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Wednesday, January 8, 2025

GRICE ITALO A-Z C CAM

 

Grice e Camilla: la ragione conversazionale e l'literae Humaniores – in literabus humanioris -- dell’huomo – opp. Lit. div. – scuola di Genova – filosofia gnovese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “You gotta love Camilla; I mean, if his name were not Camilla, I would call him Grice: he philosophised on all that I’m into: mainly ‘uomo’ (since he was an ancient Italian, he used the mute ‘h’ (dell’huomo’): his anima, the concetti dell’animma that he ‘dichara’ in il suo palare – la bellezza is without equal --.” De' misterii e maravigliose cause della compositione del mondo, 1564 Giovanni Camilla (scritto anche Camilli o Camillo) (Genova), filosofo.  Opere Giovanni Camilla, De' misterii e maravigliose cause della compositione del mondo, In Vinegia, Gabriele Giolito de Ferrari, 1564. Note  Camilla, Giovanni CERL cnp Filosofia Matematica  Matematica Categorie: Medici italianiFilosofi italiani ProfessoreXVI Genova. Ma che dirassi parlar del della lingua e diverso parlare cosi pronunciato distintamente, beneficio de i denti e delle labra, il quale cosi bene DICHIARA I CONCETTI DELL’ANIMA? CAM. Pensate che se piu l'huomo andasse considerando le cose maravigliose del divino, tanto piu se gli infiammerebbe l'animo di riconoscerne altre e contemplarne, e quanto piu sta involto e privo delle scienze e cognitione di tai cose tanto manco ne prende maraviglia, e se ne in fiamma. Liv. Avanza, l'uomo tutti gl’altri animali di sottigliezza di sangue, di memoria, bellezza di corpo, e larghezza di spalle. cresce sino a XXII anni. Hora che veggiamo al trissino da piccioli atti e quasi instrutti benissiino in diverse scienze oarti, è cosa manifesta. Onde quel Mercurio gran filosofo Mercurio Trimegisto chiama l'huomo Tremigi - un grande miracolo. Oltre poi, che con l'intelletto sto. intende, capisce e discorre sopra ogni cosa, e chiamato un picciol mondo; e tantage, cosi bella dignità di eso ON Elle 80 E. =.. 0. cica. la conoscevano benissimo quegli ans huomo viene tutta dall'anima. E questo ui basti qudra to alla dichiaratione di quelle cose, che sono chiamate naturali, veniamo hora alle Mathematiche. CAM; Se io debbia hauere queſto a caro, laſciolo confiderda re a uoi: essendo, che tai ragionamenti sopra tante ecoſi belle coſe, miſaranno aſſai facile uia ad intendea re poi eſſe scienze. -- diverso parlare cosi pronunciato distintamente beneficio de i denti e della labra, il quale cosi benedichiara i concetti dell'anima? AVO PRIMO, OVERO Proemio. a carte; Della virtù; Dell'amicitia; Dell'amore; Del Cielo e delle Stelle; De gl’elementi; Di quelle cose che fi generano nell'aere; Dell'anima; Dell'anima dell'huomo; Delle Piante; De gli animali sensitiui, e prima di quelli, che non hanno ſangue; Di quelli Animali, che hanno sangue primieramente de pesci; De gli uccelli; De gl’animali quadrupedi; Dell’uomo; Della Arithmetica, e fue parti; Della Muſica; Della Geometria, e ſue parti; Della Coſmografia; Dell'arte del nauigare, e de' precetti, chi fi debbono ofleruare a intender quella; Della fPerſpectiua, et inſiemedella Symetria dell'uomo; Dell'Aſtronomia; Della Metafisica. DELLA PERSPESTTIVA, ET insieme della Simetria dell'huomo; Sole pche Holl Utre, Duit 3 bel A PERSPETTIVA dunque, Perspetti - stando nel mezo della Geometria 4a,. Aſtronomia, proua neceſſaridal incnte molte coſe, che in eſſe ſi ri = * trouano. Onde che'l Sole illumini pru dela metà della terra, e che lucendo non ſi poſſa illumini no ueder le stelle, lo proua il Perſpettivo: dicendo,'piu della che ogni corpo luminoſosferico illumina una piu pica metà della ciola sfera piu dela metà. Nella Geometria etiandio queſto è manifefto, come nell'arte di rileuo, ſecondo*; ſi vedono in Romaalcủne statue, con tanto artificio store fatte, che quantunque una ſia piu grande dell'altra, @unapoſta in alto, l'altra a baſſo, paiono nondia 1: meno tutte diunamedeſima groſſezza e grandezza. Effetti del la perſpect e cio come ſi faccid', diſſe il Perſpettiuo', la comprena tiua, en fione della quantità della coſa urſibile proceder dalla din comprenſione della piramideralioſa, e dalla compaa ratione dellabafi alla quantità dell'angulo,o alla lun= ghezza della diſtanza. Perla medeſima hanno detto gli Aſtrologile stelle effer corpi sferici'e tondi: pera cioche daejja uien- lor"detto i corpi sferici da lunge ofind pri parere piani; l'eſempio ſia di uno ouo: oltre di ciò Le ſtelle le stelle nell'Orizonte apparere piu grandi, etiano, a ell'Ori dio l'iſteſſo Orizonte alla terra contingente, e piu: zones apo lontano di qual ſi uoglia altro punto aßegnato nel ciez iori, per lo. L'iſteſſo fàil naturale, il quale afferma, che l'oca chio non baſterebbe a comprender la grandezza delle coſe,s'eglinon fuſſe tondo. et etiandio ſenza luce 1. non uederſi niente. Per queſta ſi ſono ritrouati gli fpecchi: imperoche il raggio dell'occhio cadente pera pendicularmenteſopra delloſpecchio, ritorna adietro, e coſi fa, che l'imagine èueduta. Si danno ancora le cagioni, perche nella piu parte de gli ſpecchiſi ueda stig als t'imagine dalla banda dilà di ello ſpecchio, &in alcue ni dinanzi: o oltre di ciò coſi diſcoſta e lontana dallo specchio, quanto é l'occhio lontano da eſo, e di molte altre. si sà ancora la diuerſa compofitioneloro, coa me de' tondi, concaui, colonnari, piramidalize triana Pianeri og ifcintilla. gulari. Laſcioper hora, chela reuerberatione de nocome raggi faccia le stelle fille ſcintillare: imperoche i pia = le ftefle fiłnetinon ſcintillano. Proua ultimamente, perche nela l'acqua le coſe paiano piu grandi, e fuori dal ſuo luos Perche le coſepaia. 80;imperochenon ſipuò diſcernere e giudicare la no mag. grandezza di una coſa per raggio rotto: e per ciò le giori nel ſtelle nell'orizonte appaiono piu uicine a noi, che nel l'acqua. Meridiano. Si danno inſieme congnitioni di Iride, e molte altre; la enumeratione delle quali troppo longa ſarebbe a dirle. CAM. Veramente tutte le ſcienze ſono di talforte tra loro ordinate, che’n loro a punto ſi uede fe. COM Iron chat lan ED fi uede una ciclopedia. Liv. Tal dunque è la pera ſpettiua, la cui conſideratione e di raggio retto, rea feffo, erotto. nella quale non ui marauigliate che ſi ueggiano coſi eccellenti e buoni Scultori: eſſendo che scultura ciò ſiuedafacilmente nella Chimica,Ectypoſi, Celaa parci d tura, Plaſtica, Proplaſtica, Paradigmatica, Tomia fa. ca., Colaptica, le quali ſonotutte parti della Scultuz ra, o hanno della ſua cognitione bisogno. Hora di queſte non voglio io parlare, eccetto ſe a voi pareſſe della simetria dell'huomo; dcció da eſſa comprendiate ogn’hora piu le marauiglioſe opere di Dio. Cam. Queſto miſarebbe di grandißimo contento, è maßime che per la intelligenza loro ſi potrebbono etiandio conſiderar le parti de gli animali ſenza ragione.Liv. Queſta miſura dunque, la quale Simetria chiamiamo, Simetria duenga che'n tutte le coſe create da Dio ſia maraui: dell'huog glioſa, è però di marauiglia e stupore grandißimo mo. nell'huomo. imperoche miſurate tutte le parti effatta = mente, dalle quali è compoſto, iui non ſi uede altro, che ogni coſa piena di harmonia e perfettißima in tuta ti i numeri. E perciò hanno diuiſo il corpo dell'huomo in noue parti, le quali tutte ſi prendonodalla faccid;. hauendola coſi poſta diſopra Iddio grandißimo,aca ciò tutte le altre pigliaſſero la miſura da eſſa, come contenuta da tutto il corpo noue uolte: s'intende però queſto degli huominifatti, e non de' fanciulli, i quaa li non ſono eccetto quattro. La proportion poi de membri tra loroquanta fia, è coſa di grande contemplatione. Quanto é dalle ciglia ſino alla fine del nära ſo, tanto dal mento fino alla gola quanto dal labro di fopra ſino alla punta del naſo, tanto é la larghezza del naſo di ſotto, è la concauità de gl'occhi, quanto dalla cima del fronte fino alle ciglia, tanto ſino alla punta del naſo, o etiandio fino al mento. Hora che tanto ſia la faccia, quant'è la mano, e dalle congiunz ture di eſa fi ueggiano le proportioninella faccia,¿ coſa aſſai ben chiara. Della larghezza, che ne dires di eſſo al naſo, tanto la larghezza della bocca, quanto la longhezza del naſo, tanto é la larghezza delle anche, quanto ſono due faccie inſieme. L'altezza poi, cioè quello, che uolge e circonda all'intorno, e mard uigliosa. uolge la teſta, e in quella parte del fronte tre faccie, il petto cinque, il uentre, paſſato però l'ombilico, quattro. Laſcio ultimamente, che con tenga l'huomo la figura circolare, e quadrata, e che da eſſo ſia cauata la proportione e miſura di far caſei, Fabriche Rocche, Caſtelli, e Chieſe. Hauete hora viſto la dir moſtrate uifione del corpo del'huomo, quanto ſia artificioſa, e dalla fime. tria del di quanta armonia e contemplatione. E di qui conſie l'huomo. deriate qual Geometria,qual Muſico debbia eſſer l'aua tore e fattore di tutto queſto, CA M. Veramente da tutte le coſe da D1o create ſiamobenißimoinſegnati uiuer bene: imperoche hauendo ogni noſtra parte del corpo con tal proportione diſpoſta, e fatta, ci mom che 3 stra, 1 C,. stra, che ordiniamo i coſtuminoſtri; acciò in ſi bel corpo poſſa eſſere una bella anima. Liv. E queſto ulbaſti in queſti ragionamenti, et andiamo alla Aſtro. nomia. Cam. Come a uoi pare. His “Enthusiasm” has a brief section on ‘parlare humano’, parabolize – wondering how men can ‘express’ the ‘conceptions’ of their ‘souls’ – via this ‘parlare’ – also philosophised on symmetry, which is like K. O. Apel’s reciprocity.  Literae humaniores, nicknamed classics, is an undergraduate course focused on classics (Ancient Rome, Latin, and philosophy) at Oxford. The name means literally "more human literature" and is in contrast to the other main field of study when the Oxford began, i.e. res divinae, or literae divine, “Lit. div.”. “Lit. Hum.” is concerned with *human* learning; “Lit. div.” with learning treating of the divine. “Lit. Hum.” originally encompassed mathematics and natural sciences as well. It is an archetypal humanities course.  Oxford's classics course, also known as greats, is divided into two parts, lasting V terms and VII terms respectively, the whole lasting IV years in total, which is one year more than most arts degrees.  The course of studies leads to a B. A. Lit. Hum. degree. Throughout, there is a strong emphasis on first-hand study of primary sources in Latin.  In the first part -- honour moderations, “mods” – the pupil concentrates on Latin; in the second part the pupil must choose VIII essays from philosophy. The teaching style consists of a weekly tutorial in each of the two main subjects chosen, supplemented by this or that lecture. The main teaching mechanism is the weekly essay -- one on each of the two main chosen subjects, to be read out at a 1-to-1 tutorial. This affords the pupil plenty of practice at writing a short, clear, and well-researched essay. The emphasis is on the study of an original text in Latin, assessed by gobbet, a short commentary on an assigned primary source. In a typical ‘text’ essay, the pupil must comment on an paragraph in Latin selected by the examiner -- from the set books. Marks are awarded for recognising the context and the significance of the paragraph. The course of moderation, –  the exam conducted by a moderator) runs for the initial V terms of the course. The aim is for the pupil to develop an ability to read in Latin. Virgil is compulsory. Other paragraphs are chosen from a given list. There are also unseen translations from Latin, and compulsory translation into prose. The tutorial fellow in philosophy is free to concentrate on teaching philosophy, not Latin. The mods examination has a reputation as something of an ordeal.XII three-hour essays across seven consecutive days. Pupils for Lit. Hum. mods face a much larger number of exams than undergraduates reading for any other degrees at Oxford sit for their mods, prelims or even, in many cases, finals.  A pupil who successfully passes his mods may then go on to study the full greats course in his remaining VII terms. The traditional greats course consists of philosophy. The philosophy includes Plato and Aristotle, and also modern philosophy, both logic and ethics, with a critical reading of standard texts -- from Plato's Republic and Aristotle's Nicomachean Ethics to more modern philosophers, such as Kant. The regulations governing the combinations of essays are moderately simple. The pupil must take at least four essays based on the study of ancient texts in the original Latin. It is compulsory also to offer essays in unprepared translation from Latin; these essays counted "below the line" — the pupil is required to pass them, but they do not otherwise affect the overall class of the degree. G. E. M. Anscombe, British analytic philosopher H. H. Asquith, former Prime Minister of the United Kingdom J. L. Austin, philosopher of language A. J. Ayer, British analytic philosopher Isaiah Berlin, historian of ideas, Oxonian professor George Curzon, 1st Marquess Curzon of Kedleston, Viceroy of India and Foreign Secretary Emma Dench, British ancient historian, McLean Professor of Ancient and Modern History at Harvard University Peter Geach, British analytic philosopher John Murray Gibbon, Canadian writer Barbara Hammond, English social historian, first woman to take a double first R. M. Hare, English moral philosopher, Oxonian professor H. L. A. Hart, British legal philosopher Denis Healey, Labour politician Gerard Manley Hopkins, English poet Alfred Edward Housman, English classical scholar and poet (failed in finals) Boris Johnson, Prime Minister of the United Kingdom from 24 July 2019 Ronald Knox, Catholic priest, theologian, writer and apologist Anthony Leggett, theoretical physicist and winner of Nobel Prize in Physics C. S. Lewis, novelist, poet, academic, medievalist, literary critic, essayist, lay theologian, and Christian apologist Harold Macmillan, Prime Minister of the United Kingdom, read mods (Latin and Greek), the first half of the four-year Oxford greats course, at Balliol from 1912 to 1914, interrupted by service in the First World War Reginald Maudling, Conservative politician Iris Murdoch DBE, novelist and philosopher Charles Prestwich Scott, editor of the Manchester Guardian daily newspaper (now The Guardian) Peter Snow CBE, British television and radio presenter, historian Reginald Edward Stubbs, British colonial governor Ronald Syme, New Zealand-born historian and classicist Oscar Wilde, Irish writer and poet, attained a double first Bernard Williams, British moral philosopher, attained a double first with formal congratulations in the second part Emily Wilson, British classicist, first woman to publish a translation of Homer's Odyssey into English. N. T. Wright, British Anglican bishop and academic Yang Xianyi, translator of Dream of the Red Chamber into English See also Edit History portal University of Oxford portal Philosophy, politics and economics Quadrivium Trivium References: Standen, Naomi. "HIS 1023 Encounters: What is a gobbet?" artsweb.bham.ac.uk. Retrieved 14 July 2018. External links Edit Brown, Peter (2003). "Tempora mutantur". Oxford Today. Archived from the original on 27 May 2011. Retrieved 14 January 2006. Cook, Stephen (18 February 2003). "Latin types". The Guardian. Retrieved 8 September 2006. "The Classics Faculty at Oxford". The Philosophy Faculty at Oxford".  RELATED ARTICLES Classics -- Study of the culture of (mainly) ancient Greece and Ancient Rome; Honour Moderatons; Classical Tripos -- Degree course at the University of Cambridge. Giovanni Camillo. Giovanni Camilli. Giovanni Camilla. Keywords: dell’huomo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Camilla” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Camillo – scuola di Portogruaro – filosofia veneziana – filosofia veneta – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Portogruaro). Filosofo veneziano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Portogruaro, Venezia, Veneto. Giulio Camillo.  Giulio Camillo Delminio. Giulio Camillo detto Delminio, m. Milano. è stato un umanista e filosofo italiano. Letterato, erudito e insegnante, è famoso per il suo trattato sull'imitazione nell'arte e per il vagheggiato progetto utopistico del Teatro della Memoria o Teatro della Sapienza, edificio ligneo costruito secondo il modello vitruviano in cui avrebbe dovuto essere archiviato, tramite un sistema di associazioni mnemoniche per immagini, l'intero scibile umano, un progetto culturale precursore delle moderne enciclopedie.  Le fonti sulla sua vita sono due biografie scritte da Altan e Liruti.  È possibile che il suo nome di battesimo fosse, in realtà, Bernardino, mentre Giulio Camillo sarebbe uno pseudonimo di sapore latineggiante, adottato secondo il costume degli umanisti dell'epoca. Studia a Padova e si dedica quindi all'insegnamento di eloquenza e logica. Fonda con altri, a Pordenone, l'Accademia Liviana. Trasferitosi a Venezia, conobbe tra gli altri Pietro Bembo, Pietro Aretino e Tiziano, e strinse amicizia con Erasmo da Rotterdam, che lo ricorda nella sua opera Dialogus Ciceronianus, attribuendogli eccellenti doti di oratore. Si trova a Udine, quale maestro d'umanità. Qui tenta di ottenere l'officio di cancelliere della comunità.  Dedicatosi allo studio della lingua ebraica e delle lingue orientali, della cabala, del pitagorismo e della filosofia neo-platonica dell’ACCADEMIA, in occasione di un viaggio a Roma, ha probabilmente occasione di confrontarsi con il cardinale Egidio da Viterbo, uno dei massimi cabalisti cristiani.  Il Teatro della memoria  Lo stesso argomento in dettaglio: Teatro della Memoria. C. anda sviluppando l'idea di rappresentare la conoscenza come un teatro dove, a differenza del teatro tradizionale, in cui lo spettatore si siede in platea e lo spettacolo si svolge sul palco, egli stesso si trova al centro del palco e lo spettacolo gli si dispiega intorno. Dal palco, infatti, si dipartivano sette gradini, ognuno dei quali era contrassegnato con una diversa immagine (Primo grado, Convivio, Antro, Gorgoni, Pasifae, Prometeo) e ciascuno era suddiviso in sette parti, corrispondenti ai sette pianeti (Luna, Mercurio, Marte, Giove, Sole, Saturno, Venere). Ognuna delle quarantanove intersezioni che risultavano è contrassegnata da un'altra immagine mnemonica desunta dalla mitologia, immagine come simboli, che rappresentava una parte dello scibile umano. In pratica, il suo Teatro era un edificio della memoria, rappresentante l'ordine della verità eterna e i diversi stadi della creazione, un'enciclopedia del sapere e insieme l'immagine del cosmo. In questo progetto si avvertono la tensione tipicamente rinascimentale verso il sapere universale e la conoscenza del creato, nonché gli influssi della filosofia ermetica e cabalistica iniziata da Pico della Mirandola.  Il trattato sull'Idea del Theatro C. espone le sue teorie nel trattato Idea del Theatro (Venezia) e nell'apologetico Discorso di C. in materia del suo theatro (dedicato a Trifone Gabriel). Queste trovarono un sostenitore e mecenate nel sovrano francese Francesco I, che il Delminio incontrò a Milano. È comunque improbabile che un prototipo di tale teatro sia stato veramente costruito. La sua figura non convenzionale e le sue idee particolarissime gli attirarono l'ammirazione di molti ma anche l'ostilità di altri, ed egli venne definito sia un genio sia un ciarlatano. La sua stessa persona era circondata da un alone di mistero, e anche la morte avvenne in circostanze poco chiare.  Opere Discorso in materia del suo Theatro; Lettera del rivolgimento dell'huomo a Dio; La Idea del Theatro; Trattato delle materie; Trattato dell’Imitatione; Due orationi; Rime, et lettere diverse; La Topica, overo dell’Elocutione; Discorso sopra l'Idee d’Hermogene; La grammatica; Espositione sopra'l primo et secondo Sonetto del Petrarca. Yates, L'arte della memoria, Einaudi, Stabile, C., Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, C., L'idea del theatro con L'idea dell'eloquenza, il De Transmutatione e altri testi inediti, a cura di Lina Bolzoni, Adelphi, Milano Corrado Bologna, El teatro de la Mente. De Giulio Camillo a Aby Warburg, Siruela, Madrid, Turello, Anima artificiale. Il teatro magico di C., Aviani, Voci correlate Anfiteatro della Memoria. C. Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Bindo Chiurlo, C., Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giulio Camillo Delminio, in Dizionario biografico dei friulani. Nuovo Liruti online, Istituto Pio Paschini per la storia della Chiesa in Friuli. Modifica su Wikidata Opere di Giulio Camillo Delminio, su Liber Liber. Opere di C. (altra versione), su MLOL, Horizons Unlimited. Opere di C. Open Library, Internet Archive. Opere riguardanti Giulio Camillo Delminio, su Open Library, Internet Archive. C., su Goodreads. Frammento di orazione italiana in lode delle scienze in APUG 118 cc 25-28 Archivio Storico della Pontificia Università Gregoriana Dell'imitazione Archiviato il 27 agosto 2006 in Internet Archive., trattato sull'imitazione nell'arte di Giulio Camillo detto Delminio Franco Pignatti, L'imitazione e la retorica in Giulio Camillo, da Italica.RAI.it Floriana Calitti, Giulio Camillo Delminio, L'idea del teatro, da Italica.RAI.it (IT, EN) Giulio Camillo e il Teatro della Memoria da INFN.it Testo de L'idea del Theatro, su fluido.tv. Giulio Camillo Delminio. Un'avventura intellettuale nel '500 europeo, su delminio.info. URL consultato il 2 giugno 2019 (archiviato dall'url originale il 17 maggio 2014). Portale Biografie   Portale Filosofia   Portale Letteratura Categorie: Umanisti italiani Filosofi italiani Nati a Portogruaro Morti a Milano [altre]. Giulio Camillo. Camillo. Keywords: implicatura, chiave universale, deutero-esperanto, memoria ed identita personale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Camillo.” Camillo.

 

Grice e Cammarata: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del giusto – giussum giustum – giure – iure – giudico – giudicare -- la giustizia – scuola di Catania – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grce, The Swimming-Pool Library (Catania). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Caania, Sicilia. Grice: “You gotta love Cammarata; for one, like Austin, he goes by initials, and indeed like me, A. E. – he is the Italian Hart – he thinks legality comes first, justice second – and he is possibly right – his example is Oreste’s murder and the institution of justice in Athens – However, that’s because of his Magna Grecia background – Speranza tells me that at Rome, things are different, since it’s all Brutus and the beginning of the republic – ‘il ratto di Lucrezia,’ as he puts it.” -- Fu uno dei più conosciuti rettori dell'Trieste per la difesa della quale ricevette la medaglia d'oro della Cultura e dell'Arte, mentre all'Ateneo fu conferita nel 1962 la medaglia d'oro al valor civile.  Biografia Nel corso della sua carriera insegnò filosofia del diritto e altre materie giuridiche nelle Messina, Macerata, Trieste, Napoli e Roma. Allievo di Giovanni Gentile, aderì all'idealismo immanentista. Gli scritti principali di filosofia del diritto sono inseriti, in massima parte, in Formalismo e sapere giuridico, Giuffrè 1963. Buona parte degli scritti riguardanti invece la "questione di Trieste" sono pubblicati in Fra la teoria del diritto e la questione di TriesteScritti inediti e rari, Eut, Trieste. Fu anche un notevole fotografo, come documentano le due mostre (Trieste Gorizia ) a lui dedicate.   Cammarata, Angelo Ermanno, in Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,  Opere di Angelo Ermanno Cammarata,. Filosofia Università  Università Filosofo Avvocati italiani Insegnanti italiani Professore Catania RomaFilosofi del diritto. Il secondo giorno sostenne tutto il contrario; onde gridano all'immoralità, all’audacia e alla sfacciataggine del filosofo, che non si vergognò di difendere contraddizione si anorme. Anche non tenendo conto che, se si applicasse questo criterio, tutta la filosofia dei accademici sarebbe un' immoralità, perchè il loro metodo e di difendere in ogni quistione le soluziori opposte. Idue discorsi (tesi ed antitesi, positio e contra-positio, posizione e contra-posizione), tenuti in giorni successivi, abbiano un'unità perfetta (la sintesi, o com-posizione) e si propongano il medesimo fine: mostrare la falsità della dottrina della tesi di Diogene intorno al giurato; e siccome costoro in questa parte della filosofia, molto più che in altre, sono dipendenti da Platone e da Aristotele, bisogna prendere le mosse da questi. Leggiamo in Lattanzio. Carneades autem, ut Aristotelem refelleret ac Platonem, justitiae patronos, prima illa disputatione collegit ea omnia, quae pro justitia dicebantur, ut posset illa, sicut fecit, evertere. Carneades, quoniam erant infirma, quæ a philosophis adserebantur, sumsit audaciam refellendi, quia refelli posse intellexit (Lattanzio, Instit. div.). E al trove. Nec immerito extitit Carneades, homo summo ingenio et acumine, qui refelleret istorum (Platone e Aristotele ) orationem et iustitiam, quæ fundamentum stabile non habebat, everteret, non quia vituperandam esse iustitiam sentiebat, sed ut illos defensores eius ostenderet nihil certi, nihil firmi de iustitia disputare (Epit. 55, 5-8). Di qui è evidente che la prima orazione non era che un esordio, un'introduzione, uno sguardo storico alla questione, un'esposizione delle idee accettate da Diogene, che Carneade s'appresta a confutare nel vegnente giorno (Cic., de rep.); confutazione, la quale non aveva per iscopo di vituperare la giustizia in sé, ma di colpire i filosofi avversari, o almeno la loro teoria dommatica – il domma.Non è la virtù stoica, che Carneade demole, ma il sapere. Su questo si dovrà tornare più innanzi. E caso a noi pervennero frammenti solamente della seconda orazione. Questa sola offriva una filosofia nuova, dava una scossa inaspettata e forte all'intelligenza dei romani. Perciò eam disputationem, qua iustitia evertitur, apud Ciceronem L. Furius recordatur (Lattanzio, Instit. dio.). E noi ora possiamo tentare di ricostruire questo singolare di scorso nelle sue linee generali. Per Carneade, non esiste una giustizia (giurato – iusiurato) naturale nè verso due uomini. Se esso esistesse le medesimecose sarebbero giurate (iusiurata) giuste o ingiuste, buone o cattive, morali o immorali, per ogni uomo, come le cose calde e le fredde, le dolci e le amare. Invece chi conosce il mondo e la storia, sa che regna una grandissima diversità di apprezzamenti morali e giuridici, di consuetudini tra il popolo romano e il popolo sabino, da Roma a Sabinia, dal Tevere al Trastevere, da tempo a tempo. I cretesi e gli etoli reputano cosa onesta il brigantaggio. I Lacedemoni dichiarano loro proprietà tutti i campi che potevano toccare col giavellotto. Gli Ateniesi solevano annunciare pubblicamente che loro apparteneva ogni terra che producesse olive e biade. I barbari galli stimano disonorevole cosa procurarsi il frumento col lavoro, invece che colle armi. I romani vietano ai Transalpini la coltivazione dell'ulivo e della vite, per impedire la concorrenza ai loro prodotti e dar a questi un valore più elevato. Gli semitici egiziani, che hanno una storia di moltissimi secoli, adorano come divinità il bue e belve di ogni genere. I semitici Persiani, disprezzano gli dei dell'Ellade, ne incendiarono i tempii, persuasi essere cosa illecita che gli dei, i quali hanno per abitazione tutto il mondo, fossero rinchiusi tra pareti. Filippo il Macedone idea e Alessandro manda ad esecuzione la guerra contro i greci per punire quei numi. I Tauri, gli Egiziani, i barbari galli (“Norma”) e i Fenici credeno che tornassero assai accetti alle loro deità il sacrifizio umano. Si dice: E dovere dell'uomo che fa il giurato (iusiuratum) ubbidire alla legge. Quale legge? A la legge di ieri, o alla legge di oggi? A quelle fatte in questo lato del Tevere, o nel Trastevere? Se una un imperativo o una legge suprema, universale, trascendente, kantiana, costante s'impone alla coscienza dell’uomo, come pretende Diogene, coteste variazioni non sarebbero possibili. Perciò non esiste un diritto naturale, nè un uomo che per natura arriva al giurato (iusiuratum). Il diritto (ius) è una invenzione dell’uomo a scopo di utilità e didifesa; come prova anche il fatto che non raramente la legge, le quale e fatta dal sesso maschile, assicura a questo sesso un particolare vantaggio a danno di quello femminile. Nessuna ‘legislazione’, attentamente esaminata, appare l'espressione di un imperative o principio fisso, naturale, vero, immutabile, divino. Invece al profondo osservatore non isfugge che ogni disposizione legale move da ragione di utile e viene cambiata appena non risponde più ai bisogni e agl'interessi di coloro che hanno nelle mani il potere. Ogni nazione cerca di provvedere al proprio bene e considera, per istinto di natura, gli animali e le altre nazione come istrumenti della propria conservazione e felicità (Cic., de rep.). La storia insegna che ogni popolo che diventa grande, potente, ricco, non pensa ai vantaggi altrui, ma unicamente ai proprii. Voi stessi o Romani, disse Carneade parlando a un Scipione Emiliano, il futuro distruttore di Cartagine e di Numanzia, a Lelio il saggio, al letterato Furio Filo, a Scevola il futuro giureconsult, all'erudito Sulpicio Gallo, algrande oratore Galba, al vecchio Catone, l'implacabile nemico di Cartagine, al fiore di tutta la cittadinanza e alla presenza dei colti ostaggi achei trasportati in Italia, tra i quali il grande storico e generale Polibio. Voi stessi, o Romani, non vi siete impadroniti del mondo colla giustizia. Se volete essere giusti, restituite le cose tolte agli altri, ritornate alle vostre capanne a vivere nella povertà e nella miseria. Il criterio direttivo della vostra vita non e il  giurato (iusiuratum), bensi l'utilità, che invano cercate di mascherara; poichè voi, coll'intimare la guerra per mezzo di araldi, col recare *in-giurie* sotto un pretesto di legalità, col desiderare l'altrui, col rubire, siete per venuti al possesso di tutto il mondo. Ma per temperare il cattivo effetto, che avesse potuto produrre negli animi dei Romani questa audace analisi dei fattori della loro grandezza politica, l'avveduto ambasciatore ateniese ricorda altri esempi, che sono celebri e lodati in tutto il mondo. Rammenta la ben nota risposta data dal pirata catturato ad Alessandro il grande. Io infesto breve tratto di mare con una sola fusta, con quel medesiino diritto, col quale tu, o Alessandro, infesti tutto il mondo con grande esercito e flotta. Il patriottismo, questa virtù somma e perfetta, che suole essere portata fino al cielo colle lodi, è la negazione del giurato (iusiuratum), perchè si alimenta della discordia seminata tra gli uomini e consiste nell'aumentare la prosperità del proprio paese, naturalmente a danno di un altro, coll’nvadere violentemente il territorio altrui, estendere il dominio, aumentare le gabelle. Patriotta è colui che acquista dei beni alla patria colla distruzione di altre città e nazioni, colma l'erario di denaro, rese più ricchi i concittadini. E, quel che è peggio, non solo il popolo e la classe incolta, ma eziandio i filosofi esortano e incoraggiano a commettere cotali atti ingiusti. Cosicchè alla malvagità non manca neppure l'autorità della scienza. Ovunque regnano inganno e ingiustizia, che invano si tentano di nascondere e legittimare. Tutti quelli che hanno diritto di vita e di morte sul popolo sono tiranni. Ma essi preferiscono chiamarsire per volontà divina. Quando alcuni, o per ricchezze, o per ischiatta, o per potenza, hanno nelle mani l'amministrazione di una città, costituiscono una setta. Ma i membri prendono il nome di “ottimato”. Se il popolo ha il sopravvento nel maneggio dei pubblici affari, la forma di governo si chiama libertà; ma è licenza. Ma poichè gli uomini si temono l'un l'altro, e una classe ha paura dell'altra, interviene una specie di *patto* o contratto fra popolo e potenti e si costituisce una forma mista di governo, dove la giustizia è un effetto non di natura o di volontà, ma di debolezza. Ed è naturale che cosi avvenga. Se l'uomo deve scegliere tra le seguenti condizioni: recare *in-giuria* e non riceverne; e farne e riceverne; nè farne, nè riceverne, egli repute ottima la prima, perchè soddisfa meglio i suoi istinti. Poscia la terza, che dona quiete e sicurezza; ultima e più infelice la condizione di chi sia costretto ad essere continuamente in armi, sia perchè faccia, sia perché riceva *in-giurie”. Adunque alla Hobbes lo stato naturale dei rapporti tra uomo e uomo è la lotta (uomo uominis lupo), la guerra, la discordia, la rapina, la violenza, l'inganno, in una parola, la negazione del giurato (giusgiurato). La giustizia è una virtù che si esercita per effetto di debolezza e per proprio tornaconio. Ma Diogene, come vedemmo, considera il giurato (iusiuratum) verso gli uomini. Carneade dove notare che l’istituzione del tempio esiste solamente nel l'immaginazione de' suoi avversari e dei filosofi, dai quali essi attinsero i loro principii. Non si acquista, non si allarga potere, non si fonda regno senza le armi, le guerre, le vittorie; le quali alla loro volta in generale presuppongono la presa e la distruzione di città. E dalle distruzioni non vanno immuni le oggetti addorati nei tempi, ne dalle stragi si sottragge il sacerdote del tempio; né dalle rapine i  tesori e gli arredi sacri. Quanti trofei di divinità nemiche, quante sacre immagini, quante spoglie di tempii resero splendidi i trionfi dei generali romani! E non sono cotesti sacrilegi? Non sono atti di somma ingiustizia? No, innanzi al giudizio del popolo, all'opinione della gente colta, degli storici, dei letterati, questa è gloria, è patriottismo, è prudenza, sapienza, giustizia. Dunque la giustizia non solamente non viene osservata in pratica, ma non esiste nep pure in fondo alla coscienza generale dell’uomo. Anch'essa viene subordinata all'utile. Ma non s'arresta qui la critica di Carneade. Con un esame sottile e profondo dell'antinomia esistente tra i due concetti del ‘scitum’ e del ‘giurato’ e della natura morale dell'uomo quale in realtà è, e quale egli si crede e vorrebbe essere, Carneade ha chiarito un contrasto del cuore (ragione pratica) e della mente (ragione teorica) umana, che tuttavia rimane e che ha servito di fondamento alle teorie utilitaristiche inglesi di tempi a noi vicini. Lo ‘scitum’ – la sapienza politica comanda al Cittadino di accrescere la potenza e la ricchezza della patria, estenderne i confini e il dominio, renderne più intensa la vita con nuove sorgenti di guadagni e di piaceri; e tutto questo non si può compiere senza danno di altre genti. Il giurato (iusiuratum) invece comanda di risparmiare tutti, di beneficare i propri simili indistintamente, restituire a ciascuno il suo, non toccare i beni, non turbare i possedimenti altrui, non sminuire la felicità d'alcuno. Ma se un uomo di stato vuole essere giusto, non ha mai l'approvazione de' suoi amministrati, non gloria, non onori, i quali il popolo attribuisce non al giusto (che promueve il giurato) e onesto e inetto; bensì al sapiente, al prudente, all'accorto. Non per il giurato, ma per il ‘scitum’ i generali di ROMA hanno il soprannome di grandi. La violenza, la forza, la negazione del giurato, hanno dato potere e consistenza agli stati. Ma per nascondere la propria origine e fuggire la taccia de negare il giurato (iusiuratum), il popolo, fatto grande e divenuto dominatore, va immaginando delle favole da sostituire alla storia vera, come il mercante arricchito agogna un titolo di nobiltà. Le stesse qualità, e solamente le stesse, mantengono gli stati liberi o forti. Non ha nazione tanto stolta, la quale non preferisce il comandare con la negazione del giurato, all'ubbidire con la promozione del giurato (iusiuratum). La ragione di stato e la salvezza pubblica vincono e soffocano il sentiment *dis-interessato*. Uno stato vuole vivere a prezzo di qualsiasi negazione del giurato (iusiuratum), perchè sa che alla vittoria, con qualunque mezzo acquistata, tien dietro la gloria. Nel concetto degli antichi, la fine della propria nazione non sembra avvenimento naturale, come la morte di un individuo, pel quale questa non solo è necessaria, ma talvolta anche desiderabile. L'estinzione della patria era per essi in certo qual modo l'estinzione di tutto il mondo. Dato questo concetto e un sentimento della gloria diverso e molto più intenso che non sia in noi moderni, doveno in certa guisa parere *giustificati* (giusti-ficati – fatto giurato – iusiuratum -- anche gli atti di violenza e di frode, che avevano per I scopo la conservazione e la potenza del proprio stato; o, per meglio dire, il popolo e gl'individui non hanno coscienza di un principio o imperativo che governa la propria vita. Credeno, i Romani pei primi, di promovere il giurato (iusiuratum) e invece sommamente negano il giurato (iusiuratum). Carneade fu il primo a chiarire questa opposizione tra fatto e idea, tra sapienza machiavelica politica e il giurato (iusiuratum) (Cic., de fin.). Il medesimo conflitto tra il giurato e il ‘scitum’ dimostra egli esistere nella vita privata, intendendo per sapiente l'uomo che sa difendere il proprio interesse; e giusto colui che non lede quello degli altri. Sono suoi i seguenti esempi, tolti dalla vita giornaliera e assai chiari e appropriati alla vita romana affogata negli affari. Un tale vuole vendere uno schiavo, che ha l'abitudine di fuggire, o una casa insalubre. Egli solo conosce questi difetti. Ne rende avvisato il compratore? Se si, s'acquista  fama di uomo onesto, perchè non inganna, maeziandio di stolto, per che vende a piccolo prezzo, o non vende affatto; se no, sarà reputato sapiente, perchè fa il proprio interesse, ma malvagio, perchè inganna. Parimenti, se egli s'incontra in uno che vende oro per oricalco, o argento per piombo, tace per comperare a buon prezzo, o indica al venditore lo sbaglio e sborsa di più per l'acquisto? Solamente lo stolto vorrà pagare a maggior prezzo la merce. Se un tale, la cui morte a te recherebbe vantaggio, sta per porsi a sedere in luogo, dove si nasconde serpe velenoso, e tu il sai, dovrai avvertirlo del pericolo, o tacere? Se taci, sarai improbo, ma accorto; se parli, sarai probo, ma stolto (Cic., de rep.). Dunque qui pure si presenta la contraddizione: chi è giusto, è stolto; chi è sapiente, è ingiusto. Ma in questi casi si tratta di una quantità maggiore o minore di denaro e di vantaggi più o meno rilevanti, e v'ha chi potrebbe essere contento e felice della povertà. Ma quando andasse di mezzo la vita, il conflitto diventerebbe più spiccato. Un tale in un naufragio, mentre è poco lontano dall'affogare, vede un altro più debole di lui mettersi in salvo appoggiandosi a una tavola, che vale a sostenere uno solo. Nessuno testimonio è presente. Si fa sua la tavola e si pone in salvo, lasciundo che l'altro perisca. Oppure, se, dopo che i suoi furono sconfitti, incontra nella fuga un ferito a cavallo, che va sottraendosi al ferro dei nemici inseguenti, lo getterà a terra per porre se stesso in sella, o si lasce raggiungere e uccidere. Se egli è uomo sapiente, si salva a qualunque costo. Ma se poi antepone il morire al far morire, sarà giusto, ma stolto. Tale è il giudizio che intorno al suo operato porteranno il uomo.  Cosicchè il giure naturale, la giustizia naturale è stoltezza. Il giure civile è sapienza politica. Tutto è lotta d'interessi. Si ha ragione di credere che Carneade nel suo discorso *contro* il giurato civile tocca anche la questione della schiavitù, dicendo essere un fatto che nega il giurato (iusiudicatum) naturale, che uomo servisse a uomo -- principio che, riconosciuto vero, puo essere assai valido per far conoscere quanto esteso fosse il dominio della negazione del giurato e dare alla sua tesi una grande forza. E ciò si induce a credere dal vedere che in più frammenti il difensore del giurato, ossia il suo contraddittore, viene svolgendo la tesi opposta, perchè la schiavitù, rettamente conservata, torna a utilità del stesso schiavo, il quale sotto un governo buono e forte vive in maggiore sicurezza e viene meglio educato che allo stato di libertà; e come Dio comanda all'uomo, l'anima al corpo, la ragione alle parti appetitive dell'anima, cosi il conquistatore tiene a freno il conquistato, il quale diventa tali appunto perchè e peggiore di quello. Un tenue indizio ci sarebbe anche per farci credere che egli risolve il rimorso nella paura della pena, negando che fosse un sentimento più profondo e disinteressato. Diogene obbietta che in questa ipotesi il malvagio sarebbe semplicemente un incauto e il buono uno scaltro (Cic. de leg.). In conclusione: per Diogene, fondamento della morale e del diritto è l'inclinazione ad amare gli uomini e a rispettare la divinità, inclinazione che ha radice nella natura, la quale sola offre la norma per distinguere il giurato dalla sua assenza, il bene dal male. Per Carneade, generatrice del diritto è l'utilità, e l'utilità sola, e ogni giudizio morale e altrettanta opinione, la quale non deriva da un imperativo kantiano, o un principio naturale fisso, come provano la loro varietà e il dissenso degli uomini (Cic., de leg.). Alla teoria giuridica di Carneade non si deve attribuire un significato di domma o dommatico, che sarebbe in cotraddizione colle premesse teoretiche della sua filosofia. L'egoismo e l'utilitarismo proclamato da Carneade in opposizione all'idealismo morale di Diogene, non è una dottrina *precettiva*, alla Kant (il sollen) ma l'investigazione e l'esposizione di un fatto psicologico e sociale – come il principio cooperativo di Grice. Carneade non pare credere all'effetto pratico della morale normativa e si limita ad analizzare il cuore dell’uomo, la ragione pratica, saggezza, prudential, il quale, per la sua tendenza nativa, è assai lontano dal realizzare il precetto dommatico stoico. Ma da filosofo prudente s'astiene dal proporne del proprio precetto (idiosincrazia). Nota il fatto che si presenta all'osservazione quotidiana con tutti i caratteri della verosimiglianza più alta e sforzano a credere o ad operare; ma nè costruisce una teoria assoluta, ne formula un domma. iusiuro: swear to a binding formula.Wundt. Wundt Zeitungsausschnitte 100. Wundt. Wundt. Estate Wundt Brief von Luigi Credaro an Wilhelm Wundt. Grice: “Excellent philosopher, comparable with Hart – only not Jewish and thus friendly with the Fascists!” A student of Gentile, more of an idealist than a positivist, but still. Angelo Ermanno Cammarata. Keywords: la giustizia, H. L. A. Hart, il giusto, -- giusto – la persecuzione dei Cristiana fatta da Nerone e giusta in accordo con la legge romana – Tacito – Suetonio – Claudio – I Cristiani e I giudei di Trastevere confessano  il deilitto dell’incendio di Roma. Cfr. la rivincita del paganesimo, I giudei erano esclusi dalla prattiche religiose romane, ma la setta Cristiana no. montanismo,  moiaismo. I Cristiani si refusano  ad assistir al rituale religioso romano. Tacito giudica al  Cristiano enemico del genero umano. Giustizia divina,  giusto legale – giusto morale – la persecuzione dei eretici dalla chiesa, l’inquisizione, la contra-riforma, l’inizio della filosofia romana come una ‘woke’ da parte dall’elite romana dei scipione sulla relativita del concetto del giusto. Il primo discorso di Carneade e un cliché deliberativo. Fu il secondo discorso di Carneade che dimostra ai romani il potere dell’argumentazione – questo culto all’argumentazione dialettica fino al lit. hum. Oxon e la Unione di Parla – l’argumentazione scolastica – tesi, responsio, objection, ad p, contra p. tractatus – il dialogo filosofico, eirenico, diagoge, epagoge.