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Wednesday, January 8, 2025

GRICE E CARLE E

 

supporre degli errori nella esposizione di Var rone, come vorrebbe il Bonfante, op. cit., 111, non potendosi supporre un er rore di questo genere sopra formole, che vivevano nelle consuetudini ed erano ela. borate dagli stessi giureconsulti.  È tuttavia degno di nota, che mentre il mancipium o la familia, intesi nel senso di patrimonio, sono per sè suscettivi di mancipatio, l'hereditas invece è consi derata come una res nec mancipië, e come tale è suscettiva di in iure cessio, ma non di mancipatio (Gajo, Comm., II, 14, 17, 34). La ragione, a parer mio, è questa, che la familia o il mancipium, finchè dipendono dal pater familias, costituiscono un'entità concreta: mentre l'eredità, riguardo a colui che vi ha diritto, costituisce già una cosa incorporale, una res, quae etiam sine ullo corpore iuris intellectum habet, e quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto però non parmiaccettabile l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit., 12, che la distinzione delle res man cipië e nec mancipii sia solo applicabile alle res singulares, poichè non è certamente una res singularis nè il mancipium, nè la familia. Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle cose con dusse in qualche parte ad allargare i confini del primitivo manci pium. Così, ad esempio, non può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium dovevano solo essere compresi i praedia, che fossero si tuati nel primitivo ager romanus, mentre più tardi furono compresi eziandio quelli situati nel restante suolo italico, quando anche questo venne ad essere suscettivo di proprietà quiritaria. Così pure è pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima compresi solo i servi addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i servi della città potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in genere furono compresi fra le res mancipii. Non potrei invece ammettere col Puctha, che fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere, che fossero in potestate, in manu, o in causa mancipii; poichè, come sopra si è notato, qui il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più ristretta e si ri ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal capo di famiglia, le quali persone si dicono  alieni iuris, quae in manu, potestate,mancipio sunt , ma non sono mai chiamate res mancipii. Vero è, che anche alle persone si applica la mancipatio, ma cid provenne, come si vedrà più tardi, da cid che la mancipatio è una applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram, e quindi compare ogniqualvolta trattisi di acquistare o trasmettere la manus, intesa nel senso di potestà giuridica quiritaria. 351. Intanto questa storia primitiva del mancipium ci pone eziandio in caso di risolvere la questione tanto agitata fra gli autori relativa alla precedenza fra la mancipatio e la distinzione fra la res mancipii e nec mancipii. hi seguisse alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece denza alla mancipatio, in quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si chiamerebbero tali appunto, perchè si trasferiscono me diante la mancipatio; ma rimarrebbe ancor sempre a cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne ad essere il mezzo proprio per l'alienazione di questa speciale categoria di cose. La cosa invece viene ad essere facilmente spiegata quando si ri  Ho già notato più sopra come le formole di VARRONE dimostrino che un servo, allorchè non era un instrumentum fundi, poteva anche essere alienato colla sem plice traditio.  Puchta, Inst.,  238. Cfr. SQUITTI, op. cit., 15. 444 tenga, che primo a formarsi dovette essere il concetto delmancipium, il concetto cioè di una proprietà tipica del quirite, che compren deva uno spazio di terra e quelle pertinenze di esso, che riputa vansi il patrimonio indispensabile del capo di una famiglia agricola. La formazione di questo mancipium, che già aveva una base nelle condizioni economiche e sociali dei primitivi romani, venne in certo modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto l'influenza della costitu zione serviana. Da quel momento l'importanza non solo economica, ma anche politica del mancipium, pose le cose, che erano comprese nel medesimo, in una posizione privilegiata di fronte a tutte le altre cose, che potevano spettare al cittadino romano, e trasformò così il mancipium in una proprietà essenzialmente quiritaria, perchè apparteneva al quirite come tale. Era quindi naturale, che all’alie nazione del mancipium e delle cose comprese nel medesimo si estendesse l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, mentre per l'alienazione delle altre cose potè bastaré anche la semplice traditio accompagnata dal pagamento del prezzo. Per quello poi, che si riferisce alla distinzione fra le res mancipii e quelle nec mancipii, parmi evidente che essa fu l'ultima ad es. sere introdotta, e non ho difficoltà di ritenere, che essa possa anche essere stata formolata più tardi dai giureconsulti, quando i mede simi già sentivano il bisogno di ridurre ad ordine sistematico le distinzioni molteplici, che eransi introdotte nel diritto. Il censo in fatti per sè poteva condurre alla determinazione delle res mancipii, ed anche alla divisione delle medesime in varie categorie; ma esso non poteva determinare che indirettamente la formazione delle res nec mancipii. È quindi probabile, che i giureconsulti trovando più tardi questo nucleo di cose (mancipium ), per la cui alienazione era richiesta la mancipatio, abbiano formato di queste cose una cate goria speciale (res mancipii), la cui caratteristica consisteva ap punto nel modo di alienazione (mancipatio), mentre tutte le altre furono lasciate nella categoria negativa dalle res nec mancipii.  Non parmi tuttavia accoglibile l'opinione del Voigt, secondo cui la distinzione sarebbe nata fra il 585 e il 650 di Roma. Essa invece dovette già essere formata all'epoca delle XII Tavole, in cui accanto alla mancipatio, riservata alle res man cipii, era già comparsa l'in iure cessio, che era applicabile eziandio alle res nec man cipii: il che sarebbe anche provato da ciò, che le stesse XII Tavole già ponevano le res mancipii nella condizione speciale di non potere essere usucapite, allorchè fos sero state vendute da una donna senza approvazione del tutore. È evidente infatti 445 Essi insomma fecero qui una distinzione analoga a quella, che si introdurrà più tardi, fra le cose, che appartengono ad una persona ex iure quiritium, e quelle invece che le appartengono solo in bonis; poichè le prime costituiscono una cerchia chiusa e circo scritta, quanto alle cose, che possono essere l'oggetto, quanto ai modi di acquisto, e alle persone cui appartengono, mentre quelle in bonis comprendono tutte le altre. $ 6. La storia primitiva della proprietà ex iure quiritium. 352. L'analogia, che ho sopra notata fra la distinzione delman cipium e del nec mancipium e quella presentatasi più tardi fra il dominium ex iure quiritium e quello in bonis, mi fa tornare un'altra volta sul grave problema dell'origine e dello svolgimento storico della proprietà ex iure quiritium. Fino ad ora si è sola mente dimostrato, come già nel periodo gentilizio vi fosse una forma di proprietà, che intestavasi al capo di famiglia, e che pren deva il nome di heredium. Questa tuttavia non costituiva ancora una proprietà assolutamente individuale ed esclusiva, perchè il capo di famiglia trovavasi in proposito ancora sotto la dipendenza della gens, a cui apparteneva. Accanto a questi heredia dei patricii si erano poi venuti formando gli stanziamenti e i possessi dei plebei, che probabilmente chiamavansi mancipia. Quando poi patriziato e plebe entrarono a far parte dello stesso populus romanus qui ritium, in base alla considerazione del censo, la sola proprietà, che era loro comune era quella che spettava al capo di famiglia, e perciò fu questa, che comparve nel censo intestata ad ogni quirite sui iuris, sotto il vocabolo di mancipium e coi caratteri di una proprietà assolutamente individuale. Il vocabolo mancipium tuttavia non significd per sè il dominium ex iure quiritium, ma piuttosto quel complesso organico di cose, che per il primo formo oggetto del medesimo; come lo dimostra la circostanza, che in questo periodo, secondo l'attestazione dei giureconsulti, si ricorse per indicare il che questa condizione speciale delle res mancipii, accennata da Gajo, I, 192, e da Ul PIANO, Fragm., XI, 27, doveva fin d'allora condurre alla distinzione di cui si tratta. Per un più lungo esame dell'opinione del Voigt, vedi Squitti, op. cit., 73 e seg., e BONFANTE, op. cit., 115146 dominio quiritario all'espressione meam esse:  aio hanc rem iure quiritium . Ferma cosi la spiegazione del modo in cui sarebbesi formato il primo nucleo del dominium ex iure quiritium, resta ora a ve dere come il suo concetto siasi venuto allargando, e quali siano i varii stadii, che attraverso questa proprietà ex iure quiritium, la quale doveva poi divenire il modello di ogni proprietà esclusiva mente privata ed individuale. 353. A questo riguardo i ricercatori dell'antico diritto si arrestano sorpresi di fronte a questo fatto singolare, che il solo mancipium nei primi tempi sembra aver formato oggetto della proprietà ex iure qui ritium. L'Ortolan, ad esempio, trova assurdo che il quirite non avesse la proprietà delle cose incorporali, se si eccettuano certe servitù rustiche, nè la proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i servi e le bestie da tiro e da soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in qualmodo quei quiriti, che avevano divisi i loro fondi, fossero poi indifferenti alla distinzione del mio e del tuo per molte altre cose; il che lo induce a combattere la proposizione di Gaio, secondo cui il popolo Romano non conosceva un tempo, che la sola proprietà ex iure quiritium:  aut enim ex iure quiritium unusquisque do minus erat, aut non intellegebatur dominus . È certo che la cosa riesce assai strana, quando si voglia ritenere che, al difuori della proprietà ex iure quiritium, non vi fosse pei romani primitivi altra forma di proprietà o di possesso; ma la cosa pud invece essere spiegata quando si abbia presente il modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e le istituzioni, che entrarono a costituirlo. Già ho cercato di dimostrare comeil ius quiritium non comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso, che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e che di vento cosi comune ai due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far parte della stessa comunanza quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono ancor sempre a seguire le proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che quella parte di diritto, che essendo stata accettata come base della comunanza quiritaria prese il nome spe ciale di ius quiritium. Questo pertanto non governd dapprima tutti i rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano fra loro nelle  Ortolan, Histoire de la législation romaine, Paris, 1880, p. 606. MUIRHEAD, Histor. Introd., 40.. 447 loro qualità di quiriti, e fu solo col tempo e a misura che facevasi più intima la convivenza dei quiriti, che esso venne arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi istituti, modellando nuovi negozii richiesti dalle esigenze della vita civile in una grande e popolosa città, e si cambiò così nel ius proprium civium romanorum. 354. Or bene ciò che accadde nella formazione del ius quiritium si avverò eziandio nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a costituirlo, e quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium. Questa non comprende dapprima tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma comprende solo quella parte di essa, che loro appartiene nella loro qualità di quiriti. Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il mancipium, che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a cui si determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la primitiva proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il mancipium, e fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per eccellenza, cioè l'atto per aes et libram, e quella pro cedura quiritaria dell'actio sacramento, in cui i contendenti affer mavano:  hanc rem suam esse ex iure quiritium . Questa infatti era l'unica proprietà, che poteva essere tenuta in conto al punto di vista quiritario e che doveva perciò avere la tutela del diritto qui ritario. Quindi era giusto il dire, che altri  aut erat dominus ex iure quiritium, aut non intellegebatur dominus : il che non vuol già dire, che non si potesse avere il possesso od il godimento di altri beni, ma soltanto che le altre forme di proprietà non potevano es sere tenute in calcolo al punto di vista quiritario. Quindi al modo stesso, che il ius quiritium fu il frutto della selezione di certi con cetti e forme solenni, che furono adottate dalla comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure quiritium fu anche essa determinata da una specie di selezione. Il suo primo nucleo consistette nel man cipium, il quale costitui in certo modo la proprietà tipica del qui rite, ma più tardi i suoi limiti apparvero troppo circoscritti, e perciò alla cerchia troppo ristretta del mancipium si venne sostituendo un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium. Questo infatti  Questo carattere particolare del ius quiritium, per cui esso non è tutto il di ritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso, che vennesi consolidando al lorchè patriziato e plebe entrarono a formar parte della stessa comunanza quiritaria. fu dimostrato sopratutto nel lib. III, cap. 3º. 448 viene già ad essere più esteso: lº quanto alle persone a cui compete, che non sono più i soli capi di famiglia, ma tutti i cittadini ro mani ed anche i latini cui sia accordato il ius quiritium; 2° quanto ai modi, con cui si acquista, che non si riducono più alla sola man cipatio, ma comprendono anche la in iure cessio e la usucapio ; e quanto alle cose, che possono essere l'oggetto, che non sono più le sole res mancipii, ma tutte le cose in commercio, eccetto il solum provinciale. Tuttavia egli è evidente, che anche in questo secondo stadio la proprietà ex iure quiritium costituisce ancora sempre una proprietà privilegiata, quanto alle persone, alle cose, ai modi di acquisto; cosicchè ogni qualvolta manchi una di queste condizioni la cosa ap partiene solo in bonis, ed è solo col tempo e per effetto della pro tezione pretoria, che viene a poco a poco delineandosi una proprietà in bonis, accanto alla proprietà per eccellenza, che era quella ex iure quiritium. Qui pertanto appare evidente quella legge di for mazione del diritto romano, per cui accanto alla parte di esso già formata ne compare un'altra, che trovasi in via di formazione e che cercasi a poco a poco di fare entrare nelle forme di quella, che prima riuscì a consolidarsi. Mentre questo dualismo nel primitivo ius quiritium è rappresentato dal mancipium e dal nec mancipium, il medesimo invece nel ius proprium civium romanorum viene ad essere rappresentato dalla proprietà ex iure quiritium e da quella in bonis; ma intanto la seconda distinzione, pur abbracciando una cerchia più vasta, continua ancora sempre ad essere foggiata sulla prima. 355. Queste considerazioni mi conducono a ritenere, che anche il dominium ex iure quiritium, dopo esser stato modellato sulla realtà dei fatti, abbia finito per convertirsi in una costruzione giuridica non dissimile da quella, che abbiamo ravvisata nei concetti di caput, di manus e di mancipium. Esso è una forma di proprietà, che cor risponde al concetto del quirite, e quindi al modo stesso, che questi nella sua configurazione giuridica era una individualità integra e perfetta, concepita sotto l'aspetto esclusivamente giuridico, ed  Non è qui il caso di parlare nè dell'adiudicatio, nè della lex, e dell'adsignatio viritana, che potevano anche attribuire il dominium ex iure quiritium; poichè lo stesso Gajo, Comm., II, 65, parla soltanto della mancipatio, della in iure cessio e dell'usucapio, come costituenti un ius proprium civium romanorum. 449 isolata da tutti gli altri suoi rapporti, cosi anche la sua proprietà ebbe ad essere concepita come assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo modo ad imagine della persona, a cui doveva appartenere. Una prova di ciò l'abbiamo in questo, che allo svolgimento del dominium ex iure quiritium si applicò una logica del tutto ana loga a quella, che erasi applicata allo svolgimento del concetto di caput; cosicchè, per determinare i varii atteggiamenti del dominio, furono adoperati dei criteri analoghi a quelli, che servirono a de terminare lo stato del quirite. Così, ad esempio, al modo istesso, che si ha l'optimum ius quiritium allorchè la capacità del quirite non soffre alcuna limitazione; cosi havvi il dominium optimum maximum, quando il dominium non è soggetto ad alcuna limita zione. Al modo stesso parimenti, che vi ha una diminutio capitis, cosi havvi eziandio una diminutio dominii, la quale è perfino in dicata collo stesso vocabolo di servitus, con cui pure si indica la maxima capitis diminutio. Che anzi a quella guisa, che l'intiero caput non appartiene a tutti gli uomini, cosi non tutte le cose sono suscettive del dominium.ex iure quiritium; il qual concetto spin gesi a tal punto, che può ravvisarsi una specie di correlazione fra la concessione della civitas agli abitanti, e la concessione al suolo da essi abitato di quel ius privilegiato, che lo rende suscettivo di dominio quiritario. Cosi mentre il solum italicum ottenne questa speciale condizione, sotto il nome di ius italicum, il solum provin ciale invece non potè mai essere oggetto di vera proprietà, se non quando scomparve con Giustiniano la distinzione fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis. Vi ha di più ancora, ed è che le trasformazioni storiche, che ac cadono nel concetto di caput, camminano di pari passo con quelle del dominium ex iure quiritium. Così, ad esempio, finchè il vero caput non appartenne che al capo di famiglia, anche questi fu il solo capace di proprietà ex iure quiritium. Quando poi la capacità di diritto dal capo di famiglia passò ad ogni cittadino romano )  In questa guisa si spiega, come i Romani procedessero nell'accordare ad un determinato territorio l'attitudine ad essere oggetto di proprietà quiritaria nel modo stesso, in cui procedevano nell'estendere la cittadinanza romana ai popoli conquistati. Di qui l'analogia fra la formazione del ius latiï e quella del ius italicum: di cui quello si riferisce alle persone, questo invece si riferisce al suolo (Cfr. Baudouin, Étude sur le ius italicum, nella  Nouvelle revue historique de droit français et étranger ). C., Le origini del diritto di Roma. 29 450 bastò essere tale, per essere capace di proprietà ex iure quiritium. Quando infine la capacità giuridica appartenne ad ogni uomo li bero, perchè tutti gli abitanti dell'impero ottennero la cittadinanza, bastò essere uomo libero per essere capace di quella proprietà, che un tempo era stata privilegio dei soli quiriti. La qual trasforma zione avverasi anche, quanto alle cose che ne formano l'oggetto, le quali cominciarono dall'essere quelle soltanto, che figuravanonel censo intestate al capo di famiglia (res mancipii), e finirono per compren dere tutte quelle, che potevano essere in commercio. Il che deve pur dirsideimodi diacquisto, i quali dapprima furono probabilmente circo scritti alla sola mancipatio, mentre dopo compresero l'in iure cessio e l'usucapio, e finirono col tempo per comprendere anche quei modi di acquisto, che dapprima erano proprii soltanto del diritto delle genti; donde la distinzione della classica giurisprudenza fra i modi di acquisto del dominio, civili e naturali, originarii e derivativi . 356. Era poi naturale, che alla proprietà cosi intesa i giurecon sulti abbiano finito per applicare quella stessa analisi, che già ab biamo riscontrato nel caput. Essi contrapposero il quirite alla cosa che gli apparteneva: gli fecero afferrare materialmente la cosa ed affermare la sua proprietà sulla medesima dicendo, che la cosa era sua ex iure quiritium: immedesimarono in certo modo la persona colla cosa alla medesima spettante, e le attribuirono così un di ritto illimitato di usarne, goderne, e di disporne, anche abusando di essa. In questo diritto del proprietario, che non ha confine, deve quindi ravvisarsi una costruzione giuridica, non dissimile da tante altre, che occorrono nel diritto romano: poichè in effetto l'abuso della proprietà era poi frenato dal costume, e sopratutto dal iudicium de moribus, il quale, dopo essere stato una istituzione gentilizia, fu di nuovo ristabilito dalle XII Tavole, e fu affidato al pretore . Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi nella proprietà  Non può ammettersi, come vorrebbero taluni, che nelle origini del diritto ro mano non esistessero modi naturali di acquisto, il che sarebbe contraddetto dall'an tichità della traditio, quanto alle res nec mancipii: ma soltanto che i modi naturali, pur esistendo da epoca forse più antica, furono solo più tardi incorporati nella com pagine del diritto romano, il quale assimilava solamente ciò, che in qualche modo poteva entrare nelle forme prestabilite.  L'origine gentilizia del iudicium de moribus fu dimostrata al n° 59, p. 74. Del resto tale origine gentilizia è comprovata dalla intitolazione stessa di questo iw dicium demoribus, la quale sembra richiamare qualche antica norma consuetudi fini per ricevere una propria denominazione, e staccato dal ceppo, sovra cui aveva radice, fini per dare origine alle varie configura zioni dei diritti reali, comprendendovi anche il ius possessionis, ciascuno dei quali potė ricevere un vero e proprio sviluppo, pur sempre ritenendo l'impronta reale, che eragli provenuta dalla pro prietà, di cui costituiva un frazionamento. Fu anzi in questa occa sione, che sembra essere venuto in uso il vocabolo di proprietas, il quale in origine appare adoperato, quando si tratta di contrapporre la proprietà ai diritti reali, che erano inchiusi nella medesima. Questa ricostruzione intanto del dominium ex iure quiri. tium mi porge occasione di fare un brevissimo cenno dei rapporti, che nel diritto romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A questo proposito il diritto romano presenta questa singolarità, chementre il giureconsulto Paolo, fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come fuori di ogni dubbio, che il dominio dovette cominciare dalla materiale appropriazione delle cose (dominium rerum ex naturali possessione coepisse) ; noi troviamo invece, che nello svolgimento storico presentasi dapprima integro e com piuto il concetto del dominium ex iure quiritium, ed è solo molto più tardi, che il possesso viene ad essere considerato come una isti tuzione giuridica, protetta cogli interdetti possessori. Di fronte a questo stato di cose sarebbe fuor di luogo il sostenere, che i Romani non distinguessero dapprima fra la materiale detenzione di una cosa, e la padronanza giuridica sovra di essa; ciò sarebbe smentito dal fatto, che essi fin dai primi tempi ebbero il concetto dell'usus e dell'usus auctoritas, ed anche dalla circostanza, che ai plebei, stanziati sul territorio romano, non si riconobbe dapprima una vera naria, ed anche dalla circostanza, che le XII Tavole, affidando al pretore questo po tere, che un tempo apparteneva alla gens, richiamarono di nuovo in vita il primitivo concetto dell'heredium, che era venuto meno nello stretto ius quiritium, e ristabili rono contro il prodigo interdetto la cura degli agnati e dei geniili, la quale è certo una reliquia dell'organizzazione gentilizia. Il testo infatti, secondo la ricostruzione del Voigt, Tav. VI, 10, sarebbe il seguente:  Qui sibi heredium nequitia sua disperdit, liberosque suos ad egestatem perducit, ea re commercioque praetor interdicito. In adgnatum gentiliumque curatione esto .  Che il vocabolo di proprietas abbia cominciato ad adoperarsi, allorchè si trat tava di contrapporre la proprietà in sè ai diritti frazionarii inchiusi nella medesima, può argomentarsi, fra gli altri passi, da quello di GAJO, II, 30, ove la proprietas si contrappone appunto all'ususfructus.  L. 1,  1, Dig. proprietà, ma una specie di possesso a titolo di precario, che non aveva ancora carattere giuridico. La causa invece del fatto deve riporsi in ciò, che anche in questa parte il ius quiritium, essendo già stato il frutto di una vera elaborazione giuridica, prese senz'altro le mosse dal concetto più vasto e comprensivo, a cui si potesse giungere in tema di proprietà. Il concetto infatti del do minium ex iure quiritium ebbe dapprima ad essere modellato sul mancipium, il quale, implicando la sottomissione illimitata di una cosa ad una persona, inchiudeva in una sintesi potente tutti i po teri, che ad una persona possono appartenere sopra una cosa. Il diritto infatti, che al quirite spetta sul proprio mancipium, nella sua sintesi vigorosa, implica la detenzione materiale e la proprietà della cosa: è un fatto ed è un diritto; è una proprietà originaria, ma intanto comprende eziandio la proprietà derivata; esso anzi de signa perfino una proprietà, che ha dell'individuale e del famigliare ad un tempo. Fu soltanto più tardi, che anche in questo concetto venne penetrando l'analisi, la quale cominciò dal distinguere la materiale detenzione di una cosa (naturalis possessio), la quale è un puro e semplice fatto (res facti), dalla padronanza giuridica sovra di essa (dominium ex iure quiritium ), la quale costituisce invece un vero e proprio diritto (res iuris). Col tempo però, siccome fra questi due termini estremiverranno ad esservi delle possessiones, che per speciali considerazioni potranno anche apparire meritevoli diprotezione giuridica, cosi si verrà a poco a poco modellando dal pretore il concetto di una civilis possessio. Questa tuttavia non apparirà più unicamente come una res facti, ma in parte eziandio come una res iuris; non supporrà unicamente la materiale deten zione della cosa (corpus), ma anche l'intenzione di tenere la cosa per sè (animus rem sibi habendi). Questo possesso verrà cosi a pren dere un posto di mezzo fra la semplice detenzione materiale di una cosa, e la proprietà della medesima ; quindi, per la protezione di esso, il pretore, non trovandosi di fronte ad un diritto compiutamente formato, non potrà ius dicere nel vero senso della parola, ma sol tanto interdicere, cioè proibire che venga turbato lo stato di fatto, del quale si tratta (vim fieri veto ), donde la denominazione degli inter.  Vedi, quanto alle primitive possessioni della plebe nel territorio romano, il nº 154, 190.  V. in proposito Savigny, Dela possession, Trad. Staedtler, sulla 74 ed. tedesca, Bruxelles 1879,  5º, 20 a 25. 453 dicta, con cui si protegge il possesso. Siccome poi questo possesso, du rando un determinato spazio di tempo, già poteva, in base all'usuca pione,trasformarsi in un vero diritto; cosi il possesso, oltre al costituire per se stesso una istituzione giuridica, protetta mediante gli inter detti, costituisce pure un mezzo, mediante cui il fatto della deten zione e del godimento di una cosa (usus) può trasformarsi nel di ritto di proprietà (auctoritas). È tuttavia a notarsi, che siccome tanto il dominium ex iure quiritium, quanto la semplice possessio debbono ritenersi come una scomposizione del diritto, che al quirite spettava sul primitivo mancipium, il quale aveva del materiale e del giuridico ad un tempo; così tanto il dominium, che la pos sessio, presso i romani, non poterono mai intieramente spogliarsi di un certo carattere di materialità. Cid è dimostrato dalla circostanza, che da una parte il dominium fini per essere circoscritto alle cose corporali e dovette sempre essere trasferito col mezzo della tra dizione, e dall'altra il possesso non potè parimenti estendersi, che alle cose corporali e ad alcuni dei diritti reali competenti sulle me desime (quasi possessio ). In questo modo possono facilmente spiegarsi le incertezze dei giureconsulti, i quali ora considerano il possesso come una res facti, ed ora come una res iuris, ora scorgono in esso l'estrinsecazione del diritto di proprietà, ed ora dicono invece, che il possesso ha nulla di comune con essa; poichè il medesimo, essendo una istitu zione intermedia fra il fatto ed il diritto, fra la detenzione e la proprietà, poteva presentarsi or sotto l'uno or sotto l'altro aspetto, secondo lo speciale punto di vista, sotto cui era considerato (3 ). Si comprende parimenti, che sebbene ogni dominio abbia dovuto  A parer mio è importante nello svolgimento storico del diritto romano di tener distinti i due istituti del possesso ad usucapionem, e del possesso ad inter dicta. Il primo prese le mosse del concetto dell'usus e perciò potò essere applicato così alle res mancipië che alle nec mancipii, così alle cose corporali, che alle incor porali; mentre il secondo fu il frutto dell'analisi del mancipium, e ritenne quindi sempre qualche cosa della materialità inerente a quest'ultimo. L'uno mette capo alla legislazione decemvirale, mentre l'altro ricevette la propria configurazione giu ridica dal diritto pretorio.  Cfr. Savigny, V. i passi in proposito citati dal Savigny, op. cit.,  5, 21 e segg., nelle note. Sono poi noti i passi di Ulp., 12,  1, Dig.nihil commune habet proprietas cum possessione, ed altri analoghi, L. 1, $ 2, Dig. Cfr. JHERING, Fondement des interdits possessoires, Trad. Maulenaere, Paris 1882, 42. - 151 prendere le mosse dalla materiale appropriazione di una cosa, il concetto del possesso sia tuttavia di formazione posteriore, e non abbia ricevuto una propria configurazione giuridica, che per opera del pretore, allorchè il medesimo cominciò ad accordare la prote zione giuridica a quelle possessiones nell'ager publicus, che per la propria durata già cominciavano ad assumere il carattere di un vero A proprio diritto. Per quello poi, che si riferisce alla questione tanto agitata del fon damento razionale della protezione giuridica accordata al possesso, essa, come al solito, non ebbe ad essere trattata di proposito dai giu reconsulti; ma si può indurre dallo svolgimento storico di esso, che tale fondamento deve riporsi sul principio, sovra cui poggia tutto il diritto romano, secondo cui  ex facto oritur ius , in quanto che ogni fatto, che riunisca in sè certe condizioni di durata e di buona fede, contiene in sé i germi di un diritto e come tale può già meri tare la protezione giuridica e servire ad un tempo di base all'usu capione .  Tale sarebbe l'opinione del Niebaur, Histoire romaine, III, 191 e segg.; e del Savigny, op. cit.,  12 a, 177-185. Essa parmi in ogni caso più verosimile di quella sostenuta dal Pochta, Istit.,  225, secondo cui l'idea del possesso sarebbe provenuta dalla concessione del possesso interinale, che si accordava ad uno dei contendenti nella procedura di vindicazione coll' actio sacramento; poichè questo possesso interinale non ha punto che fare col possesso, in quanto ha una protezione giuridica tutta sua propria, che consiste negli interdetti. Comunque stia la cosa, sembra che l'interdetto più antico sia quello uti possidetis, destinato appunto ad impedire il turbamento di uno stato di fatto. Intanto viene ad essere evidente, che in base all'opinione qui sostenuta, se si voglia collocare il possesso nella solita di stinzione dei diritti in personali e reali, esso dovrà certo esser collocato tra i diritti reali. Cfr. il SavIGNY, op. cit., $ 6, p. 42, il quale sostiene un'opinione in parte diversa.  