supporre
degli errori nella esposizione di Var rone, come vorrebbe il Bonfante, op.
cit., 111, non potendosi supporre un er rore di questo genere sopra formole,
che vivevano nelle consuetudini ed erano ela. borate dagli stessi
giureconsulti. È tuttavia degno di nota,
che mentre il mancipium o la familia, intesi nel senso di patrimonio, sono per
sè suscettivi di mancipatio, l'hereditas invece è consi derata come una res nec
mancipië, e come tale è suscettiva di in iure cessio, ma non di mancipatio
(Gajo, Comm., II, 14, 17, 34). La ragione, a parer mio, è questa, che la
familia o il mancipium, finchè dipendono dal pater familias, costituiscono
un'entità concreta: mentre l'eredità, riguardo a colui che vi ha diritto,
costituisce già una cosa incorporale, una res, quae etiam sine ullo corpore
iuris intellectum habet, e quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto però
non parmiaccettabile l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit., 12,
che la distinzione delle res man cipië e nec mancipii sia solo applicabile alle
res singulares, poichè non è certamente una res singularis nè il mancipium, nè
la familia. Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle cose con dusse
in qualche parte ad allargare i confini del primitivo manci pium. Così, ad
esempio, non può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium dovevano solo
essere compresi i praedia, che fossero si tuati nel primitivo ager romanus,
mentre più tardi furono compresi eziandio quelli situati nel restante suolo
italico, quando anche questo venne ad essere suscettivo di proprietà
quiritaria. Così pure è pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima
compresi solo i servi addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i
servi della città potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in
genere furono compresi fra le res mancipii. Non potrei invece ammettere col
Puctha, che fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere, che
fossero in potestate, in manu, o in causa mancipii; poichè, come sopra si è
notato, qui il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più
ristretta e si ri ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal
capo di famiglia, le quali persone si dicono alieni iuris, quae in manu, potestate,mancipio
sunt , ma non sono mai chiamate res mancipii. Vero è, che anche alle persone si
applica la mancipatio, ma cid provenne, come si vedrà più tardi, da cid che la
mancipatio è una applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto
per aes et libram, e quindi compare ogniqualvolta trattisi di acquistare o
trasmettere la manus, intesa nel senso di potestà giuridica quiritaria. 351.
Intanto questa storia primitiva del mancipium ci pone eziandio in caso di
risolvere la questione tanto agitata fra gli autori relativa alla precedenza
fra la mancipatio e la distinzione fra la res mancipii e nec mancipii. hi
seguisse alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece denza alla
mancipatio, in quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si chiamerebbero
tali appunto, perchè si trasferiscono me diante la mancipatio; ma rimarrebbe
ancor sempre a cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne ad essere il
mezzo proprio per l'alienazione di questa speciale categoria di cose. La cosa
invece viene ad essere facilmente spiegata quando si ri Ho già notato più sopra come le formole di
VARRONE dimostrino che un servo, allorchè non era un instrumentum fundi, poteva
anche essere alienato colla sem plice traditio. Puchta, Inst., 238. Cfr. SQUITTI, op. cit., 15. 444 tenga,
che primo a formarsi dovette essere il concetto delmancipium, il concetto cioè
di una proprietà tipica del quirite, che compren deva uno spazio di terra e
quelle pertinenze di esso, che riputa vansi il patrimonio indispensabile del
capo di una famiglia agricola. La formazione di questo mancipium, che già aveva
una base nelle condizioni economiche e sociali dei primitivi romani, venne in
certo modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto l'influenza della costitu
zione serviana. Da quel momento l'importanza non solo economica, ma anche
politica del mancipium, pose le cose, che erano comprese nel medesimo, in una
posizione privilegiata di fronte a tutte le altre cose, che potevano spettare
al cittadino romano, e trasformò così il mancipium in una proprietà
essenzialmente quiritaria, perchè apparteneva al quirite come tale. Era quindi
naturale, che all’alie nazione del mancipium e delle cose comprese nel medesimo
si estendesse l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et
libram, mentre per l'alienazione delle altre cose potè bastaré anche la
semplice traditio accompagnata dal pagamento del prezzo. Per quello poi, che si
riferisce alla distinzione fra le res mancipii e quelle nec mancipii, parmi
evidente che essa fu l'ultima ad es. sere introdotta, e non ho difficoltà di
ritenere, che essa possa anche essere stata formolata più tardi dai
giureconsulti, quando i mede simi già sentivano il bisogno di ridurre ad ordine
sistematico le distinzioni molteplici, che eransi introdotte nel diritto. Il
censo in fatti per sè poteva condurre alla determinazione delle res mancipii,
ed anche alla divisione delle medesime in varie categorie; ma esso non poteva
determinare che indirettamente la formazione delle res nec mancipii. È quindi
probabile, che i giureconsulti trovando più tardi questo nucleo di cose (mancipium
), per la cui alienazione era richiesta la mancipatio, abbiano formato di
queste cose una cate goria speciale (res mancipii), la cui caratteristica
consisteva ap punto nel modo di alienazione (mancipatio), mentre tutte le altre
furono lasciate nella categoria negativa dalle res nec mancipii. Non parmi tuttavia accoglibile l'opinione del
Voigt, secondo cui la distinzione sarebbe nata fra il 585 e il 650 di Roma.
Essa invece dovette già essere formata all'epoca delle XII Tavole, in cui
accanto alla mancipatio, riservata alle res man cipii, era già comparsa l'in
iure cessio, che era applicabile eziandio alle res nec man cipii: il che
sarebbe anche provato da ciò, che le stesse XII Tavole già ponevano le res
mancipii nella condizione speciale di non potere essere usucapite, allorchè fos
sero state vendute da una donna senza approvazione del tutore. È evidente
infatti 445 Essi insomma fecero qui una distinzione analoga a quella, che si
introdurrà più tardi, fra le cose, che appartengono ad una persona ex iure
quiritium, e quelle invece che le appartengono solo in bonis; poichè le prime
costituiscono una cerchia chiusa e circo scritta, quanto alle cose, che possono
essere l'oggetto, quanto ai modi di acquisto, e alle persone cui appartengono,
mentre quelle in bonis comprendono tutte le altre. $ 6. La storia primitiva
della proprietà ex iure quiritium. 352. L'analogia, che ho sopra notata fra la
distinzione delman cipium e del nec mancipium e quella presentatasi più tardi
fra il dominium ex iure quiritium e quello in bonis, mi fa tornare un'altra
volta sul grave problema dell'origine e dello svolgimento storico della proprietà
ex iure quiritium. Fino ad ora si è sola mente dimostrato, come già nel periodo
gentilizio vi fosse una forma di proprietà, che intestavasi al capo di
famiglia, e che pren deva il nome di heredium. Questa tuttavia non costituiva
ancora una proprietà assolutamente individuale ed esclusiva, perchè il capo di
famiglia trovavasi in proposito ancora sotto la dipendenza della gens, a cui
apparteneva. Accanto a questi heredia dei patricii si erano poi venuti formando
gli stanziamenti e i possessi dei plebei, che probabilmente chiamavansi
mancipia. Quando poi patriziato e plebe entrarono a far parte dello stesso
populus romanus qui ritium, in base alla considerazione del censo, la sola
proprietà, che era loro comune era quella che spettava al capo di famiglia, e
perciò fu questa, che comparve nel censo intestata ad ogni quirite sui iuris,
sotto il vocabolo di mancipium e coi caratteri di una proprietà assolutamente
individuale. Il vocabolo mancipium tuttavia non significd per sè il dominium ex
iure quiritium, ma piuttosto quel complesso organico di cose, che per il primo
formo oggetto del medesimo; come lo dimostra la circostanza, che in questo
periodo, secondo l'attestazione dei giureconsulti, si ricorse per indicare il
che questa condizione speciale delle res mancipii, accennata da Gajo, I, 192, e
da Ul PIANO, Fragm., XI, 27, doveva fin d'allora condurre alla distinzione di
cui si tratta. Per un più lungo esame dell'opinione del Voigt, vedi Squitti, op.
cit., 73 e seg., e BONFANTE, op. cit., 115146 dominio quiritario
all'espressione meam esse: aio hanc rem
iure quiritium . Ferma cosi la spiegazione del modo in cui sarebbesi formato il
primo nucleo del dominium ex iure quiritium, resta ora a ve dere come il suo
concetto siasi venuto allargando, e quali siano i varii stadii, che attraverso
questa proprietà ex iure quiritium, la quale doveva poi divenire il modello di
ogni proprietà esclusiva mente privata ed individuale. 353. A questo riguardo i
ricercatori dell'antico diritto si arrestano sorpresi di fronte a questo fatto
singolare, che il solo mancipium nei primi tempi sembra aver formato oggetto
della proprietà ex iure qui ritium. L'Ortolan, ad esempio, trova assurdo che il
quirite non avesse la proprietà delle cose incorporali, se si eccettuano certe
servitù rustiche, nè la proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i servi e
le bestie da tiro e da soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in qualmodo
quei quiriti, che avevano divisi i loro fondi, fossero poi indifferenti alla
distinzione del mio e del tuo per molte altre cose; il che lo induce a
combattere la proposizione di Gaio, secondo cui il popolo Romano non conosceva
un tempo, che la sola proprietà ex iure quiritium: aut enim ex iure quiritium unusquisque do
minus erat, aut non intellegebatur dominus . È certo che la cosa riesce assai
strana, quando si voglia ritenere che, al difuori della proprietà ex iure
quiritium, non vi fosse pei romani primitivi altra forma di proprietà o di
possesso; ma la cosa pud invece essere spiegata quando si abbia presente il
modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e le istituzioni, che
entrarono a costituirlo. Già ho cercato di dimostrare comeil ius quiritium non
comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso,
che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e che di vento cosi comune ai
due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far parte della stessa comunanza
quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono ancor sempre a seguire le
proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che quella parte di diritto,
che essendo stata accettata come base della comunanza quiritaria prese il nome
spe ciale di ius quiritium. Questo pertanto non governd dapprima tutti i
rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano fra loro nelle Ortolan, Histoire de la législation romaine,
Paris, 1880, p. 606. MUIRHEAD, Histor. Introd., 40.. 447 loro qualità di
quiriti, e fu solo col tempo e a misura che facevasi più intima la convivenza
dei quiriti, che esso venne arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi
istituti, modellando nuovi negozii richiesti dalle esigenze della vita civile in
una grande e popolosa città, e si cambiò così nel ius proprium civium romanorum.
354. Or bene ciò che accadde nella formazione del ius quiritium si avverò
eziandio nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a
costituirlo, e quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium. Questa non
comprende dapprima tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma
comprende solo quella parte di essa, che loro appartiene nella loro qualità di
quiriti. Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il
mancipium, che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a
cui si determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la
primitiva proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il
mancipium, e fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per eccellenza,
cioè l'atto per aes et libram, e quella pro cedura quiritaria dell'actio
sacramento, in cui i contendenti affer mavano: hanc rem suam esse ex iure quiritium . Questa
infatti era l'unica proprietà, che poteva essere tenuta in conto al punto di
vista quiritario e che doveva perciò avere la tutela del diritto qui ritario.
Quindi era giusto il dire, che altri aut
erat dominus ex iure quiritium, aut non intellegebatur dominus : il che non
vuol già dire, che non si potesse avere il possesso od il godimento di altri
beni, ma soltanto che le altre forme di proprietà non potevano es sere tenute
in calcolo al punto di vista quiritario. Quindi al modo stesso, che il ius
quiritium fu il frutto della selezione di certi con cetti e forme solenni, che
furono adottate dalla comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure
quiritium fu anche essa determinata da una specie di selezione. Il suo primo
nucleo consistette nel man cipium, il quale costitui in certo modo la proprietà
tipica del qui rite, ma più tardi i suoi limiti apparvero troppo circoscritti,
e perciò alla cerchia troppo ristretta del mancipium si venne sostituendo un
concetto più esteso del dominium ex iure quiritium. Questo infatti Questo carattere particolare del ius quiritium,
per cui esso non è tutto il di ritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di
esso, che vennesi consolidando al lorchè patriziato e plebe entrarono a formar
parte della stessa comunanza quiritaria. fu dimostrato sopratutto nel lib. III,
cap. 3º. 448 viene già ad essere più esteso: lº quanto alle persone a cui
compete, che non sono più i soli capi di famiglia, ma tutti i cittadini ro mani
ed anche i latini cui sia accordato il ius quiritium; 2° quanto ai modi, con
cui si acquista, che non si riducono più alla sola man cipatio, ma comprendono
anche la in iure cessio e la usucapio ; e quanto alle cose, che possono essere
l'oggetto, che non sono più le sole res mancipii, ma tutte le cose in commercio,
eccetto il solum provinciale. Tuttavia egli è evidente, che anche in questo
secondo stadio la proprietà ex iure quiritium costituisce ancora sempre una
proprietà privilegiata, quanto alle persone, alle cose, ai modi di acquisto;
cosicchè ogni qualvolta manchi una di queste condizioni la cosa ap partiene
solo in bonis, ed è solo col tempo e per effetto della pro tezione pretoria,
che viene a poco a poco delineandosi una proprietà in bonis, accanto alla
proprietà per eccellenza, che era quella ex iure quiritium. Qui pertanto appare
evidente quella legge di for mazione del diritto romano, per cui accanto alla
parte di esso già formata ne compare un'altra, che trovasi in via di formazione
e che cercasi a poco a poco di fare entrare nelle forme di quella, che prima
riuscì a consolidarsi. Mentre questo dualismo nel primitivo ius quiritium è
rappresentato dal mancipium e dal nec mancipium, il medesimo invece nel ius
proprium civium romanorum viene ad essere rappresentato dalla proprietà ex iure
quiritium e da quella in bonis; ma intanto la seconda distinzione, pur
abbracciando una cerchia più vasta, continua ancora sempre ad essere foggiata
sulla prima. 355. Queste considerazioni mi conducono a ritenere, che anche il
dominium ex iure quiritium, dopo esser stato modellato sulla realtà dei fatti,
abbia finito per convertirsi in una costruzione giuridica non dissimile da
quella, che abbiamo ravvisata nei concetti di caput, di manus e di mancipium.
Esso è una forma di proprietà, che cor risponde al concetto del quirite, e
quindi al modo stesso, che questi nella sua configurazione giuridica era una
individualità integra e perfetta, concepita sotto l'aspetto esclusivamente
giuridico, ed Non è qui il caso di
parlare nè dell'adiudicatio, nè della lex, e dell'adsignatio viritana, che
potevano anche attribuire il dominium ex iure quiritium; poichè lo stesso Gajo,
Comm., II, 65, parla soltanto della mancipatio, della in iure cessio e
dell'usucapio, come costituenti un ius proprium civium romanorum. 449 isolata
da tutti gli altri suoi rapporti, cosi anche la sua proprietà ebbe ad essere
concepita come assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo modo ad imagine
della persona, a cui doveva appartenere. Una prova di ciò l'abbiamo in questo,
che allo svolgimento del dominium ex iure quiritium si applicò una logica del
tutto ana loga a quella, che erasi applicata allo svolgimento del concetto di
caput; cosicchè, per determinare i varii atteggiamenti del dominio, furono
adoperati dei criteri analoghi a quelli, che servirono a de terminare lo stato
del quirite. Così, ad esempio, al modo istesso, che si ha l'optimum ius
quiritium allorchè la capacità del quirite non soffre alcuna limitazione; cosi
havvi il dominium optimum maximum, quando il dominium non è soggetto ad alcuna
limita zione. Al modo stesso parimenti, che vi ha una diminutio capitis, cosi
havvi eziandio una diminutio dominii, la quale è perfino in dicata collo stesso
vocabolo di servitus, con cui pure si indica la maxima capitis diminutio. Che
anzi a quella guisa, che l'intiero caput non appartiene a tutti gli uomini,
cosi non tutte le cose sono suscettive del dominium.ex iure quiritium; il qual
concetto spin gesi a tal punto, che può ravvisarsi una specie di correlazione
fra la concessione della civitas agli abitanti, e la concessione al suolo da
essi abitato di quel ius privilegiato, che lo rende suscettivo di dominio
quiritario. Cosi mentre il solum italicum ottenne questa speciale condizione,
sotto il nome di ius italicum, il solum provin ciale invece non potè mai essere
oggetto di vera proprietà, se non quando scomparve con Giustiniano la
distinzione fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis. Vi ha
di più ancora, ed è che le trasformazioni storiche, che ac cadono nel concetto
di caput, camminano di pari passo con quelle del dominium ex iure quiritium.
Così, ad esempio, finchè il vero caput non appartenne che al capo di famiglia,
anche questi fu il solo capace di proprietà ex iure quiritium. Quando poi la
capacità di diritto dal capo di famiglia passò ad ogni cittadino romano ) In questa guisa si spiega, come i Romani
procedessero nell'accordare ad un determinato territorio l'attitudine ad essere
oggetto di proprietà quiritaria nel modo stesso, in cui procedevano
nell'estendere la cittadinanza romana ai popoli conquistati. Di qui l'analogia
fra la formazione del ius latiï e quella del ius italicum: di cui quello si
riferisce alle persone, questo invece si riferisce al suolo (Cfr. Baudouin,
Étude sur le ius italicum, nella Nouvelle revue historique de droit français et
étranger ). C., Le origini del diritto di Roma. 29 450 bastò essere tale, per
essere capace di proprietà ex iure quiritium. Quando infine la capacità
giuridica appartenne ad ogni uomo li bero, perchè tutti gli abitanti
dell'impero ottennero la cittadinanza, bastò essere uomo libero per essere
capace di quella proprietà, che un tempo era stata privilegio dei soli quiriti.
La qual trasforma zione avverasi anche, quanto alle cose che ne formano
l'oggetto, le quali cominciarono dall'essere quelle soltanto, che figuravanonel
censo intestate al capo di famiglia (res mancipii), e finirono per compren dere
tutte quelle, che potevano essere in commercio. Il che deve pur dirsideimodi
diacquisto, i quali dapprima furono probabilmente circo scritti alla sola
mancipatio, mentre dopo compresero l'in iure cessio e l'usucapio, e finirono
col tempo per comprendere anche quei modi di acquisto, che dapprima erano
proprii soltanto del diritto delle genti; donde la distinzione della classica
giurisprudenza fra i modi di acquisto del dominio, civili e naturali,
originarii e derivativi . 356. Era poi naturale, che alla proprietà cosi intesa
i giurecon sulti abbiano finito per applicare quella stessa analisi, che già ab
biamo riscontrato nel caput. Essi contrapposero il quirite alla cosa che gli
apparteneva: gli fecero afferrare materialmente la cosa ed affermare la sua
proprietà sulla medesima dicendo, che la cosa era sua ex iure quiritium:
immedesimarono in certo modo la persona colla cosa alla medesima spettante, e
le attribuirono così un di ritto illimitato di usarne, goderne, e di disporne,
anche abusando di essa. In questo diritto del proprietario, che non ha confine,
deve quindi ravvisarsi una costruzione giuridica, non dissimile da tante altre,
che occorrono nel diritto romano: poichè in effetto l'abuso della proprietà era
poi frenato dal costume, e sopratutto dal iudicium de moribus, il quale, dopo
essere stato una istituzione gentilizia, fu di nuovo ristabilito dalle XII
Tavole, e fu affidato al pretore . Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi nella
proprietà Non può ammettersi, come
vorrebbero taluni, che nelle origini del diritto ro mano non esistessero modi
naturali di acquisto, il che sarebbe contraddetto dall'an tichità della
traditio, quanto alle res nec mancipii: ma soltanto che i modi naturali, pur
esistendo da epoca forse più antica, furono solo più tardi incorporati nella
com pagine del diritto romano, il quale assimilava solamente ciò, che in
qualche modo poteva entrare nelle forme prestabilite. L'origine gentilizia del iudicium de moribus
fu dimostrata al n° 59, p. 74. Del resto tale origine gentilizia è comprovata
dalla intitolazione stessa di questo iw dicium demoribus, la quale sembra
richiamare qualche antica norma consuetudi fini per ricevere una propria
denominazione, e staccato dal ceppo, sovra cui aveva radice, fini per dare
origine alle varie configura zioni dei diritti reali, comprendendovi anche il
ius possessionis, ciascuno dei quali potė ricevere un vero e proprio sviluppo,
pur sempre ritenendo l'impronta reale, che eragli provenuta dalla pro prietà,
di cui costituiva un frazionamento. Fu anzi in questa occa sione, che sembra
essere venuto in uso il vocabolo di proprietas, il quale in origine appare
adoperato, quando si tratta di contrapporre la proprietà ai diritti reali, che
erano inchiusi nella medesima. Questa ricostruzione intanto del dominium ex
iure quiri. tium mi porge occasione di fare un brevissimo cenno dei rapporti,
che nel diritto romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A questo
proposito il diritto romano presenta questa singolarità, chementre il
giureconsulto Paolo, fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come
fuori di ogni dubbio, che il dominio dovette cominciare dalla materiale
appropriazione delle cose (dominium rerum ex naturali possessione coepisse) ;
noi troviamo invece, che nello svolgimento storico presentasi dapprima integro
e com piuto il concetto del dominium ex iure quiritium, ed è solo molto più
tardi, che il possesso viene ad essere considerato come una isti tuzione
giuridica, protetta cogli interdetti possessori. Di fronte a questo stato di
cose sarebbe fuor di luogo il sostenere, che i Romani non distinguessero
dapprima fra la materiale detenzione di una cosa, e la padronanza giuridica
sovra di essa; ciò sarebbe smentito dal fatto, che essi fin dai primi tempi
ebbero il concetto dell'usus e dell'usus auctoritas, ed anche dalla
circostanza, che ai plebei, stanziati sul territorio romano, non si riconobbe
dapprima una vera naria, ed anche dalla circostanza, che le XII Tavole,
affidando al pretore questo po tere, che un tempo apparteneva alla gens,
richiamarono di nuovo in vita il primitivo concetto dell'heredium, che era
venuto meno nello stretto ius quiritium, e ristabili rono contro il prodigo
interdetto la cura degli agnati e dei geniili, la quale è certo una reliquia
dell'organizzazione gentilizia. Il testo infatti, secondo la ricostruzione del
Voigt, Tav. VI, 10, sarebbe il seguente: Qui sibi heredium nequitia sua disperdit,
liberosque suos ad egestatem perducit, ea re commercioque praetor interdicito.
In adgnatum gentiliumque curatione esto . Che il vocabolo di proprietas abbia cominciato
ad adoperarsi, allorchè si trat tava di contrapporre la proprietà in sè ai
diritti frazionarii inchiusi nella medesima, può argomentarsi, fra gli altri
passi, da quello di GAJO, II, 30, ove la proprietas si contrappone appunto
all'ususfructus. L. 1, 1, Dig. proprietà, ma una specie di possesso a
titolo di precario, che non aveva ancora carattere giuridico. La causa invece
del fatto deve riporsi in ciò, che anche in questa parte il ius quiritium,
essendo già stato il frutto di una vera elaborazione giuridica, prese
senz'altro le mosse dal concetto più vasto e comprensivo, a cui si potesse
giungere in tema di proprietà. Il concetto infatti del do minium ex iure
quiritium ebbe dapprima ad essere modellato sul mancipium, il quale, implicando
la sottomissione illimitata di una cosa ad una persona, inchiudeva in una
sintesi potente tutti i po teri, che ad una persona possono appartenere sopra
una cosa. Il diritto infatti, che al quirite spetta sul proprio mancipium,
nella sua sintesi vigorosa, implica la detenzione materiale e la proprietà
della cosa: è un fatto ed è un diritto; è una proprietà originaria, ma intanto
comprende eziandio la proprietà derivata; esso anzi de signa perfino una
proprietà, che ha dell'individuale e del famigliare ad un tempo. Fu soltanto
più tardi, che anche in questo concetto venne penetrando l'analisi, la quale
cominciò dal distinguere la materiale detenzione di una cosa (naturalis
possessio), la quale è un puro e semplice fatto (res facti), dalla padronanza
giuridica sovra di essa (dominium ex iure quiritium ), la quale costituisce
invece un vero e proprio diritto (res iuris). Col tempo però, siccome fra
questi due termini estremiverranno ad esservi delle possessiones, che per
speciali considerazioni potranno anche apparire meritevoli diprotezione
giuridica, cosi si verrà a poco a poco modellando dal pretore il concetto di
una civilis possessio. Questa tuttavia non apparirà più unicamente come una res
facti, ma in parte eziandio come una res iuris; non supporrà unicamente la
materiale deten zione della cosa (corpus), ma anche l'intenzione di tenere la
cosa per sè (animus rem sibi habendi). Questo possesso verrà cosi a pren dere
un posto di mezzo fra la semplice detenzione materiale di una cosa, e la
proprietà della medesima ; quindi, per la protezione di esso, il pretore, non
trovandosi di fronte ad un diritto compiutamente formato, non potrà ius dicere
nel vero senso della parola, ma sol tanto interdicere, cioè proibire che venga
turbato lo stato di fatto, del quale si tratta (vim fieri veto ), donde la
denominazione degli inter. Vedi, quanto
alle primitive possessioni della plebe nel territorio romano, il nº 154, 190. V. in proposito Savigny, Dela possession,
Trad. Staedtler, sulla 74 ed. tedesca, Bruxelles 1879, 5º, 20 a 25. 453 dicta, con cui si protegge il
possesso. Siccome poi questo possesso, du rando un determinato spazio di tempo,
già poteva, in base all'usuca pione,trasformarsi in un vero diritto; cosi il
possesso, oltre al costituire per se stesso una istituzione giuridica, protetta
mediante gli inter detti, costituisce pure un mezzo, mediante cui il fatto
della deten zione e del godimento di una cosa (usus) può trasformarsi nel di
ritto di proprietà (auctoritas). È tuttavia a notarsi, che siccome tanto il
dominium ex iure quiritium, quanto la semplice possessio debbono ritenersi come
una scomposizione del diritto, che al quirite spettava sul primitivo mancipium,
il quale aveva del materiale e del giuridico ad un tempo; così tanto il
dominium, che la pos sessio, presso i romani, non poterono mai intieramente
spogliarsi di un certo carattere di materialità. Cid è dimostrato dalla
circostanza, che da una parte il dominium fini per essere circoscritto alle
cose corporali e dovette sempre essere trasferito col mezzo della tra dizione,
e dall'altra il possesso non potè parimenti estendersi, che alle cose corporali
e ad alcuni dei diritti reali competenti sulle me desime (quasi possessio ). In
questo modo possono facilmente spiegarsi le incertezze dei giureconsulti, i
quali ora considerano il possesso come una res facti, ed ora come una res
iuris, ora scorgono in esso l'estrinsecazione del diritto di proprietà, ed ora
dicono invece, che il possesso ha nulla di comune con essa; poichè il medesimo,
essendo una istitu zione intermedia fra il fatto ed il diritto, fra la
detenzione e la proprietà, poteva presentarsi or sotto l'uno or sotto l'altro
aspetto, secondo lo speciale punto di vista, sotto cui era considerato (3 ). Si
comprende parimenti, che sebbene ogni dominio abbia dovuto A parer mio è importante nello svolgimento
storico del diritto romano di tener distinti i due istituti del possesso ad
usucapionem, e del possesso ad inter dicta. Il primo prese le mosse del
concetto dell'usus e perciò potò essere applicato così alle res mancipië che
alle nec mancipii, così alle cose corporali, che alle incor porali; mentre il
secondo fu il frutto dell'analisi del mancipium, e ritenne quindi sempre
qualche cosa della materialità inerente a quest'ultimo. L'uno mette capo alla
legislazione decemvirale, mentre l'altro ricevette la propria configurazione
giu ridica dal diritto pretorio. Cfr.
Savigny, V. i passi in proposito citati dal Savigny, op. cit., 5, 21 e segg., nelle note. Sono poi noti i
passi di Ulp., 12, 1, Dig.nihil commune
habet proprietas cum possessione, ed altri analoghi, L. 1, $ 2, Dig. Cfr.
JHERING, Fondement des interdits possessoires, Trad. Maulenaere, Paris 1882, 42.
- 151 prendere le mosse dalla materiale appropriazione di una cosa, il concetto
del possesso sia tuttavia di formazione posteriore, e non abbia ricevuto una
propria configurazione giuridica, che per opera del pretore, allorchè il
medesimo cominciò ad accordare la prote zione giuridica a quelle possessiones
nell'ager publicus, che per la propria durata già cominciavano ad assumere il
carattere di un vero A proprio diritto. Per quello poi, che si riferisce alla
questione tanto agitata del fon damento razionale della protezione giuridica
accordata al possesso, essa, come al solito, non ebbe ad essere trattata di
proposito dai giu reconsulti; ma si può indurre dallo svolgimento storico di
esso, che tale fondamento deve riporsi sul principio, sovra cui poggia tutto il
diritto romano, secondo cui ex facto
oritur ius , in quanto che ogni fatto, che riunisca in sè certe condizioni di
durata e di buona fede, contiene in sé i germi di un diritto e come tale può
già meri tare la protezione giuridica e servire ad un tempo di base all'usu
capione . Tale sarebbe l'opinione del
Niebaur, Histoire romaine, III, 191 e segg.; e del Savigny, op. cit., 12 a, 177-185. Essa parmi in ogni caso più
verosimile di quella sostenuta dal Pochta, Istit., 225, secondo cui l'idea del possesso sarebbe
provenuta dalla concessione del possesso interinale, che si accordava ad uno
dei contendenti nella procedura di vindicazione coll' actio sacramento; poichè
questo possesso interinale non ha punto che fare col possesso, in quanto ha una
protezione giuridica tutta sua propria, che consiste negli interdetti. Comunque
stia la cosa, sembra che l'interdetto più antico sia quello uti possidetis,
destinato appunto ad impedire il turbamento di uno stato di fatto. Intanto
viene ad essere evidente, che in base all'opinione qui sostenuta, se si voglia
collocare il possesso nella solita di stinzione dei diritti in personali e
reali, esso dovrà certo esser collocato tra i diritti reali. Cfr. il SavIGNY,
op. cit., $ 6, p. 42, il quale sostiene un'opinione in parte diversa. Senza voler qui prendere in esame le molte
teorie, che furono escogitate in proposito, solo mi limiterò ad osservare, che
la questione ebbe ad essere profonda mente discussa in due opere, che vennero
ad un risultato compiutamente diverso; di cui una è quella del JHERING, Ueber
den Grund des Besitzschutzes, Jena 1869, di cui abbiamo la trad. franc. del
Maulenaere, sopra citata, e l'altra è quella del Bruns, Die Besitzklagen des
röm. und heutigen Rechts, Weimar 1874, il cui con cetto fu adottato e
largamente esposto dal PADELLETTI, Archivio giuridico. Secondo il primo, la
protezione accordata al possesso fondasi su ciò, che il possesso è una
estrinsecazione della stessa proprietà, e quindi senza tale pro tezioneanche la
proprietà non sarebbe sufficientemente difesa. Secondo l'altro invece, il
posseso è tutelato unicamente per se stesso, in base al concetto, enunciato
nella L. 2, Dig.: qualiscumque possessor, hoc ipso quod possessor est, plus
iuris habet, quam qui non possidet . Parmi che, assegnando a questa protezione
il fondamento razionale indicato nel testo, cioè il principio: ex facto oritur ius , si 455 358. Di fronte a
questo svolgimento storico e logico ad un tempo, parminon possa essere
difficile la risposta a coloro, i quali chiedono comemai una istituzione, come
quella della proprietà ex iure quiri. tium, dopo essere stata esclusivamente
propria dei romani, abbia finito per diventare istituzione universale, e per
essere adottata anche da quei popoli, i quali non subirono l'influenza diretta
della dominazione romana. La causa vera del fatto sta in questo, che la
proprietà quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e aver prese le mosse da
quel nucleo di cose, che anche nell'organizzazione gentilizia era assegnato ai
singoli capi di famiglia, fini per essere isolata dall'ambiente, in cui si era
formata, e si cambiò così in una costruzione logica e coerente. Fu in questa
guisa, che la medesima, essendo ridotta, per dir cosi, ad un capolavoro di
costruzione giuridica, potè cessare di essere l'istitu zione di un popolo, per
diventare quella del mondo. Vero è, che tutti i popoli ebbero i loro istituti
giuridici, e quindi anche questa o quella forma di proprietà, ma non tutti
riescirono ad isolare tali istituti e sopratutto la proprietà dall'ambiente
storico, in cui si erano for mati; solo i romani ebbero la potenza di
sceverarli da ogni elemento affine, di sottoporli ad un'elaborazione non
interrotta, che duro pa recchi secoli, e riuscirono cosi a ridurre allo stato
di purezza quella, che potrebbe chiamarsi l'obbiettività giuridica dei singoli
istituti. Le loro analisi, le loro fattispecie, le loro costruzioni giuridiche
non potranno sempre essere applicabili, ma saranno sempre elaborazioni tipiche
nel loro genere, come lo sono in un genere diverso i capo lavori dell'arte
greca; ed è questo il motivo dell'eternità e dell'uni versalità del diritto
romano. Questa elaborazione poi fu dai romani compiuta sopratutto quanto al
concetto della privata proprietà. In questo senso si pud dire col Sumner Maine che essi furono i crea tori della proprietà
privata ed individuale;ma è sopratutto notabile abbia il vantaggio di far contribuire
alla giustificazione della protezione giuridica accordata al possesso e l'una e
l'altra teorica, e quello di dare contemporaneamente una base, così al possesso
ad interdicta, come al possesso ad usucapionem. Secondo il Puglia, Studii di
storia del diritto romano, Messina 1886, 72: l'interdetto pos sessorio sarebbe comparso
come un mezzo particolare per risolvere una controversia, per la quale non
potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio ; ma è ovvio il notare che in
questa guisa si potrà forse spiegare l'introduzione degli interdetti, ma non
maiil fondamento della protezione giuridica accordata al possesso. Cfr.
PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom., 529 e segg., ove trovasi citata in
nota la bi bliografia più recente sull'argomento. SUMNER-MAINE, L'ancien droit,
trad. Courcelles Seneuil, Paris, il modo e il perchè essi ed non altri
riuscirono in tale creazione. Essi infatti vi pervennero svolgendo prima il
concetto della pro prietà individuale, assoluta ed esclusiva, riguardo a quel
nucleo di cose, che era compreso nel primitivo mancipium, con cui ogni sin golo
quirite compariva nel censo, e poi trasportarono successiva mente il concetto
logico, che essi si erano formati di questa pro prietà ex iure quiritium, a
tutte le cose corporali, che potevano essere oggetto di commercio. Per tal modo
la proprietà quiritaria si staccò da una organizzazione gentilizia e
patriarcale, non dissi mile da quella, da cui usci la proprietà privata dei
Germani e degli Inglesi nell'evo moderno; ma a differenza di questa, quella fu
ben presto isolata dall'ambiente, in cui erasi formata, e si cambid cosi in una
proprietà tipica, strettamente individuale, che potè con certi temperamenti
essere adottata da tutti i popoli. Appendice. Senza voler qui fare
comparazioni, che miporterebbero fuori del tema, non so tuttavia trattenermi
dall'accennare ad alcune singolari analogie fra lo svolgi mento della proprietà
privata in Roma e presso i popoli Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a
62, nota 2, la discussione seguita nell'Accademia Francese, a pro posito della
proprietà presso gli antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa
discussione porse argomento ad una nota del prof. Del Giudice, stata letta
all'Isti tuto Lombardo, nelle adunanze del 4 e 18 marzo 1886, in cui egli fa un
accura tissimo raffronto fra la descrizione di Cesare e quella di Tacito circa
le condizioni dei primitivi Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini
le mutazioni, che si erano avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150
anni, che separano i due autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a
ciò, che i possessi erano diventati più stabili, e che dalla proprietà
collettiva del villaggio già erasi venuta distin guendo la proprietà della famiglia.
Pervenuti così a questo punto della evoluzione della proprietà presso i
Germani, analogo a quello, a cui erano pervenute le genti italiche, allorchè
fondarono la città di Roma, noi troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER
sull'Allodio nei secoli Barbarici, Torino, 1886, la descrizione degli ulteriori
stadii, per cui passò l'evoluzione stessa. Noi cominciamo anzitutto dal
trovarci di fronte a certi vocaboli e concetti, che ci richiamano le condizioni
primi tive delle genti italiche. Cotali sono i communalia, i vicinalia, i
vicanalia (SCHUPFER, 26 ) i quali, senz'aver più la configurazione tipica
dell'ager compascuus delle tribù italiche, richiamano però il medesimo. Così
anche tra i Germani trovasi una forma di proprietà, che, senza essere del tutto
individuale, già si accosta alla medesima, ed è notevole, che essa, così fra le
genti italiche, come fra i Germani, è indicata con un vocabolo, che richiama
l'eredità, il passaggio cioè di un patrimonio dai genitori nei figli. Questo
vocabolo presso i Romani, era quello di heredium, e presso i Germani è quello
di alodium; il quale eziandio, secondo il Waitz e lo Schupfer, cominciò
dapprima dall'indicare l'eredità, e passò poscia ad indicare il patrimonio
avito. SCHUPFER, Op. cit., 11 e 12. Or bene, presso l'uno e l'altro popolo, è
questo heredium o alodium, che finisce per costituire il primo nucleo della
proprietà esclusivamente privata. — È notabile anzi, che, nel periodo della
tras 457 formazione, nè i Romani, nè i Germani hanno un vocabolo specifico per
indicare la proprietà: poichè mentre i primi esprimono la proprietà coi
concetti di meum e di tuum, di heredium, di praedium, di mancipium, i Germani
invece la indicano coi vocaboli di Land, Erbe, Eigen, Allod, Sundern (pag. 14
). Così pure anche presso i Germani occorrono quei consortia, che presso le
genti italiche erano indicati coi vocaboli di ercto non cito . Questi consortia parimenti
esistono sopratutto fra fra telli, e talora anche fra zii e nipoti, che
continuano spontaneamente nella comunione (SCHUPFER, 52), e richiamano così la
familia omnium agnatorum. — Infine la vera proprietà privata formasi presso i
due popoli nella stessa guisa. Al modo stesso, che la prima proprietà privata
in Roma fu un assegno sull'ager gentilicius o sull'ager publicus, così anche la
proprietà privata, presso i popoli germanici, seguendo sempre la guida sicura
del prof. Schupfer, fu anche essa una sors, un lotto, un assegno (pag. 63);
accanto al quale però si svolge eziandio il concetto dell'adquisitum la bore
suo (pag. 60), il quale, salvo il linguaggio, non presenta poi grande
differenza dal manucaptum dei latini. È poi anche degno di nota, che questo
nucleo cen trale della proprietà privata presso i Germani, al pari che presso
gli antichi Ro mani, è costituito da un podere o da una abitazione rustica, a
cui trovasi annessa una certa quantità di terra, che in massima avrebbe dovuto
essere invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è indicato coi nomi dimansus, di
hoba, di sedimen, i quali proba bilmente portano eziandio con sè quella idea di
residenza, che era indicata anche dai vocaboli di mancipium e di dominium. Che
anzi, come già notava lo Schupfer, p. 78, anche l'uomo libero longobardo, che
si chiama arimanno, indica la sua libera pro prietà col vocabolo di arimanna,
al modo stesso che il quirite addimandava la sua proprietà esclusiva dominium ex iure quiritium . Infine questa
proprietà si acquista, si trasmette e si rivendica con modi, che ricordano
l'usucapio, la manci. patio e l'actio sacramento dei Romani (SCHUPFER, Op.
cit., 122, 138 e 160 ). Intanto però, accanto alle analogie, che dimostrano la
costanza delle leggi che go vernano l'evoluzione della proprietà, sonvi anche
le differenze, che sono determinate dal diverso temperamento dei popoli. Mentre
infatti il popolo romano, giunto una volta al concetto della proprietà
individuale, ne fa una costruzione tipica, che estende a poco a poco a tutte le
cose, che sono in commercio, e che svolge in tutte le sue conseguenze logiche,
i popoli germanici invece non giungono a questa concezione tipica; quindi
mentre la proprietà romana è una sola, la proprietà germanica, come ben nota lo
ScuuPFER, non potrà mai richiamarsi a un solo tipo (pag. 75). Di più mentre i
Romani, una volta raggiunta la proprietà quiritaria, la disgiunsero affatto
dall'ambiente gentilizio, e si concentrarono esclusivamente nello svolgimento
di essa, pressochè lasciando in disparte la proprietà collettiva prima
esistente, i popoli ger manici invece, compresi anche gli Anglo-Sassoni, non
giunsero mai a districare com piutamente la proprietà privata dall' involucro
feudale da cui era uscita, o se lo fecero vi giunsero solo per imitazione della
proprietà, quale era stata modellata dai Romani, nè spinsero mai la logica
della istituzione a conseguenze così estreme, come i Romani (pag. 82). Ciò è
vero sopratutto della proprietà inglese, la quale, uscita dall'organizzazione
feudale, continua sempre a serbarne le traccie in quella serie di gradazioni e
di distinzioni, che ancor oggi la contraddistinguono. Vedi, quanto alla
proprietà inglese, il Williams, Principii del diritto di proprietà reale, trad.
Ca negallo, Firenze, 1873 e il POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh. Il ius
quiritium ed i concetti di commercium, connubium, actio. 359. Fin qui ho
cercato di ricomporre il quirite negli elementi essenziali del suo status, e di
seguire le trasformazioni, che si vennero introducendo man mano in ciascuno di
questi elementi. Ricostruendo cosi il primitivo diritto, fummo condotti ad una
con figurazione giuridica del quirite, la quale, ancorchè rigida e com passata,
si presenta però organica e coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte
più difficile di questa ricostruzione, quella cioè di cercare, come mai una
figura cosi automatica potesse entrare in rapporti con altre individualità
foggiate sullo stesso modello, e dare cosi origine a quella infinita varietà di
negozii, in cui il quirite pud essere chiamato a svolgere la propria attività
giuridica. Non è quindi meraviglia, se qui sopratutto apparisca sorprendente il
magi stero dei veteres iuris conditores, in quanto che non trattavasi solo più
di notomizzare e di scomporre lo status del quirite, ma di mettere il medesimo
in movimento ed in azione, valendosi di pochissimi mezzi per dar forma
giuridica alla varietà grandissima dei negozii, che si venivano moltiplicando
col formarsi e collo svol gersi della convivenza cittadina. Anche qui la supposizione
più ovvia intorno al magistero seguito dai modellatori del primitivo diritto,
sarebbe che essi, da uomini pratici quali erano, fossero venuti introducendo le
istituzioni, a mi sura che se ne presentava il bisogno, e che perciò il diritto
privato di Roma, almeno in questa parte, debba essere considerato come il
frutto di una evoluzione lenta e graduata, determinata sopratutto dalle
condizioni economiche e sociali del popolo romano. Lo studio invece delle
vestigia, che a noi pervennero dell'antico ius quiritium, mi hanno
profondamente convinto, che il medesimo, anche in questa parte, che potrebbe
chiamarsi la dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di una specie
di elaborazione e selezione potente, Tale sarebbe l'idea, forse alquanto
preconcetta, a cui sembra ispirarsi l'opera del Puglia col titolo: Studii di
storia di diritto romano, secondo i risultati della filosofia scientifica,
Messina, 1886. 459 che venne operandosi su materiali giuridici preesistenti, la
quale ebbe ad essere guidata da una logica e da una tecnica giuridica, non
dissimile da quella, che abbiamo riscontrata nella parte statica del diritto
quiritario. Vi ha tuttavia questa differenza, che mentre le basi fondamentali
dello status del quirite furono fissate, pressochè contemporaneamente,
dall'avvenimento importantissimo del censo ser viano; lo svolgimento invece
della parte del diritto quiritario, che si riferisce al negozio giuridico, fu
l'effetto di una elaborazione più lenta e graduata, la quale si operd man mano,
che veniva accomu nandosi il diritto fra il patriziato e la plebe, e che le
loro rispettive istituzioni si fondevano insieme nell'attrito della vita
cittadina. 360. Che questo sia stato il processo, con cui si formò eziandio la
parte dinamica del ius quiritium, risulta da una quantità gran dissima di
indizii, fra cui basterà qui di ricordare i più importanti. È indubitabile
anzitutto che, anche nella parte relativa al negozio giuridico, il ius
quiritium non prende le mosse da questo o da quel fatto particolare, ma parte
invece senz'altro da concetti sin tetici e comprensivi, quali sarebbero quelli
del commercium, del connubium e dell'actio, i quali tutti hanno una larghissima
signi ficazione, e sembrano già preesistere nel periodo gentilizio, anteriore
alla fondazione della città. Cosi pure è certo, che il primitivo ius quiritium
non viene già creando le forme giuridiche, a misura che si vengono svolgendo i
nuovi rapporti giuridici, ma compare invece con certe forme tipiche,
efficacemente modellate, nelle quali cerca poi di fare entrare, anche
forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici, a cui dà argomento la convivenza
civile e politica. È in questa guisa, che un solo atto, quale sarà, ad esempio,
l'atto per aes et libram, finirà per servire alle applicazioni più disparate.
Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il ius quiritium, nelle diverse
serie di rapporti giuridici da esso governati, presentasi dapprima con
istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il nucleo centrale,
intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che hanno qualche
affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha dubbio, che il
ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio, che è il matrimonio cum
manu; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram; come
pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio sacramento.
Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto quiritario
non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano; - 460 - ma si
viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si adottano
quelli, che possano convenire al concetto fondamentale, che è quello del
quirite. È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di questa
parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi della sua
naturale formazione, cominciando dal cercare: lº quali siano i concetti
fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del ius
quiritium; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che essi
subiscono en trando nel diritto quiritario; 3º l'ordine progressivo, con cui
questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora zione
del ius quiritium. 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende le mosse
la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli del
connubium, del commercium, dell'actio. Cid pud inferirsi anzitutto dalla
circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo
gentilizio, nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era
naturale, che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria, li
applicassero eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite,
pur essendo un individuo, continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò si
aggiunge, che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione tipica
del quirite, quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla
costituzione serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di
capo di famiglia e di proprietario di terra, i quali due caratteri, nella
sintesi primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo
dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium. Era quindi
naturale, che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si
riducevano alla famiglia ed alla proprietà, così le varie manifestazioni
dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del
connubium, da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a quella
del com mercium, in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge occasione la
circolazione e lo scambio della proprietà. — Le une e le altre ma nifestazioni
poi trovavano la propria difesa nell'actio, che serviva a tutelare il quirite
sotto l'uno e sotto l'altro aspetto, non essendovi ancora la distinzione fra i
diritti reali e personali. Questi concetti pertanto, trasportati nel ius
quiritium, si cambiarono, per così dire, in altrettanti capisaldi, da cui si
vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud esplicarsi l'attività
giuridica del quirite; co 461 sicchè anche più tardi, per mettere ordine nello
svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio dovette di necessità
ricorrere ad una distinzione, che richiama quella antichissima del connubium,
del commercium e dell'actio. Tutto il diritto infatti, che si ri ferisce alle
persone, considerate sotto il punto di vista esclusiva mente privato, sembra
metter capo al concetto del connubium; quello invece, che si riferisce alle
cose, non è che uno svolgimento del commercium; e quello infine, che riguarda
le azioni, non è che una derivazione da quella legis actio, che costituì la
procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del resto sono gli stessi
giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti pubblici dai privati,
finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti fondamentali del con
nubium e del commercium, somministrandoci così, almeno questa volta, una chiave
di quella dialettica fondamentale, che stringe ed unifica il molteplice
svolgimento della giurisprudenza romana. 362. Per quello poi, che si riferisce
alla provenienza di questi concetti direttivi di questa parte del ius quiritium,
non può esservi dubbio, che essa deve essere cercata nel periodo gentilizio, il
che credo di avere largamente dimostrato a suo tempo. Vuolsi perd aggiungere,
che questi concetti, i quali prima avevano governato dei rapporti fra i capi di
famiglia e delle genti, allorchè furono tras portati nei rapporti fra quiriti,
si trasformarono in altrettante basi del diritto spettante ai quiriti, cosicchè
dal connubium derivd il ius connubii ex iure quiritium; dal commercium il ius
commercii pure ex iure quiritium; e infine dall’actio il sistema delle legis
actiones, che è parimenti proprio della comunanza quiritaria. Questi concetti
pertanto cessarono di avere uno svolgimento pura mente estensivo, come era
accaduto nei rapporti fra le famiglie e le genti, ma ricevettero eziandio uno
svolgimento intensivo; cosicchè Intendo
qui parlare della nota distinzione di Gaio, Comm., I, 8: Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas
pertinet, vel ad res, vel ad actiones . Quanto alle obbiezioni che si fecero,
sopratutto dal Savigny, al valore di questa distinzione, vedi quanto si è detto
al n ° 97, 124, nota 1. È sopratutto
Ulpiano, checerca di abbracciare nei due larghissimi concetti di connubium e di
commercium tutto l'esplicarsi dell'attività giuridica del qui rite. V. Ulp.,
Fragm., V, 3, quanto al connubium, e XIX, 5 quanto al commercium. Quanto
all'uno e all'altro concetto cfr. il Voigt, XII Tafeln, I, 244 e. 274, coi
passi ivi citati, ed il MUIRHEAD, Histor. Introd., 108 e 109. (3 ) V. sopra lib.
I, cap. VI, SS 2 e 3, 123 a 138. 402 ciascuno di essi venne ad essere una
propaggine di quel diritto pri vilegiato, cui i Romani diedero dapprima il
nomedi ius quiritium, e che più tardi chiamarono ius proprium civium romanorum.
Cosi, ad esempio, il connubium nel periodo gentilicio, era il di ritto di
imparentarsi fra di loro, che esisteva fra i membri delle genti, che
appartenevano al medesimo nomen. Trasportato invece nella comunanza quiritaria,
esso venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium. Secondo Ulpiano
infatti connubium est uxoris iure
ducendae facultas , ossia il diritto di addive nire alle giuste nozze
riconosciute dal ius quiritium, e di godere cosi di tutti i diritti, che in
base al medesimo derivavano da queste giuste nozze, cioè: della manus sulla
moglie, fino a che il matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico del
cittadino romano; della patria potestas sui figli, che anche più tardi i
giureconsulti consideravano come istituzione peculiare al popolo romano. Che
anzi, siccome anche l'istituto dell'arrogazione e dell'adozione, come pure
quello della successione e della tutela le gittima nel diritto romano avevano
stretta attinenza coll'organiz zazione domestica e col principio
dell'agnazione, che stava a fonda mento della medesima, cosi anche queste
istituzioni apparvero nel primitivo ius quiritium, come una dipendenza del
connubium, considerato come un ius proprium civium romanorum. 363. Lo stesso è
pure a dirsi del commercium. Il medesimo, nei rapporti fra le genti, era il
diritto di addivenire ai reciproci scambii emendi vendendique invicem potestas ; ma
allorchè invece venne ad essere trapiantato fra i quiriti, i quali come tali
avevano una proprietà speciale e privilegiata, che era la proprietà ex iure
quiritium, esso venne a cambiarsi nel ius commercii ex iure qui ritium, ossia
nel diritto di addivenire a tutti quei negozii giuridici, di carattere
mercantile, che erano stati adottati come proprii dalla comunanza dei quiriti.