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cammarata” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Campa: la ragioen conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’elogio della stoltizia – scuola di Presicce – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Presicce). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Presicce, Lecce, Puglia. Grice: “You gotta love Campa; he has a gift for unusual metaphors: la fantasmagoria della parola, -- my favourite has to be his conjunct, ‘stupidity and unfaithfulness!’ --  Grice: “Philosophy runs out of names: there are British philosophers G. R. Grice and H. P. Grice, and Itallian philosophers R. Campa, and R. Campa.” Riccardo Campa  Nota disambigua.svg DisambiguazioneSe stai cercando il sociologo, vedi Riccardo Campa (sociologo).  Riccardo Campa con il premio Nobel Eugenio Montale, Riccardo Campa (Presicce), filosofo. Storico della filosofia italiano, la cui indagine teorica si è incentrata sulla relazione fra la cultura umanistica e la cultura scientifica, delineando il percorso storico della cultura occidentale, in particolare nell'ambito europeo-latinoamericano.   Negli anni sessanta e settanta ha diretto la Biblioteca delle idee, sotto la presidenza scientifica del premio Nobel Eugenio Montale e contemporaneamente è stato condirettore responsabile del periodico Nuova Antologia, nel quale ha pubblicato saggi di letteratura e filosofia sul pensiero del Novecento; vi ha inoltre tradotto e pubblicato testi di Borges, Uscătescu, Segre, Chastel, Kaufmann, Gasset.   C.con Borges a Roma. ) «doctor honoris causa en las ciudades de Atenas y Nueva York, alfa y omega del conocimiento de lo que constituye Occidente [...] Asombra en su obra la recopilacion enciclopedica del pensamiento europeo, cimentada en la razon que la describe.» «C. ha ricevuto dottorati honoris causa nelle città di Atene e New York, l'alfa e l'omega della conoscenza di ciò che costituisce l'Occidente Sorprende nella sua opera la raccolta enciclopedica del pensiero europeo, fondata sulla ragione che lo descrive.»  (Domingo Barbolla Camarero, Prologo, in Riccardo Campa La razon instrumental. El mesianismo nostalgico de la contemporaneidad, Madrid, Biblioteca Nueva, ) Ha partecipato, a seguito di regolare concorso a livello internazionale, al Forum Europeo di Alpbach, al Collège de France, e all'Universidad Internacional Menéndez Pelayo, e ha insegnato presso diverse università italiane e straniere (Bologna, Università degli Studi di Napoli Federico II, Università per stranieri di Siena, Universidad de Morón), tenendo corsi di storia delle dottrine politiche, storia della filosofia,,storia delle Americhe e diritto politico. C. all'Università per Stranieri di Siena. Ha diretto l'Istituto Italiano di Cultura di Buenos Aires e successivamente ha coordinato in Italia e nell'America Latina le attività celebrative del V Centenario dell'America, per disposizione del Ministero degli Affari Esteri.. Vicepresidente della Commissione Nazionale per la promozione della cultura italiana all'estero. Quale ormai consolidata personalità-ponte fra i due mondi, geograficamente separati ma culturalmente legati dalle comuni radici, svolge le funzioni di Direttore del Centro Studi, Documentazione e Biblioteca dell'Istituto Italo-Latino Americano di Roma. Contemporaneamente è stato Vicedirettore della Società Alighieri. Ha presieduto il Forum Internazionale sulla Società Contemporanea di Madeira e, alla scadenza di questo mandato, è stato eletto a Roma presidente della Federazione Internazionale di Studi sull'America Latina e i Caraibi.  In questo ambito, con il suo operato, ha garantito l'interscambio delle figure intellettuali più significative fra la cultura latinoamericana e quella europea, favorendone la reciproca conoscenza.  Riceve la nomina di Director Emeritus del Vico Chair of Italian Studies en Dowling, Nueva York nel.  Studioso di diverse discipline: dalla linguistica teorica alla filosofia del linguaggio, dalla filologia all'analisi letteraria alla storia della lingua; dalla filosofia teoretica alla filosofia della scienza, nella gestione della complessa realtà istituzionale, ha assunto l'incarico di Direttore del Centro di Eccellenza della Ricerca dell'Siena.  Già Ordinario del S.S.D SPS/2 (Storie delle dottrine politiche) presso la Facoltà di Lingua e Cultura Italiana dell'Università per Stranieri di Siena, gli è stato conferito il titolo di "Professore emerito".  Opere: Appartengono, fra gli altri, alla produzione classica:  Il potere politico nell'America Latina, Edizioni di Comunità, Milano; Il riformismo rivoluzionario cileno, Marsilio, Padova; Appunti per una storia del pensiero politico latino-americano, Lugano, Pantarei; L'universo politico omogeneo, Istituto Editoriale Internazionale, Milano; Las nuevas herejias, Biblioteca de Estudios Criticos, Madrid, Ediciones Istmo; La visione e la prassi: profilo di Bolìvar (pref. diPignatti, intr. di R. Medina Elorga, postfaz. di L. C. Camacho Leyva), Istituto Italo Latino-Americano, Roma; A reta e a curvaReflexōes sobre nosso tempo (Riflessioni con Oscar Niemeyer), São Paulo, Max Limonad, 1986; El estupor de EpicuroEnsayo sobre Erwin Schrödinger, Buenos Aires-Madrid, Alianza; La emocion: la filosofia de la infidelidad (prol. di R. H. Castagnino), Editorial Sudamericana, Buenos Aires, La escritura y la etimologia del mundo (con un saggio di Roland Barthes), Buenos Aires, Editorial Sudamericana; La malinconia di EpicuroRiflessioni in penombra con Borges, Buenos Aires, Editorial SudamericanaFondazione Internazionale Jorge Luis Borges, 1990; La primeva unità: saggio sulla storia, Le Monnier, Firenze; La practica del dictamen: del ius a la humanitas, Grupo Editor Latinoamericano, Buenos Aires, 1990; El sondeo de la apariencia: el libro y la imagen, Gedisa, Buenos Aires; La trama del tiempo: ensayo sobre Italo Calvino, Grupo Editor Latinoamericano, Buenos Aires, L'avventura e la nostalgia: Omaggio al Portogallo, Presidenza dei Consiglio dei Ministri, Roma 1994 La metarrealidad, Buenos Aires, Biblios, 1995; Le daimôn de la persuasion, Toulouse Cedex, Éditions Universitaires du Sud; The Renaissance and the invention of method, New York, Dowling College; La metafora dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di Pinocchio", M. Pacini Fazzi, Lucca, 1999, L'esilio saggi di letteratura Latinoamericana, Il Mulino, Bologna, 2000; Il sortilegio e la vanità: saggio su Louis-Ferdinand Céline, Welland Ontario, Soleil; Caratterizzano la produzione più recente:  L'immediatezza e l'estemporaneità, New York, Dowling College PressBinghamton University, 2000; L'età delle ombre, New York, Binghamton University, 2001; Dismisura, Bologna, il Mulino; Le vestigia di Orfeo. Meditazioni in penombra con Jorge Luis Borges, Bologna, Il Mulino, 2003; A modernidade, Lisboa, Fim de século, 2005; Della comprensioneCompendio di mitografia contemporanea, Bologna, il Mulino; Ontem. L'elegia del Brasile, Bologna, il Mulino; Vicinanze abissali. L'approssimazione nell'epoca della scienza, Bologna, il Mulino, 2009; Langage et stratégie de communication, Paris, L'Harmattan; El Inca Garcilaso de la Vega, Madrid, Binghamton University, Ediciones ClasicasEdiciones del Orto,; I Trattatisti spagnoli del diritto delle genti, Bologna, Il Mulino,; La place et la pratique plébiscitaire, Paris, L'Harmattan,; El sortilegio de la palabra, Madrid, Biblioteca Nueva,; Elegy. Essays on the Word and the Desert, University Press Of The South,; L'America Latina. Un profilo, Bologna, Il Mulino,; La filosofia de la crisis. Epicureismo y Estoicismo, Editorial Sindéresis, Madrid,; El tiempo de la inedia. El invierno de Gunter, AntropiQa 2.0, Badajoz,; La eventualidad y la inexorabilidad. El invierno de Gunter, Editorial Sindéresis, Madrid,; La Destreza y el engano. Ensayo sobre Don Quijote de Miguel de Cervantes Saavedra, Ediciones Clasicas, Madrid,; L'America Latina. Un compendio, Bologna, Il Mulino,; Octavio Paz. El desconcierto de la modernidad, Ediciones Clasicas, Madrid,; La parola, Bologna, Il Mulino,; Cervantes. La linea del horizonte, Valencia, Albatros,, L'elegia del Nuovo Mondo, Bologna, Il Mulino,. La mundializacion, Valencia, Albatros,. Il convivio linguisttico. Riflessioni sul ruolo dell'italiano nel mondo contemporaneo, Roma, Carocci,  Note  Anno di conseguimento del titolo di Professore.  Ne ha diretto l'Istituto Storico-politico della Facoltà di Scienze Politiche.  Con decreto del Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, vi è stato nominato Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche.  Dopo averne curato, il XII Congresso Internazionale, designato dall'Accademia delle Scienze di Russia ed eletto dall'Osaka.  Luigi Trenti, Il viaggio delle parole: scritti in onore di C., Perugia, Guerra, Antonio Requeni, Nueva vision de la literatura argentina, "Les Andes", 16 settembre 1984, 3° Seccion pag.1. Antonio Requeni, Presencia cultural de Italia en la Argentina, "La Prensa"; Requeni, Los intelectuales del mundo: hoy, Riccardo Campa: la Argentina, en el laberinto de Borges, "La Nacion", 20 Jesus Francisco Sanchez, Crisis del neocapitalismo podria hacer renacer ideas del socialismo y la izquierda: Ricardo Campa, "El Sol de Durango", 6/A Citazionio su Riccardo Campa Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Riccardo Campa Filosofia LetteraturaLetteratura Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloStorici della filosofia italiani; PresicceProfessori dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. De oxgin^natalibns et patria  Jlultitia. StultitiamN dturd cffe atnicam  et humantgeneris per co\ inuos  mulieru partm coferuatricein. Pueritia fdelem ejfe affeclam.  i vNec mn. Adolescentia. Omni homini ejfs nccejfariam. Senibmmaximofo Utio. Uec agrauibits& cordatisvi'   malienam.  vt 1 1 . ttiam commenthiis Gentilium   deaftrufamiliarem.  ix. Inea fouenda muliehem maximefexttmoccHpari..  %, Eandem amoris et amicitia   effe conciliatricem*  luu Con ; ugia et conctltare et fouere. Onmihominttm atati &ordi~ } ttifuccurrere. Ammum homhvbi»addere.  x i v» i n b: llis mx» n-m vim habere.  ' Vti  A B6VMET, ytietiamtn regendis Rebm pu~   hllLU,.   Et commodifmum etfe ' tam  conferuandaquam recuptra,-   di, iibertatu remedium.  xvi i. Gloria 6 bonoris inflrumen-  tum.   xvi n.Wferiarum vitahuman opti»   tnumcondtmentum x i x. Fontem.UtitU ac bUaritatu ap. L Duicem et dmakikm ejfe de qu4   msagimiu stultittam. 1 1. Faettsfimiltarem.  uu Nu nonlttstrarum&morum   Miagiftris.  i v. Maxtm^TadagogU. j   v. ltew<L Grammatick Vulgatibus.   vi. LibrorumScriptoribm.  vi i . Aftrologis.   VI 1 1 Magis-KccromAnticis et Diui-  natofibus. ix. tuforibus,   x. Htigantibus  x i Chymic sjeu Akbymiftis. 1*4; A'rg vment Capit. Venatoribus. Attcupibus. Pifcatmbus. labricAntibus. Ambitiofo  rvM. antibus. Amantibus Hofientibus.Vriuilegiatts. iiiam Safritn Erasmo in Italia, Erasmo da Rotterdam. Riccardo Campa. Campa. Keywords. la stoltizia. Stoltus, stoltizia, stolto, stolto per Christo, pazzia, moria, enkoniom moirae ovvero laus stoltitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Campa” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Campa: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della rivincita del paganesimo romano – filosofia romana – scuola di Mantova – filosofia mantovana – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library  (Mantova). Filosofo mantovano. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Mantova, Lombardia. Grice: “You gotta love Campa – he is right that ‘artificial species’ is an oxymoron – as is ‘transhuman’ – but his philosophising about the heathens, which is how Nero found the Christians, is very relevant!”  Conosciuto soprattutto per i suoi studi nel campo dell'etica della scienza e del transumanesimo e, precisamente, per la sua difesa dell'idea di evoluzione autodiretta. Svolge ricerche sia nella veste di Professore associato di Sociologia della scienza e della tecnica all'Università Jagellonica di Cracovia, sia nella veste di Presidente dell'Associazione Italiana Transumanisti, della quale è fondatore.  Si laurea a Bologna. Ha conseguito il titolo di Giornalista professionista presso l'Ordine dei giornalisti di Roma, il dottorato in Epistemologia all'Università Copernicus di Torun e l'abilitazione in Sociologia all'Università Jagellonica di Cracovia. Nell'ambito della sociologia della scienza, è annoverato tra gli allievi di Merton, fondatore di questa disciplina. A differenza di alcuni continuatori della scuola costruttivista, Merton ha sempre mostrato un atteggiamento positivo nei confronti delle scienze, e C. è rimasto fedele a questa impostazione. A tal proposito, il filosofo argentino-canadese Bunge ha rimarcato il fatto che «Campa è uno degli ultimi esemplari rimasti di una specie in estinzione: lo studioso pro-scienza della comunità scientifica».  I suoi studi hanno ricevuto una certa attenzione da parte dei media dopo che Fukuyama, all'epoca consigliere per la bioetica del presidente statunitense Bush, ha definito il transumanesimo «l'idea più pericolosa del mondo». Secondo Fukuyama il transumanesimo è una nuova forma di biopolitica che, pur essendo liberale e non coercitiva, rischia di minare il concetto di uguaglianza tra gli uomini. Simili posizioni critiche hanno assunto, in Italia, Veneziani, Ferrara, Rossi, e diversi opinionisti del quotidiano cattolico Avvenire, che hanno criticato le idee di C. e di altri filosofi e scienziati transumanisti (tra i quali, Bostrom, Hughes, Stock, e More), stimolando un dibattito ad ampio raggio sulle prospettive aperte dalle nuove tecnologie. Campa ha difeso le idee transumaniste in numerose pubblicazioni, interviste e dibattiti pubblici, apparendo talvolta anche in televisione, e sostenendo che le tecnologie emergenti e convergenti GRIN (un acronimo per Genetica, Robotica, Informatica e Nanotecnologia) non rappresentano un rischio inutile, come lasciano intendere i critici, ma un'opportunità di sviluppo in linea con l'atteggiamento prometeico che caratterizza la storia della civiltà occidentale. Le sue valutazioni, sull'opportunità di allungare la vita media e potenziare le facoltà mentali e fisiche dell'uomo, sono soprattutto di ordine etico e sociale. È autore di numerosi articoli e saggi, tra i quali spiccano sette libri monografici. Il filosofo è nudo (Marszalek) Etica della scienza pura (Sestante) Mutare o perire. La sfida del transumanesimo (Sestante) Le armi robotizzate del futuro. Il problema etico (CEMISS) Trattato di filosofia futurista (Avanguardia 21 Edizioni, ) La specie artificiale. Saggio di bioetica evolutiva (D) La rivincita del paganesimo. Una teoria della modernità (D) Creatori e Creature. Anatomia dei movimenti pro e contro gli OGM (D Editore, ) La società degli automi. Studi sulla disoccupazione tecnologica e sul reddito di cittadinanza (D) Credere nel futuro: Il lato mistico del transumanesimo (Orbis Idearum Press, ) È inoltre curatore della serie "Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano". Cerimonia di abilitazione all'Cracovia C. Cipolla, Manuale di sociologia della salute, Angeli, C., Epistemological Dimensions of Robert K. Merton's Sociology, Copernicus University Press, quarta di copertina. Fukuyama, “Transhumanism: The World's Most Dangerous Idea”, Foreign Policy, La versione italiana è apparsa sul Corriere della Sera con il titolo “Biotecnologie: la fine dell'uomo”,.  M. Veneziani, “Attenti l'uomo è fuori moda. La scienza prepara “l'oltreuomo”, Libero,  G. Ferrara, “Mettere in dubbio il dubbio”, Il Foglio,  Rossi, Speranze, Il Mulino, Bologna  A. Galli, “Nietzsche, profeta dell'eugenetica”, Avvenire,  Rassegna stampa degli articoli pro e contro il transumanesimo.  “Nascita del superuomo”, documentario di RAI 3,  Archiviato  in.; “Futuro in pillole”, puntata de Le Invasioni Barbariche condotta da Daria Bignardi, LA7;“Musica maestro”, servizio biografico di RAI 1, Sito della rivista Divenire, Mazzotti, Il Prof che suonava il rock, Gazzetta di Mantova, Guerra, Futurismo per la nuova umanità, Armando, Roma.  Il transumanismo. Cronaca di una rivoluzione annunciata, Lampi di Stampa, Milano C. biografia e  nel sito "transumanisti".   RIVINCERE. Di nuovo vincere. Lat. De nuo vincere. G. V. II, 14, 1. E l'uno gli rubello Alamagoa, el'altro la Spagna, poi le rivinselor oper forza. Dant. Conv. 127.  e questo senso non si acconcia cogli esempi di cassa riversala, nè digente riversata. Conveniva adunque portare la dichiarazione così: Riversatoda Riversare SII; nel qual paragrafo Riversare sta per Voltare a rovescio o sotto sopra. E inquesto significato dee si prendere la cassa riversata di Landolfo. Riversalo poi vale Resupino, Colla faccia volta all'insù nell'esempio d’ALIGHIERI, e richiede paragrafo separato. 414 OsseRVAZIONE Che Riversato venga da riversare siamo d'accordo. Ma il senso genuino di riversare è Versar di Nilovo, notato di Giudice non è metafora alcuna. Ei parla del terreno preparato per ricevere i denti del dragone da cui dovevano germogliare i guerrieri. E terreno rivesciato, cioè rivoltato, aralo è parlar proprio, non metaforico. Nè VIRGILIO parla figurało allorchè disse: Georg. I, 64. Pingue solum fortes inverlant tauri; Vomere terras invertere. esempio sopra RIVERSATO.Add. da Riversare. BOCCACCIO (si veda) nov.14,10. Che riversata, per forza Landolfo andò sotto l'onde. ALIGHIERI, Inf.: Noi passamm'oltre là'velagelata Ruvida mente un'altra gente fascia, Non volta in giù, ma tutta riversata. RIVESCIARE. S1. Permetaf. Guid. G. Il campo dunque è rivesciato; Iasone ardito, e tosiano al dragone si dirizza. OSSERVAZIONE Nell'. Per lunga riposanza in laoghi scuri, e freddi, e con affreddare lo corpo dell'occhio con acqua chiara, rivinsi la virtù disgregata, che tornai nel primo buono stato della vista. Sust, verbal. Il rivincere. Lat . Recuperatio. Introd. Virt. Della rivinta delle terre di quà da mare, che fa la fede cristiana. Osservazione — Non avendo noi il positivo Vivare, il composto Rivivare o è scorretta lezione in luogo di Ravvivare, o è voce pessimamente creata e indegna di starsi nella famiglia delle buone. E che bisogno n'ha ella la nostra lingua possedendo già Ravvivare? Almeno la Crusca l'avesse data per v. A. RIVOCARE. Richiamare, Far ritornare. s Per Mutare, Slornare, e Annullare il falto. AGGIUNTA, Rivocare in forse per Mettere in dubbio. Car. ENEIDE VIII, 620. E ti con questi preghi cessa di rivocar la possa inforse cel tuo volere.VIRGILIO. Ib.v.403. Absiste precando Viribus indubitare tuis. m OSSERVAZIONE Se gl’accademici avessero fatta magogiore attenzione agli esempi che ponevano sotto il verbo “rivincere”, si sarebbero accorti che nell'ano e nell'altro propriamente esso valeRicuperare,2 non già Vinceredi nuovo, in lat. Denuo vincere. Quindi non sarebbero an dati nella contraddizione di spiegare il sostantivo verbale Rivinta, e l'esempio che gli corrisponde, col latino Recuperatio, dandogli origine dal verbo Rivincere (in lat. recuperare) in un senso dal Vocabolario non accettato. Milano, Ibrjglii e Segati: Torino, E. Loesclier: Paris, A. Fontennoing).  L'opuscolo che qui ripresento agli studiosi ha suscitato dappertutto discussioni vivaci, ed era naturale  che le suscitasse. Era naturale, infatti, che molti facessero discendere la questione in un terreno scabro  ed irto di passioni; e pur gli altri, avvezzi per abito  della mente e per austera severità di propositi, a non  mirare se non alle ragioni obbiettive, era naturale che  molto s' interessassero dell' argomento, vedendo qui  posti quesiti altissimi non di storia soltanto, ma altresì di psicologia popolare, e tentatane, come meglio  si è potuto, la soluzione. Ora, dopo si lungo dibatter  di ragioni avversarie, è tempo che riprenda la parola  io. La mia tesi si fonda sopra alcune contingenze di  fatti, la cui evidenza non può sfuggire ad un esame  impregiudicato. Si riassumano, di grazia, le ragioni  delle due parti tra le quali pende 1' accusa dell' incendio di Roma. Se da una parte troviamo un uomo,  scelleratissimo quanto si vuole, dall'altra troviamo una  comunità segreta, della quale alcuni membri sono dediti al delitto per testimonianza degli scrittori pagani,  Questa prefazione fu pubblicata dinanzi alla seconda edizione (Torino 1900), e dinanzi alla edizione francese (Paris). L’incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI  e dagli stessi apostoli son dichiarati indegni di predicare Cristo. Ma quell' uomo quando seppe che la sua  casa bruciava, torna a ROMA, tenta arrestare le fiamm e,  si mescolò in mezzo al popolo, girò di qua e di là  senza guardie  prese tutti i provvedimenti consigliati  dalla immanità del disastro ; e, mentr'ei cercava porre  riparo, scoppiò novello incendio; degli altri si sa che  di tanto in tanto prorompevano alla rivolta, che predicavano la conflagrazione del mondo, cui doveva  seguire il regno della giustizia; che tal regno essi aspettavano dopo quello dell'Anticristo, che per essi l'Anti-Cristo è NERONE, che credevano, durante la loro  vita, essere riserbati al nuovo regno di luce e di bene;  che a ROMA augurarono ancora, pel corso di lunghi  secoli, distruzione e sterminio, che dopo la rovina  della potenza romana aspettavano il loro trionfo; qual  meraviglia che tutto questo complesso di aspettazioni  e speranze abbia eccitato le menti incolte e fanatiche  degli schiavi miserrimi e li abbia spinti all' atto forsennato? Si aggiunga a tutto questo, che gli arrestati  furon confessi, secondochè mi pare avere ora novellamente dimostrato. In ogni movimento di rivendicazione sociale che si determina nelle masse, vediamo  tosto scindersi due partiti: quello dei più esaltati,  pronti all' azione immediata, e quello delle menti più  calme, che mal giungono a tenere a freno i primi.  Quei generosi che, scorti dal raggio della loro fede,  vennero a dare alle plebi la coscienza dei diritti umani,  mal poterono con tutti i loro consigli di temperanza,  reprimerne le turbolenze impetuose. Qual nuova concezione sarebbe mai questa, che la plebe romana, la  cui vita, da secoli, era stata tutto un seguito di convulsioni e di fremiti, di sedizioni e rivolte, proprio  all' epoca di NERONE fosse diventata di tanti agnellini,  quando più ributtante era lo spettacolo delle umane  ineguaglianze, e più turbinavano nel suo seno le nuove correnti rivendicatrici! Tutt' altro! Anche in quella  moltitudine erano i falsi dottori, dei quali parla la cosiddetta Secunda Petri, i quali promettendo agli altri la  libertà erano però essi stessi servi della corruzione,  i quali dopo esser fuggiti dalle contaminazioni del mondo  per la conoscenza di Gesù., si erano di nuovo in quelle  avviluppati; e, secondo le brutali immagini che ivi troviamo, erano come cani tornati al vomito loro, come porche lavate che di nuovo  si voltolano nel fango. Quando certi stati di aspettazione angosciosa si determinano nelle masse, basta una  scintilla per spingerle ad eccessi inopinati. L'aununzio  della distruzione ignea decretata da Dio per la loro  generazione, la credenza che il regno di Dio non verrebbe, se non fosse distrutta la romana potenza, fu la  scintilla delle fiamme che divamparono sterminatrici.  Essi credevano compire la volontà divina, essere gli  esecutori della divina vendetta. Vano è parlare qui di  significati allegorici. Quando pur si potesse provare  che le allegorie che or si vogliono vedere sotto l' idea  del fuoco, si scorgessero pure dai primi proseliti, e  come tali si spiegassero (il che non è affatto), tutto  ciò sarebbe vano lo stesso. Il popolo interpreta le parole nel loro senso materiale, e quando sente fuoco, intende fuoco e nuli' altro.   Un' obbiezione, a prima giunta grave, mi fu fatta  da un chiaro critico: come mai ninno degli scrittori,  anche pagani, accusa di tale scempio i cristiani ? Pure,  la ragione di ciò credo poterla indicare. Il nodo della  questione credo che stia in ciò, che gii esecutori materiali furono veramente i servi di NERONE, e che questi  interrogati perchè scagliassero le faci, dicevano di  agire per istigazione altrui. La credenza nella colpevolezza di NERONE si radicò quindi nelle coscienze, ed  ancor più crebbe dopo la morte di lui. Suole infatti  avvenire che a quelli che si rendono tristamente famosi per le turpitudini loro, tutte il popolo attribuisca le altre scelleraggini, delle quali suoni incerta e  dubbiosa la fama. E l' accusa o il sospetto dovè nascere nel popolo per naturale reazione di pietà verso  i condannati, qualche tempo dopo il disastro e il processo; che altrimenti non si spiegherebbe come Nerone non fosse stato ucciso dall' ira popolare, quando  si mescolò senza guardie in mezzo al popolo. E dovè  afforzarsi, quando Nerone o gli adulatori suoi espressero l' intenzione di chiamar dal suo nome la rifatta  città: che allora l'ambizione parve al popolo sufficiente motivo, a spiegar lo sterminio. E poiché NERONE dall'incendio di ROMA, che egli aveva visto, prese  poi r ispirazione per iscrivere il carme sulla rovina di  Troia, carme che forse cantò sul teatro della rinnovata sua casa, nacque più tardi in mezzo al popolo, la  fama che egli avesse cantato sulle rovine della patria. Del resto, che vi fossero scrittori che esplicitamente accusassero i cristiani, non credo sia da revocare in dubbio. Tacito stesso, direttamente o indirettamente, deve averne usufruito qualcuno, come mi pare  possa dimostrarsi. Perchè tali scrittori non sieno stati  conservati, è vano chiedere. Durò per secoli la distruzione sistematica di tutto ciò che fosse avverso al  Cristianesimo. Gli scritti contro la nuova religione  sono periti; le accuse che al Cristianesimo si facevano,  le conosciamo, salvo pochi accenni qua e là, solo per  bocca dei difensori. Or questi scritti apologetici sono  di alcuni secoli posteriori a Nerone e ciascuno di essi  parla delle dottrine e dei costumi dei cristiani del  tempo suo; non potremmo dunque aspettarci di trovare in essi alcun tentativo di difesa contro un' accusa  che ninno più muoveva, essendo ormai invalsa anche  tra i pagani 1' opinione che accusava Nerone. Ma se  del fatto determinato, e cioè dell' incendio Neroniano  non si fa più parola, si fa per contro parola molto spesso delle tendenze rivoluzionarie e distruggitrici.  Tali tendenze erano forse una di quelle scelleraggini inerenti alla setta (flagitia cohaerentìa nomini),  alle quali accenna PLINIO (si veda), a proposito dei cristiani  di Bitinia. L'accusatore dei cristiani nell’Octavius di  Minucio Felice narra che essi, raccolta  dalla peggior feccia i più ignoranti e le credule femminette, naturalmente deboli per la debolezza del loro  sesso, istituiscono una plebe di sacrilega congiura; e  più giù che essi alla terra e perfino all'universo e alle stelle minacciano incendio (e cioè la conflagrazione cosmica), e macchinano rovina. Ottavio ne  li difende, e la sua difesa è pur molto  istruttiva per noi. E, secondo lui, un volgare errore il  credere che non possa venire improvviso l' incendio  punitore; i saggi stessi dell'antichità, egli dice, e i  poeti han parlato della conflagrazione cosmica, del fiume  di fuoco e della Stigia palude, a punizione dei perversi. Ma niuno, ei soggiunge che non sia  sacrilego, delibera che sieno puniti con tali tormenti,  per quanto meritati, coloro che non riconoscono Dio,  come gli empii e gì' ingiusti. Ahimè, mite filosofo  antico, la storia posteriore ti ha dato torto! Non è  questa una risposta alle accuse e ai timori, che si nutrivano a riguardo dei cristiani ? Se dunque dell' accusa particolare, quella riguardante l' incendio neroniano, non si fa più motito, per le ragioni sopradette,  non si può dire che- ogni eco dell' accusa generica sia  spenta per sempre.   Altra obbiezione mi fu fatta, circa il criterio informatore di queste ricerche. Voi, mi si è detto, state  al giudizio degli scrittori pagani, per quanto riguarda  la moralità dei primi cristiani. Ora per lunghi secoli  continuarono le accuse contro i cristiani, e furono fra  le più atroci e terribili. Gl’apologisti cristiani opposere ad esse recise smentite. Perchè non si deve credere che sieno calunnie pur le accuse scagliate contro  i cristiani dei primi tempi? Senouchè, a proposito  di queste ultime, le accuse non partono solo da scrittori pagani, ma altresì da cristiani, in passi dei quali  r interpretazione non può esser dubbia. Ma tal giudizio non riguarda tutta intera la comunità. Ohi nega  che in questa fossero spiriti superiori, ardenti dell' amore divino del bene ? Ma le novità, e novità tali,  quali eran quelle che nelF ordine sociale annunziava  il Cristianesimo, sogliono attrarre gli spiriti più turbolenti, e più esaltati, cui non par vero di coprire con  la nobiltà di un vessillo la licenza degli atti proprii.  E, se guardiani bene, pure tutte quelle orrende accuse  fatte in seguito ai cristiani, i riti dell' uccisione del  fanciullo, della Venere promiscua dopo la cena ed  altri simili, hanno tale spiegazione. Anche gli scrittori  cattolici riconoscono che tali calunnie si debbano a  tutte quelle sette di Carpocraziani, Nicolaiti, Gnostici,  che tali orrendi riti praticavano, e si arrogavano il  nome di cristiani. Che la chiesa abbia potuto respingere dal proprio seno questi sciagurati, e si sia andata man mano epurando, torna certo ad alta sua  gloria. Ma ciò stesso ne induce ad andar molto cauti,  quando vogliam negare a priori che nei primi tempi Si è sostenuto da alcuni che la critica moderna riferisca a quistioui di dogma e di gerarcliia i noti passi di Paolo,  nei quali esorta i Cristiani di Roma all' obbedienza e alla mansuetudine; e si è citato in proposito Renan. Ma Renan dice  di quei passi (Saint Pani). Il semble qu'à l'epoque où  il écrivait cette épitre aux Romains diverses eglises, surtout  l'Église de Rome comptaient dans leur sein soit des disciples de Juda le Gaulonite, qui niaient la légitimité de l'impot et préchaient la róvolte contre l'autorité romaine, soit des ébionites  qui opposaient absolument i'un à l'autre le régne de Satan et le  régne du Messie, et identificient le monde présent avec l'empire  du Démon {Epiph. haer., XXX, 16; Honiél. pseudo-clém.). ldella chiesa potesse esservi ima moltitudine di facinorosi, pronti ad interpretare a lor modo le nuove  dottrine e a trascendere ad ogni eccesso. E la lettera di PLINIO si osserva, non è testimonio dell' innocenza cristiana? Migriamo pure, se  cosi vuoisi, da Roma in Bitiuia, dai tempi di NERONE  a quelli di Traiano. La lettera domanda all' imperatore se debba punirsi la setta come tale o i delitti  ad essa connessi, e riferisce che degli interrogati alcuni dichiararono repiicatamente esser cristiani, e, senza  voler sapere che cosa ciò significasse, PLINIO, per la  loro ostinazione, li mandò al supplizio; altri negavano  essere stati mai cristiani; altri affermarono essere, e  poi il negarono, dicendo essere stati, or più non esserlo; tutti questi maledicevano Cristo, e veneravano  l' immagine dell' imperatore. Pur nel tempo in cui  erano cristiani asserivano altro non aver fatto se non  raccogliersi, venerare Cristo come se fosse un Dio, ed  obbligarsi con giuramento non a commettere delitti,  ma anzi a non commetterne. Due ancelle messe ai tormenti, non rivelarono se non una superstitio prava,  ìmmodica. Se questi infelici erano così invasi dalla  paura, da indursi a sconfessare la loro fede e maledire Cristo, si potrebbe mai aspettare da essi che rivelassero alcuna cosa che potesse danneggiarli? Ma  sieno stati pure innocentissimi i Cristiani di Bitinia  al tempo di Traiano; che cosa prova ciò per alcune  fazioni dei cristiani di Roma al tempo di Nerone? Questo credemmo opportuno avvertire, circa le  ragioni generali e di metodo. Alle osservazioni sui singoli punti si risponderà nelle note o anche nel testo.  Non era possibile confutare partitamente ciascuno degli scritti venuti in luce. Quest' opuscolo sarebbe diventato un volume, con poco frutto dei lettori e degli  studii. Ne del resto era decente sottoporre alla considerazione dei lettori, scritti, nella maggior parte dei  quali la forma irosa mal si dibatte fra le scabrosità  della materia, e dalle ambagi del ragionamento guizza  ed erompe il vituperio. I fatti e le ragioni apportate  io ho tenuto in conto; dei vituperii non mi curo, né  di essi conservo rancore. Mi conforta il consentimento  pressoché unanime a me venuto da coloro che rappresentano il più bel vanto degli studii italiani. In  mezzo alle loro voci o alle voci di quelli che, pur discordi, seppero tener la misura, suonò un coro stridulo  di voci insolenti. Persone rese fanatiche da religioso  ardore si scagliarono contro di me, a contaminare la  purità delle intenzioui mie. In tale impresa l' ignoranza e la malafede fecero l'estrema lor possa. Io non  perderò la calma per le intemperanze altrui. Quel medesimo coro ha accompagnato sempre ogni opera di verità e di luce. Mentre la procella batteva alla mia  porta, io ripensavo mestamente che cosa mai potesse  suscitare in tanti animi impeti cosi vivaci contro di  me. Era là, in quei cuori angosciati, tutto lo schianto  come di una cara visione che si dilegui, come di una  zona luminosa sulla quale inopinatamente si effondano  tenebre. Povere anime desolate, ebbre di radiose speranze, io non ho offeso la vostra fede. Potreste voi  mai sostenere che, pur quando gran parte del mondo  fu conquistata alla luce e all'amore della vostra idea,  il fanatismo e l'errore sieno tosto dispariti dalla terra,  e cieche cupidigie e biechi livori non abbiano ancora  agitato gli spiriti? Perchè dovrebbe dunque ripugnare  alla vostra fede, l'ammettere che ciò sia avvenuto pure  agl'inizii della nuova era umana, in mezzo a gente  nei cui animi era 1' eredità di secolari rancori ? Il primo quesito che si presenti alla mente di chi  esamini i racconti degli storici snll' incendio neroniano, è questo: l'incendio fu ordinato da Nerone? Degli  scrittori più antichi lo affermano Suetonio e Dione  Cassio, i quali ci hanno pure esposto le ragioni di tal  loro convinzione: sicché la notizia da essi data ha solo  valore in quanto possano averlo tali ragioni: di che  tosto vedremo. Tacito si avvale di fonti diverse, né  sembra aver fatto studio per rendere coerente il racconto suo; sicché prendendo or dall'uno autore or dall'altro, riesce ad indurre nel lettore ora 1' una convinzione or l'altra. Si mostra in principio esitante tra due  autorità di fonti: quelle che attribuivano il disastro  al caso e quelle che lo attribuivano a Nerone;  ma Si potrebbe obbiettare che uno storico può narrar cosa  vera, ma poi sbagliare nell' assegnare lo cause. E ciò è appunto  quello che penso io, e che dichiaro pure più sotto; le particolarità dell'incendio, narrate dagli storici non sono certo inventate  da essi, e sono, secondo ogni legittima presunzione, vere; la causa  dell'incendio, cioè l'ordine di Nerone, dobbiamo giudicarla alla  stregua delle ragioni che essi apportano di tal loro convinzione.  Giacche 1' attribuire l' incendio o al caso o all' ordine dell' uno  dell'altro, è convinzione o apprezzamento, non è fatto.  Lo afierma anche PLINIO (si veda) il Veccbio; e il suo accenno. N. II.: ad Neronis principis incendia, quihus cremava Urbem), prova che pochi anni dopo l'incendio, l'opinione  era già invalsa. Verisimilmente la medesima convinzione espri   ll' ipotesi del caso doveva cadere per lui, che poco dopo  narra come certo il fatto che nessuno osò opporsi alla  violenza del fuoco, poiché uomini minacciosi vietavano  di estinguere le fiamme, anzi le ravvivavano, dicendo  di agire per consiglio altrui. E bensì vero che Tacito  aggiunge essere incerto se ciò facessero, per potere  senza freno abbandonarsi alle rapine o per vero comando: ma è evidente che la prima ragione non regge.  Giacché se essi giungevano a imporsi tanto con le minacele da impedire ogni tentativo di estinzione, potevano pure senz' altro esercitare liberamente il saccheggio.   E del resto il ripetersi della cosa, con i medesimi  particolari, per tutta Roma, non significa 1' obbedienza  ad una parola d' ordine? Questa esclude il caso. E lo  esclude pure il fatto che, tosto allo spegnersi del primo,  si riaccese un secondo incendio, che proruppe dagli meva PLINIO nelie Storie civili che furono fonte a Tacito. La  narrazione di Sulpicio Severo (II, 29) è presa interamente da  Tacito, di cui riproduce molte frasi. Quella di Orosio è derivata, con qualche esagerazione di notizia, da Suetonio.  L'iscrizione in C. I. L., VI, 826 ha qvando vrbs per novem   DIES — ARSIT NERONIANIS TKMPORIBVS.  Importanti monumenti sono pure le are site in ciascuna  regione della città, sulle quali nei tempi successivi si celebravano il 23 Agosto i sagritìzi incendiorum arcendorum causa;  alcune di tali are sono conservate; cfr. Lanciani, Bull. com.; Hùlsen, Rom. Mitt.;  Richter, Top.j- Una minaccia d' incendio  è attribuita a Nerone dall' autore dell' Ottavia, v. 882, Stazio  nella Silva dedicata alla vedova di Lucano ha infandos domini nocentis ignes. In tutta la letteratura di opposizione  a Nerone l'accusa dovè essere accolta con fervore. Alcune di  versità di particolari dalla narrazione tacitiana sono nella corrispondenza apocrifa di Seneca e S. Paolo (v. Ramorino, Vox Urbis). Tra i moderni, oltre Aubè,  Schiller ed altri, lo Herstlet negò con buone ragioni, l'attribuzione a Nerone (Treppenwitz der Weltg.). Molti  l'attribuiscono al caso (ad es. AUard, Marucchi). I particolari  dell' incendio sono contrari a tale ipotesi: per ammetterla, bisognerebbe ritenere falsi tutti i particolari narrati dagli antichi. orti di Tigellino e devastò un' altra parte della città.  Del resto Tacito sembra nou aver ridotto ad unità di  pensiero questa parte dell' opera sua: e aver piuttosto  abbozzato appunti da fonti discordi: vedremo infatti  essere molto probabile che una delle sue fonti accusasse esplicitamente i cristiani. Suetonio accusa Nerone. E l'accusa egli fonda sopra tre  fatti. In un banchetto, avrebbe un convitato detto in  greco: quando io sia morto, si mescoli la terra col  fuoco, e Nerone avrebbe soggiunto; auzi quando  io sia vivo; di più, parecchi consolari sorpresero nei  loro possedimenti i servi imperiali, con stoppa e faci;  e per paura, neppur li molestarono; infine Nerone, de   '-> Altro indizio che Tacito non abbia riassunto in una concezione unica il fatto storico, ma abbia solo unito notizie discordi da fonti diverse, si trae anche da questo. Ei riferisce  la voce che Nerone al tempo del disastro cantasse l'incendio  di Troia sul teatro domestico. Ma qual teatro? Quando ei 'tornò  da Anzio il palazzo imperiale bruciava ! Altra contraddizione. Debbo notare a tal proposito come a me abbia prodotto ingrata meraviglia, che del mio giudizio su Tacito altri  abbia menato scalpore, come di giudizio a bella posta indotto  per iscemare l'autorità di lui ed infirmarne la fede. Dopo tanti  studii perseguiti da tanti anni, sul materiale storico di Tacito,  sul suo fosco vedere, sulle sinistre interpretazioni sue, sulla  sua costante avversione per alcuni personaggi, si avrebbe il  diritto di pretendere che tanta mole di lavoro non fosse stata  fatta invano. Il Fabia, Le sources de  Tacite, osserva, contro L. Von Ranke, che Tacito si  astiene dall' accusare o dall' assolvere Nerone, adoperando frasi  come pervaserat rumor, videbatur, crederetnr. Ma a me paiono  giuste le seguenti considerazioni del Von Ranke, Weltgeschichte,  Leipzig: Es ware nun unsinnig zu denken, dass Nero, der sich bei dern Brande wurdig  betragen batte, jetzt, um eia durchaus falsches Geriicht niederzuschlagen, zur Verfolgung \inschuldiger Lente geschritten  wàre. Man kann nicht anders als annehmen dass diese Stelle  aus des zweiten Nero anklagenden Ueberlieferung stammt. Die Nichtswiirdigkeit des Kaisers liegt eben darin, dass er den  Brand selbst angelegt hat und auf anderen die Schuid schiebt.  So die zwejte Ueberlieferung.] siderando sul Palatino l'area di alcuni granai costruiti  con pietra, li fece prima abbattere e poi fece ad essi  appiccare il fuoco. Anche Cassio Dione è esplicito, e  (juasi a riprova della sua accusa apporta due fatti:  die cioè Nerone aveva fatto voto di vedere la distruzione di Roma e che egli chiamò felice Priamo, perchè  aveva visto perire la patria sua. [Or veramente, se questi sono i fondamenti della  secolare accusa, lo storico spassionato dovrà rimanere  ben perplesso prima di confermarla. Certo fu uomo  di si efferate nefandezze Nerone, che non è a temere  gli si gravi troppo la soma dei delitti con un altro  misfatto; pure, giudicando senza prevenzioni, è facile  scorgere quanta sia la vacuità delle ragioni che gli  antichi apportano per incolparlo anche di questo.  Quanto ai servi di lui, sorpresi ad incendiare, il fatto  ha ogni verosimiglianza, ma ha ben altra spiegazione,  come si dirà in seguito. Quanto ai granai del Palatino, è naturale che, quando tutto intorno era distrutto, visti superstiti quegl' informi ruderi, ei li facesse abbattere e incendiare, volendo liberare l' area  per la futura sontuosa sua casa. *' Quanto all' aneddoto,  raccontato da Dione Cassio, eh' egli avesse fatto voto  di veder distrutta la città, esso è infirmato dal fatto  che, .saputo appena che il fuoco s' approssimava al pa- [Questo passo di Suetonio (Ner.) ha fatto uscire di  careggiata non pochi. L'abbattimento e l'incendio dei granai  Suetonio lo apporta, perchè serve a dimostrare, secondo lui,  che Nerone non fece mistero dell' ordine d' incendiare {incendit   urbem tam palam ut bellicis machinis lahefactata atqiie   infiammata sint, ecc.). E chiaro che 1' argomentazione non è valida. Se Nerone dette senza mistero 1' ordine di abbattere quei  granai, dovè dunque darlo quando tornò da Anzio; e allora tutto  intorno era già divorato dalle fiamme.] lazzo imperiale, egli rientrò in Roma, eppure non si  potè impedire (dice Tacito) che il Palatino e la reggia  e tutti i luoghi intorno fossero preda alle fiamme. Rimangono altri due aneddoti, e quello di Priamo e  quello del banchetto. E non è improbabile che Nerone  paragonasse sé stesso a Priamo, cui toccò di veder  distrutta la patria sua, e si chiamasse, ammettiamo  pure, fortunato di veder cosa unica al mondo: ma ciò  non si può apportare qual prova a confermare che  l'ordine partisse da lui. Ne tale deduzione si può  trarre dai motti di spirito, che secondo Suetonio riferisce, avrebbe egli scambiato con un suo convitato  in un banchetto. Che anzi, chi ben guardi, l'interpretazione di qu3Ì motti è ben altra. Giacché se il  convitato disse: Ivj.oò Savóvro? Y^ia at/Gr^uo ttd.oi egli voleva evidentemente significare:  purché io sia morto,  si mescoli la terra col fuoco, e cioè, a un dipresso:  purché io non abbia più a correrne pericolo, caschi  pure il mondo!  Ed è naturale quindi che Nerone  rispondesse:  anzi, purché io continui a vivere  (immo  inquit, i'j.o'j Cwvioc). Ci siamo indugiati in siffatti particolari aneddotici, non per conchiudere da essi soli,  che fu ingiusta l'accusa, ma solo per affermare che  non ci è dato indagare la verità da siffatte fonti.  Questi scrittori hanno poco discernimento critico.  Quando raccolgono fatti, ci offrono materiale prezioso:  quando li interpretano e ne tra^ggono deduzioni, scoprono tutto il debole dell'arte loro. Noi dunque dobbiamo battere altra via. Dobbiamo esaminare le par- [Ed era la casa sontuosa, eh' egli stesso aveva fatto smisuratamente ingrandire, sicché comprendeva ormai tutta l'area  dal Palatino all'Esquilino. Il nome di Domus Transitoria (Suet.  