione di quelle cose, che sono chiamate naturali, veniamo hora
alle Mathematiche. CAM; Se io debbia hauere queſto a caro, laſciolo confiderda
re a uoi: essendo, che tai ragionamenti sopra tante ecoſi belle coſe, miſaranno
aſſai facile uia ad intendea re poi eſſe scienze. -- diverso parlare cosi
pronunciato distintamente beneficio de i denti e della labra, il quale cosi
benedichiara i concetti dell'anima? AVO PRIMO, OVERO Proemio. a carte; Della
virtù; Dell'amicitia; Dell'amore; Del Cielo e delle Stelle; De gl’elementi; Di
quelle cose che fi generano nell'aere; Dell'anima; Dell'anima dell'huomo; Delle
Piante; De gli animali sensitiui, e prima di quelli, che non hanno ſangue; Di
quelli Animali, che hanno sangue primieramente de pesci; De gli uccelli; De gl’animali
quadrupedi; Dell’uomo; Della Arithmetica, e fue parti; Della Muſica; Della
Geometria, e ſue parti; Della Coſmografia; Dell'arte del nauigare, e de'
precetti, chi fi debbono ofleruare a intender quella; Della fPerſpectiua, et inſiemedella
Symetria dell'uomo; Dell'Aſtronomia; Della Metafisica. DELLA PERSPESTTIVA, ET insieme
della Simetria dell'huomo; Sole pche Holl Utre, Duit 3 bel A PERSPETTIVA dunque,
Perspetti - stando nel mezo della Geometria 4a,. Aſtronomia, proua neceſſaridal
incnte molte coſe, che in eſſe ſi ri = * trouano. Onde che'l Sole illumini pru
dela metà della terra, e che lucendo non ſi poſſa illumini no ueder le stelle,
lo proua il Perſpettivo: dicendo,'piu della che ogni corpo luminoſosferico
illumina una piu pica metà della ciola sfera piu dela metà. Nella Geometria
etiandio queſto è manifefto, come nell'arte di rileuo, ſecondo*; ſi vedono in
Romaalcủne statue, con tanto artificio store fatte, che quantunque una ſia piu
grande dell'altra, @unapoſta in alto, l'altra a baſſo, paiono nondia 1: meno
tutte diunamedeſima groſſezza e grandezza. Effetti del la perſpect e cio come
ſi faccid', diſſe il Perſpettiuo', la comprena tiua, en fione della quantità
della coſa urſibile proceder dalla din comprenſione della piramideralioſa, e
dalla compaa ratione dellabafi alla quantità dell'angulo,o alla lun= ghezza
della diſtanza. Perla medeſima hanno detto gli Aſtrologile stelle effer corpi
sferici'e tondi: pera cioche daejja uien- lor"detto i corpi sferici da
lunge ofind pri parere piani; l'eſempio ſia di uno ouo: oltre di ciò Le ſtelle
le stelle nell'Orizonte apparere piu grandi, etiano, a ell'Ori dio l'iſteſſo
Orizonte alla terra contingente, e piu: zones apo lontano di qual ſi uoglia
altro punto aßegnato nel ciez iori, per lo. L'iſteſſo fàil naturale, il quale
afferma, che l'oca chio non baſterebbe a comprender la grandezza delle coſe,s'eglinon
fuſſe tondo. et etiandio ſenza luce 1. non uederſi niente. Per queſta ſi ſono
ritrouati gli fpecchi: imperoche il raggio dell'occhio cadente pera pendicularmenteſopra
delloſpecchio, ritorna adietro, e coſi fa, che l'imagine èueduta. Si danno
ancora le cagioni, perche nella piu parte de gli ſpecchiſi ueda stig als
t'imagine dalla banda dilà di ello ſpecchio, &in alcue ni dinanzi: o oltre
di ciò coſi diſcoſta e lontana dallo specchio, quanto é l'occhio lontano da
eſo, e di molte altre. si sà ancora la diuerſa compofitioneloro, coa me de'
tondi, concaui, colonnari, piramidalize triana Pianeri og ifcintilla. gulari.
Laſcioper hora, chela reuerberatione de nocome raggi faccia le stelle fille
ſcintillare: imperoche i pia = le ftefle fiłnetinon ſcintillano. Proua
ultimamente, perche nela l'acqua le coſe paiano piu grandi, e fuori dal ſuo
luos Perche le coſepaia. 80;imperochenon ſipuò diſcernere e giudicare la no
mag. grandezza di una coſa per raggio rotto: e per ciò le giori nel ſtelle
nell'orizonte appaiono piu uicine a noi, che nel l'acqua. Meridiano. Si danno
inſieme congnitioni di Iride, e molte altre; la enumeratione delle quali troppo
longa ſarebbe a dirle. CAM. Veramente tutte le ſcienze ſono di talforte tra
loro ordinate, che’n loro a punto ſi uede fe. COM Iron chat lan ED fi uede una
ciclopedia. Liv. Tal dunque è la pera ſpettiua, la cui conſideratione e di
raggio retto, rea feffo, erotto. nella quale non ui marauigliate che ſi
ueggiano coſi eccellenti e buoni Scultori: eſſendo che scultura ciò
ſiuedafacilmente nella Chimica,Ectypoſi, Celaa parci d tura, Plaſtica,
Proplaſtica, Paradigmatica, Tomia fa. ca., Colaptica, le quali ſonotutte parti
della Scultuz ra, o hanno della ſua cognitione bisogno. Hora di queſte non voglio
io parlare, eccetto ſe a voi pareſſe della simetria dell'huomo; dcció da eſſa
comprendiate ogn’hora piu le marauiglioſe opere di Dio. Cam. Queſto miſarebbe
di grandißimo contento, è maßime che per la intelligenza loro ſi potrebbono
etiandio conſiderar le parti de gli animali ſenza ragione.Liv. Queſta miſura
dunque, la quale Simetria chiamiamo, Simetria duenga che'n tutte le coſe create
da Dio ſia maraui: dell'huog glioſa, è però di marauiglia e stupore grandißimo
mo. nell'huomo. imperoche miſurate tutte le parti effatta = mente, dalle quali
è compoſto, iui non ſi uede altro, che ogni coſa piena di harmonia e
perfettißima in tuta ti i numeri. E perciò hanno diuiſo il corpo dell'huomo in
noue parti, le quali tutte ſi prendonodalla faccid;. hauendola coſi poſta
diſopra Iddio grandißimo,aca ciò tutte le altre pigliaſſero la miſura da eſſa,
come contenuta da tutto il corpo noue uolte: s'intende però queſto degli
huominifatti, e non de' fanciulli, i quaa li non ſono eccetto quattro. La
proportion poi de membri tra loroquanta fia, è coſa di grande contemplatione.
Quanto é dalle ciglia ſino alla fine del nära ſo, tanto dal mento fino alla
gola quanto dal labro di fopra ſino alla punta del naſo, tanto é la larghezza
del naſo di ſotto, è la concauità de gl'occhi, quanto dalla cima del fronte
fino alle ciglia, tanto ſino alla punta del naſo, o etiandio fino al mento.
Hora che tanto ſia la faccia, quant'è la mano, e dalle congiunz ture di eſa fi
ueggiano le proportioninella faccia,¿ coſa aſſai ben chiara. Della larghezza,
che ne dires di eſſo al naſo, tanto la larghezza della bocca, quanto la
longhezza del naſo, tanto é la larghezza delle anche, quanto ſono due faccie
inſieme. L'altezza poi, cioè quello, che uolge e circonda all'intorno, e mard
uigliosa. uolge la teſta, e in quella parte del fronte tre faccie, il petto
cinque, il uentre, paſſato però l'ombilico, quattro. Laſcio ultimamente, che
con tenga l'huomo la figura circolare, e quadrata, e che da eſſo ſia cauata la
proportione e miſura di far caſei, Fabriche Rocche, Caſtelli, e Chieſe. Hauete
hora viſto la dir moſtrate uifione del corpo del'huomo, quanto ſia artificioſa,
e dalla fime. tria del di quanta armonia e contemplatione. E di qui conſie
l'huomo. deriate qual Geometria,qual Muſico debbia eſſer l'aua tore e fattore
di tutto queſto, CA M. Veramente da tutte le coſe da D1o create
ſiamobenißimoinſegnati uiuer bene: imperoche hauendo ogni noſtra parte del
corpo con tal proportione diſpoſta, e fatta, ci mom che 3 stra, 1 C,. stra, che
ordiniamo i coſtuminoſtri; acciò in ſi bel corpo poſſa eſſere una bella anima.
Liv. E queſto ulbaſti in queſti ragionamenti, et andiamo alla Aſtro. nomia. Cam. Come a uoi pare. His “Enthusiasm” has a brief section on ‘parlare
humano’, parabolize – wondering how men can ‘express’ the ‘conceptions’ of
their ‘souls’ – via this ‘parlare’ – also philosophised on symmetry, which is
like K. O. Apel’s reciprocity. Literae humaniores, nicknamed classics, is
an undergraduate course focused on classics (Ancient Rome, Latin, and philosophy)
at Oxford. The name means literally "more human literature" and is in
contrast to the other main field of study when the Oxford began, i.e. res
divinae, or literae divine, “Lit. div.”. “Lit. Hum.” is concerned with *human*
learning; “Lit. div.” with learning treating of the divine. “Lit. Hum.”
originally encompassed mathematics and natural sciences as well. It is an
archetypal humanities course. Oxford's classics course, also known as
greats, is divided into two parts, lasting V terms and VII terms respectively,
the whole lasting IV years in total, which is one year more than most arts
degrees. The course of studies leads to a B. A. Lit. Hum. degree. Throughout,
there is a strong emphasis on first-hand study of primary sources in
Latin. In the first part -- honour moderations, “mods” – the pupil
concentrates on Latin; in the second part the pupil must choose VIII essays from
philosophy. The teaching style consists of a weekly tutorial in each of the two
main subjects chosen, supplemented by this or that lecture. The main teaching
mechanism is the weekly essay -- one on each of the two main chosen subjects,
to be read out at a 1-to-1 tutorial. This affords the pupil plenty of practice
at writing a short, clear, and well-researched essay. The emphasis is on the
study of an original text in Latin, assessed by gobbet, a short commentary on
an assigned primary source. In a typical ‘text’ essay, the pupil must comment
on an paragraph in Latin selected by the examiner -- from the set books. Marks
are awarded for recognising the context and the significance of the paragraph. The
course of moderation, – the exam
conducted by a moderator) runs for the initial V terms of the course. The aim
is for the pupil to develop an ability to read in Latin. Virgil is compulsory.
Other paragraphs are chosen from a given list. There are also unseen
translations from Latin, and compulsory translation into prose. The tutorial
fellow in philosophy is free to concentrate on teaching philosophy, not Latin.
The mods examination has a reputation as something of an ordeal.XII three-hour essays
across seven consecutive days. Pupils for Lit. Hum. mods face a much larger
number of exams than undergraduates reading for any other degrees at Oxford sit
for their mods, prelims or even, in many cases, finals. A pupil who
successfully passes his mods may then go on to study the full greats course in his
remaining VII terms. The traditional greats course consists of philosophy. The
philosophy includes Plato and Aristotle, and also modern philosophy, both logic
and ethics, with a critical reading of standard texts -- from Plato's Republic
and Aristotle's Nicomachean Ethics to more modern philosophers, such as Kant. The
regulations governing the combinations of essays are moderately simple. The
pupil must take at least four essays based on the study of ancient texts in the
original Latin. It is compulsory also to offer essays in unprepared translation
from Latin; these essays counted "below the line" — the pupil is
required to pass them, but they do not otherwise affect the overall class of
the degree. G. E. M. Anscombe, British analytic philosopher H. H. Asquith,
former Prime Minister of the United Kingdom J. L. Austin, philosopher of
language A. J. Ayer, British analytic philosopher Isaiah Berlin, historian of
ideas, Oxonian professor George Curzon, 1st Marquess Curzon of Kedleston,
Viceroy of India and Foreign Secretary Emma Dench, British ancient historian,
McLean Professor of Ancient and Modern History at Harvard University Peter
Geach, British analytic philosopher John Murray Gibbon, Canadian writer Barbara
Hammond, English social historian, first woman to take a double first R. M.
Hare, English moral philosopher, Oxonian professor H. L. A. Hart, British legal
philosopher Denis Healey, Labour politician Gerard Manley Hopkins, English poet
Alfred Edward Housman, English classical scholar and poet (failed in finals)
Boris Johnson, Prime Minister of the United Kingdom from 24 July 2019 Ronald
Knox, Catholic priest, theologian, writer and apologist Anthony Leggett,
theoretical physicist and winner of Nobel Prize in Physics C. S. Lewis,
novelist, poet, academic, medievalist, literary critic, essayist, lay
theologian, and Christian apologist Harold Macmillan, Prime Minister of the
United Kingdom, read mods (Latin and Greek), the first half of the four-year
Oxford greats course, at Balliol from 1912 to 1914, interrupted by service in
the First World War Reginald Maudling, Conservative politician Iris Murdoch
DBE, novelist and philosopher Charles Prestwich Scott, editor of the Manchester
Guardian daily newspaper (now The Guardian) Peter Snow CBE, British television
and radio presenter, historian Reginald Edward Stubbs, British colonial
governor Ronald Syme, New Zealand-born historian and classicist Oscar Wilde,
Irish writer and poet, attained a double first Bernard Williams, British moral
philosopher, attained a double first with formal congratulations in the second
part Emily Wilson, British classicist, first woman to publish a translation of
Homer's Odyssey into English. N. T. Wright, British Anglican bishop and
academic Yang Xianyi, translator of Dream of the Red Chamber into English See
also Edit History portal University of Oxford portal Philosophy,
politics and economics Quadrivium Trivium References: Standen, Naomi. "HIS
1023 Encounters: What is a gobbet?" artsweb.bham.ac.uk. Retrieved 14 July
2018. External links Edit Brown, Peter (2003). "Tempora mutantur".
Oxford Today. Archived from the original on 27 May 2011. Retrieved 14 January
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Retrieved 8 September 2006. "The Classics Faculty at Oxford". The
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Greece and Ancient Rome; Honour Moderatons; Classical Tripos -- Degree course
at the University of Cambridge. Giovanni Camillo. Giovanni Camilli.
Giovanni Camilla. Keywords: dell’huomo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Camilla” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Camillo – scuola di Portogruaro – filosofia veneziana – filosofia veneta –
filosofia italiana -- Luigi Speranza (Portogruaro). Filosofo veneziano. Filosofo
veneto. Filosofo italiano. Portogruaro, Venezia, Veneto. Giulio Camillo. Giulio Camillo Delminio. Giulio Camillo detto
Delminio, m. Milano. è stato un umanista e filosofo italiano. Letterato,
erudito e insegnante, è famoso per il suo trattato sull'imitazione nell'arte e
per il vagheggiato progetto utopistico del Teatro della Memoria o Teatro della
Sapienza, edificio ligneo costruito secondo il modello vitruviano in cui
avrebbe dovuto essere archiviato, tramite un sistema di associazioni mnemoniche
per immagini, l'intero scibile umano, un progetto culturale precursore delle
moderne enciclopedie. Le fonti sulla sua vita sono due biografie scritte da
Altan e Liruti. È possibile che il suo nome di battesimo fosse, in
realtà, Bernardino, mentre Giulio Camillo sarebbe uno pseudonimo di sapore
latineggiante, adottato secondo il costume degli umanisti dell'epoca. Studia
a Padova e si dedica quindi all'insegnamento di eloquenza e logica. Fonda con
altri, a Pordenone, l'Accademia Liviana. Trasferitosi a Venezia, conobbe tra
gli altri Pietro Bembo, Pietro Aretino e Tiziano, e strinse amicizia con Erasmo
da Rotterdam, che lo ricorda nella sua opera Dialogus Ciceronianus,
attribuendogli eccellenti doti di oratore. Si trova a Udine, quale maestro
d'umanità. Qui tenta di ottenere l'officio di cancelliere della comunità.
Dedicatosi allo studio della lingua ebraica e delle lingue orientali, della
cabala, del pitagorismo e della filosofia neo-platonica dell’ACCADEMIA, in
occasione di un viaggio a Roma, ha probabilmente occasione di confrontarsi con
il cardinale Egidio da Viterbo, uno dei massimi cabalisti cristiani. Il
Teatro della memoria Lo stesso argomento in dettaglio: Teatro della
Memoria. C. anda sviluppando l'idea di rappresentare la conoscenza come un
teatro dove, a differenza del teatro tradizionale, in cui lo spettatore si
siede in platea e lo spettacolo si svolge sul palco, egli stesso si trova al
centro del palco e lo spettacolo gli si dispiega intorno. Dal palco, infatti,
si dipartivano sette gradini, ognuno dei quali era contrassegnato con una
diversa immagine (Primo grado, Convivio, Antro, Gorgoni, Pasifae, Prometeo) e
ciascuno era suddiviso in sette parti, corrispondenti ai sette pianeti (Luna,
Mercurio, Marte, Giove, Sole, Saturno, Venere). Ognuna delle quarantanove
intersezioni che risultavano è contrassegnata da un'altra immagine mnemonica
desunta dalla mitologia, immagine come simboli, che rappresentava una parte
dello scibile umano. In pratica, il suo Teatro era un edificio della memoria,
rappresentante l'ordine della verità eterna e i diversi stadi della creazione,
un'enciclopedia del sapere e insieme l'immagine del cosmo. In questo progetto
si avvertono la tensione tipicamente rinascimentale verso il sapere universale
e la conoscenza del creato, nonché gli influssi della filosofia ermetica e cabalistica
iniziata da Pico della Mirandola. Il trattato sull'Idea del Theatro C. espone
le sue teorie nel trattato Idea del Theatro (Venezia) e nell'apologetico
Discorso di C. in materia del suo theatro (dedicato a Trifone Gabriel). Queste
trovarono un sostenitore e mecenate nel sovrano francese Francesco I, che il
Delminio incontrò a Milano. È comunque improbabile che un prototipo di tale
teatro sia stato veramente costruito. La sua figura non convenzionale e le sue
idee particolarissime gli attirarono l'ammirazione di molti ma anche l'ostilità
di altri, ed egli venne definito sia un genio sia un ciarlatano. La sua stessa
persona era circondata da un alone di mistero, e anche la morte avvenne in
circostanze poco chiare. Opere Discorso in materia del suo Theatro;
Lettera del rivolgimento dell'huomo a Dio; La Idea del Theatro; Trattato delle
materie; Trattato dell’Imitatione; Due orationi; Rime, et lettere diverse; La
Topica, overo dell’Elocutione; Discorso sopra l'Idee d’Hermogene; La
grammatica; Espositione sopra'l primo et secondo Sonetto del Petrarca. Yates,
L'arte della memoria, Einaudi, Stabile, C., Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, C., L'idea del theatro con
L'idea dell'eloquenza, il De Transmutatione e altri testi inediti, a cura di
Lina Bolzoni, Adelphi, Milano Corrado Bologna, El teatro de la Mente. De Giulio
Camillo a Aby Warburg, Siruela, Madrid, Turello, Anima artificiale. Il teatro
magico di C., Aviani, Voci correlate Anfiteatro della Memoria. C. Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Bindo
Chiurlo, C., Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giulio
Camillo Delminio, in Dizionario biografico dei friulani. Nuovo Liruti online,
Istituto Pio Paschini per la storia della Chiesa in Friuli. Modifica su
Wikidata Opere di Giulio Camillo Delminio, su Liber Liber. Opere di C. (altra
versione), su MLOL, Horizons Unlimited. Opere di C. Open Library, Internet
Archive. Opere riguardanti Giulio Camillo Delminio, su Open Library, Internet
Archive. C., su Goodreads. Frammento di orazione italiana in lode delle scienze
in APUG 118 cc 25-28 Archivio Storico della Pontificia Università Gregoriana
Dell'imitazione Archiviato il 27 agosto 2006 in Internet Archive., trattato
sull'imitazione nell'arte di Giulio Camillo detto Delminio Franco Pignatti,
L'imitazione e la retorica in Giulio Camillo, da Italica.RAI.it Floriana
Calitti, Giulio Camillo Delminio, L'idea del teatro, da Italica.RAI.it (IT, EN)
Giulio Camillo e il Teatro della Memoria da INFN.it Testo de L'idea del Theatro,
su fluido.tv. Giulio Camillo Delminio. Un'avventura intellettuale nel '500
europeo, su delminio.info. URL consultato il 2 giugno 2019 (archiviato dall'url
originale il 17 maggio 2014). Portale Biografie Portale
Filosofia Portale Letteratura Categorie: Umanisti italiani Filosofi
italiani Nati a Portogruaro Morti a Milano [altre]. Giulio Camillo. Camillo.
Keywords: implicatura, chiave universale, deutero-esperanto, memoria ed
identita personale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Camillo.” Camillo.
Grice e Cammarata: all’isola -- la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del giusto – giussum
giustum – giure – iure – giudico – giudicare -- la giustizia – scuola di
Catania – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grce, The Swimming-Pool Library (Catania). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Caania, Sicilia. Grice: “You
gotta love Cammarata; for one, like Austin, he goes by initials, and indeed
like me, A. E. – he is the Italian Hart – he thinks legality comes first,
justice second – and he is possibly right – his example is Oreste’s murder and
the institution of justice in Athens – However, that’s because of his Magna
Grecia background – Speranza tells me that at Rome, things are different, since
it’s all Brutus and the beginning of the republic – ‘il ratto di Lucrezia,’ as
he puts it.” -- Fu uno dei più conosciuti rettori dell'Trieste per la difesa
della quale ricevette la medaglia d'oro della Cultura e dell'Arte, mentre
all'Ateneo fu conferita nel 1962 la medaglia d'oro al valor civile. Biografia Nel corso della sua carriera
insegnò filosofia del diritto e altre materie giuridiche nelle Messina, Macerata,
Trieste, Napoli e Roma. Allievo di Giovanni Gentile, aderì all'idealismo
immanentista. Gli scritti principali di filosofia del diritto sono inseriti, in
massima parte, in Formalismo e sapere giuridico, Giuffrè 1963. Buona parte
degli scritti riguardanti invece la "questione di Trieste" sono
pubblicati in Fra la teoria del diritto e la questione di TriesteScritti
inediti e rari, Eut, Trieste. Fu anche un notevole fotografo, come documentano
le due mostre (Trieste Gorizia ) a lui dedicate. Cammarata, Angelo Ermanno, in Dizionario di
filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Opere di Angelo Ermanno Cammarata,. Filosofia
Università Università Filosofo Avvocati
italiani Insegnanti italiani Professore Catania RomaFilosofi del diritto. Il
secondo giorno sostenne tutto il contrario; onde gridano all'immoralità,
all’audacia e alla sfacciataggine del filosofo, che non si vergognò di
difendere contraddizione si anorme. Anche non tenendo conto che, se si
applicasse questo criterio, tutta la filosofia dei accademici sarebbe un'
immoralità, perchè il loro metodo e di difendere in ogni quistione le soluziori
opposte. Idue discorsi (tesi ed antitesi, positio e contra-positio, posizione e
contra-posizione), tenuti in giorni successivi, abbiano un'unità perfetta (la
sintesi, o com-posizione) e si propongano il medesimo fine: mostrare la falsità
della dottrina della tesi di Diogene intorno al giurato; e siccome costoro in
questa parte della filosofia, molto più che in altre, sono dipendenti da Platone
e da Aristotele, bisogna prendere le mosse da questi. Leggiamo in Lattanzio.
Carneades autem, ut Aristotelem refelleret ac Platonem, justitiae patronos,
prima illa disputatione collegit ea omnia, quae pro justitia dicebantur, ut
posset illa, sicut fecit, evertere. Carneades, quoniam erant infirma, quæ a
philosophis adserebantur, sumsit audaciam refellendi, quia refelli posse
intellexit (Lattanzio, Instit. div.). E al trove. Nec immerito extitit
Carneades, homo summo ingenio et acumine, qui refelleret istorum (Platone e
Aristotele ) orationem et iustitiam, quæ fundamentum stabile non habebat,
everteret, non quia vituperandam esse iustitiam sentiebat, sed ut illos
defensores eius ostenderet nihil certi, nihil firmi de iustitia disputare
(Epit. 55, 5-8). Di qui è evidente che la prima orazione non era che un
esordio, un'introduzione, uno sguardo storico alla questione, un'esposizione
delle idee accettate da Diogene, che Carneade s'appresta a confutare nel
vegnente giorno (Cic., de rep.); confutazione, la quale non aveva per iscopo di
vituperare la giustizia in sé, ma di colpire i filosofi avversari, o almeno la
loro teoria dommatica – il domma.Non è la virtù stoica, che Carneade demole, ma
il sapere. Su questo si dovrà tornare più innanzi. E caso a noi pervennero
frammenti solamente della seconda orazione. Questa sola offriva una filosofia
nuova, dava una scossa inaspettata e forte all'intelligenza dei romani. Perciò
eam disputationem, qua iustitia evertitur, apud Ciceronem L. Furius recordatur
(Lattanzio, Instit. dio.). E noi ora possiamo tentare di ricostruire questo
singolare di scorso nelle sue linee generali. Per Carneade, non esiste una
giustizia (giurato – iusiurato) naturale nè verso due uomini. Se esso esistesse
le medesimecose sarebbero giurate (iusiurata) giuste o ingiuste, buone o
cattive, morali o immorali, per ogni uomo, come le cose calde e le fredde, le
dolci e le amare. Invece chi conosce il mondo e la storia, sa che regna una
grandissima diversità di apprezzamenti morali e giuridici, di consuetudini tra
il popolo romano e il popolo sabino, da Roma a Sabinia, dal Tevere al
Trastevere, da tempo a tempo. I cretesi e gli etoli reputano cosa onesta il
brigantaggio. I Lacedemoni dichiarano loro proprietà tutti i campi che potevano
toccare col giavellotto. Gli Ateniesi solevano annunciare pubblicamente che
loro apparteneva ogni terra che producesse olive e biade. I barbari galli
stimano disonorevole cosa procurarsi il frumento col lavoro, invece che colle
armi. I romani vietano ai Transalpini la coltivazione dell'ulivo e della vite,
per impedire la concorrenza ai loro prodotti e dar a questi un valore più
elevato. Gli semitici egiziani, che hanno una storia di moltissimi secoli,
adorano come divinità il bue e belve di ogni genere. I semitici Persiani,
disprezzano gli dei dell'Ellade, ne incendiarono i tempii, persuasi essere cosa
illecita che gli dei, i quali hanno per abitazione tutto il mondo, fossero
rinchiusi tra pareti. Filippo il Macedone idea e Alessandro manda ad esecuzione
la guerra contro i greci per punire quei numi. I Tauri, gli Egiziani, i barbari
galli (“Norma”) e i Fenici credeno che tornassero assai accetti alle loro deità
il sacrifizio umano. Si dice: E dovere dell'uomo che fa il giurato (iusiuratum)
ubbidire alla legge. Quale legge? A la legge di ieri, o alla legge di oggi? A
quelle fatte in questo lato del Tevere, o nel Trastevere? Se una un imperativo
o una legge suprema, universale, trascendente, kantiana, costante s'impone alla
coscienza dell’uomo, come pretende Diogene, coteste variazioni non sarebbero
possibili. Perciò non esiste un diritto naturale, nè un uomo che per natura
arriva al giurato (iusiuratum). Il diritto (ius) è una invenzione dell’uomo a
scopo di utilità e didifesa; come prova anche il fatto che non raramente la
legge, le quale e fatta dal sesso maschile, assicura a questo sesso un
particolare vantaggio a danno di quello femminile. Nessuna ‘legislazione’,
attentamente esaminata, appare l'espressione di un imperative o principio
fisso, naturale, vero, immutabile, divino. Invece al profondo osservatore non
isfugge che ogni disposizione legale move da ragione di utile e viene cambiata
appena non risponde più ai bisogni e agl'interessi di coloro che hanno nelle
mani il potere. Ogni nazione cerca di provvedere al proprio bene e considera,
per istinto di natura, gli animali e le altre nazione come istrumenti della
propria conservazione e felicità (Cic., de rep.). La storia insegna che ogni
popolo che diventa grande, potente, ricco, non pensa ai vantaggi altrui, ma
unicamente ai proprii. Voi stessi o Romani, disse Carneade parlando a un
Scipione Emiliano, il futuro distruttore di Cartagine e di Numanzia, a Lelio il
saggio, al letterato Furio Filo, a Scevola il futuro giureconsult, all'erudito
Sulpicio Gallo, algrande oratore Galba, al vecchio Catone, l'implacabile nemico
di Cartagine, al fiore di tutta la cittadinanza e alla presenza dei colti
ostaggi achei trasportati in Italia, tra i quali il grande storico e generale
Polibio. Voi stessi, o Romani, non vi siete impadroniti del mondo colla
giustizia. Se volete essere giusti, restituite le cose tolte agli altri,
ritornate alle vostre capanne a vivere nella povertà e nella miseria. Il
criterio direttivo della vostra vita non e il
giurato (iusiuratum), bensi l'utilità, che invano cercate di mascherara;
poichè voi, coll'intimare la guerra per mezzo di araldi, col recare *in-giurie*
sotto un pretesto di legalità, col desiderare l'altrui, col rubire, siete per
venuti al possesso di tutto il mondo. Ma per temperare il cattivo effetto, che
avesse potuto produrre negli animi dei Romani questa audace analisi dei fattori
della loro grandezza politica, l'avveduto ambasciatore ateniese ricorda altri
esempi, che sono celebri e lodati in tutto il mondo. Rammenta la ben nota
risposta data dal pirata catturato ad Alessandro il grande. Io infesto breve
tratto di mare con una sola fusta, con quel medesiino diritto, col quale tu, o
Alessandro, infesti tutto il mondo con grande esercito e flotta. Il
patriottismo, questa virtù somma e perfetta, che suole essere portata fino al
cielo colle lodi, è la negazione del giurato (iusiuratum), perchè si alimenta
della discordia seminata tra gli uomini e consiste nell'aumentare la prosperità
del proprio paese, naturalmente a danno di un altro, coll’nvadere violentemente
il territorio altrui, estendere il dominio, aumentare le gabelle. Patriotta è
colui che acquista dei beni alla patria colla distruzione di altre città e
nazioni, colma l'erario di denaro, rese più ricchi i concittadini. E, quel che
è peggio, non solo il popolo e la classe incolta, ma eziandio i filosofi
esortano e incoraggiano a commettere cotali atti ingiusti. Cosicchè alla
malvagità non manca neppure l'autorità della scienza. Ovunque regnano inganno e
ingiustizia, che invano si tentano di nascondere e legittimare. Tutti
quelli che hanno diritto di vita e di morte sul popolo sono tiranni. Ma essi
preferiscono chiamarsire per volontà divina. Quando alcuni, o per ricchezze, o
per ischiatta, o per potenza, hanno nelle mani l'amministrazione di una città,
costituiscono una setta. Ma i membri prendono il nome di “ottimato”. Se il
popolo ha il sopravvento nel maneggio dei pubblici affari, la forma di governo
si chiama libertà; ma è licenza. Ma poichè gli uomini si temono l'un l'altro, e
una classe ha paura dell'altra, interviene una specie di *patto* o contratto
fra popolo e potenti e si costituisce una forma mista di governo, dove la
giustizia è un effetto non di natura o di volontà, ma di debolezza. Ed è
naturale che cosi avvenga. Se l'uomo deve scegliere tra le seguenti condizioni:
recare *in-giuria* e non riceverne; e farne e riceverne; nè farne, nè
riceverne, egli repute ottima la prima, perchè soddisfa meglio i suoi istinti.
Poscia la terza, che dona quiete e sicurezza; ultima e più infelice la
condizione di chi sia costretto ad essere continuamente in armi, sia perchè
faccia, sia perché riceva *in-giurie”. Adunque alla Hobbes lo stato naturale
dei rapporti tra uomo e uomo è la lotta (uomo uominis lupo), la guerra, la
discordia, la rapina, la violenza, l'inganno, in una parola, la negazione del
giurato (giusgiurato). La giustizia è una virtù che si esercita per effetto di
debolezza e per proprio tornaconio. Ma Diogene, come vedemmo, considera il
giurato (iusiuratum) verso gli uomini. Carneade dove notare che l’istituzione
del tempio esiste solamente nel l'immaginazione de' suoi avversari e dei
filosofi, dai quali essi attinsero i loro principii. Non si acquista, non si
allarga potere, non si fonda regno senza le armi, le guerre, le vittorie; le
quali alla loro volta in generale presuppongono la presa e la distruzione di
città. E dalle distruzioni non vanno immuni le oggetti addorati nei tempi, ne
dalle stragi si sottragge il sacerdote del tempio; né dalle rapine
i tesori e gli arredi sacri. Quanti trofei di divinità nemiche,
quante sacre immagini, quante spoglie di tempii resero splendidi i trionfi dei
generali romani! E non sono cotesti sacrilegi? Non sono atti di somma
ingiustizia? No, innanzi al giudizio del popolo, all'opinione della gente
colta, degli storici, dei letterati, questa è gloria, è patriottismo, è
prudenza, sapienza, giustizia. Dunque la giustizia non solamente non viene
osservata in pratica, ma non esiste nep pure in fondo alla coscienza generale
dell’uomo. Anch'essa viene subordinata all'utile. Ma non s'arresta qui la
critica di Carneade. Con un esame sottile e profondo dell'antinomia esistente
tra i due concetti del ‘scitum’ e del ‘giurato’ e della natura morale dell'uomo
quale in realtà è, e quale egli si crede e vorrebbe essere, Carneade ha chiarito
un contrasto del cuore (ragione pratica) e della mente (ragione teorica) umana,
che tuttavia rimane e che ha servito di fondamento alle teorie utilitaristiche
inglesi di tempi a noi vicini. Lo ‘scitum’ – la sapienza politica comanda al
Cittadino di accrescere la potenza e la ricchezza della patria, estenderne i
confini e il dominio, renderne più intensa la vita con nuove sorgenti di
guadagni e di piaceri; e tutto questo non si può compiere senza danno di altre
genti. Il giurato (iusiuratum) invece comanda di risparmiare tutti, di
beneficare i propri simili indistintamente, restituire a ciascuno il suo, non
toccare i beni, non turbare i possedimenti altrui, non sminuire la felicità
d'alcuno. Ma se un uomo di stato vuole essere giusto, non ha mai l'approvazione
de' suoi amministrati, non gloria, non onori, i quali il popolo attribuisce non
al giusto (che promueve il giurato) e onesto e inetto; bensì al sapiente, al
prudente, all'accorto. Non per il giurato, ma per il ‘scitum’ i generali di ROMA
hanno il soprannome di grandi. La violenza, la forza, la negazione del
giurato, hanno dato potere e consistenza agli stati. Ma per nascondere la
propria origine e fuggire la taccia de negare il giurato (iusiuratum), il
popolo, fatto grande e divenuto dominatore, va immaginando delle favole da
sostituire alla storia vera, come il mercante arricchito agogna un titolo di
nobiltà. Le stesse qualità, e solamente le stesse, mantengono gli stati liberi
o forti. Non ha nazione tanto stolta, la quale non preferisce il comandare con
la negazione del giurato, all'ubbidire con la promozione del giurato
(iusiuratum). La ragione di stato e la salvezza pubblica vincono e soffocano il
sentiment *dis-interessato*. Uno stato vuole vivere a prezzo di qualsiasi
negazione del giurato (iusiuratum), perchè sa che alla vittoria, con qualunque
mezzo acquistata, tien dietro la gloria. Nel concetto degli antichi, la fine
della propria nazione non sembra avvenimento naturale, come la morte di un
individuo, pel quale questa non solo è necessaria, ma talvolta anche
desiderabile. L'estinzione della patria era per essi in certo qual modo
l'estinzione di tutto il mondo. Dato questo concetto e un sentimento della
gloria diverso e molto più intenso che non sia in noi moderni, doveno in certa
guisa parere *giustificati* (giusti-ficati – fatto giurato – iusiuratum --
anche gli atti di violenza e di frode, che avevano per I scopo la conservazione
e la potenza del proprio stato; o, per meglio dire, il popolo e gl'individui
non hanno coscienza di un principio o imperativo che governa la propria vita.
Credeno, i Romani pei primi, di promovere il giurato (iusiuratum) e invece
sommamente negano il giurato (iusiuratum). Carneade fu il primo a chiarire
questa opposizione tra fatto e idea, tra sapienza machiavelica politica e il
giurato (iusiuratum) (Cic., de fin.). Il medesimo conflitto tra il giurato e il
‘scitum’ dimostra egli esistere nella vita privata, intendendo per sapiente
l'uomo che sa difendere il proprio interesse; e giusto colui che non lede
quello degli altri. Sono suoi i seguenti esempi, tolti dalla vita giornaliera e
assai chiari e appropriati alla vita romana affogata negli affari. Un tale
vuole vendere uno schiavo, che ha l'abitudine di fuggire, o una casa insalubre.
Egli solo conosce questi difetti. Ne rende avvisato il compratore? Se si,
s'acquista fama di uomo onesto, perchè
non inganna, maeziandio di stolto, per che vende a piccolo prezzo, o non vende
affatto; se no, sarà reputato sapiente, perchè fa il proprio interesse, ma
malvagio, perchè inganna. Parimenti, se egli s'incontra in uno che vende oro
per oricalco, o argento per piombo, tace per comperare a buon prezzo, o indica
al venditore lo sbaglio e sborsa di più per l'acquisto? Solamente lo stolto
vorrà pagare a maggior prezzo la merce. Se un tale, la cui morte a te
recherebbe vantaggio, sta per porsi a sedere in luogo, dove si nasconde serpe
velenoso, e tu il sai, dovrai avvertirlo del pericolo, o tacere? Se taci, sarai
improbo, ma accorto; se parli, sarai probo, ma stolto (Cic., de rep.). Dunque
qui pure si presenta la contraddizione: chi è giusto, è stolto; chi è sapiente,
è ingiusto. Ma in questi casi si tratta di una quantità maggiore o minore di
denaro e di vantaggi più o meno rilevanti, e v'ha chi potrebbe essere contento
e felice della povertà. Ma quando andasse di mezzo la vita, il conflitto
diventerebbe più spiccato. Un tale in un naufragio, mentre è poco lontano
dall'affogare, vede un altro più debole di lui mettersi in salvo appoggiandosi
a una tavola, che vale a sostenere uno solo. Nessuno testimonio è presente. Si
fa sua la tavola e si pone in salvo, lasciundo che l'altro perisca. Oppure, se,
dopo che i suoi furono sconfitti, incontra nella fuga un ferito a cavallo, che
va sottraendosi al ferro dei nemici inseguenti, lo getterà a terra per porre se
stesso in sella, o si lasce raggiungere e uccidere. Se egli è uomo sapiente, si
salva a qualunque costo. Ma se poi antepone il morire al far morire, sarà
giusto, ma stolto. Tale è il giudizio che intorno al suo operato porteranno il
uomo. Cosicchè il giure naturale, la
giustizia naturale è stoltezza. Il giure civile è sapienza politica. Tutto è
lotta d'interessi. Si ha ragione di credere che Carneade nel suo discorso
*contro* il giurato civile tocca anche la questione della schiavitù, dicendo
essere un fatto che nega il giurato (iusiudicatum) naturale, che uomo servisse
a uomo -- principio che, riconosciuto vero, puo essere assai valido per far
conoscere quanto esteso fosse il dominio della negazione del giurato e dare
alla sua tesi una grande forza. E ciò si induce a credere dal vedere che in più
frammenti il difensore del giurato, ossia il suo contraddittore, viene
svolgendo la tesi opposta, perchè la schiavitù, rettamente conservata, torna a
utilità del stesso schiavo, il quale sotto un governo buono e forte vive in
maggiore sicurezza e viene meglio educato che allo stato di libertà; e come Dio
comanda all'uomo, l'anima al corpo, la ragione alle parti appetitive
dell'anima, cosi il conquistatore tiene a freno il conquistato, il quale diventa
tali appunto perchè e peggiore di quello. Un tenue indizio ci sarebbe anche per
farci credere che egli risolve il rimorso nella paura della pena, negando che
fosse un sentimento più profondo e disinteressato. Diogene obbietta che in
questa ipotesi il malvagio sarebbe semplicemente un incauto e il buono uno
scaltro (Cic. de leg.). In conclusione: per Diogene, fondamento della morale e
del diritto è l'inclinazione ad amare gli uomini e a rispettare la divinità,
inclinazione che ha radice nella natura, la quale sola offre la norma per
distinguere il giurato dalla sua assenza, il bene dal male. Per Carneade,
generatrice del diritto è l'utilità, e l'utilità sola, e ogni giudizio morale e
altrettanta opinione, la quale non deriva da un imperativo kantiano, o un
principio naturale fisso, come provano la loro varietà e il dissenso degli
uomini (Cic., de leg.). Alla teoria giuridica di Carneade non si deve
attribuire un significato di domma o dommatico, che sarebbe in cotraddizione
colle premesse teoretiche della sua filosofia. L'egoismo e l'utilitarismo
proclamato da Carneade in opposizione all'idealismo morale di Diogene, non è
una dottrina *precettiva*, alla Kant (il sollen) ma l'investigazione e
l'esposizione di un fatto psicologico e sociale – come il principio cooperativo
di Grice. Carneade non pare credere all'effetto pratico della morale normativa
e si limita ad analizzare il cuore dell’uomo, la ragione pratica, saggezza,
prudential, il quale, per la sua tendenza nativa, è assai lontano dal
realizzare il precetto dommatico stoico. Ma da filosofo prudente s'astiene dal
proporne del proprio precetto (idiosincrazia). Nota il fatto che si presenta
all'osservazione quotidiana con tutti i caratteri della verosimiglianza più
alta e sforzano a credere o ad operare; ma nè costruisce una teoria assoluta,
ne formula un domma. iusiuro: swear to a binding formula.Wundt. Wundt
Zeitungsausschnitte 100. Wundt. Wundt. Estate Wundt Brief von Luigi Credaro an
Wilhelm Wundt. Grice: “Excellent philosopher, comparable with Hart –
only not Jewish and thus friendly with the Fascists!” A student of Gentile,
more of an idealist than a positivist, but still. Angelo Ermanno
Cammarata. Keywords: la giustizia, H. L. A. Hart, il giusto, -- giusto – la
persecuzione dei Cristiana fatta da Nerone e giusta in accordo con la legge
romana – Tacito – Suetonio – Claudio – I Cristiani e I giudei di Trastevere
confessano il deilitto dell’incendio di
Roma. Cfr. la rivincita del paganesimo, I giudei erano esclusi dalla prattiche
religiose romane, ma la setta Cristiana no. montanismo, moiaismo. I Cristiani si refusano ad assistir al rituale religioso romano. Tacito
giudica al Cristiano enemico del genero
umano. Giustizia divina, giusto legale –
giusto morale – la persecuzione dei eretici dalla chiesa, l’inquisizione, la
contra-riforma, l’inizio della filosofia romana come una ‘woke’ da parte
dall’elite romana dei scipione sulla relativita del concetto del giusto. Il
primo discorso di Carneade e un cliché deliberativo. Fu il secondo discorso di
Carneade che dimostra ai romani il potere dell’argumentazione – questo culto
all’argumentazione dialettica fino al lit. hum. Oxon e la Unione di Parla –
l’argumentazione scolastica – tesi, responsio, objection, ad p, contra p.
tractatus – il dialogo filosofico, eirenico, diagoge, epagoge. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cammarata” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Campa: la ragioen
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’elogio della stoltizia – scuola
di Presicce – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Presicce).
Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Presicce, Lecce,
Puglia. Grice: “You gotta love Campa; he has a gift for unusual metaphors: la
fantasmagoria della parola, -- my favourite has to be his conjunct, ‘stupidity
and unfaithfulness!’ -- Grice:
“Philosophy runs out of names: there are British philosophers G. R. Grice and H.
P. Grice, and Itallian philosophers R. Campa, and R. Campa.” Riccardo Campa Nota disambigua.svg DisambiguazioneSe stai
cercando il sociologo, vedi Riccardo Campa (sociologo). Riccardo Campa
con il premio Nobel Eugenio Montale, Riccardo Campa (Presicce), filosofo. Storico
della filosofia italiano, la cui indagine teorica si è incentrata sulla
relazione fra la cultura umanistica e la cultura scientifica, delineando il
percorso storico della cultura occidentale, in particolare nell'ambito europeo-latinoamericano.
Negli anni sessanta e settanta ha diretto la Biblioteca delle idee, sotto
la presidenza scientifica del premio Nobel Eugenio Montale e contemporaneamente
è stato condirettore responsabile del periodico Nuova Antologia, nel quale
ha pubblicato saggi di letteratura e filosofia sul pensiero del Novecento; vi
ha inoltre tradotto e pubblicato testi di Borges, Uscătescu, Segre, Chastel,
Kaufmann, Gasset. C.con Borges a Roma. )
«doctor honoris causa en las ciudades de Atenas y Nueva York, alfa y omega del
conocimiento de lo que constituye Occidente [...] Asombra en su obra la
recopilacion enciclopedica del pensamiento europeo, cimentada en la razon que
la describe.» «C. ha ricevuto dottorati honoris causa nelle città di
Atene e New York, l'alfa e l'omega della conoscenza di ciò che costituisce
l'Occidente Sorprende nella sua opera la raccolta enciclopedica del pensiero
europeo, fondata sulla ragione che lo descrive.» (Domingo Barbolla
Camarero, Prologo, in Riccardo Campa La razon instrumental. El mesianismo
nostalgico de la contemporaneidad, Madrid, Biblioteca Nueva, ) Ha partecipato,
a seguito di regolare concorso a livello internazionale, al Forum Europeo di
Alpbach, al Collège de France, e all'Universidad Internacional Menéndez Pelayo,
e ha insegnato presso diverse università italiane e straniere (Bologna,
Università degli Studi di Napoli Federico II, Università per stranieri di
Siena, Universidad de Morón), tenendo corsi di storia delle dottrine politiche,
storia della filosofia,,storia delle Americhe e diritto politico. C.
all'Università per Stranieri di Siena. Ha diretto l'Istituto Italiano di
Cultura di Buenos Aires e successivamente ha coordinato in Italia e
nell'America Latina le attività celebrative del V Centenario dell'America, per
disposizione del Ministero degli Affari Esteri.. Vicepresidente della
Commissione Nazionale per la promozione della cultura italiana all'estero. Quale
ormai consolidata personalità-ponte fra i due mondi, geograficamente separati
ma culturalmente legati dalle comuni radici, svolge le funzioni di Direttore
del Centro Studi, Documentazione e Biblioteca dell'Istituto Italo-Latino
Americano di Roma. Contemporaneamente è stato Vicedirettore della Società
Alighieri. Ha presieduto il Forum Internazionale sulla Società Contemporanea di
Madeira e, alla scadenza di questo mandato, è stato eletto a Roma presidente
della Federazione Internazionale di Studi sull'America Latina e i Caraibi.