Questi negozii poi nel primitivo ius qui ritium e ancora nella legislazione
decemvirale, si presentano sotto tre forme fondamentali, che sono: lº il facere
nexum, che è il diritto di potersi obbligare nella forma e cogli effetti
riconosciuti dal diritto quiritario; 2° il facere mancipium, che è il diritto
di acquistare e trasmettere la prima proprietà quiritaria, consistente appunto
nel mancipium, colle forme riconosciute dal diritto quiritario; 3º e in fine il
facere testamentum, che è il diritto di acquistare o di tras mettere un'eredità,
mediante il testamento riconosciuto dal diritto 463 quiritario, donde il
vocabolo di testamenti factio. Che anzi l'unità primordiale di questi varii
negozii, in cui si estrinseca il ius commercii ex iure quiritium, viene ad
essere messa in evi denza anche da ciò, che tutti questi negozii finiscono per
compiersi con una sola forma tipica, che è quella dell'atto per aes et libram,
e tutti appariscono foggiati sullo stesso modello. Basta perciò considerare,
che il nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del giuridico ad un tempo,
il mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e la proprietà, e infine
il testamentum, sotto un aspetto ha tutte le apparenze di un negozio tra vivi,
e sotto un altro è già un atto per causa di morte, e non produce i suoi
effetti, che per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere. Così pure
l'unità di origine di questi varii negozii e il loro diramarsi dal concetto,
che il proprietario ex iure quiritium deve poter liberamente disporre delle
proprie cose, viene anche ad essere dimostrata dalla circostanza, che di fronte
a tutti questi atti la legislazione decemvirale proclama il principio: uti lingua nuncupassit , o quello analogo: uti legassit, ita ius esto . 364. Da ultimo
accade eziandio una trasformazione analoga nel concetto dell'actio. Questa nel
periodo gentilizio era la procedura solenne, consacrata dal costume, a cui
doveva attenersi il capo di famiglia, il cui diritto fosse disconosciuto e
violato, e la medesima poteva anche dar luogo ad una effettiva violenza fra i
contendenti, quando essi non avessero potuto venire ad un amichevole compo
nimento . Allorchè invece l'actio compare nel ius quiritium, essa imita bensì
ancora la procedura anteriore allo stabilimento della ci vile giustizia, ma
intanto già si compie in iure, cioè davanti al magistrato riconosciuto come
capo e custode della città. Di più questa actio non può più seguire
arbitrariamente questa o quella pratica, introdottasi nel costume, ma deve
invece essere accomodata alla legge, ed ai termini di essa. Essa cessa perciò
di essere,un'actio qualsiasi, ma diventa una legis actio, e viene così a cam Fra gli autori, che dànno questa larga
significazione così al connubium, che al commercium, accennerò il LANGE,
Histoire intérieure de Rome, 13, in nota, il quale pur riconosce, che questi
concetti dovettero prima aver origine nei rapporti fra le varie genti. Quanto alle origini dell'actio nel periodo
gentilizio e ai caratteri della mede sima, vedi sopra lib. I, cap. VI, 3, 130 a 138. 464 biarsi nel diritto di far
valere le proprie ragioni davanti al ma gistrato, nella forma che è
riconosciuta dal diritto quiritario. Quindi è, che anche la procedura
quiritaria sembra prendere le mosse da un'azione tipica, che è l'actio
sacramento, la quale può anche essa essere considerata come il nucleo centrale,
da cui si verrà poi derivando non solo tutto il sistema delle legis actiones,
ma in parte eziandio il sistema delle formulae. È poi quest'origine gentilizia
dei concetti fondamentali del diritto quiritario, che spiega eziandio, senza
bisogno di ricorrere a quello spirito formalista del popolo romano, che fu
ormai abbastanza sfrut tato, le cerimonie solenni, che accompagnano gli atti di
carattere quiritario: poichè anche queste solennità dovevano un tempo accom
pagnare gli atti, che intervenivano fra i capi delle famiglie e delle genti, in
quanto rappresentavano il proprio gruppo, e avevano cosi una importanza, che
spiega le formalità, da cui erano circondati. 365. Resta ora a determinarsi
l'ordine progressivo, con cui si vennero consolidando questi varii aspetti del
primitivo ius quiritium. Anche qui ci mancano le testimonianze dirette, perchè
i veteres iuris conditores, secondo la testimonianza di Cicerone, non amavano
divulgare il segreto dell'arte loro ; ma abbiamo tuttavia una quantità di
fatti, che possono servirci di guida. Così noi sappiamo anzitutto, che la prima
parte del diritto, che ebbe ad essere comune al patriziato ed alla plebe, fu
certamente quella relativa al commercium, e quindi viene ad esser naturale, che
l'elaborazione di un ius quiritium, comune ai due ordini, inco minciasse da
quegli atti, che si riferiscono al commercium. Questa circostanza verrebbe poi
ad essere eziandio confermata dal fatto, che la parte di antichissima
legislazione civile, che sarebbe da Dionisio attribuita a Servio Tullio, si
riferirebbe appunto ai con tratti, la cui azione dispiegasi appunto nella parte
relativa al com Tralascio qui ogni
maggior spiegazione intorno alle origini del formalismo romano, perchè ebbi già
ad occuparmene al n ° 94, 117. e sopratutto nella nota 1a a 118, ove si presero
in esame le opinioni, in proposito emesse, dal Sumner-Maine e dal Jhering. Cic., De Orat., I, 42, lagnandosi delle
difficoltà, che ai suoi tempi ancora accompagnavano lo studio del diritto, dice
espressamente, che una delle cause di queste difficoltà deve essere riposta
nella circostanza che veteres illi, qui
buic scientiae praefuerunt, obtinendae atque augendae potentiae suae caussa,
pervulgari artem suam noluerunt . 465 mercium. Cosi pure abbiamo un'altra
conferma di questo fatto nella circostanza, che, all'epoca della legislazione
decemvirale, già si presentano come compiutamente formati i tre negozii
giuridici attinenti al ius commercii, cioè il nexum, il mancipium ed il testa
mentum; cosicchè in questa parte viene ad essere evidente, che le leggi delle
XII Tavole non fecero che confermare uno stato di cose già preesistente, e si
limitarono a dire, che in questa specie di negozii, la volontà del quirite
doveva essere sovrana, per modo che la sua parola costituisse legge. Infine un
argomento indiretto di questa precedenza l'abbiamo anche in questo, che la
forma dell'atto commerciale per eccellenza, che è l'atto per aes et libram,
ebbe più tardi ad essere applicata eziandio in atti relativi al ius con nubii,
come nella coemptio, nell'adoptio e simili: il che significa, che l'atto per
aes et libram già doveva essersi formato prima, che si addivenisse alla
concessione dei connubii fra patriziato e plebe, la quale segui solo più tardi.
Mi pare ciò stante di poter conchiudere, che la parte del ius quiritium,
relativa al commercium, fu la prima ad elaborarsi ed a consolidarsi, e che deve
attribuirsi a questo motivo, se lo svolgi mento posteriore del diritto romano
appare costantemente modellato sul concetto del mio e del tuo. È questo il
concetto espresso da Ulpiano, allorchè scrive: omne ius consistit aut in
acquirendo, aut in conservando, aut in minuendo; aut enim hoc agitur, quem
admodum quis rem vel ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut quomodo
amittat ; ma la causa storica, che determinò questo carattere peculiare del
diritto romano, deve essere riposta nel fatto, che la parte del ius quiritium,
relativa al commercium, fu la prima a consolidarsi, e costitui in certo modo il
nucleo centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che si aggiunsero
più tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta. Quando si
tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al connubium, si
trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà, e quindi anche il
diritto del marito, del padre, del padrone furono model Cid non può lasciar dubbio quanto al nexum ed
al mancipium, che già si presentano nelle XII Tavole come istituzioni
compiutamente svolte, ed è confermato eziandio, quanto al testamentum, da
ULPIANO, il quale dice espressamente, che le suc cessioni testamentarie e i
tutori nominati per testamento furono confermati dalle XII Tavole. Fragm., XI,
14. Ulp., L. 41, Dig. C., Le origini del
diritto di Roma. 30 - 466 lati su quello di proprietà. Cosi pure quando si
tratto di model lare le azioni, tutto si ridusse ad una questione di mio o di
tuo, si trattasse di rivendicare una cosa qualsiasi, oppure la moglie od un
figlio. Quindi è che la rigidezza, che a questo riguardo presenta il primitivo
ius quiritium, non proviene già da una confusione, che si facesse fra i diritti
di famiglia ed i diritti di proprietà, ma bensi da ciò, che essendosi nel ius
quiritium modellato prima il diritto di proprietà, anche le elaborazioni
posteriori ne conservarono l'im pronta. Ciò è anche provato dal fatto, che
nelle fonti l'espressione di ius quiritium è sopratutto adoperata relativamente
alla proprietà ed al commercio; cosa del resto, che è facile a comprendersi,
quando si consideri, che la comunanza quiritaria all'epoca serviana si formo
appunto in base alla proprietà ed al censo. 366. Noi possiamo invece affermare
con certezza, che fu solo assai più tardi, che il ius connubii entrò a formar
parte di quella singolare costruzione giuridica, che porta il nome prima di ius
qui ritium e poscia quello di ius proprium civium romanorum; poichè fu soltanto
colla legge Canuleia, che si riusci ad abolire il divieto del connubio dei
patrizii colla plebe. Malgrado di ciò, si può essere certi, che, anche prima di
quest'epoca, la parte più ricca ed agiata della plebe già aveva cercato di
accostarsi alla organizzazione della famiglia patrizia. Ciò è abbastanza
dimostrato dal fatto, che i de cemviri considerarono la famiglia fondata
sull'agnazione, come la famiglia propria dei quiriti, e cercarono anzi di
fornire alla plebe un mezzo semplicissimo per addivenire al matrimonio cum
manu, mezzo che consiste nella coabitazione di un anno, non interrotta per tre
notti di seguito. Allorchè poi colla legge Canuleia furono leciti i connubii
fra il patriziato e la plebe, era naturale, che l'atto quiritario per
eccellenza venisse ad essere applicato anche in que st'argomento. Probabilmente
dovette essere allora, che fra le forme del matrimonio cum manu, di cui una era
la confarreatio, propria del patriziato, e l'altra l'usus, propria della plebe,
venne svolgendosi. la forma del matrimonio, che può ritenersi come quiritaria
per ec cellenza, cioè quella per coemptionem. Intanto questo trapianto del
l'organizzazione domestica, propria del patriziato, nel ius quiritium, comune
ai due ordini, fece si che la famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente
sulla patria potestà e sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la
tutela legittima fossero deferite, in base alla legislazione decemvirale, agli
eredi suoi, agli agnati e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in
questa parte, che l'organiz zazione gentilizia del patriziato riusci a
penetrare nel diritto quiri tario; donde la conseguenza, che il ius connubii e
la conseguente organizzazione della famiglia finiscono per essere la parte
dell'an tico diritto, in cui rivelasi più tenace e persistente lo spirito
conser vatore dell'antico patriziato romano . 367. La parte infine del diritto
primitivo, che ultima sarebbe entrata nella compagine del ius quiritium, deve
ritenersi essere quella, che si riferisce alle legis actiones. Non è già, che
anche in questa parte non vi fossero dei materiali preesistenti: ma, secondo
l'attestazione concorde degli stessi giureconsulti, fu soltanto poste riormente
alla legislazione decemvirale è in base alle parole stesse della medesima, che
sarebbe stato modellato il sistema delle legis actiones. Che anzi si può
affermare con certezza, che questa parte del primitivo diritto di Roma fu
certamente dovuta alla elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi delle
tradizioni patrizie, spie garono sopratutto in questa parte la loro tecnica
giuridica, e cer tamente seguirono quel processo di costruzione logica, che
erasi già adottato nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi
essi, che introdussero, quale azione tipica del diritto quiritario, l'actio
sacramento, la quale può essere considerata come il germe di tutto lo
svolgimento posteriore della procedura quiritaria: come pure furono essi, che
si fecero gli iniziatori di quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla
varietà infinita delle fattispecie, che si potevano presentare, la quale giunse
poi a tanta eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non
ignoro che l'opinione qui professata, secondo cui le legis actiones sarebbero
state le ultime a penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius
proprium civium romanorum, sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi
giureconsulti, sembra Le affermazioni,
che qui sono semplicemente enunciate, verranno poi ad essere meglio comprovate
nel capo V, ove trattasi diproposito del ius connubii. È notabile, quanto al
connubium, che l'espressione ad perata nelle fonti non è più quella di ius
quiritium, la quale sopratutto si adopera in tema di proprietà, ma è già quella
di ius proprium civium romanorum. La causa di questo cambiamento sta in ciò che
il connubium venne ad essere comune dopo le XII Tavole, cioè quando al concetto
più circoscritto del ius quiritium già cominciava a sovrapporsi il concetto più
largo di un ius civile, ossia di un ius proprium civium romanorum. 168
contraddire alla opinione oggidi molto seguita, secondo cui le actiones
avrebbero avuta la precedenza su tutte le altre parti del diritto quiritario.
Credo quindi opportuno di avvertire, che io pure ammetto, che in quella
evoluzione lenta dei concetti giuridici, che ebbe ad avverarsi nel periodo
gentilizio, il concetto che prima venne a svolgersi, fu certamente quello di
actio : ma così invece più non accadde nell'elaborazione del ius quiritium.
Questo infatti è già una costruzione organica e coerente, che prese le mosse
dal concetto del quirite, come individualità giuridica integra e perfetta, e
che in base al medesimo cominciò dapprima dal modellare la pro prietà, a lui
spettante; poscia gli attribui il connubio; da ultimo provvide anche alle
azioni, che potevano tutelarlo nei suoi diritti di proprietà e famiglia: donde
la conseguenza, che il ius quiritium, essendo già un'opera riflessa, accolse
talvolta più tardi istituzioni, che nella realtà dovettero svolgersi per le
prime. Intanto questo sguardo complessivo alla progressiva formazione del ius
quiritium ha ' per noi una grandissima importanza, in quanto che mantenendo
nella ricostruzione l'ordine stesso, che ebbe ad essere seguito nella naturale
formazione del ius quiritium, si potrà giungere a spiegare certi caratteri
peculiari del diritto pri mitivo di Roma, che altrimenti riuscirebbero
incomprensibili. La materia intanto verrà ad essere naturalmente ripartita in
tre capi toli, di cui il primo si occuperà del ius commercii, l'altro del ius
connubii, e l'ultimo delle legis actiones. Fra gli altri sembra attribuire questa
precedenza all'actio sulle altre parti del diritto civile romano il Cogliolo,
Saggi sopra l'evoluzione del diritto privato, Torino, 1885, 105. Ho cercato altrove di spiegare questo
carattere delle società primitive, che al punto di vista attuale pud apparire
alquanto singolare nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale,
Torino, 1880, 40. (3 ) Per una più larga discussione intorno al modo, in cui si
formarono le legis actiones, mi rimetto al cap. VI ed ultimo, 1º, ove trattasi appunto di quest'argomento.
Il ius commercii nel diritto quiritario. Il commercium e l'atto per aes et
libram. 368. Se havvi parte del ius quiritium, che sia modellata in per fetta
correlazione con quella individualità giuridica, integra e com piuta, che era
il quirite, è quella certamente, che si riferisce al ius commercii. In questa
parte la volontà del quirite apparisce indi pendente e sovrana; la sua parola
costituisce una vera legge;" e non trovasi imposto altro limite e confine
al suo potere, salvo quello, che deriva dalla osservanza delle forme solenni,
che sono ricono sciute ed adottate dal diritto quiritario. Il quirite infatti,
quale pro prietario, può disporre delle sue cose fino ad abusarne, e può
alienarle nel modo solenne proprio dei quiriti (facere mancipium ); quale
debitore può obbligare se stesso fino a vincolare la libertà della propria
persona (facere nexum ) per il caso in cui non soddisfi il suo debito, e come
creditore può appropriarsi perfino la persona ed il corpo del debitore; come
testatore infine può disporre in qual siasi modo del suo patrimonio, dimenticando
anche di avere de' figli. Si può quindi affermare, che i tre atti fondamentali,
in cui si esplica il ius commercii ex iure quiritium, sono tutti governati dal
con cetto, che la volontà del quirite non deve aver limite o confine: concetto,
che, quanto al nexum ed al mancipium, viene enun ciato con dire uti lingua nuncupassit, ita ius esto , e
quanto al testamento, colle parole: uti
pater familias super familia tute lave suae rei, legassit, ita ius esto . E questa la parte, in cui uti Mentre nella ricostruzione del Dirksen,
seguita dal Bruns, Fontes, 22 e 2.3, la disposizione: Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua
nuncupassit, ita ius esto sarebbe la
legge 1º della Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt invece, essa viene
ad essere la 1° della Tavola V. Così pure la disposizione legassit super
pecunia tutelave suae rei, ita ius esto , che nella ricostruzione del Dirksen è
la terza della Tavola V, in quella del Voigt viene ad essere la prima della
Tavola IV. Ciò dimostra quanto sia grande, anche oggi, l'incertezza intorno
all'ordine dei frammenti delle XII Tavole. domina sovrana la nuncupatio, e
quindi si comprende come tanto nelle obbligazioni, quanto nei trasferimenti del
dominio, quanto nei testamenti abbia avuto cosi larga parte lo studio delle
espressioni adoperate. Queste espressioni infatti nel concetto primitivo
costitui vano delle vere leggi, come lo dimostrano ancora le espressioni ado
perate di lex mancipii, di lex testamenti, di lex fiduciae e simili, colle
quali si comprendevano le varie clausole, che potevano essere apposte ad un
trasferimento del dominio, o ad un testamento . L'unità poi, che domina tutta
questa parte del primitivo ius qui ritium, viene anche ad essere provata dal
fatto, che un medesimo atto tipico, che può chiamarsi l'atto quiritario per
eccellenza, fini per servire quale mezzo per compiere tutti questi negozii
giuridici. 369. L'opinione, ora generalmente seguita, intorno all'atto tipico
del diritto quiritario, sembra ritenere, che tale atto debba essere riposto
nella mancipatio, argomentando dalla larga applicazione, che questa ebbe a
ricevere, ogni qualvolta trattavasi di trasferire la manus, intesa nel senso di
potestà giuridica sopra una cosa o sopra una persona . Parmi invece, che le
poche vestigia, che a noi pervennero dall'antico diritto, conducano a ritenere,
che la forma Il vocabolo di lex, come
significò la clausola di un contratto o di un testa mento, così indicò eziandio
le condizioni pubblicamente prescritte per i luoghidesti nati ad uso pubblico o
comune. Vedi Bruns, Fontes, Pars II, Negotia, Caput I, 240. Quanto agli altri
significati del vocabolo di lex, nel primitivo diritto ro mano, vedi sopra nº
228, 278. Tra gli autori recenti, che
cercarono di ricostruire il primitivo diritto romano, poggiandosi sul concetto
di manus, in quanto comprende i poteri sulle cose e sulle persone, e sulla
mancipatio, quale mezzo generale per il trasferimento delle manus, deve essere
ricordato il Voigt, XII Tafeln, II, 83 a 345. Anche il lavoro del dott. Longo,
La mancipatio, Firenze, 1887, è un tentativo in questo senso. Questi verrebbe
alla conclusione, che la mancipatio, quale a noi pervenne, sarebbe una reliquia
di un atto più antico e più solenne, il quale in origine avrebbe dovuto
compiersi in calatis comitiis, e che sarebbesi applicato ad ogni acquisto e
trasferi mento della inanus. Di quest'atto primitivo egli troverebbe le traccie
nel testamen tum e nell'adrogatio in calatis comitiis. Quest'opinione, a parer
mio, non può am mettersi; perchè la mancipatio comparve relativamente tardi, e
si riduce in sostanza ad una semplice applicazione dell'atto per aes at libram.
Quanto agli atti di diritto privato, in cui abbiamo ancora l'intervento del
populus, essi non indicano già, che tutti gli atti relativi alla manus
richiedessero un tempo l'assistenza del popolo; ma debbono considerarsi come
una sopravvivenza dell'organizzazione gentilizia nel pe riodo della città; come
ho cercato appunto didimostrare ai nn. 220 e 221, 256 e segg., discorrendo dei
calata comitia, e degli atti che compievansi in essi. 471 tipica del negozio
quiritario, debba essere riposto nell'atto per aes et libram; cosicché la nexi
datio, la nexi liberatio, la man cipatio, la testamenti factio debbono essere
riguardate come altret tante applicazioni di quest'atto primordiale. Cid può
essere dedotto anzitutto dal concetto fondamentale del primitivo ius quiritium,
in cui tutto si riduceva ad una questione di mio e di tuo; donde la
conseguenza, che ogni atto relativo al commercium si riduceva in sostanza a
fare in modo, che una cosa di nostra diventasse altrui (quod de meo tuum fit)
mediante un corrispettivo, che può consistere o nel prezzo, o nell'obbligazione
solenne assunta dal de bitore, o nel corrispettivo di quella finta mancipatio
familiae, in cui facevasi consistere lo stesso testamento: trapasso, che trova
vasi mirabilmente espresso, mediante l'atto per aes et libram. Ed è questo
concetto appunto, che risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi
giureconsulti. Questi passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era
un'applicazione dell'atto per aes et libram, e dapprima quasi confondevasi con
esso, poichè era definito: omne quod
geritur per aes et libram . Lo stesso è a dirsi del facere mancipium, in quanto
che una parte essenziale della mancipatio, quale è descritta da Gaio, consiste
senz'alcun dubbio eziandio nel l'atto per aes et libram; il che è pur
dimostrato dalla denomina zione stessa del testamento per aes et libram, il
quale si introdusse più tardi, e non fu che una nuova applicazione dell'atto
per aes et libram. Si aggiunga, che questi passi degli antichi giureconsulti
indicano una incertezza intorno alla significazione primitiva del nexum e del mancipium.
Vi sono infatti dei giureconsulti, che nel nexum comprendono anche il mancipium,
mentre altri già distinguono fra l'uno e l'altro, osservando che dal nexum
deriva un obbligazione, mentre col mancipium si opera la traslazione della
proprietà. Questa incertezza appare eziandio quanto al testamento per aes et
libram, il quale sotto un aspetto appare come una vera vendita o mancipatio
familiae, come lo dimostra l'intervento del familiae venditor e del familiae
emptor; mentre sotto un altro aspetto non è più una vendita nel vero senso
della parola, ma è già un vero atto per causa di morte, poichè il familiae
emtor riceve solo in deposito e in custodia il patrimonio del te statore, accið
egli possa liberamente disporne secundum
legem publicam per il tempo in cui avrà
cessato di vivere. Non sarà inutile
riportare qui alcuni dei passi di antichi giureconsulti, che 472 Di qui
pertanto si può ricavare, che nella sintesi primitiva del diritto quiritario
tutto ciò, che riferivasi al commercium, compievasi per aes et libram, col
quale atto esprimevasi lo scambio ed il tra passo, e che solo col tempo in
questa sintesi primitiva si vennero differenziando il nexum, il mancipium, il
testamentum; i quali col tempo procedettero ciascuno per la propria via, ed
informati ad un proprio concetto finirono per dare origine a tre istituzioni
fonda mentali. Col tempo infatti dal nexum scaturi la teoria delle obbli
gazioni, dal mancipium derivò quella dell'alienazione e trasmissione del
dominio e dei diritti reali inchiusi nel medesimo, e dal testa mentum si derivò
tutta la teoria della libera disposizione delle proprie cose per causa di morte,
la quale non potè mai confondersi ed imparentarsi colla successione legittima,
poichè questa nel ius quiritium ebbe un'origine compiutamente diversa, come
sarà di mostrato a suo tempo . È poi notabile, che il primitivo ius quiri tium,
nella sua sintesi potente, ebbe a ravvisare uno scambio, ed una trasmissione
con corrispettivo, tanto nel contratto, in quanto è fonte di obbligazioni,
quanto nel trasferimento delle proprietà, quanto eziandio nel testamento,
mediante cui l'erede viene in certo modo a dimostrano come il nexum, il
mancipium e il testamentum facere non fossero, che altrettante applicazioni
dell'atto per aes et libram. Nexum
Manilius scribit omne, quod per aes et libram geritur, in quo sint mancipia .
Varro, De ling. lat., 7, 5, 105
(AUSCHKE, Iurispr. antiiustin., 6 ); Nexum, est ut ait Aelius Gallus, quodcumque
per aes et libram geritur, idque necti dicitur; quo in genere sunt haec:
testamenti factio, nexi datio, nexi liberatio (Hoschke, Op. cit., 96 ). Accanto a questa
significazione larghissima, in cui il vocabolo di nexum comprende ancora omne quod geritur per aes et libram , sonvi
poi altri passi, che già attribuiscono al nexum una significazione più
circoscritta. Così, ad esempio: Nexum,
Mucius scribit, quae per aes et libram fiunt, ut obligentur, praeter quae
mancipio dentur , la quale opinione sarebbe prevalsa secondo VARRONE, De ling.
lat., VII, 105, il quale aggiunge: hoc
verius esse ipsum verbum ostendit,de quo quaerit, nam id est quod obligatur per
libram, neque suum fit, inde nexum dictum (Bruns, Fontes, 386). Quest'ultima definizione
sarebbe pur confermata da Festo, vº Nexum: Nexum aes apud antiquos dicebatur pecunia,
quae per nexum obligatur (Bruns, Fontes,
346). Sonvi poi eziandio dei passi, in cui la mancipatio sarebbe indi cata
perfino colla espressione di traditio alteri nexu, quale sarebbe il seguente di
Cic., Top., 5, 28: Abalienatio est eius
rei, quae mancipii est, aut traditio alteri nexu, aut in iure cessio . Per
altri passi vedi il Voigt, XII Tafeln, I, 197, nota 7, e II, 482. La successione legittima non prende le mosse
dal commercium, ma dal con nubium, come sarà dimostrato nel seguente cap. V, $
5. - 473 continuare la personalità giuridica del proprio autore, e viene perciò
ad essere obbligato alla continuazione dei sacra. Di qui la conseguenza, che,
per ricostruire in questa parte il ius quiritium, vuolsi ricomporre anzitutto
il primitivo atto per aes et libram, cercare l'epoca in cui esso penetrò nel
ius quiritium, e se guire da ultimo le progressive applicazioni, che se ne
vennero facendo. 370. Più volte ebbe ad essere notato, che nel diritto romano
oc corrono le traccie di un processo, che ha del matematico, e che taluni
vollero attribuire alla influenza di Pitagora, la cui filosofia, teorica e
pratica ad un tempo, poggiava appunto sul numero, come espres sione dell'ordine
e dell'armonia. Senza entrare in una simile di scussione, questo è certo, che
non si può a meno di ravvisare questo carattere di matematica precisione ed
esattezza in quel negozio, es senzialmente proprio dei quiriti, che compare
sotto la forma del l'atto per aes et libram; poichè in esso noi vediamo
comparire la persona di un pubblico pesatore, che tiene la bilancia quasi per
de terminare ciò che altri då, e ciò che deve essere ricevuto in con
traccambio. Può darsi benissimo, che quest'atto per aes et libram abbia avuto origine
dalla necessità, in cui i contraenti erano di pesare l'aes rude, allorchè non
erasi ancora introdotto l'aes signa tum: ma intanto si stenta a credere, che i
veteres iuris conditores, allorchè introdussero come tipico quest'atto nel ius
quiritium, e ne prolungarono la vita ben oltre l'epoca, in cui era veramente
neces saria la bilancia, non abbiano ravvisato nel medesimo come una
espressione ed un simbolo della esattezza e della precisione, che
deveaccompagnare il negozio giuridico, e della uguaglianza, che deve mantenersi
fra la cosa ed il prezzo, fra quello che si dà e ciò che si riceve in
contraccambio. Questo è certo, che difficilmente sareb besi potuto rinvenire un
atto, che potesse meglio simboleggiare quella giustizia, che Aristotele chiamò
poi commutativa, e che era quella appunto, che doveva sovraintendere a quegli
scambii, che i Romani inchiudevano col vocabolo di commercium . Ad ogni modo
l'esistenza presso i Romani di un atto quiritario quod geritur per aes et libram da applicarsi in tutti gli scambii, in tutti i
trapassi, in tutte le contrattazioni, che potessero interve V. ZELLER, La philosophie des Grecs, trad.
Boutroux, I, Paris, 1877, p. 486 e sopratutto la nota 8, 401. Cfr. C.,
La vita del diritto, 132. - 474 nire fra i quiriti, tanto negli atti tra vivi,
quanto eziandio negli atti per causa di morte, non pud essere posta in dubbio.
Vero è, che il medesimo non ci pervenne nelle sue fattezze genuine, ma soltanto
nelle applicazioni diverse, che se ne fecero; ma il fatto stesso che l'atto per
aes et libram compare nelle obbligazioni, nei trasferimenti e nei testamenti
dimostra, che esso in certo modo fra i quiriti compieva quella funzione, che
presso di noi ha compiuto, sopratutto in altri tempi, quello che chiamasi
l'atto pubblico ed autentico, il quale, al pari dell'antico atto per aes et
libram, con tinua in certi confini ancora oggi ad avere la forza e l'efficacia
del titolo esecutivo, salvo che esso sia impugnato di falso. Dal momento, che
erasi venuto formando per la comunanza dei quiriti una forma particolare di
diritto, che prese il nome di ius quiritium, era naturale che si modellasse
eziandio un atto tipico, che potesse ser vire nei negozii essenzialmente
quiritarii. Esso doveva essere pub blico, come tutti gli atti, che si
compievano fra i quiriti; doveva es sere fatto colla testimonianza dei quiriti
stessi, in quanto che poteva mutare in qualche modo la posizione rispettiva
degli uni verso degli altri nella comunanza quiritaria, donde l'intervento nel
medesimo dei classici testes, corrispondano o non i medesimi alle cinque classi
serviane; doveva esser fatto coll'intervento di un pubblico ufficiale, che era
il libripens, il quale poteva anche essere inca ricato di denunziare agli
uffizii del censo le mutazioni, che ne derivavano alla condizione dei quiriti;
alle quali solennità negli antichi tempi aggiungevasi eziandio la presenza di
un antestator, incaricato in certo modo di richiamare l'attenzione delle parti
e dei testimoni sulla importanza dell'atto. Il medesimo poi, per quanto si può
inferire dalle applicazioni Tra gli
autori, che sembrano accostarsi all'idea, che l'atto per aes et libram
costituisca nell'antico diritto la forma solenne per tutti i negozi relativi al
com mercium, parmi di poter annoverare l'HÖLDER, Istituzioni di diritto romano,
$ 28, trad. Caporali. Torino, 1887, 82. Cod. civ. it.Questi varii caratteri del
primitivo atto per aes et libram si possono facil mente ricostruire,
ricomponendo insieme la descrizione, che sopratutto Gajo ed Ul PIANO ci
serbarono, dei varii negozii, che compievansi per aes et libram, quali la nexi
datio, la nexi liberatio, la mancipatio, ed il testamentum per aes et libram,
dei quali avremo poi a discorrere partitamente. Quanto all' antestator o
antestatus vedi il Longo, La mancipatio, 74. 475 diverse, che ne furono fatte,
ebbe ad essere costituito di due parti, cioè: lº dell'atto per aes et libram,
il quale, mentre dava al negozio il carattere di pubblicità e di autenticità,
poteva eziandio essere un ricordo effettivo di un'epoca, in cui l'aes rude
serviva di istrumento per gli scambii e doveva perciò essere pesato colla
bilancia; 2º della nuncupatio, che era un complesso di parole solenni,
accomodate alla natura dell'atto, le quali esprimevano con preci sione ed
esattezza il negozio giuridico, che veniva operandosi fra i contraenti. Mentre
la prima parte era un ricordo del passato e conservavasi dicis gratia, propter veteris iuris
imitationem ; la seconda parte invece serviva a dargli duttilità e
pieghevolezza, e a rendere possibili le applicazioni diverse, che si fecero
dell'atto per aes et libram, non solo ai negozii giuridici propriamente detti,
ma anche agli atti relativi all'ordinamento della famiglia. 371. Quanto al
tempo, in cui l'atto per aes et libram può essere stato introdotto nel ius
quiritium, esso non può e non potrà forse mai essere determinato con certezza,
anche per il motivo che il medesimo può essere stato il frutto di una
formazione lenta e gra duata. Egli è probabile tuttavia, che l'epoca, in cui
esso cominciò a formarsi, dovette essere quella stessa, in cui prese ad
elaborarsi un ius quiritium, comune al patriziato ed alla plebe, e quindi le
sue origini possono con probabilità essere riportate all'epoca della costi
tuzione serviana. Fu allora, che mediante l'istituzione del censo co minciò a
delinearsi una proprietà ex iure quiritium, la quale con sisteva nel mancipium;
quindi è probabile, che anche allora siasi sentito il bisogno di una forma
tipica per compiere i negozii quiri tarii. Questo è certo, che alcuni tratti
dell'atto per aes et libram richiamano l' epoca serviana. Cosi, ad esempio, noi
sappiamo, che probabilmente in quell'epoca dovette avverarsi una trasformazione
nel sistema monetario, poichè presso i primitivi romani il più an tico
strumento di scambio non consistette nel rame, ma nei capi di L'esistenza di questo duplice elemento nel
primitivo atto per aes et libram è già accennato dalla disposizione delle XII
Tavole: qui nexum faciet, mancipium que,
uti lingua nuncupassit, ita ius esto , e appare poi dall'analisi di tutti i ne
gozii, che si compiono per aes et libram, descrittici sopratutto da Gajo, Comm.,
II, 104-5 e da Ulp., Fragm., XX, 9. - 476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e
nei buoi, come lo dimostra la designazione delle multe, che anche più tardi si
continuò a fare in questa guisa. Che se per avventura si volesse ritenere, come
fino a un certo punto è probabile, che l'atto per aes et libram fosse stato
anche adottato per simboleggiare lo scambio, il trapasso, anche questo linguaggio
simbolico corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che ricorre ai
simboli dell'hasta, della vindicta, e simili. Cosi pure noi sappiamo, chei
testimonii dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed è anzi
probabile, che fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra la
denominazione di classici testes: la quale, sebbene sia solo menzionata per i
testimonii nel testamento, può ra gionevolmente essere estesa alle altre
applicazioni dell'atto per aes et libram. Infine anche l'intervento di un
pubblico ufficiale in quest'atto sembra essere stato determinato dalla
necessità, in cui si era di conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella
posizione ri spettiva dei quiriti. Comunque sia, è però sempre probabile, che
anche nella formazione di quest'atto siasi seguito il processo, che suole es
sere adoperato dai Romani, quello cioè di servirsi di qualche forma già
preesistente, attribuendovi il carattere quiritario, e cambiandola cosi in una
forma tipica, che potrà poi essere capace di applicazioni diverse. Nulla
ripugna pertanto, che l'atto per aes et libram sia stato veramente una realtà
nell'epoca, in cui l'aes rude, non potendo essere numerato, doveva invece
essere pesato; ma questo è certo, che quando quest'atto compare nel ius
quiritium, esso viene già Festo, vº Classici testes dicebantur, qui signandis
testamentis adhibebantur . La questione se questi classici testes dovessero
ritenersi come rappresentanti delle cinque classi, in quanto che essi non
potevano essere meno di cinque, fu trattata di recente dal Longo, La mancipatio,
83 e segg., il quale sosterrebbe che i clas sici testes non hanno che fare
colla rappresentanza delle classi. Se con cið egli in tende di dire, che i
testimoni non avevano nessun incarico di rappresentare le cinque classi
serviane, ciò può facilmente essere consentito, poichè, secondo la
testimonianza di GaJo, Comm., II, 25, questi testi solevano essere amici dei
contraenti e potevano perciò essere presi anche dalla stessa classe: ma intanto
non vi ha motivo per ne gare, che essi fossero chiamati classici, appunto
perchè dapprima dovevano essere presi dalle classi, ossia dagli adsidui e
locupletes. Era infatti nello spirito della costituzione serviana, che
nell'atto per aes et libram, con cui si attuavano le muta zioni di proprietà
quiritaria, dovessero intervenire dei testimonii tolti dalle classi al modo
stesso, che ancora in base alle XII Tavole era stabilito: adsiduo adsiduus vindex esto . Tale sembra pur
essere l'opinione del MUIRHEAD, Histor. introd., pag.59, il quale trova anzi
non improbabile, che i non minus quam quinque testes rappresentassero le cinque
classi. 477 ad essere cambiato in un atto tipico, che poteva essere suscettivo
di molteplici applicazioni. Si comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della
mancipatio, come di una imaginaria venditio, senza neppur far cenno di un'epoca,
in cui essa poteva costituire una vendita effettiva e reale. 372. Per quello
poi che si riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per aes et libram
sarebbe stato applicato ai principali negozii giuridici deldiritto quiritario,
è opinione generalmente ammessa, che esso siasi prima applicato alla
mancipatio, poscia al nexum, e più tardi al testamentum per aes et libram.
Mentre non pud esservi alcun dubbio circa l'applicazione più tarda dell'atto
per aes et li bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed Ulpiano attestano,
che questa forma di testamento ebbe ad essere introdotta posterior mente a
quella in calatis comitiis , ritengo invece, che sianvi dei forti indizii per
credere, che l'applicazione dell'atto per aes et libram al nexum debba essere
considerata come la più antica. Un argomento di ciò l'abbiamo anzitutto nel
fatto, che nell'antico ius quiritium il diritto sembra spiegarsi prima contro
la persona del debitore, che non contro i beni del medesimo, ed è solo assai
tardi e sotto l'influenza del diritto pretorio, che si giunge a rite nere
vincolati i beni, anzichè il corpo e la persona del debitore. Di più il facere
mancipium suppone già un'epoca, in cui anche la plebe era pervenuta alla
proprietà, mentre il facere nexum ci ri porta ad un'epoca più antica, in cui la
plebe, nei suoi rapporti col patriziato, non potendo offrire alcuna garanzia
reale, non poteva ob bligarsi altrimenti, che vincolando la propria persona. A
ciò si ag giunge, che l'atto per aes et libram pud essere stata una realtà
relativamente al nexum, poichè in un'epoca, in cui l'aes rude serviva come
strumento di scambio, era una necessità il pesare la somma, che era data ad
imprestito; mentre invece l'applicazione Egli è evidente che i giureconsulti
considerarono sempre l'atto per aes et libram come una forma riconosciuta dalla
legge (secundum legem publicam ) per compiere i negozii di carattere quiritario;
di qui le loro espressioni di imaginaria venditio, e di imaginaria mancipatio,
e la disinvoltura con cuinon hanno difficoltà di applicarle a negozii, che più
non hanno carattere mercantile, come sarebbe, ad esempio, il matrimonio per
coemptionem. Tale sembra, ad esempio,
essere l'opinione del Voigt, XII Tafeln; del MUIRHEAD, Op. cit., (3 ) GAJO,
Comm., II, 102; ULP., Fragm., XX, 2. 58. 478 dell'atto per aes et libram, non
solo per eseguire il pagamento del prezzo, ma anche per operare il
trasferimento della proprietà di una cosa, è già ad evidenza un espediente
giuridico, e merita il nome da tole da Gaio di imaginaria venditio . Si comprende pertanto,
come gli antichi giureconsulti comprendano talvolta il facere mancipium nel
concetto più antico del nexum chiamando con questo nome omne quod geritur per aes et libram , mentre
non consta che essi facciano mai rientrare il nexum nel concetto del facere
mancipium. Infine si può anche aggiungere, che nei passi antichi parlasi di un
ius nexi mancipiique, e che le stesse XII Tavole fanno precedere il nexum nel
famoso testo: cum nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto : argomento questo,
chemalgrado la sua tenuità apparente non deve trascurarsi del tutto, quando si
consideri l'esattezza e la precisione, anche cronologica, che i ro mani,
sopratutto nei tempi più antichi, recavano nel proprio lin guaggio legislativo,
facendo di solito precedere il concetto, che prima erasi formato a quello, la
cui formazione era posteriore. Che se po steriormente la mancipatio fini per
prendere un posto più impor tante, ciò proviene da una causa storica, dal fatto
cioè, che la parte del diritto primitivo relativa al nexum fu la prima ad
essere abolita, il che accadde per mezzo della lex Paetelia, nel 428 dalla
fondazione di Roma; donde la conseguenza, che il nexum cadde pressochè in
dimenticanza, mentre la mancipatio apparve come l'atto quiritario per
eccellenza presso i classici giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che
presso i giureconsulti più antichi dovette essere as solutamente il contrario;
perchè noi sappiamo che Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il
mancipium, e che Elio Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio;
cosicchè tutto ciò, che compievasi per aes et libram, necti dicebatur, e quindi
nel nexum veniva ad essere compreso omne
quod geritur per aes et libram . La distinzione invece fra il nexum ed il
mancipium compare in Quinto Muzio Scevola, il quale dice bensi che il nexum è
ancor sempre quod per aes et libram fit ,
ma non più nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì in quello di
obbli garla soltanto; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad essere seguita,
e fu allora che si chiamò nexum, quod
obligatur per libram, neque suum fit. Si pud quindi conchiudere, che il
vocabolo di nexum ebbe dapprimauna significazione più larga, per cui tutto V. in proposito i passi di antichi
giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota - 479 ciò che compievasi per aes et libram, necti dicebatur , mentre
più tardi fini per significare l'obbligazione assunta per aes et libram;
trasformazioni di significato, che occorrono frequenti nel diritto ro mano,
come lo dimostrano i vocaboli di imperium, di manus e di mancipium, i quali
tutti, mentre hanno una significazione più larga, finiscono per assumere un
significato specifico più circoscritto. A queste considerazioni, fondate sui
testi, se ne aggiunge un'altra, per me più importante di tutte, ed è che nella
formazione del diritto quiritario, che poggia tutto sul concetto fondamentale
del quirite, il diritto, quale vinculum societatis humanae, dovette presentarsi
dap prima come un nexum, ossia, come un vincolo, che intercede fra due quiriti.
Ciò è dimostrato dal fatto, che la procedura primitiva è azione di una persona
contro di un'altra, e che la esecuzione pri mitiva va direttamente contro la
persona del debitore, e si mani festa quale manus iniectio contro il medesimo .
Quest'indagine intanto è per noi importante anche nel senso, che ci induce a
discorrere prima del nexum, poscia della mancipatio, e da ultimo del
testamentum per aes et libram. $ 2. Il nexum e la storia primitiva della
obbligazione quiritaria. 373. L'origine diquell'obbligazione quiritaria di
strettissimo diritto, che contraevasi mediante il nexum, deve essere cercata in
quel Non parmi pertanto, che possa
essere accettata la teoria ingegnosa, ma non fondata sui fatti, del
SumnER-MAINE, L'ancien droit, p. 305 e seg., secondo la quale il nexum avrebbe
prima significato il trasferimento della proprietà, e sarebbe poscia venuto a
significare l'obbligazione del venditore, che non avesse pagato il prezzo. Cid
è assolutamente contrario al concetto romano, secondo cui la consegna della
cosa e il pagamento del prezzo seguivano contemporaneamente nella mancipatio.
Si può anzi dire che il processo seguito dal diritto romano fu compiutamente
inverso. Il primo rapporto, che potè esservi fra il patriziato e la plebe, fu
quello del nexum, ossia quella rigida obbligazione, per cui il mancato
pagamento dava luogo alla manus iniectio contro la persona; mentre solo più
tardi l'atto per aes et libram potè servire per il trasferimento della
proprietà. Queste considerazioni mi impedi scono eziandio di aderire allo
svolgimento storico, che sarebbe proposto dal CoglioLO nelle note al
PadELLETTI, Storia del dir. rom., 250, dove, premesso che il con cetto del
diritto reale dovette precedere quello del diritto personale, farebbe anche
precedere la formazione della mancipatio a quella del nexum. Cfr. Puglia,
Studii di storia del dir. priv., 73. 480 l'epoca, in cui la plebe, priva ancora
di una vera posizione di diritto di fronte al patriziato, non poteva trovar
credito presso ilmedesimo che vincolando la propria persona. In virtù del nexum
il debitore plebeo, che non pagava a scadenza, poteva essere sottoposto alla
manus iniectio, ed essere tradotto nel carcere privato del creditore patrizio.
Coll'ammessione dei plebei alla comunanza quiritaria, il nexum, questa
obbligazione rozza è primitiva, che era surta nei rapporti fra la classe
superiore e la classe inferiore, venne ancor essa a con vertirsi nella forma
tipica della obbligazione quiritaria, ma dovette perciò sottomettersi a tutte
le solennità dell'atto quiritario. Essa quindi dovette essere contratta colle
formalità dell'atto per aes et libram, colla assistenza cioè di non meno di
cinque testes cives romani, e coll'intervento del libripens e dell'antestator.
La formola precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci giunse invece,
conservataci da Gaio, quella della nexi liberatio, la quale, essendone
naturalmente il contrapposto, pud servirci per determinare, se non la formola
precisa, almeno gli elementi essenziali, che dove vano concorrere nella nezi
datio, per usare una espressione, che occorre nel giureconsulto Elio Gallo (3
). Da questa formola si può in durre che a costituire il nexum dovettero
concorrere due parti, cioè: Senza
pretendere qui di citare la ricchissima letteratura sul nexum, ricorderò
soltanto l'Huschke, Ueber das nexum, Leipzig, 1846; GIRAUD, Des nexi, ou de la
condition des débiteurs chez les Romains, Paris 1847; Voigt, XII Tafeln, I, $$
63-65; MUIRHEAD, Histor. Introd., 152 a 163. Le opinioni degli autori tuttavia
sugli effetti del nexum primitivo sono ancora molto discordi. Secondo la
dottrina più seguita, il nexum dava origine ad un'obbligazione di strettissimo
diritto, la quale, non soddisfatta, autorizzava senz'altro alla manus iniectio.
Di recente invece il Voigt sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum
non avrebbe alcun effetto speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal
Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, Storia del diritto romano, 329. Per mio
conto seguo la prima opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum, che
ho cercato di spiegare più sopra ai nu meri 166-67, 206 a 208, e sulla
considerazione, che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla
plebe per ottenere l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il
medesimo avesse prodotto i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo
della stipulatio. Questa necessità
dell'atto per aes et libram, per contrarre il nexum, probabil mente fu quel
provvedimento favorevole ai debitori, che da Dionisio è attribuito a Servio
Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op. cit., 67. (3 ) La formola della nexi liberatio
conservataci da Gajo, Comm., III, 174, sa rebbe la seguente: Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum, me
eo nomine a te solvo liberoque hoc aere
aeneaque libra. Hanc tibi libram primam postremamque 481 1° l'atto per aes et
libram, non minus quam quinque testes, cives romani, il libripens e forse
eziandio l'antestator; 2° e la nuncu patio, che non si sa bene se dovesse
essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi i contraenti. Essa però
probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una pronunziata dal nexum
accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una specie di damnatio. Il
primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro rispondeva damnas sum, il che
implicava una specie di condanna, che il debitore pronunziava contro se stesso,
al pagamento della somma . Di qui la conseguenza, che se il medesimo non pagava
si poteva proce dere contro di lui, come se il medesimo fosse damnatus al paga
mento, e perciò poteva essere soggetto alla manus iniectio, senza che fosse
richiesta una speciale condanna del magistrato. I dubbii più gravi, che si
riferiscono al nexum, sono quelli re lativi alla natura dell'obbligazione
contratta col nexum, ed agli effetti, che derivavano da essa in base al diritto
primitivo, le cui vestigia appariscono ancora nella legislazione decemvirale.
374. Per quello che riguarda la natura della obbligazione con tratta col nexum,
alcuni antichi scrittori, non giuristi, descrivendo la trista condizione dei
debitori, tradotti nel carcere privato del loro et expendo secundum legem
publicam . Essa è per noi molto preziosa: 1° perchè ci dice anzitutto, che il
nexum per aes et libram importava una damnatio per parte del debitore, il che
fa credere che rendesse contro di lui applicabile senz'altro la manus iniectio,
che Gaio ci dice appunto essere ammessa contro i damnati, e contro i iudicati;
2° perchè essa è un argomento per ritenere, che le obbligazioni contratte per
aes etlibram dovevano essere risolte con un atto della medesima natura; 3.
perchè infine ci attesta, che l'atto per aes et libram era una forma di
liberatio secundum legem publicam, e come tale non si applicava soltanto nei
casi di obbligazioni con tratte col nexum, ma anche quando trattavasi del
pagamento di una somma ex causa iudicati, o del pagamento di un legato per
damnationem. Ciò conferma sempre più la congettura posta innanzi, che l'atto
per aes et libram era in certo modo la forma quiritaria del negozio giuridico,
donde le sue molteplici applicazioni, allorchè si tratta di negozii ex iure
quiritium. La nuncupatio del nexum
secondo il Voigt, XII Tafeln, 483, si com porrebbe bensì di due parti; ma egli,
ricostruendone la formola, respingerebbe l'e spressione damnas esto e damnas
sum, in conformità appunto della sua teoria, se condo cui il nexum non avrebbe
dato origine ad un'obbligazione di carattere spe ciale. Parmi che quest'ultima
parte della sua ricostruzione non possa accettarsi; poichè, così essendo, la
formola della nesi datio non corrisponderebbe a quella della nexi liberatio,
conservataci da Gaio, la quale è certo ciò, che noi abbiamo di più testuale in
proposito. C., Le origini del diritto di Roma. 31 482 creditore, ebbero a dire,
che essi, dopo essere stati spogliati dei beni, avevano poi dovuto rinunziare
alla propria libertà. Ciò fece ri tenere talvolta, che il nexum attribuisse il
diritto di procedere non solo contro la persona, ma anche contro i beni del
debitore. Questo concetto sembra ripugnare a quel carattere del primitivo ius
qui ritium, secondo cui il medesimo, allorchè giungeva a separare due istituti,
quali sarebbero quelli del nexum e del mancipium, lasciava poi che ciascuno
procedesse per la propria via, informato ad una propria logica, senza che l'uno
più non si confondesse coll'altro. Ora pur riconoscendo che il vocabolo di
nexum, nella sua significazione primitiva, designasse in genere il vincolo
giuridico, che intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse anche
estendersi ai beni del debitore, questo è certo che non dovette più essere
cosi, allorchè si operò la distinzione fra il nexum ed il mancipium, e i due
con cetti cominciarono ad avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi
sappiamo, che questa distinzione del nexum dal mancipium già erasi operata
anteriormente all'epoca decemvirale, e che da quel momento il quirite come tale
ebbe due mezzi per provvedere alle proprie necessità; quello cioè di alienare
il proprio mancipium, o quello di vincolarsi col nexum. Con quello egli poteva
trasferire i beni e con questo vincolare la sua persona; ma gli effetti
dell'uno non potevano più confondersi coll'altro. Fu in seguito a questa di
stinzione, che anche più tardi la giurisprudenza romana ebbe a ri tenere, che
le obbligazioni ed i contratti, che derivarono dal nexum, non possono mai
riuscire al trasferimento della proprietà, il quale con tinuò sempre ad
operarsi per mezzo della usucapione e della tradi zione, che erano sottentrate
all'anticamancipatio. Parmi pertanto in questa parte di dovere seguire
l'opinione, adottata, fra gli altri, anche dall'Hölder, secondo cui il nexum
costituisce in certo modo il con trapposto della mancipatio nel senso, che
quello è la sottomissione della persona del debitore alla potestà del creditore
per il caso di non seguito pagamento, mentre la mancipatio costituisce invece Così, ad esempio Livio, II, 23, attribuisce
queste parole a quel nexus, che avrebbe provocata la prima rivolta della plebe
per causa della legge sui debiti: e se aes alienum fecisse; id cumulatum usuris primo
se agro paterno avitoque exuisse, a deinde fortunis aliis; postremo, velut
tabes, pervenisse ad corpus . È tuttavia evidente, che quinon si dice punto,
che il creditore, in base al nexum, potesse pro cedere sai beni del debitore,
ma solo che quest'ultimo aveva dovuto prima spogliarsi del suo patrimonio
avito, e poi anche vincolare la sua persona al proprio creditore. 483 il
trasferimento di una cosa in potestà altrui. Questa è pure l'opi nione, che fu
seguita recentemente dall'Esmein e dal Cuq, i quali ritengono, che la primitiva
obbligazione quiritaria, la cui forma tipica fu il nexum, costituisse dapprima un
legame del tutto personale e fosse perfino intrasmessibile da una persona ad
un'altra. Ho insistito sopra questo carattere esclusivamente personale del
nexum primitivo; perchè il medesimo, se nori a giustificare, può condurci in
qualche modo a spiegare le conseguenze estreme, a cui nel diritto primitivo di
Roma potè giungere il diritto del creditore contro il proprio debitore. Parmi
tuttavia, che sarà più opportuno discorrere di tali conseguenze, allorchè si
tratterà della manus iniectio, ossia della procedura di esecuzione contro il
debitore; poichè l'inumanità di questa primitiva procedura non spiegasi
soltanto contro i nexi, ma anche contro i iudicati ed i damnati . 375. È certo
ad ogni modo, che il nexum, fra le istituzioni qui ritarie, era quella, che
ripugnava maggiormente a quell'uguaglianza, che avrebbe dovuto esistere fra i
membri di una stessa comunanza. Esso portava ancora le traccie della
soggezione, pressochè servile, a cui un tempo era ridotta la plebe; poichè
anche nel periodo sto rico sono sempre i plebei, che appariscono sottoposti al
rigore del nexum, mentre il patrizio, anche oberato di debiti, poteva trovar
sussidio presso la propria gente. Ne derivò che, durante le lotte fra i due
ordini, il nexum si cambið talora in un'arma del patri ziato per assicurare la
sua superiorità sopra la plebe, e fu in tal modo che una istituzione di diritto
privato si cambiò in un fomite di dissensioni civili. La questione della
condizione dei debitori sembra già rimontare all'epoca di Sergio Tullio, il
quale, se non pagd del proprio i creditori, come vorrebbe la tradizione, certo
impose la solennità dell'atto per aes et libram per potersi obligare col nexum.