Nei') trasse in uno strano errore il Renan, il quale credette  vedere in quello l'intenzione di Nerone di far, poi, una casa  definitiva. Ma transitoria significa solo che quella casa metteva  in comunicazione, come dice Tacito {Ann.) il Palatium  con gli orti di Mecenate ! Pascal] ticolarità tutte del disastro ìq relazione al carattere  ed ai fatti di Nerone. Dobbiamo vedere quale poteva  essere per lui il movente ad emanare l'ordine sciagurato, quali i mezzi per attuare l' immane disegno.  La capacità a delinquere di Nerone è fuori di ogni  discussione; e veramente, se solo ad essa noi dovessimo aver ricorso, la questione non sussisterebbe più.  Ma vi ha tempre e caratteri diversi di delinquenza:  alcuni sono nati alle audacie più forsennate, alle più  temerarie scelleraggini: altri praticano il delitto per  coperte insidie e per nascosti raggiri. Nerone, quale  cÀ risulta da tutti gli atti della sua vita, fu insidioso e vile; sospettoso di tutto e di tutti, sempre  premuroso d' ingraziarsi il popolo con feste e largizioni; assalito alcuna volta da crisi convulse, e trepidante per divina vendetta, superstizioso come un  fanciullo. Quando scoppiò l' incendio, egli era ad  Anzio. Scoppiò per ordine suo? Ma allora il suo  tristo segreto fu affidato non ad uno o due dei più  intimi, ma a centinaia, forse a migliaia di servi e  pretoriani!" Giacché per tutta Roma furono dissemi- [Mi si è mosso rimprovero che tali particolarità io desuma da quegli stessi scrittori, dei quali ho cercato infirmare  la fede. Ma le dichiarazioni che qui precedono sono esplicite;  i fatti non sono certo inventati dagli scrittori: le deduzioni  che essi ne traggono sono erronee. In tutte le scelleratezze di Nerone si vede manifesto lo  studio di coprire nel segreto dei pochi fidati il misfatto. Il mandare l'ordine da Anzio a Roma a centinaia di servi e soldati, e il  tornare poi in mezzo al popolo, suppone un coraggio che non possiamo davvero attribuirgli. Né è dato supporre che Nerone abbia  confidato l'ordine solo a qualche intimo. Questi non avrebbe potuto fare se non trasmettere gli ordini imperiali; e Nerone capiva  che 1' ordine sarebbe stato quindi annunziato ai servi o soldati  solo come ordine suo. lnati coloro che impedivano ogni tentativo di estinzione, ed erano come riferisce Dione Cassio, anche  vigili e soldati che ravvivavano il fuoco. E si supponga pure che costoro nell' ebbrezza forsennata di  quelle notti infernali, obbedissero, senza esitanza, ad  un ordine che si diceva lor mandato dall' imperatore  lontano: ma quando poi l'imperatore tornò, e tentò  arrestare le fiamme, (Tac. Ann.), a chi obbedivano coloro che dagli orti di Tigellino fecero prorompere novello incendio? E, se avesse dato l' ordine, sarebbe tornato Nerone? Un ordine, diffuso fra tanti servi e soldati,  non poteva rimanere un segreto per il popolo: avrebbe  Si potrebbe osservare: Perchè dovevano essere centinaia ? Non bastavano forse anche pochi per appiccare l'incendio, se questo cominciò dalle bofteghe ripiene di merci accensibili, e fu alimentato dal vento? Sennonché supposto pure che  pochi abbiano appiccato l' incendio, moltissimi dovevano pure  essere quelli che ordirono il complotto. Ed infatti per tutta  Roma erano sparsi coloro che impedivano ogni tentativo di  estinzione. Questi dovevano essere a parte del segreto, e per  essere sparsi in tutta Roma dovevano essere moltissimi. La  qual notizia della impedita estinzione non può essere revocata  in dubbio.- Se non v'era forte mano organizzata ad impedire  1' estinzione, molto prima dei nove giorni si sarebbero sedate  le fiamme. Non potevano certo obbedire a Nerone, poiché da lui ricevevano ormai l'ordine di arrestare le fiamme, non di riaccenderle. Si è sospettato potesse essere una finzione di Nerone il  tentativo di arrestare le fiamme. Ma ad ogni modo questa finzione non poteva avere efletto se non con opere di estinzione.  E non è consentaneo al carattere di Nerone che egli in mezzo  alla disperazione del popolo si fosse esposto al pericolo di rinnovare l'ordine incendiario. E Tigellino non avrebbe fatto incominciare dalla casa sua, lasciando intatto il Trastevere.  Si può pensare: col non tornare, avrebbe accresciuto i  sospetti. Ma questi apprezzamenti e calcoli di mente fredda disdicono al carattere di Nerone. Si esamini, di grazia, il suo  contegno dopo 1' uccisione della madre (Tac. Ann.). E  cosi quando gli fu annunziata la defezione degli eserciti, non  osò presentarsi in pubblico, temendo esser fatto a brani (Suet.  Ner.). egli affrontato la plebe, pazza d' ira e di terrore? E perchè l' avrebbe dato, quest' ordine ? Perchè, si risponde, non soffriva le vie tortuose e irregolari, con  le loro pestifere esalazioni, e voleva il vanto d'essere  chiamato fondatore di Roma; ojDpure, perchè voleva  godere lo spettacolo delle fiamme e cantare l'incendio.  Ed altri ancora risponde: dette l' ordine in un accesso  di pazzia.   Or veramente, quanto alle vie tortuose e strette,  la ragione non regge. L' incendio fu appiccato a tutte  le regioni più nobili e suntuose di Roma; perirono i  templi vetusti, i bagni, le passeggiate, i luoghi di delizia, le case più ricche. Le regioni dei poveri, rot>curo  Trastevere, il centro della comunità giudaica e cristiana, furono rispettati. Eppure anche nel Trastevere aveva Nerone i suoi orti Domiziani e il suo circo,  che poteva desiderare di vedere sgombri dalle casupole e dalle viuzze che li circondavano. Voleva  godere lo spettacolo delle fiamme? Ma si sarebbe subito mosso da Anzio; il ritardo poteva togliergli l'occasione di goderlo! Rimane dunque che egli avesse  ordinato l' incendio in un accesso di pazzia. Ma quando  egli tornò a Roma, e, come riferisce Tacito {Ann. XV, 39\  cercò di opporsi al fuoco, ed aprì per ristoro al popolo il campo di Marte, i portici e le terme di Agrippa,  Che Nerone sin dalla prima notte del suo ritorno si aggirasse senza guardie per la città, è afìermato da Tacito stesso,  quando narra che Subrio Flavio aveva già prima della congiura  Pisoniana fatto il disegno di uccidere Nerone cum ardente domo  per noctem huc Ulne cursaret incustoditus! (Ann.) '' Non poteva regolare, si può dire, la direzione delle fiamme. Ma certamente, se il suo scopo era quello di togliere le  viuzze stretto e le case luride non sarebbe ricorso alle fiamme.  Bastava che il suo disegno d' abbellire Roma egli enunciasse,  per essere esaltato da tutto il popolo, e avere il concorso di tutti  i cittadini. E quando anche alle fiamme avesse voluto ricorrere,  avrebbe cominciato dai quartieri luridi, non da quelli nobili e  sontuosi.] gli orti suoi, e fece costrnire provvisorie capanne, e  diminuì il prezzo del frumento, era certamente nel  possesso delle facoltà sue: e allora chi rinnovò l' incendio negli orti di Tigellino?  Ed ancora, si  ponga mente ad altre osservazioni. Nerone voleva salvare la casa sua, ed infatti vi si adoperò, tornato a  Roma: avrebbe egli ordinato che si cominciasse ad  appiccare il fuoco proprio a quella parte del circo.  che era contigua al Palatino? Nerone amava credersi e farsi credere artista fine e di greco gusto. Non  avrebbe egli fatto mettere al sicuro le più belle opere  di scultura, i monumenti dei più chiari ingegni, i capilavori dell'arte greca? Anche questi perirono tutti,  e Nerone mandò gli emissarii suoi, per l'Asia e per la  Grecia, a depredarne dei nuovi. Quanto più si consideri l'accusa fatta a Nerone, tanto più essa risulta  incoerente e contradditoria. Ma dunque, chi ordinò  l'incendio? Quali furono gì' incendiarii? Quale scopo  ebbero? Chi incolpò i Cristiani? E quali erano i Cristiani allora? Dobbiamo, per l' esposizione nostra, cominciare  dall'ultimo quesito, e poi a mano a mano, attraverso  gli altri, giungere sino al primo.   Sulla prima comunità cristiana in Roma abbiamo   E opportuno pnre notare che J racconto riguardante  Nerone, che sulle rovine ii Roma canta i' incendio di Troia è  ritenuto, per buone ragioni, una leggenda. Y. Renan, JJ Aniichrist che prese probabilmente i suoi argomenti  dalla nota del Fabricio a Cassio Dione. Non vale il dire: ricevuto il comando, non si badò più  a nulla. Sta pur sempre, che se il primo incendio cominciò dalla  casa di Nerone, e il secondo dalla casa di Tigellino, le fiaiume  forono appiccate da nomini che erano nemici di tatto l'ordine  sociale, che era rappresentato da quei di; e. scarsissimi documenti: pure ci viene da essi qualche  lume. Chi immagina i Cristiani al tempo di Nerone,  e anche prima, tutti intenti a bizantineggiare su questioni di dogma, non può spiegare l' aggregarsi di  sempre nuovi proseliti alla parola evangelica. Se Tacito dice che i cristiani erano allora  una immensa  moltitudine, ninna ragione v' ha per iscemare il  valore a siffatta testimonianza. Ora una immensa  moltitudine non si poteva commuovere per controversie riguardanti solo il, dogma giudaico. Ci vuole  altro per muovere le turbe. Se soltanto tali quesiti  avessero formato oggetto della predicazione evangelica, i gentili avrebbero probabilmente risposto come  il proconsole Corinzio rispose ai Giudei che accusavano Paolo:  sono questioni di parole: pensateci voi.  Il cristianesimo dovè invece assumere ben presto in  Roma un contenuto sociale ed economico. Quel che  importava era il complesso delle aspirazioni e delle  rivendicazioni messianiche, era la parola dolce, che  per prima affermava 1' eguaglianza umana, e prometteva lo sterminio degli empii, e prossimo il regno della  giustizia. Ora questa sete ardente di rivendicazioni  umane era comune tanto al giudaismo quanto al cristianesimo. La differenza era in ciò, che per il cristianesimo il Messia era già venuto, ma doveva tosto  tornare a disperdere le potenze maleJBche sulla terra;  il giudaismo non sapeva accomodarsi all'idea di un  Messia, che non avesse levato sugli empi la sua spada  di fuoco, e assicurato la supremazia al suo popolo   La testimonianza di Tacito è i-insaldata da quella di  Clem. Rom. Ad, Cor., I, 6 (nokò t:).YjOoc;), e da quella dell' ^joocalisse, VII, 9 {o/'koc, t:oXù<;) e da quella di S. Paolo che ai Filippesi dice, parlando dei cristiani di Roma:  Molti dei miei  fratelli nel Signore. Contro siffatte testimonianze non v'è una  sola prova di fatto. Nulla trovo in proposito nel lavoro dell' Harnach, GescJdchte der Verbreitung des Christenthuvis, in  Sitzunysb. d. Akad. d. Wiss. zu Berlin.  leletto e feimato l' impero nella divina Gerusalemme,  bella d'oro, di cipresso e di cedro. Ma in sostanza  r una aspettazione e l' altra di un prossimo rinnovamento umano aveva un contenuto sociale; e a guardar  l'una e l'altra dal di fuori, era facile confonderle.  Quindi è che Giuseppe Flavio e Giusto di Tiberiade  non distinguono i cristiani dai giudei; e Tacito in un  passo (Bist.) confonde gli uni e gli altri; cosi  Suetonio, quando dice {Claud.) Jndaeos imimlsore  Chresto assidne tumultuantes Roma expnUf, intende evidentemente (per quanto stranamente sia stato interpretato questo passo) per Judaei i Cristiani, immaginando  Cristo ancor vivo ai tempi di Claudio,v anzi eccitatore  dei Giudei nei loro tentativi di riscossa. Che poi  la coscienza umana si sia spostata non verso il giudaismo, ma verso il cristianesimo, la ragione è manife Impulsore non può voler dire  a cagione  bensi  per  eccitamento. È da mettere a riscontro questo passo di Suetonio con un passo degli Atti degli Apostoli, nel quale si ha  questa notizia < [Paolo ^ trovato un certo Giudeo,  per nome Aquila, di nazione Pontico, da poco venuto in Italia,  insieme con Priscilla sua moglie (perciocché Claudio aveva comandato che tutti i Giudei si partissero di Roma), si accostò  a loro; e poiché egli era della medesima arte, dimorava in casa  loro. Ora è importante il fatto che Aquila e Priscilla erano  appunto cristiani: cfr. Rom.; Corint.; Tim.; Ada, E che il fossero anche  prima d'incontrarsi con Paolo si può con qualche probabilità  dedurre dal fatto che appunto in casa loro andò ad abitare  Paolo a Corinto. Paolo, Eom., li chiama suoi  cooperatori. Cfr. De Rossi Bnll. ardi, crisi; Allard, Hist. des persécut..  E probabile dunque che Claudio scacciasse dalla città i Giudei  cristiani, non tutti i Giudei: tanto piìi che dei Giudei Cassio  Dione dice che Claudio ritenendo pericoloso a cagione  del loro numero scacciarli dalla città, si limitò a interdirne le  adunanze. E che 1' espulsione ordinata da Claudio non riguardasse propriamente i Giudei viene indirettamente provato dal  fatto che Giuseppe Flavio, solitamente cosi bene informato di  tutto ciò che riguardai suoi compatrioti, non menziona di Claudio se non atti di favore per essi {Ant, Ind.). sta. L'uno infatti rimaneva chiuso nel suo rigido particolarismo di razza, l'altro abbracciava nell'amor suo  l'universo. L'uno esaltava il popolo eletto dal Signore  e destinato al trionfo; l'altro predicando l'eguaglianza  umana volse la propaganda sua tra i Gentili. Di più  ancora, gli uni spostavano indefinitamente i termini  della dolce promessa, gli altri annunciando imminente  il desiderato ritorno, parevano soddisfare la impazienza  di rinnovamento umano, che è cosi caratteristica della  società romana del primo secolo. È facile immaginare quanto larga e immediata  diffusione avesse il cristianesimo tra gli schiavi, i quali  sentivano più che mai prepotente la brama di rivendicazioni e da secoli prorompevano di tratto in tratto  alla rivolta. D' altra parte, come avviene in tutti i  movimenti umani, si aggregava alle idee nuove quel  sostrato tenebroso della società che spunta fuori solo  nei giorni più torbidi, giungendo ad ogni eccesso cui  spingano le bieche passioni e i rancori lungamente  soffocati. Tali uomini gettavano fosca luce su tutta  intera la chiesa. Tacito dice: odiati pei loro delitti i Cristiani, e meritevoli di ogni  pena più esemplare (Ann.); e Suetonio parla di essi come di gente   malefica  (Ner.). Tacito e Suetonio hanno delle  virtù e delle colpe umane gli stessi concetti che ne  abbiamo noi. Quando essi parlano di delitti e malefizi, non è possibile assumere tali parole in significato men tristo dell'usuale. La castità, la temperanza,  la rinuncia ai piaceri, l'odio per le turpitudini, erano  pure per essi tali pregi, che ne avrebbero commosso  di ammirazione reverente l'animo. Si potrebbe pensare a calunnie sparse ad arte nel popolo. Ma è pur l'incendio di eoma e r primi cristiani vero che nelle stesse fonti cristiane abbiamo la prova  che molti nelle varie chiese fossero indegni di predicare la croce di Cristo. Paolo stesso, nella lettera  scritta da Roma ai Filippesi, così parla di alcuni, che  si erano aggregati alla nuova fede:  Molti dei fratelli nel Signore, rassicurati per i miei legami, hanno  preso vie maggiore ardire di proporre la parola di  Dio senza paura. Vero è che ve ne sono alcuni che  predicano Cristo anche per invidia e per contesa,  ma pure anche altri che lo predicano per buona affezione. Quelli certo annunziano Cristo per contesa,  non puramente, pensando aggiungere afflizione ai  miei legami; ma questi lo fanno per carità, sapendo  ch'io son posto per la difesa dell' evangelo. A quante  interpretazioni han dato luogo queste parole! Eppure  a dichiarazione di esse mi pare che possano servire  quelle che Paolo aggiunge poco dopo:Siate miei  imitatori, o fratelli, e considerate coloro che camminano cosi Perciocché molti camminano, dei quali  molte volte vi ho detto, e ancora al presente vi dico  piangendo, che sono i nemici della croce di Cristo; il  cui fine è perdizione, il cui Dio è il ventre, la cui  gloria è nella confusione loro; i quali hanno il pensiero e l'affetto nelle cose terrene. Noi viviamo nei  cieli, come nella città nostra, onde ancora aspettiamo  il Salvatore. E più giù:  La vostra mansuetudine  Tali parole scritte ai Filippesi liHiiiio riscontro con quelle  della lettera ai Romani  lo vi esorto, fratelli, che  vi guardiate da coloro che commettono dissensi e scandali, contro la dottrina che avete imparato e vi ritragghiate da essi.  Perciocché essi non servono al nostro Signore Gesù Cristo, ma  al proprio ventre, e con dolce e lusinghevole parlare seducono  il cuore dei semplici. Dunque quelli che  non servono a Dio,  ma al proprio ventre, non si trovavano solo a Filippi, ma anche a Roma. Ingiusto è quindi l'appunto mossomi dal sig. Fr.  Cauer, in Beri, philol. Wock. Sulla recensione  del Cauer v. anche App. II, nota 1. Circa le varie questioni riguardanti la lettera ai Filippesi, e propriamente la sua genuil' incendio di roma e i primi cristiani sia nota a tutti gii uomini, il Signore è vicino. Non  siate con ansietà solleciti di cosa alcuna. Il Signore  è vicino! Dunque, egli dice, siate mansueti, e cioè non  vi abbandonate a moti incomposti, aspettate con  calma e fiducia. Il seme gettato aveva fruttificato dovunque; era seme di amore e fruttificò la rivolta. Ed  in Roma quali erano coloro che predicavano Cristo per  invidia e contesa? Erano quelli che avevano l'animo  alle cose terrene, che avevano invidia dei beni altrui, e prorompevano in contese e sommosse: questi,  sì, aggiungevano afflizione ai legami di Paolo. Egli  infatti doveva essere giudicato da Cesare e aveva  tutto l'interesse che non apparisse perturbatrice dello  Stato la sua dottrina; sul puro campo religioso l'assoluzione era sicura, giacche Roma in religione non  conobbe mai l' intolleranza. La nascente chiesa cristiana era già fin d' allora scissa in fazioni. AH' infuori delle dispute dommatiche che tanto travagliarono a Paolo la nobile vita, era vivo nel primitivo  cristianesimo il dissenso tra quelli che cercavano inculcare l'aspettazione fidente della divina giustizia,  e quelli che volgevano le nuove dottrine a scopi di  immediate rivendicazioni materiali. Dagli scrittori moderni è stato ampiamente studiato in che cosa consi- nità e l'unicità della sua composizione, v. gli autori citati presso  Clemen, Proleqom. z. Chron. der Paulinischen Briefe, Halle, Qualche scrittore ha accennato che tutti questi passi si  riferiscano a scismi e divisioni interne della nascente Chiesa,  per questioni di dogmi e di gerarchia. Quale relazione abbiano  il dogma e la gerarchia col ve>itre, di cui parla Paolo, col pensiero e V affetto volto ai beni terreni, non so vedere. Che se poi  invece si vuol parlare di scismi e divisioni riguardanti veramente l'attaccamento ai beni terreni, si vuol supporre cioè che  avessero assunto il nome di Cristiani, uomini avidi ed invidiosi  dei beni altrui, allora siamo pienamente d'accordo; ed io posso  anche nutrire non vana speranza che i miei contraddittori siano  per venire nell' avviso mio.  l stessero i dissensi dommatici; ma non per questo dobbiamo noi credere che solo ad essi si riducessero le  divisioni della prima chiesa. Anzi, chi ben guardi, a  riprovare il partito delle rivendicazioni sociali si trovavan concordi pur quelli che nel dogma eran dissenzienti; e se da una parte Paolo protesta esservi nella  Chiesa alcuni che sono nemici della croce di Cristo,  perchè il loro Dio è il ventre, il loro affetto è alle cose  terrene, Pietro parla a lungo di quelli tra i Cristiani  che sono schiavi di lor lascivia, che come animali senza  ragione vanno dietro all' impeto della natura, destinati a perire nella loro corruzione, essi che reputano  tutto il loro piacere consistere nelle giornaliere delizie, e non restano giammai di peccare, adescando le  anime deboli, ed avendo il cuore esercitato all' avarizia  (II Petrij 2). E, come Paolo, anche Pietro, nella P'' epistola (la cui attribuzione è sicura) esorta i Cristiani alla  soggezione verso le autorità terrene, i sovrani e i governatori, e a ritenerli come inviati da Dio stesso, per  punire i malfattori e premiare quelli che fanno bene. L'esortazione prova appunto che tra i Cristiani fosse una fazione turbolenta (cfr.Tim.).  È dato pensare col Eénan {Saint Paul) a quelle  sette cristiane che negavano la legittimità dell' imposta, che predicavano la rivolta contro l' impero, e  identificavano anzi l' impero al regno di Satana. La  maggior parte della prima chiesa sarà stata di persone invase dall'amor del bene e da fraterna carità; ma  la turbolenza fremeva in quella massa disforme, e la  parola apostolica mal giungeva a frenarla. Or qui è da  richiamare quel che abbiam sopra visto, riferito da  Suetonio, che cioè sotto Claudio i Cristiani tumultuassero e fossero espulsi da Roma. Anche quel passo  è stato soggetto a tante interpretazioni! Pure a conferma della nostra, basta rammentare il passo di Tacito  [Ann.)  quella perniciosa superstizione soffocata per il momento, prorompeva di nuovo, il quale  passo ci lascia anche comprendere che più d' uno dovettero essere i tentativi di soffocare il cristianesimo  nascente. -' Perchè soffocarlo, se non fosse stata in esso  una fazione rivoluzionaria? In Roma tutti i culti vivevano alla luce del sole. E che tal fazione avesse in  Roma il Cristianesimo, si deduce dalia lettera stessa  di Paolo ai Romani. Vi s' industria in ogni maniera di  incutere il rispetto all' autorità, tenta perfino di far  credere divina la potestà terrena:  Ogni persona sia  sottoposta alle potestà superiori, perciocché non vi è  potestà se non da Dio; e le potestà che sono, sono da  Dio ordinate. Talché chi resiste alla podestà, resiste  all'ordine di Dio, e quelli che vi resistono riceveranno  giudizio sopra di loro  ecc. (7?o?., 13). Indi pure si  spiega perchè ai cristiani si facesse accusa di professare  l'odio del genere umano. Tacito anzi dice che 1' accusa  fu provata (Ann.) odio humanis generis conoictì  sunt  Si è tentato d' interpretare il passo, adducendo  Pih d" uno, ho detto.^Le parole di Tacito sono: Auctor  nominis eius Christus, Tiberio iviperitante, jyer procuratorem P.  Pilatum sujypiicio adfectus fuerat; represscique in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebnt. Se Tacito avesse voluto  dire che la repressione fu una sola, avrebbe detto eruperat;  invece eruinpebat è imperfetto iteratiro, in relazione con quelV in praesens. E il significato è:  ogni volta che era repressa  erompeva di nuovo. I provvedimenti repressivi presi in Roma contro certi  culti e cerimonie fui-ono determinati da ragioni di moralità e di  quiete pubblica; cfr. Aubé, Histoìre des pemécutionfs;  De Marchi, Rendiconti Istituto Lomb. Giugno 1900; Ferrini,  Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, Milano, Se il Cristianesimo avesse avuto un  solo carattere religioso sarebbe stato tollerato, come era tollerato anzi qualche volta (Joseph. Ant. jud.), anche  favorito il giudaismo, che pur pretendeva all'esclusiva verità  del suo unico Dio, e pure aveva contrario il sentimento pubblico  Di simili accuse parlano spesso più tardi gli apologisti, Tertulliano, Apol.; hostes maluistis rocare generis humani; sicché a me sembra vano il tentativo d'inla rinuncia, che i cristiani professavano, ai beni e ai  piaceri della vita. Vani sforzi! Il mondo classico aveva  visto in tal genere le aberrazioni estreme della scuola  cinica, la quale tuttora vigeva (A)tn.); ed aveva  ancora, fiorente nel suo seno, l'ideale della virtù stoica. Gli è elle ogni rivendicazione di una classe sociale  contro l'altra, diventa necessariamente lotta e quindi  odio di classe. Strana sorte! Cristo e i suoi apostoli  insegnavano 1' amore; gettata la loro parola nelle moltitudini, era seme che fruttava 1' odio umano.   Fra quelle turbe, inasprite da secolari dolori, avide  della agognata riscossa, passò la figura dolce e confortatrice di Paolo. Persegui tenacemente e con fervore  divino, l'opera sua; diresse con la mansuetudine quei  cuori tempestosi, convertì quanti più potè tra i Pretoriani ed i servi di Nerone (Ai Filipp.).  Finito poi, con l'assoluzione, il processo a suo carico,  non è certo che egli sia rimasto in Roma. L' ajino seguente, proruppe l'incendio. Il Signore è vicino ! aveva annunziato Paolo, e  tutta la letteratura evangelica contiene questo grido  angoscioso di aspettazione:  Io vi dico in verità che  alcuni di quelli che sono qui presenti, non proveranno  la morte, primachè non abbiano veduto il Figliuolo  dell' uomo venire nel suo regno. Io vi dico che   terpretare: d' essere odiati dal genere umano. Come può essere per alcuno un capo di accusa l'odio alti-ui? E si poteva  asserir seriamente che tutto il genere umano si unisse ad odiare  quella Chiesa segreta ed ignota? E ad ogni modo quando pur  si volesse sforzare la frase sino a tal senso, ci si guadagnerebbe ben poco. V. però su tutta la cronologia di Paolo, Harnack A., Die  Chronologie des altchristlichen Litteratur.  questa generazione non perirà, prima che tutto questo  avvenga. Cielo e terra periranno, ma non periranno le  mie parole. Così concordemente gli evangeli di Matteo, di Marco e di Luca. E la lettera di Jacopo. Siate  pazienti, fortificate i cuori vostri, la venuta del Signore  è vicina. E la lettera agli Ebrei. Ancora un breve  tempo e colui che deve venire, verrà e non tarderà.  E Paolo stesso ai Romani. La notte è avanzata, e il  giorno è vicino. È noto che il dogma posteriore spostò  indefinitamente la speranza di questo avvento divino ma i cristiani di allora l'aspettavano per la loro generazione. Paolo nella prima ai Tessalonicesi così dice: Noi viventi siamo riserbati sino alla venuta del Signore. E gli oppressi, i conculcati, i disprezzati, si  estasiavano al prossimo adempimento della dolce promessa. Ma quando, quando tornerà il liberatore, a sollevare gli umili, a punire gli empi ?  Quando avrete  veduto l'abbominio della desolazione, detta dal profeta   Daniele, posta dove non si conviene  rispondevano   gli evangelii {Marc.).  In quei giorni vi sarà afflizione tale, qual mai non fu dal principio della creazione  delle cose finora, ed anche mai non sarà! E se il Signore non avesse abbreviati quei giorni, ninna carne  scamperebbe; ma per gli eletti suoi, il Signore li ha   abbreviati Allora se alcuno vi dice: Ecco qua Cristo,   ovvero: Eccolo là, noi crediate Ma in quei giorni,   dopo quell'afflizione, il sole oscurerà, la luna non darà  più il suo splendore. E le stelle dal cielo cadranno, e  le potenze nei cieli saranno scrollate. E allora gii uomini vedranno il Figliuolo dell'uomo venir dalle nuvole,  con gran potenza e gloria. Così l'idea del prossimo ritorno di Cristo era congiunta con quella della fine del  mondo, cui doveva far seguito la rinnovazione delle  cose, e la rigenerata umanità. Cristo stesso indicando  i superbi palagi di Gerusalemme aveva detto:  Vedi  tu questi grandi edifici ? Ei non sarà lasciata pietra sopra pietra. E Griovanni aveva annunziato :. Figliuoli è l'ultima ora, (Giov.), e Pietro:  È  prossima la fine delle cose. È prossima? ma non era  r età di Nerone 1' abbominio della desolazione di cui  aveva parlato il profeta ? ^° E non aveva promesso il  Signore, che sarebbero brevi quei giorni, perchè altrimenti niuno si salverebbe ? E dopo la distruzione, il  rinnovamento: dopo le ingiustizie secolari, 1' eguaglianza e la pace ! E il recente convertito trovava nel  fondo oscuro della sua coscienza le reliquie del paganesimo, che vi persistevano tenaci: dunque, pensava, lo  stoicismo non s'ingannava, e pure attraverso il mondo  nostro era penetrato un raggio del vero: era penetrato  per gli oracoli delle Sibille, per le predizioni etrusche,  per le dottrine degli stoici: tutti annunziavano la fine  delle cose e la novella progenie umana; tutti annunziavano il prossimo regno del Sole, cioè del fuoco, che  rigenererebbe l' universo, e Vergilio stesso lo aveva  cantato {Ed.). Ma sopratutto lo stoicismo pareva  dare a queste anime turbate il cupo consiglio, lo stoicismo, che essi sostanzialmente non distinguevano dal  Cristianesimo per il suo contenuto morale, e che come  contenuto sociale aveva le stesse aspettazioni di rinnovamento umano. Or lo stoicismo predicava l'ecp^ros/V,  combustione cosmica, come fine del mondo, e principio della nuova era umana.   Per alcuni stoici questa combustione cosmica do- Nerone era veramente per i cristiani l'Anticristo, la bestia nera {-o OY,piov lo chiama V Apocalisse), l'uomo del peccato,  il figliuolo della perdizione, di cui parla la II di Paolo ai Tessalonicesi. Il suo regno era dunque annunzio dell' imminente  regno di Dio (v. la citata lettera di Paolo, cap. II); cfr. Renan,  S. Paul, L' àvOpiD-o; T-r,v àv&[j.[a; è personificazione  della potenza mondana, che deve rivelarsi con impeto prima  della fine del mondo; cfr. Ferrar, The Life and Work of St. Paul, Sulla genuinità della Seconda ai Tessalonicesi, V. Weizsàcker, Zeilschr. f. iciss. TlievL;  Briickner, Chronol. Reihenfolge, veva essere preceduta dal diluvio, secondo l'idea antica  di Eraclito (v. il framm. presso Clemente, Strom.).  Tale è pure l' idea di Seneca, nel quale è così ardente  il desiderio di rinnovamento, che alcune parole di lui  sembrano uscite dalla bocca di un apostolo [Nat. Qw.). Anch' egli cupamente anìiunzia:  Non tarderà  molto la distruzione !    E come il vecchio Eraclito, e dietro di Ini le scuole  stoiche, simboleggiando nel fuoco l'anima divina dell' universo, aveva detto (presso Ippolito):  il  fuoco tutto assalendo giudicherà ed invaderà, così nel  dogma cristiano si assegnò all'incendio del mondo l'ufficio di purificazione e giudizio finale. Gli antichi profeti d'Israele erano t\itti pieni di fremiti sdegnosi, di  ansiose aspettazioni dell' ora punitrice. Neil' anima di  Isaia pare accogliersi tutta la protesta dei miseri, l'onta  per la dominazione assira, l'odio per chi procurava la  rovina al popolo. Egli scatta e minaccia:  Voi sarete  come una quercia di cui son cascate le foglie, come un  giardino senz' acqua. Il forte diventerà stoppa, l'opera  sua favilla; l'una e l'altra saranno arse insieme: non  vi sarà niuno che spenga il fuoco  (I). Questi  fremiti sdegnosi si risentiranno più tardi nell'Apocalisse cristiana. E l'idea della combustione del mondo  fu pur congiunta, nel dogma cristiano, a quella del secondo avvento di Cristo:  I cieli e la terra del tempo  presente per la medesima parola son riposti, giacché sono riserbati al fuoco, nel giorno del giudizio e  della perdizione degli empi. Or quest'unica cosa non  vi sia celata, diletti, che per il Signore un giorno è  come mille anni, e mille anni come un giorno. Il Signore non ritarda, come alcuni reputano, la sua promessa,  anzi è paziente verso di noi, non volendo che alcuni periscano, ma che tutti vengano a penitenza. E il giorno  del Signore verrà come un ladro di notte; in quello i  cieli passeranno rapidamente, gli elementi divampati si dissolveranno; la terra e le opere che sono in essa, saranno arse. Poiché tutte queste cose hanno da dissolversi, quali vi conviene essere in sante conversazioni  e pietà, aspettando e affrettandovi all' av venirti ento del  giorno di Dio, nel quale i cieli infuocati si dissolveranno, gli elementi infiammati si distruggeranno ! (Così  la così detta Petri, V. anche Cai-m. sibyll.).E certamente, questi  apostoli della dottrina avranno fatto ogni sforzo per  provare che il fuoco era divino, non umano, e per esortare alla calma e all'aspettazione fidente di Dio. Questo  risulta dalle parole che abbiamo citato, anzi risulta da  tutta intera la letteratura apostolica, che è piena di  consigli miti. Ma risulta altresì l'impazienza di alcuni.  Gettate una dottrina come questa, dell'imminente fuoco,  punitore di tutti i gaudenti della terra, in mezzo ad  una turba di schiavi, di gladiatori, di oppressi; e voi  vedrete a tale annunzio in diversa guisa manifestarsi  r animo di ognuno, altri raccogliersi nelle trepidanze  angosciose, altri, i più violenti, i tristi per natura,  correre a sfogare le ultime agognate vendette. Rotti i  vincoli e i freni umani, erompe l'animo dei tristi a soddisfare con facile ardire le passioni prima represse o  celate. Le vendette, le violenze e il saccheggio sono le  forme consuete cui irrompono, in tal condizione di spiriti, le turbe forsennate. Altri forse, illusi o fanatici,  avranno creduto trovare giustificazione nella stessa parola divina. Cristo stesso aveva detto:  io sono venuto  a portare il fuoco sopra la terra  (Luca), Essi credevano essere gli esecutori della divina vendetta, essi  dovevano iniziare l'opera redentrice. Le masse esaltate  dal fanatismo sprezzano i consigli della moderazione  e della calma. Fermentano allora in quelle coscienze  commosse tutte le ire e tutti i rancori; perduti ritegni  e timori umani e divini, gli animi si spingono ad ogni  eccesso. e Pasotil. 14r; l'lu quale altra comunità romana in quel tempo potevano essere così vivaci gl'impulsi all'atto forsennato?  Certo, anche gii Ebrei auguravano a Roma stermioio;  ma non aspettavano fiamme vendicatrici per la loro  generazione; nella Corte di Nerone erano bene accetti;  in lui non vedevano l'Anticristo, il mostro, l'uomo del  peccato, annunzio del prossimo regno di Dio. Solo  dunque 1' ultimo strato sociale, cui si era portata la  parola dell' eguaglianza e dell'amore, poteva erompere  all' opera distruttrice. QuelT ultimo strato sociale era  abbeverato di odio contro tutto 1' ordine presente. Gli  apostoli davano bensì consigli di obbedienza ai loro  padroni; ma dalle loro stesse parole risulta che alcuni  andavan predicando dottrine ben diverse. Si ascolti  Paolo a Timoteo. Tutti i servi che sono  sotto il giogo reputino i loro signori degni di ogni  onore, perchè non sieno bestemmiati il nome di Dio  e la dottrina. E quelli che hanno signori fedeli non  manchino ai proprii doveri verso di essi, perchè son  fratelli; anzi molto più li servano, perchè son fedeli  diletti e che partecipano del benefiziG^. Insegna queste  cose ed inculcale. /Se alcuno insegna/ diversa dottrina, e  non si attiene alle sane parole del signore Gesù Cristo, e  alla dottrina che è secondo pietà, esso si gonfia senza saper  nulla, vaneggiando tra dispute e logomachie, onde sorgono  odi, contese, bestemmie, tristi sospyetti, conjiitti di uomini  viziati di mente e alieni dal vero, che credono la pietà  abbia ad essere un guadagno. Come scruta addentro  nelle latebre dell'anima lo sguardo profondo di Paolo!  L' amore universale, che egli aveva annunziato diventava naturalmente per il popolo pretesa di rivendicazione: la pietà diventava guadagno. E non pure v' erano  quelli che agitavano la questione dello scuotere il giogo  secolare, come indubbiamente risulta dalle parole or  citate di Paolo; ma contro tutta la compagine e l'organizzazione sociale e l' imjjero stesso si appuntavano gli odii loro. Anzi nel primitivo dogma era che allora avverrebbe l' incendio del mondo e quindi il regno della  giustizia, (luaiido avvenisse la fine dell' impero. Certo, in  tale forma noi troviamo più tardi il dogma in Tertulliano.  Noi preghiamo, egli dice {Apolog.), per 1' impero e per lo stato romano, noi i quali ben sappiamo  che la massima rovina che sovrasta all'universo intero,  il chiudersi dell' èra nostra, che ci minaccia orrende  sciagure, di tanto sarà ritardata di quanto si prolungherà il romano impero  (così pure nel liher ad Scap ulani).   Qui 1' appressarsi del fato estremo è cagione di  trepidanza, come nel mille; nell'epoca neroniana era  aspettata con fervore di desiderio e si accusava Dio  della ritardata promessa {Petri). Molti passi  della letteratura apostolica attestano il fermento degli  spiriti e la loro desiosa aspettazione dell'ora finale.  A più eccitarli si facevano perfino correre false apocalissi [li Tessal.). Si spiega quindi come solo  all' epoca neroniana, potè erompere l' impazienza all' atto forsennato. E che anche nell'epoca neroniana  si unissero i due concetti della fine del mondo e della  fine dell' impero, si deduce da quel che sopra abbiamo visto, che il regno di Dio doveva esser preceduto  dal regno del mostro (11 Tessal.); il mostro era  Nerone.   Se dunque la distruzione dell' impero, rauuientaraento dell'Anticristo era il principio della divina giustizia, si richiederà, credo, una volontà ben salda per  negare ancora che questi poveri fanatici, forse indotti  da eccitamenti malvagi, abbiali voluto farla finita con  r impero e con Roma. 11 fuoco, il fuoco devastatore  avrebbe posto fine all'abbominio e rigenerata l'umanità  neir innocenza. Come la potenza della luce era preceduta da quella delle tenebre, e il regno di Dio da quello  del mostro, cosi il fuoco divino doveva esser preceduto dal fuoco umano, che avrebbe annientata la sede stessa  dell' impero." Ed ora, dopo aver esaminato quali passioni fremevano nel cuore, quali dottrine esaltavano le menti  di una parte di questa comunità cristiana, torniamo  alla narrazione dell'incendio. Di tante centinaia di soldati e servi incendiari, è possibile che nessuno fosse  riconosciuto ? Non è possibile, che anzi si sapeva che  erano i servi del cubicolo imperiese e i soldati del pretorio. E quando furono riconosciuti ed arrestati, perchè  non avrebbero addotto 1' ordine di Nerone ? E Nerone  si sarebbe messo, dinanzi al popolo, allo sbaraglio di  questa terribile prova ? Invece i primi arrestati confessarono.  S' iniziò il processo primamente, dice Tacito {Ann.), contro i rei confessi; dipoi moltissimi altri, per denunzia di essi, non furono tanto  convinti di avere appiccato il fuoco, quanto di odiare  il genere umano (o secondo altri: di essere odiati !).  Non come prova, ma come elemento di fatto che può avere  relazione col nostro argomento, crediamo far menzione di una  curiosa scoperta fatta a Pompei. Sopra una muraglia,  tracciate col carbone, si scopersero alcune lettere. Il Kiessling  {Bull. Ist. corr. ardi.) che primo, col Miuervini e  col Fiorelli vide il documento, credette poter leggere ignì gavdb  CHRISTIANE. Le lettere al contatto dell' aria si dileguarono. Due  anni dopo il De Rossi non ne vide più nulla e dovette contentarsi di un fac-simile tracciato dal Minervini. Sul fac-simile  credette dover leggere: avdi cukistianos; e con altri residui  di lettere sparsi qua e là per le muraglie, tentò tutta una ricostruzione, a dir vero un po' romantica, contro la quale qualche buona osservazione fece i' Aubé, lILst. des pers. I, pag. 418.   •'Nell'interpretazione di questo passo troppe volte la passione ha fatto velo all'intelligenza. Riportiamo tutto il passo,  ed esaminiamo le singole espressioni, avvalendoci, in parte,  delle prove già apportate da H. Schiller, in Commentationes  in honorem Th. Mommseni, per quanto noi non  vogliamo giungere alle esagerate sue conclusioni. La reità dunque fu provata solo in parte per la prima  accusa; j)er tutti fu provata la seconda accusa, quella  Ergo, aholrndo rumori Nero subdidit reos et quaesitiftsimis poenis affecit quos per flagitia invisos, vulgus christianos  appellabat. Auctor noìinnis e'ms Christus, ecc. Igitur primiim.  correpti qui fatebantur; deinde indicio eorum mnltitudo ingens,  haud perinde in crimine incenda quam odio humani generis  convicti sunt.   Il subdidit reos si vori-ebbe spiegare  sostituì al vero colpevole i falsi. Rimandiamo, per il valore della frase, all' app.  Ili di qnesto studio. Passiamo al primum correpti qui fatebantur. Corripere denota l' inizio della procedura penale: cfr.  Ann. II, 28; III, 49, 66; IV, 19, 66; VI, 40; XII, 42. Se la procedura penale fu iniziata, dovè iniziarsi per il delitto di cui si  tratta, il crimen incenda; non potè essere per una causa di  religione, che del resto si sarebbe dovuto svolgere dinanzi al  Senato (cfr. Tac. Ann.; Suet. Tib.: Dione; Suet.  Claudio). Nerone era scelleratissimo, ma non era sciocco;  e una sciocchezza sarebbe stato accusare per il delitto d' incendio, e fare un processo di religione. Pretendere che Nerone  abbia fatto questo, significa supporre senza prove che egli abbia introdotto nella legislazione penale un delitto nuovo; e ciò  proprio all'indomani dell'assoluzione di Paolo, il quale aveva  potuto per due anni predicare Cristo con ogni franchezza e  senza divieto {Atti upost.).  Furono dunque primamente processati d'incendio quelli che via via confessavano.  Confessavano che cosa ? Quando fatevi o confiteri sono adoperati assolutamente in relazione a un processo significano: dichiararsi reo di quello per cui si è accusati;  cfr. Ili, 67; XI,  1; XI, 35; Cic.: Mil. 15; Lig. 10. Si vuole invece supplire se  Christianos esse. Ma per tal significato il verbo di Tacito sarebbe stato profiteri; cfr. Ilist, III, 51; III, 54; IV, 10; IV,  40. Ann. I, 81; II, 10, 42. K dovendo giudicare dell' incendio  era assurdo il chiedere la confessione di altra colpa, dì cui era  competente a decidere solo il Senato. Altra colpa ? Si può proprio seriamente affermare che si ritenesse allora dai Romani  colpa il professare una religione qualsiasi ? In ogni altro caso,  trattandosi di una accusa determinata, quella dell' incendio, a  niuno mai sarebbe venuto in mente che la confessione degli  accusati potesse intendersi di altro che di incendio; e il pre  sentare tale ipotesi sarebbe parsa tale enormità, qual sarebbe  quella ad esempio di colui che nel passo di Cicerone, Mil. 15   ni,si vidisset posse absolvi eum. qui fateretur  volesse intendere il fateretur in un significato diverso da quello di  essere  reo confesso di omicidio. Ma la passione spiega qualsiasi  aberrazione. — Segue indicio eorum. Indicium è la denuncia se più generica. E cioè: i primi, gli esecutori materiali,  confessarono e denunciarono i compagni (indicio eorum): greta o la rivelazione fatta da accusati o da colpevoli contro altri colpevoli (Ann.). E poiché l'accusa qui è delV incendio, anche indicium si  riferisce a tale accusa. Nella lettera di Plinio, X, 96 1' accusa è  invece deire.<fser cristiani; e index quindi significa  denunziatore dei Cristiani  e per questo anche nella medesima lettera  cuìifitentes vale  quelli che si confessavano cristiani : l'accusa  era proprio questa! Si è obiettato che i Cristiani non potevano denunziare i loro fratelli. Il che può significare che questi  non erano veri Cristiani, che erano povero volgo ignai-o, aggregatosi al partito delle novità per ispirito di rivolta; ma non  ci potrà indurre a sostituire una interpretazione falsa ad una  vera. Anche i Cristiani di Bitinia, interrogati da Plinio, non  potevano maledire Cristo, sconfessare la fede e venerare l'immagine di Traiano; eppure  omnes et imaginem. tiiam deorumque mnulacra venerati suni et Christo male dixenmt  (Plinio). — Segue:  haud, jìprinde in crimine incenda  quam odio Immani generis convicti sunt*. Haud perinde quam,  {haud proinde quam), non perinde quam significano:  non  tanto..., quanto;  cfr. Ann. La seconda cosa si afferma dunque in proporzioni maggiori della  prima, ma tutte e due si affermano. E cioè, nel caso nostro,  la prova della partecipazione all' incendio si ebbe solo per alcuni; tutti furono provati rei {convicti sunt) deW odio Immani  generis. Provati rei, da chi? mi si è detto. Dai ministri di Nerone. Non è questo il significato del convicti sunt, che non denota la dichiarazione di reità fatta da un giudice, bensi la  prova inconfutabile e che non può essere disconosciuta dallo  stesso accusato. Qualcuno ha suggerito invece del convicti coniuncti del Mediceo. Il coniuncti è stato forse indotto ilal copista a cagione di quell' in crimine, che pareva non convenirsi  alla costruzione del convicti. E ad ogni modo non potrebbe significare se non:  furono congiunti non tanto nell'accusa d'incendio quanto. Il che tornerebbe a quel che dico io, indicherebbe cioè che 1' accusa di incendio non fu abbandonata:  ma poiché non tutti furono trovati colpevoli d' incendio, furono  tutti coinvolti nell'accusa di odio contro il genere umano. Debbo pure avvertire che le parole di Tacito [im): miseratio  oriebatur, tamquam non utilitate pnblica sed in saevifiam unius  absumerentur non significano già che Tacito credesse innocenti i Cristiani, e non sono quindi in contraddizione con tutto  ciò che precede Tacito non dice nam, absumebantur; dice:  nasceva compassione nel popolo quasiché {tamquam) i Cristiani si facessero perire non per utilità pubblica, ma per sod   allora non si volle sapere altro, si fece l'arresto in  massa dei cristiani, e ninno di essi smenti la sua fede;  solo questi ultimi- dichiararono non aver preso parte  all'incendio, come i primi; ma era lo stesso, erano tutti  rei di queir odio umano che aveva armato le mani di  fiaccole: furono tutti condannati.   