In questo ambito, con il suo operato, ha garantito l'interscambio delle figure
intellettuali più significative fra la cultura latinoamericana e quella
europea, favorendone la reciproca conoscenza. Riceve la nomina di
Director Emeritus del Vico Chair of Italian Studies en Dowling, Nueva York nel.
Studioso di diverse discipline: dalla linguistica teorica alla filosofia del
linguaggio, dalla filologia all'analisi letteraria alla storia della lingua;
dalla filosofia teoretica alla filosofia della scienza, nella gestione della
complessa realtà istituzionale, ha assunto l'incarico di Direttore del Centro
di Eccellenza della Ricerca dell'Siena. Già Ordinario del S.S.D SPS/2
(Storie delle dottrine politiche) presso la Facoltà di Lingua e Cultura
Italiana dell'Università per Stranieri di Siena, gli è stato conferito il
titolo di "Professore emerito". Opere: Appartengono, fra gli
altri, alla produzione classica: Il potere politico nell'America Latina,
Edizioni di Comunità, Milano; Il riformismo rivoluzionario cileno, Marsilio,
Padova; Appunti per una storia del pensiero politico latino-americano, Lugano,
Pantarei; L'universo politico omogeneo, Istituto Editoriale Internazionale,
Milano; Las nuevas herejias, Biblioteca de Estudios Criticos, Madrid, Ediciones
Istmo; La visione e la prassi: profilo di Bolìvar (pref. diPignatti, intr. di
R. Medina Elorga, postfaz. di L. C. Camacho Leyva), Istituto Italo
Latino-Americano, Roma; A reta e a curvaReflexōes sobre nosso tempo
(Riflessioni con Oscar Niemeyer), São Paulo, Max Limonad, 1986; El estupor de
EpicuroEnsayo sobre Erwin Schrödinger, Buenos Aires-Madrid, Alianza; La emocion:
la filosofia de la infidelidad (prol. di R. H. Castagnino), Editorial
Sudamericana, Buenos Aires, La escritura y la etimologia del mundo (con un
saggio di Roland Barthes), Buenos Aires, Editorial Sudamericana; La malinconia
di EpicuroRiflessioni in penombra con Borges, Buenos Aires, Editorial
SudamericanaFondazione Internazionale Jorge Luis Borges, 1990; La primeva
unità: saggio sulla storia, Le Monnier, Firenze; La practica del dictamen: del
ius a la humanitas, Grupo Editor Latinoamericano, Buenos Aires, 1990; El sondeo
de la apariencia: el libro y la imagen, Gedisa, Buenos Aires; La trama del
tiempo: ensayo sobre Italo Calvino, Grupo Editor Latinoamericano, Buenos Aires,
L'avventura e la nostalgia: Omaggio al Portogallo, Presidenza dei Consiglio dei
Ministri, Roma 1994 La metarrealidad, Buenos Aires, Biblios, 1995; Le daimôn de
la persuasion, Toulouse Cedex, Éditions Universitaires du Sud; The Renaissance
and the invention of method, New York, Dowling College; La metafora
dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di Pinocchio", M. Pacini
Fazzi, Lucca, 1999, L'esilio saggi di letteratura Latinoamericana, Il Mulino,
Bologna, 2000; Il sortilegio e la vanità: saggio su Louis-Ferdinand Céline,
Welland Ontario, Soleil; Caratterizzano la produzione più recente:
L'immediatezza e l'estemporaneità, New York, Dowling College PressBinghamton
University, 2000; L'età delle ombre, New York, Binghamton University, 2001;
Dismisura, Bologna, il Mulino; Le vestigia di Orfeo. Meditazioni in penombra
con Jorge Luis Borges, Bologna, Il Mulino, 2003; A modernidade, Lisboa, Fim de
século, 2005; Della comprensioneCompendio di mitografia contemporanea, Bologna,
il Mulino; Ontem. L'elegia del Brasile, Bologna, il Mulino; Vicinanze abissali.
L'approssimazione nell'epoca della scienza, Bologna, il Mulino, 2009; Langage
et stratégie de communication, Paris, L'Harmattan; El Inca Garcilaso de la
Vega, Madrid, Binghamton University, Ediciones ClasicasEdiciones del Orto,; I
Trattatisti spagnoli del diritto delle genti, Bologna, Il Mulino,; La place et
la pratique plébiscitaire, Paris, L'Harmattan,; El sortilegio de la palabra,
Madrid, Biblioteca Nueva,; Elegy. Essays on the Word
and the Desert, University Press Of The South,; L'America Latina. Un profilo,
Bologna, Il Mulino,; La filosofia de la crisis. Epicureismo y Estoicismo, Editorial Sindéresis, Madrid,; El tiempo de la
inedia. El invierno de Gunter, AntropiQa 2.0, Badajoz,; La eventualidad y la
inexorabilidad. El invierno de Gunter, Editorial Sindéresis, Madrid,; La
Destreza y el engano. Ensayo sobre Don Quijote de Miguel de Cervantes Saavedra,
Ediciones Clasicas, Madrid,; L'America Latina. Un compendio, Bologna, Il
Mulino,; Octavio Paz. El desconcierto de la modernidad, Ediciones Clasicas,
Madrid,; La parola, Bologna, Il Mulino,; Cervantes. La linea del
horizonte, Valencia, Albatros,, L'elegia del Nuovo Mondo, Bologna, Il Mulino,.
La mundializacion, Valencia, Albatros,. Il convivio linguisttico. Riflessioni
sul ruolo dell'italiano nel mondo contemporaneo, Roma, Carocci, Note
Anno di conseguimento del titolo di Professore. Ne ha diretto l'Istituto Storico-politico
della Facoltà di Scienze Politiche. Con
decreto del Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, vi è
stato nominato Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche. Dopo averne curato, il XII Congresso
Internazionale, designato dall'Accademia delle Scienze di Russia ed eletto
dall'Osaka. Luigi Trenti, Il viaggio
delle parole: scritti in onore di C., Perugia, Guerra, Antonio Requeni, Nueva
vision de la literatura argentina, "Les Andes", 16 settembre 1984, 3°
Seccion pag.1. Antonio Requeni, Presencia cultural de Italia en la Argentina,
"La Prensa"; Requeni, Los intelectuales del mundo: hoy, Riccardo
Campa: la Argentina, en el laberinto de Borges, "La Nacion", 20 Jesus
Francisco Sanchez, Crisis del neocapitalismo podria hacer renacer ideas del
socialismo y la izquierda: Ricardo Campa, "El Sol de Durango", 6/A Citazionio
su Riccardo Campa Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Riccardo Campa Filosofia LetteraturaLetteratura Filosofo
del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloStorici della filosofia italiani; PresicceProfessori
dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. De oxgin^natalibns et patria
Jlultitia. StultitiamN dturd cffe atnicam et humantgeneris per co\
inuos mulieru partm coferuatricein. Pueritia fdelem ejfe affeclam.
i vNec mn. Adolescentia. Omni homini ejfs nccejfariam. Senibmmaximofo
Utio. Uec agrauibits& cordatisvi' malienam. vt 1 1 .
ttiam commenthiis Gentilium deaftrufamiliarem. ix. Inea
fouenda muliehem maximefexttmoccHpari.. %, Eandem amoris et amicitia
effe conciliatricem* luu Con ; ugia et conctltare et fouere. Onmihominttm
atati &ordi~ } ttifuccurrere. Ammum homhvbi»addere. x i v» i n
b: llis mx» n-m vim habere. '
Vti A B6VMET, ytietiamtn regendis Rebm pu~ hllLU,.
Et commodifmum etfe ' tam conferuandaquam recuptra,-
di, iibertatu remedium. xvi i. Gloria 6 bonoris inflrumen-
tum. xvi n.Wferiarum vitahuman opti» tnumcondtmentum x
i x. Fontem.UtitU ac bUaritatu ap. L Duicem et dmakikm ejfe de qu4
msagimiu stultittam. 1 1. Faettsfimiltarem. uu Nu
nonlttstrarum&morum Miagiftris. i v. Maxtm^TadagogU.
j v. ltew<L Grammatick Vulgatibus. vi.
LibrorumScriptoribm. vi i . Aftrologis. VI 1 1
Magis-KccromAnticis et Diui- natofibus. ix. tuforibus,
x. Htigantibus x i Chymic sjeu Akbymiftis. 1*4; A'rg vment Capit. Venatoribus. Attcupibus. Pifcatmbus. labricAntibus. Ambitiofo rvM. antibus. Amantibus Hofientibus.Vriuilegiatts.
iiiam Safritn Erasmo in Italia, Erasmo da Rotterdam. Riccardo Campa. Campa.
Keywords. la stoltizia. Stoltus, stoltizia, stolto, stolto per Christo, pazzia,
moria, enkoniom moirae ovvero laus stoltitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Campa” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Campa: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della rivincita del paganesimo
romano – filosofia romana – scuola di Mantova – filosofia mantovana – filosofia
lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (Mantova). Filosofo mantovano. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Mantova,
Lombardia. Grice: “You gotta love Campa – he is right that ‘artificial species’
is an oxymoron – as is ‘transhuman’ – but his philosophising about the
heathens, which is how Nero found the Christians, is very relevant!” Conosciuto soprattutto per i suoi studi
nel campo dell'etica della scienza e del transumanesimo e, precisamente, per la
sua difesa dell'idea di evoluzione autodiretta. Svolge ricerche sia nella veste
di Professore associato di Sociologia della scienza e della tecnica
all'Università Jagellonica di Cracovia, sia nella veste di Presidente
dell'Associazione Italiana Transumanisti, della quale è fondatore. Si laurea a Bologna. Ha conseguito il titolo
di Giornalista professionista presso l'Ordine dei giornalisti di Roma, il
dottorato in Epistemologia all'Università Copernicus di Torun e l'abilitazione
in Sociologia all'Università Jagellonica di Cracovia. Nell'ambito della
sociologia della scienza, è annoverato tra gli allievi di Merton, fondatore di
questa disciplina. A differenza di alcuni continuatori della scuola
costruttivista, Merton ha sempre mostrato un atteggiamento positivo nei
confronti delle scienze, e C. è rimasto fedele a questa impostazione. A tal
proposito, il filosofo argentino-canadese Bunge ha rimarcato il fatto che
«Campa è uno degli ultimi esemplari rimasti di una specie in estinzione: lo
studioso pro-scienza della comunità scientifica». I suoi studi hanno ricevuto una certa
attenzione da parte dei media dopo che Fukuyama, all'epoca consigliere per la
bioetica del presidente statunitense Bush, ha definito il transumanesimo
«l'idea più pericolosa del mondo». Secondo Fukuyama il transumanesimo è una
nuova forma di biopolitica che, pur essendo liberale e non coercitiva, rischia
di minare il concetto di uguaglianza tra gli uomini. Simili posizioni critiche
hanno assunto, in Italia, Veneziani, Ferrara, Rossi, e diversi opinionisti del
quotidiano cattolico Avvenire, che hanno criticato le idee di C. e di altri
filosofi e scienziati transumanisti (tra i quali, Bostrom, Hughes, Stock, e More),
stimolando un dibattito ad ampio raggio sulle prospettive aperte dalle nuove
tecnologie. Campa ha difeso le idee transumaniste in numerose pubblicazioni,
interviste e dibattiti pubblici, apparendo talvolta anche in televisione, e
sostenendo che le tecnologie emergenti e convergenti GRIN (un acronimo per
Genetica, Robotica, Informatica e Nanotecnologia) non rappresentano un rischio
inutile, come lasciano intendere i critici, ma un'opportunità di sviluppo in
linea con l'atteggiamento prometeico che caratterizza la storia della civiltà
occidentale. Le sue valutazioni, sull'opportunità di allungare la vita media e
potenziare le facoltà mentali e fisiche dell'uomo, sono soprattutto di ordine
etico e sociale. È autore di numerosi articoli e saggi, tra i quali spiccano
sette libri monografici. Il filosofo è nudo (Marszalek) Etica della scienza
pura (Sestante) Mutare o perire. La sfida del transumanesimo (Sestante) Le armi
robotizzate del futuro. Il problema etico (CEMISS) Trattato di filosofia
futurista (Avanguardia 21 Edizioni, ) La specie artificiale. Saggio di bioetica
evolutiva (D) La rivincita del paganesimo. Una teoria della modernità (D)
Creatori e Creature. Anatomia dei movimenti pro e contro gli OGM (D Editore, )
La società degli automi. Studi sulla disoccupazione tecnologica e sul reddito
di cittadinanza (D) Credere nel futuro: Il lato mistico del transumanesimo
(Orbis Idearum Press, ) È inoltre curatore della serie "Divenire. Rassegna
di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano". Cerimonia di
abilitazione all'Cracovia C. Cipolla, Manuale di sociologia della salute,
Angeli, C., Epistemological Dimensions of Robert K. Merton's Sociology,
Copernicus University Press, quarta di copertina. Fukuyama, “Transhumanism: The
World's Most Dangerous Idea”, Foreign Policy, La versione italiana è apparsa
sul Corriere della Sera con il titolo “Biotecnologie: la fine dell'uomo”,. M. Veneziani, “Attenti l'uomo è fuori moda.
La scienza prepara “l'oltreuomo”, Libero, G. Ferrara, “Mettere in dubbio il dubbio”, Il
Foglio, Rossi, Speranze, Il Mulino,
Bologna A. Galli, “Nietzsche, profeta
dell'eugenetica”, Avvenire, Rassegna
stampa degli articoli pro e contro il transumanesimo. “Nascita del superuomo”, documentario di RAI
3, Archiviato in.; “Futuro in pillole”, puntata de Le
Invasioni Barbariche condotta da Daria Bignardi, LA7;“Musica maestro”, servizio
biografico di RAI 1, Sito della rivista Divenire, Mazzotti, Il Prof che suonava
il rock, Gazzetta di Mantova, Guerra, Futurismo per la nuova umanità, Armando,
Roma. Il transumanismo. Cronaca di una
rivoluzione annunciata, Lampi di Stampa, Milano C. biografia e nel sito "transumanisti". RIVINCERE.
Di nuovo vincere. Lat. De nuo vincere. G. V. II, 14, 1. E l'uno gli rubello Alamagoa,
el'altro la Spagna, poi le rivinselor oper forza. Dant. Conv. 127. e
questo senso non si acconcia cogli esempi di cassa riversala, nè digente
riversata. Conveniva adunque portare la dichiarazione così: Riversatoda Riversare
SII; nel qual paragrafo Riversare sta per Voltare a rovescio o sotto sopra. E
inquesto significato dee si prendere la cassa riversata di Landolfo. Riversalo
poi vale Resupino, Colla faccia volta all'insù nell'esempio d’ALIGHIERI, e
richiede paragrafo separato. 414 OsseRVAZIONE Che Riversato venga da riversare
siamo d'accordo. Ma il senso genuino di riversare è Versar di Nilovo, notato di
Giudice non è metafora alcuna. Ei parla del terreno preparato per ricevere i
denti del dragone da cui dovevano germogliare i guerrieri. E terreno
rivesciato, cioè rivoltato, aralo è parlar proprio, non metaforico. Nè VIRGILIO
parla figurało allorchè disse: Georg. I, 64. Pingue solum fortes inverlant
tauri; Vomere terras invertere. esempio sopra RIVERSATO.Add. da Riversare. BOCCACCIO
(si veda) nov.14,10. Che riversata, per forza Landolfo andò sotto l'onde.
ALIGHIERI, Inf.: Noi passamm'oltre là'velagelata Ruvida mente un'altra gente
fascia, Non volta in giù, ma tutta riversata. RIVESCIARE. S1. Permetaf. Guid. G.
Il campo dunque è rivesciato; Iasone ardito, e tosiano al dragone si dirizza.
OSSERVAZIONE Nell'. Per lunga riposanza in laoghi scuri, e freddi, e con
affreddare lo corpo dell'occhio con acqua chiara, rivinsi la virtù disgregata,
che tornai nel primo buono stato della vista. Sust, verbal. Il rivincere. Lat .
Recuperatio. Introd. Virt. Della rivinta delle terre di quà da mare, che fa la
fede cristiana. Osservazione — Non avendo noi il positivo Vivare, il composto
Rivivare o è scorretta lezione in luogo di Ravvivare, o è voce pessimamente
creata e indegna di starsi nella famiglia delle buone. E che bisogno n'ha ella
la nostra lingua possedendo già Ravvivare? Almeno la Crusca l'avesse data per
v. A. RIVOCARE. Richiamare, Far ritornare. s Per Mutare, Slornare, e Annullare
il falto. AGGIUNTA, Rivocare in forse per Mettere in dubbio. Car. ENEIDE VIII, 620.
E ti con questi preghi cessa di rivocar la possa inforse cel tuo volere.VIRGILIO.
Ib.v.403. Absiste precando Viribus indubitare tuis. m OSSERVAZIONE Se gl’accademici
avessero fatta magogiore attenzione agli esempi che ponevano sotto il verbo “rivincere”,
si sarebbero accorti che nell'ano e nell'altro propriamente esso valeRicuperare,2
non già Vinceredi nuovo, in lat. Denuo vincere. Quindi non sarebbero an dati
nella contraddizione di spiegare il sostantivo verbale Rivinta, e l'esempio che
gli corrisponde, col latino Recuperatio, dandogli origine dal verbo Rivincere
(in lat. recuperare) in un senso dal Vocabolario non accettato. Milano,
Ibrjglii e Segati: Torino, E. Loesclier: Paris, A. Fontennoing).
L'opuscolo che qui ripresento agli studiosi ha suscitato dappertutto
discussioni vivaci, ed era naturale che le suscitasse. Era naturale,
infatti, che molti facessero discendere la questione in un terreno scabro
ed irto di passioni; e pur gli altri, avvezzi per abito della mente e per
austera severità di propositi, a non mirare se non alle ragioni
obbiettive, era naturale che molto s' interessassero dell' argomento,
vedendo qui posti quesiti altissimi non di storia soltanto, ma altresì di
psicologia popolare, e tentatane, come meglio si è potuto, la soluzione.
Ora, dopo si lungo dibatter di ragioni avversarie, è tempo che riprenda
la parola io. La mia tesi si fonda sopra alcune contingenze di
fatti, la cui evidenza non può sfuggire ad un esame impregiudicato. Si
riassumano, di grazia, le ragioni delle due parti tra le quali pende 1'
accusa dell' incendio di Roma. Se da una parte troviamo un uomo,
scelleratissimo quanto si vuole, dall'altra troviamo una comunità
segreta, della quale alcuni membri sono dediti al delitto per testimonianza
degli scrittori pagani, Questa prefazione fu pubblicata dinanzi alla
seconda edizione (Torino 1900), e dinanzi alla edizione francese (Paris). L’incendio
di roma e I PRIMI CRISTIANI e dagli stessi apostoli son dichiarati
indegni di predicare Cristo. Ma quell' uomo quando seppe che la sua casa
bruciava, torna a ROMA, tenta arrestare le fiamm e, si mescolò in
mezzo al popolo, girò di qua e di là senza guardie prese tutti i provvedimenti consigliati
dalla immanità del disastro ; e, mentr'ei cercava porre riparo, scoppiò
novello incendio; degli altri si sa che di tanto in tanto prorompevano
alla rivolta, che predicavano la conflagrazione del mondo, cui doveva
seguire il regno della giustizia; che tal regno essi aspettavano dopo quello
dell'Anticristo, che per essi l'Anti-Cristo è NERONE, che credevano, durante la
loro vita, essere riserbati al nuovo regno di luce e di bene; che a
ROMA augurarono ancora, pel corso di lunghi secoli, distruzione e
sterminio, che dopo la rovina della potenza romana aspettavano il loro
trionfo; qual meraviglia che tutto questo complesso di aspettazioni
e speranze abbia eccitato le menti incolte e fanatiche degli schiavi
miserrimi e li abbia spinti all' atto forsennato? Si aggiunga a tutto questo,
che gli arrestati furon confessi, secondochè mi pare avere ora
novellamente dimostrato. In ogni movimento di rivendicazione sociale che si
determina nelle masse, vediamo tosto scindersi due partiti: quello dei
più esaltati, pronti all' azione immediata, e quello delle menti
più calme, che mal giungono a tenere a freno i primi. Quei generosi
che, scorti dal raggio della loro fede, vennero a dare alle plebi la
coscienza dei diritti umani, mal poterono con tutti i loro consigli di
temperanza, reprimerne le turbolenze impetuose. Qual nuova concezione
sarebbe mai questa, che la plebe romana, la cui vita, da secoli, era
stata tutto un seguito di convulsioni e di fremiti, di sedizioni e rivolte,
proprio all' epoca di NERONE fosse diventata di tanti agnellini,
quando più ributtante era lo spettacolo delle umane ineguaglianze, e più
turbinavano nel suo seno le nuove correnti rivendicatrici! Tutt' altro!
Anche in quella moltitudine erano i falsi dottori, dei quali parla la cosiddetta
Secunda Petri, i quali promettendo agli altri la libertà erano però essi
stessi servi della corruzione, i quali dopo esser fuggiti dalle
contaminazioni del mondo per la conoscenza di Gesù., si erano di nuovo in
quelle avviluppati; e, secondo le brutali immagini che ivi troviamo,
erano come cani tornati al vomito loro, come porche lavate che di nuovo
si voltolano nel fango. Quando certi stati di aspettazione angosciosa si
determinano nelle masse, basta una scintilla per spingerle ad eccessi
inopinati. L'aununzio della distruzione ignea decretata da Dio per la
loro generazione, la credenza che il regno di Dio non verrebbe, se non
fosse distrutta la romana potenza, fu la scintilla delle fiamme che
divamparono sterminatrici. Essi credevano compire la volontà divina,
essere gli esecutori della divina vendetta. Vano è parlare qui di
significati allegorici. Quando pur si potesse provare che le allegorie
che or si vogliono vedere sotto l' idea del fuoco, si scorgessero pure
dai primi proseliti, e come tali si spiegassero (il che non è affatto),
tutto ciò sarebbe vano lo stesso. Il popolo interpreta le parole nel loro
senso materiale, e quando sente fuoco, intende fuoco e nuli' altro.
Un' obbiezione, a prima giunta grave, mi fu fatta da un chiaro
critico: come mai ninno degli scrittori, anche pagani, accusa di tale
scempio i cristiani ? Pure, la ragione di ciò credo poterla indicare. Il
nodo della questione credo che stia in ciò, che gii esecutori materiali
furono veramente i servi di NERONE, e che questi interrogati perchè
scagliassero le faci, dicevano di agire per istigazione altrui. La
credenza nella colpevolezza di NERONE si radicò quindi nelle coscienze,
ed ancor più crebbe dopo la morte di lui. Suole infatti avvenire
che a quelli che si rendono tristamente famosi per le turpitudini loro, tutte
il popolo attribuisca le altre scelleraggini, delle quali suoni incerta e
dubbiosa la fama. E l' accusa o il sospetto dovè nascere nel popolo per
naturale reazione di pietà verso i condannati, qualche tempo dopo il
disastro e il processo; che altrimenti non si spiegherebbe come Nerone non
fosse stato ucciso dall' ira popolare, quando si mescolò senza guardie in
mezzo al popolo. E dovè afforzarsi, quando Nerone o gli adulatori suoi
espressero l' intenzione di chiamar dal suo nome la rifatta città: che
allora l'ambizione parve al popolo sufficiente motivo, a spiegar lo sterminio.
E poiché NERONE dall'incendio di ROMA, che egli aveva visto, prese poi r
ispirazione per iscrivere il carme sulla rovina di Troia, carme che forse
cantò sul teatro della rinnovata sua casa, nacque più tardi in mezzo al popolo,
la fama che egli avesse cantato sulle rovine della patria. Del
resto, che vi fossero scrittori che esplicitamente accusassero i cristiani, non
credo sia da revocare in dubbio. Tacito stesso, direttamente o indirettamente,
deve averne usufruito qualcuno, come mi pare possa dimostrarsi. Perchè
tali scrittori non sieno stati conservati, è vano chiedere. Durò per
secoli la distruzione sistematica di tutto ciò che fosse avverso al
Cristianesimo. Gli scritti contro la nuova religione sono periti; le
accuse che al Cristianesimo si facevano, le conosciamo, salvo pochi
accenni qua e là, solo per bocca dei difensori. Or questi scritti
apologetici sono di alcuni secoli posteriori a Nerone e ciascuno di
essi parla delle dottrine e dei costumi dei cristiani del tempo suo;
non potremmo dunque aspettarci di trovare in essi alcun tentativo di difesa
contro un' accusa che ninno più muoveva, essendo ormai invalsa
anche tra i pagani 1' opinione che accusava Nerone. Ma se del fatto
determinato, e cioè dell' incendio Neroniano non si fa più parola, si fa
per contro parola molto spesso delle tendenze rivoluzionarie e
distruggitrici. Tali tendenze erano forse una di quelle scelleraggini
inerenti alla setta (flagitia cohaerentìa nomini), alle quali accenna PLINIO
(si veda), a proposito dei cristiani di Bitinia. L'accusatore dei
cristiani nell’Octavius di Minucio Felice narra che essi, raccolta
dalla peggior feccia i più ignoranti e le credule femminette, naturalmente
deboli per la debolezza del loro sesso, istituiscono una plebe di
sacrilega congiura; e più giù che essi alla terra e perfino all'universo
e alle stelle minacciano incendio (e cioè la conflagrazione cosmica), e
macchinano rovina. Ottavio ne li difende, e la sua difesa è pur
molto istruttiva per noi. E, secondo lui, un volgare errore il
credere che non possa venire improvviso l' incendio punitore; i saggi
stessi dell'antichità, egli dice, e i poeti han parlato della
conflagrazione cosmica, del fiume di fuoco e della Stigia palude, a
punizione dei perversi. Ma niuno, ei soggiunge che non sia
sacrilego, delibera che sieno puniti con tali tormenti, per quanto
meritati, coloro che non riconoscono Dio, come gli empii e gì' ingiusti.
Ahimè, mite filosofo antico, la storia posteriore ti ha dato torto! Non
è questa una risposta alle accuse e ai timori, che si nutrivano a
riguardo dei cristiani ? Se dunque dell' accusa particolare, quella riguardante
l' incendio neroniano, non si fa più motito, per le ragioni sopradette,
non si può dire che- ogni eco dell' accusa generica sia spenta per
sempre. Altra obbiezione mi fu fatta, circa il criterio informatore
di queste ricerche. Voi, mi si è detto, state al giudizio degli scrittori
pagani, per quanto riguarda la moralità dei primi cristiani. Ora per
lunghi secoli continuarono le accuse contro i cristiani, e furono fra
le più atroci e terribili. Gl’apologisti cristiani opposere ad esse recise
smentite. Perchè non si deve credere che sieno calunnie pur le accuse scagliate
contro i cristiani dei primi tempi? Senouchè, a proposito di queste
ultime, le accuse non partono solo da scrittori pagani, ma altresì da
cristiani, in passi dei quali r interpretazione non può esser dubbia. Ma
tal giudizio non riguarda tutta intera la comunità. Ohi nega che in
questa fossero spiriti superiori, ardenti dell' amore divino del bene ? Ma le
novità, e novità tali, quali eran quelle che nelF ordine sociale
annunziava il Cristianesimo, sogliono attrarre gli spiriti più
turbolenti, e più esaltati, cui non par vero di coprire con la nobiltà di
un vessillo la licenza degli atti proprii. E, se guardiani bene, pure
tutte quelle orrende accuse fatte in seguito ai cristiani, i riti dell'
uccisione del fanciullo, della Venere promiscua dopo la cena ed
altri simili, hanno tale spiegazione. Anche gli scrittori cattolici
riconoscono che tali calunnie si debbano a tutte quelle sette di
Carpocraziani, Nicolaiti, Gnostici, che tali orrendi riti praticavano, e
si arrogavano il nome di cristiani. Che la chiesa abbia potuto respingere
dal proprio seno questi sciagurati, e si sia andata man mano epurando, torna
certo ad alta sua gloria. Ma ciò stesso ne induce ad andar molto
cauti, quando vogliam negare a priori che nei primi tempi Si è
sostenuto da alcuni che la critica moderna riferisca a quistioui di dogma e di
gerarcliia i noti passi di Paolo, nei quali esorta i Cristiani di Roma
all' obbedienza e alla mansuetudine; e si è citato in proposito Renan. Ma Renan dice di quei passi (Saint Pani). Il semble qu'à l'epoque
où il écrivait cette épitre aux Romains diverses eglises, surtout
l'Église de Rome comptaient dans leur sein soit des disciples de Juda le
Gaulonite, qui niaient la légitimité de l'impot et préchaient la róvolte contre
l'autorité romaine, soit des ébionites qui opposaient absolument i'un à
l'autre le régne de Satan et le régne du Messie, et identificient le
monde présent avec l'empire du Démon {Epiph. haer., XXX, 16; Honiél.
pseudo-clém.). ldella
chiesa potesse esservi ima moltitudine di facinorosi, pronti ad interpretare a
lor modo le nuove dottrine e a trascendere ad ogni eccesso. E la
lettera di PLINIO si osserva, non è testimonio dell' innocenza cristiana?
Migriamo pure, se cosi vuoisi, da Roma in Bitiuia, dai tempi di NERONE
a quelli di Traiano. La lettera domanda all' imperatore se debba punirsi la
setta come tale o i delitti ad essa connessi, e riferisce che degli
interrogati alcuni dichiararono repiicatamente esser cristiani, e, senza
voler sapere che cosa ciò significasse, PLINIO, per la loro ostinazione,
li mandò al supplizio; altri negavano essere stati mai cristiani; altri
affermarono essere, e poi il negarono, dicendo essere stati, or più non
esserlo; tutti questi maledicevano Cristo, e veneravano l' immagine dell'
imperatore. Pur nel tempo in cui erano cristiani asserivano altro non
aver fatto se non raccogliersi, venerare Cristo come se fosse un Dio,
ed obbligarsi con giuramento non a commettere delitti, ma anzi a
non commetterne. Due ancelle messe ai tormenti, non rivelarono se non una
superstitio prava, ìmmodica. Se questi infelici erano così invasi
dalla paura, da indursi a sconfessare la loro fede e maledire Cristo, si
potrebbe mai aspettare da essi che rivelassero alcuna cosa che potesse
danneggiarli? Ma sieno stati pure innocentissimi i Cristiani di
Bitinia al tempo di Traiano; che cosa prova ciò per alcune fazioni
dei cristiani di Roma al tempo di Nerone? Questo credemmo opportuno
avvertire, circa le ragioni generali e di metodo. Alle osservazioni sui
singoli punti si risponderà nelle note o anche nel testo. Non era
possibile confutare partitamente ciascuno degli scritti venuti in luce. Quest'
opuscolo sarebbe diventato un volume, con poco frutto dei lettori e degli
studii. Ne del resto era decente sottoporre alla considerazione dei lettori,
scritti, nella maggior parte dei quali la forma irosa mal si dibatte fra
le scabrosità della materia, e dalle ambagi del ragionamento guizza
ed erompe il vituperio. I fatti e le ragioni apportate io ho tenuto in
conto; dei vituperii non mi curo, né di essi conservo rancore. Mi
conforta il consentimento pressoché unanime a me venuto da coloro che
rappresentano il più bel vanto degli studii italiani. In mezzo alle loro
voci o alle voci di quelli che, pur discordi, seppero tener la misura, suonò un
coro stridulo di voci insolenti. Persone rese fanatiche da
religioso ardore si scagliarono contro di me, a contaminare la
purità delle intenzioui mie. In tale impresa l' ignoranza e la malafede fecero
l'estrema lor possa. Io non perderò la calma per le intemperanze altrui.
Quel medesimo coro ha accompagnato sempre ogni opera di verità e di luce.
Mentre la procella batteva alla mia porta, io ripensavo mestamente che
cosa mai potesse suscitare in tanti animi impeti cosi vivaci contro
di me. Era là, in quei cuori angosciati, tutto lo schianto come di
una cara visione che si dilegui, come di una zona luminosa sulla quale
inopinatamente si effondano tenebre. Povere anime desolate, ebbre di
radiose speranze, io non ho offeso la vostra fede. Potreste voi mai
sostenere che, pur quando gran parte del mondo fu conquistata alla luce e
all'amore della vostra idea, il fanatismo e l'errore sieno tosto
dispariti dalla terra, e cieche cupidigie e biechi livori non abbiano
ancora agitato gli spiriti? Perchè dovrebbe dunque ripugnare alla
vostra fede, l'ammettere che ciò sia avvenuto pure agl'inizii della nuova
era umana, in mezzo a gente nei cui animi era 1' eredità di secolari rancori
? Il primo quesito che si presenti alla mente di chi esamini i
racconti degli storici snll' incendio neroniano, è questo: l'incendio fu
ordinato da Nerone? Degli scrittori più antichi lo affermano Suetonio e
Dione Cassio, i quali ci hanno pure esposto le ragioni di tal loro
convinzione: sicché la notizia da essi data ha solo valore in quanto
possano averlo tali ragioni: di che tosto vedremo. Tacito si avvale di
fonti diverse, né sembra aver fatto studio per rendere coerente il
racconto suo; sicché prendendo or dall'uno autore or dall'altro, riesce ad
indurre nel lettore ora 1' una convinzione or l'altra. Si mostra in principio
esitante tra due autorità di fonti: quelle che attribuivano il
disastro al caso e quelle che lo attribuivano a Nerone; ma Si potrebbe obbiettare che uno storico
può narrar cosa vera, ma poi sbagliare nell' assegnare lo cause. E ciò è
appunto quello che penso io, e che dichiaro pure più sotto; le particolarità
dell'incendio, narrate dagli storici non sono certo inventate da essi, e
sono, secondo ogni legittima presunzione, vere; la causa dell'incendio,
cioè l'ordine di Nerone, dobbiamo giudicarla alla stregua delle ragioni
che essi apportano di tal loro convinzione. Giacche 1' attribuire l'
incendio o al caso o all' ordine dell' uno dell'altro, è convinzione o
apprezzamento, non è fatto. Lo afierma anche PLINIO (si veda) il Veccbio;
e il suo accenno. N. II.: ad Neronis principis incendia, quihus cremava Urbem),
prova che pochi anni dopo l'incendio, l'opinione era già invalsa.
Verisimilmente la medesima convinzione espri ll' ipotesi del caso
doveva cadere per lui, che poco dopo narra come certo il fatto che
nessuno osò opporsi alla violenza del fuoco, poiché uomini minacciosi
vietavano di estinguere le fiamme, anzi le ravvivavano, dicendo di
agire per consiglio altrui. E bensì vero che Tacito aggiunge essere
incerto se ciò facessero, per potere senza freno abbandonarsi alle rapine
o per vero comando: ma è evidente che la prima ragione non regge. Giacché
se essi giungevano a imporsi tanto con le minacele da impedire ogni tentativo
di estinzione, potevano pure senz' altro esercitare liberamente il
saccheggio. E del resto il ripetersi della cosa, con i
medesimi particolari, per tutta Roma, non significa 1' obbedienza
ad una parola d' ordine? Questa esclude il caso. E lo esclude pure il
fatto che, tosto allo spegnersi del primo, si riaccese un secondo
incendio, che proruppe dagli meva PLINIO nelie Storie civili che furono
fonte a Tacito. La narrazione di Sulpicio Severo (II, 29) è presa
interamente da Tacito, di cui riproduce molte frasi. Quella di Orosio è
derivata, con qualche esagerazione di notizia, da Suetonio. L'iscrizione
in C. I. L., VI, 826 ha qvando vrbs per novem DIES — ARSIT
NERONIANIS TKMPORIBVS. Importanti monumenti sono pure le are site in
ciascuna regione della città, sulle quali nei tempi successivi si celebravano
il 23 Agosto i sagritìzi incendiorum arcendorum causa; alcune di tali are
sono conservate; cfr. Lanciani, Bull. com.; Hùlsen, Rom. Mitt.; Richter, Top.j- Una minaccia d' incendio
è attribuita a Nerone dall' autore dell' Ottavia, v. 882, Stazio nella
Silva dedicata alla vedova di Lucano ha infandos domini nocentis ignes. In
tutta la letteratura di opposizione a Nerone l'accusa dovè essere accolta
con fervore. Alcune di versità di particolari dalla narrazione tacitiana
sono nella corrispondenza apocrifa di Seneca e S. Paolo (v. Ramorino, Vox
Urbis). Tra i moderni, oltre Aubè, Schiller ed altri, lo Herstlet negò
con buone ragioni, l'attribuzione a Nerone (Treppenwitz der Weltg.).
Molti l'attribuiscono al caso (ad es. AUard, Marucchi). I
particolari dell' incendio sono contrari a tale ipotesi: per ammetterla,
bisognerebbe ritenere falsi tutti i particolari narrati dagli
antichi. orti di Tigellino e devastò un' altra parte della città.
Del resto Tacito sembra nou aver ridotto ad unità di pensiero questa
parte dell' opera sua: e aver piuttosto abbozzato appunti da fonti
discordi: vedremo infatti essere molto probabile che una delle sue fonti
accusasse esplicitamente i cristiani. Suetonio accusa Nerone. E l'accusa egli
fonda sopra tre fatti. In un banchetto, avrebbe un convitato detto
in greco: quando io sia morto, si mescoli la terra col fuoco, e
Nerone avrebbe soggiunto; auzi quando io sia vivo; di più, parecchi
consolari sorpresero nei loro possedimenti i servi imperiali, con stoppa
e faci; e per paura, neppur li molestarono; infine Nerone, de
'-> Altro indizio che Tacito non abbia riassunto in una concezione
unica il fatto storico, ma abbia solo unito notizie discordi da fonti diverse,
si trae anche da questo. Ei riferisce la voce che Nerone al tempo del
disastro cantasse l'incendio di Troia sul teatro domestico. Ma qual
teatro? Quando ei 'tornò da Anzio il palazzo imperiale bruciava ! Altra contraddizione.
Debbo notare a tal proposito come a me abbia prodotto ingrata meraviglia, che
del mio giudizio su Tacito altri abbia menato scalpore, come di giudizio
a bella posta indotto per iscemare l'autorità di lui ed infirmarne la
fede. Dopo tanti studii perseguiti da tanti anni, sul materiale storico
di Tacito, sul suo fosco vedere, sulle sinistre interpretazioni sue,
sulla sua costante avversione per alcuni personaggi, si avrebbe il
diritto di pretendere che tanta mole di lavoro non fosse stata fatta
invano. Il Fabia, Le sources de Tacite, osserva, contro L. Von Ranke, che
Tacito si astiene dall' accusare o dall' assolvere Nerone, adoperando
frasi come pervaserat rumor, videbatur, crederetnr. Ma a me paiono
giuste le seguenti considerazioni del Von Ranke, Weltgeschichte, Leipzig:
Es ware nun unsinnig zu denken, dass Nero, der sich bei dern Brande
wurdig betragen batte, jetzt, um eia durchaus falsches Geriicht niederzuschlagen,
zur Verfolgung \inschuldiger Lente geschritten wàre. Man kann nicht anders als annehmen dass diese Stelle aus des
zweiten Nero anklagenden Ueberlieferung stammt. Die Nichtswiirdigkeit des
Kaisers liegt eben darin, dass er den Brand selbst angelegt hat und auf
anderen die Schuid schiebt. So die zwejte Ueberlieferung.] siderando
sul Palatino l'area di alcuni granai costruiti con pietra, li fece prima
abbattere e poi fece ad essi appiccare il fuoco. Anche Cassio Dione è
esplicito, e (juasi a riprova della sua accusa apporta due fatti:
die cioè Nerone aveva fatto voto di vedere la distruzione di Roma e che egli
chiamò felice Priamo, perchè aveva visto perire la patria sua. [Or
veramente, se questi sono i fondamenti della secolare accusa, lo storico
spassionato dovrà rimanere ben perplesso prima di confermarla. Certo fu
uomo di si efferate nefandezze Nerone, che non è a temere gli si
gravi troppo la soma dei delitti con un altro misfatto; pure, giudicando
senza prevenzioni, è facile scorgere quanta sia la vacuità delle ragioni
che gli antichi apportano per incolparlo anche di questo. Quanto ai
servi di lui, sorpresi ad incendiare, il fatto ha ogni verosimiglianza,
ma ha ben altra spiegazione, come si dirà in seguito. Quanto ai granai
del Palatino, è naturale che, quando tutto intorno era distrutto, visti
superstiti quegl' informi ruderi, ei li facesse abbattere e incendiare, volendo
liberare l' area per la futura sontuosa sua casa. *' Quanto all'
aneddoto, raccontato da Dione Cassio, eh' egli avesse fatto voto di
veder distrutta la città, esso è infirmato dal fatto che, .saputo appena
che il fuoco s' approssimava al pa- [Questo passo di Suetonio (Ner.) ha
fatto uscire di careggiata non pochi. L'abbattimento e l'incendio dei
granai Suetonio lo apporta, perchè serve a dimostrare, secondo lui,
che Nerone non fece mistero dell' ordine d' incendiare {incendit
urbem tam palam ut bellicis machinis lahefactata atqiie
infiammata sint, ecc.). E chiaro che 1' argomentazione non è valida. Se
Nerone dette senza mistero 1' ordine di abbattere quei granai, dovè
dunque darlo quando tornò da Anzio; e allora tutto intorno era già
divorato dalle fiamme.] lazzo imperiale, egli rientrò in Roma, eppure non
si potè impedire (dice Tacito) che il Palatino e la reggia e tutti
i luoghi intorno fossero preda alle fiamme. Rimangono altri due aneddoti, e
quello di Priamo e quello del banchetto. E non è improbabile che
Nerone paragonasse sé stesso a Priamo, cui toccò di veder distrutta
la patria sua, e si chiamasse, ammettiamo pure, fortunato di veder cosa
unica al mondo: ma ciò non si può apportare qual prova a confermare
che l'ordine partisse da lui. Ne tale deduzione si può trarre dai
motti di spirito, che secondo Suetonio riferisce, avrebbe egli scambiato con un
suo convitato in un banchetto. Che anzi, chi ben guardi, l'interpretazione
di qu3Ì motti è ben altra. Giacché se il convitato disse: Ivj.oò Savóvro?
Y^ia at/Gr^uo ttd.oi egli voleva evidentemente significare: purché io sia morto, si mescoli la terra
col fuoco, e cioè, a un dipresso: purché io non abbia più a correrne
pericolo, caschi pure il mondo! Ed
è naturale quindi che Nerone rispondesse: anzi, purché io continui a vivere (immo inquit, i'j.o'j Cwvioc). Ci siamo
indugiati in siffatti particolari aneddotici, non per conchiudere da essi
soli, che fu ingiusta l'accusa, ma solo per affermare che non ci è
dato indagare la verità da siffatte fonti. Questi scrittori hanno poco
discernimento critico. Quando raccolgono fatti, ci offrono materiale
prezioso: quando li interpretano e ne tra^ggono deduzioni, scoprono tutto
il debole dell'arte loro. Noi dunque dobbiamo battere altra via. Dobbiamo
esaminare le par- [Ed era la casa sontuosa, eh' egli stesso aveva fatto
smisuratamente ingrandire, sicché comprendeva ormai tutta l'area dal
Palatino all'Esquilino. Il nome di Domus Transitoria (Suet. Nei') trasse
in uno strano errore il Renan, il quale credette vedere in quello
l'intenzione di Nerone di far, poi, una casa definitiva. Ma transitoria
significa solo che quella casa metteva in comunicazione, come dice Tacito
{Ann.) il Palatium con gli orti di Mecenate ! Pascal] ticolarità
tutte del disastro ìq relazione al carattere ed ai fatti di Nerone. Dobbiamo
vedere quale poteva essere per lui il movente ad emanare l'ordine sciagurato,
quali i mezzi per attuare l' immane disegno. La capacità a
delinquere di Nerone è fuori di ogni discussione; e veramente, se solo ad
essa noi dovessimo aver ricorso, la questione non sussisterebbe più. Ma
vi ha tempre e caratteri diversi di delinquenza: alcuni sono nati alle
audacie più forsennate, alle più temerarie scelleraggini: altri praticano
il delitto per coperte insidie e per nascosti raggiri. Nerone,
quale cÀ risulta da tutti gli atti della sua vita, fu insidioso e vile;
sospettoso di tutto e di tutti, sempre premuroso d' ingraziarsi il popolo
con feste e largizioni; assalito alcuna volta da crisi convulse, e trepidante
per divina vendetta, superstizioso come un fanciullo. Quando scoppiò l'
incendio, egli era ad Anzio. Scoppiò per ordine suo? Ma allora il
suo tristo segreto fu affidato non ad uno o due dei più intimi, ma
a centinaia, forse a migliaia di servi e pretoriani!" Giacché per
tutta Roma furono dissemi- [Mi si è mosso rimprovero che tali
particolarità io desuma da quegli stessi scrittori, dei quali ho cercato
infirmare la fede. Ma le dichiarazioni che qui precedono sono esplicite; i fatti non sono certo inventati dagli
scrittori: le deduzioni che essi ne traggono sono erronee. In tutte
le scelleratezze di Nerone si vede manifesto lo studio di coprire nel
segreto dei pochi fidati il misfatto. Il mandare l'ordine da Anzio a Roma a
centinaia di servi e soldati, e il tornare poi in mezzo al popolo,
suppone un coraggio che non possiamo davvero attribuirgli. Né è dato supporre
che Nerone abbia confidato l'ordine solo a qualche intimo. Questi non
avrebbe potuto fare se non trasmettere gli ordini imperiali; e Nerone
capiva che 1' ordine sarebbe stato quindi annunziato ai servi o
soldati solo come ordine suo. lnati coloro che impedivano ogni
tentativo di estinzione, ed erano come riferisce Dione Cassio, anche
vigili e soldati che ravvivavano il fuoco. E si supponga pure che costoro nell'
ebbrezza forsennata di quelle notti infernali, obbedissero, senza
esitanza, ad un ordine che si diceva lor mandato dall' imperatore
lontano: ma quando poi l'imperatore tornò, e tentò arrestare le fiamme,
(Tac. Ann.), a chi obbedivano coloro che dagli orti di Tigellino fecero prorompere
novello incendio? E, se avesse dato l' ordine, sarebbe tornato Nerone? Un
ordine, diffuso fra tanti servi e soldati, non poteva rimanere un segreto
per il popolo: avrebbe Si potrebbe osservare: Perchè dovevano essere
centinaia ? Non bastavano forse anche pochi per appiccare l'incendio, se questo
cominciò dalle bofteghe ripiene di merci accensibili, e fu alimentato dal
vento? Sennonché supposto pure che pochi abbiano appiccato l' incendio,
moltissimi dovevano pure essere quelli che ordirono il complotto. Ed
infatti per tutta Roma erano sparsi coloro che impedivano ogni tentativo
di estinzione. Questi dovevano essere a parte del segreto, e per
essere sparsi in tutta Roma dovevano essere moltissimi. La qual notizia
della impedita estinzione non può essere revocata in dubbio.- Se non
v'era forte mano organizzata ad impedire 1' estinzione, molto prima dei
nove giorni si sarebbero sedate le fiamme. Non potevano certo
obbedire a Nerone, poiché da lui ricevevano ormai l'ordine di arrestare le
fiamme, non di riaccenderle. Si è sospettato potesse essere una finzione di
Nerone il tentativo di arrestare le fiamme. Ma ad ogni modo questa
finzione non poteva avere efletto se non con opere di estinzione. E non è
consentaneo al carattere di Nerone che egli in mezzo alla disperazione
del popolo si fosse esposto al pericolo di rinnovare l'ordine incendiario. E
Tigellino non avrebbe fatto incominciare dalla casa sua, lasciando intatto il
Trastevere. Si può pensare: col non tornare, avrebbe accresciuto i
sospetti. Ma questi apprezzamenti e calcoli di mente fredda disdicono al
carattere di Nerone. Si esamini, di grazia, il suo contegno dopo 1'
uccisione della madre (Tac. Ann.). E cosi quando gli fu annunziata la
defezione degli eserciti, non osò presentarsi in pubblico, temendo esser
fatto a brani (Suet. Ner.). egli affrontato la plebe, pazza d' ira e
di terrore? E perchè l' avrebbe dato, quest' ordine ? Perchè, si risponde, non
soffriva le vie tortuose e irregolari, con le loro pestifere esalazioni,
e voleva il vanto d'essere chiamato fondatore di Roma; ojDpure, perchè
voleva godere lo spettacolo delle fiamme e cantare l'incendio. Ed
altri ancora risponde: dette l' ordine in un accesso di pazzia.