Sotto la Repubblica poi, è a causa della legge sui debiti, che i plebei si
rifiutano prima alla leva, poi abbandonano la città e si ritirano HÖLDER, Istituz., trad. Caporali, 225. Cfr.
eziandio l' Esmein, L'intrasmissibilité première des créances et des dettes,
nella Nouvelle Revue histo rique , 1887,
48, nel quale scritto egli cerca di corroborare la stessa tesi già enunciata
dal CuQ, Recherches historiques sur le testament per aes et libram pubblicato
nella stessa Nouvelle Revue. La
questione qui accennata del trattamento contro i debitori sarà trattata nel
capitolo VI, 3º, parlando della
procedura esecutiva, mediante la manus iniectio. 484 sul monte Sacro, da cui
non ritornano, che dopo aver ottenuto la istituzione del tribunato della plebe.
Anche la stessa legislazione decemvirale porta le traccie di questa contesa;
come lo dimostrano le disposizioni minute, a cui essa discende nella parte, che
si rife risce al trattamento del debitore, ridotto in potestà del creditore.
Malgrado di ciò, le dissensioni continuano fino alla legge Petelia del 428 di
Roma, la quale non abolisce il nexum, e neppure dà diritto al creditore di
procedere contro i beni del debitore, anzichè contro la sua persona, come
vorrebbe Livio, ma toglie al creditore il diritto di poter procedere
immediatamente alla manus iniectio contro il debitore, senza che neppure occorresse
l'intervento del magistrato (). Continuò quindi ancora a sussistere l'atto per
aes et libram, qual mezzo di sottomettersi al nexum, come lo dimostra la
sopravvivenza delle nesi liberatio, che è ancora ricordata da Gaio; ma intanto
il nexum, sprovvisto di quegli effetti immediati contro la persona, che
costituivano l'odiosità e la forza di questo ingens vinculum fidei, non ebbe
più ragione di sussistere, e venne ad essere sosti tuito da altri modi di
obbligarsi, che forse preesistevano nel costume, ma non erano ancora stati
accolti nella cerchia circoscritta del primitivo ius quiritium. 376. Accade qui,
in tema di obbligazioni, una trasformazione analoga a quella, che abbiamo
veduto essersi avverata in tema di proprietà, quanto al concetto del mancipium.
Al modo stesso che Le espressioni di
Livio, VIII, 28, sono le seguenti: iussique consules ferre ad populum, ne quis, nisi qui noxam meruisset,
donec poenam lueret, in compedibus < aut in nervo teneretur; poecuniae
creditae bona debitoris, non corpus obnoxium esset. Ita nexi soluti, cautumque in posterum,
ne necterentur . Di qui alcuni autori avrebbero argomentato, che da quel
momento fosse stata abolita la procedura contro la persona dei debitori, e
introdotta invece quella contro i beni. Cid sarebbe smentito espressamente
dalla storia giuridica di Roma, dove la vera procedura fu sempre contro la
persona, mentre quella contro i beni fu solo introdotta dal pretore Rutilio nel
647 di Roma, e la stessa cessio bonorum, introdotta dalla legge Giulia, fu
ancora considerata come un beneficio fatto al debitore. Le parole quindi di
Livio debbono essere intese nel senso, che d'allora in poi il nexum non bastò
più per sè ad autorizzare il creditore a tradurre il debitore nel suo carcere
privato, e che in tal modo l'obbligazione, contratta con questo mezzo, non ebbe
più lo speciale effetto di autorizzare senz'altro la manus iniectio; ma
produsse solo gli effetti, che sareb bero derivati da un 'obbligazione assunta
mediante la semplice stipulatio. Questa fu probabilmente la causa, per cui il
nexum andò gradatamente in disuso, e sottentra rono al medesimo la mutui datio
e la stipulatio, come sarà dimostrato più sotto. 485 al mancipium, quale unica
forma della primitiva proprietà quiri taria, sottentrò il concetto più largo
del dominium ex iure qui ritium; così al nexum, forma primitiva
dell'obbligazione quiritaria, sottentrò il concetto più esteso dell'obligatio
propria civium roma norum, al vincolo materiale, che stringeva il debitore al
creditore sottentrò il vincolo giuridico (vinculum iuris); ma intanto i voca
boli di obligatio, di solutio, di liberatio e simili rimasero ancor sempre a
ricordare la rozzezza dell'antico concetto, che scorgeva nell' obbligazione un
vincolo pressochè materiale, e nel pagamento ravvisava lo scioglimento di
questo vincolo (solutio ). Così pure al modo stesso, che col sostituirsi al
mancipium un concetto più largo del dominium ex iure quiritium, si vennero
accogliendo nuovi modi di acquistare e trasmettere questo dominio; cosi,
allorchè al concetto del nexum sottentrò quello dell'obligatio, si vennero
accogliendo nel ius proprium civium romanorum nuovi modi di obbligarsi. Il
nexum, mentre costituiva ed esprimeva efficacemente un vincolo materiale e
giuridico ad un tempo, aveva eziandio questo carattere speciale, che esso
teneva in certo modo del reale e del verbale, in quanto che componevasidi
dueparti, cioè: dell'atto per aes et libram, mediante cui avveravasi il
trapasso dal mio al tuo e si operava la consegna immediata della cosa (tuum de
meo fit ): e della nuncupatio, mediante cui fra creditore e debitore si
conveniva la condanna ed il pagamento. Queste due parti, collo scomporsi del
nexum vennero in certo modo ad acquistare libertà di movimento, e si operò la
distinzione fra l'obligatio quae re contrahitur, e quella che con trahitur
verbis, a cui venne più tardi ad aggiungersi eziandio l'obligatio quae
contrahitur litteris, ossia l'expensilatio. Per tal modo alla sintesi potente
del nexum, che era il modo primitivo di obbligarsi ex iure quiritium,
sottentrarono varii modi di obbli garsi, che costituirono un ius proprium
civium romanorum, quali sono la mutui datio, la sponsio o stipulatio, e la
acceptilatio: ciascuno dei quali viene ad essere il germe di quei varii
contratti formali, che si vengono poi svolgendo nel diritto civile romano, sotto
il nome di contratti reali, verbali e letterali. 377. È evidente anzitutto
l'analogia col nexum della mutui datio. Questa infatti continua a produrre
un'obligatio stricti iuris; si ap plica dapprima alla credita pecunia, e poi si
estende a tutte le cose quae numero, pondere ac mensura constant: e la sua effi
486 cacia obbligatoria consiste nella numeratio pecuniae, oppure con segna
della cosa (datio rei ). Non può poi esservi dubbio, che il mutuo fu il
modello, sopra cui si foggiarono poi gli altri contratti reali del comodato,
del deposito, del pegno. Tuttavia il modo di obbligarsi, che prende un più
largo sviluppo collo scomparire del nexum, è sopratutto la sponsio o stipulatio.
Questa, sotto un certo aspetto, corrisponde a quella nuncupatio, che già
preesisteva nel nexum, salvo che essa, liberata di quella forma rigida della
damnatio, che era propria del nexum, venne a trasfor marsi in una semplice
sponsio o stipulatio, in cui l'obbligazione viene ad essere assunta per mezzo
di una interrogazione e di una risposta, congrue e solenni, le quali, per la propria
elasticità e pieghevolezza, possono essere veste acconcia per esprimere la
varietà infinita delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il cittadino romano.
Qualunque possa essere stata l'origine della stipulatio, è sopratutto nello
svol gimento di essa, che si palesa il genio giuridico dei giureconsulti
romani, i quali non credettero indegno del loro ufficio l'attendere a
concretare le formole, con cui doveva essere concepita la stipula zione nei
varii negozii giuridici . Anche la stipulatio divenne Per ciò che si riferisce alla mutui datio, è
nota la censura, che di regola suol farsi alla etimologia di mutuum data dai
giureconsulti, secondo cui questo vocabolo deriverebbe da quod de meo tuum fit . Per conto mio, non come
etimologo, ma come giurista, ritengo invece assai probabile questa etimologia,
tenuto conto di ciò, che nelle formole primitive occorrono ad ogni istante le
parole di meum e di tuum, e che l'essenza del mutuum consiste veramente nel far
sì, che un oggetto ex meo tuum fit. Queste etimologie, che direi ragionate,
diventano tanto più probabili, quando si ri tenga, che il diritto romano fin
dai primi tempi fu il frutto di una vera elaborazione, la quale può benissimo
avere adattata la parola al concetto, che intendeva di signi ficare. Lo stesso
direi delle etimologie di testamentum da mentis testatio, di manci pium da
manucaptum, e di altre analoghe; sebbene ve ne siano di molte, le quali, per
essere composte post factum, sono evidentemente foggiate per far dire alla
parola cid, che è nella mente del giureconsulto nell'epoca, in cui egli
analizza il significato della parola. Intanto il fatto stesso, che i
giureconsulti cercano sempre di dare alla parola un senso, che corrisponda alla
cosa significata, dimostra, che essi dovevano procedere in tal guisa, allorchè
il comparire di qualche nuovo negozio li costringeva a foggiare qualche nuovo
vocabolo. In cid abbiamo anche una delle ragioni, per cui il linguaggio
giuridico di Roma potè diventare pressochè universale, come le sue leggi. Sono molte le opinioni intorno all'origine
della sponsio o stipulatio nel di ritto romano. Alcuni la ritengono come la
parte verbale del nexum, allorchè andò in disuso l'atto per aes et libram nel
contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal vocabolo sponsio, la
ritengono come una specie di promessa giurata, che facevasi davanti
all'antichissima ara di Ercole; altri infine la ritengono di origine greca,
donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe, ad es.,
l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi; ma il suo carattere non è più
artificioso, come quello dell'atto per aes et libram, nè così rigido come
quello della damnatio, propria del nexum, ma sembra essere desunto dalla natura
stessa delle cose. La parola infatti è riguardata come il vero mezzo di
obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso, viene colla
stipulatio ad essere conchiuso, in guisa da escludere qualsiasi dubbiezza sulla
volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un beneficio a suo
favore, di interrogare il promettente: centum dare spondes? , e tocca a colui che
promette di rispondergli congruamente: spondeo per modo che non possa esservi dubbio circa
l'incontrarsi delle due volontà . Viene poscia nel costume una dextrarum
iunctio, poichè, fra le genti primitive, la destra è l'emblema della fede, in
base a cui si conclude il negozio. Forse in antico potè eziandio aggiungersi la
solennità del giuramento, come lo indicherebbe la significazione in parte
religiosa, del vocabolo di sponsio; ma questa, quando è accolta nel diritto
civile romano, sembra già aver perduto questo carattere primitivo. Anche qui
pertanto vi ha una forma tipica di obbligazione, ma essa non è più quella del
nexum, propria del ius quiritium, e modellata probabilmente dal ius pontificium,
nell'intento di serbare le tradizioni del passato; bensì è già quella del ius
proprium civium romanorum, come lo dimostra il fatto, che anche quando i romani
consentirono la stipulatio ai peregrini, riservarono sempre per sè la
espressione primitiva: spondes? spon deo
, la quale sembra ancora richiamare quel carattere religioso, che doveva
accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio. Questo è certo ad ogni
modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist, Graeco-ital.
Rechtsgeschichte, 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op. cit., 228. Per me
trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi stere un modo di
obbligarsi così naturale e semplice, come è quello rappresentato dalla
stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di correlativo, anche fra i
popoli germanici (SCHUPPER, L'allodio, 47); ma non posso in verità persuadermi,
che i Romani dovessero apprenderlo dalla Grecia, dal momento, che senz'alcun
dubbio già lo conoscevano nei rapporti fra le varie genti. Essa quindi deve
essere ritenuta come una di quelle istituzioni, che vivevano nelle costumanze,
e che solo più tardi riuscirono ad entrare nella cerchia rigida del ius
quiritium, il che probabilmente dovette accadere, quando cominciò ad andare in
disuso il nexum. Questo carattere
speciale della stipulatio, per cui essa costituisce il modo più semplice ed
acconcio per conchiudere le trattative di un negozio, in quanto che l'in
terrogante viene ad essere colui che stipula, e il rispondente colui che
promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE, L'ancien droit, 311. 488
contrastati sul nexum. Essa è duttile, pieghevole, come la parola umana, e può
cosi accomodarsi a qualsiasi uso; è un materiale, che si adatta ad ogni specie
di costruzione; è il modo più spiccio e più logico per conchiudere qualsiasi
trattativa; può servire per un'obbligazione principale ed anche per
un'obbligazione accessoria; sebbene unilaterale per propria natura, si può,
raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una convenzione bilaterale.
Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio è sopratutto atta ad
esprimere i negozii stricti iuris. Ma essa, coll'aggiunta di una clau sola
semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi ai negozii di
buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i giureconsulti
romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei contratti, in cui
la giurisprudenza romana spiego una duttilità e pieghevolezza, tanto più
mirabili, in quanto che non scompagnansi giammai dall'esattezza e dalla
precisione. 378. Sembra invece essere alquanto più tardi, che vennero ad essere
accolti nella compagine del diritto civile di Roma, quegli altri modi di
obbligarsi, che diedero poi origine ai contratti letterali. Anche a questo
riguardo non può esservi dubbio, che il diritto civile di Roma non creò di
pianta le proprie istituzioni; ma si contento, per dir cosi, di accogliere
sotto la sua tutela e di modellare, in base alla propria logica giuridica, le
istituzioni, che già esistevano nel l'uso e nel costume. Così dovette accadere
senz'alcun dubbio dell'expensilatio, la quale, ancorchè entrata tardi nel
diritto civile di Roma, ci richiama in certo modo la figura del primitivo capo
di famiglia, il quale dir: gendo una vasta azienda e avendo sotto la sua
dipendenza un nu mero grande di persone, deve tenere il conto quotidiano del
dare e dell'avere. Ciò che egli scrive nel proprio libro doveva certo far fede
dirimpetto ai suoi dipendenti. Questo sistema pero, che era il più ovvio nelle
consuetudini patriarcali, presentava invece dei pe ricoli nel diritto, come
quello, che fondavasi esclusivamente sulla buona fede. Fu questo il motivo, per
cui esso penetrò più tardi nel diritto civile di Roma, il quale cerco poi di
ovviare al pericolo inerente al medesimo, aggiungendo al nomen transcripticium
una ricognizione scritta del debito, che doveva restare a mani del cre ditore
(cautio, chirographum ); al qual proposito viene ad essere probabile, che
l'istituzione originariamente italica della expensilatio siasi imparentata con
un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di origine probabilmente
g: eca, donde la cautio chirographaria, che pervenne fino a noi. 379. Queste
tre categorie di contratti, che sogliono talvolta es sere indicati col vocabolo
di formali, dovettero certamente essere i primi ad entrare nella compagine del
diritto civile romano. Esso invece, che stentava a comprendere il consenso
senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo, sembra che solo più tardi e
pro babilmente già sotto l'influenza del ius honorarium, sia pervenuto ad
adottare e ad attribuire efficacia giuridica all'emptio venditio, e agli altri
contratti, che a somiglianza di essa si perfezionano col solo consenso. Ormai
non può esservi dubbio, che anche l'emptio venditio già esisteva nel primitivo
diritto, poichè la legislazione decemvirale disponeva, che la medesima, per
essere perfetta, doveva essere accompagnata dalla tradizione della cosa e dal
pagamento del prezzo. Cosi stando le cose, è però evidente, che l'emptio
venditio come mezzo per trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma
doveva essere accompagnata dalla mancipatio o dalla traditio. Di qui ne venne,
che essa, come contratto stante per sè, comparve solo più tardi nel diritto
civile di Roma, il quale non ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che
valgono a trasferire il dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano
a dare, facere, praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti
consensuali, cioè della locatio conductio, del mandatum e della societas, che
furono fog giati sul modello della compra e vendita . Intanto si comprende, che
la giurisprudenza romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le
mosse da una unica forma di obbligazione quiritaria, che era quella assunta col
nexum, allorchè pervenne a così grande ricchezza di sviluppo, abbia cominciato
a sentire il bisogno di richiamare a certe classi i genera obligationum, quae
ex contractu nascuntur; ma intanto essa si trovò già di fronte ad una
suppellettile così copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai contratti fu
costretta a creare la figura dei quasi- con Cfr. per ciò che si riferisce all'expensilatio
ed all'abitudine del capo di fami glia romano di tenere il Codex accepti et
expensi, vedi il PADELLETTI, Storia del diritto romano, cap. XXI, 249. Quanto
all'acceptilatio vedi SCHUPFER, nella Enciclopedia giuridica italiana , vol. I, 175
a 180, vº acceptilatio. Quanto alle
origini di uno di questi contratti consensuali, cioè della societas, vedi
l'articolo del Ferrini nell'a Archivio giuridico diretto dal Serafini, anno 1887. 490 tratti;
accanto ai contratti nominati dovette porre quelli non no minati; accanto ai
veri e proprii contratti, i patti, che non pro ducono azione, ma una semplice
eccezione; e da ultimo accanto ai contratti, che avevano avuto origine nel
diritto civile, quelli che avevano avuto origine nel diritto delle genti. Anche
qui pertanto è facile lo scorgere come, prima nel ius quiritium e poscia nel
ius civile, presentisi costantemente una parte già formata e consoli data, e un'altra,
che si viene foggiando e consolidando sựl modello somministrato dalle
formazioni anteriori, senza che mai si abbandoni il concetto fondamentale della
primitiva obbligazione, da cui il ius quiritium aveva preso le mosse. Ciò tanto
è vero, che, anche nel conchiudersi dello svolgimento storico del diritto delle
obbligazioni, si riscontra ancora quel con cetto, a cui si informava
l'istituzione primitiva del nexum, con cetto, che viene ad essere enunziato da
Paolo con dire obligationum substantia non in eo consistit, ut aliquod
corpus, nostrum, aut servitutem, nostram
faciat, sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid, vel faciendum, vel praestandum
. Si viene cosi a mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni e
quella del trasferimento della proprietà, non meno radicale e pro fonda, di
quella, che negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere
nexum e quello del facere mancipium. È questo il motivo, per cui la genesi dei
modi, coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la
proprietà e i diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro
istituto del diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio. $ 3. –
La mancipatio e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire
ildominio quiritario. 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio la
forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece, che
prese più tardi il nome di mancipatio, deve considerarsi come la forma
primordiale, che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della
proprietà ex iure quiritium. Tanto la nexi datio, Paolo, Leg. 3, Dig. (44, 7). Anche sulla mancipatio abbiamo una ricchissima
letteratura. Tra i recenti mi limiterò a ricordare il Leist, Mancipatio und
Eigenthums Tradition, Iena; il MuirHead, Hist. Introd., sect. 30, 131 a 149; il
Voigt, XIl Tafeln, II, SS 84 491 quanto la mancipatio, debbono poi essere
considerate come due ap plicazioni dell'atto quiritario per eccellenza, che era
l'atto per aes et libram, come lo dimostra il fatto, che i più antichi
giureconsulti comprendono l'una e l'altra nella categoria di quegli atti, che
si compiono per aes et libram. Esse vengono soltanto a differire fra di loro
nella nuncupatio, ossia in quelle parole solenni, che dovevano accompagnare
l'atto per aes et libram, e che potevano attribuire al medesimo una
significazione diversa. Mentre la nun cupatio nel nexum doveva consistere in
una specie di condanna convenzionale del debitore al pagamento della somma da
lui tolta in imprestito; la nuncupatio invece nella mancipatio, quale ebbe ad
esserci conservata da Gaio, consiste nella affermazione solenne del mancipio
accipiens, che la cosa gli appartiene ex iure qui ritium, per averla egli
acquistata con tutte le solennità richieste dal diritto quiritario (hunc ego
hominem ex iure quiritium meum esse aio, isque mihi emptus est hoc aere
aeneaque libra ). Gaio poi non ci dice, se a questa affermazione solenne del
mancipio ac cipiens corrispondesse una congrua risposta del mancipio dans; ma
ad ogni modo egli è certo, che questi, essendo presente all'atto, e ricevendo
quell'aes rude, con cui si percuoteva la bilancia, a titolo di prezzo,
riconosceva con cið la verità dell'affermazione dell'acqui rente. È poi anche
degno di nota nella mancipatio, che sebbene a 88; il Longo, La mancipatio,
Firenze, 1887. Sembra essere opinione comune a questi autori, che nell'antico
linguaggio in luogo di mancipatio si dicesse mancipium; donde la conseguenza,
che la espressione facere mancipium sarebbe pressochè un sinonimo di facere
mancipationem. Noi abbiamo veduto invece, che il vocabolo man cipium ebbe, fra
le altre significazioni, anche quella di indicare il primitivo patri. monio del
quirite; quello cioè, che doveva da lui essere consegnato nel censo. Quindi per
noi le antiche espressioni di facere mancipium, mancipio dare, mancipio acci
pere dovettero significare il ricevere una cosa nel proprio mancipium, o il
trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai vocaboli di mancipare e di
mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso frequente di queste espressioni
costrinse a foggiare una parola, che esprimesse più brevemente il concetto. Di
qui la conseguenza, che il vocabolo di mancipatio non deriva direttamente da
manu capere, ma piuttosto da mancipium facere, mancipio dare e simili. Cfr.
BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888, 90 e 91. Nexum
Manilius scribit omne quod geritur per aes et libram, in quo sine mancipia .
VARRO, De ling. lat., VII, 105. Vedi gli altri passi citati nel 1° di questo capitolo, nº 369, 471, nota 1. Gaio descrive la mancipatio e le formalità, da
cui era accompagnata, nei Comm., I, SS 119 a 123. 492 la medesima in effetto
servisse per il trasferimento della proprietà quiritaria, aveva perd eziandio
tutti i caratteri di un acquisto ori ginario, come lo dimostra il fatto, che
era l'acquirente, il quale doveva per il primo affermare la sua proprietà sulla
cosa ed affer rare materialmente la cosa stessa; donde anche la conseguenza,
che la mancipatio richiedeva la presenza delle cose mobili, e per gli immobili
era stata la sola necessità, che aveva condotto all'uso, accen nato da Gaio,
secondo cui immobilia in absentia solent
manci. pari . 382. La circostanza intanto, che la mancipatio ebbe dapprima ad
essere indicata coll'espressione di facere mancipium, costituisce un forte
indizio, che la mancipatio sia comparsa nel diritto quiri tario, in quell'epoca
stessa, in cui si formd il concetto del manci pium, e che essa sia stata
introdotta quale mezzo peculiare per la formazione e per il trasferimento del
mancipium, in quanto il me desimo costituiva il primo nucleo della proprietà
quiritaria, quella parte cioè del patrimonio, che doveva essere consegnata e
valutata nel censo. Fu l'importanza economica e politica, dal censo attribuita
al mancipium, che rese necessario un atto solenne per la trasmis sione delle
res mancipii contenute nel medesimo. Quindi l'origine della mancipatio deve
rimontare probabilmente alla costituzione serviana, e l'introduzione di essa
avere una stretta attinenza col concetto del mancipium; il che è comprovato dal
fatto, che anche i classici giureconsulti, memori dell'origine di essa,
continuarono sempre a considerare la mancipatio, come un modo di alienazione
del tutto proprio delle res mancipii, e sostennero perfino, che queste fossero
cosi chiamate, perchè erano suscettive della mancipatio. Gaio, Comm., I, 119. Sono da vedersi, quanto
alla necessità di adprehendere manu la cosa acquistata, se mobile, i passi
citati dal Voigt, op. cit., II, 133, nota 10. Intanto nella necessità di questa
materiale apprensione della cosa parmidi scorgere un'altra prova, che il
concetto del primitivo mancipium implicava in certo modo la detenzione
materiale e la proprietà delle cose, che ne formavano oggetto, al modo stesso
che il nexum indicava ad un tempo il vincolo fisico e il vincolo giuri dico, a
cui era sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende probabile l'etimologia di
mancipium da manucaptum, come lo provano i passi citati dallo stesso Voigt, op.
e loc. cit., 134, nota 12. Cfr., quanto
alle origini della mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., Sono poi Gaio, I, 120 e
Ulpiano, Fragm., XIX, 3, i quali attestano che la manci patio era
esclusivamente propria delle res mancipii. Mancipatio, scrive quest'ultimo, propria
species alienationis est rerum mancipü . Ciò però non impedì, che, trattan 57. 493
- Siccome però fin da quest'epoca, accanto alle cose, che costituivano il
nucleo del mancipium, vi erano quelle, che non erano comprese nel medesimo, e a
cui perciò non potevasi applicare il facere man cipium, così ne venne che
accanto alla mancipatio dovette già essere in vigore la semplice traditio, la
quale, accompagnata dal pagamento del prezzo, poté servire per il trasferimento
delle cose, che non erano comprese nel mancipium. Mentre quindi la man cipatio
veniva ad essere una costruzione giuridica, la cui forma zione fu determinata
dal formarsi del mancipium, la traditio in vece era il mezzo naturale ed ovvio
per il trasferimento di quelle cose, che erano nec mancipii, e che perciò in
questo primo periodo non formavano oggetto di vera proprietà ex iure quiritium.
383. Questo stato di cose venne poi a subire una modificazione profonda, sotto
l'influenza della legislazione decemvirale. Infatti è colla medesima, che al
concetto del mancipium, il quale restringeva di troppo il novero delle cose,
che potevano essere oggetto di pro prietà quiritaria, cominciò già a
sovrapporsi un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium. Da questo
momento infatti le res mancipii continuano ancor sempre a costituire il nucleo
più importante delle cose, che possono essere oggetto di proprietà qui ritaria,
ma questa già può estendersi ad altre cose, che non erano comprese nel
primitivo mancipium. Di qui ne derivo, che mentre le XII Tavole serbarono la
mancipatio, quale mezzo esclusivamente proprio per la trasmissione delle res
mancipii, esse perd introdus sero o confermarono due altri mezzi, per
l'acquisto e la trasmis sione del dominium ex iure quiritium, di cui uno è l'in
iure cessio, la quale, essendo compiuta davanti almagistrato, potè anche dosi
di cose, le quali si ritenevano di grande prezzo e perciò si trasmettevano in
fami glia, quali erano ad esempio le pietre preziose, si potesse nella
consuetudine appli carvi anche la mancipatio. V. quanto si è detto a 441, nota
1. Ciò è dimostrato da ULP., Fragm., XIX, 3, e 7; il quale, dopo aver premesso
che la mancipatio era propria delle res mancipii, soggiunge poi: traditio aeque propria est alienatio rerum nec
mancipii ; nei quali passi è evidente, che la man cipatio e la traditio si
contrappongono fra di loro, come il mancipium ed il nec mancipium. Quello cade
sotto il diritto civile, e perciò deve essere alienato colle forme del diritto
civile, il che pure si accenna da Festo, tº censui, allorchè scrive: censui censendo agri proprie appellantur, qui
et emi et venire iure civili pos sunt (Bruns, Fontes, 334). Che il contrapposto fra
mancipatio e traditio sia stato poi la prima origine della distinzione fra i
modi civili e naturali di acqui stare e di trasmettere il dominio appare ad
evidenza da Gaio, Comm., II, 65. 494 essere estesa alle res mancipii, e l'altro
è l'usus auctoritas, più tardi denominata usucapio, mediante cui l'uso ed il
possesso di una cosa, durato per un certo tempo, potė attribuire la proprietà
quiritaria della medesima. Colla legislazione decemvirale pertanto vengono ad
essere tre i principali mezzi, con cui può essere acqui stata e trasmessa la
proprietà quiritaria, e che costituiscono perciò un diritto esclusivamente
proprio dei cittadini romani. 384. Di questi mezzi il più importante è sempre
la mancipatio, la quale è il vero modo ex iure quiritium per l'acquisto ed il
tras ferimento del dominio, ma la medesima, essendo nata col mancipium,
continua sempre ad essere un mezzo di alienazione proprio delle res mancipii.
Vero è, che in questi ultimi tempi si è dubitato, se la mancipatio non siasi
più tardi applicata anche a quelle res nec mancipii, che potevano essere
oggetto di proprietà quiritaria: ma questa opinione non sembra potersi
accogliere, di fronte alle afferma zioni precise di Gaio e di Ulpiano, i quali
parlano sempre della manci. patio, come propria delle res mancipii. Ciò
tuttavia non impedi, che colla legislazione decemvirale la mancipatio abbia
acquistata una elasticità e pieghevolezza, che prima non aveva, il che spiega
come essa sia durata così lungo tempo, quale mezzo di trasferimento della
proprietà, ed abbia in questa parte esercitata una influenza analoga a quella
esercitata dalla stipulatio in materia di obbligazioni. Sembra infatti, che il
facere mancipium, negli inizii, fosse uno di quei ne gozii di strettissimo
diritto, che producevano l'immediata traslazione della proprietà, e non
ammettevano perciò nè termine, nè condi zioni. Le XII Tavole invece
introdussero il principio: qui manci
pium faciet, uti lingua nuncupassit, ita ius esto , e diedero così libertà ai
contraenti di aggiungere al primitivo mancipium, sotto la forma di una
nuncupatio, che faceva parte integrante del negozio, tutte le clausole e
condizioni, che potessero convenire ai contraenti. Fu in questo modo, che
l'antica mancipatio potè accomodarsi alla varietà dei casi e delle esigenze, e
che si vennero così formolando, per opera degli stessi pontefici e
giureconsulti, quelle clausole diverse, che sogliono essere indicate col
vocabolo di leges mancipii. Colle medesime infatti il mancipio dans, pur
alienando la cosa, potè riservarsi l'usufrutto della medesima, potè alienarla
con patto di GA10, I, 120, Ulp., Fragm.,
XIX, 3. Vedi tuttavia ciò che in proposito si disse a 441, nota 1. 495 -
riscatto, poté restringere la propria garanzia per l'evizione, ed anche
limitare l'uso della cosa venduta per parte dell'acquirente. Era pero naturale,
che, per aggiungere alla mancipatio tutte queste clausole, più non poteva
bastare la semplice affermazione del man cipio accipiens, che la cosa era sua
ex iure quiritium; maoccor reva eziandio, che il mancipio dans, con una congrua
risposta, apponesse quelle clausole e condizioni, che potessero essere del caso,
le quali, entrando a far parte integrante della stessa mancipatio, dovevano fra
i contraenti avere la forza di vere leggi. 385. Sopratutto, fra queste leges
mancipii, viene ad essere impor tantissima quella, che suol essere indicata col
vocabolo di lex fidu ciae, od anche semplicemente con quello di fiducia. Questa
pro babilmente doveva essere nata nelle consuetudini della plebe, la quale, non
possedendo le vere forme giuridiche, doveva di necessità nelle proprie
convenzioni lasciare una larga parte alla scambievole fiducia (3 ). Anche
questa fiducia colla legislazione decemvirale pe netrò nel ius quiritium, dove,
combinandosi col rigoroso atto della mancipatio, diede origine a quella
singolare istituzione della man cipatio cum fiducia, che doveva poi acquistare
un così largo Si può veder raccolta nel
Voigt, op. cit., II, $ 85, 146 a 166, una varietà grandissima di queste
clausole o leges mancipii, raccolte da passi di antichi autori. Nel Bruns
parimenti, Fontes, 251 a 256, sono riportati parecchi moduli di mancipationes,
che pervennero fino a noi. Quanto alla
mancipatio cum fiducia è a vedersi il Voigt, $ 86, 166 a 187, ove sono raccolte
le formole, che vi si riferiscono. È poi degno di nota quel modulo di
mancipatio fiduciae causa, che si fa risalire al primo o secondo secolo dell'
êra cristiana, riportato dal Bruns, Fontes, 251. Le ragioni, per cui le origini della fiducia
devono cercarsi nelle costumanze della plebe, furono già esposte al n ° 149, 184.
Di recente un giovine e dotto autore, l’Ascoli, ebbe in proposito a scrivere,
che la fiducia, come forma di pegno, non dovette essere il prodotto spontaneo
delle pratiche necessità del commercio, ma una creazione artificiale, e che
l'ipoteca nel suo concetto astratto è più semplice della fiducia (Le origini
dell'ipoteca e l'interdetto Salviano, Livorno, 1887, 1). Io credo, che se
l'autore si riporti col pensiero ad una plebe ragunaticcia, in parte immigrata
e priva ancora di una vera posizione di diritto, di fronte ai patrizii, fon
datori della città, comprenderà facilmente come i membri di essa, per trovar
cre dito presso coloro, che già vi si trovavano stabiliti, non avessero mezzo
più acconcio, che quello di alienare a questi cum fiducia le cose, che loro
dovevano servire di pegno. L'ipoteca invece avrebbe già supposto una comunanza
di diritto, che ancora non esisteva, e un'analisi del diritto di proprietà, che
mal si poteva conciliare colle condizioni di un popolo primitivo. 496
svolgimento nel diritto civile di Roma. Con essa, accanto all'ele mento
strettamente giuridico, cominciò a penetrare anche la consi derazione della
buona fede, in quanto che non si bado più in modo esclusivo alla osservanza
delle forme esteriori del negozio giuridico, ma cominciò anche a tenersi qualche
conto dell' intenzione vera ed effettiva dei contraenti. Che anzi questo
elemento fiduciario fu introdotto nella formola stessa della mancipatio,
cosicchè il man cipio accipiens non affermò più, la sua proprietà assoluta
sulla cosa a lui alienata, ma disse invece: hunc ego hominem fidei fi duciae causa ex iure
quiritium meum esse aio ; colla qual formola già si lasciava intendere, che,
sebbene egli avesse acquistata la proprietà quiritaria, questa perd era stata
affidata al suo onore per l'adempimento di qualche incarico di fiducia. Questa
fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi o con un amico o con un creditore. Essa
accadeva, ad esempio, con un amico nella manci patio familiae cum fiducia, che
fu una delle forme più antiche di testamento, mediante cui si mancipava il
proprio patrimonio ad un amico (familiae emptor), coll'incarico di disporne
nella guisa statagli indicata per il tempo, in cui altri avesse cessato di
vivere. La fiducia seguiva invece con un creditore, allorchè a lui si mancipava
la cosa, che si voleva lasciargli a titolo di pegno . È probabile che dap prima
questa clausola fiduciaria non avesse efficacia giuridica, ma col tempo essa
venne acquistandola. Per tal modo la mancipatio cum fiducia venne cambiandosi
in un espediente giuridico, mediante cui la mancipatio non serviva più
unicamente al trasferimento della proprietà; ma serviva eziandio per costituire
comodati, donazioni mortis causa, doti, e riceveva cosi applicazioni diverse,
anche nei rapporti famigliari, nei quali essa si svolse, come vedremo a suo
tempo, sotto la forma di coemptio fiduciaria. 386. Fu questo il magistero,
mediante cui la mancipatio fu dal diritto civile di Roma adattata alle varie
contingenze di fatto; ma Cfr. il
MUIRHEAD, op. cit., 140e il Voigt, op. cit., II, 172. È notevole in proposito il passo di ISIDORO,
Orig., 5, 22, 23, 24, riportato dal Bruns, Fontes, 406, in cui egli istituisce,
sulle vestigia di qualche antico au tore, una specie di raffronto fra il
pignus, la fiducia e l'hypotheca. Della fiducia egli scrive: fiducia est, cum res aliqua, sumendae mutuae
pecuniae gratia, vel man cipatur vel in iure ceditur . Quanto alle svariate applicazioni della
fiducia V. Ascoli, op. cit., 3497 siccome la sua applicazione era pur sempre
circoscritta alle res mancipii, cosi, accanto alla medesima, si introdussero o
si confer marono dalla legislazione decemvirale due altri modi di acquistare e
di trasmettere la proprietà, di indole e di origine compiutamente diversa,
ancorchè entrambi costituiscano un ius proprium civium romanorum. Essi sono
l'in iure cessio e l'usucapio. È ovvio scorgere l'opposizione, che esiste fra
questi due mezzi di acquisto della proprietà ' quiritaria. Mentre l'in iure cessio
viene talvolta nelle fonti ad essere indicata col vocabolo di legis actio,
perchè essa, al pari delle legis actiones, si compie in iure, cioè da vanti al
magistrato, ed è in certo modo una rei vindicatio non con traddetta. ;
l'usucapio invece nelle dodici tavole viene ad essere indicata col vocabolo di
usus auctoritas. Mentre la prima consiste in una finta rivendicazione, fatta
dal compratore o dal cessionario, non contrastata dal venditore o dal cedente
della cosa, che forma oggetto di negozio, la quale si compie davanti
almagistrato, e a cui sussegue l'aggiudicazione del medesimo; la seconda invece
fondasi esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per
due anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi
altra cosa, finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a
possederla. Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere,
eminentemente legale e giuridico, in quanto che essa compiesi coll'intervento
del magistrato;, nella usucapio in vece abbiamo un fatto, che trasformasi in
diritto, ossia l'uso od il possesso, che trasformansi nella proprietà ex iure
quiritium, quando abbiano durato per un certo spazio di tempo. Queste
considerazioni mi inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo
di acquisto, ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie, presso le quali
tutto già facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato,
l'usus auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale,
avendo dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto,
dovette cono scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella
significa zione, che vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di
questi due modi di acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa È lo stesso Gaio, Comm., II, 24, che, dopo
aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis actio vocatur . A questa
descrizione di Gaio poi corrisponde quella brevissima di Ulp., Fragm., XIX, 10 In iure cedit dominus; vindicat is, cui
ceditur; addicit Praetor . C., Le origini del diritto di Roma. 32 498 taria fu
in certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due ordini; poichè
da una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al magistrato, il quale
era ricavato dall'ordine patrizio, e dall'altra il patriziato cominciava a
riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus auctoritas, sulla quale
'soltanto fondavansi i di ritti della plebe. Qui cade in acconcio di arrestarci alquanto
alla significazione da attribuirsi alla espressione usus auctoritas , che occorre nelle XII
Tavole. La legge relativa dal DIRKSEN collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu
riportata colle parole stesse di CICERONE, Top., 4: usus auctoritas fundi biennium est; ceterarum
rerum omnium annuus est usus . Essa invece dal Voigt, op. cit., I, 110, sarebbe
collocata al n. 6, della Tavola V, e sarebbe così concepita: usus, auctoritas biennium, cetera rum rerum
annuus esto . Di qui molte discussioni fra gli studiosi relativamente ai
rapporti fra i due termini usus ed auctoritas, al qual proposito l'opinione pre
valente sembra essere, che il vocabolo di usus si riferisca all'usucapione e
quello di auctoritas alla garanzia del titolo, che incombe al venditore in una
mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire, che tanto l'usus quanto
l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno, secondo le cose di cui si
tratta. Tale opinione sarebbe stata prima enunciata dal SALMASIO, De usuris,
cap. 8, 215; Lugd., Bat. 1638, e troverebbe seguito ancora oggidì, presso il
Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus dall'auctoritas con una virgola.
A mio avviso invece sembra alquanto fuor di luogo, che si venga a discorrere di
garanzia dall'evizione colà, ove tutti gli antichi autori non ci parlano che
dell'usucapione. Parmi poi evidente, che l'espressione effi cacissima di usus auctoritas non possa essere che il contrapposto
dell'altra espres sione iuris auctoritas
, e che quindi la significazione naturale della medesima consista in dire, che
l'uso varrà come titolo, e il possesso equivarrà a proprietà, allorchè essi
siano durati un biennio pei fondi, e un anno per tutte le altre cose. Il solo
vocabolo di usus, analogo a quello di possessio, non avrebbe potuto da solo
indicare l'usucapione, e fu perciò, che dovette dirsi usus auctoritas, la quale
espressione appunto occorre in Cic., Top., 4. Sia pure che lo stesso Co., pro
Caec., 19, sembri separare le due cose, allorchè scrive: lex usum et auctoritatem fundi iubet esse
biennium ; ma è facile il vedere, che la dizione qui è già alterata dall'uso
dell'infinito, e che le due parole indicano pur sempre una cosa sola, cioè
l'autorità od il diritto sul fondo provenienti dall'uso. Ogni dubbio poi viene
ad essere tolto dal passo di Boezio, in Cic., Top., loc. cit., nel quale
trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la iuris auctoritas. Egli
infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive: Plurima rum autem rerum usucapio annua est, ut si quis
eis anno continuo fuerit usus, id firma
iuris auctoritate possideat, velut rem mobilem; fundi vero usucapio biennii temporis spatio continetur. Ait Cicero:
ut, quoniam ususauctoritas fundi biennium est, sit etiam aedium. Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio fieri sentit (Bruns, Fontes, 400). Che se altrove la
legge dice a adversus hostes aeterna auctoritas esto , gli è perchè ivi parlasi
tanto della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non occorreva
specificare il concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da solo
significa la iuris auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due
istituti tuttavia esercito certamente una maggiore influenza sullo svolgimento
del diritto romano l'usucapio, che non l'in iure cessio. Di questa infatti dice
Gaio, che la medesima, quanto alle res man cipii, non poteva competere colla
mancipatio, poichè era naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi
contraenti, coll'inter vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori
presso il magistrato. Di qui ne venne che, sebbene l'in iure cessio po tesse
anche applicarsi alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al
trasferimento di quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive
di mancipatio. Così, ad esempio, Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio si
poteva fare la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec
mancipii, la cessione della eredità, che consideravasi come una cosa
incorporale, come pure la costituzione dell'usufrutto. Quanto a quest'ultimo
tuttavia, egli os serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la
mancipatio, al lorchè altri, mancipando la cosa, riservava per sè l'usufrutto
della medesima, apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva
conservare la proprietà, non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che
mediante la in iure cessio. L'usucapio invece deve essere considerata come una
delle istitu zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del diritto.
Essa in certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare da una
posizione di fatto ad una posizione di diritto, per cambiare cioè la semplice
usus auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa, che determinò la
formazione della teoria del possesso, accanto a quella della proprietà, e che
condusse la giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il
possesso può trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto
all'usucapio del diritto qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero
più volte ad accennare a questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre
solo avuto occasione di parlare della durata dell'usucapio, e non mai della
durata dell'obbligo di garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la
ricostruzione più probabile sia la seguente: usus auctoritas fundi biennium, ceterarum
rerum annus esto ; la quale concorda anche di più colle regole grammaticali. Scrive infatti Garo, Comm., II, 25,
discorrendo della iure cessio per le res mancipii: Plerumque tamen et fere semper mancipationibus
utimur; quod enim ipsi per nos, praesentibus amicis, agere possumus, hoc non
est necesse cum maiore difficultate apud Praetorem aut Praesidem provinciae
agere . GAIO, II, 33; Ulp., Fragm., XIX,
11 e 12. 500 ritario, che essa, a differenza della prescrizione, che ebbe ad
essere introdotta molto più tardi, non presentasi ancora come un mezzo di
estinzione dei diritti, ma ha sopratutto il carattere di un mezzo di acquisto,
come lo indica il vocabolo stesso di usucapio. Cid pure è confermato dal
motivo, che si assegna come fondamento all'usucapio, il quale non consiste
nell'intento di punire coloro, che trascurassero di esercitare il proprio
diritto, ma bensi in quello di evitare l'in certezza dei dominii: ne rerum dominia diutius in incerto essent .
388. Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio fu effettivamente
adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni della plebe
potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il carattere
quiritario, cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in breve in
veri proprietarii ex iure quiritium. Quest'effetto era già stato ottenuto in
grande col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto tutti i
mancipia, proprii della plebe, in altrettante proprietà ex iure quiritium,
facendoli consegnare nel censo; ed il medesimo processo venne ad essere reso
continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas, la quale in breve
spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di un vero e
proprio diritto. Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto diverse di
questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per acquistare la
pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche qual mezzo per
far acquistare al marito la manus sulla propria moglie, e quale mezzo infine
per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria di
un'eredità, come accade nell'usucapio pro herede . Così pure dapprima non si
richiedono condizioni di sorta, perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma basta
il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente, che i
giurisprudenti fis Il concetto qui
accennato fu già più largamente svolto al nº 154, p. 190 e seg., ove ho
dimostrato che l'attribuire carattere giuridico ai possessi della plebe nel ter.
ritorio romano era il miglior mezzo per interessarla all'avvenire e alla
grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD, op. cit., 48, e
l'Es sin, Histoire de l' usucapion nei Mélanges d'histoire du droit , Paris, 1886, 171
a 217. Dal
momento poi, che l'usus auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare
una posizione di fatto in una posizione di diritto, si comprende come essi non
abbiano avuto diffi coltà di applicarla all'acquisto della proprietà,
all'acquisto della manus, ed anche all'acquisto dell'eredità (usucapio pro
herede). 501 sano le condizioni, che debbono concorrere in tale possesso,
perchè possa dar luogo all'usucapione. Tuttavia fin da principio la legge
decemvirale già comincia ad escludere certe cose dall'usucapione, come le cose
furtive, le res mancipii appartenenti alla donna, quando siano state vendute e
consegnate senza il consenso del tutore (sine tutoris auctoritate) , mentre è
solo più tardi, che la giurisprudenza venne a richiedere la buona fede
nell'acquirente. Per tal modo un mezzo, che dapprima servi per mutare una
posizione di fatto in una posizione di diritto, fini col tempo per convertirsi
eziandio in un rimedio contro il difetto inerente al titolo di acquisto,
proveniente o da irregolarità dell'atto di trasferimento o da incapacità
dell'ac quirente (3 ). L'usucapione poi, per sua natura, può già applicarsi
cosi alle res mancipii, che alle res nec mancipii, ma non pud tuttavia
applicarsi al suolo provinciale, come quello, che non poteva essere oggetto di
proprietà quiritaria (4 ). Tuttavia anche qui co mincia a svolgersi una
istituzione del diritto delle genti, che è quella della prescrizione, la quale,
salvo la durata maggiore, ha un carattere analogo a quello della usucapio nel
diritto civile: come lo dimostra il fatto, che le due istituzioni finiscono col
tempo per fondersi insieme, e dar cosi origine alla praescriptio longi temporis
giustinianea (5 ). Questo carattere
dell'usucapio primitiva è già accennato dall'Esmein, op. cit., 177, e può
inferirsi dalla definizione di Ulpiano, Fragm. Usucapio est dominii adeptio per continuationem
possessionis anni, vel biennii ; nella quale non occorre ancora quel carattere
della iusta possessio, che compare invece nelle altre definizioni, e fra le
altre in quella di Boezio riportata dal Bruns, Fontes, 400. Quanto ai rapporti
fra il possesso, di cui qui si parla, che sarebbe il pos sesso ad usucapionem,
ed il possesso ad interdicta, che costituisce un istituto, avente un proprio
scopo, e distinto da quello della proprietà, vedi ciò che si disse più sopra al
n. 357, 452, nota 1. A parer mio dovette forınarsi prima il concetto del pos
sesso ad usucapionem, e più tardi soltanto quello del possesso ad interdicta. Questa condizione speciale delle res mancipii,
spettanti alle femmine ed ai pupilli, la quale ha evidentemente lo scopo di
impedire l'alienazione delmancipium per conservarlo nella linea agnatizia, è
attestata in modo concorde da Gaio, Comm., I, 47, 192 e II, 80, e da ULP.,
Fragm., XI, 27. È naturale infatti, che
l'usucapione in una società, che si forma, sia un modo di acquisto, e che in
una società invece, che si è formatn, si converta in un mezzo di difesa; e
richieda così un tempo maggiore per servire quale mezzo di acquisto. Le società
giovani pensano sopratutto all'acquisto; mentre le società adulte e già for
mate pensano sopratutto a conservare l'acquistato. (4 ) GAIO, Comm., II, 46: item provincialia praedia usucapionem non
recipiunt . (5 ) Mainz, Cours de droit romain, I, SS 111 e 112, 745. 502 389.