Senza voler qui prendere in esame le molte teorie, che furono escogitate in proposito, solo mi limiterò ad osservare, che la questione ebbe ad essere profonda mente discussa in due opere, che vennero ad un risultato compiutamente diverso; di cui una è quella del JHERING, Ueber den Grund des Besitzschutzes, Jena 1869, di cui abbiamo la trad. franc. del Maulenaere, sopra citata, e l'altra è quella del Bruns, Die Besitzklagen des röm. und heutigen Rechts, Weimar 1874, il cui con cetto fu adottato e largamente esposto dal PADELLETTI, Archivio giuridico. Secondo il primo, la protezione accordata al possesso fondasi su ciò, che il possesso è una estrinsecazione della stessa proprietà, e quindi senza tale pro tezioneanche la proprietà non sarebbe sufficientemente difesa. Secondo l'altro invece, il posseso è tutelato unicamente per se stesso, in base al concetto, enunciato nella L. 2, Dig.: qualiscumque possessor, hoc ipso quod possessor est, plus iuris habet, quam qui non possidet . Parmi che, assegnando a questa protezione il fondamento razionale indicato nel testo, cioè il principio:  ex facto oritur ius , si 455 358. Di fronte a questo svolgimento storico e logico ad un tempo, parminon possa essere difficile la risposta a coloro, i quali chiedono comemai una istituzione, come quella della proprietà ex iure quiri. tium, dopo essere stata esclusivamente propria dei romani, abbia finito per diventare istituzione universale, e per essere adottata anche da quei popoli, i quali non subirono l'influenza diretta della dominazione romana. La causa vera del fatto sta in questo, che la proprietà quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e aver prese le mosse da quel nucleo di cose, che anche nell'organizzazione gentilizia era assegnato ai singoli capi di famiglia, fini per essere isolata dall'ambiente, in cui si era formata, e si cambiò così in una costruzione logica e coerente. Fu in questa guisa, che la medesima, essendo ridotta, per dir cosi, ad un capolavoro di costruzione giuridica, potè cessare di essere l'istitu zione di un popolo, per diventare quella del mondo. Vero è, che tutti i popoli ebbero i loro istituti giuridici, e quindi anche questa o quella forma di proprietà, ma non tutti riescirono ad isolare tali istituti e sopratutto la proprietà dall'ambiente storico, in cui si erano for mati; solo i romani ebbero la potenza di sceverarli da ogni elemento affine, di sottoporli ad un'elaborazione non interrotta, che duro pa recchi secoli, e riuscirono cosi a ridurre allo stato di purezza quella, che potrebbe chiamarsi l'obbiettività giuridica dei singoli istituti. Le loro analisi, le loro fattispecie, le loro costruzioni giuridiche non potranno sempre essere applicabili, ma saranno sempre elaborazioni tipiche nel loro genere, come lo sono in un genere diverso i capo lavori dell'arte greca; ed è questo il motivo dell'eternità e dell'uni versalità del diritto romano. Questa elaborazione poi fu dai romani compiuta sopratutto quanto al concetto della privata proprietà. In questo senso si pud dire col Sumner Maine  che essi furono i crea tori della proprietà privata ed individuale;ma è sopratutto notabile abbia il vantaggio di far contribuire alla giustificazione della protezione giuridica accordata al possesso e l'una e l'altra teorica, e quello di dare contemporaneamente una base, così al possesso ad interdicta, come al possesso ad usucapionem. Secondo il Puglia, Studii di storia del diritto romano, Messina 1886, 72:  l'interdetto pos sessorio sarebbe comparso come un mezzo particolare per risolvere una controversia, per la quale non potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio ; ma è ovvio il notare che in questa guisa si potrà forse spiegare l'introduzione degli interdetti, ma non maiil fondamento della protezione giuridica accordata al possesso. Cfr. PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom., 529 e segg., ove trovasi citata in nota la bi bliografia più recente sull'argomento. SUMNER-MAINE, L'ancien droit, trad. Courcelles Seneuil, Paris, il modo e il perchè essi ed non altri riuscirono in tale creazione. Essi infatti vi pervennero svolgendo prima il concetto della pro prietà individuale, assoluta ed esclusiva, riguardo a quel nucleo di cose, che era compreso nel primitivo mancipium, con cui ogni sin golo quirite compariva nel censo, e poi trasportarono successiva mente il concetto logico, che essi si erano formati di questa pro prietà ex iure quiritium, a tutte le cose corporali, che potevano essere oggetto di commercio. Per tal modo la proprietà quiritaria si staccò da una organizzazione gentilizia e patriarcale, non dissi mile da quella, da cui usci la proprietà privata dei Germani e degli Inglesi nell'evo moderno; ma a differenza di questa, quella fu ben presto isolata dall'ambiente, in cui erasi formata, e si cambid cosi in una proprietà tipica, strettamente individuale, che potè con certi temperamenti essere adottata da tutti i popoli. Appendice. Senza voler qui fare comparazioni, che miporterebbero fuori del tema, non so tuttavia trattenermi dall'accennare ad alcune singolari analogie fra lo svolgi mento della proprietà privata in Roma e presso i popoli Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a 62, nota 2, la discussione seguita nell'Accademia Francese, a pro posito della proprietà presso gli antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa discussione porse argomento ad una nota del prof. Del Giudice, stata letta all'Isti tuto Lombardo, nelle adunanze del 4 e 18 marzo 1886, in cui egli fa un accura tissimo raffronto fra la descrizione di Cesare e quella di Tacito circa le condizioni dei primitivi Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini le mutazioni, che si erano avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150 anni, che separano i due autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a ciò, che i possessi erano diventati più stabili, e che dalla proprietà collettiva del villaggio già erasi venuta distin guendo la proprietà della famiglia. Pervenuti così a questo punto della evoluzione della proprietà presso i Germani, analogo a quello, a cui erano pervenute le genti italiche, allorchè fondarono la città di Roma, noi troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER sull'Allodio nei secoli Barbarici, Torino, 1886, la descrizione degli ulteriori stadii, per cui passò l'evoluzione stessa. Noi cominciamo anzitutto dal trovarci di fronte a certi vocaboli e concetti, che ci richiamano le condizioni primi tive delle genti italiche. Cotali sono i communalia, i vicinalia, i vicanalia (SCHUPFER, 26 ) i quali, senz'aver più la configurazione tipica dell'ager compascuus delle tribù italiche, richiamano però il medesimo. Così anche tra i Germani trovasi una forma di proprietà, che, senza essere del tutto individuale, già si accosta alla medesima, ed è notevole, che essa, così fra le genti italiche, come fra i Germani, è indicata con un vocabolo, che richiama l'eredità, il passaggio cioè di un patrimonio dai genitori nei figli. Questo vocabolo presso i Romani, era quello di heredium, e presso i Germani è quello di alodium; il quale eziandio, secondo il Waitz e lo Schupfer, cominciò dapprima dall'indicare l'eredità, e passò poscia ad indicare il patrimonio avito. SCHUPFER, Op. cit., 11 e 12. Or bene, presso l'uno e l'altro popolo, è questo heredium o alodium, che finisce per costituire il primo nucleo della proprietà esclusivamente privata. — È notabile anzi, che, nel periodo della tras 457 formazione, nè i Romani, nè i Germani hanno un vocabolo specifico per indicare la proprietà: poichè mentre i primi esprimono la proprietà coi concetti di meum e di tuum, di heredium, di praedium, di mancipium, i Germani invece la indicano coi vocaboli di Land, Erbe, Eigen, Allod, Sundern (pag. 14 ). Così pure anche presso i Germani occorrono quei consortia, che presso le genti italiche erano indicati coi vocaboli di  ercto non cito . Questi consortia parimenti esistono sopratutto fra fra telli, e talora anche fra zii e nipoti, che continuano spontaneamente nella comunione (SCHUPFER, 52), e richiamano così la familia omnium agnatorum. — Infine la vera proprietà privata formasi presso i due popoli nella stessa guisa. Al modo stesso, che la prima proprietà privata in Roma fu un assegno sull'ager gentilicius o sull'ager publicus, così anche la proprietà privata, presso i popoli germanici, seguendo sempre la guida sicura del prof. Schupfer, fu anche essa una sors, un lotto, un assegno (pag. 63); accanto al quale però si svolge eziandio il concetto dell'adquisitum la bore suo (pag. 60), il quale, salvo il linguaggio, non presenta poi grande differenza dal manucaptum dei latini. È poi anche degno di nota, che questo nucleo cen trale della proprietà privata presso i Germani, al pari che presso gli antichi Ro mani, è costituito da un podere o da una abitazione rustica, a cui trovasi annessa una certa quantità di terra, che in massima avrebbe dovuto essere invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è indicato coi nomi dimansus, di hoba, di sedimen, i quali proba bilmente portano eziandio con sè quella idea di residenza, che era indicata anche dai vocaboli di mancipium e di dominium. Che anzi, come già notava lo Schupfer, p. 78, anche l'uomo libero longobardo, che si chiama arimanno, indica la sua libera pro prietà col vocabolo di arimanna, al modo stesso che il quirite addimandava la sua proprietà esclusiva  dominium ex iure quiritium . Infine questa proprietà si acquista, si trasmette e si rivendica con modi, che ricordano l'usucapio, la manci. patio e l'actio sacramento dei Romani (SCHUPFER, Op. cit., 122, 138 e 160 ). Intanto però, accanto alle analogie, che dimostrano la costanza delle leggi che go vernano l'evoluzione della proprietà, sonvi anche le differenze, che sono determinate dal diverso temperamento dei popoli. Mentre infatti il popolo romano, giunto una volta al concetto della proprietà individuale, ne fa una costruzione tipica, che estende a poco a poco a tutte le cose, che sono in commercio, e che svolge in tutte le sue conseguenze logiche, i popoli germanici invece non giungono a questa concezione tipica; quindi mentre la proprietà romana è una sola, la proprietà germanica, come ben nota lo ScuuPFER, non potrà mai richiamarsi a un solo tipo (pag. 75). Di più mentre i Romani, una volta raggiunta la proprietà quiritaria, la disgiunsero affatto dall'ambiente gentilizio, e si concentrarono esclusivamente nello svolgimento di essa, pressochè lasciando in disparte la proprietà collettiva prima esistente, i popoli ger manici invece, compresi anche gli Anglo-Sassoni, non giunsero mai a districare com piutamente la proprietà privata dall' involucro feudale da cui era uscita, o se lo fecero vi giunsero solo per imitazione della proprietà, quale era stata modellata dai Romani, nè spinsero mai la logica della istituzione a conseguenze così estreme, come i Romani (pag. 82). Ciò è vero sopratutto della proprietà inglese, la quale, uscita dall'organizzazione feudale, continua sempre a serbarne le traccie in quella serie di gradazioni e di distinzioni, che ancor oggi la contraddistinguono. Vedi, quanto alla proprietà inglese, il Williams, Principii del diritto di proprietà reale, trad. Ca negallo, Firenze, 1873 e il POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh. Il ius quiritium ed i concetti di commercium, connubium, actio. 359. Fin qui ho cercato di ricomporre il quirite negli elementi essenziali del suo status, e di seguire le trasformazioni, che si vennero introducendo man mano in ciascuno di questi elementi. Ricostruendo cosi il primitivo diritto, fummo condotti ad una con figurazione giuridica del quirite, la quale, ancorchè rigida e com passata, si presenta però organica e coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte più difficile di questa ricostruzione, quella cioè di cercare, come mai una figura cosi automatica potesse entrare in rapporti con altre individualità foggiate sullo stesso modello, e dare cosi origine a quella infinita varietà di negozii, in cui il quirite pud essere chiamato a svolgere la propria attività giuridica. Non è quindi meraviglia, se qui sopratutto apparisca sorprendente il magi stero dei veteres iuris conditores, in quanto che non trattavasi solo più di notomizzare e di scomporre lo status del quirite, ma di mettere il medesimo in movimento ed in azione, valendosi di pochissimi mezzi per dar forma giuridica alla varietà grandissima dei negozii, che si venivano moltiplicando col formarsi e collo svol gersi della convivenza cittadina. Anche qui la supposizione più ovvia intorno al magistero seguito dai modellatori del primitivo diritto, sarebbe che essi, da uomini pratici quali erano, fossero venuti introducendo le istituzioni, a mi sura che se ne presentava il bisogno, e che perciò il diritto privato di Roma, almeno in questa parte, debba essere considerato come il frutto di una evoluzione lenta e graduata, determinata sopratutto dalle condizioni economiche e sociali del popolo romano. Lo studio invece delle vestigia, che a noi pervennero dell'antico ius quiritium, mi hanno profondamente convinto, che il medesimo, anche in questa parte, che potrebbe chiamarsi la dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di una specie di elaborazione e selezione potente,  Tale sarebbe l'idea, forse alquanto preconcetta, a cui sembra ispirarsi l'opera del Puglia col titolo: Studii di storia di diritto romano, secondo i risultati della filosofia scientifica, Messina, 1886. 459 che venne operandosi su materiali giuridici preesistenti, la quale ebbe ad essere guidata da una logica e da una tecnica giuridica, non dissimile da quella, che abbiamo riscontrata nella parte statica del diritto quiritario. Vi ha tuttavia questa differenza, che mentre le basi fondamentali dello status del quirite furono fissate, pressochè contemporaneamente, dall'avvenimento importantissimo del censo ser viano; lo svolgimento invece della parte del diritto quiritario, che si riferisce al negozio giuridico, fu l'effetto di una elaborazione più lenta e graduata, la quale si operd man mano, che veniva accomu nandosi il diritto fra il patriziato e la plebe, e che le loro rispettive istituzioni si fondevano insieme nell'attrito della vita cittadina. 360. Che questo sia stato il processo, con cui si formò eziandio la parte dinamica del ius quiritium, risulta da una quantità gran dissima di indizii, fra cui basterà qui di ricordare i più importanti. È indubitabile anzitutto che, anche nella parte relativa al negozio giuridico, il ius quiritium non prende le mosse da questo o da quel fatto particolare, ma parte invece senz'altro da concetti sin tetici e comprensivi, quali sarebbero quelli del commercium, del connubium e dell'actio, i quali tutti hanno una larghissima signi ficazione, e sembrano già preesistere nel periodo gentilizio, anteriore alla fondazione della città. Cosi pure è certo, che il primitivo ius quiritium non viene già creando le forme giuridiche, a misura che si vengono svolgendo i nuovi rapporti giuridici, ma compare invece con certe forme tipiche, efficacemente modellate, nelle quali cerca poi di fare entrare, anche forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici, a cui dà argomento la convivenza civile e politica. È in questa guisa, che un solo atto, quale sarà, ad esempio, l'atto per aes et libram, finirà per servire alle applicazioni più disparate. Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il ius quiritium, nelle diverse serie di rapporti giuridici da esso governati, presentasi dapprima con istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il nucleo centrale, intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che hanno qualche affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha dubbio, che il ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio, che è il matrimonio cum manu; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram; come pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio sacramento. Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto quiritario non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano; - 460 - ma si viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si adottano quelli, che possano convenire al concetto fondamentale, che è quello del quirite. È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di questa parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi della sua naturale formazione, cominciando dal cercare: lº quali siano i concetti fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del ius quiritium; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che essi subiscono en trando nel diritto quiritario; 3º l'ordine progressivo, con cui questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora zione del ius quiritium. 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende le mosse la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli del connubium, del commercium, dell'actio. Cid pud inferirsi anzitutto dalla circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo gentilizio, nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era naturale, che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria, li applicassero eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite, pur essendo un individuo, continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò si aggiunge, che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione tipica del quirite, quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla costituzione serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di capo di famiglia e di proprietario di terra, i quali due caratteri, nella sintesi primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium. Era quindi naturale, che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si riducevano alla famiglia ed alla proprietà, così le varie manifestazioni dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del connubium, da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a quella del com mercium, in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge occasione la circolazione e lo scambio della proprietà. — Le une e le altre ma nifestazioni poi trovavano la propria difesa nell'actio, che serviva a tutelare il quirite sotto l'uno e sotto l'altro aspetto, non essendovi ancora la distinzione fra i diritti reali e personali. Questi concetti pertanto, trasportati nel ius quiritium, si cambiarono, per così dire, in altrettanti capisaldi, da cui si vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud esplicarsi l'attività giuridica del quirite; co 461 sicchè anche più tardi, per mettere ordine nello svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio dovette di necessità ricorrere ad una distinzione, che richiama quella antichissima del connubium, del commercium e dell'actio. Tutto il diritto infatti, che si ri ferisce alle persone, considerate sotto il punto di vista esclusiva mente privato, sembra metter capo al concetto del connubium; quello invece, che si riferisce alle cose, non è che uno svolgimento del commercium; e quello infine, che riguarda le azioni, non è che una derivazione da quella legis actio, che costituì la procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del resto sono gli stessi giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti pubblici dai privati, finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti fondamentali del con nubium e del commercium, somministrandoci così, almeno questa volta, una chiave di quella dialettica fondamentale, che stringe ed unifica il molteplice svolgimento della giurisprudenza romana. 362. Per quello poi, che si riferisce alla provenienza di questi concetti direttivi di questa parte del ius quiritium, non può esservi dubbio, che essa deve essere cercata nel periodo gentilizio, il che credo di avere largamente dimostrato a suo tempo. Vuolsi perd aggiungere, che questi concetti, i quali prima avevano governato dei rapporti fra i capi di famiglia e delle genti, allorchè furono tras portati nei rapporti fra quiriti, si trasformarono in altrettante basi del diritto spettante ai quiriti, cosicchè dal connubium derivd il ius connubii ex iure quiritium; dal commercium il ius commercii pure ex iure quiritium; e infine dall’actio il sistema delle legis actiones, che è parimenti proprio della comunanza quiritaria. Questi concetti pertanto cessarono di avere uno svolgimento pura mente estensivo, come era accaduto nei rapporti fra le famiglie e le genti, ma ricevettero eziandio uno svolgimento intensivo; cosicchè  Intendo qui parlare della nota distinzione di Gaio, Comm., I, 8:  Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet, vel ad res, vel ad actiones . Quanto alle obbiezioni che si fecero, sopratutto dal Savigny, al valore di questa distinzione, vedi quanto si è detto al n ° 97, 124, nota 1.  È sopratutto Ulpiano, checerca di abbracciare nei due larghissimi concetti di connubium e di commercium tutto l'esplicarsi dell'attività giuridica del qui rite. V. Ulp., Fragm., V, 3, quanto al connubium, e XIX, 5 quanto al commercium. Quanto all'uno e all'altro concetto cfr. il Voigt, XII Tafeln, I, 244 e. 274, coi passi ivi citati, ed il MUIRHEAD, Histor. Introd., 108 e 109. (3 ) V. sopra lib. I, cap. VI, SS 2 e 3, 123 a 138. 402 ciascuno di essi venne ad essere una propaggine di quel diritto pri vilegiato, cui i Romani diedero dapprima il nomedi ius quiritium, e che più tardi chiamarono ius proprium civium romanorum. Cosi, ad esempio, il connubium nel periodo gentilicio, era il di ritto di imparentarsi fra di loro, che esisteva fra i membri delle genti, che appartenevano al medesimo nomen. Trasportato invece nella comunanza quiritaria, esso venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium. Secondo Ulpiano infatti  connubium est uxoris iure ducendae facultas , ossia il diritto di addive nire alle giuste nozze riconosciute dal ius quiritium, e di godere cosi di tutti i diritti, che in base al medesimo derivavano da queste giuste nozze, cioè: della manus sulla moglie, fino a che il matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico del cittadino romano; della patria potestas sui figli, che anche più tardi i giureconsulti consideravano come istituzione peculiare al popolo romano. Che anzi, siccome anche l'istituto dell'arrogazione e dell'adozione, come pure quello della successione e della tutela le gittima nel diritto romano avevano stretta attinenza coll'organiz zazione domestica e col principio dell'agnazione, che stava a fonda mento della medesima, cosi anche queste istituzioni apparvero nel primitivo ius quiritium, come una dipendenza del connubium, considerato come un ius proprium civium romanorum. 363. Lo stesso è pure a dirsi del commercium. Il medesimo, nei rapporti fra le genti, era il diritto di addivenire ai reciproci scambii  emendi vendendique invicem potestas ; ma allorchè invece venne ad essere trapiantato fra i quiriti, i quali come tali avevano una proprietà speciale e privilegiata, che era la proprietà ex iure quiritium, esso venne a cambiarsi nel ius commercii ex iure qui ritium, ossia nel diritto di addivenire a tutti quei negozii giuridici, di carattere mercantile, che erano stati adottati come proprii dalla comunanza dei quiriti. Questi negozii poi nel primitivo ius qui ritium e ancora nella legislazione decemvirale, si presentano sotto tre forme fondamentali, che sono: lº il facere nexum, che è il diritto di potersi obbligare nella forma e cogli effetti riconosciuti dal diritto quiritario; 2° il facere mancipium, che è il diritto di acquistare e trasmettere la prima proprietà quiritaria, consistente appunto nel mancipium, colle forme riconosciute dal diritto quiritario; 3º e in fine il facere testamentum, che è il diritto di acquistare o di tras mettere un'eredità, mediante il testamento riconosciuto dal diritto 463 quiritario, donde il vocabolo di testamenti factio. Che anzi l'unità primordiale di questi varii negozii, in cui si estrinseca il ius commercii ex iure quiritium, viene ad essere messa in evi denza anche da ciò, che tutti questi negozii finiscono per compiersi con una sola forma tipica, che è quella dell'atto per aes et libram, e tutti appariscono foggiati sullo stesso modello. Basta perciò considerare, che il nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del giuridico ad un tempo, il mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e la proprietà, e infine il testamentum, sotto un aspetto ha tutte le apparenze di un negozio tra vivi, e sotto un altro è già un atto per causa di morte, e non produce i suoi effetti, che per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere. Così pure l'unità di origine di questi varii negozii e il loro diramarsi dal concetto, che il proprietario ex iure quiritium deve poter liberamente disporre delle proprie cose, viene anche ad essere dimostrata dalla circostanza, che di fronte a tutti questi atti la legislazione decemvirale proclama il principio:  uti lingua nuncupassit , o quello analogo:  uti legassit, ita ius esto . 364. Da ultimo accade eziandio una trasformazione analoga nel concetto dell'actio. Questa nel periodo gentilizio era la procedura solenne, consacrata dal costume, a cui doveva attenersi il capo di famiglia, il cui diritto fosse disconosciuto e violato, e la medesima poteva anche dar luogo ad una effettiva violenza fra i contendenti, quando essi non avessero potuto venire ad un amichevole compo nimento . Allorchè invece l'actio compare nel ius quiritium, essa imita bensì ancora la procedura anteriore allo stabilimento della ci vile giustizia, ma intanto già si compie in iure, cioè davanti al magistrato riconosciuto come capo e custode della città. Di più questa actio non può più seguire arbitrariamente questa o quella pratica, introdottasi nel costume, ma deve invece essere accomodata alla legge, ed ai termini di essa. Essa cessa perciò di essere,un'actio qualsiasi, ma diventa una legis actio, e viene così a cam  Fra gli autori, che dànno questa larga significazione così al connubium, che al commercium, accennerò il LANGE, Histoire intérieure de Rome, 13, in nota, il quale pur riconosce, che questi concetti dovettero prima aver origine nei rapporti fra le varie genti.  Quanto alle origini dell'actio nel periodo gentilizio e ai caratteri della mede sima, vedi sopra lib. I, cap. VI,  3, 130 a 138. 464 biarsi nel diritto di far valere le proprie ragioni davanti al ma gistrato, nella forma che è riconosciuta dal diritto quiritario. Quindi è, che anche la procedura quiritaria sembra prendere le mosse da un'azione tipica, che è l'actio sacramento, la quale può anche essa essere considerata come il nucleo centrale, da cui si verrà poi derivando non solo tutto il sistema delle legis actiones, ma in parte eziandio il sistema delle formulae. È poi quest'origine gentilizia dei concetti fondamentali del diritto quiritario, che spiega eziandio, senza bisogno di ricorrere a quello spirito formalista del popolo romano, che fu ormai abbastanza sfrut tato, le cerimonie solenni, che accompagnano gli atti di carattere quiritario: poichè anche queste solennità dovevano un tempo accom pagnare gli atti, che intervenivano fra i capi delle famiglie e delle genti, in quanto rappresentavano il proprio gruppo, e avevano cosi una importanza, che spiega le formalità, da cui erano circondati. 365. Resta ora a determinarsi l'ordine progressivo, con cui si vennero consolidando questi varii aspetti del primitivo ius quiritium. Anche qui ci mancano le testimonianze dirette, perchè i veteres iuris conditores, secondo la testimonianza di Cicerone, non amavano divulgare il segreto dell'arte loro ; ma abbiamo tuttavia una quantità di fatti, che possono servirci di guida. Così noi sappiamo anzitutto, che la prima parte del diritto, che ebbe ad essere comune al patriziato ed alla plebe, fu certamente quella relativa al commercium, e quindi viene ad esser naturale, che l'elaborazione di un ius quiritium, comune ai due ordini, inco minciasse da quegli atti, che si riferiscono al commercium. Questa circostanza verrebbe poi ad essere eziandio confermata dal fatto, che la parte di antichissima legislazione civile, che sarebbe da Dionisio attribuita a Servio Tullio, si riferirebbe appunto ai con tratti, la cui azione dispiegasi appunto nella parte relativa al com  Tralascio qui ogni maggior spiegazione intorno alle origini del formalismo romano, perchè ebbi già ad occuparmene al n ° 94, 117. e sopratutto nella nota 1a a 118, ove si presero in esame le opinioni, in proposito emesse, dal Sumner-Maine e dal Jhering.  Cic., De Orat., I, 42, lagnandosi delle difficoltà, che ai suoi tempi ancora accompagnavano lo studio del diritto, dice espressamente, che una delle cause di queste difficoltà deve essere riposta nella circostanza che  veteres illi, qui buic scientiae praefuerunt, obtinendae atque augendae potentiae suae caussa, pervulgari artem suam noluerunt . 465 mercium. Cosi pure abbiamo un'altra conferma di questo fatto nella circostanza, che, all'epoca della legislazione decemvirale, già si presentano come compiutamente formati i tre negozii giuridici attinenti al ius commercii, cioè il nexum, il mancipium ed il testa mentum; cosicchè in questa parte viene ad essere evidente, che le leggi delle XII Tavole non fecero che confermare uno stato di cose già preesistente, e si limitarono a dire, che in questa specie di negozii, la volontà del quirite doveva essere sovrana, per modo che la sua parola costituisse legge. Infine un argomento indiretto di questa precedenza l'abbiamo anche in questo, che la forma dell'atto commerciale per eccellenza, che è l'atto per aes et libram, ebbe più tardi ad essere applicata eziandio in atti relativi al ius con nubii, come nella coemptio, nell'adoptio e simili: il che significa, che l'atto per aes et libram già doveva essersi formato prima, che si addivenisse alla concessione dei connubii fra patriziato e plebe, la quale segui solo più tardi. Mi pare ciò stante di poter conchiudere, che la parte del ius quiritium, relativa al commercium, fu la prima ad elaborarsi ed a consolidarsi, e che deve attribuirsi a questo motivo, se lo svolgi mento posteriore del diritto romano appare costantemente modellato sul concetto del mio e del tuo. È questo il concetto espresso da Ulpiano, allorchè scrive: omne ius consistit aut in acquirendo, aut in conservando, aut in minuendo; aut enim hoc agitur, quem admodum quis rem vel ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut quomodo amittat ; ma la causa storica, che determinò questo carattere peculiare del diritto romano, deve essere riposta nel fatto, che la parte del ius quiritium, relativa al commercium, fu la prima a consolidarsi, e costitui in certo modo il nucleo centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che si aggiunsero più tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta. Quando si tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al connubium, si trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà, e quindi anche il diritto del marito, del padre, del padrone furono model  Cid non può lasciar dubbio quanto al nexum ed al mancipium, che già si presentano nelle XII Tavole come istituzioni compiutamente svolte, ed è confermato eziandio, quanto al testamentum, da ULPIANO, il quale dice espressamente, che le suc cessioni testamentarie e i tutori nominati per testamento furono confermati dalle XII Tavole. Fragm., XI, 14.  Ulp., L. 41, Dig. C., Le origini del diritto di Roma. 30 - 466 lati su quello di proprietà. Cosi pure quando si tratto di model lare le azioni, tutto si ridusse ad una questione di mio o di tuo, si trattasse di rivendicare una cosa qualsiasi, oppure la moglie od un figlio. Quindi è che la rigidezza, che a questo riguardo presenta il primitivo ius quiritium, non proviene già da una confusione, che si facesse fra i diritti di famiglia ed i diritti di proprietà, ma bensi da ciò, che essendosi nel ius quiritium modellato prima il diritto di proprietà, anche le elaborazioni posteriori ne conservarono l'im pronta. Ciò è anche provato dal fatto, che nelle fonti l'espressione di ius quiritium è sopratutto adoperata relativamente alla proprietà ed al commercio; cosa del resto, che è facile a comprendersi, quando si consideri, che la comunanza quiritaria all'epoca serviana si formo appunto in base alla proprietà ed al censo. 366. Noi possiamo invece affermare con certezza, che fu solo assai più tardi, che il ius connubii entrò a formar parte di quella singolare costruzione giuridica, che porta il nome prima di ius qui ritium e poscia quello di ius proprium civium romanorum; poichè fu soltanto colla legge Canuleia, che si riusci ad abolire il divieto del connubio dei patrizii colla plebe. Malgrado di ciò, si può essere certi, che, anche prima di quest'epoca, la parte più ricca ed agiata della plebe già aveva cercato di accostarsi alla organizzazione della famiglia patrizia. Ciò è abbastanza dimostrato dal fatto, che i de cemviri considerarono la famiglia fondata sull'agnazione, come la famiglia propria dei quiriti, e cercarono anzi di fornire alla plebe un mezzo semplicissimo per addivenire al matrimonio cum manu, mezzo che consiste nella coabitazione di un anno, non interrotta per tre notti di seguito. Allorchè poi colla legge Canuleia furono leciti i connubii fra il patriziato e la plebe, era naturale, che l'atto quiritario per eccellenza venisse ad essere applicato anche in que st'argomento. Probabilmente dovette essere allora, che fra le forme del matrimonio cum manu, di cui una era la confarreatio, propria del patriziato, e l'altra l'usus, propria della plebe, venne svolgendosi. la forma del matrimonio, che può ritenersi come quiritaria per ec cellenza, cioè quella per coemptionem. Intanto questo trapianto del l'organizzazione domestica, propria del patriziato, nel ius quiritium, comune ai due ordini, fece si che la famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente sulla patria potestà e sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la tutela legittima fossero deferite, in base alla legislazione decemvirale, agli eredi suoi, agli agnati e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in questa parte, che l'organiz zazione gentilizia del patriziato riusci a penetrare nel diritto quiri tario; donde la conseguenza, che il ius connubii e la conseguente organizzazione della famiglia finiscono per essere la parte dell'an tico diritto, in cui rivelasi più tenace e persistente lo spirito conser vatore dell'antico patriziato romano . 367. La parte infine del diritto primitivo, che ultima sarebbe entrata nella compagine del ius quiritium, deve ritenersi essere quella, che si riferisce alle legis actiones. Non è già, che anche in questa parte non vi fossero dei materiali preesistenti: ma, secondo l'attestazione concorde degli stessi giureconsulti, fu soltanto poste riormente alla legislazione decemvirale è in base alle parole stesse della medesima, che sarebbe stato modellato il sistema delle legis actiones. Che anzi si può affermare con certezza, che questa parte del primitivo diritto di Roma fu certamente dovuta alla elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi delle tradizioni patrizie, spie garono sopratutto in questa parte la loro tecnica giuridica, e cer tamente seguirono quel processo di costruzione logica, che erasi già adottato nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi essi, che introdussero, quale azione tipica del diritto quiritario, l'actio sacramento, la quale può essere considerata come il germe di tutto lo svolgimento posteriore della procedura quiritaria: come pure furono essi, che si fecero gli iniziatori di quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla varietà infinita delle fattispecie, che si potevano presentare, la quale giunse poi a tanta eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non ignoro che l'opinione qui professata, secondo cui le legis actiones sarebbero state le ultime a penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius proprium civium romanorum, sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi giureconsulti, sembra  Le affermazioni, che qui sono semplicemente enunciate, verranno poi ad essere meglio comprovate nel capo V, ove trattasi diproposito del ius connubii. È notabile, quanto al connubium, che l'espressione ad perata nelle fonti non è più quella di ius quiritium, la quale sopratutto si adopera in tema di proprietà, ma è già quella di ius proprium civium romanorum. La causa di questo cambiamento sta in ciò che il connubium venne ad essere comune dopo le XII Tavole, cioè quando al concetto più circoscritto del ius quiritium già cominciava a sovrapporsi il concetto più largo di un ius civile, ossia di un ius proprium civium romanorum. 