Or veramente, quanto alle vie tortuose e strette, la ragione non
regge. L' incendio fu appiccato a tutte le regioni più nobili e suntuose
di Roma; perirono i templi vetusti, i bagni, le passeggiate, i luoghi di
delizia, le case più ricche. Le regioni dei poveri, rot>curo
Trastevere, il centro della comunità giudaica e cristiana, furono rispettati.
Eppure anche nel Trastevere aveva Nerone i suoi orti Domiziani e il suo
circo, che poteva desiderare di vedere sgombri dalle casupole e dalle
viuzze che li circondavano. Voleva godere lo spettacolo delle fiamme? Ma
si sarebbe subito mosso da Anzio; il ritardo poteva togliergli l'occasione di
goderlo! Rimane dunque che egli avesse ordinato l' incendio in un accesso
di pazzia. Ma quando egli tornò a Roma, e, come riferisce Tacito {Ann.
XV, 39\ cercò di opporsi al fuoco, ed aprì per ristoro al popolo il campo
di Marte, i portici e le terme di Agrippa, Che Nerone sin dalla prima
notte del suo ritorno si aggirasse senza guardie per la città, è afìermato da
Tacito stesso, quando narra che Subrio Flavio aveva già prima della
congiura Pisoniana fatto il disegno di uccidere Nerone cum ardente
domo per noctem huc Ulne cursaret incustoditus! (Ann.) '' Non poteva
regolare, si può dire, la direzione delle fiamme. Ma certamente, se il suo
scopo era quello di togliere le viuzze stretto e le case luride non
sarebbe ricorso alle fiamme. Bastava che il suo disegno d' abbellire Roma
egli enunciasse, per essere esaltato da tutto il popolo, e avere il
concorso di tutti i cittadini. E quando anche alle fiamme avesse voluto
ricorrere, avrebbe cominciato dai quartieri luridi, non da quelli nobili
e sontuosi.] gli orti suoi, e fece costrnire provvisorie capanne, e
diminuì il prezzo del frumento, era certamente nel possesso delle facoltà
sue: e allora chi rinnovò l' incendio negli orti di Tigellino? Ed ancora, si ponga mente ad altre
osservazioni. Nerone voleva salvare la casa sua, ed infatti vi si adoperò,
tornato a Roma: avrebbe egli ordinato che si cominciasse ad
appiccare il fuoco proprio a quella parte del circo. che era contigua al
Palatino? Nerone amava credersi e farsi credere artista fine e di greco gusto.
Non avrebbe egli fatto mettere al sicuro le più belle opere di
scultura, i monumenti dei più chiari ingegni, i capilavori dell'arte greca?
Anche questi perirono tutti, e Nerone mandò gli emissarii suoi, per
l'Asia e per la Grecia, a depredarne dei nuovi. Quanto più si consideri
l'accusa fatta a Nerone, tanto più essa risulta incoerente e
contradditoria. Ma dunque, chi ordinò l'incendio? Quali furono gì'
incendiarii? Quale scopo ebbero? Chi incolpò i Cristiani? E quali erano i
Cristiani allora? Dobbiamo, per l' esposizione nostra, cominciare
dall'ultimo quesito, e poi a mano a mano, attraverso gli altri, giungere
sino al primo. Sulla prima comunità cristiana in Roma abbiamo
E opportuno pnre notare che J racconto riguardante Nerone, che
sulle rovine ii Roma canta i' incendio di Troia è ritenuto, per buone
ragioni, una leggenda. Y. Renan, JJ Aniichrist che prese probabilmente i suoi
argomenti dalla nota del Fabricio a Cassio Dione. Non vale il dire:
ricevuto il comando, non si badò più a nulla. Sta pur sempre, che se il
primo incendio cominciò dalla casa di Nerone, e il secondo dalla casa di
Tigellino, le fiaiume forono appiccate da nomini che erano nemici di tatto
l'ordine sociale, che era rappresentato da quei di; e. scarsissimi
documenti: pure ci viene da essi qualche lume. Chi immagina i Cristiani
al tempo di Nerone, e anche prima, tutti intenti a bizantineggiare su questioni
di dogma, non può spiegare l' aggregarsi di sempre nuovi proseliti alla
parola evangelica. Se Tacito dice che i cristiani erano allora una immensa moltitudine, ninna ragione
v' ha per iscemare il valore a siffatta testimonianza. Ora una
immensa moltitudine non si poteva commuovere per controversie riguardanti
solo il, dogma giudaico. Ci vuole altro per muovere le turbe. Se soltanto
tali quesiti avessero formato oggetto della predicazione evangelica, i
gentili avrebbero probabilmente risposto come il proconsole Corinzio
rispose ai Giudei che accusavano Paolo: sono questioni di parole: pensateci voi.
Il cristianesimo dovè invece assumere ben presto in Roma un contenuto
sociale ed economico. Quel che importava era il complesso delle
aspirazioni e delle rivendicazioni messianiche, era la parola dolce,
che per prima affermava 1' eguaglianza umana, e prometteva lo sterminio
degli empii, e prossimo il regno della giustizia. Ora questa sete ardente
di rivendicazioni umane era comune tanto al giudaismo quanto al
cristianesimo. La differenza era in ciò, che per il cristianesimo il Messia era
già venuto, ma doveva tosto tornare a disperdere le potenze maleJBche
sulla terra; il giudaismo non sapeva accomodarsi all'idea di un
Messia, che non avesse levato sugli empi la sua spada di fuoco, e assicurato
la supremazia al suo popolo La testimonianza di Tacito è
i-insaldata da quella di Clem. Rom. Ad, Cor., I, 6 (nokò t:).YjOoc;), e
da quella dell' ^joocalisse, VII, 9 {o/'koc, t:oXù<;) e da quella di S.
Paolo che ai Filippesi dice, parlando dei cristiani di Roma: Molti dei miei fratelli nel Signore. Contro
siffatte testimonianze non v'è una sola prova di fatto. Nulla trovo in
proposito nel lavoro dell' Harnach, GescJdchte der Verbreitung des
Christenthuvis, in Sitzunysb. d. Akad. d. Wiss. zu Berlin. leletto
e feimato l' impero nella divina Gerusalemme, bella d'oro, di cipresso e
di cedro. Ma in sostanza r una aspettazione e l' altra di un prossimo
rinnovamento umano aveva un contenuto sociale; e a guardar l'una e
l'altra dal di fuori, era facile confonderle. Quindi è che Giuseppe
Flavio e Giusto di Tiberiade non distinguono i cristiani dai giudei; e
Tacito in un passo (Bist.) confonde gli uni e gli altri; cosi
Suetonio, quando dice {Claud.) Jndaeos imimlsore Chresto assidne
tumultuantes Roma expnUf, intende evidentemente (per quanto stranamente sia
stato interpretato questo passo) per Judaei i Cristiani, immaginando
Cristo ancor vivo ai tempi di Claudio,v anzi eccitatore dei Giudei nei
loro tentativi di riscossa. Che poi la coscienza umana si sia spostata
non verso il giudaismo, ma verso il cristianesimo, la ragione è manife Impulsore
non può voler dire a cagione bensi per eccitamento. È da mettere a
riscontro questo passo di Suetonio con un passo degli Atti degli Apostoli, nel
quale si ha questa notizia < [Paolo ^ trovato un certo Giudeo,
per nome Aquila, di nazione Pontico, da poco venuto in Italia, insieme
con Priscilla sua moglie (perciocché Claudio aveva comandato che tutti i Giudei
si partissero di Roma), si accostò a loro; e poiché egli era della
medesima arte, dimorava in casa loro. Ora è importante il fatto che
Aquila e Priscilla erano appunto cristiani: cfr. Rom.; Corint.; Tim.;
Ada, E che il fossero anche prima d'incontrarsi con Paolo si può con
qualche probabilità dedurre dal fatto che appunto in casa loro andò ad
abitare Paolo a Corinto. Paolo, Eom., li chiama suoi cooperatori. Cfr. De Rossi Bnll. ardi, crisi;
Allard, Hist. des persécut.. E probabile dunque che Claudio scacciasse
dalla città i Giudei cristiani, non tutti i Giudei: tanto piìi che dei
Giudei Cassio Dione dice che Claudio ritenendo pericoloso a cagione
del loro numero scacciarli dalla città, si limitò a interdirne le
adunanze. E che 1' espulsione ordinata da Claudio non riguardasse propriamente
i Giudei viene indirettamente provato dal fatto che Giuseppe Flavio,
solitamente cosi bene informato di tutto ciò che riguardai suoi
compatrioti, non menziona di Claudio se non atti di favore per essi {Ant,
Ind.). sta. L'uno infatti rimaneva chiuso nel suo rigido particolarismo di
razza, l'altro abbracciava nell'amor suo l'universo. L'uno esaltava il
popolo eletto dal Signore e destinato al trionfo; l'altro predicando
l'eguaglianza umana volse la propaganda sua tra i Gentili. Di più
ancora, gli uni spostavano indefinitamente i termini della dolce
promessa, gli altri annunciando imminente il desiderato ritorno, parevano
soddisfare la impazienza di rinnovamento umano, che è cosi caratteristica
della società romana del primo secolo. È facile immaginare quanto
larga e immediata diffusione avesse il cristianesimo tra gli schiavi, i
quali sentivano più che mai prepotente la brama di rivendicazioni e da
secoli prorompevano di tratto in tratto alla rivolta. D' altra parte,
come avviene in tutti i movimenti umani, si aggregava alle idee nuove
quel sostrato tenebroso della società che spunta fuori solo nei
giorni più torbidi, giungendo ad ogni eccesso cui spingano le bieche
passioni e i rancori lungamente soffocati. Tali uomini gettavano fosca
luce su tutta intera la chiesa. Tacito dice: odiati pei loro delitti i
Cristiani, e meritevoli di ogni pena più
esemplare (Ann.); e Suetonio parla di essi come di gente malefica (Ner.). Tacito e Suetonio hanno delle
virtù e delle colpe umane gli stessi concetti che ne abbiamo noi. Quando
essi parlano di delitti e malefizi, non è possibile assumere tali parole in
significato men tristo dell'usuale. La castità, la temperanza, la
rinuncia ai piaceri, l'odio per le turpitudini, erano pure per essi tali
pregi, che ne avrebbero commosso di ammirazione reverente l'animo. Si
potrebbe pensare a calunnie sparse ad arte nel popolo. Ma è pur l'incendio
di eoma e r primi cristiani vero che nelle stesse fonti cristiane abbiamo la
prova che molti nelle varie chiese fossero indegni di predicare la croce
di Cristo. Paolo stesso, nella lettera scritta da Roma ai Filippesi, così
parla di alcuni, che si erano aggregati alla nuova fede: Molti dei fratelli nel Signore, rassicurati
per i miei legami, hanno preso vie maggiore ardire di proporre la parola
di Dio senza paura. Vero è che ve ne sono alcuni che predicano
Cristo anche per invidia e per contesa, ma pure anche altri che lo
predicano per buona affezione. Quelli certo annunziano Cristo per
contesa, non puramente, pensando aggiungere afflizione ai miei
legami; ma questi lo fanno per carità, sapendo ch'io son posto per la
difesa dell' evangelo. A quante interpretazioni han dato luogo queste
parole! Eppure a dichiarazione di esse mi pare che possano servire
quelle che Paolo aggiunge poco dopo:Siate miei imitatori, o fratelli, e
considerate coloro che camminano cosi Perciocché molti camminano, dei
quali molte volte vi ho detto, e ancora al presente vi dico
piangendo, che sono i nemici della croce di Cristo; il cui fine è
perdizione, il cui Dio è il ventre, la cui gloria è nella confusione loro;
i quali hanno il pensiero e l'affetto nelle cose terrene. Noi viviamo nei
cieli, come nella città nostra, onde ancora aspettiamo il Salvatore. E
più giù: La vostra mansuetudine
Tali parole scritte ai Filippesi liHiiiio riscontro con quelle della
lettera ai Romani lo vi esorto,
fratelli, che vi guardiate da coloro che commettono dissensi e scandali,
contro la dottrina che avete imparato e vi ritragghiate da essi.
Perciocché essi non servono al nostro Signore Gesù Cristo, ma al proprio
ventre, e con dolce e lusinghevole parlare seducono il cuore dei semplici.
Dunque quelli che non servono a
Dio, ma al proprio ventre, non si trovavano solo a Filippi, ma anche a
Roma. Ingiusto è quindi l'appunto mossomi dal sig. Fr. Cauer, in Beri,
philol. Wock. Sulla recensione del Cauer v. anche App. II, nota 1. Circa
le varie questioni riguardanti la lettera ai Filippesi, e propriamente la sua
genuil' incendio di roma e i primi cristiani sia nota a tutti gii uomini,
il Signore è vicino. Non siate con ansietà solleciti di cosa alcuna. Il
Signore è vicino! Dunque, egli dice, siate mansueti, e cioè non vi
abbandonate a moti incomposti, aspettate con calma e fiducia. Il seme
gettato aveva fruttificato dovunque; era seme di amore e fruttificò la rivolta.
Ed in Roma quali erano coloro che predicavano Cristo per invidia e
contesa? Erano quelli che avevano l'animo alle cose terrene, che avevano
invidia dei beni altrui, e prorompevano in contese e sommosse: questi,
sì, aggiungevano afflizione ai legami di Paolo. Egli infatti doveva
essere giudicato da Cesare e aveva tutto l'interesse che non apparisse
perturbatrice dello Stato la sua dottrina; sul puro campo religioso l'assoluzione
era sicura, giacche Roma in religione non conobbe mai l' intolleranza. La
nascente chiesa cristiana era già fin d' allora scissa in fazioni. AH' infuori
delle dispute dommatiche che tanto travagliarono a Paolo la nobile vita, era
vivo nel primitivo cristianesimo il dissenso tra quelli che cercavano inculcare
l'aspettazione fidente della divina giustizia, e quelli che volgevano le
nuove dottrine a scopi di immediate rivendicazioni materiali. Dagli
scrittori moderni è stato ampiamente studiato in che cosa consi- nità e
l'unicità della sua composizione, v. gli autori citati presso Clemen,
Proleqom. z. Chron. der Paulinischen Briefe, Halle, Qualche scrittore ha
accennato che tutti questi passi si riferiscano a scismi e divisioni
interne della nascente Chiesa, per questioni di dogmi e di gerarchia.
Quale relazione abbiano il dogma e la gerarchia col ve>itre, di cui
parla Paolo, col pensiero e V affetto volto ai beni terreni, non so vedere. Che
se poi invece si vuol parlare di scismi e divisioni riguardanti veramente
l'attaccamento ai beni terreni, si vuol supporre cioè che avessero
assunto il nome di Cristiani, uomini avidi ed invidiosi dei beni altrui,
allora siamo pienamente d'accordo; ed io posso anche nutrire non vana
speranza che i miei contraddittori siano per venire nell' avviso
mio. l stessero i dissensi dommatici; ma non per questo dobbiamo
noi credere che solo ad essi si riducessero le divisioni della prima
chiesa. Anzi, chi ben guardi, a riprovare il partito delle rivendicazioni
sociali si trovavan concordi pur quelli che nel dogma eran dissenzienti; e se
da una parte Paolo protesta esservi nella Chiesa alcuni che sono nemici
della croce di Cristo, perchè il loro Dio è il ventre, il loro affetto è
alle cose terrene, Pietro parla a lungo di quelli tra i Cristiani
che sono schiavi di lor lascivia, che come animali senza ragione vanno
dietro all' impeto della natura, destinati a perire nella loro corruzione, essi
che reputano tutto il loro piacere consistere nelle giornaliere delizie,
e non restano giammai di peccare, adescando le anime deboli, ed avendo il
cuore esercitato all' avarizia (II Petrij 2). E, come Paolo, anche
Pietro, nella P'' epistola (la cui attribuzione è sicura) esorta i Cristiani
alla soggezione verso le autorità terrene, i sovrani e i governatori, e a
ritenerli come inviati da Dio stesso, per punire i malfattori e premiare
quelli che fanno bene. L'esortazione prova appunto che tra i Cristiani fosse
una fazione turbolenta (cfr.Tim.). È dato pensare col Eénan {Saint Paul)
a quelle sette cristiane che negavano la legittimità dell' imposta, che
predicavano la rivolta contro l' impero, e identificavano anzi l' impero
al regno di Satana. La maggior parte della prima chiesa sarà stata di
persone invase dall'amor del bene e da fraterna carità; ma la turbolenza
fremeva in quella massa disforme, e la parola apostolica mal giungeva a
frenarla. Or qui è da richiamare quel che abbiam sopra visto, riferito
da Suetonio, che cioè sotto Claudio i Cristiani tumultuassero e fossero
espulsi da Roma. Anche quel passo è stato soggetto a tante
interpretazioni! Pure a conferma della nostra, basta rammentare il passo di
Tacito [Ann.) quella perniciosa
superstizione soffocata per il momento, prorompeva di nuovo, il quale
passo ci lascia anche comprendere che più d' uno dovettero essere i tentativi
di soffocare il cristianesimo nascente. -' Perchè soffocarlo, se non
fosse stata in esso una fazione rivoluzionaria? In Roma tutti i culti
vivevano alla luce del sole. E che tal fazione avesse in Roma il
Cristianesimo, si deduce dalia lettera stessa di Paolo ai Romani. Vi s'
industria in ogni maniera di incutere il rispetto all' autorità, tenta
perfino di far credere divina la potestà terrena: Ogni persona sia sottoposta alle potestà
superiori, perciocché non vi è potestà se non da Dio; e le potestà che
sono, sono da Dio ordinate. Talché chi resiste alla podestà,
resiste all'ordine di Dio, e quelli che vi resistono riceveranno
giudizio sopra di loro ecc. (7?o?., 13).
Indi pure si spiega perchè ai cristiani si facesse accusa di
professare l'odio del genere umano. Tacito anzi dice che 1' accusa
fu provata (Ann.) odio humanis generis conoictì sunt Si è tentato d' interpretare il passo,
adducendo Pih d" uno, ho detto.^Le parole di Tacito sono: Auctor
nominis eius Christus, Tiberio iviperitante, jyer procuratorem P. Pilatum
sujypiicio adfectus fuerat; represscique in praesens exitiabilis superstitio
rursum erumpebnt. Se Tacito avesse voluto dire che la repressione fu una
sola, avrebbe detto eruperat; invece eruinpebat è imperfetto iteratiro,
in relazione con quelV in praesens. E il significato è: ogni volta che era repressa erompeva di
nuovo. I provvedimenti repressivi presi in Roma contro certi culti e
cerimonie fui-ono determinati da ragioni di moralità e di quiete pubblica;
cfr. Aubé, Histoìre des pemécutionfs; De Marchi, Rendiconti Istituto
Lomb. Giugno 1900; Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto
penale romano, Milano, Se il Cristianesimo avesse avuto un solo carattere
religioso sarebbe stato tollerato, come era tollerato anzi qualche volta
(Joseph. Ant. jud.), anche favorito il giudaismo, che pur pretendeva
all'esclusiva verità del suo unico Dio, e pure aveva contrario il
sentimento pubblico Di simili accuse parlano spesso più tardi gli
apologisti, Tertulliano, Apol.; hostes maluistis rocare generis humani;
sicché a me sembra vano il tentativo d'inla rinuncia, che i cristiani
professavano, ai beni e ai piaceri della vita. Vani sforzi! Il mondo
classico aveva visto in tal genere le aberrazioni estreme della
scuola cinica, la quale tuttora vigeva (A)tn.); ed aveva ancora,
fiorente nel suo seno, l'ideale della virtù stoica. Gli è elle ogni
rivendicazione di una classe sociale contro l'altra, diventa
necessariamente lotta e quindi odio di classe. Strana sorte! Cristo e i
suoi apostoli insegnavano 1' amore; gettata la loro parola nelle moltitudini,
era seme che fruttava 1' odio umano. Fra quelle turbe, inasprite da
secolari dolori, avide della agognata riscossa, passò la figura dolce e
confortatrice di Paolo. Persegui tenacemente e con fervore divino,
l'opera sua; diresse con la mansuetudine quei cuori tempestosi, convertì
quanti più potè tra i Pretoriani ed i servi di Nerone (Ai Filipp.).
Finito poi, con l'assoluzione, il processo a suo carico, non è certo che
egli sia rimasto in Roma. L' ajino seguente, proruppe l'incendio. Il
Signore è vicino ! aveva annunziato Paolo, e tutta la letteratura
evangelica contiene questo grido angoscioso di aspettazione: Io vi dico in verità che alcuni di
quelli che sono qui presenti, non proveranno la morte, primachè non
abbiano veduto il Figliuolo dell' uomo venire nel suo regno. Io vi dico
che terpretare: d' essere odiati dal genere umano. Come può essere
per alcuno un capo di accusa l'odio alti-ui? E si poteva asserir
seriamente che tutto il genere umano si unisse ad odiare quella Chiesa
segreta ed ignota? E ad ogni modo quando pur si volesse sforzare la frase
sino a tal senso, ci si guadagnerebbe ben poco. V. però su tutta la
cronologia di Paolo, Harnack A., Die Chronologie des altchristlichen
Litteratur. questa generazione non perirà, prima che tutto questo
avvenga. Cielo e terra periranno, ma non periranno le mie parole. Così
concordemente gli evangeli di Matteo, di Marco e di Luca. E la lettera di
Jacopo. Siate pazienti, fortificate i cuori vostri, la venuta del
Signore è vicina. E la lettera agli Ebrei. Ancora un breve tempo e
colui che deve venire, verrà e non tarderà. E Paolo stesso ai Romani. La notte è avanzata,
e il giorno è vicino. È noto che il dogma posteriore spostò
indefinitamente la speranza di questo avvento divino ma i cristiani di allora
l'aspettavano per la loro generazione. Paolo nella prima ai Tessalonicesi così
dice: Noi viventi siamo riserbati sino alla venuta del Signore. E gli
oppressi, i conculcati, i disprezzati, si estasiavano al prossimo
adempimento della dolce promessa. Ma quando, quando tornerà il liberatore, a
sollevare gli umili, a punire gli empi ? Quando avrete veduto l'abbominio della
desolazione, detta dal profeta Daniele, posta dove non si conviene rispondevano gli evangelii {Marc.).
In quei giorni vi sarà afflizione tale,
qual mai non fu dal principio della creazione delle cose finora, ed anche
mai non sarà! E se il Signore non avesse abbreviati quei giorni, ninna
carne scamperebbe; ma per gli eletti suoi, il Signore li ha
abbreviati Allora se alcuno vi dice: Ecco qua Cristo, ovvero:
Eccolo là, noi crediate Ma in quei giorni, dopo quell'afflizione,
il sole oscurerà, la luna non darà più il suo splendore. E le stelle dal
cielo cadranno, e le potenze nei cieli saranno scrollate. E allora gii uomini
vedranno il Figliuolo dell'uomo venir dalle nuvole, con gran potenza e
gloria. Così l'idea del prossimo ritorno di Cristo era congiunta con quella
della fine del mondo, cui doveva far seguito la rinnovazione delle
cose, e la rigenerata umanità. Cristo stesso indicando i superbi palagi
di Gerusalemme aveva detto: Vedi
tu questi grandi edifici ? Ei non sarà lasciata pietra sopra pietra. E
Griovanni aveva annunziato :. Figliuoli è l'ultima ora, (Giov.), e Pietro: È prossima la fine delle cose. È
prossima? ma non era r età di Nerone 1' abbominio della desolazione di
cui aveva parlato il profeta ? ^° E non aveva promesso il Signore,
che sarebbero brevi quei giorni, perchè altrimenti niuno si salverebbe ? E dopo
la distruzione, il rinnovamento: dopo le ingiustizie secolari, 1' eguaglianza
e la pace ! E il recente convertito trovava nel fondo oscuro della sua
coscienza le reliquie del paganesimo, che vi persistevano tenaci: dunque,
pensava, lo stoicismo non s'ingannava, e pure attraverso il mondo
nostro era penetrato un raggio del vero: era penetrato per gli oracoli
delle Sibille, per le predizioni etrusche, per le dottrine degli stoici: tutti
annunziavano la fine delle cose e la novella progenie umana; tutti annunziavano
il prossimo regno del Sole, cioè del fuoco, che rigenererebbe l'
universo, e Vergilio stesso lo aveva cantato {Ed.). Ma sopratutto lo
stoicismo pareva dare a queste anime turbate il cupo consiglio, lo stoicismo,
che essi sostanzialmente non distinguevano dal Cristianesimo per il suo
contenuto morale, e che come contenuto sociale aveva le stesse
aspettazioni di rinnovamento umano. Or lo stoicismo predicava
l'ecp^ros/V, combustione cosmica, come fine del mondo, e principio della
nuova era umana. Per alcuni stoici questa combustione cosmica do- Nerone
era veramente per i cristiani l'Anticristo, la bestia nera {-o OY,piov lo
chiama V Apocalisse), l'uomo del peccato, il figliuolo della perdizione,
di cui parla la II di Paolo ai Tessalonicesi. Il suo regno era dunque annunzio
dell' imminente regno di Dio (v. la citata lettera di Paolo, cap. II);
cfr. Renan, S. Paul, L' àvOpiD-o; T-r,v àv&[j.[a; è
personificazione della potenza mondana, che deve rivelarsi con impeto
prima della fine del mondo; cfr. Ferrar, The Life and Work of St.
Paul, Sulla genuinità della Seconda ai Tessalonicesi, V. Weizsàcker,
Zeilschr. f. iciss. TlievL; Briickner, Chronol. Reihenfolge, veva essere
preceduta dal diluvio, secondo l'idea antica di Eraclito (v. il framm.
presso Clemente, Strom.). Tale è pure l' idea di Seneca, nel quale è così
ardente il desiderio di rinnovamento, che alcune parole di lui
sembrano uscite dalla bocca di un apostolo [Nat. Qw.). Anch' egli cupamente
anìiunzia: Non tarderà molto la
distruzione ! E come il vecchio Eraclito, e dietro di Ini le
scuole stoiche, simboleggiando nel fuoco l'anima divina dell' universo,
aveva detto (presso Ippolito): il
fuoco tutto assalendo giudicherà ed invaderà, così nel dogma cristiano si
assegnò all'incendio del mondo l'ufficio di purificazione e giudizio finale.
Gli antichi profeti d'Israele erano t\itti pieni di fremiti sdegnosi, di
ansiose aspettazioni dell' ora punitrice. Neil' anima di Isaia pare
accogliersi tutta la protesta dei miseri, l'onta per la dominazione
assira, l'odio per chi procurava la rovina al popolo. Egli scatta e
minaccia: Voi sarete come una
quercia di cui son cascate le foglie, come un giardino senz' acqua. Il
forte diventerà stoppa, l'opera sua favilla; l'una e l'altra saranno arse
insieme: non vi sarà niuno che spenga il fuoco (I). Questi fremiti sdegnosi si
risentiranno più tardi nell'Apocalisse cristiana. E l'idea della combustione
del mondo fu pur congiunta, nel dogma cristiano, a quella del secondo
avvento di Cristo: I cieli e la terra
del tempo presente per la medesima parola son riposti, giacché sono
riserbati al fuoco, nel giorno del giudizio e della perdizione degli
empi. Or quest'unica cosa non vi sia celata, diletti, che per il Signore
un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno. Il Signore non
ritarda, come alcuni reputano, la sua promessa, anzi è paziente verso di
noi, non volendo che alcuni periscano, ma che tutti vengano a penitenza. E il
giorno del Signore verrà come un ladro di notte; in quello i cieli
passeranno rapidamente, gli elementi divampati si dissolveranno; la terra
e le opere che sono in essa, saranno arse. Poiché tutte queste cose hanno da
dissolversi, quali vi conviene essere in sante conversazioni e pietà,
aspettando e affrettandovi all' av venirti ento del giorno di Dio, nel
quale i cieli infuocati si dissolveranno, gli elementi infiammati si
distruggeranno ! (Così la così detta Petri, V. anche Cai-m. sibyll.).E
certamente, questi apostoli della dottrina avranno fatto ogni sforzo
per provare che il fuoco era divino, non umano, e per esortare alla calma
e all'aspettazione fidente di Dio. Questo risulta dalle parole che
abbiamo citato, anzi risulta da tutta intera la letteratura apostolica,
che è piena di consigli miti. Ma risulta altresì l'impazienza di
alcuni. Gettate una dottrina come questa, dell'imminente fuoco,
punitore di tutti i gaudenti della terra, in mezzo ad una turba di
schiavi, di gladiatori, di oppressi; e voi vedrete a tale annunzio in
diversa guisa manifestarsi r animo di ognuno, altri raccogliersi nelle
trepidanze angosciose, altri, i più violenti, i tristi per natura,
correre a sfogare le ultime agognate vendette. Rotti i vincoli e i freni
umani, erompe l'animo dei tristi a soddisfare con facile ardire le passioni
prima represse o celate. Le vendette, le violenze e il saccheggio sono
le forme consuete cui irrompono, in tal condizione di spiriti, le turbe
forsennate. Altri forse, illusi o fanatici, avranno creduto trovare
giustificazione nella stessa parola divina. Cristo stesso aveva detto: io sono venuto a portare il fuoco sopra
la terra (Luca), Essi credevano essere
gli esecutori della divina vendetta, essi dovevano iniziare l'opera
redentrice. Le masse esaltate dal fanatismo sprezzano i consigli della
moderazione e della calma. Fermentano allora in quelle coscienze
commosse tutte le ire e tutti i rancori; perduti ritegni e timori umani e
divini, gli animi si spingono ad ogni eccesso. e Pasotil. 14r; l'lu
quale altra comunità romana in quel tempo potevano essere così vivaci
gl'impulsi all'atto forsennato? Certo, anche gii Ebrei auguravano a Roma
stermioio; ma non aspettavano fiamme vendicatrici per la loro
generazione; nella Corte di Nerone erano bene accetti; in lui non
vedevano l'Anticristo, il mostro, l'uomo del peccato, annunzio del
prossimo regno di Dio. Solo dunque 1' ultimo strato sociale, cui si era
portata la parola dell' eguaglianza e dell'amore, poteva erompere
all' opera distruttrice. QuelT ultimo strato sociale era abbeverato di
odio contro tutto 1' ordine presente. Gli apostoli davano bensì consigli
di obbedienza ai loro padroni; ma dalle loro stesse parole risulta che
alcuni andavan predicando dottrine ben diverse. Si ascolti Paolo a
Timoteo. Tutti i servi che sono sotto il giogo reputino i loro signori
degni di ogni onore, perchè non sieno bestemmiati il nome di Dio e
la dottrina. E quelli che hanno signori fedeli non manchino ai proprii
doveri verso di essi, perchè son fratelli; anzi molto più li servano,
perchè son fedeli diletti e che partecipano del benefiziG^. Insegna
queste cose ed inculcale. /Se alcuno insegna/ diversa dottrina, e
non si attiene alle sane parole del signore Gesù Cristo, e alla dottrina
che è secondo pietà, esso si gonfia senza saper nulla, vaneggiando tra
dispute e logomachie, onde sorgono odi, contese, bestemmie, tristi
sospyetti, conjiitti di uomini viziati di mente e alieni dal vero, che credono
la pietà abbia ad essere un guadagno. Come scruta addentro nelle
latebre dell'anima lo sguardo profondo di Paolo! L' amore universale, che
egli aveva annunziato diventava naturalmente per il popolo pretesa di rivendicazione:
la pietà diventava guadagno. E non pure v' erano quelli che agitavano la
questione dello scuotere il giogo secolare, come indubbiamente risulta
dalle parole or citate di Paolo; ma contro tutta la compagine e l'organizzazione
sociale e l' imjjero stesso si appuntavano gli odii loro. Anzi nel
primitivo dogma era che allora avverrebbe l' incendio del mondo e quindi il
regno della giustizia, (luaiido avvenisse la fine dell' impero. Certo,
in tale forma noi troviamo più tardi il dogma in Tertulliano. Noi preghiamo, egli dice {Apolog.), per 1' impero
e per lo stato romano, noi i quali ben sappiamo che la massima rovina che
sovrasta all'universo intero, il chiudersi dell' èra nostra, che ci
minaccia orrende sciagure, di tanto sarà ritardata di quanto si prolungherà
il romano impero (così pure nel liher ad
Scap ulani). Qui 1' appressarsi del fato estremo è cagione di
trepidanza, come nel mille; nell'epoca neroniana era aspettata con
fervore di desiderio e si accusava Dio della ritardata promessa {Petri).
Molti passi della letteratura apostolica attestano il fermento
degli spiriti e la loro desiosa aspettazione dell'ora finale. A più
eccitarli si facevano perfino correre false apocalissi [li Tessal.). Si spiega
quindi come solo all' epoca neroniana, potè erompere l' impazienza all'
atto forsennato. E che anche nell'epoca neroniana si unissero i due
concetti della fine del mondo e della fine dell' impero, si deduce da
quel che sopra abbiamo visto, che il regno di Dio doveva esser preceduto
dal regno del mostro (11 Tessal.); il mostro era Nerone. Se
dunque la distruzione dell' impero, rauuientaraento dell'Anticristo era il
principio della divina giustizia, si richiederà, credo, una volontà ben salda
per negare ancora che questi poveri fanatici, forse indotti da
eccitamenti malvagi, abbiali voluto farla finita con r impero e con Roma.
11 fuoco, il fuoco devastatore avrebbe posto fine all'abbominio e
rigenerata l'umanità neir innocenza. Come la potenza della luce era preceduta
da quella delle tenebre, e il regno di Dio da quello del mostro, cosi il
fuoco divino doveva esser preceduto dal fuoco umano, che avrebbe
annientata la sede stessa dell' impero." Ed ora, dopo aver
esaminato quali passioni fremevano nel cuore, quali dottrine esaltavano le
menti di una parte di questa comunità cristiana, torniamo alla
narrazione dell'incendio. Di tante centinaia di soldati e servi incendiari, è
possibile che nessuno fosse riconosciuto ? Non è possibile, che anzi si
sapeva che erano i servi del cubicolo imperiese e i soldati del pretorio.
E quando furono riconosciuti ed arrestati, perchè non avrebbero addotto
1' ordine di Nerone ? E Nerone si sarebbe messo, dinanzi al popolo, allo
sbaraglio di questa terribile prova ? Invece i primi arrestati confessarono.
S' iniziò il processo primamente, dice
Tacito {Ann.), contro i rei confessi; dipoi moltissimi altri, per denunzia di
essi, non furono tanto convinti di avere appiccato il fuoco, quanto di
odiare il genere umano (o secondo altri: di essere odiati !). Non
come prova, ma come elemento di fatto che può avere relazione col nostro
argomento, crediamo far menzione di una curiosa scoperta fatta a Pompei.
Sopra una muraglia, tracciate col carbone, si scopersero alcune lettere.
Il Kiessling {Bull. Ist. corr. ardi.) che primo, col Miuervini e
col Fiorelli vide il documento, credette poter leggere ignì gavdb
CHRISTIANE. Le lettere al contatto dell' aria si dileguarono. Due anni
dopo il De Rossi non ne vide più nulla e dovette contentarsi di un fac-simile
tracciato dal Minervini. Sul fac-simile credette dover leggere: avdi
cukistianos; e con altri residui di lettere sparsi qua e là per le
muraglie, tentò tutta una ricostruzione, a dir vero un po' romantica, contro la
quale qualche buona osservazione fece i' Aubé, lILst. des pers. I, pag.
418. •'Nell'interpretazione di questo passo troppe volte la passione
ha fatto velo all'intelligenza. Riportiamo tutto il passo, ed esaminiamo
le singole espressioni, avvalendoci, in parte, delle prove già apportate
da H. Schiller, in Commentationes in honorem Th. Mommseni, per quanto noi
non vogliamo giungere alle esagerate sue conclusioni. La reità
dunque fu provata solo in parte per la prima accusa; j)er tutti fu
provata la seconda accusa, quella Ergo, aholrndo rumori Nero subdidit
reos et quaesitiftsimis poenis affecit quos per flagitia invisos, vulgus
christianos appellabat. Auctor noìinnis e'ms Christus, ecc. Igitur
primiim. correpti qui fatebantur; deinde indicio eorum mnltitudo
ingens, haud perinde in crimine incenda quam odio humani generis
convicti sunt. Il subdidit reos si
vori-ebbe spiegare sostituì al vero colpevole
i falsi. Rimandiamo, per il valore della frase, all' app. Ili di qnesto
studio. Passiamo al primum correpti qui fatebantur. Corripere denota l' inizio
della procedura penale: cfr. Ann. II, 28; III, 49, 66; IV, 19, 66; VI,
40; XII, 42. Se la procedura penale fu iniziata, dovè iniziarsi per il delitto
di cui si tratta, il crimen incenda; non potè essere per una causa
di religione, che del resto si sarebbe dovuto svolgere dinanzi al
Senato (cfr. Tac. Ann.; Suet. Tib.: Dione; Suet. Claudio). Nerone era
scelleratissimo, ma non era sciocco; e
una sciocchezza sarebbe stato accusare per il delitto d' incendio, e fare un
processo di religione. Pretendere che Nerone abbia fatto questo,
significa supporre senza prove che egli abbia introdotto nella legislazione
penale un delitto nuovo; e ciò proprio all'indomani dell'assoluzione di
Paolo, il quale aveva potuto per due anni predicare Cristo con ogni
franchezza e senza divieto {Atti upost.). Furono dunque primamente processati d'incendio
quelli che via via confessavano. Confessavano che cosa ? Quando fatevi o
confiteri sono adoperati assolutamente in relazione a un processo significano: dichiararsi
reo di quello per cui si è accusati; cfr. Ili, 67; XI, 1; XI, 35; Cic.: Mil.
15; Lig. 10. Si vuole invece supplire se Christianos esse. Ma per tal
significato il verbo di Tacito sarebbe stato profiteri; cfr. Ilist, III, 51;
III, 54; IV, 10; IV, 40. Ann. I, 81; II, 10, 42. K dovendo giudicare
dell' incendio era assurdo il chiedere la confessione di altra colpa, dì
cui era competente a decidere solo il Senato. Altra colpa ? Si può proprio
seriamente affermare che si ritenesse allora dai Romani colpa il
professare una religione qualsiasi ? In ogni altro caso, trattandosi di
una accusa determinata, quella dell' incendio, a niuno mai sarebbe venuto
in mente che la confessione degli accusati potesse intendersi di altro
che di incendio; e il pre sentare tale ipotesi sarebbe parsa tale
enormità, qual sarebbe quella ad esempio di colui che nel passo di
Cicerone, Mil. 15 ni,si vidisset
posse absolvi eum. qui fateretur volesse
intendere il fateretur in un significato diverso da quello di essere reo confesso di omicidio. Ma la
passione spiega qualsiasi aberrazione. — Segue indicio eorum. Indicium è
la denuncia se più generica. E cioè: i primi, gli esecutori
materiali, confessarono e denunciarono i compagni (indicio eorum): greta
o la rivelazione fatta da accusati o da colpevoli contro altri colpevoli
(Ann.). E poiché l'accusa qui è delV incendio, anche indicium si
riferisce a tale accusa. Nella lettera di Plinio, X, 96 1' accusa è
invece deire.<fser cristiani; e index quindi significa denunziatore dei Cristiani e per questo anche nella medesima
lettera cuìifitentes vale quelli
che si confessavano cristiani : l'accusa era proprio questa! Si è
obiettato che i Cristiani non potevano denunziare i loro fratelli. Il che può
significare che questi non erano veri Cristiani, che erano povero volgo
ignai-o, aggregatosi al partito delle novità per ispirito di rivolta; ma
non ci potrà indurre a sostituire una interpretazione falsa ad una
vera. Anche i Cristiani di Bitinia, interrogati da Plinio, non potevano
maledire Cristo, sconfessare la fede e venerare l'immagine di Traiano; eppure omnes et imaginem. tiiam deorumque mnulacra
venerati suni et Christo male dixenmt (Plinio). — Segue: haud, jìprinde in crimine incenda quam
odio Immani generis convicti sunt*. Haud perinde quam, {haud proinde
quam), non perinde quam significano: non tanto..., quanto; cfr. Ann. La seconda cosa si afferma dunque in
proporzioni maggiori della prima, ma tutte e due si affermano. E cioè,
nel caso nostro, la prova della partecipazione all' incendio si ebbe solo
per alcuni; tutti furono provati rei {convicti sunt) deW odio Immani
generis. Provati rei, da chi? mi si è detto. Dai ministri di Nerone. Non è
questo il significato del convicti sunt, che non denota la dichiarazione di
reità fatta da un giudice, bensi la prova inconfutabile e che non può
essere disconosciuta dallo stesso accusato. Qualcuno ha suggerito invece
del convicti coniuncti del Mediceo. Il coniuncti è stato forse indotto ilal copista
a cagione di quell' in crimine, che pareva non convenirsi alla
costruzione del convicti. E ad ogni modo non potrebbe significare se non: furono congiunti non tanto nell'accusa
d'incendio quanto. Il che tornerebbe a quel che dico io, indicherebbe cioè che
1' accusa di incendio non fu abbandonata: ma poiché non tutti furono trovati colpevoli
d' incendio, furono tutti coinvolti nell'accusa di odio contro il genere
umano. Debbo pure avvertire che le parole di Tacito [im): miseratio
oriebatur, tamquam non utilitate pnblica sed in saevifiam unius
absumerentur non significano già che Tacito credesse innocenti i Cristiani, e
non sono quindi in contraddizione con tutto ciò che precede Tacito non
dice nam, absumebantur; dice: nasceva compassione nel popolo quasiché
{tamquam) i Cristiani si facessero perire non per utilità pubblica, ma per sod
allora non si volle sapere altro, si fece l'arresto in massa dei
cristiani, e ninno di essi smenti la sua fede; solo questi ultimi-
dichiararono non aver preso parte all'incendio, come i primi; ma era lo
stesso, erano tutti rei di queir odio umano che aveva armato le mani
di fiaccole: furono tutti condannati. Come si vede. Tacito
prese questi particolari da una terza fonte, e credette doverli
registrare come fatti accertati, pure cercando di smorzare le tinte e
adoperare espressioni un poco oscure, per non nuocere all'intento suo di
gettare qualche sospetto su Nerone. Il che si rivela pure dalle
parole seguenti: nasceva compassione
(per i Cristiani condannati ai supplidisfare la crudeltà di un solo, il che si
riferisce alle voci che correvano nel popolo accusafcrici di Nerone.
Quando il popolo vide tra i condannati i servi di Nerone e i soldati del
pretorio, non potè non sospettare che essi avessero agito per ordine
dell'Imperatore. Tacito parla dei Cristiani come colpevoli, o convinti o
confessi, ma distinguendo evidentemente gli esecutori materiali da colui
che poteva aver dato 1' ordine, riferisce non senza qualche compiacimento
le voci popolari accusatrici di Nerone. Cosi in Ann.,gli fa volgere da
Subrio Flavio l'accusa di incendiai'iìis. In principio, egli presenta due
sole ipotesi: forte an dolo principis, parole alle quali si è attribuito
il senso che Tacito stesso escludesse ogni sospetto a riguardo dei Cristiani.
Ciò non è esatto. Bisogna distinguere gli esecutori materiali da colui
che poteva aver dato l' ordine. Quanto ai primi egli non ha alcun dubbio,
poiché li chiama sontes et novissima exempla meì'itos, parole che mal s'
intenderebbero, se non si riferissero ad un determinato ed unico delitto.