Come si vede. Tacito prese questi particolari da  una terza fonte, e credette doverli registrare come fatti  accertati, pure cercando di smorzare le tinte e adoperare espressioni un poco oscure, per non nuocere all'intento suo di gettare qualche sospetto su Nerone.   Il che si rivela pure dalle parole seguenti:  nasceva compassione (per i Cristiani condannati ai supplidisfare la crudeltà di un solo, il che si riferisce alle voci che  correvano nel popolo accusafcrici di Nerone. Quando il popolo  vide tra i condannati i servi di Nerone e i soldati del pretorio,  non potè non sospettare che essi avessero agito per ordine dell'Imperatore. Tacito parla dei Cristiani come colpevoli, o convinti o confessi, ma distinguendo evidentemente gli esecutori  materiali da colui che poteva aver dato 1' ordine, riferisce non  senza qualche compiacimento le voci popolari accusatrici di  Nerone. Cosi in Ann.,gli fa volgere da Subrio Flavio  l'accusa di incendiai'iìis. In principio, egli presenta due sole  ipotesi: forte an dolo principis, parole alle quali si è attribuito il senso che Tacito stesso escludesse ogni sospetto a riguardo dei Cristiani. Ciò non è esatto. Bisogna distinguere gli  esecutori materiali da colui che poteva aver dato l' ordine.  Quanto ai primi egli non ha alcun dubbio, poiché li chiama  sontes et novissima exempla meì'itos, parole che mal s' intenderebbero, se non si riferissero ad un determinato ed unico  delitto. Quanto al secondo, egli esprime la convinzione che  1' ordine partisse da Nerone. Convinzione che egli derivò forse  dalle Storie Cimlt di Plinio, e che ebbe del resto origine dal  fatto che tra gli esecutori materiali furono veramente gli schiavi  di Nerone: ma appunto tra questi schiavi erano numerosi i  cristiani. Tacito riferisce pur l'ipotesi del caso: ma la sua narrazione esclude l'ipotesi. Non altrimenti, ad esempio, ei dichiara non potersi incolpare Tiberio per la morte di Druso, eppur getta su lui anche  per questo qualche ombra. Non vuol pronunziarsi se Agricola  sia morto di veleno per opera di Domiziano, ed ogni tanto  l' insinua.   zii), benché si trattasse di uomini colpevoli e meritevoli  di ogni più inaudita pena esemplare.   Ma perchè avrebbero confessato i primi cristiani?  Perchè avrebbero denunciato i compagni ?   E qui, oltre che può tornare in campo la ragione  già detta del necessario riconoscimento di alcuni, si può  volgere la mente anche ad altro.   Neil' ardore del fanatismo, essi avranno creduto  immediato il miracolo. Iddio, Iddio ora tornerebbe,  egli che aveva promesso di tornare dopo la desolazione estrema: non finirebbe la loro vita prima che  Iddio tornasse. E confessavano, gloriosi, e denunciavano, per far partecipi alla gloria. Immaginate questi esaltati a spiegare l'opera loro, la fede loro: l'eguaglianza dei diritti umani voluta da Dio, la distruzione  di tutto, necessaria per 1' avvento suo. I Romani primamente allora s' accorsero che quella fede aveva un  contenuto sociale, ed era un pericolo per lo Stato. E  la qualificarono dottrina di odio contro il genere  umano. Era invece la rivendicazione degli oppressi  e degli schiavi: ma questi con erano uomini. Ma c'è ancora di più: anche dopo, i cristiani non  cessarono di sperare ancora quelle fiamme vendicatrici,  e di auspicarne il ritorno. Alcuni anni dopo, il bagliore  sinistro di quelle fiamme accende la fantasia allo scrittore deìV Apocalisse. Si riconosce oramai da tutti, anche  dagli scrittori cattolici, che in questa, sotto il nome di  Babilonia, si cela quello di Roma, Ora ascoltate il grido  di maledizione e di vendetta su Roma, baccanale di  Ripugna il pensiero che i livori delle fazioni nella nascente chiesa, quei livori dei quali abbiamo visto muovere lagnanza Paolo, li spingessero alle reciproche accuse. Clemente  Rom. (ad Cor.) dice che le sciagure dei Cristiani  furono effetto della gelosia (St^/ Cr,)vOv). Anche l'Arnold, Die  neronische Christenverfolgung, Leipz. crede  che le denunzie contro i Cristiani sieno state fatte da Cristiani  dissidenti.  Ogni turpitudine, che scaglia il profeta dell' Apocalisse: Poi udii un' altra voce che diceva: uscite da essa, o  popolo, mio, acciocché non siate partecipi dei suoi peccati, e non riceviate delle sue piaghe. I suoi peccati  sono giunti l'uno dietro all'altro insiuo al cielo, e Iddio  si è ricordato delle sue iniquità. Rendetele il cambio  di quello che essa vi ha fatto; anzi rendetele secondo  le sue opere, al doppio: nella coppa nella quale ella  ha mesciuto a voi, mescetele il doppio. Quanto ella si  è glorificata ed. ha lu.<suriato, tanto datele tormento e  cordoglio: perciocché ella dice nel cuor suo: io seggo  regina e non sono vedova, e non vedrò giaminai duolo.  Perciò in uno stesso giorno verranno le sue piaghe;  morte e cordoglio e fame: e sarà arsa col fuoco; perciocché possente è il Signore Iddio, il quale la giudicherà. E i re della terra, i quali fornicavano e lussuriavano con lei, la piangeranno, o faranno cordoglio di  lei, quando vedranno il fumo del suo incendio e così  di seguito che è un sol  fremito di protesta, un sol grido di vendetta contro la  meretrice  ebbra del sangue dei santi e del sangue dei  martiri di Gesù. E nel capitolo seguente si pregusta  con voluttà frenetica la gioia della sua rovina;  Allelluia! la salute e la potenza e la gloria e 1' onore al Signore Iddio nostro. Perciocché veraci e giusti sono i  suoi giudizii; e infatti egli ha giudicato la gran meretrice che ha corrotto la terra con la sua fornicazione,  e ha vendicato il sangue dei servi suoi, dalla mano di  lei.... Alleluia! e il, fumo di essa sale nei secoli dei  secoli. Come si vede, appena pochi anni dopo l'incendio,  si tornava ai folli eccitamenti. Ed il sogno di Roma  divenuta preda alle fiamme turbò anche in seguito le  menti cristiane. In quella strana e lugubre miscela di  fantasie giudaico-cristiane, non senza qualche elemento  pagano, che é conosciuta sotto il nome di  Oracoli sil' incendio di roma e i primi cristiani billini  esso ritorna con cupa insistenza: VII, 113-114;  Vili, 37-47; XII, 32-40.  Verrà dall'alto anche su te,  superba Roma, la celeste sciagura: tu piegherai prima  la cervice, tu sarai distrutta, il fuoco ti consumerà tutta,  piegata sulle fondamenta; la tua ricchezza perirà; il tuo  suolo sarà occupato dai lupi e dalle volpi; sarai allora  tutta deserta, come se giammai fossi stata. Dove sarà  allora il tuo Palladio? Qual Dio ti salverà ? Un Dio d'oro, di pietra o di bronzo? Dove saranno allora i  decreti del tuo Senato? Dove quelli di Rea o di Crono?  E la schiatta di Giove e di tutti gli Dei che tu adoravi? Per quanto la punizione qui  sia immaginata come celeste, non è possibile non sentirvi la voce di una umana vendetta.  Quando potrò  io vedere tal giorno?  dice poco dopo il poeta.  E pure il più antico dei poeti latini cristiani, il pio  Commodiano, ha il medesimo voto {i'arm. ap.).  Dov'è più la dottrina della mansuetudine e del perdono? La disposizione d'animo dei primi cristiani era  ben altra. Il loro grido di vendetta sembra, come si  vede dagli esempii apportati, quasi echeggiare pure in  tempi più lontani.  A noi basterebbe, dice Tertulliauo {Apol. 37), se volessimo vendicarci, una sola notte e  qualche fiaccola. E poi tosto soggiunge:  Ma non  sia che con umano fuoco si vendichi la divina setta. Infine, notiamo che attribuendo a queste prime  turbe cristiane, fanatiche ed avide delle loro rivendi Non vorrei che tali parole venissero tratte da critici  benigni a peggior sentenza eh' io non tenni. Nelle parole di Tertulliano echeggia un grido di vendetta, cui tosto segue un  consiglio di moderazione, non di perdono. La vendetta, la punizione si aspetta ancora, si aspetta dal fuoco divino. Che cosa  sia questo fuoco divino, spiegano a lungo gli apologisti, ad- cazioni, l' incendio, le particolarità di esso si spiegano  tutte, che invece abbiamo mostrato inesplicabili, secondo la tradizione comune. Anzi dalle notizie che abbiamo, ci è dato discernere perfino il piano della sciagurata impresa. Anzitutto, si proiittò della lontananza  di Nerone da Roma; la vigilanza era allora diminuita;  i principali cittadini, le cui case erano sacrate al fuoco  devastatore, avevano seguito la corte imperiale. Tra i  pretoriani ed i servi di Cesare erano numerosi i cristiani (Paolo, Ai FilijJ.): si stabilì che  fossero questi ad appiccare 1' incendio e ad impedire  l'estinzione: così tutti avrebbero creduto trattarsi di  ordini imperiali e ninno avrebbe osato opporsi. Richiesti perchè scagliassero le faci, risponderebbero che  agivano per istigazione altrui, senza dir di chi (Tacesse sihi mictorem vociferahantur); tutti avrebbero interpretato che essi avevano il comando da Cesare e il  divieto di nominarlo. Tutti i portici, le passeggiate, le  opere d'arte, che avevano allietatogli czii dei potenti,  i templi ove si adoravano gì' idoli della corruzione e  della menzogna, tutti andrebbero distrutti. Il Trastevere, ove era stata primamente accolta l' idea redentrice, le case dell' umile plebe, sarebbero salve. Si  comincerebbe dai magazzini di materie infiammabili  presso il Palatino: la prima a bruciare sarebbe la  casa del mostro. Questo fu il piano attuato e riuscito.  Finito il primo incendio, si doveva riappiccare l'incendio alla casa del secondo mostro dell'impero, il ministro delle turpitudini imperiali, Tigellino. E di là  nuovamente proruppero le fiamme devastatrici.   Per questi fanatici illusi, Nerone, nel parossismo  della ferocia, escogitò incredibili tormenti. Li fé' ero- ducendo i fulmini e i vulcani (Miuucio; Tertul. Apol.):  ina la distinzione sarà stata fatta sempre, o meglio ancora,  sarà stata fatta mai dalle infime turbe ? cifiggere, o sbranare dai cani, o dannare alle fiamme.  Grli orti suoi furono illuminati da quelle fiaccole umane,  in mezzo alle grida selvagge della turba briaca e plaudente. Ma da quelle fiaccole spirò più gagliardo il soffio  della idea cristiana. D' allora in poi quella idea, inoculata nel sangue della umanità, ne resse le sorti. Tutta  la trama della storia umana si svolse intorno ad essa.  Quella idea fu gloria e bassezza, eroismo e viltà, amore  e ferocia. Per essa quanto altro sangue fu sparso, quante  altre volte le turbe furono trascinate ad impeti forsennati! Pure, una volta, tornò a risuonare tra gli uomini  la parola buona, ed aleggiò sugli spiriti l'amore, e sorrise alle genti affaticate la pietà del Francescano. Quella  volta Cristo re^nò sulla terra. Ludis quos prò aeternitate imperii susceptos appellavi Maxiinos voluìt ex utroqiie ordine et sexit plerique  ludicras partes sustinuerunt. Nntissimus eques romanus  elephanto supersedens per catadromum decucurrit. Inducta  est et Afranii togata qiiae Incendium inscribitur: concessumque ut scenici ardentis domus suppellectilem diriperentj  ac sihi haberent. Sparsa et popido missilla omnium rerum  per omnes dies; singida (/uot/die millia avium cuiusque generis^ multiplex 2)(^nus^ tesstrae frmnentarlae^ vestis, auruvi,  argentum, gemmae, mn.rgaritae. tabulae pictae mancipia,  iumenta, atque etiam maìistietae ferae; novissime naves, insulae, agri.   Hos ludos spectavit e proscenii fastigio.   Così Snetonio in Nero. In quale occasione celebra Nerone questi ludi Maximiì Suetouio in  questa parte dell' opera sua enumera disordinatamente  gli spettacoli dati da Nerone. Quello qui accennato è  stato identificato con quello di cui fa menzione Cassio  Dione, o meglio il suo compendi atore Xifilino, in LXI,  17 e 18. La somiglianza infatti è grande: i nobili romani che si prestarono a far da attori e giocatori,  1' elefante funambolo che portava sul dorso un uomo;  i doni gettati al popolo. Di più Cassio Dione rammenta le commedie e tragedie rappresentate. Chiama  la festa |j.£7'.atT| 7.7.1 TtrAnizlzozc/.rq: ma l'unione dei due  aggettivi parmi che mostri che [j.sYiatYj è una semplice  qualifica data dall' autore alla festa, non è il nome  proprio di essa, e non risponde perciò al Maximos di  Suetonio. Così pure gli altri punti di simiglianza noii  souo co^i caratteristici clie ci facciano concludere alla  identità delle due feste. Elefanti camminanti sulla fune  {per catadromum) si vedevano in tali feste (cfr. Siiet. Galb.); senatori e cavalieri lottanti nell' arena se ne  videro spesso sotto Nerone (cfr. Suet. Kero^ 12); donazioni al popolo Nerone ne fece immense, ne fece, secondo Tacito {Hist.) per più di due miliardi di  sesterzi. Se dunque le somiglianze sono grandi, non  sono tali che ci obblighino a credere all' identità tra  i giuochi rammentati nel passo di Suetonio e quelli  rammentati nel passo di Dione. Il passo di Dione parla di festività celebrate in  onore della madre. Corrispondono queste ai circensi,  rammentati da Tacito, in Ann. E possibile che  a tali circensi alluda Suetonio nelle parole immediatamente precedenti a quelle da noi riportate: circensihus  loca equitl secreta a ceteris trihuit; di essi infatti dice  Tacito che furono liaud promiscuo speciacido. Noi crediamo che il passo di Suetonio riguardi i ludi celebrati  dopo V incendio 1 e cioè, probabilmente, celebrati dopo  È pur da notare che Cassio Dione parlando  dei giuoclii detti Neronéi, li dice istituiti da Nerone per la incolumità e diuturnità del suo regno. Ma probabilmente confonde  tali giuochi con quelli prò aeternitate impern, secondocliè già  da gran tempo fu riconosciuto (Pauly, lì. Encycì. s. v. Nero). I giuochi Neronéi furono gare quinquennali di arte e  di foiza, istituite sul modello dei giuochi greci; cfr. Tac. Ann.; Suetonio, Nero.  che Roma era stata già in gran parte riedificata, per  propiziarla agli dei. Saetonio dice che Nerone volle si  chiamassero ludi maximi, e cioè, parmi, volle sostituire  al positivo magni il superlativo maxìmi. Ora i ludi  magni si celebravano in occasione di grandi [jericoli,  da cui Roma fosse salva; in occasione cioè di guerre  rischiose (Liv. 36, 2) o di tumulti (LIVIO). Si potrebbe pensare che 1' adulazione avesse suggerito tale  idea, adulazione a Nerone, che si diceva scampato  dalle trame di Agrippina. Ma i ludi, menzionati da  Suetonio, furono 2^'''^ aeternitate imperii; e mi par che  questo ci porti ben lontano dall' ipotesi che si volesse  alludere al preteso pericolo, da cui Nerone era scampato; e i ludi menzionati da Dione neppur furono per  lo scampato pericolo di Nerone, ma anzi furono in  onore della madre. Qual sarà dunque il fatto, durante  il regno di Nerone, che metta in dubbio l' esistenza  stessa dell' impero? Io credo che sia 1' incendio; e ciò  crederei pure, quando non fosse molto suggestiva  quella rappresentazione della togata di Afranio intitolata Incendinm.   Che in questi ludi solenni, destinati ad auspicare,  dopo la riedificazione di Roma, l'eternità dell'impero,  sieno stati celebrati alcuni degli spettacoli che avevano  più stupito i romani durante i giuochi circensi fatti  dopo la morte di Agri])pina, quale ad esempio quello  dell' elefante funambolo, non può, credo, far meraviglia  ad alcuno. Qualche altro indizio che andremo ora raccogliendo conferma la nostra ipotesi circa l'occasione  e lo scopo di questi ludi maxìmi. Nerone, verista in  arte, volle riprodurre sul teatro la scena deli' incendio: la casa rappresentata in mezzo alle fiamme (Suet. ardentis domiis) era probabilmente la casa sua, la domus  transitoria che era bruciata (cfr. Tac., ardente  domo). Egli volle che la scena dell' incendio fosse intera, che gli antori depredassero la casa e si tenessero la preda: ut scenici ardentis doinus stopellectilem diripeI ì^eiit ac sihi habevent; cfr. Tao. Ann. ut raptus  licentiiis exercerent.  Se il carattere stesso dei ludi maximi deve connetterli con una grande pubblica calamità, se la rappresentazione dell' Incendium è così suggestiva per noi,  ci si consenta ora di fermarci brevemente su quel che  Suetonio dice, che i ludi furono sUscepti prò aeternitate  imiperii. Nella ricostruzione, che noi tentammo, del processo, noi ponemmo che, dopo i primi confessi, arrestati in massa i Cristiani, quando s' indagò più addentro la loro dottrina, e si seppe che essi aspettavano la  fine dell'impero e l'imminente regno di Dio, la dottrina stessa dovè essere qualificata  di odio contro il  genere umano. Questa parte della propaganda era  stata certamente svolta solo nelle predicazioni segrete:  quindi il modo misterioso, e per noi incomprensibile,  con cui parla dell' Anticristo e del prossimo regno di  Dio Paolo ai Tessalonicesi, (Tess.). Fin da quando Caligola, con  sacrilega follia aveva voluto essere adorato come Dio,  era cominciato il fermento delle comunità cristiane che  vedevano nell' imperatore divinizzato l' immagine vera  dell'Anticristo, ed aspettavano quindi imminente la  fine dell' impero ed il trionfo loro. A calmare tale fermento è appunto diretta quella parte della lettera di  Paolo. E la dottrina sopravvisse pure all' eccidio; giacche ancora in Tertulliano {Apolog.; Ad Scap.)  coincidono i due termini; la fine dell'impero e l'inizio  del nuovo regno nel mondo. Se tal dottrina sentivano  spiegare da quei fanatici i Romani, è naturale che la  qualificassero dottrina di odio contro il genere umano,  e cioè contro la civiltà romana, contro l' impero romano, ' ed è pur naturale che, riedificata Roma, auspicassero l'eternità dell'impero.   Mi si consenta un' altra osservazione. Non fra le  sole turbe impazienti e insoddisfatte era 1' aspettazione  della prossima fine dell' impero. Era altresì negli alti  gradi sociali, fra i filosofi, specialmente stoici, fra gli  aristocratici di antica tempra. La congiura pisoniana  mosse anzi, secondo Tacito, da questo principio:  (Ann. XV, 50) cium scelera princlpis et tìnem adesse  imperii deligendumque qui fessis rebus succurreret inter  se aut inter amicos iaciunt. Dopo tal congiura gran parte  della città doveva essere già riedificata; ed è naturale  quindi che allora si celebrassero i ludi maximi. E poiché  i due gravi avvenimenti ultimi avevan dato la prova di  tante volontà decise ad aspettar la fine dell'impero, era  naturale pure che all' eternità dell' impero si dedicassero i ludi. Il racconto dei quali doveva quindi cadere  in una delle parti perdute di Tacito, dopo il cap. 35  del lib. XVI degli Annali. Tutto questo, si dirà, è una ricostruzione ipotetica. Ma v' è pure un documento che può dare a tale  ricostruzione non lieve conferma, documento che, ben Tac. Ann. odio Immani generis. Genus humanian  in Tacito ed in altri scrittori vfvle egli abitanti dell'impero;  cfr. Coen, Persecuz. neron. pag. 69 dell' estr. Un mio illustre  maestro, il prof. A. Ohiappelli {in Atti della R. Accademia di  Scienze Morali e Politiche di Napoli) sostiene che  odiiim humani generis debba essere interpretato per  misantropia. Che questo sia il significato della frase, quando sia  adoperato in senso filosofico, niuno nega. Ma il nostro caso è  diverso. La rinunzia ai piaceri, la vita ritirata e sdegnosa, la  misantropia insomma, o fosse cristiana, come forse per Pomponia Grecina (Ami.), o fosse stoica, come per Rubellio  Plauto {Ann.), Trasea Peto {Ann.) e tanti altri,  desta l'ammirazione di Tacito, gli commuove di reverenza il  C. Pascal. 11     che non riguardi i ludi maccimi, riguarda però cerimonie pur dedicate all' eternità dell' impero. Questo documento è un frammento degli Atti degli Arvali, che  si riferisce all'anno 66 d. Cr. [Corp. Inscr. Lat.). Vi si notano i sagrifizii stabiliti  dagli Arvaii ob detecta nefariorum Consilia, e tra gli  altri quello aeternitati ìinperii (Un. 6). Così pure alla   linea 21: reddito sacrificio, quod fratves Arvcdes   voverant oh detecta nefariorum Consilia. Quali erano questi nefariorum Consilia? Qu&Ui dei congiurati di Pisone,  giacché anch' essi, come abbiamo visto, aspettavano la  fine dell' impero; ma pure quelli degl' incendiarli; giacché il nesso tra le cerimonie dedicate all' eternità dell' impero e l' incendio è stabilita dal fatto, che durante  quelle cerimonie si rappresentò la fabula Incendium. '  Né bisogna dimenticare un altro fatto. Rimangono gli Atti degli Arvali del regno di Nerone, dall' anno 55 in poi (C. I. L.); salvo  quelli dell' anno 64, l' anno dell' incendio, e del seguente. Ora gli Atti del 66 sono i primi nei quali alla  serie di tutti gli altri voti, fatti alle altre divinità si  aggiungono quelli all' Aeternitas imiMrii.     Claudite rivos. Spero di non occuparmi più né  dell' incendio né di Nerone. Non fu forse vana questa  lizza d' ingegni, che ebbe origine, su tale speciale que   petto, non è da lui quaUficata fìagitmm, uon odium hìimoni  generis. Non si possono dunque spiegare né i fìagitia ne V odùim  con ia misantropia. Neil' un caso e nell'altro deve trattarsi,  credo io, di ben altro.   > È qui importante il notare che per Nerone sono distinti i  vota prò aeternìtate imperii dai vota prò salute principis, che sono  menzionati altrove (C. I. L. VI, parte I, pag. 493, lin. 2, 3 e 8:  Tac. Ann. XVI, 22; Suet. NerOy 46). Per Domisciano invece le cestione, dal romanzo del Sienkiewiecz; lizza nella quale  spiegarono armi poderose di critica e di dottrina uomini quali il Negri, il Coen, il Ramorino, il Chiappelli, il Semeria, il Boissier; né dovrò tacere i lavori,  cosi corretti nella forma polemica, del Mapelli, dell' Abbatescianni e del Profumo; ne quello, per più  rispetti notevole, del Ferrara. * Impulsi non nobili e  ambizioncelle presuntuosette e piccine trassero altri,  impreparati, a scritture o invereconde o insensate, ma in una questione siffatta, nella quale sembra esser  così facile l' erudizione, era naturale aspettarselo.     rimonie si congiunsero (C /. L.). Cosi pure per Settimio Severo (C /. L. II). V. De Ruggiero, Diz. epigraf.. A Domiziano dunque allude Plinio il Giovane quando  dice a Traiano {Fanegyr. 67): Nuncupare vota et prò aetei'nitate  impeni et prò salute civium, immo prò salute principum ac  pì'oj)ter illos prò aetermtate imperii solebamus. Haec prò imperio nostro in qiiae sint verba suscepta, ojjerae pretium est adnotare: si bene rem ]}ublicavi, et ex utilitate omnium  rexeris: digna vota quae semper suscìpiantur semperque solvantur. Diversa naturalnjente àdiW aeternitas imperii è V aeternitas Augusta, titolo che prima fu attribuito solo agli Augusti  morti e consacrati (Boutkowski, Dici), e poi anche agli Augusti viventi; cfr. Eckhel, Doctr.; Aeternitas imperii non si trova, ch'io sappia, prima di Nerone, anzi prima dell'anno 66. Si trova poi più  tardi, per Domiziano. Settimio Severo, sulle monete di Caracalla,  di Geta, ecc.: cfr. Eckhel. Non lavori speciali, ma riassunti o giudizii pubblicarono  il Vaglieri, il Borsari, A. Avancini, D. Avancini, il Ricci (Corrado),  Thomas, Toatain, MARTINAZZOLI (vedasi), Dufourcq, GRASSO (vedasi), FABIA (vedasi), Bouvier, Reville, Andresen, ed altri moltissimi. Molti altri articoli ed opuscoli sbocciarono qua e là in  confutazione del mio: nella maggior parte il fervore dell'intenzione non corrispose al valore. Chi ne vorrà sapere qualche  cosa, potrà leggere i miei articoli in Vox Urbis; in Cultura, e in Bollett.  Filai, class,. Ma, pur dopo, gli scritti continuarono;  e vi fu perfino chi nascondendosi sotto il nome di Vindex pubblicò un impudente volume. Fortunatamente si tratta di cosa  destituita di ogni valore; e disdice quindi alla dignità della  scienza farne parola. Coen pubblica nell’ “Atene e Roma” un lungo studio sulla persecuzione  neroniana. Crediamo opportuno informare i lettori  della parte che riguarda le obbiezioni mosse alla mia  tesi; e fare infine qualche breve osservazione circa  l'ipotesi presentata dal chiaro autore.  Che l'una o l'altra delle opinioni che io mi provai  ad avvalorare di argomenti nel mio opuscolo. L' incendio di Roma e i Cristiani e stata già addotta  da altri, è cosa rimproveratami da più d'uno. Ma, a dir vero, i lettori del mio opuscolo debbono riconoscere  che io esamino e discuto le sole fonti antiche, da ciascuna delle quali cerco trarre qualche elemento, che  mi giovi poi a ricostituire in una concezione unica il fatto storico. Il fare una rassegna, sia pur fugace, delle  opinioni e interpretazioni moderne su ciascun passo,  mi pareva lavoro arido, lungo e pressoché vano, e per  giunta, di necessità monco e incompiuto (ad es., il Coen  stesso non fa menzione dello Cliirac, che va molto al  di là dell' Havet, Rev. Socialiste).   Fondamento principale alla mia tesi io posi nella  credenza diffusa tra i cristiani del primo secolo, che  fosse imminente l'incendio del mondo decretato da  Dio, che dopo tale incendio verrebbe il regno della  giustizia, che la distruzione del mondo presente coinciderebbe con la distruzione dell' impero romano. Tutta  la letteratura apostolica mostra l'impazienza di alcune fazioni cristiane nell' aspettare il regno divino.  Se c'è ipotesi che esca alla luce fornita di tutti i numeri delia probabilità, panni proprio questa, che tale  impazienza abbia trascinato le turbe al fanatismo. Di  tutto ciò non fanno quasi parola i miei contraddittori. Xel citare le antiche scritture cristiane, nelle  quali tali dottrine sono contenute, io non ho preteso  che proprio quelle i Cristiani di Roma leggessero. Ho  addotto quei passi per dichiarare qual fosse il dogma  dei Cristiani del j^rimo secolo, dogma che sarà stato  spiegato principalmente mediante la predicazione orale,  come del lesfco il Coen stesso riconosce. Altra obbiezione mi muove il chiaro autore: onde  io sappia che, prima del 64, Nerone fosse per i Cristiani r Anticristo. La seconda di Paolo ai Tessalonicesi, egli argomenta, è scritta, secondo la data più  discreta, nel primo anno dell' impero di Nerone, o anche prima; dunque i contemporanei non potevano vedere allusione a lui nelle parole dell'Apostolo. Senonchè nel mio opuscolo io non sostengo che contro  l'imperatore coìne persona si appuntassero gli odii di  alcune fazioni cristiane; bensì come imperatore e adorato con divini onori (Tessal.). L'imperatore  rappresenta l’ordine costituito, che era per quelle  fazioni il regno di Satana; come Roma rappresentava  la forza e la potenza centrale di tal regno. Che ninno degli scrittori pagani (all' infuori di  Tacito Ann.) parli dei Cristiani come colpevoli dell'incendio, malgrado tutte le accuse volte contro di essi in seguito, io spiegai con l'ipotesi che  r accusa contro Nerone nascesse tra i Pagani stessi,  al vedere tra gì' incendiarli i servi di lui. Il Coen mi  obietta:  Non consta che l'opinione la quale faceva  Nerone autore dell' incendio sia invalsa in maniera  così definitiva da far cadere in oblìo ogni altra versione. Consta anzi, egli dice, il contrario, se cinquant' anni dopo Tacito pone ancora l'ipotesi del caso. Che r opinione prevalesse in modo definitivo, solo  dopo molti anni, credo probabile; ciò non è infirmato  dall' accenno che Tacito fa al caso. Tutta la narrazione che egli fa esclude 1' ipotesi del caso. Tacito  però 1' ha registrata, perchè, com' egli dice, 1' ha trovata in una delle sue fonti. Ma nessuna fonte poteva contenere tale versione, obietta ancora il Coen,  se fosse vera la ricostruzione eh' io faccio degli avvenimenti. Perchè nessuna f Una fonte trascurata o  non informata di tutti i particolari narrati da Tacito,^  Suetonio e Dione. — Ed ora, il numero dei primi Cristiani in Roma. Tacito, Clemente Romano e l'Apocalisse affermano che erano una gran moltitudine o numero. I primi due, si dice, hanno esagerato; quanta  all' Apocalisse si elevano dubbii di natura diversa.  Esagerato? E perchè? Perchè altra volta Tacito esagera. E sarà vero; ma qual prova v' è che abbia esagerato questa volta ì E perchè avrebbe esagerato anche  Clemente Romano? Sia lecito del resto rammentare  che Paolo (^h* Filii), dice dei cristiani di Roma:   MOLTI dei fratelli nel Signore  e concludere quindi  ancora una volta che ad infirmare 1' autorità di tali  fonti non ?;'è una sola prova di fatto.   Quanto ai Jìagitia, posso dispensarmi per ora dal  discutere i singoli passi, se l'Autore stesso dichiara: flagitium contiene ordinariamente il duplice  concetto di azione turpe e colpevole ad* un tempo y.  Non sarà dunque errata nell' uso italiano la parola  delitto. E che nei due paesi di Tacito (XV, 44) e di  Plinio (X, 96) si tratti di veri e propri delitti, io confermo per la seguente ragione: che nell'uno seguono  le parole:  colpevoli e meritevoli di ogni maggior pena,  e nell' altro i flagitia son da mettere in relazione con  gli scelera, dei quali Plinio parla dopo (v. qui appr.  App. IH).  Circa al fatebaiitur, io aspetterò dai miei contraddittori la prova, che esso, detto a proposito di uà processo, possa significare altro che la confessione di un  reato. Per ora, rimangono le prove opposte. Mi sia lecito ora fare qualche breve motto, anche sull'ultima parte dell'articolo di Coen. Questa parte tende a ricercare la ragione,  per la quale gli occhi di Nerone si appuntarono sui  Cristiani. L'indicazione gli sarebbe dunque venuta  non dagli Ebrei, ma dal popolo stesso, che vedeva i  Cristiani rifiutarsi alle cerimonie propiziatorie, e concepì su di essi il tristo sospetto. Con ciò 1' A., nella  sua cauta riserva, rinunzia ad esprimere il suo avviso  sugli autori veri dell' incendio. Lascia cioè sussistere  ancora le due ipotesi: o il caso o l'ordine di Nerone.  Io oso credere tuttora, che 1' una ipotesi e 1' altra non  resistano all'esame di tutti i particolari dell'incendio,  tramandatici dagli scrittori. Tale esame mi sono adoperato a fare nel mio opuscolo; né credo sarebbe opportuno ripeterlo qui. Mi basti solo accennare: per attribuire l'incendio o al caso o a Nerone bisognerebbe  ritener falsi tutti i fatti narratici dagli antichi: che  1' ipotesi del caso non ispiega come mai vi fossero scagliatori notturni di faci; e l'ipotesi dell'ordine nerouiano non ispiega (a tacer di altre ragioni minori)  come mai l' incendio prorompesse proprio accanto al  palazzo imperiale; e come mai, quando Nerone tornò  a Roma, e cercò arrestare il fuoco, e prese tutti i  provvedimenti atti a lenire il disastro, le fiamme di  nuovo si rinnovassero dagli orti di Tigellino, il secondo mostro dell' impero. Nuovo ordine anche questo?  Tutto si può supporre; ma si può proprio credere che si sarebbero fatte abbruciare le regioni più belle e  più nobili di Roma, lasciando intatto il lurido Trastevere, il ceutro della comunità giudaica e cristiana?  Si può proprio credere che un uomo, dopo sei giorni  d' incendio, mentre con tutte le sue forze si adopera  a dar ric^to e pane alla plebe furibonda, possa cimentarsi, in mezzo alla disperazione del popolo, a rinnovare un ordine simile? Un uomo vile, e che dinanzi  all' ira popolare fuggiva tremebondo, come Nerone?  Le due ipotesi quindi, il caso e 1' ordine di Nerone,  non possono, a mio parere, sussistere. Tacito le enuncia, ma perchè utriimque auctores prodidere; ma la narrazione stessa che egli fa, esclude 1' una ipotesi e l'altra. Egli evidentemente distingue gli esecutori matericdi  dell' incendio, da colui che poteva aver dato 1' ordine;  che i primi fossero i Cristiani non ha alcun dubbio,  giacché parla di essi come confessi; solo è in dubbio  chi fosse qiieìV auctor che essi dicevano averli incitati;  e riferisce la voce popolare che 1' auctor fosse Nerone.  E perciò appunto alla fine del cap. 44 aggiunge che  i Cristiani benché colpevoli, e meritevoli delle maggiori pene, muovevano a pietà, quasiché perissero non  pel pubblico bene, ma per la soddisfazione della crudeltà di un solo (in saevitiam unius), e cioè per averne  eseguito gli ordini crudeli, secondochè mi pare che si  debba interpretare questo passo. Ad ogni modo, l'ipotesi che il Coen oppone alla  mia, che cioè l'indicazione dei Cristiani venisse fatta  a Nerone dal popolo, sdegnato che essi si negassero di  partecipare alle cerimonie di espiazione, non urta, se  ben veggo, contro l' ipotesi mia. Per qualunque ragione  tale indicazione sia stata fatta, quel che importa è di vedere se 1' indicazione fu giusta o no. Io penso pur  sempre che l' indicazione fu fatta per il necessario riconoscimento di molti. Non è jjossibile che non fossero  riconosciuti, giacche anzi si sapeva che erano stati i  pretoriani ed i servi di Nerone. Li dovettero, ad esempio, riconoscere quegli uomini consolari, i quali, come  riferisce Suetonio, li sorpresero nei loro fondi ad appiccar l'incendio; e certamente anche molti altri. Riconosciuti, fu giuocoforza che essi confessassero, e che  quindi contro di loro s'iniziasse il processo (Tac. carrepti qui fatebantur). E logico il supporre che nel furore di repressione che invase gli animi a tale scoperta  non si badasse più che tanto; non si distinguessero i  Cristiani innocenti dai colpevoli, i calmi e pii dai fanatici e dagli esaltati; è logico, perchè è umano; e in  ogni repressione violenta avviene sempre cosi; si supponga dunque pure che, oltre al necessario riconoscimento di alcuni veri colpevoli, e alle denunzie di questi, molte indicazioni di Cristiani venissero fatte per la  ragione supposta dal Coen; che cosa proverebbe ciò  contro l' ipotesi mia?   Senonchè la congettura del Coen si fonda sopra  un presupposto, a proposito del quale pur mi tocca la  mala ventura di non trovarmi d' accordo con lui. Su  questo presupposto, cioè, che in momenti di furore, il  popolo potesse aver tanta calma da ragionare così:  gli ebrei sono nel loro diritto, di non partecipare alle  nostre funzioni; i gentili noi sono. Sarebbero stati,  credo io, ebrei e cristiani coinvolti insieme nella medesima accusa; né i Cristiani erano allora considerati  altrimenti che come fazione dei giudei.  Esce fuori dei limiti della mia ricerca la seducente  congettuì-a del Coen, sulle Banaidi menzionate da Clemente Romano, e sulla probabile relazione che è tra  il passo di Clemente {ad Cor. I, 6) e il passo di Tacito:   profittata lurio per matronas^ prhnum in Capitolio, deinde  apud proximum mare, vnde hausta aqua temphim et simulacrum deae perspersiìm est. Poiché le cerimonie qui  descritte sono, come il Coen ben nota,  singolari, mi piace richiamare a proposito di quella lustrazione apud proximum mare, alcuni versi oraziani:  Vel nos in inare proximum  Gemmas et lapides aurum et inutile,  Summi materiem mali,  Mittamus, scelerum si bene paenitet.   {Carm.).   La cerimonia apud proximum mare era adunque  rituale per espiazione di delitti? Anche Boissier ha voluto volgere al nostro argomento la sagacia del suo ingegno; e gli studiosi saran certo grati al grande scrittore ed erudito  francese dello studio pubblicato nel Journal des Savants, Dopo una esposizione sommaria della questione e della tesi da me sostenuta, il Boissier così  dice:  Assurément, tout cela n'est pas impossible: quelques insensés, quelques anarchistes se  seraient glissés parmi les premiers disciples du Maitre,  qu'il n'en faudrait pas étre trop surpris, ni en l'endre le christianisme responsable. Remarquons pourtant qua la société paienne n'avait pas encore manifeste sa baine implacable pour les chrétiens, et n'ayant  pas eu encore l'occasion de leur étre trop sevère, leur  devait étre moins odieuse. C est plus tard, quand'ils  furent poursuivis sans miséricorde qu'on rn'> s' étonnerait de trouver chez eux des fanatiques capables de tous les excés. Or, nous voyons qn'à ce moment; méme,  où ils sont si durement traités par l'autorifcè et par  le peuple, ils se vantent d'étre des sujets soumis, irreprochables, d'accepter Jes persécutions sans ré volte,  de prier pour les princes qui les envoient au supplice,  et de ne répondre que par le bien au mal qu'on leur  faisait: il serait dono assez surprenant qu'ils eussent  mis le feu à Rome lorsqa'ils avaient moins à se venger  d'elle. Se non m'inganno, questo che il Boissier ha  notato, è il corso fatale di ogni setta, è la condizione  stessa del suo vivere. Ogni setta cioè comincia per essere rivoluzionaria, e, messa allo sbaraglio delle dure  prove, delle persecuzioni, dei tentativi di soppressione  di ogni sorta, va perdendo a poco a poco il suo carattere di opposizione e d' intransigenza, cerca accomodarsi ai tempi, vivere nei suoi tempi, diventare,  come oggi si dice, legalitaria. È un processo naturale  ed umano: che meraviglia è che il vediamo riprodotta  qui nella storia del cristianesimo? Non vediamo noi  un fatto che a prima giunta può parere più straordinario ancora: che cioè quando le persecuzioni cessarono e il cristianesimo si fu affermato vittorioso, allora appunto esso cominciò più tenacemente ad abbattere  istituzioni, monumenti, templi, cui gli editti imperiali  mal giungevano a salvare da quelle furie devastatrici?  Non potrebbe qui pure il Boissier domandarsi: perchè  abbattere tutto, se ormai non avevano più da odiare  o da temere nulla, essi, i vittoriosi? li vero è che durante le repressioni violente non scattano gl'impeti  sovversivi; scattano prima, quando ogni furia sembra  ministra di giustizia contro un ordine di cose odiato;  scattano dopo, nell'irruenza dell'agognata vittoria: e  scattano nei più impulsivi e più fanatici, pur contro  i consigli di moderazione e di calma dei prudenti.   Il Boissier continua:  Tout ce qu'on peut dire c'est  que M. Pascal s'est fort habilement servi de son hj'^pothèse pour expliquer les iacidents dont il vient d'étre  question dans le récit de Suétone et de Tacite. Si l'on  crut recounaìtre, dans le gens qui jetaient sur les maisons des étoupes eiiflamraées, des serviteurs de l'empereur, c'est qu'en effet il y avait des chrétiens dans le  palais de Néron; saint Paul nous le dit, et M. Pascal  pense que ce sout ceux-là qui ont allume l'inceudie.  Les consulaires, qui avaient l'occasion de les reuconIrer souvent au Palatin, ne s'y sont pas trompés et  l'on comprend que, saisis de frayeur à leur aspect,  et croyant qu'ils agissaient par l'ordre du prince, ils  les aient laissés faire. L'hypothèse est ingénieuse, mais  ce n'est qu'uue hypothèse; pour voir si elle est d'accord avec les faits, reprenons le récit de Tacite. E  qui il Boissier si fa ad esaminare il famoso passo di  Tacito, di che è discorso nel nostro studio nella nota 27  e qui appresso in app. III. Egli riconferma la sua opinione, già altre volte espressa, sopra il gran numero  dei cristiani di Roma; ed in ciò ho la fortuna di trovarmi d' accordo con lui. Ma tal fortuna non mi tocca  per 1' interpretazione del fatehantur tacitiano. Se il  processo era d' incendio, avevo detto io, la confessione  dei cristiani non può intendersi se non per il delitto  d'incendio. E Boissier mi oppone:  La  nouvelle a dù s'en repandre partout; si elle était aussi  sùre, aussi evidente que le texte de Tacite, interprete de cette manière, semble le dire, Néron avait  tout intérét àia propager; il est impossible qu'il n'ait  pas profité avec empressement de cet aveu, qu'il travaillait à obtenir, pour se giustifier lui-méme. Quelque détesté qu'il pùt étre, il u'j' avait pas moyen  qu'on persistàt à l'accuser d'un crime dont d'autres  se reconnaissaient les auteurs. Comment se fait-il donc  que Tacite, presque au moment méme où il nous rapporte cet aveu, ait pu dire qu'on ne sait s'il faut  attribuer l'incendie au hasard ou à la malveillance? Et Suétone, si bien informe d'ordinaire, comment n'a-t-il  rien su de cette procedure, qui, pourtaiit, dufc étre rendue publique? Comment le peuple, qui perdait tout à  ce désasfcre, a-t-il été touché de pitie pcur des gens,  qui en étaient la cause et a-t-il crii qu'on les sacrifìait uniquement à la cruauté d'un homme? M. Coen  fait remarquer avec beaucoup de force qu'il est aussi  fort étrange que dans la suite, lorsqu'on poursuivait  avec tant d'acharnement les chrétiens et pour tant  de crimes imaginaires, aucune allusion n' ait été faite  à celui dont ils ne pouvaient pas se défendre puisqu'ils  l'avaient avoué. Ora a ciascuna di queste ragioni le  risposte furono da me qua e là date: e mi converrà ripeterle ora, poiché quelle ragioni, messe cosi tutte insieme in fila serrata, sembrano invitto manipolo. Nerone,  dice il Boissier, aveva il maggiore interesse a divulgare  la confessione. Certo, ed anzi appunto per questo forse  egli diede la maggiore pubblicità alle pene nefande! —  Secondo quesito:  se Tacito pone il dubbio che l'incendio fosse dovuto al caso, come può parlare di rei  confessi d'incendio?  A mia volta domanderò:  se Tacito pone il dubbio che l'incendio fosse dovuto al caso,  come può dire che vi erano coloro che impedivano ogni  tentativo d'estinzione, aggiungendo l'ipotesi che ciò  facessero per comando altrui? Gli è che Tacito non  sempre è conseguente; prende  da una fonte la ipotesi del caso, ma la sua narrazione  tutta esclude tale ipotesi. Terzo quesito: Suetonio – SVETONIO (vedasi),  sì bene informato, come non ha saputo niente di questo  processo, che pur dovette essere pubblico? O chi dice  che non abbia saputo niente? Suetonio accusa Nerone  di avere ordinato l'incendio, non di averlo appiccato:  dice che gli esecutori materiali furono i servi di Nerone; e del processo non fa menzione, forse appunto  perchè si trattava di uomini di infima condizione, che  egli supponeva esecutori di ordini imperiali. In altro luogo però pone tra le cose lodevoli del regno di Nerone i supplizii inflitti ai Cristiani. — Quarto quesito:  come il popolo, che perdeva tanto, fu mosso da pietà  per questi uomini, e credette che essi fossero immolati  alla crudeltà di un solo?  Tacito dice che il popolo fu  mosso a pietà per l'inaudita crudeltà delle pene,  òeuchè si trattasse dì uomini colpevoli, e meritevoli delle lìinggiori pene; si può esser più chiari? ed aggiunge;   come se essi fossero immolati non al bene pubblico,  ma alla crudeltà di un solo, di quel solo cioè, che,  secondo egli presume, aveva ad essi dato 1' ordine.   