Intanto,mentre accade questo svolgimento nei modi di trasfe rimento della
proprietà ex iure quiritium, accanto alla medesima viene lentamente
consolidandosi un'altra forma di proprietà, che prende il nome di proprietà in
bonis. Questa dapprima non è che una proprietà di fatto, ma col tempo ottiene
anch'essa in via indi retta e per opera del pretore una protezione di diritto,
e viene così a costituire un vero dualismo nel concetto di proprietà, il che
ebbe ad esprimere Gaio con dire: postea
divisionem accepit dominium, ut alius possit esse ex iure quiritium dominus,
alius in bonis habere . Il primo nucleo
di questa nuova forma di proprietà ebbe ad essere costituito dalle res
mancipii, allorchè le medesime erano trasmesse colla semplice traditio; ma
poscia essa fini per comprendere tutte le altre cose, che per qualsiasi causa
non fossero oggetto della proprietà ex iure quiritium. Che anzi il dualismo
andò fino a tale per l'esistenza contemporanea del ius civile e del ius
honorarium, che di una stessa cosa potè accadere, che altri fosse il
proprietario ex iure quiritium, mentre un altro la teneva in bonis; il che
voleva dire in sostanza, che l'uno ne aveva la pro prietà ufficiale, mentre
l'altro ne aveva l'effettivo godimento. È tut tavia notabile, che prima della
fusione delle due proprietà, quella in bonis già cominciava in certe cose ad
avere la prevalenza; come lo dimostra il fatto, che se un servo appartenesse ad
una persona ex iure quiritium, e fosse stato in bonis di un altro, gli
acquisti, che egli faceva, andavano a profitto di colui, del quale era in bonis
. Diqui una lotta fra le due forme di proprietà, che diede occasione allo
svolgersi dei modi naturali di acquisto, accanto a quelli ricono sciuti dal
diritto civile; lotta, che Gaio ebbe a riassumere scrivendo: Ergo ex his, quae dicimus, apparet, quaedam
naturali iure alie nari, qualia sunt ea, quae traditione alienantur; quaedam
civili, nam mancipationis et in iure cessionis et usucapionis ius pro prium est
civium romanorum . Così è pure questa lotta, che porge occasione allo svolgersi
della publiciana in rem actio (4 ), ac canto alla rei vindicatio, della
prescrizione accanto all'usucapione, Gaio, Comm., II, 40. Gaio, II, 88 e UlP., Fragm., XIX, 20. Id., II, 65. Di qui infatti Gaio prende
occasione di discorrere deimodi natu rali di acquisto. Quanto all'actio in rem pubbliciana è da
vedersi APPLETON, De l'action pub blicienne nella Nouvelle Revue historique fino a che le due
proprietà finiscono per essere pareggiate fra di loro, ed allora si consegue
l'effetto, che quelle caratteristiche della pro prietà quiritaria, che si erano
prima applicate a quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese nel
mancipium, poi si erano estese a tutte le cose, che erano oggetto delle
proprietà ex iure quiritium, finiscono per essere estese a tutte le cose, che,
per essere in com mercio, possono essere oggetto di proprietà privata. È solo
allora che Giustiniano, forse non troppo consapevole dell'ufficio, che un tempo
avevano compiuto le distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la
proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab
irato queste distinzioni, le quali a suo giu dizio nihil ab eniymate discrepant e dànno solo più
origine ad inutili ambiguità ed incertezze. 390. Infine anche qui deve essere
notato, che tutta questa teoria del trasferimento della proprietà non potè mai
trovare applicazione in tema di obbligazioni. Almodo stesso, che più tardi la
giurisprudenza romana continua ad affermare che traditionibus et usucapionibus dominia rerum,
non nudis pactis, transferuntur ; così
essa pur continua a professare, che i modi, i quali servono a trasferire la pro
prietà, non possono invece servire per trasferire un'obbligazione da una
persona ad un'altra. Scrive infatti Gaio, dopo aver discorso della mancipatio e
della in iure cessio, quali modi di trasferimento della proprietà: obligationes, quoquo modo contractae, nihil
eorum recipiunt; nam quod mihi ab aliquo debetur, id si velim tibi de beri,
nullo eorum modo, quibus res corporales ad alium transfe runtur, id efficere
possum; sed opus est, ut, iubente me, tu ab eo stipuleris (3 ). Quindi le obbligazioni, che si
contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla
stipulatio, e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio,
che sono circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per
tal modo quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius
quiritium, fra il facere mancipium ed il facere nexum, si mantenne per tutto lo
svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra
prova della dialettica co Giustin., Cod.,
VII, 25: de nudo iure quiritium tollendo; e VII, 31, $ 4: de usucapione
transformanda et de sublata differentia rerum mancipii et nec mancipii L.20, Cod., II, 3 (Dioclet. et Maxim.). (3 )
Gaio, Comm., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti romani tengono dietro
ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella prima elaborazione del
ius quiritium. Ciascun concetto di questo è come un nucleo, che viene attraendo
tutto ciò, che può esservi di affine, ma il medesimo non si confonde mai coi
concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud at trarre materie, che siano
partite da un concetto primordiale diverso. Chi poi volesse trovare la ragione
intima, per cui nel diritto civile romano il semplice contratto può soltanto
essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai bastare da solo al
trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente ricercarla nel concetto
in parte materiale, che il primitivo diritto erasi formato prima del manci pium
e poscia anche del dominium ex iure quiritium; avrebbe infatti ripugnato alla
logica giuridica, che un dominio, il quale aveva in se qualche cosa di
corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato da qualche fatto
esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione dell'acquirente.
Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai anche un atto di
questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto per aes et libram.
$ 4. La testamenti factio e la storia primitiva del testamento quiritario. 391.
Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium, il testa mento è certamente
quello, di cui ci pervennero in maggior quantità i dati per ricostruirne la
storia primitiva, e per seguire le trasfor mazioni, che ebbe a subire nel
passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non può dubitarsi
anzitutto, che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca anteriore alla
fondazione della città, perchè noi sappiamo con certezza, che esso fin dagli
inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti, che, al pari
dell'adrogatio, della detestatio sacrorum e simili, dovevano essere compiuti
coll'inter vento dei pontefici, davanti al popolo delle curie, riunito nei
comizii calati. Ciò dimostra, che esso già preesisteva presso le genti
patrizie, che concorsero alla fondazione delle città, le quali dovettero ser
virsene, comedi un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto. Si è
veduto infatti, che nella organizzazione delle genti italiche la famiglia,
ancorchè entrasse a far parte di un organismo maggiore, cioè della gente e
della tribù, aveva però già una propria esistenza, 505 un proprio culto, e un
proprio patrimonio (heredium ). Era quindi naturale, che essa tendesse a perpetuarsi,
e che perciò il capo di famiglia riguardasse. come una grande sventura la
mancanza di un erede, che continuasse in certo modo la sua personalità, e che
adem piesse all'obligo del sacrifizio domestico. Fu quindi per supplire alla
mancanza di un erede naturale, che noi troviamo essere in uso presso le genti
italiche l'adrogatio ed il testamentum: due istitu zioni, le quali, ancorchè in
guisa diversa, mirano in sostanza al medesimo intento, cioè alla perpetuazione
della famiglia e del suo culto. Intanto però, siccome l'una e l'altra
istituzione toccavano da vicino l'organizzazione gentilizia, cosi egli è certo,
che nel periodo gentilizio l'adrogatio e il testamentum non poterono compiersi
dal capo di famiglia, di sua privata autorità, ma dovettero invece essere
compiuti colla approvazione degli altri capi di famiglia, che appar tenevano
alla medesima gente o tribù. 392. Allorchè poi le due istituzioni vennero ad
essere trapiantate nella città patrizia, esse conservarono dapprima il medesimo
carat tere, e perciò apparirono come due negozi, i quali, avendo un carat tere
pubblico, non potevano operarsi di privata autorità, ma dovevano essere
compiuti nei comizii calati delle curie, convocati dai ponte fici. Che anzi, se
abbiamo da argomentare dalla formola dell'adro gatio, che ci fu conservata da
Gellio, conviene inferirne, che anche il testamento, in questo periodo, dovette
assumnere il carattere di una vera e propria legge . Intanto però egli è
evidente, che questo testamento nei comizii calati delle curie dovette essere
esclusivamente proprio delle genti patrizie, e che il medesimo non ebbe
certamente lo scopo di porgere al testatore un mezzo di disporre a capriccio
delle proprie sostanze; Ho già toccato
dell'attinenza strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il testamentum
nel periodo gentilizio al nº 63-65, 77. Cfr. in
proposito il SUMNER -MAINE, Ancien droit, 184 e il CoQ, Recherches sur le
testament per aes et libram nella Nouvelle Revue historique , 1886, 536. Qui solo
ag. giungerò, che questa attinenza appare anche meglio nel diritto greco, e sopratutto
nell'ateniese, nel quale il primitivo testamento compare sotto la forma
dell'adozione. Cfr. il Jannet, Les institutions sociales a Sparta. Paris, 1880,
96 e segg.; e il Cocotti, La famiglia nel diritto attico. Torino, 1886, 69. Questo carattere pressochè pubblico
dell'adrogatio e del testamentum in Roma non è mai intieramente scomparso, come
lo prova il detto di PAPINIANO, L. 4, Dig. (28-1): testamenti factio iuris
publici est. Cfr. quanto ho scritto a n ° 221, 268506 - ma lo scopo invece di
perpetuare la famiglia ed il suo culto, e di impedire la divisione immediata
del patrimonio, come lo dimostra l'antica espressione romana ercto non cito ; la quale ha tutti i caratteri
di una primitiva clausola testamentaria. Quanto alla plebe, non avendo essa la
organizzazione gentilizia, non poteva certamente possedere un simile testamento;
quindi è probabile, che il capo di famiglia plebeo, quando rimaneva senza
figliuolanza diretta, non avesse altro mezzo di disporre delle proprie cose,
che quello di ri correre all'istituto della fiducia, affidando il suo
patrimonio ad un amico, che ne disponesse nel modo da lui indicato; modo questo
di far testamento, che era una conseguenza naturale delle condizioni economiche
e giuridiche, in cui trovavasi la plebe, e che Gaio ci indicherebbe come
affatto primitivo, ed anteriore ancora a quella forma di testamento, che a noi
pervenne sotto la denominazione di testamento per aes et libram . Di qui la
conseguenza, che fin dagli esordii di Roma dovettero tro varsi di fronte due
forme di testamento; un testamento cioè, di origine patrizia, fatto colla
formalità di una vera e propria legge, nei comizii calati delle curie,
coll'intervento dei pontefici, diretto a perpetuare la famiglia ed il suo culto
e ad impedire la disper sione dei patrimonii; e l'altro, di origine plebea, che
compievasi colle forme stesse di quel fedecommesso, che penetrò solo più tardi
nel diritto civile romano, il quale non era che una applicazione della fiducia,
e aveva l'unico scopo di porgere un mezzo al capo di famiglia per disporre
delle proprie cose per il tempo, in cui egli avrebbe cessato di vivere. 393. Fu
soltanto allorchè la plebe entro eziandio a far parte del populus, che potè
svolgersi una forma di testamento, comune ai due ordini, ed è sopratutto a
questo punto, che l'esposizione di Gaio ci può venire in sussidio per
ricostruire la storia primitiva del testa mento civile romano . Gaio ci parla
di due forme primitive di testamento, cioè: di un testamento, che compievasi in
calatis comitiis, i quali si sarebbero radunati due volte all'anno per la
confezione dei testamenti; e del Gaio,
Comm., II, 107. Vedi a proposito di questo primitivo testamento della plebe,
che era una applicazione della fiducia e corrispondeva in certo modo a quel
fedecommesso, che fu accolto più tardi nel diritto romano, cid che ho scritto a
n ° 149, 184Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd. GAIO, II, 101 a 108. 507 testamento in
procinctu, che facevasi invece davanti all'esercito già preparato alla
battaglia. Egli anzi sembra compiacersi nel notare, che queste due forme di
testamento corrispondevano a quel carat tere civile e militare ad un tempo, che
era proprio del popolo ro mano: alterum
itaque in pace et in otio faciebant, alterum in praelium exituri ; ma intanto non dice, se i comizii calati, a
cui egli accenna, fossero i comizii delle curie o quelli delle centurie. Sembra
tuttavia ovvio l'osservare, che Gaio qui discorre già delle due forme di
testamento, comuni cosi al patriziato che alla plebe, allorché i medesimi già
erano entrati a far parte dello stesso populus, e che perciò la sua distinzione
non si deve riferire al popolo primitivo delle curie, ma bensì al popolo
plebeo-patrizio delle centurie; del quale sopratutto si poteva dire a ragione,
che mentre in pace co stituiva i comizii, in guerra invece costituiva un
esercito. Di qui la conseguenza, che il testamento in calatis comitiis, di cui
discorre Gaio, non è più il testamento proprio delle genti patrizie, che fa
cevasi nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici: ma bensi
un testamento, già comune al patriziato ed alla plebe, che fa cevasi in quei
comizii calati, che noi sappiamo da Aulo Gellio essere stati eziandio proprii
delle centurie. Furono probabilmente questi comizii calati delle centurie, che
dovevano radunarsi due volte l'anno per la confezione dei testamenti: mentre i
comizii calati delle curie potevano convocarsi dai pontefici, ogni qualvolta ne
occorresse il bi sogno. Siccome poi in questo tempo il quirite, come tale,
appare già prosciolto dai vincoli dell'organizzazione gentilizia, ed è già
libero dispositore delle proprie cose, anche per atto di morte, come ebbe a
dichiararlo espressamente la legge decemvirale; così si può in durne, che il
popolo delle centurie, in questa fase del testamento quiritario, più non
intervenisse per approvare il medesimo con una legge, ma soltanto per prestare
la propria testimonianza, secondo la GAIO, II, 101. Gellio, XV, 27, 1 e 2, parlando dei co:nitia
calata, scrive: eorum alia esse curiata, alia centuriata. Curiata per lictorem
curiatim calari, id est convocari; centuriata per cornicinem . Egli dice poi, che
in questi comizii si facevano i testa menti, il che fa supporre che si
facessero tanto nei comizii calati curiati, che nei centuriati. Lo stesso
autore V, 19, 6, parla un'altra ' volta dei comizii calati, a pro posito
dell'adrogatio, ma qui sembra alludere soltanto ai comizii calati curiati.
Sembra infatti che l'adrogatio, a differenza del testamento, abbia continuato
sempre a farsi davanti alle curie, salvo che la medesima finì per compiersi
davanti ai trenta littori, che la rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12.
Cfr. Cuq, art. cit., p. 539. 508 formola, che poi ricompare più tardi nel
testamento per aes et libram: et vos,
quirites, testimonium mihi perhibitote . Cid è confermato eziandio dalla
considerazione, che questi comizii calati non si sarebbero radunati che due
volte l'anno per la confezione dei testamenti, il che avrebbe reso pressochè
impossibile, che ognuno dei testamenti presentati nei medesimi avesse potuto
essere approvato con tutte quelle formalità di una vera e propria legge, che
erano richieste nei comizii calati delle curie primitive. 394. Di qui deriva,
che se questo testamento nei comizii calati delle centurie imitava ancora nella
forma esteriore il testamento pa trizio, che facevasi nei comizii calati delle
curie, nella sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè nel medesimo
questo intervento di tutto il popolo convertivasi in una semplice formalità, in
quanto che il popolo non era più chiamato ad approvare il testamento,ma sol
tanto ad assistere al medesimo cometestimonio. Si comprende pertanto, che la
consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo più semplice di
fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio familiae cum fiducia,
che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci descrive essersi introdotta
posteriormente al testamento in calatis comitiis. Questo testamento non era in
sostanza, che il testamento primitivo di origine plebea, salvo che esso era già
sottoposto alla forma quiritaria dell'atto per aes et libram, e ac compagnato
dalla fiducia. Era quindi un testamento, che era facile a celebrarsi, ma che,
al pari della fiducia iure pignoris, aveva dapprima l'inconveniente di
rimettere ogni cosa alla buona fede del familiae emptor, il quale poteva anche
abusare della fiducia, che il testatore aveva in lui riposta. Fu allora, che i
veteres iuris conditores sentirono la necessità, come dice Gaio, di ordinare
altrimenti il testamento per aes et libram, e modellarono così quella forma di
testamento, che penetrd con questa denominazione nel ius quiritium o meglio nel
ius pro prium civium romanorum, e che fu poi argomento di uno svolgi mento
storico non interrotto fino a Giustiniano. Questo testamento Fra gli autori, che distinguono la primitiva
mancipatio familiae cum fiducia, che ha quasi del fedecommesso, dal posteriore
testamento per aes et libram, quale è descritto da Gaio, II, 102, è da vedersi
il MuIRHEAD, op. cit., 66 e 167, e sopratutto il Cuq, Op. e loc. cit., 534 e
segg., il quale, dopo aver discorso prima della familiae mancipatio, passa a
trattare separatamente del testamento per aes et libram. 509 pertanto compare
nel ius quiritium molto più tardi, che non il nerum ed il mancipium, e viene ad
essere una artificiosa applica zione dell'atto per aes et libram, nell'intento
di porgere al quirite un mezzo per disporre del suo patrimonio per il tempo, in
cui avrà cessato di vivere. 395. Questo testamento, secondo la definizione di
Gaio e di Ul. piano, componevasi di due parti, cioè della mancipatio familiae e
della nuncupatio. La prima consiste in un atto per aes et libram, compiuto,
come al solito, davanti a non meno di cinque testimoni, cittadini romani, ed al
libripens, in cui si addiviene ad una ima. ginaria venditio delle sostanze del testatore (familiae). È
però a notarsi, che,mentre nella primitiva mancipatio familiae il negozio
seguiva effettivamente fra il testatore e l'erede, di cui quello era il
familiae venditor e questo il familiae emptor; nel testamento invece per aes et
libram, quale appare modellato in questo secondo stadio, il familiae emptor non
è più il vero erede, ma è piuttosto un depositario e custode del patrimonio,
accid il testatore possa disporne secundum legem publicam . Cið appare dalla circostanza, che il
familiae emptor, dopo aver finto di comprare il patrimonio e di pagarne il
prezzo, se ne dichiara perd semplice depositario, ricorrendo alla formola
seguente: familia pecuniaque tua endo
mandatelam, custodelamque meam, quo tu iure testamentum facere possis secundum
legem publicam, hoc aere esto mihi empta . Trovo alquanto singolare la interpretazione
che il Cuq, art. cit., 565, verrebbe a dare a queste parole: secundum legem publicam . Egli ritiene, che
tutte le parole del testamento dovessero aversi come confermate da quella lex
publica, che era andata in disuso; mentre invece è evidente, che le parole
della formola: quo tu iure testamentum
facere possis secundum legem publicam , mirano evidentemente a porre il
familiae venditor in condizione di poter fare il testamento approvato e
riconosciuto dalla legge pubblica. Una prova di cið l'abbiamo nella circo
stanza, che questa stessa espressione secundum legem publicam , compare eziandio
nella formola della nexi liberatio, in cui si dice: hanc tibi libram primam postre mamque tibi
expendo secundum legem publicam (Gaio,
III, 174 ), ove la medesima non può certo avere la significazione, che vorrebbe
attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea interpretazione sta in ciò, che
il Cuq considera il testamento per aes et libram, come una modificazione di
quello in calatis comitiis, mentre esso ha un'origine affatto diversa, come ho
cercato di dimostrare nel testo. GAIO,
Comm., II, 104. Ho ricavato questa formola dall'ultima edizione curata dal
MOMMSEN, sull'Apographum Studemundianum, novis curis auctum, Berolini, 1884; la
quale presenta qualche notevole differenza dalle anteriori edizioni fatte dal
Dubois, dall'HUSCHKE e dal MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che una
imaginaria venditio, della quale Gaio dice espressamente, che viene compiuta
soltanto dicis gratia, propter veteris
iuris imitationem . La sostanza invece di questa forma di testamento consiste
nella nuncupatio solenne, nella quale il testatore, in presenza dei testimoni,
istituisce il proprio erede, il quale viene cosi già a distinguersi dal
familiae emptor, ed indica eziandio i legati, che saranno poi a carico
dell'erede. Questa nuncupatio dapprima dovette essere compiutamente orale; ma
poscia potè essere fatta in doppia guisa, in quanto che il testa tore – o
dichiarava espressamente la sua volontà davanti ai testi moni, - o presentava invece
ai medesimi le sue tavole testamen tarie, dichiarando solennemente, che queste
contenevano la sua ultima volontà: haec
ita, ut in his tabulis cerisve scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor:
itaque, vos, quirites, testimo nium mihiperhibitote . Di qui prorenne, che già
collo stesso testamento per aes et libram comincid a delinearsi la distinzione,
che acquistò più tardi grandissima importanza fra il testamento nun cupativo e
il testamento scritto. 396. Basta questa semplice descrizione per dimostrare,
che il testa mento per aes et libram è già informato ad un concetto ben diverso
da quello, a cui si ispirava il primitivo testamento delle genti patrizie.
Mentre infatti il testamento primitivo in calatis comitiis mirava a perpetuare
il culto domestico e ad impedire la dispersione dei patri monii: quello invece
per aes et libram tendeva senz'altro a sommi nistrare al quirite un mezzo per
disporre liberamente delle proprie cose. Ciò è dimostrato dalla circostanza
indicataci da Cicerone, che questo testamento deve considerarsi come
un'applicazione della di. sposizione delle XII Tavole: qui nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto; ed è pur confermato dagli
antichi giureconsulti, i quali parlano di questo testamento, come di una va
rietà ed applicazione del nexum, o meglio dell'atto per aes et libram . Così
pure, mentre nel testamento primitivo si richiedeva Gaio, loc. cit. e Ulp., Fragm., XX, 2 a 10.
Quest'ultimo sopratutto distingue nettamente le due parti, di cui componesi il
testamento per aes et libram, allorchè scrive al $ 9: In testamento, quod per aes et libram fit,
duae res aguntur, fa miliae mancipatio et nuncupatio testamenti ; e dopo viene
senz'altro a parlare della nuncupatio, come di quella, che veramente importa. Cic., De Orat., I, 57, 245. La stessa esposizione di Gaio, II, 102 e
103, dimostra, che il testamento per aes et libram ebbe origine diversa da
quello in - 511. l'intervento dei pontefici, perchè in esso trattavasi di
provvedere al mantenimento del culto; il testamento invece per aes et libram
viene ad essere considerato come una esplicazione del ius commercii, ossia
della facoltà del quirite di disporre liberamente delle proprie cose, e quindi
si attua mediante un atto di carattere esclusivamente mercantile, quale era
l'atto per aes et libram, lasciando poi al ius pontificium di provvedere,
quanto all'adempimento dei sacra. Mentre infine nel testamento primitivo la
volontà del testatore era sottoposta all'approvazione del popolo; nel
testamento invece per aes et libram, la volontà del quirite appare indipendente
e sovrana, e non è soggetta a qualsiasi limitazione. Dopo ciò credo di poter
conchiudere con fondamento, che anche il testamento per aes et libram, quale
compare nel ius quiritium, deve già essere considerato come il frutto di una
vera e propria elaborazione giuridica, e comeuna conseguenza logica di quel
potere illimitato e senza confine, che appartiene al quirite di disporre delle
proprie cose, non solo per atto tra vivi, ma anche per causa di morte. Non
potrei quindi ammettere col Sumner Maine, che questa forma di testamento
importasse dapprima uno spoglio immediato ed irrevocabile del testatore a
favore del proprio erede: tanto più, che questa congettura è in diretta
opposizione con tutte le notizie, che a noi pervennero del testamento romano,
il quale appare essere stato fin dapprincipio una attestazione solenne de eo quod quis post mortem tuam fieri vult . calatis comitiis, poichè egli non dice già,
che il medesimo sia stato surrogato a quello in calatis comitiis, ma dice
invece: accessit deinde tertium genus
testamenti . Cic., De leg., II, 19, 47.
Cfr. in proposito il Cuq, art. cit., 555, il quale pure osserva, che la
mancipatio familiae, e quindi anche il testamento per aes et libram più non
aveva carattere religioso, 553, nota 2. È noto come il SUMNER Maine, Ancien droit, 191,
abbia coll'autorità del suo nome resa accetta a molti l'opinione, che il
testamento per aes et libram fosse di origine plebea, e che esso importasse
negli inizii una spogliazione immediata ed irre vocabile del testatore a favore
dei proprii eredi. Tale opinione non può essere ac colta; poichè il testamento
per aes et libram, anzichè essere proprio della plebe, fu invece una creazione
del ius quiritium, e quindi, al pari di ogni altro negozio qui ritario, rivestà
la forma dell'atto per aes et libram. Il motivo poi, per cui esso ri vestì la
forma di una mancipatio non sta in ciò, che esso siasi veramente riguar dato
come una vendita immediata, ma bensì nella circostanza, che esso imponeva
all'erede una quantità di obbligazioni, e fra le altre anche quella di
provvedere alla continuazione dei sacra e al pagamento dei legati. A questo
motivo si aggiunge una causa storica, ed è che il testamento per aes et libram
era un rimaneggia mento della primitiva mancipatio familiae cum fiducia, la
quale, essendo un atto di carattere puramente fiduciario, figurava come un vero
atto fra vivi. 512 397. Una volta poi che questo testamento entrò a far parte
del diritto quiritario, esso ebbe a ricevere uno svolgimento storico e Ingico
ad un tempo, non dissimile da quello delle altre istituzioni quiritarie, senza
che mai si perdessero i caratteri essenziali, con cui era penetrato nel diritto
civile di Roma. Così, ad esempio, il testamento era stato accolto nel diritto
quiri tario sotto l'apparenza di un negozio, che seguiva fra il testatore, qual
familiae venditor, e l'erede, quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca
di Giustiniano esso conserva questo carattere, come lo provano l'unità di
contesto, che è richiesta nel testamento, e la disposizione per cui quelli, che
dipendono dall'erede, non possono servire di testimoni nel medesimo. Cosi pure
il testamento, nel suo concetto primitivo, aveva per iscopo di perpetuare
nell'erede la personalità del testatore, donde la conseguenza, che
l'istituzione dell'erede venne ad essere considerata quale caput et fundamen tum testamenti; il qual
concetto continua pure a mantenersi fino alla più tarda giurisprudenza.
Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era stato un negozio di
carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la parola del testatore
costituiva legge, e noi troviamo, che in tutto il suo svolgimento posteriore
esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui giunge fino agli ultimi
confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso; come lo provano le
espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi l'istituzione di erede, la
diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione, e simili. Sopratutto poi
questo carattere nuncupativo del testamento si fece palese nel tema dei legati,
in quanto che nel diritto civile di Roma le varie specie di legato vennero ad
essere determinate dalle diverse espressioni, adoperate dal testatore . Infine
anche quel principio, secondo cui la volontà del testatore costituiva legge,
continud a mantenersi anche più tardi; dapprima infatti si cercò con mezzi in
diretti, quali sarebbero l'obbligo della diseredazione e la querela di Questo carattere del primitivo testamento per
aes et libram, per cui esso si presenta come un negozio fra il familiae emptor
ed il familiae venditor, è chiara. mente attestato da Gaio, Comm., e da Ulp.,
Fragm., XX, 3 a 6. Questo carattere poi non si perdette mai completamente, ed è
ancora ricordato da GIUSTINIANO, Instit., II, 10, $ 10. È nota la distinzione
fra i legati per vindicationem, per damnationem, sinendi modo, e per
praeceptionem: in essi la volontà del testatore appare come una vera legge, e
viene ad essere analizzata e studiata come la parola stessa del legislatore. V.
Gaio, II, 192 e 222; Ulp., Fragm., XXIV. 513 inofficioso testamento, di
impedire che il testatore potesse abusare della libertà, a lui consentita dal
primitivo diritto, e fu solo con Giustiniano che si introdusse una limitazione
diretta all'arbitrio del testatore, attribuendo a certe persone il diritto ad
una porzione legittima. 398. Intanto, anche nella materia testamentaria, è
facile scorgere come accanto al diritto già formato siavi sempre una parte, che
continua ad essere in via di formazione. Quindi anche qui, accanto al
testamento civile, si esplica un te stamento pretorio; ma anche questo appare
modellato a somiglianza del primo. Per verità nel testamento pretorio più non
comparisce l'atto per aes et libram, ma debbono però intervenire due nuovi
testimoni, i quali si ritengono corrispondere al libripens ed al fa miliae emptor:
donde la necessità di sette testimoni, che dånno au tenticità al testamento,
apponendovi col testatore il proprio sigillo. Allorchè poi il testamento
pretorio è riuscito anch'esso ad avere una efficacia giuridica, sopravvengono
anche in questa parte le co stituzioni imperiali, le quali tendono a fondere
insieme le due forme di testamento, finchè si giunge al testamento giustinianeo,
il quale è ancor esso un coordinamento delle forme anteriori. Esso infatti,
secondo l'attestazione di Giustiniano, viene ad essere costituito da un
triplice elemento, cioè: dall'unità di contesto e dalla presenza dei testimoni,
che proviene dal diritto civile: dal numero di sette testimoni e
dall'apposizione del loro sigillo, che è di origine pre toria: e infine dalla
sottoscrizione del testatore e dei testimonii, che deriva dalle costituzioni
imperiali. Ciò però non toglie, che anche Giustiniano, per imitazione
dell'antico, continui a ritenere il testa mento come un negozio che interviene
fra il testatore e l'erede, nel che abbiamo una prova della logica tenace, che
è propria della giu risprudenza romana, e del metodo da essa costantemente
seguito di venire coordinando nel medesimo istituto gli elementi, che si ven
nero successivamente formando . L'istituzione della legittima ebbe presso i
Romani una lunga preparazione prima nello stesso diritto civile, poi nel
diritto onorario, la quale non terminò che collo stesso Giustiniano. A mio
avviso, il motivo degli espedienti, a cui si appiglid il diritto, prima di
venire alla fissazione di una legittima, deve appunto essere riposto in cid,
che non volevasi porre una limitazione diretta alla volontà del testatore.
Quanto alla storia della legittima, è a consultarsi il Boissonade, De la
réserve héréditaire. Chap. IV, Paris, 1888, 61–160. Justin., Instit., II, 10, $ S 3 e 10. G. C., Le origini del diritto di Roma. 33 - 514
399. A compimento di questa materia non saranno inopportune le seguenti
osservazioni intorno allo svolgimento storico del testamento: Il testamento in
Roma è un atto, in cui il quirite si presenta col suo doppio carattere di uomo
di pace e di guerra ad un tempo, come lo dimostra il dualismo fra il testamento
civile ed il testamento militare, il quale, dopo essere cominciato colla
distinzione fra il te stamento in calatis comitiis ed in procinctu, non solo si
mantiene, ma si viene accentuando sempre più fino all'epoca diGiustiniano; 2 °
Nella storia del testamento romano si presenta questo fatto singolare, che si
vede ricomparire più tardi sotto nome di fidecom messo, una forma di testamento
analoga a quel testamento fiduciario, che era stato il testamento primitivo in
uso presso la plebe. Cid significa, che, accanto al testamento quiritario,
dovette mantenersi nelle consuetudini la primitiva forma di testamento, la
quale non riesci ad ottenere il proprio riconoscimento, che all'epoca di Au
gusto. Questi poi, accordando efficacia al fidecommesso, fini per ce dere alla
forza della pubblica opinione, e alla nécessità di ovviare agli abusi, a cui
dava luogo l'inefficacia giuridica di un testamento, in cui tutto dipendeva
dalla buona fede di colui, a cui erasi affi dato il testatore. Noi abbiamo così
una prova, che alcune delle istituzioni, che penetrarono più tardi nel diritto
quiritario, come proprie del diritto delle genti, già preesistevano nella
comunanza plebea, salvo che non erano riuscite a penetrare in quella rigida
selezione, mediante cui erasi formato il primitivo ius quiritium. Un altro
carattere di questo svolgimento storico consisterebbe in cid, che nel diritto
civile romano non riescirono mai a mescolarsi insieme la successione
testamentaria e la successione legittima; ma questa singolarità potrà essere
più facilmente spiegata nel capitolo seguente, dopo aver discorso di quel ius
connubii, di cui era una conseguenza la successione legittima, stata accolta
dal diritto civile romano . Che il
fedecommesso sia sempre vissuto, se non nel diritto, almeno nelle con suetudini
del popolo romano, lo dimostra il fatto, che Augusto si indusse a dargli
efficacia giuridica per l'abuso, che taluni avevano fatto della fiducia in essi
riposta. Appena accolto poi il fedecommesso apparve così popolare e trovò così
favorevole ac coglienza, che si dovette ben presto istituire un pretore
apposito (praetor fideicom missarius). V. Justin., Instit., II, 23, ss 1 e 2. Rimando l'indagine intorno alle cagioni
storiche della massima nemo pro parte
testatus pro parte intestatus decedere potest, al seguente capitolo V, $ 5;
perchè la questione non potrebbe essere risolta senza aver prima cercato i
rapporti, in cui stavano presso i romani la successione testamentaria e la
legittima. Il ius connubii nel primitivo ius quiritium e l'ordinamento
giuridico della famiglia romana. Sguardo generale all'argomento. 400. Più volte
fu osservato dagli autori, che la famiglia romana nella realtà dei fatti si
presenta con caratteri molto diversi da quelli, che si potrebbero argomentare
dall'ordinamento giuridico di essa. Mentre, sotto il punto di vista giuridico,
la famiglia costituisce come un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio
capo, nel quale si vengono ad unificare le persone e le cose, che entrano a
costituirla; nella realtà invece essa då origine ad una comunione di tutte le
utilità domestiche, in cui trovano campo a svolgersi la pietà, l'os sequio e la
reciproca confidenza. Mentre, giuridicamente parlando, havvi un unico padrone
nella casa: pater familias in domu do
minium habet ; nella realtà invece anche la moglie e i figli ap pariscono
comproprietarii del patrimonio paterno: vivo quoque parente, quodammodo condomini
existimantur . Mentre infine, in base al diritto, il padre ha perfino il ius
vitae ac necis sulle persone tutte, che da lui dipendono, nel costume invece la
famiglia è sopratutto governata dal sentimento profondo dei doveri famigliari,
dalla religione, dalla morale e dal civile costume . Di fronte ad una
opposizione di questa natura fra la famiglia quale appare nel diritto, e quale
si presenta nel fatto, non è certo Ho
già accennato a questo contrasto, fra la configurazione giuridica della fa
miglia e la realtà dei fatti, al nº 94, 119. Del resto gli autori sembrano
essere concordi in rilevare questa speciale caratteristica della famiglia
romana. Basterà citare fra gli altri il Savigny, Sistema del diritto romano
attuale, I, &$ 54 e 55; il JHERING, L'esprit du droit romain, trad.
Meulenaere, tomo II, SS 36 e 37, e specialmente da 190 a 214; il Gide, Étude
sur la condition privée de la femme, 2a ed., par Esmein, Paris 1885, cap. IV e
V; il Voigt, XII Tafeln, II, $ 92, 241 a 256; il MUIRHEAD, Histor, introd., 24
a 34; il Brixi, Matrimonio e di vorzio, Bologna, 1886, parte 1“, passim, e
specialmente ai SS 21 e 22, 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano della
famiglia romana in genere, ricorderò lo SCHUPPER, La famiglia secondo il
diritto romano, vol. 1°, Padova 1876; e il CE NERI, Lezioni su temi del ius
familiae, Bologna, 1881.; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano
trasmesso nel proprio diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti;
ma piut tosto deve credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di
ritto, abbiano cercato di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi
affini, con cui trovavasi intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione
giuridica, che fini per attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben
maggiore di quella, che esisteva real mente nel costume. Quindi il vero
problema, che presentasi al ri guardo, sta nel ricostruire il processo storico
e logico ad un tempo, che può aver condotto i romani ad accogliere un
ordinamento giu ridico della famiglia, il quale, a giudizio degli stessi
giureconsulti, si differenziava grandemente da quello di tutti gli altri
popoli. 401. A questo proposito vuolsi anzitutto premettere, che l'ordi namento
famigliare dovette certamente essere la parte del diritto primitivo, in cui
trovavansi a maggior distanza le istituzioni già elaborate, proprie delle genti
patrizie, e le istituzioni appena ab bozzate, proprie della plebe. Ciò è
provato da quel divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, che si
protrasse fin dopo la legislazione decemvirale; dalle lotte accanite, a cui
diede origine l'abolizione di questo divieto per opera della legge Canuleia; ed
anche dal disprezzo ostentato dai patrizii per le unioni della plebe, come pure
dal culto di una pudicizia propria delle matrone patrizie, a cui si contrappose
più tardi una pudicizia plebea. Così stando le cose, era anche naturale, che in
questa parte le istituzioni dei due ordini dovessero riuscire più difficilmente
a fondersi e a mescolarsi fra di loro. Da una parte eravi la famiglia
patriarcale delle genti patrizie, la quale, unificata sotto la patria potestà
del padre, e stretta insieme dal vincolo dell'agnazione, era sopratutto intesa
a perpetuare la stirpe ed il suo culto, costituiva una vera corporazione
religiosa, e conduceva alla comunione delle cose divine ed umane; mentre
dall'altra eravi la famiglia della plebe, la quale, costituita dall'unione
consensuale di un uomo e di una donna, fatta palese dalla loro coabitazione,
unita dai vincoli della affinità e della cognazione, aveva piuttosto per iscopo
la procreazione della prole, e di soppor tare insieme i pesi del matrimonio. Quanto all'organizzazione domestica delle
genti patrizie, vedi libro I, cap. 3', 2º, 28 a 34; quanto a quella della plebe, lo
stesso lib. I, cap. 9, pagina 188. - 517 Dei due ordinamenti però, il più forte,
il più elaborato, il più coerente in tutte le sue parti, era certamente quello
delle genti patrizie; quindi non è meraviglia, se essé in questa parte siansi
ri fiutate a qualsiasi transazione ed accordo, e siano così riuscite a dare
un'assoluta prevalenza alle proprie istituzioni domestiche. La plebe quindi,
quanto all'ordinamento della famiglia, dovette cercare in qualche modo di
imitare l'organizzazione delle famiglie patrizie; il che dovette riuscire più
agevole, allorchè la plebe primitiva venne ad essere accresciuta da un largo
contingente di famiglie di origine latina, la cui organizzazione doveva già
essere analoga a quella propria delle genti patrizie. 402. Ne consegui pertanto,
che l'ordinamento domestico, adottato dalla comunanza quiritaria, fu quello
della famiglia patriarcale propria delle genti patrizie, e che anche in questa
parte i veteres iuris conditores seguirono quel medesimo processo, a cui si
erano attenuti nelle altre parti del diritto quiritario. Essi cioè trapianta
rono nella città quell'organizzazione domestica, che già preesisteva nel
periodo gentilizio; la isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale, in cui
erasi formata, il quale serviva a temperarne la rigi dezza; la riguardarono
come organizzazione tipica della famiglia quiritaria e presero a svolgerla
logicamente in tutte le sue parti. Siccome pertanto i concetti informatori
della famiglia, nel periodo gentilizio, si riducevano essenzialmente
all'unificazione potente della famiglia nella persona del proprio capo, ed alla
tendenza della me desima a perpetuarsi e a conservare il proprio patrimonio;
cosi questi concetti vennero in certo modo a costituire il capo saldo, da cui
prese le mosse l'elaborazione del diritto quiritario, e spinti a tutte le
conseguenze, di cui potevano essere capaci, condussero logi camente a
quell'ordinamento della famiglia, che ci fu trasmesso dal diritto civile
romano. Fu in questa guisa, che ogni famiglia, nel diritto primitivo di Roma,
fini per costituire un gruppo di persone e di cose, ordinato sotto il potere
del proprio capo, e disgiunto per modo da ogni altro gruppo, che una persona,
uscendo da una famiglia, per entrare in un'altra, cessava di avere qualsiasi
rapporto giuridico colla prima. Così pure la forma tipica del matrimonio
quiritario dovette essere dapprima il solo matrimonio cum manu; perchè solo la
conventio in manu, collocando la moglie in posizione di figlia, poteva con
durre alla unificazione della famiglia nella persona del proprio capo. 518
Accolta poi questa unificazione giuridica della famiglia nella per sona del
padre, ne derivava eziandio che il vincolo, il quale univa imembri della
famiglia, non poteva più essere quello della cogna zione,ma doveva essere
quello dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel potere
spettante al capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della
preponderanza dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia. Se poi
tutti i membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico,
appariscono unificati nel proprio capo, viene pure a conseguirne logicamente,
che tutto quello, che essi facciano od acquistino, debba in diritto ritenersi
fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio, come, nel
diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il padre, ed i
servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece ammessa,
quando trattasi di persone, che appartengano ad un gruppo diverso. Così pure
sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della famiglia,
che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio, venga ad uscire da un
gruppo per entrare in un altro, sotto il punto di vista giuri dico, cessi di
esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia, in cui entra,
quel posto, che le sarebbe spettato, quando fosse nata nel medesimo . 403. È
poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica della famiglia quiritaria,
la cui elaborazione già erasi cominciata nella città esclusivamente patrizia,
ebbe occasione di svolgersi, anche più rigidamente, mediante l'istituzione del
censo serviano. Con questo infatti la famiglia venne ad essere staccata affatto
da quel l'ambiente patriarcale, che in parte aveva ancora potuto mantenersi nel
periodo della città patrizia, in quanto che ogni cittadino venne ad essere
censito, come capo di famiglia, e dovette come tale denun ziare le persone e le
cose, che da lui dipendevano, e ne costituivano in certo modo il mancipium. Fu
quindi sopratutto sotto l'influenza del censo serviano, che i diritti del padre
sulla moglie, sui figli, sui servi vennero in certo modo ad essere modellati
sul concetto rozzo, ma preciso del mio e del tuo, il quale aveva anche il
vantaggio di essere, più di qualsiasi altro, suscettivo di una vera e propria
ela Il concetto di quest'unità potente
della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei primitivi romani. Si
può averne una prova nei passi di antichi autori, citati dal Voigt, Op. cit.,
II, $ 72, 6 e segg., a proposito della domus fami liaque, considerata come
un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. -- -- 519 berazione
giuridica. L'epoca serviana pertanto dovette essere il mo mento storico, in cui
la famiglia quiritaria cominciò ad essere mo dellata esclusivamente sul
concetto di proprietà, cosicchè le forme dei negozii, proprie del commercium,
poterono essere applicate eziandio per acquistare i diritti derivanti dal
connubium. Per tal modo la logica del diritto quiritario potè essere applicata
in tutto il suo rigore anche all'ordinamento giuridico della famiglia, e venne
così ad uscirne quella struttura giuridica della medesima, in cui tutto sembra
ridursi ad una questione di mio e di tuo . Quando poi si promulgò la
legislazione decemvirale, questa con tinud l'opera già iniziata di estendere
anche alla plebe l'ordina mento giuridico della famiglia patriarcale. Essa
infatti riconobbe la coabitazione, non interrotta per un anno, come un mezzo,
che poteva servire alla plebe per attribuire alle proprie unioni il carattere
qui ritario, e rese comune eziandio alla plebe quel sistema di succes sione
legittima, che era proprio dell'organizzazione gentilizia. Infine allorchè la
legge Canuleia tolse il divieto del connubio fra i due or dini, tutto
l'ordinamento giuridico della famiglia patriarcale venne ad essere accolto nel
ius proprium civium romanorum, salve al cune poche modificazioni, che erano
imposte dalle condizioni, in cui si trovavano le infime classi della plebe. Fu
da questo momento, che la famiglia quiritaria venne a costi tuire una
costruzione giuridica, organica e coerente in tutte le sue parti, i cui
caratteri non potrebbero essere compresi, quando si di menticasse, che la
medesima è un rudere dell'organizzazione genti lizia, trapiantato nella città,
e svolto logicamente in tutte le con seguenze, di cui poteva essere capace. È
certo che un processo di questa natura doveva finire per at tribuire alla
famiglia quiritaria un carattere rigido e pressochè inumano, perchè escludeva
dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di sentimento e di affetto; ma
il medesimo ebbe anche il Come il censo
serviano abbia contribuito ad isolare la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a
far considerare ciascuna famiglia, come un gruppo separato e distinto da tutte
le altre, fu dimostrato nel libro III, cap. 3 °, e in questo stesso libro, cap.
1 ° e 2°, 1º. Così, ad esempio, la legge
decemvirale, pur cercando di estendere anche alla plebe il matrimonio cum manu,
fu tuttavia nella necessità di aprire l'adito fin d'allora al matrimonio sine
manu, accordando alla donna di sottrarsi al vincolo della manus, mediante
l'usurpatio trinoctii, ossia l'interruzione della coabitazione per tre notti di
seguito. 520 vantaggio di isolare ciò, che havvi di giuridico nella famiglia,
da ogni elemento estraneo, e di sottoporre così all'elaborazione giari dica una
istituzione, in cui le considerazioni religiose e morali avrebbero ad ogni
istante impedito l'applicazionedella logica propria del diritto (iuris ratio ).
Si aggiunga, che questa apparenza, pressochè inumana, non produsse in realtà
alcun inconveniente, poichè essa punto non impedi, che il costume temperasse il
rigore della costru zione giuridica; che il iudicium de moribus, dalle XII
Tavole affi dato al pretore, impedisse al padre la dilapidazione del patrimonio
famigliare; che il censore, vindice della morale, punisse in effetto il padre,
che abusasse de' proprii poteri; e che infine il diritto stesso intervenisse a
moderare i poteri spettanti al capo di famiglia, al lorchè, per il corrompersi
dei costumi, cominciò a sentirsi il pericolo, che egli potesse abusare dei
medesimi. 404. Intanto una importante conseguenza di questo svolgimento storico
fu anche questa, che, siccome nell'organizzazione gentilizia tutto
l'ordinamento famigliare metteva capo al concetto del con nubium, cosi anche
tutto l'ordinamento giuridico della famiglia qui ritaria sembra essere derivato
da quest'unico concetto. Quel connubium infatti, che nei rapporti fra le varie
genti aveva significato quella facoltà di imparentarsi, che di regola era circo
scritta ai membri delle genti, che appartenevano allo stesso nomen, trasportato
nel diritto quiritario, venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure
quiritium, ossia nel diritto di addivenire alle iustae nuptiae, riconosciute
dai quiriti, e di dare così origine ad una fa miglia, organizzata ex iure quiritium,
con tutte le conseguenze, che potevano derivarne. Quindi è, che anche la
famiglia ex iure Io parlo ancora qui di
una famiglia ex iure quiritium: ma, a scanso di equi voci, devo far notare, che
siccome l'organizzazione della famiglia romana non venne ad essere comune ai
due ordini del patriziato e della plebe, che dopo la legislazione decemvirale e
la legge Canaleia, così l'espressione, solitamente adoperata da Gaio e da
Ulpiano relativamente al ius familiae, non è più quella di ius quiritium,ma
bensì quella di ius proprium civium romanorum; poichè in quell'epoca il
concetto del quirite già si era allargato in quello del civis romanus, e per
conseguenza il ius quiritium si era in certo modo travasato nel ius proprium
civium romanorum. Di qui consegue che mentre, per quello che si riferisce al
ius commercü, i giurecon sulti parlano, ancora sempre del ius quiritium (Gaio,
II, 40), trattandosi invece della manus (Id., I, 108 ) e della patria potestas
(ID., I, 55 ), parlano invece di un ius proprium civium romanorum. 521 –
quiritium, al pari del dominium ex iure quiritium, venne a costituire una
famiglia privilegiata, che può giustamente chiamarsi propria civium romanorum,
in quanto essa ha certi caratteri, che la contraddistinguono da ogni altra:
quali sono la manus delmarito sulla moglie, la patria potestas del padre sui
figli, l'agnazione, che stringe i varii membri di essa e che viene a costituire
il fonda mento della tutela e della successione legittima. Del resto il
concetto, che tutti i diritti di famiglia discendono in sostanza dal connubium,
ha eziandio un fondamento nella realtà; perchè è col connubio che viene a
costituirsi una nuova famiglia, la quale poi si esplica nella figliuolanza: il
qual concetto, trovasi mi rabilmente espresso da Cicerone, allorchè scrive: prima societas in coniugio, proxima in liberis;
deinde una domus, communia omnia . Diqui derivò la conseguenza, che la famiglia
quiritaria, pur essendo il frutto di una lunga e lenta elaborazione giuridica,
fini in sostanza per modellarsi sulla realtà dei fatti, e per cogliere, per
cosi esprimerci, l'essenza giuridica di essi. Essa quindi costi tuisce un tutto
organico e coerente in tutte le sue parti, il cui svol. gimento può appunto
essere studiato, nei tre momenti essenziali, per cui passa l'organismo
famigliare, cioè: lº nella sua origine, ossia nella iustae nuptiae e negli
effetti giuridici che derivano da esse; 2 ° nel suo svolgimento, ossia nei
rapporti fra il capo di fami glia e le persone che ne dipendono; 3º e da ultimo
nel suo disciogliersi per la morte del proprio capo, scioglimento che dà
occasione alla successione ed alla tutela legittima, fondate sul vincolo
dell’agnazione. 405. Siccome poi in questa parte il diritto delle genti
patrizie riuscì a penetrare, pressochè intatto nel diritto civile romano, e ad
imporre a tutti i cittadini una organizzazione domestica, che era propria
soltanto di una minoranza, e che per giunta era una so pravvivenza di un
periodo anteriore di convivenza sociale; cosi, in tema di diritto famigliare,
venne a farsi manifesto,meglio che altrove, il conflitto fra le istituzioni,
che riuscirono a penetrare nel diritto quiritario, e quelle invece, che
continuarono a vivere nel costume. Questo conflitto, che può scorgersi in ogni
parte del diritto fami gliare, è sopratutto evidente nella lotta fra il
matrimonio cum manu Cic., De officiis,
I, 17, 54. 522 e quello sine manu; in quella fra l'agnazione e la cognazione; e
in quella fra la successione e tutela legittima e la successione e tutela
testamentaria; e più tardi anche nella lotta fra l'hereditas e la bonorum
possessio. Sono queste lotte, che danno interesse allo svolgimento storico
delle istituzioni famigliari, spiegano le modifica zioni lente e graduate che
si introdussero nelle medesime, e dimo strano come anche in questa parte, alla
parte del diritto già formato e consolidato, se ne contrapponga costantemente
un'altra, che tro vasi in via di formazione, e che tenta di temperare il rigore
delle primitive istituzioni quiritarie. Le iustae nuptiae e la storia primitiva
del matrimonio quiritario. 406. Anche nella parte, che si riferisce al
matrimonio romano, gli ultimi studii conducono al risultato, che il medesimo,
al pari della proprietà e del negozio giuridico, dovette incominciare da un
concetto tipico, che è quello del matrimonio cum manu. Non è già che in Roma
primitiva non potessero esistere altre forme più umili di matrimonio,
sopratutto nelle costumanze della plebe; ma il ius quiritium non si curò
dapprima delle medesime, e non riconobbe gli effetti quiritarii, che al
matrimonio cum manu. Che anzi vi sono forti indizii per supporre, che l'unica
forma solenne, per contrarre il matrimonio quiritario, stata riconosciuta
finchè duro la città esclusivamente patrizia, fu quella accompagnata dalla
cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale importava fra i coniugi la
comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in parte Questa è la conseguenza, a cui giunse fra gli
altri l'Esmein, nel suo scritto: La manus, la paternité et le divorce dans
l'ancien droit romain, nei Mélanges
d'histoire du droit , Paris 1886, 6. Una prova poi di quest'antico diritto
l'abbiamo in questo, che la moglie, in questo primo periodo, chiamavasi
materfami lias, e tale nell'antico diritto era soltanto la moglie, quae in manu
'convenerat. Sono testuali in proposito le affermazioni di CICERONE, Top., il
quale scrive: genus est enim wor; eius
duae formae: una matrumfamilias, earum quae in manum convenerunt, altera earum,
quae tantummodo uxores habentur . La cosa poi è confermata da Gellio, XVIII, 6,
9, ove dice: matremfamilias appellatam
eam solam, quae in maritimanu mancipioque erat , e da Nonio MARCELLO nel passo
riportato dal BRUNS, Fontes, 390. Sopratutto è degno di nota, che l'espres
sione di materfamilias è pur quella adoperata nella formola dell'adrogatio,
conser vataci dallo stesso Gellio, V, 19, 9. Cfr. in proposito KARLOWA, Formen
den rö mischen Ehe und manus, 71, e il Brini, Op. cit., 37. 523 comprovato
dalla circostanza, che le leggi regie, ogniqualvolta ac cennano al matrimonio,
si riferiscono in modo espresso al matri monio per confarreationem. Così, per
esempio, Dionisio attribuisce a Romolo di aver richiamato alla pudicizia le
donne romane, rico noscendo questa sola forma di matrimonio, e parla anche di
una legge attribuita a Numa, con cui sarebbesi stabilito, che il figlio, il
quale fosse addivenuto alle nozze confarreate col consenso del ge nitore, non
potesse più essere venduto dal medesimo. Tutto ciò significa, che le genti
patrizie, fondatrici della città, presero senz'altro le mosse da una forma di
matrimonio, che pree • sisteva nel periodo gentilizio, e che il loro matrimonio
continud nella città a celebrarsi con una certa solennità religiosa e
patriarcale; come lo dimostrano l'intervento del pontefice e del flamine di
Giove, la cerimonia simbolica per cui i coniugi gustano insieme il pane di
farro, ed anche la presenza dei dieci testimonii, in cui si vollero ravvisare i
rappresentanti delle curie, in cui dividevasi la tribù, a cui appartenevano gli
sposi. Non pud poi esservi dubbio intorno al l'altissimo concetto, che queste
genti patrizie avevano del matrimonio, il quale, oltre all'essere strettamente
monogamo, importava l'unione perpetua de' coniugi, e la comunione fra essi
delle cose divine ed umane (divini et humani iuris comunicatio). Che anzi, a
questo proposito, sembra pure essere probabile, che questa forma primitiva di
matrimonio non potesse dapprima dar luogo al divortium, ma soltanto al repudium,
il quale doveva essere accompagnato dalla cerimonia religiosa della
diffarreatio, e poteva solo aver luogo nei casi, che erano determinati dal
costume e dalla legge. Cosi pure è a questo primitivo concetto del matrimonio
presso le genti pa trizie, che deve rannodarsi quel disprezzo per la donna che
passi a seconde nozze, di cui trovansi ancora le traccie nel diritto poste
riore di Roma (3 ). Ad ogni modo egli è certo, che questa forma di matrimonio,
in Dion., II, 25 e 27. V. sopra lib. II,
nº 268, 329 Cid sarebbe attestato da PLUTARCO, nella Vita di Romolo, 22, in un
passo, che è riportato dal Bruns, Fontes, 6. Una prova poi, che il matrimonio
per confar reationem doveva durare tutta la vita, si rinvien lle attestazioni
di Gellio, X, 15, 23, e di Festo, vº Flammeo, dalle quali risulta, che alla
moglie del flamine di Giove, le cui nuptiae farreatae erano un ricordo del
matrimonio primitivo, non era consentito il divorzio. Cfr. Esmein, Op. cit., 17.