Quanto al secondo, egli esprime la convinzione che 1' ordine partisse da
Nerone. Convinzione che egli derivò forse dalle Storie Cimlt di Plinio, e
che ebbe del resto origine dal fatto che tra gli esecutori materiali
furono veramente gli schiavi di Nerone: ma appunto tra questi schiavi
erano numerosi i cristiani. Tacito riferisce pur l'ipotesi del caso: ma
la sua narrazione esclude l'ipotesi. Non altrimenti, ad esempio, ei
dichiara non potersi incolpare Tiberio per la morte di Druso, eppur getta su
lui anche per questo qualche ombra. Non vuol pronunziarsi se
Agricola sia morto di veleno per opera di Domiziano, ed ogni tanto
l' insinua. zii), benché si trattasse di uomini colpevoli e
meritevoli di ogni più inaudita pena esemplare. Ma perchè avrebbero confessato i primi
cristiani? Perchè avrebbero denunciato i compagni ? E qui,
oltre che può tornare in campo la ragione già detta del necessario
riconoscimento di alcuni, si può volgere la mente anche ad altro.
Neil' ardore del fanatismo, essi avranno creduto immediato il
miracolo. Iddio, Iddio ora tornerebbe, egli che aveva promesso di tornare
dopo la desolazione estrema: non finirebbe la loro vita prima che Iddio
tornasse. E confessavano, gloriosi, e denunciavano, per far partecipi alla
gloria. Immaginate questi esaltati a spiegare l'opera loro, la fede loro: l'eguaglianza
dei diritti umani voluta da Dio, la distruzione di tutto, necessaria per
1' avvento suo. I Romani primamente allora s' accorsero che quella fede aveva
un contenuto sociale, ed era un pericolo per lo Stato. E la
qualificarono dottrina di odio contro il genere umano. Era invece la
rivendicazione degli oppressi e degli schiavi: ma questi con erano
uomini. Ma c'è ancora di più: anche dopo, i cristiani non cessarono
di sperare ancora quelle fiamme vendicatrici, e di auspicarne il ritorno.
Alcuni anni dopo, il bagliore sinistro di quelle fiamme accende la
fantasia allo scrittore deìV Apocalisse. Si riconosce oramai da tutti,
anche dagli scrittori cattolici, che in questa, sotto il nome di
Babilonia, si cela quello di Roma, Ora ascoltate il grido di maledizione
e di vendetta su Roma, baccanale di Ripugna il pensiero che i livori
delle fazioni nella nascente chiesa, quei livori dei quali abbiamo visto
muovere lagnanza Paolo, li spingessero alle reciproche accuse. Clemente
Rom. (ad Cor.) dice che le sciagure dei Cristiani furono effetto della
gelosia (St^/ Cr,)vOv). Anche l'Arnold, Die neronische
Christenverfolgung, Leipz. crede che le denunzie contro i Cristiani sieno
state fatte da Cristiani dissidenti. Ogni turpitudine, che scaglia
il profeta dell' Apocalisse: Poi udii un' altra voce che diceva: uscite da
essa, o popolo, mio, acciocché non siate partecipi dei suoi peccati, e
non riceviate delle sue piaghe. I suoi peccati sono giunti l'uno dietro
all'altro insiuo al cielo, e Iddio si è ricordato delle sue iniquità.
Rendetele il cambio di quello che essa vi ha fatto; anzi rendetele
secondo le sue opere, al doppio: nella coppa nella quale ella ha
mesciuto a voi, mescetele il doppio. Quanto ella si è glorificata ed. ha
lu.<suriato, tanto datele tormento e cordoglio: perciocché ella dice
nel cuor suo: io seggo regina e non sono vedova, e non vedrò giaminai
duolo. Perciò in uno stesso giorno verranno le sue piaghe; morte e cordoglio e fame: e sarà arsa col
fuoco; perciocché possente è il Signore Iddio, il quale la giudicherà. E i re
della terra, i quali fornicavano e lussuriavano con lei, la piangeranno, o
faranno cordoglio di lei, quando vedranno il fumo del suo incendio e
così di seguito che è un sol fremito di protesta, un sol grido di
vendetta contro la meretrice ebbra
del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù. E nel capitolo seguente
si pregusta con voluttà frenetica la gioia della sua rovina; Allelluia! la salute e la potenza e la gloria
e 1' onore al Signore Iddio nostro. Perciocché veraci e giusti sono i
suoi giudizii; e infatti egli ha giudicato la gran meretrice che ha corrotto la
terra con la sua fornicazione, e ha vendicato il sangue dei servi suoi,
dalla mano di lei.... Alleluia! e il, fumo di essa sale nei secoli
dei secoli. Come si vede, appena pochi anni dopo l'incendio,
si tornava ai folli eccitamenti. Ed il sogno di Roma divenuta preda alle
fiamme turbò anche in seguito le menti cristiane. In quella strana e
lugubre miscela di fantasie giudaico-cristiane, non senza qualche
elemento pagano, che é conosciuta sotto il nome di Oracoli sil' incendio di roma e i primi
cristiani billini esso ritorna con
cupa insistenza: VII, 113-114; Vili, 37-47; XII, 32-40. Verrà dall'alto anche su te, superba
Roma, la celeste sciagura: tu piegherai prima la cervice, tu sarai
distrutta, il fuoco ti consumerà tutta, piegata sulle fondamenta; la tua
ricchezza perirà; il tuo suolo sarà occupato dai lupi e dalle volpi;
sarai allora tutta deserta, come se giammai fossi stata. Dove sarà
allora il tuo Palladio? Qual Dio ti salverà ? Un Dio d'oro, di pietra o di
bronzo? Dove saranno allora i decreti del tuo Senato? Dove quelli di Rea
o di Crono? E la schiatta di Giove e di tutti gli Dei che tu adoravi? Per
quanto la punizione qui sia immaginata come celeste, non è possibile non
sentirvi la voce di una umana vendetta. Quando potrò io vedere tal giorno? dice poco dopo il poeta. E pure il più
antico dei poeti latini cristiani, il pio Commodiano, ha il medesimo voto
{i'arm. ap.). Dov'è più la dottrina della mansuetudine e del perdono? La
disposizione d'animo dei primi cristiani era ben altra. Il loro grido di
vendetta sembra, come si vede dagli esempii apportati, quasi echeggiare
pure in tempi più lontani. A noi
basterebbe, dice Tertulliauo {Apol. 37), se volessimo vendicarci, una sola
notte e qualche fiaccola. E poi tosto soggiunge: Ma non sia che con umano fuoco si
vendichi la divina setta. Infine, notiamo che attribuendo a queste prime
turbe cristiane, fanatiche ed avide delle loro rivendi Non vorrei che tali
parole venissero tratte da critici benigni a peggior sentenza eh' io non
tenni. Nelle parole di Tertulliano echeggia un grido di vendetta, cui tosto
segue un consiglio di moderazione, non di perdono. La vendetta, la punizione
si aspetta ancora, si aspetta dal fuoco divino. Che cosa sia questo fuoco
divino, spiegano a lungo gli apologisti, ad- cazioni, l' incendio, le
particolarità di esso si spiegano tutte, che invece abbiamo mostrato
inesplicabili, secondo la tradizione comune. Anzi dalle notizie che abbiamo, ci
è dato discernere perfino il piano della sciagurata impresa. Anzitutto, si
proiittò della lontananza di Nerone da Roma; la vigilanza era allora
diminuita; i principali cittadini, le cui case erano sacrate al
fuoco devastatore, avevano seguito la corte imperiale. Tra i pretoriani
ed i servi di Cesare erano numerosi i cristiani (Paolo, Ai FilijJ.): si stabilì
che fossero questi ad appiccare 1' incendio e ad impedire
l'estinzione: così tutti avrebbero creduto trattarsi di ordini imperiali
e ninno avrebbe osato opporsi. Richiesti perchè scagliassero le faci,
risponderebbero che agivano per istigazione altrui, senza dir di chi
(Tacesse sihi mictorem vociferahantur); tutti avrebbero interpretato che essi
avevano il comando da Cesare e il divieto di nominarlo. Tutti i portici,
le passeggiate, le opere d'arte, che avevano allietatogli czii dei
potenti, i templi ove si adoravano gì' idoli della corruzione e
della menzogna, tutti andrebbero distrutti. Il Trastevere, ove era stata
primamente accolta l' idea redentrice, le case dell' umile plebe, sarebbero
salve. Si comincerebbe dai magazzini di materie infiammabili presso
il Palatino: la prima a bruciare sarebbe la casa del mostro. Questo fu il
piano attuato e riuscito. Finito il primo incendio, si doveva riappiccare
l'incendio alla casa del secondo mostro dell'impero, il ministro delle
turpitudini imperiali, Tigellino. E di là nuovamente proruppero le fiamme
devastatrici. Per questi fanatici illusi, Nerone, nel
parossismo della ferocia, escogitò incredibili tormenti. Li fé'
ero- ducendo i fulmini e i vulcani (Miuucio; Tertul. Apol.): ina la
distinzione sarà stata fatta sempre, o meglio ancora, sarà stata fatta
mai dalle infime turbe ? cifiggere, o sbranare dai cani, o dannare alle
fiamme. Grli orti suoi furono illuminati da quelle fiaccole umane,
in mezzo alle grida selvagge della turba briaca e plaudente. Ma da quelle
fiaccole spirò più gagliardo il soffio della idea cristiana. D' allora in
poi quella idea, inoculata nel sangue della umanità, ne resse le sorti.
Tutta la trama della storia umana si svolse intorno ad essa. Quella
idea fu gloria e bassezza, eroismo e viltà, amore e ferocia. Per essa
quanto altro sangue fu sparso, quante altre volte le turbe furono
trascinate ad impeti forsennati! Pure, una volta, tornò a risuonare tra gli
uomini la parola buona, ed aleggiò sugli spiriti l'amore, e sorrise alle
genti affaticate la pietà del Francescano. Quella volta Cristo re^nò sulla
terra. Ludis quos prò aeternitate imperii susceptos appellavi Maxiinos
voluìt ex utroqiie ordine et sexit plerique ludicras partes sustinuerunt.
Nntissimus eques romanus elephanto supersedens per catadromum decucurrit.
Inducta est et Afranii togata qiiae Incendium inscribitur: concessumque
ut scenici ardentis domus suppellectilem diriperentj ac sihi haberent.
Sparsa et popido missilla omnium rerum per omnes dies; singida (/uot/die
millia avium cuiusque generis^ multiplex 2)(^nus^ tesstrae frmnentarlae^
vestis, auruvi, argentum, gemmae, mn.rgaritae. tabulae pictae
mancipia, iumenta, atque etiam maìistietae ferae; novissime naves, insulae,
agri. Hos ludos spectavit e proscenii fastigio. Così Snetonio in Nero. In quale occasione
celebra Nerone questi ludi Maximiì Suetouio in questa parte dell' opera
sua enumera disordinatamente gli spettacoli dati da Nerone. Quello qui
accennato è stato identificato con quello di cui fa menzione Cassio
Dione, o meglio il suo compendi atore Xifilino, in LXI, 17 e 18. La
somiglianza infatti è grande: i nobili romani che si prestarono a far da attori
e giocatori, 1' elefante funambolo che portava sul dorso un uomo; i
doni gettati al popolo. Di più Cassio Dione rammenta le commedie e tragedie
rappresentate. Chiama la festa |j.£7'.atT| 7.7.1 TtrAnizlzozc/.rq: ma
l'unione dei due aggettivi parmi che mostri che [j.sYiatYj è una
semplice qualifica data dall' autore alla festa, non è il nome proprio
di essa, e non risponde perciò al Maximos di Suetonio. Così pure gli
altri punti di simiglianza noii souo co^i caratteristici clie ci facciano
concludere alla identità delle due feste. Elefanti camminanti sulla
fune {per catadromum) si vedevano in tali feste (cfr. Siiet. Galb.);
senatori e cavalieri lottanti nell' arena se ne videro spesso sotto
Nerone (cfr. Suet. Kero^ 12); donazioni al popolo Nerone ne fece immense, ne
fece, secondo Tacito {Hist.) per più di due miliardi di sesterzi. Se
dunque le somiglianze sono grandi, non sono tali che ci obblighino a
credere all' identità tra i giuochi rammentati nel passo di Suetonio e
quelli rammentati nel passo di Dione. Il passo di Dione parla di
festività celebrate in onore della madre. Corrispondono queste ai
circensi, rammentati da Tacito, in Ann. E possibile che a tali
circensi alluda Suetonio nelle parole immediatamente precedenti a quelle da noi
riportate: circensihus loca equitl secreta a ceteris trihuit; di essi
infatti dice Tacito che furono liaud promiscuo speciacido. Noi crediamo
che il passo di Suetonio riguardi i ludi celebrati dopo V incendio 1 e
cioè, probabilmente, celebrati dopo È pur da notare che Cassio Dione
parlando dei giuoclii detti Neronéi, li dice istituiti da Nerone per la
incolumità e diuturnità del suo regno. Ma probabilmente confonde tali
giuochi con quelli prò aeternitate impern, secondocliè già da gran tempo
fu riconosciuto (Pauly, lì. Encycì. s. v. Nero). I giuochi Neronéi furono gare
quinquennali di arte e di foiza, istituite sul modello dei giuochi greci;
cfr. Tac. Ann.; Suetonio, Nero. che Roma era stata già in gran parte
riedificata, per propiziarla agli dei. Saetonio dice che Nerone volle
si chiamassero ludi maximi, e cioè, parmi, volle sostituire al
positivo magni il superlativo maxìmi. Ora i ludi magni si celebravano in
occasione di grandi [jericoli, da cui Roma fosse salva; in occasione cioè
di guerre rischiose (Liv. 36, 2) o di tumulti (LIVIO). Si potrebbe
pensare che 1' adulazione avesse suggerito tale idea, adulazione a
Nerone, che si diceva scampato dalle trame di Agrippina. Ma i ludi,
menzionati da Suetonio, furono 2^'''^ aeternitate imperii; e mi par
che questo ci porti ben lontano dall' ipotesi che si volesse
alludere al preteso pericolo, da cui Nerone era scampato; e i ludi menzionati
da Dione neppur furono per lo scampato pericolo di Nerone, ma anzi furono
in onore della madre. Qual sarà dunque il fatto, durante il regno
di Nerone, che metta in dubbio l' esistenza stessa dell' impero? Io credo
che sia 1' incendio; e ciò crederei pure, quando non fosse molto
suggestiva quella rappresentazione della togata di Afranio intitolata
Incendinm. Che in questi ludi solenni, destinati ad
auspicare, dopo la riedificazione di Roma, l'eternità dell'impero,
sieno stati celebrati alcuni degli spettacoli che avevano più stupito i romani
durante i giuochi circensi fatti dopo la morte di Agri])pina, quale ad
esempio quello dell' elefante funambolo, non può, credo, far
meraviglia ad alcuno. Qualche altro indizio che andremo ora raccogliendo
conferma la nostra ipotesi circa l'occasione e lo scopo di questi ludi
maxìmi. Nerone, verista in arte, volle riprodurre sul teatro la scena
deli' incendio: la casa rappresentata in mezzo alle fiamme (Suet. ardentis
domiis) era probabilmente la casa sua, la domus transitoria che era
bruciata (cfr. Tac., ardente domo). Egli volle che la scena dell'
incendio fosse intera, che gli antori depredassero la casa e si
tenessero la preda: ut scenici ardentis doinus stopellectilem diripeI
ì^eiit ac sihi habevent; cfr. Tao. Ann. ut raptus licentiiis
exercerent. Se il carattere stesso dei ludi maximi deve connetterli con
una grande pubblica calamità, se la rappresentazione dell' Incendium è così
suggestiva per noi, ci si consenta ora di fermarci brevemente su quel
che Suetonio dice, che i ludi furono sUscepti prò aeternitate
imiperii. Nella ricostruzione, che noi tentammo, del processo, noi ponemmo che,
dopo i primi confessi, arrestati in massa i Cristiani, quando s' indagò più
addentro la loro dottrina, e si seppe che essi aspettavano la fine
dell'impero e l'imminente regno di Dio, la dottrina stessa dovè essere
qualificata di odio contro il
genere umano. Questa parte della propaganda era stata certamente svolta
solo nelle predicazioni segrete: quindi il modo misterioso, e per noi
incomprensibile, con cui parla dell' Anticristo e del prossimo regno
di Dio Paolo ai Tessalonicesi, (Tess.). Fin da quando Caligola, con
sacrilega follia aveva voluto essere adorato come Dio, era cominciato il
fermento delle comunità cristiane che vedevano nell' imperatore
divinizzato l' immagine vera dell'Anticristo, ed aspettavano quindi
imminente la fine dell' impero ed il trionfo loro. A calmare tale fermento
è appunto diretta quella parte della lettera di Paolo. E la dottrina
sopravvisse pure all' eccidio; giacche ancora in Tertulliano {Apolog.; Ad
Scap.) coincidono i due termini; la fine dell'impero e l'inizio del
nuovo regno nel mondo. Se tal dottrina sentivano spiegare da quei
fanatici i Romani, è naturale che la qualificassero dottrina di odio
contro il genere umano, e cioè contro la civiltà romana, contro l' impero
romano, ' ed è pur naturale che, riedificata Roma, auspicassero l'eternità
dell'impero. Mi si consenta un' altra osservazione. Non fra
le sole turbe impazienti e insoddisfatte era 1' aspettazione della
prossima fine dell' impero. Era altresì negli alti gradi sociali, fra i
filosofi, specialmente stoici, fra gli aristocratici di antica tempra. La
congiura pisoniana mosse anzi, secondo Tacito, da questo principio:
(Ann. XV, 50) cium scelera princlpis et tìnem adesse imperii
deligendumque qui fessis rebus succurreret inter se aut inter amicos
iaciunt. Dopo tal congiura gran parte della città doveva essere già
riedificata; ed è naturale quindi che allora si celebrassero i ludi
maximi. E poiché i due gravi avvenimenti ultimi avevan dato la prova
di tante volontà decise ad aspettar la fine dell'impero, era
naturale pure che all' eternità dell' impero si dedicassero i ludi. Il racconto
dei quali doveva quindi cadere in una delle parti perdute di Tacito, dopo
il cap. 35 del lib. XVI degli Annali. Tutto questo, si dirà, è una
ricostruzione ipotetica. Ma v' è pure un documento che può dare a tale
ricostruzione non lieve conferma, documento che, ben Tac. Ann. odio Immani
generis. Genus humanian in Tacito ed in altri scrittori vfvle egli
abitanti dell'impero; cfr. Coen, Persecuz. neron. pag. 69 dell' estr. Un
mio illustre maestro, il prof. A. Ohiappelli {in Atti della R. Accademia
di Scienze Morali e Politiche di Napoli) sostiene che odiiim humani
generis debba essere interpretato per misantropia. Che questo sia il significato
della frase, quando sia adoperato in senso filosofico, niuno nega. Ma il
nostro caso è diverso. La rinunzia ai piaceri, la vita ritirata e
sdegnosa, la misantropia insomma, o fosse cristiana, come forse per Pomponia
Grecina (Ami.), o fosse stoica, come per Rubellio Plauto {Ann.), Trasea
Peto {Ann.) e tanti altri, desta l'ammirazione di Tacito, gli commuove di
reverenza il C. Pascal. 11 che non riguardi i ludi
maccimi, riguarda però cerimonie pur dedicate all' eternità dell' impero.
Questo documento è un frammento degli Atti degli Arvali, che si riferisce
all'anno 66 d. Cr. [Corp. Inscr. Lat.). Vi si notano i sagrifizii
stabiliti dagli Arvaii ob detecta nefariorum Consilia, e tra gli
altri quello aeternitati ìinperii (Un. 6). Così pure alla linea 21:
reddito sacrificio, quod fratves Arvcdes voverant oh detecta
nefariorum Consilia. Quali erano questi nefariorum Consilia? Qu&Ui dei
congiurati di Pisone, giacché anch' essi, come abbiamo visto, aspettavano
la fine dell' impero; ma pure quelli degl' incendiarli; giacché il nesso
tra le cerimonie dedicate all' eternità dell' impero e l' incendio è stabilita
dal fatto, che durante quelle cerimonie si rappresentò la fabula
Incendium. ' Né bisogna dimenticare un altro fatto. Rimangono gli Atti
degli Arvali del regno di Nerone, dall' anno 55 in poi (C. I. L.); salvo
quelli dell' anno 64, l' anno dell' incendio, e del seguente. Ora gli Atti del
66 sono i primi nei quali alla serie di tutti gli altri voti, fatti alle
altre divinità si aggiungono quelli all' Aeternitas imiMrii.
Claudite rivos. Spero di non occuparmi più né dell' incendio né di
Nerone. Non fu forse vana questa lizza d' ingegni, che ebbe origine, su
tale speciale que petto, non è da lui quaUficata fìagitmm, uon
odium hìimoni generis. Non si possono dunque spiegare né i fìagitia ne V
odùim con ia misantropia. Neil' un caso e nell'altro deve
trattarsi, credo io, di ben altro. > È qui importante il
notare che per Nerone sono distinti i vota prò aeternìtate imperii dai
vota prò salute principis, che sono menzionati altrove (C. I. L. VI,
parte I, pag. 493, lin. 2, 3 e 8: Tac. Ann. XVI, 22; Suet. NerOy 46). Per
Domisciano invece le cestione, dal romanzo del Sienkiewiecz; lizza nella
quale spiegarono armi poderose di critica e di dottrina uomini quali il
Negri, il Coen, il Ramorino, il Chiappelli, il Semeria, il Boissier; né dovrò
tacere i lavori, cosi corretti nella forma polemica, del Mapelli, dell'
Abbatescianni e del Profumo; ne quello, per più rispetti notevole, del
Ferrara. * Impulsi non nobili e ambizioncelle presuntuosette e piccine
trassero altri, impreparati, a scritture o invereconde o insensate, ma in
una questione siffatta, nella quale sembra esser così facile l'
erudizione, era naturale aspettarselo. rimonie si
congiunsero (C /. L.). Cosi pure per Settimio Severo (C /. L. II). V. De
Ruggiero, Diz. epigraf.. A Domiziano dunque allude Plinio il Giovane
quando dice a Traiano {Fanegyr. 67): Nuncupare vota et prò
aetei'nitate impeni et prò salute civium, immo prò salute principum
ac pì'oj)ter illos prò aetermtate imperii solebamus. Haec prò imperio
nostro in qiiae sint verba suscepta, ojjerae pretium est adnotare: si bene rem
]}ublicavi, et ex utilitate omnium rexeris: digna vota quae semper
suscìpiantur semperque solvantur. Diversa naturalnjente àdiW aeternitas imperii
è V aeternitas Augusta, titolo che prima fu attribuito solo agli Augusti
morti e consacrati (Boutkowski, Dici), e poi anche agli Augusti viventi; cfr.
Eckhel, Doctr.; Aeternitas imperii non si trova, ch'io sappia, prima di Nerone,
anzi prima dell'anno 66. Si trova poi più tardi, per Domiziano. Settimio
Severo, sulle monete di Caracalla, di Geta, ecc.: cfr. Eckhel. Non lavori
speciali, ma riassunti o giudizii pubblicarono il Vaglieri, il Borsari,
A. Avancini, D. Avancini, il Ricci (Corrado), Thomas, Toatain, MARTINAZZOLI
(vedasi), Dufourcq, GRASSO (vedasi), FABIA (vedasi), Bouvier, Reville, Andresen,
ed altri moltissimi. Molti altri articoli ed opuscoli sbocciarono qua e là
in confutazione del mio: nella maggior parte il fervore dell'intenzione
non corrispose al valore. Chi ne vorrà sapere qualche cosa, potrà leggere
i miei articoli in Vox Urbis; in Cultura, e in Bollett. Filai, class,. Ma,
pur dopo, gli scritti continuarono; e vi fu perfino chi nascondendosi
sotto il nome di Vindex pubblicò un impudente volume. Fortunatamente si tratta
di cosa destituita di ogni valore; e disdice quindi alla dignità
della scienza farne parola. Coen pubblica nell’ “Atene e Roma” un
lungo studio sulla persecuzione neroniana. Crediamo opportuno informare i
lettori della parte che riguarda le obbiezioni mosse alla mia tesi;
e fare infine qualche breve osservazione circa l'ipotesi presentata dal
chiaro autore. Che l'una o l'altra delle opinioni che io mi
provai ad avvalorare di argomenti nel mio opuscolo. L' incendio di Roma e
i Cristiani e stata già addotta da altri, è cosa rimproveratami da più
d'uno. Ma, a dir vero, i lettori del mio opuscolo debbono
riconoscere che io esamino e discuto le sole fonti antiche, da ciascuna
delle quali cerco trarre qualche elemento, che mi giovi poi a
ricostituire in una concezione unica il fatto storico. Il fare una
rassegna, sia pur fugace, delle opinioni e interpretazioni moderne su
ciascun passo, mi pareva lavoro arido, lungo e pressoché vano, e
per giunta, di necessità monco e incompiuto (ad es., il Coen stesso
non fa menzione dello Cliirac, che va molto al di là dell' Havet, Rev.
Socialiste). Fondamento principale alla mia tesi io posi
nella credenza diffusa tra i cristiani del primo secolo, che fosse
imminente l'incendio del mondo decretato da Dio, che dopo tale incendio
verrebbe il regno della giustizia, che la distruzione del mondo presente
coinciderebbe con la distruzione dell' impero romano. Tutta la
letteratura apostolica mostra l'impazienza di alcune fazioni cristiane nell'
aspettare il regno divino. Se c'è ipotesi che esca alla luce fornita di
tutti i numeri delia probabilità, panni proprio questa, che tale
impazienza abbia trascinato le turbe al fanatismo. Di tutto ciò non fanno
quasi parola i miei contraddittori. Xel citare le antiche scritture cristiane,
nelle quali tali dottrine sono contenute, io non ho preteso che
proprio quelle i Cristiani di Roma leggessero. Ho addotto quei passi per
dichiarare qual fosse il dogma dei Cristiani del j^rimo secolo, dogma che
sarà stato spiegato principalmente mediante la predicazione orale,
come del lesfco il Coen stesso riconosce. Altra obbiezione mi muove il chiaro
autore: onde io sappia che, prima del 64, Nerone fosse per i Cristiani r
Anticristo. La seconda di Paolo ai Tessalonicesi, egli argomenta, è scritta,
secondo la data più discreta, nel primo anno dell' impero di Nerone, o anche
prima; dunque i contemporanei non potevano vedere allusione a lui nelle parole
dell'Apostolo. Senonchè nel mio opuscolo io non sostengo che contro
l'imperatore coìne persona si appuntassero gli odii di alcune fazioni
cristiane; bensì come imperatore e adorato con divini onori (Tessal.).
L'imperatore rappresenta l’ordine costituito, che era per quelle
fazioni il regno di Satana; come Roma rappresentava la forza e la potenza
centrale di tal regno. Che ninno degli scrittori pagani (all' infuori
di Tacito Ann.) parli dei Cristiani come colpevoli dell'incendio,
malgrado tutte le accuse volte contro di essi in seguito, io spiegai con
l'ipotesi che r accusa contro Nerone nascesse tra i Pagani stessi,
al vedere tra gì' incendiarli i servi di lui. Il Coen mi obietta: Non consta che l'opinione la quale
faceva Nerone autore dell' incendio sia invalsa in maniera così
definitiva da far cadere in oblìo ogni altra versione. Consta anzi, egli dice,
il contrario, se cinquant' anni dopo Tacito pone ancora l'ipotesi del
caso. Che r opinione prevalesse in modo definitivo, solo dopo molti
anni, credo probabile; ciò non è infirmato dall' accenno che Tacito fa al
caso. Tutta la narrazione che egli fa esclude 1' ipotesi del caso. Tacito
però 1' ha registrata, perchè, com' egli dice, 1' ha trovata in una delle sue
fonti. Ma nessuna fonte poteva contenere tale versione, obietta ancora il
Coen, se fosse vera la ricostruzione eh' io faccio degli avvenimenti.
Perchè nessuna f Una fonte trascurata o non informata di tutti i
particolari narrati da Tacito,^ Suetonio e Dione. — Ed ora, il numero dei
primi Cristiani in Roma. Tacito, Clemente Romano e l'Apocalisse affermano che
erano una gran moltitudine o numero. I primi due, si dice, hanno esagerato;
quanta all' Apocalisse si elevano dubbii di natura diversa.
Esagerato? E perchè? Perchè altra volta Tacito esagera. E sarà vero; ma qual
prova v' è che abbia esagerato questa volta ì E perchè avrebbe esagerato
anche Clemente Romano? Sia lecito del resto rammentare che Paolo
(^h* Filii), dice dei cristiani di Roma: MOLTI dei fratelli nel Signore e concludere quindi ancora una volta che
ad infirmare 1' autorità di tali fonti non ?;'è una sola prova di
fatto. Quanto ai Jìagitia, posso dispensarmi per ora dal
discutere i singoli passi, se l'Autore stesso dichiara: flagitium contiene
ordinariamente il duplice concetto di azione turpe e colpevole ad* un
tempo y. Non sarà dunque errata nell' uso italiano la parola
delitto. E che nei due paesi di Tacito (XV, 44) e di Plinio (X, 96) si
tratti di veri e propri delitti, io confermo per la seguente ragione: che
nell'uno seguono le parole: colpevoli e meritevoli di ogni maggior pena, e nell' altro i flagitia son da mettere in
relazione con gli scelera, dei quali Plinio parla dopo (v. qui
appr. App. IH). Circa al fatebaiitur, io aspetterò dai miei contraddittori
la prova, che esso, detto a proposito di uà processo, possa significare altro
che la confessione di un reato. Per ora, rimangono le prove opposte. Mi
sia lecito ora fare qualche breve motto, anche sull'ultima parte dell'articolo
di Coen. Questa parte tende a ricercare la ragione, per la quale gli
occhi di Nerone si appuntarono sui Cristiani. L'indicazione gli sarebbe
dunque venuta non dagli Ebrei, ma dal popolo stesso, che vedeva i
Cristiani rifiutarsi alle cerimonie propiziatorie, e concepì su di essi il
tristo sospetto. Con ciò 1' A., nella sua cauta riserva, rinunzia ad
esprimere il suo avviso sugli autori veri dell' incendio. Lascia cioè
sussistere ancora le due ipotesi: o il caso o l'ordine di Nerone.
Io oso credere tuttora, che 1' una ipotesi e 1' altra non resistano
all'esame di tutti i particolari dell'incendio, tramandatici dagli
scrittori. Tale esame mi sono adoperato a fare nel mio opuscolo; né credo
sarebbe opportuno ripeterlo qui. Mi basti solo accennare: per attribuire
l'incendio o al caso o a Nerone bisognerebbe ritener falsi tutti i fatti
narratici dagli antichi: che 1' ipotesi del caso non ispiega come mai vi
fossero scagliatori notturni di faci; e l'ipotesi dell'ordine nerouiano non
ispiega (a tacer di altre ragioni minori) come mai l' incendio
prorompesse proprio accanto al palazzo imperiale; e come mai, quando
Nerone tornò a Roma, e cercò arrestare il fuoco, e prese tutti i
provvedimenti atti a lenire il disastro, le fiamme di nuovo si
rinnovassero dagli orti di Tigellino, il secondo mostro dell' impero. Nuovo
ordine anche questo? Tutto si può supporre; ma si può proprio credere che si
sarebbero fatte abbruciare le regioni più belle e più nobili di Roma,
lasciando intatto il lurido Trastevere, il ceutro della comunità giudaica e
cristiana? Si può proprio credere che un uomo, dopo sei giorni d'
incendio, mentre con tutte le sue forze si adopera a dar ric^to e pane
alla plebe furibonda, possa cimentarsi, in mezzo alla disperazione del popolo,
a rinnovare un ordine simile? Un uomo vile, e che dinanzi all' ira
popolare fuggiva tremebondo, come Nerone? Le due ipotesi quindi, il caso
e 1' ordine di Nerone, non possono, a mio parere, sussistere. Tacito le
enuncia, ma perchè utriimque auctores prodidere; ma la narrazione stessa che
egli fa, esclude 1' una ipotesi e l'altra. Egli evidentemente distingue gli
esecutori matericdi dell' incendio, da colui che poteva aver dato 1'
ordine; che i primi fossero i Cristiani non ha alcun dubbio,
giacché parla di essi come confessi; solo è in dubbio chi fosse qiieìV
auctor che essi dicevano averli incitati; e riferisce la voce popolare
che 1' auctor fosse Nerone. E perciò appunto alla fine del cap. 44
aggiunge che i Cristiani benché colpevoli, e meritevoli delle maggiori
pene, muovevano a pietà, quasiché perissero non pel pubblico bene, ma per
la soddisfazione della crudeltà di un solo (in saevitiam unius), e cioè per
averne eseguito gli ordini crudeli, secondochè mi pare che si debba
interpretare questo passo. Ad ogni modo, l'ipotesi che il Coen oppone
alla mia, che cioè l'indicazione dei Cristiani venisse fatta a
Nerone dal popolo, sdegnato che essi si negassero di partecipare alle
cerimonie di espiazione, non urta, se ben veggo, contro l' ipotesi mia.
Per qualunque ragione tale indicazione sia stata fatta, quel che importa
è di vedere se 1' indicazione fu giusta o no. Io penso pur sempre che l'
indicazione fu fatta per il necessario riconoscimento di molti. Non è
jjossibile che non fossero riconosciuti, giacche anzi si sapeva che erano
stati i pretoriani ed i servi di Nerone. Li dovettero, ad esempio,
riconoscere quegli uomini consolari, i quali, come riferisce Suetonio, li
sorpresero nei loro fondi ad appiccar l'incendio; e certamente anche molti
altri. Riconosciuti, fu giuocoforza che essi confessassero, e che quindi
contro di loro s'iniziasse il processo (Tac. carrepti qui fatebantur). E logico
il supporre che nel furore di repressione che invase gli animi a tale
scoperta non si badasse più che tanto; non si distinguessero i
Cristiani innocenti dai colpevoli, i calmi e pii dai fanatici e dagli esaltati;
è logico, perchè è umano; e in ogni repressione violenta avviene sempre
cosi; si supponga dunque pure che, oltre al necessario riconoscimento di alcuni
veri colpevoli, e alle denunzie di questi, molte indicazioni di Cristiani
venissero fatte per la ragione supposta dal Coen; che cosa proverebbe
ciò contro l' ipotesi mia? Senonchè la congettura del Coen si
fonda sopra un presupposto, a proposito del quale pur mi tocca la
mala ventura di non trovarmi d' accordo con lui. Su questo presupposto,
cioè, che in momenti di furore, il popolo potesse aver tanta calma da
ragionare così: gli ebrei sono nel loro diritto, di non partecipare
alle nostre funzioni; i gentili noi sono. Sarebbero stati, credo
io, ebrei e cristiani coinvolti insieme nella medesima accusa; né i Cristiani
erano allora considerati altrimenti che come fazione dei giudei.
Esce fuori dei limiti della mia ricerca la seducente congettuì-a del
Coen, sulle Banaidi menzionate da Clemente Romano, e sulla probabile relazione
che è tra il passo di Clemente {ad Cor. I, 6) e il passo di Tacito:
profittata lurio per matronas^ prhnum in
Capitolio, deinde apud proximum mare, vnde hausta aqua temphim et simulacrum
deae perspersiìm est. Poiché le cerimonie qui descritte sono, come il
Coen ben nota, singolari, mi piace richiamare a proposito di quella lustrazione
apud proximum mare, alcuni versi oraziani: Vel nos in inare
proximum Gemmas et lapides aurum et inutile, Summi materiem
mali, Mittamus, scelerum si bene paenitet. {Carm.). La cerimonia apud
proximum mare era adunque rituale per espiazione di delitti? Anche Boissier
ha voluto volgere al nostro argomento la sagacia del suo ingegno; e gli studiosi
saran certo grati al grande scrittore ed erudito francese dello studio
pubblicato nel Journal des Savants, Dopo una esposizione sommaria della questione
e della tesi da me sostenuta, il Boissier così dice: Assurément, tout cela n'est pas impossible:
quelques insensés, quelques anarchistes se seraient glissés parmi les
premiers disciples du Maitre, qu'il n'en faudrait pas étre trop surpris,
ni en l'endre le christianisme responsable. Remarquons pourtant qua la société paienne n'avait pas encore manifeste sa
baine implacable pour les chrétiens, et n'ayant pas eu encore l'occasion
de leur étre trop sevère, leur devait étre moins odieuse. C est plus
tard, quand'ils furent poursuivis sans miséricorde qu'on rn'> s' étonnerait
de trouver chez eux des fanatiques capables de tous les excés. Or, nous
voyons qn'à ce moment; méme, où ils sont si durement traités par
l'autorifcè et par le peuple, ils se vantent d'étre des sujets soumis, irreprochables,
d'accepter Jes persécutions sans ré volte, de prier pour les princes qui
les envoient au supplice, et de ne répondre que par le bien au mal qu'on
leur faisait: il serait dono assez surprenant qu'ils eussent mis le
feu à Rome lorsqa'ils avaient moins à se venger d'elle. Se non
m'inganno, questo che il Boissier ha notato, è il corso fatale di ogni
setta, è la condizione stessa del suo vivere. Ogni setta cioè comincia
per essere rivoluzionaria, e, messa allo sbaraglio delle dure prove,
delle persecuzioni, dei tentativi di soppressione di ogni sorta, va
perdendo a poco a poco il suo carattere di opposizione e d' intransigenza,
cerca accomodarsi ai tempi, vivere nei suoi tempi, diventare, come oggi
si dice, legalitaria. È un processo naturale ed umano: che meraviglia è
che il vediamo riprodotta qui nella storia del cristianesimo? Non vediamo
noi un fatto che a prima giunta può parere più straordinario ancora: che
cioè quando le persecuzioni cessarono e il cristianesimo si fu affermato
vittorioso, allora appunto esso cominciò più tenacemente ad abbattere
istituzioni, monumenti, templi, cui gli editti imperiali mal giungevano a
salvare da quelle furie devastatrici? Non potrebbe qui pure il Boissier
domandarsi: perchè abbattere tutto, se ormai non avevano più da
odiare o da temere nulla, essi, i vittoriosi? li vero è che durante le
repressioni violente non scattano gl'impeti sovversivi; scattano prima,
quando ogni furia sembra ministra di giustizia contro un ordine di cose
odiato; scattano dopo, nell'irruenza dell'agognata vittoria: e
scattano nei più impulsivi e più fanatici, pur contro i consigli di
moderazione e di calma dei prudenti. Il Boissier continua: Tout ce qu'on
peut dire c'est que M. Pascal s'est fort habilement servi de son hj'^pothèse
pour expliquer les iacidents dont il vient d'étre question dans le récit
de Suétone et de Tacite. Si l'on crut recounaìtre, dans le gens qui
jetaient sur les maisons des étoupes eiiflamraées, des serviteurs de l'empereur,
c'est qu'en effet il y avait des chrétiens dans le palais de Néron; saint
Paul nous le dit, et M. Pascal pense que ce sout ceux-là qui ont allume
l'inceudie. Les consulaires, qui avaient l'occasion de les reuconIrer
souvent au Palatin, ne s'y sont pas trompés et l'on comprend que, saisis
de frayeur à leur aspect, et croyant qu'ils agissaient par l'ordre du
prince, ils les aient laissés faire. L'hypothèse est ingénieuse,
mais ce n'est qu'uue hypothèse; pour voir si elle est d'accord avec les
faits, reprenons le récit de Tacite. E qui il Boissier si fa ad
esaminare il famoso passo di Tacito, di che è discorso nel nostro studio
nella nota 27 e qui appresso in app. III. Egli riconferma la sua
opinione, già altre volte espressa, sopra il gran numero dei cristiani di
Roma; ed in ciò ho la fortuna di trovarmi d' accordo con lui. Ma tal fortuna
non mi tocca per 1' interpretazione del fatehantur tacitiano. Se il
processo era d' incendio, avevo detto io, la confessione dei cristiani
non può intendersi se non per il delitto d'incendio. E Boissier mi oppone: La
nouvelle a dù s'en repandre partout; si elle était aussi sùre, aussi
evidente que le texte de Tacite, interprete de cette manière, semble le dire,
Néron avait tout intérét àia propager; il est impossible qu'il
n'ait pas profité avec empressement de cet aveu, qu'il travaillait à
obtenir, pour se giustifier lui-méme. Quelque détesté qu'il pùt étre, il u'j'
avait pas moyen qu'on persistàt à l'accuser d'un crime dont
d'autres se reconnaissaient les auteurs. Comment se fait-il donc
que Tacite, presque au moment méme où il nous rapporte cet aveu, ait pu dire
qu'on ne sait s'il faut attribuer l'incendie au hasard ou à la
malveillance? Et Suétone, si bien informe d'ordinaire, comment
n'a-t-il rien su de cette procedure, qui, pourtaiit, dufc étre rendue
publique? Comment le peuple, qui perdait tout à ce désasfcre, a-t-il été
touché de pitie pcur des gens, qui en étaient la cause et a-t-il crii
qu'on les sacrifìait uniquement à la cruauté d'un homme? M. Coen fait
remarquer avec beaucoup de force qu'il est aussi fort étrange que dans la
suite, lorsqu'on poursuivait avec tant d'acharnement les chrétiens et
pour tant de crimes imaginaires, aucune allusion n' ait été faite à
celui dont ils ne pouvaient pas se défendre puisqu'ils l'avaient avoué. Ora a
ciascuna di queste ragioni le risposte furono da me qua e là date: e mi
converrà ripeterle ora, poiché quelle ragioni, messe cosi tutte insieme in fila
serrata, sembrano invitto manipolo. Nerone, dice il Boissier, aveva il
maggiore interesse a divulgare la confessione. Certo, ed anzi appunto per
questo forse egli diede la maggiore pubblicità alle pene nefande! —
Secondo quesito: se Tacito pone il
dubbio che l'incendio fosse dovuto al caso, come può parlare di rei
confessi d'incendio? A mia volta
domanderò: se Tacito pone il dubbio che
l'incendio fosse dovuto al caso, come può dire che vi erano coloro che
impedivano ogni tentativo d'estinzione, aggiungendo l'ipotesi che
ciò facessero per comando altrui? Gli è che Tacito non sempre è
conseguente; prende da una fonte la ipotesi del caso, ma la sua
narrazione tutta esclude tale ipotesi. Terzo quesito: Suetonio – SVETONIO
(vedasi), sì bene informato, come non ha saputo niente di questo
processo, che pur dovette essere pubblico? O chi dice che non abbia
saputo niente? Suetonio accusa Nerone di avere ordinato l'incendio, non
di averlo appiccato: dice che gli esecutori materiali furono i servi di
Nerone; e del processo non fa menzione, forse appunto perchè si trattava
di uomini di infima condizione, che egli supponeva esecutori di ordini
imperiali. In altro luogo però pone tra le cose lodevoli del regno di Nerone
i supplizii inflitti ai Cristiani. — Quarto quesito: come il popolo, che
perdeva tanto, fu mosso da pietà per questi uomini, e credette che essi
fossero immolati alla crudeltà di un solo? Tacito dice che il popolo fu mosso a
pietà per l'inaudita crudeltà delle pene, òeuchè si trattasse dì uomini colpevoli, e
meritevoli delle lìinggiori pene; si può esser più chiari? ed aggiunge; come se essi fossero immolati non al bene
pubblico, ma alla crudeltà di un solo, di quel solo cioè, che,
secondo egli presume, aveva ad essi dato 1' ordine. Erano poveri
schiavi esecutori di ordini: erano colpevoli, si, ma vittime della
crudeltà di chi aveva dato 1' ordine: questo il pensiero di Tacito. Ma
come potè spargersi la fama di quest' ordine dato da Nerone ? A me non
par difficile ravvisarlo. Dice Tacito, che durante l' incendio, gì'
incendiarli interrogati rispondevano agir per ordine. Probabilmente lo
stesso risposero al processo, né discoprirono il loro tristo
consigliere. E poiché tra quelli colti in flagrante e processati erano
pure i servi di Nerone, l' ordine fu interpretato da molti come ordine
dell' imperatore. Si potè credere che essi non volessero nominarlo
per paura di peggio, o jDerchè ne sperassero le ultime grazie. Ad
ogni modo, nato nel popolo il sospetto della colpa di Nerone, non era
possibile che si dileguasse: ne si dileguò. Ultimo quesito: ma come mai, dopo, furono accusati i
cristiani di tutti i delitti, ma non di questo? È facile rispondere : i
pagani stessi accusarono Nerone; la persecuzione contro i cristiani fu
messa come cosa affatto indipendente dall'incendio, e come tale è già in
Suetouio; chi più pensava che il fanatismo religioso fosse stato impulso
all'incendio ? Il popolo aveva ormai formato la leggenda sua: l'ordine
dato da Nerone ai propri! servi, per loro stessa confessione : chi
distingueva tra quei servi i cristiani dai non cristiani? I due fatti,
incendio e persecuzione, furono interamente disgiunti; e la leggenda di
Nerone incendiario tenne il campo incontrastato. Boissier aggiunge
due considerazioni d' indole filologica. Affinchè la frase famosa di Tacito
correpti qui fatebanhir, avesse il significato eh' io le attribuisco,
egli crede che dovrebbe suonare cosi: qui c07-repti erant confessi sunt.
Ma coìtìjjìo non ha il significato di arrestare, bensì quello di iniziare il procedimento penale; cfr.
nota 27 ; dunque corì-epti qui fatebantur ha precisamente il significato
di: si processarono quelli che erano rei confessi, e cioè di volta
in volta che alcuno confessava, veniva sottoposto a processo. Egli aggiunge che
nel significato da me voluto, si sarebbe aspettato confiteri, non
fatevi, trattandosi di delitto, e cita Cicerone, Pro Caecina^ IX:
ita libenter confitelur ut non solum fatevi sed etiam projìtevi videatur.
Faccio osservare prima di tutto che, secondo la ipotesi mia, i cristiani
confessi non dovevano pentirsi o vergognarsi di quel che avevano fatto ; e
poi, che, quando pure le norme dello stile ciceroniano potessero valere
per Tacito, questa che qui si j)one, non è costante neppure per Cicerone:
giacche Cicerone stesso adoperava /aferi per la confessione di omicidio
(Mil.). Ma, aggiunge Boissier, se Tacito avesse voluto dire
Cauer cosi sentenzia {Beri, philolog. Woch.): Tacitus
sagt: Die Gestàndigen wurden verhattet, nicht: die zuerst Verhafteten
waren gestilndig. Das
Gesttlndnis ging also der Verhaftung vorheri-. Ma covrepti non designa la
cattura, bensì il processo; ed è naturale clie la confessione fosse
anteriore al processo. Bene dunque hanno fatto il Gerber e il Greef nel
loro Lexikon 2'aciteum, col sottintendere al fatebantur del nostro passo .se
incendisse urbeni. che i priini cristiani si vantavano nel
confessare l'incendio, si sarebbe servito di yrofiteri. O donde mai questa
regola? Si vuole un esempio di Tacito in qwì fatevi^ denota un delitto
confessato e di cui il colpevole si gloria? Eccolo qui: Ann.: praecipuum
auctorem Asiaticum interficiendi C. Caesaris non extimuisse in
contiene populi Romani fateri gloriamque facinoris ulfcro petere.