Erano poveri schiavi esecutori di ordini: erano  colpevoli, si, ma vittime della crudeltà di chi aveva  dato 1' ordine: questo il pensiero di Tacito. Ma come  potè spargersi la fama di quest' ordine dato da Nerone ? A me non par difficile ravvisarlo. Dice Tacito,  che durante l' incendio, gì' incendiarli interrogati rispondevano agir per ordine. Probabilmente lo stesso  risposero al processo, né discoprirono il loro tristo  consigliere. E poiché tra quelli colti in flagrante e  processati erano pure i servi di Nerone, l' ordine fu  interpretato da molti come ordine dell' imperatore. Si  potè credere che essi non volessero nominarlo per  paura di peggio, o jDerchè ne sperassero le ultime  grazie. Ad ogni modo, nato nel popolo il sospetto  della colpa di Nerone, non era possibile che si dileguasse: ne si dileguò. Ultimo quesito:  ma come  mai, dopo, furono accusati i cristiani di tutti i delitti,  ma non di questo? È facile rispondere : i pagani  stessi accusarono Nerone; la persecuzione contro i cristiani fu messa come cosa affatto indipendente dall'incendio, e come tale è già in Suetouio; chi più pensava  che il fanatismo religioso fosse stato impulso all'incendio ? Il popolo aveva ormai formato la leggenda sua:  l'ordine dato da Nerone ai propri! servi, per loro stessa  confessione : chi distingueva tra quei servi i cristiani dai non cristiani? I due fatti, incendio e persecuzione,  furono interamente disgiunti; e la leggenda di Nerone  incendiario tenne il campo incontrastato. Boissier aggiunge due considerazioni d' indole  filologica. Affinchè la frase famosa di Tacito correpti qui fatebanhir, avesse il significato eh' io  le attribuisco, egli crede che dovrebbe suonare cosi:  qui c07-repti erant confessi sunt. Ma coìtìjjìo non ha il  significato di  arrestare, bensì quello di  iniziare  il procedimento penale; cfr. nota 27 ; dunque corì-epti qui fatebantur ha precisamente il significato di: si processarono quelli che erano rei confessi, e cioè  di volta in volta che alcuno confessava, veniva sottoposto a processo. Egli aggiunge che nel significato  da me voluto, si sarebbe aspettato confiteri, non fatevi,  trattandosi di delitto, e cita Cicerone, Pro Caecina^ IX:  ita libenter confitelur ut non solum fatevi sed etiam projìtevi  videatur. Faccio osservare prima di tutto che, secondo  la ipotesi mia, i cristiani confessi non dovevano pentirsi o vergognarsi di quel che avevano fatto ; e poi,  che, quando pure le norme dello stile ciceroniano potessero valere per Tacito, questa che qui si j)one, non è  costante neppure per Cicerone: giacche Cicerone stesso  adoperava /aferi per la confessione di omicidio (Mil.). Ma, aggiunge Boissier, se Tacito avesse voluto dire    Cauer cosi sentenzia {Beri, philolog. Woch.): Tacitus sagt: Die Gestàndigen wurden  verhattet, nicht: die zuerst Verhafteten waren gestilndig. Das  Gesttlndnis ging also der Verhaftung vorheri-. Ma covrepti  non designa la cattura, bensì il processo; ed è naturale clie la  confessione fosse anteriore al processo. Bene dunque hanno  fatto il Gerber e il Greef nel loro Lexikon 2'aciteum, col sottintendere al fatebantur del nostro passo .se incendisse urbeni.    che i priini cristiani si vantavano nel confessare l'incendio, si sarebbe servito di yrofiteri. O donde mai questa regola? Si vuole un esempio di Tacito in qwì fatevi^  denota un delitto confessato e di cui il colpevole si gloria? Eccolo qui: Ann.: praecipuum auctorem  Asiaticum interficiendi C. Caesaris non extimuisse in  contiene populi Romani fateri gloriamque facinoris ulfcro petere.   Infine circa il capo di accusa contro i Cristiani,  la conclusione cui giunge Boissier è la seguente: L'expression non tam in crimine incendii  qtiam odio generis Immani coniunctì siint (cosi egli legge),  semble bien indiquer qua l'accusation d'incendie ne fut  pas abandonnée, mais que, comme ou n'esperait guère  la faire accepter du public, on la dissimula suos celle  à^odium generis immani, qu'on étendit à tout le monde.  Il che mi pare corrisponda all' opinione mia, che ho  scritto apj)Uuto:  i primi, gii esecutori materiali, confessarono e denunciarono i compagni (indicio eorum) :  allora non si volle sapere altro, si fece 1' arresto in  massa dei ci'istiani, e ninno di essi smentì la sua fede;  solo questi ultimi dichiararono non aver preso parte all'incendio, come i primi; ma era lo stesso, erano tutti  rei di queir odio umano che aveva armato le mani di  fiaccole : furono tutti condannati. Ed aggiungerò  che la pena stessa del vivicomburio è un indizio che  l'accusa d'incendio rimase; giacché tal pena è appunto quella che fino dal tempo delle XII Tavole era  comminata per gì' incendi dolosi (cfr. Ferrini, ESPOSIZIONE STORICA E DOTTRINALE DEL DIRITTO PENALE ROMANO). Osservazioni sul passo di Tacito  riguardante l'accusa contro i Cristiani. (Uallfi Rivista di Filologia). Una delle molte qne.stioni scaturite dalla trattazione di una tési, che è stata in questi ultimi tempi  in vario senso discussa, e che tuttora è oggetto di discussioni non poche, si è quella relativa al significato  della voce jlagitium. Può Jlagitiuvi equivalere a  delitto   scelleraggine,  oppur sempre si deve limitarne il significato, si che esso designi un' azione che  sia solo  ignominiosa  o  vergognosa? Affinchè  tal questione non sembri peccare di sottigliezza soverchia, e si ravvisi anzi subito qual vantaggio ridondi  dalla soluzione di essa all'intelligenza di alcuni passi,  ci si consenta richiamare qui il ricordo di quei luoghi,  dalla cui controversa interpretazione questo nostro piccolo quesito si può dire sbocciato. Tacito in Ann. chiama i Cristiani jper fiagitia invisos. Così PLINIO (vedasi) il Giovane, nella famosa lettera a Traiano sui Cristiani  di Bitinia parla, a proposito di essi, di fiagitia  cohaerentia nomini. Che cosa è dunque che si imputa ai   e. l'ancal. 12 Cristiani con la -pavola, Jlagitia? Quelli che ne vogliono  limitare il significato entro i termini più angusti, rammentano come alla mente dei pagani dovessero sembrare vergognosi i severi disdegni dei Cristiani per  tutto ciò che fosse piacere ed ambizione terrena; e  come tutto insomma il contegno loro di rinunzia e di  avversione al mondo si avesse tal taccia. Ma non pochi  scrittori e traduttori vedono in quei Jiagitia dei veri   delitti, che i pagani, a ragione o torto, attribuivano alla nascente sètta cristiana. Non istarò, per ora,  ad esaminare se sia giusto il concetto, che, agli occhi  di scrittori, quali Tacito e Plinio, potesse sembrar vergognoso il contegno austero di rinunzia e di spregio  per tutti i piaceri mondani, che si suole attribuire ai  Cristiani; scrittori i quali, anzi, pare che allora solo si  commuovano di ammirazione reverente, quando si trovino a discorrere di uomini nei quali sia invitta l'energia del carattere, non cedevole a lusinghe di ambizione  e di potenza o a blandizie ed allettamenti terreni.  Keppur domanderò, se, qualora di semplice rinunzia  al mondo si voglia parlare, trovino spiegazione le persecuzioni feroci delle quali PLINIO (vedasi) stesso si rese colpevole, condannando, senza processo, i Cristiani; e trovi  spiegazione la domanda che egli fa a Traiano, quando,  sgomento dal continuar la persecuzione, si ferma a  porre il quesito, se la sètta cristiana in sé stessa o i  Jiagitia ad essa inerenti egli debba imnire; era dunque  passibile di pena, per un Plinio, pure la rinunzia ai  mondo? Gioverà però, all' infuori di tali questioni,  trattare l'argomento nostro; ed esaminati altri esempli  ed indagato il significato di fiagìtium in essi, tornare  poi, col risultato ottenuto, al quesito onde prendemmo  le mosse.   L'opinione che il significato di Jlagitiuin debba restringersi in più angusti confini rispetto a quello di  malejìcium, scehis, e simili, trova qualche consenso negli scrittori di siuouimie. Così Schmaifed, Lateìnisclie  Syìionymik: Flagitiwn heisst eine den,  der sie ausfiihrt, e n teli rende Haudluug, Schandthat  und b) oft geradezu Schande, infamia, dedecus, e  il passo apportato a suffragare tal significazione è quello noto della Germania di Tacito, 12:   tamquam scelera estendi oporteat dum puniuutur, fiagitia abscondi, passo nel quale la parola flagltia  si riferisce alle colpe degl' ignavi et imhelles. Con lo  stesso esempio tacitiano prova lo Schultz, Sinon. latini, trad. Germano-Serafini, la sua definizione: Flagitium bruttura, è un delitto contro sé stesso, una  violazione di sé stesso, non già con azioni violente,  ma con azioni moralmente turpi e vergognose. Con  lo stesso esempio infine il Coen, La persecuzione neroniana dei Cristiani, pag. 13 dell' esbr., conferma che  '^fiagitia significhi azioni turpi piuttostochè crinunose »;  e sulla scorta anche di altri passi, determina  il suo concetto cesi:  ftagitium contiene ordinariamente  il duplice concetto di azione turile e colpevole ad un  tempo; però quello della turpitudine primeggia; e primeggia tanto che qualche volta l'altro manca. Ora in quel passo di Tacito, e in altri passi affini,  è evidente che fagitium è adoperato in significato ben  ristretto. Ma quando tal significato si vuol porre come  costante in Jlagitium, ed applicarlo in tutti i casi, a me  pare che si vada troppo oltre. Un utile riscontro può  esser dato dalla nostra parola  vergogna ». Certo se   vergogna » è adoperato da solo, in opposizione a parole di significato più grave, quali  scelleratezze o   delitti, ciascuno intenderà trattarsi, di azioni moralmente, non penalmente condannabili. Ma  una famiglia coperta di vergogna » si dirà pur quella, nella Nulla trovo nello Schmidt, Handbuch des Lat. u. Griech, Synonymik, Leipzig, quale il figlio sia ladro o la moglie adultera; e del  figlio, ad es., di un assassino si dirà che egli sente il  peso delle familiari vergogne. Gli è che tali parole  hanno duplice significato: l'uno specifico e l'altro generico; e per questo secondo significato si trovano ad  essere applicate a quelle medesime azioni, a denotare  le quali si richiederebbero nomi specifici ben più  gravi. Ne segue che a determinare di volta in volta  il significato di tali parole, occorra anzi tutto vedere  a quali fatti si accenni, dei quali sia nei singoli passi  discorso. Non altrimenti io credo sia il caso per jlagitium. Credo cioè che, quando jlagltnim sia adoperato  in senso specifico, denoti azione turpe e sol moralmente condannabile; ma che in senso più lato, e con  riferimenti a fatti concreti, possa applicarsi ad azioni  ben più gravi, a vere scelleratezze. A conferma del qual  significato, ne sia lecito apportare qualche esempio,  che io sceglierò esclusivamente da Tacito: Hist, an si ad moenia urbis Germani Gallique duxerint, avvia  patriae inferetisì horret animus tanti flagitiì imagine.  Trattandosi qui del portare le armi contro la patria,  credo non si reputerà adatta a rendere quel Jiagitium  qualche parola come  turpitudine o  bruttura; qui  si tratterà invece di vera e propria  scelleratezza o infamia o delitto; si tratta insou^ma di uno  scelìis; e scelus è infatti, immediatamente dopo, chiamata una tale azione: quis deinde t^celeris exitus, cwn  Romanae legiones se cantra derexerint) »   La medesima identità tv a Jiagitium e scelus si scorge  pure nel capitolo precedente, a proposito del giuramento fatto dai soldati romani allo straniero. Ivi infatti si legge: {Hist.)  ut, flagitium incognitum  Romani exercitus, in externa verba iurarent, pignusquò  tanti sceleris nece aut vinculis legatorum daretur ». Pure  utile al nostro intento è 1' altro passo {Ann.)   leviore flagitio legatnm ìnterficietis, qnam ab imperatore descìscitis », e 1' altro (Ann.) nel quale  il liberto Aerato, inviato nella Grecia e nell'Asia a  commettere sacrilegi nei templi, è chiamato  cuicum-queflagitioiyvomptus », e l'altro ancora (i4?in.),  nel quale si dice che Nerone imputava ad Agrippina  tutti i flagìtia di Claudio, ^a^tYm dai quali quindi non  si potrebbero logicamente escludere le uccisioni di Silano e di Statilio Tauro e delle ricche matrone e dei  molti cavalieri, procurate da Agrippina, dopo il matrimonio con Claudio. Non sarebbe difficile addurre altri  esempii: quelli addotti mi paiono per ora sufficienti a  provare questo: che fiagitium sia parola di significato  molto vario circa la gravità del fatto che con esso si  imputa; tanto vario, che da semplice azione  scandalosa » può di grado in grado discendere fino a denotare  vera e propria azione  delittuosa e  scellerata; ed  essere, come abbiamo già visto, sinonimo di scelns. Il  che tanto più deve valere, se la parola è adoperata in  senso giudiziario: scelas, peccatnm, Jlagitùcm, maleficium,  ^jrohriim, facinus si usano, dice il Ferrini, [Esposizione  storica e dottrinale del diritto penale romano P^g- 18j,  promiscuamente nelle fonti medesime, per indicare gli  stessi reati. Vuol dire che, a determinare la gravità  della colpa indicata da fiagitium, converrà esaminare  nei singoli passi a quali fatti esso alluda. E poiché  nel passo di Tacito, Ann. per fiagitia invisos »  si tratta di tali tatti, per i quali l'A. ritiene evideatemente non disdicevole ai Cristiani 1' accusa di  incendiarli, quell'accusa cioè per la quale egli dice poco  dopo i Cristiani colpevoli e meritevoli delle maggiori  pene; e poiché nel passo di PLINIO (vedasi) fiagitia  cohaerentia nomini non può esser dubbio che i fiagitia  sieno gli scelera dei quali l'A. parla poco dopo {/urta,  latrocinia ecc.), deve rimaner ferma la conclusione che  anche in questi due -pàssi fiagitia denoti vere e proprie scelleratezze o delitti. È stata oggetto di controversia la frase sitbdere  reum, che si ritrova tre volte adoperata da Tacito. I  passi sono i seguenti: Ann. metuens ne reus suhderetuv.   Ann.: mos vulgo esf quamvis falsis reum  suhdere.   Ann. abolendo rumori Nero stihdidit  reos qiios. La maggior battaglia si è veramente addensata  sul terzo passo, quello riguardante i Cristiani. Che  cosa vuol dire Tacito? Che Nerone accusò falsamente  i Cristiani? Che li sostituì a se quali colpevoli dello  incendio? O semplicemente che, per isviar la voci  pubbliche che lo accusavano, fece iniziare il processo  contro di loro? Sull'opinione di molti ha avuto certamente efficacia non poca la frase sìibdere testamentum far comparire un altro testamento e cioè, evidentemente, falso), che si ritrova in Tacito stesso,  Ann.: Ma questo verbo siibdere ha sì svariati significati, che, se dovesse valere questa ragione  analogica, si potrebbe, con pari diritto, giungere alle  più avventate conclusioni. E per limitarci a Tacito  solo, si vegga di grazia quanti sono gli usi e i significati diversi che può presentare tal verbo. Pugionem  capiti subdere in Hist. è certamente « nascondere il pugnale sotto al guanciale » ; facem subdere in  Hist. e Ann., 4 è accostar di sotto la  face » ; amphitheatro fundamenta subdere in Ann. e animalia aratro subdere in Aìdi. è sottoporre; imj)erio aliquem subdere in Ann.   è « assoggettare all' imperio » ; rumor eni subdere in  Hist. e Ann. è far circolare la  voce; subditis qui accusatorum nomina sustinerent m  Ann. è « avendo subornato alcuni a sostenere le parti di accusatori » e « subornare » è pure nel testo. Una espressione poi che si accosta molto  alla nostra è quella degli Ann. ne qìds  necessarionim iuvaret j^ericUtantem^ maiestatis crìmina suhdehantur. Qui si tratterà probabilmente dell'» imbastire  processi di maestà ». Che sia pur questo il significato  della frase subdere reos? Al passo nostro Ann. « abolendo rumori Nero subdidit reos quos tal significato non disconverrebbe. Da tutto il passo risulta  anzi che il processo contro i Cristiani fu raffazzonato  o imbastito alla peggio; tanto è vero, che non solo i  rei confessi d' incendio furono condannati, ma altresì  tutti gli altri che essi denunciarono quali aggregati  alla loro sètta, e che quindi furono convinti delVodium  humani generis. Ma v' è un altro passo cui tal significato non s' attaglia ed è Ann. I, 39, 6 « utcjue mas vìdgo  qìiamvis falsis reum .subdere ». Qui evidentemente Tacito  vuol dire che il volgo suole delle sue disavventure incolpare sempre qualcuno, anche se colpa in realtà non  esista. Saremmo dunque qui a un semplice incolpare o attribuir la colpa, ma è da notare che reus è qui  adoperato in un senso traslato, non nel senso giudiziario; negli altri due passi invece nei quali si ritrova  presso Tacito 1' espressione subdere reiim, si tratta di  vero e proprio processo, e reus ha quindi il suo significato proprio di accusato. Qual sarà dunque in questi due passi il significato della frase? A me pare che  l'uno di essi sia molto chiaro, e ci dia pur modo di  scorgere il significato di quello cosi controverso. Questo  uno è il passo Ann., che narra della uccisione  di Agrippa Postumo. Tacito dice probabile che Tiberio e Livia abbian procurato la morte di quel giovane sospetto ed odiato. Ma quando il centurione anda ad annunziare a Tiberio essere stato eseguito l'ordine, Tiberio rispose non aver nulla ordinato, e che se ne doveva rendere ragione al Senato, Allora comincia a temere Sallustio Crispo, il quale era a parte del segreto, ed aveva mandato al tribuno il biglietto con l’ordine della  uccisione. Comincia a temere che non ci andasse di  mezzo lui, che non fosse incolpato lui, semplice mandabario: mefuens ne reus subderetnr. Si tratta dunque qui  di un mandante che rimane nell' ombra, e di un mandatario, il quale agisce per ordine suo, e si compromette, e può essere incolpato lui di tutto. Il caso del  processo contro i Cristiani è identico a questo. Tacito  cioè fa capire ogni tanto che Nerone possa essere il  mandante quegli che ha dato 1' ordine (cfr. dolo jprincipis'. mssum incendium): ma non ha dubbio che i Cristiani  sieno gli esecutori^ giacché anzi li dice confessi; ^ quando  dunque dice che Nerone suhdidit reos i Cristiani, egli  vuol solo dire che li mise sotto processo; benché  egli come mandante avesse la colpa maggiore. Questo  il pensiero di Tacito: altra questione è poi se sia attendibile la notizia, oppur solo il sospetto, che l'ordine  partisse realmente da Nerone. Intanto mi preme ram-  mentare come questa frase del suhdidit reos sia stata  addotta da moltissimi come lo scoglio contro cui sa-  rebbe sempre andata a infrangersi l' interpretazione  ohe di tutto il passo Ann. XV, 44 presentai nell' opuscolo. L'incendio di Roma e i primi Cristiani ». Questi  rei erano dunque subditicii! si è detto. Sì, subditicìij a  2 Tac. Ann.: correpti qui fatehantur. Fatevi adope-  rato assolutamente a proposito di un processo può riguardare  solo la confessione di quello appunto, che forma materia di ac-  cusa. V. V ine. di Roma, nota 27, in questa ediz. Qui si tratta  di un processo d'incendio; dunque la confessione è d'incendio.  Nella lettera di Plinio X, 96 [97J l' accusa è « di esser cri-  stiani » ; e confitentes sottintende se Christianos esse. Tacito stima più colpevole chi ordina il male che chi  lo eseguisce per ordine. Cfr. An7i. XIV, 14 « et eius flagitium  est, qui jìecuniam oh delieta.... dedit » ; e poco dopo : < merces  ab eo qui iubere potest vim necessifatis affert. quello stesso modo che era subditìcius Sallustio Crispo,  che per comando di Tiberio aveva fatto uccidere Postumo! Nell'uno caso e nell'altro il maggior colpevole  per Tacito è chi ha dato l’ordine, non chi 1' eseguisce. Questo passo, non che dunque infirmi, conferma anzi tutta l' interpretazione mia; la quale fu, sempre, appunto questa: che, nella mente di Tacito, i colpevoli  di avere appiccato le fiamme fossero i Cristiani, il colpevole di averlo ordinato fosse Nerone. Riccardo Campa. Keywords: il concetto di  rivincita – rivincita -- la rivincita del paganesimo romano, filosofia romana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Campa” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Campailla: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del concetto di estassi – implicatura estasica – a room in Bloomsbury – scuola di Modica – scuola di Ragusa – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Modica). Filosofo sicliano. Filosofo italiano. Modica, Ragusa, Sicilia. Grice: “You have to love Campailla; when I philosophised on ‘be orderly,’ I was drawing from Campailla: “Order is the first – ‘ordinato discorso dell’uomo;’ Campailla flouts the maxim: he allows that a man in ecstasi, in mutual contemplation of beauty, say, may lose the order – Oddly, Campailla dedicates more than a section to, then, ‘del disordinato discorso dell’uomo,’ or men, as we’d prefer!”  Grice: “You’ve gotta love Campailla – I would have preferred he chose the Graeco-Roman mythology, but he chose “Adamo,” and he provides, in verse, all I ever philosophised on – human discourse – discorso umano – on top, he considers ‘amore’ as a ‘passione dell’anima,’ and speaks of ‘self-love’ (amore proprio) and even virility and testicles – a Renaissance man!” Nasce sotto la rupe del Castello dei Conti. C., incisione dall'Adamo (Roma-Palermo) Mostrò le sue migliori doti d'ingegno in età matura, giacché, in gioventù, per la sua gracile costituzione, il padre preferì educarlo in campagna affinché si irrobustisse all'aria aperta, piuttosto che indirizzarlo agli studi. Si trasfere a Catania per studiarvi giurisprudenza, ma l'improvvisa morte del padre, che lo lasciava erede di un discreto patrimonio, lo costrinse a ritornare nella città natale, la sua cara Modica, in cui rimase fino alla morte, senza mai muoversi da essa.  Lì, poté dedicarsi interamente agli amati studi, prevalentemente da autodidatta, coltivando con passione ed abnegazione, fra le tante discipline, l'astronomia, le lettere e la filosofia. Sempre da autodidatta, studiò Aristotele e i classici, per poi dedicarsi alla fisica, forse spinto dall'onda emotiva suscitata dal terribile sisma che distrusse Modica e tutto il Val di Noto.  Morì per un colpo apoplettico.. Il suo corpo fu sepolto sotto l'altare maggiore del duomo di San Giorgio in Modica, del quale una lapide, deposta alla sinistra dell'ingresso principale, lo ricorda.  C., filosofo e poeta Studioso di Cartesio, che vuole conciliare con la filosofia scolastica, ne applicò i principi alle sue indagini conoscitive, fatte di osservazione ed esperimenti, divenendo, insieme col filosofo trapanese Michelangelo Fardella, uno dei principali divulgatori delle teorie cartesiane in Sicilia.  Poeta raffinato, fu accademico degli Assorditi di Urbino, dei Geniali di Palermo, e della più celebre Accademia degli Arcadi di Roma; restaurò quindi l'Accademia degli Infocati nella sua città natale. Da alle stampe i primi sei canti (ispirati ai moduli letterari lucreziani) del poema filosofico, in due parti, L'Adamo, ovvero il Mondo Creato, successivamente dedicato, nella sua stesura completa (in XX canti) a Carlo VI d'Austria, Imperatore e Re di Sicilia. Il poema, che conobbe una discreta fortuna e che è stato recentemente ristampato, rappresenta una summa delle idee teologiche, cosmologiche, fisiche e filosofiche dell'autore, alla luce del cartesianesimo.  All'inizio del Settecento, la fama del C., tra l'altro in corrispondenza epistolare con importanti personalità fra i quali Ludovico Antonio Muratori (bibliotecario del Duca di Modena), si diffuse anche all'estero, toccando Lipsia, Parigi, Londra, tanto che il filosofo Berkeley volle conoscerlo personalmente e, poiché C. non si muoveva mai dalla sua città natale (come Kant), fu lo stesso Berkeley a recarsi in Sicilia a trovarlo, informandolo fra l'altro delle nuove teorie newtoniane, le quali verranno poi usate dal C. nelle sue successive opere.  Il Muratori si fece intermediario persino per una cattedra all'Padova da assegnargli, invito che venne pure da Londra, ma il suo ostinato rifiuto a viaggiare e lasciare la sua Modica (in ciò, ancora simile a Kant) lo portò a declinare tali prestigiose ed onorevoli proposte. Per lo stesso motivo, invitato ad assistere all'incoronazione a Re di Sicilia, nella Cattedrale di Palermo, del Duca Vittorio Amedeo II di Savoia, disdisse gentilmente la visita.  Pubblica, rimanendo però incompiuto, il poema sacro L'Apocalisse di San Paolo, in cui, oltre ad affrontare i temi della grazia e della virtù attiva, fornì pure una personale confutazione delle teorie di Miguel Molinos, fondatore del "Quietismo", un'eresia che aspirava all'unificazione con Dio. Infine, nello stesso periodo, iniziò a scrivere il primo volume di un'opera sistematica intitolata Opuscoli filosofici, di cui uscì solo il primo volume (in dialoghi) intitolato Considerazioni sopra la fisica di Newton, contemporaneamente alla stesura di un trattato, in due volumi, di fisica cartesiana, pubblicato postumo sotto il titolo Filosofia per principi e cavalieri.  La cura della sifilide con le botti di C. Pur non essendo medico di professione, C. riuscì tuttavia a promuovere, nella Contea di Modica, gli studi di medicina. Infatti, il suo impegno, quasi umanitario, lo portò a sperimentare le sue famose "botti" (dette poi botti del C.) per la cura non solo della sifilide (considerata, allora, il male del secolo, e ritenuta dalla Chiesa come un castigo di Dio per i peccati degli uomini), ma anche dei reumatismi e, in genere, di qualunque forma di artrosi.  La "botte", in realtà, è una stufa mercuriale con all'interno uno sgabello, sul quale il paziente veniva fatto sedere, in attesa della cura. Questa consisteva nel versare, in un braciere che si trovava pure all'interno della stufa, la relativa dose di cinabro, da cui, per sublimazione, esalavano dei vapori di mercurio, che erano poi assorbiti dal corpo del paziente in piena sudorazione. La novità introdotta dal C. consistette nell'aggiunta di incenso all'interno della botte, in una dose che consentiva, ai vapori sprigionati, di essere più "respirabili" per un certo lasso di tempo, variabile dai 10 ai 20 minuti circa, a seconda dalle condizioni soggettive del paziente.  Il contributo del Campailla consentì pure di modificare la forma della botte, rispetto alle altre già esistenti in Italia ed in Europa, le quali avevano un foro in alto da cui fuoriusciva la testa del paziente che, in tal modo, non poteva respirare i vapori di mercurio medicamentosi. Tuttavia, questi vapori, così esalati, erano curativi solamente per i sifilomi che infestavano la cute, i quali regredivano sì ma senza remissione del morbo (che solo con l'avvento della penicillina si debellerà), con i germi patogeni che continuavano ad agire e moltiplicarsi nel sangue dei soggetti infetti.  Invece, grazie all'innovazione del C., i pazienti, completamente all'interno della botte, potevano ora respirare la miscela di mercurio e incenso, la quale, agendo così in modo sottocutaneo, uccideva i germi diminuendone la carica patogena; spesso, si ottenevano delle guarigioni, a volte anche definitive, che, all'epoca, venivano considerate quasi miracolose. Infatti, un rapporto medico dell'epoca riferisce che  " [...] Dopo la cura mercuriale col metodo C., si può assistere a delle rinascite complete di individui ridotti in condizioni impressionanti di cachessia o con lesioni tali da rendersi impossibile qualsiasi intervento curativo per via percutanea o ipodermica".  I risultati furono talmente soddisfacenti che Modica acquisì notorietà in tutta Europa proprio per le botti del Campailla, ancor oggi esistenti all'interno dell'antico Ospedale di S. Maria della Pietà e visitabili all'interno di un percorso museale appositamente dedicato.  Negli anni a venire, le botti del C. furono, ma con scarsi risultati, imitate altrove, sia in Italia che all'estero: ad esempio, sorse a Palermo, per volere del prof. Mannino della locale facoltà di Medicina, un Sanatorio C. Fu  poi costruita, a Roma, una cosiddetta Botte di Modica; a Milano, ancora negli anni '50, furono costruite botti di vetro sul modello di quelle del C.; mentre, a Parigi, furono fondati istituti a imitazione del Sifilocomio C.palermitano, per la cura delle malattie reumatiche e nevralgiche.  Teatro La rappresentazione Cygnus, atto unico scritto da Nausica Zocco, prende spunto dalla vita e dalle opere di Tommaso Campailla, ed è stato portato in scena l'8 maggio  a Modica, per la regia di Tiziana Spadaro.  Note  L'esatta data di nascita è riscontrabile, come quella di morte, negli appositi registri dell'Archivio Parrocchiale della Chiesa Madre di San Giorgio in Modica.  Taluni, sulla base di nessuna fonte storica attendibile, hanno diffuso l'infondata notizia secondo cui C. stesso sia stato vittima della sifilide, contrariamente al fatto che lo studioso modicano costruì comunque le sue botti, per il trattamento di questa infezione quando aveva solo 30 anni, ma morì a 72 anni, età veneranda e considerevole, per quei tempi, in cui la vita media di un individuo di sesso maschile era di 55-58 anni, per non tener conto poi del fatto che, nel Settecento (e così, fino all'avvento degli antibiotici nel Novecento), un sifilitico aveva comunque delle bassissime aspettative di vita dopo il manifestarsi della malattia, dell'ordine di pochissimi anni. Ad ogni modo, le botti del C. raccolsero, per molti decenni, un gran numero di pareri positivi a favore di un loro benefico influsso contro il morbo. C., "L'Adamo" ovvero "Il mondo creato" poema filosofico, Volume unico, Messina, Chiaramonte e Provenzano, treccani/enciclopedia   Cfr. D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, Tipografia Lorenzo Dato, Palermo, Tratto dalla Rassegna di Clinica, Terapia e Scienze Affini, Secondio Sinesio, Vita del celebre filosofo, e poeta Signor D. C., Patrizio modicano, Siracusa, 1783; ristampa Modica. Guccione, C. ed il suo museo in Modica, Leggio et Diquattro, Ragusa, Ottaviano, Tommaso Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note Domenico D'Orsi, MILANI, Padova, Criscione, C. Un poeta e filosofo modicano, Idealprint, Modica, Guccione, C. il suo museo, la scuola medica modicana, Comune di Modica, Modica, C. e la Scuola Medica Modicana, Ed. Ingegni Cultura Modica, Modica. C., su Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di C., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Sotto il titolo “Disordinato discorso dell’uomo” sono raccolti due saggi pioneristici del filosofo modicano sul ruolo della mente nei sogni, nel delirio, nell’estasi e nella follia. L'estasi (dal greco ἔκστασις, composto di ἐκ o ἐξ + στάσις, ex-stasis,[1] «essere fuori») è uno stato psichico di sospensione ed elevazione mistica della mente, che viene percepita a volte come estraniata dal corpo: da qui la sua etimologia, a indicare un «uscire fuori di sé».  Nonostante la diversità delle religioni, culture e popoli in cui l'estasi è stata sperimentata, le descrizioni circa il modo in cui essa viene raggiunta risultano straordinariamente simili. Si afferma di provare in questi momenti una sorta di annullamento di sé, e di identificazione con Dio o con l'"Anima del mondo". Descrizione ed effetti. Manifestazioni dell'estasi nell'antichità. Il corteo dionisiaco 2.2 L'estasi oracolare 2.2.1 Figure oracolari 3 L'estasi nelle filosofie orientali 4L'estasi in Plotino 5L'estasi cristiana 6L'estasi paradisiaca in Dante 7Il Rinascimento 8L'Ottocento e il Romanticismo. Descrizione ed effetti Psichicamente è caratterizzata dalla cessazione di ogni attività da parte dell'emisfero cerebrale sinistro (noto anche come emisfero dominante o della "razionalità discorsiva"), consentendo così all'emisfero destro (quello recessivo o passivo, detto anche "emotivo") di attivarsi. È uno stato di estrema concentrazione simile per certi versi all'ipnosi, quando ad esempio la mente rimane attonita nel fissare un punto o un oggetto, dimentica di ogni altro pensiero. Generalmente produce uno stato di notevole beatitudine e benessere interiore. Manifestazioni dell'estasi nell'antichità Una simile condizione mentale era nota sin dall'antichità ed era considerata manifestazione diretta della divinità.[4]  Il corteo dionisiaco Nell'antica Grecia erano famose le menadi (o Baccanti), donne greche che partecipavano a riti non ufficiali. Si trattava di culti misterici e iniziatici che si svolgevano al di fuori delle mura della città ed erano aperti agli emarginati della società, quali appunto le donne, gli schiavi e i meteci. I protagonisti di questi culti (detti anche Misteri, connessi sia ai riti dionisiaci che a quelli orfici sorti intorno al VII secolo a.C.), presi in uno stato di trance o estasi ballavano sfrenatamente e uccidevano a mani nude degli animali. Si trattava di elementi legati all'aspetto esoterico della religione greca, che convivevano sotterraneamente con l'exoterismo della religiosità tradizionale.[6]  L'estasi oracolare L'estasi era ciò che rendeva possibili gli Oracoli, essendo vissuta come momento di tramite fra la dimensione terrena e quella ultramondana. A volte lo stato di estasi veniva raggiunto artificialmente mediante l'uso di sostanze psicotrope; la persona coinvolta era portata così a compiere gesti o azioni insoliti. Figure oracolari Figure emblematiche e famose per le loro estasi collegate al dono della profezia erano le Sibille, donne laiche che gravitavano presso un tempio di Apollo proprio per la loro capacità di connettersi col divino, che proferivano i loro responsi restando nell'ombra, non mostrandosi facilmente agli umani che le avessero consultate ed interrogate; oppure poi la Pizia vera e propria sacerdotessa di Apollo che dimorava nel famoso santuario apollineo di Delfi, la quale si mostrava ai fedeli e proferiva gli oracoli dopo appositi riti e sacrifici. La Pizia raggiungeva uno stato di estasi indotto dai vapori inebrianti che uscivano da una spaccatura del suolo, durante il quale proferiva gli oracoli. In Magna Grecia era invece famosa la Sibilla di Cuma, antica città greca situata nei Campi Flegrei. I responsi delle Sibille tuttavia erano spesso oscuri e non facilmente interpretabili, venendo compresi ora in un senso, ora in un altro.[9]  L'estasi nelle filosofie orientali Nelle religioni asiatiche, come l'induismo, il taoismo, e soprattutto il buddismo, l'estasi è il momento sacro in cui avviene l'illuminazione, ed è il pieno sviluppo delle potenzialità e delle qualità naturali presenti nell'individuo. Questo stato è anche chiamato onniscienza oppure saggezza suprema e perfetta, dal sanscrito anuttarā-samyak-saṃbodhi, comunemente detta semplicemente Bodhi, e corrisponde all'illuminazione del Buddha; è lo stato in cui la mente diventa illimitata e non più separata dal resto del mondo, il punto in cui il microcosmo della persona si fonde con il macrocosmo dell'universo. Diventa così possibile una condizione di nirvana, alla quale ci si allena sotto la guida di un maestro tramite la meditazione, cioè la concentrazione su di sé e la consapevolezza della propria energia. L'estasi in Plotino Secondo Plotino (filosofo ellenistico neoplatonico), l'estasi è il culmine delle possibilità umane, che avviene dopo aver compiuto a ritroso il processo di emanazione da Dio: essa è un'autocoscienza, ed è la meta naturale della ragione umana, la quale, desiderando ricongiungersi col Principio da cui emana, riesce a coglierlo non possedendolo, ma lasciandosene possedere. Il pensiero cioè deve rinunciare ad ogni pretesa di oggettività abbandonando il dinamismo discorsivo della razionalità, ovvero negando se stesso. Tramite un severo percorso di ascesi, che si serve del metodo della teologia negativa e della catarsi dalle passioni, la ragione riesce così a uscire dai propri limiti, superando il dualismo soggetto/oggetto e compenetrandosi con l'Uno. Quello di Plotino non è tuttavia un semplice panteismo naturalistico, poiché per lui l'estasi è essenzialmente un percorso in salita verso la trascendenza.  Il circolo nella filosofia di Plotino: dalla processione all'anima umana, e dalla contemplazione all'estasi. Essendo l'Uno non descrivibile, perché descriverlo significherebbe sdoppiarlo in un soggetto descrivente e un oggetto descritto (e quindi non sarebbe più Uno, ma due), anche l'estasi è di conseguenza uno stato psichico non descrivibile a parole, dato che l'estasi è la condizione stessa dell'Uno che si auto-contempla. Intuirla è possibile solo per via di negazione: tramite il suo contrario, prendendo coscienza di ciò che l'Uno non è, cioè del molteplice. L'Uno stesso, in quanto autocoscienza del pensiero, per intuirsi deve pertanto uscire fuori di sé, diventando molteplice. L'estasi è appunto l'atto con cui l'Uno genera il molteplice: essa è un cogliere tutt'insieme l'uno e i molti, in un circolo che dalla processione ritorna alla contemplazione. Cusano, teologo cristiano del Quattrocento, dirà in maniera simile che l'universo è l'esplicatio dell'Essere, ovvero il fuoriuscire di sé da parte di Dio.  A differenza del Cristianesimo però, secondo Plotino l'estasi non è un dono della divinità, ma una possibilità naturale dell'anima. Essa tuttavia si manifesta non per una propria volontà deliberata, ma da sé, in un momento fuori della portata del tempo. Plotino stesso raggiunse l'estasi solo tre o quattro volte nella sua esistenza. Viverla è infatti dato a pochissimi, in rari momenti della loro vita. L'estasi inoltre non serve ad uno scopo pratico; essendo contemplazione fine a se stessa, in questo mondo non c'è nulla di più inutile. È solo nell'estasi però che l'essere umano ha la rivelazione della sua condizione più vera e autentica. Per il resto la via indicata da Plotino verso la saggezza consisteva in una vita retta, oppure nella ricerca di espressioni artistiche come la musica.  L'estasi cristiana  Santa Teresa d'Avila La filosofia plotiniana diede quindi avvio a una lunga tradizione neoplatonica, che concepiva l'universo animato da un eros o tensione amorosa mirante a ricongiungersi a Dio tramite l'estasi. La teologia di Plotino fu ripresa in particolare da quella cristiana, e rivisitata però alla luce dell'aspetto personale della Trinità. L'estasi venne intesa in un senso più ampio: per il cristianesimo essa non è più soltanto una contemplazione fine a se stessa, ma è funzionale all'azione; deve tendere cioè non solo verso Dio, ma anche verso il mondo. Tale mutamento di prospettiva venne introdotto affiancando all'amore greco di tipo ascensivo, corrispondente al concetto di eros, un amore discensivo corrispondente al concetto evangelico di àgape. L'esperienza estatica cristiana consiste così in una comunione, una sorta di abbraccio col mondo e l'umanità in esso dispersa con lo scopo di alleviarne le sofferenze e ricongiungerla al Padre.  Essa avviene tramite un'illuminazione operata direttamente da Dio. Questi fuoriesce nel mondo non per un atto involontario (com'era nel plotinismo), ma perché ama le sue creature. Identificarsi con la sua estasi divina è, secondo Agostino, la meta naturale della ragione umana, la quale può riuscirci non per una deliberata volontà individuale, ma per una rivelazione da parte di Dio stesso che si rende presente alla nostra mente; l'estasi è dunque essenzialmente un dono, reso possibile per intercessione dello Spirito Santo, grazie a cui l'essere umano trascende i propri limiti e si rende strumento di Dio nel mondo.A differenza di altre religioni la persona coinvolta non perde comunque la propria individualità, pur compenetrandosi in Lui.Per i mistici medioevali, come San Bernardo, o i neoplatonici tedeschi come Meister Eckhart, l'estasi è una visione beatifica che avviene quando l'anima è rapita in Dio, e l'essere si annulla in un Pensiero senza più limiti né contenuto: Dio infatti non può essere oggettivato, perché non è oggetto, ma Soggetto. Si tratta di una comunione mistica accesa da un fuoco d'amore, un'esperienza di beatitudine suprema simile a quelle che saranno riferite in seguito anche da Santa Teresa d'Avila, figura di riferimento della Controriforma. Un'altra testimonianza sull'estasi in tal senso è quella medioevale del beato Jacopone da Todi nella lauda O iubelo de core.  L'estasi paradisiaca in Dante Nel Trecento Dante Alighieri, nel Paradiso della Divina Commedia, di fronte alla visione beatifica di Dio, negli ultimi versi della cantica prova così a descrivere l'estasi, conscio della sua ineffabilità, dell'impossibilità di riferirla a parole in maniera oggettiva:   Dante contempla l'Empireo, incisione colorata dell'originale di Doré «Qual è 'l geomètra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond' elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l'imago al cerchio e come vi s'indova;  ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne.  A l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente è mossa,  l'amor che move il sole e l'altre stelle]»  (Paradiso) Il Rinascimento Il desiderio di estasiarsi godette quindi di una notevole fortuna durante il Rinascimento. Al di là del significato religioso l'estasi assunse allora principalmente una valenza artistica o estetica. Il bello era visto sia dai filosofi rinascimentali che dagli idealisti romantici come la via privilegiata per ricongiungersi a Dio. Bruno paragonò l'estasi a un eroico furore: non un'attività pacifica che spegnesse i sensi e la memoria, ma al contrario li acuisse, simile a un impeto razionale. A una rivalutazione dell'estasi nell'Ottocento contribuirono sia la Critica del giudizio di Kant, sia l'idealismo di Fichte e Schelling. Kant vedeva nel giudizio estetico un sentimento universale di partecipazione con l'Assoluto, nel quale la ragione non è più vincolata da un'attività conoscitiva soggetta alla necessità delle relazioni causa-effetto, ma è libera nel formulare i propri legami associativi. Per Fichte l'estasi è intuizione intellettuale, l'atto immediato con cui l'Io, nel diventare autocosciente, può intuire se stesso solo in rapporto a un non-io; così nel porre se stesso l'Io pone al contempo anche il molteplice al di fuori di sé. Parimenti Schelling vedeva nell'estasi un'attività infinita con cui Dio crea il mondo. L'uomo può riviverla nell'estasi artistica, che è la manifestazione più tangibile dell'Assoluto, nel quale l'aspetto attivo e passivo, il lato conscio e quello inconscio della mente, non sono più in conflitto tra loro, ma si fondono in una sintesi armonica di comunione cosmica con la Natura. Mantegazza, Le estasi umane, Marzocco, Firenze; La Civiltà Cattolica; Legislative Reference Bureau, Roma; Enciclopedia Treccani alla voce «estasi», di Marco Margnelli e Enrico Comba, Giovetti, Dizionario del mistero; Mediterranee, Atlante illustrato della mitologia del mondo; Giunti; Bianchi, A. Motte e AA.VV., Trattato di antropologia del sacro, Jaca Book, Milano; Diana Tedoldi, L'Albero della musica: tamburo, stati altri di coscienza; Anima Srl; Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica;  Jaca, Messina, Riflessioni e verità; Edizioni del Faro; Aa.vv., Dizionario della Sapienza Orientale: Buddhismo, Induismo, Taoismo, Zen; Mediterranee; Kerouac, Il libro del risveglio, a cura di T. Pincio, Mondadori; Evola, Oriente e Occidente; Mediterranee; «La scienza è ragione discorsiva e questa è molteplicità: perciò, una volta caduta nel numero e nella molteplicità, essa perde l'Uno. È necessario dunque trascendere la scienza e non allontanarsi mai dal nostro essere unitario, ma abbandonare la scienza. Perciò si dice che Egli è ineffabile e indescivibile» (Plotino, Enneadi, VI, 9, 4, trad. di Faggin). Faggin, in La presenza divina; D'Anna editrice, Messina-Firenze; Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo; Il circolo nella filosofia di Plotino, Milano, Rizzoli; Faggin, Mazza, La liminalità come dinamica di passaggio: la rivelazione come struttura osmotico-performativa dell'"inter-esse" trinitario; Gregorian Biblical BookShop; Sulla differenza terminologica tra agape ed eros, cfr. E. Stauffer, Agapao, in G. Kittel-G. Fridrich, Grande lessico del Nuovo Testamento, vol. I, Paideia, Brescia; Bonetti, Matrimonio in Cristo è matrimonio nello Spirito, p. 63, Città Nuova; Julien Ries, Communio, p. 88, Jaca; Come una piccola goccia d'acqua che cada in una grande quantità di vino sembra diluirsi e sparire per assumere il sapore e il colore del vino; così ogni affetto umano, nei santi, deve fondersi e liquefarsi per identificarsi alla volontà divina. Come infatti Dio potrebbe essere tutto in tutto, se nell'uomo restasse qualcosa di umano? Senza dubbio, la sostanza rimane, ma sotto un'altra forma, un'altra potenza, un'altra gloria» (Bernardo di Chiaravalle, De diligendo Deo, 10, trad. di G. Faggin). ^ Santa Teresa d'Avila descrive l'estasi come un momento di "assenza" nel quale afferma di aver percepito tutto il dolore provato da Cristo durante la Passione, ma anche una così grande gioia interiore da coprire il dolore (cfr. Autobiografia). ^ Nella descrizione di Dante si tratta di quella condizione paradossale di «estasi per cui la mente esce di sé e perviene a un potenziamento di sé» (T. Di Salvo, Paradiso, Zanichelli). ^ Reinhard Brandt, Filosofia nella pittura: da Giorgione a Magritte, p. 432, Pearson Italia S.p.a.;  «Una delle qualità necessarie al sapiente, cioè a colui che intende spingere l'ascesi conoscitiva fino all'estasi e all'indiamento (farsi Dio), è un livello erocio di amore per la bellezza, un furore divino nella terminologia di Ficino» (Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, p. 238, Giunti). ^ Ubaldo Nicola, Atlante illustrato; Pozzolo, La fede tra estetica, etica ed estatica, p. 64, Gregorian Biblical BookShop, 2011. ^ S. Mati Novalis, Del poeta regno sia il mondo. Attraversamenti negli appunti filosofici, p. 81, Pendragon, Franco, Essere e senso: filosofia, religione, ermeneutica, p. 170, Guida; Cfr. anche Luigi Pareyson, Lo stupore della ragione in Schelling, in AA.VV., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano; Carlo Landini, Psicologia dell'estasi, Franco Angeli, Milano 1983 Ioan Petru Culianu, Esperienze dell'estasi dall'ellenismo al Medioevo, Laterza, Bari; Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi, ed. Mediterranee, Razzano, L'estasi del bello nella sofiologia di S. N. Bulgakov, Città Nuova, Merlin, F. Vettori, Un'estetica estatica, edizioni Cleup, Padova; Beatitudine Esperienza extracorporea Illuminazione (Buddhismo) Illuminazione (cristianesimo) Indiamento Misticismo Sofianismo Trance (psicologia) Transverberazione «estasi» Estasi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Stati di coscienza; Filosofia Portale Filosofia Psicologia Portale Psicologia Religione Portale Religione Categorie: Concetti e principi filosoficiEmozioni e sentimentiFilosofia della menteMisticaTeologia  Comie ſi genera; Nima Ragionevole, come di Anima, come sà, che, fuor del ſuo ſcorre nel Corpo Organico. St.1. Corpofieno, altre Coſe Corporee.27. Obbietti Senſibili terminan le Idee Per le Idee degli Obbietti,nel Senſo nel Senſo Comune. St. 2. Comune rappreſentatele. Corpi Striati, e loro ſtruttura, 3. Cometalora s'inganna. Fornice, e ſua teſtura; Delirio nell'Ubriachezza; Setto Lucido, e ſua fabrica. 