È a consultarsi in proposito il dotto
lavoro del DELVECCHIO, Le seconde noeze del coniuge superstite, Firenze 1885, 12
a 15. 524 cui apparisce quel carattere eminentemente religioso, che è proprio
delle genti patrizie, non poteva appartenere alla plebe. Per questa il
matrimonio dovette avere più un'esistenza di fatto, che una con. sacrazione di
diritto, e consistere in una unione fondata sul reci proco consenso, fatta
manifesta mediante la coabitazione dei coniugi, piuttosto che con cerimonie di
carattere giuridico e religioso ad un tempo. 407. Era frammezzo a queste due
istituzioni, di carattere compiu tamente diverso, di cui una era forse
importata dall'antico Oriente, mentre l'altra si ispirava alle tendenze
spontanee dell'umana natura, che dovette formarsi un diritto comune alle due
classi. Questo fu il problema, che dovette risolvere la legislazione
decemvirale, e la cui difficoltà era tanto più grande, in quanto è probabile,
che le classi più infime della plebe stentassero a comprendere un matri monio,
come quello cum manu, che costituiva la moglie in condi zione di figlia del
proprio marito. Questo potere del marito, il quale, corretto dal patriarcale
costume, conduceva all'unificazione della fa miglia patrizia, poteva invece
cambiarsi in un dispotismo pericoloso, allorchè fosse esteso a classi sociali,
che non vi fossero preparate da una lunga educazione civile. È questa speciale
condizione di cose, che spiega i singolari tem peramenti, che a questo
proposito furono adottati dalla legislazione decemvirale. In questa infatti i
decemviri, mentre da una parte si studiano di fornire alla plebe un facile
mezzo per addivenire allo acquisto della manus, e di dar cosi carattere
giuridico al proprio matrimonio, collo stabilire che basti perciò la
coabitazione di un anno (usus), dall'altra si trovano nella necessità di aprire
l'adito ad un matrimonio sine manu, accordando alla donna il mezzo di sottrarsi
alla manus, coll'interrompere la coabitazione per tre notti di seguito
(trinoctium ). 408. Colla legislazione decemvirale non sembra essersi andato
più oltre nella elaborazione di un diritto comune ai due ordini; poiché In base all'attestazione di Gaio, I, 111,
l'usus, qual mezzo di acquisto della manus, non fu che un'applicazione della
teoria dell'usucapione: la donna poi, che avesse voluto sottrarvisi, doveva
ogni anno interrompere la coabitazione per tre notti di seguito. Questa parte
della legge sarebbe dal Voigt, XII Tafeln, I, 708, assegnata al n° 1', tav. IV,
e ricostrutta nei seguenti termini: si
qua nollet in manu mariti convenire, quotannis trinoctio usum interficito . -
525 sussisteva ancora il divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe.
Quando invece il divieto fu tolto dalla legge Canuleia, si dovette sentire la
necessità di introdurre un modo essenzialmente quiritario per l'acquisto della
manus, che poteva essere comune al patriziato ed alla plebe. Fu allora, che si
ebbe ricorso a quell'atto per aes et libram, che era la forma solenne propria
del negozio quiritario, e si diede cosi origine alla coemptio, quale modo di
acquistare la manus. Non potrei quindi ammettere l'opinione, che considera la
coemptio, come la forma essenzialmente plebea del matrimonio cum manu, e neppur
quella, che ravvisa nella medesima una compra della moglie per parte del marito.
La coemptio in Roma non fu che un'applicazione dell'atto quiritario per
eccellenza, che era l'atto per aes et libram, e venne cosi ad essere un
espediente giuridico per esprimere l'acquisto di quel potere del marito sulla
moglie, che nel ius quiritium era indicato col vocabolo generico di manus . La questione della precedenza dei varii modi
riconosciuti dal diritto romano per l'acquisto della manus fu assai discussa in
questi ultimi tempi. Secondo il Mac LENNAN, Primitive marriage, 2me édit.,
1876, 71,avrebbe preceduto l'usus, poscia sarebbesi introdotta la coemptio, e
da ultimo sarebbe venuta la confarreatio. Anche secondo il BERNHÖFT, Staat und
Recht der römischen Konigszeit, 1882, 187, l'usus sarebbe più antico della
coemptio: mentre invece quest'ultima, secondo il Karlowa, Formen der römischen
Ehe und manus, 59, avrebbe avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la
questione conviene bene intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di
contrarre il matrimonio presso le primitive genti italiche, e in allora non
ripugna, che anche presso le medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia
comprata; o si vuol invece determinare l'ordine, in cui queste varie forme
penetrarono nel diritto romano, e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del
primitivo diritto romano possano ancora richiamare uno stato ante riore di
cose, si può però affermare con certezza, che le varie forme di matrimonio,
adottate dal diritto romano, sono già il frutto di una vera e propria
elaborazione giuridica. Quanto all'ordine cronologico, con cui queste varie
forme furono accolte, esso non potè essere che il seguente, cioè dapprima fa
accolta nel ius proprium civium romanorum la confarreatio dei patres o patricii;
poscia fu riconosciuto l'usus di un anno per dar carattere giuridico alle
unioni della plebe; da ultimo, quando si comunicarono i connubii, comparve
anche la coemptio, la quale fu comune ai due ordini, e come tale finì per avere
la prevalenza su tutti gli altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN, Op.
cit., 8 e 9. Non posso quindi accogliere
l'opinione sostenuta da molti autori, che la coemptio fosse di origine plebea,
e che essa implicasse la compra della moglie per parte del marito. Cfr.
SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano; Voigt, XII, Tafeln, II, $ 159; BRINI,
Matrimonio e divorzio, 50. La coemptio non fu invece, che una nuova
applicazione dell'atto per aes et libram, e perciò deve ritenersi come una
creazione del diritto quiritario, nell'intento di attri 526 Essa quindi, al
pari di ogni atto quiritario, componevasi di due parti, cioè: lº dell'atto per
aes et libram, compiuto colle solite formalità ed inteso ad esprimere
l'acquisto della manus per parte del marito; 20 e della nuncupatio solenne, le
cui parole non ci sono perve nute, ma la cui sostanza, secondo Servio e Boezio,
consisteva in una reciproca interrogazione, con cui lo sposo interrogava la
sposa se volesse assumere a suo riguardo la qualità di madre di famiglia, e
questa interrogava lo sposo se volesse assumere quella di padre di famiglia.
Ciò intanto ci spiega, come la coemptio, sotto un aspetto, abbia potuto essere
descritta da Gaio come una compra fittizia della moglie per parte del marito, e
sotto un altro invece colla sua stessa denominazione sembri indicare il
reciproco consenso degli sposi nel riconoscersi rispettivamente la qualità di
padre e di madre di famiglia (invicem se coemebant). È poi probabile, che, come
il vocabolo di coemptio è certamente modellato su quello di confarreatio, cosi
anche le parole solenni, che accompagnavano la coemptio, fossero una imitazione
di quelle, che erano adoperate nella confarreatio, esclusi però i riti
religiosi, che accompagnavano quest'ultima. 409. Questo svolgimento storico
deimodi, riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre il matrimonio cum
manu, lascia abbastanza buire la manus al marito, e di attribuire carattere
giuridico al matrimonio romano. In esso quindi è già scomparsa qualsiasi idea
di vendita della figlia, sebbene non sia improbabile, che il vocabolo possa
ancora ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie fosse effettivamente
comprata. Cfr. MUIRHEAD, Op. cit., 65, e sopratutto l'appendice sulla coemptio
in fine al volume, nota B, 441. Che l'essenza della coemptio fosse per dir così
simboleggiata in un reciproco acquisto, che facevano i due sposi, non è solo
comprovato dal vocabolo, ma è atte stato da Servio, in Aen., IV, 103 (Bruns,
pag.402), allorchè dice: Mulier atque
vir inter se quasi coemptionem faciunt; da Nonio MARCELLO, vº nubentes (Bruns);
da Isidoro, Orig., $ 24, 26 (Bruns, 407); e sopratutto da Boazio nei commenti
alla Top. di Cic., dove, appoggiandosi all'autorità di Ulpiano, dice che il
marito e la moglie sese in coemendo
invicem interrogabant (BRUNS, 399). Solo
farebbe eccezione Gaio, I, 113, il quale dice, che nell'atto per aes et libram is emit mulierem, cuius in manum convenit ; ma
la cosa si comprende, quando si tenga conto che la coemptio componevasi di due
parti, e quindi se nel l'atto per aes et libram doveva certo figurare come
compratore il marito, che acqui stava la manus, nulla impedisce, che nella
nuncupatio gli sposi apparissero uguali, e reciprocamente si interrogassero se
volessero assumere rispettivamente fra di loro la qualità di pater e di
materfamilias, V. in senso contrario BRINI, Op. cit., 51. 527 scorgere il
contributo diverso, che vi arrecarono il patriziato e la plebe. Non vi ha
dubbio anzitutto, che la confarreatio dovette essere di origine patrizia, come
lo dimostrano il suo carattere eminente mente religioso, e l'origine di essa,
che rimonta ad un'epoca ante riore all'ammessione della plebe alla cittadinanza
romana. Che anzi, egli è probabile, che, anche dopo, la confarreatio abbia
continuato ad essere usata di preferenza dalle genti originariamente patrizie,
come lo dimostra il fatto, che essa continud a sussistere anche sotto gli
imperatori, sopratutto per considerazioni di carattere religioso. Noi sappiamo
infatti, che i figli nati da tale matrimonio conserva rono più tardi certi
privilegii religiosi, che convengono assai bene ai discendenti dell'antico
patriziato. Essi soli infatti erano ammessi a certi sacerdozii; soli potevano
figurare in certe cerimonie reli giose, ed erano anche indicati coi nomi
speciali di patrimi e di matrimi. Così pure il matrimonio per confarreationem
era il solo, a cui potessero addivenire i flamini di Giove, di Marte e di Qui
rino, i quali negli inizii dovevano appartenere all'ordine patrizio. Per contro
può affermarsi con una certa probabilità, che l'usus, ossia la coabitazione non
interrotta per un anno, qual mezzo per fare acquistare la manus, non potè
essere che un mezzo per tras formare i matrimonii di fatto, proprii della plebe,
in matrimonii di diritto, che come tali erano produttivi della manus. Ciò
spiega come l'usus, quanto aimatrimonii, abbia potuto produrre lo stesso
effetto dell'usucapio, quanto all'acquisto della proprietà ex iure quiritium, e
come i decemviri abbiano applicato la stessa regola in argomenti, che pur erano
cosi compiutamente diversi . Da ultimo la coemptio vuol essere considerata come
il modo di contrarre il matrimonio cum manu, essenzialmente proprio dei
quiriti, e come tale dovette essere introdotto, quando già erano permessi i
connubii fra patrizii e plebei, cosicchè essa, fin dalle sue origini, dovette
essere comune agli uni ed agli altri. Noi troviamo Gaio, I, 112. Nel passo già citato di Boezio,
in cui egli parla delle varie forme di matrimonio, fondandosi sull'autorità di
Ulpiano (Bruns, 399), si dice espressamente che confarreatio solis pontificibus conveniebat .
Cfr. Esmein, Op. cit., 7, nota 1. La
ragione fu questa, che tanto l'usucapio, applicata alle cose, quanto l'usus,
qual mezzo per acquistare la manus, si proposero il medesimo'intento, quello
cioè di cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto. 528
infatti, che la coemptio viene ad essere la forma dimatrimonio, che incontra
maggior favore presso le varie classi dei cittadini; cosicchè, nei rapporti di
famiglia, essa sembra compiere quella funzione stessa, che compie la mancipatio
nel trasferimento della proprietà quiritaria. Quindi al modo stesso, che
accanto alla mancipatio effettiva abbiamo visto svolgersi la mancipatio cum
fiducia, così accanto alla coemptio effettiva, che sottoponeva la moglie alla
manus del marito, vediamo pure svolgersi quel singolare istituto della coemptio
fiduciaria, la quale serve come espediente per sottrarre la donna alla tutela
degli agnati, e per metterla in condizione di poter fare testamento. Intanto
perd la coemptio dovette avere per effetto di attribuire un carattere
essenzialmente civile almatrimonio, che nella confar reatio aveva un carattere
eminentemente religioso. Quindi viene ad essere probabile, che colla
introduzione di essa anche il matrimonio cum manu abbia cominciato ad essere
suscettivo del divorzio, il che non sarebbe consentaneo col carattere religioso
della confarreatio. Nella coemptio infatti la manus viene ad essere l'effetto
di un con tratto, e perciò può essere risolta nel modo stesso, in cui ebbe ad
essere acquistata, cioè mediante la remancipatio . 410. Intanto il carattere e
l'origine diversa dei varii modi per contrarre il matrimonio cum manu, pud
anche spiegare le sorti GAIO, I, 114 a
116. GAIO, I, 115 e 137. Se siammette
che il matrimonio primitivo per confarreatio nem non consentisse il divorzio, è
un grave problema quello di spiegare, come il mede simo abbia potuto essere
introdotto anche nel matrimonio cum manu, e persino essere esteso al matrimonio
per confarreationem, il quale doveva però ancor sempre essere accompagnato
dalla diffarreatio. V. Festus, pº diffarreatio; Bruns, 336. Alcuni ritengono,
che il divortium abbia cominciato a svolgersi nel matrimonio sine manu, e poi
da questo siasi anche esteso a quello cum manu (Cfr. Esmein, Op. cit., 23 e
segg.); ma non parmi probabile un'imitazione di questa natura. Piuttosto il
cambiamento venne a farsi, allorchè, accanto al matrimonio religioso per confar
reationem, venne a svolgersi il matrimonio civile per coemptionem. Fa in quella
occasione, che al rito religioso sottentrò l'idea del contratto, la quale rese
applica bile il divortium, anche al matrimonio cum manu. L'applicabilità poi di
questo divortium anche al matrimonio cum manu, e precisamente a quello
contratto per coemptionem, parmi che non possa essere posta in dubbio di fronte
al passo di Gaio,. I, 137, ove, paragonando la moglie ad una figlia di famiglia,
dopo aver detto che la figlia non può costringere il padre ad emanciparla,
aggiunge quanto alla moglie: haec autem
(virum ), repudio misso, proinde compellere potest, atque si ei nun quam nupta
fuisset . 529 diyerse, che ciascuno di essi ebbe nell'ulteriore svolgimento del
diritto civile romano. Noi sappiamo infatti, che l'usus, fra i modi di
acquistare la manus, fu il primo a scomparire, poichè secondo Gaio hoc ius partim legibus sublatum est, partim
ipsa desuetudine obliteratum est. Esso infatti era stato un espediente per dar
carattere quiritario ai matrimonii della plebe, che prima non l'avevano, e
quindi si com prende che le leggi e il costume tendessero ad abolirlo,
allorchè, mediante la coemptio, anche la plebe venne ad avere un mezzo di retto
per acquistare la manus. La confarreatio invece, colla introduzione della coemptio,
venne ad essere più circoscritta nel proprio uso, ma intanto fu quella, che
ebbe a perdurare più lungamente; provenisse ciò dalla tenacità con servatrice,
che era propria delle genti patrizie, o da considerazioni di carattere
religioso. Questo è certo, che Gaio parla della confar reatio, come di
cerimonia che era in uso ancora ai suoi tempi; poichè i flamini maggiori e il
rex sacrorum dovevano esser nati da nozze confarreate, e non potevano contrarre
altrimenti il proprio matrimonio. Noi sappiamo tuttavia da Tacito, che il
mantenere questa antica tradizione ebbe talvolta a dar luogo a difficoltà, per
trovare le persone, che potessero essere elevate alla dignità di fla mini, il
che sarebbe appunto accaduto al tempo di Tiberio, e che le matrone ottennero in
quell'occasione dal senato, che il matri monio per confarreationem non dovesse
più produrre gli effetti di un tempo, sopratutto quanto ai diritti del marito
sui beni della moglie Infine la coemptio
diventò senz'alcun dubbio il modo più frequente per contrarre il matrimonio cum
manu, e non scomparve che cessare di questa forma di matrimonio; cessazione,
che venne ope randosi verso il finire dell'epoca repubblicana, più nel costume
che per opera di legge, stante la prevalenza sempre maggiore, che venne
acquistando il matrimonio sine manu (3 ). Gaio, I, 111. GAIO, I, 36; Tacito, Ann. IV, 6. (3 ) La
laudatio Thuriae scritta dal marito, Q. Lucrezio Vespillone, console nel 735 di
Roma, riportata dal BRUNS, dimostra che verso il finire della Repubblica il
matrimonio sine manu già cominciava a praticarsi anche nelle grandi famiglie.
Tuttavia il fare un elogio speciale di Turia per aver fatto a meno della
conventio in manu, a differenza della sua sorella, e per avere, malgrado di ciò,
lasciato il suo patrimonio all'amministrazione del marito, dimostra che un
fatto (Un autore recente, il Bernhöft, ebbe a considerare l'esten dersi e il
prevalere del matrimonio sine manu, come un segno di decadenza del primitivo costume
di Roma . A me parrebbe invece, che questa importantissima trasformazione
dell'ordinamento giuridico della famiglia romana, debba essere considerata come
una conse guenza necessaria dello svolgimento della vita cittadina, che veniva
a poco a poco cancellando le vestigia dell'anteriore organizzazione
patriarcale. È ovvio infatti lo scorgere, che la manus, mentre era una istituzione
confacente all'organizzazione gentilizia, perchè da una parte serviva ad
unificare la famiglia, e dall'altra era temperata dal patriarcale costume,
trapiantata invece nella città, ove le famiglie vivevano isolate le une dalle
altre, poteva essere sorgente di gravi pericoli, sopratutto nelle infime classi
della plebe, poichè lasciava la moglie priva di qualsiasi difesa, contro il
potere dispotico del proprio marito. Fu questo il motivo, per cui i decemviri,
i quali pur miravano, come si è veduto, ad estendere a tutte le classi dei
cittadini l'or. ganizzazione patriarcale della famiglia patrizia, si trovarono
tuttavia nella necessità di lasciar l'adito aperto ad un matrimonio sine manu,
dando alle donne il singolare diritto di interrompere l'usus, collo assentarsi
dalla casa maritale per tre notti di seguito. Fu poi una conseguenza di questo
provvedimento, che in ogni tempo in Roma, accanto al vero matrimonio ex iure
quiritium, venne ad esistere di fatto un matrimonio sine manu, che non
producera le conse guenze rigide del matrimonio cum manu. Il diritto civile non
si preoccupo dapprima di questa forma più umile di matrimonio, e quindi esso si
limitò a svolgersi come un matrimonio di fatto, di fronte al vero matrimonio ex
iure quiritium, che era il matri monio cum manu. Giunse però un tempo, in cui
lo svolgersi della vita cittadina finì per rendere grave il vincolo della
manus, anche per le donne, che appartenevano alle classi sociali più elevate, e
fu in allora che il matrimonio sine manu cominciò ad entrare nella pratica
comune, e dovette essere preso in considerazione anche dal diritto proprio dei
quiriti. Tutto ciò però accadde lentamente e gra datamente, per modo che lo
svolgimento del matrimonio sinemanu, simile costituiva ancora a quei tempi una
eccezione degna di nota nelle famiglie di condizione elevata. Cfr. De-Rossi,
L'elogio funebre di Turia, negli Studii
e do cumenti di storia e diritto . Roma, BERNHöft, Op. cit., 179. Cfr. Voigt,
XII Tafeln, di fronte a quello cum manu, presenta una singolare analogia collo
svolgersi della proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex iure quiritium.
Quindi al modo stesso, che la proprietà in bonis:i venne a poco a poco
modellando su quella ex iure quiritium, così anche il matrimonio sine manu
venne delineandosi lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo che
esso fini per assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico, che
ispirava il primitivo matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio
cum manu. Quindi è, che nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80
lennità dirette all'acquisto della manus, ma si mantiene la neces sità della
deductio della sposa in domum mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la
casa del padre per entrare in quella del marito, la quale continua sempre a
considerarsi come il domicilium matrimonii. Così pure anche nel matrimonio
sinemanu si trasfonde il concetto altissimo del matrimonio cum manu, come lo
dimostrano la maritalis affectio, e la perpetua vitae consuetudo, di cui
parlano i giureconsulti classici nella definizione del matrimonio, al lorchè
era già scomparsa la manus. 412. Cid pero non impedisce, che dalla sostituzione
delmatrimonio sine manu a quello cum manu, siano derivati degli importantissimi
effetti nell'ordinamento giuridico della famiglia romana, che possono essere
cosi riassunti: lº Accanto al concetto della materfamilias, che era in certo
modo assorbita nella personalità del capo di famiglia, viene a deli nearsi la
figura dell'uxor, la quale, senza essere uguale al marito (vir ), comincia però
già ad avere una propria personalità giuridica, distinta da quella del marito;
2 ° La pratica del divorzio viene ad essere più facile, poichè, più non
essendovi l'acquisto della manus, più non si dovette richie Credo che questa analogia fra il processo
seguito dai Romani nello svolgere il diritto di famiglia e quello di proprietà
non apparirà come puramente fantastica, quando si tenga conto della
correlazione evidente fra il concetto dei matrimonii cum manu e sine manu coi
concetti del mancipium e del nec mancipium, e più tardi con quelli del dominium
ex iure quiritium e di quello in bonis; fra la fun zione, che compie la
mancipatio, in tema di proprietà, e quella che compie la coemptio, in tema
dimatrimonio; tra la mancipatio cum fiducia e la coemptio fidu ciae causa; e
infine la correlazione anche più singolare fra l'usus auctoritas, appli cato
all'acquisto dei fondi, e l'usus, applicato all'acquisto della manus sulla
moglie. 532 - dere per il divorzio, nè la diffarreatio, nè la remancipatio, ma
poté bastare il reciproco consenso del marito e della moglie; 3° Sopratutto poi
ebbe ad avverarsi un grave cambiamento nella posizione economica della moglie
di fronte al marito. Senza affermare infatti, che l'istituto della dote sia
veramente sorto col matrimonio sine manu, questo è certo, che la dote, qual
concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio, non potè svolgersi che
col matrimonio sine manu; poichè un simile concorso non avrebbe potuto
avverarsi di fronte a quell'unificazione potente, che veniva ad essere
l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la dote, anche col
matrimonio sine manu, abbia cominciato dal di ventare proprietà del marito, e
siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o i suoi eredi fossero
tenuti a restituirla. Non potrei invece ammettere, che il matrimonio sine manu
debba considerarsi come una causa della decadenza della corruzione del costume
romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine manu, quale ebbe ad
esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale più elevato dello
stesso matrimonio cum manu. In questo infatti l'unità della famiglia veniva ad
essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la comunione delle
cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero accordo e della con
fidenza reciproca. Non fu quindi il matrimonio sine manu, che O per Sonovi autori, che vorrebbero rannodare
l'origine dell'istituto della dote al matrimonio sine manu, V. fra gli altri
PADELLETT, e Cogliolo, Saggi di evoluzione, 33. A questo proposito conviene
intenderci. O per dote si intende cid che la moglie o il padre di lei consegna
al marito in occa sione del matrimonio, e la dote in questo senso dovette
rimontare anche all'epoca del matrimonio cum manu, come lo dimostra l'esistenza
di un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae dotis. Cfr. Voigt, XII
Tafeln, II, 486. dote si intende invece l'istituto già svolto, per modo che
essa venga ad apparire come il concorso della moglie a sostenere i pesi del
matrimonio ed attribuisca alla moglie una personalità distinta da quella del
marito, e questa non potè svolgersi col ma trimonio sine manu, perchè in quello
cum manu lo svolgimento dell'istituto era impedito dall'unificazione potente
della famiglia e del suo patrimonio nella persona del proprio capo. Intanto ciò
spiega la necessità di apposite stipulazioni, per la resti tuzione della dote,
intorno alle quali è da vedersi GELLIO, IV, 3, il quale dice, che la
opportunità di esse avrebbe cominciato a sentirsi dopo il divorzio di Spurio
Carvilio Ruga, seguito nel 523 dalla fondazione di Roma. Cfr. in proposito quanto scrive il Labbé
nell'articolo intitolato: Du mariage romain et de la manus, nella Nouvelle Revue historique corruppe il costume, ma fu piuttosto il
costume che abbassò l'altis. simo concetto del matrimonio. $ 3. — Il pater
familias e i poteri al medesimo spettanti. 413. Fermo il concetto, che in Roma
primitiva la famiglia, sotto il punto di vista giuridico, costituisce un tutto
organico, separato da ogni altro ed ordinato sotto il potere del proprio capo,
sarà facile il comprendere come la logica quiritaria non scorgesse nella mede
sima che un capo, il quale comanda, ed un complesso di persone, le quali
debbono obbedire. Da una parte havvi il pater familias, che è l'unica
personalità giuridica riconosciuta dal primitivo ius qui ritium: dall'altra
sonvi le persone, che dipendono da esso, cioè la moglie, i figli ed i servi,
che in antico dovettero tutte essere sot toposte alla medesima manus, e furono
perfino indicate col vocabolo generico e comprensivo di familia od anche
dimancipium. Il padre è quegli, che è padrone nella casa, che figura nel censo
colle persone e cose che da lui dipendono, che risponde di tutti i suoi
dipendenti di fronte alla comunanza quiritaria; perciò i diritti, che a lui
spet tano sulle persone componenti la famiglia, sono modellati in tutto e per
tutto su quelli, che a lui appartengono sul patrimonio della medesima. Ciò
tuttavia non deve essere considerato come un indizio, che i romani
confondessero il potere sulle persone col potere sulle cose; ma soltanto che
essi, nel modellare la costruzione giuridica della famiglia, si collocarono al
punto di vista del mio e del tuo, e una volta accolto il medesimo lo spinsero a
tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Intanto se nella concezione
primitiva era unico il potere spettante al capo di famiglia sulla moglie, sui
figli e sui servi, viene pure ad essere probabile, che questo potere sia stato
indicato con un unico vocabolo, il quale con tutta verosimiglianza dovette
essere quello di manus, la quale designava in genere la potestà giuridica spet
tante al quirite. Fu poi nell'elaborazione ulteriore, che in questo L'autore, che ha recato incontestabilmente il
maggior numero di prove per dimostrare, che il vocabolo di manus indicò in
genere la potestà giuridica, spettante al capo di famiglia, è certamente il
Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80. Cid però non toglie che il vocabolo di manus,
pur indicando in senso largo la potestà spettante anche sulle cose, designasse
in modo più specifico il potere sulle persone, e fosse così pres sochè un
sinonimo di potestas. 534 concetto sintetico e comprensivo cominciò ad apparire
una prima distinzione, per cui mentre il vocabolo di manus, pur conservando in
qualche caso la sua significazione generica, fini per indicare più specialmente
il potere del marito sulla moglie, quello invece di po testas indico di
preferenza il potere del padre sui figli e sui servi, e venne cosi a
distinguersi in patria ed in dominica potestas. Quanto al vocabolo mancipium,
esso non scomparve, ma fini per restringersi ad indicare il complesso delle
cose spettanti al capo di famiglia, e qualche volta servi ad indicare il
complesso dei servi. Infine, siccome anche le persone libere potevano essere
date a mancipio, ed essere poste così transitoriamente in condizione di servitù;
cosi dovette pure aggiungersi la categoria giuridica delle persone quae in mancipii causa sunt e che come tali servo rum loco habentur.” Allorchè poi questi
aspetti diversi di un unico potere si furono differenziati gli uni dagli altri,
ciascuno potè obbedire al proprio concetto ispiratore, e ricevere cosi uno
svolgimento storico compiutamente diverso. Di questi poteri, quello, che per il
primo ebbe a sostenere un rude conflitto colle esigenze della vita cittadina,
fu la manus, ossia il potere del marito sulla moglie. Sopravvivenza
dell'organizzazione patriarcale, la manus appariva disadatta nella città, ove
non era più temperata dal patriarcale costume, e convertivasi in un potere
dispotico del marito sulla moglie. Se a ciò si aggiunga, che le donne, le quali
avevano da sottomettersi alla manus, dovevano prima consentirvi, e avevano per
giunta la protezione dei proprii genitori, sarà facile il comprendere come la
conventio in manu, dopo essere stata la regola, sia divenuta l'eccezione,
finchè fini per cadere com piutamente in disuso. Con ciò non deve già
intendersi, che il marito perdesse ogni autorità sulla propria moglie, ma solo
che la moglie non fu più assorbita nella personalità del capo di famiglia, ma Secondo Gaio, I, 52 e 55, il vocabolo di
potestas comprenderebbe tanto il potere sui servi, quanto quello sui figli;
quello di manus, invece il potere del ma rito sulla moglie (I, 109). Quando
esso viene poi a parlare delle personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e segg.,
comincia dal premettere, che anche i figli e la moglie mancipari possunt nel
modo stesso, in cui lo possono i servi: il che dimostre rebbe, che il vocabolo
di mancipium,nella sua significazione più larga, comprendeva eziandio tutte le
persone soggette alla potestà del padre. Quanto alle persone, quae in causa
mancipii sunt, vedi lo stesso Gaio, I, 138. 535 acquistò una certa indipendenza
dal proprio marito, sopratutto sotto l'aspetto economico. 415. Così invece non
accadde della patria potestas. Questa non ha più bisogno di essere
volontariamente accettata, come la manus, ma deve invece essere necessariamente
subita, e sotto un certo aspetto può anche apparire come una conseguenza del
fatto della nascita. Mancò quindi il principale motivo, che contribuì alla abo
lizione della manus del marito sulla moglie: donde la conseguenza, che la
patria potestà potè più a lungo conservare nel diritto romano le sue fattezze
primitive, e fu quindi un'istituzione, in cui la logica quiritaria ebbe campo a
spiegarsi in tutto il suo rigore. Il padre dal punto di vista giuridico si
appropria tutti gli acquisti, che siano fatti dai figli; pud vendere ed anche
uccidere i proprii figli; può rivendicarli, se gli siano sottratti; può dargli
a mancipio, se abbiano recato un danno, che egli non voglia risarcire. È però a
notarsi, che anche in questa parte la costruzione giuridica non risponde sempre
alla realtà dei fatti; poichè in sostanza i figli si ritengono compro prietarii
del padre, nè mostrano di lagnarsi di un potere, a cui il costume reca gli
opportuni temperamenti, e che loro non impedisce di aspirare e di giungere agli
onori e alle magistrature della città. Anche qui fu il corrompersi dei costumi,
che fece sentire il peri colo di un potere illimitato e senza confine, e fu
allora, che il di ritto civile romano, pur serbando integro il concetto della
patria potestà, venne attribuendo forma e carattere giuridico a quei tem
peramenti della medesima, che prima esistevano soltanto nel costume. Fu in
questa guisa, che il diritto romano, senza derogare alla supe riorità del
padre, fini per riconoscere una certa personalità giuridica anche al figlio, il
quale venne così ad avere un proprio caput, e un proprio status nel seno della
famiglia, ed introdusse eziandio dei temperamenti, sia quanto alla durata, che
quanto agli effetti della patria potestà. 418. Noi troviamo infatti, che,
mentre la patria potestà continud a durare per tutta la vita, venne formandosi
l'istituto dell'emancipa zione, in cui si assiste ad una singolare
trasformazione, per cui il potere, che al padre appartiene, di vendere il
proprio figlio, viene a V. in proposito
il precedente $ nella parte relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di
quello sine manu, nn. 411 e 412, 530. Cfr. Voigt, Op. cit., II, SS 93 e 94. 536
convertirsi in un espediente per liberarlo dalla patria potestà. Anche qui
abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia dell'atto per aes et
libram, salvo che, in base alla letterale interpretazione delle XII Tavole, per
l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man cipazioni, mentre,
trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice mancipatio. Ed è notabile
eziandio, che questa emancipazione, pur attribuendo al figlio una libertà ed
indipendenza, che prima non aveva, continua pur sempre ad essere considerata
come una capitis diminutio; poichè sotto il punto di vista giuridico,
l'emancipato cessa di appartenere a quel gruppo famigliare, da cui esce
mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere quello status, che a lui ap
parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il rigore del diritto primitivo si
spinge fino al punto da escludere l'emancipato dalla successione per legge alla
morte del padre, e toccherà poi al diritto pretorio il cercare con mezzi
indiretti di ovviare a queste conse guenze, le quali, pur essendo conformi alla
logica giuridica, ripu gnano però ai naturali sentimenti ed affetti . Cosi
pure, mentre si mantiene sempre il concetto primitivo, che tutti gli acquisti
del figlio debbono sotto l'aspetto giuridico essere at tribuiti al padre, si
viene a poco a poco attribuendo carattere giu ridico all'istituzione dei
peculii. Non può infatti esservi dubbio, che i peculii già dovevano preesistere
nel costume, almeno sotto la forma di peculium profecticium, che era quel
piccolo patrimonio, di cui il Gaio, I,
135. Si è molto disputato circa la ragione probabile delle tre man cipazioni,
che sono richieste per l'emancipazione del figlio. Alcuni vogliono scorgere in
ciò un indizio del più forte vincolo, con cui il figlio intendevasi congiunto
al proprio padre. A parer mio, sembra invece molto più probabile, che questa
triplice mancipazione richiesta per i figli sia stata, come dice Gaio, I, 132,
una conseguenza della letterale interpretazione data alla legge delle XII
Tavole, secondo cui si pater ter filium
venum duit, filius a patre liber esto . Per tal modo una disposizione, che era
evidentemente introdotta per impedire al padre di abusare della persona del suo
figlio,dandolo a mancipio più di tre volte, si cambiò in un mezzo per
emanciparlo. Negli altri casi invece, a cui non estendevasi la lettera di
questa disposizione, per trattarsi o di una figlia o di un nipote, potè bastare
una semplice mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le singolarità di
questo genere si possono facilmente spiegare, quando si tenga conto della lette
rale osservanza della legge, che era un carattere della primitiva iuris
interpretatio. Questa interpretazione del resto trova un appoggio in Dionisio. Vedi quanto all'emancipatio, in quanto
costituisce una capitis diminutio, ciò che si disse al nº 338, 424, nota 4.
Aggiungerò tuttavia agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit., II, $ 73,
presso il quale occorre una raccolta completa dei passi relativi all'argomento,
27 e 28, note 12, 13, 14. 537 padre concedeva una separata amministrazione al
figlio;ma ciò punto non impedi, che essi, solo assai tardi e
gradatamente,abbiano ottenuto il loro riconoscimento giuridico. Ed è notabile
eziandio l'ordine e il processo, con cui vennesi operando tale riconoscimento,
poichè si comincið dall' attribuire al figlio i guadagni, che egli avesse fatti
servendo nella milizia (peculium castrense ); poi si assomigliarono ai lucri,
da lui fatti in guerra, quelli fatti nell'esercizio delle pro fessioni liberali
(peculium quasi castrense); da ultimo si presero in considerazione tutti quegli
acquisti, che a lui fossero provenuti dagli ascendenti materni o in qualsiasi
altra guisa (bona adventicia ). Intanto, mentre si modellavano così le varie
specie di peculii, si introduceva ad un tempo una sapiente ed acconcia
graduazione per determinare a queste proposito i diritti, che appartenevano al
padre ed al figlio . Questi temperamenti tuttavia non tolgono, che la patria
potestà continuasse sempre ad essere il rudere meglio conservato dell'an tica
organizzazione della famiglia patriarcale, e quindi non è me raviglia se ad
operá compiuta gli stessi giureconsulti fossero colpiti dal carattere
particolare della patria potestà del cittadino romano, di fronte alle
istituzioni degli altri popoli. 417. L'importanza di questa unificazione della
famiglia sotto la patria potestà del padre viene a farsi anche più evidente, quando
trattasi di quelle istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in qualche
modo al difetto di figliuolanza. Esse sono l'adrogatio, con cui si viene a
sottoporre alla patria potestà una persona sui iuris, e la semplice adoptio,
con cui un figlio ancora sottoposto alla patria potestà di una persona, viene
ad essere costituito sotto la patria potestà di un altra. Le origini dell'una e
dell'altra rimontano senza alcun dubbio all'organizzazione della famiglia
patriarcale, nella quale L'antichità del
peculium è dimostrata dalla stessa etimologia della parola (a pecudibus). Del
resto è facile a comprendersi, che lo stesso accentramento della famiglia nel
proprio capo rendeva indispensabile la concessione di un certo peculio, così ai
figli che ai servi. Anche qui pertanto il ius civile non creò già l'istituzione;
ma la raccolse dalle costumanze, e diede alla medesima configurazione giuridica.
Quanto all'ordine, con cui furono accolte le diverse forme di peculia, cfr.
MUIRHEAD, Op. cit., pagg. 344 e 347; il PADELLETTI, Storia del dir. rom., ediz.
Cogliolo, 187, nota 4; SERAFINI, Istituzioni di diritto romano. Sono poi degne
di nota, quanto all'istituzione dei peculii, le osservazioni del SumnER MAINE,
L'ancien droit, 134. 538 si proponevano l'intento importantissimo di perpetuare
la famiglia ed il suo culto. Quella perd fra esse, che produceva più gravi ef
fetti, al punto di vista gentilizio, era certamente l'adrogatio, come quella
che sopprimeva in certo modo una famiglia ed il suo culto, per rendere
possibile la perpetuazione di un'altra. Essa quindi, nella comunanza gentilizia,
dovette probabilmente essere compiuta coll'approvazione dei capi di famiglia, o
degli anziani del villaggio; donde la conseguenza, che quando fu poi
trasportata nella città, essa fu uno di quegli atti solenni, che, al pari del
testamento, dovevano es sere compiuti in calatis comitiis, coll'intervento dei
pontefici, i quali dovevano vegliare al mantenimento dei culti pubblici e
privati, e colle forme di una vera e propria legge. L'adoptio invece, riferen
dosi a persona, che era ancora soggetta alla patria potestà, suppo neva da una
parte la rinunzia del padre al proprio potere, il che facevasi col mezzo della
mancipatio, applicando al solito l'atto per aes et libram, e dall'altra la
sottomissione del figlio alla patria po testà dell'adottante, il che compievasi
davanti al magistrato, me diante quella finta rivendicazione ed aggiudicazione,
che costituiva l'in iure cessio. 418. Intanto qui viene ad essere evidente,
che, siccome trattavasi di istituzioni di origine esclusivamente patrizia,
perchè era sopratutto nella famiglia patrizia, che era viva ed efficace
l'aspirazione a per petuare se stessa ed il proprio culto, cosi lo svolgimento
storico di queste istituzioninon ritiene le traccie di un contributo diretto,
che possa avervi recato la plebe. Le forme infatti, che le accompagnano, o sono
di origine patrizia, come quella relativa all'adrogatio, o sono invece una
elaborazione giuridica del diritto quiritario, comequelle che circondano
l'adoptio, senza che trovinsi le traccie di un modo di adozione, che possa
essere di origine plebea. Ciò però non tolse, che anche l'arrogazione e
l'adozione abbiano finito per diventare una istituzione comune a tutti gli
ordini sociali; ma intanto a misura che ciò accade, esse perdono sempre più il
loro carattere gentilizio, finchè finiscono per informarsi ad un con cetto
ispiratore compiutamente diverso. Esse infatti col tempo ces Questo effetto dell'adrogatio è efficacemente
espresso da PAPIN., Leg. 11, 2, Dig.: dando se in arrogando testator cum capite
fortunas quoque suas in familiam et domum alienam transfert . Quanto alle
origini dell'adrogatio nel pe riodo gentilizio, vedi lib. I, n° 25, 31. Le
differenze poi fra l'adrogatio e l'a doptio sono sopratutto poste in evidenza
da Gellio, V, 19. 539 sano dall'essere un mezzo per perpetuare la famiglia ed
il suo culto; ma si limitano allo scopo di procurare le gioie della
figliuolanza a coloro che siano privi della medesima, per guisa che in contrad
dizione col diritto primitivo, anche le donne poterono adottare ed essere
adottate. Così pure queste istituzioni, che negli inizii stacca vano affatto
una persona dalla sua famiglia, per trasportarla in un'altra, finirono per
modificarsi in guisa da contemperare i diritti della famiglia naturale con
quelli della famiglia adottiva. 419. Rimane ora a dire brevemente del potere
del padre di fa miglia sui servi. Anche qui non pud esservi dubbio, che la
servitù rimonta al periodo gentilizio, e che essa non dovette essere propria
delle genti italiche, ma comune a tutte le genti; come lo dimostra il fatto,
che i Romani non riguardarono mai la servitù come istitu zione loro propria, ma
comeuna istituzione del diritto delle genti . La medesima sotto un certo
aspetto era un compimento necessario della famiglia patriarcale: perchè senza
di essa questa non avrebbe potuto costituire un gruppo, che potesse bastare a
se stesso. È quindi naturale, che quando il capo di famiglia entrò a parte
cipare alla comunanza quiritaria, esso comparisse nella medesima non solo colla
moglie e colla figliuolanza, ma anche coi servi, i quali vennero ad essere
compresi nel suo mancipium, e costituirono così una parte integrante della
famiglia romana (3 ). Per tal modo i servi diventarono in Roma gli strumenti
intelligenti del cittadino romano, il quale potè valersi di essi per esercitare
qualsiasi ne gozio o commercio, senza derogare alla sua dignità, ed anche per
evitare ai proprii figli l'ignominia di una eredità passiva, chia mandoli anche
loro malgrado a succedergli, in qualità di heredes necessarii. Si comprende
quindi, che al punto di vista giuri dico i servi fossero considerati come cose,
anzichè come persone, e che il potere del padrone sopra di essi apparisse
illimitato e senza confine. Tuttavia, anche qui la famigliarità dei rapporti
fra il pa drone ed i servi, l'intimità di vita, che eravi talora tra i
figliuoli Quanto all'ultimo stadio del
diritto civile romano nello svolgimento dell'ado zione, vedi Justin., Instit.
II, XI. Fra gli altri Gaio, I, 52,
dichiara espressamente, che la potestas sui servi iuris gentium est. (3 ) Come
i servi costituissero una parte integrante della famiglia risulta ad evi. denza
dai passi raccolti dal Voigt, XII Tafeln, II, 12 e segg., e note relative. (4 )
GAIO, II, 152; ULP., Fragm. XXII, 11 e 24. 540 - dell'uno e quelli degli altri,
l'abnegazione frequente dei servi per il loro padrone, e la necessità stessa,
in cui fu la legge di porre dei limiti alla facoltà di manomettere i proprii
servi, sono circo stanze che dimostrano, come anche la condizione effettiva dei
servi, sopratutto nei primi tempi di Roma, non corrisponda in ogni parte alla
severità, con cui essa ebbe ad essere governata sotto l'aspetto giuridico. 420.
In ogni caso è cosa fuori di ogni dubbio, che la condizione dei servi ebbe a
subire ancor essa una trasformazione profonda nel pas saggio
dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Giuridicamente
parlando, il potere del padrone appare forse più rigido nella città, che non
nel periodo gentilizio; ma in essa il servo ha il vantaggio di poter essere
fatto libero, e di essere così elevato alla dignità di cittadino. Mentre
dapprima il servo manomesso do veva, per la stessa necessità delle cose,
cercare protezione e tutela nel gruppo, a cui apparteneva, e quindi col cessare
di esser servo doveva trasformarsi in cliente: nella città invece, sopratutto
dopo Servio Tullio, a cui si attribuisce di aver attribuita la cittadinanza ai
servi affrancati, il servo manomesso venne ad essere sotto la protezione della
pubblica autorità, e potè colla libertà acquistare anche la cittadinanza. Colla
manomissione pertanto viene a verifi carsi la più profonda trasformazione nello
stato giuridico, di cui ci porga esempio il diritto civile romano. Con essa il
servo, che era considerato come una cosa, viene a trasformarsi in una persona,
e colui, che non aveva nė libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella famiglia,
viene ad acquistare tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le traccie
dell'antico stato di cose nella istituzione del patronato, la quale deve perciò
essere considerata come una soprav vivenza dell'organizzazione gentilizia.
Malgrado di ciò, questa impor tantissima trasformazione nello stato di una
persona viene dapprima ad essere rimessa intieramente all'arbitrio del quirite,
il quale può manomettere i proprii servi vindicta, censu, testamento, ed ha
cosi potestà di accrescere indefinitamente il numero dei cittadini romani. Nota giustamente l'HÖLDER, Istituz., $ 42, 117,
che il servo, ancorchè sia considerato come una cosa, non perde però la sua
qualità d'uomo, poichè gli si ri conoscono le facoltà, che lo distinguevano
come uomo, prima dell'altrui dominio. È questo il motivo, per cui il potere
sullo schiavo chiamavasi potestas, e gli atti acqui. sitivi da lui compiuti
erano stati validi, come se fossero stati compiuti dal suo padrone. 541 Anche
qui fu solo più tardi, che l'esercizio illimitato di questa po testà privata
sembrò essere in conflitto colle esigenze del pubblico interesse, e allora,
mentre da una parte si cercd di assicurare i di ritti del patrono sull'eredità
dei liberti, dall'altra si cerco di met tere dei confini alla manomissione dei
servi, il che si ottenne in parte coll'introdurre gradazioni diverse nella
libertà, che era accor data ai servi. Fu in questa guisa, che al concetto di
un'unica libertà i giureconsulti, interpretando le leggi Aelia Sentia e Junia
Norbana, sostituirono le categorie diverse dei latini, dei latini iu niani, e
dei dediticii, la cui libertà può essere migliore o peggiore, secondo che essa
lasci più facile l'adito alla cittadinanza romana: pessima itaque, conchiude Gaio, eorum libertas
est, qui dediti ciorum numero sunt, nam ulla lege, aut senatus consulto, aut
con stitutione principali aditus illis ad civitatem romanam datur . 421. Da ultimo anche le persone libere, quae
in causa mancipii erant,dovettero pur esse avere un posto in questa costruzione
giuridica della famiglia romana, il che si ottenne collocandole nella posizione
di servi (servorum loco habentur), per tutto quel tempo per cui erano date a
mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi hanno cura di notare, che la
concezione giuridica non deve in questa parte essere confusa colla realtà, come
lo prova questa notevole proposizione di Gaio: admonendi sumus, adversus eos, quos in
mancipio ha bemus, nihil nobis contumeliose facere licere; alioquin iniuria rum
actione tenebimur: ac ne diu quidem in eo iure detinentur homines, sed
plerumque hoc fit dicis gratia, uno mo mento, nisi scilicet ex noxali causa
mancipentur. Con ciò parmi di aver abbastanza dimostrato, che la rigidezza, con
cui fu modellata nel diritto civile di Roma la potestà spettante al capo di
famiglia, trova la sua causa in ciò, che i Romani, anche in È notabile a questo riguardo, che il più
antico diritto di Roma, come lasciava al cittadino piena libertà dimanomettere
i propri servi, così, in omaggio sempre alla libertà del testatore,non aveva
tutelato in nessun modo le ragioni del patrono contro il testamento del liberto.