Infine circa il capo di accusa contro i Cristiani, la conclusione
cui giunge Boissier è la seguente: L'expression non tam in crimine
incendii qtiam odio generis Immani coniunctì siint (cosi egli
legge), semble bien indiquer qua l'accusation d'incendie ne fut pas
abandonnée, mais que, comme ou n'esperait guère la faire accepter du
public, on la dissimula suos celle à^odium generis immani, qu'on étendit
à tout le monde. Il che mi pare
corrisponda all' opinione mia, che ho scritto apj)Uuto: i primi, gii esecutori materiali, confessarono
e denunciarono i compagni (indicio eorum) : allora non si volle sapere
altro, si fece 1' arresto in massa dei ci'istiani, e ninno di essi smentì
la sua fede; solo questi ultimi dichiararono non aver preso parte all'incendio,
come i primi; ma era lo stesso, erano tutti rei di queir odio umano che
aveva armato le mani di fiaccole : furono tutti condannati. Ed
aggiungerò che la pena stessa del vivicomburio è un indizio che
l'accusa d'incendio rimase; giacché tal pena è appunto quella che fino dal
tempo delle XII Tavole era comminata per gì' incendi dolosi (cfr.
Ferrini, ESPOSIZIONE STORICA E DOTTRINALE DEL DIRITTO PENALE ROMANO). Osservazioni
sul passo di Tacito riguardante l'accusa contro i Cristiani. (Uallfi
Rivista di Filologia). Una delle molte qne.stioni scaturite dalla trattazione
di una tési, che è stata in questi ultimi tempi in vario senso discussa,
e che tuttora è oggetto di discussioni non poche, si è quella relativa al
significato della voce jlagitium. Può Jlagitiuvi equivalere a delitto scelleraggine, oppur sempre si deve limitarne il significato,
si che esso designi un' azione che sia solo ignominiosa o vergognosa? Affinchè tal questione non
sembri peccare di sottigliezza soverchia, e si ravvisi anzi subito qual
vantaggio ridondi dalla soluzione di essa all'intelligenza di alcuni
passi, ci si consenta richiamare qui il ricordo di quei luoghi,
dalla cui controversa interpretazione questo nostro piccolo quesito si può dire
sbocciato. Tacito in Ann. chiama i Cristiani jper fiagitia invisos. Così PLINIO
(vedasi) il Giovane, nella famosa lettera a Traiano sui Cristiani di
Bitinia parla, a proposito di essi, di fiagitia cohaerentia nomini. Che
cosa è dunque che si imputa ai e. l'ancal. 12 Cristiani con la
-pavola, Jlagitia? Quelli che ne vogliono limitare il significato entro i
termini più angusti, rammentano come alla mente dei pagani dovessero sembrare
vergognosi i severi disdegni dei Cristiani per tutto ciò che fosse
piacere ed ambizione terrena; e come tutto insomma il contegno loro di
rinunzia e di avversione al mondo si avesse tal taccia. Ma non
pochi scrittori e traduttori vedono in quei Jiagitia dei veri delitti, che i pagani, a ragione o torto,
attribuivano alla nascente sètta cristiana. Non istarò, per ora, ad
esaminare se sia giusto il concetto, che, agli occhi di scrittori, quali
Tacito e Plinio, potesse sembrar vergognoso il contegno austero di rinunzia e
di spregio per tutti i piaceri mondani, che si suole attribuire ai
Cristiani; scrittori i quali, anzi, pare che allora solo si commuovano di
ammirazione reverente, quando si trovino a discorrere di uomini nei quali sia
invitta l'energia del carattere, non cedevole a lusinghe di ambizione e
di potenza o a blandizie ed allettamenti terreni. Keppur domanderò, se,
qualora di semplice rinunzia al mondo si voglia parlare, trovino
spiegazione le persecuzioni feroci delle quali PLINIO (vedasi) stesso si rese
colpevole, condannando, senza processo, i Cristiani; e trovi spiegazione
la domanda che egli fa a Traiano, quando, sgomento dal continuar la
persecuzione, si ferma a porre il quesito, se la sètta cristiana in sé
stessa o i Jiagitia ad essa inerenti egli debba imnire; era dunque
passibile di pena, per un Plinio, pure la rinunzia ai mondo? Gioverà
però, all' infuori di tali questioni, trattare l'argomento nostro; ed
esaminati altri esempli ed indagato il significato di fiagìtium in essi,
tornare poi, col risultato ottenuto, al quesito onde prendemmo le
mosse. L'opinione che il significato di Jlagitiuin debba restringersi
in più angusti confini rispetto a quello di malejìcium, scehis, e simili,
trova qualche consenso negli scrittori di siuouimie. Così Schmaifed,
Lateìnisclie Syìionymik: Flagitiwn heisst eine den, der sie
ausfiihrt, e n teli rende Haudluug, Schandthat und b) oft geradezu
Schande, infamia, dedecus, e il passo apportato a suffragare tal significazione
è quello noto della Germania di Tacito, 12: tamquam scelera estendi oporteat dum
puniuutur, fiagitia abscondi, passo nel quale la parola flagltia si
riferisce alle colpe degl' ignavi et imhelles. Con lo stesso esempio
tacitiano prova lo Schultz, Sinon. latini, trad. Germano-Serafini, la sua
definizione: Flagitium bruttura, è un delitto contro sé stesso, una
violazione di sé stesso, non già con azioni violente, ma con azioni
moralmente turpi e vergognose. Con lo stesso esempio infine il Coen, La
persecuzione neroniana dei Cristiani, pag. 13 dell' esbr., conferma che
'^fiagitia significhi azioni turpi piuttostochè crinunose »; e sulla
scorta anche di altri passi, determina il suo concetto cesi: ftagitium contiene ordinariamente il
duplice concetto di azione turile e colpevole ad un tempo; però quello
della turpitudine primeggia; e primeggia tanto che qualche volta l'altro manca. Ora
in quel passo di Tacito, e in altri passi affini, è evidente che fagitium
è adoperato in significato ben ristretto. Ma quando tal significato si
vuol porre come costante in Jlagitium, ed applicarlo in tutti i casi, a
me pare che si vada troppo oltre. Un utile riscontro può esser dato
dalla nostra parola vergogna ». Certo
se vergogna » è adoperato da solo,
in opposizione a parole di significato più grave, quali scelleratezze o delitti, ciascuno intenderà trattarsi, di
azioni moralmente, non penalmente condannabili. Ma una famiglia coperta di vergogna » si dirà pur
quella, nella Nulla trovo nello Schmidt, Handbuch des Lat. u.
Griech, Synonymik, Leipzig, quale il figlio sia ladro o la moglie
adultera; e del figlio, ad es., di un assassino si dirà che egli sente
il peso delle familiari vergogne. Gli è che tali parole hanno
duplice significato: l'uno specifico e l'altro generico; e per questo secondo
significato si trovano ad essere applicate a quelle medesime azioni, a
denotare le quali si richiederebbero nomi specifici ben più gravi.
Ne segue che a determinare di volta in volta il significato di tali
parole, occorra anzi tutto vedere a quali fatti si accenni, dei quali sia
nei singoli passi discorso. Non altrimenti io credo sia il caso per jlagitium.
Credo cioè che, quando jlagltnim sia adoperato in senso specifico, denoti
azione turpe e sol moralmente condannabile; ma che in senso più lato, e
con riferimenti a fatti concreti, possa applicarsi ad azioni ben
più gravi, a vere scelleratezze. A conferma del qual significato, ne sia
lecito apportare qualche esempio, che io sceglierò esclusivamente da
Tacito: Hist, an si ad moenia urbis Germani Gallique duxerint, avvia
patriae inferetisì horret animus tanti flagitiì imagine. Trattandosi qui
del portare le armi contro la patria, credo non si reputerà adatta a
rendere quel Jiagitium qualche parola come turpitudine o bruttura; qui si tratterà invece di vera
e propria scelleratezza o infamia o
delitto; si tratta insou^ma di uno scelìis; e scelus è infatti,
immediatamente dopo, chiamata una tale azione: quis deinde t^celeris exitus,
cwn Romanae legiones se cantra derexerint) » La medesima
identità tv a Jiagitium e scelus si scorge pure nel capitolo precedente,
a proposito del giuramento fatto dai soldati romani allo straniero. Ivi infatti
si legge: {Hist.) ut, flagitium
incognitum Romani exercitus, in externa verba iurarent, pignusquò
tanti sceleris nece aut vinculis legatorum daretur ». Pure utile al
nostro intento è 1' altro passo {Ann.) leviore flagitio legatnm ìnterficietis, qnam
ab imperatore descìscitis », e 1' altro (Ann.) nel quale il liberto
Aerato, inviato nella Grecia e nell'Asia a commettere sacrilegi nei
templi, è chiamato cuicum-queflagitioiyvomptus », e l'altro
ancora (i4?in.), nel quale si dice che Nerone imputava ad Agrippina
tutti i flagìtia di Claudio, ^a^tYm dai quali quindi non si potrebbero
logicamente escludere le uccisioni di Silano e di Statilio Tauro e delle ricche
matrone e dei molti cavalieri, procurate da Agrippina, dopo il matrimonio
con Claudio. Non sarebbe difficile addurre altri esempii: quelli addotti
mi paiono per ora sufficienti a provare questo: che fiagitium sia parola
di significato molto vario circa la gravità del fatto che con esso
si imputa; tanto vario, che da semplice azione scandalosa » può di grado in grado discendere
fino a denotare vera e propria azione delittuosa e scellerata; ed essere, come abbiamo già
visto, sinonimo di scelns. Il che tanto più deve valere, se la parola è
adoperata in senso giudiziario: scelas, peccatnm, Jlagitùcm,
maleficium, ^jrohriim, facinus si usano, dice il Ferrini, [Esposizione
storica e dottrinale del diritto penale romano P^g- 18j, promiscuamente
nelle fonti medesime, per indicare gli stessi reati. Vuol dire che, a
determinare la gravità della colpa indicata da fiagitium, converrà
esaminare nei singoli passi a quali fatti esso alluda. E poiché nel
passo di Tacito, Ann. per fiagitia invisos » si tratta di tali tatti, per
i quali l'A. ritiene evideatemente non disdicevole ai Cristiani 1' accusa di incendiarli, quell'accusa cioè per la quale
egli dice poco dopo i Cristiani colpevoli e meritevoli delle
maggiori pene; e poiché nel passo di PLINIO (vedasi) fiagitia
cohaerentia nomini non può esser dubbio che i fiagitia sieno gli scelera
dei quali l'A. parla poco dopo {/urta, latrocinia ecc.), deve rimaner
ferma la conclusione che anche in questi due -pàssi fiagitia denoti vere
e proprie scelleratezze o delitti. È stata oggetto di controversia la
frase sitbdere reum, che si ritrova tre volte adoperata da Tacito.
I passi sono i seguenti: Ann. metuens ne reus suhderetuv.
Ann.: mos vulgo esf quamvis falsis reum suhdere. Ann. abolendo
rumori Nero stihdidit reos qiios. La maggior battaglia si è
veramente addensata sul terzo passo, quello riguardante i Cristiani.
Che cosa vuol dire Tacito? Che Nerone accusò falsamente i
Cristiani? Che li sostituì a se quali colpevoli dello incendio? O
semplicemente che, per isviar la voci pubbliche che lo accusavano, fece
iniziare il processo contro di loro? Sull'opinione di molti ha avuto certamente
efficacia non poca la frase sìibdere testamentum far comparire un altro
testamento e cioè, evidentemente, falso), che si ritrova in Tacito
stesso, Ann.: Ma questo verbo siibdere ha sì svariati significati, che,
se dovesse valere questa ragione analogica, si potrebbe, con pari
diritto, giungere alle più avventate conclusioni. E per limitarci a
Tacito solo, si vegga di grazia quanti sono gli usi e i significati
diversi che può presentare tal verbo. Pugionem capiti subdere in Hist. è
certamente « nascondere il pugnale sotto al guanciale » ; facem subdere
in Hist. e Ann., 4 è accostar di sotto la face » ; amphitheatro
fundamenta subdere in Ann. e animalia aratro subdere in Aìdi. è sottoporre;
imj)erio aliquem subdere in Ann. è « assoggettare all' imperio » ; rumor
eni subdere in Hist. e Ann. è far circolare la voce; subditis qui
accusatorum nomina sustinerent m Ann. è « avendo subornato alcuni a sostenere
le parti di accusatori » e « subornare » è pure nel testo. Una espressione
poi che si accosta molto alla nostra è quella degli Ann. ne qìds
necessarionim iuvaret j^ericUtantem^ maiestatis crìmina suhdehantur. Qui si
tratterà probabilmente dell'» imbastire processi di maestà ». Che sia pur
questo il significato della frase subdere reos? Al passo nostro Ann. «
abolendo rumori Nero subdidit reos quos tal significato non disconverrebbe. Da
tutto il passo risulta anzi che il processo contro i Cristiani fu
raffazzonato o imbastito alla peggio; tanto è vero, che non solo i
rei confessi d' incendio furono condannati, ma altresì tutti gli altri
che essi denunciarono quali aggregati alla loro sètta, e che quindi
furono convinti delVodium humani generis. Ma v' è un altro passo cui tal
significato non s' attaglia ed è Ann. I, 39, 6 « utcjue mas vìdgo
qìiamvis falsis reum .subdere ». Qui evidentemente Tacito vuol dire che
il volgo suole delle sue disavventure incolpare sempre qualcuno, anche se colpa
in realtà non esista. Saremmo dunque qui a un semplice incolpare o attribuir
la colpa, ma è da notare che reus è qui adoperato in un senso traslato,
non nel senso giudiziario; negli altri due passi invece nei quali si
ritrova presso Tacito 1' espressione subdere reiim, si tratta di
vero e proprio processo, e reus ha quindi il suo significato proprio di accusato.
Qual sarà dunque in questi due passi il significato della frase? A me pare
che l'uno di essi sia molto chiaro, e ci dia pur modo di scorgere
il significato di quello cosi controverso. Questo uno è il passo Ann.,
che narra della uccisione di Agrippa Postumo. Tacito dice probabile che
Tiberio e Livia abbian procurato la morte di quel giovane sospetto ed
odiato. Ma quando il centurione anda ad annunziare a Tiberio essere stato
eseguito l'ordine, Tiberio rispose non aver nulla ordinato, e che se ne doveva rendere
ragione al Senato, Allora comincia a temere Sallustio Crispo, il quale era
a parte del segreto, ed aveva mandato al tribuno il biglietto con l’ordine
della uccisione. Comincia a temere che non ci andasse di mezzo lui,
che non fosse incolpato lui, semplice mandabario: mefuens ne reus subderetnr.
Si tratta dunque qui di un mandante che rimane nell' ombra, e di un
mandatario, il quale agisce per ordine suo, e si compromette, e può essere
incolpato lui di tutto. Il caso del processo contro i Cristiani è
identico a questo. Tacito cioè fa capire ogni tanto che Nerone possa
essere il mandante quegli che ha dato 1' ordine (cfr. dolo jprincipis'.
mssum incendium): ma non ha dubbio che i Cristiani sieno gli esecutori^
giacché anzi li dice confessi; ^ quando dunque dice che Nerone suhdidit
reos i Cristiani, egli vuol solo dire che li mise sotto processo;
benché egli come mandante avesse la colpa maggiore. Questo il
pensiero di Tacito: altra questione è poi se sia attendibile la notizia, oppur
solo il sospetto, che l'ordine partisse realmente da Nerone. Intanto mi
preme ram- mentare come questa frase del suhdidit reos sia stata
addotta da moltissimi come lo scoglio contro cui sa- rebbe sempre andata
a infrangersi l' interpretazione ohe di tutto il passo Ann. XV, 44
presentai nell' opuscolo. L'incendio di Roma e i primi Cristiani ».
Questi rei erano dunque subditicii! si è detto. Sì, subditicìij a 2
Tac. Ann.: correpti qui fatehantur. Fatevi adope- rato assolutamente a
proposito di un processo può riguardare solo la confessione di quello
appunto, che forma materia di ac- cusa. V. V ine. di Roma, nota 27, in
questa ediz. Qui si tratta di un processo d'incendio; dunque la
confessione è d'incendio. Nella lettera di Plinio X, 96 [97J l' accusa è
« di esser cri- stiani » ; e confitentes sottintende se Christianos
esse. Tacito stima più colpevole chi ordina il male che chi lo
eseguisce per ordine. Cfr. An7i. XIV, 14 « et eius
flagitium est, qui jìecuniam oh delieta.... dedit » ; e poco
dopo : < merces ab eo qui iubere potest vim necessifatis affert. quello
stesso modo che era subditìcius Sallustio Crispo, che per comando di
Tiberio aveva fatto uccidere Postumo! Nell'uno caso e nell'altro il maggior
colpevole per Tacito è chi ha dato l’ordine, non chi 1'
eseguisce. Questo passo, non che dunque infirmi, conferma anzi tutta l'
interpretazione mia; la quale fu, sempre, appunto questa: che, nella mente di
Tacito, i colpevoli di avere appiccato le fiamme fossero i Cristiani, il
colpevole di averlo ordinato fosse Nerone. Riccardo Campa. Keywords: il
concetto di rivincita – rivincita -- la
rivincita del paganesimo romano, filosofia romana. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Campa” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Campailla: all’isola -- la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del concetto di estassi
– implicatura estasica – a room in Bloomsbury – scuola di Modica – scuola di
Ragusa – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo
di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Modica). Filosofo sicliano. Filosofo italiano. Modica, Ragusa, Sicilia. Grice:
“You have to love Campailla; when I philosophised on ‘be orderly,’ I was
drawing from Campailla: “Order is the first – ‘ordinato discorso dell’uomo;’
Campailla flouts the maxim: he allows that a man in ecstasi, in mutual
contemplation of beauty, say, may lose the order – Oddly, Campailla dedicates
more than a section to, then, ‘del disordinato discorso dell’uomo,’ or men, as
we’d prefer!” Grice: “You’ve gotta love
Campailla – I would have preferred he chose the Graeco-Roman mythology, but he
chose “Adamo,” and he provides, in verse, all I ever philosophised on – human
discourse – discorso umano – on top, he considers ‘amore’ as a ‘passione dell’anima,’
and speaks of ‘self-love’ (amore proprio) and even virility and testicles – a
Renaissance man!” Nasce
sotto la rupe del Castello dei Conti. C., incisione dall'Adamo (Roma-Palermo)
Mostrò le sue migliori doti d'ingegno in età matura, giacché, in gioventù, per
la sua gracile costituzione, il padre preferì educarlo in campagna affinché si
irrobustisse all'aria aperta, piuttosto che indirizzarlo agli studi. Si trasfere
a Catania per studiarvi giurisprudenza, ma l'improvvisa morte del padre, che lo
lasciava erede di un discreto patrimonio, lo costrinse a ritornare nella città
natale, la sua cara Modica, in cui rimase fino alla morte, senza mai muoversi
da essa. Lì, poté dedicarsi interamente agli amati studi, prevalentemente
da autodidatta, coltivando con passione ed abnegazione, fra le tante
discipline, l'astronomia, le lettere e la filosofia. Sempre da autodidatta,
studiò Aristotele e i classici, per poi dedicarsi alla fisica, forse spinto
dall'onda emotiva suscitata dal terribile sisma che distrusse Modica e tutto il
Val di Noto. Morì per un colpo apoplettico.. Il suo corpo fu sepolto
sotto l'altare maggiore del duomo di San Giorgio in Modica, del quale una
lapide, deposta alla sinistra dell'ingresso principale, lo ricorda. C.,
filosofo e poeta Studioso di Cartesio, che vuole conciliare con la filosofia
scolastica, ne applicò i principi alle sue indagini conoscitive, fatte di
osservazione ed esperimenti, divenendo, insieme col filosofo trapanese
Michelangelo Fardella, uno dei principali divulgatori delle teorie cartesiane
in Sicilia. Poeta raffinato, fu accademico degli Assorditi di Urbino, dei
Geniali di Palermo, e della più celebre Accademia degli Arcadi di Roma;
restaurò quindi l'Accademia degli Infocati nella sua città natale. Da alle
stampe i primi sei canti (ispirati ai moduli letterari lucreziani) del poema
filosofico, in due parti, L'Adamo, ovvero il Mondo Creato, successivamente
dedicato, nella sua stesura completa (in XX canti) a Carlo VI d'Austria,
Imperatore e Re di Sicilia. Il poema, che conobbe una discreta fortuna e che è
stato recentemente ristampato, rappresenta una summa delle idee teologiche,
cosmologiche, fisiche e filosofiche dell'autore, alla luce del
cartesianesimo. All'inizio del Settecento, la fama del C., tra l'altro in
corrispondenza epistolare con importanti personalità fra i quali Ludovico
Antonio Muratori (bibliotecario del Duca di Modena), si diffuse anche
all'estero, toccando Lipsia, Parigi, Londra, tanto che il filosofo Berkeley
volle conoscerlo personalmente e, poiché C. non si muoveva mai dalla sua città
natale (come Kant), fu lo stesso Berkeley a recarsi in Sicilia a trovarlo,
informandolo fra l'altro delle nuove teorie newtoniane, le quali verranno poi
usate dal C. nelle sue successive opere. Il Muratori si fece
intermediario persino per una cattedra all'Padova da assegnargli, invito che
venne pure da Londra, ma il suo ostinato rifiuto a viaggiare e lasciare la sua
Modica (in ciò, ancora simile a Kant) lo portò a declinare tali prestigiose ed
onorevoli proposte. Per lo stesso motivo, invitato ad assistere all'incoronazione
a Re di Sicilia, nella Cattedrale di Palermo, del Duca Vittorio Amedeo II di
Savoia, disdisse gentilmente la visita. Pubblica, rimanendo però
incompiuto, il poema sacro L'Apocalisse di San Paolo, in cui, oltre ad
affrontare i temi della grazia e della virtù attiva, fornì pure una personale
confutazione delle teorie di Miguel Molinos, fondatore del
"Quietismo", un'eresia che aspirava all'unificazione con Dio. Infine,
nello stesso periodo, iniziò a scrivere il primo volume di un'opera sistematica
intitolata Opuscoli filosofici, di cui uscì solo il primo volume (in dialoghi)
intitolato Considerazioni sopra la fisica di Newton, contemporaneamente alla
stesura di un trattato, in due volumi, di fisica cartesiana, pubblicato postumo
sotto il titolo Filosofia per principi e cavalieri. La cura della
sifilide con le botti di C. Pur non essendo medico di professione, C. riuscì
tuttavia a promuovere, nella Contea di Modica, gli studi di medicina. Infatti,
il suo impegno, quasi umanitario, lo portò a sperimentare le sue famose
"botti" (dette poi botti del C.) per la cura non solo della sifilide
(considerata, allora, il male del secolo, e ritenuta dalla Chiesa come un
castigo di Dio per i peccati degli uomini), ma anche dei reumatismi e, in
genere, di qualunque forma di artrosi. La "botte", in realtà, è
una stufa mercuriale con all'interno uno sgabello, sul quale il paziente veniva
fatto sedere, in attesa della cura. Questa consisteva nel versare, in un
braciere che si trovava pure all'interno della stufa, la relativa dose di
cinabro, da cui, per sublimazione, esalavano dei vapori di mercurio, che erano
poi assorbiti dal corpo del paziente in piena sudorazione. La novità introdotta
dal C. consistette nell'aggiunta di incenso all'interno della botte, in una
dose che consentiva, ai vapori sprigionati, di essere più
"respirabili" per un certo lasso di tempo, variabile dai 10 ai 20
minuti circa, a seconda dalle condizioni soggettive del paziente. Il
contributo del Campailla consentì pure di modificare la forma della botte,
rispetto alle altre già esistenti in Italia ed in Europa, le quali avevano un
foro in alto da cui fuoriusciva la testa del paziente che, in tal modo, non
poteva respirare i vapori di mercurio medicamentosi. Tuttavia, questi vapori,
così esalati, erano curativi solamente per i sifilomi che infestavano la cute,
i quali regredivano sì ma senza remissione del morbo (che solo con l'avvento
della penicillina si debellerà), con i germi patogeni che continuavano ad agire
e moltiplicarsi nel sangue dei soggetti infetti. Invece, grazie
all'innovazione del C., i pazienti, completamente all'interno della botte, potevano
ora respirare la miscela di mercurio e incenso, la quale, agendo così in modo
sottocutaneo, uccideva i germi diminuendone la carica patogena; spesso, si
ottenevano delle guarigioni, a volte anche definitive, che, all'epoca, venivano
considerate quasi miracolose. Infatti, un rapporto medico dell'epoca riferisce
che " [...] Dopo la cura mercuriale col metodo C., si può assistere
a delle rinascite complete di individui ridotti in condizioni impressionanti di
cachessia o con lesioni tali da rendersi impossibile qualsiasi intervento
curativo per via percutanea o ipodermica". I risultati furono
talmente soddisfacenti che Modica acquisì notorietà in tutta Europa proprio per
le botti del Campailla, ancor oggi esistenti all'interno dell'antico Ospedale
di S. Maria della Pietà e visitabili all'interno di un percorso museale
appositamente dedicato. Negli anni a venire, le botti del C. furono, ma
con scarsi risultati, imitate altrove, sia in Italia che all'estero: ad
esempio, sorse a Palermo, per volere del prof. Mannino della locale facoltà di
Medicina, un Sanatorio C. Fu poi
costruita, a Roma, una cosiddetta Botte di Modica; a Milano, ancora negli anni
'50, furono costruite botti di vetro sul modello di quelle del C.; mentre, a
Parigi, furono fondati istituti a imitazione del Sifilocomio C.palermitano, per
la cura delle malattie reumatiche e nevralgiche. Teatro La
rappresentazione Cygnus, atto unico scritto da Nausica Zocco, prende spunto
dalla vita e dalle opere di Tommaso Campailla, ed è stato portato in scena l'8
maggio a Modica, per la regia di Tiziana
Spadaro. Note L'esatta data di
nascita è riscontrabile, come quella di morte, negli appositi registri
dell'Archivio Parrocchiale della Chiesa Madre di San Giorgio in Modica. Taluni, sulla base di nessuna fonte storica
attendibile, hanno diffuso l'infondata notizia secondo cui C. stesso sia stato
vittima della sifilide, contrariamente al fatto che lo studioso modicano
costruì comunque le sue botti, per il trattamento di questa infezione quando
aveva solo 30 anni, ma morì a 72 anni, età veneranda e considerevole, per quei
tempi, in cui la vita media di un individuo di sesso maschile era di 55-58
anni, per non tener conto poi del fatto che, nel Settecento (e così, fino
all'avvento degli antibiotici nel Novecento), un sifilitico aveva comunque
delle bassissime aspettative di vita dopo il manifestarsi della malattia,
dell'ordine di pochissimi anni. Ad ogni modo, le botti del C. raccolsero, per
molti decenni, un gran numero di pareri positivi a favore di un loro benefico
influsso contro il morbo. C., "L'Adamo" ovvero "Il mondo
creato" poema filosofico, Volume unico, Messina, Chiaramonte e Provenzano,
treccani/enciclopedia Cfr. D. Scinà,
Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, Tipografia
Lorenzo Dato, Palermo, Tratto dalla Rassegna di Clinica, Terapia e Scienze
Affini, Secondio Sinesio, Vita del celebre filosofo, e poeta Signor D. C.,
Patrizio modicano, Siracusa, 1783; ristampa Modica. Guccione, C. ed il suo
museo in Modica, Leggio et Diquattro, Ragusa, Ottaviano, Tommaso Campailla.
Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia,
introduzione e note Domenico D'Orsi, MILANI, Padova, Criscione, C. Un poeta e
filosofo modicano, Idealprint, Modica, Guccione, C. il suo museo, la scuola
medica modicana, Comune di Modica, Modica, C. e la Scuola Medica Modicana, Ed.
Ingegni Cultura Modica, Modica. C., su Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. C., in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di C., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Sotto il titolo
“Disordinato discorso dell’uomo” sono raccolti due saggi pioneristici del
filosofo modicano sul ruolo della mente nei sogni, nel delirio, nell’estasi e
nella follia. L'estasi (dal greco ἔκστασις, composto di ἐκ o ἐξ + στάσις,
ex-stasis,[1] «essere fuori») è uno stato psichico di sospensione ed elevazione
mistica della mente, che viene percepita a volte come estraniata dal corpo: da
qui la sua etimologia, a indicare un «uscire fuori di sé». Nonostante la
diversità delle religioni, culture e popoli in cui l'estasi è stata
sperimentata, le descrizioni circa il modo in cui essa viene raggiunta
risultano straordinariamente simili. Si afferma di provare in questi momenti una
sorta di annullamento di sé, e di identificazione con Dio o con l'"Anima
del mondo". Descrizione ed effetti. Manifestazioni dell'estasi
nell'antichità. Il corteo dionisiaco 2.2 L'estasi oracolare 2.2.1 Figure
oracolari 3 L'estasi nelle filosofie orientali 4L'estasi in Plotino 5L'estasi
cristiana 6L'estasi paradisiaca in Dante 7Il Rinascimento 8L'Ottocento e il
Romanticismo. Descrizione ed effetti Psichicamente è caratterizzata dalla
cessazione di ogni attività da parte dell'emisfero cerebrale sinistro (noto
anche come emisfero dominante o della "razionalità discorsiva"),
consentendo così all'emisfero destro (quello recessivo o passivo, detto anche
"emotivo") di attivarsi. È uno stato di estrema concentrazione simile
per certi versi all'ipnosi, quando ad esempio la mente rimane attonita nel
fissare un punto o un oggetto, dimentica di ogni altro pensiero. Generalmente
produce uno stato di notevole beatitudine e benessere interiore. Manifestazioni
dell'estasi nell'antichità Una simile condizione mentale era nota sin
dall'antichità ed era considerata manifestazione diretta della
divinità.[4] Il corteo dionisiaco Nell'antica Grecia erano famose le
menadi (o Baccanti), donne greche che partecipavano a riti non ufficiali. Si
trattava di culti misterici e iniziatici che si svolgevano al di fuori delle
mura della città ed erano aperti agli emarginati della società, quali appunto
le donne, gli schiavi e i meteci. I protagonisti di questi culti (detti anche
Misteri, connessi sia ai riti dionisiaci che a quelli orfici sorti intorno al
VII secolo a.C.), presi in uno stato di trance o estasi ballavano sfrenatamente
e uccidevano a mani nude degli animali. Si trattava di elementi legati
all'aspetto esoterico della religione greca, che convivevano sotterraneamente
con l'exoterismo della religiosità tradizionale.[6] L'estasi oracolare
L'estasi era ciò che rendeva possibili gli Oracoli, essendo vissuta come
momento di tramite fra la dimensione terrena e quella ultramondana. A volte lo
stato di estasi veniva raggiunto artificialmente mediante l'uso di sostanze
psicotrope; la persona coinvolta era portata così a compiere gesti o azioni
insoliti. Figure oracolari Figure emblematiche e famose per le loro estasi
collegate al dono della profezia erano le Sibille, donne laiche che gravitavano
presso un tempio di Apollo proprio per la loro capacità di connettersi col
divino, che proferivano i loro responsi restando nell'ombra, non mostrandosi
facilmente agli umani che le avessero consultate ed interrogate; oppure poi la
Pizia vera e propria sacerdotessa di Apollo che dimorava nel famoso santuario
apollineo di Delfi, la quale si mostrava ai fedeli e proferiva gli oracoli dopo
appositi riti e sacrifici. La Pizia raggiungeva uno stato di estasi indotto dai
vapori inebrianti che uscivano da una spaccatura del suolo, durante il quale
proferiva gli oracoli. In Magna Grecia era invece famosa la Sibilla di Cuma,
antica città greca situata nei Campi Flegrei. I responsi delle Sibille tuttavia
erano spesso oscuri e non facilmente interpretabili, venendo compresi ora in un
senso, ora in un altro.[9] L'estasi nelle filosofie orientali Nelle
religioni asiatiche, come l'induismo, il taoismo, e soprattutto il buddismo,
l'estasi è il momento sacro in cui avviene l'illuminazione, ed è il pieno
sviluppo delle potenzialità e delle qualità naturali presenti nell'individuo. Questo
stato è anche chiamato onniscienza oppure saggezza suprema e perfetta, dal
sanscrito anuttarā-samyak-saṃbodhi, comunemente detta semplicemente Bodhi, e
corrisponde all'illuminazione del Buddha; è lo stato in cui la mente diventa
illimitata e non più separata dal resto del mondo, il punto in cui il
microcosmo della persona si fonde con il macrocosmo dell'universo. Diventa così
possibile una condizione di nirvana, alla quale ci si allena sotto la guida di
un maestro tramite la meditazione, cioè la concentrazione su di sé e la
consapevolezza della propria energia. L'estasi in Plotino Secondo Plotino
(filosofo ellenistico neoplatonico), l'estasi è il culmine delle possibilità
umane, che avviene dopo aver compiuto a ritroso il processo di emanazione da
Dio: essa è un'autocoscienza, ed è la meta naturale della ragione umana, la
quale, desiderando ricongiungersi col Principio da cui emana, riesce a
coglierlo non possedendolo, ma lasciandosene possedere. Il pensiero cioè deve
rinunciare ad ogni pretesa di oggettività abbandonando il dinamismo discorsivo
della razionalità, ovvero negando se stesso. Tramite un severo percorso di
ascesi, che si serve del metodo della teologia negativa e della catarsi dalle
passioni, la ragione riesce così a uscire dai propri limiti, superando il
dualismo soggetto/oggetto e compenetrandosi con l'Uno. Quello di Plotino non è
tuttavia un semplice panteismo naturalistico, poiché per lui l'estasi è
essenzialmente un percorso in salita verso la trascendenza. Il circolo
nella filosofia di Plotino: dalla processione all'anima umana, e dalla
contemplazione all'estasi. Essendo l'Uno non descrivibile, perché descriverlo
significherebbe sdoppiarlo in un soggetto descrivente e un oggetto descritto (e
quindi non sarebbe più Uno, ma due), anche l'estasi è di conseguenza uno stato
psichico non descrivibile a parole, dato che l'estasi è la condizione stessa
dell'Uno che si auto-contempla. Intuirla è possibile solo per via di negazione:
tramite il suo contrario, prendendo coscienza di ciò che l'Uno non è, cioè del
molteplice. L'Uno stesso, in quanto autocoscienza del pensiero, per intuirsi
deve pertanto uscire fuori di sé, diventando molteplice. L'estasi è appunto
l'atto con cui l'Uno genera il molteplice: essa è un cogliere tutt'insieme
l'uno e i molti, in un circolo che dalla processione ritorna alla
contemplazione. Cusano, teologo cristiano del Quattrocento, dirà in maniera
simile che l'universo è l'esplicatio dell'Essere, ovvero il fuoriuscire di sé
da parte di Dio. A differenza del Cristianesimo però, secondo Plotino
l'estasi non è un dono della divinità, ma una possibilità naturale dell'anima.
Essa tuttavia si manifesta non per una propria volontà deliberata, ma da sé, in
un momento fuori della portata del tempo. Plotino stesso raggiunse l'estasi
solo tre o quattro volte nella sua esistenza. Viverla è infatti dato a
pochissimi, in rari momenti della loro vita. L'estasi inoltre non serve ad uno
scopo pratico; essendo contemplazione fine a se stessa, in questo mondo non c'è
nulla di più inutile. È solo nell'estasi però che l'essere umano ha la
rivelazione della sua condizione più vera e autentica. Per il resto la via
indicata da Plotino verso la saggezza consisteva in una vita retta, oppure
nella ricerca di espressioni artistiche come la musica. L'estasi
cristiana Santa Teresa d'Avila La filosofia plotiniana diede quindi avvio
a una lunga tradizione neoplatonica, che concepiva l'universo animato da un
eros o tensione amorosa mirante a ricongiungersi a Dio tramite l'estasi. La
teologia di Plotino fu ripresa in particolare da quella cristiana, e rivisitata
però alla luce dell'aspetto personale della Trinità. L'estasi venne intesa in
un senso più ampio: per il cristianesimo essa non è più soltanto una
contemplazione fine a se stessa, ma è funzionale all'azione; deve tendere cioè
non solo verso Dio, ma anche verso il mondo. Tale mutamento di prospettiva
venne introdotto affiancando all'amore greco di tipo ascensivo, corrispondente
al concetto di eros, un amore discensivo corrispondente al concetto evangelico
di àgape. L'esperienza estatica cristiana consiste così in una comunione, una
sorta di abbraccio col mondo e l'umanità in esso dispersa con lo scopo di
alleviarne le sofferenze e ricongiungerla al Padre. Essa avviene tramite
un'illuminazione operata direttamente da Dio. Questi fuoriesce nel mondo non
per un atto involontario (com'era nel plotinismo), ma perché ama le sue
creature. Identificarsi con la sua estasi divina è, secondo Agostino, la meta
naturale della ragione umana, la quale può riuscirci non per una deliberata
volontà individuale, ma per una rivelazione da parte di Dio stesso che si rende
presente alla nostra mente; l'estasi è dunque essenzialmente un dono, reso
possibile per intercessione dello Spirito Santo, grazie a cui l'essere umano
trascende i propri limiti e si rende strumento di Dio nel mondo.A differenza di
altre religioni la persona coinvolta non perde comunque la propria
individualità, pur compenetrandosi in Lui.Per i mistici medioevali, come San
Bernardo, o i neoplatonici tedeschi come Meister Eckhart, l'estasi è una
visione beatifica che avviene quando l'anima è rapita in Dio, e l'essere si
annulla in un Pensiero senza più limiti né contenuto: Dio infatti non può essere
oggettivato, perché non è oggetto, ma Soggetto. Si tratta di una comunione
mistica accesa da un fuoco d'amore, un'esperienza di beatitudine suprema simile
a quelle che saranno riferite in seguito anche da Santa Teresa d'Avila, figura
di riferimento della Controriforma. Un'altra testimonianza sull'estasi in tal
senso è quella medioevale del beato Jacopone da Todi nella lauda O iubelo de
core. L'estasi paradisiaca in Dante Nel Trecento Dante Alighieri, nel
Paradiso della Divina Commedia, di fronte alla visione beatifica di Dio, negli
ultimi versi della cantica prova così a descrivere l'estasi, conscio della sua
ineffabilità, dell'impossibilità di riferirla a parole in maniera
oggettiva: Dante contempla l'Empireo, incisione colorata dell'originale
di Doré «Qual è 'l geomètra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non
ritrova, pensando, quel principio ond' elli indige, tal era io a quella vista
nova: veder voleva come si convenne l'imago al cerchio e come vi
s'indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu
percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A l'alta fantasia qui
mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente
è mossa, l'amor che move il sole e l'altre stelle]» (Paradiso) Il
Rinascimento Il desiderio di estasiarsi godette quindi di una notevole fortuna
durante il Rinascimento. Al di là del significato religioso l'estasi assunse
allora principalmente una valenza artistica o estetica. Il bello era visto sia
dai filosofi rinascimentali che dagli idealisti romantici come la via
privilegiata per ricongiungersi a Dio. Bruno paragonò l'estasi a un eroico
furore: non un'attività pacifica che spegnesse i sensi e la memoria, ma al
contrario li acuisse, simile a un impeto razionale. A una rivalutazione
dell'estasi nell'Ottocento contribuirono sia la Critica del giudizio di Kant,
sia l'idealismo di Fichte e Schelling. Kant vedeva nel giudizio estetico un
sentimento universale di partecipazione con l'Assoluto, nel quale la ragione
non è più vincolata da un'attività conoscitiva soggetta alla necessità delle
relazioni causa-effetto, ma è libera nel formulare i propri legami associativi.
Per Fichte l'estasi è intuizione intellettuale, l'atto immediato con cui l'Io,
nel diventare autocosciente, può intuire se stesso solo in rapporto a un
non-io; così nel porre se stesso l'Io pone al contempo anche il molteplice al
di fuori di sé. Parimenti Schelling vedeva nell'estasi un'attività infinita con
cui Dio crea il mondo. L'uomo può riviverla nell'estasi artistica, che è la
manifestazione più tangibile dell'Assoluto, nel quale l'aspetto attivo e
passivo, il lato conscio e quello inconscio della mente, non sono più in
conflitto tra loro, ma si fondono in una sintesi armonica di comunione cosmica
con la Natura. Mantegazza, Le estasi umane, Marzocco, Firenze; La Civiltà
Cattolica; Legislative Reference Bureau, Roma; Enciclopedia Treccani alla voce
«estasi», di Marco Margnelli e Enrico Comba, Giovetti, Dizionario del mistero; Mediterranee,
Atlante illustrato della mitologia del mondo; Giunti; Bianchi, A. Motte e
AA.VV., Trattato di antropologia del sacro, Jaca Book, Milano; Diana Tedoldi,
L'Albero della musica: tamburo, stati altri di coscienza; Anima Srl; Burkert,
La religione greca di epoca arcaica e classica; Jaca, Messina, Riflessioni e verità; Edizioni
del Faro; Aa.vv., Dizionario della Sapienza Orientale: Buddhismo, Induismo,
Taoismo, Zen; Mediterranee; Kerouac, Il libro del risveglio, a cura di T.
Pincio, Mondadori; Evola, Oriente e Occidente; Mediterranee; «La scienza è
ragione discorsiva e questa è molteplicità: perciò, una volta caduta nel numero
e nella molteplicità, essa perde l'Uno. È necessario dunque trascendere la
scienza e non allontanarsi mai dal nostro essere unitario, ma abbandonare la
scienza. Perciò si dice che Egli è ineffabile e indescivibile» (Plotino,
Enneadi, VI, 9, 4, trad. di Faggin). Faggin, in La presenza divina; D'Anna
editrice, Messina-Firenze; Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo; Il
circolo nella filosofia di Plotino, Milano, Rizzoli; Faggin, Mazza, La
liminalità come dinamica di passaggio: la rivelazione come struttura
osmotico-performativa dell'"inter-esse" trinitario; Gregorian
Biblical BookShop; Sulla differenza terminologica tra agape ed eros, cfr. E.
Stauffer, Agapao, in G. Kittel-G. Fridrich, Grande lessico del Nuovo
Testamento, vol. I, Paideia, Brescia; Bonetti, Matrimonio in Cristo è
matrimonio nello Spirito, p. 63, Città Nuova; Julien Ries, Communio, p. 88, Jaca;
Come una piccola goccia d'acqua che cada in una grande quantità di vino sembra
diluirsi e sparire per assumere il sapore e il colore del vino; così ogni
affetto umano, nei santi, deve fondersi e liquefarsi per identificarsi alla
volontà divina. Come infatti Dio potrebbe essere tutto in tutto, se nell'uomo
restasse qualcosa di umano? Senza dubbio, la sostanza rimane, ma sotto un'altra
forma, un'altra potenza, un'altra gloria» (Bernardo di Chiaravalle, De
diligendo Deo, 10, trad. di G. Faggin). ^ Santa Teresa d'Avila descrive
l'estasi come un momento di "assenza" nel quale afferma di aver
percepito tutto il dolore provato da Cristo durante la Passione, ma anche una
così grande gioia interiore da coprire il dolore (cfr. Autobiografia). ^ Nella
descrizione di Dante si tratta di quella condizione paradossale di «estasi per
cui la mente esce di sé e perviene a un potenziamento di sé» (T. Di Salvo,
Paradiso, Zanichelli). ^ Reinhard Brandt, Filosofia nella pittura: da Giorgione
a Magritte, p. 432, Pearson Italia S.p.a.; «Una delle qualità necessarie al sapiente,
cioè a colui che intende spingere l'ascesi conoscitiva fino all'estasi e
all'indiamento (farsi Dio), è un livello erocio di amore per la bellezza, un
furore divino nella terminologia di Ficino» (Ubaldo Nicola, Atlante illustrato
di filosofia, p. 238, Giunti). ^ Ubaldo Nicola, Atlante illustrato; Pozzolo, La
fede tra estetica, etica ed estatica, p. 64, Gregorian Biblical BookShop, 2011.
^ S. Mati Novalis, Del poeta regno sia il mondo. Attraversamenti negli appunti
filosofici, p. 81, Pendragon, Franco, Essere e senso: filosofia, religione,
ermeneutica, p. 170, Guida; Cfr. anche Luigi Pareyson, Lo stupore della ragione
in Schelling, in AA.VV., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della
libertà, Mursia, Milano; Carlo Landini, Psicologia dell'estasi, Franco Angeli,
Milano 1983 Ioan Petru Culianu, Esperienze dell'estasi dall'ellenismo al
Medioevo, Laterza, Bari; Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi, ed.
Mediterranee, Razzano, L'estasi del bello nella sofiologia di S. N. Bulgakov,
Città Nuova, Merlin, F. Vettori, Un'estetica estatica, edizioni Cleup, Padova; Beatitudine
Esperienza extracorporea Illuminazione (Buddhismo) Illuminazione
(cristianesimo) Indiamento Misticismo Sofianismo Trance (psicologia)
Transverberazione «estasi» Estasi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Stati di coscienza; Filosofia Portale Filosofia Psicologia
Portale Psicologia Religione Portale Religione Categorie: Concetti e principi
filosoficiEmozioni e sentimentiFilosofia della menteMisticaTeologia Comie
ſi genera; Nima Ragionevole, come di Anima, come sà, che, fuor del ſuo ſcorre
nel Corpo Organico. St.1. Corpofieno, altre Coſe Corporee.27. Obbietti
Senſibili terminan le Idee Per le Idee degli Obbietti,nel Senſo nel Senſo
Comune. St. 2. Comune rappreſentatele. Corpi Striati, e loro ſtruttura, 3.