168 contraddire alla opinione oggidi molto seguita, secondo cui le actiones avrebbero avuta la precedenza su tutte le altre parti del diritto quiritario. Credo quindi opportuno di avvertire, che io pure ammetto, che in quella evoluzione lenta dei concetti giuridici, che ebbe ad avverarsi nel periodo gentilizio, il concetto che prima venne a svolgersi, fu certamente quello di actio : ma così invece più non accadde nell'elaborazione del ius quiritium. Questo infatti è già una costruzione organica e coerente, che prese le mosse dal concetto del quirite, come individualità giuridica integra e perfetta, e che in base al medesimo cominciò dapprima dal modellare la pro prietà, a lui spettante; poscia gli attribui il connubio; da ultimo provvide anche alle azioni, che potevano tutelarlo nei suoi diritti di proprietà e famiglia: donde la conseguenza, che il ius quiritium, essendo già un'opera riflessa, accolse talvolta più tardi istituzioni, che nella realtà dovettero svolgersi per le prime. Intanto questo sguardo complessivo alla progressiva formazione del ius quiritium ha ' per noi una grandissima importanza, in quanto che mantenendo nella ricostruzione l'ordine stesso, che ebbe ad essere seguito nella naturale formazione del ius quiritium, si potrà giungere a spiegare certi caratteri peculiari del diritto pri mitivo di Roma, che altrimenti riuscirebbero incomprensibili. La materia intanto verrà ad essere naturalmente ripartita in tre capi toli, di cui il primo si occuperà del ius commercii, l'altro del ius connubii, e l'ultimo delle legis actiones.  Fra gli altri sembra attribuire questa precedenza all'actio sulle altre parti del diritto civile romano il Cogliolo, Saggi sopra l'evoluzione del diritto privato, Torino, 1885, 105.  Ho cercato altrove di spiegare questo carattere delle società primitive, che al punto di vista attuale pud apparire alquanto singolare nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, 40. (3 ) Per una più larga discussione intorno al modo, in cui si formarono le legis actiones, mi rimetto al cap. VI ed ultimo,  1º, ove trattasi appunto di quest'argomento. Il ius commercii nel diritto quiritario. Il commercium e l'atto per aes et libram. 368. Se havvi parte del ius quiritium, che sia modellata in per fetta correlazione con quella individualità giuridica, integra e com piuta, che era il quirite, è quella certamente, che si riferisce al ius commercii. In questa parte la volontà del quirite apparisce indi pendente e sovrana; la sua parola costituisce una vera legge;" e non trovasi imposto altro limite e confine al suo potere, salvo quello, che deriva dalla osservanza delle forme solenni, che sono ricono sciute ed adottate dal diritto quiritario. Il quirite infatti, quale pro prietario, può disporre delle sue cose fino ad abusarne, e può alienarle nel modo solenne proprio dei quiriti (facere mancipium ); quale debitore può obbligare se stesso fino a vincolare la libertà della propria persona (facere nexum ) per il caso in cui non soddisfi il suo debito, e come creditore può appropriarsi perfino la persona ed il corpo del debitore; come testatore infine può disporre in qual siasi modo del suo patrimonio, dimenticando anche di avere de' figli. Si può quindi affermare, che i tre atti fondamentali, in cui si esplica il ius commercii ex iure quiritium, sono tutti governati dal con cetto, che la volontà del quirite non deve aver limite o confine: concetto, che, quanto al nexum ed al mancipium, viene enun ciato con dire  uti lingua nuncupassit, ita ius esto , e quanto al testamento, colle parole:  uti pater familias super familia tute lave suae rei, legassit, ita ius esto  . E questa la parte, in cui  uti  Mentre nella ricostruzione del Dirksen, seguita dal Bruns, Fontes, 22 e 2.3, la disposizione:  Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto  sarebbe la legge 1º della Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt invece, essa viene ad essere la 1° della Tavola V. Così pure la disposizione legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto , che nella ricostruzione del Dirksen è la terza della Tavola V, in quella del Voigt viene ad essere la prima della Tavola IV. Ciò dimostra quanto sia grande, anche oggi, l'incertezza intorno all'ordine dei frammenti delle XII Tavole. domina sovrana la nuncupatio, e quindi si comprende come tanto nelle obbligazioni, quanto nei trasferimenti del dominio, quanto nei testamenti abbia avuto cosi larga parte lo studio delle espressioni adoperate. Queste espressioni infatti nel concetto primitivo costitui vano delle vere leggi, come lo dimostrano ancora le espressioni ado perate di lex mancipii, di lex testamenti, di lex fiduciae e simili, colle quali si comprendevano le varie clausole, che potevano essere apposte ad un trasferimento del dominio, o ad un testamento . L'unità poi, che domina tutta questa parte del primitivo ius qui ritium, viene anche ad essere provata dal fatto, che un medesimo atto tipico, che può chiamarsi l'atto quiritario per eccellenza, fini per servire quale mezzo per compiere tutti questi negozii giuridici. 369. L'opinione, ora generalmente seguita, intorno all'atto tipico del diritto quiritario, sembra ritenere, che tale atto debba essere riposto nella mancipatio, argomentando dalla larga applicazione, che questa ebbe a ricevere, ogni qualvolta trattavasi di trasferire la manus, intesa nel senso di potestà giuridica sopra una cosa o sopra una persona . Parmi invece, che le poche vestigia, che a noi pervennero dall'antico diritto, conducano a ritenere, che la forma  Il vocabolo di lex, come significò la clausola di un contratto o di un testa mento, così indicò eziandio le condizioni pubblicamente prescritte per i luoghidesti nati ad uso pubblico o comune. Vedi Bruns, Fontes, Pars II, Negotia, Caput I, 240. Quanto agli altri significati del vocabolo di lex, nel primitivo diritto ro mano, vedi sopra nº 228, 278.  Tra gli autori recenti, che cercarono di ricostruire il primitivo diritto romano, poggiandosi sul concetto di manus, in quanto comprende i poteri sulle cose e sulle persone, e sulla mancipatio, quale mezzo generale per il trasferimento delle manus, deve essere ricordato il Voigt, XII Tafeln, II, 83 a 345. Anche il lavoro del dott. Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, è un tentativo in questo senso. Questi verrebbe alla conclusione, che la mancipatio, quale a noi pervenne, sarebbe una reliquia di un atto più antico e più solenne, il quale in origine avrebbe dovuto compiersi in calatis comitiis, e che sarebbesi applicato ad ogni acquisto e trasferi mento della inanus. Di quest'atto primitivo egli troverebbe le traccie nel testamen tum e nell'adrogatio in calatis comitiis. Quest'opinione, a parer mio, non può am mettersi; perchè la mancipatio comparve relativamente tardi, e si riduce in sostanza ad una semplice applicazione dell'atto per aes at libram. Quanto agli atti di diritto privato, in cui abbiamo ancora l'intervento del populus, essi non indicano già, che tutti gli atti relativi alla manus richiedessero un tempo l'assistenza del popolo; ma debbono considerarsi come una sopravvivenza dell'organizzazione gentilizia nel pe riodo della città; come ho cercato appunto didimostrare ai nn. 220 e 221, 256 e segg., discorrendo dei calata comitia, e degli atti che compievansi in essi. 471 tipica del negozio quiritario, debba essere riposto nell'atto per aes et libram; cosicché la nexi datio, la nexi liberatio, la man cipatio, la testamenti factio debbono essere riguardate come altret tante applicazioni di quest'atto primordiale. Cid può essere dedotto anzitutto dal concetto fondamentale del primitivo ius quiritium, in cui tutto si riduceva ad una questione di mio e di tuo; donde la conseguenza, che ogni atto relativo al commercium si riduceva in sostanza a fare in modo, che una cosa di nostra diventasse altrui (quod de meo tuum fit) mediante un corrispettivo, che può consistere o nel prezzo, o nell'obbligazione solenne assunta dal de bitore, o nel corrispettivo di quella finta mancipatio familiae, in cui facevasi consistere lo stesso testamento: trapasso, che trova vasi mirabilmente espresso, mediante l'atto per aes et libram. Ed è questo concetto appunto, che risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi giureconsulti. Questi passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era un'applicazione dell'atto per aes et libram, e dapprima quasi confondevasi con esso, poichè era definito:  omne quod geritur per aes et libram . Lo stesso è a dirsi del facere mancipium, in quanto che una parte essenziale della mancipatio, quale è descritta da Gaio, consiste senz'alcun dubbio eziandio nel l'atto per aes et libram; il che è pur dimostrato dalla denomina zione stessa del testamento per aes et libram, il quale si introdusse più tardi, e non fu che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram. Si aggiunga, che questi passi degli antichi giureconsulti indicano una incertezza intorno alla significazione primitiva del nexum e del mancipium. Vi sono infatti dei giureconsulti, che nel nexum comprendono anche il mancipium, mentre altri già distinguono fra l'uno e l'altro, osservando che dal nexum deriva un obbligazione, mentre col mancipium si opera la traslazione della proprietà. Questa incertezza appare eziandio quanto al testamento per aes et libram, il quale sotto un aspetto appare come una vera vendita o mancipatio familiae, come lo dimostra l'intervento del familiae venditor e del familiae emptor; mentre sotto un altro aspetto non è più una vendita nel vero senso della parola, ma è già un vero atto per causa di morte, poichè il familiae emtor riceve solo in deposito e in custodia il patrimonio del te statore, accið egli possa liberamente disporne  secundum legem publicam  per il tempo in cui avrà cessato di vivere.  Non sarà inutile riportare qui alcuni dei passi di antichi giureconsulti, che 472 Di qui pertanto si può ricavare, che nella sintesi primitiva del diritto quiritario tutto ciò, che riferivasi al commercium, compievasi per aes et libram, col quale atto esprimevasi lo scambio ed il tra passo, e che solo col tempo in questa sintesi primitiva si vennero differenziando il nexum, il mancipium, il testamentum; i quali col tempo procedettero ciascuno per la propria via, ed informati ad un proprio concetto finirono per dare origine a tre istituzioni fonda mentali. Col tempo infatti dal nexum scaturi la teoria delle obbli gazioni, dal mancipium derivò quella dell'alienazione e trasmissione del dominio e dei diritti reali inchiusi nel medesimo, e dal testa mentum si derivò tutta la teoria della libera disposizione delle proprie cose per causa di morte, la quale non potè mai confondersi ed imparentarsi colla successione legittima, poichè questa nel ius quiritium ebbe un'origine compiutamente diversa, come sarà di mostrato a suo tempo . È poi notabile, che il primitivo ius quiri tium, nella sua sintesi potente, ebbe a ravvisare uno scambio, ed una trasmissione con corrispettivo, tanto nel contratto, in quanto è fonte di obbligazioni, quanto nel trasferimento delle proprietà, quanto eziandio nel testamento, mediante cui l'erede viene in certo modo a dimostrano come il nexum, il mancipium e il testamentum facere non fossero, che altrettante applicazioni dell'atto per aes et libram.  Nexum Manilius scribit omne, quod per aes et libram geritur, in quo sint mancipia . Varro, De ling. lat., 7, 5,  105 (AUSCHKE, Iurispr. antiiustin., 6 );  Nexum, est ut ait Aelius Gallus, quodcumque per aes et libram geritur, idque necti dicitur; quo in genere sunt haec: testamenti factio, nexi datio, nexi liberatio  (Hoschke, Op. cit., 96 ). Accanto a questa significazione larghissima, in cui il vocabolo di nexum comprende ancora  omne quod geritur per aes et libram , sonvi poi altri passi, che già attribuiscono al nexum una significazione più circoscritta. Così, ad esempio:  Nexum, Mucius scribit, quae per aes et libram fiunt, ut obligentur, praeter quae mancipio dentur , la quale opinione sarebbe prevalsa secondo VARRONE, De ling. lat., VII, 105, il quale aggiunge:  hoc verius esse ipsum verbum ostendit,de quo quaerit, nam id est quod obligatur per libram, neque suum fit, inde nexum dictum  (Bruns, Fontes, 386). Quest'ultima definizione sarebbe pur confermata da Festo, vº Nexum:  Nexum aes apud antiquos dicebatur pecunia, quae per nexum obligatur  (Bruns, Fontes, 346). Sonvi poi eziandio dei passi, in cui la mancipatio sarebbe indi cata perfino colla espressione di traditio alteri nexu, quale sarebbe il seguente di Cic., Top., 5, 28:  Abalienatio est eius rei, quae mancipii est, aut traditio alteri nexu, aut in iure cessio . Per altri passi vedi il Voigt, XII Tafeln, I, 197, nota 7, e II, 482.  La successione legittima non prende le mosse dal commercium, ma dal con nubium, come sarà dimostrato nel seguente cap. V, $ 5. - 473 continuare la personalità giuridica del proprio autore, e viene perciò ad essere obbligato alla continuazione dei sacra. Di qui la conseguenza, che, per ricostruire in questa parte il ius quiritium, vuolsi ricomporre anzitutto il primitivo atto per aes et libram, cercare l'epoca in cui esso penetrò nel ius quiritium, e se guire da ultimo le progressive applicazioni, che se ne vennero facendo. 370. Più volte ebbe ad essere notato, che nel diritto romano oc corrono le traccie di un processo, che ha del matematico, e che taluni vollero attribuire alla influenza di Pitagora, la cui filosofia, teorica e pratica ad un tempo, poggiava appunto sul numero, come espres sione dell'ordine e dell'armonia. Senza entrare in una simile di scussione, questo è certo, che non si può a meno di ravvisare questo carattere di matematica precisione ed esattezza in quel negozio, es senzialmente proprio dei quiriti, che compare sotto la forma del l'atto per aes et libram; poichè in esso noi vediamo comparire la persona di un pubblico pesatore, che tiene la bilancia quasi per de terminare ciò che altri då, e ciò che deve essere ricevuto in con traccambio. Può darsi benissimo, che quest'atto per aes et libram abbia avuto origine dalla necessità, in cui i contraenti erano di pesare l'aes rude, allorchè non erasi ancora introdotto l'aes signa tum: ma intanto si stenta a credere, che i veteres iuris conditores, allorchè introdussero come tipico quest'atto nel ius quiritium, e ne prolungarono la vita ben oltre l'epoca, in cui era veramente neces saria la bilancia, non abbiano ravvisato nel medesimo come una espressione ed un simbolo della esattezza e della precisione, che deveaccompagnare il negozio giuridico, e della uguaglianza, che deve mantenersi fra la cosa ed il prezzo, fra quello che si dà e ciò che si riceve in contraccambio. Questo è certo, che difficilmente sareb besi potuto rinvenire un atto, che potesse meglio simboleggiare quella giustizia, che Aristotele chiamò poi commutativa, e che era quella appunto, che doveva sovraintendere a quegli scambii, che i Romani inchiudevano col vocabolo di commercium . Ad ogni modo l'esistenza presso i Romani di un atto quiritario  quod geritur per aes et libram  da applicarsi in tutti gli scambii, in tutti i trapassi, in tutte le contrattazioni, che potessero interve  V. ZELLER, La philosophie des Grecs, trad. Boutroux, I, Paris, 1877, p. 486 e sopratutto la nota 8, 401.  Cfr.  C., La vita del diritto, 132. - 474 nire fra i quiriti, tanto negli atti tra vivi, quanto eziandio negli atti per causa di morte, non pud essere posta in dubbio. Vero è, che il medesimo non ci pervenne nelle sue fattezze genuine, ma soltanto nelle applicazioni diverse, che se ne fecero; ma il fatto stesso che l'atto per aes et libram compare nelle obbligazioni, nei trasferimenti e nei testamenti dimostra, che esso in certo modo fra i quiriti compieva quella funzione, che presso di noi ha compiuto, sopratutto in altri tempi, quello che chiamasi l'atto pubblico ed autentico, il quale, al pari dell'antico atto per aes et libram, con tinua in certi confini ancora oggi ad avere la forza e l'efficacia del titolo esecutivo, salvo che esso sia impugnato di falso. Dal momento, che erasi venuto formando per la comunanza dei quiriti una forma particolare di diritto, che prese il nome di ius quiritium, era naturale che si modellasse eziandio un atto tipico, che potesse ser vire nei negozii essenzialmente quiritarii. Esso doveva essere pub blico, come tutti gli atti, che si compievano fra i quiriti; doveva es sere fatto colla testimonianza dei quiriti stessi, in quanto che poteva mutare in qualche modo la posizione rispettiva degli uni verso degli altri nella comunanza quiritaria, donde l'intervento nel medesimo dei classici testes, corrispondano o non i medesimi alle cinque classi serviane; doveva esser fatto coll'intervento di un pubblico ufficiale, che era il libripens, il quale poteva anche essere inca ricato di denunziare agli uffizii del censo le mutazioni, che ne derivavano alla condizione dei quiriti; alle quali solennità negli antichi tempi aggiungevasi eziandio la presenza di un antestator, incaricato in certo modo di richiamare l'attenzione delle parti e dei testimoni sulla importanza dell'atto. Il medesimo poi, per quanto si può inferire dalle applicazioni  Tra gli autori, che sembrano accostarsi all'idea, che l'atto per aes et libram costituisca nell'antico diritto la forma solenne per tutti i negozi relativi al com mercium, parmi di poter annoverare l'HÖLDER, Istituzioni di diritto romano, $ 28, trad. Caporali. Torino, 1887, 82.  Cod. civ. it.Questi varii caratteri del primitivo atto per aes et libram si possono facil mente ricostruire, ricomponendo insieme la descrizione, che sopratutto Gajo ed Ul PIANO ci serbarono, dei varii negozii, che compievansi per aes et libram, quali la nexi datio, la nexi liberatio, la mancipatio, ed il testamentum per aes et libram, dei quali avremo poi a discorrere partitamente. Quanto all' antestator o antestatus vedi il Longo, La mancipatio, 74. 475 diverse, che ne furono fatte, ebbe ad essere costituito di due parti, cioè: lº dell'atto per aes et libram, il quale, mentre dava al negozio il carattere di pubblicità e di autenticità, poteva eziandio essere un ricordo effettivo di un'epoca, in cui l'aes rude serviva di istrumento per gli scambii e doveva perciò essere pesato colla bilancia; 2º della nuncupatio, che era un complesso di parole solenni, accomodate alla natura dell'atto, le quali esprimevano con preci sione ed esattezza il negozio giuridico, che veniva operandosi fra i contraenti. Mentre la prima parte era un ricordo del passato e conservavasi  dicis gratia, propter veteris iuris imitationem ; la seconda parte invece serviva a dargli duttilità e pieghevolezza, e a rendere possibili le applicazioni diverse, che si fecero dell'atto per aes et libram, non solo ai negozii giuridici propriamente detti, ma anche agli atti relativi all'ordinamento della famiglia. 371. Quanto al tempo, in cui l'atto per aes et libram può essere stato introdotto nel ius quiritium, esso non può e non potrà forse mai essere determinato con certezza, anche per il motivo che il medesimo può essere stato il frutto di una formazione lenta e gra duata. Egli è probabile tuttavia, che l'epoca, in cui esso cominciò a formarsi, dovette essere quella stessa, in cui prese ad elaborarsi un ius quiritium, comune al patriziato ed alla plebe, e quindi le sue origini possono con probabilità essere riportate all'epoca della costi tuzione serviana. Fu allora, che mediante l'istituzione del censo co minciò a delinearsi una proprietà ex iure quiritium, la quale con sisteva nel mancipium; quindi è probabile, che anche allora siasi sentito il bisogno di una forma tipica per compiere i negozii quiri tarii. Questo è certo, che alcuni tratti dell'atto per aes et libram richiamano l' epoca serviana. Cosi, ad esempio, noi sappiamo, che probabilmente in quell'epoca dovette avverarsi una trasformazione nel sistema monetario, poichè presso i primitivi romani il più an tico strumento di scambio non consistette nel rame, ma nei capi di  L'esistenza di questo duplice elemento nel primitivo atto per aes et libram è già accennato dalla disposizione delle XII Tavole:  qui nexum faciet, mancipium que, uti lingua nuncupassit, ita ius esto , e appare poi dall'analisi di tutti i ne gozii, che si compiono per aes et libram, descrittici sopratutto da Gajo, Comm., II, 104-5 e da Ulp., Fragm., XX, 9. - 476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e nei buoi, come lo dimostra la designazione delle multe, che anche più tardi si continuò a fare in questa guisa. Che se per avventura si volesse ritenere, come fino a un certo punto è probabile, che l'atto per aes et libram fosse stato anche adottato per simboleggiare lo scambio, il trapasso, anche questo linguaggio simbolico corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che ricorre ai simboli dell'hasta, della vindicta, e simili. Cosi pure noi sappiamo, chei testimonii dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed è anzi probabile, che fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra la denominazione di classici testes: la quale, sebbene sia solo menzionata per i testimonii nel testamento, può ra gionevolmente essere estesa alle altre applicazioni dell'atto per aes et libram. Infine anche l'intervento di un pubblico ufficiale in quest'atto sembra essere stato determinato dalla necessità, in cui si era di conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella posizione ri spettiva dei quiriti. Comunque sia, è però sempre probabile, che anche nella formazione di quest'atto siasi seguito il processo, che suole es sere adoperato dai Romani, quello cioè di servirsi di qualche forma già preesistente, attribuendovi il carattere quiritario, e cambiandola cosi in una forma tipica, che potrà poi essere capace di applicazioni diverse. Nulla ripugna pertanto, che l'atto per aes et libram sia stato veramente una realtà nell'epoca, in cui l'aes rude, non potendo essere numerato, doveva invece essere pesato; ma questo è certo, che quando quest'atto compare nel ius quiritium, esso viene già  Festo, vº  Classici testes dicebantur, qui signandis testamentis adhibebantur . La questione se questi classici testes dovessero ritenersi come rappresentanti delle cinque classi, in quanto che essi non potevano essere meno di cinque, fu trattata di recente dal Longo, La mancipatio, 83 e segg., il quale sosterrebbe che i clas sici testes non hanno che fare colla rappresentanza delle classi. Se con cið egli in tende di dire, che i testimoni non avevano nessun incarico di rappresentare le cinque classi serviane, ciò può facilmente essere consentito, poichè, secondo la testimonianza di GaJo, Comm., II, 25, questi testi solevano essere amici dei contraenti e potevano perciò essere presi anche dalla stessa classe: ma intanto non vi ha motivo per ne gare, che essi fossero chiamati classici, appunto perchè dapprima dovevano essere presi dalle classi, ossia dagli adsidui e locupletes. Era infatti nello spirito della costituzione serviana, che nell'atto per aes et libram, con cui si attuavano le muta zioni di proprietà quiritaria, dovessero intervenire dei testimonii tolti dalle classi al modo stesso, che ancora in base alle XII Tavole era stabilito:  adsiduo adsiduus vindex esto . Tale sembra pur essere l'opinione del MUIRHEAD, Histor. introd., pag.59, il quale trova anzi non improbabile, che i non minus quam quinque testes rappresentassero le cinque classi. 477 ad essere cambiato in un atto tipico, che poteva essere suscettivo di molteplici applicazioni. Si comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della mancipatio, come di una imaginaria venditio, senza neppur far cenno di un'epoca, in cui essa poteva costituire una vendita effettiva e reale. 372. Per quello poi che si riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per aes et libram sarebbe stato applicato ai principali negozii giuridici deldiritto quiritario, è opinione generalmente ammessa, che esso siasi prima applicato alla mancipatio, poscia al nexum, e più tardi al testamentum per aes et libram. Mentre non pud esservi alcun dubbio circa l'applicazione più tarda dell'atto per aes et li bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed Ulpiano attestano, che questa forma di testamento ebbe ad essere introdotta posterior mente a quella in calatis comitiis , ritengo invece, che sianvi dei forti indizii per credere, che l'applicazione dell'atto per aes et libram al nexum debba essere considerata come la più antica. Un argomento di ciò l'abbiamo anzitutto nel fatto, che nell'antico ius quiritium il diritto sembra spiegarsi prima contro la persona del debitore, che non contro i beni del medesimo, ed è solo assai tardi e sotto l'influenza del diritto pretorio, che si giunge a rite nere vincolati i beni, anzichè il corpo e la persona del debitore. Di più il facere mancipium suppone già un'epoca, in cui anche la plebe era pervenuta alla proprietà, mentre il facere nexum ci ri porta ad un'epoca più antica, in cui la plebe, nei suoi rapporti col patriziato, non potendo offrire alcuna garanzia reale, non poteva ob bligarsi altrimenti, che vincolando la propria persona. A ciò si ag giunge, che l'atto per aes et libram pud essere stata una realtà relativamente al nexum, poichè in un'epoca, in cui l'aes rude serviva come strumento di scambio, era una necessità il pesare la somma, che era data ad imprestito; mentre invece l'applicazione  Egli è evidente che i giureconsulti considerarono sempre l'atto per aes et libram come una forma riconosciuta dalla legge (secundum legem publicam ) per compiere i negozii di carattere quiritario; di qui le loro espressioni di imaginaria venditio, e di imaginaria mancipatio, e la disinvoltura con cuinon hanno difficoltà di applicarle a negozii, che più non hanno carattere mercantile, come sarebbe, ad esempio, il matrimonio per coemptionem.  Tale sembra, ad esempio, essere l'opinione del Voigt, XII Tafeln; del MUIRHEAD, Op. cit., (3 ) GAJO, Comm., II, 102; ULP., Fragm., XX, 2. 58. 478 dell'atto per aes et libram, non solo per eseguire il pagamento del prezzo, ma anche per operare il trasferimento della proprietà di una cosa, è già ad evidenza un espediente giuridico, e merita il nome da tole da Gaio di  imaginaria venditio . Si comprende pertanto, come gli antichi giureconsulti comprendano talvolta il facere mancipium nel concetto più antico del nexum chiamando con questo nome  omne quod geritur per aes et libram , mentre non consta che essi facciano mai rientrare il nexum nel concetto del facere mancipium. Infine si può anche aggiungere, che nei passi antichi parlasi di un ius nexi mancipiique, e che le stesse XII Tavole fanno precedere il nexum nel famoso testo:  cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto : argomento questo, chemalgrado la sua tenuità apparente non deve trascurarsi del tutto, quando si consideri l'esattezza e la precisione, anche cronologica, che i ro mani, sopratutto nei tempi più antichi, recavano nel proprio lin guaggio legislativo, facendo di solito precedere il concetto, che prima erasi formato a quello, la cui formazione era posteriore. Che se po steriormente la mancipatio fini per prendere un posto più impor tante, ciò proviene da una causa storica, dal fatto cioè, che la parte del diritto primitivo relativa al nexum fu la prima ad essere abolita, il che accadde per mezzo della lex Paetelia, nel 428 dalla fondazione di Roma; donde la conseguenza, che il nexum cadde pressochè in dimenticanza, mentre la mancipatio apparve come l'atto quiritario per eccellenza presso i classici giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che presso i giureconsulti più antichi dovette essere as solutamente il contrario; perchè noi sappiamo che Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il mancipium, e che Elio Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio; cosicchè tutto ciò, che compievasi per aes et libram, necti dicebatur, e quindi nel nexum veniva ad essere compreso  omne quod geritur per aes et libram . La distinzione invece fra il nexum ed il mancipium compare in Quinto Muzio Scevola, il quale dice bensi che il nexum è ancor sempre  quod per aes et libram fit , ma non più nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì in quello di obbli garla soltanto; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad essere seguita, e fu allora che si chiamò nexum,  quod obligatur per libram, neque suum fit. Si pud quindi conchiudere, che il vocabolo di nexum ebbe dapprimauna significazione più larga, per cui tutto  V. in proposito i passi di antichi giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota - 479 ciò che compievasi  per aes et libram, necti dicebatur , mentre più tardi fini per significare l'obbligazione assunta per aes et libram; trasformazioni di significato, che occorrono frequenti nel diritto ro mano, come lo dimostrano i vocaboli di imperium, di manus e di mancipium, i quali tutti, mentre hanno una significazione più larga, finiscono per assumere un significato specifico più circoscritto. A queste considerazioni, fondate sui testi, se ne aggiunge un'altra, per me più importante di tutte, ed è che nella formazione del diritto quiritario, che poggia tutto sul concetto fondamentale del quirite, il diritto, quale vinculum societatis humanae, dovette presentarsi dap prima come un nexum, ossia, come un vincolo, che intercede fra due quiriti. Ciò è dimostrato dal fatto, che la procedura primitiva è azione di una persona contro di un'altra, e che la esecuzione pri mitiva va direttamente contro la persona del debitore, e si mani festa quale manus iniectio contro il medesimo . Quest'indagine intanto è per noi importante anche nel senso, che ci induce a discorrere prima del nexum, poscia della mancipatio, e da ultimo del testamentum per aes et libram. $ 2. Il nexum e la storia primitiva della obbligazione quiritaria. 373. L'origine diquell'obbligazione quiritaria di strettissimo diritto, che contraevasi mediante il nexum, deve essere cercata in quel  Non parmi pertanto, che possa essere accettata la teoria ingegnosa, ma non fondata sui fatti, del SumnER-MAINE, L'ancien droit, p. 305 e seg., secondo la quale il nexum avrebbe prima significato il trasferimento della proprietà, e sarebbe poscia venuto a significare l'obbligazione del venditore, che non avesse pagato il prezzo. Cid è assolutamente contrario al concetto romano, secondo cui la consegna della cosa e il pagamento del prezzo seguivano contemporaneamente nella mancipatio. Si può anzi dire che il processo seguito dal diritto romano fu compiutamente inverso. Il primo rapporto, che potè esservi fra il patriziato e la plebe, fu quello del nexum, ossia quella rigida obbligazione, per cui il mancato pagamento dava luogo alla manus iniectio contro la persona; mentre solo più tardi l'atto per aes et libram potè servire per il trasferimento della proprietà. Queste considerazioni mi impedi scono eziandio di aderire allo svolgimento storico, che sarebbe proposto dal CoglioLO nelle note al PadELLETTI, Storia del dir. rom., 250, dove, premesso che il con cetto del diritto reale dovette precedere quello del diritto personale, farebbe anche precedere la formazione della mancipatio a quella del nexum. Cfr. Puglia, Studii di storia del dir. priv., 73. 480 l'epoca, in cui la plebe, priva ancora di una vera posizione di diritto di fronte al patriziato, non poteva trovar credito presso ilmedesimo che vincolando la propria persona. In virtù del nexum il debitore plebeo, che non pagava a scadenza, poteva essere sottoposto alla manus iniectio, ed essere tradotto nel carcere privato del creditore patrizio. Coll'ammessione dei plebei alla comunanza quiritaria, il nexum, questa obbligazione rozza è primitiva, che era surta nei rapporti fra la classe superiore e la classe inferiore, venne ancor essa a con vertirsi nella forma tipica della obbligazione quiritaria, ma dovette perciò sottomettersi a tutte le solennità dell'atto quiritario. Essa quindi dovette essere contratta colle formalità dell'atto per aes et libram, colla assistenza cioè di non meno di cinque testes cives romani, e coll'intervento del libripens e dell'antestator. La formola precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci giunse invece, conservataci da Gaio, quella della nexi liberatio, la quale, essendone naturalmente il contrapposto, pud servirci per determinare, se non la formola precisa, almeno gli elementi essenziali, che dove vano concorrere nella nezi datio, per usare una espressione, che occorre nel giureconsulto Elio Gallo (3 ). Da questa formola si può in durre che a costituire il nexum dovettero concorrere due parti, cioè:  Senza pretendere qui di citare la ricchissima letteratura sul nexum, ricorderò soltanto l'Huschke, Ueber das nexum, Leipzig, 1846; GIRAUD, Des nexi, ou de la condition des débiteurs chez les Romains, Paris 1847; Voigt, XII Tafeln, I, $$ 63-65; MUIRHEAD, Histor. Introd., 152 a 163. Le opinioni degli autori tuttavia sugli effetti del nexum primitivo sono ancora molto discordi. Secondo la dottrina più seguita, il nexum dava origine ad un'obbligazione di strettissimo diritto, la quale, non soddisfatta, autorizzava senz'altro alla manus iniectio. Di recente invece il Voigt sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum non avrebbe alcun effetto speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, Storia del diritto romano, 329. Per mio conto seguo la prima opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum, che ho cercato di spiegare più sopra ai nu meri 166-67, 206 a 208, e sulla considerazione, che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla plebe per ottenere l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il medesimo avesse prodotto i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo della stipulatio.  