Ciò viene attestato da Gaio, III, 40, 41, il quale, dopo aver detto, che olim licebat liberto patronum suum impune in
testamento prae terire aggiunge poi che
il diritto pretorio e poscia la legge Papia Poppea avevano cercato di riparare
a questa iuris iniquitas. Gaio, 1, 26;
Ulp., Fragm., I, 5. (3 ) Gaio questa parte, trasportarono nella città il potere
del capo di famiglia patriarcale; lo isolarono dall'ambiente, in cui erasi
formato e da ogni elemento estraneo al diritto; e riuscirono così a dare una
configu razione prettamente giuridica, ad un potere, che in realtà conti nuava
poi a trovare molti temperamenti nel costume e nella morale. Questi caratteri
della famiglia romana trovano poi una conferma nel modo, in cui era governata
la successione legittima, nel primi tivo diritto di Roma. La successione e la
tutela legittima nel primitivo ius quiritium. L'ordinamento giuridico della
famiglia primitiva in Roma presenta eziandio questa singolarità, che mentre,
vivo il padre, tutto sembra unificarsi in lui, mancando invece il medesimo,
senza aver disposto delle proprie cose per testamento (si intestato moritur),
ricompare una specie di comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono
dalla sua patria potestà. Queste persone infatti son chia mate a succedergli
come heredes sui; non possono respingerne la eredità (heredes sui et
necessarii); che anzi, senza bisogno di una vera e propria accettazione,
sembrano essere direttamente investite dalla legge stessa di quel patrimonio
famigliare, di cui già prima apparivano comproprietarie: sui quidem heredes, dice Gaio, ideo
appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo
domini existimantur . Molti autori combatterono il concetto di questa
comproprietà fa migliare, dicendola in contraddizione colla unificazione
potente della famiglia romana nella persona del proprio capo. A nostro avviso
invece questa specie di comproprietà, che i giureconsulti pongono a fondamento
della successione degli heredes sui, può essere facil mente spiegata e
conciliata coll'unità potente della famiglia romana, GAIO, II, 157. Fra gli autori, che combattono questa
comproprietà famigliare, mi limiterò a citare il PADELLETTI, Op. cit., 201, e
il Cogliolo, Saggi di evoluzione nel di ritto privato, 108 e segg.; il quale, a
111, in nota, fa pure un elenco degli autori, che tengono per l'una o per
l'altra opinione. Fra quelli, che ammettono questa comproprietà famigliare,
vuolsi aggiungere il DUBOIS, La saisine héréditaire en droit romain, Paris,
1880, 63, e il CARPENTIER, Essai sur l'origine et l'étendue de la règle: nemo
pro parte testatus, pro parte intestatus decedere potest, nella Nouvelle Revue historique quando si ritenga che la famiglia quiritaria
non è in sostanza, che la stessa famiglia patriarcale, trasportata nella città,
ed isolata dal l'ambiente gentilizio, in cui erasi formata. La famiglia
patriarcale infatti riuniva appunto due caratteri, pressochè opposti fra di
loro; quello cioè di apparire da una parte unificata nella persona del padre,
il che la rendeva unita e compatta per la lotta, che doveva sostenere cogli
altri gruppi, da cui era circondata; e quello di sup porre dall'altra
un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche, il che produceva
un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a costituirla. In questo
senso potevasi dire di essa con Cicerone: una domus, communia omnia . Questa solidarietà
e compro prietà fra i membri del medesimo gruppo famigliare viene ad essere
dimostrata dai seguenti indizii: che il primitivo heredium era di sua natura
trasmessibile di padre in figlio; che il padre trovava un ostacolo alla
dilapidazione del patrimonio famigliare, nel iudicium de moribus per parte del
consiglio degli anziani della gens; che il padre infine non poteva disporre
delle proprie cose per testamento, nè scegliersi un figlio adottivo senza
l'approvazione degli altri capi di famiglia, che appartenevano alla sua gente o
tribù. Vero è, che tutti questi temperamenti del potere patriarcale del capo di
famiglia sembrano scomparire, quando, col formarsi della città, la famiglia
venne ad essere staccata dal gruppo patriarcale, di cui entrava a far parte, e
il capo di essa apparve così investito di un potere illimitato e senza confini;
ma ciò deve essere considerato come un effetto di quella elaborazione giuridica,
che tendeva ad uni ficare la famiglia nella persona del proprio capo. Era
quindinatu rale, che, quando questa unificazione non era più possibile per la
mancanza del capo, risorgesse la primitiva comproprietà famigliare fra le
persone libere, che appartenevano allo stesso gruppo. Che anzi la stessa
unificazione potente del gruppo nel proprio capo do veva determinare una specie
di comunione fra i membri del gruppo, e condurre così alla conseguenza
giuridica, che in questo caso non si avverasse una vera successione, ma il
dominio del padre conti nuasse in certo modo nella persona dei figli;
conseguenza, che ebbe ad essere mirabilmente espressa dal giureconsulto Paolo:
in suis heredibus evidentius apparet continuationem dominii eo rem per ducere,
ut nulla videatur hereditas fuisse, quasi olim hi domini Ho cercato di dimostrare questi caratteri
della proprietà famigliare nel pe riodo gentilizio nel lib. I, cap. 4, 3º, sopratutto 70. 544 essent, qui, vivo etiam
patre, quodammodo domini existimantur. Itaque post mortem patris non
hereditatem percipere videntur, sed magis liberam bonorum administrationem
consequuntur. Fu in questa guisa, che la famiglia primitiva potè perpetuarsi
nelle generazioni, e cambiarsi in un organismo immortale e perpetuo, poichè i
figli apparivano come i continuatori della personalità del padre, e al modo
stesso, che dovevano perpetuare il culto domestico, così dovevano raccoglierne,
anche loro malgrado, l'eredità. 423. Nè si può ammettere, che questa specie di
comproprietà, a cui accennano i giureconsulti, sia un concetto penetrato più
tardi nella classica giurisprudenza, per spiegare il passaggio del patrimonio
famigliare dal padre nei figli : poichè questo intimo rapporto fra l'hereditas
ed i sacra, è certo un concetto, che rimonta all'an tichissimo diritto, come
pure è a questo, che deve farsi risalire quella posizione del tutto speciale,
che gli heredes sui assumono di fronte agli altri ordini di eredi. Questa
distinzione infatti già doveva esistere nella universale coscienza, all'epoca
della legislazione decem virale. In questa infatti non si fa menzione espressa
della succes sione dell'heres suus, ma solo vi si accenna come a cosa, che na turalmente
accade, e che quasi non abbisogna di speciale menzione; mentre è solo per il
caso, in cui non siavi un heres suus, che le XII Tavole determinano l'ordine
della successione per legge, chia mando alla medesima prima l’agnatus proximus,
e in mancanza del medesimo i gentiles: si intestato moritur, cui suus heres nec
escit, adgnatus proximus familiam habeto; si adgnatus nec escit, gentiles
familiam habento . Che anzi a questo proposito parmi di poter con fondamento
inol trare la congettura, che in occasione della legislazione decemvirale le
genti patrizie cercarono di trasportare nel ius proprium civium PAOLO, Leg. 11, Dig. X (28-2). V. nel
CARPENTIER, Op. e loc. cit., una rac colta di testi che confermano questa
comproprietà famigliare. Tale sarebbe
l'opinione del PADELLETTI, Op. cit., 201. (3 ) Queste due disposizioni delle
XII Tavole, secondo il Voigt, Op. cit., I, 704, sarebbero la 2a e la 3a legge
della Tav. IV. A questo proposito poi il Voigt, Op. cit., II, 387, sembra
ritenere, che esistesse una comproprietà di fatto, ma non di diritto. Convien
però ammettere, che tale comproprietà producesse, dopo la morte del padre,
delle vere conseguenze di diritto, dal momento che faceva considerare gli
heredes sui, come continuatori della personalità del padre, e li metteva anzi
nella impossibilità di rinunziarvi. Vedi Gaio, I, 157. - 545 romanorum, e di
rendere così comune a tutte le classi quel sistema di successione ab intestato,
che doveva già esistere nel loro costume durante il periodo gentilizio. Noi
sappiamo infatti dagli stessi giu reconsulti, che colle XII Tavole soltanto
ebbe ad essere introdotto il sistema di successione legittima, e ne abbiamo
anche una prova nella circostanza, che fu perfino introdotto un ordine di eredi
le gittimi, che era quello dei gentiles, il quale non poteva certo appar tenere
alla plebe, dal momento che questa non possedeva le gentes. Per tal modo il
patriziato, che già aveva trasportata nella comu nanza quiritaria la propria
organizzazione domestica, riusci eziandio a farvi penetrare il proprio sistema
di successione. Di qui la con seguenza, che anche il sistema successorio dei
romani deve essere considerato come una sopravvivenza dell'organizzazione
patriarcale della famiglia patrizia; come lo dimostra la circostanza, che esso
fondasi esclusivamente sull'agnazione, non tiene alcun conto della cognazione,
e si propone come scopo esclusivo di perpetuare il pa trimonio nella famiglia
agnatizia, e di farlo ritornare alla gente, al lorchè siasi estinta la famiglia.
Per tal modo, in base alla legislazione decemvirale, noi veniamo a trovarci di
fronte a tre ordini di eredi, che sono: lº gli heredes sui, nei quali si
comprendono la moglie, i figli cosi maschi come femmine e gli altri discendenti
nella linea maschile, tutte le per sone insomma, che erano soggette alla patria
potestà del capo di famiglia; 2 ° gli agnati, cioè tutti coloro, che discendono
per la linea maschile da un comune autore, alla cui potestà sarebbero stati sog
getti, quando non fosse premorto; 3º e da ultimo i gentiles, ossia tutti coloro,
i quali, più non essendo compresi nella familia omnium agnatorum, hanno però
comune la discendenza da un medesimo Che
la successione e la tutela legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole,
mentre queste non avrebbero fatto altro, che confermare le successioni testa
mentarie, è cosa a più riprese affermata da ULPIANO, Fragm. XI, 3, e XXVII, 5.
Di qui ilMuirhead avrebbe perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di
pianta l'ordine degli agnati, come tutori e successori legittimi. Ho già
dimostrato più sopra, 39, nota 1", che questa opinione non può essere
accettata, perchè l'ordine degli agnati già esisteva nell'organizzazione
gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a fondamento della medesima; ma
intanto questa sua opinione può essere accolta, quando sia intesa nel senso,
che i decemviri colle XII Tavole estesero anche alla plebe quel sistema di
successione legittima, che le consuetudini avevano già svolta presso le genti
patrizie. C., Le origini del diritto di Roma. antenato, e come tali hanno
ancora ilmedesimo nome e appartengono alla stessa gente. 424. È poi degno di
nota il modo diverso, con cui questi varii ordini di eredi sono chiamati a
succedere. Finchè trattavasi di heredes sui, essi, essendo soggetti alla patria
potestà della stessa persona, e come tali appartenendo almedesimo gruppo,
venivano in certo modo ad essere eredi di se stessi; esclu devano gli
emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi entrate in un'altra famiglia,
tutti coloro insomma, che erano già usciti dal gruppo; non abbisognavano di
vera accettazione dell'eredità, ma suc cedevano anche loro malgrado (heredes
sui et necessarii): non potevano essere spogliati dell'eredità mediante
l'usucapio pro he rede; infine succedevano per stirpe, ossia per
rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva i figli
rappresen tano il padre. Quando trattavasi invece di agnati, il patrimonio
doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro: quindi la legge, per
impedirne la suddivisione soverchia, si limitava a devolverlo allo agnatus
proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere considerato
come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non appartiene al
gruppo famigliare nello stretto senso della parola. Egli quindi ha già facoltà
di accettare o di respingere l'eredità, e può vedersi usucapita l'eredità da
altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse poi
l'opinione, che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla
successione per stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano
è solo nei limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i
rappresentanti dei loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti
gli altri agnati, e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità,
questa viene ad essere devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles . Gaio, III, 1 a 8; Ulp., Fragm., XXIV, 1 a 3. GAIB, III, 9 a 15, Ulp., Fragm., XXIV, 1.
L'enumerazione, che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati, confermano il concetto,
che ho svolto nel lib. I, 38 e 39, secondo cui la cerchia degli agnati sarebbe
stata determinata da quella in divisione di patrimonio, che, morto il padre,
mantenevasi fra i fratelli e i loro di scendenti per la linea maschile. Questo
gruppo continuava in certo modo l'unità indivisa della famiglia, e costituiva
quella famiglia più grande, che fu chiamata 547 Qui però l'espressione della
legge cambia, in quanto che essa dice senz'altro: si agnatus proximus nec escit, gentiles
familiam habento ; il che fa ritenere, che i gentili non fossero chiamati a
succedere come individui, ma in quanto costituivano l'ente collet tivo della
gens, cosicchè l'eredità sarebbe in certo modo ritornata alla gente considerata
nella propria universalità, e sarebbe così ve nuta a ricadere in quell'ager
gentilicius, da cui si erano staccati i primitivi heredia delle singole
famiglie. Era sopratutto in questa parte, che erasi cercato di mantenere viva
nella città l'antica orga nizzazione gentilizia: ma l'istituzione non potè
mantenersi a lungo come lo dimostra Gaio, il quale parla di questo ius
gentilicium, come di cosa andata da lungo tempo in disuso. Non ha poi bisogno
di essere dimostrato, che questo sistema di successione per legge, desunto
dall'antica organizzazione gentilizia, trovava il proprio compimento nella
disposizione, per cui la succes sione del cliente o del liberto, che fosse
morto senza testamento o senza eredi suoi, veniva dalla legge ad essere
devoluta al patrono, od ai figli di lui, od infine alla gente del patrono: si cliens in testato moritur, cui suus heres
nec escit, pecunia ex eius fa milia in patroni familiam redito . omnium
agnatorum. Quando poi venne meno quest' indivisione del patrimonio, si
chiamarono agnati tutti coloro, che sarebbero stati soggetti alla patria
potestà, quando il padre non fosse premorto. Fra essi ULPIANO, loc. cit.,
comprende anzitutto quelli, che egli chiama i consanguinei, id est fratres et sorores ex eodem patre ;
poscia, quando questi manchino, gli altri agnati prossimi id est cognatos virilis sexus, per mares
discendentes, eiusdem familiae, Gaio,
III, 17; UlP., Fragm., XXIV, 1. Noi abbiamo tuttavia CICERONE, De orat., I, il
quale accenna ad una causa di eredità, dibattutasi davanti ai Centum viri fra i
Claudii patrizii ed i Marcelli discendenti da un loro liberto, in cui dice che
gli oratori delle parti dovettero occuparsi de toto stirpis ac gentilitatis iure . Sembra
tuttavia, che anche all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le cause di
questo genere. Ulp., L. 195, 1, Dig. Nella ricostruzione del Voigt, I, 705,
questa legge sarebbe la 4a della Tavola IV. Vedi ciò che dice lo stesso Voigt,
II, 392 e 393, quanto alla successione del patrono al liberto. Anche quanto
alla successione del liberto si manifesta una specie di antagonismo fra la
successione testamentaria e la legittima; poichè,mentre nella prima il liberto
poteva nei primi tempi (V. Gaio, III, 40-41) dimenticare impunemente il suo
patrono, la seconda invece, introdotta eziandio dalle XII Tavole, tendeva a
richiamare il patrimonio del liberto alla famiglia del patrono, quando il primo
fosse morto senza eredi suoi. 548 425. Per contro è assai degno di nota, che,
unitamente al sistema della successione legittima, dalla legislazione
decemvirale fu eziandio introdotto il sistema della tutela legittima. Di cid
abbiamo l'espressa attestazione dei giureconsulti : ma la prova più convincente
vuolsi riporre nella circostanza, che il sistema della tutela legittima, quale
ebbe ad essere regolato dalle XII Tavole, é coordinato con quello della
successione legittima, ed obbedisce al medesimo concetto ispi ratore. Per
giustificare la cosa i giureconsulti più tardi misero in nanzi la
considerazione, che l'onere della tutela doveva cadere su coloro, che avevano
il vantaggio della successione: ubi
emolu mentum successionis, ibi onus tutelae ; ma la causa storica deveessere
cercata nel fatto, che tanto la tutela, che la successione le gittima si
informano ancora ai concetti dell'organizzazione genti lizia, da cui furono
desunte, e come tali mirano a conservare il patrimonio prima alla famiglia
agnatizia e pos cia alla gente. Viene così a comprendersi, come nel
sistema primitivo la tutela degli im puberi ed anche la cura dei prodighi e dei
furiosi, fosse affidata agli agnati ed ai gentili; come le donne, anche
perfectae aetatis, cadessero sotto la tutela degli agnati; come infine le res
mancipii, spettanti alle medesime e ai pupilli, non potessero essere usucapite,
quando non si fossero alienate col consenso del tutore. Così pure viene a
spiegarsi quel singolare carattere della tutela primitiva del l'impubere, la
quale mira piuttosto alla conservazione del patrimonio, che non alla educazione
della persona, la cui cura soleva essere lasciata alla madre ed agli altri
congiunti, i quali si ispiravano di preferenza all'affetto del sangue, che
all'interesse gentilizio di ser bare integro il patrimonio famigliare. Chi
tuttavia riguardi al posteriore svolgimento del diritto civile romano, può
facilmente inferirne, che tanto il sistema della successione, quanto quello
della tutela legittima, non trovarono mai favorevole svolgimento nella opinione
comune della cittadinanza ro mana. Conformi al modo di pensare di quella
minoranza patrizia, che si atteneva strettamente alle tradizioni gentilizie,
esse invece ripugnavano al modo di sentire delle altre classi, i cui rapporti
di Ulp., Fragm. È da vedersi, quanto
alla tutela legittima e ai suoi caratteri peculiari, il Pa DELLETTI, Op. cit., 188
e le note relative. 549 famiglia si ispiravano di preferenza al vincolo
naturale del sangue e della cognazione. A misura poi, che le traccie
dell'organizzazione gentilizia si venivano dissolvendo sotto l'influenza della
vita citta dina, questo sistema di successione e di tutela apparve disadatto a
quei magistrati stessi, che dovevano applicarlo. È questo il motivo, per cui
Gaio a questo proposito non parla solo di sottigliezze del l'antico diritto, ma
di vere iuris iniquitates; alle quali cercò poi di riparare il diritto pretorio,
introducendo, accanto alla successione legittima, una successione pretoria, e
creando, accanto ai tutores legitimi, i tutores Atiliani o dativi. Fu pur
questo il motivo, per cui i giureconsulti mal potevano spiegarsi la tutela
perpetua, a cui le donne erano sottoposte nell'antico diritto, e vennero
creando essi stessi degli espedienti giuridici, quale fu quello veramente ca
ratteristico della coemptio cum fiducia, per liberarle da una tutela, le cui
ragioni dovevano forse essere cercate in un periodo anteriore di organizzazione
sociale. In ogni caso poi una prova di questa generale condanna del si stema di
successione e di tutela legittima può scorgersi eziandio nel largo sviluppo che
presero in Roma la successione e la tutela testamentaria, e nell'antagonismo
che sembra esistervi fra le due maniere di successione. $ 5. – Rapporti fra la
successione legittima e la testamentaria nel diritto primitivo di Roma. 427. È
noto che in Roma la successione legittima e la testamen taria non poterono mai
fondersi insieme, e si mantennero anzi in una specie di antagonismo fra di loro.
Ciò è dichiarato espressa mente dal giureconsulto, che scorge nelle due
istituzioni un natu Fra i giureconsulti,
che non sanno darsi ragione della tutela perpetua, a cui le donne erano
sottoposte, abbiamo Gaio, I, 190. È tuttavia a notarsi, che egli, più sotto, I,
192, finisce per indicare la vera ragione, per cui anche le donne erano sot
toposte alla tutela dei loro agnati; la quale consiste in ciò, che siccome gli
agnati erano chiamati a succedere alle donne, che morissero ab intestato, così
essi avevano interesse a che esse, senza il loro consenso, non potessero fare
testamento, nè alienare le cose più preziose, che entravano a costituire il
patrimonio. Per tal modo la tutela degli agnati ebbe lo scopo stesso della loro
successione legittima, quello cioè di conservare il patrimonio nella famiglia
agnatizia; il qual concetto è per certo uno di quelli, le cui origini debbono
essere cercate nel periodo gentilizio. 550 rale conflitto; è confermato dalla
massima: nemo paganus partim testatus, partim intestatus decedere potest; ed è
provato eziandio da quella specie di ripugnanza, che avevano i Romani a morire
senza testamento: ripugnanza, che si spinse fino a tale da ritenere pressochè
disonorato chi morisse senza testamento. Il fatto può quindi essere affermato
con certezza; ma è tanto più ardua la spie gazione di esso, come lo dimostra la
varietà grandissima di opinioni e di congetture, che furono emesse in proposito
. Credo tuttavia, che anche in questa parte possa condurci a qualche
conclusione, forse nuova, lo studio delle origini del ius quiritium. Questo
studio infatti ci pone in grado di affermare, che la succes sione legittima ed
il testamento hanno avuto una origine e uno svolgimento compiutamente diversi
nel primitivo ius quiritium. Mentre la successione e la tutela legittima, le
quali soltanto colle XII Tavole entrarono a far parte del diritto comune, sono
istitu zioni di origine prettamente gentilizia, ispirate al concetto di ser L'origine storica della massima nemo paganus, ecc. è una questione, che è lungi dall'essere
risolta, malgrado la ricchissima letteratura, di cui fu argomento. Fra autori,
che la esaminarono di recente, citero soltanto il RUGGERI, nei Documenti di
storia e di diritto; il CARPENTIER, nella Nouvelle Revue historique, 1886, 449
a 474; il Padel LETTI, La istituzione di erede ex re certa ( Archivio giuridico).
Anche l'ESMEIN, La manus, la paternité, ecc., 4, nota 10. accenno di passaggio
ad una spiegazione di questa massima, dicendo che la medesima proveniva da che
il patrimonio si trasmetteva come l'accessorio di un culto, e che siccome di un
culto non si poteva disporre per una parte soltanto, così non si poteva neppure
lasciare un'eredità parte per testamento e parte per legge. Parmi che questa
non possa an cora essere la risoluzione definitiva: poichè se un culto poteva
dividersi fra più eredi legittimi, non vi può essere ragione, per cui non si
potesse anche dividere fra eredi legittimi e testamentarii. Il CARPENTIER poi,
nel suo dotto lavoro sopra citato, verrebbe alla conseguenza, che questa
massima fosse una conseguenza logica del concetto romano, per cui tanto la
successione legittima, quanto la testamentaria, do vevano comprendere l'intiero
patrimonio; ma anche qui si potrebbe sempre dire, che quest'universum ius, come
poteva dividersi fra gli eredi per legge e testamentarii; così avrebbe potuto
dividersi eziandio fra gli uni e gli altri. Secondo il RUGGIERI, Op. cit., il
motivo della massima starebbe in ciò, che anche il testamento dapprima era una
vera lex, e quindi doveva prevalere o la lex publica o la lex testamenti,ma non
potevano concorrere insieme; ma egli è evidente, che questa ragione, se po
trebbe valere per il testamentum in calatis comitiis, non può certo applicarsi
al testamentum per aes et libram, che non ha più il carattere di una legge. Fu
questo il motivo, per cui ho creduto didover cercare la causa prima di questa
mas sima nella stessa dialettica fondamentale, a cui si informa il diritto
primitivo di Roma. 551 - bare il patrimonio alla famiglia agnatizia ed alla
gente; il testamento invece, che prevalse nel ius quiritium, non è più il
testamento delle genti patrizie, ma è già un'applicazione dell'atto quiritario
per ec cellenza, ossia dell'atto per aes et libram, che si ispira al prin cipo:
uti legassit, ita ius esto. In quella prevale ancora lo spirito conservatore
dell'antico gruppo patriarcale: mentre in questo già campeggia la fiera
individualità del quirite, la cui volontà solenne mente manifestata deve essere
legge, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere. A cið si aggiunge, che
la successione legittima e la testamentaria, nella struttura organica del ius
quiritium, muovono da un con cetto fondamentale compiutamente diverso. Mentre
infatti la suc cessione legittima prende le mosse dal ius connubii, ed è quindi
una conseguenza dell'organizzazione giuridica della famiglia romana, il
testamento invece, che prevalse nel diritto quiritario, fu un'ap plicazione del
principio: qui nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto ; come tale, esso prese le
mosse dal ius commercii, e fu considerato come un mezzo di disporre libe
ramente delle proprie cose . Fu sopratutto questa circostanza del l'essere le
due istituzioni partite nella loro elaborazione giuridica da un concetto
fondamentale diverso, che impedì alle medesime di con fondersi e di
compenetrarsi insieme; poichè è un carattere della dialet tica quiritaria, che
gli istituti giuridici, una volta separati, obbediscano ciascuno al proprio
concetto ispiratore, nè sogliano mai confondersi con un altro, che si informi
ad un concetto compiutamente diverso. Tale sembra appunto essere la
significazione della celebre regola del giureconsulto Paolo: ius nostrum non patitur eundem in paganis et
testato et intestato decessisse, earumque rerum natu raliter inter se pugna
est, testatus et intestatus. Per verità Quanto al carattere diverso di queste due
successioni vedi il cap. III, 4, in cui
si discorre della successione testamentaria, ed il $ precedente relativo alla
successione legittima. Questo carattere
speciale del testamento per aes et libram è attestato, ancorchè solo di
passaggio, da Cic., De orat.; ma è poi dimostrato all'evidenza da ciò, che
questo testamento ebbe ad essere ritenuto come un negozio, che compie vasi fra
testatore ed erede, e in cui la volontà del testatore dominava sovrana. Paolo, Leg. 7, Dig. Secondo il PadELLETTI,
Storia del dir. rom., 201, questa massima sarebbe invece una conseguenza della
superiorità esclusiva della successione testamentaria sulla legittima; ma
questo non è ancora un motivo adeguato per impedire che le due eredità si
confondessero fra di loro. 552 sarebbe stato illogico, che quel diritto, il
quale in tutto il suo svi luppo tenne sempre mai distinte fra di loro le
obbligazioni e i trasferimenti di proprietà, di cui quelle erano partite dal
concetto primitivo del nexum e questi da quello del mancipium, avesse pui
consentito, che concorressero insieme due istituzioni, le quali muove vano da
concetti fondamentali anche più distanti fra di loro. Questo quindi fu uno dei
casi in cui la logica quiritaria non volle piegarsi alle nuove esigenze, e si
limitò ad introdurre una eccezione a fa vore del testamento dei soldati. 428.
Qui intanto cade in acconcio di esaminare brevemente un'altra gravissima
questione, quella cioè della precedenza, che nel diritto primitivo di Roma
abbia avuto la successione legittima o la successione testamentaria.
Sull'autorità del Sumner Maine, suole essere generalmente seguita l'opinione,
che nella evoluzione storica del diritto romano dovette precedere la
successione ab intestato, poichè la possibilità del testa mento, anche nel
diritto romano, avrebbe cominciato dall'essere am messa soltanto in quei casi,
in cui non vi fosse figliuolanza, e poi sarebbe stata estesa anche agli altri
casi. Mentre ritengo, che questa opinione possa essere conforme al vero, per
quanto si rife risce al periodo gentilizio, nel quale il testamento non dovette
essere, che un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto, per il caso in
cui non vi fossero dei figli, crederei invece, che essa non sia con forme
all'evoluzione storica, che ebbe ad avverarsi nel ius quiritium. Sonvi infatti
degli indizii, che ci inducono ad affermare, che nel ius quiritium penetrd
dapprima il testamento, mentre la successione legittima vi fu solo introdotta
più tardi, e che il testamento ebbe fin dal principio una prevalenza
incontrastata sulla successione le gittima. È noto infatti, che Ulpiano dice
espressamente, che la suc cessione legittima fu introdotta dalle XII Tavole,
mentre queste invece avrebbero confermata la successione testamentaria; il che
indica appunto, che il testamento era già comune ai due ordini, e aveva già
subito l'elaborazione del ius quiritium, mentre la suc cessione legittima non
sarebbe penetrata nel diritto comune, che colla legislazione decemvirale.
Anteriormente a quest'epoca la suc cessione legittima, per ciò che si riferisce
agli agnati ed ai gentili, SUMNER MAINE,
L'ancien droit, 186. 553 doveva probabilmente essere esclusivamente propria
delle genti pa trizie, le cui consuetudini in quest'argomento erano certo
diverse dalle semplici costumanze della plebe. Appare poi fino all'evidenza
dalle espressioni stesse delle XII Tavole, che la successione testamentaria ha
una prevalenza indiscutibile sulla successione legittima, in quanto che
quest'ultima non può verificarsi, che quando manchi il testa mento (si
intestato moritur); il qual concetto perdurò poi per tutto lo svolgimento storico
del diritto civile romano . In cid abbiamo un'altra prova, che il ius quiritium
non deve essere considerato unicamente, come il frutto di un'evoluzione lenta e
graduata delle istituzioni giuridiche, a misura che ne occorra il bisogno, ma
piuttosto come il frutto di una selezione su materiali giuridici preesistenti.
In esso infatti istituzioni più antiche penetra rono talvolta più tardi di
altre, la cui formazione nella realtà dei fatti doveva essere più recente.
Così, ad esempio, la successione le gittima, che fu certo la prima a svolgersi
nell'ordine dei fatti, fu l'ul tima a penetrare nel ius quiritium, mentre il
testamento, che era stato ultimo a comparire, fu il primo ad esservi accolto,
come quello che meglio rispondeva a quella potente individualità giuridica, che
era il quirite. — Cid apparirà anche più evidente trattando del si stema delle
actiones, le quali, mentre furono le prime a formarsi nell'ordine dei fatti,
furono invece le ultime ad essere elaborate nel primitivo ius quiritium. ULP., Fragm., XI, 3; XXVII, 5; L. 130, Dig.
(50-16 ). La prevalenza della
successione testamentaria sulla legittima nel diritto civile romano è provata
da una quantità grande di passi di giureconsulti, fra i quali mi limito a
citaro i seguenti: quamdiu possit valere
testamentum, tamdiu legitimus non admittitur (Paolo, L., dig.); quamdiu potest ex testamento adiri hereditas,
ab intestato non defertur (Ulp., L. 39,
dig. 29, 2). Le legis actiones e la storia primitiva della procedura civile
romana. $ Le origini della procedura ex
iure quiritium. Quella tecnica giuridica, di cui già si riscontrarono le
traccie nelle varie parti del ius quiritium, appare anche più rigida e se vera
nella parte, che si riferisce alla procedura delle legis actiones. È qui
sopratutto, ove l'elemento giuridico del fatto umano compare del tutto isolato
e disgiunto da ogni elemento estraneo, e ove l'ela borazione giuridica
dell'antico diritto ebbe a spingersi a tal punto di tecnicismo da rendere
difficile alle nostre menti il comprenderne i concetti direttivi, e la logica inesorabile,
a cui obbedi nella pro pria formazione. Alla difficoltà intrinseca
dell'argomento si aggiun sero poi altre cause, che contribuirono a mantenere in
questa parte una quantità di dubbii e di incertezze, la quale non potè del
tutto essere dileguata dalla scoperta delle istituzioni di Gaio, dalla
ricchissima letteratura, che in seguito alla medesima ebbe a svolgersi
sull'argomento. È noto infatti, in base alle attestazioni concordi degli
antichi au tori, che la parte dell'antico diritto, relativa alla procedura
delle legis actiones, ebbe ad essere custodita ed elaborata dal collegio dei
pontefici, anche dopo le XII Tavole, e continuò cosi ancora a co e Anche qui non mi propongo di dare una
bibliografia completa: ma piuttosto di indicare le opere, di cui ho potuto
giovarmi per il punto speciale di vista, a cui mi collocai in questo lavoro. Fra esse citerò lo ZIMMERN, Traité des actions, trail. Etienne, Paris 1843;
BONJEAN, Traité des actions chez les Romains, Paris 1845; il KELLER, Il
processo civile romano e le azioni, trad. Filomusi-Guelfi, Napoli 1872;
BETHMANN-HOLLWEGG, Der röm. Civilprocess in seiner geschichtl. Entwichelung,
Bonn, e sopratutto il primo, che tratta delle legis actiones; BEKKER, Die
Aktionen d. röm. Privatrechts, 2 vol., e sopratutto il vol. I, 18-74; KAR LOWA,
Der röm. Civilprocess zur Zeit d. Legisactionen, Berlin 1872; BUONAMICI, La
storia della procedura civile romana, Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da 15 a 86;
JHERING, L'esprit du droit romain, tome 36, 312 a 343; MuiraEAD, Histor. Introd.,
181 a 235; Zocco-Rosa, Le palingenesi della procedura civile romana, Roma 1887;
WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig 1888. 555 stituire per qualche tempo
un segreto di professione e di casta. Pomponio infatti attribuisce ai pontefici
di aver modellate le legis actiones, in base alla legislazione decemvirale;
egli anzi dice con Gaio, che di qui sarebbe provenuta la denominazione di legis
actio nes, le quali poi per la prima volta sarebbero state rese di pubblica
ragione da Gneo Flavio, segretario di Appio Claudio. La notizia poi, che ci
pervenne di queste legis actiones, è molto imperfetta; poichè lo stesso Gaio,
che è forse il solo che ebbe a discorrerne di proposito, ci descrive il sistema
delle legis actiones nell'ultimo stadio del suo svolgimento, e quindi si limita
alla enu merazione ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al
lorchè questi furono definitivamente formati, senza farci assistere alla
progressiva formazione di essi, salvo quel poco, che egli ci dice, circa la
introduzione della legis actio per condictionem. A ciò si aggiunge, che Gaio,
discorrendo di un sistema di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si
limita a cenni assai generali, i quali per giunta ci pervennero anche con
gravissime lacune, quali quelle relative alla iudicis postulatio, ed alla
condictio . 430. Da questa notizia, per quanto imperfetta, si possono tuttavia
ricavare alcune illazioni, che, per quanto generali, sono perd impor tantissime
per la ricostruzione della prima procedura quiritaria, che fu senz'alcun dubbio
quella delle legis actiones. È certo anzitutto, che anche in questa parte il
primitivo ius qui ritium non venne creando speciali procedure, per i varii
casi, che si presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche di proce dura,
che i pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai casi particolari,
per guisa che le primitive legis actiones costitui scono, secondo l'esatta
espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui ciascuno poteva
comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi sappiamo in secondo
luogo, che il sistema delle legis actiones è decisamente informato al concetto,
secondo cui la procedura per ogni controversia, che percorresse tutti i suoi
stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali, di cui una compievasi in
iure, cioè Pomp., Leg. 2, 6, Dig.; Gaio, IV, 11. V. Gaio, IV, 17, ove manca il foglio, in cui
egli doveva trattare dell'actio per iudicis postulationem, e passare poi a
discorrere della legis actio per condictionem. Gaio, IV, 12, scrive:, lege agebatur modis
quinque etc. 556 davanti al magistrato, e l'altra invece seguiva davanti al
giudice singolo od al corpo collegiale dei giudici, al quale le parti potevano
essere rimesse dal magistrato. Mentre in iure si decideva, se in quel
determinato caso si potesse far luogo all'applicazione della legis actio, e si
dava alla fattispecie la configurazione giuridica delle me desima; in iudicio
invece giudicavasi della ragione e del torto fra le parti contendenti, in base
alla configurazione giuridica, che la controversia aveva assunto davanti al
magistrato. Ci consta infine, che le legis actiones si dividevano in due ca
tegorie, ispirate ad un concetto compiutamente diverso, in quanto che vi erano
quelle, che miravano a fissare il punto in questione e ad ottenere la decisione
del medesimo, e costituivano così la pro cedura, che potrebbe chiamarsi
processuale o contenziosa; e quelle invece, che miravano all'esecuzione del
giudicato, e costituivano così la procedura esecutiva. Nella prima categoria
noi troviamo la legis actio sacramento e la iudicis postulatio, alle quali
venne ad ag giungersi più tardi la legis actio per condictionem; mentre nella
seconda la vera procedura di esecuzione è costituita dalla manus iniectio, che
è diretta contro la persona del debitore condannato o confesso, poichè solo in
pochi casi, determinati dalla legge o dal costume, è accordata la pignoris
capio. Ho già accennato altrove n ° 243,
296 e seg., come la distinzione fra il ius ed il iudicium debba considerarsi
come una conseguenza necessaria di ciò, che la pubblica giurisdizione del
magistrato non estendevasi dapprima a tutte le con troversie civili e penali,
ma comprendeva soltanto quelle, che eransi sottratte alla giurisdizione
domestica e gentilizia, per essere deferite alla giurisdizione del magi strato.
Di qui la conseguenza, che ogni controversia civile ed ogni accusa penale
davano anzitutto luogo ad una questione preliminare, da decidersi in iure, in
cui trattavasi di vedere, se la controversia, o se il delitto, di cui si
trattava, potessero dare argomento ad un iudicium. Di qui le espressioni di
actionem dare, iudicium dare. Questa distinzione pertanto, fra il ius ed il
iudicium, non ha nulla che fare colla separazione tra il fatto ed il diritto:
ma mira in certo modo a sceverare le questioni, che debbono essere lasciate
alla giurisdizione domestica ed agli arbitra menti privati, da quelle, che
debbono essere giudicate a secundum legem publicam . Questa distinzione fra la procedura
contenziosa e la procedura di esecuzione non è espressamente indicata in Gaio,
il quale si limita a dare come caratteristica delle legis actiones, che esse,
ad eccezione della pignoris capio, si compievano in iure, cioè davanti al
magistrato; ma tale distinzione è comunemente accettata e può dedursi dalla
circostanza, che Gaio comincia in effetto a discorrere delle azioni, che si
potrebbero chiamare processuali, e poi viene a parlare delle procedure esecu.
tive, ancorchè queste fossero certo più antiche della legis actio per
condictionem. In questo stato di cose, la questione fondamentale, che pre
sentasi all'investigatore delle origini della procedura quiritaria, sta in
cercare, se il sistema delle legis actiones debba ritenersi creato di pianta
dopo la legislazione decemvirale ed in base alla medesima, o se invece debba
ritenersi costruito e modellato con materiali giu ridici già preesistenti. A
questo proposito ho cercato di dimostrare a suo tempo, che già fin dal periodo
regio, cosi nei giudizii penali come nei civili, si possono trovare le traccie
di quella separazione fra il ius ed il iudicium, che venne poi ad essere
fondamentale nel sistema delle legis actiones, e che dovettero fin d'allora già
esistervi delle pro cedure consuetudinarie, certamente analoghe a quelle, che
compa riscono più tardi col nome di legis actiones. Che anzi abbiam visto
eziandio essere probabile, che sopratutto all'epoca serviana, in cui si
cominciò ad elaborare un ius quiritium, comune al patriziato ed alla plebe, e
si modello l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram,
siasi pure iniziata la formazione di una procedura propria per le questioni di
carattere quiritario. Le prime origini di tale procedura sembrano accennate
dalla tradizione, che at tribuisce appunto a Servio Tullio, di aver distinto i
giudizii pubblici dai privati, e di aver ritenuto per sè la cognizione delle
contro versie di maggior importanza, mentre avrebbe affidato a giudici scelti
nell'ordine dei senatori, la risoluzione delle controversie di minor
importanza. È infatti questa tradizione, che unita alla considerazione del
grande movimento legislativo, che dovette ve rificarsi in quell'epoca, rende
assai verosimile l'opinione di co loro, che farebbero rimontare a Servio Tullo
l'origine del tribu che egli ci dice essere stata introdotta per l'ultima. Cfr.
BUONAMICI, Op. cit., 19 e 20. È questa
la questione, che fu di recente presa in esame dallo Zocco-Rosa, Palingenesi
della procedura civile romanı, Roma 1887. Egli ridurrebbe le teorie in
proposito enunciate a tre, cioè: 1) a quella che vuol fare uscire la primitiva
procedura dal seno stesso della religione e del ius sacrum; 2) alla teoria, che
egli chiama della preesistenza delle legis actiones alle XII Tavole; 3 ) e alla
teoria della discendenza delle medesime dalle XII Tavole. Egli viene alla
conclusione ammessa dalla generalità degli autori, che prima delle XII Tavole
moribus agebatur, mentre posteriormente lege agebatur. Passa poi a cercare le
origini della primitiva proce dura consuetudinaria presso i popoli di origine
Aria, e questa sarebbe ricerca di grande interesse; ma forse per ora non si
hanno ancora materiali sufficienti per giungere ad una conclusione definitiva) nale quiritario dei centumviri, quella dei
iudices selecti, ed anche la prima distinzione fra l'actio sacramento e la
iudicis postulatio; di cui quella avrebbe aperto l’adito al centumvirale
iudicium, e questa invece alla nomina di arbitri o di giudici, scelti dal
novero dei iudices selecti. Questi indizii tuttavia, che accennano alla for
mazione di una procedura quiritaria, anteriore alle XII Tavole, non impediscono
punto, che la medesima abbia dovuto subire un rima neggiamento in tutte le sue
parti, di fronte ad un avvenimento cosi importante per il diritto privato di
Roma, quale fu quello della le gislazione decemvirale. Non parmi quindi, che
possano essere respinte le attestazioni con cordi degli antichi autori, secondo
cui la procedura civile, se non creata, dovette almeno essere rimaneggiata, in
base alla legislazione decemvirale, per opera del collegio dei pontefici, e che
in quell'oc casione appunto le actiones, essendo state accomodate alla legge,
abbiano assunta la denominazione caratteristica di legis actiones. Che anzi da
questo fatto parmi si possa indurre con fondamento, che la parte del ius
quiritium, relativa alle legis actiones, dovette essere l'ultima ad essere
elaborata dai veteres iuris conditores, al lorchè già erasi formato un vero ius
quiritium, e che, ciò stante, questa parte, per essere sopraggiunta più tardi,
quando le altre già erano formate, non potè ridursi ad una semplice
incorporazione di consuetudini processuali già preesistenti, ma dovette già
essere il frutto di una selezione e di una elaborazione, a cui le medesime
furono sottoposte. Nė può ritenersi improbabile, che questa elabo razione abbia
potuto essere l'opera degli stessi pontefici, quando si ritenga, che essi da
una parte erano i custodi delle tradizioni delle genti patrizie e
personificavano in certo modo lo spirito conserva tore delle medesime, e
dall'altra furono senz'alcun dubbio i creatori della tecnica giuridica, e i
primi maestri alla cui scuola si forma rono i grandi giureconsulti della
Repubblica e dei primi secoli del l'Impero. Parmi anzi, che questa elaborazione
dei pontefici, giure consulti e patrizii ad un tempo, valga a spiegare quel
doppio carattere dell'antica procedura romana, la quale nelle proprie forme e
nei proprii vocaboli richiama ancora l'organizzazione patriarcale, mentre sotto
un altro aspetto è già un capolavoro di tecnica giuridica, che corrisponde
mirabilmente alle altre parti del diritto privato romano e al concetto del
quirite, ispiratore del medesimo. A quel modo in somma, che i veteres iuris
conditores, trascegliendo fra le forme di matrimonio e di negozii già
preesistenti nelle consuetudini delle - 559 genti italiche, riuscirono a
sceverarne un connubium ed un com mercium ex iure quiritium, e a richiamare
l'uno e l'altro a certe forme tipiche e solenni, che costituirono il diritto esclusivamente
proprio della comunanza quiritaria: cosi essi, operando una scelta fra i modi
di procedere, che già potevano essersi formati nei rap porti fra i capi di
famiglia, e in quelli fra essi ed i loro dipendenti, riuscirono a ricavarne una
procedura tipica, che potè essere consi derata come propria della comunanza
quiritaria. Anche qui pertanto i materiali certo erano preesistenti; ma il
primitivo diritto romano non li accetto senz'altro, quali esistevano, il che
avrebbe dato ori gine ad una varietà di procedure, analoga a quella che occorre
presso gli altri popoli primitivi; ma li sottopose invece ad una se lezione,
riducendoli a quelle forme tipiche, in cui tanto si compia ceva il genio
giuridico romano, come lo dimostra il modo, in cui fu rono modellate tutte le
loro istituzioni giuridiche. Fu in questa guisa, che si riuscì ad una
procedura, la quale, mentre è adatta ad un popolo agricolo e militare ad un
tempo, quale era il popolo romano, porta perd le traccie evidenti
dell'organizzazione patriarcale, da cui usciva, e contiene cosi un ricordo
prezioso delle varie fasi, per cui passo lo stabilimento della civile giustizia.
432. Noi abbiamo infatti veduto a suo tempo, come già nella stessa
organizzazione gentilizia, e sopratutto, allorchè al disopra della gens venne a
svolgersi la tribus, e colla riunione dei vici si formò il pagus, già potessero
sorgere controversie di carattere giu ridico fra i varii capi di famiglia, ed
anche fra essi ed i loro di pendenti, e come il bisogno di venire alla
risoluzione di tali con Questa
spiegazione intorno all'origine delle legis actiones ha il vantaggio di mettere
d'accordo fra di loro i passi di antichi autori, relativi a quest'argomento,
che pervennero fino a noi. Con essa infatti può conciliarsi la vetustissimi
iuris ob servantia, a cui accenna Pomponio, coll'attestazione concorde dello
stesso Pomponio e di Gaio, secondo cui le legis actiones furono composte ed
accomodate sulle parole stesse delle XII Tavole. Questi due caratteri, pressochè
in opposizione fra di loro, possono conciliarsi fra di loro, quando si accetti
la teoria, svolta più sotto, di distin guere nella legis actio, come già
nell'atto per aes et libram due parti, cioè la parte mimica, e la verborum
conceptio. È la prima, che costituisce una vetustissimi iuris observantia, ed è
un ricordo delle varie fasi attraversate nello stabilimento della civile
giustizia; ed è la seconda, che potè invece essere accomodata e composta sulle
parole stesse della legge. GAIO, IV, 11; POMP., Leg. 2, 8 6 e 24, Dig. (1,2).
560 troversie, abbia potuto dare origine a certimodi di procedura, che col
tempo dovettero acquistare una vera autorità consuetudinaria. Da una parte si
dovette formare una procedura fra i capi di fa miglia, uguali fra di loro, che
nella loro fiera indipendenza non accettavano altro giudice, che quello che
erasi fra loro concordato, il quale, anzichè giudice diretto della controversia,
lo era invece della scommessa, con cui cercavano di rafforzare l'affermazione
so lenne della propria ragione. Questa è quella procedura, che presso i romani
fu ridotta ad una forma tipica, e denominata actio sacra mento, le cui traccie
trovansi non solo fra le genti italiche, ma anche fra le elleniche, e presso i
popoli Arii dell'India. L'altra invece fu una procedura, la quale ricorda
ancora uno stato di privata violenza, e che probabilmente dovette svolgersi nei
rapporti fra i vincitori ed i vinti, e più tardi nei rapporti fra la classe
superiore dei padri, dei patroni, dei patrizii, e quella infe riore dei servi,
dei clienti e dei plebei. Essa nelle proprie origini dovette essere una
effettiva manus iniectio, ma poscia fu richiamata ad una significazione
giuridica, e significò l'esercizio anche violento della potestà giuridica
spettante a una persona, come lo dimostra il fatto, che essa continuò anche più
tardi ad essere adoperata dal padrone sul servo, dal padre sul figlio, ed anche
dal patrono sul liberto (3 ). Or bene entrambe queste forme di procedere, che
certo ricordano un periodo anteriore di organizzazione sociale, entrarono nella
com pagine del ius quiritium, e vi furono modellate per modo da cor rispondere
alle altre parti di esso. La prima fu adottata come azione tipica, allorchè
trattasi di istituire un giudizio fra quiriti: come tale essa mira a serbare la
più scrupolosa imparzialità ed ugua glianza fra i contendenti, non sapendosi
ancora chi possa essere il vincitore e chi il soccombente. La seconda invece fu
adottata come azione tipica, allorchè trattasi di procedere all'esecuzione
contro chi abbia subita una condanna, o confessato il proprio debito. Quanto alla primitiva formazione delle
actiones, nei rapporti fra i capi di fa miglia della stessa tribù e in quelli
fra i capi famiglia e i loro dipendenti, vedi ciò, che si è detto nel lib. I,
cap. V, 3º, 130. V. in proposito lib. I, nº 104, 135, nota 14. Cfr. il SUMNER MAINE, Early history of
institutions, Lect. IX; e lo Zocco- Rosa, Op. cit., 209(3 ) V., quanto
alle prime origini della manus iniectio. Cfr. CAPUANO, Storia del diritto
romano, Napoli 1878; Cugino, Trattato storico della procedura civile romana, 116;
BuonamiCI, Op. cit., 58. - 561 433. Di qui provennero i caratteri compiutamente
diversi del l'actio sacramento e della manus iniectio. Nella prima abbiamo una
procedura fra eguali; quindi i con tendenti sono in certo modo attori e
convenuti ad un tempo: sono le persone, fra cui si discute, che recansi dinanzi
al magistrato. Esse fingono un combattimento fra di loro; affermano con
identiche parole il proprio diritto; fanno le medesime scommesse di 50 o di 500
assi, secondo il valore della controversia; sono ugualmente obbligati a dare
garanzia (vindicias dare) se siano ammessi al possesso della cosa, che forma
oggetto della controversia. Lo scru polo nel mantenere l'uguaglianza non
potrebbe spingersi più oltre, ed è uguale anche il pericolo per l'uno e per
l'altro dei contendenti; poichè la somma scommessa si perde dal soccombente, e
mentre nell'epoca gentilizia era forse consacrata ad usi religiosi, nel periodo
storico deve andare invece a benefizio del pubblico erario. L'altra procedura
invece, rozza, violenta suppone una assoluta disuguaglianza fra i contendenti.
Quella stessa legge, che procedeva titubante e quasi diffidente per il timore
dioffendere l'indipendenza dei contendenti, non teme invece di accordare diritti
illimitati e pres sochè senza confine al creditore contro il iudicatus ed il
confessus. Essa non si preoccupa dei beni di quest'ultimo, ma dà diritto al
creditore di procedere contro la persona del debitore, di imporre sopra di lui
la sua manus, e di trascinarlo avanti al magistrato per farsi aggiudicare la
persona del debitore stesso. Questi invece non ha diritto di reagire contro la
violenza del creditore (a se de pellere manum ) né di agere pro se lege; ma
solo di nominare un altro, che faccia valere le sue ragioni (vindicem dare) .
Mentre l'actio sacramento è come una rappresentazione simbolica (vis
festucaria) di quel combattimento effettivo (vis realis), a cui poteva dar
luogo una privata controversia fra capi di famiglia indipendenti e sovrani,
dell'interporsi fra essi di un vir pietate gravis, dell'affermazione
scambievole della propria ragione, fatta dai contendenti e rafforzata da una
scommessa, della quale deve esser giudice quegli a cui le parti si sono rimesse;
la manus in Tutti questi caratteri della
legis actio sacramento si possono ricavare dalla descrizione di quest'azione
fatta da Gaio, IV, 13 a 17, per quanto la medesima presenti molte lacune, sia
quanto all' actio sacramento in personam, che quanto all'actio sacramento
relativa agli immobili. Gaio, Comm., C.,
Le origini del diritto di Roma. 36 562 iectio invece è la procedura del
vincitore contro il vinto, di colui, che ha il diritto, contro colui, il quale
ne è privo, di quegli, che può dettare la legge, contro colui, che deve
subirla. Anche la controversia è una lotta: quindi se durante la me desima deve
essere serbata l'uguaglianza, allorchè invece essa è finita, il vincitore può
stendere la propria mano sul vinto e questi è forzato ad arrendersi. Era poi
naturale, che la procedura di un popolo agricolo e militare ad un tempo, per
cui l'asta era il sim bolo del giusto dominio, venisse eziandio ad essere
simboleggiata in una specie di lotta e di conflitto. 434. È tuttavia degno di
nota, che i pontefici, nell'accogliere e nel modellare queste forme di
procedura, si attennero ad un processo del tutto analogo a quello, che abbiam
visto essersi seguito nel fog giare le forme dei negozii giuridici del diritto
quiritario. Al modo stesso, che nell'atto quiritario per aes et libram può
ravvisarsi una parte, che compievasi dicis gratia, propter veteris iuris
imitationem e che costituiva cosi un
ricordo del passato, ed una parte veramente viva, che era la nuncupatio,
mediante cui un medesimo atto poteva accomodarsi ad una varietà grandissima di
negozii, anche di carattere compiutamente diverso; cosi anche nella procedura
primitiva, miri essa ad istituire un giudizio od alla esecuzione di un
giudicato, possono facilmente distinguersi due parti, che compiono una funzione
compiutamente diversa. Havvi anzitutto una parte, che potrebbe chiamarsi
mimica, che si presenta sempre uniforme ed uguale, la quale è mantenuta
evidentemente più come un ricordo del passato, che per l'utilità effettiva, che
si possa ricavarne; come lo dimostra la disinvoltura, con cui si accettano gli
espedienti, che mirano a semplificarla. Questa parte nell'actio sacramento è
rappresentata dal recarsi sul luogo, ove trovasi l'oggetto in contestazione, se
trattisi di immobile; dal portare davanti al magistrato la cosa mobile o una
particella di essa; dal simbolo della festuca, che adoperavasi hastae loco; dalla
finta manuum consertio, dalla mutua provocatio, e dal sacra mentum. Nella manus
iniectio invece essa è rappresentata dal fatto di adprehendere manu qualche
parte del corpo del proprio debitore. È questa parte mimica, la quale,
costituendo in certomodo una soprav vivenza, col tempo divento pressochè
incomprensibile, e potè talvolta essere posta in derisione, anche da autori
antichi e fra gli altri da Cicerone. E tuttavia a notarsi, che lo stesso
Cicerone, allorchè scrisse 563 nell'interesse del vero e non in quello del
cliente, non dubito di dichiarare, che era di grande diletto questa impronta di
vetusta, inerente alle legis actiones, e di affermare che: actionum ge nera quaedam maiorum consuetudinem
vitamque declarant. Queste formalità infatti, conservateci da un popolo, che,
più di qualsiasi altro, seppe sceverare l'essenzialità del fatto umano dalle
circostanze accidentali del medesimo, sono anche oggidi un impor tantissimo
documento del modo di pensare e di agire. che era proprio delle primitive genti
italiche. Intanto perd, accanto a questa parte, il cui mantenimento era
l'effetto dello spirito conservatore del popolo romano, eravi eziandio la parte
veramente viva ed attuosa, e questa consisteva in quelle concezioni verbali,
solenni e precise (conceptiones verborum, verba concepta, certa verba ), che
servivano a dare una configurazione giuridica alle varie fattispecie e a farle
entrare nella veste rigida delle legis actiones. Era in questo modo, che,
malgrado la va rietà infinita delle fattispecie, si riusciva ad isolare
l'obbiettività giuridica delle medesime e a richiamarle tutte a pochissimi
genera agendi. Questo era l'ufficio, a cui attesero dapprima i pontefici, poi
il pretore, e da ultimo i giureconsulti, e fu con questo magistero che la sola
actio sacramento fini per essere accomodata a tutte le controversie di
carattere quiritario, e la sola manus iniectio poté bastare a qualsiasi
procedura esecutiva. Vuolsi quindi conchiudere, che queste due legis actiones
costi tuiscono in certo modo il nucleo centrale della procedura quiritaria.