Cometalora s'inganna. Fornice, e ſua teſtura; Delirio nell'Ubriachezza; Setto
Lucido, e ſua fabrica. 5. Vino or fà dormire,or vegliare. 32. Corpo Calloſo, e
ſua anatomia. 6. Come alle volte porta il ſonno. 33 Senſo Comune ne 'Corpi
Striati. 7. Come talora induce vigilia. 34. Da quali paſſano tutti gli Spiriti
Ubriaco, perche Delira. 35. Motivi, e i Senſitivi. 8. Mania, eſuo Delirio.
Anima,in quanto ſente,riſiede ne’ Corpi Striati. 9. Siſpiega in particolare.
40. Fantaſia ſi eſercita nel Fornice. Io. Morficati dal Can rabbioſo, e lor
Memoria riſiede nel Corpo Callofo.1.1. Delirio. 43. Imaginativa, come ſérve al
Di Come prendon proprietà Canine. 44. ſcorrere.. E credono, eller Cani. 45.
Facoltà Motiva,coni'è eccitata. 13. Core procede tal Trasformazione.46. lilee
Senſibili,coine ſi formano,e 's' Delirio Febrile, ò Frene fiu. 48. imprimono
nel Cerebro. 14. Come faffi. 49. Spiriti Animali, fimilialla Luce.15. Come ſi
dà Febre ſenza Delirio, e Paragone fra queſta, e quelli. 16. Delirio ſenza
Febre. Spiriti Animali, comeformano le Cerebro deſtinato agli uficj Anima Idee.
17. li, e il Cerebello à i Vitali. FI. Idee non ſono, che una pittura, in
Anatomia del Cerebello. protata nelle pieghe del Cerebro.19. Nervi, che naſcono
dalCerebello. 53. Sterienza. · 20. La Mente non bà dominio ſul Cea Idee, come
laſciano la loro inpronta rebello. 54. nuel Corpo Calloſo. 22. Comunicazioni
fra il Cerebro, e il inima, come ſi rigorda. 24. Cerebello ſcambievoli. 55.
Guajti gli organi del Diſcorrere, Impreſſioni del Cerebro,come ſi par iguafla
il Diſcorſo Umano. 26. tecipano al Cerebello, e quelle 50. 52. del 227 84. del
Cerebello al Cerebro. 58. Come ſi genera. 79. Agitazione Febrile, cagionata al
Delirio dellº Incubo, come ſi forma.81. Cerebello, partecipanıloj al Ce
Maliæconia Ipocondriaca. rebro, induce il Delirio. 59. SueCagioniantecedenti.
85. Non comunicandoſi, no’l produce.62. Suoi triſti effetti. 86. Delirio de '
Sognanti. 63. Come induce ilDelirj. 89. Sonno, come ſi fa. 64. Per gli efluvj
degli Umori, corrotti Cbefia 68. nelle Viſcere, 90. Sogni, come ſi formano. 69.
| Rimedj, che riducono allo ſtato di Sogni, perchè ſi formano,à miſura Sanità
gli Organi, guariſcono, degli Appetiti, e delle Paffioni dal Delirio. 91.
attuali, 74. Diſcorſo depravato per erroriLoa Incubo. 77. gici, e ſuoi rimedja
IXIETAS2140S147 Μ Α Ν Ω. ARGOMENTO. 27482 A82FATIRAF ETAFARAYAX 2X1% XKAYARANJE
D E l'ordinato pria Diſcorſo Umano Dichiara la Meccanica ragione il dotto
Serafin, poi de l’ Inſano Le falſe Idee, l Opere prave eſpone: Qual ne i Senni,
anche Savj, il ſogno vana Le incongrue fantaſie finge, e compone; Qual la
Ragion prevarica, e travia L ' Ipocondriaca, à l' Uom, Malinconia. STATE 1
sãto, 2.Su queſte Midollar due fondamenta Del Corpo inilerabile, c mortale La
propria mole anteriore appoggia Compreſo lò dal tuo dir, cô doglia,e pianto, Il
Fornice, che il Cerebro ſoftenta, Lo ſtato lagrimevole, e fatale, Ed in Corpo
Calloſo ad alto poggia. Seguì à parlar, per conſolarmialquanto, Sul Midollo
allungato ei, dietro, afſenta De l'Anima si nobile, c Immortale; Due pic
poſterior, di Volta in foggia: Coin'ella, in queſta fua Corporca mole, Del
Palagio cosi de l'Alma intero Intende, idea, membra, diſcorre, e vuole. L'uno,
e l'altro loftien doppio Emisfero. 5 E il Serafin: Dopo che invia l'Obbietto Mà
del Fornice al tetto interiore, Il Carattere fuo nel Sento eſterno, Qual Zona,
un Setto lucido li appende; Per il canal de Nervi, ei và diretto Che, in mezo,
da la parte anteriore, Sè ad improntar nel comun Senfo interno. A la poſterior,
curvo, diſcende. Queſto è il luogo del Cerebro, ch'eletto A i lati fuoi, con
ſempre ugual tcnore E de moti ſenſibili al governo. Di quà, di là ſerie di
ſtrie, ſi ſtende, Qual van le linee al centro, in lui convienli, Che tutte in
lui riguardano egualmente, Ch’entrin tutte le Idee de gli altri Senſi. Il qual,
di Vetro in guiſa, è traſparente. 3. 6. Pria,che il Cervello i ſuoi due faſci
accoppi L'ampio Corpo Calloſo è ſovrapoſto In Midollo allungato, e poi Spinale,
Al Fornice, e sù quel li ammaſſa, e annette, Da quai ſpuntano pofcia, ad ordin
doppi E con ordin mirabile è compoſto Tutti i Nervi del Senſo univerſale,
D'inteſti filamenti à retinette, Di Cannei Midollar compon due groppi, Di cui
l'immenſo numero diſpoſto Conici, e curvi, in forma lunga ovale In fuperficie
vien piane perfette, Che, perchè ſono à lunghe ſtrie ſolcati, Molli così, che
ammettono, à l'azzione ' i detti laran Corpi ftriati. De gli Spirti, ogni
minima impreffione. Entro de i Midollar Corpi Striati, E de gli eſterni
Obbietti lor là dove La reſidenza il Comun Senſo ottiene, Hà la Malizia, d la
Bontà compreſa, C'hà de le proprie Glandole irrigati I principj de i Nervi
apre, e vi piove Le cavità, di Spiriti ripiene, Copia di Spirti, ove ella
vuole, inteſa: Atti ad eſſere impreſli, e conformati I Muſcoli ritira, e i
membri move In ogni Idea,che a lor da i Senſi viene, Al'ampleſſo, à la fuga, à
la difeſa; Azili, e fnelli, à figlirarſi eſpoſti E quando poi di quei reſta
ſicura D'infiniti, in cui fian, modi, diſpoſti. Più Spiriti non manda, e i Nervi
ottura 14. I Nervi in lor degli Organi Senſori Spiegami meglio (aggiūge Adam
)traslata, Tutti invian de gli Spiriti i refulli: Come i'ldea nel Comun Senſo
ha forma: E quei, da lor, de gli Orgeni Motori Come dal Settolucido paſſata,
Spontanei tutti han degli Spirti i fluſſi: Entro il Corpo Calloſo imprime
l'orma: Cid, che vien dentro ammeſio, ch'eſce fuori E come poi, che in quel
reſta improntata, Di Senſitivi, o di Motivi in Auſli, Entro la Fantafia la
Copia forma, Del Cerebro, ove l'Alma à regnar ſtarfi, Simile a quella Idea, che
pria l'affiſſe: Per queſta regia Via, convien, che palli Cosi ei richiede: E
così Quei gli diffe 9. 15. In queſti l'Alma Umana, in quanto ſente, Benchè
vario fra loro il naſcimento Corpi Striati aſſiſte, e ognor riſiede: Han la
Luce, e gli Spiriti Aninali: Quilegata, à gli Spirti intimamente, Che quella
dal ſottil Primo Elemento, La sè, incorporea, à i Corpi aggir concede: Queſti
portan dal Terzo i lor natali, Qui l'occhio Spirital ſempr’hàprefente: Ne la
velocità, nel movimento, Qui tocca, guſta, odora, afcolta, e vede: Nel Terbar
riflettendo angoli eguali Qul le potenze Senſitive hà immote, De l'incidenza à
l'angolo, ſembianti Qui non ſentir ciò, che s'idea,non puote. Fra lor ſon
inolto, c in eſſere rifranti. 16. La Fantaſia, del Fornice nel Setto Tra gli
ſpazi de GloboliCeleſti Lucido, fuole eſercitarli, cui Ruota in centro la Luce,
à vorticetti: Come pervio, e diafano perfetto Girano in centro ancor mobili
queſti Per ogni parte han via gli Spirti ſui, Sottilmente formatl in Globoletti:
Qui le Idee rappreſentano l'aſpetto, Son de la Luce i Corpi agili, e preſti,
Che dal Senſo Comun paſſano in lui: Atti à modificarli in vari aſpetti; Le mira
in queſto Specchio, e le contempla Queſti da Corpi,onde ſon mai rifelli,
L'Alma, e in sè Spirital l'Idee n'eſempla. Tornano poi modificati anch'eſſi. 17.
La Idea, dal Setto lucido, leggiera Quale il Lume de i Corpi, onde riflette
Entro il Corpo Calloſo alfin trapaſſa, Ovunque dirizzarſi abbia permeſſo, E ne
le tele ſue l'Iminago intera, Di quei le colorate Immagginette Imprime, e il
ſuo Carattere vi laffa. Modificate al par porta in sè ſteſſo: S'impronta in lor,
come Sugello in cera, Ne gli ſpirti de l'Ottiche fibrette Nè per tempo sì
facile fi caffa. Quelle dipinge, entro de l'Occhio ammeſlo: Altre Idee in altre
fibre impreffe poi Laſciando in quegli Spiriti i modelli Serbano à la Memoria i
teſor fuoi. Che ne la fuperficie ebb’ei di quelli. 12. 18. Se diſcorrer talor
la Mente hà brame Tal gli Spirti Senſor modificati Sù quelle Idee, che il Comun
Senſo invia Da gli obbietti, onde füro indietro ſpinti; Uop'è, che le trafcorſe
Idee richiame Nel Comun Senſo portano traslati, Dala Mémoria à la fua Fantaſia.
Quegl'Idoletti Mobili diſtinti, Ponle nel Setto lucido ad elame, Che nela
Fantafia rapprefentati, Le rigette, o le approva, odia, ò defia, Ne la Memoria
alfin reftan dipinti, A miſura, che trae da loro effenze Con quello ſteſſo
colorato aſpetto, Utili, a infaufte à sè le conſeguenze. Che in ſuperficie å
vea l'efferno Obbietto. L'Adamo del CampaiHas Mmm L'ldos ro. IL DISCORSO UMANO.
L'idea, che ne le fibre interiori In queſta forma, Adam, l'Umana Mente; Del
Caitofo Midol poi fi figura, Mêtre informa il ſuo Corpo,e leſuc Membra) Per
mezo de'caratteri impreſſori Da i fantaſmi di quello è dipendente: Non è,
ch'una verilima pittura, Con queſti ſente, immagina, e rimembra: Per via
dipinca in lor, non di colori, Mà in sè diſcorre, e vuol liberardente, Mà per
mutazion de la teſtura, E ciò clegge, che buon, che bel le ſembra: Chenegli
Spiīti !!! tal rifleſſo induce, Pur, de gli Enti Corporei, uop'e, che penſi,
Quale iColor riñettono la Luce. Per via d'Idee material di Senſi. 26. Non ſono
i Color tutti altro in sè ſterfi, Mà perd, che del Corpo i Morbi fono Che
ſuperficie, tal.configurata, Per l'intima union, Morbi de l'Alma, Sù cui
rifranti i raggi, e infiem rifleſſi, Perdendo il Corpo il natural ſuo tuono,
Han si la rifleſſion modificata, Se inferma è mai la fua Corporea Calma, Che
imprimono ne l'Occhio i color Ateli. La Mente, che nel Cerebro ha il ſuo trono
Con cui la ſuperficie è colorata: Tra gli Spirti animai non reſta in calma;
Cosi Criſtal diafano hà coſtume Perchè di lor difregolato il corſo, Sol culorir
per Refrazzione, il Lume. La perturbata Idea turba il Diſcorſo. 21. 27., Si
diffé il Serafino, e tenue Stile Che ſien fuori de l'Anima in Natura Che di
piun colore affatto intinſe, Corpi reali, e fisici, eſiſtenti, Sù quella, che
il veſtia, tela ſottile La Mente entro il ſuo carcere procura Scolpi la
fuperficie, e la dipinfe, Da i canvelli ſcoprir de'Sentimenti, E à colorata
Immagine fimile, Sol per mezo de'Senſi ella è ſicura, Immago in lei, fenza
color, diſinfc, Che fieno quelli al Corpo ſuo preſenti. Che in quel fcolpito Lin
con par tenora Nel Comun Senfo, à l'obbiettiva effenza, Il Lume riticttea, qual
fa il Colore. De le coſe attual så l'Efiſtenza. 28. Cosi (poi fegue à dir ) la
ſola azzione. Sc al Comun Senſo fuo fi rappreſenta De lo Spirto animal rr
odifica to, Idea, che altronde ella avvenir ti avvcda, Få nel Corpo calloſo
impreſione, L'Obbietto, far non può, che allor non ſenta, Con renderlo, in
riflettervi', improntato. E ſentirlo non può, che non lo creda. Tanto, ver'fua
natia coſtituzione, Così à l'Occhio ſe alcun ti ſi preſenta, E' quel Midollo
tenero formato Tu già mai far potrai, che non lo veda: A''Idea Spiritofa in lei
rifleffa Così se ne lo Specchio Immigo eſpreſſa, Ccde la superficie, e reſta
impreſa. Noncrederla non puoi da Obbietto impreſa.?? 29. De l'Occhio in modo
tal sù la Retina, Or qualvolta à la Mente Idea ſi porta Che ancor 'efla
Soſtanza è Midollare, Entro il Senſo Comun per altra via, Se talun filo 1
riguardar ſi oſtina Che per la regia, ed ordinata porta, Illuminofo in Ciel
Corpo Solarc, Onde al Senſo Comun l'Idea s'invia, Per molto tempo,ancor, che il
guardo inchina, Mà lo Spirto retrograda la porta Del Sol P'linmago lucida gli
appare; Da la Memoria, • da la Fantasia, Elabbagliato acume ovunque gira, Per
la ſtrada de'Senfi allor la crede Quell'infocato lampo ognor rimira. Da
Obbietto eſterno impreſa, e le dà fede. 24. 30. Mà fe di ricordarti unqua defia
E Fede tal, che giudica, e diſcorre, La Mente poi di un traſandato Obbietto,
Qual ſe agiffe, nel senſo eſterno Obbietto; Al Calloſo Midot, placido, invia E
a miſura ingannata amalo, dabborre, Di Spiriti animali un rivoletto, Cheprova
in sè ſvegliar gioja, è diſpetto; Che in quell'Idea incontrandoſi per via,
Agita i membri, e à un operar traſcorre Torna modificato in Idoletto:
Corriſpondente à l'eccitato affetto: Dal Tipo Midollar la forina prende,
Depravato cosi delira infano E de l'antica Idea (imil ſi rende. Per morboſa
cagion Diſcorſo Umano. A turbar giunge un Senno, anche prudente, Per fimile
cagion, ſe non la ſteſſa, De l'afforbito Vin le copia enorme: Mania provien,
d'onde Ebrietà provenne Che l'eſaltato Spirito la Mente, Perchè la delirante
Ebrezza eſpreſſa Or forza à delirar con vane forme, Di breve tempo è una Mania
ſolenne, Or gli Spirti gli ottenebra talmente, E la Mania, nel Senno Umano
impreffa, Che n'è ſopito ogni fuo Senſo, e dorme. Di lungo tempo è un'Ebrietà
perenne, In diverſi Soggetti hà varj eventi, Furiola Mania, cui fon ſoggetti
Ch'or furiofi rende, or fonnolenti. Gli acuti più talor favj Intelletti. 38. Il
come ad indagar, contrari, vate, Il Sangue de Maniàci è con ecceffo Effetti à
partorir ne gli Ebri il Vino, Tal di Sulfurei ſpiriti impregnato Rifletci, che
nel latice vitale Che col reſpir per i Polmoni in eſſo Del Sangue è un doppio
fpirito falino: Il Nitro aereo ſpirto infinuato, L'un,che diſciolto entro il
fuo Siero è un Sale Spira nel vicendevole congreſſo Urinoſo volatile Alcalino:
Indomitaura, ed alito sfrenato, L'altro dentro del Sangue infinuato, Ch'eſalta
in movimenti univerfali Con l'Aria, e i Cibi, è un fpirito Nitrato, Pria gli
Spirti vitai, poi gli animali, 334 39. In quei,che la purpurea,in copie,han
piena, Che concorrendo ai Cerebro, accreſciuta Mafia Sanguigna, di Alcali
urinofo, Di moto, e quantità, rapiſcon tutti Lo ſpirito delVin ſi meſce appena,
Gl’Idoletti Ideal, che contenuti Che genera un coagolo vifcolo. Trovan nel
Setto lucido, e ridutti, La Linfa ingroffa, e i vitai Spirti affrena, O fien da
la Memoria, ivi venuti, E concilia un ſonnifero ripoſo. O ne la ſteſſa Fantaſia
coftrutti, Tal Miſto, fi condenfa in gelatina, E invianli al Comun Senſo, e de
la Mente Lo ſpirito di Vino à quel di Urina, Ingannano colà l'occhio preſente.
34. 40. Mà in quell'Uomo,in cui trovafi eccedente Qui dice Adam: D'un operar al
ſcempio Il Sal Nitroſo entro il Sanguigno Umore, De PUman miſerabile Intelletto
Mifta appena del Vino è l'Acquardente, Tal che può farlo e furiofo, ed empio,
Che à gli Spirti vitai creſce il fervore, Di prudente, che ſia, ſano Soggetto,
Spirando un'aura Elaſtica potente, Deh dona à me, mio Precettor, l'eſempio Che
gli Spirti animai move à furore. Per farne più diſtinto alcun concetto, Tai
lpiran, mitti, un'alito focolo Cosi lo prega, e il Serafin verace Del Viu la
Ipirto., e l'Acido Nitroſo, Il di lui bel deſio cosi compiace. Quindi de gii
Ebri à i Midollar cannelli Il Sangue del Maniaco un tal fervore Lo Spirito con
impeto s'invia: Nel ſuo Corpo talor riſveglia, e crea, Seco il caratter trae,
che ne ſuggelli, Che il capo punge, o il petto, e di un dolore Trova de la
Memoria, e il porta via, Intenſo à lui fà lovvenir l'Idea, L'aſporta feco al
Comun Senſo, e quelli, Quando di un ſuo Nemico oftil furore Che trova, anco
tener la Fantafia, Ferillo, e tutto il fatto allor s'idea: Ne i Corpi
introducendoli Striati, Poi da la Fantaſia per falla porta Per retrograda frada
ivi traşlati. Al fuo Senſo Comun l'Idea fi afporta. 42. Quella Idea crede allor
l'Umana Mente E da la vaua Idea l’Alma ingannata, Introdotta per via di eſterni
Senfi Che rappreſenta il ſuo fucceſſo antico, Da Obbietto, che fia à l'Organo
preſente, Stima ver ciò, che vede, e che aſsaltata Che quei moti Sengbili
difpenfi. Sia, già preſente à lui., dal ſuo Nemico. Onde ingannata, avvien, che
follemente Si accinge a la difeſa, ed opra irata De la ſtesſa maniera operi, e
penſi, Cotr'Uoin, che gli ſi incotra,ancor che amico, Comc fe quell'Obbietto
aveffe avante, Che, preoccupata da l'Idea mentita, Di qui la vana Idea forta il
ſembiante, Nemico il crede, e contro lyi s'irrita. Mà mirabil vieppiù, più
portentoſo Che da quei Solfi indomiti inveſtiti Loſtravoito penſiero è del
Diſcorſo Di periferia al centro in mille forme, Di chi dal dente mai del Can
rabbioſo Syolgon de Simulacri, ivi ſcolpiti, Prova in un di fue meinbra il fero
morſo, L'Idee de la Memoria, à varie torme; Che infetto già dal ſuo velen
bavoſo, E ne la Fantaſia poi male uniti E dopo ancor, che lungo tempo è ſcorſo,
Soa gi'iacaagruiFantaſmi in ſtuol deforme: Fra mille altri ſintomi alfin
riinane, Alfio nel Comua Senſo entran ſovente, Col creder sè già trasformato in
Cane. Adingannare, à ſpaventar la Mente. 44. 50. Nè ſolo al par del Canc
addenta, e morde, Febricitando il Sangue, uopè, che fpici E ſimile anche al
Cane ei latrar s'ode Del Cerebro più Spirti à le latebre: Ma con fame Canina, e
voglie ingorde Delicando gli Spirti, uop'è, che giri Prono diyora į cibi, e
l'olla rode; Il Sangue in pollazion celeri, e crebre: E con oprar col ſuo
penſier concorde Or come Febre è mai lenza Deliri? Le qualità Caninç affettar
gode; Come delirj fon mai fenza Febre? Lungi chi vien sà preſentir, dotato
Adamo al Serafin cosi propoſe: Di acuto, e ſottiliffimo Odorato. E si ad Adamo
il Serafin riſpoſę. 45. Premetto, per ſpiegar, d'onde contratto Per dichiarar
Fenoineno si bello, Concetto Uom poſſa aver cotanto ſtrano, Che interamente jo
ſviluprar prometto, Che allor, che vien de l'unione à l'atto Dopo gli uſi, che
detti hò del Cervello, Il corpo fral con l'Animo ſovrano, Deggio gli uſi anche
dir del Cervelletto: Gl'imprime de'luoi Spiriti il contatto Cheagli uficj
Animali eletto è quello, L'ldea di eſſer congiunto à Corpo Umano, A gli uli
Naturali è queſto eletto: La qual conſiſte in ’ n Caratter tale, Må pria di
eſaminar la ſua Natura. Ch'ngli Spirit, Umani è fpeciale, Sentine l'anatomica
Struttura. Del rabbioſo Velen taptu inaligna Nel Cranio è, dietro il Cerebro,
ripoſto Hà corrottiya attività la Forma, Il picciolo Cervello, e ſegregato, Che
gli Spiro animali, ov'egli alligna, In forina quaſi sferica diſpoſto, Ajo: o à
poco in sè inuta, e trusforına, E da le due Meningi andò ammantato: In rio
Venen l'Aura animal traligna, Di Cannellini hà il ſuo Midol compoko i E di
Canin Carattere s'inforina: E il cortice di Glandole am maffato, Cool ne le
Materie, oy'i gli ha loco, In cui con Meccaniſmi, al grande eguali, Muta, e
trasforma il tutto in foco il Foco. Si prepurun gliSpiriti aniinali. 47. S3
Sentendo aggir quell'Anima infelice Dal Cervelletto fol naſcon produtti
Impreſſion di Spiriti Cunini, Quei Nervei tronchi, e quei lor rami varj; La di
cui f.colta immaginatrice Che daii gli Spirti à i Muſcoli, coſtrutti Hà
depravuti affatto i retti fini, Al miniſter de’moti involontarj. Tradita ancor
da quei Fantalmi, elice Da lui movong i Vaſi, e gli Umor tutti, Da ſe Brutali
affetti, atti Ferini, Ch'a l'uficio vital ſon neceffari, Adam, nel tuo fullir
quanto hai perduto ! Cor, Vene, Arterie, Glandole, Fermenti, Sei ſoggetto ad un
Mal,che di Vom fà Bruto. Polmon, Linfa; Inteſtin, Chilo, Alimenti. 48. 54. Dal
già detto finor molto evidente Giuridizion ſul Cerebel la Mente Argomentar fi
può, come fi dia Punto non tien, nè i ſuoi eſercizi hà noti, Il Diſcorſo de
l'Uomo incoerente Non sà, chiuſa entro il Cerebro, nè fente, Nel Delirio Febril,
ch'è Freneſia: Come il Chil ſi amminiſtri, e il Sangue ruoti. Che allor, che
bolle il Sangue in Febre ardête, Di quel, che dal Cervello è indipendente, S
fulfurea falina hà diſcraſia, Fermar non puote, è regolarne i moti. Gi Spiriti
nel Cerebro avanzati, Aſſoluti, e diftinti i lor Governi In copia, c mobiltà
fon gencrati. Commercio hap fol per ſei Proceſſi alternt. Manda Manda al
Cervello il Cervelletto pria E per la via retrograda, ch'è dietro, Doppia
Protuberanza orbicolare, Paffa nel Setto lucido il torrente: Più baſſo due
proceſſi indi gl'invia Quelle Idee, che vi trova ei ſpinge addietro Per la
Protuberanza altra anulare, Verſo i Corpi Striati obliquamente; Due altri
alfine imprendono la via E al corſo natural turbando il metro, Da ſuoi due
Gambi al Calcc midollare L'offre per falfa porta ivi à Ja Mente E di Spiriti
alterni han participi. Che venute credendole da i Senli, De’Nervi il pajo
ottavov'hà principja. Vopè, che follemente operi, e penſi. 56. 62. Per l'uno, e
l'altro orbicolar Ricetto Se però nel ſol Cerebro è riſtretto Son gli Spirci
animai partecipati De'Spirti il moto, e de'fantafmi erranti, Da gli Striati
Corpi al Cervelletto, E à trapaſſar non và nel Cervelletto, E daqueſto anco à i
Corpi fuoi Striatia Senza febricitar fà deliranti: Per le altre quattro vie con
corſo retto Perchè fol ne ſuoi Spiriti è il ſoggetto, Vengono, e ven gli
Spiriti mandati, Che fà le Arterie, e il Cor febricitanti; Pe'l calce midollare,
ove inſeriſce E quello Spirto, onde il ſuo moto prende Le ſue due braccia il
Fornice, e li uniſcea L'Arteria, e il Cor, dal Cerebel diſcende a 57. 63. Sol
queſte ſon le occulte vie, per cui Maggior ſoggiunſe Adam ) inêtre a dormea Ciò,
che ſuccede in lor di ben, di male, Stupore, è il Delirar di fan penſiero,
Mandanſi internamente infra lor dui Che di vani fantaſmi, e incongrue forme Il
vital Miniſtero, e l'animale, Ad un ſtuol dona fe si menzogniero, La Potenza
animal gli affetti ſui I qual, non ſolo al Ver non è conforme I moti fuoi la
Facoltà vitale, Mà par, ch'è falſo, e credefi per vero: Secondo, in Pro comune,
à lor conviene, In modo tal, che un Senno, anche prudente, Opporſi al Mele, o
farfi incontro al Bene. Di creder gl'impoſſibili conſente. 58. 64; E quinci
avvien, che al ſol penſier ſovente Come inganni la Mente à dichiararti Nel
Cerebro, o di Gioja, d di Timore, De i Sogni l'incredibile Bugia, Moffo è il
Polmone, e il Cor placidamente (Replica Raffael) d'uopo è ſpiegarti, Soſpira il
Petto, e batte fpeſſo il Core. Come il Sonno produceſi, e che ſia: Quete, è
ſvolte le Viſcere, hà la Mente Mà pienamente, Adam, rammemorarti L'idea de la
Salute, ò del Malore: La teſtura del Cerebro dei pria: Intelligenza, e
auſiliario impegno Che la foſtanza ſua, teſfuta á velli Paſſa così tra le
Provincie, e'l Regno. Di cavi coſta, e sferici Cannelli. 59. 65. Or mentre la
febrilc agitazione Che à i lati de'ſuoi concavi Canali Nel Sangue, e ne
le.Viſcere ſi avanza, Triangolar fon gl'interſtizj inteſti: Gli efAlvj.al
Cervelletto, e la mozione Che in quei ſcorron gli Spiriti animali, Mandar per
via de Nervi hà ben poſſariza: E che diſcorre ilSugo nerveo in queſti, Quefto
annuncia al Cervel la impreſſione Fatti gli uni di Spiriti vitali, Per doppia
orbicolar Protuberanza, L'altro di Umor linfatici digefti: Entro i Corpi
Striati, onde la Mente Che ſtan fra lor, quei di elater dotati, Di quel calor
febril l'affanno ſente. Queſto di fode fibre, equilibrati. 60. 66. Mà ſe gli
effuvi, ei moti ſuoi ſon tali, Mentre gli Spirti à tal ſon rarefatti Che al
Cerebel traſceudono le ſponde, Che tengan quei cannelli intumiditi, Nel Cerebro
i ſuoi Spiriti animali O'quefti cosi reſtino diſtratti Per l'anular
Protuberanza infonde: Da ariditi, ò durezza irrigiditi, Poi da i poſterior
recti canali O'il nervco Umor pien di fali acri, ed atti Del calce Midollare
alfin trasfonde, Le fibre à ſtimolar, gli Spirti irriti, Del Fornice gli Spirti
à le due braccia Sta tempre aperto il Cerebro, e produce E in quel gli eſtranj
effuvj infinua, e caccia. Spirti continui, e la Vigilia induce. L'Adamo del
Campailla. Nina Per poco influſſo, ò per diſpendj immenfi, Nel tempo del
Dormire al Cervelletto Se al minorar fi vien lo Spirto in effi, Copia inaggior
di Spirti il Sangue infonde O’i ſuoi interſtiz; il nervco Umor più eféli Che
oſtrutto allora il Cerebro, e riſtretco, i; Tien, con più copia, e i cannellin
compreffi, Quei,che nõ manda à queſto, à quel trasfondo Queſti già reli vuoti,
e non più tenſi Maggior moto pertanto, e più perfetto Chiudonfi, molli, e
calcano in sè ſteſſi. Del Torace han le viſcere profonde, Continuar nel Cerebro
non porno E quelle de l'Addome, allor, che appieno Gli ſpiriti l'influſſo: e
faffi il Sonno. Immerfo è il Corpo Uman del Sonno in feno. 68. 74. Il Sonno è
un feriar di Senſi, e Moti, Mà perchè (dice Adam ) ſpelo, à miſura Mà Senli
eſterni, e Moti volontarj. Di noſtra Paſſion ſi formi il Sogno? Gli Spirti del
Cervel ſtan quafi immoti, Perchè m'idea, dormendo, e mi figura Chiuſe le vie de
Senſitivi Affari: Quell'Obbietto,che temo,ò quel,che agogno? Solo i ſuoi membri
proſſimi, e i remoti Qualor per breve, in queſta notte oſcura Tutti mantiene in
eſercizi varj, Michiuſe al Sonno i rai natio biſogno, (Perchè infuſſo di
Spiriti interdetto Vidi nel Sonno il Cherubino armato, Non hà ) la Region del
Cervelletto. Che mi avventava in fen brando infocato, 69. 75. Or così ſtando il
Cerebro.in quiete, L'Angiol riſpoſe: Il già commeſſo errore In una, in tutto
oſcurità diffuſa, Nel ſonno anche ti affigge, e ti tormentas Si occultan le fue
Immagini inquiete, Ti ſtringe il Cor, l'anguſtiato Core Ogni altra Idea de i
Senti eſterni eſcluſa, L'imprellione al Cercbel preſenta, In folche folitudini
fecrete Che pe'i Procelli orbicolar và fuore, La Mente è tutta in sè raccolta,
e chiuſa; E al tuo Senſo comun i rappreſenta: E del Cervello il diſcoriivo
Mondo Poi ne la Fantaſia forma i'alpetto Dorme in ſilenzio altitlimo, e
profondo. Del Cherubin, qual ſe ti apriſſe il petto, 76. Ed ecco, che per cieca
obliqua via, Altro ruſcel di Spirti al modo fteffo Di Larvette ideali erranti
ſquadre Dal Cervelletto al Cerebro diſcorre; Nel Coinun Senio, o ne la Fantaila
E per la via de l'anular Proceſſo Vagan leggicie or fpaventole, ed'adre, Lc
radici del Fornice traſcorre. Or veſtite di ainabije bugia, De Cherubin l'idea,
che trova in eſſo, Pingon bei Spettri, e Fantafie leggiadre; Seco rapiíce, e
ullin valia: deporre E van col Fallo, in naſchera di Vero, Nel Senſorio Comuo:
l’Alma, che'l vede De l'Anima à ingannar l'occhio, e’i penſiero. E lente il
duolo al Cor, ferito il crede. Tal ſe in Teatro cinbroſo il Popol liede,
Anch'io diſs’Eva) in quel notturo orrore, Niirando chiare aprir comiche Scene,
Mentre più gli occhi mici pianger nő ponno, E da Mimi larvati aſculta, e vede
Viep; iù per lo ſpavento, e pul timore, Tragiche finzion, menzogne amene: Che
per quieto oblio, mentre che a !Tonno, Quali del Ver fcordato, ii Falſo crede
Strangolate le fauci, oppreſſo il Core E da’luoi Seun italicdotto viene, Sento
da un Moftro, infra vigilia, e ſonno: Chefveglia ii Finto in lui, verace
intanto Volea gridar, volea fuggir, volea Odio, ) Amer,Picea, d Sdegno,c Rilo,o
Piáto. Scuoţer dal ſen la Belva, e non potea. 28. Chile fopite Immagini
alCervello Queſto č l'Incubo, Adamo (à dir riprende Svegli, i luoi Spisti in
renderne eccitati, A lui rivolto, ii Filico Divino ) Facile è di aſſignar, dal
Cerebello, Paroliſino terribile, che apprende Che fieno effiuvi, • Spiriti
ſcappati, L'Uoin, mentre che talor dorineſupino. Per quei fentier, che ſon, tra
queſto,e quello, Il Petto, e il Core ilmoto ſuo ſoſpende, Ne i Proceſi
ſcambievoii, incavati E fofpende ancu i Sangue il ſuo camino; De le
Protuberüize orbicolari, Che riſtagnando entro i polmoni in petto E de i terzi
Proceſli, ed anulari, Fà un breve si, mà aſſai moleſto effetto. Cio, che il
Sonno al Cervel coſtituiſce, Del Morbo Malinconico cagioni Vien l’Incubo à
produr nel Cerebello Son, ipaventoſi, e ſubiti tercori Qual, groſſo il
nerveoLiquido, impediſce Affetti violenti, e pailioni, Degli Spirti animali il
corſo in quello, Ipocondriaci, e Iſterici Malori: Tal di queſto il medemo anche
oltruiſce In queſte inordinate ripreſſioni Ogni talor ſuo midollar Canuello, Si
guaſtano le Viſcere, e gli Umori: Qualvolta amplia foverchio, in modi vari,
Onde mandati al Cerebro, ed eſtratti Di queſto pur le Strie triangolari. Spirti
ne fono, à gli uſi lor malatti. 80. 86. Come, al Cervel gli Spiriti impediti,
Mal fan l’uſo adempir più principale, Fermanſi gli uſi à gli Organi animali,
Ch'è: coʻlor moti armonici, adequata Così, gli Spirti al Cercbel fopiti, Tener
de l'Uomo à l'Anima immortale Ceffan quei de le Viſcere vitali, Quella, che al
ſommo Ben tendēza hà innata, Il Sengue, e gli altri Liquidi irretiti Mentre in
queſto ſuo carcere mortale Ne i polmoni, e lor vafi arteriali. Vive ad un Corpo
organico ligata: Ciò nel dornir ſupin ſuccede ſpeſſo: Che priva di lor Tolita
Armonia, Che il Cercbel dal Cerebro è compreffo, Sente una interior Malinconia,
81. 87. Prefa daʼNervi impreffion si rea Scemi di loro elaftica potenza, Al
Cerebro s'invia dal Cervelletto Debil tai Spirti à ſpanderſi han vigore, La
Mente un Moſtro in fantaſia s'idea, E di contrari Agenti à la prelenza Qual ſe
l'affoghi, e le comprima il petto: Producon, contraendoſi, il Tiinore. Poi
tratta al Comun Senſo è quell’ldea, Grolli, oltre del dover, ne l'aderenza Con
un corſo retrogrado indiretto Portan le loro Idee forina maggiore: La Idea ne
vede, e la impreſſion ne ſente; Onde di quel,ch'è in sè, ſempre più immenfo Or
che ſtupor, fe'l crede ver la Mente? Rapprefentan l'Obbietto al Comun Senfo.
82. 88. Miquel dal Setto lucido repiſce Anzi, però clie indebite miſture Spirto
le klee ne'Corpi ſuoi Striati? Di eſtrani effluvj in lor glaſtan le forme Del
Cerebel non già, che non fluiſce Appajono d'infolite figure Spirito in lui,
chii Cannellin turati. I lor Fantaſmi, e di feinbianza informe: Si parla Adaino:
E Raffacl fupplilce Tenebroſe le lınmagini, ed oſcure Del Cerebel gli Spiriti
privati, Non terbano à gli Obbietti Idea conforme: Per doppia orbicolar
Protuberaliza, Quindi de i Malinconici eſſer dee u Cerebro, che n’hà minor
inancanza. Piena la Fantalia d'incongrue Idee. 83. 89. De le vitali ſu Vilcere
à l'uſo Inino il M.lincolico à tal ſegno, Tutti gli Spirti il Cercbel riparte;
Solo in penſier fantaſtici ſi aggira: Il Cercbro non già, che benchè chiuſo,
Pregna hila Fantatia, colmo l'ingegno, Ne reſts pieno, e altrui non ne fi
partc. D'incoerenti Idee; ma non deli. a: Reſtande elauſto quel, da queſto
infuſo Chc, benchè erranti, in sè ſenza ritegno, Hà lo Spirto animal per quella
parte, Le involontarie Immagini riinira, Che dal Corpo Callofo, ove diſcende,
Pur ben fi avvede, e noto há ben, che ſia A gli Striati, ivi le Idee diſtende.
Sol tutto l'Effer loro in Fantaſia. 84. 90. 11 Sogno paſſaggiera è una Pazizia,
Mà ſe da le ſuc viſcere eſalato, Ma la Pazzia poi Sogro è permanente, Per i
Nervi, Par vago, e intercoſtale, La Ipocur driaca in cui Malinconia Morbofo
effuvio, al Cervelletto alzato, Riduce PUomo à delirar fovente. Per il di
dietro al Fornice poi fale, Contraria de Maniaci à la Follia, Ogni incongruo
Fantafina, ivi formato, Ch'è cir:Je !, furioia, audace, ardente, Che ne la
Fantuſia difpiega l'ale, Quefiriè timida, e imbelle, e'l penſier volto Nel
Senforio Comun con feco tira: Hà follecito al Plen, itupido al Molto. L'Alma
allor Ver lo giudica, e delira. Del IL DISCORSO UMANO, Del nobile cosi Diſcorſo
Umano, De'tanti ancor traccò Logici errori E de'ſuoi varj organici difetti Che
al diſcorſo depravauo i Giudici, Filoſofo l'Arcangelo ſovrano, E qual di Verità
gli alti ſplendori Con ſottili penfieri, e chiari detti. Oſcurano à la Mente i
Pregiudicj: Indi ſpiego i Rimedj, ond'egl’inſano Come la Dialettica riſtori,
Reſo, à cagion de gli Organi imperfetti, Con norme, i falli in lei,
regolatrici; Poffi à i retti tornar ſuoi Sentimenti, E al fine il giuſto Metodo
glieſpone, Con medicarne i gu'aſti ſuoi Stromenti. L'ulo à bene adoptas di fua
Ragionc. Estasi di santa Teresa d'Avila scultura di Gianlorenzo Bernini
Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando
altri significati, vedi Estasi di santa Teresa d'Avila (disambigua). Estasi di
santa Teresa d'Avila Ecstasy of St. Teresa HDR.jpg Autore Bernini Materiale marmo
e bronzo dorato per i raggi divini Altezza350cmUbicazione Chiesa di Santa Maria
della Vittoria, Roma Coordinate L'Estasi
di santa Teresa d'Avila è una scultura in marmo e bronzo dorato di Bernini,
rcollocata nella cappella Cornaro, presso la chiesa di Santa Maria della
Vittoria, a Roma. La scena raffigurata nell'opera è, per la precisione, una
transverberazione e non un'estasi, quindi la scultura è talvolta chiamata anche
"Transverberazione di santa Teresa d'Avila". Storia Modifica
Nel 1645 - in un periodo in cui, con il pontificato di Innocenzo X, la
straordinaria carriera artistica di Bernini stava conoscendo qualche
appannamento - il cardinale Federico Cornaro affidò alle sue qualità di
architetto e di scultore la realizzazione della cappella della propria
famiglia, nel transetto sinistro della chiesa di Santa Maria della Vittoria, a
Roma. Bernini, nell'eseguire la commissione, cercò una sua rivincita
professionale verso l'atteggiamento tiepido che il nuovo pontefice mostrava nei
suoi confronti e chiamò, per così dire, a raccolta tutta la sua inventiva di
architetto e di scultore sino a giungere a realizzare uno degli esempi più
elevati di arte barocca. L'Estasi di santa Teresa d'Avila, eseguita, una volta
portata a compimento piacque immensamente al Bernini, che con una certa
modestia la definì come la sua «men cattiva opera» (dunque la migliore delle
sue realizzazioni). Lo stesso Filippo Baldinucci, nella biografia dell'artista,
riporta che: «il Bernino medesimo era solito dire essere stata la più
bell'opera che uscisse dalla sua mano» Descrizione Modifica Visuale
della cappella Cornaro: al centro troviamo santa Teresa e il cherubino e, ai
lati, si scorgono i vari membri della famiglia Cornaro che si affacciano dai
finti balconcini Una delle cifre per intendere l'arte barocca è, come noto, il
gusto per la "teatralità": la rappresentazione spettacolare e
talvolta anche enfatica degli eventi. In quest'opera Bernini, mettendo a frutto
la sua esperienza diretta di organizzatore di spettacoli teatrali, trasforma,
in senso non metaforico ma letterale, lo spazio della cappella in teatro.
Per far ciò egli amplia innanzitutto la profondità del transetto; poi, aprendo
sulla parete di fondo una finestra con i vetri gialli, pensata per rimanere
nascosta dal timpano dell'altare, si procura una fonte di luce che agisce
dall'alto, come un riflettore e che conferisce un senso realistico alla
irruzione sulla scena di un fascio di raggi in bronzo dorato, così la luce che
scende sul gruppo, attraverso i raggi, sembra momentanea, transitoria e
instabile in modo da rafforzare la sensazione di provvisorietà dell'evento.Si
può facilmente immaginare quanto tale effetto, nella penombra della chiesa,
dovesse apparire a quel tempo suggestivo. Anche la freccia originaria retta
dall'angelo, ora sostituita da un semplice dardo, venne realizzata con dei
raggi che scaturivano dalla sua punta, a rappresentarne il fuoco del «grande
amore di Dio», come santa Teresa stessa ebbe a dire nella sua
autobiografia. L'elegante edicola barocca, realizzata con marmi
policromi, nella quale Bernini colloca la scena dell'Estasi di santa Teresa,
funge da boccascena del teatro: essa mostra la figura della santa semidistesa
su una vaporosa nuvola che la trasporta – come se fosse operante una macchina
da teatro nascosta – verso il cielo. La trasformazione della cappella in teatro
diventa letterale con la realizzazione, ai due lati del palcoscenico-altare, di
«palchetti» sui quali sono raffigurati – ritratti a mezzobusto – i vari
personaggi della famiglia Cornaro. L'evento privatissimo dell'estasi della
santa diviene in questo modo evento pubblico, al quale i nobili spettatori
paiono assistere non già con trepido stupore e con vivo trasporto devozionale,
ma con staccato disincanto; li vediamo anzi - come avviene spesso a teatro -
intenti a scambiarsi i loro commenti. Il palchetto sinistro, con i membri
della famiglia Cornaro in veste di testimoni attivi dell'evento mistico Ma non
è per la famiglia committente, bensì per l'ideale platea dei fedeli che si
accostano all'altare – palcoscenico della cappella che Bernini mette in scena
l'estasi della santa. Egli dimostra qui tutta la sua maestria di scultore,
capace di lavorare il marmo come fosse cera, con estrema attenzione ai
particolari. La veste ampia e vaporosa della santa, lasciata cadere in modo
disordinato sul corpo, è un capolavoro di virtuosismo tecnico, per effetto del
quale il marmo perde ogni rigidezza e la scultura sembra voler contendere alla
pittura il primato nella rappresentazione del movimento. Commenta a questo
riguardo Ernst Gombrich: «Perfino il trattamento del drappeggio è, in
Bernini, interamente nuovo. Invece di farlo ricadere con le pieghe dignitose
della maniera classica, egli le fa contorte e vorticose per accentuare
l'effetto drammatico e dinamico dell'insieme. Ben presto tutta l'Europa lo
imitò.» La raffigurazione delle estasi mistiche dei santi e delle loro
visioni del divino, rappresenta uno dei temi più cari all'arte barocca: i santi
«con gli occhi al cielo aiutano» – seguendo le raccomandazioni dei gesuitisulle
funzioni pedagogiche dell'arte sacra – a sentire emozionalmente, con il sangue
e con la carne, cosa significhi l'afflato mistico che porta alla comunicazione
con Cristo e che è prerogativa della devozione più profonda. Anche sotto questo
aspetto, della raffigurazione dell'estasi, l'opera realizzata da Bernini nella
cappella Cornaro, sarà destinata a far scuola e ad essere presa a modello
innumerevoli volte nella storia dell'arte sacra. Sul piano iconografico
l'Estasi di santa Teresa, che trova il suo prototipo nell'Apparizione di Cristo
a Santa Margherita da Cortona di Giovanni Lanfranco (1622),[6] è direttamente
ispirata a un celebre passo degli scritti della santa, in cui ella descrive una
delle sue numerose esperienze di rapimento celeste: «Un giorno mi apparve
un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla
cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più
volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me. II dolore era così reale che
gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare
di esserne liberata. Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento.