Questa necessità dell'atto per aes et libram, per contrarre il nexum, probabil mente fu quel provvedimento favorevole ai debitori, che da Dionisio è attribuito a Servio Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op. cit., 67. (3 ) La formola della nexi liberatio conservataci da Gajo, Comm., III, 174, sa rebbe la seguente:  Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum, me eo nomine a te  solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam postremamque 481 1° l'atto per aes et libram, non minus quam quinque testes, cives romani, il libripens e forse eziandio l'antestator; 2° e la nuncu patio, che non si sa bene se dovesse essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi i contraenti. Essa però probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una pronunziata dal nexum accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una specie di damnatio. Il primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro rispondeva damnas sum, il che implicava una specie di condanna, che il debitore pronunziava contro se stesso, al pagamento della somma . Di qui la conseguenza, che se il medesimo non pagava si poteva proce dere contro di lui, come se il medesimo fosse damnatus al paga mento, e perciò poteva essere soggetto alla manus iniectio, senza che fosse richiesta una speciale condanna del magistrato. I dubbii più gravi, che si riferiscono al nexum, sono quelli re lativi alla natura dell'obbligazione contratta col nexum, ed agli effetti, che derivavano da essa in base al diritto primitivo, le cui vestigia appariscono ancora nella legislazione decemvirale. 374. Per quello che riguarda la natura della obbligazione con tratta col nexum, alcuni antichi scrittori, non giuristi, descrivendo la trista condizione dei debitori, tradotti nel carcere privato del loro et expendo secundum legem publicam . Essa è per noi molto preziosa: 1° perchè ci dice anzitutto, che il nexum per aes et libram importava una damnatio per parte del debitore, il che fa credere che rendesse contro di lui applicabile senz'altro la manus iniectio, che Gaio ci dice appunto essere ammessa contro i damnati, e contro i iudicati; 2° perchè essa è un argomento per ritenere, che le obbligazioni contratte per aes etlibram dovevano essere risolte con un atto della medesima natura; 3. perchè infine ci attesta, che l'atto per aes et libram era una forma di liberatio secundum legem publicam, e come tale non si applicava soltanto nei casi di obbligazioni con tratte col nexum, ma anche quando trattavasi del pagamento di una somma ex causa iudicati, o del pagamento di un legato per damnationem. Ciò conferma sempre più la congettura posta innanzi, che l'atto per aes et libram era in certo modo la forma quiritaria del negozio giuridico, donde le sue molteplici applicazioni, allorchè si tratta di negozii ex iure quiritium.  La nuncupatio del nexum secondo il Voigt, XII Tafeln, 483, si com porrebbe bensì di due parti; ma egli, ricostruendone la formola, respingerebbe l'e spressione damnas esto e damnas sum, in conformità appunto della sua teoria, se condo cui il nexum non avrebbe dato origine ad un'obbligazione di carattere spe ciale. Parmi che quest'ultima parte della sua ricostruzione non possa accettarsi; poichè, così essendo, la formola della nesi datio non corrisponderebbe a quella della nexi liberatio, conservataci da Gaio, la quale è certo ciò, che noi abbiamo di più testuale in proposito. C., Le origini del diritto di Roma. 31 482 creditore, ebbero a dire, che essi, dopo essere stati spogliati dei beni, avevano poi dovuto rinunziare alla propria libertà. Ciò fece ri tenere talvolta, che il nexum attribuisse il diritto di procedere non solo contro la persona, ma anche contro i beni del debitore. Questo concetto sembra ripugnare a quel carattere del primitivo ius qui ritium, secondo cui il medesimo, allorchè giungeva a separare due istituti, quali sarebbero quelli del nexum e del mancipium, lasciava poi che ciascuno procedesse per la propria via, informato ad una propria logica, senza che l'uno più non si confondesse coll'altro. Ora pur riconoscendo che il vocabolo di nexum, nella sua significazione primitiva, designasse in genere il vincolo giuridico, che intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse anche estendersi ai beni del debitore, questo è certo che non dovette più essere cosi, allorchè si operò la distinzione fra il nexum ed il mancipium, e i due con cetti cominciarono ad avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi sappiamo, che questa distinzione del nexum dal mancipium già erasi operata anteriormente all'epoca decemvirale, e che da quel momento il quirite come tale ebbe due mezzi per provvedere alle proprie necessità; quello cioè di alienare il proprio mancipium, o quello di vincolarsi col nexum. Con quello egli poteva trasferire i beni e con questo vincolare la sua persona; ma gli effetti dell'uno non potevano più confondersi coll'altro. Fu in seguito a questa di stinzione, che anche più tardi la giurisprudenza romana ebbe a ri tenere, che le obbligazioni ed i contratti, che derivarono dal nexum, non possono mai riuscire al trasferimento della proprietà, il quale con tinuò sempre ad operarsi per mezzo della usucapione e della tradi zione, che erano sottentrate all'anticamancipatio. Parmi pertanto in questa parte di dovere seguire l'opinione, adottata, fra gli altri, anche dall'Hölder, secondo cui il nexum costituisce in certo modo il con trapposto della mancipatio nel senso, che quello è la sottomissione della persona del debitore alla potestà del creditore per il caso di non seguito pagamento, mentre la mancipatio costituisce invece  Così, ad esempio Livio, II, 23, attribuisce queste parole a quel nexus, che avrebbe provocata la prima rivolta della plebe per causa della legge sui debiti: e se  aes alienum fecisse; id cumulatum usuris primo se agro paterno avitoque exuisse, a deinde fortunis aliis; postremo, velut tabes, pervenisse ad corpus . È tuttavia evidente, che quinon si dice punto, che il creditore, in base al nexum, potesse pro cedere sai beni del debitore, ma solo che quest'ultimo aveva dovuto prima spogliarsi del suo patrimonio avito, e poi anche vincolare la sua persona al proprio creditore. 483 il trasferimento di una cosa in potestà altrui. Questa è pure l'opi nione, che fu seguita recentemente dall'Esmein e dal Cuq, i quali ritengono, che la primitiva obbligazione quiritaria, la cui forma tipica fu il nexum, costituisse dapprima un legame del tutto personale e fosse perfino intrasmessibile da una persona ad un'altra. Ho insistito sopra questo carattere esclusivamente personale del nexum primitivo; perchè il medesimo, se nori a giustificare, può condurci in qualche modo a spiegare le conseguenze estreme, a cui nel diritto primitivo di Roma potè giungere il diritto del creditore contro il proprio debitore. Parmi tuttavia, che sarà più opportuno discorrere di tali conseguenze, allorchè si tratterà della manus iniectio, ossia della procedura di esecuzione contro il debitore; poichè l'inumanità di questa primitiva procedura non spiegasi soltanto contro i nexi, ma anche contro i iudicati ed i damnati . 375. È certo ad ogni modo, che il nexum, fra le istituzioni qui ritarie, era quella, che ripugnava maggiormente a quell'uguaglianza, che avrebbe dovuto esistere fra i membri di una stessa comunanza. Esso portava ancora le traccie della soggezione, pressochè servile, a cui un tempo era ridotta la plebe; poichè anche nel periodo sto rico sono sempre i plebei, che appariscono sottoposti al rigore del nexum, mentre il patrizio, anche oberato di debiti, poteva trovar sussidio presso la propria gente. Ne derivò che, durante le lotte fra i due ordini, il nexum si cambið talora in un'arma del patri ziato per assicurare la sua superiorità sopra la plebe, e fu in tal modo che una istituzione di diritto privato si cambiò in un fomite di dissensioni civili. La questione della condizione dei debitori sembra già rimontare all'epoca di Sergio Tullio, il quale, se non pagd del proprio i creditori, come vorrebbe la tradizione, certo impose la solennità dell'atto per aes et libram per potersi obligare col nexum. Sotto la Repubblica poi, è a causa della legge sui debiti, che i plebei si rifiutano prima alla leva, poi abbandonano la città e si ritirano  HÖLDER, Istituz., trad. Caporali, 225. Cfr. eziandio l' Esmein, L'intrasmissibilité première des créances et des dettes, nella  Nouvelle Revue histo rique , 1887, 48, nel quale scritto egli cerca di corroborare la stessa tesi già enunciata dal CuQ, Recherches historiques sur le testament per aes et libram pubblicato nella stessa  Nouvelle Revue. La questione qui accennata del trattamento contro i debitori sarà trattata nel capitolo VI,  3º, parlando della procedura esecutiva, mediante la manus iniectio. 484 sul monte Sacro, da cui non ritornano, che dopo aver ottenuto la istituzione del tribunato della plebe. Anche la stessa legislazione decemvirale porta le traccie di questa contesa; come lo dimostrano le disposizioni minute, a cui essa discende nella parte, che si rife risce al trattamento del debitore, ridotto in potestà del creditore. Malgrado di ciò, le dissensioni continuano fino alla legge Petelia del 428 di Roma, la quale non abolisce il nexum, e neppure dà diritto al creditore di procedere contro i beni del debitore, anzichè contro la sua persona, come vorrebbe Livio, ma toglie al creditore il diritto di poter procedere immediatamente alla manus iniectio contro il debitore, senza che neppure occorresse l'intervento del magistrato (). Continuò quindi ancora a sussistere l'atto per aes et libram, qual mezzo di sottomettersi al nexum, come lo dimostra la sopravvivenza delle nesi liberatio, che è ancora ricordata da Gaio; ma intanto il nexum, sprovvisto di quegli effetti immediati contro la persona, che costituivano l'odiosità e la forza di questo ingens vinculum fidei, non ebbe più ragione di sussistere, e venne ad essere sosti tuito da altri modi di obbligarsi, che forse preesistevano nel costume, ma non erano ancora stati accolti nella cerchia circoscritta del primitivo ius quiritium. 376. Accade qui, in tema di obbligazioni, una trasformazione analoga a quella, che abbiamo veduto essersi avverata in tema di proprietà, quanto al concetto del mancipium. Al modo stesso che  Le espressioni di Livio, VIII, 28, sono le seguenti:  iussique consules ferre ad  populum, ne quis, nisi qui noxam meruisset, donec poenam lueret, in compedibus < aut in nervo teneretur; poecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium  esset. Ita nexi soluti, cautumque in posterum, ne necterentur . Di qui alcuni autori avrebbero argomentato, che da quel momento fosse stata abolita la procedura contro la persona dei debitori, e introdotta invece quella contro i beni. Cid sarebbe smentito espressamente dalla storia giuridica di Roma, dove la vera procedura fu sempre contro la persona, mentre quella contro i beni fu solo introdotta dal pretore Rutilio nel 647 di Roma, e la stessa cessio bonorum, introdotta dalla legge Giulia, fu ancora considerata come un beneficio fatto al debitore. Le parole quindi di Livio debbono essere intese nel senso, che d'allora in poi il nexum non bastò più per sè ad autorizzare il creditore a tradurre il debitore nel suo carcere privato, e che in tal modo l'obbligazione, contratta con questo mezzo, non ebbe più lo speciale effetto di autorizzare senz'altro la manus iniectio; ma produsse solo gli effetti, che sareb bero derivati da un 'obbligazione assunta mediante la semplice stipulatio. Questa fu probabilmente la causa, per cui il nexum andò gradatamente in disuso, e sottentra rono al medesimo la mutui datio e la stipulatio, come sarà dimostrato più sotto. 485 al mancipium, quale unica forma della primitiva proprietà quiri taria, sottentrò il concetto più largo del dominium ex iure qui ritium; così al nexum, forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, sottentrò il concetto più esteso dell'obligatio propria civium roma norum, al vincolo materiale, che stringeva il debitore al creditore sottentrò il vincolo giuridico (vinculum iuris); ma intanto i voca boli di obligatio, di solutio, di liberatio e simili rimasero ancor sempre a ricordare la rozzezza dell'antico concetto, che scorgeva nell' obbligazione un vincolo pressochè materiale, e nel pagamento ravvisava lo scioglimento di questo vincolo (solutio ). Così pure al modo stesso, che col sostituirsi al mancipium un concetto più largo del dominium ex iure quiritium, si vennero accogliendo nuovi modi di acquistare e trasmettere questo dominio; cosi, allorchè al concetto del nexum sottentrò quello dell'obligatio, si vennero accogliendo nel ius proprium civium romanorum nuovi modi di obbligarsi. Il nexum, mentre costituiva ed esprimeva efficacemente un vincolo materiale e giuridico ad un tempo, aveva eziandio questo carattere speciale, che esso teneva in certo modo del reale e del verbale, in quanto che componevasidi dueparti, cioè: dell'atto per aes et libram, mediante cui avveravasi il trapasso dal mio al tuo e si operava la consegna immediata della cosa (tuum de meo fit ): e della nuncupatio, mediante cui fra creditore e debitore si conveniva la condanna ed il pagamento. Queste due parti, collo scomporsi del nexum vennero in certo modo ad acquistare libertà di movimento, e si operò la distinzione fra l'obligatio quae re contrahitur, e quella che con trahitur verbis, a cui venne più tardi ad aggiungersi eziandio l'obligatio quae contrahitur litteris, ossia l'expensilatio. Per tal modo alla sintesi potente del nexum, che era il modo primitivo di obbligarsi ex iure quiritium, sottentrarono varii modi di obbli garsi, che costituirono un ius proprium civium romanorum, quali sono la mutui datio, la sponsio o stipulatio, e la acceptilatio: ciascuno dei quali viene ad essere il germe di quei varii contratti formali, che si vengono poi svolgendo nel diritto civile romano, sotto il nome di contratti reali, verbali e letterali. 377. È evidente anzitutto l'analogia col nexum della mutui datio. Questa infatti continua a produrre un'obligatio stricti iuris; si ap plica dapprima alla credita pecunia, e poi si estende a tutte le cose quae numero, pondere ac mensura constant: e la sua effi 486 cacia obbligatoria consiste nella numeratio pecuniae, oppure con segna della cosa (datio rei ). Non può poi esservi dubbio, che il mutuo fu il modello, sopra cui si foggiarono poi gli altri contratti reali del comodato, del deposito, del pegno. Tuttavia il modo di obbligarsi, che prende un più largo sviluppo collo scomparire del nexum, è sopratutto la sponsio o stipulatio. Questa, sotto un certo aspetto, corrisponde a quella nuncupatio, che già preesisteva nel nexum, salvo che essa, liberata di quella forma rigida della damnatio, che era propria del nexum, venne a trasfor marsi in una semplice sponsio o stipulatio, in cui l'obbligazione viene ad essere assunta per mezzo di una interrogazione e di una risposta, congrue e solenni, le quali, per la propria elasticità e pieghevolezza, possono essere veste acconcia per esprimere la varietà infinita delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il cittadino romano. Qualunque possa essere stata l'origine della stipulatio, è sopratutto nello svol gimento di essa, che si palesa il genio giuridico dei giureconsulti romani, i quali non credettero indegno del loro ufficio l'attendere a concretare le formole, con cui doveva essere concepita la stipula zione nei varii negozii giuridici . Anche la stipulatio divenne  Per ciò che si riferisce alla mutui datio, è nota la censura, che di regola suol farsi alla etimologia di mutuum data dai giureconsulti, secondo cui questo vocabolo deriverebbe da  quod de meo tuum fit . Per conto mio, non come etimologo, ma come giurista, ritengo invece assai probabile questa etimologia, tenuto conto di ciò, che nelle formole primitive occorrono ad ogni istante le parole di meum e di tuum, e che l'essenza del mutuum consiste veramente nel far sì, che un oggetto ex meo tuum fit. Queste etimologie, che direi ragionate, diventano tanto più probabili, quando si ri tenga, che il diritto romano fin dai primi tempi fu il frutto di una vera elaborazione, la quale può benissimo avere adattata la parola al concetto, che intendeva di signi ficare. Lo stesso direi delle etimologie di testamentum da mentis testatio, di manci pium da manucaptum, e di altre analoghe; sebbene ve ne siano di molte, le quali, per essere composte post factum, sono evidentemente foggiate per far dire alla parola cid, che è nella mente del giureconsulto nell'epoca, in cui egli analizza il significato della parola. Intanto il fatto stesso, che i giureconsulti cercano sempre di dare alla parola un senso, che corrisponda alla cosa significata, dimostra, che essi dovevano procedere in tal guisa, allorchè il comparire di qualche nuovo negozio li costringeva a foggiare qualche nuovo vocabolo. In cid abbiamo anche una delle ragioni, per cui il linguaggio giuridico di Roma potè diventare pressochè universale, come le sue leggi.  Sono molte le opinioni intorno all'origine della sponsio o stipulatio nel di ritto romano. Alcuni la ritengono come la parte verbale del nexum, allorchè andò in disuso l'atto per aes et libram nel contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal vocabolo sponsio, la ritengono come una specie di promessa giurata, che facevasi davanti all'antichissima ara di Ercole; altri infine la ritengono di origine greca, donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe, ad es., l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi; ma il suo carattere non è più artificioso, come quello dell'atto per aes et libram, nè così rigido come quello della damnatio, propria del nexum, ma sembra essere desunto dalla natura stessa delle cose. La parola infatti è riguardata come il vero mezzo di obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso, viene colla stipulatio ad essere conchiuso, in guisa da escludere qualsiasi dubbiezza sulla volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un beneficio a suo favore, di interrogare il promettente:  centum dare spondes? , e tocca a colui che promette di rispondergli congruamente:  spondeo  per modo che non possa esservi dubbio circa l'incontrarsi delle due volontà . Viene poscia nel costume una dextrarum iunctio, poichè, fra le genti primitive, la destra è l'emblema della fede, in base a cui si conclude il negozio. Forse in antico potè eziandio aggiungersi la solennità del giuramento, come lo indicherebbe la significazione in parte religiosa, del vocabolo di sponsio; ma questa, quando è accolta nel diritto civile romano, sembra già aver perduto questo carattere primitivo. Anche qui pertanto vi ha una forma tipica di obbligazione, ma essa non è più quella del nexum, propria del ius quiritium, e modellata probabilmente dal ius pontificium, nell'intento di serbare le tradizioni del passato; bensì è già quella del ius proprium civium romanorum, come lo dimostra il fatto, che anche quando i romani consentirono la stipulatio ai peregrini, riservarono sempre per sè la espressione primitiva:  spondes? spon deo , la quale sembra ancora richiamare quel carattere religioso, che doveva accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio. Questo è certo ad ogni modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist, Graeco-ital. Rechtsgeschichte, 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op. cit., 228. Per me trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi stere un modo di obbligarsi così naturale e semplice, come è quello rappresentato dalla stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di correlativo, anche fra i popoli germanici (SCHUPPER, L'allodio, 47); ma non posso in verità persuadermi, che i Romani dovessero apprenderlo dalla Grecia, dal momento, che senz'alcun dubbio già lo conoscevano nei rapporti fra le varie genti. Essa quindi deve essere ritenuta come una di quelle istituzioni, che vivevano nelle costumanze, e che solo più tardi riuscirono ad entrare nella cerchia rigida del ius quiritium, il che probabilmente dovette accadere, quando cominciò ad andare in disuso il nexum.  Questo carattere speciale della stipulatio, per cui essa costituisce il modo più semplice ed acconcio per conchiudere le trattative di un negozio, in quanto che l'in terrogante viene ad essere colui che stipula, e il rispondente colui che promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE, L'ancien droit, 311. 488 contrastati sul nexum. Essa è duttile, pieghevole, come la parola umana, e può cosi accomodarsi a qualsiasi uso; è un materiale, che si adatta ad ogni specie di costruzione; è il modo più spiccio e più logico per conchiudere qualsiasi trattativa; può servire per un'obbligazione principale ed anche per un'obbligazione accessoria; sebbene unilaterale per propria natura, si può, raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una convenzione bilaterale. Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio è sopratutto atta ad esprimere i negozii stricti iuris. Ma essa, coll'aggiunta di una clau sola semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi ai negozii di buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i giureconsulti romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei contratti, in cui la giurisprudenza romana spiego una duttilità e pieghevolezza, tanto più mirabili, in quanto che non scompagnansi giammai dall'esattezza e dalla precisione. 378. Sembra invece essere alquanto più tardi, che vennero ad essere accolti nella compagine del diritto civile di Roma, quegli altri modi di obbligarsi, che diedero poi origine ai contratti letterali. Anche a questo riguardo non può esservi dubbio, che il diritto civile di Roma non creò di pianta le proprie istituzioni; ma si contento, per dir cosi, di accogliere sotto la sua tutela e di modellare, in base alla propria logica giuridica, le istituzioni, che già esistevano nel l'uso e nel costume. Così dovette accadere senz'alcun dubbio dell'expensilatio, la quale, ancorchè entrata tardi nel diritto civile di Roma, ci richiama in certo modo la figura del primitivo capo di famiglia, il quale dir: gendo una vasta azienda e avendo sotto la sua dipendenza un nu mero grande di persone, deve tenere il conto quotidiano del dare e dell'avere. Ciò che egli scrive nel proprio libro doveva certo far fede dirimpetto ai suoi dipendenti. Questo sistema pero, che era il più ovvio nelle consuetudini patriarcali, presentava invece dei pe ricoli nel diritto, come quello, che fondavasi esclusivamente sulla buona fede. Fu questo il motivo, per cui esso penetrò più tardi nel diritto civile di Roma, il quale cerco poi di ovviare al pericolo inerente al medesimo, aggiungendo al nomen transcripticium una ricognizione scritta del debito, che doveva restare a mani del cre ditore (cautio, chirographum ); al qual proposito viene ad essere probabile, che l'istituzione originariamente italica della expensilatio siasi imparentata con un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di origine probabilmente g: eca, donde la cautio chirographaria, che pervenne fino a noi. 379. Queste tre categorie di contratti, che sogliono talvolta es sere indicati col vocabolo di formali, dovettero certamente essere i primi ad entrare nella compagine del diritto civile romano. Esso invece, che stentava a comprendere il consenso senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo, sembra che solo più tardi e pro babilmente già sotto l'influenza del ius honorarium, sia pervenuto ad adottare e ad attribuire efficacia giuridica all'emptio venditio, e agli altri contratti, che a somiglianza di essa si perfezionano col solo consenso. Ormai non può esservi dubbio, che anche l'emptio venditio già esisteva nel primitivo diritto, poichè la legislazione decemvirale disponeva, che la medesima, per essere perfetta, doveva essere accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo. Cosi stando le cose, è però evidente, che l'emptio venditio come mezzo per trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma doveva essere accompagnata dalla mancipatio o dalla traditio. Di qui ne venne, che essa, come contratto stante per sè, comparve solo più tardi nel diritto civile di Roma, il quale non ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che valgono a trasferire il dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano a dare, facere, praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti consensuali, cioè della locatio conductio, del mandatum e della societas, che furono fog giati sul modello della compra e vendita . Intanto si comprende, che la giurisprudenza romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le mosse da una unica forma di obbligazione quiritaria, che era quella assunta col nexum, allorchè pervenne a così grande ricchezza di sviluppo, abbia cominciato a sentire il bisogno di richiamare a certe classi i genera obligationum, quae ex contractu nascuntur; ma intanto essa si trovò già di fronte ad una suppellettile così copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai contratti fu costretta a creare la figura dei quasi- con  Cfr. per ciò che si riferisce all'expensilatio ed all'abitudine del capo di fami glia romano di tenere il Codex accepti et expensi, vedi il PADELLETTI, Storia del diritto romano, cap. XXI, 249. Quanto all'acceptilatio vedi SCHUPFER, nella  Enciclopedia giuridica italiana , vol. I, 175 a 180, vº acceptilatio.  Quanto alle origini di uno di questi contratti consensuali, cioè della societas, vedi l'articolo del Ferrini nell'a Archivio giuridico  diretto dal Serafini, anno 1887. 490 tratti; accanto ai contratti nominati dovette porre quelli non no minati; accanto ai veri e proprii contratti, i patti, che non pro ducono azione, ma una semplice eccezione; e da ultimo accanto ai contratti, che avevano avuto origine nel diritto civile, quelli che avevano avuto origine nel diritto delle genti. Anche qui pertanto è facile lo scorgere come, prima nel ius quiritium e poscia nel ius civile, presentisi costantemente una parte già formata e consoli data, e un'altra, che si viene foggiando e consolidando sựl modello somministrato dalle formazioni anteriori, senza che mai si abbandoni il concetto fondamentale della primitiva obbligazione, da cui il ius quiritium aveva preso le mosse. Ciò tanto è vero, che, anche nel conchiudersi dello svolgimento storico del diritto delle obbligazioni, si riscontra ancora quel con cetto, a cui si informava l'istituzione primitiva del nexum, con cetto, che viene ad essere enunziato da Paolo con dire  obligationum  substantia non in eo consistit, ut aliquod corpus, nostrum, aut  servitutem, nostram faciat, sed ut alium nobis obstringat ad  dandum aliquid, vel faciendum, vel praestandum . Si viene cosi a mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni e quella del trasferimento della proprietà, non meno radicale e pro fonda, di quella, che negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere nexum e quello del facere mancipium. È questo il motivo, per cui la genesi dei modi, coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la proprietà e i diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro istituto del diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio. $ 3. – La mancipatio e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire ildominio quiritario. 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio la forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece, che prese più tardi il nome di mancipatio, deve considerarsi come la forma primordiale, che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della proprietà ex iure quiritium. Tanto la nexi datio,  Paolo, Leg. 3, Dig. (44, 7).  Anche sulla mancipatio abbiamo una ricchissima letteratura. Tra i recenti mi limiterò a ricordare il Leist, Mancipatio und Eigenthums Tradition, Iena; il MuirHead, Hist. Introd., sect. 30, 131 a 149; il Voigt, XIl Tafeln, II, SS 84 491 quanto la mancipatio, debbono poi essere considerate come due ap plicazioni dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, come lo dimostra il fatto, che i più antichi giureconsulti comprendono l'una e l'altra nella categoria di quegli atti, che si compiono per aes et libram. Esse vengono soltanto a differire fra di loro nella nuncupatio, ossia in quelle parole solenni, che dovevano accompagnare l'atto per aes et libram, e che potevano attribuire al medesimo una significazione diversa. Mentre la nun cupatio nel nexum doveva consistere in una specie di condanna convenzionale del debitore al pagamento della somma da lui tolta in imprestito; la nuncupatio invece nella mancipatio, quale ebbe ad esserci conservata da Gaio, consiste nella affermazione solenne del mancipio accipiens, che la cosa gli appartiene ex iure qui ritium, per averla egli acquistata con tutte le solennità richieste dal diritto quiritario (hunc ego hominem ex iure quiritium meum esse aio, isque mihi emptus est hoc aere aeneaque libra ). Gaio poi non ci dice, se a questa affermazione solenne del mancipio ac cipiens corrispondesse una congrua risposta del mancipio dans; ma ad ogni modo egli è certo, che questi, essendo presente all'atto, e ricevendo quell'aes rude, con cui si percuoteva la bilancia, a titolo di prezzo, riconosceva con cið la verità dell'affermazione dell'acqui rente. È poi anche degno di nota nella mancipatio, che sebbene a 88; il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887. Sembra essere opinione comune a questi autori, che nell'antico linguaggio in luogo di mancipatio si dicesse mancipium; donde la conseguenza, che la espressione facere mancipium sarebbe pressochè un sinonimo di facere mancipationem. Noi abbiamo veduto invece, che il vocabolo man cipium ebbe, fra le altre significazioni, anche quella di indicare il primitivo patri. monio del quirite; quello cioè, che doveva da lui essere consegnato nel censo. Quindi per noi le antiche espressioni di facere mancipium, mancipio dare, mancipio acci pere dovettero significare il ricevere una cosa nel proprio mancipium, o il trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai vocaboli di mancipare e di mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso frequente di queste espressioni costrinse a foggiare una parola, che esprimesse più brevemente il concetto. Di qui la conseguenza, che il vocabolo di mancipatio non deriva direttamente da manu capere, ma piuttosto da mancipium facere, mancipio dare e simili. Cfr. BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888, 90 e 91.   Nexum Manilius scribit omne quod geritur per aes et libram, in quo sine mancipia . VARRO, De ling. lat., VII, 105. Vedi gli altri passi citati nel  1° di questo capitolo, nº 369, 471, nota 1.  Gaio descrive la mancipatio e le formalità, da cui era accompagnata, nei Comm., I, SS 119 a 123. 492 la medesima in effetto servisse per il trasferimento della proprietà quiritaria, aveva perd eziandio tutti i caratteri di un acquisto ori ginario, come lo dimostra il fatto, che era l'acquirente, il quale doveva per il primo affermare la sua proprietà sulla cosa ed affer rare materialmente la cosa stessa; donde anche la conseguenza, che la mancipatio richiedeva la presenza delle cose mobili, e per gli immobili era stata la sola necessità, che aveva condotto all'uso, accen nato da Gaio, secondo cui  immobilia in absentia solent manci. pari . 382. La circostanza intanto, che la mancipatio ebbe dapprima ad essere indicata coll'espressione di facere mancipium, costituisce un forte indizio, che la mancipatio sia comparsa nel diritto quiri tario, in quell'epoca stessa, in cui si formd il concetto del manci pium, e che essa sia stata introdotta quale mezzo peculiare per la formazione e per il trasferimento del mancipium, in quanto il me desimo costituiva il primo nucleo della proprietà quiritaria, quella parte cioè del patrimonio, che doveva essere consegnata e valutata nel censo. Fu l'importanza economica e politica, dal censo attribuita al mancipium, che rese necessario un atto solenne per la trasmis sione delle res mancipii contenute nel medesimo. Quindi l'origine della mancipatio deve rimontare probabilmente alla costituzione serviana, e l'introduzione di essa avere una stretta attinenza col concetto del mancipium; il che è comprovato dal fatto, che anche i classici giureconsulti, memori dell'origine di essa, continuarono sempre a considerare la mancipatio, come un modo di alienazione del tutto proprio delle res mancipii, e sostennero perfino, che queste fossero cosi chiamate, perchè erano suscettive della mancipatio.  