Esse sono quelle, in cui si può leggere il modo di pensare e di agire del
primitivo quirite, fiero, indipendente, geloso del proprio Co., Pro Murena, vol. 2, scherza
spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla proprietà di un fondo,
dimostrando come le forme primitive avessero complicata una procedura, che
avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De orat., I, riconosce
eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in questo studio
dell'antico, allorchè scrive: Nam si
quem aliena studia delectant, plurima est in omni iure civili, et in pontificum
libris, et in XII Tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum prisca
vetustas cognoscitur, et actionum genera quaedam maiorum con suetudinem
vitamque declarant. A mio avviso, la
conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della nuncupatio
nell'atto per aes et libram. Ciò sarà meglio dimostrato più sotto, nº 449, ed
apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole atte nersi il
primitivo diritto romano. 564 diritto, finchè la sentenza non sia pronunziata;
umile, sottomesso, pronto ad abbandonare se stesso al proprio creditore,
allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria. Intanto però, accanto a
queste due procedure fondamentali, se ne vennero svolgendo delle altre, che
sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di ri cercare lo svolgimento
storico, così della procedura contenziosa, che della procedura esecutiva. 2. – Lo svolgimento storico della procedura
contenziosa nel primitivo diritto. 485. Se l'actio sacramento costituisce il
nucleo centrale della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones,
noi sappiamo però, che attorno ad essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo
la iudicis postulatio fra i cittadini, e la recuperatio fra cittadini e
stranieri, e che alle medesime più tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis
actio per condictionem. Importa quindi di determinare la funzione, che questi
vari genera agendi esercitarono sulla pri mitiva procedura, e di ricercare
eziandio l'ordine progressivo della loro formazione. Delle antiche legis
actiones, quella, intorno a cui ci pervennero maggiori notizie, è certo l'actio
sacramento. Noi sappiamo della medesima, che generalis erat, in quanto che
poteva essere adoperata per tutte le controversie, per cui non fosse stata
introdotta altra speciale procedura, si trattasse di agere in rem, od anche di
agere in personam. Essa quindi sembra riportarci ad un'epoca, in cui non doveva
esistere ancora la distin zione fra l'azione in rem e l'azione in personam; il
che però non impedisce, che essa presentasse delle differenze nelle solennità e
nelle espressioni adoperate, secondo che trattavasi di agere in rem o di agere
in personam. Cosi pure in essa non vi è ancora la distin zione netta e precisa
fra l'attore ed il convenuto, ma i contendenti sono attori e convenuti ad un
tempo, come lo dimostra l'identità delle espressioni da essi adoperate. Infine
essa non conduce alla ri soluzione diretta della controversia, ma piuttosto a
giudicare quale dei due contendenti abbia affermato il vero e quale il falso, e
quale perciò debba essere soccombente nella scommessa fra i medesimi
intervenuta (utrius sacramentuin iustum, utrius sacramentum in iustum sit);
cosicchè in essa il soccombente, oltre al perdere in 565 - direttamente la lite,
corre anche il rischio di perdere la scom messa. Noi sappiamo poi, quanto alle
controversie che dovevano rivestire la forma di questa legis actio, che essa
costituiva un preliminare indispensabile per tutte le cause di carattere
veramente quiritario, le quali erano sottoposte al centumvirale iudicium, ed
anche per quelle relative alla verità ed allo stato delle persone (caussae
liberales), quanto alle quali noi sappiamo, che il sacramentum era solo di
cinquanta assi (quinquagenarium ), e che esse erano devolute ai decemviri
stlitibus iudicandis . Tutti questi caratteri imprimono un suggello di vetustà
all'actio sacramento, e ci richiamano a quella potente sintesi, che è carat
teristica del primitivo ius quiritium, in cui non distinguesi ancora fra
diritto personale e reale, fra attore e convenuto, fra la provo. catio e la
litis contestatio. Si comprende quindi, che la mimica, che la precede, sia come
un ricordo dei varii stadii, per cui passò lo stabilimento della civile
giustizia, fra i capi di famiglia, e che essa, trapiantata dall'organizzazione
gentilizia nella città, sia stata rico nosciuta come l'azione tipica del
diritto quiritario. Ciò spiega eziandio come essa, mentre è certamente la più
antica, sia stata anche la più duratura delle legis actiones; poichè, quando le
altre furono abolite, continud pur sempre ad essere mantenuta qual preliminare
al centumuirale iudicium, cioè davanti a quel tribunale dei cen tumviri, che
può essere considerato come il tribunale essenzial mente quiritario, sia per il
modo, in cui era composto, sia per le controversie, che gli erano sottoposte,
che erano appunto quelle, che riguardavano la posizione di ciascun cittadino
nel censo, e quindi anche nello Stato. GAIO, IV, 13 a 17: Cic., Pro Caecina,
33, ove dice, che in una causa da lui trattata per la libertà di una certa
Aretina fu deciso, che il suo sacramentum era iustum. Di qui le espressioni:
iusto sacramento contendere, iniustis sacramentis petere. La necessità della legis actio sacramento, per
una causa da istituirsi davanti al centumvirale iudicium, è dimostrata dal
fatto che, secondo Gaio, IV, 31, anche dopo l'abolizione delle legis actiones,
fu ancora permesso di agire in questa guisa: a domini infecti nomine, et si
centumvirale iudicium futurum sit . È poi lo stesso Gaio, IV, 14, il quale ci
attesta, che le cause di stato erano precedute dall'actio sacramento, in quanto
che egli afferma, che in base alle XII Tavole il sacramentum per una questione
di libertà era solo di cinquanta assi. L'uso del sacramentum nelle caussae
liberales è poi anche confermato da Cic., Pro Caec. 33. La competenza del centumvirale iudicium, per
le cause di carattere eminente. - 566 436. È invece ben poca cosa quello, che
ci pervenne intorno alla legis actio per iudicis postulationem. Dal palimpsesto
di Verona non si potè ritrarne, che il titolo, mentre da Valerio Probo si
ricavo la formola, che dovette adoperarsi per ottenere la nomina di un giudice
o di un arbitro: iudicem arbitrumve postulo uti des. Nelle XII tavole poi sono
indicati varii casi, in cui trattandosi di controversie di carattere indeterminato,
che suppongono una certa libertà di apprezzamento, e che talvolta sono anche
designate col vocabolo di iurgia, piuttosto che con quello di lites, si propone
la nomina di uno o più arbitri. Bastano tuttavia questi pochiindizii per
dimostrare le molte e gravi differenze, che la contraddistinguono dall'actio
sacramento. Essa in fatti già suppone la persona dell'attore distinta da quella
del conve nuto; suppone una amministrazione della giustizia già organizzata, in
cuiil magistrato procede alla designazione del giudice; conduce alla
risoluzione diretta della controversia; non trae più con sè, per quanto almeno
noi possiamo saperne, il pericolo di perdere una scommessa. Essa parimenti,
come lo indica la sua denominazione, non conduce più alla rimessione dei
contendenti avanti ad un tribunale collegiale, come quello dei centumviri e dei
decemviri; ma dà origine ad un iudicium privatum, nel vero senso della parola,
in cui il giudice o l'arbitro, secondo un antichissimo costume ro mano,
dovevano essere concordati fra le parti . Essa infine differisce eziandio
dall'actio sacramento per il ca rattere di indeterminatezza delle controversie,
che ne formavano oggetto, le quali supponevano una certa libertà di
apprezzamento 1 mente quiritario, è attestata dall'enumerazione fatta di tali
cause da Cic., De orat., I, 38. I casi,
in cui la legge decemvirale parla di nomine di arbitri, sono quelli relativi al
regolamento di confini: si iurgant de
finibus, tres arbitros dato ; alla divisione dell'eredità fra i coeredi (actio
familiae erciscundae); all'apprezzamento del danno dato dall'acqua piovana
(arbiter aquae pluviae arcendae) e qualche altro caso analogo. Vedi KELLER, Il
processo civile romano; ORTOLAN, Expli cation historique des Institutes de
Iustinien, Paris. Sebbene non si possa
dire, che il centumvirale iudicium si contrapponga in senso stretto al iudicium
privatum, tuttavia occorrono passi di autori, in cui i centumviri sono
contrapposti al privatus iudex, come in Cic., De or.; in Quint., Instit. or.,
10, n ° 115, ove scrive: alia apud
centumviros, alia apud iudicem privatum in iisdem quaestionibus ratio . Cfr.
ZIMMERN, Traité des actions, 36, nota 3 e 4. 567 - — nel giudice o nell'arbitro
chiamato a risolverlo; cosicchè, di fronte al iudicium directum, asperum,
simplex, che era istituito col l'actio sacramento, essa iniziava di preferenza
un iudicium od un arbitrium moderatum, mite, in cui cominciava ad essere
lasciata qualche parte a quell'equità e buona fede, che erano escluse dalle
forme rigide e precise del primitivo ius quiritium. Al qual pro posito vuolsi
eziandio notare, che quando si confronti la denomi nazione attribuita da Gaio a
questa legis actio, che è quella di iudicis postulatio, colla formola serbataci
da Valerio Probo, secondo la quale si domanda un giudice od un arbitro, è
lecito di inferirne, che in essa dovette avverarsi uno svolgimento storico.
Essa dapprima infatti dovette implicare soltanto la nomina di un iudex, sotto
il quale vocabolo si comprendeva anche l'arbiter. Più tardi invece, e
probabilmente in seguito alla legislazione decemvirale, la quale am metteva per
certe questioni anche la nomina di arbitri, essa dovette porgere occasione a
quella distinzione fra iudicium ed arbitrium, la quale presentava ancora tante
incertezze all'epoca di Cicerone. Questi caratteri presi insieme mi
condurrebbero alla conclusione, che la iudicis postulatio non presenti più
quell'impronta di vetustà, che è propria dell'actio sacramento, e non possa
perciò considerarsi come una procedura di carattere patriarcale, trasportata a
Roma. Essa invece dove già formarsi sotto l'influenza della vita cittadina, e
dove probabilmente essere una conseguenza della stessa formazione del ius
quiritium. Siccome infatti, secondo appare dalle leggi, che ne governarono la
formazione, il ius quiritium non costitui mai tutto il diritto di Roma, ma solo
quella parte di esso che corrisponde al concetto del quirite, e che primo era
riuscito a consolidarsi mediante il riconoscimento di una lex publica. Cosi ne
consegui necessariamente, che anche le controversie, che potevano sorgere fra i
cittadini, si divi [Cic., Pro Mur.,osserva, scherzando, che i giuristi non si sono
ancora potuti accordare circa l'uso delle parole di iudex o di arbiter. La
difficoltà di allora non è ancora scomparsa oggidì; poichè la distinzione fra
iudicium e arbitrium, fra il ius strictum e l'aequitas, fra la lis e il iurgium,
è una di quelle questioni di limiti, che non saranno mai definitivamente
risolte. Cfr. KELLER. Quanto alla differenza fra iudicium strictum e arbitrium,
mi rimetto al “De exceptionibus in iure romano” (Torino)] dessero naturalmente
in due categorie. Vi erano da una parte le controversie di carattere
eminentemente quiritario, relative al caput, alla manus, al mancipium, all'atto
per aes et libram, ai negozii rivestiti della forma del medesimo (nexum,
mancipium, testamentum ), all'eredità e alla tutela legittima; le quali, per
poggiare sopra una legge o sopra un atto od un negozio di carattere quiritario,
potevano ridursi in certo modo ad una affermazione o ad una negazione, ed
accomodarsi così alle forme rigide dell'actio sacramento. Vi erano invece
dall'altra parte quelle controversie, le quali, o per l'indeterminatezza del
loro oggetto, o per supporre una certa latitudine di apprezzamento in chi era
chiamato a giudicarle, o per dipendere più dalla consuetudine, che da una vera
legge, abbisogna vano in certo modo più di un arbitro, che non di un giudice,
nel significato ristretto, che ebbe ad assumere più tardi questo vocabolo.
Quest'ultime pertanto richiedevano una procedura più semplice, non accompagnata
dai pericoli dell’actio sacramento, in quanto che le parti contendenti possono
anche in parte essere nella ragione ed in parte essere nel torto. Quindi è
probabile, che siano state appunto queste controversie, le quali, al punto di
vista quiritario, hanno minor importanza, che Servio Tullio comincia a deferire
al iudex privatus, introducendo appunto per esse la iudicis postulatio. Così
pure non è punto improbabile, che nella precisione ed esattezza del linguaggio
le prime controversie di carattere quiritario si indicassero col vocabolo di
vere lites, mentre le altre fossero designate piuttosto col vocabolo di iurgia.
Siccome poi col tempo, una parte di quel diritto, che in certo modo esiste allo
stato fluttuante intorno al nucleo centrale del ius quiritium, fini per essere
attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle forme rigide e precise del
diritto quiritario. Cosi si può comprendere, come col tempo la iudicis
postulatio, che dapprima ha un carattere sussidiario, puo entrare anch'essa a
far parte del sistema delle legis actiones. Ciò anzi dovette avvenire
naturalmente, allorchè la legislazione decemvirale accolge la iudicis arbitrive
postulatio, come lo dimostrano le controversie, [L'opinione qui svolta, circa i
rapporti fra l'actio sacramento e le iudicis postulatio, si avvicina a quella
enunziata da KARLOWA (“Der röm. Civilprozess”) per cui essa prescrisse al
magistrato di addivenire alla nomina di un giudice, o di uno o più arbitri. Da
quel punto la iudicis postulatio entra a far parte del sistema della procedura
civile romana. Costitui ancor essa una legis actio; che anzi, per il minor
pericolo che offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento,
come lo dimostra Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di azioni alla
iudicis postulatio, che alla stessa actio sacramento. Questo svolgimento poi fu
sopratutto favorito dalla distinzione, che si opera nella stessa iudicis
postulatio, fra il iudicium e l'arbitrium, il quale ultimo, accompagnato dalla
clausola “ex fide bona”, fini, secondo l'attestazione di Cicerone, per essere
applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in tutti quei negozii, in
cui domina la buona fede, quali sarebbero la società, la fiducia, il mandato,
la vendita, la locazione, e simili. Questi negozii infatti, negli inizii, sono
ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium, e come tali non potevano formar
tema dell'actio sacramento, ma solo della iudicis postulatio, alla quale
probabilmente dovette appartenere la clausola conservataci dallo stesso
Cicerone – “uti ne propter te fi demve tuam captus fraudatusve siem.” Pervenuto
a questo punto nella storia della primitiva procedura romana, parmi opportuno
di arrestarmi alquanto all'esame di un istituto, il quale, malgrado le sue
modeste apparenze, dovette tuttavia esercitare una potente influenza sullo
svolgimento della medesima. Esso è quell'antichissimo istituto, che è indicato
col vocabolo di “reciperatio”, ed al quale si rannoda senz'alcun dubbio quella
categoria di giudici, o di arbitri, che vengono sotto il nome di recuperatores.
Si è veduto in proposito, che nelle consuetudini delle genti italiche era
indicata col vocabolo di “reciperatio” quella clausola, che soleva aggiungersi
aitrattati di amicitia e di hospitium fra le varie genti o tribù, con cui
stipulavasi fra esse un diritto di reciproca actio, cosicchè i cittadini di un
popolo potevano chiedere ed ottenere ragione nel territorio e presso il
magistrato di un altro. Era con [Voigt (“XII Tafeln”) assegna alla iudicis
arbitrive postulatio ben XXXV azioni, di cui IX apparterrebbero agl’arbitria, e
il rimanente ai iudicia propriamente detti. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., -- Cic.,
De offic.] questa clausola, che la protezione giuridica, in base ad un trattato
(foedus), comincia ad oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio
per estendersi a quelli di un altro, con cui si fosse in amichevoli rapporti.
Essa poi aveva questo di particolare, che pone in certo modo di riscontro i
diritti dei due popoli, e rendeva anche necessario il ministero di più
recuperatores, tolti anche da popoli diversi, in quanto che i medesimi doveno
rappresentare l'elemento cittadino e lo straniero ad un tempo. Quando poi si
ritenga, che Roma usci essa stessa dalla confederazione di genti di origine diversa,
e fin dalle proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle amicizie
e colle alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come in essa
la “reciperatio” sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente, e ha col
tempo assunto il carattere di una procedura regolare, da applicarsi nei
rapporti fra i cives ed i peregrini. Cio è dimostrato dal fatto, che gl’antichi
autori indicano talvolta la “recuperatio” col vocabolo caratteristico di actio,
e che in Roma i recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed i
peregrini, si cambiarono in una categoria di giudici, che potevano essere
nominati anche per le controversie inter cives, e sopratutto dal bisogno
sentito più tardi di creare un “praetor peregrinus” “qui inter peregrinos ius
diceret.” La reciperatio s’applica anche al ius pacis, nei rapporti fra le
varie genti. Se fosse lecito di paragonare istituti, che si svolsero a distanza
di migliaia di anni,direi che la reciperatio, nel passaggio dall'organizzazione
gentilizia alla città nel mondo an tico, corrispose a quella istituzione, che
pure ebbe a svolgersi nel periodo di forma zione degli Stati moderni, e che si
esplicò col nome analogo di reciprocanza di diritto, la quale consisteva
nell'accordare agli stranieri quella stessa protezione di diritto, che fosse
accordata ai nostri concittadini nello stato, a cui gli stranieri ap
partenevano. In quei tempi antichissimi la “reciperatio”, come nei tempi
moderni la reciprocanza, concorsero alla formazione dell'idea di una comunanza
di diritto fra i diversi popoli, che presso i romani prenderà il nome di ius
gentium, e che nell'età moderna e dal Savigny indicata col nome di comunanza di
diritto, la quale, secondo il grande fondatore della scuola storica, dove
essere posta a fondamento del diritto internazionale. V. Savigny, “Traité de
droit romain,” trad. Guenoux. Quanto ai rapporti poi, che intercedono fra il
concetto dell'antico ius gentium, e questa comunanza di diritto fra gli stati
moderni, mi rimetto ad altro mio lavoro col titolo, “La dottrina giuridica del
fallimento nel diritto internazionale private” (Napoli) come pure all'opera, “La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino). Quanto
all'influenza, che esercitarono in Roma la recuperatio ed i recupera [Queste
circostanze intanto rendono probabile la congettura, che in Roma, fin dai più
antichi tempi, dovettero trovarsi di fronte due forme di procedura. L'una,
propria dei quiriti, e perciò adatta al rigore del diritto quiritario; l'altra
invece, applicabile ai rapporti fra cittadini e stranieri, e percid più
semplice e spedita. Siccome pero uno stesso magistrato sovraintendeva dapprima
all'una e all'altra, cosi esso veniva ad essere posto nella posizione singolare
di proseguire da una parte l'elaborazione del ius quiritium e di sentire
dall'altra l'influenza del diritto degli altri popoli, e di potere cosi
giudicare dell'opportunità e del bisogno di trasportare nella procedura romana
certe semplificazioni, che sono invece proprie della reciperatio. Di qui una
scambievole influenza di queste due forme di procedura, la quale continua
ancora, allorchè l'accrescersi delle controversie condusse a dividere la
iurisdictio fra due pretori, che nella loro stessa denominazione di “praetor
urbanus” e di “praetor peregrinus” portano le traccie del dualismo, che essi
rappresentano. E questo il motivo per cui, a quelmodo stesso, che i
recuperatores finirono per essere accolti nelle categorie dei giudici fra i
cittadini, così certe procedure, che prima dovettero essere seguite nei
rapporti fra i cives e i peregrini, finirono, come più semplici e spedite, per
essere accolte eziandio nel diritto civile di Roma. Che anzi la coesistenza di
queste due procedure dovette, a mio tores, i quali diventarono col tempo una
istituzione romana e sono i modesti preparatori della maggior opera, che doveva
poi compiere il praetor peregrinus, istituito probabilimente nell'anno 512
dalla fondazione di Roma (KELLER, “Il processo civile romano”, ZIMMERN, “Traité
des actions,” JHERING, “L'esprit du droit romain”, KarLOWA, “Röm. Civil
prozess,” Bouché-LECLERQ, “Instit. rom.,” MUIRHEAD, Histor. introd., quanto
all'applicazione della recuperatio inter cives. Keller nota a ragione che il
riguardare la legis actio come propria soltanto dei cittadini romani, è una
asserzione più volte prodotta, ma non pienamente giustificata. Noi sappiamo
anzi da Gaio, che coll'actio sacramento poteva procedersi, anche davanti al
praetor peregrinus, al modo stesso che il praetor urbanus nomina dei
recuperatores, anche per cause inter cives; ma ciò venne appunto ad essere
l'effetto di questa esistenza contemporanea delle due procedure, la quale
condusse ad uno scambio fra di esse. Intanto qui non può esservi dubbio, che
negli inizii le cause relative allo stretto diritto quiritario, quali erano
quelle, che si recano davanti al centumvirale iudicium, non potevano essere che
assolutamente proprie dei cives romani o dei latini, o dei peregrini, a cui
fosse stato esteso il ius quiritium.] avviso, servire a preparare lentamente
certi effetti, chenegli avvenimenti posteriori appariscono pressochè repentini.
Cosi, ad esempio, essa dovette essere una delle principali cause, per cui, accanto
al concetto rigido del ius civile, si dovette venir gradatamente delineando
nella mente del pretore e dei giureconsulti, che lo circondavano, il concetto
più largo di un ius gentium, il quale, una volta formato, doveva poi recare
cosi profonde trasformazioni nel primo. Cosi pure egli è probabile, che il
pretore in questa procedura, non essendo vincolato ai terminidi una legge,
dovette avere una maggior libertà nel formolare giuridicamente la controversia,
il che lo pose in condizione di poter lentamente preparare, fin da quel tempo,
in cui fra i cittadini duravano ancora le legis actiones, quel sistema delle
formulae, il quale col tempo dove poi essere accolto dal ius civile. Infine,
per non spingere troppo oltre le induzioni, parmi eziandio probabile, che
quella “egis actio per condictionem,” che ultima comparve nel sistema delle
legis actiones, siasi modellata sulla condictio, che certo già esisteva nella
procedura della recuperatio. Noi sappiamo infatti, che questa era appunto
iniziata, mediante una condictio, in quanto che i contendenti condicebant diem,
ossia fis savano di comparire fra XXX giorni, avanti il magistrato, per ot
tenere la nomina dei recuperatores; come lo dimostrano le espres sioni, che
occorrono nelle XII Tavole, di status,
condictus dies cum hoste , il quale doveva essere sacro per modo da essere un
legittimo impedimento a comparire in un giudizio fra cittadini. Sembra tuttavia,
che vi fosse una differenza fra la condictio nella procedura inter peregrinos,
e la condictio come legis actio inter cives; poichè, mentre nella prima era in
certo modo concordato il giorno di comparire avanti al magistrato, nella
seconda invece, secondo la descri zione di Gaio, era l'attore, che intimava al
convenuto (actor adver sario denuntiabat) di comparire fra trenta giorni avanti
almagistrato ad iudicem capiendum . Quanto all' influenza del praetor peregrinus
nel preparare il sistema delle formole e dell'editto provinciale nell'estendere
il concetto del ius gentium è da ve dersi il Glasson (“Étude sur Gajus,” Paris).
Cfr. C., “L'evoluzione storica del
diritto romano” (Torino). Secondo Voigt, XII Tafeln, la legge II, Tav. II, fra
le altre cause di legittimo impedimento a comparire avanti il magistrato,
accenna appunto lo status, condictus dies cum hoste. Cfr. quanto alla “condictio
cum hoste,” il MuruEAD]. Anche intorno alla legis actio per condictionem ci per
vennero notizie molto scarse, in quanto che il manoscritto di Gaio si presenta
manchevole in quella parte, in cui egli, accingendosi a parlare della legis
actio per condictionem, sembrava accennare alle origini di essa. Da quel poco
tuttavia, che egli ne dice, si può ricavare: lº che la sostanza di questa legis
actio consisteva nella condictio, o meglio nella denuntiatio, che l'attore
faceva al conve nuto di comparire fra XXX giorni ad iudicem capiendum; 2º che
nella medesima quella scommessa, che occorreva nel sacramentum, appare
surrogata dalla sponsio et restipulatio tertiae partis, per cui il soccombente,
oltre l'importo della controversia, deve corrispondere al vincitore il terzo
della medesima a titolo di pena; 3º che infine essa fu introdotta prima da una
lex Silia per le obbligazioni di una certa pecunia e poi estesa dalla lex
Calpurnia alle obbligazioni di una certa res: leggi, che sogliono essere
assegnate approssima tivamente al principio del sesto secolo di Roma. Quanto
alla causa, per cui la condictio ha ad essere intro dotta, essa forma oggetto
di discussione fra i giureconsulti, i quali ha ad osservare, che per le
controversie di questa natura possono servire le anteriori legis actiones. Ricomponendo
tuttavia questi pochi indizii col resto, che sappiamo delle legis actiones, si
possono ricavare alcune importanti illazioni. È certo anzitutto, che la
condictio non e del tutto nuova, nè quanto al nome, nè quanto alla sostanza, e
non è punto improbabile, che fosse una imitazione della condictio, propria
della procedura inter cives et peregrinos. Essa poi e accolta nel sistema delle
legis actiones per le controversie, che volgevano o intorno ad una certa
pecunia o intorno ad una certa res. Quindi, riguardando obbligazioni relative
ad un certum, essa dovette restringere il dominio della [Gaio. Quanto alla stipulatio et restipulatio tertiae
partis essa non è accennata nel testo mutilato di Gaio, relativo alla legis
actio per condictionem. Ma noi possiamo indurne la esistenza da ciò, che egli
dice altrove, che questa stipulatio et restipulatio tertiae partis fa parte
dell’actio certae creditae pecuniae propter sponsionem. Ora l' “actio certae
creditae pecuniae”, nel sistema formolario, succedette alla legis actio per
condictionem. Quindi se essa ritiene questo carattere, che certamente sa di
antico, e richiama sott'altra forma la scommessa del “sacramentum”, dove certo
ereditarlo dalla medesima. È poi lo stesso Gaio accenna ai dubbi fra i
giureconsulti circa il motivo, per cui fu introdotta questa nuova legis action]
actio sacramento, anzichè quello della iudicis postulatio, la quale e propria
delle controversie di carattere indeterminato. Per tal modo, la condictio si
presenta come una semplificazione dell'actio sacramentu. Abolisce tutta la
parte mimica del sacramentum. Sostituisce, quanto alle obbligazioni aventi per
oggetto un certum, il giudice singolo al tribunale popolare dei centumuiri. Infine
surroga alla scommessa, che anda a beneficio dell'erario, la sponsio et
restipulatio tertiae partis, che va invece a benefizio del vincitore delle lite.
Quanto alla causa storica, che può aver determinata questa semplificazione
nella procedura relativa alle obbligazioni di un certum, essa deve certamente
essere cercata in qualche importantissima tra sformazione, che dovette
avverarsi nell'epoca della Lex Silia e Calpurnia, quanto alle obbligazioni di
carattere quiritario. Qui per tanto viene ad aprirsi un largo campo alle
congetture. Ma è possibile di giungere a qualche risultato probabile, se si
tenga dietro al processo storico del ius quiritium nella parte relativa alle
obbligazioni. A questo proposito si è dimostrato a suo tempo, che la forma
primitiva dell'obbligazione ex iure quiritium e quella del l'atto per aes et
libram, che piglia il nome di nexum. Colla medesima il debitore sottoponeva
senz'altro la sua persona a tutti i rigori della manus iniectio, per il caso
che non avesse soddisfatto il suo debito a scadenza. In questa parte però il
ius quiritium subi una trasformazione profonda, allorchè la Lex Poetelia tolse
di mezzo gl’effetti speciali del nexum, negando al medesimo l'efficacia di
un'esecuzione immediata contro la persona del debitore. Da quel momento il
nexum cessa di costituire quell'ingens vinculum fidei che prima e, e comincia a
cadere in disuse. Ma sottentrarono in suo luogo e vece altri modi,
esclusivamente proprii dei cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una
certa pecunia, o di una certa res, quali furono ad esempio la “sponsio” o “stipulatio”,
la expensi latio o litteris obligatio, o infine la mutui datio, di cui formano
oggetto quelle cose “quae numero, pondere acmensura constant.” Per tutte queste
obbligazioni di un certum, non essendo più consentita la immediata manus
iniectio, che un tempo era con- [Cfr. in Keller e il Buonamici, “Proc. civ. rom.”]
-sentita per il nexum, non puo più esservi altra procedura, che quella
dell'actio sacramento, la quale, per il pericolo, che vi e inerente, non puo a
meno di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa, il cui
credito risulta in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile. Si
comprende pertanto, che prima la lex Silia, per una certa pecunia, e poi la lex
Calpurnia, per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento la legis
actio per condictionem, in cui evvi ancora un vestigio dell'antica scommessa
nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non va più a
benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il vincitore
ed una pena per il soccombente. Siccome poi nel diritto romano ogni istituto,
che riesce a pene trare nella compagine di esso, ben presto si rivendica il
posto, che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può essere capace;
così la condictio, appena fu ammessa come legis actio, essendo più semplice,
più spedita, meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per richiamare a sè
stessa tutte le controversie relative all'obbligazione di un certum, mentre
l'actio sacramento si circoscrive a tutte quelle controversie, che hanno il
carattere di una vindicatio, intesa in largo senso. Di qui consegui col tempo,
che il vocabolo di “condictio”, nel linguaggio giuridico, divenne pressochè
sinonimo di “actio in personam”, mentre l'actio sacramento finì per significare
di preferenza l'actio in rem o la vindicatio. Ha quindi tutte le ragioni Gaio
di accusare di improprietà l'uso, che facevasi ai suoi tempi, del vocabolo di “condictio”
per indicare l' “actio in personam”, poiché l'essenza della primitiva condictio
non consiste tanto nel dari oportere, quanto piuttosto nella denuntiatio diei.
Ma ciò punto non toglie, che di fatto, in virtù di un lungo processo storico,
verificatosi nel sistema delle legis actiones, l'actio sacramento si riduce alle
sole vindicationes, mentre la condictio e in sostanza divenuta la forma, sotto
cui facevansi valere tutte le actiones in [ Cf. il nexum -- ove trattasi
appunto del comparire della mutui datio e della stipulatio, in surrogazione del
nexum primitivo, che anda in disuso. Anche il MUIRHEAD stiene un'opinione
analoga a quella proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che egli tratta
contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della legis actio per
condictionem. Ho però già notato, come quest'autore ritenga col Leist la
stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da ammettersi.] personam,
e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo dell'actio in personam. Intanto
dalle cose premesse può esser ricavato il seguente svolgimento storico della
procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones. Le due procedure più
antiche, le quali rimontano probabilmente ad epoca anteriore alla fondazione
stessa di Roma, sono l'actio sacramento e la reciperatio. Quella è la procedura,
che e accolta come esclusivamente propria dei quiriti, per le questioni di
carattere quiritario, e quindi negli inizii dove essere la legis actio
fondamentale del ius quiritium, nello stretto senso della parola. Questa invece
si applica nei rapporti inter peregrinos ed anche in quelli inter cives et
peregrinos. Siccome però a Roma e continuo l'attrito fra i cives ed i
peregrini, e l'una e l'altra procedura segue davanti allo stesso magistrato,
così ne venne, che le due procedure finirono per esercitare scambievole
influenza l'una sull'altra. Cosicchè col tempo le forme più semplici e spedite
della procedura inter cives et peregrinos finirono talvolta per essere
trasportate ed accomodate alle esigenze del diritto civile romano. Così, ad
esempio, allorchè fra i cittadini, accanto alle vere lites di carattere
quiritario, che per la precisione ed esattezza di questo diritto, potevano
risolversi affermando o negando, si svolsero delle questioni di carattere più
indeterminato, che chiamavansi piuttosto iurgia, accanto all’actio sacramento,
che continua ad essere l'a zione tipica del ius quiritium, comincia a svolgersi
la iudicis postulatio, la quale fini colla legislazione decemvirale per entrare
eziandio nel novero delle legis actiones. Per tal guise, le controversie, che
hanno per oggetto un certum, si trattano coll'actio sacramento. Quelle invece,
che riguardano un incertum, danno argomento alla iudicis postulatio. Ognuna poi
di queste due legis actiones fini- [Gaio, dopo aver detto, che l'essenza
dell'antica legis actio per condictionem consiste nella denuntiatio diei,
aggiunge: nunc vero non proprie
condictionem dicimus actionem in personam, qua intendimus dari oportere; nulla
enim hoc tempore eo nomine denuntiatio fit.” Gaio ha ragione dal suo punto di
vista, perchè l'essenza dell'actio in personam ai suoi tempi sta non più nella
denuntiatio diei, ma nel dari oportere. Ma storicamente lo scambio della parola
si era operato, perchè nel sistema delle legis actiones la condictio era
divenuta la forma, sotto cui si proponevano tutte le actiones in personam
aventi per oggetto un certum.] per subire una suddistinzione. Quando infatti,
accanto all'actio sacramento, penetra la condictio, la prima fini per
restringersi alle vindicationes, e questa invece attire a sè tutte le actiones
in personam, che avessero per oggetto un certum, e divenne quasi si nonimo di
actio in personam. Cosi pure, allorchè nel diritto civile romano penetra in
parte la considerazione dell'aequitas e della bona fides, nel seno della
iudicis postulatio si opera pure una distinzione; poichè essa puo dar luogo o
alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un arbitro, secondo la
larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro affidata
nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni di equità.
Intanto però, mentre si ha questo svolgimento storico, è probabile, che tanto
la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in parte, imitano delle
procedure, che già si applicano nei rapporti inter cives et peregrinos. Fu in
questa guisa, che, già sotto la veste ferrea delle legis actiones, si vennero
preparando tutte quelle distinzioni di actiones, che poterono poi acquistare un
libero svolgimento col sistema delle formulae. Tali sono le distinzioni fra la
vindicatio e la condictio; fra l'actio in rem e l'actio in personam; fra le
actiones stricti iuris e bonae fidei; fra le actiones certae e le incertae; fra
l'actio nesin ius conceptae e le actiones in factum. Si può quindi conchiudere che,
anche in tema di procedura, tutte le varietà e distinzioni delle azioni
sembrano procedere da un'unica forma tipica, che è quella dell’ “actio
sacramento”, la quale fu il nucleo centrale, intorno a cui si svolge la
procedura contenziosa del diritto; ma che accanto alla medesima fin dai primi
tempi fuvvi la reciperatio per le controversie inter cives et peregrinos, dalla
quale dovettero essere mutuate certe procedure più semplici, come quella della “condictio”.
E poi eziandio in questa procedura, che dove essere applicata dal praetor
peregrinus, che comincia a prepararsi quel concetto del ius gentium, e quel
sistema delle formulae, che esercitarono poi tanta influenza sul diritto civile
romano. Mentre nella procedura contenziosa il diritto cerca di mantenere la più
rigorosa IMPARZIALITA fra i contendenti, esso invece apre l'adito ad una
procedura ben più decisiva, allorchè la lotta fra i contendenti giunse al suo
termine, e trattisi di procedere all'esecuzione contro il soccombente. Anche il
linguaggio giuridico sembra allora richiamare un'epoca di violenza. Ciascuno e vindice
del proprio diritto. Noi veniamo cosi a trovarci di fronte alla manus iniectio
e alla pignoris capio, di cui quella sembra avere il carattere di una
esecuzione contro la persona del debitore, e questa invece il carattere di una
pignorazione contro i beni del medesimo. È tuttavia facile lo scorgere, che
nella procedura quiritaria si preferisce nell'esecuzione di procedere contro la
persona del debitore, anzichè contro i beni del medesimo. Infatti nel diritto
il modo generale di esecuzione per le obbligazioni viene ad essere la manus
iniectio, che è diretta appunto contro la persona. Mentre la pignoris capio
riveste in certo modo il carattere di un privilegium, e viene così ad essere
ristretta a pochissimi casi, che furono specificamente introdotti o dalla legge
o dal costume, e determinati dalla natura del credito. Intanto nell'una e
nell'altra procedura già apparisce evidente, che se i vocaboli richiamano
ancora l'uso della forza, questa pero viene già ad essere regolata dall'impero
della legge; poichè è questa che determina i varii casi, in cui può ricorrersi
all'uno od all'altro modo di esecuzione. Incominciando dalla manus iniectio,
noi troviamo che la medesima, nel ius quiritium, compare sotto forme diverse,
che vogliono essere tenute ben distinte fra di loro. Una prima forma di essa
era la manus iniectio, a cui puo appigliarsi il padrone col servo, che avesse
cercato di sottrarsi al suo potere, e questa era una conseguenza della podestà
del padrone sul servo, di cui rimasero le traccie nella “vindicatio in
servitutem”. Un'altra forma era quella invece, a cui dava origine
l'obbligazione solenne del “nexum”, in base a cui il debitore, che non paga a
scadenza, poteva, anche senza l'intervento del magistrato, essere trascinato
nella casa del debitore, e quivi essere ridotto a condizione pressochè servile,
fino a che non avesse soddisfatto il proprio debito. Vuolsi qui aggiungere, che
Gaio accenna perfino al dubbio surto fra i giureconsulti, relativamente alla
natura della pignoris capio, che alcuni ritenevano non essere una legis actio,
in quanto che la medesima, sebbene si compiesse certis verbis, a differenza
tuttavia delle altre legis actiones, extra ius peragebatur, e poteva perfino
compiersi *in giorno nefasto*. Questa manus iniectio rimonta certamente ad
epoca anteriore alla legislazione decemvirale, ed era una conseguenza del
rigore dell’obbligazione quiritaria, contratta colle formedell'atto per aes et
libram. Questa e quella manus iniectio, la quale, applicata sopratutto nei
rapporti coi debitori plebei, da origine a quelle dissensioni civili, a
proposito dei nexi, a cui cercò di porre termine la Lex Poetelia nel 428 di
Roma. La Lex Poetelia però non e ancora una vera legis actio, in quanto che non
fondavasi sulla legge, ma derivava direttamente dal rigore dell'obbligazione
quiritaria, assunta colle forme del nexum, nella quale la volontà manifestata
dalle parti costituiva legge, ed implica la condanna del debitore. Havvi infine
quella manus iniectio, che occorre nella legislazione decemvirale e che
costituisce un modo generale di esecuzione contro coloro, che avessero
confessato il proprio debito (aeris confessi), o che avessero subita una
condanna giudiziale per il pagamento di una determinata somma (iudicati vel
damnati). A mio avviso, è solo a quest'ultima, che Gaio attribuisce il
carattere di una vera legis actio, e che egli indica col nome di manus iniectio
iudicati, sive damnati. La severità inumana, a cui poteva giungere la procedura
della [Gaio. L'opinione espressa nel testo fondasi sulla considerazione, che
Gaio restringe evidentemente la legis actio per manus iniectionem ai casi de quibus, ut ita ageretur, lege aliqua cautum
est , e si limita a fare una rassegna storica delle varie leggi, le quali,
incominciando da Le XII Tavole, avrebbero consentito questo mezzo di esecuzione.
Nella sua esposizione pertanto non si accenna più a quella rigorosa procedura,
di origine pressochè contrattuale, a cui dava origine il primitivo nexum; tanto
più che la medesima era andata in disuso fin dal tempo, in cui la Lex Poetelia ha
tolte di mezzo le conseguenze speciali del nexum. Non mi sembra quindi il caso
di voler forzare le espressioni di Gaio per far entrare i nexi nella
espressione dei iudicati o dei damnati, adoperata da Gaio. Piuttosto i nexi
dell'antico diritto possono ritenersi compresi negli aeris confessi di Le XII
Tavole, dei quali non era più il caso che Gaio si occupasse. Poichè, se con
quel vocabolo si intendevano gli obbligati col nexum, le disposizioni di Le XII
Tavole sono state abrogate, e se si intendevano gli in iure confessi, non era
il caso di farne una categoria speciale di fronte al principio – “in iure
confessus pro iudicato habetur.” Questa opinione intanto si differenzia da
quella di coloro, che vorrebbero comprendere i nexi nei damnati, di cui parla
Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, e da quella eziandio di coloro, che appoggiati
al testo di Gajo, il quale non parla dei nexi, vorrebbero escludere gli
obbligati col nexum dalla procedura della manus iniectio, e porre imedesimi
nella condizione di tutti gli altri debitori, come Voigt e Cogliolo, nelle note
al PADELLETTI, “Storia del dir. rom.,” il quale pure ha adottato l'opinione del
Voigt.] manus iniectio, e probabilmente una delle cause, per cui la medesima
col tempo diventa oggetto di investigazione curiosa per gli stessi autori
latini, i quali hanno cosi occasione di tramandarci le espressioni testuali di
Le XII Tavole a questo riguardo. Allorchè altri aveva subito condanna per un
proprio debito, gli era prima consentita una specie di tregua (velut quoddam
iustitium ), che durava XXX giorni, in cui doveva avvisare almodo di pagare il
debito (conquirendae pecuniae causa ). Trascorsi i medesimi senza che egli
pagasse, il creditore puo porre sopra di lui la sua manus, condurlo davanti al
magistrato, e quivi pronunziare la formola solenne della manus iniectio. Né al
debitore era lecito di depellere manum a se, né di agere lege pro se, ma solo
poteva nominare un vindex, che fa valere le sue ragioni, dando sicurtà per il
processo e per l'eventuale pagamento del doppio nel caso in cui vincesse
l'attore. Intanto il creditore puo condurre il debitore nel suo carcere, e
quivi metterlo in catene, con scelta al debitore di alimentarsi del suo o di
lasciarsi alimentare dal creditore. Questo arresto durava LX giorni, e negli
ultimi III giorni di mercato, compresi in questo spazio di tempo, il creditore
dove condurlo di nuovo davanti al magistrato, e far pubblica la somma da lui
dovuta accid qualcuno potesse pagare per lui. Che se anche allora non si fosse
fatto il pagamento, il creditore poteva *ucciderlo* o venderlo al di là del
Tevere (“capite poenas dabat, aut trans Tiberim venum ibat”). Ed anzi, se più fossero
i creditori, venivano le famose espressioni conservateci da Gellio – “partis se
canto: si plus minusve secuerunt, se fraude esto.” L'autore, che ci ha serbata
più particolare notizia della procedura esecutiva nel diritto, conservandoci perfino
le parole testuali della legge, è Gellio, Noc. Att., -- dove introduce il
giureconsulto Sesto Cecilio Africano e il filosofo Favorino, a discutere
intorno ad alcune singolari disposizioni del diritto. Interessante discussione,
poichè da una parte abbiamo il giureconsulto, che, riportandosi alle
opportunità dei tempi, cerca di scusare il vigore del diritto. Dall'altra
abbiamo il filosofo, il quale, a nome della ragione, viene combattendone quelle
disposizioni, che il tempo aveva fatto apparire o irragionevoli od inumane.
Intanto, a questa discussione poi dobbiamo la maggior parte di quelle testuali
disposizioni di Le XII Tavole, che a noi siano pervenute, le quali composte
insieme colle informazioni dateci da Gaio, ci porgono le fattezze primitive
della manus iniectio. Si comprende come l'enormezza del potere, che la legge
qui accorda al creditore, lascia
increduli gli antichi ed anche i moderni. Di qui il tentativo recente di Voigt
di interpretare la legge nel senso, che il capite poenas dabat significasse la
riduzione in schiavitù del debitore, e che il partis secanto si riferisse alla
ripartizione del prezzo ricavato dalla vendita, per il caso in cui fossero più
i coeredi del creditore. Certo è, che se noi avessimo soltanto il testo della
legge, questo potrebbe forse consentire questa interpretazione, punto non
ripugnando che la legge attribuisse a quei vocaboli una significazione
giuridica, anzichè letterale. Ma noi, oltre al testo della legge, abbiamo anche
il commento, che vi diedero gli antichi. E questo è tale da escludere qualsiasi
interpretazione più benigna. Noi troviamo infatti presso Gellio, che il
giureconsulto Sesto Cecilio, pur tentando di spiegare il rigore della legge,
punto non accenna alla possibilità di tale interpretazione. Sesto Cecilio dice
invece, che il legislatore, nell'intento di tutelare la fede nei negozii, introduce una pena, che, per la propria
immanità, non puo essere applicata, come in effetto non lo era mai stata. Voigt,
“XII Tafeln”. Egli, ciò stante, nella ricostruzione della legge VIII della Tav.
III, aggiungerebbe alle parole serbateci da Gellio. “Tertiis nundinis, partis secant”
-- le parole “si coheredes sunt” -- il che vorrebbe dire, che se il debitore
era domum ductus da uno dei suoi creditori, egli non poteva più essere soggetto
alla manus iniectio degli altri; ma intanto se fossero stati più i co-eredi del
creditore, che l'aveva domum ductus, i medesimi potevano, in base alle XII
Tavole, procedere contro di lui soltanto per la quota loro spettante di
credito, e perciò dovevano chiedere il riparto della somma loro dovuta. Questa
supposizione è ingegnosa. Ma è difficile di persuadersi, che una espressione
larghissima, quale e quella di Gellio, puo restringersi ad un caso abbastanza
speciale, qual e quello posto innanzi dal Voigt. Questa interpretazione
letterale della legge, di cui si tratta, non e solo attribuita alla medesima da Gellio ma
eziandio da Quintiliano e da TERTULLIANO -- ma con parole alquanto vaghe, e
coll'ag giunta,pur fatta da Gellio, che
la storia non ricorda alcun caso di “sectio corporis”. “Dissectum esse
antiquitus neminem equidem neque legi, neque audiri.” Parmi poi, che un
argomento per questa letterale interpretazione siavi eziandio in quell'altra
disposizione delle XII Tavole. “Si membrum rupit, ni cum eo pacit, talio esto”
-- ove compare in certo modo la stessa tendenza di accordare a colui che ha
subìto un danno per colpa di un altro, una potestà corrispondente sul corpo di
lui. Questa letterale interpretazione ha pure ad essere sostenuta, col sussidio
della giurisprudenza comparata, dal Kohler (“Das Recht als Culturerscheinung”,
Vürzburg) il cui brano relativo è riportato dal MUIRHEAD. Non può quindi essere
il caso di dare alla legge una significazione diversa da quella, che vi attribuirono
gl’antichi, ma piuttosto di cercare, come mai i decemviri possono giungere ad
una disposizione di questa natura. Tale spiegazione non deve essere cercata
tanto nella rozzezza dei costumi romani, quanto piut tosto in quella logica
inesorabile, di cui già sonosi trovate le traccie nelle varie parti del “ius
quiritium”, e sopratutto nel rigoroso concetto, che questo diritto ha a
formarsi dell'obbligazione personale. Al modo stesso che il diritto quiritario,
nella sua logica rude, trattandosi del dominio, immedesimò in certo modo la
cosa, oggetto della proprietà, colla persona a cui essa appartiene. Così pure
esso, nel concepire il diritto di obbligazione, vide nel medesimo un vincolo
strettamente personale, che stringe pressochè materialmente il debitore al suo
creditore (nexum), senza punto preoccuparsi dei beni, che appartenessero a
quest'ultimo. Se quindi il debitore condannato non soddisfi il debito, la
logica del diritto non si appiglie all'espediente di ripiegarsi sovra i beni
del debitore. Procede diritta per la sua via, e verrà così aggravando i mezzi
di co-azione contro il debitore che non paga, nell'intento di forzarlo ad
eseguire il pagamento. Che se le co-azioni di carattere giudiziale od estra-giudiziale
non bastano, questa logica, fissa nel carattere esclusivamente personale
dell'obbligazione, puo anche giungere fino al l'estremo di accordare al
creditore il diritto di vendere o di *uccidere* il debitore, al modo stesso,
che attribuisce al proprietario la facoltà di distruggere la cosa, che gl’appartiene
(ius abutendi). È tuttavia evidente, che il diritto, accordando simili diritti
al creditore contro il debitore condannato, non intende tanto di accordargli un
diritto reale ed effettivo, quanto piuttosto di attribuirgli efficaci e potenti
mezzi di co-azione. Ciò è dimostrato da tutta la procedura. Lo stesso Kohler
già erasi occupato della questione nel “Shakespeare vor dem Forum der
Jurisprudenz” (Vürzburg), di cui può vedersi un largo resoconto del GIRARD
nella “Nouvelle revue historique.” A compimento di questa notizia ricordo anche
l’interessante saggio di ESMEIN, “Débiteur privé de sépulture, nei Mélanges d'histoire de droit” -- ove il
diritto del creditore prende un altro singolare svolgimento, quello cioè di
porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di rifiutare al medesimo il
riposo della tomba, finchè i congiunti o gl’amici non ne abbiano pagato il
debito. Qui la co-azione adoperata s'appoggia sull'opinione popolare che l’ANIMA
del debitore non trova riposo, finchè il suo CORPO non riposa nella tomba.] della
manus iniectio, dalla necessità nei varii stadii della medesima della presenza
del magistrato, dall'obbligo imposto al creditore di far pubblico il suo
credito e di esporre sul mercato la persona del debitore. Ed è questo il
concetto, che ebbe ad esprimere, presso Gellio, il giureconsulto Sesto Cecilio
dicendo che i decemviri. “eam capitis poenam, sanciendae fidei gratia,
horrificam atrocitatis ostentu, novisque terroribus metuendam reddiderunt.” Che
anzi, prendendo alla lettera l'espressione di Le XII Tavole, nella parte, che
si riferisce alla spartizione del corpo del debitore, appare perfino di
impossibile attuazione, poichè vien dichiarato in frode il creditore, che tolga
dal corpo del debitore una parte maggiore o minore diquella che gli sia dovuta,
il che conferma eziandio l'altra espressione dello stesso giureconsulto,
secondo cui – “eo consilio tanta immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam
perveniretur.” Del resto non è questo il solo esempio di questa logica astratta,
propria del diritto, che talora si spinge fino a tale da non essere quasi più
applicabile nel fatto. Il diritto infatti del creditore sul corpo del debitore
trova un riscontro nel diritto al talione, spettante a colui, di cui fosse
stato rotto un membro -- talione che, secondo l'osservazione da Gellio
attrituita al filosofo Favorino, non puo
essere più facilmente eseguito che la spartizione del corpo del creditore in
proporzione dei crediti. Cosi pure esso ha un altro riscontro nel ius vitae et
necis, che giuridicamente parlando spetta al padre sui figli, al marito sulla
moglie, al padrone sullo schiavo, ancorchè in questa parte sia certo, che il
rigore del diritto trova dei temperamenti nel pubblico costume. Non è quindi il
caso di inferire da queste disposizioni l'esistenza di costumi antropofagi
presso i romani. Ma soltanto di scorgere in ciò una nuova prova, che il loro “ius
quiritium”, essendo il frutto di una elaborazione giuridica, la quale mira ad
isolare l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo, fini per essere
governato da una logica inesorabile, che tal volta appare non solo inumana, ma
perfino inapplicabile nel fatto. Dice infatti Favorino presso Gellio: “Praeter
enim ulciscendi acerbitatem ne procedere quoque executio iustae talionis
potest; nam, cui membrum ab alio ruptum est, si ipsi itidem rumpere per
talionem velit, quaero, an efficere possit rampendi pariter membri aequilibrium?