Quando l'angelo estrasse la sua lancia, rimasi con un grande amore per
Dio.» (Santa Teresa d'Avila, Autobiografia, XXIX, 13) Il resoconto che la
santa ci offre è raffigurato quasi alla lettera da Bernini nella sua
composizione marmorea, con il corpo completamente esanime e abbandonato della
santa, il suo volto dolcissimo con gli occhi socchiusi rivolti al cielo e le
labbra che si aprono per emettere un gemito, mentre un cherubino dall'aspetto
di fanciullo giocoso, con in mano un dardo, simbolo dell'Amore di Dio, ne
scosta le vesti per colpirla nel cuore. Notevole è il contrasto tra l'incarnato
liscio e delicato dell'angelo (che fa pensare più a un Eros della mitologia
greca che a un'entità spirituale cristiana) e le vesti scomposte della Santa. Il
volto della Santa e dell'angelo Interpretazione psicoanalitica Modifica
L'interpretazione che studiosi della psicoanalisi come Marie Bonaparte hanno
dato (proprio a partire dai resoconti di transverberazione lasciatici da santa
Teresa) all'esperienza dell'estasi mistica in termini di pulsione erotica che
si esprime sublimandosi nel deliquio dell'afflato spirituale, ha condotto la
critica a sottolineare in quest'opera di Bernini la bellezza sensuale e ambigua
dei protagonisti, avvalorando così la possibilità di una sua lettura in termini
psicoanalitici. Lo psicologo italiano Enzo Bonaventura fa riferimento a Cupido,
evidenziando, a livello simbolico, un nesso tra la figurazione greca e la
trasfigurazione religiosa nell'arte cristiana[7]. Per provarne la legittimità,
occorre solo richiamare la parola di Renan in viaggio a Roma, davanti a questo
stesso gruppo statuario: «Si c'est cela l'extase mystique, je connais bien des
femmes qui l'ont éprouvée. Si potrebbe comunque ulteriormente citare il conte
de Brosses[9], il Marchese de Sade[10] o lo scrittore Veuillot. Collateralmente
a quest'interpretazione che considera l'esperienza di Teresa, e la scultura che
la ritrae, nei termini di quello che (per usare un'espressione di Georges
Bataille) potremmo chiamare «erotismo sacro», si deve tuttavia osservare che
l'approfondimento della biografia dell'artista napoletano ha recentemente messo
nella giusta luce la sua religiosità; una religiosità che in quel periodo della
sua vita (quando aveva circa cinquant'anni) si era rafforzata attraverso la
pratica degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, eseguiti sotto la guida
dei padri gesuiti che egli frequentava. Verosimilmente la lettura della vita di
santa Teresa non dovette essere un fatto occasionale, limitato a singoli passi,
segnalati magari dal committente. Al contrario, alcuni studiosi hanno letto
nell'Estasi di santa Teresa anche l'eco del racconto di altre esperienze
mistiche, come quella della santa genovese Caterina Fieschi Adorno. La
straordinaria qualità estetica e l'intensa drammaticità del gruppo marmoreo è
dunque da collegare alla personale ricerca spirituale di Bernini, al suo
impegno a scoprire per sé stesso, per poi mostrare a tutta la comunità dei
fedeli il senso di quell'amore espresso oltre ogni misura verso il Redentore,
che trova esempio nella vita dei santi. L'influenza dell'opera di Bernini
fu enorme non solo sui contemporanei, ma anche su molti artisti dei secoli
successivi. Il famoso compositore Pietro Mascagni, ad esempio, nel 1923 compose
una visione lirica per orchestra dal titolo Contemplando la santa Teresa del
Bernini, un brano della breve durata di appena quattro minuti. Marder, Bernini
and the art of architecture, New York; Marder riferisce a Irving Lavin, Bernini
and the Unity of the Visual Arts, New York; e a Barcham, Some New Documents on Cornaro's
Chapels in Rome, in: Burlinton Magazine, Cricco, Francesco Di Teodoro, Il
Cricco Di Teodoro, Itinerario nell’arte, Dal Barocco al Postimpressionismo,
Versione gialla, Bologna, Zanichelli; Cocchi, Cappella Cornaro ed estasi di
Santa Teresa, su geometriefluide.com. URL consultato il 30 novembre 2016. ^
Oreste Ferrari, Bernini, in Art dossier, Giunti; Gombrich, La storia dell'arte,
Milano, Leonardo Arte; Lollobrigida, A. Mosca, Biografia, in Lanfranco a Roma,
Milano, Electa; Bonaventura, La psicoanalisi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano
Traduzione libera: «Se questa è un'estasi mistica, conosco molte donne
che l'hanno vissuta» ^ Cfr. de Brosses: «Se questo è amore divino,
io lo conosco bene!» ^ Cfr. Marchese de Sade: «Si stenta a credere
che si tratti di una santa» ^ Cfr. Veuillot: «[Bisogna] espellere
l'opera dal tempio... venderla... o farne calcina!» ^ Jean-Louis Bruguès,
Dizionario di morale cattolica, Edizioni Studio Domenicano; Bataille: «E
la sensibilità religiosa che unisce strettamente desiderio e paura, piacere
intenso e angoscia» ^ Bernini - Estasi di Santa Teresa, su
scultura-italiana.com, La Scultura Italiana; Don Michael Randel, The Harvard
Biographical Dictionary of Music, Harvard; Bernini Santa Teresa d'Avila Estasi
di santa Teresa d'Avila L'Estasi di Santa Teresa d'Avila di Gian Lorenzo
Bernini raccontata da Caterina Napoleone, su raiplayradio.it. Portale
Architettura Portale Cattolicesimo Portale Scultura
Ultima modifica 6 mesi fa di eBot Chiesa di Santa Maria della Vittoria (Roma)
edificio religioso di Roma. Transverberazione Estasi. Opera. Bernini. Le
e&Usi dell’amore di patria. La niftscliera di Mazzini. Patria, e
religione^ eroi della patria e santi. Meglio il i'Jtammiisme che
rignonui^a dell'amor di iwitria, Diverse funoe dell'escisi dell"
amor di patria, — 11 ritorno in Italia dell' autore reduce dair TnfUa. Estasi
BoUtarie dei ^andi amatori della patria. Gli eroi della storia e gli eroi
aiiouijiii, Estasi epidemiche. Incendii delle foreste e iiiceudii
del euore namonale d'uu populu, Eafliroiiti e ecmsiderazìoiii. Nel
mio Mu^eo d'a^ntropologiu di Firenze, in uuo degli armadii consacrati
alle grandi ìndiviilnalitì\ della apecie umana, vi ha la teista di un
uomo^ che ferraa V attenzione del piii frettoloso e .superficiale^
osservatore. Quando devo far da cicerone di mala voja^lia a qualche
importuno, lo aspetto a quell'ar- madìo, per consolarmi della lunga noia
di ripe- tere davanti alle stosjie vetrine le sten^^e parole. K VX
il visitatore sì ferma e dice; quella te«ta t) fonte qudìa di un
mniof Siete un buon osservatore, quella testa è di un santo e
fu formata sul cadavere. E che santo è quello? Si
chiama Giuseppe MazsEiui. Si potrebbe scrivere un volume su
quelFincon- scia rivelazione dei più voI*(ari osservatori, che
dinanzi alla raaafìhora di Mas^^^ini, domandano so quello sìa un santo. La
fìsonomia a#icetìca è nna delle jiiù CJiratte- riaticlie, ma anche ana
delle piìi iiidefiuiV>ìli, E il Miizriui Taveva, o morto pareva
ad<Urìttiira "n santo j?iù jflorifìcato ool piiradiso
cristiano. In quella domanda, che prorompe spontanea dal
labbro dei visitatori del mio Museo, vi è tutta la biografia di un uomo,
che amò la patria con fer- vore mistico e fece della sna polìtica una
reli- gione. E^fli stesso del resto si era asse|?Dato il suo po.sto
nella storia del pensiero italiano, scri- vendo sulla sua bandiera, Dio e
popolo^ due par role una pih miiitica deiraltra e che messe vicino
non sono che nn f^rido ilei onore lantùato neirin- finita» poetico
deindealita politica. L'amor di patria è uno degli aftotti più alti,
ma più indistinti e la cui analisi psicologica esi^e- rel>be
nn volume. È sentimento di lasso, perchè molti nomini d' alta e di
bas.^ gerarchia non lo sentono e perchè si dirige, più che ad un
lembo di terra, ad un mito corai)osto di materia e di idealiti\ e
che muta forma e muta confini a s^ condadeì tempi e di conto altre
influenze esteriori* l sentimenti ili lusso, non hanno che
raramente la intensa energia degli affetti ut^oessariij ma per la
loro indeterminateaza o h\ sconfinata po.-^Mibi- lltà dei loro movimenti
possono imi facilmente portarci all'estasi. Por V uomo
selvaggio, sia poi tale perchè non veste il proprio corpo, o perchè uou
vet^ite il pro- prio pensiero; la patria è poco più che il nido per
r uccello o la tana per le fiero. È la casa iu cui è nato, è V albero
sotto cui ha dormito, è il fiume iu cui sì è tuffato, il bosco dove ha
cac- ciato, è la terra dove tutti gh uouiini ras.'^omi- ^liano a
Ini j parlano come lui, come lui odiano l'altra geuto che sta al di là
dal monte o «lai mare, L^t patria, circondata o no dal luare^ è
sempre un'isola; e chi si isola divien parcnttì di tutti co- loro
che stanno nella stessa carcere. La patria non h che una famiglia più
grande di quella che sì chiude sotto il tetto domestico, non è che
una casa più vasta di quella che alberga una stoasHi
famiglia. 2Jon amare la patria ò una vilti\ del cuore ^ è un
cretinismo del sentimento j quando non sia la previsione di tempi lontani
e migliori, nei quali la patria dell- uomo sarà tutto il nostro
pianeta, e stranieri soltanto si chiameranno gli aiutanti tlegli
altri mondi coi quali di certo un giorno parleremo, e forse per farci la
guerra. JJ amor di patria- è figliale e mistico in nna Tolta sola;
è tenero e ascetico, l^^igliale perchè la patria è la madre universale di
tutti quelli che parlano la stessa lingua, pensano lo stesso Dio e
Bparf^ono insieme lo stesso sangue. Mistico, perchè la patria non si può
baoiarej né abbracciarej e i suoi confini son segnati sopra una carta,
che non è negli atlanti geografici, ma nel cuore amano. La
patria è uno «lei circoli del paradiso dan- tesoOj dove da un piccolo
cerchio irradiano aonc piti larghe, come cerchio d'acqua smossa dal
ca- dere di nna pietra. Dal villagjrio adorato dove ci hanno
battezzato e dove speriamo di esser sepolti^ alla provincia, al regno,
all'impero, alle colonitv nostre lontane, la patria si allarga, si
allarga sem- pre, portando seco le tenere oscillaaioni del no- stro
cuore, dei nostri afifetti, della gloria nazionale* Quel palmo di
stoffa che si chiama la nostra bandiera j che un colpo di sole, uno
scroscio di pioggia pnò impallidire, quella stoffa che costa poche
lire e che una vampa di fiamma può ri- durre in un pizzico di cenere^ è
il simbolo di tutti iJamqr di patria 93 quelli affetti che .si
condensano sotto nno stesso nome, e là dove sì pianta quella bandiera ivi
è la patria^ ivi i ricordi comuni e le tiomuni svimture e le glorie
eomuDi oliiamati a raccolta da im voce sola^ che le incarua e le
personi&ca. Chi analizza un sentimento t^oUa segreta spe- ranza
o colla malignità palese di distruggo rio, compie opera vana. Se lo fa
per Bè non diatnijE^ge che ciò che non è mai esistito ; se lo fa per
altri, predica nel dea erto ; dacché nessaun ragionamento ha mai
fatto diminuire d' un palpito un grande amore. La doìina che
tu ami è una die creatura, fa amata rfrt ceiito uomini ptlmn che tu In
aìì^rnssi,,., U ohe importa f lo Vmno, Il Dio che tu adori non
è mai cswUto. Moto mo- siruoso in cui V antropofagia deW uomo
quaternario ti trova insieme alla industria delle simonie^ alle
pag- gio Uologiche,., Mmpio^ tu non sai qneìh che dwL 11 mio Dio
esista ed io VaàoTù. Lo 8tes30 sarebbe tcntR^r di strappar
con vani ragiimumenti a un uomo l'amor di patria^ quando ej^Iì lo
senti.^ palpitare nel più caldo e nel pia profondo delle vi scerò, quando
e^li ne ha fatto una religione, a cui è pronto a darò tutto quanta
ha, tutto il sanane delle sue vene* L'amor di figlio, r ani or dì madre,
l'amore per la donna amata fiirono In o^cni tempo «jloriosi olocausti di
anime elette futti 8ul l'alta re della patria. E poi andate a dire
a quei martiri che la patria è il mondo eh' easa non ha altri contini che
lo spazio interijlanetarel Finche lo nazioni esiatono, fìnc^hè le
lingue umano wi contano a luigUaiaj fìnehè metà del ge- nere umano
non può intender Taltra mete, finché ffBt nonio e uomo vi sono maggiori
differenze psichiche che fì*a un oane e nn lupo; l'amor di pntria
non hi discute^ ma sì 8entt% e nn iiopolo è tanto pili grande, quanto è
pia vivo e calilo e universale in lui questo sentimento.
Benedetto conto volte il più folle ehmwmismej maledetto il cinismo
dì chi domanda ridendo: 1} che cosa è hi patHa? La patria è
la terra ^ in cui in ogni 8olco vi è l'amor di patria 05 Il uà
gocdola dì f^tangne o ili sudore dei padri do- stri in ogni pugno d'arena
vi è della ceneri^ dei nostri avi; la patria è la terra in cai
dorim» in nostra madre e dormiranno i nostri figlinoli; è la storia
di tutto il passato, la storia di tanti secoli ili glorie e di sventare
vissuti da coloro che ci hanno data la vita; la patria è la madre di
tutti quelli clie parlano e sentono come noi ; è quo 11 a t-erra^
il cui nome solo udit(j pronunziare in terra lontana ci fa battere il
cuore, ci fa baciare un giornale. È quella parola, che solleva onde di
po- poli a un gritlo rli guerra, cUc fa escire da ogni capanna nn
uomo armato e ad ogni finestra fa affaciìiarc una testa di donna
ijiangente- La pit- tria è una parola magica che può convertire
ogni uomo in un soldato e ogni donna in nna martire, che fa*
piangere i fanciulli disperati di non esser ancor uomini e fa pian^^ere i
vecchi perchè non posftom» più imbraudire nn fucile. La patria è
tiuella santa parola, che lUstacca Toperaio dall'of- iìcintìi, il
contatlino dal cami>f>, V uomo di lettere dal libro, il banchiere
dallo scrigno; che strappa daltc braccia della fanciulla il giovane
innamo- rato; e tutti riunisce in nn^mìca schiera e sotto uno
stesso vessillo, in cui tutti guardano Assi con occliio d'eroe e amore
<\i martire. Quar altro altare ha tanti adoratori? QuNUaltra
religiane ha tante idolatrie? QuaVè Tara su cui si portino
altrettante vittime ^ che corrono chia- mate o non ohi amate, ma
sorridii^nti e calde d^eu- tnsia^mo? QuaValtra parola ha tanta
onnipotenza, q 11 al' al tra estasi può superare co deista di
sentirsi in uD^ora sola (livennti trenta milioni di fratelli, che
amano lo stesso amore, che sentono lo stesso otlio, che so cenano lo
stesso sogno di vendetta o di sdegno? Le estasi più
oomuni dell'amor di patria sono qaelle che si provano nel rivedere la
terra nativa dopo mesi e anni di lontananza e le altre che si
godono nelle grandi feste, che salutano un grande trionfo nazionale:
solitarie lo prime j associate le seconde ; grandi entrambe e capaci di
voluttà senza nome. La. nostalgia è nei trattati di patologia
una mar latti a che si classifica fra le alien azioni mentali.
Beati coloro che possono esser pazai in questo modo; infelici coloro che
per grettezza di cuore o per esser nati venti o trenta secoli prima del
loro tempo non sono capaci dei rapimenti del rivederti ]fh
patrìft dopo lunghe assenze. Io che ho vissnto molti anni neir altro
emisfero e che ho attraver- sato l'Oceano per otto volte ho provato
quest* e- stasi in tutti ì suoi gradi e in tutte le sue forme. Mai
l'ho goduta eosì intensa e così profonda come dopo il mio ultimo viagfi^o
nelP India. L'amor della patria, ai rovescio degli altri
amori, cresce cogli aonì^ e quando io 'ttopo alcuni mesi di assenza
al mio ritorno dall' Tiidia soppi che al- l^indomani avrei riveduto
l'Italia, sentii eho il cuore batteva forte forte, come dinanzi al
sorriso della donna amata. Io non vedeva ancora la mia terra,
ma la sen- tivo. Sentivo che essa mi aspettava come ci aspetta la
nostra donna in un ritrovo d' amore limi^iimente desiderato» La mia
patria, Tltalia mia non poteva esser lontana.. L'onda più azzurra,
il cielo più sereno me lo dicevano ad alta voce ; me lo diceva il profumo
dei fiori d'arancio che mi invia- Tano gli orti benedetti della Calabria
e della Si- cilia, Ed io guardava fisso davanti a me neir o-
rizzonte lontano j che la mia nave andava conqui- Esta^i umam,
stando ad ogni moto deir elice. La nebbia sfumava, Topaie
diventttvii oltremare, e fra le nebliie lon- tane vedeva un mondo, nuovo
e antico per me, la patria dei miei avi. La nebbia diveniva terrai
e cielo; terra e cielo T Italia. — Fra poche ore avrei baciato quella
terra e sul mio capo si sarebbe disteso l'azzurro ohe mi aveva veduto
nascere. Non sarei più morto in terra straniera e i miei cari
avrebbero potuto piangere inginocchiati so- pra la mia terra, sopra la
terra che aveva gene- rato me e i miei cari. E la terra
nebbiosa e oscura si disegnava in coste e in golfi, in monti e in piani ;
e in qaei monti e fra quei seni apparivano poco a pooo oasuccie
bianche incorniciate di pampini ver<li e riposavano fra boschi di
agrumi neri come il bronzo. In quelle case dormivano uomini che
par- lavano la mia lingua e quella terra mi mandava come un saluto
del cuore i profumi del mio orto, i profumi della mia giovinezza e tlella
mia poeaia. Là io era amato, là il mio nome non era parob ignota:
qualcuno mi aspettava. Vi erano braccia aperte impazienti di stringermi
al onoro, vi erano labbra di donna e di fanciulla pronte, impazienti
di baciar le mie labbra. Profumi di fiori e baci ohe mi chiamavano
ad alta voce, con sospiri d' amore, Come aveva potuto io per così lunghi
mesi star lontano (la quegli alberi benedetti, da qneWe brae-
cift innanioTìtte, da quella terra che ora. la mia, la terra della
mia culla e della mia iom^ f Nod avevo io commosso una colpa j che avrei
rerlenta fra poche ore ? Come avevo io potuto sopportare tanto
dolore ? B la nave camminnva ; e la nave correva e a destra il
continente d'ItalÌM, a sinistra la pììi; ^ande delle isole d' Italia si
avvicinavano a me^ lontaise e vicine, come due braccia aperte
all'am- plesso I — To mi smentivo abbracciato da quelle braccia
gigantesche, mi sentivo inebbriato da quei profumi ; udiva il mormorio
delle voci del- l'uomo, che dalla riva giungevano fino a me; voci
d'uomo e voci d- Italiani. Perfino Je vele delle piccole barche che sfì
lavano lungo la costa mi pa- revano pili bianche, più gaie, più snelle d'
ogni altra vela di mare. S^on eran forse vele italiane ì E r Etna
gigante fumava dair alto e il -calca- gno d' Italia poggiava anir onda
azzurra quasi volesse spiccare il salto alla conquista del mondo.
Avrei voluto gettarmi in quel] ^ onda per sen- tirmi bagnato dal
mare d* Italia, avrei volato lan- ci armi per giungere più presto a
toccare- quella terra santa, quella terra tlivina, madre di tre
civiltà e aon ancora stanca ; quella terra d' eroi e di fljartiri,
in cui tante genti avevano bevuto le prime fonti tìol pensiero, avevano
imi>aruto i primi canti (Iella poesia. Quanto or^oglio^ quanto
amore e quanta irapazienza di ridare a qnella terra il bacio di madre ehc
mi «fetta va lontano; dai suoi orti fioriti, dalle 6U© città illuminate
dalla gloria, dalle vette dei suoi monti pittoreschi, dai campi
così fecondi dì vita. Se qnella non era un' estasi e che cosa è
dunque l'estasi 1 Se quello non era un rapimento dei seasi, del
cuore, dell' amore, del passato che si strìn- geva col presente; se
quella non era una santa ebbrezza; e che cos'è dunque il rapimento;
che cos'è r ebbrezza! [ miei occhi eran gonfi di laf^rimCj ma
sorride vauo ; il mio labbro era muto, ma sorrideva tremando, come
davanti a un bacio ohe dovesse uecìdermi come uomo per trasfor-
marmi in un Dio. Estasi solitarie d' amor di patria devono pro- vare
quei pochij eletti che nascono per dar libertà o grandezza alla patria e
sognano prima e me>li- tauo poi l'opera grande che si prefiggono a
scopo della loro vita. Gran parte ili questi amori solitarii e
profondi si eouauma nell^ opera del pensiero, nelle lun^^^he lotte
di prepAvazìon^ ; ma tra le ansie di olii aspetta e sperando teme ad of^i
istante di per- dere il frutto di tanti sacrifici, di tanti sudori,
e forse di tanti martirii ; vi devono esr^ere istanti in cui alla mente
riscaldata da tanto entusiasmo appare V alba della vittoria in nn
orizzonte lon- t-ano e la speranza del premio fa batter forte il
cuore. Quanti^ visioni sublimi devono esser ap* parse a MAZZINI (si veda),
al Cavour, al Garibaldi, quando neir esilio o nelgabinetto di ministro o
sul campo di battaglia sognavano di far libera, grande ed una la
nostra patria e sentiviìuo «li poter essere artefici primi in quest'
opera grande ; sogno di tanti secolij miraggio di tante
generazioni. Le imprese degli eroi riuiangono scritte in tavole di
bronzo o in monumenti di marmo, scritte co[ ferro e col fuoco, colle
torture dell* ergastolo o le lunghe angoseie notturne del pensiero
che non dorme j ma ciò che non rimane scritto è Pestasi che prepara
quelle imprese e che le prevede in anticipazione. Ogni frutto
si feiionda neir amplesso dei petali profumati e fulgenti di bellezza e
ogni figlio di creatura viva nasce dall' anelito di un grande amore.
Cosi le opere magnanime che salvano un popolo o che Io glorificano, clie
rompono le catene dell' oppressione o allargano le frontiere della patria
non 80D0 mai uragani di violenti e o subitanee divinazioni del geuio ; ma
si preparano lentamente e lentamente maturano nei sautiiiirì del cuore e
del pensiero, là dove i ^ermi celati preparano r albero fntnro ohe darà ombra a
un' intiera nazione. La poetala sprezzata solo dal volgo dei faccendieri,
perchè non sono capaci d' intenderla, è la madre d*ogni opera grande e non e-
è grande soldato o grande uomo di Htato ehe non fosse anche e
soprattutto poeta. Poeta nel sognare imprese che ai più apparivano come
pazae utopie ; poeta uel fan taa ti e are e neir osare ; poeta uel
deliziarsi nelle sante visioni dell'avvenire; poeta nelle estasi
<imorose che mostra^io al eredente premio lontano di grandi vittorie.
Xon invano i Greci hanno detto che il poeta è un creatore. Né le
sante estasi dell' amor di patria anno concesse soltanto agli eroi, ai semidei
della storia. Tutti coloro che hanno fortemente amato la patria, tutti
quelli che hanno dato ad essa il pensiero o il sangne, che hanno cospirato
jirìiua e studiato poi per darle grandezza e pot**iiaa, pouno nella
loro vita aver provato rapioientì delizioM. OgDuno pia che sé stesso non
può dare all' altare d' na grande affetto e nelle rivoluzioni e nelle
gfaerrej come nelle grandi lotte poli ti <; he gli amanti della patria
possono contarsi a legioni e la storia li dimenticfi, appunto perchè son
troppi. T^a storia ha fretta e personifica iu nn tipo i martiri
minori. Pellico è il martire delle cospirazioni, Mazzini è V
apostolo della religione della x^atria » Garibaldi 1' eroe, la Cairoli è
la martire delle niadri Cavour fe il pensiero in azione, e così via>
Per ogni forma del sagrifìzio y per ogni opera della mente, per
Ogni travaglio dei cuori, la storia segna un individuo che divien statua, ìdolo
e tipo, e dimentica le molte figure anonime, che si raggruppano intorno a
quei tipi e fanno loro lieta ghii'landa. Né questi negletti della storia
lamentano l'in^ustìzia : al monumento, alle corone, all' arco di trionfo
essi non hanno pensato mai. Essi hanno amato la patria e per essa hanno
pianto o sono morti : la loro missione è compiuta e sono felici
come lo furono PeUioo, Garibaldi e CAVOUR (si veda), Anch' essi hanno provato
le sante estasi della speranza e della vittoria^ e la patria li ha l)enedetti
e glorificati nel silenzio delle loro case, nel nido delle loro
famiglia o dei loro a rio ri. La patria è grande percliè ebbe dì tali
figli e attraverso le vene e i nervi clic congiunto uo le
generazioni scorre V omla deir entusiasmo fe palpita la voluttà del
sacrifizio. Che cosa sarebbe il Cristo aonzii gli ApostoU; che cosa
avrebbe fatto GarlbaLtU »euza la coorte dei Mille, e Cavoar senza i precursori
del 31 ? No (lo voglio ripetere per la centesima volta), la
iiatnra non è così irtginsta come appare alle esigenze dei più. Le gioie
maggiori della vita non si misurano col metro del ^enio o snlla
bilancia della ricchezza. Tutti, innanzi morire, possono essere baciati
dalle labbra innamorate d'una donna; tutti posisono render quel Via ciò
alle labbra d'una Agli a. Nessuno è così povero da non poter fare
aagrifìzto dì se alla patria, nessuno così infelice da non provare le
estasi dell- affetto e della poesia. Pel sole che dair alto illumina tutte le
creature della terra, nessuno è grande, nessuno piccolissimo e i suoi rag^ì
entrano beatificando e consolando nelle ftbre d' ogni cuore, nella
porta iV ogni tugurio. I piccoli numeri di ventano grossi se som
muti iDsieme. Così i piccoU affetti ponno divenire nra* gani se i
cuori battono insieme. CIic! co.sa è una gocciola? Eppure i* oceano è
fatto tii gocciole, Kessim affetto forse quanto Tamor di jiatria
può per la isna natura moltiplicarsi con grossi numeri e allora V
entusiasmo degli individui diviene onda che alla^^a le contrade e rapisce
nella sua corrente case e villaggi, città e popoli intieri. È questo un punto
ancora oscuro della psicologia umana e che pare dovrebbe formare una
delle baai tetragone di ciò che suol chiamarsi la fllosofla della atoria.
Come 3i sommano due affetti analoghi o eguali ? Di certo non colla
regola aritmetica che 1 + 1^2, E oome si moltiplica un entusiasmo, quando
si ripete cento, mille, centomila volte nello stesso tempo in
cento, in mille, in centoraila cuori? Anche qui la regola matematica non serve
a spiegare r allargarsi e il diffondersi del fenomeno ripercosso in tante
coscienze umane. Vi sono epidemie per il sentimento come pei morbi
popolari» e il difibiifieriii degli entusiasmi presenta gli sttsa
misteri^ gli stessi salti bizzarri^ gli stesai prodigi nome V allargarsi
^elle grandi epidemie. L' incendio dei cuori per influsso d' nna
gloria nazioDale è uno degli spettacoli più grandiosi e commoventi
del mondo utnauo, ed io compiangd tnttì coloro, cbe nel corso della loro
vita non hanno 'potuto assistere ad una tli queste grandi feste,
nelle quali tutto un popolo canta Tinno della gioia e lo accompaguauo gli
squilli elettri^zauti della vittoria e la fanfara del tumulto popolare e
l'ebbrezza di tanti cuorij che sentono tiel tempo s^tesso la stessa gioia,
clie ardono deHii stessa febbre, dello stesso delirio. Kon invano io
ho rassomigliato ad un inceufiio questi rapimenti nazionali: nessuna
immagine potrebbe rii|»presentare più fedelmente lo svolgerai di questo
fenomeno umano. Ma non ha ad esser? incendio di pagliaio ^ che le società
di assiearazioni registrano con dolore, o fi ara me di cucina, che
pompieri benemeriti spengono in un* ora colle loro pompe. Ci vuole
nno di quelli incendi delle vergini foreste e della pampa ci eli* America
meridionale^ che ho le tante volte veduto e ammirato nei nùei
viaggi. La fìatniua è venutu claU* alto o dal Im^^o, da na ftilinlue
o dal focolaio d' un viaggiatore : non importa. É fiamma che non riguarda
le socktà d^ mmìirazlomf né chiama a i?*è i pompieri. È fuoco Glie
s'allarga a destra e a sinistra^ che sale ìii alto lim^o le scale delle
liane sugli alberi alti come torri e che rade le erbe del basso come
rasoio ardente. Erbe e cespuglìj alberi e arbusti, piante di mille
anni e florclUai sboceiati ieri, tutto è invaso dalla stessa fiamma, che tutto
divora e eonsama/ Nessuno resiste a quel fuoco, non U cacto gonfio di
succhi, non le foglie verdi, non i tronchi secolari; nessuna pianta, nessuna
erba, nessun insetto che viva su quelle erbe, nessun rettile che
strisci, nesdun piccolo rosicante o armadillo che s'accovacoi nelle tane,
ne^ssuna belva del bosco, nessun mammifero della pianarti. Dinanzi a
riuel faoco tutti sono eguali e tutte lo creature hanno ad ardere
fiammeggiando, scoppiettando e detonando* Vola la fiamma in colonne, striscia
come onda, divampa come nembo, e non appena il fumo porta nel
fresco del verde il segno preoarsore della distruzìane^ il famo divien
calore e il calore diviea ìucendio, E riiicendio cammina;
prima incerto, poi siouro; prima trotta, poi galoppa, vola; esaltandosi
nel delirio d' uo' opera gigante di distrazione e di livellazione* I
piccioli innalzano il loro fuoco nelle regioni degli alti; e gli alti
precipitano turbinando e rovesciando i tiazoni incandesoenti nel
piano delle creature minori. E volano le sointiUe e serpeggiano le
fiamme, uè alcuno al mondo saprebbe dire chi dia maggior alimento a
quelle vampe. mag;2fior calore in quella voragine j in quella faCina
gigantesca. Screpolano, adoppiano, gemono i rami succoienti e rovinano i
colossi della foresta^ portando lontano lontano T inno di una
grande rivoluzione^ fluchè fra cielo e terra non si distin* guono
più né erbe ne arbusti^ né alberi, né animali; ma una cosa sola si vede,
una cosa sola si sente, il fuoco trionfatore d'una fiamma invadente e
tiranna. È la festa del fuoco, è V orgia della distruzione; è la
morte di un mondo vecchio che prepara il terreno a un mondo
nuovo. Cosi sono le feste nazionali, non imposte da decreti di
prìncipi o da grida di ministri, ma sorte spontanee per Tirrompere di un
sentimento caldo, elle infiamma tutti 1 cuori, che riscalda tutte
le coscienze. E le anime fredde sono ravvolte dall' incendio comune, e
gli egoisti, volenti o nolenti, si riscaldano allo stesso fuoco e i
timidi non trovan Bcami>o alla fuga. On^ni creatura che abbia in petto
un e nere di uomo deve ardere p consumarsi nella stessa fiamma. Padri e figli e
ignoti si abbracciano insieme e in una volta sola, e il riso e il
pianto che si confondono in un turbine solo fanno ridda e alzano al cielo
un grido solo ; che è r entusiasmo ; s' inebbri ano dello stesso licore
che è r affetto di patria. Anche il marmo si riscalda, se ravvolto dalle
fiamme, e anche il ghiaccio si discioglie e si consuma fra le vampe d'un
incendio. Saltano le più robuste serrature chiuse tlalla mano gelosa
tleir avarizia, sì spezzano le catene più robuste saldate dair egoismo e
dalla paura. Ogni "cuore umano ha ad ardere. dello stesso
fuoco; e il ferro robusto e il piombo vileJianno a fondere per una volta almeno
in uuo ft tesso croglaolo, formando una lega che bMì le le^^i
della cliìmica e le analisi della scienza. E 1111 popolo ebbro dì gioia',
che non conta pia nelle sue flohiere né poveri né ricchi, né gio
vani ne vecchi; raa canta con una voce sola, somma dì tutti i vafiitì, di
tntte le poesie, dì tutti gli urli umani : canta V inno della redenzione
o della vittoria. Chi ha avuto la fortuna di essere già uomo
nel 48 e nel 5^ rammenta questi incendi fìei onori italiani e per le
membra forse già intirizzite tW freddo dolla vec<3liiaia risente
ancora il caldo di quel fuoco. E rammenta ancora alcuni momenti di
estasi sante, di ineffabili rapimenti^ nei quali ogni altro sentimento
taceva o si eclissava davanti al divampare subitaneo e irresistibile di
un unico sentimento, V amor di patria. l'amoe di
patria 111ir Coa\ come <lair incendio delle foreste
ver«:iiii nello strato dì cenere clie rimane si prepara una terra
feconda per nuove creature a venire ; così
tietlp grandi estasi e nelle sante eìylirezze di mi popolo trionfante, si prepara un nuovo
terreno in cui sarà scrìtta una nuova
f^toria, È per questa via che lo guerre
diventano ri generatrici di nn popolo
stanco; e quando per due o tre i^enerazioni
non di rampa uno di questi incendi rigeneratori, i fanghi, le mutfe e i
bacterii invadono ogni tronco d' albero
e ogni seme di pianta, e dalla lenta putrefazione dei cadaveri, s' innalza un miasma omicida, elle
soffoca i bambini nella culla, .sommerge
i giovani nella palude deirozìo e della noia, e uccide i non nati nel
ventre delle madri. In tutte le lìngue dei popoli civili voi trovate scritto
che vi è un amore platonico, e se si è sentito da tutti il bisogno del
vocabolo, vorrebbe dire che la cosa esiste, o nella natura o nel pensiero degli
uomini. Noi non ci fermiamo abbastanza sopra i rapporti delle parole colle
cose, e ammettiamo si esso e
volentieri che tra
i molti suoi
capricci l'uomo abbia
anche codesto, di
fabbricare parole per
cose che non
esistono. Eppure ciò non è vero o almeno
non è vero che in parte. Se
fabbrichiamo una parola per un essere
immaginario, è però
vero che questo
essere fu immaginato
da noi e
quindi esìste o
è esistito nel nostro cervello.
Il guaio vero che si trova nello studio delle parole come vestito
delle cose è
questo, che non
tutti gli uomini
applicano lo stesso
vocabolo alla cosa
stessa, soprattutto quando
si tratta dì
fenomeni psicologici. Di qui
confasione, anarchia; torrenti
d'inchiostro e spreco
infinito di fiato
per spiegarci, per
intenderci e pur troppo, ahimè, per creare nuove contese e
nuove logomachie. Sappiamo tutti che cosa sia un coltello, una mano, un occhio
e a queste cose tutti applicano la stessa parola. Andiamo pure quasi sempre d'accordo nel battezzare il piacere,
il dolore, l'odio, la collera e molti altri fatti del mondo psichico, che hanno
per tutte le coscienze lo stesso significato e
che trovano nel
dizionario la loro
rispettiva veste. Ma
ben altro avviene,
quando si tratta
di fenomeni fugaci e confasi o
di momenti impercettibili di
un'emozione o di un
intreccio di molteplici elementi. Allora la
parola non è
che un'approssimazione grossolana
o uno sbaglio completo,
e noi significhiamo
con uno stesso
vocabolo le cose
più diverse, facendo
come colui che volesse
per forza far entrare il
proprio corpo in un
vestito che non
fu fatto per
lui. Questo accade,
per esempio, per l' aiwìre
piatomeo. Tutti adoperano
questa parola per
ischerzo o sul
serio, per ludibrio
o per difesa, per
ipocrisia o per convinzione,
ma le idee
che si rivestono
con questa stessa
parola son così diverse,
come il sì e
il no, come
il vizio e
la virtù, come
l'ipocrisia e l'idealità.
Proviamoci a interrogare,
facciamo un'inchiesta,
muoviamo un processo alla parola,
chiamando al tribunale
come giurati gli
uomini del volgo
e i filosofi;
gli uomini di
buon senso e
le donne oneste; chiamiamo pure
anche gli scettici
e i credenti;
i materialisti e gli idealisti. Che cosa
è l'amore platonico?
L'amore platonico è
un paradosso, è
un'utopia; non è mai
esistita e non
esisterà mai. L'amore
platonico è una
ipocrisia che copre
ben altra merce. L'amore platonico
è un lasciapassare
per salvare il
contrabbando. L'amore
platonico è una
falsa chiave o un
grimaldello per poter penetrare in casa d'altri senz'esser veduti. L'amore
platonico è un
travestimento dell' impotenza.
L' amore platonico è una maschera
ad uso dei
ladri e dei
malfattori. L'amore platonico
è la quadratura
del circolo. L'amore platonico
è la centesima
versione della favola della
volpe, che trovava
acerba l' ava che
non poteva arrivare.
L' amore platonico è l' amicizia fra un nomo
e nna donna.
L'amore platonico è amore
vero e
proprio, ma senza la
colpa. L' amore platonico è l’
amore con tutte
le reticenze imposte dalla religione,
dalla morale o
dalla necessità. L'amore
platonico è il
voglio e non
posso. L'amore platonico è
l'amore senza il
desiderio. L'amore
platonico è una
fraternità delle anime,
senza il possesso
dei corpi. L'amore
platonico è l' ammirazione senza
il desiderio. L'amore
platonico è tutto
l'amore, meno il possesso. L'amore
platonico è tutto
l'amore spogliato dell'animalità. L'amore
platonico è una
doppia menzogna a cui
non crede nessuno
dei due mentitori.
L'amore platonico è
il primo stadio
dei grandi amori
e l'ultima fase
dei piccoli amori.
L'amore platonico è
un patto giurato
da due che
spergiureranno domani. L'amore
platonico ò un
giuramento di marinaro fatto
durante la procella.
L'amore platonico è una
concessione fatta oggi
da ano dei
due contendenti colla
speranza o la
sicnrezza di aver Taltra parte
domani o posdomani.
L'amore platonico può
essere una finta
battaglia fra due
che non sanno
battersi o hanno
paura del sangue.
L'amore platonico è un
vescovato in partibus
infidelium concesso a
chi non si può
dare una
curia. L'amore platonico
è la metafisica
dell'amore. L'amore platonico
è la più
sciocca parodia della
più bella, della più grande, della più ardente delle umane passioni.
L'amore platonico è un
leone di gesso,
è una tigre di carta pesta, spauracchi da bambini o ninnoli di
fanciulli. L'amore platonico è la più alta espressione dell'amore ideale.
L'amore platonico è
il trionfo dell'uomo
sulla bestia, è
l'amore reso eterno
dall'idealità delle aspirazioni.
L'amore platonico è la
speranza; l'amore vero
è la fede.
Estasi umane, Vili
Sono trenta definizioni molto
diverse tra di
loro, alcune anzi
opposte alle altre,
ma rappresentano a un dipresso
tutte le possibili.
Lasciando da parte
quelle che, definendo
la cosa, la
negano, mettendo in
disparte le altre
che sono ironie
o malignità, possiam dire,
che tutte hanno
una parte di
vero, per cui
forse, mettendole insieme
in un buon
mortaio di agata,
che la nobiltà
della materia esige
tanta nobiltà di
strumento, e porfirizzando il tutto
con pazienza di
chimico e sensualità di
farmacista, potremmo forse
sperare di avere
la quintessenza della
definizione, la vera e
unica e infallibile definizione dell'amor
platonico. Io mi
son provato in
buona fede a
questa operazione
chimico-farmaceutica e confesso dì
averne ottenuto un
polifarmaco arabico-bizantino che
mi richiamava alla mente i preparati più bizzarri
del medio evo.
Ho buttato via
dunque il mio pasticcio, e
facendo appello al senso comune,
che anche nei
più astrusi problemi
della psicologia spesso li
risolve meglio d'ogni
altro senso, ebbi
questa risposta. L'amore platonico è
il aentimmto che
unisce un uomo
e una donna,
che pur desiderandosi, rinunziano
volontariamente all'intreccio
del corpi, maritando
le anime. Fin
dove arrivi quest'amore,
fino a quando possa
vivere, io non
so. Ho scritto
un libro (Le
Tre Oraaie) per
dimostrare la possibilità
di quest'amore, ma
una gentile e
dotta scrittrice inglese
scrisse argutamente neWAcademy
che io avevo
tagliato il nodo
gordiano, ma non
l'aveva sciolto. Consultai
molti inglesi, intenditori
profondi delle ipocrisie
dell'amore, chiedendo loro
che cosa fosse
la flirtaUon, quali
i confini entro
i quali si
muovesse questa intraducibilissima fra
le intraducibili parole e
ne ebbi così
svariate risposte, le
une metafisiche, le altre
ciniche, da scoraggiarmi
e da fJEurmi desistere
da ogni ulteriore
ricerca in proposito.
Dunque? Dunque io,
aspettando da altri
più profondi conoscitori
del cuore umano,
definizione più precìsa, più scientifica, conservo la
mia, bastandomi per
ora di affermarvi
che io credo fermamente nell'esistenza dell'amore
platonico, che credo nella
sua rarità, nella
sua altissima idealità,
e che lo riconosco per uno dei fiori
più belli e
più fragranti che
fioriscono nel cuore umano.
É capace di rapimenti
ineffabili, di estasi
degne di vivere all'altezza dell'estasi religiosa
e dell'affetto materno. Non
ammetto amore platonico
fra dae vecchi,
fra due brutti, fra
due creature che
non possono desiderarsi.
Si dice da tutti,
ma falsamente, che le anime
non invecchiano, ma
invece le anime
invecchiano come i corpi, e le
anime che si
uniscono nel santo
vincolo dell'amore platonico,
hanno ad essere
giovani e bèlle. Questo sentimento
sublime non è
possibile che a rare
creature elette, che
sanno compiere il miracolo
di spogliare le
anime da ogni
veste corporea, che sanno spogliare
la passione da
ogni desiderio della
carne, e contemplandosi si
ammirano e si amano. Anche
le anime come
i corpi hanno
un sesso, e nell'amor
platonico stanno faccia
a faccia e
guardandosi eternamente si
rimandano senza toccarsi,
torrenti di luce e
di calore. Due
astri che girano
nella stessa orbita,
che non si
toccanmai; che sorgono
insieme con una
stessa alba, che collo stesso tramonto
svaniscono e sfumano
nella grande voragine
dell'infinito. Sempre in
moto, ma sempre
distanti Vnn dal*
l'altro, attratti allo
stesso centro e respinti
dagli stessi poli; in relazione
tra di loro
soltanto per fasci
di luce e oitde di calore. L'anima dell'aomo
fatta di forza e di
azione, l'anima della
donna è fatta
di grazia e
di bontà; e
queste dne natnre
umane che sommate
insieme formano l'uomo
completo si attraggono eternamente, ma non si
fondono insieme, arrestate
dal dovere, che
permette loro di
amarsi, ma proibisce
loro di toccarsi
e di fondersi.
La massima delle attrazioni
diventita immobilità, la
massima delle forze
divenuta ammirazione, contemplazione, estasi divina. Nessun attrito, nessuna resistenza, nessuna
trasformazione di energia; nessuna cenere
perchè non vi è fiamma;
ma luce; nessuna
stanchezza, perchè non vi
è lavoro; nessuna
morte perchè la
vita è arrestata
dal miracolo sublime
che faceva arrestare il sole nel
cielo nei tempi
della Bibbia. Nessun
bisogno di mutamento,
perchè solo la
stanchezza o la noia
(che non è
altro che una
forma di stanchezza)
può dar desiderio
d' incostanza. L'amore
platonico deve essere
puro da ogni
voluttà terrena; è questa
la sua grandezza,
è questa l'acqua
lustrale che lo
battezza e lo
santifica. Quelle due immense
forze che si
attraggono senza toccarsi
e senza confondersi,
rimangono immobili e fìsse;
ma se una
delle due vacilla,
diminuisce d'un battito solo la
propria energia, la
più debole è
subito attratta dall'altra e
l'urto è irresistibile. Schizza una
scintilla o divampa
una fiamma ; ma
l'amore platonico è
distrutto. Più volte i
due astri vengono
così vicini l'uno
all'altro che ne
oorrusoan lampi. Son
due . creature che nello
spazio si son
toccate appena con
un fremito di
ali spasimanti, ma
l'ala deve fuggire
con santo e
rapido pudore dal
contatto dell'ala. Guai
a chi crede
o sogna che
due grandi amori possano
vivere della vita celeste
delle cose eterne,
dopo una carézza
o dopo un
bacio. Molti, anzi
i più degli
amori platonici, muoiono in
questa maniera, perchè
le due anime
innamorate sognano questo sogno,
che si possa
fermarsi a metà
strada sulla china
di certi pendii;
ohe li' credono o sperano
che Torlo di
certi precipizi possa
essere pietoso. Non
un bacio, non
una carezza, non fosse
che qaella delle
ali. Anche le
ali sono materia
e materia viva e calda.
Quando due labbra
si son toccate, ahimè, l'amor platonico
è ferito e per lo
più a morte.
Le anime sole
possono amarsi platonicamente e la materia
è sempre dotata
di gravità; fosse
pnre piuma d'ala,
vello di cotone o
massa di piombo.
Il precipitare di
essa sarà lento
o veloce secondo la
diversa densità della
materia: i venti pietosi
delle reticenze, delle
difese, delle foghe
faranno volare per
l'aria Iqngamente il
filo di seta e
il fiocco di
cotone, ma fatalmente,
ma inesorabilmente avranno
a cadere. O
tutto o nulla
è in amore un assioma
di quasi matematica
precisione, e le donne, sempre
più sapienti di
noi in questa
materia, lo sanno
e lo ripetono
sempre all'orecchio degli impazienti. Esse sono
le vestali dell'amore platonico, le
custodi del pudore, e
quando esse vengon
meno per le
prime ai giuramenti
dell'amore platonico, non
v'ha quasi uomo
su questa terra,
che le aiuti
a salire. La
caduta è fatale,
è irresistibile! Al
contrario di quanto si
crede volgarmente, non
sono i piccoli
aniQri, ma i
f^frandi che soli
sono capaci di
salire alle altezze dell’estasi platonica, di subire quella
sublime transustanziazione, che
arresta il desiderio
alla soglia del
tempio, che trasforma
la più ardente
delle passioni in una
luce di luna,
che illumina, ma
non riscalda. I
piccoli amori son
pruriti animaleschi, che
si soddisfano grattandoci
o applicandovi dei
pannolini bagnati nell’acqua fredda.