Gaio, Comm., I, 119. Sono da vedersi, quanto alla necessità di adprehendere manu la cosa acquistata, se mobile, i passi citati dal Voigt, op. cit., II, 133, nota 10. Intanto nella necessità di questa materiale apprensione della cosa parmidi scorgere un'altra prova, che il concetto del primitivo mancipium implicava in certo modo la detenzione materiale e la proprietà delle cose, che ne formavano oggetto, al modo stesso che il nexum indicava ad un tempo il vincolo fisico e il vincolo giuri dico, a cui era sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende probabile l'etimologia di mancipium da manucaptum, come lo provano i passi citati dallo stesso Voigt, op. e loc. cit., 134, nota 12.  Cfr., quanto alle origini della mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., Sono poi Gaio, I, 120 e Ulpiano, Fragm., XIX, 3, i quali attestano che la manci patio era esclusivamente propria delle res mancipii.  Mancipatio, scrive quest'ultimo, propria species alienationis est rerum mancipü . Ciò però non impedì, che, trattan 57. 493 - Siccome però fin da quest'epoca, accanto alle cose, che costituivano il nucleo del mancipium, vi erano quelle, che non erano comprese nel medesimo, e a cui perciò non potevasi applicare il facere man cipium, così ne venne che accanto alla mancipatio dovette già essere in vigore la semplice traditio, la quale, accompagnata dal pagamento del prezzo, poté servire per il trasferimento delle cose, che non erano comprese nel mancipium. Mentre quindi la man cipatio veniva ad essere una costruzione giuridica, la cui forma zione fu determinata dal formarsi del mancipium, la traditio in vece era il mezzo naturale ed ovvio per il trasferimento di quelle cose, che erano nec mancipii, e che perciò in questo primo periodo non formavano oggetto di vera proprietà ex iure quiritium. 383. Questo stato di cose venne poi a subire una modificazione profonda, sotto l'influenza della legislazione decemvirale. Infatti è colla medesima, che al concetto del mancipium, il quale restringeva di troppo il novero delle cose, che potevano essere oggetto di pro prietà quiritaria, cominciò già a sovrapporsi un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium. Da questo momento infatti le res mancipii continuano ancor sempre a costituire il nucleo più importante delle cose, che possono essere oggetto di proprietà qui ritaria, ma questa già può estendersi ad altre cose, che non erano comprese nel primitivo mancipium. Di qui ne derivo, che mentre le XII Tavole serbarono la mancipatio, quale mezzo esclusivamente proprio per la trasmissione delle res mancipii, esse perd introdus sero o confermarono due altri mezzi, per l'acquisto e la trasmis sione del dominium ex iure quiritium, di cui uno è l'in iure cessio, la quale, essendo compiuta davanti almagistrato, potè anche dosi di cose, le quali si ritenevano di grande prezzo e perciò si trasmettevano in fami glia, quali erano ad esempio le pietre preziose, si potesse nella consuetudine appli carvi anche la mancipatio. V. quanto si è detto a 441, nota 1. Ciò è dimostrato da ULP., Fragm., XIX, 3, e 7; il quale, dopo aver premesso che la mancipatio era propria delle res mancipii, soggiunge poi:  traditio aeque propria est alienatio rerum nec mancipii ; nei quali passi è evidente, che la man cipatio e la traditio si contrappongono fra di loro, come il mancipium ed il nec mancipium. Quello cade sotto il diritto civile, e perciò deve essere alienato colle forme del diritto civile, il che pure si accenna da Festo, tº censui, allorchè scrive:  censui censendo agri proprie appellantur, qui et emi et venire iure civili pos sunt  (Bruns, Fontes, 334). Che il contrapposto fra mancipatio e traditio sia stato poi la prima origine della distinzione fra i modi civili e naturali di acqui stare e di trasmettere il dominio appare ad evidenza da Gaio, Comm., II, 65. 494 essere estesa alle res mancipii, e l'altro è l'usus auctoritas, più tardi denominata usucapio, mediante cui l'uso ed il possesso di una cosa, durato per un certo tempo, potė attribuire la proprietà quiritaria della medesima. Colla legislazione decemvirale pertanto vengono ad essere tre i principali mezzi, con cui può essere acqui stata e trasmessa la proprietà quiritaria, e che costituiscono perciò un diritto esclusivamente proprio dei cittadini romani. 384. Di questi mezzi il più importante è sempre la mancipatio, la quale è il vero modo ex iure quiritium per l'acquisto ed il tras ferimento del dominio, ma la medesima, essendo nata col mancipium, continua sempre ad essere un mezzo di alienazione proprio delle res mancipii. Vero è, che in questi ultimi tempi si è dubitato, se la mancipatio non siasi più tardi applicata anche a quelle res nec mancipii, che potevano essere oggetto di proprietà quiritaria: ma questa opinione non sembra potersi accogliere, di fronte alle afferma zioni precise di Gaio e di Ulpiano, i quali parlano sempre della manci. patio, come propria delle res mancipii. Ciò tuttavia non impedi, che colla legislazione decemvirale la mancipatio abbia acquistata una elasticità e pieghevolezza, che prima non aveva, il che spiega come essa sia durata così lungo tempo, quale mezzo di trasferimento della proprietà, ed abbia in questa parte esercitata una influenza analoga a quella esercitata dalla stipulatio in materia di obbligazioni. Sembra infatti, che il facere mancipium, negli inizii, fosse uno di quei ne gozii di strettissimo diritto, che producevano l'immediata traslazione della proprietà, e non ammettevano perciò nè termine, nè condi zioni. Le XII Tavole invece introdussero il principio:  qui manci pium faciet, uti lingua nuncupassit, ita ius esto , e diedero così libertà ai contraenti di aggiungere al primitivo mancipium, sotto la forma di una nuncupatio, che faceva parte integrante del negozio, tutte le clausole e condizioni, che potessero convenire ai contraenti. Fu in questo modo, che l'antica mancipatio potè accomodarsi alla varietà dei casi e delle esigenze, e che si vennero così formolando, per opera degli stessi pontefici e giureconsulti, quelle clausole diverse, che sogliono essere indicate col vocabolo di leges mancipii. Colle medesime infatti il mancipio dans, pur alienando la cosa, potè riservarsi l'usufrutto della medesima, potè alienarla con patto di  GA10, I, 120, Ulp., Fragm., XIX, 3. Vedi tuttavia ciò che in proposito si disse a 441, nota 1. 495 - riscatto, poté restringere la propria garanzia per l'evizione, ed anche limitare l'uso della cosa venduta per parte dell'acquirente. Era pero naturale, che, per aggiungere alla mancipatio tutte queste clausole, più non poteva bastare la semplice affermazione del man cipio accipiens, che la cosa era sua ex iure quiritium; maoccor reva eziandio, che il mancipio dans, con una congrua risposta, apponesse quelle clausole e condizioni, che potessero essere del caso, le quali, entrando a far parte integrante della stessa mancipatio, dovevano fra i contraenti avere la forza di vere leggi. 385. Sopratutto, fra queste leges mancipii, viene ad essere impor tantissima quella, che suol essere indicata col vocabolo di lex fidu ciae, od anche semplicemente con quello di fiducia. Questa pro babilmente doveva essere nata nelle consuetudini della plebe, la quale, non possedendo le vere forme giuridiche, doveva di necessità nelle proprie convenzioni lasciare una larga parte alla scambievole fiducia (3 ). Anche questa fiducia colla legislazione decemvirale pe netrò nel ius quiritium, dove, combinandosi col rigoroso atto della mancipatio, diede origine a quella singolare istituzione della man cipatio cum fiducia, che doveva poi acquistare un così largo  Si può veder raccolta nel Voigt, op. cit., II, $ 85, 146 a 166, una varietà grandissima di queste clausole o leges mancipii, raccolte da passi di antichi autori. Nel Bruns parimenti, Fontes, 251 a 256, sono riportati parecchi moduli di mancipationes, che pervennero fino a noi.  Quanto alla mancipatio cum fiducia è a vedersi il Voigt, $ 86, 166 a 187, ove sono raccolte le formole, che vi si riferiscono. È poi degno di nota quel modulo di mancipatio fiduciae causa, che si fa risalire al primo o secondo secolo dell' êra cristiana, riportato dal Bruns, Fontes, 251.  Le ragioni, per cui le origini della fiducia devono cercarsi nelle costumanze della plebe, furono già esposte al n ° 149, 184. Di recente un giovine e dotto autore, l’Ascoli, ebbe in proposito a scrivere, che la fiducia, come forma di pegno, non dovette essere il prodotto spontaneo delle pratiche necessità del commercio, ma una creazione artificiale, e che l'ipoteca nel suo concetto astratto è più semplice della fiducia (Le origini dell'ipoteca e l'interdetto Salviano, Livorno, 1887, 1). Io credo, che se l'autore si riporti col pensiero ad una plebe ragunaticcia, in parte immigrata e priva ancora di una vera posizione di diritto, di fronte ai patrizii, fon datori della città, comprenderà facilmente come i membri di essa, per trovar cre dito presso coloro, che già vi si trovavano stabiliti, non avessero mezzo più acconcio, che quello di alienare a questi cum fiducia le cose, che loro dovevano servire di pegno. L'ipoteca invece avrebbe già supposto una comunanza di diritto, che ancora non esisteva, e un'analisi del diritto di proprietà, che mal si poteva conciliare colle condizioni di un popolo primitivo. 496 svolgimento nel diritto civile di Roma. Con essa, accanto all'ele mento strettamente giuridico, cominciò a penetrare anche la consi derazione della buona fede, in quanto che non si bado più in modo esclusivo alla osservanza delle forme esteriori del negozio giuridico, ma cominciò anche a tenersi qualche conto dell' intenzione vera ed effettiva dei contraenti. Che anzi questo elemento fiduciario fu introdotto nella formola stessa della mancipatio, cosicchè il man cipio accipiens non affermò più, la sua proprietà assoluta sulla cosa a lui alienata, ma disse invece:  hunc ego hominem fidei fi duciae causa ex iure quiritium meum esse aio ; colla qual formola già si lasciava intendere, che, sebbene egli avesse acquistata la proprietà quiritaria, questa perd era stata affidata al suo onore per l'adempimento di qualche incarico di fiducia. Questa fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi o con un amico o con un creditore. Essa accadeva, ad esempio, con un amico nella manci patio familiae cum fiducia, che fu una delle forme più antiche di testamento, mediante cui si mancipava il proprio patrimonio ad un amico (familiae emptor), coll'incarico di disporne nella guisa statagli indicata per il tempo, in cui altri avesse cessato di vivere. La fiducia seguiva invece con un creditore, allorchè a lui si mancipava la cosa, che si voleva lasciargli a titolo di pegno . È probabile che dap prima questa clausola fiduciaria non avesse efficacia giuridica, ma col tempo essa venne acquistandola. Per tal modo la mancipatio cum fiducia venne cambiandosi in un espediente giuridico, mediante cui la mancipatio non serviva più unicamente al trasferimento della proprietà; ma serviva eziandio per costituire comodati, donazioni mortis causa, doti, e riceveva cosi applicazioni diverse, anche nei rapporti famigliari, nei quali essa si svolse, come vedremo a suo tempo, sotto la forma di coemptio fiduciaria. 386. Fu questo il magistero, mediante cui la mancipatio fu dal diritto civile di Roma adattata alle varie contingenze di fatto; ma  Cfr. il MUIRHEAD, op. cit., 140e il Voigt, op. cit., II, 172.  È notevole in proposito il passo di ISIDORO, Orig., 5, 22, 23, 24, riportato dal Bruns, Fontes, 406, in cui egli istituisce, sulle vestigia di qualche antico au tore, una specie di raffronto fra il pignus, la fiducia e l'hypotheca. Della fiducia egli scrive:  fiducia est, cum res aliqua, sumendae mutuae pecuniae gratia, vel man cipatur vel in iure ceditur .  Quanto alle svariate applicazioni della fiducia V. Ascoli, op. cit., 3497 siccome la sua applicazione era pur sempre circoscritta alle res mancipii, cosi, accanto alla medesima, si introdussero o si confer marono dalla legislazione decemvirale due altri modi di acquistare e di trasmettere la proprietà, di indole e di origine compiutamente diversa, ancorchè entrambi costituiscano un ius proprium civium romanorum. Essi sono l'in iure cessio e l'usucapio. È ovvio scorgere l'opposizione, che esiste fra questi due mezzi di acquisto della proprietà ' quiritaria. Mentre l'in iure cessio viene talvolta nelle fonti ad essere indicata col vocabolo di legis actio, perchè essa, al pari delle legis actiones, si compie in iure, cioè da vanti al magistrato, ed è in certo modo una rei vindicatio non con traddetta. ; l'usucapio invece nelle dodici tavole viene ad essere indicata col vocabolo di usus auctoritas. Mentre la prima consiste in una finta rivendicazione, fatta dal compratore o dal cessionario, non contrastata dal venditore o dal cedente della cosa, che forma oggetto di negozio, la quale si compie davanti almagistrato, e a cui sussegue l'aggiudicazione del medesimo; la seconda invece fondasi esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per due anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi altra cosa, finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a possederla. Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere, eminentemente legale e giuridico, in quanto che essa compiesi coll'intervento del magistrato;, nella usucapio in vece abbiamo un fatto, che trasformasi in diritto, ossia l'uso od il possesso, che trasformansi nella proprietà ex iure quiritium, quando abbiano durato per un certo spazio di tempo. Queste considerazioni mi inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo di acquisto, ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie, presso le quali tutto già facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato, l'usus auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale, avendo dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto, dovette cono scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella significa zione, che vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di questi due modi di acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa  È lo stesso Gaio, Comm., II, 24, che, dopo aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis actio vocatur . A questa descrizione di Gaio poi corrisponde quella brevissima di Ulp., Fragm., XIX, 10  In iure cedit dominus; vindicat is, cui ceditur; addicit Praetor . C., Le origini del diritto di Roma. 32 498 taria fu in certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due ordini; poichè da una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al magistrato, il quale era ricavato dall'ordine patrizio, e dall'altra il patriziato cominciava a riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus auctoritas, sulla quale 'soltanto fondavansi i di ritti della plebe.  Qui cade in acconcio di arrestarci alquanto alla significazione da attribuirsi alla espressione  usus auctoritas , che occorre nelle XII Tavole. La legge relativa dal DIRKSEN collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu riportata colle parole stesse di CICERONE, Top., 4:  usus auctoritas fundi biennium est; ceterarum rerum omnium annuus est usus . Essa invece dal Voigt, op. cit., I, 110, sarebbe collocata al n. 6, della Tavola V, e sarebbe così concepita:  usus, auctoritas biennium, cetera rum rerum annuus esto . Di qui molte discussioni fra gli studiosi relativamente ai rapporti fra i due termini usus ed auctoritas, al qual proposito l'opinione pre valente sembra essere, che il vocabolo di usus si riferisca all'usucapione e quello di auctoritas alla garanzia del titolo, che incombe al venditore in una mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire, che tanto l'usus quanto l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno, secondo le cose di cui si tratta. Tale opinione sarebbe stata prima enunciata dal SALMASIO, De usuris, cap. 8, 215; Lugd., Bat. 1638, e troverebbe seguito ancora oggidì, presso il Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus dall'auctoritas con una virgola. A mio avviso invece sembra alquanto fuor di luogo, che si venga a discorrere di garanzia dall'evizione colà, ove tutti gli antichi autori non ci parlano che dell'usucapione. Parmi poi evidente, che l'espressione effi cacissima di  usus auctoritas  non possa essere che il contrapposto dell'altra espres sione  iuris auctoritas , e che quindi la significazione naturale della medesima consista in dire, che l'uso varrà come titolo, e il possesso equivarrà a proprietà, allorchè essi siano durati un biennio pei fondi, e un anno per tutte le altre cose. Il solo vocabolo di usus, analogo a quello di possessio, non avrebbe potuto da solo indicare l'usucapione, e fu perciò, che dovette dirsi usus auctoritas, la quale espressione appunto occorre in Cic., Top., 4. Sia pure che lo stesso Co., pro Caec., 19, sembri separare le due cose, allorchè scrive:  lex usum et auctoritatem fundi iubet esse biennium ; ma è facile il vedere, che la dizione qui è già alterata dall'uso dell'infinito, e che le due parole indicano pur sempre una cosa sola, cioè l'autorità od il diritto sul fondo provenienti dall'uso. Ogni dubbio poi viene ad essere tolto dal passo di Boezio, in Cic., Top., loc. cit., nel quale trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la iuris auctoritas. Egli infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive:  Plurima  rum autem rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit usus,  id firma iuris auctoritate possideat, velut rem mobilem; fundi vero usucapio  biennii temporis spatio continetur. Ait Cicero: ut, quoniam ususauctoritas fundi  biennium est, sit etiam aedium. Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio  fieri sentit  (Bruns, Fontes, 400). Che se altrove la legge dice a adversus hostes aeterna auctoritas esto , gli è perchè ivi parlasi tanto della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non occorreva specificare il concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da solo significa la iuris auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due istituti tuttavia esercito certamente una maggiore influenza sullo svolgimento del diritto romano l'usucapio, che non l'in iure cessio. Di questa infatti dice Gaio, che la medesima, quanto alle res man cipii, non poteva competere colla mancipatio, poichè era naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi contraenti, coll'inter vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori presso il magistrato. Di qui ne venne che, sebbene l'in iure cessio po tesse anche applicarsi alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al trasferimento di quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive di mancipatio. Così, ad esempio, Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio si poteva fare la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec mancipii, la cessione della eredità, che consideravasi come una cosa incorporale, come pure la costituzione dell'usufrutto. Quanto a quest'ultimo tuttavia, egli os serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la mancipatio, al lorchè altri, mancipando la cosa, riservava per sè l'usufrutto della medesima, apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva conservare la proprietà, non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che mediante la in iure cessio. L'usucapio invece deve essere considerata come una delle istitu zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del diritto. Essa in certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare da una posizione di fatto ad una posizione di diritto, per cambiare cioè la semplice usus auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa, che determinò la formazione della teoria del possesso, accanto a quella della proprietà, e che condusse la giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il possesso può trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto all'usucapio del diritto qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero più volte ad accennare a questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre solo avuto occasione di parlare della durata dell'usucapio, e non mai della durata dell'obbligo di garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la ricostruzione più probabile sia la seguente:  usus auctoritas fundi biennium, ceterarum rerum annus esto ; la quale concorda anche di più colle regole grammaticali.  Scrive infatti Garo, Comm., II, 25, discorrendo della iure cessio per le res mancipii:  Plerumque tamen et fere semper mancipationibus utimur; quod enim ipsi per nos, praesentibus amicis, agere possumus, hoc non est necesse cum maiore difficultate apud Praetorem aut Praesidem provinciae agere .  GAIO, II, 33; Ulp., Fragm., XIX, 11 e 12. 500 ritario, che essa, a differenza della prescrizione, che ebbe ad essere introdotta molto più tardi, non presentasi ancora come un mezzo di estinzione dei diritti, ma ha sopratutto il carattere di un mezzo di acquisto, come lo indica il vocabolo stesso di usucapio. Cid pure è confermato dal motivo, che si assegna come fondamento all'usucapio, il quale non consiste nell'intento di punire coloro, che trascurassero di esercitare il proprio diritto, ma bensi in quello di evitare l'in certezza dei dominii:  ne rerum dominia diutius in incerto essent . 388. Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio fu effettivamente adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni della plebe potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il carattere quiritario, cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in breve in veri proprietarii ex iure quiritium. Quest'effetto era già stato ottenuto in grande col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto tutti i mancipia, proprii della plebe, in altrettante proprietà ex iure quiritium, facendoli consegnare nel censo; ed il medesimo processo venne ad essere reso continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas, la quale in breve spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di un vero e proprio diritto. Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto diverse di questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per acquistare la pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche qual mezzo per far acquistare al marito la manus sulla propria moglie, e quale mezzo infine per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria di un'eredità, come accade nell'usucapio pro herede . Così pure dapprima non si richiedono condizioni di sorta, perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma basta il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente, che i giurisprudenti fis  Il concetto qui accennato fu già più largamente svolto al nº 154, p. 190 e seg., ove ho dimostrato che l'attribuire carattere giuridico ai possessi della plebe nel ter. ritorio romano era il miglior mezzo per interessarla all'avvenire e alla grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD, op. cit., 48, e l'Es sin, Histoire de l' usucapion nei  Mélanges d'histoire du droit , Paris, 1886, 171 a 217. Dal momento poi, che l'usus auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto, si comprende come essi non abbiano avuto diffi coltà di applicarla all'acquisto della proprietà, all'acquisto della manus, ed anche all'acquisto dell'eredità (usucapio pro herede). 501 sano le condizioni, che debbono concorrere in tale possesso, perchè possa dar luogo all'usucapione. Tuttavia fin da principio la legge decemvirale già comincia ad escludere certe cose dall'usucapione, come le cose furtive, le res mancipii appartenenti alla donna, quando siano state vendute e consegnate senza il consenso del tutore (sine tutoris auctoritate) , mentre è solo più tardi, che la giurisprudenza venne a richiedere la buona fede nell'acquirente. Per tal modo un mezzo, che dapprima servi per mutare una posizione di fatto in una posizione di diritto, fini col tempo per convertirsi eziandio in un rimedio contro il difetto inerente al titolo di acquisto, proveniente o da irregolarità dell'atto di trasferimento o da incapacità dell'ac quirente (3 ). L'usucapione poi, per sua natura, può già applicarsi cosi alle res mancipii, che alle res nec mancipii, ma non pud tuttavia applicarsi al suolo provinciale, come quello, che non poteva essere oggetto di proprietà quiritaria (4 ). Tuttavia anche qui co mincia a svolgersi una istituzione del diritto delle genti, che è quella della prescrizione, la quale, salvo la durata maggiore, ha un carattere analogo a quello della usucapio nel diritto civile: come lo dimostra il fatto, che le due istituzioni finiscono col tempo per fondersi insieme, e dar cosi origine alla praescriptio longi temporis giustinianea (5 ).  Questo carattere dell'usucapio primitiva è già accennato dall'Esmein, op. cit., 177, e può inferirsi dalla definizione di Ulpiano, Fragm. Usucapio  est dominii adeptio per continuationem possessionis anni, vel biennii ; nella quale non occorre ancora quel carattere della iusta possessio, che compare invece nelle altre definizioni, e fra le altre in quella di Boezio riportata dal Bruns, Fontes, 400. Quanto ai rapporti fra il possesso, di cui qui si parla, che sarebbe il pos sesso ad usucapionem, ed il possesso ad interdicta, che costituisce un istituto, avente un proprio scopo, e distinto da quello della proprietà, vedi ciò che si disse più sopra al n. 357, 452, nota 1. A parer mio dovette forınarsi prima il concetto del pos sesso ad usucapionem, e più tardi soltanto quello del possesso ad interdicta.  Questa condizione speciale delle res mancipii, spettanti alle femmine ed ai pupilli, la quale ha evidentemente lo scopo di impedire l'alienazione delmancipium per conservarlo nella linea agnatizia, è attestata in modo concorde da Gaio, Comm., I, 47, 192 e II, 80, e da ULP., Fragm., XI, 27.  È naturale infatti, che l'usucapione in una società, che si forma, sia un modo di acquisto, e che in una società invece, che si è formatn, si converta in un mezzo di difesa; e richieda così un tempo maggiore per servire quale mezzo di acquisto. Le società giovani pensano sopratutto all'acquisto; mentre le società adulte e già for mate pensano sopratutto a conservare l'acquistato. (4 ) GAIO, Comm., II, 46:  item provincialia praedia usucapionem non recipiunt . (5 ) Mainz, Cours de droit romain, I, SS 111 e 112, 745. 502 389. Intanto,mentre accade questo svolgimento nei modi di trasfe rimento della proprietà ex iure quiritium, accanto alla medesima viene lentamente consolidandosi un'altra forma di proprietà, che prende il nome di proprietà in bonis. Questa dapprima non è che una proprietà di fatto, ma col tempo ottiene anch'essa in via indi retta e per opera del pretore una protezione di diritto, e viene così a costituire un vero dualismo nel concetto di proprietà, il che ebbe ad esprimere Gaio con dire:  postea divisionem accepit dominium, ut alius possit esse ex iure quiritium dominus, alius in bonis habere  . Il primo nucleo di questa nuova forma di proprietà ebbe ad essere costituito dalle res mancipii, allorchè le medesime erano trasmesse colla semplice traditio; ma poscia essa fini per comprendere tutte le altre cose, che per qualsiasi causa non fossero oggetto della proprietà ex iure quiritium. Che anzi il dualismo andò fino a tale per l'esistenza contemporanea del ius civile e del ius honorarium, che di una stessa cosa potè accadere, che altri fosse il proprietario ex iure quiritium, mentre un altro la teneva in bonis; il che voleva dire in sostanza, che l'uno ne aveva la pro prietà ufficiale, mentre l'altro ne aveva l'effettivo godimento. È tut tavia notabile, che prima della fusione delle due proprietà, quella in bonis già cominciava in certe cose ad avere la prevalenza; come lo dimostra il fatto, che se un servo appartenesse ad una persona ex iure quiritium, e fosse stato in bonis di un altro, gli acquisti, che egli faceva, andavano a profitto di colui, del quale era in bonis . Diqui una lotta fra le due forme di proprietà, che diede occasione allo svolgersi dei modi naturali di acquisto, accanto a quelli ricono sciuti dal diritto civile; lotta, che Gaio ebbe a riassumere scrivendo:  Ergo ex his, quae dicimus, apparet, quaedam naturali iure alie nari, qualia sunt ea, quae traditione alienantur; quaedam civili, nam mancipationis et in iure cessionis et usucapionis ius pro prium est civium romanorum . Così è pure questa lotta, che porge occasione allo svolgersi della publiciana in rem actio (4 ), ac canto alla rei vindicatio, della prescrizione accanto all'usucapione,  Gaio, Comm., II, 40.  Gaio, II, 88 e UlP., Fragm., XIX, 20.  Id., II, 65. Di qui infatti Gaio prende occasione di discorrere deimodi natu rali di acquisto.  Quanto all'actio in rem pubbliciana è da vedersi APPLETON, De l'action pub blicienne nella  Nouvelle Revue historique fino a che le due proprietà finiscono per essere pareggiate fra di loro, ed allora si consegue l'effetto, che quelle caratteristiche della pro prietà quiritaria, che si erano prima applicate a quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese nel mancipium, poi si erano estese a tutte le cose, che erano oggetto delle proprietà ex iure quiritium, finiscono per essere estese a tutte le cose, che, per essere in com mercio, possono essere oggetto di proprietà privata. È solo allora che Giustiniano, forse non troppo consapevole dell'ufficio, che un tempo avevano compiuto le distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab irato queste distinzioni, le quali a suo giu dizio  nihil ab eniymate discrepant e dànno solo più origine ad inutili ambiguità ed incertezze. 390. Infine anche qui deve essere notato, che tutta questa teoria del trasferimento della proprietà non potè mai trovare applicazione in tema di obbligazioni. Almodo stesso, che più tardi la giurisprudenza romana continua ad affermare che  traditionibus et usucapionibus dominia rerum, non nudis pactis, transferuntur  ; così essa pur continua a professare, che i modi, i quali servono a trasferire la pro prietà, non possono invece servire per trasferire un'obbligazione da una persona ad un'altra. Scrive infatti Gaio, dopo aver discorso della mancipatio e della in iure cessio, quali modi di trasferimento della proprietà:  obligationes, quoquo modo contractae, nihil eorum recipiunt; nam quod mihi ab aliquo debetur, id si velim tibi de beri, nullo eorum modo, quibus res corporales ad alium transfe runtur, id efficere possum; sed opus est, ut, iubente me, tu ab eo stipuleris  (3 ). Quindi le obbligazioni, che si contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla stipulatio, e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio, che sono circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per tal modo quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius quiritium, fra il facere mancipium ed il facere nexum, si mantenne per tutto lo svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra prova della dialettica co  Giustin., Cod., VII, 25: de nudo iure quiritium tollendo; e VII, 31, $ 4: de usucapione transformanda et de sublata differentia rerum mancipii et nec mancipii  L.20, Cod., II, 3 (Dioclet. et Maxim.). (3 ) Gaio, Comm., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti romani tengono dietro ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella prima elaborazione del ius quiritium. Ciascun concetto di questo è come un nucleo, che viene attraendo tutto ciò, che può esservi di affine, ma il medesimo non si confonde mai coi concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud at trarre materie, che siano partite da un concetto primordiale diverso. Chi poi volesse trovare la ragione intima, per cui nel diritto civile romano il semplice contratto può soltanto essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai bastare da solo al trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente ricercarla nel concetto in parte materiale, che il primitivo diritto erasi formato prima del manci pium e poscia anche del dominium ex iure quiritium; avrebbe infatti ripugnato alla logica giuridica, che un dominio, il quale aveva in se qualche cosa di corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato da qualche fatto esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione dell'acquirente. Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai anche un atto di questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto per aes et libram. $ 4. La testamenti factio e la storia primitiva del testamento quiritario. 391. Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium, il testa mento è certamente quello, di cui ci pervennero in maggior quantità i dati per ricostruirne la storia primitiva, e per seguire le trasfor mazioni, che ebbe a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non può dubitarsi anzitutto, che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca anteriore alla fondazione della città, perchè noi sappiamo con certezza, che esso fin dagli inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti, che, al pari dell'adrogatio, della detestatio sacrorum e simili, dovevano essere compiuti coll'inter vento dei pontefici, davanti al popolo delle curie, riunito nei comizii calati. Ciò dimostra, che esso già preesisteva presso le genti patrizie, che concorsero alla fondazione delle città, le quali dovettero ser virsene, comedi un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto. Si è veduto infatti, che nella organizzazione delle genti italiche la famiglia, ancorchè entrasse a far parte di un organismo maggiore, cioè della gente e della tribù, aveva però già una propria esistenza, 505 un proprio culto, e un proprio patrimonio (heredium ). Era quindi naturale, che essa tendesse a perpetuarsi, e che perciò il capo di famiglia riguardasse. come una grande sventura la mancanza di un erede, che continuasse in certo modo la sua personalità, e che adem piesse all'obligo del sacrifizio domestico. Fu quindi per supplire alla mancanza di un erede naturale, che noi troviamo essere in uso presso le genti italiche l'adrogatio ed il testamentum: due istitu zioni, le quali, ancorchè in guisa diversa, mirano in sostanza al medesimo intento, cioè alla perpetuazione della famiglia e del suo culto. Intanto però, siccome l'una e l'altra istituzione toccavano da vicino l'organizzazione gentilizia, cosi egli è certo, che nel periodo gentilizio l'adrogatio e il testamentum non poterono compiersi dal capo di famiglia, di sua privata autorità, ma dovettero invece essere compiuti colla approvazione degli altri capi di famiglia, che appar tenevano alla medesima gente o tribù. 