in qua re primum ea difficultas est inexplicabilis”. KOHLER dice
scherzevolmente, che alla lista delle ipotesi escogitate per spiegare questa
disposizione, ne manca una sola, quella cioè che i romani sono degli
antropofagi. Dal momento poi che il primitivo ius quiritium, nella sua
procedura di esecuzione, ha preso di mira piuttosto la persona del debitore,
che non i beni, che ne costituivano il patrimonio, si comprende, che esso,
nella sua perseveranza tenace, stenta più tardi ad abbandonare la via, che
prima segue. Noi troviamo infatti, che nel posteriore svolgimento della
procedura esecutiva in Roma, mentre il diritto civile nello stretto senso della
parola continua sempre a dirigersi contro la persona, anzichè contro i beni del
debitore, e invece il ius honorarium, il quale soltanto molto più tardi riusci
ad organizzare una procedura esecutiva contro i beni, che costituivano il
patrimonio del debitore. L'una e l'altra circostanza è abbastanza comprovata
dalle atte stazioni di Gaio. Questi infatti, parlando delle legis actiones, ci
fa assistere allo svolgimento storico della manus iniectio nel diritto civile
di Roma, dimostrando, come, sul modello della manus iniectio iudicati, altre
leggi abbiano introdotto una manus iniectio pro iu dicato, ed altre abbiano poi
dato occasione ad una manus iniectio pura, la quale, a differenza delle altre
due, non impede che il debitore potesse “manum a se depellere et lege agere pro
se”, senza ricorrere all'opera di un vindex. Posteriormente poi, la legge
Vallia ristrenge di nuovo i casi, in cui non potevasi manum de pellere e pro se
lege agere, a quei due, che primierano stati introdotti, in cui si agiva o in
base a un giudicato, o contro una persona per cui altri aveva dovuto pagare
qual sicurtà. Di questo, secondo Gaio, rimane una traccia anche dopo
l'abolizione delle legis actiones in ciò, che anche ai suoi tempi colui, col
quale si agisce in base a un giudicato o per aver pagato per esso, ”iudicatum
solvi satisdare cogitur.” Lo stesso Gaio poi, sebbene alla sfuggita, dice
altrove, che l'introduzione della bonorum venditio sole essere attribuita a
Publio Rutilio, il quale dovette essere praetor nel 647 di Roma, e noi
sappiamo, che è appunto con questa bonorum venditio, che si introdusse in Roma
un concorso fra i creditori, non dissimile da quello, che ora ha luogo nella
procedura per fallimento. E solo più tardi, che anche il diritto civile, per
mezzo della lex Iulia de [Gaio. È notabile infatti come Gaio in tutta la sua
esposizione della procedura esecutiva non accenni mai alla esecuzione sui beni
del debitore. Gaio, IV, 35. Quanto a questa procedura contro i beni, vedi
KELLER, “Il processo civ. rom.” e quanto alle analogie, che questo con corso
dei creditori presenta col fallimento, cfr. Montluc, “La faillite chez les
Romains” – ] -cessione bonorum, accordo al debitore il mezzo di evitare
l'esecuzione personale, ricorrendo alla cessio bonorum. Ma anche allora questa
cessio bonorum dove essere consentita dallo stesso debitore, e costitui in
certo modo un benefizio, che gli venne accordato per cansare la esecuzione
personale e per evitare anche l'infamia, da cui questa era accompagnata. Quindi
neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione contro la persona, ma
piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso, essendosi introdotto un
mezzo per liberarsi da essa. Parmi poi, che questa preferenza indiscutibile del
ius quiritium per la esecuzione contro la persona del debitore, anzichè contro
i beni spettanti al medesimo, sia stata eziandio la ragione, per cui si
mantenne in così ristretti confini l'applicazione della pignoris capio. Essa
infatti si ridusse ad essere un privilegio per crediti di origine militare (aes
militare, hordearium, equestre), e per crediti di origine religiosa (il prezzo
di un hostia e il nolo di giumento allo scopo di un sacrificio, in dapem). Un
solo caso di pignoris capio lascia traccie durature nella storia delle
istituzioni giuridiche, e fu quello introdotto da una lex praediatoria o
censoria, a favore degl’appaltatori delle imposte, sui fondi che sono gravati
dalle medesime: privilegio di carattere fiscale, che ha un'analogia
incontrastabile col privilegio generale sugl’immobili, che ancora oggidi spetta
al fisco per le imposte dirette. Intanto però sta sempre il concetto, che nel
diritto di Roma è la persona, che risponde direttamente delle proprie
obligazioni, e che la missio in bona deve ritenersi soltanto introdotta dal
pretore. Che anzi è degno di nota, che anche questa procedura sembra negl’inizii
essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo dimostra il fatto, che noi la
troviamo descritta dapprima nella “Lex Rubria” de Gallia Cisalpina. Una ragione
di questa preferenza [Quanto all'origine pretoria dell'esecuzione contro i
beni, vedi eziandio LENEL, “Das Edictum perpetuum”, La lex Rubria, Bruns,
Fontes, attribuisce la facoltà di accordare questa missio in bona al solo
pretore della città di Roma, come lo dimostrano le seguenti parole della legge “Praetor”
– “isve qui de eis rebus Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius
de eius rebus omnibus ius deiicito,
decernito, eosque dari bona eorum, possideri, proscribique venire iubeto, etc. Cfr. WLASSAK, “Röm. Processegesetze”] dell'antico
diritto per la persona, anzichè per i beni del debitore, non potrebbe essa
trovarsi nella considerazione, che tutto il primitivo ius quiritium ha ad
essere modellato sul concetto fondamentale del “quirites”, in quanto era
considerato come una individualità integra e completa sotto l'aspetto giuridico,
la cui parola dava origine al “nexum”, e la cui volontà costituiva una legge,
cosi nei negozii tra vivi come nel testamento? Non abbiamo anche in questo una
conseguenza dal punto speciale di vista, a cui eransi collocati i modellatori
del diritto? Basta ora ricomporre insieme queste varie parti della procedura
romana e metterle in movimento ed in azione, per comprendere come il sistema
della “legis actio”, anzichè essere, come vorrebbero taluni, un complesso di
solennità, escogitate dallo spirito sottile e formalista dei romani, sia stato
invece il mezzo più potente ed efficace,mediante cui venne preparandosi
l'elaborazione del diritto civile romano. La “legis actio” e per cosi
esprimerci, il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica del fatto umano
puo essere isolata da tutti gl’elementi estranei, ed essere ridotta cosi a
quello stato di purezza, che solo si rinviene negli scritti dei giureconsulti
romani. Siccome infatti ogni diritto, per poter affermarsi in giudizio, dove
passare per lo strettoio della “legis actio”: cosi ne venne, che con questo
sistema prima il pontefice, nel modellare la “legis actio”, poscia le parti
nell'adattare alle medesime la loro controversia. Quindi il magistrato nel
determinare i termini, in cui tale controversia dove essere giuridicamente
concepita. Infine i giudici, che doveno di necessità restringere la loro
decisione al punto di questione che e loro sottoposto, attendeno tutti ad un
medesimo lavoro, che e quello di spogliare una fattispecie da ogni elemento
etico (morale) o religioso, con cui si trovasse implicata, per ridurla ad una
configurazione e ad una formola ESCLUSIVAMENTE LEGALE O GIURIDICA. Siccome poi,
il giudice della controversia, o e tolto dalle varie classi o tribù, come i
centumviri e forse anche i decemviri, o scelto nel l'ordine dei senatori, come
i iudices selecti, o convenuto fra le parti, come gl’arbitri, od anche scelto
in parte fra i peregrini, come i recuperatores. Cosi ne veniva, che
l'elaborazione del diritto in Roma e un'opera collettiva, a cui concorrevano
tutti gl’ordini e le V classi, e che puo perfino sentire l'influenza del
diritto e della procedura, che applicasi dei rapporti fra i cittadini e gli
stranieri. Siccome parimenti tutto questo lavoro e unificato e coordinato per
opera del magistrato, che sovraintende all'amministrazione della giustizia, ed
e poi assecondato dall'opera dei giureconsulti, che venivano racchiudendo in
formole la varietà grandissima dei negozii giuridici. Cosi ne venne, che in
Roma fin dai suoi inizii si trova sapientemente organizzato un sistema di
mezzi, il quale mira ad isolare l'elemento giuridico del fatto umano dagl’elementi
estranei, a consolidare le consuetudini fluttuanti in una forma determinata e
precisa, a richiamare le varietà dei fatti umani a certe forme tipiche e
generali. E in questo modo, che puossono scomparire i contendenti e si
sostituirono ai medesimi dei nomi convenzionali -- Aulus Agerius e Numerius
Negidius nella formola processuale, Titius, Caius, Sempronius, etc. in quella
contrattuale --; che una controversia PARTICOLARE e richiamata a certa forma GENERALE;
e che intanto i concetti primordiali, da cui ha preso le mosse il diritto di
Roma, poterono con una logica perseverante e tenace essere spinti a tutte le
conseguenze, di cui erano capaci. E quindi sopratutto in Roma, che il diritto
potè essere l'espressione della coscienza giuridica di tutto un popolo, un
elemento organico della vita sociale, il frutto di un'elaborazione unica e
varia ad un tempo, la quale obbedisce costantemente a quei processi, i quali,
applicati prima dal pontifice, passarono poscia al praetor ed al giureconsulto,
e non furono neppure abbandonati sotto gli stessi principi. Per tal modo, quel
lavoro di selezione, che erasi in Roma iniziato mediante la legge, le quali,
trascegliendo fra le istituzioni delle varie genti, ne hanno ricavato un
diritto tipico, esclusivamente proprio del quirites, e perciò chiamato “ius
quiritium”, venne ad essere eziandio proseguito nella interpretazione della
legge e nell'amministrazione della giustizia, le quali si sforzarono dapprima
di fare entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente
dei rap porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e
vennero poi gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse, allorchè
esse cominciavano ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di
provvedere. Per tal modo il “ius quiritium” si allarga ed amplia nel “ius
proprium civium romanorum”; poscia accanto a questo venne svolgendosi il “ius
honorarium”, il quale pur derogando al ius civile ed assimilando nuovi
elementi, li forza tuttavia ad entrare in forme analoghe a quelle già preparate
dal ius civile. È in questa guisa, che il diritto romano, dopo essere stato la
selezione più rigida dell'ELEMENTO ESCLUSIVAMENTE GIURDIICO E NON ETICO, che
presenti la storia, ed essere stato una produzione esclusivamente propria del
popolo romano, viene a poco a poco attirando nella propria cerchia le
considerazioni di equità e di buona fede, assimilando quelle istituzioni delle
altre genti, che potevano ricevere l'impronta del genio giuridico di Roma,
finchè non diventa tale da poter essere comune a tutte le genti, che avevano
somministrato i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Può darsi ed è
anzi probabile, che i principii di questa grande opera di selezione sono
dapprima inconsapevoli, come gl’inizii di tutte le opere umane, e fossero
determinati dal modo di formazione di Roma, e dal genio eminentemente giuridico
dei fondatori di essa. Ma egli è certo eziandio, che essa non tarda a cambiarsi
ben presto in un'opera consapevolmente voluta e proseguita con una perseveranza
tenace, di cui non potrebbesi trovare paragone. Così, ad esempio,
dell'importanza della “legis actio” già dovette aver consapevolezza il
patriziato romano, allorchè, dopo avere in parte reso comune alla plebe il
proprio diritto, continua tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici
la formazione della “legis actio”, e la cambia in un segreto di professione e
di casta; come pure dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana, come
lo dimostra la sua riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la tradizione,
ha resa di pubblica ragione la piu primitiva “legis actio”. Questa influenza
poi del sistema delle azioni venne ad essere anche maggiore, allorchè
l'abolizione della “legis actio” e l'intro duzione del sistema delle formole
attribui da una parte al magistrato libertà maggiore nella concezione giuridica
delle varie fattispecie, e dall'altra gli porse eziandio il modo di introdurre
nuove azioni, accanto a quelle, che si fondano direttamente sui termini della
legge. Fu in quest'epoca, che il medesimo, oltre al ius dicere, si [(Pomp.,
Leg., Dig.; Liv. Secondo la tradizione, Gneo Flavio e dalla riconoscenza della
plebe elevato alla dignità di *tribune* della plebe, di senatore e di edile
curule.] trova eziandio nella necessità di edicere, ossia di pubblicare,
entrando in ufficio, la norma, che avrebbe applicate nell'amministrazione della
giustizia; che accanto ai iudicia legitima si svolgeno quelli imperio
continentia; che, accanto alle “actiones legitimae”, quae ipso iure competunt,
se ne formarono eziandio di quelle, “actiones quae a praetore dantur.”Da quel
momento il “praetor” puo essere considerato come una “lex loquens”, e venne in
certo modo ad essere arbitro sovrano nell'amministrazione della giustizia. Tuttavia
l'abolizione della “legis action” e la sostituzione del sistema delle formulae
devono essere intese alla romana, il che vuol dire, che l'abolizione è soltanto
parziale e non impedisce la sopravvivenza dell' “actio sacramento”, come
preliminare del “centum. virale iudicium” e di quello “damni infecti nominee”,
al modo stesso che l'introduzione delle formulae, anzichè una rivoluzione, è
piut tosto il riconoscimento e l'adozione fatta per legge di una pratica, che
dove già essersi prima introdotta nel fatto. È infatti probabile che il sistema
delle formulae già puo esser applicato nella “procedura inter cives et
peregrinos”, nella quale non potevano essere applicate la “legis actio”, e che
in tal guisa una procedura propria della “recuperatio” sia penetrata nel “ius
proprium civium romanorum”, almodo stesso, che più tardi l'”actio sacramento” puo
eziandio essere proposta davanti al “praetor peregrinus”. Il sistema delle
formole e in certa guisa già contenuto in germe nel sistema della “legis actio”.
A quel modo, che la “stipulatio” riducesi in sostanza alla parte nuncupativa
del “nexum”, la quale, liberata dalla solennità del l'atto “per aes et libram”,
puo essere adattata alla varietà dei negozii [Gaio dice espressamente, che,
negl’esordii di questo sistema di procedura, “edicta praetorum nondum in usu
habebantur”. Era quindi naturale, che quando questi sono introdotti, accanto a
quella parte di diritto, che fondasi direttamente sulla legge, e che perciò da
origine alle denominazioni di “actus legitimus”, “actio legitima”, “iudicium
legitimum”, si svolgesse un diritto, che fondasi in certo modo sull'autorità
del magistrato, e che, come tale, “imperio continebatur”, il quale finì poi per
essere compreso sotto il concetto di “ius honorarium”. È poi Cic., pro
Cluentio, il quale ha a dire, che siccome la legge e al disopra del magistrato,
e questo è al disopra del popolo, “vere dici potest magistratum legem esse
loquentem -- legem mutum magistratum.” Quanto ai concetti di “actio legitima” e
di “iudicium legitimum”, vedi WLASSAK. Sull'influenza del “praetor peregrinus”
e dell'edictum provinciale sul sistema delle formulae, v. Glasson, “Étude sur
Gajus”] giuridici. Così, la formola consiste essenzialmente in quei “concepta
verba”, che già occorrevano nella “legis actio”, salvo che questa “verborum conceptio”,
liberata dalla parte mimica, da cui era accompagnata, e da quel rigore di
termini (“certis verbis”), che era propria della “legis actio”, puo acquistare
una duttilità e pieghevolezza, che la prima non ha. Noi trovammo infatti, che
già sotto la veste ferrea della “legis actio”, ogni modus agendi finisce per
abbracciare diverse azioni particolari. Queste azioni già cominciano a
distinguersi nelle “actiones in rem” in “actiones in personam”, in quelle, che
hanno per oggetto un certum od un incertum, e in quelle, che dano origine ad un
iudicium o ad un arbitrium. Or bene tutti questi materiali, che ancora erano
riuniti nella sintesi potente della legis actio, si trovano in certo modo
abbandonati a se stessi, e si cambiarono in altrettante azioni, autonome ed
indipendenti, aventi un nome specifico, una propria formola ed un proprio
contenuto, e diedero cosi origine a quello splendido ed opulento sviluppo, che
ebbe ad avverarsi col sistema delle formole. Quella libertà della formola, che
sarebbe stata pericolosa negl’inizii della elaborazione giuridica, venne invece
ad es sere opportuna, quando questa era già iniziata ed abbastanza progredita.
Le prime formole, essendo state preparate sotto la rigida disciplina della “legis
actio” e del “ius pontificium”, indicano abbastanza la via, in cui dove
mettersi il magistrato per continuare l'opera già incominciata. È questa la
ragione, per cui il “praetor”, malgrado la libertà apparente, che lo
appartiene, sia di introdurre nuove azioni, sia di modificare le formole già
ricevute, procede in cio molto a rilento, ed ama piuttosto di ricorrere a
finzioni e di forzare cosi fatti ad entrare nelle forme riconosciute dal
diritto, che non di alterare la forma che già e accolta. Per tal modo, il nuovo
trova sempre un addentellato nell'antico, anche allorchè mira ad introdurre una
modificazione al medesimo, e intanto ciò non impedisce, che una parte del diritto,
che vive fluttuante pelle consuetudini, accanto al vero ius civile, si venisse
ancor esso consolidando sotto forma di un ius honorarium, che è pur sempre
modellato sul primo. Così pure, nella opera progressiva del praetor
succedentisi l’uno all’altro, puo manifestarsi uno spirito di continuità, per
cui le azioni ed eccezioni introdotte opportunamente da alcuno di essi finirono
per costituire un ius translaticium, che passa al praetor successore, e serve cosi
a preparare i materiali, che raccolti e coordinati costituirono poi l'editto
perpetuo di Salvio Giuliano. In questa condizione di cose appare ad evidenza
l'importanza del sistema delle azioni, poichè ogni progresso pratico della
giurisprudenza romana viene ad esser introdotto, o per mezzo di una nuova azione,
che tuteli un diritto prima non riconosciuto, o per mezzo di una eccezione, che
neutralizzi l'effetto di un'azione già riconosciuta dal diritto civile.
Allorchè poi un'azione è accolta od un'eccezione è ammessa, essa viene ad
essere come un centro, intorno a cui si moltiplicano le formole per abbracciare
l'infinita varietà delle fattispecie, finchè si giunge a quella ricchezza di
formole, a cui accenna Cicerone, allorchè dice: -- “sunt formulae de omnibus
rebus constitutae, ne quis aut in genere iniuriae aut in ratione actionis
errare possit: expressae sunt enim, ex uniuscuiusque damno, dolore, incommodo,
calamitate, iniuria, publicae a praetore formulae, ad quas privata lis
accomodatur.” Le formole pertanto servirono anch'esse ad ampliare e a compiere
quel lavoro di selezione, iniziato sotto l'impero della “legis actio”. Esse si
accomodano alle varie fattispecie. Isolano l'elemento giuridico da ogni
elemento estraneo, gl’elementi essenziali del fatto umano dalle circostanze
accidentali: accolgeno quelle aggiunte, che sono rese necessarie dalla maggiore
varietà dei negozii; riassunggeno le varie fasi della controversia in guisa da
presentare come uno specchio ed un compendio dell'intiero giudizio. Queste
formole poi non furono qualche cosa di esclusivo alla procedura. All'epoca
stessa, in cui penetrarono in questa, si vennero eziandio esplicando nel contratto,
nei testamento, nei legato, e in ogni altra parte del diritto civile romano, e
vi portarono cosi dappertutto l’ESATTEZZA E LA PRECISIONE DELLA LOGICA DEI
CONCETTI GIURIDICHI, non disgiunta da elasticità e pieghevolezza alla varietà
infinita dei negozii. È quindi facile il comprendere come il pontefice, il pretore
e il giureconsulto, non credeno indegno del loro ufficio l'attendere alla
composizione delle formole, e come bene spesso l'invenzione di una formola ha reso
celebre e tramandato fino a noi il nome di un pretore o di un giureconsulto.
Basta perciò aver presente l'importanza grandissima e la larghissima
applicazione, che [Cic, Pro Roscio -- Cfr. WLASSAK. Occorrono delle notevoli
osservazioni sulla importanza delle formole nel diritto civile romano presso
LABBÉ-ORTOLAN, “Explication historique des Institutes de Justinien” (Paris)] ricevettero
le clausole “ex fide bona” “quando aequiusmelius” e “propter te fidemve tuam
fraudatus siem” -- le formole aquiliane de dolo malo ed altre, che sarebbe
lungo ricordare; le quali serveno a far penetrare nel diritto la considerazione
dell'equità e della buona fede, e a dare forma concreta e pratica applicazione
alle lente mutazioni, che si venivano operando nella coscienza giuridica del
popolo romano. E infatti per mezzo di una piccola aggiunta in una formola
contrattuale e giudiziaria, che le aspirazioni latenti della coscienza
giuridica popolare ricevevano applicazione pratica, e che il diritto fluttuante
nelle consuetudini venne ad ottenere la tutela e la sanzione dell'autorità
giudiziaria. Questa considerazione mi
porge opportunità di conchiudere questo saggio, spiegando un carattere del
tutto peculiare della giurisprudenza romana. Nostro tentativo di “ri-costruzione”
del primitivo ius quiritium quanto meno dimostra che il diritto civile romano,
anzichè essere il frutto di una incorporazione qualsiasi di consuetudini
preesistenti, operatasi a caso e lasciata in balia delle cir costanze, fu
invece governato, fin dai proprii inizii, da una logica fondamentale, che non
venne mai meno a se stessa. Esso può es sere paragonato ad un lavoro lento di
cristallizzazione, in virtù di cui gli elementi affini, fluttuanti in un
liquido, cominciano dal precipitarsi a poco a poco, e poi si compongono
insieme, atteggiandosi costantemente a quelle forme tipiche, che sono imposte
dalla legge, che ne governa la formazione. Se ciò è fuori di ogni dubbio,
vuolsi però anche ammettere, che questa dialettica fondamentale, la quale regge
tutta la formazione del diritto civile romano, sembra in certo modo essere
dissimulata nelle opere anche dei grandi giureconsulti. In tali opere, per quel
poco che a noi ne pervenne, i singoli istituti appariscono come autonomi ed
indipendenti gli uni dagli altri, go [Questa importanza delle formole appare
sopratutto nelle formole processuali, poichè ogni progresso
nell'amministrazione della giustizia lascia in certo modo le traccie nella
composizione della formola giudiziaria. Questo concetto ha ad esprimere, molti
anni or sono, in “De exceptionibus in iure romano” (Torino) -- colle seguenti
parole. “Neque vereor dicere, omnia quae in
iudiciorum ordine, progressione temporum et seculorum elaboratione,
invecta fuerunt ad corrigendam, producendam, emendandam et adiuvandam
antiquissimi iuris formulam quodammodo
adhibita fuisse.”] --vernati ciascuno da una propria logica, senza che più si
scorgano le commettiture, che possono stringere un istituto cogli altri. Vero è,
che considerando attentamente il formarsi di ogni singolo istituto, facilmente
si riconosce la mano di artefici, educati tutti alla medesima scuola, cosicchè
i varii istituti si possono paragonare ad altrettanti cristalli foggiati sulla
stessa forma. Ma intanto più non si scorgono le traccie della legge, che ne
governa la formazione. Era questo disordine apparente dei giureconsulti, che
torna grave alla mente FILOSOFICA ed ordinata di Cicerone, il quale perciò
giunse fino a dire, che i primi grandi maestri cercano di dissimulare la
propria arte. Ma se questo potè forse esser vero, finchè la scienza del diritto
– come la filosofia, dopo -- e un monopolio della gente patrizia, o meglio del pontefice
massimo, custode delle loro tradizioni, non può più ammettersi per il tempo, in
cui la casa del giureconsulto e aperta a tutti coloro, che volevano consultarlo.
Anche i plebei furono ammessi a questo collegio dei pontefici e a professare
giurisprudenza. Non è quindi in una causa alquanto puerile e di carattere
transitorio, che vuolsi cercare il motivo di questa specie di contraddizione,
che presenta l'elaborazione della giurisprudenza romana. Ma questo e piuttosto il
modo, in cui venne in Roma operandosi l'elaborazione stessa. A questo riguardo
vuolsi aver presente, che i modellatori del primitivo diritto di Roma – “veteres
iuris conditores” – non hanno mai in animo di insegnare una scienza, ma
piuttosto di professare un'arte (“iuris prudentia”), che forma solo più tardi
argomento di scienza. Essi quindi non intesero punto di soddisfare alle
esigenze didattiche, nè di introdurre quell'ordine sistematico, che è proprio
della scienza. Si proposero sopratutto di soddisfare alle esigenze pratiche.
Sono i casi, che si venneno presentando, che loro offrivano occasione di
applicare l'arte loro. Siccome per tanto nella pratica era l' “actio”, che
predomina, poichè era con l’ “actio”, che il diritto sperimenta se stesso. Così
ne venne, che dapprima sono la “legis actio” che costitue il punto di richiamo
dell'elaborazione giuridica, e determina l'ordine, a cui la medesima venne
obbedendo. Quando poi la sintesi potente della “legis actio” venne ad essere
disciolta, e pullularono così azioni e formole, molteplici e svariate, aventi
ciascuna una propria vita ed una propria funzione nella formazione dei negozii
e nell'amministrazione della giustizia, sono eziandio le actiones, l’”interdictum.”
-- Cic., De orat., I. la “exceptio” e simili, che costituirono il punto
centrale, intorno a cui dovette appuntarsi l'arte dei giureconsulti. Quindi è,
che essi, per quanto ubbidissero ad una dialettica fondamentale, trascurarono
naturalmente di far scorgere i fili, che componevano la trama. Cosicchè la
girusprudenza apparisce come a frammenti, e ravvicinano istituti, che non hanno
attinenza, disgiungendone altri, che sono in vece strettamente affini fra di
loro. Di qui la conseguenza, che la costruzione giuridica romana non segue il
processo dei concetti fondamentali, da cui parte, ma venne seguendo invece
l'ordine, prima, di Le XII Tavole, e, poscia, dell'Editto. Nè questo disordine
apparente puo recare imbarazzo agl’esperti, perchè l'arte in essi era viva e
feconda. Puo invece riuscire grave agl’altri, i quali, come Cicerone, cercano
di inoltrarsi in questo campo con un indirizzo mentale concettuale e filosofico
– di ‘re-costruzione logica.’. Fu soltanto, allorchè la ricchezza dei materiali
comincia ad ingombrare il campo, che si senti il bisogno di introdurre questa o
quella distinzione sistematica, al modo del Liceo per genere e specie, ma anche
queste distinzioni non compariscono nelle opere di costruzione giuridica
propriamente detta, quali sono quelle dei classici giureconsulti, ma soltanto
nell’opere di carattere didattico o tutoriale -- donde la spiegazione
dell'ordine diverso, che occorre nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano e
nelle Pandette. Siccome poi anche l'ordine sistematico, introdotto nelle
Istituzioni, ha naturalmente lo scopo pratico di coordinare la giurisprudenza
romana nello stato in cui si trova, anzichè di fare assistere alla formazione
progressiva di essa; cosi ne viene, che anche le distinzioni, che occorrono in
Gaio ed in Giustiniano, danno talvolta come contemporanei degl’istituti, che
possono avere avuto origine in epoca compiutamente diversa. Ne consegue, che la
giurisprudenza romana, quale a noi pervenne, colle sue proporzioni armoniche e
colla coerenza delle sue varie parti, cela in certo modo la trasformazione
lenta e graduata, che venne operandosi in essa, e la dialettica, che ne governa
la for [Ciò appare sopratutto nelle “Receptae sententiae” di Paolo Diacono.
Questo apparente disordine invece è alquanto minore nei cosidetti “Fragmenta”
di Ulpiano, in quanto che questo lavoro di Ulpiano segue già passo passo
l'ordine dei “Commentarii” di Gajo, abbreviandoli in qualche parte, e facendovi
altrove qualche aggiunta, che altera talvolta le armoniche proporzioni dei “Commentarii”
di Gajo. Questi ultimi poi, a parte l'originalità maggiore o minore del
giureconsulto, sono il nostro modello di ordinamento sistematico, fatto in un
intento didattico o tutorial per l’elite diriggente. Cfr. Huschke, Jurisp.
antijustin., ed i proemii da lui preposti alle opere sopra citate dei
giureconsulti] –mazione. Ma ciò punto non impedisce, che, penetrando sotto la
scorza di essa, tosto si incontrino le traccie di materiali e di ruderi, che
appartengono a sorgenti e ad epoche diverse, e rivelano cosi al l'investigatore
i diversi periodi e momenti, per cui passa la lenta e graduata formazione della
legislazione romana. Giunto al termine di questo faticoso lavoro di
ricostruzione, ritengo opportuno di riassumere a grandi linee quelli fra i
risultati a cui sono pervenuto, che possono cambiare in qualche parte il modo
comunemente seguito di spiegare la storia primitiva di Roma, nel l'intento
sopratutto di porre in evidenza quella mirabile coerenza organica, che sempre
si mantenne nello svolgimento storico delle istituzioni di Roma. Allorchè le
genti italiche si sovrapposero alle popolazioni già prima stanziate sopra quel
suolo, che più tardi e denominato “italic”, dove avverarsi un periodo di forza
e di violenza, non dissimile da quello, che si avvero più tardi all'epoca delle
invasioni barbariche, ed il maggior bisogno, che dove sentirsi allora dai
vincitori e dai vinti, e quello di uscire da quello stato di privata violenza. E
allora, che le genti sopravvenute, memori forse delle tradizioni, che portavano
dall'antico oriente, irrigidirono la propria organizzazione gentilizia,
cercando di attirare nella medesima anche le popolazioni dei vinti, e
costituirono così l'aristocrazia territoriale dei patres, dei patroni, dei
patricii, mentre i vinti sono organizzati nella classe inferiore dei servi, dei
clienti, e infine dei plebei. Questa organizzazione, malgrado le differenze nei
particolari, assunge pressochè dapertutto un carattere uniforme, non dissimile
da quello dell'organizzazione feudale nel Medio Evo. Essa organizzazione venne
cosi ad essere composta di familiae, di gentes e di tribus, strette in sieme
dal vincolo di discendenza reale o fittizia da un medesimo antenato, le quali
risiedevano rispettivamente nella domus, nel vicus e nel pagus, mentre il
territorio da esse occupato era ripartito in heredia, in agri gentilicii, e in
compascua. Fu a questo stadio del proprio svolgimento, che le genti italiche
presero tutte a travagliarsi intorno alla grande opera del passaggio
dall'organizzazione gentilizia a Roma. Questa organizzazione ha sopratutto lo
scopo di assicurare la comune difesa e di fortificarsi nelle lotte pres sochè
quotidiane fra i varii gruppi. Roma comincia dall'essere un sito fortificato (“arx”,
“oppidum”, “capitolium” ) per servire di rifugio in caso di pericolo. Poi
diventa un sito per il mercato (“forum”) e un luogo di riunione dei capi di
famiglia delle varie comunanze confederate per la trattazione degli affari
comuni (“conciliabulum”, “comitium”). E posta sotto la protezione di un divino
– “dius,” “dius-piter” --, comune patrono. Finchè da ultimo sotto la protezione
della comune fortezza cominciano eziandio a costruirsi le abitazioni private.
Non tutte le stirpi però sono pervenute al medesimo stadio di svolgimento, nè
tutte hanno seguito il medesimo indirizzo nella formazione di Roma. Mentre gl’umbro-sabelli
adereno ancora strettamente alla organizzazione gentilizia, e gl’etruschi sono
già pervenuti alla città chiusa e fortificata, i Latini invece si trovano in
uno stato intermedio. I latini sono pervenuti a Roma di carattere federale,
considerata come un centro della vita pubblica per varie comunanze di villagio.
È al buon seme latino, che s’attribuie l'origine del nome di Roma. Roma comincia
dall'essere lo stabilimento fortificato di un nucleo di uomini forti ed armati –
“vir”, “quirites”), staccatisi d’Alba per cercare altrove sorti migliori,
secondo una consuetudine comune delle genti primitive, fidenti sopratutto nella
forza del proprio braccio, ma non immemori delle tradizioni proprie della
stirpe, a cui appartenno. Le lotte di questo nucleo di uomini di arme,
stabilitosi sul Palatino, i quali, senza essere ancora veri capi di famiglia,
tendeno a diventarlo, colle comunanze di villagio stabilite sulle alture
circostanti dell'antico septimontium, lo conducenno prima alla comunanza dei
connubii e in seguito alla confederazione colle medesime. Percorse due periodi
compiutamente distinti -- cioè: il periodo della città federale, in cui Roma è
una città esclusivamente patrizia, ed è un centro di vita pubblica fra varie
comunanze gentilizie. Il secondo, quello in cui Roma, esclusivamente patrizia
associasi anche la plebe circostante delle periferii, già pervenuta ad una
certa agiatezza, nell'intento sopra tutto di provvedere alla comune difesa, e
chiude nelle proprie mura le primitive comunanze di villagio, che entrano a
costituirla. Nel primo periodo, i
cittadini di Roma sono i capi famiglia delle genti patrizie, confederati in uno
scopo di comune difesa, e la loro città, posta nel centro delle varie comunanze
di villaggio, rispecchia in se medesima le istituzioni dell'organizzazione
gentilizia, a quella guisa che un lago limpido rispecchia le abitazioni e i
villaggi, collocati sulle alture, che lo circondano. Essi infatti trapiantano a
Roma, centro della loro vita pubblica, le proprie istituzioni gentilizie, salvo
che le medesime, assumendo un intento essenzialmente civile, politico e
militare, cominciano a perdere alquanto il proprio carattere patriarcale, e
ricevono cosi uno svolgimento compiutamente diverso. Roma esce cosi dalla
confederazione e dal l'accordo dei capi di famiglia (patres) e dei loro
discendenti (patricii). Ma intanto assume un carattere religioso, politico e
militare ad un tempo, come le genti che concorsero alla sua formazione. Sono i
pontefici, che ne serbano le tradizioni giuridiche e religiose ad un tempo. Gli
auguri modellano gli auspicia publica sugli auspicia, a cui già ricorrevano i
capi di famiglia o delle genti. I feziali serbano le tradizioni relative ai
rapporti fra le varie genti. In questo periodo la città serve ad operare la
selezione della vita pubblica, che comincia a spiegarsi nella città, dalla vita
domestica e patriarcale, che continua a svolgersi nelle varie comunanze di
villaggio. L'urbs infatti designa l'orbita sacra, in cui trovansi riuniti gli
edifizii aventi pubblica destinazione, ed ha nel proprio contro il tempio di
Vesta e la domus regia. La civitas non comprende ancora quelli rapporti soltanto
che si riferiscono alla vita civile, politica e militare. Il populus non
comprende tutta la popolazione, ma quella parte eletta della medesima che puo
giovare alla res publica col braccio (“iunior”) o col consiglio (“senior”). Per
tal modo il grande intento della città in questo periodo e quello di sceverare
la vita pubblica dalla privata – “publica privatis secernere” --, di modellare
il concetto della “res publica”, in quanto essa ha un'esistenza distinta dalla “res
familiaris”, e di architettarne la costituzione politica, la quale venne cosi
ad uscire dal concorso di tutti gli elementi, che entravano a costituirla. La
sorgente della pubblica potestà risiede quindi nel “populus.” Ma in tanto la
parte dovuta all'età e all'esperienza nel provvedere all'interesse comune viene
ad essere rappresentata dal “senatus”, che è già elettivo ed è nominato dal “rex”;
il quale alla sua volta è l'eletto del “populus” e unifica in se medesimo l'”imperium”,
che il medesimo gli conferisce. Tutto cio, che riguarda l'interesse comune, si delibera
col concorso di tutti questi elementi, cioè essere proposto dal re, appoggiato
dal senato, votato dal popolo. Cosicchè, la legge assume la forma di una
pubblica stipulazione – “communis reipublicae sponsion”. Per quello invece, che
si riferisce alla vita domestica e privata – “res familiaris” --, essa continua
a svolgersi nel seno della “domus”, del “vicus”, del “pagus”, sotto la potestà
dei capi di famiglia o delle genti. Queste continuano a possedere le proprie
terre sotto la forma collettiva di “agri gentilicii” e di compascua, soli
eccettuati gli heredia, assegnati dalla gens od anche dal re, i quali
appariscono intestati ai singoli capi di famiglia. Anche la repressione dei
delitti continua ad essere lasciata al potere domestico e patriarcale, e le
pene conservano quel carattere religioso, che hanno nel periodo gentilizio. Solo
assumono carattere di delitti *pubblici*, e sono sotto posti alla giurisdizione
del re, temperata dalla provocatio ad populum, il parricidium e la perduellio,
di cui quello è come il germe del reato comune e questa il germe del reato
politico. Ma il diritto private continua in gran parte ad essere governato dal
costume (“mos”), il quale appare ancora circondato da un ' aureola religiosa (“fas”).
Cio tuttavia non impedisce, che fra le consuetudini e le tradizioni
preesistenti già ve ne sono di quelle, che sono sanzionate dala “lex publica”,
la quale è preparata dal pontefice, proposta dal re, e votata dal popolo; donde
la formazione della “lex regia”, nelle quali tuttavia le istituzioni giuridiche
serbano ancora quel carattere religioso, che era proprio delle istituzioni
delle genti patrizie. Nel frattempo quell'elemento plebeo, la cui formazione
già erasi iniziata nelle stesse comunanze di villaggio, prende un grandissimo
incremento collo svolgersi della città. Poichè, esso trovasi accresciuto dalle
popolazioni conquistate e da coloro che, spostati nell'organizzazione
gentilizia, vengono a stanziarsi nel territorio circostante alla città. Questa
moltitudine, che per essere composta di elementi di provenienza diversa e per
difetto di organizzazione chiamasi “plebes”, non entra ancora a formare il “populus”,
nè è ammessa alle curiae della città patrizia, ma abita nelle circostanze di
essa, e tiene cosi una posizione più di *fatto* che di diritto. Ai plebei, che
la compongono, solo dovette essere accordato, negli ultimi tempi della città
esclusivamente patrizia, il “ius nexi”, ossia il diritto di contrarre dei
prestiti, vincolando direttamente la propria persona, e il “ius mancipii”,
ossia il diritto di ritenere quello spazio di terra, sovra cui essi erano
stanziati colle proprie famiglie. È sotto l'influenza etrusca, che Roma comincia
a prepararsi ad un secondo stadio, a quello cioè di città chiusa e fortificata
nelle proprie mura, il che però non toglie, che essa continui ancor sempre ad
essere un centro di vita pubblica per le comunanze e le famiglie, che trovansi
stanziate nell'ager romanus, ma fuori del pomoerium della città. La
trasformazione, iniziata da Tarquinio Prisco, si compie, allorchè con Servio
Tullio Roma viene a comprendere nella propria cerchia non solo gli edifizii
pubblici, ma anche le abitazioni private, e in base alla sua costituzione viene
a formarsi accanto ai patres o patricii, un nuovo populus, composto di patrizii
e di plebei, ripartito in V classi ed in centurie, di carattere essenzialmente
militare, i cui membri hanno i loro diritti ed obblighi civili, politici e
militari determinati sulla base del CENSO. Da questo momento quel dualismo, che
esiste negl’elementi, che entra vano a partecipare alla medesima Roma, penetra
eziandio nelle istituzioni politiche. Per tal modo accanto ai veri magistrati
del popolo, comparvero il “tribune” della plebe. Accanto ai comizii delle curie
e delle centurie si formar il “concilium plebis”, il quale col tempo si
trasforma in comizio tribute. Da ultimo, accanto alla “lex” si svolge il “plebiscitum.”
Di qui lotte, che condussero a svolgere e in parte anche a modificare i
concetti fondamentali, che servivano di base alla costituzione primitiva di
Roma. Intanto Roma si è ingrandita. Nelle suemura non si esplica più soltanto
la vita pubblica, ma anche la vita domestica e private. Quindi la grande opera,
che si inizia in questo periodo, viene ad essere la formazione di un diritto
privato, comune ai due ordini, e la creazione di quell'arte, in cui i romani
dovevano essere maestri al mondo, cioè dell'”ars iura condendi.” Gl’elementi,
che dovevano convivere sotto la protezione di un comune diritto, sono due, cioè:
il patriziato, onusto di tradizioni religiose, giuridiche e politiche, e la
plebe la quale e un agglomeramento di elementi diversi, nuovo ancora alla vita
civile e politica. Quello ha l'organizzazione gentilizia fondata sul vincolo
civile dell'agnazione, e questa non conosce che la famiglia, stretta insieme
dal vincolo naturale della cognazione. Quella ha tante forme di proprietà,
quante sono le gradazioni dell'organizzazione gentilizia. Questa non ha in
certo modo che il possesso delle terre, sovra cui era stanziata (“mancipium”).
Qello ha il “fas”, il “ius”, l' “imperium”, l’ “auspicium”, il “mos veterum”. Questa
non conosce che l'”usus auctoritas”. Fu
la distanza stessa, a cui trovavansi collocati i due elementi, e il loro modo
di sentire e di pensare compiutamente diverso, in fatto di religione e di morale,
che resero necessaria la elaborazione di un DIRITTO, comune ai due ordini, il
quale FA COMPIUTAMANTE ASTRAZIONE DALLA MORALE E DALL RELIGIONE. Cosi pure è
questa distanza, che spiega la lentezza di questa elaborazione e la ricchezza
dei risultati a cui essa pervenne. Questa dove prendere le mosse dalle
istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi estendersi a poco a
poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche tempo ciascun elemento
continua ad attenersi alle proprie consuetudini e costumanze. La convivenza dei
due ordini, pero, nelle stesse mura e l'attrito dei quotidiani interessi
finirono per determinare una specie di precipitazione del materiale giuridico,
fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (“mos veterum”), o di
costumanze della plebe (“usus”). Si inizia così la più mirabile selezione
dell'elemento giuridico dagl’elementi affini, con cui trovasi implicato, che
siasi mai avverata nella storia dell'umanità; selezione, che da una parte
obbedisce alla legge naturali di formazione, e dall'altra è già l'opera di una
elaborazione, per parte sopratutto del pontefice, i quali, essendo i custodi
delle tradizioni delle genti patrizie, già sono in possesso di una vera tecnica
giuridica. Il nucleo centrale di questa formazione venne ad essere il concetto
del “quirites”, ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per
essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e proprietario di terre,
quale appunto compariva nel censo. Il “quirites” viene cosi ad essere una
realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un soldato ed un
agricoltore ad un tempo. Ed il punto di vista, sotto cui si riguardano il “quirites”
nel reciproco rapporto, essendo determinato dal censo, viene ad essere quello
del mio e del tuo – “il nostro” --. Di qui consegue, che per essi ogni negozio
riducesi ad un trapasso dal MIO al TUO – il nostro --, simboleggiato nell'atto “per
æs et libram”, e ogni procedura viene ad essere simboleggiata in una specie di
combattimento e di reciproca scommessa. Questo diritto, costituendo un
privilegio dei “quiriti”, viene ad essere denominato “ius quiritium”. I suoi
concetti fondamentali sono quelli vasti e comprensivi di caput, manus, mancipium,
commercium, connubium ed actio. Esso costituisce in certo modo l'ossatura
rigida di tutta la giurisprudenza romana. Siccome pero, attorno a questo primo
nucleo, che si vien precipitando e consolidando, si mantengono ancora sempre,
allo stato fluttuante, tanto le consuetudini e le tradizioni dei patres, quanto
gli usi della plebe; così il primitivo “ius quiritium” viene in certo modo
attraendo ed assimilando quelle istituzioni preesistenti, che potevano avere
qualche analogia col diritto già formato. Per tal guisa il medesimo,
arricchendosi di nuove forme, si viene gradatamente allargando nel “ius pro
prium civium Romanorum”, il quale può essere considerato come un proseguimento
di quella selezione, che erasi già incominciata col “ius quiritium”. Sono Le
XII Tavole, che danno forma scritta alle basi fondamentali di questo ius civile.
Quindi nelle medesime si possono scorgere le commettiture dei varii elementi,
che entrano a costituirlo. Infatti in qualsiasi istituzione di quel ius, che i
giureconsulti chiamano “proprium civium Romanorum”, può scorgersi una
formazione centrale, che è dovuta al “ius quiritium”, e due laterali, di cui
una suole essere di origine patrizia, e l'altra di origine plebea. Così, ad
esempio, fra le forme del matrimonio havvi da una parte la “confarreatio,” di
origine patrizia e dall'altra l'”usus” di origine plebea. La “coemption” sta
nel mezzo, ed è la forma essenzialmente quiritaria. Fra le forme del testamento,
le più antiche sono il testamento “in calatis comitiis”, propria del patriziato,
e la “mancipatio familiae cum fiducia”, propria della plebe, le quali poi,
pressochè componendosi insieme, dànno origine al vero testamento quiritario,
che è quello “per aes et libram.” Infine, fra i modi di acquistare e
trasmettere il dominio, il primo a formarsi è quello essenzialmente quiritario
della “mancipatio”, attorno a cui si vengono poi accogliendo l'”in iure cessio”
e l'”usucapion”. Intanto pero questa selezione non si arresta ancora colla
formazione di un “ius civile”, e quindi, accanto al medesimo, si esplica il “ius
honorarium”, il quale, pur derogando al primo, assimila nuovi elementi,
facendoli pero entrare in forme modellate a somiglianza di quelle già adottate
dal “ius civile”. È con questo meraviglioso processo che il diritto di Roma,
dopo aver cominciato dall'essere la *selezione* più rigida dell'elemento
giuridico, che ricordi la storia, ed una produzione esclusivamente romana,
venne a poco a poco attraendo nella propria orbita anche le considerazioni di
equità e di buona fede, ed assimilando quelle istituzioni delle altre genti,
che si acconciavano alla logica fondamentale, da cui era governato, finchè
divenne poi tale da essere considerato come un diritto universale, e da poter
essere accomunato a tutte le genti, da cui aveva tolti i materiali, sovra cui
erasi venuto elaborando. Il diritto romano riusci cosi ad essere una
costruzione eminentemente dialettica, la quale riunisce da sè gli opposti ed i
contrarii. Il diritto romano è antico nei materiali, che lo compongono, nuovo
per le applicazioni che se ne ricavano. Sotto un aspetto il diritto romano è
sempre fisso e fermo nei proprii concetti, sotto un altro è sempre in via di
formazione. Il diritto romano obbedisce ad una logica fondamentale, e intanto
lascia che ogni istituto proceda per proprio conto e segna un proprio concetto
ispiratore. Mentre il diritto romano è una produzione del tutto propria del
genio romano, assimila in se stesso le istituzioni di tutte le genti; è un'arte
ed una scienza ad un tempo. Esso infine, mentre obbedisce e si piega alle
esigenze pratiche, appare informato, come ben dice il giureconsulto, ad una
vera e propria FILOSOFIA, la quale non si abbandona alle speculazioni ideali,
mamedita sui fatti sociali ed umani, ne scevera l'essenza giuridica, la modella
in concezioni tipiche, e svolge le medesime in tutte le conseguenze, di cui
possono essere capaci. È questo il motivo, per cui le costruzioni giuridiche
dei giureconsulti romani sono sempre dei modelli, che difficilmente potranno
essere superati, poichè nella divisione di lavoro, che si opera fra i popoli
moderni, non ve ne ha certamente alcuno, che possegga in questa parte le
attitudini veramente meravigliose dell'ingegno romano per l'elaborazione
dell'elemento giuridico, e nessuno parimenti, che possa aver l'occasione, il
modo e il campo, che esso ebbe, per applicare la sua giurisprudenza alla
immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare destino quello di Roma. Come
le sue mura furono costrutte coi massi più solidi dell'epoca gentilizia; così i
concetti, che le servirono di base, furono la sintesi potente di tutto un
periodo di umanità, le cui vestigia si vengono ora discoprendo nelle necropoli
delle più antiche città italiche e nelle civiltà fossili dell'antico oriente.
Da questi ruderi di un periodo che può chiamarsi pre-istorico, essa seppe
ricavare uno svolgimento storico e logico ad un tempo, che basta ad organizzare
il mondo per tutto un grande periodo di civiltà. Senza essere ricca di concetti
proprii, essa ebbe però tanta forza ed energia assimilatrice da fare entrare
nei medesimi il lavoro di tutte le genti, con cui denne a trovarsi a con tatto.
Senza abbandonarsi a speculazioni ideali, essa riusci ad isolare l'essenza
giuridica dei fatti sociali ed umani, e a svolgerla in tutte le sue conseguenze
con una logica inesorabile e tenace. Quando poi i concetti, che stano a base
della sua grandezza, sono anch'essi esauriti, dalle loro macerie usce ancora la
grande idea della umanità civile, e la sua legge puo servire come punto di
partenza ad un nuovo periodo di cose sociali ed umane, Soltanto Roma, fra le
città dell'universo, puo personificare in se stessa quella legge di continuità,
che unifica la storia del genere umano. Le sue radici si perdono nella
preistoria, e le nazionalità moderne sono preparate da essa. Essa e l'erede e la
raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio, e intanto pose
le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne. Inchiniamoci
a Roma. Quando si pretende di cambiarla in sede esclusiva del potere
spirituale, essa sa di nuovo rivivere alla vita civile. Quando si crede di
riguardarla come una specie di museo del mondo civile, colle sole sue memorie
essa coopera a ridestare a vita una giovine nazione. I dualismi, che ora
esistono in Roma, non ci debbono impaurire. Roma e sempre la città dei
dualismi. Punto non ripugna, che Roma e la sede del governo civile. Già altra
volta essa apprese l'arte di separare il potere religioso dal civile – “sacra
profanis secernere.” Non ripugna parimenti, che Roma continua ad essere la
città dei dotti e degl’eruditi, e che intanto sia la capitale di un giovine
stato. Roma ha tal copia di monumenti del passato da ricavarne la più splendida
passeggiata archeologica, e ha spazio che basta per fondare nuovi quartieri,
che possano corrispondere alle nuove esigenze ed ai nuovi bisogni. Ormai er tempo,
che essa un'altra volta arricchisse il nucleo ristretto della sua popolazione,
accordando nuovamente la sua cittadinanza alle popolazioni, che vi
concorsero da ogni parte dell'Italia. Lo stato federale non cerca di far
rivivere la tradizione civile e politica di Roma. Lasciamo ad altri di combattere
l'influenza della romanità. Noi, studiando fra i ruderi di Roma antica, abbiamo
nella grandezza del suo passato uno stimolo ed un incitamento per l'avvenire;
nè e inutile, che il giovine regno cerchi di educare il suo senso politico e
legislativo, studiando l'opera dei più grandi politici e legislatori del mondo.
La storia civile e politica di Roma e quella del suo diritto non deve in Italia
essere privilegio di dotti e di eruditi. Deve essere parte dell'istruzione e
dell'educazione civile e politica del popolo italiano. È solo in questo modo,
che si spiega la falange di giovani studiosi, che si precipito sopra questo
patrimonio, che deve essere nostro, allorchè lo studio della storia del diritto
romano e opportunamente chiamato a far parte dell'insegnamento giuridico nell’università
italiane. Credo infatti di poter affermare, senza timore di essere contraddetto,
che nessun nuovo insegnamento provoca nel nostro paese cosi largo movimento di
studii, come lo dimostrano le pubblicazioni fattesi sull'argomento, gli
istituti per lo studio del diritto romano, che ora vengono sorgendo, e
l'entusiasmo stesso, con cui non solo l'Italia, ma tutta l’Europa partecipa
alla commemorazione solenne di quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli studi sul
diritto ro mano pone le fondamenta dell'illustre ateneo di Bologna.
L'importanza dogmatica del diritto romano potrà forse diminuire colla
pubblicazione del codice civile germanico, il quale fa si che il diritto romano
cessi di essere il diritto comune di un grande Popolo. Ma la sua importanza
storica venne per cio stesso ad essere accresciuta, perchè si tratta pur sempre
di determinare la parte, che nelle moderne legislazioni deve essere attribuita
alla grande in fluenza del diritto romano. Ne è da farsi illusione, che questo
gepere di studii possa ugualmente mantenersi fuori della cerchia dell’università.
Poichè, tanto in Italia che in Germania, la scienza è nata e si è svolta nell’università,
ed è in esse, che deve essere tenuto vivo il focolare della medesima. È
soltanto nell’università, che la storia del diritto antico può cessare di
occuparsi esclusivamente di minute ricerche archeologiche, per cambiarsi in un
sistema di concetti, che possa essere succo e sangue per la giovine
generazione. Giuseppe Carle. Diritto romano. Keywords: implicatura,
diritto romano, legge romana, concetto di legge romana, natura romana Roman law
often invoked nature to justify a legal ius – the principle of individual
ownership: JOINT position of a single object
is said to be contra naturam. CONTRA NATVRAM QVIPPE EST VT CVM ALIQVID
TENEAM TV QVOQVE ID TENERE VIDARIS. SERVITVS EST CONSTITVTIO IVRIS GENTIVM QVA
QVIS DOMINIO ALIENO CONTRA NATVRAM SVBICITVR. Orazio. Sat, Roma –
filosofia antica – Luigi Speranza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carle” – The
Swimming-Pool Library.
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