5. Vino or fà dormire,or vegliare. 32. Corpo Calloſo, e ſua anatomia. 6. Come alle volte porta il ſonno. 33 Senſo Comune ne 'Corpi Striati. 7. Come talora induce vigilia. 34. Da quali paſſano tutti gli Spiriti Ubriaco, perche Delira. 35. Motivi, e i Senſitivi. 8. Mania, eſuo Delirio. Anima,in quanto ſente,riſiede ne’ Corpi Striati. 9. Siſpiega in particolare. 40. Fantaſia ſi eſercita nel Fornice. Io. Morficati dal Can rabbioſo, e lor Memoria riſiede nel Corpo Callofo.1.1. Delirio. 43. Imaginativa, come ſérve al Di Come prendon proprietà Canine. 44. ſcorrere.. E credono, eller Cani. 45. Facoltà Motiva,coni'è eccitata. 13. Core procede tal Trasformazione.46. lilee Senſibili,coine ſi formano,e 's' Delirio Febrile, ò Frene fiu. 48. imprimono nel Cerebro. 14. Come faffi. 49. Spiriti Animali, fimilialla Luce.15. Come ſi dà Febre ſenza Delirio, e Paragone fra queſta, e quelli. 16. Delirio ſenza Febre. Spiriti Animali, comeformano le Cerebro deſtinato agli uficj Anima Idee. 17. li, e il Cerebello à i Vitali. FI. Idee non ſono, che una pittura, in Anatomia del Cerebello. protata nelle pieghe del Cerebro.19. Nervi, che naſcono dalCerebello. 53. Sterienza. · 20. La Mente non bà dominio ſul Cea Idee, come laſciano la loro inpronta rebello. 54. nuel Corpo Calloſo. 22. Comunicazioni fra il Cerebro, e il inima, come ſi rigorda. 24. Cerebello ſcambievoli. 55. Guajti gli organi del Diſcorrere, Impreſſioni del Cerebro,come ſi par iguafla il Diſcorſo Umano. 26. tecipano al Cerebello, e quelle 50. 52. del 227 84. del Cerebello al Cerebro. 58. Come ſi genera. 79. Agitazione Febrile, cagionata al Delirio dellº Incubo, come ſi forma.81. Cerebello, partecipanıloj al Ce Maliæconia Ipocondriaca. rebro, induce il Delirio. 59. SueCagioniantecedenti. 85. Non comunicandoſi, no’l produce.62. Suoi triſti effetti. 86. Delirio de ' Sognanti. 63. Come induce ilDelirj. 89. Sonno, come ſi fa. 64. Per gli efluvj degli Umori, corrotti Cbefia 68. nelle Viſcere, 90. Sogni, come ſi formano. 69. | Rimedj, che riducono allo ſtato di Sogni, perchè ſi formano,à miſura Sanità gli Organi, guariſcono, degli Appetiti, e delle Paffioni dal Delirio. 91. attuali, 74. Diſcorſo depravato per erroriLoa Incubo. 77. gici, e ſuoi rimedja IXIETAS2140S147 Μ Α Ν Ω. ARGOMENTO. 27482 A82FATIRAF ETAFARAYAX 2X1% XKAYARANJE D E l'ordinato pria Diſcorſo Umano Dichiara la Meccanica ragione il dotto Serafin, poi de l’ Inſano Le falſe Idee, l Opere prave eſpone: Qual ne i Senni, anche Savj, il ſogno vana Le incongrue fantaſie finge, e compone; Qual la Ragion prevarica, e travia L ' Ipocondriaca, à l' Uom, Malinconia. STATE 1 sãto, 2.Su queſte Midollar due fondamenta Del Corpo inilerabile, c mortale La propria mole anteriore appoggia Compreſo lò dal tuo dir, cô doglia,e pianto, Il Fornice, che il Cerebro ſoftenta, Lo ſtato lagrimevole, e fatale, Ed in Corpo Calloſo ad alto poggia. Seguì à parlar, per conſolarmialquanto, Sul Midollo allungato ei, dietro, afſenta De l'Anima si nobile, c Immortale; Due pic poſterior, di Volta in foggia: Coin'ella, in queſta fua Corporca mole, Del Palagio cosi de l'Alma intero Intende, idea, membra, diſcorre, e vuole. L'uno, e l'altro loftien doppio Emisfero. 5 E il Serafin: Dopo che invia l'Obbietto Mà del Fornice al tetto interiore, Il Carattere fuo nel Sento eſterno, Qual Zona, un Setto lucido li appende; Per il canal de Nervi, ei và diretto Che, in mezo, da la parte anteriore, Sè ad improntar nel comun Senfo interno. A la poſterior, curvo, diſcende. Queſto è il luogo del Cerebro, ch'eletto A i lati fuoi, con ſempre ugual tcnore E de moti ſenſibili al governo. Di quà, di là ſerie di ſtrie, ſi ſtende, Qual van le linee al centro, in lui convienli, Che tutte in lui riguardano egualmente, Ch’entrin tutte le Idee de gli altri Senſi. Il qual, di Vetro in guiſa, è traſparente. 3. 6. Pria,che il Cervello i ſuoi due faſci accoppi L'ampio Corpo Calloſo è ſovrapoſto In Midollo allungato, e poi Spinale, Al Fornice, e sù quel li ammaſſa, e annette, Da quai ſpuntano pofcia, ad ordin doppi E con ordin mirabile è compoſto Tutti i Nervi del Senſo univerſale, D'inteſti filamenti à retinette, Di Cannei Midollar compon due groppi, Di cui l'immenſo numero diſpoſto Conici, e curvi, in forma lunga ovale In fuperficie vien piane perfette, Che, perchè ſono à lunghe ſtrie ſolcati, Molli così, che ammettono, à l'azzione ' i detti laran Corpi ftriati. De gli Spirti, ogni minima impreffione. Entro de i Midollar Corpi Striati, E de gli eſterni Obbietti lor là dove La reſidenza il Comun Senſo ottiene, Hà la Malizia, d la Bontà compreſa, C'hà de le proprie Glandole irrigati I principj de i Nervi apre, e vi piove Le cavità, di Spiriti ripiene, Copia di Spirti, ove ella vuole, inteſa: Atti ad eſſere impreſli, e conformati I Muſcoli ritira, e i membri move In ogni Idea,che a lor da i Senſi viene, Al'ampleſſo, à la fuga, à la difeſa; Azili, e fnelli, à figlirarſi eſpoſti E quando poi di quei reſta ſicura D'infiniti, in cui fian, modi, diſpoſti. Più Spiriti non manda, e i Nervi ottura 14. I Nervi in lor degli Organi Senſori Spiegami meglio (aggiūge Adam )traslata, Tutti invian de gli Spiriti i refulli: Come i'ldea nel Comun Senſo ha forma: E quei, da lor, de gli Orgeni Motori Come dal Settolucido paſſata, Spontanei tutti han degli Spirti i fluſſi: Entro il Corpo Calloſo imprime l'orma: Cid, che vien dentro ammeſio, ch'eſce fuori E come poi, che in quel reſta improntata, Di Senſitivi, o di Motivi in Auſli, Entro la Fantafia la Copia forma, Del Cerebro, ove l'Alma à regnar ſtarfi, Simile a quella Idea, che pria l'affiſſe: Per queſta regia Via, convien, che palli Cosi ei richiede: E così Quei gli diffe 9. 15. In queſti l'Alma Umana, in quanto ſente, Benchè vario fra loro il naſcimento Corpi Striati aſſiſte, e ognor riſiede: Han la Luce, e gli Spiriti Aninali: Quilegata, à gli Spirti intimamente, Che quella dal ſottil Primo Elemento, La sè, incorporea, à i Corpi aggir concede: Queſti portan dal Terzo i lor natali, Qui l'occhio Spirital ſempr’hàprefente: Ne la velocità, nel movimento, Qui tocca, guſta, odora, afcolta, e vede: Nel Terbar riflettendo angoli eguali Qul le potenze Senſitive hà immote, De l'incidenza à l'angolo, ſembianti Qui non ſentir ciò, che s'idea,non puote. Fra lor ſon inolto, c in eſſere rifranti. 16. La Fantaſia, del Fornice nel Setto Tra gli ſpazi de GloboliCeleſti Lucido, fuole eſercitarli, cui Ruota in centro la Luce, à vorticetti: Come pervio, e diafano perfetto Girano in centro ancor mobili queſti Per ogni parte han via gli Spirti ſui, Sottilmente formatl in Globoletti: Qui le Idee rappreſentano l'aſpetto, Son de la Luce i Corpi agili, e preſti, Che dal Senſo Comun paſſano in lui: Atti à modificarli in vari aſpetti; Le mira in queſto Specchio, e le contempla Queſti da Corpi,onde ſon mai rifelli, L'Alma, e in sè Spirital l'Idee n'eſempla. Tornano poi modificati anch'eſſi. 17. La Idea, dal Setto lucido, leggiera Quale il Lume de i Corpi, onde riflette Entro il Corpo Calloſo alfin trapaſſa, Ovunque dirizzarſi abbia permeſſo, E ne le tele ſue l'Iminago intera, Di quei le colorate Immagginette Imprime, e il ſuo Carattere vi laffa. Modificate al par porta in sè ſteſſo: S'impronta in lor, come Sugello in cera, Ne gli ſpirti de l'Ottiche fibrette Nè per tempo sì facile fi caffa. Quelle dipinge, entro de l'Occhio ammeſlo: Altre Idee in altre fibre impreffe poi Laſciando in quegli Spiriti i modelli Serbano à la Memoria i teſor fuoi. Che ne la fuperficie ebb’ei di quelli. 12. 18. Se diſcorrer talor la Mente hà brame Tal gli Spirti Senſor modificati Sù quelle Idee, che il Comun Senſo invia Da gli obbietti, onde füro indietro ſpinti; Uop'è, che le trafcorſe Idee richiame Nel Comun Senſo portano traslati, Dala Mémoria à la fua Fantaſia. Quegl'Idoletti Mobili diſtinti, Ponle nel Setto lucido ad elame, Che nela Fantafia rapprefentati, Le rigette, o le approva, odia, ò defia, Ne la Memoria alfin reftan dipinti, A miſura, che trae da loro effenze Con quello ſteſſo colorato aſpetto, Utili, a infaufte à sè le conſeguenze. Che in ſuperficie å vea l'efferno Obbietto. L'Adamo del CampaiHas Mmm L'ldos ro. IL DISCORSO UMANO. L'idea, che ne le fibre interiori In queſta forma, Adam, l'Umana Mente; Del Caitofo Midol poi fi figura, Mêtre informa il ſuo Corpo,e leſuc Membra) Per mezo de'caratteri impreſſori Da i fantaſmi di quello è dipendente: Non è, ch'una verilima pittura, Con queſti ſente, immagina, e rimembra: Per via dipinca in lor, non di colori, Mà in sè diſcorre, e vuol liberardente, Mà per mutazion de la teſtura, E ciò clegge, che buon, che bel le ſembra: Chenegli Spiīti !!! tal rifleſſo induce, Pur, de gli Enti Corporei, uop'e, che penſi, Quale iColor riñettono la Luce. Per via d'Idee material di Senſi. 26. Non ſono i Color tutti altro in sè ſterfi, Mà perd, che del Corpo i Morbi fono Che ſuperficie, tal.configurata, Per l'intima union, Morbi de l'Alma, Sù cui rifranti i raggi, e infiem rifleſſi, Perdendo il Corpo il natural ſuo tuono, Han si la rifleſſion modificata, Se inferma è mai la fua Corporea Calma, Che imprimono ne l'Occhio i color Ateli. La Mente, che nel Cerebro ha il ſuo trono Con cui la ſuperficie è colorata: Tra gli Spirti animai non reſta in calma; Cosi Criſtal diafano hà coſtume Perchè di lor difregolato il corſo, Sol culorir per Refrazzione, il Lume. La perturbata Idea turba il Diſcorſo. 21. 27., Si diffé il Serafino, e tenue Stile Che ſien fuori de l'Anima in Natura Che di piun colore affatto intinſe, Corpi reali, e fisici, eſiſtenti, Sù quella, che il veſtia, tela ſottile La Mente entro il ſuo carcere procura Scolpi la fuperficie, e la dipinfe, Da i canvelli ſcoprir de'Sentimenti, E à colorata Immagine fimile, Sol per mezo de'Senſi ella è ſicura, Immago in lei, fenza color, diſinfc, Che fieno quelli al Corpo ſuo preſenti. Che in quel fcolpito Lin con par tenora Nel Comun Senfo, à l'obbiettiva effenza, Il Lume riticttea, qual fa il Colore. De le coſe attual så l'Efiſtenza. 28. Cosi (poi fegue à dir ) la ſola azzione. Sc al Comun Senſo fuo fi rappreſenta De lo Spirto animal rr odifica to, Idea, che altronde ella avvenir ti avvcda, Få nel Corpo calloſo impreſione, L'Obbietto, far non può, che allor non ſenta, Con renderlo, in riflettervi', improntato. E ſentirlo non può, che non lo creda. Tanto, ver'fua natia coſtituzione, Così à l'Occhio ſe alcun ti ſi preſenta, E' quel Midollo tenero formato Tu già mai far potrai, che non lo veda: A''Idea Spiritofa in lei rifleffa Così se ne lo Specchio Immigo eſpreſſa, Ccde la superficie, e reſta impreſa. Noncrederla non puoi da Obbietto impreſa.?? 29. De l'Occhio in modo tal sù la Retina, Or qualvolta à la Mente Idea ſi porta Che ancor 'efla Soſtanza è Midollare, Entro il Senſo Comun per altra via, Se talun filo 1 riguardar ſi oſtina Che per la regia, ed ordinata porta, Illuminofo in Ciel Corpo Solarc, Onde al Senſo Comun l'Idea s'invia, Per molto tempo,ancor, che il guardo inchina, Mà lo Spirto retrograda la porta Del Sol P'linmago lucida gli appare; Da la Memoria, • da la Fantasia, Elabbagliato acume ovunque gira, Per la ſtrada de'Senfi allor la crede Quell'infocato lampo ognor rimira. Da Obbietto eſterno impreſa, e le dà fede. 24. 30. Mà fe di ricordarti unqua defia E Fede tal, che giudica, e diſcorre, La Mente poi di un traſandato Obbietto, Qual ſe agiffe, nel senſo eſterno Obbietto; Al Calloſo Midot, placido, invia E a miſura ingannata amalo, dabborre, Di Spiriti animali un rivoletto, Cheprova in sè ſvegliar gioja, è diſpetto; Che in quell'Idea incontrandoſi per via, Agita i membri, e à un operar traſcorre Torna modificato in Idoletto: Corriſpondente à l'eccitato affetto: Dal Tipo Midollar la forina prende, Depravato cosi delira infano E de l'antica Idea (imil ſi rende. Per morboſa cagion Diſcorſo Umano. A turbar giunge un Senno, anche prudente, Per fimile cagion, ſe non la ſteſſa, De l'afforbito Vin le copia enorme: Mania provien, d'onde Ebrietà provenne Che l'eſaltato Spirito la Mente, Perchè la delirante Ebrezza eſpreſſa Or forza à delirar con vane forme, Di breve tempo è una Mania ſolenne, Or gli Spirti gli ottenebra talmente, E la Mania, nel Senno Umano impreffa, Che n'è ſopito ogni fuo Senſo, e dorme. Di lungo tempo è un'Ebrietà perenne, In diverſi Soggetti hà varj eventi, Furiola Mania, cui fon ſoggetti Ch'or furiofi rende, or fonnolenti. Gli acuti più talor favj Intelletti. 38. Il come ad indagar, contrari, vate, Il Sangue de Maniàci è con ecceffo Effetti à partorir ne gli Ebri il Vino, Tal di Sulfurei ſpiriti impregnato Rifletci, che nel latice vitale Che col reſpir per i Polmoni in eſſo Del Sangue è un doppio fpirito falino: Il Nitro aereo ſpirto infinuato, L'un,che diſciolto entro il fuo Siero è un Sale Spira nel vicendevole congreſſo Urinoſo volatile Alcalino: Indomitaura, ed alito sfrenato, L'altro dentro del Sangue infinuato, Ch'eſalta in movimenti univerfali Con l'Aria, e i Cibi, è un fpirito Nitrato, Pria gli Spirti vitai, poi gli animali, 334 39. In quei,che la purpurea,in copie,han piena, Che concorrendo ai Cerebro, accreſciuta Mafia Sanguigna, di Alcali urinofo, Di moto, e quantità, rapiſcon tutti Lo ſpirito delVin ſi meſce appena, Gl’Idoletti Ideal, che contenuti Che genera un coagolo vifcolo. Trovan nel Setto lucido, e ridutti, La Linfa ingroffa, e i vitai Spirti affrena, O fien da la Memoria, ivi venuti, E concilia un ſonnifero ripoſo. O ne la ſteſſa Fantaſia coftrutti, Tal Miſto, fi condenfa in gelatina, E invianli al Comun Senſo, e de la Mente Lo ſpirito di Vino à quel di Urina, Ingannano colà l'occhio preſente. 34. 40. Mà in quell'Uomo,in cui trovafi eccedente Qui dice Adam: D'un operar al ſcempio Il Sal Nitroſo entro il Sanguigno Umore, De PUman miſerabile Intelletto Mifta appena del Vino è l'Acquardente, Tal che può farlo e furiofo, ed empio, Che à gli Spirti vitai creſce il fervore, Di prudente, che ſia, ſano Soggetto, Spirando un'aura Elaſtica potente, Deh dona à me, mio Precettor, l'eſempio Che gli Spirti animai move à furore. Per farne più diſtinto alcun concetto, Tai lpiran, mitti, un'alito focolo Cosi lo prega, e il Serafin verace Del Viu la Ipirto., e l'Acido Nitroſo, Il di lui bel deſio cosi compiace. Quindi de gii Ebri à i Midollar cannelli Il Sangue del Maniaco un tal fervore Lo Spirito con impeto s'invia: Nel ſuo Corpo talor riſveglia, e crea, Seco il caratter trae, che ne ſuggelli, Che il capo punge, o il petto, e di un dolore Trova de la Memoria, e il porta via, Intenſo à lui fà lovvenir l'Idea, L'aſporta feco al Comun Senſo, e quelli, Quando di un ſuo Nemico oftil furore Che trova, anco tener la Fantafia, Ferillo, e tutto il fatto allor s'idea: Ne i Corpi introducendoli Striati, Poi da la Fantaſia per falla porta Per retrograda frada ivi traşlati. Al fuo Senſo Comun l'Idea fi afporta. 42. Quella Idea crede allor l'Umana Mente E da la vaua Idea l’Alma ingannata, Introdotta per via di eſterni Senfi Che rappreſenta il ſuo fucceſſo antico, Da Obbietto, che fia à l'Organo preſente, Stima ver ciò, che vede, e che aſsaltata Che quei moti Sengbili difpenfi. Sia, già preſente à lui., dal ſuo Nemico. Onde ingannata, avvien, che follemente Si accinge a la difeſa, ed opra irata De la ſtesſa maniera operi, e penſi, Cotr'Uoin, che gli ſi incotra,ancor che amico, Comc fe quell'Obbietto aveffe avante, Che, preoccupata da l'Idea mentita, Di qui la vana Idea forta il ſembiante, Nemico il crede, e contro lyi s'irrita. Mà mirabil vieppiù, più portentoſo Che da quei Solfi indomiti inveſtiti Loſtravoito penſiero è del Diſcorſo Di periferia al centro in mille forme, Di chi dal dente mai del Can rabbioſo Syolgon de Simulacri, ivi ſcolpiti, Prova in un di fue meinbra il fero morſo, L'Idee de la Memoria, à varie torme; Che infetto già dal ſuo velen bavoſo, E ne la Fantaſia poi male uniti E dopo ancor, che lungo tempo è ſcorſo, Soa gi'iacaagruiFantaſmi in ſtuol deforme: Fra mille altri ſintomi alfin riinane, Alfio nel Comua Senſo entran ſovente, Col creder sè già trasformato in Cane. Adingannare, à ſpaventar la Mente. 44. 50. Nè ſolo al par del Canc addenta, e morde, Febricitando il Sangue, uopè, che fpici E ſimile anche al Cane ei latrar s'ode Del Cerebro più Spirti à le latebre: Ma con fame Canina, e voglie ingorde Delicando gli Spirti, uop'è, che giri Prono diyora į cibi, e l'olla rode; Il Sangue in pollazion celeri, e crebre: E con oprar col ſuo penſier concorde Or come Febre è mai lenza Deliri? Le qualità Caninç affettar gode; Come delirj fon mai fenza Febre? Lungi chi vien sà preſentir, dotato Adamo al Serafin cosi propoſe: Di acuto, e ſottiliffimo Odorato. E si ad Adamo il Serafin riſpoſę. 45. Premetto, per ſpiegar, d'onde contratto Per dichiarar Fenoineno si bello, Concetto Uom poſſa aver cotanto ſtrano, Che interamente jo ſviluprar prometto, Che allor, che vien de l'unione à l'atto Dopo gli uſi, che detti hò del Cervello, Il corpo fral con l'Animo ſovrano, Deggio gli uſi anche dir del Cervelletto: Gl'imprime de'luoi Spiriti il contatto Cheagli uficj Animali eletto è quello, L'ldea di eſſer congiunto à Corpo Umano, A gli uli Naturali è queſto eletto: La qual conſiſte in ’ n Caratter tale, Må pria di eſaminar la ſua Natura. Ch'ngli Spirit, Umani è fpeciale, Sentine l'anatomica Struttura. Del rabbioſo Velen taptu inaligna Nel Cranio è, dietro il Cerebro, ripoſto Hà corrottiya attività la Forma, Il picciolo Cervello, e ſegregato, Che gli Spiro animali, ov'egli alligna, In forina quaſi sferica diſpoſto, Ajo: o à poco in sè inuta, e trusforına, E da le due Meningi andò ammantato: In rio Venen l'Aura animal traligna, Di Cannellini hà il ſuo Midol compoko i E di Canin Carattere s'inforina: E il cortice di Glandole am maffato, Cool ne le Materie, oy'i gli ha loco, In cui con Meccaniſmi, al grande eguali, Muta, e trasforma il tutto in foco il Foco. Si prepurun gliSpiriti aniinali. 47. S3 Sentendo aggir quell'Anima infelice Dal Cervelletto fol naſcon produtti Impreſſion di Spiriti Cunini, Quei Nervei tronchi, e quei lor rami varj; La di cui f.colta immaginatrice Che daii gli Spirti à i Muſcoli, coſtrutti Hà depravuti affatto i retti fini, Al miniſter de’moti involontarj. Tradita ancor da quei Fantalmi, elice Da lui movong i Vaſi, e gli Umor tutti, Da ſe Brutali affetti, atti Ferini, Ch'a l'uficio vital ſon neceffari, Adam, nel tuo fullir quanto hai perduto ! Cor, Vene, Arterie, Glandole, Fermenti, Sei ſoggetto ad un Mal,che di Vom fà Bruto. Polmon, Linfa; Inteſtin, Chilo, Alimenti. 48. 54. Dal già detto finor molto evidente Giuridizion ſul Cerebel la Mente Argomentar fi può, come fi dia Punto non tien, nè i ſuoi eſercizi hà noti, Il Diſcorſo de l'Uomo incoerente Non sà, chiuſa entro il Cerebro, nè fente, Nel Delirio Febril, ch'è Freneſia: Come il Chil ſi amminiſtri, e il Sangue ruoti. Che allor, che bolle il Sangue in Febre ardête, Di quel, che dal Cervello è indipendente, S fulfurea falina hà diſcraſia, Fermar non puote, è regolarne i moti. Gi Spiriti nel Cerebro avanzati, Aſſoluti, e diftinti i lor Governi In copia, c mobiltà fon gencrati. Commercio hap fol per ſei Proceſſi alternt. Manda Manda al Cervello il Cervelletto pria E per la via retrograda, ch'è dietro, Doppia Protuberanza orbicolare, Paffa nel Setto lucido il torrente: Più baſſo due proceſſi indi gl'invia Quelle Idee, che vi trova ei ſpinge addietro Per la Protuberanza altra anulare, Verſo i Corpi Striati obliquamente; Due altri alfine imprendono la via E al corſo natural turbando il metro, Da ſuoi due Gambi al Calcc midollare L'offre per falfa porta ivi à Ja Mente E di Spiriti alterni han participi. Che venute credendole da i Senli, De’Nervi il pajo ottavov'hà principja. Vopè, che follemente operi, e penſi. 56. 62. Per l'uno, e l'altro orbicolar Ricetto Se però nel ſol Cerebro è riſtretto Son gli Spirci animai partecipati De'Spirti il moto, e de'fantafmi erranti, Da gli Striati Corpi al Cervelletto, E à trapaſſar non và nel Cervelletto, E daqueſto anco à i Corpi fuoi Striatia Senza febricitar fà deliranti: Per le altre quattro vie con corſo retto Perchè fol ne ſuoi Spiriti è il ſoggetto, Vengono, e ven gli Spiriti mandati, Che fà le Arterie, e il Cor febricitanti; Pe'l calce midollare, ove inſeriſce E quello Spirto, onde il ſuo moto prende Le ſue due braccia il Fornice, e li uniſcea L'Arteria, e il Cor, dal Cerebel diſcende a 57. 63. Sol queſte ſon le occulte vie, per cui Maggior ſoggiunſe Adam ) inêtre a dormea Ciò, che ſuccede in lor di ben, di male, Stupore, è il Delirar di fan penſiero, Mandanſi internamente infra lor dui Che di vani fantaſmi, e incongrue forme Il vital Miniſtero, e l'animale, Ad un ſtuol dona fe si menzogniero, La Potenza animal gli affetti ſui I qual, non ſolo al Ver non è conforme I moti fuoi la Facoltà vitale, Mà par, ch'è falſo, e credefi per vero: Secondo, in Pro comune, à lor conviene, In modo tal, che un Senno, anche prudente, Opporſi al Mele, o farfi incontro al Bene. Di creder gl'impoſſibili conſente. 58. 64; E quinci avvien, che al ſol penſier ſovente Come inganni la Mente à dichiararti Nel Cerebro, o di Gioja, d di Timore, De i Sogni l'incredibile Bugia, Moffo è il Polmone, e il Cor placidamente (Replica Raffael) d'uopo è ſpiegarti, Soſpira il Petto, e batte fpeſſo il Core. Come il Sonno produceſi, e che ſia: Quete, è ſvolte le Viſcere, hà la Mente Mà pienamente, Adam, rammemorarti L'idea de la Salute, ò del Malore: La teſtura del Cerebro dei pria: Intelligenza, e auſiliario impegno Che la foſtanza ſua, teſfuta á velli Paſſa così tra le Provincie, e'l Regno. Di cavi coſta, e sferici Cannelli. 59. 65. Or mentre la febrilc agitazione Che à i lati de'ſuoi concavi Canali Nel Sangue, e ne le.Viſcere ſi avanza, Triangolar fon gl'interſtizj inteſti: Gli efAlvj.al Cervelletto, e la mozione Che in quei ſcorron gli Spiriti animali, Mandar per via de Nervi hà ben poſſariza: E che diſcorre ilSugo nerveo in queſti, Quefto annuncia al Cervel la impreſſione Fatti gli uni di Spiriti vitali, Per doppia orbicolar Protuberanza, L'altro di Umor linfatici digefti: Entro i Corpi Striati, onde la Mente Che ſtan fra lor, quei di elater dotati, Di quel calor febril l'affanno ſente. Queſto di fode fibre, equilibrati. 60. 66. Mà ſe gli effuvi, ei moti ſuoi ſon tali, Mentre gli Spirti à tal ſon rarefatti Che al Cerebel traſceudono le ſponde, Che tengan quei cannelli intumiditi, Nel Cerebro i ſuoi Spiriti animali O'quefti cosi reſtino diſtratti Per l'anular Protuberanza infonde: Da ariditi, ò durezza irrigiditi, Poi da i poſterior recti canali O'il nervco Umor pien di fali acri, ed atti Del calce Midollare alfin trasfonde, Le fibre à ſtimolar, gli Spirti irriti, Del Fornice gli Spirti à le due braccia Sta tempre aperto il Cerebro, e produce E in quel gli eſtranj effuvj infinua, e caccia. Spirti continui, e la Vigilia induce. L'Adamo del Campailla. Nina Per poco influſſo, ò per diſpendj immenfi, Nel tempo del Dormire al Cervelletto Se al minorar fi vien lo Spirto in effi, Copia inaggior di Spirti il Sangue infonde O’i ſuoi interſtiz; il nervco Umor più eféli Che oſtrutto allora il Cerebro, e riſtretco, i; Tien, con più copia, e i cannellin compreffi, Quei,che nõ manda à queſto, à quel trasfondo Queſti già reli vuoti, e non più tenſi Maggior moto pertanto, e più perfetto Chiudonfi, molli, e calcano in sè ſteſſi. Del Torace han le viſcere profonde, Continuar nel Cerebro non porno E quelle de l'Addome, allor, che appieno Gli ſpiriti l'influſſo: e faffi il Sonno. Immerfo è il Corpo Uman del Sonno in feno. 68. 74. Il Sonno è un feriar di Senſi, e Moti, Mà perchè (dice Adam ) ſpelo, à miſura Mà Senli eſterni, e Moti volontarj. Di noſtra Paſſion ſi formi il Sogno? Gli Spirti del Cervel ſtan quafi immoti, Perchè m'idea, dormendo, e mi figura Chiuſe le vie de Senſitivi Affari: Quell'Obbietto,che temo,ò quel,che agogno? Solo i ſuoi membri proſſimi, e i remoti Qualor per breve, in queſta notte oſcura Tutti mantiene in eſercizi varj, Michiuſe al Sonno i rai natio biſogno, (Perchè infuſſo di Spiriti interdetto Vidi nel Sonno il Cherubino armato, Non hà ) la Region del Cervelletto. Che mi avventava in fen brando infocato, 69. 75. Or così ſtando il Cerebro.in quiete, L'Angiol riſpoſe: Il già commeſſo errore In una, in tutto oſcurità diffuſa, Nel ſonno anche ti affigge, e ti tormentas Si occultan le fue Immagini inquiete, Ti ſtringe il Cor, l'anguſtiato Core Ogni altra Idea de i Senti eſterni eſcluſa, L'imprellione al Cercbel preſenta, In folche folitudini fecrete Che pe'i Procelli orbicolar và fuore, La Mente è tutta in sè raccolta, e chiuſa; E al tuo Senſo comun i rappreſenta: E del Cervello il diſcoriivo Mondo Poi ne la Fantaſia forma i'alpetto Dorme in ſilenzio altitlimo, e profondo. Del Cherubin, qual ſe ti apriſſe il petto, 76. Ed ecco, che per cieca obliqua via, Altro ruſcel di Spirti al modo fteffo Di Larvette ideali erranti ſquadre Dal Cervelletto al Cerebro diſcorre; Nel Coinun Senio, o ne la Fantaila E per la via de l'anular Proceſſo Vagan leggicie or fpaventole, ed'adre, Lc radici del Fornice traſcorre. Or veſtite di ainabije bugia, De Cherubin l'idea, che trova in eſſo, Pingon bei Spettri, e Fantafie leggiadre; Seco rapiíce, e ullin valia: deporre E van col Fallo, in naſchera di Vero, Nel Senſorio Comuo: l’Alma, che'l vede De l'Anima à ingannar l'occhio, e’i penſiero. E lente il duolo al Cor, ferito il crede. Tal ſe in Teatro cinbroſo il Popol liede, Anch'io diſs’Eva) in quel notturo orrore, Niirando chiare aprir comiche Scene, Mentre più gli occhi mici pianger nő ponno, E da Mimi larvati aſculta, e vede Viep; iù per lo ſpavento, e pul timore, Tragiche finzion, menzogne amene: Che per quieto oblio, mentre che a !Tonno, Quali del Ver fcordato, ii Falſo crede Strangolate le fauci, oppreſſo il Core E da’luoi Seun italicdotto viene, Sento da un Moftro, infra vigilia, e ſonno: Chefveglia ii Finto in lui, verace intanto Volea gridar, volea fuggir, volea Odio, ) Amer,Picea, d Sdegno,c Rilo,o Piáto. Scuoţer dal ſen la Belva, e non potea. 28. Chile fopite Immagini alCervello Queſto č l'Incubo, Adamo (à dir riprende Svegli, i luoi Spisti in renderne eccitati, A lui rivolto, ii Filico Divino ) Facile è di aſſignar, dal Cerebello, Paroliſino terribile, che apprende Che fieno effiuvi, • Spiriti ſcappati, L'Uoin, mentre che talor dorineſupino. Per quei fentier, che ſon, tra queſto,e quello, Il Petto, e il Core ilmoto ſuo ſoſpende, Ne i Proceſi ſcambievoii, incavati E fofpende ancu i Sangue il ſuo camino; De le Protuberüize orbicolari, Che riſtagnando entro i polmoni in petto E de i terzi Proceſli, ed anulari, Fà un breve si, mà aſſai moleſto effetto. Cio, che il Sonno al Cervel coſtituiſce, Del Morbo Malinconico cagioni Vien l’Incubo à produr nel Cerebello Son, ipaventoſi, e ſubiti tercori Qual, groſſo il nerveoLiquido, impediſce Affetti violenti, e pailioni, Degli Spirti animali il corſo in quello, Ipocondriaci, e Iſterici Malori: Tal di queſto il medemo anche oltruiſce In queſte inordinate ripreſſioni Ogni talor ſuo midollar Canuello, Si guaſtano le Viſcere, e gli Umori: Qualvolta amplia foverchio, in modi vari, Onde mandati al Cerebro, ed eſtratti Di queſto pur le Strie triangolari. Spirti ne fono, à gli uſi lor malatti. 80. 86. Come, al Cervel gli Spiriti impediti, Mal fan l’uſo adempir più principale, Fermanſi gli uſi à gli Organi animali, Ch'è: coʻlor moti armonici, adequata Così, gli Spirti al Cercbel fopiti, Tener de l'Uomo à l'Anima immortale Ceffan quei de le Viſcere vitali, Quella, che al ſommo Ben tendēza hà innata, Il Sengue, e gli altri Liquidi irretiti Mentre in queſto ſuo carcere mortale Ne i polmoni, e lor vafi arteriali. Vive ad un Corpo organico ligata: Ciò nel dornir ſupin ſuccede ſpeſſo: Che priva di lor Tolita Armonia, Che il Cercbel dal Cerebro è compreffo, Sente una interior Malinconia, 81. 87. Prefa daʼNervi impreffion si rea Scemi di loro elaftica potenza, Al Cerebro s'invia dal Cervelletto Debil tai Spirti à ſpanderſi han vigore, La Mente un Moſtro in fantaſia s'idea, E di contrari Agenti à la prelenza Qual ſe l'affoghi, e le comprima il petto: Producon, contraendoſi, il Tiinore. Poi tratta al Comun Senſo è quell’ldea, Grolli, oltre del dover, ne l'aderenza Con un corſo retrogrado indiretto Portan le loro Idee forina maggiore: La Idea ne vede, e la impreſſion ne ſente; Onde di quel,ch'è in sè, ſempre più immenfo Or che ſtupor, fe'l crede ver la Mente? Rapprefentan l'Obbietto al Comun Senfo. 82. 88. Miquel dal Setto lucido repiſce Anzi, però clie indebite miſture Spirto le klee ne'Corpi ſuoi Striati? Di eſtrani effluvj in lor glaſtan le forme Del Cerebel non già, che non fluiſce Appajono d'infolite figure Spirito in lui, chii Cannellin turati. I lor Fantaſmi, e di feinbianza informe: Si parla Adaino: E Raffacl fupplilce Tenebroſe le lınmagini, ed oſcure Del Cerebel gli Spiriti privati, Non terbano à gli Obbietti Idea conforme: Per doppia orbicolar Protuberaliza, Quindi de i Malinconici eſſer dee u Cerebro, che n’hà minor inancanza. Piena la Fantalia d'incongrue Idee. 83. 89. De le vitali ſu Vilcere à l'uſo Inino il M.lincolico à tal ſegno, Tutti gli Spirti il Cercbel riparte; Solo in penſier fantaſtici ſi aggira: Il Cercbro non già, che benchè chiuſo, Pregna hila Fantatia, colmo l'ingegno, Ne reſts pieno, e altrui non ne fi partc. D'incoerenti Idee; ma non deli. a: Reſtande elauſto quel, da queſto infuſo Chc, benchè erranti, in sè ſenza ritegno, Hà lo Spirto animal per quella parte, Le involontarie Immagini riinira, Che dal Corpo Callofo, ove diſcende, Pur ben fi avvede, e noto há ben, che ſia A gli Striati, ivi le Idee diſtende. Sol tutto l'Effer loro in Fantaſia. 84. 90. 11 Sogno paſſaggiera è una Pazizia, Mà ſe da le ſuc viſcere eſalato, Ma la Pazzia poi Sogro è permanente, Per i Nervi, Par vago, e intercoſtale, La Ipocur driaca in cui Malinconia Morbofo effuvio, al Cervelletto alzato, Riduce PUomo à delirar fovente. Per il di dietro al Fornice poi fale, Contraria de Maniaci à la Follia, Ogni incongruo Fantafina, ivi formato, Ch'è cir:Je !, furioia, audace, ardente, Che ne la Fantuſia difpiega l'ale, Quefiriè timida, e imbelle, e'l penſier volto Nel Senforio Comun con feco tira: Hà follecito al Plen, itupido al Molto. L'Alma allor Ver lo giudica, e delira. Del IL DISCORSO UMANO, Del nobile cosi Diſcorſo Umano, De'tanti ancor traccò Logici errori E de'ſuoi varj organici difetti Che al diſcorſo depravauo i Giudici, Filoſofo l'Arcangelo ſovrano, E qual di Verità gli alti ſplendori Con ſottili penfieri, e chiari detti. Oſcurano à la Mente i Pregiudicj: Indi ſpiego i Rimedj, ond'egl’inſano Come la Dialettica riſtori, Reſo, à cagion de gli Organi imperfetti, Con norme, i falli in lei, regolatrici; Poffi à i retti tornar ſuoi Sentimenti, E al fine il giuſto Metodo glieſpone, Con medicarne i gu'aſti ſuoi Stromenti. L'ulo à bene adoptas di fua Ragionc.   Estasi di santa Teresa d'Avila scultura di Gianlorenzo Bernini Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Estasi di santa Teresa d'Avila (disambigua). Estasi di santa Teresa d'Avila Ecstasy of St. Teresa HDR.jpg Autore Bernini Materiale marmo e bronzo dorato per i raggi divini Altezza350cmUbicazione Chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma Coordinate  L'Estasi di santa Teresa d'Avila è una scultura in marmo e bronzo dorato di Bernini, rcollocata nella cappella Cornaro, presso la chiesa di Santa Maria della Vittoria, a Roma. La scena raffigurata nell'opera è, per la precisione, una transverberazione e non un'estasi, quindi la scultura è talvolta chiamata anche "Transverberazione di santa Teresa d'Avila".  Storia Modifica Nel 1645 - in un periodo in cui, con il pontificato di Innocenzo X, la straordinaria carriera artistica di Bernini stava conoscendo qualche appannamento - il cardinale Federico Cornaro affidò alle sue qualità di architetto e di scultore la realizzazione della cappella della propria famiglia, nel transetto sinistro della chiesa di Santa Maria della Vittoria, a Roma. Bernini, nell'eseguire la commissione, cercò una sua rivincita professionale verso l'atteggiamento tiepido che il nuovo pontefice mostrava nei suoi confronti e chiamò, per così dire, a raccolta tutta la sua inventiva di architetto e di scultore sino a giungere a realizzare uno degli esempi più elevati di arte barocca. L'Estasi di santa Teresa d'Avila, eseguita, una volta portata a compimento piacque immensamente al Bernini, che con una certa modestia la definì come la sua «men cattiva opera» (dunque la migliore delle sue realizzazioni). Lo stesso Filippo Baldinucci, nella biografia dell'artista, riporta che:  «il Bernino medesimo era solito dire essere stata la più bell'opera che uscisse dalla sua mano»  Descrizione Modifica  Visuale della cappella Cornaro: al centro troviamo santa Teresa e il cherubino e, ai lati, si scorgono i vari membri della famiglia Cornaro che si affacciano dai finti balconcini Una delle cifre per intendere l'arte barocca è, come noto, il gusto per la "teatralità": la rappresentazione spettacolare e talvolta anche enfatica degli eventi. In quest'opera Bernini, mettendo a frutto la sua esperienza diretta di organizzatore di spettacoli teatrali, trasforma, in senso non metaforico ma letterale, lo spazio della cappella in teatro.  Per far ciò egli amplia innanzitutto la profondità del transetto; poi, aprendo sulla parete di fondo una finestra con i vetri gialli, pensata per rimanere nascosta dal timpano dell'altare, si procura una fonte di luce che agisce dall'alto, come un riflettore e che conferisce un senso realistico alla irruzione sulla scena di un fascio di raggi in bronzo dorato, così la luce che scende sul gruppo, attraverso i raggi, sembra momentanea, transitoria e instabile in modo da rafforzare la sensazione di provvisorietà dell'evento.Si può facilmente immaginare quanto tale effetto, nella penombra della chiesa, dovesse apparire a quel tempo suggestivo. Anche la freccia originaria retta dall'angelo, ora sostituita da un semplice dardo, venne realizzata con dei raggi che scaturivano dalla sua punta, a rappresentarne il fuoco del «grande amore di Dio», come santa Teresa stessa ebbe a dire nella sua autobiografia.  L'elegante edicola barocca, realizzata con marmi policromi, nella quale Bernini colloca la scena dell'Estasi di santa Teresa, funge da boccascena del teatro: essa mostra la figura della santa semidistesa su una vaporosa nuvola che la trasporta – come se fosse operante una macchina da teatro nascosta – verso il cielo. La trasformazione della cappella in teatro diventa letterale con la realizzazione, ai due lati del palcoscenico-altare, di «palchetti» sui quali sono raffigurati – ritratti a mezzobusto – i vari personaggi della famiglia Cornaro. L'evento privatissimo dell'estasi della santa diviene in questo modo evento pubblico, al quale i nobili spettatori paiono assistere non già con trepido stupore e con vivo trasporto devozionale, ma con staccato disincanto; li vediamo anzi - come avviene spesso a teatro - intenti a scambiarsi i loro commenti. Il palchetto sinistro, con i membri della famiglia Cornaro in veste di testimoni attivi dell'evento mistico Ma non è per la famiglia committente, bensì per l'ideale platea dei fedeli che si accostano all'altare – palcoscenico della cappella che Bernini mette in scena l'estasi della santa. Egli dimostra qui tutta la sua maestria di scultore, capace di lavorare il marmo come fosse cera, con estrema attenzione ai particolari. La veste ampia e vaporosa della santa, lasciata cadere in modo disordinato sul corpo, è un capolavoro di virtuosismo tecnico, per effetto del quale il marmo perde ogni rigidezza e la scultura sembra voler contendere alla pittura il primato nella rappresentazione del movimento. Commenta a questo riguardo Ernst Gombrich:  «Perfino il trattamento del drappeggio è, in Bernini, interamente nuovo. Invece di farlo ricadere con le pieghe dignitose della maniera classica, egli le fa contorte e vorticose per accentuare l'effetto drammatico e dinamico dell'insieme. Ben presto tutta l'Europa lo imitò.»  La raffigurazione delle estasi mistiche dei santi e delle loro visioni del divino, rappresenta uno dei temi più cari all'arte barocca: i santi «con gli occhi al cielo aiutano» – seguendo le raccomandazioni dei gesuitisulle funzioni pedagogiche dell'arte sacra – a sentire emozionalmente, con il sangue e con la carne, cosa significhi l'afflato mistico che porta alla comunicazione con Cristo e che è prerogativa della devozione più profonda. Anche sotto questo aspetto, della raffigurazione dell'estasi, l'opera realizzata da Bernini nella cappella Cornaro, sarà destinata a far scuola e ad essere presa a modello innumerevoli volte nella storia dell'arte sacra.  Sul piano iconografico l'Estasi di santa Teresa, che trova il suo prototipo nell'Apparizione di Cristo a Santa Margherita da Cortona di Giovanni Lanfranco (1622),[6] è direttamente ispirata a un celebre passo degli scritti della santa, in cui ella descrive una delle sue numerose esperienze di rapimento celeste:  «Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me. II dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata. Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento. Quando l'angelo estrasse la sua lancia, rimasi con un grande amore per Dio.»  (Santa Teresa d'Avila, Autobiografia, XXIX, 13) Il resoconto che la santa ci offre è raffigurato quasi alla lettera da Bernini nella sua composizione marmorea, con il corpo completamente esanime e abbandonato della santa, il suo volto dolcissimo con gli occhi socchiusi rivolti al cielo e le labbra che si aprono per emettere un gemito, mentre un cherubino dall'aspetto di fanciullo giocoso, con in mano un dardo, simbolo dell'Amore di Dio, ne scosta le vesti per colpirla nel cuore. Notevole è il contrasto tra l'incarnato liscio e delicato dell'angelo (che fa pensare più a un Eros della mitologia greca che a un'entità spirituale cristiana) e le vesti scomposte della Santa. Il volto della Santa e dell'angelo Interpretazione psicoanalitica Modifica L'interpretazione che studiosi della psicoanalisi come Marie Bonaparte hanno dato (proprio a partire dai resoconti di transverberazione lasciatici da santa Teresa) all'esperienza dell'estasi mistica in termini di pulsione erotica che si esprime sublimandosi nel deliquio dell'afflato spirituale, ha condotto la critica a sottolineare in quest'opera di Bernini la bellezza sensuale e ambigua dei protagonisti, avvalorando così la possibilità di una sua lettura in termini psicoanalitici. Lo psicologo italiano Enzo Bonaventura fa riferimento a Cupido, evidenziando, a livello simbolico, un nesso tra la figurazione greca e la trasfigurazione religiosa nell'arte cristiana[7]. Per provarne la legittimità, occorre solo richiamare la parola di Renan in viaggio a Roma, davanti a questo stesso gruppo statuario: «Si c'est cela l'extase mystique, je connais bien des femmes qui l'ont éprouvée. Si potrebbe comunque ulteriormente citare il conte de Brosses[9], il Marchese de Sade[10] o lo scrittore Veuillot. Collateralmente a quest'interpretazione che considera l'esperienza di Teresa, e la scultura che la ritrae, nei termini di quello che (per usare un'espressione di Georges Bataille) potremmo chiamare «erotismo sacro», si deve tuttavia osservare che l'approfondimento della biografia dell'artista napoletano ha recentemente messo nella giusta luce la sua religiosità; una religiosità che in quel periodo della sua vita (quando aveva circa cinquant'anni) si era rafforzata attraverso la pratica degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, eseguiti sotto la guida dei padri gesuiti che egli frequentava. Verosimilmente la lettura della vita di santa Teresa non dovette essere un fatto occasionale, limitato a singoli passi, segnalati magari dal committente. Al contrario, alcuni studiosi hanno letto nell'Estasi di santa Teresa anche l'eco del racconto di altre esperienze mistiche, come quella della santa genovese Caterina Fieschi Adorno.  La straordinaria qualità estetica e l'intensa drammaticità del gruppo marmoreo è dunque da collegare alla personale ricerca spirituale di Bernini, al suo impegno a scoprire per sé stesso, per poi mostrare a tutta la comunità dei fedeli il senso di quell'amore espresso oltre ogni misura verso il Redentore, che trova esempio nella vita dei santi.  L'influenza dell'opera di Bernini fu enorme non solo sui contemporanei, ma anche su molti artisti dei secoli successivi. Il famoso compositore Pietro Mascagni, ad esempio, nel 1923 compose una visione lirica per orchestra dal titolo Contemplando la santa Teresa del Bernini, un brano della breve durata di appena quattro minuti. Marder, Bernini and the art of architecture, New York; Marder riferisce a Irving Lavin, Bernini and the Unity of the Visual Arts, New York;  e a Barcham, Some New Documents on Cornaro's Chapels in Rome, in: Burlinton Magazine, Cricco, Francesco Di Teodoro, Il Cricco Di Teodoro, Itinerario nell’arte, Dal Barocco al Postimpressionismo, Versione gialla, Bologna, Zanichelli; Cocchi, Cappella Cornaro ed estasi di Santa Teresa, su geometriefluide.com. URL consultato il 30 novembre 2016. ^ Oreste Ferrari, Bernini, in Art dossier, Giunti; Gombrich, La storia dell'arte, Milano, Leonardo Arte; Lollobrigida, A. Mosca, Biografia, in Lanfranco a Roma, Milano, Electa; Bonaventura, La psicoanalisi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano Traduzione libera:  «Se questa è un'estasi mistica, conosco molte donne che l'hanno vissuta»  ^ Cfr. de Brosses:  «Se questo è amore divino, io lo conosco bene!»  ^ Cfr. Marchese de Sade:  «Si stenta a credere che si tratti di una santa»  ^ Cfr. Veuillot:  «[Bisogna] espellere l'opera dal tempio... venderla... o farne calcina!»  ^ Jean-Louis Bruguès, Dizionario di morale cattolica, Edizioni Studio Domenicano; Bataille:  «E la sensibilità religiosa che unisce strettamente desiderio e paura, piacere intenso e angoscia»  ^ Bernini - Estasi di Santa Teresa, su scultura-italiana.com, La Scultura Italiana; Don Michael Randel, The Harvard Biographical Dictionary of Music, Harvard; Bernini Santa Teresa d'Avila Estasi di santa Teresa d'Avila L'Estasi di Santa Teresa d'Avila di Gian Lorenzo Bernini raccontata da Caterina Napoleone, su raiplayradio.it. Portale Architettura   Portale Cattolicesimo   Portale Scultura Ultima modifica 6 mesi fa di eBot Chiesa di Santa Maria della Vittoria (Roma) edificio religioso di Roma. Transverberazione Estasi. Opera. Bernini. Le e&Usi dell’amore di patria. La niftscliera di Mazzini. Patria, e religione^ eroi della patria e santi. Meglio il  i'Jtammiisme che rignonui^a dell'amor di iwitria, Diverse  funoe dell'escisi dell" amor di patria, — 11 ritorno in Italia  dell' autore reduce dair TnfUa. Estasi BoUtarie dei ^andi  amatori della patria. Gli eroi della storia e gli eroi aiiouijiii,  Estasi epidemiche. Incendii delle foreste e iiiceudii del  euore namonale d'uu populu, Eafliroiiti e ecmsiderazìoiii. Nel mio Mu^eo d'a^ntropologiu di Firenze, in uuo  degli armadii consacrati alle grandi ìndiviilnalitì\  della apecie umana, vi ha la teista di un uomo^ che  ferraa V attenzione del piii frettoloso e .superficiale^  osservatore. Quando devo far da cicerone di mala  voja^lia a qualche importuno, lo aspetto a quell'ar-  madìo, per consolarmi della lunga noia di ripe-  tere davanti alle stosjie vetrine le sten^^e parole.  K VX il visitatore sì ferma e dice; quella te«ta t)  fonte qudìa di un mniof   Siete un buon osservatore, quella testa è di un  santo e fu formata sul cadavere.   E che santo è quello?   Si chiama Giuseppe MazsEiui.   Si potrebbe scrivere un volume su quelFincon-  scia rivelazione dei più voI*(ari osservatori, che  dinanzi alla raaafìhora di Mas^^^ini, domandano so  quello sìa un santo. La fìsonomia a#icetìca è nna delle jiiù CJiratte-  riaticlie, ma anche ana delle piìi iiidefiuiV>ìli, E  il Miizriui Taveva, o morto pareva ad<Urìttiira "n  santo j?iù jflorifìcato ool piiradiso cristiano.   In quella domanda, che prorompe spontanea dal  labbro dei visitatori del mio Museo, vi è tutta la  biografia di un uomo, che amò la patria con fer-  vore mistico e fece della sna polìtica una reli-  gione. E^fli stesso del resto si era asse|?Dato il  suo po.sto nella storia del pensiero italiano, scri-  vendo sulla sua bandiera, Dio e popolo^ due par  role una pih miiitica deiraltra e che messe vicino  non sono che nn f^rido ilei onore lantùato neirin-  finita» poetico deindealita politica. L'amor di patria è uno degli aftotti più alti, ma  più indistinti e la cui analisi psicologica esi^e-  rel>be nn volume. È sentimento di lasso, perchè  molti nomini d' alta e di bas.^ gerarchia non lo  sentono e perchè si dirige, più che ad un lembo  di terra, ad un mito corai)osto di materia e di  idealiti\ e che muta forma e muta confini a s^  condadeì tempi e di conto altre influenze esteriori*   l sentimenti ili lusso, non hanno che raramente la intensa energia degli affetti ut^oessariij ma per  la loro indeterminateaza o h\ sconfinata po.-^Mibi-  lltà dei loro movimenti possono imi facilmente  portarci all'estasi.   Por V uomo selvaggio, sia poi tale perchè non  veste il proprio corpo, o perchè uou vet^ite il pro-  prio pensiero; la patria è poco più che il nido  per r uccello o la tana per le fiero. È la casa iu  cui è nato, è V albero sotto cui ha dormito, è il  fiume iu cui sì è tuffato, il bosco dove ha cac-  ciato, è la terra dove tutti gh uouiini ras.'^omi-  ^liano a Ini j parlano come lui, come lui odiano  l'altra geuto che sta al di là dal monte o «lai mare,   L^t patria, circondata o no dal luare^ è sempre  un'isola; e chi si isola divien parcnttì di tutti co-  loro che stanno nella stessa carcere. La patria  non h che una famiglia più grande di quella che  sì chiude sotto il tetto domestico, non è che una  casa più vasta di quella che alberga una stoasHi  famiglia.   2Jon amare la patria ò una vilti\ del cuore ^ è  un cretinismo del sentimento j quando non sia la  previsione di tempi lontani e migliori, nei quali  la patria dell- uomo sarà tutto il nostro pianeta,  e stranieri soltanto si chiameranno gli aiutanti  tlegli altri mondi coi quali di certo un giorno  parleremo, e forse per farci la guerra.  JJ amor di patria- è figliale e mistico in nna  Tolta sola; è tenero e ascetico, l^^igliale perchè la  patria è la madre universale di tutti quelli che  parlano la stessa lingua, pensano lo stesso Dio e  Bparf^ono insieme lo stesso sangue. Mistico, perchè  la patria non si può baoiarej né abbracciarej e i  suoi confini son segnati sopra una carta, che non  è negli atlanti geografici, ma nel cuore amano.   La patria è uno «lei circoli del paradiso dan-  tesoOj dove da un piccolo cerchio irradiano aonc  piti larghe, come cerchio d'acqua smossa dal ca-  dere di nna pietra. Dal villagjrio adorato dove ci  hanno battezzato e dove speriamo di esser sepolti^  alla provincia, al regno, all'impero, alle colonitv  nostre lontane, la patria si allarga, si allarga sem-  pre, portando seco le tenere oscillaaioni del no-  stro cuore, dei nostri afifetti, della gloria nazionale*   Quel palmo di stoffa che si chiama la nostra  bandiera j che un colpo di sole, uno scroscio di  pioggia pnò impallidire, quella stoffa che costa  poche lire e che una vampa di fiamma può ri-  durre in un pizzico di cenere^ è il simbolo di tutti iJamqr di patria 93   quelli affetti che .si condensano sotto nno stesso  nome, e là dove sì pianta quella bandiera ivi è  la patria^ ivi i ricordi comuni e le tiomuni svimture  e le glorie eomuDi oliiamati a raccolta da im voce  sola^ che le incarua e le personi&ca. Chi analizza un sentimento t^oUa segreta spe-  ranza o colla malignità palese di distruggo rio,  compie opera vana. Se lo fa per Bè non diatnijE^ge  che ciò che non è mai esistito ; se lo fa per altri,  predica nel dea erto ; dacché nessaun ragionamento  ha mai fatto diminuire d' un palpito un grande  amore.   La doìina che tu ami è una die creatura, fa amata  rfrt ceiito uomini ptlmn che tu In aìì^rnssi,,., U ohe importa f lo Vmno,   Il Dio che tu adori non è mai cswUto. Moto mo-  siruoso in cui V antropofagia deW uomo quaternario  ti trova insieme alla industria delle simonie^ alle pag-  gio Uologiche,., Mmpio^ tu non sai qneìh che dwL 11 mio Dio esista  ed io VaàoTù.   Lo 8tes30 sarebbe tcntR^r di strappar con vani ragiimumenti a un uomo l'amor di patria^ quando  ej^Iì lo senti.^ palpitare nel più caldo e nel pia  profondo delle vi scerò, quando e^li ne ha fatto  una religione, a cui è pronto a darò tutto quanta  ha, tutto il sanane delle sue vene* L'amor di figlio,  r ani or dì madre, l'amore per la donna amata fiirono  In o^cni tempo «jloriosi olocausti di anime elette  futti 8ul l'alta re della patria. E poi andate a dire  a quei martiri che la patria è il mondo eh' easa  non ha altri contini che lo spazio interijlanetarel Finche lo nazioni esiatono, fìnc^hè le lingue  umano wi contano a luigUaiaj fìnehè metà del ge-  nere umano non può intender Taltra mete, finché  ffBt nonio e uomo vi sono maggiori differenze  psichiche che fì*a un oane e nn lupo; l'amor di  pntria non hi discute^ ma sì 8entt% e nn iiopolo è  tanto pili grande, quanto è pia vivo e calilo e  universale in lui questo sentimento. Benedetto conto volte il più folle ehmwmismej maledetto il  cinismo dì chi domanda ridendo: 1} che cosa è hi  patHa?   La patria è la terra ^ in cui in ogni 8olco vi è l'amor di patria 05   Il uà gocdola dì f^tangne o ili sudore dei padri do-  stri in ogni pugno d'arena vi è della ceneri^ dei   nostri avi; la patria è la terra in cai dorim» in  nostra madre e dormiranno i nostri figlinoli; è la  storia di tutto il passato, la storia di tanti secoli  ili glorie e di sventare vissuti da coloro che ci  hanno data la vita; la patria è la madre di tutti  quelli clie parlano e sentono come noi ; è quo 11 a  t-erra^ il cui nome solo udit(j pronunziare in terra  lontana ci fa battere il cuore, ci fa baciare un  giornale. È quella parola, che solleva onde di po-  poli a un gritlo rli guerra, cUc fa escire da ogni  capanna nn uomo armato e ad ogni finestra fa  affaciìiarc una testa di donna ijiangente- La pit-  tria è una parola magica che può convertire ogni  uomo in un soldato e ogni donna in nna martire,  che fa* piangere i fanciulli disperati di non esser  ancor uomini e fa pian^^ere i vecchi perchè non  posftom» più imbraudire nn fucile. La patria è  tiuella santa parola, che lUstacca Toperaio dall'of-  iìcintìi, il contatlino dal cami>f>, V uomo di lettere  dal libro, il banchiere dallo scrigno; che strappa  daltc braccia della fanciulla il giovane innamo-  rato; e tutti riunisce in nn^mìca schiera e sotto  uno stesso vessillo, in cui tutti guardano Assi con  occliio d'eroe e amore <\i martire.  Quar altro altare ha tanti adoratori? QuNUaltra     religiane ha tante idolatrie? QuaVè Tara su cui  si portino altrettante vittime ^ che corrono chia-  mate o non ohi amate, ma sorridii^nti e calde d^eu-  tnsia^mo? QuaValtra parola ha tanta onnipotenza,  q 11 al' al tra estasi può superare co deista di sentirsi  in uD^ora sola (livennti trenta milioni di fratelli,  che amano lo stesso amore, che sentono lo stesso  otlio, che so cenano lo stesso sogno di vendetta o  di sdegno?     Le estasi più oomuni dell'amor di patria sono  qaelle che si provano nel rivedere la terra nativa  dopo mesi e anni di lontananza e le altre che si  godono nelle grandi feste, che salutano un grande  trionfo nazionale: solitarie lo prime j associate le  seconde ; grandi entrambe e capaci di voluttà  senza nome.   La. nostalgia è nei trattati di patologia una mar  latti a che si classifica fra le alien azioni mentali.  Beati coloro che possono esser pazai in questo modo;  infelici coloro che per grettezza di cuore o per  esser nati venti o trenta secoli prima del loro  tempo non sono capaci dei rapimenti del rivederti   ]fh patrìft dopo lunghe assenze. Io che ho vissnto  molti anni neir altro emisfero e che ho attraver-  sato l'Oceano per otto volte ho provato quest* e-  stasi in tutti ì suoi gradi e in tutte le sue forme.  Mai l'ho goduta eosì intensa e così profonda  come dopo il mio ultimo viagfi^o nelP India.   L'amor della patria, ai rovescio degli altri amori,  cresce cogli aonì^ e quando io 'ttopo alcuni mesi  di assenza al mio ritorno dall' Tiidia soppi che al-  l^indomani avrei riveduto l'Italia, sentii eho il cuore  batteva forte forte, come dinanzi al sorriso della  donna amata.   Io non vedeva ancora la mia terra, ma la sen-  tivo. Sentivo che essa mi aspettava come ci  aspetta la nostra donna in un ritrovo d' amore  limi^iimente desiderato» La mia patria, Tltalia  mia non poteva esser lontana.. L'onda più azzurra,  il cielo più sereno me lo dicevano ad alta voce ; me  lo diceva il profumo dei fiori d'arancio che mi invia-  Tano gli orti benedetti della Calabria e della Si-  cilia, Ed io guardava fisso davanti a me neir o-  rizzonte lontano j che la mia nave andava conqui-  Esta^i umam,  stando ad ogni moto deir elice. La nebbia sfumava,  Topaie diventttvii oltremare, e fra le nebliie lon-  tane vedeva un mondo, nuovo e antico per me,  la patria dei miei avi. La nebbia diveniva terrai  e cielo; terra e cielo T Italia. — Fra poche ore avrei  baciato quella terra e sul mio capo si sarebbe  disteso l'azzurro ohe mi aveva veduto nascere.  Non sarei più morto in terra straniera e i miei  cari avrebbero potuto piangere inginocchiati so-  pra la mia terra, sopra la terra che aveva gene-  rato me e i miei cari.   E la terra nebbiosa e oscura si disegnava in  coste e in golfi, in monti e in piani ; e in qaei  monti e fra quei seni apparivano poco a pooo  oasuccie bianche incorniciate di pampini ver<li e  riposavano fra boschi di agrumi neri come il  bronzo. In quelle case dormivano uomini che par-  lavano la mia lingua e quella terra mi mandava  come un saluto del cuore i profumi del mio orto,  i profumi della mia giovinezza e tlella mia poeaia.  Là io era amato, là il mio nome non era parob  ignota: qualcuno mi aspettava. Vi erano braccia  aperte impazienti di stringermi al onoro, vi erano  labbra di donna e di fanciulla pronte, impazienti di  baciar le mie labbra. Profumi di fiori e baci ohe  mi chiamavano ad alta voce, con sospiri d' amore,  Come aveva potuto io per così lunghi mesi star  lontano (la quegli alberi benedetti, da qneWe brae-   cift innanioTìtte, da quella terra che ora. la mia,  la terra della mia culla e della mia iom^ f Nod  avevo io commosso una colpa j che avrei rerlenta  fra poche ore ? Come avevo io potuto sopportare  tanto dolore ?   B la nave camminnva ; e la nave correva e a  destra il continente d'ItalÌM, a sinistra la pììi; ^ande delle isole d' Italia si avvicinavano a me^  lontaise e vicine, come due braccia aperte all'am-  plesso I — To mi smentivo abbracciato da quelle  braccia gigantesche, mi sentivo inebbriato da  quei profumi ; udiva il mormorio delle voci del-  l'uomo, che dalla riva giungevano fino a me; voci  d'uomo e voci d- Italiani. Perfino Je vele delle  piccole barche che sfì lavano lungo la costa mi pa-  revano pili bianche, più gaie, più snelle d' ogni  altra vela di mare. S^on eran forse vele italiane ì   E r Etna gigante fumava dair alto e il -calca-  gno d' Italia poggiava anir onda azzurra quasi  volesse spiccare il salto alla conquista del mondo.   Avrei voluto gettarmi in quel] ^ onda per sen-  tirmi bagnato dal mare d* Italia, avrei volato lan-  ci armi per giungere più presto a toccare- quella  terra santa, quella terra tlivina, madre di tre civiltà  e aon ancora stanca ; quella terra d' eroi e di  fljartiri, in cui tante genti avevano bevuto le prime fonti tìol pensiero, avevano imi>aruto i  primi canti (Iella poesia. Quanto or^oglio^ quanto  amore e quanta irapazienza di ridare a qnella terra  il bacio di madre ehc mi «fetta va lontano; dai suoi  orti fioriti, dalle 6U© città illuminate dalla gloria,  dalle vette dei suoi monti pittoreschi, dai campi  così fecondi dì vita.   Se qnella non era un' estasi e che cosa è dunque  l'estasi 1 Se quello non era un rapimento dei seasi,  del cuore, dell' amore, del passato che si strìn-  geva col presente; se quella non era una santa  ebbrezza; e che cos'è dunque il rapimento; che  cos'è r ebbrezza! [ miei occhi eran gonfi di  laf^rimCj ma sorride vauo ; il mio labbro era muto,  ma sorrideva tremando, come davanti a un bacio  ohe dovesse uecìdermi come uomo per trasfor-  marmi in un Dio. Estasi solitarie d' amor di patria devono pro-  vare quei pochij eletti che nascono per dar libertà  o grandezza alla patria e sognano prima e me>li-  tauo poi l'opera grande che si prefiggono a scopo  della loro vita. Gran parte ili questi amori solitarii e profondi  si eouauma nell^ opera del pensiero, nelle lun^^^he  lotte di prepAvazìon^ ; ma tra le ansie di olii  aspetta e sperando teme ad of^i istante di per-  dere il frutto di tanti sacrifici, di tanti sudori,  e forse di tanti martirii ; vi devono esr^ere istanti  in cui alla mente riscaldata da tanto entusiasmo  appare V alba della vittoria in nn orizzonte lon-  t-ano e la speranza del premio fa batter forte il  cuore. Quanti^ visioni sublimi devono esser ap*  parse a MAZZINI (si veda), al Cavour, al Garibaldi, quando  neir esilio o nelgabinetto di ministro o sul campo  di battaglia sognavano di far libera, grande ed  una la nostra patria e sentiviìuo «li poter essere  artefici primi in quest' opera grande ; sogno di  tanti secolij miraggio di tante generazioni.   Le imprese degli eroi riuiangono scritte in tavole di bronzo o in monumenti di marmo, scritte  co[ ferro e col fuoco, colle torture dell* ergastolo  o le lunghe angoseie notturne del pensiero che  non dorme j ma ciò che non rimane scritto è Pestasi che prepara quelle imprese e che le prevede  in anticipazione.   Ogni frutto si feiionda neir amplesso dei petali  profumati e fulgenti di bellezza e ogni figlio di  creatura viva nasce dall' anelito di un grande  amore. Cosi le opere magnanime che salvano un popolo o che Io glorificano, clie rompono le catene  dell' oppressione o allargano le frontiere della patria non 80D0 mai uragani di violenti e o subitanee  divinazioni del geuio ; ma si preparano lentamente e lentamente maturano nei sautiiiirì del  cuore e del pensiero, là dove i ^ermi celati preparano r albero fntnro ohe darà ombra a un' intiera nazione. La poetala sprezzata solo dal volgo  dei faccendieri, perchè non sono capaci d' intenderla, è la madre d*ogni opera grande e non e- è  grande soldato o grande uomo di Htato ehe  non fosse anche e soprattutto poeta. Poeta nel sognare imprese che ai più apparivano come pazae  utopie ; poeta uel fan taa ti e are e neir osare ; poeta  uel deliziarsi nelle sante visioni dell'avvenire; poeta  nelle estasi <imorose che mostra^io al eredente  premio lontano di grandi vittorie. Xon invano i Greci  hanno detto che il poeta è un creatore. Né le sante estasi dell' amor di patria anno concesse soltanto agli eroi, ai semidei della storia.  Tutti coloro che hanno fortemente amato la patria, tutti quelli che hanno dato ad essa il pensiero o il sangne, che hanno cospirato jirìiua e  studiato poi per darle grandezza e pot**iiaa, pouno  nella loro vita aver provato rapioientì delizioM.  OgDuno pia che sé stesso non può dare all' altare  d' na grande affetto e nelle rivoluzioni e nelle  gfaerrej come nelle grandi lotte poli ti <; he gli amanti  della patria possono contarsi a legioni e la storia  li dimenticfi, appunto perchè son troppi. T^a storia  ha fretta e personifica iu nn tipo i martiri minori.  Pellico è il martire delle cospirazioni, Mazzini è  V apostolo della religione della x^atria » Garibaldi  1' eroe, la Cairoli è la martire delle niadri Cavour  fe il pensiero in azione, e così via> Per ogni forma  del sagrifìzio y per ogni opera della mente, per  Ogni travaglio dei cuori, la storia segna un individuo che divien statua, ìdolo e tipo, e dimentica  le molte figure anonime, che si raggruppano intorno a quei tipi e fanno loro lieta ghii'landa. Né questi negletti della storia lamentano l'in^ustìzia : al monumento, alle corone, all' arco di  trionfo essi non hanno pensato mai. Essi hanno  amato la patria e per essa hanno pianto o sono  morti : la loro missione è compiuta e sono felici  come lo furono PeUioo, Garibaldi e CAVOUR (si veda), Anch' essi hanno provato le sante estasi della speranza e della vittoria^ e la patria li ha l)enedetti e  glorificati nel silenzio delle loro case, nel nido delle loro famiglia o dei loro a rio ri. La patria è  grande percliè ebbe dì tali figli e attraverso le  vene e i nervi clic congiunto uo le generazioni  scorre V omla deir entusiasmo fe palpita la voluttà  del sacrifizio. Che cosa sarebbe il Cristo aonzii  gli ApostoU; che cosa avrebbe fatto GarlbaLtU  »euza la coorte dei Mille, e Cavoar senza i precursori del 31 ?   No (lo voglio ripetere per la centesima volta),  la iiatnra non è così irtginsta come appare alle  esigenze dei più. Le gioie maggiori della vita non  si misurano col metro del ^enio o snlla bilancia  della ricchezza. Tutti, innanzi morire, possono essere baciati dalle labbra innamorate d'una donna;  tutti posisono render quel Via ciò alle labbra d'una  Agli a. Nessuno è così povero da non poter fare  aagrifìzto dì se alla patria, nessuno così infelice  da non provare le estasi dell- affetto e della poesia. Pel sole che dair alto illumina tutte le creature della terra, nessuno è grande, nessuno piccolissimo e i suoi rag^ì entrano beatificando e  consolando nelle ftbre d' ogni cuore, nella porta  iV ogni tugurio. I piccoli numeri di ventano grossi se som muti  iDsieme. Così i piccoU affetti ponno divenire nra*  gani se i cuori battono insieme. CIic! co.sa è una  gocciola? Eppure i* oceano è fatto tii gocciole,  Kessim affetto forse quanto Tamor di jiatria può  per la isna natura moltiplicarsi con grossi numeri  e allora V entusiasmo degli individui diviene onda  che alla^^a le contrade e rapisce nella sua corrente case e villaggi, città e popoli intieri. È questo un punto ancora oscuro della psicologia umana  e che pare dovrebbe formare una delle baai tetragone di ciò che suol chiamarsi la fllosofla della  atoria.  Come 3i sommano due affetti analoghi o eguali ?  Di certo non colla regola aritmetica che 1 + 1^2,  E oome si moltiplica un entusiasmo, quando si  ripete cento, mille, centomila volte nello stesso  tempo in cento, in mille, in centoraila cuori? Anche qui la regola matematica non serve a spiegare r allargarsi e il diffondersi del fenomeno ripercosso in tante coscienze umane. Vi sono epidemie  per il sentimento come pei morbi popolari» e il difibiifieriii degli entusiasmi presenta gli sttsa  misteri^ gli stessi salti bizzarri^ gli stesai prodigi  nome V allargarsi ^elle grandi epidemie.   L' incendio dei cuori per influsso d' nna gloria  nazioDale è uno degli spettacoli più grandiosi e  commoventi del mondo utnauo, ed io compiangd  tnttì coloro, cbe nel corso della loro vita non  hanno 'potuto assistere ad una tli queste grandi  feste, nelle quali tutto un popolo canta Tinno  della gioia e lo accompaguauo gli squilli elettri^zauti della vittoria e la fanfara del tumulto popolare e l'ebbrezza di tanti cuorij che sentono tiel  tempo s^tesso la stessa gioia, clie ardono deHii  stessa febbre, dello stesso delirio. Kon invano io ho rassomigliato ad un inceufiio  questi rapimenti nazionali: nessuna immagine potrebbe rii|»presentare più fedelmente lo svolgerai  di questo fenomeno umano. Ma non ha ad esser?  incendio di pagliaio ^ che le società di assiearazioni registrano con dolore, o fi ara me di cucina, che   pompieri benemeriti spengono in un* ora colle  loro pompe. Ci vuole nno di quelli incendi delle  vergini foreste e della pampa ci eli* America meridionale^ che ho le tante volte veduto e ammirato  nei nùei viaggi. La fìatniua è venutu claU* alto o dal Im^^o, da  na ftilinlue o dal focolaio d' un viaggiatore : non  importa. É fiamma che non riguarda le socktà  d^ mmìirazlomf né chiama a i?*è i pompieri. È fuoco  Glie s'allarga a destra e a sinistra^ che sale ìii alto  lim^o le scale delle liane sugli alberi alti come  torri e che rade le erbe del basso come rasoio  ardente. Erbe e cespuglìj alberi e arbusti, piante  di mille anni e florclUai sboceiati ieri, tutto è invaso dalla stessa fiamma, che tutto divora e eonsama/ Nessuno resiste a quel fuoco, non U cacto  gonfio di succhi, non le foglie verdi, non i tronchi secolari; nessuna pianta, nessuna erba, nessun  insetto che viva su quelle erbe, nessun rettile che  strisci, nesdun piccolo rosicante o armadillo che  s'accovacoi nelle tane, ne^ssuna belva del bosco,  nessun mammifero della pianarti. Dinanzi a riuel  faoco tutti sono eguali e tutte lo creature hanno  ad ardere fiammeggiando, scoppiettando e detonando* Vola la fiamma in colonne, striscia come  onda, divampa come nembo, e non appena il fumo  porta nel fresco del verde il segno preoarsore della distruzìane^ il famo divien calore e il calore  diviea ìucendio,   E riiicendio cammina; prima incerto, poi siouro;  prima trotta, poi galoppa, vola; esaltandosi nel  delirio d' uo' opera gigante di distrazione e di livellazione* I piccioli innalzano il loro fuoco nelle  regioni degli alti; e gli alti precipitano turbinando  e rovesciando i tiazoni incandesoenti nel piano  delle creature minori. E volano le sointiUe e serpeggiano le fiamme, uè alcuno al mondo saprebbe  dire chi dia maggior alimento a quelle vampe.  mag;2fior calore in quella voragine j in quella faCina gigantesca. Screpolano, adoppiano, gemono i  rami succoienti e rovinano i colossi della foresta^  portando lontano lontano T inno di una grande  rivoluzione^ fluchè fra cielo e terra non si distin*  guono più né erbe ne arbusti^ né alberi, né animali;  ma una cosa sola si vede, una cosa sola si sente, il  fuoco trionfatore d'una fiamma invadente e tiranna.  È la festa del fuoco, è V orgia della distruzione;  è la morte di un mondo vecchio che prepara il  terreno a un mondo nuovo. Cosi sono le feste nazionali, non imposte da  decreti di prìncipi o da grida di ministri, ma sorte  spontanee per Tirrompere di un sentimento caldo,  elle infiamma tutti 1 cuori, che riscalda tutte le  coscienze. E le anime fredde sono ravvolte dall' incendio comune, e gli egoisti, volenti o nolenti,  si riscaldano allo stesso fuoco e i timidi non trovan Bcami>o alla fuga. On^ni creatura che abbia  in petto un e nere di uomo deve ardere p consumarsi nella stessa fiamma. Padri e figli e ignoti  si abbracciano insieme e in una volta sola, e il  riso e il pianto che si confondono in un turbine  solo fanno ridda e alzano al cielo un grido solo ;  che è r entusiasmo ; s' inebbri ano dello stesso licore che è r affetto di patria. Anche il marmo si  riscalda, se ravvolto dalle fiamme, e anche il ghiaccio si discioglie e si consuma fra le vampe d'un  incendio. Saltano le più robuste serrature chiuse  tlalla mano gelosa tleir avarizia, sì spezzano le  catene più robuste saldate dair egoismo e dalla  paura. Ogni "cuore umano ha ad ardere. dello  stesso fuoco; e il ferro robusto e il piombo vileJianno a fondere per una volta almeno in uuo   ft tesso croglaolo, formando una lega che bMì le  le^^i della cliìmica e le analisi della scienza. E  1111 popolo ebbro dì gioia', che non conta pia  nelle sue flohiere né poveri né ricchi, né gio  vani ne vecchi; raa canta con una voce sola, somma  dì tutti i vafiitì, di tntte le poesie, dì tutti gli  urli umani : canta V inno della redenzione o della  vittoria. Chi ha avuto la fortuna di essere già uomo  nel 48 e nel 5^ rammenta questi incendi fìei onori  italiani e per le membra forse già intirizzite tW  freddo dolla vec<3liiaia risente ancora il caldo di  quel fuoco. E rammenta ancora alcuni momenti  di estasi sante, di ineffabili rapimenti^ nei quali  ogni altro sentimento taceva o si eclissava davanti  al divampare subitaneo e irresistibile di un unico  sentimento, V amor di patria. l'amoe di patria 111ir Coa\ come <lair incendio delle foreste ver«:iiii  nello strato dì cenere clie rimane si prepara una  terra feconda per nuove creature a venire ; così  tietlp grandi estasi e nelle sante eìylirezze di mi  popolo trionfante, si prepara un nuovo terreno in  cui sarà scrìtta una nuova f^toria, È per questa  via che lo guerre diventano ri generatrici di nn  popolo stanco; e quando per due o tre i^enerazioni  non di rampa uno di questi incendi rigeneratori, i fanghi, le mutfe e i bacterii invadono ogni tronco  d' albero e ogni seme di pianta, e dalla lenta putrefazione dei  cadaveri, s' innalza un miasma omicida, elle soffoca i bambini nella culla, .sommerge  i giovani nella palude deirozìo e della noia, e uccide i non nati nel ventre delle madri. In tutte le lìngue dei popoli civili voi trovate scritto che vi è un amore platonico, e se si è sentito da tutti il bisogno del vocabolo, vorrebbe dire che la cosa esiste, o nella natura o nel pensiero degli uomini. Noi non ci fermiamo abbastanza sopra i rapporti delle parole colle cose, e ammettiamo si esso e  volentieri  che  tra  i  molti  suoi  capricci  l'uomo  abbia  anche  codesto,  di  fabbricare  parole  per  cose  che  non  esistono. Eppure ciò non è vero o almeno  non è vero che in parte. Se  fabbrichiamo una parola  per  un essere  immaginario,  è  però  vero  che  questo  essere  fu  immaginato  da  noi  e  quindi  esìste  o  è  esistito nel nostro cervello. Il guaio vero che si trova nello studio delle parole come  vestito  delle  cose  è  questo,  che  non  tutti  gli  uomini  applicano  lo  stesso  vocabolo  alla  cosa  stessa,  soprattutto  quando  si  tratta    fenomeni  psicologici. Di  qui  confasione,  anarchia;  torrenti  d'inchiostro  e  spreco  infinito  di  fiato  per  spiegarci,  per  intenderci  e  pur troppo, ahimè, per creare nuove contese e nuove logomachie. Sappiamo tutti che cosa sia un coltello, una mano, un occhio e a queste cose tutti applicano la stessa parola. Andiamo pure quasi  sempre d'accordo nel battezzare il piacere, il dolore, l'odio, la collera e molti altri fatti del mondo psichico, che hanno per tutte le coscienze lo stesso significato e  che  trovano  nel  dizionario  la  loro  rispettiva  veste.   Ma  ben  altro  avviene,  quando  si  tratta  di  fenomeni fugaci e confasi  o  di  momenti  impercettibili  di  un'emozione  o  di  un intreccio di  molteplici  elementi. Allora  la  parola  non  è  che  un'approssimazione grossolana o uno  sbaglio  completo,  e  noi  significhiamo  con  uno  stesso  vocabolo  le  cose  più  diverse,  facendo  come  colui  che volesse  per forza  far entrare  il  proprio  corpo  in un  vestito  che  non  fu  fatto  per  lui.   Questo  accade,  per esempio,  per l' aiwìre piatomeo.  Tutti  adoperano  questa  parola  per  ischerzo  o  sul  serio,  per  ludibrio  o  per  difesa, per  ipocrisia o  per  convinzione,  ma  le  idee  che  si  rivestono  con  questa  stessa  parola  son  così diverse,  come il    e  il  no,  come  il  vizio  e  la  virtù,  come  l'ipocrisia  e  l'idealità.  Proviamoci  a  interrogare,  facciamo  un'inchiesta, muoviamo  un processo alla  parola,  chiamando  al  tribunale  come  giurati  gli  uomini  del  volgo  e  i  filosofi;  gli  uomini  di  buon  senso  e  le  donne oneste; chiamiamo  pure  anche  gli  scettici  e  i  credenti;  i  materialisti  e  gli  idealisti. Che  cosa  è  l'amore  platonico?   L'amore  platonico  è  un  paradosso,  è  un'utopia;  non  è mai  esistita  e  non  esisterà  mai.   L'amore  platonico  è  una  ipocrisia  che  copre  ben  altra  merce. L'amore  platonico  è  un  lasciapassare  per  salvare  il  contrabbando.  L'amore platonico  è  una  falsa  chiave  o  un grimaldello per poter penetrare in casa d'altri senz'esser veduti.   L'amore  platonico  è  un  travestimento  dell'  impotenza.  L' amore platonico è  una  maschera  ad  uso  dei  ladri  e  dei  malfattori.   L'amore  platonico  è  la  quadratura  del circolo.   L'amore  platonico  è  la  centesima  versione  della  favola della  volpe,  che  trovava  acerba  l' ava  che  non  poteva  arrivare.   L' amore  platonico  è l' amicizia fra un  nomo  e  nna  donna.   L'amore  platonico  è  amore vero  e  proprio,  ma senza  la  colpa. L' amore  platonico  è  l’ amore  con  tutte  le reticenze imposte dalla religione,  dalla  morale  o  dalla  necessità.   L'amore  platonico  è  il  voglio  e  non  posso. L'amore  platonico  è  l'amore  senza  il  desiderio.   L'amore platonico  è  una  fraternità  delle  anime,  senza  il  possesso  dei  corpi.   L'amore  platonico è  l' ammirazione  senza  il  desiderio.   L'amore  platonico  è  tutto  l'amore,  meno  il  possesso.   L'amore  platonico  è  tutto  l'amore spogliato  dell'animalità.   L'amore  platonico  è  una  doppia  menzogna  a cui  non  crede  nessuno  dei  due  mentitori.   L'amore  platonico  è  il  primo  stadio  dei  grandi  amori  e  l'ultima  fase  dei  piccoli  amori.  L'amore  platonico  è  un  patto  giurato  da  due  che  spergiureranno  domani.   L'amore  platonico  ò  un  giuramento di  marinaro  fatto  durante  la  procella.  L'amore  platonico  è  una concessione  fatta  oggi  da  ano  dei  due  contendenti  colla  speranza  o  la  sicnrezza  di  aver  Taltra  parte  domani  o  posdomani.   L'amore  platonico  può  essere  una  finta  battaglia  fra  due  che  non  sanno  battersi  o  hanno  paura  del  sangue.   L'amore  platonico è  un  vescovato  in  partibus  infidelium  concesso  a  chi  non  si  può dare  una  curia.   L'amore  platonico  è  la  metafisica  dell'amore.   L'amore  platonico  è  la  più  sciocca  parodia  della  più bella, della più grande, della più ardente delle umane  passioni.  L'amore platonico  è  un  leone  di  gesso,  è una tigre di carta pesta, spauracchi da bambini o ninnoli di fanciulli. L'amore platonico è la più alta espressione dell'amore ideale. L'amore  platonico  è  il  trionfo  dell'uomo  sulla  bestia,  è  l'amore  reso  eterno  dall'idealità  delle  aspirazioni.   L'amore  platonico è  la  speranza;  l'amore  vero  è  la  fede.    Estasi  umane,   Vili   Sono trenta  definizioni  molto  diverse  tra  di  loro,  alcune  anzi  opposte  alle  altre,  ma  rappresentano  a  un  dipresso  tutte  le  possibili.  Lasciando  da  parte  quelle  che,  definendo  la  cosa,  la  negano,  mettendo  in  disparte  le  altre  che  sono  ironie  o  malignità, possiam  dire,  che  tutte  hanno  una  parte  di  vero,  per  cui  forse,  mettendole  insieme  in  un  buon  mortaio  di  agata,  che  la  nobiltà  della  materia  esige  tanta  nobiltà  di  strumento,  e  porfirizzando il  tutto  con  pazienza  di  chimico  e  sensualità di  farmacista,  potremmo  forse  sperare  di  avere  la  quintessenza  della  definizione,  la vera  e  unica  e  infallibile definizione  dell'amor  platonico.   Io  mi  son  provato  in  buona  fede  a  questa  operazione chimico-farmaceutica e  confesso    averne  ottenuto  un  polifarmaco  arabico-bizantino  che  mi  richiamava  alla mente i preparati  più bizzarri  del  medio  evo.  Ho  buttato  via  dunque  il mio pasticcio, e facendo  appello  al  senso  comune,  che  anche  nei  più  astrusi  problemi  della  psicologia  spesso li  risolve  meglio  d'ogni  altro  senso,  ebbi  questa risposta. L'amore  platonico  è  il  aentimmto  che  unisce  un  uomo  e  una  donna,  che  pur  desiderandosi,  rinunziano  volontariamente  all'intreccio del  corpi,  maritando  le  anime.   Fin  dove  arrivi  quest'amore,  fino  a quando  possa  vivere,  io  non  so.  Ho  scritto  un  libro  (Le  Tre  Oraaie)  per  dimostrare  la  possibilità  di  quest'amore,  ma  una  gentile  e  dotta  scrittrice  inglese  scrisse  argutamente  neWAcademy  che  io  avevo  tagliato  il  nodo  gordiano,  ma  non  l'aveva sciolto. Consultai  molti  inglesi,  intenditori  profondi  delle  ipocrisie  dell'amore,  chiedendo  loro  che  cosa  fosse  la  flirtaUon,  quali  i  confini  entro  i  quali  si  muovesse  questa  intraducibilissima  fra  le  intraducibili  parole e  ne  ebbi  così  svariate  risposte,  le  une  metafisiche, le  altre  ciniche,  da  scoraggiarmi  e da  fJEurmi  desistere  da  ogni  ulteriore  ricerca  in  proposito.  Dunque?   Dunque  io,  aspettando  da  altri  più  profondi  conoscitori  del  cuore  umano,  definizione  più  precìsa, più scientifica, conservo  la  mia,  bastandomi  per  ora  di  affermarvi  che  io  credo fermamente  nell'esistenza  dell'amore  platonico,  che credo  nella  sua  rarità,  nella  sua  altissima  idealità,  e  che  lo riconosco per uno dei  fiori  più  belli  e  più  fragranti  che  fioriscono nel  cuore   umano.  É  capace di  rapimenti  ineffabili,  di  estasi  degne  di  vivere all'altezza dell'estasi religiosa e  dell'affetto  materno. Non  ammetto  amore  platonico  fra  dae  vecchi,  fra  due  brutti, fra  due  creature  che  non  possono  desiderarsi.  Si  dice da  tutti,  ma  falsamente,  che  le  anime  non  invecchiano,  ma  invece  le  anime  invecchiano come i corpi,  e  le  anime  che  si  uniscono  nel  santo  vincolo  dell'amore  platonico,  hanno  ad  essere  giovani  e bèlle. Questo  sentimento  sublime  non  è  possibile  che  a  rare creature  elette,  che  sanno  compiere  il  miracolo di  spogliare  le  anime  da  ogni  veste  corporea, che sanno  spogliare  la  passione  da  ogni  desiderio  della  carne,  e  contemplandosi  si  ammirano e  si amano.   Anche  le  anime  come  i  corpi  hanno  un  sesso,  e nell'amor  platonico  stanno  faccia  a  faccia  e  guardandosi  eternamente  si  rimandano  senza toccarsi, torrenti di  luce  e  di  calore.  Due  astri  che  girano  nella  stessa  orbita,  che  non  si  toccanmai;  che  sorgono  insieme  con  una  stessa alba,  che  collo  stesso  tramonto  svaniscono  e  sfumano  nella  grande  voragine  dell'infinito.  Sempre  in  moto,  ma  sempre  distanti  Vnn  dal*  l'altro,  attratti  allo  stesso  centro  e respinti  dagli stessi poli;  in  relazione  tra  di  loro  soltanto  per  fasci  di  luce e  oitde di calore. L'anima  dell'aomo  fatta di  forza  e di  azione,  l'anima  della  donna  è  fatta  di  grazia  e  di  bontà;  e  queste  dne  natnre  umane  che  sommate  insieme  formano  l'uomo  completo  si  attraggono eternamente, ma non  si  fondono  insieme,  arrestate  dal  dovere,  che  permette  loro  di  amarsi,  ma  proibisce  loro  di  toccarsi  e  di  fondersi.  La massima  delle  attrazioni  diventita  immobilità,  la  massima  delle  forze  divenuta  ammirazione,  contemplazione,  estasi divina.  Nessun attrito, nessuna resistenza, nessuna trasformazione di energia;  nessuna  cenere  perchè  non  vi  è  fiamma;  ma  luce;  nessuna  stanchezza, perchè  non  vi  è  lavoro;  nessuna  morte  perchè  la  vita  è  arrestata  dal  miracolo  sublime  che  faceva  arrestare il sole  nel  cielo  nei  tempi  della  Bibbia.  Nessun  bisogno  di  mutamento,  perchè  solo  la  stanchezza  o  la noia  (che  non  è  altro  che  una  forma  di  stanchezza)  può  dar  desiderio  d' incostanza. L'amore  platonico  deve  essere  puro  da  ogni  voluttà terrena;  è  questa  la  sua  grandezza,  è  questa  l'acqua  lustrale  che  lo  battezza  e  lo  santifica.   Quelle  due immense  forze  che  si  attraggono  senza  toccarsi  e  senza  confondersi,  rimangono  immobili e  fìsse;  ma  se  una  delle  due  vacilla,  diminuisce d'un battito  solo  la  propria  energia,  la  più  debole  è  subito  attratta dall'altra  e  l'urto  è  irresistibile. Schizza  una  scintilla  o  divampa  una  fiamma ;  ma  l'amore  platonico  è  distrutto. Più  volte  i  due  astri  vengono  così  vicini  l'uno  all'altro  che  ne  oorrusoan  lampi.  Son  due .  creature  che nello  spazio  si  son  toccate  appena  con  un  fremito  di  ali  spasimanti,  ma  l'ala  deve  fuggire  con  santo  e  rapido  pudore  dal  contatto  dell'ala.  Guai  a  chi  crede  o  sogna  che  due  grandi amori  possano  vivere della  vita  celeste  delle  cose  eterne,  dopo  una  carézza  o  dopo  un  bacio.   Molti,  anzi  i  più  degli  amori platonici,  muoiono  in  questa  maniera,  perchè  le  due  anime  innamorate sognano  questo  sogno,  che  si  possa  fermarsi  a  metà  strada  sulla  china   di   certi  pendii;   ohe    li' credono o  sperano   che  Torlo   di   certi   precipizi  possa  essere  pietoso.   Non  un  bacio,  non  una carezza,  non  fosse  che  qaella  delle  ali.  Anche  le  ali  sono  materia  e  materia viva  e calda.  Quando  due  labbra  si  son  toccate, ahimè, l'amor  platonico  è  ferito  e  per  lo  più  a  morte.  Le  anime  sole  possono  amarsi  platonicamente e la  materia  è  sempre  dotata  di  gravità;  fosse  pnre  piuma  d'ala,  vello di  cotone  o  massa  di  piombo.  Il  precipitare  di  essa  sarà  lento  o  veloce secondo  la  diversa  densità  della  materia: i  venti  pietosi  delle  reticenze,  delle  difese,  delle  foghe  faranno  volare  per  l'aria  Iqngamente  il  filo di  seta  e  il  fiocco  di  cotone,  ma  fatalmente,  ma  inesorabilmente  avranno  a  cadere.  O  tutto  o  nulla  è  in  amore  un  assioma  di  quasi  matematica  precisione, e le  donne,  sempre  più  sapienti  di  noi  in  questa  materia,  lo  sanno  e  lo  ripetono  sempre  all'orecchio degli  impazienti. Esse  sono  le  vestali  dell'amore platonico,  le  custodi  del  pudore, e  quando  esse  vengon  meno  per  le  prime  ai  giuramenti  dell'amore platonico, non  v'ha  quasi  uomo  su  questa  terra,  che  le  aiuti  a  salire.  La  caduta  è  fatale,  è  irresistibile!  Al  contrario di  quanto  si  crede  volgarmente,  non  sono  i  piccoli  aniQri,  ma  i  f^frandi  che  soli  sono  capaci  di  salire  alle  altezze dell’estasi  platonica, di subire  quella  sublime  transustanziazione,  che  arresta  il  desiderio  alla  soglia  del  tempio,  che  trasforma  la  più  ardente  delle  passioni in  una  luce  di  luna,  che  illumina,  ma  non  riscalda.   I  piccoli  amori  son  pruriti  animaleschi,  che  si  soddisfano  grattandoci  o  applicandovi  dei  pannolini bagnati  nell’acqua  fredda.  Essi  non  possono  salire  le  alte  cime,  perchè  son  deboli,  molto  meno  poi  possono  attraversare  lo  spazio,  perchè sono  senz'ali.  Molte  false  virtù  non  sono che  piccoli  amori  domati  coi  fomenti  freddi  e  quando  li  vedo  innalzati  ai supremi onori del sagrificio e dell'eroismo mi vien  voglia  di  ridere.  I grandi  amori  invece  non  si  domano  che  colla  morte  o  con un  miracolo.  Questo  miracolo  è  Vamoi  e  platonico.   II  credente,  pieno  di  fede,  di  speranza  e  soprattutto d'amore  è  venuto  al  tempio,  per  pregare  ed  amare.  È  venuto   da   lontano:   almeno  per  venti,    forse  per  trent'anni  ha  viaggiato  e  sudato  per  monti e  per  valli,  attratto  alla  Mecca  dall'amore.  Nel  lungo  pellegrinaggio  ha  sudato  e  ha  pianto,  ha  patito  la  fame  e  la  sete,  ma  è  giunto  vivo  alle  porte  del  tempio.  I  minareti dorati  scintillano  al sole  e  dalle  porte  aperte  escono  profumi  di mirra  e  di  rose.   I  grandi  amori  sono  religione  o  idolatria,  e  il  pellegrino  s' inginocchia  e  prega  prima  di  essere  ammesso  all'adorazione  del  Dio.  Ed  egli  lo  vede,  ed  egli  lo  sente  vicino.  Nella luce rosea del tempio egli  ha  veduto  il  gran  Dio,  che  dispensa  la  vita  e  la  morte:  ai  suoi  occhi  lampeggianti  d'impazienza  e  di, ardore  hanno  risposto  altri  due  occhi,  lampeggianti e ardenti  come  i  suoi.  Egli  ama  e sarà  amato;  ancora  una  preghiera  e  san consacrato  li in  fondo  al  santuario  del  Sancta  sanctorum,  dove  il  fumo  degli  incensi  gli  nasconde  la  voluttuosa  visione,  dove  un  coro  di  angeli  gli  cela  i  sospiri,  di  chi  come  lui  aspetta  e  desidera.  Un  istante  ancora,  ancora  una  preghiera,  e  tu  avrai  il  premio  del  lungo  pellegrinaggio,  dei  lunghi  dolori  patiti.  Sei  nato  e  hai vissuto  venti,  trent'anni  per  cogliere quel fiore,  che  anch'esso  non  sbocciò  che  dopo  altri  venti  o  trent'  anni  vissuti  da  un'  altra  creatura  che  nacque  e  visse  per  te.  Oh  perchè  quelli  istanti  non  diventan  secoli   e   quei  secoli Vili    non  ardono  in  un  istante  sulUara  del  desiderio  e  dell'  amore?   Una  voce  vi  ha  chiamato,  vi  chiama.  Voi  siete  esauditi; voi  siete  ammessi  nel  tempio.  La  creatura sognata  per  tanti  anni,  intraveduta  fra  le  nuvole  della  fantasia  e  le  iridi  del  desiderio,  è  là,  vivente,  calda,  giovane,  davanti  a  voi  e  vi  sorride.  Anch'  essa  aveva  sognato,  desiderato,  aspettato:  se  1'  asceta  ha  bisogno  di  un  Dio,  anche Dio ha  bisogno  dell'adoratore,  e  voi  siete  la  creatura  sognata  e  aspettata  da  lei.  Ogni  vostro  sguardo  diventa  una  carezza,  ogni  vostra  carezza un desiderio  di  carezze  nuove,  e  i  baci  aleggiano  per  l'aria  facendo  intorno  a  voi  un  nembo  di  petali  di  rose.  I  desiderii  son  divenuti  benedizioni:  due  primavere,  due  vite,  due  amori  aspettano  di  fondersi  fra  un  istante  in  un  solo  paradiso  di  fiori,  di  profumi  e  di  voluttà.  