392. Allorchè poi le due istituzioni vennero ad essere trapiantate nella città patrizia, esse conservarono dapprima il medesimo carat tere, e perciò apparirono come due negozi, i quali, avendo un carat tere pubblico, non potevano operarsi di privata autorità, ma dovevano essere compiuti nei comizii calati delle curie, convocati dai ponte fici. Che anzi, se abbiamo da argomentare dalla formola dell'adro gatio, che ci fu conservata da Gellio, conviene inferirne, che anche il testamento, in questo periodo, dovette assumnere il carattere di una vera e propria legge . Intanto però egli è evidente, che questo testamento nei comizii calati delle curie dovette essere esclusivamente proprio delle genti patrizie, e che il medesimo non ebbe certamente lo scopo di porgere al testatore un mezzo di disporre a capriccio delle proprie sostanze;  Ho già toccato dell'attinenza strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il testamentum nel periodo gentilizio al nº 63-65, 77. Cfr. in proposito il SUMNER -MAINE, Ancien droit, 184 e il CoQ, Recherches sur le testament per aes et libram nella  Nouvelle Revue historique , 1886, 536. Qui solo ag. giungerò, che questa attinenza appare anche meglio nel diritto greco, e sopratutto nell'ateniese, nel quale il primitivo testamento compare sotto la forma dell'adozione. Cfr. il Jannet, Les institutions sociales a Sparta. Paris, 1880, 96 e segg.; e il Cocotti, La famiglia nel diritto attico. Torino, 1886, 69.  Questo carattere pressochè pubblico dell'adrogatio e del testamentum in Roma non è mai intieramente scomparso, come lo prova il detto di PAPINIANO, L. 4, Dig. (28-1): testamenti factio iuris publici est. Cfr. quanto ho scritto a n ° 221, 268506 - ma lo scopo invece di perpetuare la famiglia ed il suo culto, e di impedire la divisione immediata del patrimonio, come lo dimostra l'antica espressione romana  ercto non cito ; la quale ha tutti i caratteri di una primitiva clausola testamentaria. Quanto alla plebe, non avendo essa la organizzazione gentilizia, non poteva certamente possedere un simile testamento; quindi è probabile, che il capo di famiglia plebeo, quando rimaneva senza figliuolanza diretta, non avesse altro mezzo di disporre delle proprie cose, che quello di ri correre all'istituto della fiducia, affidando il suo patrimonio ad un amico, che ne disponesse nel modo da lui indicato; modo questo di far testamento, che era una conseguenza naturale delle condizioni economiche e giuridiche, in cui trovavasi la plebe, e che Gaio ci indicherebbe come affatto primitivo, ed anteriore ancora a quella forma di testamento, che a noi pervenne sotto la denominazione di testamento per aes et libram . Di qui la conseguenza, che fin dagli esordii di Roma dovettero tro varsi di fronte due forme di testamento; un testamento cioè, di origine patrizia, fatto colla formalità di una vera e propria legge, nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici, diretto a perpetuare la famiglia ed il suo culto e ad impedire la disper sione dei patrimonii; e l'altro, di origine plebea, che compievasi colle forme stesse di quel fedecommesso, che penetrò solo più tardi nel diritto civile romano, il quale non era che una applicazione della fiducia, e aveva l'unico scopo di porgere un mezzo al capo di famiglia per disporre delle proprie cose per il tempo, in cui egli avrebbe cessato di vivere. 393. Fu soltanto allorchè la plebe entro eziandio a far parte del populus, che potè svolgersi una forma di testamento, comune ai due ordini, ed è sopratutto a questo punto, che l'esposizione di Gaio ci può venire in sussidio per ricostruire la storia primitiva del testa mento civile romano . Gaio ci parla di due forme primitive di testamento, cioè: di un testamento, che compievasi in calatis comitiis, i quali si sarebbero radunati due volte all'anno per la confezione dei testamenti; e del  Gaio, Comm., II, 107. Vedi a proposito di questo primitivo testamento della plebe, che era una applicazione della fiducia e corrispondeva in certo modo a quel fedecommesso, che fu accolto più tardi nel diritto romano, cid che ho scritto a n ° 149, 184Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd.  GAIO, II, 101 a 108. 507 testamento in procinctu, che facevasi invece davanti all'esercito già preparato alla battaglia. Egli anzi sembra compiacersi nel notare, che queste due forme di testamento corrispondevano a quel carat tere civile e militare ad un tempo, che era proprio del popolo ro mano:  alterum itaque in pace et in otio faciebant, alterum in praelium exituri  ; ma intanto non dice, se i comizii calati, a cui egli accenna, fossero i comizii delle curie o quelli delle centurie. Sembra tuttavia ovvio l'osservare, che Gaio qui discorre già delle due forme di testamento, comuni cosi al patriziato che alla plebe, allorché i medesimi già erano entrati a far parte dello stesso populus, e che perciò la sua distinzione non si deve riferire al popolo primitivo delle curie, ma bensì al popolo plebeo-patrizio delle centurie; del quale sopratutto si poteva dire a ragione, che mentre in pace co stituiva i comizii, in guerra invece costituiva un esercito. Di qui la conseguenza, che il testamento in calatis comitiis, di cui discorre Gaio, non è più il testamento proprio delle genti patrizie, che fa cevasi nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici: ma bensi un testamento, già comune al patriziato ed alla plebe, che fa cevasi in quei comizii calati, che noi sappiamo da Aulo Gellio essere stati eziandio proprii delle centurie. Furono probabilmente questi comizii calati delle centurie, che dovevano radunarsi due volte l'anno per la confezione dei testamenti: mentre i comizii calati delle curie potevano convocarsi dai pontefici, ogni qualvolta ne occorresse il bi sogno. Siccome poi in questo tempo il quirite, come tale, appare già prosciolto dai vincoli dell'organizzazione gentilizia, ed è già libero dispositore delle proprie cose, anche per atto di morte, come ebbe a dichiararlo espressamente la legge decemvirale; così si può in durne, che il popolo delle centurie, in questa fase del testamento quiritario, più non intervenisse per approvare il medesimo con una legge, ma soltanto per prestare la propria testimonianza, secondo la  GAIO, II, 101.  Gellio, XV, 27, 1 e 2, parlando dei co:nitia calata, scrive:  eorum alia esse  curiata, alia centuriata. Curiata per lictorem curiatim calari, id est convocari;  centuriata per cornicinem . Egli dice poi, che in questi comizii si facevano i testa menti, il che fa supporre che si facessero tanto nei comizii calati curiati, che nei centuriati. Lo stesso autore V, 19, 6, parla un'altra ' volta dei comizii calati, a pro posito dell'adrogatio, ma qui sembra alludere soltanto ai comizii calati curiati. Sembra infatti che l'adrogatio, a differenza del testamento, abbia continuato sempre a farsi davanti alle curie, salvo che la medesima finì per compiersi davanti ai trenta littori, che la rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12. Cfr. Cuq, art. cit., p. 539. 508 formola, che poi ricompare più tardi nel testamento per aes et libram:  et vos, quirites, testimonium mihi perhibitote . Cid è confermato eziandio dalla considerazione, che questi comizii calati non si sarebbero radunati che due volte l'anno per la confezione dei testamenti, il che avrebbe reso pressochè impossibile, che ognuno dei testamenti presentati nei medesimi avesse potuto essere approvato con tutte quelle formalità di una vera e propria legge, che erano richieste nei comizii calati delle curie primitive. 394. Di qui deriva, che se questo testamento nei comizii calati delle centurie imitava ancora nella forma esteriore il testamento pa trizio, che facevasi nei comizii calati delle curie, nella sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè nel medesimo questo intervento di tutto il popolo convertivasi in una semplice formalità, in quanto che il popolo non era più chiamato ad approvare il testamento,ma sol tanto ad assistere al medesimo cometestimonio. Si comprende pertanto, che la consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo più semplice di fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio familiae cum fiducia, che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci descrive essersi introdotta posteriormente al testamento in calatis comitiis. Questo testamento non era in sostanza, che il testamento primitivo di origine plebea, salvo che esso era già sottoposto alla forma quiritaria dell'atto per aes et libram, e ac compagnato dalla fiducia. Era quindi un testamento, che era facile a celebrarsi, ma che, al pari della fiducia iure pignoris, aveva dapprima l'inconveniente di rimettere ogni cosa alla buona fede del familiae emptor, il quale poteva anche abusare della fiducia, che il testatore aveva in lui riposta. Fu allora, che i veteres iuris conditores sentirono la necessità, come dice Gaio, di ordinare altrimenti il testamento per aes et libram, e modellarono così quella forma di testamento, che penetrd con questa denominazione nel ius quiritium o meglio nel ius pro prium civium romanorum, e che fu poi argomento di uno svolgi mento storico non interrotto fino a Giustiniano. Questo testamento  Fra gli autori, che distinguono la primitiva mancipatio familiae cum fiducia, che ha quasi del fedecommesso, dal posteriore testamento per aes et libram, quale è descritto da Gaio, II, 102, è da vedersi il MuIRHEAD, op. cit., 66 e 167, e sopratutto il Cuq, Op. e loc. cit., 534 e segg., il quale, dopo aver discorso prima della familiae mancipatio, passa a trattare separatamente del testamento per aes et libram. 509 pertanto compare nel ius quiritium molto più tardi, che non il nerum ed il mancipium, e viene ad essere una artificiosa applica zione dell'atto per aes et libram, nell'intento di porgere al quirite un mezzo per disporre del suo patrimonio per il tempo, in cui avrà cessato di vivere. 395. Questo testamento, secondo la definizione di Gaio e di Ul. piano, componevasi di due parti, cioè della mancipatio familiae e della nuncupatio. La prima consiste in un atto per aes et libram, compiuto, come al solito, davanti a non meno di cinque testimoni, cittadini romani, ed al libripens, in cui si addiviene ad una  ima. ginaria venditio  delle sostanze del testatore (familiae). È però a notarsi, che,mentre nella primitiva mancipatio familiae il negozio seguiva effettivamente fra il testatore e l'erede, di cui quello era il familiae venditor e questo il familiae emptor; nel testamento invece per aes et libram, quale appare modellato in questo secondo stadio, il familiae emptor non è più il vero erede, ma è piuttosto un depositario e custode del patrimonio, accid il testatore possa disporne  secundum legem publicam  . Cið appare dalla circostanza, che il familiae emptor, dopo aver finto di comprare il patrimonio e di pagarne il prezzo, se ne dichiara perd semplice depositario, ricorrendo alla formola seguente:  familia pecuniaque tua endo mandatelam, custodelamque meam, quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam, hoc aere esto mihi empta .  Trovo alquanto singolare la interpretazione che il Cuq, art. cit., 565, verrebbe a dare a queste parole:  secundum legem publicam . Egli ritiene, che tutte le parole del testamento dovessero aversi come confermate da quella lex publica, che era andata in disuso; mentre invece è evidente, che le parole della formola:  quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam , mirano evidentemente a porre il familiae venditor in condizione di poter fare il testamento approvato e riconosciuto dalla legge pubblica. Una prova di cið l'abbiamo nella circo stanza, che questa stessa espressione  secundum legem publicam , compare eziandio nella formola della nexi liberatio, in cui si dice:  hanc tibi libram primam postre mamque tibi expendo secundum legem publicam  (Gaio, III, 174 ), ove la medesima non può certo avere la significazione, che vorrebbe attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea interpretazione sta in ciò, che il Cuq considera il testamento per aes et libram, come una modificazione di quello in calatis comitiis, mentre esso ha un'origine affatto diversa, come ho cercato di dimostrare nel testo.  GAIO, Comm., II, 104. Ho ricavato questa formola dall'ultima edizione curata dal MOMMSEN, sull'Apographum Studemundianum, novis curis auctum, Berolini, 1884; la quale presenta qualche notevole differenza dalle anteriori edizioni fatte dal Dubois, dall'HUSCHKE e dal MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che una imaginaria venditio, della quale Gaio dice espressamente, che viene compiuta soltanto  dicis gratia, propter veteris iuris imitationem . La sostanza invece di questa forma di testamento consiste nella nuncupatio solenne, nella quale il testatore, in presenza dei testimoni, istituisce il proprio erede, il quale viene cosi già a distinguersi dal familiae emptor, ed indica eziandio i legati, che saranno poi a carico dell'erede. Questa nuncupatio dapprima dovette essere compiutamente orale; ma poscia potè essere fatta in doppia guisa, in quanto che il testa tore – o dichiarava espressamente la sua volontà davanti ai testi moni, - o presentava invece ai medesimi le sue tavole testamen tarie, dichiarando solennemente, che queste contenevano la sua ultima volontà:  haec ita, ut in his tabulis cerisve scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor: itaque, vos, quirites, testimo nium mihiperhibitote . Di qui prorenne, che già collo stesso testamento per aes et libram comincid a delinearsi la distinzione, che acquistò più tardi grandissima importanza fra il testamento nun cupativo e il testamento scritto. 396. Basta questa semplice descrizione per dimostrare, che il testa mento per aes et libram è già informato ad un concetto ben diverso da quello, a cui si ispirava il primitivo testamento delle genti patrizie. Mentre infatti il testamento primitivo in calatis comitiis mirava a perpetuare il culto domestico e ad impedire la dispersione dei patri monii: quello invece per aes et libram tendeva senz'altro a sommi nistrare al quirite un mezzo per disporre liberamente delle proprie cose. Ciò è dimostrato dalla circostanza indicataci da Cicerone, che questo testamento deve considerarsi come un'applicazione della di. sposizione delle XII Tavole: qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto; ed è pur confermato dagli antichi giureconsulti, i quali parlano di questo testamento, come di una va rietà ed applicazione del nexum, o meglio dell'atto per aes et libram . Così pure, mentre nel testamento primitivo si richiedeva  Gaio, loc. cit. e Ulp., Fragm., XX, 2 a 10. Quest'ultimo sopratutto distingue nettamente le due parti, di cui componesi il testamento per aes et libram, allorchè scrive al $ 9:  In testamento, quod per aes et libram fit, duae res aguntur, fa miliae mancipatio et nuncupatio testamenti ; e dopo viene senz'altro a parlare della nuncupatio, come di quella, che veramente importa.  Cic., De Orat., I, 57,  245. La stessa esposizione di Gaio, II, 102 e 103, dimostra, che il testamento per aes et libram ebbe origine diversa da quello in - 511. l'intervento dei pontefici, perchè in esso trattavasi di provvedere al mantenimento del culto; il testamento invece per aes et libram viene ad essere considerato come una esplicazione del ius commercii, ossia della facoltà del quirite di disporre liberamente delle proprie cose, e quindi si attua mediante un atto di carattere esclusivamente mercantile, quale era l'atto per aes et libram, lasciando poi al ius pontificium di provvedere, quanto all'adempimento dei sacra. Mentre infine nel testamento primitivo la volontà del testatore era sottoposta all'approvazione del popolo; nel testamento invece per aes et libram, la volontà del quirite appare indipendente e sovrana, e non è soggetta a qualsiasi limitazione. Dopo ciò credo di poter conchiudere con fondamento, che anche il testamento per aes et libram, quale compare nel ius quiritium, deve già essere considerato come il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica, e comeuna conseguenza logica di quel potere illimitato e senza confine, che appartiene al quirite di disporre delle proprie cose, non solo per atto tra vivi, ma anche per causa di morte. Non potrei quindi ammettere col Sumner Maine, che questa forma di testamento importasse dapprima uno spoglio immediato ed irrevocabile del testatore a favore del proprio erede: tanto più, che questa congettura è in diretta opposizione con tutte le notizie, che a noi pervennero del testamento romano, il quale appare essere stato fin dapprincipio una attestazione solenne  de eo quod quis post mortem tuam fieri vult  . calatis comitiis, poichè egli non dice già, che il medesimo sia stato surrogato a quello in calatis comitiis, ma dice invece:  accessit deinde tertium genus testamenti .  Cic., De leg., II, 19, 47. Cfr. in proposito il Cuq, art. cit., 555, il quale pure osserva, che la mancipatio familiae, e quindi anche il testamento per aes et libram più non aveva carattere religioso, 553, nota 2.  È noto come il SUMNER Maine, Ancien droit, 191, abbia coll'autorità del suo nome resa accetta a molti l'opinione, che il testamento per aes et libram fosse di origine plebea, e che esso importasse negli inizii una spogliazione immediata ed irre vocabile del testatore a favore dei proprii eredi. Tale opinione non può essere ac colta; poichè il testamento per aes et libram, anzichè essere proprio della plebe, fu invece una creazione del ius quiritium, e quindi, al pari di ogni altro negozio qui ritario, rivestà la forma dell'atto per aes et libram. Il motivo poi, per cui esso ri vestì la forma di una mancipatio non sta in ciò, che esso siasi veramente riguar dato come una vendita immediata, ma bensì nella circostanza, che esso imponeva all'erede una quantità di obbligazioni, e fra le altre anche quella di provvedere alla continuazione dei sacra e al pagamento dei legati. A questo motivo si aggiunge una causa storica, ed è che il testamento per aes et libram era un rimaneggia mento della primitiva mancipatio familiae cum fiducia, la quale, essendo un atto di carattere puramente fiduciario, figurava come un vero atto fra vivi. 512 397. Una volta poi che questo testamento entrò a far parte del diritto quiritario, esso ebbe a ricevere uno svolgimento storico e Ingico ad un tempo, non dissimile da quello delle altre istituzioni quiritarie, senza che mai si perdessero i caratteri essenziali, con cui era penetrato nel diritto civile di Roma. Così, ad esempio, il testamento era stato accolto nel diritto quiri tario sotto l'apparenza di un negozio, che seguiva fra il testatore, qual familiae venditor, e l'erede, quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca di Giustiniano esso conserva questo carattere, come lo provano l'unità di contesto, che è richiesta nel testamento, e la disposizione per cui quelli, che dipendono dall'erede, non possono servire di testimoni nel medesimo. Cosi pure il testamento, nel suo concetto primitivo, aveva per iscopo di perpetuare nell'erede la personalità del testatore, donde la conseguenza, che l'istituzione dell'erede venne ad essere considerata quale  caput et fundamen tum testamenti; il qual concetto continua pure a mantenersi fino alla più tarda giurisprudenza. Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era stato un negozio di carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la parola del testatore costituiva legge, e noi troviamo, che in tutto il suo svolgimento posteriore esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui giunge fino agli ultimi confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso; come lo provano le espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi l'istituzione di erede, la diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione, e simili. Sopratutto poi questo carattere nuncupativo del testamento si fece palese nel tema dei legati, in quanto che nel diritto civile di Roma le varie specie di legato vennero ad essere determinate dalle diverse espressioni, adoperate dal testatore . Infine anche quel principio, secondo cui la volontà del testatore costituiva legge, continud a mantenersi anche più tardi; dapprima infatti si cercò con mezzi in diretti, quali sarebbero l'obbligo della diseredazione e la querela di  Questo carattere del primitivo testamento per aes et libram, per cui esso si presenta come un negozio fra il familiae emptor ed il familiae venditor, è chiara. mente attestato da Gaio, Comm., e da Ulp., Fragm., XX, 3 a 6. Questo carattere poi non si perdette mai completamente, ed è ancora ricordato da GIUSTINIANO, Instit., II, 10, $ 10. È nota la distinzione fra i legati per vindicationem, per damnationem, sinendi modo, e per praeceptionem: in essi la volontà del testatore appare come una vera legge, e viene ad essere analizzata e studiata come la parola stessa del legislatore. V. Gaio, II, 192 e 222; Ulp., Fragm., XXIV. 513 inofficioso testamento, di impedire che il testatore potesse abusare della libertà, a lui consentita dal primitivo diritto, e fu solo con Giustiniano che si introdusse una limitazione diretta all'arbitrio del testatore, attribuendo a certe persone il diritto ad una porzione legittima. 398. Intanto, anche nella materia testamentaria, è facile scorgere come accanto al diritto già formato siavi sempre una parte, che continua ad essere in via di formazione. Quindi anche qui, accanto al testamento civile, si esplica un te stamento pretorio; ma anche questo appare modellato a somiglianza del primo. Per verità nel testamento pretorio più non comparisce l'atto per aes et libram, ma debbono però intervenire due nuovi testimoni, i quali si ritengono corrispondere al libripens ed al fa miliae emptor: donde la necessità di sette testimoni, che dånno au tenticità al testamento, apponendovi col testatore il proprio sigillo. Allorchè poi il testamento pretorio è riuscito anch'esso ad avere una efficacia giuridica, sopravvengono anche in questa parte le co stituzioni imperiali, le quali tendono a fondere insieme le due forme di testamento, finchè si giunge al testamento giustinianeo, il quale è ancor esso un coordinamento delle forme anteriori. Esso infatti, secondo l'attestazione di Giustiniano, viene ad essere costituito da un triplice elemento, cioè: dall'unità di contesto e dalla presenza dei testimoni, che proviene dal diritto civile: dal numero di sette testimoni e dall'apposizione del loro sigillo, che è di origine pre toria: e infine dalla sottoscrizione del testatore e dei testimonii, che deriva dalle costituzioni imperiali. Ciò però non toglie, che anche Giustiniano, per imitazione dell'antico, continui a ritenere il testa mento come un negozio che interviene fra il testatore e l'erede, nel che abbiamo una prova della logica tenace, che è propria della giu risprudenza romana, e del metodo da essa costantemente seguito di venire coordinando nel medesimo istituto gli elementi, che si ven nero successivamente formando .  L'istituzione della legittima ebbe presso i Romani una lunga preparazione prima nello stesso diritto civile, poi nel diritto onorario, la quale non terminò che collo stesso Giustiniano. A mio avviso, il motivo degli espedienti, a cui si appiglid il diritto, prima di venire alla fissazione di una legittima, deve appunto essere riposto in cid, che non volevasi porre una limitazione diretta alla volontà del testatore. Quanto alla storia della legittima, è a consultarsi il Boissonade, De la réserve héréditaire. Chap. IV, Paris, 1888, 61–160.  Justin., Instit., II, 10, $ S 3 e 10. G.  C., Le origini del diritto di Roma. 33 - 514 399. A compimento di questa materia non saranno inopportune le seguenti osservazioni intorno allo svolgimento storico del testamento: Il testamento in Roma è un atto, in cui il quirite si presenta col suo doppio carattere di uomo di pace e di guerra ad un tempo, come lo dimostra il dualismo fra il testamento civile ed il testamento militare, il quale, dopo essere cominciato colla distinzione fra il te stamento in calatis comitiis ed in procinctu, non solo si mantiene, ma si viene accentuando sempre più fino all'epoca diGiustiniano; 2 ° Nella storia del testamento romano si presenta questo fatto singolare, che si vede ricomparire più tardi sotto nome di fidecom messo, una forma di testamento analoga a quel testamento fiduciario, che era stato il testamento primitivo in uso presso la plebe. Cid significa, che, accanto al testamento quiritario, dovette mantenersi nelle consuetudini la primitiva forma di testamento, la quale non riesci ad ottenere il proprio riconoscimento, che all'epoca di Au gusto. Questi poi, accordando efficacia al fidecommesso, fini per ce dere alla forza della pubblica opinione, e alla nécessità di ovviare agli abusi, a cui dava luogo l'inefficacia giuridica di un testamento, in cui tutto dipendeva dalla buona fede di colui, a cui erasi affi dato il testatore. Noi abbiamo così una prova, che alcune delle istituzioni, che penetrarono più tardi nel diritto quiritario, come proprie del diritto delle genti, già preesistevano nella comunanza plebea, salvo che non erano riuscite a penetrare in quella rigida selezione, mediante cui erasi formato il primitivo ius quiritium. Un altro carattere di questo svolgimento storico consisterebbe in cid, che nel diritto civile romano non riescirono mai a mescolarsi insieme la successione testamentaria e la successione legittima; ma questa singolarità potrà essere più facilmente spiegata nel capitolo seguente, dopo aver discorso di quel ius connubii, di cui era una conseguenza la successione legittima, stata accolta dal diritto civile romano .  Che il fedecommesso sia sempre vissuto, se non nel diritto, almeno nelle con suetudini del popolo romano, lo dimostra il fatto, che Augusto si indusse a dargli efficacia giuridica per l'abuso, che taluni avevano fatto della fiducia in essi riposta. Appena accolto poi il fedecommesso apparve così popolare e trovò così favorevole ac coglienza, che si dovette ben presto istituire un pretore apposito (praetor fideicom missarius). V. Justin., Instit., II, 23, ss 1 e 2.  Rimando l'indagine intorno alle cagioni storiche della massima  nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest, al seguente capitolo V, $ 5; perchè la questione non potrebbe essere risolta senza aver prima cercato i rapporti, in cui stavano presso i romani la successione testamentaria e la legittima. Il ius connubii nel primitivo ius quiritium e l'ordinamento giuridico della famiglia romana. Sguardo generale all'argomento. 400. Più volte fu osservato dagli autori, che la famiglia romana nella realtà dei fatti si presenta con caratteri molto diversi da quelli, che si potrebbero argomentare dall'ordinamento giuridico di essa. Mentre, sotto il punto di vista giuridico, la famiglia costituisce come un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio capo, nel quale si vengono ad unificare le persone e le cose, che entrano a costituirla; nella realtà invece essa då origine ad una comunione di tutte le utilità domestiche, in cui trovano campo a svolgersi la pietà, l'os sequio e la reciproca confidenza. Mentre, giuridicamente parlando, havvi un unico padrone nella casa:  pater familias in domu do minium habet ; nella realtà invece anche la moglie e i figli ap pariscono comproprietarii del patrimonio paterno:  vivo quoque parente, quodammodo condomini existimantur . Mentre infine, in base al diritto, il padre ha perfino il ius vitae ac necis sulle persone tutte, che da lui dipendono, nel costume invece la famiglia è sopratutto governata dal sentimento profondo dei doveri famigliari, dalla religione, dalla morale e dal civile costume . Di fronte ad una opposizione di questa natura fra la famiglia quale appare nel diritto, e quale si presenta nel fatto, non è certo  Ho già accennato a questo contrasto, fra la configurazione giuridica della fa miglia e la realtà dei fatti, al nº 94, 119. Del resto gli autori sembrano essere concordi in rilevare questa speciale caratteristica della famiglia romana. Basterà citare fra gli altri il Savigny, Sistema del diritto romano attuale, I, &$ 54 e 55; il JHERING, L'esprit du droit romain, trad. Meulenaere, tomo II, SS 36 e 37, e specialmente da 190 a 214; il Gide, Étude sur la condition privée de la femme, 2a ed., par Esmein, Paris 1885, cap. IV e V; il Voigt, XII Tafeln, II, $ 92, 241 a 256; il MUIRHEAD, Histor, introd., 24 a 34; il Brixi, Matrimonio e di vorzio, Bologna, 1886, parte 1“, passim, e specialmente ai SS 21 e 22, 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano della famiglia romana in genere, ricorderò lo SCHUPPER, La famiglia secondo il diritto romano, vol. 1°, Padova 1876; e il CE NERI, Lezioni su temi del ius familiae, Bologna, 1881.; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano trasmesso nel proprio diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti; ma piut tosto deve credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di ritto, abbiano cercato di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini, con cui trovavasi intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione giuridica, che fini per attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben maggiore di quella, che esisteva real mente nel costume. Quindi il vero problema, che presentasi al ri guardo, sta nel ricostruire il processo storico e logico ad un tempo, che può aver condotto i romani ad accogliere un ordinamento giu ridico della famiglia, il quale, a giudizio degli stessi giureconsulti, si differenziava grandemente da quello di tutti gli altri popoli. 401. A questo proposito vuolsi anzitutto premettere, che l'ordi namento famigliare dovette certamente essere la parte del diritto primitivo, in cui trovavansi a maggior distanza le istituzioni già elaborate, proprie delle genti patrizie, e le istituzioni appena ab bozzate, proprie della plebe. Ciò è provato da quel divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, che si protrasse fin dopo la legislazione decemvirale; dalle lotte accanite, a cui diede origine l'abolizione di questo divieto per opera della legge Canuleia; ed anche dal disprezzo ostentato dai patrizii per le unioni della plebe, come pure dal culto di una pudicizia propria delle matrone patrizie, a cui si contrappose più tardi una pudicizia plebea. Così stando le cose, era anche naturale, che in questa parte le istituzioni dei due ordini dovessero riuscire più difficilmente a fondersi e a mescolarsi fra di loro. Da una parte eravi la famiglia patriarcale delle genti patrizie, la quale, unificata sotto la patria potestà del padre, e stretta insieme dal vincolo dell'agnazione, era sopratutto intesa a perpetuare la stirpe ed il suo culto, costituiva una vera corporazione religiosa, e conduceva alla comunione delle cose divine ed umane; mentre dall'altra eravi la famiglia della plebe, la quale, costituita dall'unione consensuale di un uomo e di una donna, fatta palese dalla loro coabitazione, unita dai vincoli della affinità e della cognazione, aveva piuttosto per iscopo la procreazione della prole, e di soppor tare insieme i pesi del matrimonio.  Quanto all'organizzazione domestica delle genti patrizie, vedi libro I, cap. 3',  2º, 28 a 34; quanto a quella della plebe, lo stesso lib. I, cap. 9, pagina 188. - 517 Dei due ordinamenti però, il più forte, il più elaborato, il più coerente in tutte le sue parti, era certamente quello delle genti patrizie; quindi non è meraviglia, se essé in questa parte siansi ri fiutate a qualsiasi transazione ed accordo, e siano così riuscite a dare un'assoluta prevalenza alle proprie istituzioni domestiche. La plebe quindi, quanto all'ordinamento della famiglia, dovette cercare in qualche modo di imitare l'organizzazione delle famiglie patrizie; il che dovette riuscire più agevole, allorchè la plebe primitiva venne ad essere accresciuta da un largo contingente di famiglie di origine latina, la cui organizzazione doveva già essere analoga a quella propria delle genti patrizie. 