Essi non possono
salire le alte
cime, perchè son
deboli, molto meno
poi possono attraversare
lo spazio, perchè sono
senz'ali. Molte false
virtù non sono che
piccoli amori domati
coi fomenti freddi
e quando li vedo
innalzati ai supremi onori del
sagrificio e dell'eroismo mi vien voglia di
ridere. I grandi amori
invece non si
domano che colla
morte o con un
miracolo. Questo miracolo
è Vamoi e
platonico. II credente,
pieno di fede,
di speranza e
soprattutto d'amore è venuto
al tempio, per
pregare ed amare.
È venuto da
lontano: almeno per
venti, forse per
trent'anni ha viaggiato
e sudato per
monti e per valli,
attratto alla Mecca
dall'amore. Nel lungo
pellegrinaggio ha sudato
e ha pianto,
ha patito la
fame e la
sete, ma è
giunto vivo alle
porte del tempio.
I minareti dorati scintillano
al sole e dalle
porte aperte escono
profumi di mirra e
di rose. I
grandi amori sono
religione o idolatria,
e il pellegrino
s' inginocchia e prega
prima di essere
ammesso all'adorazione del
Dio. Ed egli
lo vede, ed
egli lo sente
vicino. Nella luce rosea del
tempio egli ha veduto
il gran Dio,
che dispensa la
vita e la
morte: ai suoi
occhi lampeggianti d'impazienza
e di, ardore hanno
risposto altri due
occhi, lampeggianti e
ardenti come i
suoi. Egli ama e
sarà amato; ancora
una preghiera e san
consacrato li in fondo
al santuario del
Sancta sanctorum, dove
il fumo degli
incensi gli nasconde
la voluttuosa visione,
dove un coro
di angeli gli
cela i sospiri,
di chi come
lui aspetta e
desidera. Un istante
ancora, ancora una
preghiera, e tu
avrai il premio
del lungo pellegrinaggio, dei
lunghi dolori patiti.
Sei nato e hai
vissuto venti, trent'anni
per cogliere quel fiore, che
anch'esso non sbocciò
che dopo altri
venti o trent'
anni vissuti da
un' altra creatura
che nacque e
visse per te.
Oh perchè quelli
istanti non diventan
secoli e quei
secoli Vili non ardono
in un istante
sulUara del desiderio
e dell' amore?
Una voce vi
ha chiamato, vi
chiama. Voi siete
esauditi; voi siete ammessi
nel tempio. La
creatura sognata per tanti
anni, intraveduta fra
le nuvole della
fantasia e le
iridi del desiderio,
è là, vivente,
calda, giovane, davanti
a voi e
vi sorride. Anch'
essa aveva sognato,
desiderato, aspettato: se
1' asceta ha
bisogno di un
Dio, anche Dio ha bisogno
dell'adoratore, e voi
siete la creatura
sognata e aspettata
da lei. Ogni
vostro sguardo diventa
una carezza, ogni
vostra carezza un desiderio di
carezze nuove, e
i baci aleggiano
per l'aria facendo
intorno a voi
un nembo di petali di
rose. I desiderii
son divenuti benedizioni:
due primavere, due
vite, due amori
aspettano di fondersi
fra un istante
in un solo
paradiso di fiori,
di profumi e
di voluttà. Venga
pure la morte;
avrete vissuto abbastanza, il
mare vi sommerga
pure, il fuoco
vi incenerisca, la
terra vi ingoi;
al di là dell'infinito non
v' ha altro
pensabile; al di
là del tutto,
che cosa desiderare
ancora? Amate e
morite! Ma ecco
che fra voi
e lei un
angelo o un
demonio, il fato o il
dovere ha messo
una spada di
fuoco. Voi vi
amate e vi
amerete fino all'
ultimo respiro, ma
voi non vi
toccherete. Non una
carezza, non un
bacio; neppure i
flati confonderanno i tepori delle
anime. Io afiretto
colla penna impaziente
ciò che in
natura avviene lentamente,
più spesso per
una serie non
interrotta di uragani.
Senza lotta, senza
agonia, senza l'orto
di Getsemani non
avviene quella trasformazione che
muta due desiderii
in una rassegnazione, due
passioni in un'estasi,
due soli nell'astro della
notte. Nulla si
perde di quanto
vive o si
muove, non la
materia, non la
forza che non
è altro che
l'atteggiamento della
materia, e anche
ì cataclismi della
terra e del
cielo, anche i
cicloni che sconvolgon
la terra e
rovesciano le città
sono trasformazioni di
forze, sono equazioni
matematiche nelle quali
il prima e
il poi si
dimostrano come quantità eguali. Così
avviene anche negli
uragani del cuore.
Due amori dovevano
confondersi insieme per
riaccendere la fiaccola della
vita, due baci
dovevano salire al cielo confusi
in una sola
benedizione della vita
trionfatrìce. E invece,
passata la procella,
vin rasserenato il
cielo, noi vediamo
il pellegrino venuto da lontano al
tempio d'amore ancora
sulla soglia, ancora
prosternato e in
atto di rassegnata
e serena adorazione.
E^ nel tempio,
là in fondo,
fra le nuvole
degli incensi e
il coro degli
angeli, immoto il
Dio,che guarda il
pellegrino con tenerezza serena; e
là rimarranno entrambi
Dio e creatura, idolo e sacerdote
fino all' ultimo
respiro. L'amore che
feconda è divenuto
l'amore che ammira; l'amore che
ama è divenuto
l'amore che adora;
il sole che
tutto colorisce e
riscalda si è
trasformato nella luna,
che fa fantasticare
e sospirare. Se
avete letto la
mia Filologia del
dolore, dovete ricordare le
pagine, nelle quali
ho tentato di
studiare la psicologia
della malinconia. Fra questo
caro fiore del
giardino del cuore
e l'amore platonico
vi sono grandissimi
rapporti di somiglianza.
L'amore platonico è
una grande e
soave malinconia e chi
l'ha potuto e
saputo godere, non
rimpiange la gioia,
perchè quel sentimento
ha bellezze più alte,
ha misteri più
delicati, segreti più
riposti e sublimi.
Dei vulcani, dei
terremoti, degli uragani
che sono vita
quotidiana dell'amore nulla
è rimasto :
delle battaglie combattute
nessun cadavere, nessun
membro divelto; il terreno l'amob platonico lacerato dalle
bombe, solcato dalle artiglierie,
madido di sangue umano,
è ritornato all'aratro;
e le spighe
fioriscono, dove corsero
i gemiti dei
moribondi e gli urli dei feroci.
Una croce di legno piantata sull'orlo del campo
vi ricorda però
la storia del
dolore e spande
all'intorno un'aria malinconica. Non
invano io ho
invocato il tempio
ad esprimere e contenere
i misteri dell'amore
platonico, perchè questo
ha forme mistiche
e le sue
estasi presentano molti
caratteri del rapimento
religioso. Soffocato e
spento il desiderio,
inutile la lotta,
che cosa rimane
fuorché l'adorazione? E
questa adorazione che
prima è consagrata
all' idolo, si
affina sempre più,
man mano andiamo perdendo
la memoria delle
battaglie combattute e la
figura che adoriamo
perde ogni giorno
più la propria
personalit\ per prendere
forma di mito
o di simbolo. La
donna che adoriamo
d'amore platonico non
è più per
noi Laura o
Beatrice, ma è
la donna, la
donna unica e
sola che per
noi personifica tutte
le bellezze, tutte
le grazie, tutti
gli incanti di
Venere e di
Eva. La donna
amata ha occhi
che ci incantano,
membra che le
mani accarezzano, chiome
entro le quali si
smarriscono i desiderii come in
un labirinto incantato. La
donna amata d' amore
platonico non ha
occhi, non membra,
non chiome, e
perchè le avrebbe
se noi non
possiamo baciarli e
possederli ? Dio
ha forse occhi,
membra e chiome
f Noi amiamo
platonicamente, ma amando
adoriamo; e l'adorazione
è l'estetica divenuta
affetto o l'affetto divenuto estetica,
o direi meglio
è un sentimento che aleggia eternamente
fra l'ammirazione di una
bellezza assoluta e un
amore infinito per
questa bellezza, a
cui non osiamo
dar forma, perchè
anche questa ci
sembra una profanazione. L' amore abbraccia sempre
qualche cosa, colle
mani o colle braccia, colle
labbra o col
cuore; l'amore platonico
non abbraccia, perchè
l'infinito non si
stringe; l'amore platonico,
contempla, ammira, adora.
Siamo in
piena estasi e
in estasi permanente:
nessun carattere del
rapimento gli manca,
non la fissazione, non lo sprofondarsi
di tutte le
sensazioni in una sensazione
sola, non la
immobilità per tensione
di tutti i
muscoli antagonisti, non
la catalessi, non la
insensibilità per eccesso
di sensazione. E le estasi
son due: due
come le creature
che mutuamente si
contemplano e si
adorano; due come
le forze, che campate
nello spazio e
sempre lontane si
invocano e si
attraggono e eternamente
rimangono fìsse, senza
avvicinarsi di nna
lìnea né toccarsi
mai. In cielo
fra gli astri
avvengono questi fenomeni
che gli
astronomi studiano; nel
cuore umano avvengono
gli stessi fenomeni
con leggi eguali,
con eguale miracolo
di potenza e
di bellezza. Se l'amore
platonico per la sua alta
idealità si avvicina
ai rapimenti mistici
dell'asceta, ha per
altri suoi caratteri
le profonde sensualità
del-l'avarizia. L'avaro e l'amor
platonico hanno questo
di comune: possedere un tesoro
che contemplano, che
adorano, ma che
non spendono. Quella
donna che voi adorate,
è d' altri
o di nessuno
in apparenza, ma
nessuno l'ama come
voi, per nessuno
è bella quanto
lo è per
vói. I vostri
sguardi, le vostre
aspirazioni, i vostri
pensieri sempre rivolti
a lei la
circondano d' un’aureola, che
la isola dal
mondo. Essa è
chiusa in uno
scrigno invisibile, ma
non meno inviolabile;
in uno scrigno
d'oro e di
gemme di cui
voi solo avete
la chiave. E
anch'essa, voi lo
sapete, non ama
che voi. È
il possesso potenziale,
è la proprietà
ideale. Gosì appunto
è dell'avaro: egli
contempla quei fasci di
biglietti miracolosi che
possono a un
cenno trasformarsi in
gioie, in lusso,
in ogni ben di
Dio. E per volontà nostra
quella donna è
intangibile, quel denaro
non si muove,
ma quella donna
è nostra, quel
tesoro è nostro.
L'amore platonico, ricco com'
è di rapimenti,
ci presenta allucinazioni
di trascendente bellezza.
Nessuno più abile
sarto per vestire
i corpi nudi,
nessuno più ardito
per spogliare i corpi
vestiti. Nelle visioni dell'
asceta Dio appare
(come vedremo più innanzi)
in aspetti svariati,
ma sempre bellissimo;
e l'adorazione che
crea l'immagine si
raddoppia neir estasi d'ammirazione
di quelle bellezze. E così è noli'
amore platonico, in cui tutte
le forze del pensiero,
tutte le energie
del sentimento,
concentrandosi in un
punto solo, danno
tali ali alla
fantasia e tale
energia al suo
pennello da trasformare
l'uomo in un
poeta e in
un pittore in
una volta sola.
Poeta che abbellisce
e idealizza tutto ciò
che tocca; pittore
che della sua
tavolozza fa una
verga magica che
tntto riveste di un'iride
afiascinante. La donna
adorata e non
posseduta è sempre Venere
per noi; Venere Afrodite
quando la fantasia la spoglia, Venere Urania quando la fantasia la
ravvolge nei densi
veli della nostra gelosia e
del nostro rispetto.
Nuda o vestita è sempre una
Dea per noi, e noi
ne siamo i
sacerdoti. Anche le
sante vedono Dio
nudo nelle loro
visioni, né quella nudità è
meno casta o
meno pudica. L'amore
platonico è tutto un
pudore, perchè il
pudore è la
riverenza dell'amore, è
la santificazione del desiderio.
Oh quante volte
nei sileuzii della
notte le tenebre si illuminano per
noi alla luce
mistica della fantasia
e dall'onda azzurra
d'un mare tranquillo
sorge per incanto al
fremito impercettibile d'una
brezza che vien
dal profondo una
visione di donna.
E noi assistiamo
al mistico nascere
della Dea d'amore,
assistiamo al nascer
della vita. Estasi umane,
vili E sorge
dall'onda Spumeggiante pregna
degli inebbrianti e
salsi aromi del
mare la visione
della creatura amata, della
sola donna che
per noi è
donna, e che
nuda e casta
come una statua
di Fidia, lucente
dell' onda che
cade in mille
perle su quella
perla sola che
è il corpo
di lei, s'innalza
fremente e flessuosa,
come una palma umana;
e sorge e
s'innalza sulle sue colonne
di marmo pario,
inghirlandata dalle chiome
fluenti, che fanno
piovere una pioggia
di perle sui
morbidissimi flanchi intomo a
lei bolle e
freme l'onda, quasi
ebbra dei contatti voluttuosi della
Dea, e guizzano
nereidi e naiadi
a farle corona
di bellezze minori,
mentre angioletti rosei
svolazzano all'intorno di
lei, impazienti di accarezzarla
colle ali convulse.
E nessuna lascivia scuote le
nostre membra e
nessun desiderio osa
turbare Testasi di quella
contemplazione. Voi siete sempre
in ginocchio, col
corpo o col
pensiero, davanti alla
divina immagine che
adorate. E altre
volte Venere non
esce dal mare,
umida e calda
delle sue feconde aspergini,
ma in un
bosco di allori sotto il
cielo ellenico, scende
dal tempio e passeggia
sorvolando sull'erba, quasi statua
che ubbidisce all'evocazione del
suo creatore e ritoma alla
vita. E gli
inni dei poeti
e le corde
d'oro delle arpe
eolie cantano e
suonano le loro
armonie, facendo coro
di ammirazione e
osanna di adorazione alla dea della
bellezza, alla madre
di tutti ì
viventi. E noi
prostesi al suolo baciamo
l'orma profumata, che
il piede divino
lascia sui muschi
vellutati e fra
l'erbe odorose. Ma terra
e mare non
bastano più a
fare cornice alla nostra
visione trascendente e noi vediamo la nostra Dea
farsi creatura alata
e spiccare il volo
nelle alte regioni
del cielo. Non
più carni rosee
o colonne di
marmo parlo, ma
la carne dive-vni nuto
opale e le
membra trasformate in
ali. E vìa
per Paria e gli
spazi infiniti del
vuoto, un aleggiar
robusto e un
ondeggiar di chiome,
or dorate dai
raggi del sole,
or argentine al
chiaror della luna,
or buie come
le tenebre degli
abissi. E un
fiammeggiar degli astri, che anch'essi
nell'eterna pace dei
secoli, fremono alla vista
di quella divina
bellezza e scintillano più
caldi e più
splendidi, salutando colle ebbrezze
della luce una
creatura deUa terra.
E noi dietro
a quella visione,
convertiti da creature mortali in un
sospiro di desiderio
che vola e
insegue la donna
alata. La via
lattea ci è guida
al nostro volo
audace e tra
la polvere degli
astri che non
abbiam tempo di
ammirare e fra
gli abissi dell'infinito
e le meteore
deUo spazio cogli
occhi fissi a
quella creatura che è cosa
nostra e di
cui sentiamo nel
vuoto infinito il batter
dell'ali, Siam rapiti in
estasi e speriamo
di confonderci e sparire in
quella donna, che
non è più
donna, ma angelo;
che non è più angelo,
ma Dio; un Dio
creato dalla nostra
fantasia e dal
nostro amore. Sparire
per sempre e
con lei, come
dicesi che le
comete attratte dal
sole si consumino
in un bacio
ardente come loro,
ciclopico come lo
spazio. Sparire e
confondersi, non ritrovar più
il nostro Io, non
distinguere più qua! differenza passi tra
noi e lei,
fra l'amare e
Tessere, fra l'uno
e il due;
non ricordarsi della
terra, del nascere
e del morire, della gioia e del dolore;
non pensare altro
pensiero che il
pensiero di lei,
perdere tutta la
coscienza e tutta la
memoria, per sommergerle
nel grande oceano
di una sensazione
sola, l'estasi; spogliarsi
di tutte le
passioni, dimenticarle tutte,
per non ardere
che d'una sola
passione, l'amore. L'uomo
e la donna
disgiunti sulla terra, ricongiunti nel cielo
e per sempre
con un bacio
che non ha
domani, con un
amplesso che trasforma le
anime nella carezza
di quattro ali. L’estasi
dell'amore platonico non
sono tutte di
adorazione, ma possono
presentarci le forme
della devozione, del
sagrifizio spinto fino
al martirio. Allora noi abbiamo
i rapimenti già
descritti nell'amore materno,
nell'amor figliale e
negli altri affetti
minori. Inutile ripetizione
sarebbe quella di
ritrarre i lineamenti
di questi quadri
sublimi, che tanto
si rassomigliano. L'ionico carattere
che distingue tutte
queste forme svariate
è quello di
essere accompagnato dall'ardore della più
calda delle passioni,
di esser tutto imbevuto di
quell'amore che fu
chiamato con questo
nome senza aggiunta
di alcun aggettivo, quasi prototipo
di tutti gli
altri amori. L'amore
platonico può essere
potente e fecondo
di estasi, anche
quando non è diviso da
un'altra creatura. Anche
quando vibra in
un solo cuore,
anche quando contraddice, rarissima eccezione, il
verso famoso del
poeta. Amor ch'a nullo
amato amar perdona,
può durare tutta
la vita, può
essere il palpito
di ogni ora,
il sogno d'ogni
notte, la religione
mistica di un solo cuore. In
questi casi soltanto
vi ha di
diverso e di
caratteristico una soave
malinconia, forse confortata da
una speranza lontana
che il nostro
amore, pur rimanendo
sempre pia* tonico,
8iia diviso da
un' altr' anima.
Xie estasi dell' amicizia. Rapimenti dell'amor
fraterno. Anche senza
il fascino del
sesso, anche senza
i vincoli del
sangue l'nomo può
amar l'uomo di
quel sentimento che
si chiama amicizia.
Ho gii\ parlato
troppe volte e
a lungo nella
mia fisiologia del piacere e in
altri miei libri
più recenti dell'amicizia, né
starò a ripetermi.
Qui non dobbiamo occuparci che di
quelle rarissime forme
di questo sentimento
che possono portarci
fino all'estasi. L'amicizia
è possibile fra
uomini e uomini,
fra uomini e
donne, fra donne
e donne; ma
il sesso è
tale un elemento
perturbatore d'ogni altro
affetto, che non
sia amore, da
rendere 1' amicizia
assai rara fra ue
persone di sesso
diverso, e anche
quando i sensi
non parlano e
nessun desiderio accompagna l'amicizia,
questa è però
modificata profondamente da quella
tenerezza irresistibile che
l'uomo ha per
la donna, di
quel bisogno di
protezione che la
donna sente dinanzi
all'uomo. Ecco perchè
preferirei separare dal
gruppo delle Estasi
umane. L’ amicizie vere
quella che Tuomo
e la donna
possono intrecciare tra di loro,
ravvicinando queste alla
famiglia degli amori
platonici. V amicizia
è un sentimento
di lusso e
noi lo vediamo
mancare affatto o
presentarci forme atrofiche negli uomini di
bassa gerarchia psichica.
Le sue energie
sono deboli, talché
cedono subito il
campo ad altri
sentimenti più imperiosi
e che hanno
una grande missione
nel ciclo della
vita. È anche
per questo che
le donne ci
presentano più raramente
esempio di calde
e tenere amicizie.
In esse l' amore e
la maternità occupano
tanta parte del
cuore da non
lasciare il posto
per altri sentimenti
minori, e d'altronde
la galanteria virile
fa delle donne
altrettanti rivali e
semina la gelosia e
inviperisce le vanità
e solletica la
malizia e la
maldicenza; per cui
V amicizia fra
donne è pianta
rara, che vive
per lo più
vita breve e
fra le pareti
di una stufa
ben calda e
custodita. Che l'amicizia
sia una pianta
di lusso lo
prova il vederla
fiorire nell' età
delle massime energie
affettive, cioè nella
giovinezza. Col primo aocenno di
capelli bianchi, col
primo chinar della
curva vitale, le
amicizie nuove sono
molto rare e
le antiche si conservano
spesso per abitudine,
per riconoscenza, ma son
fiacche e messe
quasi sempre nel secondo giro
degli affetti. Se
r amicizia è
sentimento raro, è
tanto più delicato
e si muove
in una sfera
di altissima idealità. Intendo sempre
parlare della vera,
della sublime amicizia, di
quel sentimento che
fa di due
nomini un nomo
solo, che li
unisce mano con
mano, cuore con
cuore, anima con
anima. Per lo più fra
la massa del
volgo si chiamano
con quésto nome
simpatie fugaci, associazioni
d'interessi, consuetudini
d'occasione ed altre
cose ancor più
volgari e più basse. Per
questa via di
certo nessun rapimento
è possibile. Ciò
che dà il
marchio di nobiltà all'amicizia è V eleziùne che ne
è il midollo
e lo scheletro,
chene è il
motivo informatore. Non
è soltanto negli
ordini politici che
relezione sostituita all'eredità
o alla forza
segna un gigantesco
progresso: anche nel
campò degli affetti
l'elezione è il
battesimo che li
consacra ad una
vita gloriosa, che
li tra-sporta dai bassi
fondi delle necessità
organiche nel cielo
dell' idealità. Neil'
amore, nell' affetto
di patria, nella
maternità, in tutti
i potenti affbtti
che stringono l'uomo
coi vincoli della
famiglia, vi è un
vigore irresistibile, vi
è una forza
trascendente, ma nello stesso
tempo noi ci
sentiamo rapiti dal fato, dalla
necessità:. Siamo ben
felici di questa
cara necessità, Ina V
Io, sempre superbo,
sente qualcosa più
forte di lui
e riverente s' inchina e
ubbidisce alle leggi
della natura. Nell'amicizia invece
nulla di tutto
questo: nessun fato, nessuna
necessità, nessuna tirannia
d'uomini, di cose o di
tempi. Due anime
umane si incontrano
nel viavai della
folla, si contemplano
e s'intendono. Un
riso sorriso in
due, una lagrima
pianta in due,
un grido d'
entusiasmo escito prorompente, irresistibile in
uno stesso momento
da due petti
umani, avvicina i
cuori e stringe
le destre. Son
due note musicali,
che partito da
due. strumenti lontani
si sono incontrate
per l’aria, formando un
accordo d'armonia. E
quello stringersi delle
mani rivela nella
sua espressione semplicissima
tutta la psicologia
più fine e più
profonda dell'amicizia. In
amore son le
labbra che tendon
Farco e si cercano;
in amore son
le viscere che
si intrecciano e si fecondano:
neir amicizia son le mani,
che si cercano
e si stringono;
gli istrumenti del
pensiero e dell'azione.
Sentire insieme e
sentire egualmente, ammirare
le stesse cose e
disprezzare gli stessi
uomini, parlare commossi cogli
stessi i)oeti e
benedire con una voce
sola lo stesso
sole, ci fa
parenti nelle anime,
come in amore
le simpatie fanno
di due sangui
un sangae solo,
di dae desiderii
un desiderio solo, e colla
fiisione intima di due esistenze, creano una terza vita. L'amicizia
è una parentela
d'elezione, è un
amore delle anime,
è un sentire
il proprio pensiero sommato a un
altro; i proprii
sentimenti, le proprie
simpatie, le proprie
aspirazioni ripercossi sempre
dall'eco affettuosa di
un'altra simpatia, di un'altra
natura umana, che
risponde alla nostra.
Dolcezze ineffabili, voluttìi
di altissima sfera,
che fanno l'uomo
superbo d'esser uomo. Questo consenso non cercato
ma trovato, questo combaciarsi intero
e completo di
due anime, questo
libero matrimonio di
due nature umane può
bastare a rapirci in estasi;
quando soprattutto ci
rifugiamo in seno
all' amicizia per
sfug;^ire dagli urli
del profanum vulgus;
quando siamo inseguiti
dal latrato dei
cani; quando ci
sentiamo asfissiati dal
lezzo del fango
in cui pur
troppo dobbiamo le tante
volte camminare e
sommergerci. È allora
che l'oasi dell'amicizia ci stende
la sue braccia
e ci involge
colle sue ombre
profumate, colle sue
brezze inebbrianti, e
proviamo la santa
gioia di chi
escito da una cloaca immonda
e oscura, si
trova nell'aperto cielo
in mezzo alla
luce, all'aria pura; fors'anche
fra il profiimo
dei fiori e
il sorriso dei bambini.
L'estasi di due
amici che si
comprendono, che ^i
stringon le mani.
che si guardan
negli occhi, leggendovi
riflessa Pimmagine di so stessi,
è muta come
quasi tutti i
rapimenti della vita.
É muta ed
è profonda: è
serena eie azzurra.
Non si sa
eome incominci e
dove finisca; appunto
come noi non sappiamo,
guardando in alto,
dove il cielo
incominci e dove
esso finisca. Tiriamo
profondo profondo il
respiro, perchè vorremmo quasi
ingrandirci di dentro, come ci
sentiamo raddoppiati di
fuori; e il
nostro Io si
confonde, si sprofonda
con un'altra coscienza,
quasi due parti
di un'anima sola,
che separate dalla
violenza, incontratesi nello
spazio, ritornano ad
essere una cosa
sola. In quei
momenti beati ogni
confine ben definito
della coscienza si
ofiftisca e si sperde
: ci pare
di essere due,
perchè godiamo sentimenti,
bellezze, splendori el vero
o del buono
in due; ci
par di essere
uno, perchè sentiamo
vibrare due coscienze
in unacocienza sola;
perchè le due
anime si son abbraociate e strette
e confuse in
un'anima sola. Sante
e care e
dolci ebbrezze dell'amicizia, che
si elevano per
la loro purezza
nelle sfere più
alte dei sentimenti umani. Se sono
men calde di
quelle dell'amore, sono
però più durevoli
e serene; se
vi è meno
volutto, vi è
più pensiero; se
vi è meno
fuoco, vi è più
luce. Ma perchè questi
sterili e vani
confronti? Perchè
sagrificare anche noi
a quel maledetto
gallo d' Esculapio, che
costringe sempre l’uomo
a confrontare le cose
che studia e
descrive? Forse che
si pota risolvere il
problema la rosa sia
più bella del
giglio, lo zafiBro
più splendido del
diamante, il cavallo più bello
del leone? Lasciamo
ogni bellezza al
suo posto e
non tormentiamo le
creature del nostro pianeta, facendole passare sotto le forche caudine
delle nostre gerarchie. La natura feconda e generosa non ha mai scrìtto dei
numeri sulle proprie creature: nessuna prima, nessuna ultima, e il muschio
microscopico che nasce e fiorisce fra le fessure del tronco d'una palma superba, è bello quanto l'albero maestoso
che le offre l'ospitalità; e la stretta
di mano dell'amicizia è cara quanto lo stringersi insieme delle labbra
innamorate. Le estasi dell'amicizia
sono di varie
forme, ma quasi
tutte possono ridursi
a queste due:
estasi di simpatm
e estasi di
conforto. Delle prime
ho parlato fin
qui, riducendole ad
un'espressione sola. Le
altre sono più
facili e più.
comuni. Esse non
sono che estasi
di carità rese
più intense, più
cald, più poetiche, perchè
il sentimento che le
ispira è di
più alta natura.
Nella carità facciamo
il bene agli altri,
solo perchè uomini; all'amico diamo
tutto noi stessi,
per lui facciamo i
maggiori sagrifizii, perchè
uomo e perchè
amico. Dall'elemosina che
ci umilia e
può anche avvilirci, incomincia una
scala ascendente e
che ha mille
gradini e pei
quali si sale
alle forme più
squisite della beneficenza.
Sulla più alta
cima sta sempre
1' amicizia, che
conforta e aiuta
e soccorre senza
umiliare e porge
il dono con
tale delicatezza, che
mal sapresti dire,
se sia più
prezioso il dono
o più caro il
modo con cui ti
vien presentato. ESTASI dell'amicizia
Impiccolire il sagrifizio
fino a nasconderlo
affatto, mostrare che chi
dà è invece
colui che riceve, ohe
il donatore rimane
debitore; nascondere nella
gioia di dare
l'orgoglio di dare
e soffocare fin
dal suo nascere l' involontario rossore di
chi riceve, sono
altrettanti miracoli che l’amicizia compie
colla massima agilità,
colla maggiore naturalezza di questo
mondo. Indovinare il
dolore anche senza il
pianto, presentire l'imbarazzo quando
nessuno lo sospetta,
prevedere la sventura
prima che arrivi,
il pericolo prima
che l'allarme sia
dato, non attender
mai che la
mano si stenda
a voi, ma
stendere la vostra
e nella stretta
di mano nascondere
il benefizio, sono
le prime lettere
dell' alfabeto dell'
amicizia; son problemi
elementari che il cuore
risolve di primo
acchito e senza
bisogno di studiare
la matematica. Davvero
che in questi
ca^i è diflBcile
dire chi più
goda dei due,
chi primo arrivi
al rapimento del
benefizio fatto o
della riconoscenza caldissima.
L'uno ha preveduto,
ha presentito, ha indovi-nato. L' amico
soffre ed io
posso far tacere
quel dolore. L'amico
ha bisogno di
soccorso, di conforto, ed
io sarò quei
fortunato che potrò
soccorrere e confortare. Il
cuore batte forte
forte in petto,
le mani tremano
per 1' emozione
e un sorriso involontario e angelico
corre sul nostro
volto. Tutti gli
artificii più astati
sono da noi
adoperati per far
sembrar facile ciò
che è difficile,
naturale ciò che
forse è per
noi un doloroso
sagrìflzio. Nessuna astuzia è
più raffinata, nessuna
ipocrisia più opaca,
nessuna fantasia più
immaginosa di quella
che adopera l'amico
per occultare il
benefizio, per giungere
in tempo; per
abbellire la carità
collo splendore della
sorpresa. Il dono
dell'amico è un
fiore bello e
profumato che ci
presenta la mano
di un bambino,
innocente e giulivo come
la bontà sempre
aperta dell'uomo generoso,
rìdente come tutte
le primavere della
vita e della
natura. E chi
riceve ed è
costretto a non
vergognarsi di ricevere
e chi indovina
tutte le sante
astruserie e i
fini accorgimenti che
accompagnano V opera
del conforto e
chi misura tutta
1' altezza dell' anima che
corre soccorrevole a
noi, rimane confuso
e commosso e
dallo strazio della
disperazione è portato
di volo alla
beatitudine più sicura
e più alta.
L'amico ci ha
indovinato e l'amico
risponde con un'onda
di riconoscenza; il
sorriso di chi
fa il bene
è nobile come
il sorriso di
chi lo riceve,
e due estasi si
confondono in un'estasi
sola. Chi più
felice dei due?
Nessuno. Chi più
grande? Nessuno. Quale il
debitore, quale il
creditore? Nessuno dei
due; o entrambi
creditori, entrambi debitori. Chi
più bello del
sole che illumina
o della terra
che è baciata
dal sole! Chi
più bello del
cielo che si
specchia nel mare o del mare
che si fa azzurro al
sorriso del cielo?
Chi più dà
e più riceve della
gloria dei grandi
o del riflesso
d' amicizia che le turbe
innalzate dal genio
rimandano al sole
del pensiero? Beata ignoranza
codesta, di non
poter distinguere due
bellezze che si
fondono in una bellezza sola;
due gioie che si
unificano ìa una voluttà sola;
due grandezze che
si sperdono e
si consumano in una sola
immensità. Non malediciamo
la vita, se
questa ci lascia
lo spazio e
il tempo per
essere uno di
questi amici o
per assistere ad
una di queste
scene del mondo
morale. Quante bassezze,
quante viltà, quanto
fango si devono trovare nei sentieri
pedestri della vita
por dimenticare uno
di quei quadri,
quante tenebre ci vorranno
per cancellare tanta
luce, quanto male
per far dimenticare
tanto bene! Nessun
fiume, per fangoso
che sia, ha
potuto togliere all'oceano
le sue trasparenze;
nessun sofiQo di
uomo ha potuto spegnere il
sole, nessun gelo
Tha mai potuto
raffreddare! L'affetto che
ravvicina i nati
tVuno stesso padre
e d'una stessa
madre, esiste abbozzato
anche negli animali.
Gli uccellini allevati
in uno stesso
nido, spesso anche
quando Thanno abbandonato,
vivono assieme e si amano:
spesso anche le
scimmie ed altri
mammiferi sentono di
essere fréitelli, ma
queste fratellanze son pallide e
di piccola durata.
I colpi di
fucile del cacciatore crudele,
i lunghi viaggi,
i nuovi amori,
spezzano ben presto
i vincoli di fratellanza,
e dopo pochi
giorni, o poche
settimane, o pochi
mesi, secondo i
casi; ogni riconoscimento di uno stesso
sangue si dilegua
e scompare. I
fratelli possono intrecciare
un nuovo nido,
un incestuoso amore,
o possono farsi
la più spietata
guerra. Anche fra
gli uomini l'amore
fraterno è spesso
pallido e non
presenta che deboli
energie; i molti
cuculi deposti nel
nido d'una famiglia,
le antipatie e le
dissonanze dei caratteri troppo
frequenti ad onta
della comune genealogia,
le lotte d'interesse
opposto, le lunghe
e necessarie assenze
imposte dalle vicende
della vita, sono
altrettante cause l'amoe fraterno che
possono rallentare o rompere le
catene fraterne. Fra fratello
e fratello, fra
sorella e sorella
si aggiunge poi
la ruggine delle
gare di vanità e
d’emulazione, e questa
ruggine corrode più
ohe la lima
di forti passioni.
Per tutte queste
ragioni i forti
amori fraterni son
rari, rarissime le
estasi affettive. Oserei però
dire che, meno
rare eccezioni, Tamore fraterno non ci
mostra scene commoventi
e sublimi, che
quando è rafforzato
dalla simpatia dei
sessi opposti. Earo
V affetto intenso
fra due fratelli,
forse più raro
ancora quello fra
due sorelle; più
comune invece il
sentimento che lega
il fratello alla
sorella. Quando fratello e
sorella si amano
davvero, si amano molto, il
sentimento che li
unisce è un'amicizia resa
ancor più calda
dalla comunanza del
sangue e può
giungere a tanta
forza e a
tanta idealità da
avvicinarsi assai all'
amore platonico. Son
due creature che
non possono amarsi
d'amore, perchè troppo
rassomiglianti, perchè esciti
dalle stesse viscere,
perchè hanno ricevuto
il primo bacio
dalle stesse labbra, perchè hanno
succhiato dallo stesso
seno quel secondo
sangue che è
un secondo vincolo
di parentela. E
poi son cresciuti
insieme, hanno respirato
i)er tanti anni
l'aria dello stesso
nido, hanno dormito
tra le pareti della Stessa
casa, hanno pregato
sotto la vòlta
della stessa chiesa,
hanno pianto le
tante volte insieme; hanno diviso
i terrori infantili,
si sono inebbriati
insieme nelle feste
dell' infanzia e
insieme hanno subito
le procelle dell'adolescenza e
della prima giovinezza.
Come e perchè
non si amerebbero
quelle due creature,
che vedono a
vicenda rispecchiata tanta parte
di sé
stesso nel cuore
e nel pensiero
dell'altra? La comunanza delle
memorie è parentela
del cuori e
ad essa basta
un cenno, un
sorriso, una parola
per rifare quei
viaggi poetici e affascinanti nel
tempo che fu.
Quei due forse
hanno già passata
più che mezza la
vita insieme, fors'anche
hanno insieme composto
nella fossa il
loro babbo e
la loro mamma,
e in un
certo giorno dell'anno,
anche lontani e
senz'essersi chiamati, si trovano
insieme sopra una
stessa tomba. E
come e perchè
quelle due creature
non si amerebbero; non si
amerebbero molto; non si amerebbero sempre? La
nostra sorella slam
noi stessi incarnati
in un sesso
diverso e quando
in essa noi
vediamo riprodotti i nostri
lineamenti, rifatti gli
stessi gesti, riprodotti
gli stessi gusti,
le stesse antipatie; sor-ridiamo di compiacenza,
esclamando: s'io fossi
una donna, sarei
lei! E la
nostra sorella non
solo ci rassomiglia
nel volto, nei gesti,
ma desidera le
stesse cose, sorride degli stessi
scherzi, ha come
noi qnelle stesse
debolezze, delle quali
dobbiamo spesso arrossire. E
si ride insieme,
e si arrossisce
insieme, dicendoci
nell'orecchio : Anche
tuf 8Ì anch^io!
E la nostra
sorellina (che sorellina
è sempre ogni
sorella, quando è
molto amata), e
la nostra sorellina rassomiglia tanto alla nostra
mamma, che la
si direbbe la
mamma ringiovanita. Essa
ha per noi
tenerezze materne, indulgenze
materne; essa ci
può abbracciare e
baciare, benché essa
sia una donna.
Quanto è indulgente
e buona! Con
lei possiamo sfogare
le nostre bizze,
confessare i nostri rancori; con lei possiamo
dividere tutte le
amarezze dell' orgoglio
offeso, dell' ambizione
delusa, delle speranze
svanite. Essa non
e' invidia ma ci ama. Essa non
riderà di noi, né ci vorr.Y consolare coll’accusarci fattori della nostra
sventura. Essa è donna e con noi quasi madre; nessuna osservazione, nessun
rimprovero prima di averci medicati e guariti. Nessuna domanda importuna o
impertinente prima di averci fasciata la ferita. Possiamo essere più vecchi di
lei; essa ci tratterà sempre come bambini, sarà capace perfino di prenderci fra le sue braccia
e di farci
la ninna nanna.
E la sorella
si getta fra
le braccia del
fratello. come non può
fare colle braccia
di nessun altro
uomo. Del marito
ha suggezione, del
padre ha rispetto;
davanti al figlio
vuol essere infallibile.
Il fratello invece
non è né marito, né
padre, né figlio, ma
un po' di tutto questo. Egli è un uomo e la sorella può appoggiarsi a
lui come alla forza che protegge e difende. Egli é un uomo, ma non sarà mai un
giudice severo, perchè anch' egli prima
di gridare al peccatore, vorrà guarire il peccato e risanare la ferita. La
sorella è sicura che il fratello di lei avrebbe peccato come lei, s'egli si
fosse trovato nelle stesse circostanze ed essa è sicura di trovare una
grande indulgenza, una misericordia grande come quella del Cristo.
Ma non occorre peccare per rifugiarsi fra le braccia fraterne del figlio della
nostra mamma. Il
fratello ha piti
ingegno di noi,
più di noi
ha studiato e
vissuto. Egli ci
darà la luce
per camminare nelle tenebre della
vita, egli ci
darà un braccio
poderoso per appoggiarsi,
egli sarà la nostra bussola nel gran
mare delle umane
dubbiezze. E che
faresti tu In
questo caso f
Come esciresii tu
da questo labirinto
f Dimmi se
io ho fatto
benet Dimmi vi
è ancora un
rimedio a tanto
male f „
E le domande
si succedono le une alle
altre, senza attender
risposta e le
risposte diventan altrettante domande; ed è un affollarsi
confuso e prorompente di parole, di
sorrisi, di lagrime:
e sono abbracci
che interrompono domande
e risposte e
sono baci che
valgono più d'un
volume di ragionamenti
e son singhiozzi
che taciono alla
soavità d'una carezza e son
carezze che vogliono esser rimproveri
e rimangono invece
carezze dolcissime e sono due
anime di uomo
e di donna,
che possono vedersi
nudi l'un l'altro
senza arrossire, perchè
non hanno sesso
e sono come
Adamo ed Eva
prima che avessero
bisogno di coprirsi
delle foglie dell'albero mistico dell'Eden. n questi casi e in altri consimili la
commozione può giungere
fino al rapimento,
e l'estasi si afferma con tutti i suoi caratteri
di isolamento dal
mondo esterno e
di concentrazione di
tutte le forze
del sentimento e
del pensiero in
un punto solo
del mondo psicologico.
Beati coloro che l’hanno
Estasi liman, provata, fosse
poi gioia che
prendeva il posto
d'un grande dolore
o gioia che
si faceva cento
volte maggiore, perchè si moltiplicava colla
igioia d' nn'
anima sorella. L'amore
fraterno è un
sentimento di lusso,
tanto è vero
che è appena
abbozzato e fuggevole
negli animali e
così pure è
debole nelle razze
e nelle nature
inferiori. I sentimenti
di lusso sono
i più indistinti,
quelli che hanno
frontiere meno sicure, per
modo che si confondono
facilmente con altri
affetti di analoga
natura. L'amore fraterno
confina coir iimore
platonico e coli' amicizia, e
tanto è vero
che spesso udiamo
escire dalle labbra
commosse di due
amici, che non
pensan punto a
far della psicologia,
questi gridi dell'anima:
Io il amo
più che un Fratello. Tu mi sei più
fraUllo che amico. La
nostra amicizia è
una vera fratellanza
delle anime. Noi non siamo amici
ma frnt4ilU! E d'
altra parte non
di raro due
fratelli esclamano alla lor
volta. Ma il nostro
affetto è una
santa amicizia. Ma anche
senza i lincoli
del sangue noi
saremmo due amici. Se mi fosse
permesso tentare di distinguere il caratt-ere proprio delle estasi
dell'amicizia e quello
dei rapimenti dell'affetto
fraterno, direi che
nel primo caso
vi è una
grande fratellanza nell'urnanità
che ci eleva
al disopra del
volgo e che
nel secondo la
voce del sangue
ci tiene più
vicini al nido
e quindi piti
caldi, più commossi,
più inteneriti. Nei rapimenti
dell'amicizia vi è più pensiero, in
quelli dell'affetto fraterno vi
è più
viscere.Nei primi la differenza
di sesso turba
l'estasi o la
porta in altre
regioni, nei secondi invece
questa differenza è quasi sempre necessaria e contribuisce assai ad accendere i
cuori, ad affinare, a intenerire, a commuovere gli animi che salgono insieme in
quest'Olimpo del sentimento. Descrivere
tutte le possibili
estasi umane s.irebbe
dar fondo all'universo
psicologico e nessuna
forza d'uomo vi
basterebbe. Io mi accontenterli accennare ad alcuni rapimenti
dell'affetto fratemo: altrettanti quadri
presi dal vero e
che potrebbero ispirare il poeta, il pittore, lo scultore.Due fratelli vivono
in paesi lontani Uun dall'altro e vengono a conoscere per via indiretta, che il
babbo si trova in grave imbarazzo di afifari commerciali. Accorrono non
chiamati, si incontrano sulla soglia della casa paterna. Si sorprendono,
si interrogano. Son venuti
per la stessa
ragione chiamati dalla
stessa voce interiore.
Hanno pensato la stessa cosa, lo stesso piano, gli stessi progetti per
salvare l'onore del padre. Lo possono fare e lo faranno. Esaltati, commossi, si
gettan nelle braccia l'un dell'altro e godono un soavissimo rapimento
dell'anima. Due fratelli che lavorano insieme, hanno pensato uno stesso libro,
senza scambiarsi una sola parola. Venuti a comunicarsi a vicenda i loro
progetti, si trova che essi si incontrano e si combaciano.Lo stupore diventa
ammirazione, l’ammirazione contentezza, beatitudine. Essi si abbraccino, si
inebbriano della gioia di aver fusi due pensieri in un solo pensiero. I
fratelli De Goncourt devono aver provato più volte quest'estasi deliziosa. Due
sorelle hanno perduto runico fratello, vedovoe padre di
numerosa famiglia. Sul cadavere del caro perduto
suggellano un bacio in due, che è conclusione
d'un giuramento fatto in silenzio, nello stesso momento. Esse
non prenderanno marito,esse daranno tutto il loro tempo, il loro dinaroai
nipotini che fanno loro figlinoli, che si stringono al seno in uno slancio di
carità generosa. Quelle due anime beate di aver pensato in uno stesso istante
la stessa cosa si abbracciano, si stringon forte forte cuore
contro cuore; confondono lagrime, singhiozzi, sorrisi e godono una
delle estasii fraterne più complesse e più alte che possa godere anima umana.
Una donna è tradita, tradita nel santuario della famiglia, precipitando nella
disperazione dall'alto d'ana felicità senza nubi.Tutto si oscura, l’aria
diviengelo, la terra spine, il cielo un'uragano. Essa ha un fratello, le scrive
una parola sola: Vieni e mi salva! Ma il fratello ha saputo la sventura
piombata sul capo della sorella, prima ancora che la lettera fosse scritta.
Suona un campanello, si apre un uscio, vi si precipita un uomo. La sorella lo
guarda, non sa piangere e non può ridere. Gli porge la lettera ancora umida
dall'inchiostro ed egli legge quelle quattro parole e neppur lui può ridere o
piangere o parlare. Perchè quei due fortunati non cadrebbero in estasi in quel
momento? Due naufraghi iV una fiera procella della vita son rimasti soli nel
mondo. La donna in un mese ha perduto tuttii figliuoli uccisi dalla difterite,
ruomo era solo ed è divenuto cieco. Quei due non hanno più né padre, né
madre, né zii, né cugini, ma essi son fratello e sorella. Questi hanno
attraversato continenti e mari e si sono abbracciatiper non separarsi più mai.
Perché non cadrebberoessi in estasi? L'estasi è sempre uno stato eccezionale,
passeggero,e la più partedegli uomini non l'hanno mai provato.Taluni piìl rozzi
e incolti durano fatica anche a immaginarselo. La sua bella etimologia greca f
x-a radice, lo star fuori, esprime mirabilmente questo concetto. La parola di
estasi è dunque greca, e i greci pia poeti dei latini, dovettero conoscere
meglio di questi uno stato di trascendente idealità. I romani, gente positiva,
patica, popolo d'azione, non conobbero Vestasi, ma l'indicarono con perifrasi
diverse : mentis excessu, animi abalienatio. Tommaso Campailla. Keywords:
oposcolo, ecstasi, estasi, animis abalienation, mentis excessus. discorso
disordinato, discorso ordinato, discorso umano, uomo, vita. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Campailla” – The Swimming-Pool Library.
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