Venga  pure  la  morte;  avrete  vissuto abbastanza,  il  mare  vi  sommerga  pure,  il  fuoco  vi  incenerisca,  la  terra  vi  ingoi;  al  di    dell'infinito  non  v'  ha  altro  pensabile;  al  di    del  tutto,  che  cosa  desiderare  ancora?  Amate  e  morite!   Ma  ecco  che  fra  voi  e  lei  un  angelo  o  un  demonio, il fato  o  il  dovere  ha  messo  una  spada  di  fuoco.  Voi  vi  amate  e  vi  amerete  fino  all'  ultimo  respiro,  ma  voi  non  vi  toccherete.  Non  una  carezza,  non  un  bacio;  neppure  i   flati  confonderanno i tepori  delle  anime.   Io  afiretto  colla  penna  impaziente  ciò  che  in  natura  avviene  lentamente,  più  spesso  per  una  serie  non  interrotta  di  uragani.  Senza  lotta,  senza  agonia,  senza  l'orto  di  Getsemani  non  avviene  quella  trasformazione  che  muta  due  desiderii  in  una  rassegnazione,  due  passioni  in  un'estasi,  due  soli nell'astro  della  notte.  Nulla  si  perde  di  quanto  vive  o  si  muove,  non  la  materia,  non  la  forza  che  non  è  altro  che  l'atteggiamento della  materia,  e  anche  ì  cataclismi  della  terra  e  del  cielo,  anche  i  cicloni  che  sconvolgon  la  terra  e  rovesciano  le  città  sono  trasformazioni di forze,  sono  equazioni  matematiche  nelle  quali  il  prima  e  il  poi  si  dimostrano  come  quantità eguali.   Così  avviene  anche  negli  uragani  del  cuore.  Due  amori  dovevano  confondersi  insieme  per  riaccendere la  fiaccola  della  vita,  due  baci  dovevano  salire al cielo  confusi  in  una  sola  benedizione  della  vita  trionfatrìce.  E   invece,   passata  la  procella,    vin    rasserenato  il  cielo,  noi  vediamo  il  pellegrino  venuto da lontano  al  tempio  d'amore  ancora  sulla  soglia,  ancora  prosternato  e  in  atto  di  rassegnata  e  serena  adorazione.  E^  nel  tempio,    in  fondo,  fra  le  nuvole  degli  incensi  e  il  coro  degli  angeli,  immoto  il  Dio,che  guarda  il  pellegrino  con  tenerezza serena;  e    rimarranno  entrambi  Dio  e  creatura, idolo e  sacerdote  fino   all'  ultimo  respiro.  L'amore  che  feconda  è  divenuto  l'amore  che ammira; l'amore   che   ama  è   divenuto  l'amore  che  adora;  il  sole  che  tutto   colorisce  e  riscalda  si  è  trasformato  nella  luna,  che  fa  fantasticare  e  sospirare.   Se  avete  letto  la  mia  Filologia  del  dolore,  dovete ricordare  le  pagine,  nelle  quali  ho  tentato  di  studiare  la  psicologia  della malinconia.  Fra  questo  caro  fiore  del  giardino  del  cuore  e  l'amore  platonico  vi  sono  grandissimi  rapporti  di  somiglianza.   L'amore  platonico  è  una  grande  e  soave  malinconia e  chi  l'ha  potuto  e  saputo  godere,  non  rimpiange  la  gioia,  perchè  quel  sentimento  ha  bellezze  più alte,  ha  misteri  più  delicati,  segreti  più  riposti  e  sublimi.  Dei  vulcani,  dei  terremoti,  degli  uragani  che  sono  vita  quotidiana  dell'amore  nulla  è  rimasto  :  delle  battaglie  combattute  nessun  cadavere,  nessun  membro divelto;  il  terreno l'amob  platonico lacerato  dalle  bombe, solcato  dalle  artiglierie,  madido di  sangue  umano,  è  ritornato  all'aratro;  e  le  spighe  fioriscono,  dove  corsero  i  gemiti  dei  moribondi e gli  urli dei feroci. Una croce di legno piantata sull'orlo del campo  vi  ricorda  però  la  storia  del  dolore  e  spande  all'intorno  un'aria  malinconica.    Non  invano  io  ho  invocato  il  tempio  ad  esprimere e  contenere  i  misteri  dell'amore  platonico,  perchè  questo  ha  forme  mistiche  e  le  sue  estasi  presentano  molti  caratteri  del  rapimento  religioso.   Soffocato  e  spento  il  desiderio,  inutile  la  lotta,  che  cosa  rimane  fuorché  l'adorazione?  E  questa  adorazione  che  prima  è  consagrata  all'  idolo,  si  affina  sempre  più,  man  mano andiamo  perdendo  la  memoria  delle  battaglie  combattute e  la  figura  che  adoriamo  perde  ogni  giorno  più  la  propria  personalit\  per  prendere  forma  di  mito  o  di  simbolo. La  donna  che  adoriamo  d'amore  platonico  non  è  più  per  noi  Laura  o  Beatrice,  ma  è  la  donna,  la  donna  unica  e  sola  che  per  noi  personifica  tutte  le  bellezze,  tutte  le  grazie,  tutti  gli  incanti  di  Venere  e  di  Eva.    La  donna  amata  ha  occhi  che  ci  incantano,  membra  che  le  mani  accarezzano,  chiome  entro  le  quali si  smarriscono  i  desiderii come  in  un  labirinto incantato.  La  donna  amata  d' amore  platonico  non  ha  occhi,  non  membra,  non  chiome,  e  perchè  le  avrebbe  se  noi  non  possiamo  baciarli  e  possederli  ?  Dio  ha  forse  occhi,  membra  e  chiome  f  Noi  amiamo  platonicamente,  ma  amando  adoriamo;  e  l'adorazione  è  l'estetica  divenuta  affetto  o  l'affetto divenuto  estetica,  o  direi  meglio  è  un  sentimento che aleggia  eternamente  fra  l'ammirazione di  una  bellezza  assoluta e  un  amore  infinito  per  questa  bellezza,  a  cui  non  osiamo  dar  forma,  perchè  anche  questa  ci  sembra  una  profanazione.   L' amore abbraccia  sempre  qualche  cosa,  colle  mani  o  colle braccia,  colle  labbra  o  col  cuore;  l'amore  platonico  non  abbraccia,  perchè  l'infinito  non  si  stringe;  l'amore  platonico,  contempla,  ammira, adora. Siamo  in  piena  estasi  e  in  estasi  permanente:  nessun  carattere  del  rapimento  gli  manca,  non  la fissazione,  non  lo  sprofondarsi  di  tutte  le  sensazioni in  una  sensazione  sola,  non  la  immobilità  per  tensione  di  tutti  i  muscoli  antagonisti,  non  la  catalessi, non  la  insensibilità  per  eccesso  di  sensazione. E le  estasi  son  due:  due  come  le  creature  che  mutuamente  si  contemplano  e  si  adorano;  due  come  le forze,  che  campate  nello  spazio  e  sempre  lontane  si  invocano  e  si  attraggono  e  eternamente  rimangono  fìsse,  senza  avvicinarsi  di  nna  lìnea    toccarsi  mai.  In  cielo  fra  gli  astri  avvengono  questi fenomeni che  gli  astronomi  studiano;  nel  cuore  umano  avvengono  gli  stessi  fenomeni  con  leggi  eguali,  con  eguale  miracolo  di  potenza  e  di  bellezza. Se  l'amore  platonico  per  la  sua  alta  idealità  si  avvicina  ai  rapimenti  mistici  dell'asceta,  ha  per  altri  suoi  caratteri  le  profonde  sensualità  del-l'avarizia.   L'avaro  e l'amor  platonico  hanno  questo  di  comune: possedere un  tesoro  che  contemplano,  che  adorano,  ma  che  non  spendono.   Quella  donna  che voi  adorate,  è  d'  altri  o  di  nessuno  in  apparenza,  ma  nessuno  l'ama  come  voi,  per  nessuno  è  bella  quanto  lo  è  per  vói.  I  vostri  sguardi,  le  vostre  aspirazioni,  i  vostri  pensieri  sempre  rivolti  a  lei  la  circondano  d' un’aureola,  che  la  isola  dal  mondo.  Essa  è  chiusa  in  uno  scrigno  invisibile,  ma  non   meno  inviolabile;   in    uno  scrigno  d'oro  e  di  gemme  di  cui  voi  solo  avete  la  chiave.  E  anch'essa,  voi  lo  sapete,  non  ama  che  voi.  È  il  possesso  potenziale,  è  la  proprietà  ideale.  Gosì  appunto  è  dell'avaro:  egli  contempla  quei fasci  di  biglietti  miracolosi  che  possono  a  un  cenno  trasformarsi  in  gioie,  in  lusso,  in ogni  ben  di  Dio.  E  per  volontà  nostra  quella  donna  è  intangibile,  quel  denaro  non  si  muove,  ma  quella  donna  è  nostra,  quel  tesoro  è  nostro.  L'amore  platonico,  ricco  com'  è  di  rapimenti,  ci  presenta  allucinazioni  di  trascendente  bellezza.  Nessuno  più  abile  sarto  per  vestire  i  corpi  nudi,  nessuno  più  ardito  per spogliare  i  corpi  vestiti. Nelle  visioni  dell'  asceta  Dio  appare  (come  vedremo più  innanzi)  in  aspetti  svariati,  ma  sempre  bellissimo;  e  l'adorazione  che  crea  l'immagine  si  raddoppia  neir estasi  d'ammirazione  di  quelle  bellezze. E così è  noli'  amore  platonico,  in  cui  tutte  le  forze del  pensiero,  tutte  le  energie  del  sentimento, concentrandosi  in  un  punto  solo,  danno  tali  ali  alla  fantasia  e  tale  energia  al  suo  pennello da trasformare  l'uomo  in  un  poeta  e  in  un  pittore  in  una  volta  sola.  Poeta  che  abbellisce  e idealizza  tutto  ciò  che  tocca;  pittore  che  della  sua  tavolozza  fa  una  verga  magica  che  tntto  riveste di  un'iride  afiascinante.   La  donna  adorata  e  non  posseduta  è  sempre Venere  per  noi; Venere  Afrodite  quando  la  fantasia la spoglia,  Venere Urania quando la  fantasia la  ravvolge  nei  densi  veli della  nostra  gelosia e  del  nostro  rispetto.  Nuda o vestita è sempre una  Dea  per  noi,  e  noi  ne  siamo  i  sacerdoti.  Anche  le  sante  vedono  Dio  nudo  nelle  loro  visioni, né quella  nudità  è  meno  casta  o  meno  pudica.  L'amore  platonico è  tutto  un  pudore,  perchè  il  pudore  è  la  riverenza  dell'amore,  è  la  santificazione del  desiderio.    Oh  quante  volte  nei  sileuzii  della  notte  le  tenebre si illuminano  per  noi  alla  luce  mistica  della  fantasia  e  dall'onda  azzurra  d'un  mare  tranquillo  sorge per  incanto  al  fremito  impercettibile  d'una  brezza  che  vien  dal  profondo  una  visione  di  donna.  E  noi  assistiamo  al  mistico  nascere  della  Dea  d'amore,  assistiamo  al  nascer  della  vita. Estasi  umane,  vili  E  sorge  dall'onda  Spumeggiante  pregna  degli  inebbrianti  e  salsi  aromi  del  mare  la  visione  della creatura  amata,  della  sola  donna  che  per  noi  è  donna,  e  che  nuda  e  casta  come  una  statua  di  Fidia,  lucente  dell'  onda  che  cade  in  mille  perle  su  quella  perla  sola  che  è  il  corpo  di  lei,  s'innalza  fremente  e  flessuosa,  come una  palma  umana;  e  sorge  e  s'innalza sulle  sue  colonne  di  marmo  pario,  inghirlandata  dalle  chiome  fluenti,  che  fanno  piovere  una  pioggia  di  perle  sui  morbidissimi flanchi intomo a  lei  bolle  e  freme  l'onda,  quasi  ebbra  dei  contatti voluttuosi  della  Dea,  e  guizzano  nereidi  e  naiadi  a  farle  corona  di  bellezze  minori,  mentre  angioletti  rosei  svolazzano  all'intorno  di  lei,  impazienti di  accarezzarla  colle  ali  convulse.  E  nessuna lascivia scuote  le  nostre  membra  e  nessun  desiderio  osa  turbare  Testasi  di quella  contemplazione. Voi  siete  sempre  in  ginocchio,  col  corpo  o  col  pensiero,  davanti  alla  divina  immagine  che  adorate.    E  altre  volte  Venere  non  esce  dal  mare,  umida  e  calda  delle  sue feconde  aspergini,  ma  in  un  bosco di allori  sotto  il  cielo  ellenico,  scende  dal  tempio e  passeggia  sorvolando  sull'erba, quasi  statua  che  ubbidisce  all'evocazione  del  suo  creatore  e  ritoma alla  vita.  E  gli  inni  dei  poeti  e  le  corde  d'oro  delle  arpe  eolie  cantano  e  suonano  le  loro  armonie,  facendo  coro  di  ammirazione  e  osanna  di  adorazione alla dea  della  bellezza,  alla  madre  di  tutti  ì  viventi.  E  noi  prostesi  al suolo  baciamo  l'orma  profumata,  che  il  piede  divino  lascia  sui  muschi  vellutati  e  fra  l'erbe  odorose. Ma  terra  e  mare  non  bastano  più  a  fare  cornice alla  nostra  visione  trascendente  e  noi  vediamo la nostra  Dea  farsi  creatura  alata  e spiccare  il  volo  nelle  alte  regioni  del  cielo.  Non  più  carni  rosee  o  colonne  di  marmo  parlo,  ma  la  carne  dive-vni nuto  opale  e  le  membra  trasformate  in  ali.  E  vìa  per  Paria  e gli  spazi  infiniti  del  vuoto,  un  aleggiar  robusto  e  un  ondeggiar  di  chiome,  or  dorate  dai  raggi  del  sole,  or  argentine  al  chiaror  della  luna,  or  buie  come  le  tenebre  degli  abissi.  E  un  fiammeggiar degli astri,  che  anch'essi  nell'eterna  pace  dei  secoli,  fremono  alla vista  di  quella  divina  bellezza e  scintillano  più  caldi  e  più  splendidi,  salutando colle  ebbrezze  della  luce  una  creatura  deUa  terra.   E  noi  dietro  a  quella  visione,  convertiti  da  creature mortali in  un  sospiro  di  desiderio  che  vola  e  insegue  la  donna  alata.  La  via  lattea ci  è  guida  al  nostro  volo  audace  e  tra  la  polvere  degli  astri  che  non  abbiam  tempo  di  ammirare  e  fra  gli  abissi  dell'infinito  e  le  meteore  deUo  spazio  cogli  occhi  fissi  a  quella  creatura  che  è  cosa  nostra  e  di  cui  sentiamo  nel  vuoto infinito  il  batter  dell'ali, Siam  rapiti  in  estasi  e  speriamo  di  confonderci e sparire  in  quella  donna,  che  non  è  più  donna,  ma  angelo;  che  non  è  più  angelo,  ma  Dio;  un  Dio creato  dalla  nostra  fantasia  e  dal  nostro  amore.  Sparire  per  sempre  e  con  lei,  come  dicesi  che  le  comete  attratte  dal  sole  si  consumino  in  un  bacio  ardente  come  loro,  ciclopico  come  lo  spazio.   Sparire  e  confondersi, non  ritrovar  più  il  nostro Io,  non  distinguere  più  qua! differenza passi  tra  noi  e  lei,  fra  l'amare  e  Tessere,  fra  l'uno  e  il  due;  non  ricordarsi  della  terra,  del  nascere  e  del  morire, della gioia  e  del  dolore;  non  pensare  altro  pensiero  che  il  pensiero  di  lei,  perdere  tutta  la  coscienza  e tutta  la  memoria,  per  sommergerle  nel  grande  oceano  di  una  sensazione  sola,  l'estasi;  spogliarsi  di  tutte  le  passioni,  dimenticarle  tutte,  per  non  ardere  che  d'una  sola  passione,  l'amore.  L'uomo  e  la  donna  disgiunti sulla  terra,  ricongiunti nel  cielo  e  per  sempre  con  un  bacio  che  non  ha  domani,  con  un  amplesso  che trasforma  le  anime  nella  carezza  di  quattro  ali. L’estasi  dell'amore  platonico  non  sono  tutte  di  adorazione,  ma  possono  presentarci  le  forme  della  devozione,  del  sagrifizio  spinto  fino  al  martirio. Allora noi  abbiamo  i  rapimenti  già  descritti  nell'amore  materno,  nell'amor  figliale  e  negli  altri  affetti  minori.  Inutile  ripetizione  sarebbe  quella  di  ritrarre  i  lineamenti  di  questi  quadri  sublimi,  che  tanto  si  rassomigliano. L'ionico  carattere  che  distingue  tutte  queste  forme  svariate  è  quello  di  essere  accompagnato  dall'ardore della  più  calda  delle  passioni,  di  esser  tutto imbevuto  di  quell'amore  che  fu  chiamato  con  questo  nome  senza  aggiunta  di  alcun  aggettivo, quasi  prototipo  di  tutti  gli  altri  amori.   L'amore  platonico  può  essere  potente  e  fecondo  di  estasi,  anche  quando  non  è diviso da  un'altra  creatura.  Anche  quando  vibra  in  un  solo  cuore,  anche  quando  contraddice, rarissima  eccezione, il  verso  famoso  del  poeta. Amor  ch'a  nullo  amato  amar  perdona,   può  durare  tutta  la  vita,  può  essere  il  palpito  di  ogni  ora,  il  sogno  d'ogni  notte,  la  religione  mistica di un solo  cuore.  In  questi  casi  soltanto  vi  ha  di  diverso  e  di  caratteristico  una  soave  malinconia, forse  confortata  da  una  speranza  lontana  che  il  nostro  amore,  pur  rimanendo  sempre  pia*  tonico,  8iia  diviso  da  un'  altr'  anima.  Xie  estasi  dell' amicizia. Rapimenti  dell'amor  fraterno.    Anche  senza  il  fascino  del  sesso,  anche  senza  i  vincoli  del  sangue  l'nomo  può  amar  l'uomo  di  quel  sentimento  che  si  chiama  amicizia.  Ho  gii\  parlato  troppe  volte  e  a  lungo  nella  mia  fisiologia del piacere e  in  altri  miei  libri  più  recenti  dell'amicizia,    starò  a  ripetermi.  Qui  non  dobbiamo occuparci che  di  quelle  rarissime  forme  di  questo  sentimento  che  possono  portarci  fino  all'estasi.   L'amicizia  è  possibile  fra  uomini  e  uomini,  fra  uomini  e  donne,  fra  donne  e  donne;  ma  il  sesso  è  tale  un  elemento  perturbatore  d'ogni  altro  affetto,  che  non  sia  amore,  da  rendere  1'  amicizia  assai  rara  fra  ue persone  di  sesso  diverso,  e  anche  quando  i  sensi  non  parlano  e  nessun  desiderio accompagna  l'amicizia,  questa  è  però  modificata profondamente  da  quella  tenerezza  irresistibile che l'uomo  ha  per  la  donna,  di  quel  bisogno  di  protezione  che  la  donna  sente  dinanzi  all'uomo.  Ecco  perchè  preferirei  separare  dal  gruppo  delle  Estasi  umane.  L’ amicizie  vere  quella  che  Tuomo  e  la  donna  possono intrecciare tra  di  loro,  ravvicinando  queste  alla  famiglia  degli  amori  platonici.    V  amicizia  è  un  sentimento  di  lusso  e  noi  lo  vediamo  mancare  affatto  o  presentarci  forme  atrofiche negli uomini  di  bassa  gerarchia  psichica.  Le  sue  energie  sono  deboli,  talché  cedono  subito  il  campo  ad  altri  sentimenti  più  imperiosi  e  che  hanno  una  grande  missione  nel  ciclo  della  vita.  È  anche  per  questo  che  le  donne  ci  presentano  più  raramente  esempio  di  calde  e  tenere  amicizie.  In  esse  l' amore e  la  maternità  occupano  tanta  parte  del  cuore  da  non  lasciare  il  posto  per  altri  sentimenti  minori,  e  d'altronde  la  galanteria  virile  fa  delle  donne  altrettanti  rivali  e  semina  la  gelosia e  inviperisce  le  vanità  e  solletica  la  malizia  e  la  maldicenza;  per  cui  V  amicizia  fra  donne  è  pianta  rara,  che  vive  per  lo  più  vita  breve  e  fra  le  pareti  di  una  stufa  ben  calda  e  custodita.   Che  l'amicizia  sia  una  pianta  di  lusso  lo  prova  il  vederla  fiorire  nell'  età  delle  massime  energie  affettive,  cioè  nella  giovinezza. Col  primo  aocenno di  capelli  bianchi,  col  primo  chinar  della  curva  vitale,  le  amicizie  nuove  sono  molto  rare  e  le  antiche si  conservano  spesso  per  abitudine,  per  riconoscenza, ma  son  fiacche  e  messe  quasi  sempre nel secondo  giro  degli  affetti.   Se  r  amicizia  è  sentimento  raro,  è  tanto  più  delicato  e  si  muove  in  una  sfera  di  altissima  idealità. Intendo  sempre  parlare  della  vera,  della  sublime amicizia,  di  quel  sentimento  che  fa  di  due  nomini  un  nomo  solo,  che  li  unisce  mano  con  mano,  cuore  con  cuore,  anima  con  anima.  Per  lo  più  fra  la  massa  del  volgo  si  chiamano  con  quésto  nome  simpatie  fugaci,  associazioni  d'interessi,  consuetudini d'occasione  ed  altre  cose  ancor  più  volgari e più  basse.  Per  questa  via  di  certo  nessun  rapimento  è  possibile.   Ciò  che    il  marchio  di  nobiltà all'amicizia  è V eleziùne che  ne  è  il  midollo  e  lo  scheletro,  chene  è  il  motivo  informatore.  Non  è  soltanto  negli  ordini  politici  che  relezione  sostituita  all'eredità  o  alla  forza  segna  un  gigantesco  progresso:  anche  nel  campò  degli  affetti  l'elezione  è  il  battesimo  che  li  consacra  ad  una  vita  gloriosa,  che  li  tra-sporta dai  bassi  fondi  delle  necessità  organiche  nel  cielo  dell'  idealità.  Neil'  amore,  nell'  affetto  di  patria,  nella  maternità,  in  tutti  i  potenti  affbtti  che  stringono  l'uomo  coi  vincoli  della  famiglia,  vi è  un  vigore  irresistibile,  vi  è  una  forza  trascendente, ma  nello  stesso  tempo  noi  ci  sentiamo  rapiti dal fato,  dalla  necessità:.  Siamo  ben  felici  di  questa  cara  necessità,  Ina  V Io,  sempre  superbo,  sente  qualcosa  più  forte  di  lui  e  riverente  s' inchina e  ubbidisce  alle  leggi  della  natura.   Nell'amicizia  invece  nulla  di  tutto  questo:  nessun fato,  nessuna  necessità,  nessuna  tirannia  d'uomini, di cose  o  di  tempi.  Due  anime  umane  si  incontrano  nel  viavai  della  folla,  si  contemplano  e  s'intendono.  Un  riso  sorriso  in  due,  una  lagrima  pianta  in  due,  un  grido  d'  entusiasmo  escito  prorompente, irresistibile  in  uno  stesso  momento  da  due  petti  umani,  avvicina  i  cuori  e  stringe  le  destre.  Son  due  note  musicali,  che  partito  da  due.  strumenti  lontani  si  sono  incontrate  per l’aria,  formando  un  accordo  d'armonia.   E  quello  stringersi  delle  mani  rivela  nella  sua  espressione  semplicissima  tutta  la  psicologia  più  fine e  più  profonda  dell'amicizia.  In  amore  son  le  labbra  che  tendon  Farco  e  si  cercano;  in  amore  son  le  viscere  che  si  intrecciano  e  si  fecondano:  neir  amicizia  son  le  mani,  che  si  cercano  e  si  stringono;  gli  istrumenti  del  pensiero  e  dell'azione.  Sentire  insieme  e  sentire  egualmente,  ammirare  le  stesse  cose  e disprezzare  gli  stessi  uomini,  parlare commossi  cogli  stessi  i)oeti  e  benedire  con una  voce  sola  lo  stesso  sole,  ci  fa  parenti  nelle  anime,  come  in  amore  le  simpatie  fanno  di  due  sangui  un  sangae  solo,  di  dae  desiderii  un  desiderio solo, e colla fiisione intima di due esistenze, creano una terza vita.  L'amicizia  è  una  parentela  d'elezione,  è  un  amore  delle  anime,  è  un  sentire  il  proprio pensiero  sommato a un  altro;  i  proprii  sentimenti,  le  proprie  simpatie,  le  proprie  aspirazioni  ripercossi  sempre  dall'eco  affettuosa  di  un'altra  simpatia,  di un'altra  natura  umana,  che  risponde  alla  nostra.  Dolcezze  ineffabili,  voluttìi  di  altissima  sfera,  che  fanno  l'uomo  superbo  d'esser  uomo. Questo consenso non  cercato  ma  trovato,  questo combaciarsi  intero  e  completo  di  due  anime,  questo  libero  matrimonio  di  due  nature  umane può  bastare a rapirci  in  estasi;  quando  soprattutto  ci  rifugiamo  in  seno  all'  amicizia  per  sfug;^ire  dagli  urli  del  profanum  vulgus;  quando  siamo  inseguiti  dal  latrato  dei  cani;  quando  ci  sentiamo  asfissiati  dal  lezzo  del  fango  in  cui  pur  troppo  dobbiamo le  tante  volte  camminare  e  sommergerci.  È  allora  che  l'oasi  dell'amicizia ci  stende  la  sue  braccia  e  ci  involge  colle  sue  ombre  profumate,  colle  sue  brezze  inebbrianti,  e  proviamo  la  santa  gioia  di  chi  escito  da  una  cloaca  immonda  e  oscura,  si  trova  nell'aperto  cielo  in  mezzo  alla  luce,  all'aria pura;  fors'anche  fra  il  profiimo  dei  fiori  e  il  sorriso dei bambini. L'estasi  di  due  amici  che  si  comprendono,  che  ^i  stringon  le  mani.  che  si  guardan  negli  occhi,  leggendovi  riflessa  Pimmagine  di  so  stessi,  è  muta  come  quasi  tutti  i  rapimenti  della  vita.  É  muta  ed  è  profonda:  è  serena  eie  azzurra.  Non  si  sa  eome  incominci  e  dove  finisca;  appunto  come  noi  non sappiamo,  guardando  in  alto,  dove  il  cielo  incominci  e  dove  esso  finisca.  Tiriamo  profondo  profondo  il  respiro,  perchè vorremmo quasi ingrandirci di dentro,  come  ci  sentiamo  raddoppiati  di  fuori;  e  il  nostro  Io  si  confonde,  si  sprofonda  con  un'altra  coscienza,  quasi  due  parti  di  un'anima  sola,  che  separate  dalla  violenza,  incontratesi  nello  spazio,  ritornano  ad  essere  una  cosa  sola.  In  quei  momenti  beati  ogni  confine  ben  definito  della  coscienza  si  ofiftisca  e si  sperde  :  ci  pare  di  essere  due,  perchè  godiamo  sentimenti,  bellezze,  splendori el  vero  o  del  buono  in  due;  ci  par  di  essere  uno,  perchè  sentiamo  vibrare  due  coscienze  in  unacocienza  sola;  perchè  le  due  anime  si  son abbraociate e  strette  e  confuse  in  un'anima  sola.  Sante  e  care  e  dolci  ebbrezze  dell'amicizia,  che  si  elevano  per  la  loro  purezza  nelle  sfere  più  alte  dei  sentimenti umani. Se  sono  men  calde  di  quelle  dell'amore,  sono  però  più  durevoli  e  serene;  se  vi  è  meno  volutto,  vi  è  più  pensiero;  se  vi  è  meno  fuoco,  vi è  più  luce. Ma  perchè  questi  sterili  e  vani  confronti?  Perchè sagrificare  anche  noi  a  quel  maledetto  gallo  d' Esculapio,  che  costringe  sempre  l’uomo  a  confrontare le  cose  che  studia  e  descrive?  Forse  che  si  pota risolvere  il  problema la  rosa  sia  più  bella  del  giglio,  lo  zafiBro  più  splendido  del  diamante, il cavallo  più  bello  del  leone?  Lasciamo  ogni  bellezza  al  suo  posto  e  non  tormentiamo  le  creature del nostro pianeta, facendole passare sotto le forche caudine delle nostre gerarchie. La natura feconda e generosa non ha mai scrìtto dei numeri sulle proprie creature: nessuna prima, nessuna ultima, e il muschio microscopico che nasce e fiorisce fra le fessure del tronco d'una palma  superba, è bello quanto l'albero maestoso che  le offre l'ospitalità; e la stretta di mano dell'amicizia è cara quanto lo stringersi insieme delle labbra innamorate. Le  estasi  dell'amicizia  sono  di  varie  forme,  ma  quasi  tutte  possono  ridursi  a  queste  due:  estasi  di  simpatm  e  estasi  di  conforto.   Delle  prime  ho  parlato  fin  qui,  riducendole  ad  un'espressione  sola.  Le  altre  sono  più  facili  e  più.  comuni.  Esse  non  sono  che  estasi  di  carità  rese  più  intense,  più  cald,  più poetiche,  perchè  il  sentimento che  le  ispira  è  di  più  alta  natura.  Nella  carità  facciamo  il  bene  agli altri,  solo  perchè  uomini; all'amico  diamo  tutto  noi  stessi,  per  lui  facciamo i  maggiori  sagrifizii,  perchè  uomo  e  perchè  amico.   Dall'elemosina  che  ci  umilia  e  può  anche  avvilirci, incomincia  una  scala  ascendente  e  che  ha  mille  gradini  e  pei  quali  si  sale  alle  forme  più  squisite  della  beneficenza.   Sulla  più  alta  cima  sta  sempre  1'  amicizia,  che  conforta  e  aiuta  e  soccorre  senza  umiliare  e  porge  il  dono  con  tale  delicatezza,  che  mal  sapresti  dire,  se  sia  più  prezioso  il  dono  o  più  caro il  modo con  cui  ti  vien  presentato. ESTASI  dell'amicizia  Impiccolire  il  sagrifizio  fino  a  nasconderlo  affatto, mostrare  che  chi    è  invece  colui  che  riceve, ohe  il  donatore  rimane  debitore;  nascondere  nella  gioia  di  dare  l'orgoglio  di  dare  e  soffocare  fin  dal  suo  nascere l' involontario rossore  di  chi  riceve,  sono  altrettanti  miracoli  che l’amicizia  compie  colla  massima  agilità,  colla  maggiore  naturalezza di  questo  mondo.   Indovinare  il  dolore  anche  senza il  pianto, presentire l'imbarazzo quando  nessuno  lo  sospetta,  prevedere  la  sventura  prima  che  arrivi,  il  pericolo  prima  che  l'allarme  sia  dato,  non  attender  mai  che  la  mano  si  stenda  a  voi,  ma  stendere  la  vostra  e  nella  stretta  di  mano  nascondere  il  benefizio,  sono  le  prime  lettere  dell'  alfabeto  dell'  amicizia;  son  problemi  elementari che  il  cuore  risolve  di  primo  acchito  e  senza  bisogno  di  studiare  la  matematica.   Davvero  che  in  questi  ca^i  è  diflBcile  dire  chi  più  goda  dei  due,  chi  primo  arrivi  al  rapimento  del  benefizio  fatto  o  della  riconoscenza  caldissima.   L'uno  ha  preveduto,  ha  presentito,  ha indovi-nato. L'  amico  soffre  ed  io  posso  far  tacere  quel  dolore.  L'amico  ha  bisogno  di  soccorso,  di  conforto, ed  io  sarò  quei  fortunato  che  potrò  soccorrere e  confortare.  Il  cuore  batte  forte  forte  in  petto,  le  mani  tremano  per  1'  emozione  e  un sorriso involontario e  angelico  corre  sul  nostro  volto.  Tutti  gli  artificii  più  astati  sono  da  noi  adoperati  per  far  sembrar  facile  ciò  che  è  difficile,  naturale  ciò  che  forse  è  per  noi  un  doloroso  sagrìflzio. Nessuna astuzia è  più  raffinata,  nessuna  ipocrisia  più  opaca,  nessuna  fantasia  più  immaginosa  di  quella  che  adopera  l'amico  per  occultare  il  benefizio,  per  giungere  in  tempo;  per  abbellire  la  carità  collo  splendore  della  sorpresa.  Il  dono  dell'amico  è  un  fiore  bello  e  profumato  che  ci  presenta  la  mano  di  un  bambino,  innocente e  giulivo  come  la  bontà  sempre  aperta  dell'uomo  generoso,  rìdente  come  tutte  le  primavere  della  vita  e  della  natura.   E  chi  riceve  ed  è  costretto  a  non  vergognarsi  di  ricevere  e  chi  indovina  tutte  le  sante  astruserie  e  i  fini  accorgimenti  che  accompagnano  V  opera  del  conforto  e  chi  misura  tutta  1' altezza dell'  anima  che  corre  soccorrevole  a  noi,  rimane  confuso  e  commosso  e  dallo  strazio  della  disperazione  è  portato  di  volo  alla  beatitudine  più  sicura  e  più  alta.  L'amico  ci  ha  indovinato  e  l'amico  risponde  con  un'onda  di  riconoscenza;  il  sorriso  di  chi  fa  il  bene  è  nobile  come  il  sorriso  di  chi  lo  riceve,  e  due estasi  si  confondono  in  un'estasi  sola.   Chi  più  felice  dei  due?  Nessuno.  Chi  più  grande?  Nessuno. Quale  il  debitore,  quale  il  creditore?  Nessuno  dei  due;  o  entrambi  creditori,  entrambi  debitori. Chi  più  bello  del  sole  che  illumina  o  della  terra  che  è  baciata  dal  sole!  Chi  più  bello  del  cielo  che  si  specchia nel mare o  del  mare  che  si  fa  azzurro  al  sorriso  del  cielo?  Chi  più    e  più  riceve della  gloria  dei  grandi  o  del  riflesso  d' amicizia che  le  turbe  innalzate  dal  genio  rimandano  al  sole  del  pensiero? Beata  ignoranza  codesta,  di  non  poter  distinguere  due  bellezze  che  si  fondono in una  bellezza  sola;  due  gioie  che  si unificano ìa una  voluttà  sola;  due  grandezze  che  si  sperdono  e  si  consumano  in  una  sola   immensità.   Non  malediciamo  la  vita,  se  questa  ci  lascia  lo  spazio  e  il  tempo  per  essere  uno  di  questi  amici  o  per  assistere  ad  una  di  queste  scene  del  mondo  morale.  Quante  bassezze,  quante  viltà,  quanto  fango  si  devono trovare nei  sentieri  pedestri  della  vita  por  dimenticare  uno  di  quei  quadri,  quante  tenebre ci  vorranno  per  cancellare  tanta  luce,  quanto  male  per  far  dimenticare  tanto  bene!  Nessun  fiume,  per  fangoso  che  sia,  ha  potuto  togliere  all'oceano  le  sue  trasparenze;  nessun  sofiQo  di  uomo  ha potuto spegnere  il  sole,  nessun  gelo  Tha  mai  potuto  raffreddare! L'affetto che  ravvicina  i  nati  tVuno  stesso  padre  e  d'una  stessa  madre,  esiste  abbozzato  anche  negli  animali.  Gli  uccellini  allevati  in  uno  stesso  nido,  spesso  anche  quando  Thanno  abbandonato,  vivono  assieme  e  si  amano:  spesso  anche  le  scimmie  ed  altri  mammiferi  sentono  di  essere  fréitelli,  ma  queste fratellanze son  pallide  e  di  piccola  durata.  I  colpi  di  fucile del cacciatore crudele,  i  lunghi  viaggi,  i  nuovi  amori,  spezzano  ben  presto  i  vincoli di  fratellanza,  e  dopo  pochi  giorni,  o  poche  settimane,  o  pochi  mesi,  secondo  i  casi;  ogni  riconoscimento di uno  stesso  sangue  si  dilegua  e  scompare.  I  fratelli  possono  intrecciare  un  nuovo  nido,  un  incestuoso  amore,  o  possono  farsi  la  più  spietata  guerra.   Anche  fra  gli  uomini  l'amore  fraterno  è  spesso  pallido  e  non  presenta  che  deboli  energie;  i  molti  cuculi  deposti  nel  nido  d'una  famiglia,  le  antipatie  e  le dissonanze dei  caratteri  troppo  frequenti  ad  onta  della  comune  genealogia,  le  lotte  d'interesse  opposto,  le  lunghe  e  necessarie  assenze  imposte  dalle  vicende  della  vita,   sono   altrettante  cause l'amoe  fraterno che  possono  rallentare  o  rompere  le  catene fraterne. Fra fratello  e  fratello,  fra  sorella  e  sorella  si  aggiunge  poi  la  ruggine  delle  gare  di vanità e d’emulazione,  e  questa  ruggine  corrode  più  ohe  la  lima  di  forti  passioni.  Per  tutte  queste  ragioni  i  forti  amori  fraterni  son  rari,  rarissime  le  estasi  affettive. Oserei  però  dire  che,  meno  rare  eccezioni,  Tamore fraterno  non ci  mostra  scene  commoventi  e  sublimi,  che  quando  è  rafforzato  dalla  simpatia  dei  sessi  opposti.  Earo  V  affetto  intenso  fra  due  fratelli,  forse  più  raro  ancora  quello  fra  due  sorelle;  più  comune  invece  il  sentimento  che  lega  il  fratello  alla  sorella. Quando  fratello  e  sorella  si  amano  davvero,  si amano  molto, il  sentimento  che  li  unisce  è un'amicizia resa ancor  più  calda  dalla  comunanza  del  sangue  e  può  giungere  a  tanta  forza  e  a  tanta  idealità  da  avvicinarsi  assai  all'  amore  platonico.  Son  due  creature  che  non  possono  amarsi  d'amore,  perchè  troppo  rassomiglianti,  perchè  esciti  dalle  stesse  viscere,  perchè  hanno  ricevuto  il  primo  bacio  dalle  stesse labbra,  perchè hanno  succhiato  dallo  stesso  seno  quel  secondo  sangue  che  è  un  secondo  vincolo  di  parentela.  E  poi  son  cresciuti  insieme,  hanno  respirato  i)er  tanti  anni  l'aria  dello  stesso  nido,  hanno   dormito   tra   le pareti  della Stessa  casa,  hanno  pregato  sotto  la  vòlta  della  stessa  chiesa,  hanno  pianto  le  tante volte  insieme; hanno  diviso  i  terrori  infantili,  si  sono  inebbriati  insieme  nelle  feste  dell'  infanzia  e  insieme  hanno  subito  le  procelle  dell'adolescenza  e  della  prima  giovinezza.  Come  e  perchè  non  si  amerebbero  quelle  due  creature,  che  vedono  a  vicenda  rispecchiata tanta parte di    stesso  nel  cuore  e  nel  pensiero  dell'altra? La  comunanza  delle  memorie  è  parentela  del  cuori  e  ad  essa  basta  un  cenno,  un  sorriso,  una  parola  per  rifare  quei  viaggi poetici e affascinanti nel  tempo  che  fu.  Quei  due  forse  hanno  già  passata  più  che mezza  la  vita  insieme,  fors'anche  hanno  insieme  composto  nella  fossa  il  loro  babbo  e  la  loro  mamma,  e  in  un  certo  giorno  dell'anno,  anche  lontani  e  senz'essersi  chiamati, si trovano insieme  sopra  una  stessa  tomba.  E  come  e  perchè  quelle  due  creature  non  si  amerebbero; non  si  amerebbero  molto;  non  si  amerebbero sempre?   La  nostra  sorella  slam  noi  stessi  incarnati  in  un  sesso  diverso  e  quando  in  essa  noi  vediamo  riprodotti i nostri lineamenti,  rifatti  gli  stessi  gesti,  riprodotti  gli  stessi  gusti,  le  stesse antipatie;  sor-ridiamo di  compiacenza,  esclamando:  s'io  fossi  una  donna,  sarei  lei!   E  la  nostra  sorella  non  solo  ci  rassomiglia  nel volto,  nei  gesti,  ma  desidera  le  stesse  cose, sorride degli stessi scherzi,  ha  come  noi  qnelle  stesse  debolezze,  delle  quali  dobbiamo  spesso arrossire.  E  si  ride  insieme,  e  si  arrossisce  insieme,  dicendoci nell'orecchio  :  Anche  tuf     anch^io!   E  la  nostra  sorellina  (che  sorellina  è  sempre  ogni  sorella,  quando  è  molto  amata),  e  la  nostra  sorellina rassomiglia tanto alla  nostra  mamma,  che  la  si  direbbe  la  mamma  ringiovanita.  Essa  ha  per  noi  tenerezze  materne,  indulgenze  materne;  essa  ci  può  abbracciare  e  baciare,  benché  essa  sia  una  donna.  Quanto  è  indulgente  e  buona!   Con  lei  possiamo  sfogare  le  nostre  bizze,  confessare  i  nostri rancori; con lei  possiamo  dividere  tutte  le  amarezze  dell'  orgoglio  offeso,  dell'  ambizione  delusa,  delle  speranze  svanite.  Essa  non  e'  invidia ma ci ama. Essa non riderà di noi, né ci vorr.Y consolare coll’accusarci fattori della nostra sventura. Essa è donna e con noi quasi madre; nessuna osservazione, nessun rimprovero prima di averci medicati e guariti. Nessuna domanda importuna o impertinente prima di averci fasciata la ferita. Possiamo essere più vecchi di lei; essa ci tratterà sempre come bambini, sarà capace perfino di  prenderci fra le sue  braccia  e  di  farci  la  ninna  nanna.   E  la  sorella  si  getta  fra  le  braccia  del  fratello. come  non  può  fare  colle  braccia  di  nessun  altro  uomo.  Del  marito  ha  suggezione,  del  padre  ha  rispetto;  davanti  al  figlio  vuol  essere  infallibile.  Il  fratello  invece  non  è    marito,    padre,    figlio, ma  un po' di tutto questo. Egli è un uomo e la sorella può appoggiarsi a lui come alla forza che protegge e difende. Egli é un uomo, ma non sarà mai un giudice severo,  perchè anch' egli prima di gridare al peccatore, vorrà guarire il peccato e risanare la ferita. La sorella è sicura che il fratello di lei avrebbe peccato come lei, s'egli si fosse trovato nelle stesse circostanze ed essa è sicura di trovare una grande  indulgenza,  una misericordia grande come quella del Cristo. Ma non occorre peccare per rifugiarsi fra le braccia fraterne del figlio  della  nostra  mamma.  Il  fratello  ha  piti  ingegno  di  noi,  più  di  noi  ha  studiato  e  vissuto.  Egli  ci  darà  la  luce  per  camminare nelle tenebre della vita,  egli  ci  darà  un  braccio  poderoso  per  appoggiarsi,  egli  sarà  la nostra bussola nel  gran  mare  delle  umane  dubbiezze.  E  che  faresti  tu  In  questo  caso  f  Come  esciresii  tu  da  questo   labirinto  f  Dimmi  se   io   ho  fatto   benet  Dimmi  vi  è  ancora  un  rimedio  a  tanto  male  f     E  le  domande  si  succedono  le  une  alle  altre,  senza  attender  risposta  e  le  risposte  diventan  altrettante domande; ed è un affollarsi confuso e prorompente di  parole,  di  sorrisi,  di  lagrime:  e  sono  abbracci  che  interrompono  domande  e  risposte  e  sono  baci  che  valgono  più  d'un  volume  di  ragionamenti  e  son  singhiozzi  che  taciono  alla  soavità  d'una carezza e son carezze che vogliono  esser  rimproveri  e  rimangono  invece  carezze  dolcissime  e  sono  due  anime  di  uomo  e  di  donna,  che  possono  vedersi  nudi  l'un  l'altro  senza  arrossire,  perchè  non  hanno  sesso  e  sono  come  Adamo  ed  Eva  prima  che  avessero  bisogno  di  coprirsi  delle  foglie  dell'albero mistico dell'Eden.  n questi casi e in altri consimili  la  commozione  può  giungere  fino  al  rapimento,  e  l'estasi  si afferma con tutti i suoi  caratteri  di  isolamento  dal  mondo  esterno  e  di  concentrazione  di  tutte  le  forze  del  sentimento  e  del  pensiero  in  un  punto  solo  del  mondo  psicologico.  Beati  coloro  che l’hanno  Estasi  liman, provata,  fosse  poi  gioia  che  prendeva  il  posto  d'un  grande  dolore  o  gioia  che  si  faceva  cento  volte maggiore,  perchè  si moltiplicava  colla  igioia  d'  nn'  anima  sorella.   L'amore  fraterno  è  un  sentimento  di  lusso,  tanto  è  vero  che  è  appena  abbozzato  e  fuggevole  negli  animali  e  così  pure  è  debole  nelle  razze  e  nelle  nature  inferiori.  I  sentimenti  di  lusso  sono  i  più  indistinti,  quelli  che  hanno  frontiere  meno sicure,  per  modo che si confondono  facilmente  con  altri  affetti  di  analoga  natura.  L'amore fraterno confina  coir  iimore  platonico  e  coli' amicizia,  e  tanto  è  vero  che  spesso  udiamo  escire  dalle  labbra  commosse  di  due  amici,  che  non  pensan  punto  a  far  della  psicologia,  questi  gridi  dell'anima:   Io  il  amo  più  che  un Fratello. Tu mi sei  più  fraUllo  che  amico. La  nostra  amicizia  è  una  vera  fratellanza  delle  anime. Noi non siamo  amici  ma  frnt4ilU!   E  d' altra  parte  non  di  raro  due  fratelli  esclamano alla  lor  volta. Ma  il  nostro  affetto  è  una  santa  amicizia. Ma  anche  senza  i  lincoli  del  sangue  noi  saremmo  due amici. Se mi fosse permesso tentare di  distinguere  il caratt-ere proprio delle estasi dell'amicizia  e  quello  dei  rapimenti  dell'affetto  fraterno,  direi  che  nel  primo  caso  vi  è  una  grande  fratellanza  nell'urnanità  che  ci  eleva  al  disopra  del  volgo  e  che  nel  secondo  la  voce  del  sangue  ci  tiene  più  vicini  al  nido  e  quindi  piti  caldi,  più  commossi,  più  inteneriti. Nei rapimenti dell'amicizia  vi  è  più  pensiero, in  quelli  dell'affetto fraterno vi è  più  viscere.Nei primi  la  differenza  di  sesso  turba  l'estasi  o  la  porta  in  altre  regioni,  nei secondi invece questa differenza è quasi sempre necessaria e contribuisce assai ad accendere i cuori, ad affinare, a intenerire, a commuovere gli animi che salgono  insieme in  quest'Olimpo del sentimento. Descrivere  tutte  le  possibili  estasi  umane  s.irebbe  dar  fondo  all'universo  psicologico  e  nessuna  forza  d'uomo  vi  basterebbe. Io mi accontenterli accennare ad alcuni rapimenti dell'affetto fratemo:  altrettanti  quadri  presi  dal  vero  e che potrebbero ispirare il poeta, il pittore, lo scultore.Due fratelli vivono in paesi lontani Uun dall'altro e vengono a conoscere per via indiretta, che il babbo si trova in grave imbarazzo di afifari commerciali. Accorrono non chiamati, si incontrano sulla soglia della casa paterna. Si sorprendono, si  interrogano. Son  venuti  per  la  stessa  ragione  chiamati  dalla  stessa  voce  interiore.  Hanno pensato la stessa cosa, lo stesso piano, gli stessi progetti per salvare l'onore del padre. Lo possono fare e lo faranno. Esaltati, commossi, si gettan nelle braccia l'un dell'altro e godono un soavissimo rapimento dell'anima. Due fratelli che lavorano insieme, hanno pensato uno stesso libro, senza scambiarsi una sola parola. Venuti a comunicarsi a vicenda i loro progetti, si trova che essi si incontrano e si combaciano.Lo stupore diventa ammirazione, l’ammirazione contentezza, beatitudine. Essi si abbraccino, si inebbriano della gioia di aver fusi due pensieri in un solo pensiero. I fratelli De Goncourt devono aver provato più volte quest'estasi deliziosa. Due sorelle hanno perduto runico fratello, vedovoe  padre  di  numerosa  famiglia.  Sul cadavere del  caro  perduto  suggellano un bacio in due,  che  è  conclusione  d'un  giuramento fatto  in silenzio, nello stesso momento. Esse non prenderanno marito,esse daranno tutto il loro tempo, il loro dinaroai nipotini che fanno loro figlinoli, che si stringono al seno in uno slancio di carità generosa. Quelle due anime beate di aver pensato in uno stesso istante la stessa cosa si abbracciano,  si stringon forte forte  cuore  contro  cuore; confondono lagrime, singhiozzi, sorrisi e godono una delle estasii fraterne più complesse e più alte che possa godere anima umana. Una donna è tradita, tradita nel santuario della famiglia, precipitando nella disperazione dall'alto d'ana felicità senza nubi.Tutto si oscura, l’aria diviengelo, la terra spine, il cielo un'uragano. Essa ha un fratello, le scrive una parola sola: Vieni e mi salva! Ma il fratello  ha saputo la sventura piombata sul capo della sorella, prima ancora che la lettera fosse scritta. Suona un campanello, si apre un uscio, vi si precipita un uomo. La sorella lo guarda, non sa piangere e non può ridere. Gli porge la lettera ancora umida dall'inchiostro ed egli legge quelle quattro parole e neppur lui può ridere o piangere o parlare. Perchè quei due fortunati non cadrebbero in estasi in quel momento? Due naufraghi iV una fiera procella della vita son rimasti soli nel mondo. La donna in un mese ha perduto tuttii figliuoli uccisi dalla difterite, ruomo era solo ed è divenuto cieco. Quei due non  hanno più né padre, né  madre, né zii, né cugini, ma essi son fratello e sorella. Questi hanno attraversato continenti e mari e si sono abbracciatiper non separarsi più mai. Perché non cadrebberoessi in estasi? L'estasi è sempre uno stato eccezionale, passeggero,e la più partedegli uomini non l'hanno mai provato.Taluni piìl rozzi e incolti durano fatica anche a immaginarselo. La sua bella etimologia greca f x-a radice, lo star fuori, esprime mirabilmente questo concetto. La parola di estasi è dunque greca, e i greci pia poeti dei latini, dovettero conoscere meglio di questi uno stato di trascendente idealità. I romani, gente positiva, patica, popolo d'azione, non conobbero Vestasi, ma l'indicarono con perifrasi diverse : mentis excessu, animi abalienatio. Tommaso Campailla. Keywords: oposcolo, ecstasi, estasi, animis abalienation, mentis excessus. discorso disordinato, discorso ordinato, discorso umano, uomo, vita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Campailla” – The Swimming-Pool Library.

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