402. Ne consegui pertanto, che l'ordinamento domestico, adottato dalla comunanza quiritaria, fu quello della famiglia patriarcale propria delle genti patrizie, e che anche in questa parte i veteres iuris conditores seguirono quel medesimo processo, a cui si erano attenuti nelle altre parti del diritto quiritario. Essi cioè trapianta rono nella città quell'organizzazione domestica, che già preesisteva nel periodo gentilizio; la isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale, in cui erasi formata, il quale serviva a temperarne la rigi dezza; la riguardarono come organizzazione tipica della famiglia quiritaria e presero a svolgerla logicamente in tutte le sue parti. Siccome pertanto i concetti informatori della famiglia, nel periodo gentilizio, si riducevano essenzialmente all'unificazione potente della famiglia nella persona del proprio capo, ed alla tendenza della me desima a perpetuarsi e a conservare il proprio patrimonio; cosi questi concetti vennero in certo modo a costituire il capo saldo, da cui prese le mosse l'elaborazione del diritto quiritario, e spinti a tutte le conseguenze, di cui potevano essere capaci, condussero logi camente a quell'ordinamento della famiglia, che ci fu trasmesso dal diritto civile romano. Fu in questa guisa, che ogni famiglia, nel diritto primitivo di Roma, fini per costituire un gruppo di persone e di cose, ordinato sotto il potere del proprio capo, e disgiunto per modo da ogni altro gruppo, che una persona, uscendo da una famiglia, per entrare in un'altra, cessava di avere qualsiasi rapporto giuridico colla prima. Così pure la forma tipica del matrimonio quiritario dovette essere dapprima il solo matrimonio cum manu; perchè solo la conventio in manu, collocando la moglie in posizione di figlia, poteva con durre alla unificazione della famiglia nella persona del proprio capo. 518 Accolta poi questa unificazione giuridica della famiglia nella per sona del padre, ne derivava eziandio che il vincolo, il quale univa imembri della famiglia, non poteva più essere quello della cogna zione,ma doveva essere quello dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel potere spettante al capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della preponderanza dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia. Se poi tutti i membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico, appariscono unificati nel proprio capo, viene pure a conseguirne logicamente, che tutto quello, che essi facciano od acquistino, debba in diritto ritenersi fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio, come, nel diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il padre, ed i servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece ammessa, quando trattasi di persone, che appartengano ad un gruppo diverso. Così pure sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della famiglia, che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio, venga ad uscire da un gruppo per entrare in un altro, sotto il punto di vista giuri dico, cessi di esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia, in cui entra, quel posto, che le sarebbe spettato, quando fosse nata nel medesimo . 403. È poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica della famiglia quiritaria, la cui elaborazione già erasi cominciata nella città esclusivamente patrizia, ebbe occasione di svolgersi, anche più rigidamente, mediante l'istituzione del censo serviano. Con questo infatti la famiglia venne ad essere staccata affatto da quel l'ambiente patriarcale, che in parte aveva ancora potuto mantenersi nel periodo della città patrizia, in quanto che ogni cittadino venne ad essere censito, come capo di famiglia, e dovette come tale denun ziare le persone e le cose, che da lui dipendevano, e ne costituivano in certo modo il mancipium. Fu quindi sopratutto sotto l'influenza del censo serviano, che i diritti del padre sulla moglie, sui figli, sui servi vennero in certo modo ad essere modellati sul concetto rozzo, ma preciso del mio e del tuo, il quale aveva anche il vantaggio di essere, più di qualsiasi altro, suscettivo di una vera e propria ela  Il concetto di quest'unità potente della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei primitivi romani. Si può averne una prova nei passi di antichi autori, citati dal Voigt, Op. cit., II, $ 72, 6 e segg., a proposito della domus fami liaque, considerata come un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. -- -- 519 berazione giuridica. L'epoca serviana pertanto dovette essere il mo mento storico, in cui la famiglia quiritaria cominciò ad essere mo dellata esclusivamente sul concetto di proprietà, cosicchè le forme dei negozii, proprie del commercium, poterono essere applicate eziandio per acquistare i diritti derivanti dal connubium. Per tal modo la logica del diritto quiritario potè essere applicata in tutto il suo rigore anche all'ordinamento giuridico della famiglia, e venne così ad uscirne quella struttura giuridica della medesima, in cui tutto sembra ridursi ad una questione di mio e di tuo . Quando poi si promulgò la legislazione decemvirale, questa con tinud l'opera già iniziata di estendere anche alla plebe l'ordina mento giuridico della famiglia patriarcale. Essa infatti riconobbe la coabitazione, non interrotta per un anno, come un mezzo, che poteva servire alla plebe per attribuire alle proprie unioni il carattere qui ritario, e rese comune eziandio alla plebe quel sistema di succes sione legittima, che era proprio dell'organizzazione gentilizia. Infine allorchè la legge Canuleia tolse il divieto del connubio fra i due or dini, tutto l'ordinamento giuridico della famiglia patriarcale venne ad essere accolto nel ius proprium civium romanorum, salve al cune poche modificazioni, che erano imposte dalle condizioni, in cui si trovavano le infime classi della plebe. Fu da questo momento, che la famiglia quiritaria venne a costi tuire una costruzione giuridica, organica e coerente in tutte le sue parti, i cui caratteri non potrebbero essere compresi, quando si di menticasse, che la medesima è un rudere dell'organizzazione genti lizia, trapiantato nella città, e svolto logicamente in tutte le con seguenze, di cui poteva essere capace. È certo che un processo di questa natura doveva finire per at tribuire alla famiglia quiritaria un carattere rigido e pressochè inumano, perchè escludeva dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di sentimento e di affetto; ma il medesimo ebbe anche il  Come il censo serviano abbia contribuito ad isolare la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a far considerare ciascuna famiglia, come un gruppo separato e distinto da tutte le altre, fu dimostrato nel libro III, cap. 3 °, e in questo stesso libro, cap. 1 ° e 2°,  1º. Così, ad esempio, la legge decemvirale, pur cercando di estendere anche alla plebe il matrimonio cum manu, fu tuttavia nella necessità di aprire l'adito fin d'allora al matrimonio sine manu, accordando alla donna di sottrarsi al vincolo della manus, mediante l'usurpatio trinoctii, ossia l'interruzione della coabitazione per tre notti di seguito. 520 vantaggio di isolare ciò, che havvi di giuridico nella famiglia, da ogni elemento estraneo, e di sottoporre così all'elaborazione giari dica una istituzione, in cui le considerazioni religiose e morali avrebbero ad ogni istante impedito l'applicazionedella logica propria del diritto (iuris ratio ). Si aggiunga, che questa apparenza, pressochè inumana, non produsse in realtà alcun inconveniente, poichè essa punto non impedi, che il costume temperasse il rigore della costru zione giuridica; che il iudicium de moribus, dalle XII Tavole affi dato al pretore, impedisse al padre la dilapidazione del patrimonio famigliare; che il censore, vindice della morale, punisse in effetto il padre, che abusasse de' proprii poteri; e che infine il diritto stesso intervenisse a moderare i poteri spettanti al capo di famiglia, al lorchè, per il corrompersi dei costumi, cominciò a sentirsi il pericolo, che egli potesse abusare dei medesimi. 404. Intanto una importante conseguenza di questo svolgimento storico fu anche questa, che, siccome nell'organizzazione gentilizia tutto l'ordinamento famigliare metteva capo al concetto del con nubium, cosi anche tutto l'ordinamento giuridico della famiglia qui ritaria sembra essere derivato da quest'unico concetto. Quel connubium infatti, che nei rapporti fra le varie genti aveva significato quella facoltà di imparentarsi, che di regola era circo scritta ai membri delle genti, che appartenevano allo stesso nomen, trasportato nel diritto quiritario, venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium, ossia nel diritto di addivenire alle iustae nuptiae, riconosciute dai quiriti, e di dare così origine ad una fa miglia, organizzata ex iure quiritium, con tutte le conseguenze, che potevano derivarne. Quindi è, che anche la famiglia ex iure  Io parlo ancora qui di una famiglia ex iure quiritium: ma, a scanso di equi voci, devo far notare, che siccome l'organizzazione della famiglia romana non venne ad essere comune ai due ordini del patriziato e della plebe, che dopo la legislazione decemvirale e la legge Canaleia, così l'espressione, solitamente adoperata da Gaio e da Ulpiano relativamente al ius familiae, non è più quella di ius quiritium,ma bensì quella di ius proprium civium romanorum; poichè in quell'epoca il concetto del quirite già si era allargato in quello del civis romanus, e per conseguenza il ius quiritium si era in certo modo travasato nel ius proprium civium romanorum. Di qui consegue che mentre, per quello che si riferisce al ius commercü, i giurecon sulti parlano, ancora sempre del ius quiritium (Gaio, II, 40), trattandosi invece della manus (Id., I, 108 ) e della patria potestas (ID., I, 55 ), parlano invece di un ius proprium civium romanorum. 521 – quiritium, al pari del dominium ex iure quiritium, venne a costituire una famiglia privilegiata, che può giustamente chiamarsi propria civium romanorum, in quanto essa ha certi caratteri, che la contraddistinguono da ogni altra: quali sono la manus delmarito sulla moglie, la patria potestas del padre sui figli, l'agnazione, che stringe i varii membri di essa e che viene a costituire il fonda mento della tutela e della successione legittima. Del resto il concetto, che tutti i diritti di famiglia discendono in sostanza dal connubium, ha eziandio un fondamento nella realtà; perchè è col connubio che viene a costituirsi una nuova famiglia, la quale poi si esplica nella figliuolanza: il qual concetto, trovasi mi rabilmente espresso da Cicerone, allorchè scrive:  prima societas in coniugio, proxima in liberis; deinde una domus, communia omnia . Diqui derivò la conseguenza, che la famiglia quiritaria, pur essendo il frutto di una lunga e lenta elaborazione giuridica, fini in sostanza per modellarsi sulla realtà dei fatti, e per cogliere, per cosi esprimerci, l'essenza giuridica di essi. Essa quindi costi tuisce un tutto organico e coerente in tutte le sue parti, il cui svol. gimento può appunto essere studiato, nei tre momenti essenziali, per cui passa l'organismo famigliare, cioè: lº nella sua origine, ossia nella iustae nuptiae e negli effetti giuridici che derivano da esse; 2 ° nel suo svolgimento, ossia nei rapporti fra il capo di fami glia e le persone che ne dipendono; 3º e da ultimo nel suo disciogliersi per la morte del proprio capo, scioglimento che dà occasione alla successione ed alla tutela legittima, fondate sul vincolo dell’agnazione. 405. Siccome poi in questa parte il diritto delle genti patrizie riuscì a penetrare, pressochè intatto nel diritto civile romano, e ad imporre a tutti i cittadini una organizzazione domestica, che era propria soltanto di una minoranza, e che per giunta era una so pravvivenza di un periodo anteriore di convivenza sociale; cosi, in tema di diritto famigliare, venne a farsi manifesto,meglio che altrove, il conflitto fra le istituzioni, che riuscirono a penetrare nel diritto quiritario, e quelle invece, che continuarono a vivere nel costume. Questo conflitto, che può scorgersi in ogni parte del diritto fami gliare, è sopratutto evidente nella lotta fra il matrimonio cum manu  Cic., De officiis, I, 17, 54. 522 e quello sine manu; in quella fra l'agnazione e la cognazione; e in quella fra la successione e tutela legittima e la successione e tutela testamentaria; e più tardi anche nella lotta fra l'hereditas e la bonorum possessio. Sono queste lotte, che danno interesse allo svolgimento storico delle istituzioni famigliari, spiegano le modifica zioni lente e graduate che si introdussero nelle medesime, e dimo strano come anche in questa parte, alla parte del diritto già formato e consolidato, se ne contrapponga costantemente un'altra, che tro vasi in via di formazione, e che tenta di temperare il rigore delle primitive istituzioni quiritarie. Le iustae nuptiae e la storia primitiva del matrimonio quiritario. 406. Anche nella parte, che si riferisce al matrimonio romano, gli ultimi studii conducono al risultato, che il medesimo, al pari della proprietà e del negozio giuridico, dovette incominciare da un concetto tipico, che è quello del matrimonio cum manu. Non è già che in Roma primitiva non potessero esistere altre forme più umili di matrimonio, sopratutto nelle costumanze della plebe; ma il ius quiritium non si curò dapprima delle medesime, e non riconobbe gli effetti quiritarii, che al matrimonio cum manu. Che anzi vi sono forti indizii per supporre, che l'unica forma solenne, per contrarre il matrimonio quiritario, stata riconosciuta finchè duro la città esclusivamente patrizia, fu quella accompagnata dalla cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale importava fra i coniugi la comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in parte  Questa è la conseguenza, a cui giunse fra gli altri l'Esmein, nel suo scritto: La manus, la paternité et le divorce dans l'ancien droit romain, nei  Mélanges d'histoire du droit , Paris 1886, 6. Una prova poi di quest'antico diritto l'abbiamo in questo, che la moglie, in questo primo periodo, chiamavasi materfami lias, e tale nell'antico diritto era soltanto la moglie, quae in manu 'convenerat. Sono testuali in proposito le affermazioni di CICERONE, Top., il quale scrive:  genus est enim wor; eius duae formae: una matrumfamilias, earum quae in manum convenerunt, altera earum, quae tantummodo uxores habentur . La cosa poi è confermata da Gellio, XVIII, 6, 9, ove dice:  matremfamilias appellatam eam solam, quae in maritimanu mancipioque erat , e da Nonio MARCELLO nel passo riportato dal BRUNS, Fontes, 390. Sopratutto è degno di nota, che l'espres sione di materfamilias è pur quella adoperata nella formola dell'adrogatio, conser vataci dallo stesso Gellio, V, 19, 9. Cfr. in proposito KARLOWA, Formen den rö mischen Ehe und manus, 71, e il Brini, Op. cit., 37. 523 comprovato dalla circostanza, che le leggi regie, ogniqualvolta ac cennano al matrimonio, si riferiscono in modo espresso al matri monio per confarreationem. Così, per esempio, Dionisio attribuisce a Romolo di aver richiamato alla pudicizia le donne romane, rico noscendo questa sola forma di matrimonio, e parla anche di una legge attribuita a Numa, con cui sarebbesi stabilito, che il figlio, il quale fosse addivenuto alle nozze confarreate col consenso del ge nitore, non potesse più essere venduto dal medesimo. Tutto ciò significa, che le genti patrizie, fondatrici della città, presero senz'altro le mosse da una forma di matrimonio, che pree • sisteva nel periodo gentilizio, e che il loro matrimonio continud nella città a celebrarsi con una certa solennità religiosa e patriarcale; come lo dimostrano l'intervento del pontefice e del flamine di Giove, la cerimonia simbolica per cui i coniugi gustano insieme il pane di farro, ed anche la presenza dei dieci testimonii, in cui si vollero ravvisare i rappresentanti delle curie, in cui dividevasi la tribù, a cui appartenevano gli sposi. Non pud poi esservi dubbio intorno al l'altissimo concetto, che queste genti patrizie avevano del matrimonio, il quale, oltre all'essere strettamente monogamo, importava l'unione perpetua de' coniugi, e la comunione fra essi delle cose divine ed umane (divini et humani iuris comunicatio). Che anzi, a questo proposito, sembra pure essere probabile, che questa forma primitiva di matrimonio non potesse dapprima dar luogo al divortium, ma soltanto al repudium, il quale doveva essere accompagnato dalla cerimonia religiosa della diffarreatio, e poteva solo aver luogo nei casi, che erano determinati dal costume e dalla legge. Cosi pure è a questo primitivo concetto del matrimonio presso le genti pa trizie, che deve rannodarsi quel disprezzo per la donna che passi a seconde nozze, di cui trovansi ancora le traccie nel diritto poste riore di Roma (3 ). Ad ogni modo egli è certo, che questa forma di matrimonio, in  Dion., II, 25 e 27. V. sopra lib. II, nº 268, 329 Cid sarebbe attestato da PLUTARCO, nella Vita di Romolo, 22, in un passo, che è riportato dal Bruns, Fontes, 6. Una prova poi, che il matrimonio per confar reationem doveva durare tutta la vita, si rinvien lle attestazioni di Gellio, X, 15, 23, e di Festo, vº Flammeo, dalle quali risulta, che alla moglie del flamine di Giove, le cui nuptiae farreatae erano un ricordo del matrimonio primitivo, non era consentito il divorzio. Cfr. Esmein, Op. cit., 17.  È a consultarsi in proposito il dotto lavoro del DELVECCHIO, Le seconde noeze del coniuge superstite, Firenze 1885, 12 a 15. 524 cui apparisce quel carattere eminentemente religioso, che è proprio delle genti patrizie, non poteva appartenere alla plebe. Per questa il matrimonio dovette avere più un'esistenza di fatto, che una con. sacrazione di diritto, e consistere in una unione fondata sul reci proco consenso, fatta manifesta mediante la coabitazione dei coniugi, piuttosto che con cerimonie di carattere giuridico e religioso ad un tempo. 407. Era frammezzo a queste due istituzioni, di carattere compiu tamente diverso, di cui una era forse importata dall'antico Oriente, mentre l'altra si ispirava alle tendenze spontanee dell'umana natura, che dovette formarsi un diritto comune alle due classi. Questo fu il problema, che dovette risolvere la legislazione decemvirale, e la cui difficoltà era tanto più grande, in quanto è probabile, che le classi più infime della plebe stentassero a comprendere un matri monio, come quello cum manu, che costituiva la moglie in condi zione di figlia del proprio marito. Questo potere del marito, il quale, corretto dal patriarcale costume, conduceva all'unificazione della fa miglia patrizia, poteva invece cambiarsi in un dispotismo pericoloso, allorchè fosse esteso a classi sociali, che non vi fossero preparate da una lunga educazione civile. È questa speciale condizione di cose, che spiega i singolari tem peramenti, che a questo proposito furono adottati dalla legislazione decemvirale. In questa infatti i decemviri, mentre da una parte si studiano di fornire alla plebe un facile mezzo per addivenire allo acquisto della manus, e di dar cosi carattere giuridico al proprio matrimonio, collo stabilire che basti perciò la coabitazione di un anno (usus), dall'altra si trovano nella necessità di aprire l'adito ad un matrimonio sine manu, accordando alla donna il mezzo di sottrarsi alla manus, coll'interrompere la coabitazione per tre notti di seguito (trinoctium ). 408. Colla legislazione decemvirale non sembra essersi andato più oltre nella elaborazione di un diritto comune ai due ordini; poiché  In base all'attestazione di Gaio, I, 111, l'usus, qual mezzo di acquisto della manus, non fu che un'applicazione della teoria dell'usucapione: la donna poi, che avesse voluto sottrarvisi, doveva ogni anno interrompere la coabitazione per tre notti di seguito. Questa parte della legge sarebbe dal Voigt, XII Tafeln, I, 708, assegnata al n° 1', tav. IV, e ricostrutta nei seguenti termini:  si qua nollet in manu mariti convenire, quotannis trinoctio usum interficito . - 525 sussisteva ancora il divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe. Quando invece il divieto fu tolto dalla legge Canuleia, si dovette sentire la necessità di introdurre un modo essenzialmente quiritario per l'acquisto della manus, che poteva essere comune al patriziato ed alla plebe. Fu allora, che si ebbe ricorso a quell'atto per aes et libram, che era la forma solenne propria del negozio quiritario, e si diede cosi origine alla coemptio, quale modo di acquistare la manus. Non potrei quindi ammettere l'opinione, che considera la coemptio, come la forma essenzialmente plebea del matrimonio cum manu, e neppur quella, che ravvisa nella medesima una compra della moglie per parte del marito. La coemptio in Roma non fu che un'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, e venne cosi ad essere un espediente giuridico per esprimere l'acquisto di quel potere del marito sulla moglie, che nel ius quiritium era indicato col vocabolo generico di manus .  La questione della precedenza dei varii modi riconosciuti dal diritto romano per l'acquisto della manus fu assai discussa in questi ultimi tempi. Secondo il Mac LENNAN, Primitive marriage, 2me édit., 1876, 71,avrebbe preceduto l'usus, poscia sarebbesi introdotta la coemptio, e da ultimo sarebbe venuta la confarreatio. Anche secondo il BERNHÖFT, Staat und Recht der römischen Konigszeit, 1882, 187, l'usus sarebbe più antico della coemptio: mentre invece quest'ultima, secondo il Karlowa, Formen der römischen Ehe und manus, 59, avrebbe avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la questione conviene bene intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di contrarre il matrimonio presso le primitive genti italiche, e in allora non ripugna, che anche presso le medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia comprata; o si vuol invece determinare l'ordine, in cui queste varie forme penetrarono nel diritto romano, e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del primitivo diritto romano possano ancora richiamare uno stato ante riore di cose, si può però affermare con certezza, che le varie forme di matrimonio, adottate dal diritto romano, sono già il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica. Quanto all'ordine cronologico, con cui queste varie forme furono accolte, esso non potè essere che il seguente, cioè dapprima fa accolta nel ius proprium civium romanorum la confarreatio dei patres o patricii; poscia fu riconosciuto l'usus di un anno per dar carattere giuridico alle unioni della plebe; da ultimo, quando si comunicarono i connubii, comparve anche la coemptio, la quale fu comune ai due ordini, e come tale finì per avere la prevalenza su tutti gli altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN, Op. cit., 8 e 9.  Non posso quindi accogliere l'opinione sostenuta da molti autori, che la coemptio fosse di origine plebea, e che essa implicasse la compra della moglie per parte del marito. Cfr. SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano; Voigt, XII, Tafeln, II, $ 159; BRINI, Matrimonio e divorzio, 50. La coemptio non fu invece, che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram, e perciò deve ritenersi come una creazione del diritto quiritario, nell'intento di attri 526 Essa quindi, al pari di ogni atto quiritario, componevasi di due parti, cioè: lº dell'atto per aes et libram, compiuto colle solite formalità ed inteso ad esprimere l'acquisto della manus per parte del marito; 20 e della nuncupatio solenne, le cui parole non ci sono perve nute, ma la cui sostanza, secondo Servio e Boezio, consisteva in una reciproca interrogazione, con cui lo sposo interrogava la sposa se volesse assumere a suo riguardo la qualità di madre di famiglia, e questa interrogava lo sposo se volesse assumere quella di padre di famiglia. Ciò intanto ci spiega, come la coemptio, sotto un aspetto, abbia potuto essere descritta da Gaio come una compra fittizia della moglie per parte del marito, e sotto un altro invece colla sua stessa denominazione sembri indicare il reciproco consenso degli sposi nel riconoscersi rispettivamente la qualità di padre e di madre di famiglia (invicem se coemebant). È poi probabile, che, come il vocabolo di coemptio è certamente modellato su quello di confarreatio, cosi anche le parole solenni, che accompagnavano la coemptio, fossero una imitazione di quelle, che erano adoperate nella confarreatio, esclusi però i riti religiosi, che accompagnavano quest'ultima. 409. Questo svolgimento storico deimodi, riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre il matrimonio cum manu, lascia abbastanza buire la manus al marito, e di attribuire carattere giuridico al matrimonio romano. In esso quindi è già scomparsa qualsiasi idea di vendita della figlia, sebbene non sia improbabile, che il vocabolo possa ancora ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie fosse effettivamente comprata. Cfr. MUIRHEAD, Op. cit., 65, e sopratutto l'appendice sulla coemptio in fine al volume, nota B, 441. Che l'essenza della coemptio fosse per dir così simboleggiata in un reciproco acquisto, che facevano i due sposi, non è solo comprovato dal vocabolo, ma è atte stato da Servio, in Aen., IV, 103 (Bruns, pag.402), allorchè dice:  Mulier atque vir inter se quasi coemptionem faciunt; da Nonio MARCELLO, vº nubentes (Bruns); da Isidoro, Orig., $ 24, 26 (Bruns, 407); e sopratutto da Boazio nei commenti alla Top. di Cic., dove, appoggiandosi all'autorità di Ulpiano, dice che il marito e la moglie  sese in coemendo invicem interrogabant  (BRUNS, 399). Solo farebbe eccezione Gaio, I, 113, il quale dice, che nell'atto per aes et libram  is emit mulierem, cuius in manum convenit ; ma la cosa si comprende, quando si tenga conto che la coemptio componevasi di due parti, e quindi se nel l'atto per aes et libram doveva certo figurare come compratore il marito, che acqui stava la manus, nulla impedisce, che nella nuncupatio gli sposi apparissero uguali, e reciprocamente si interrogassero se volessero assumere rispettivamente fra di loro la qualità di pater e di materfamilias, V. in senso contrario BRINI, Op. cit., 51. 527 scorgere il contributo diverso, che vi arrecarono il patriziato e la plebe. Non vi ha dubbio anzitutto, che la confarreatio dovette essere di origine patrizia, come lo dimostrano il suo carattere eminente mente religioso, e l'origine di essa, che rimonta ad un'epoca ante riore all'ammessione della plebe alla cittadinanza romana. Che anzi, egli è probabile, che, anche dopo, la confarreatio abbia continuato ad essere usata di preferenza dalle genti originariamente patrizie, come lo dimostra il fatto, che essa continud a sussistere anche sotto gli imperatori, sopratutto per considerazioni di carattere religioso. Noi sappiamo infatti, che i figli nati da tale matrimonio conserva rono più tardi certi privilegii religiosi, che convengono assai bene ai discendenti dell'antico patriziato. Essi soli infatti erano ammessi a certi sacerdozii; soli potevano figurare in certe cerimonie reli giose, ed erano anche indicati coi nomi speciali di patrimi e di matrimi. Così pure il matrimonio per confarreationem era il solo, a cui potessero addivenire i flamini di Giove, di Marte e di Qui rino, i quali negli inizii dovevano appartenere all'ordine patrizio. Per contro può affermarsi con una certa probabilità, che l'usus, ossia la coabitazione non interrotta per un anno, qual mezzo per fare acquistare la manus, non potè essere che un mezzo per tras formare i matrimonii di fatto, proprii della plebe, in matrimonii di diritto, che come tali erano produttivi della manus. Ciò spiega come l'usus, quanto aimatrimonii, abbia potuto produrre lo stesso effetto dell'usucapio, quanto all'acquisto della proprietà ex iure quiritium, e come i decemviri abbiano applicato la stessa regola in argomenti, che pur erano cosi compiutamente diversi . Da ultimo la coemptio vuol essere considerata come il modo di contrarre il matrimonio cum manu, essenzialmente proprio dei quiriti, e come tale dovette essere introdotto, quando già erano permessi i connubii fra patrizii e plebei, cosicchè essa, fin dalle sue origini, dovette essere comune agli uni ed agli altri. Noi troviamo  Gaio, I, 112. Nel passo già citato di Boezio, in cui egli parla delle varie forme di matrimonio, fondandosi sull'autorità di Ulpiano (Bruns, 399), si dice espressamente che  confarreatio solis pontificibus conveniebat . Cfr. Esmein, Op. cit., 7, nota 1.  La ragione fu questa, che tanto l'usucapio, applicata alle cose, quanto l'usus, qual mezzo per acquistare la manus, si proposero il medesimo'intento, quello cioè di cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto. 528 infatti, che la coemptio viene ad essere la forma dimatrimonio, che incontra maggior favore presso le varie classi dei cittadini; cosicchè, nei rapporti di famiglia, essa sembra compiere quella funzione stessa, che compie la mancipatio nel trasferimento della proprietà quiritaria. Quindi al modo stesso, che accanto alla mancipatio effettiva abbiamo visto svolgersi la mancipatio cum fiducia, così accanto alla coemptio effettiva, che sottoponeva la moglie alla manus del marito, vediamo pure svolgersi quel singolare istituto della coemptio fiduciaria, la quale serve come espediente per sottrarre la donna alla tutela degli agnati, e per metterla in condizione di poter fare testamento. Intanto perd la coemptio dovette avere per effetto di attribuire un carattere essenzialmente civile almatrimonio, che nella confar reatio aveva un carattere eminentemente religioso. Quindi viene ad essere probabile, che colla introduzione di essa anche il matrimonio cum manu abbia cominciato ad essere suscettivo del divorzio, il che non sarebbe consentaneo col carattere religioso della confarreatio. Nella coemptio infatti la manus viene ad essere l'effetto di un con tratto, e perciò può essere risolta nel modo stesso, in cui ebbe ad essere acquistata, cioè mediante la remancipatio . 410. Intanto il carattere e l'origine diversa dei varii modi per contrarre il matrimonio cum manu, pud anche spiegare le sorti  GAIO, I, 114 a 116.  GAIO, I, 115 e 137. Se siammette che il matrimonio primitivo per confarreatio nem non consentisse il divorzio, è un grave problema quello di spiegare, come il mede simo abbia potuto essere introdotto anche nel matrimonio cum manu, e persino essere esteso al matrimonio per confarreationem, il quale doveva però ancor sempre essere accompagnato dalla diffarreatio. V. Festus, pº diffarreatio; Bruns, 336. Alcuni ritengono, che il divortium abbia cominciato a svolgersi nel matrimonio sine manu, e poi da questo siasi anche esteso a quello cum manu (Cfr. Esmein, Op. cit., 23 e segg.); ma non parmi probabile un'imitazione di questa natura. Piuttosto il cambiamento venne a farsi, allorchè, accanto al matrimonio religioso per confar reationem, venne a svolgersi il matrimonio civile per coemptionem. Fa in quella occasione, che al rito religioso sottentrò l'idea del contratto, la quale rese applica bile il divortium, anche al matrimonio cum manu. L'applicabilità poi di questo divortium anche al matrimonio cum manu, e precisamente a quello contratto per coemptionem, parmi che non possa essere posta in dubbio di fronte al passo di Gaio,. I, 137, ove, paragonando la moglie ad una figlia di famiglia, dopo aver detto che la figlia non può costringere il padre ad emanciparla, aggiunge quanto alla moglie:  haec autem (virum ), repudio misso, proinde compellere potest, atque si ei nun quam nupta fuisset . 529 diyerse, che ciascuno di essi ebbe nell'ulteriore svolgimento del diritto civile romano. Noi sappiamo infatti, che l'usus, fra i modi di acquistare la manus, fu il primo a scomparire, poichè secondo Gaio  hoc ius partim legibus sublatum est, partim ipsa desuetudine obliteratum est. Esso infatti era stato un espediente per dar carattere quiritario ai matrimonii della plebe, che prima non l'avevano, e quindi si com prende che le leggi e il costume tendessero ad abolirlo, allorchè, mediante la coemptio, anche la plebe venne ad avere un mezzo di retto per acquistare la manus. La confarreatio invece, colla introduzione della coemptio, venne ad essere più circoscritta nel proprio uso, ma intanto fu quella, che ebbe a perdurare più lungamente; provenisse ciò dalla tenacità con servatrice, che era propria delle genti patrizie, o da considerazioni di carattere religioso. Questo è certo, che Gaio parla della confar reatio, come di cerimonia che era in uso ancora ai suoi tempi; poichè i flamini maggiori e il rex sacrorum dovevano esser nati da nozze confarreate, e non potevano contrarre altrimenti il proprio matrimonio. Noi sappiamo tuttavia da Tacito, che il mantenere questa antica tradizione ebbe talvolta a dar luogo a difficoltà, per trovare le persone, che potessero essere elevate alla dignità di fla mini, il che sarebbe appunto accaduto al tempo di Tiberio, e che le matrone ottennero in quell'occasione dal senato, che il matri monio per confarreationem non dovesse più produrre gli effetti di un tempo, sopratutto quanto ai diritti del marito sui beni della moglie  Infine la coemptio diventò senz'alcun dubbio il modo più frequente per contrarre il matrimonio cum manu, e non scomparve che cessare di questa forma di matrimonio; cessazione, che venne ope randosi verso il finire dell'epoca repubblicana, più nel costume che per opera di legge, stante la prevalenza sempre maggiore, che venne acquistando il matrimonio sine manu (3 ).  Gaio, I, 111.  GAIO, I, 36; Tacito, Ann. IV, 6. (3 ) La laudatio Thuriae scritta dal marito, Q. Lucrezio Vespillone, console nel 735 di Roma, riportata dal BRUNS, dimostra che verso il finire della Repubblica il matrimonio sine manu già cominciava a praticarsi anche nelle grandi famiglie. Tuttavia il fare un elogio speciale di Turia per aver fatto a meno della conventio in manu, a differenza della sua sorella, e per avere, malgrado di ciò, lasciato il suo patrimonio all'amministrazione del marito, dimostra che un fatto (Un autore recente, il Bernhöft, ebbe a considerare l'esten dersi e il prevalere del matrimonio sine manu, come un segno di decadenza del primitivo costume di Roma . A me parrebbe invece, che questa importantissima trasformazione dell'ordinamento giuridico della famiglia romana, debba essere considerata come una conse guenza necessaria dello svolgimento della vita cittadina, che veniva a poco a poco cancellando le vestigia dell'anteriore organizzazione patriarcale. È ovvio infatti lo scorgere, che la manus, mentre era una istituzione confacente all'organizzazione gentilizia, perchè da una parte serviva ad unificare la famiglia, e dall'altra era temperata dal patriarcale costume, trapiantata invece nella città, ove le famiglie vivevano isolate le une dalle altre, poteva essere sorgente di gravi pericoli, sopratutto nelle infime classi della plebe, poichè lasciava la moglie priva di qualsiasi difesa, contro il potere dispotico del proprio marito. Fu questo il motivo, per cui i decemviri, i quali pur miravano, come si è veduto, ad estendere a tutte le classi dei cittadini l'or. ganizzazione patriarcale della famiglia patrizia, si trovarono tuttavia nella necessità di lasciar l'adito aperto ad un matrimonio sine manu, dando alle donne il singolare diritto di interrompere l'usus, collo assentarsi dalla casa maritale per tre notti di seguito. Fu poi una conseguenza di questo provvedimento, che in ogni tempo in Roma, accanto al vero matrimonio ex iure quiritium, venne ad esistere di fatto un matrimonio sine manu, che non producera le conse guenze rigide del matrimonio cum manu. Il diritto civile non si preoccupo dapprima di questa forma più umile di matrimonio, e quindi esso si limitò a svolgersi come un matrimonio di fatto, di fronte al vero matrimonio ex iure quiritium, che era il matri monio cum manu. Giunse però un tempo, in cui lo svolgersi della vita cittadina finì per rendere grave il vincolo della manus, anche per le donne, che appartenevano alle classi sociali più elevate, e fu in allora che il matrimonio sine manu cominciò ad entrare nella pratica comune, e dovette essere preso in considerazione anche dal diritto proprio dei quiriti. Tutto ciò però accadde lentamente e gra datamente, per modo che lo svolgimento del matrimonio sinemanu, simile costituiva ancora a quei tempi una eccezione degna di nota nelle famiglie di condizione elevata. Cfr. De-Rossi, L'elogio funebre di Turia, negli  Studii e do cumenti di storia e diritto . Roma, BERNHöft, Op. cit., 179. Cfr. Voigt, XII Tafeln, di fronte a quello cum manu, presenta una singolare analogia collo svolgersi della proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex iure quiritium. Quindi al modo stesso, che la proprietà in bonis:i venne a poco a poco modellando su quella ex iure quiritium, così anche il matrimonio sine manu venne delineandosi lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo che esso fini per assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico, che ispirava il primitivo matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio cum manu. Quindi è, che nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80 lennità dirette all'acquisto della manus, ma si mantiene la neces sità della deductio della sposa in domum mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la casa del padre per entrare in quella del marito, la quale continua sempre a considerarsi come il domicilium matrimonii. Così pure anche nel matrimonio sinemanu si trasfonde il concetto altissimo del matrimonio cum manu, come lo dimostrano la maritalis affectio, e la perpetua vitae consuetudo, di cui parlano i giureconsulti classici nella definizione del matrimonio, al lorchè era già scomparsa la manus. 412. Cid pero non impedisce, che dalla sostituzione delmatrimonio sine manu a quello cum manu, siano derivati degli importantissimi effetti nell'ordinamento giuridico della famiglia romana, che possono essere cosi riassunti: lº Accanto al concetto della materfamilias, che era in certo modo assorbita nella personalità del capo di famiglia, viene a deli nearsi la figura dell'uxor, la quale, senza essere uguale al marito (vir ), comincia però già ad avere una propria personalità giuridica, distinta da quella del marito; 2 ° La pratica del divorzio viene ad essere più facile, poichè, più non essendovi l'acquisto della manus, più non si dovette richie  Credo che questa analogia fra il processo seguito dai Romani nello svolgere il diritto di famiglia e quello di proprietà non apparirà come puramente fantastica, quando si tenga conto della correlazione evidente fra il concetto dei matrimonii cum manu e sine manu coi concetti del mancipium e del nec mancipium, e più tardi con quelli del dominium ex iure quiritium e di quello in bonis; fra la fun zione, che compie la mancipatio, in tema di proprietà, e quella che compie la coemptio, in tema dimatrimonio; tra la mancipatio cum fiducia e la coemptio fidu ciae causa; e infine la correlazione anche più singolare fra l'usus auctoritas, appli cato all'acquisto dei fondi, e l'usus, applicato all'acquisto della manus sulla moglie. 532 - dere per il divorzio, nè la diffarreatio, nè la remancipatio, ma poté bastare il reciproco consenso del marito e della moglie; 3° Sopratutto poi ebbe ad avverarsi un grave cambiamento nella posizione economica della moglie di fronte al marito. Senza affermare infatti, che l'istituto della dote sia veramente sorto col matrimonio sine manu, questo è certo, che la dote, qual concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio, non potè svolgersi che col matrimonio sine manu; poichè un simile concorso non avrebbe potuto avverarsi di fronte a quell'unificazione potente, che veniva ad essere l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la dote, anche col matrimonio sine manu, abbia cominciato dal di ventare proprietà del marito, e siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o i suoi eredi fossero tenuti a restituirla. Non potrei invece ammettere, che il matrimonio sine manu debba considerarsi come una causa della decadenza della corruzione del costume romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine manu, quale ebbe ad esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale più elevato dello stesso matrimonio cum manu. In questo infatti l'unità della famiglia veniva ad essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la comunione delle cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero accordo e della con fidenza reciproca. Non fu quindi il matrimonio sine manu, che O per  Sonovi autori, che vorrebbero rannodare l'origine dell'istituto della dote al matrimonio sine manu, V. fra gli altri PADELLETT, e Cogliolo, Saggi di evoluzione, 33. A questo proposito conviene intenderci. O per dote si intende cid che la moglie o il padre di lei consegna al marito in occa sione del matrimonio, e la dote in questo senso dovette rimontare anche all'epoca del matrimonio cum manu, come lo dimostra l'esistenza di un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae dotis. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, 486. dote si intende invece l'istituto già svolto, per modo che essa venga ad apparire come il concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio ed attribuisca alla moglie una personalità distinta da quella del marito, e questa non potè svolgersi col ma trimonio sine manu, perchè in quello cum manu lo svolgimento dell'istituto era impedito dall'unificazione potente della famiglia e del suo patrimonio nella persona del proprio capo. Intanto ciò spiega la necessità di apposite stipulazioni, per la resti tuzione della dote, intorno alle quali è da vedersi GELLIO, IV, 3, il quale dice, che la opportunità di esse avrebbe cominciato a sentirsi dopo il divorzio di Spurio Carvilio Ruga, seguito nel 523 dalla fondazione di Roma.  Cfr. in proposito quanto scrive il Labbé nell'articolo intitolato: Du mariage romain et de la manus, nella  Nouvelle Revue historique   corruppe il costume, ma fu piuttosto il costume che abbassò l'altis. simo concetto del matrimonio. $ 3. — Il pater familias e i poteri al medesimo spettanti. 413. Fermo il concetto, che in Roma primitiva la famiglia, sotto il punto di vista giuridico, costituisce un tutto organico, separato da ogni altro ed ordinato sotto il potere del proprio capo, sarà facile il comprendere come la logica quiritaria non scorgesse nella mede sima che un capo, il quale comanda, ed un complesso di persone, le quali debbono obbedire. Da una parte havvi il pater familias, che è l'unica personalità giuridica riconosciuta dal primitivo ius qui ritium: dall'altra sonvi le persone, che dipendono da esso, cioè la moglie, i figli ed i servi, che in antico dovettero tutte essere sot toposte alla medesima manus, e furono perfino indicate col vocabolo generico e comprensivo di familia od anche dimancipium. Il padre è quegli, che è padrone nella casa, che figura nel censo colle persone e cose che da lui dipendono, che risponde di tutti i suoi dipendenti di fronte alla comunanza quiritaria; perciò i diritti, che a lui spet tano sulle persone componenti la famiglia, sono modellati in tutto e per tutto su quelli, che a lui appartengono sul patrimonio della medesima. Ciò tuttavia non deve essere considerato come un indizio, che i romani confondessero il potere sulle persone col potere sulle cose; ma soltanto che essi, nel modellare la costruzione giuridica della famiglia, si collocarono al punto di vista del mio e del tuo, e una volta accolto il medesimo lo spinsero a tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Intanto se nella concezione primitiva era unico il potere spettante al capo di famiglia sulla moglie, sui figli e sui servi, viene pure ad essere probabile, che questo potere sia stato indicato con un unico vocabolo, il quale con tutta verosimiglianza dovette essere quello di manus, la quale designava in genere la potestà giuridica spet tante al quirite. Fu poi nell'elaborazione ulteriore, che in questo  L'autore, che ha recato incontestabilmente il maggior numero di prove per dimostrare, che il vocabolo di manus indicò in genere la potestà giuridica, spettante al capo di famiglia, è certamente il Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80. Cid però non toglie che il vocabolo di manus, pur indicando in senso largo la potestà spettante anche sulle cose, designasse in modo più specifico il potere sulle persone, e fosse così pres sochè un sinonimo di potestas. 534 concetto sintetico e comprensivo cominciò ad apparire una prima distinzione, per cui mentre il vocabolo di manus, pur conservando in qualche caso la sua significazione generica, fini per indicare più specialmente il potere del marito sulla moglie, quello invece di po testas indico di preferenza il potere del padre sui figli e sui servi, e venne cosi a distinguersi in patria ed in dominica potestas. Quanto al vocabolo mancipium, esso non scomparve, ma fini per restringersi ad indicare il complesso delle cose spettanti al capo di famiglia, e qualche volta servi ad indicare il complesso dei servi. Infine, siccome anche le persone libere potevano essere date a mancipio, ed essere poste così transitoriamente in condizione di servitù; cosi dovette pure aggiungersi la categoria giuridica delle persone  quae in mancipii causa sunt  e che come tali  servo rum loco habentur.” Allorchè poi questi aspetti diversi di un unico potere si furono differenziati gli uni dagli altri, ciascuno potè obbedire al proprio concetto ispiratore, e ricevere cosi uno svolgimento storico compiutamente diverso. Di questi poteri, quello, che per il primo ebbe a sostenere un rude conflitto colle esigenze della vita cittadina, fu la manus, ossia il potere del marito sulla moglie. Sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale, la manus appariva disadatta nella città, ove non era più temperata dal patriarcale costume, e convertivasi in un potere dispotico del marito sulla moglie. Se a ciò si aggiunga, che le donne, le quali avevano da sottomettersi alla manus, dovevano prima consentirvi, e avevano per giunta la protezione dei proprii genitori, sarà facile il comprendere come la conventio in manu, dopo essere stata la regola, sia divenuta l'eccezione, finchè fini per cadere com piutamente in disuso. Con ciò non deve già intendersi, che il marito perdesse ogni autorità sulla propria moglie, ma solo che la moglie non fu più assorbita nella personalità del capo di famiglia, ma  Secondo Gaio, I, 52 e 55, il vocabolo di potestas comprenderebbe tanto il potere sui servi, quanto quello sui figli; quello di manus, invece il potere del ma rito sulla moglie (I, 109). Quando esso viene poi a parlare delle personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e segg., comincia dal premettere, che anche i figli e la moglie mancipari possunt nel modo stesso, in cui lo possono i servi: il che dimostre rebbe, che il vocabolo di mancipium,nella sua significazione più larga, comprendeva eziandio tutte le persone soggette alla potestà del padre. Quanto alle persone, quae in causa mancipii sunt, vedi lo stesso Gaio, I, 138. 535 acquistò una certa indipendenza dal proprio marito, sopratutto sotto l'aspetto economico. 415. Così invece non accadde della patria potestas. Questa non ha più bisogno di essere volontariamente accettata, come la manus, ma deve invece essere necessariamente subita, e sotto un certo aspetto può anche apparire come una conseguenza del fatto della nascita. Mancò quindi il principale motivo, che contribuì alla abo lizione della manus del marito sulla moglie: donde la conseguenza, che la patria potestà potè più a lungo conservare nel diritto romano le sue fattezze primitive, e fu quindi un'istituzione, in cui la logica quiritaria ebbe campo a spiegarsi in tutto il suo rigore. Il padre dal punto di vista giuridico si appropria tutti gli acquisti, che siano fatti dai figli; pud vendere ed anche uccidere i proprii figli; può rivendicarli, se gli siano sottratti; può dargli a mancipio, se abbiano recato un danno, che egli non voglia risarcire. È però a notarsi, che anche in questa parte la costruzione giuridica non risponde sempre alla realtà dei fatti; poichè in sostanza i figli si ritengono compro prietarii del padre, nè mostrano di lagnarsi di un potere, a cui il costume reca gli opportuni temperamenti, e che loro non impedisce di aspirare e di giungere agli onori e alle magistrature della città. Anche qui fu il corrompersi dei costumi, che fece sentire il peri colo di un potere illimitato e senza confine, e fu allora, che il di ritto civile romano, pur serbando integro il concetto della patria potestà, venne attribuendo forma e carattere giuridico a quei tem peramenti della medesima, che prima esistevano soltanto nel costume. Fu in questa guisa, che il diritto romano, senza derogare alla supe riorità del padre, fini per riconoscere una certa personalità giuridica anche al figlio, il quale venne così ad avere un proprio caput, e un proprio status nel seno della famiglia, ed introdusse eziandio dei temperamenti, sia quanto alla durata, che quanto agli effetti della patria potestà. 418. Noi troviamo infatti, che, mentre la patria potestà continud a durare per tutta la vita, venne formandosi l'istituto dell'emancipa zione, in cui si assiste ad una singolare trasformazione, per cui il potere, che al padre appartiene, di vendere il proprio figlio, viene a  V. in proposito il precedente $ nella parte relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di quello sine manu, nn. 411 e 412, 530.  Cfr. Voigt, Op. cit., II, SS 93 e 94. 536 convertirsi in un espediente per liberarlo dalla patria potestà. Anche qui abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia dell'atto per aes et libram, salvo che, in base alla letterale interpretazione delle XII Tavole, per l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man cipazioni, mentre, trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice mancipatio. Ed è notabile eziandio, che questa emancipazione, pur attribuendo al figlio una libertà ed indipendenza, che prima non aveva, continua pur sempre ad essere considerata come una capitis diminutio; poichè sotto il punto di vista giuridico, l'emancipato cessa di appartenere a quel gruppo famigliare, da cui esce mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere quello status, che a lui ap parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il rigore del diritto primitivo si spinge fino al punto da escludere l'emancipato dalla successione per legge alla morte del padre, e toccherà poi al diritto pretorio il cercare con mezzi indiretti di ovviare a queste conse guenze, le quali, pur essendo conformi alla logica giuridica, ripu gnano però ai naturali sentimenti ed affetti . Cosi pure, mentre si mantiene sempre il concetto primitivo, che tutti gli acquisti del figlio debbono sotto l'aspetto giuridico essere at tribuiti al padre, si viene a poco a poco attribuendo carattere giu ridico all'istituzione dei peculii. Non può infatti esservi dubbio, che i peculii già dovevano preesistere nel costume, almeno sotto la forma di peculium profecticium, che era quel piccolo patrimonio, di cui il  Gaio, I, 135. Si è molto disputato circa la ragione probabile delle tre man cipazioni, che sono richieste per l'emancipazione del figlio. Alcuni vogliono scorgere in ciò un indizio del più forte vincolo, con cui il figlio intendevasi congiunto al proprio padre. A parer mio, sembra invece molto più probabile, che questa triplice mancipazione richiesta per i figli sia stata, come dice Gaio, I, 132, una conseguenza della letterale interpretazione data alla legge delle XII Tavole, secondo cui  si pater ter filium venum duit, filius a patre liber esto . Per tal modo una disposizione, che era evidentemente introdotta per impedire al padre di abusare della persona del suo figlio,dandolo a mancipio più di tre volte, si cambiò in un mezzo per emanciparlo. Negli altri casi invece, a cui non estendevasi la lettera di questa disposizione, per trattarsi o di una figlia o di un nipote, potè bastare una semplice mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le singolarità di questo genere si possono facilmente spiegare, quando si tenga conto della lette rale osservanza della legge, che era un carattere della primitiva iuris interpretatio. Questa interpretazione del resto trova un appoggio in Dionisio.  Vedi quanto all'emancipatio, in quanto costituisce una capitis diminutio, ciò che si disse al nº 338, 424, nota 4. Aggiungerò tuttavia agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit., II, $ 73, presso il quale occorre una raccolta completa dei passi relativi all'argomento, 27 e 28, note 12, 13, 14. 537 padre concedeva una separata amministrazione al figlio;ma ciò punto non impedi, che essi, solo assai tardi e gradatamente,abbiano ottenuto il loro riconoscimento giuridico. Ed è notabile eziandio l'ordine e il processo, con cui vennesi operando tale riconoscimento, poichè si comincið dall' attribuire al figlio i guadagni, che egli avesse fatti servendo nella milizia (peculium castrense ); poi si assomigliarono ai lucri, da lui fatti in guerra, quelli fatti nell'esercizio delle pro fessioni liberali (peculium quasi castrense); da ultimo si presero in considerazione tutti quegli acquisti, che a lui fossero provenuti dagli ascendenti materni o in qualsiasi altra guisa (bona adventicia ). Intanto, mentre si modellavano così le varie specie di peculii, si introduceva ad un tempo una sapiente ed acconcia graduazione per determinare a queste proposito i diritti, che appartenevano al padre ed al figlio . Questi temperamenti tuttavia non tolgono, che la patria potestà continuasse sempre ad essere il rudere meglio conservato dell'an tica organizzazione della famiglia patriarcale, e quindi non è me raviglia se ad operá compiuta gli stessi giureconsulti fossero colpiti dal carattere particolare della patria potestà del cittadino romano, di fronte alle istituzioni degli altri popoli. 417. L'importanza di questa unificazione della famiglia sotto la patria potestà del padre viene a farsi anche più evidente, quando trattasi di quelle istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in qualche modo al difetto di figliuolanza. Esse sono l'adrogatio, con cui si viene a sottoporre alla patria potestà una persona sui iuris, e la semplice adoptio, con cui un figlio ancora sottoposto alla patria potestà di una persona, viene ad essere costituito sotto la patria potestà di un altra. Le origini dell'una e dell'altra rimontano senza alcun dubbio all'organizzazione della famiglia patriarcale, nella quale  L'antichità del peculium è dimostrata dalla stessa etimologia della parola (a pecudibus). Del resto è facile a comprendersi, che lo stesso accentramento della famiglia nel proprio capo rendeva indispensabile la concessione di un certo peculio, così ai figli che ai servi. Anche qui pertanto il ius civile non creò già l'istituzione; ma la raccolse dalle costumanze, e diede alla medesima configurazione giuridica. Quanto all'ordine, con cui furono accolte le diverse forme di peculia, cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pagg. 344 e 347; il PADELLETTI, Storia del dir. rom., ediz. Cogliolo, 187, nota 4; SERAFINI, Istituzioni di diritto romano. Sono poi degne di nota, quanto all'istituzione dei peculii, le osservazioni del SumnER MAINE, L'ancien droit, 134. 538 si proponevano l'intento importantissimo di perpetuare la famiglia ed il suo culto. Quella perd fra esse, che produceva più gravi ef fetti, al punto di vista gentilizio, era certamente l'adrogatio, come quella che sopprimeva in certo modo una famiglia ed il suo culto, per rendere possibile la perpetuazione di un'altra. Essa quindi, nella comunanza gentilizia, dovette probabilmente essere compiuta coll'approvazione dei capi di famiglia, o degli anziani del villaggio; donde la conseguenza, che quando fu poi trasportata nella città, essa fu uno di quegli atti solenni, che, al pari del testamento, dovevano es sere compiuti in calatis comitiis, coll'intervento dei pontefici, i quali dovevano vegliare al mantenimento dei culti pubblici e privati, e colle forme di una vera e propria legge. L'adoptio invece, riferen dosi a persona, che era ancora soggetta alla patria potestà, suppo neva da una parte la rinunzia del padre al proprio potere, il che facevasi col mezzo della mancipatio, applicando al solito l'atto per aes et libram, e dall'altra la sottomissione del figlio alla patria po testà dell'adottante, il che compievasi davanti al magistrato, me diante quella finta rivendicazione ed aggiudicazione, che costituiva l'in iure cessio. 418. Intanto qui viene ad essere evidente, che, siccome trattavasi di istituzioni di origine esclusivamente patrizia, perchè era sopratutto nella famiglia patrizia, che era viva ed efficace l'aspirazione a per petuare se stessa ed il proprio culto, cosi lo svolgimento storico di queste istituzioninon ritiene le traccie di un contributo diretto, che possa avervi recato la plebe. Le forme infatti, che le accompagnano, o sono di origine patrizia, come quella relativa all'adrogatio, o sono invece una elaborazione giuridica del diritto quiritario, comequelle che circondano l'adoptio, senza che trovinsi le traccie di un modo di adozione, che possa essere di origine plebea. Ciò però non tolse, che anche l'arrogazione e l'adozione abbiano finito per diventare una istituzione comune a tutti gli ordini sociali; ma intanto a misura che ciò accade, esse perdono sempre più il loro carattere gentilizio, finchè finiscono per informarsi ad un con cetto ispiratore compiutamente diverso. Esse infatti col tempo ces  Questo effetto dell'adrogatio è efficacemente espresso da PAPIN., Leg. 11,  2, Dig.:  dando se in arrogando testator cum capite fortunas quoque suas in familiam et domum alienam transfert . Quanto alle origini dell'adrogatio nel pe riodo gentilizio, vedi lib. I, n° 25, 31. Le differenze poi fra l'adrogatio e l'a doptio sono sopratutto poste in evidenza da Gellio, V, 19. 539 sano dall'essere un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto; ma si limitano allo scopo di procurare le gioie della figliuolanza a coloro che siano privi della medesima, per guisa che in contrad dizione col diritto primitivo, anche le donne poterono adottare ed essere adottate. Così pure queste istituzioni, che negli inizii stacca vano affatto una persona dalla sua famiglia, per trasportarla in un'altra, finirono per modificarsi in guisa da contemperare i diritti della famiglia naturale con quelli della famiglia adottiva. 419. Rimane ora a dire brevemente del potere del padre di fa miglia sui servi. Anche qui non pud esservi dubbio, che la servitù rimonta al periodo gentilizio, e che essa non dovette essere propria delle genti italiche, ma comune a tutte le genti; come lo dimostra il fatto, che i Romani non riguardarono mai la servitù come istitu zione loro propria, ma comeuna istituzione del diritto delle genti . La medesima sotto un certo aspetto era un compimento necessario della famiglia patriarcale: perchè senza di essa questa non avrebbe potuto costituire un gruppo, che potesse bastare a se stesso. È quindi naturale, che quando il capo di famiglia entrò a parte cipare alla comunanza quiritaria, esso comparisse nella medesima non solo colla moglie e colla figliuolanza, ma anche coi servi, i quali vennero ad essere compresi nel suo mancipium, e costituirono così una parte integrante della famiglia romana (3 ). Per tal modo i servi diventarono in Roma gli strumenti intelligenti del cittadino romano, il quale potè valersi di essi per esercitare qualsiasi ne gozio o commercio, senza derogare alla sua dignità, ed anche per evitare ai proprii figli l'ignominia di una eredità passiva, chia mandoli anche loro malgrado a succedergli, in qualità di heredes necessarii. Si comprende quindi, che al punto di vista giuri dico i servi fossero considerati come cose, anzichè come persone, e che il potere del padrone sopra di essi apparisse illimitato e senza confine. Tuttavia, anche qui la famigliarità dei rapporti fra il pa drone ed i servi, l'intimità di vita, che eravi talora tra i figliuoli  Quanto all'ultimo stadio del diritto civile romano nello svolgimento dell'ado zione, vedi Justin., Instit. II, XI.  Fra gli altri Gaio, I, 52, dichiara espressamente, che la potestas sui servi iuris gentium est. (3 ) Come i servi costituissero una parte integrante della famiglia risulta ad evi. denza dai passi raccolti dal Voigt, XII Tafeln, II, 12 e segg., e note relative. (4 ) GAIO, II, 152; ULP., Fragm. XXII, 11 e 24. 540 - dell'uno e quelli degli altri, l'abnegazione frequente dei servi per il loro padrone, e la necessità stessa, in cui fu la legge di porre dei limiti alla facoltà di manomettere i proprii servi, sono circo stanze che dimostrano, come anche la condizione effettiva dei servi, sopratutto nei primi tempi di Roma, non corrisponda in ogni parte alla severità, con cui essa ebbe ad essere governata sotto l'aspetto giuridico. 420. In ogni caso è cosa fuori di ogni dubbio, che la condizione dei servi ebbe a subire ancor essa una trasformazione profonda nel pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Giuridicamente parlando, il potere del padrone appare forse più rigido nella città, che non nel periodo gentilizio; ma in essa il servo ha il vantaggio di poter essere fatto libero, e di essere così elevato alla dignità di cittadino. Mentre dapprima il servo manomesso do veva, per la stessa necessità delle cose, cercare protezione e tutela nel gruppo, a cui apparteneva, e quindi col cessare di esser servo doveva trasformarsi in cliente: nella città invece, sopratutto dopo Servio Tullio, a cui si attribuisce di aver attribuita la cittadinanza ai servi affrancati, il servo manomesso venne ad essere sotto la protezione della pubblica autorità, e potè colla libertà acquistare anche la cittadinanza. Colla manomissione pertanto viene a verifi carsi la più profonda trasformazione nello stato giuridico, di cui ci porga esempio il diritto civile romano. Con essa il servo, che era considerato come una cosa, viene a trasformarsi in una persona, e colui, che non aveva nė libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella famiglia, viene ad acquistare tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le traccie dell'antico stato di cose nella istituzione del patronato, la quale deve perciò essere considerata come una soprav vivenza dell'organizzazione gentilizia. Malgrado di ciò, questa impor tantissima trasformazione nello stato di una persona viene dapprima ad essere rimessa intieramente all'arbitrio del quirite, il quale può manomettere i proprii servi vindicta, censu, testamento, ed ha cosi potestà di accrescere indefinitamente il numero dei cittadini romani.  Nota giustamente l'HÖLDER, Istituz., $ 42, 117, che il servo, ancorchè sia considerato come una cosa, non perde però la sua qualità d'uomo, poichè gli si ri conoscono le facoltà, che lo distinguevano come uomo, prima dell'altrui dominio. È questo il motivo, per cui il potere sullo schiavo chiamavasi potestas, e gli atti acqui. sitivi da lui compiuti erano stati validi, come se fossero stati compiuti dal suo padrone. 541 Anche qui fu solo più tardi, che l'esercizio illimitato di questa po testà privata sembrò essere in conflitto colle esigenze del pubblico interesse, e allora, mentre da una parte si cercd di assicurare i di ritti del patrono sull'eredità dei liberti, dall'altra si cerco di met tere dei confini alla manomissione dei servi, il che si ottenne in parte coll'introdurre gradazioni diverse nella libertà, che era accor data ai servi. Fu in questa guisa, che al concetto di un'unica libertà i giureconsulti, interpretando le leggi Aelia Sentia e Junia Norbana, sostituirono le categorie diverse dei latini, dei latini iu niani, e dei dediticii, la cui libertà può essere migliore o peggiore, secondo che essa lasci più facile l'adito alla cittadinanza romana:  pessima itaque, conchiude Gaio, eorum libertas est, qui dediti ciorum numero sunt, nam ulla lege, aut senatus consulto, aut con stitutione principali aditus illis ad civitatem romanam datur  . 421. Da ultimo anche le persone libere, quae in causa mancipii erant,dovettero pur esse avere un posto in questa costruzione giuridica della famiglia romana, il che si ottenne collocandole nella posizione di servi (servorum loco habentur), per tutto quel tempo per cui erano date a mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi hanno cura di notare, che la concezione giuridica non deve in questa parte essere confusa colla realtà, come lo prova questa notevole proposizione di Gaio:  admonendi sumus, adversus eos, quos in mancipio ha bemus, nihil nobis contumeliose facere licere; alioquin iniuria rum actione tenebimur: ac ne diu quidem in eo iure detinentur homines, sed plerumque hoc fit dicis gratia, uno mo mento, nisi scilicet ex noxali causa mancipentur. Con ciò parmi di aver abbastanza dimostrato, che la rigidezza, con cui fu modellata nel diritto civile di Roma la potestà spettante al capo di famiglia, trova la sua causa in ciò, che i Romani, anche in  È notabile a questo riguardo, che il più antico diritto di Roma, come lasciava al cittadino piena libertà dimanomettere i propri servi, così, in omaggio sempre alla libertà del testatore,non aveva tutelato in nessun modo le ragioni del patrono contro il testamento del liberto. Ciò viene attestato da Gaio, III, 40, 41, il quale, dopo aver detto, che  olim licebat liberto patronum suum impune in testamento prae terire  aggiunge poi che il diritto pretorio e poscia la legge Papia Poppea avevano cercato di riparare a questa iuris iniquitas.  Gaio, 1, 26; Ulp., Fragm., I, 5. (3 ) Gaio questa parte, trasportarono nella città il potere del capo di famiglia patriarcale; lo isolarono dall'ambiente, in cui erasi formato e da ogni elemento estraneo al diritto; e riuscirono così a dare una configu razione prettamente giuridica, ad un potere, che in realtà conti nuava poi a trovare molti temperamenti nel costume e nella morale. Questi caratteri della famiglia romana trovano poi una conferma nel modo, in cui era governata la successione legittima, nel primi tivo diritto di Roma. La successione e la tutela legittima nel primitivo ius quiritium. L'ordinamento giuridico della famiglia primitiva in Roma presenta eziandio questa singolarità, che mentre, vivo il padre, tutto sembra unificarsi in lui, mancando invece il medesimo, senza aver disposto delle proprie cose per testamento (si intestato moritur), ricompare una specie di comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono dalla sua patria potestà. Queste persone infatti son chia mate a succedergli come heredes sui; non possono respingerne la eredità (heredes sui et necessarii); che anzi, senza bisogno di una vera e propria accettazione, sembrano essere direttamente investite dalla legge stessa di quel patrimonio famigliare, di cui già prima apparivano comproprietarie:  sui quidem heredes, dice Gaio, ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo domini existimantur . Molti autori combatterono il concetto di questa comproprietà fa migliare, dicendola in contraddizione colla unificazione potente della famiglia romana nella persona del proprio capo. A nostro avviso invece questa specie di comproprietà, che i giureconsulti pongono a fondamento della successione degli heredes sui, può essere facil mente spiegata e conciliata coll'unità potente della famiglia romana,  GAIO, II, 157.  Fra gli autori, che combattono questa comproprietà famigliare, mi limiterò a citare il PADELLETTI, Op. cit., 201, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione nel di ritto privato, 108 e segg.; il quale, a 111, in nota, fa pure un elenco degli autori, che tengono per l'una o per l'altra opinione. Fra quelli, che ammettono questa comproprietà famigliare, vuolsi aggiungere il DUBOIS, La saisine héréditaire en droit romain, Paris, 1880, 63, e il CARPENTIER, Essai sur l'origine et l'étendue de la règle: nemo pro parte testatus, pro parte intestatus decedere potest, nella  Nouvelle Revue historique  quando si ritenga che la famiglia quiritaria non è in sostanza, che la stessa famiglia patriarcale, trasportata nella città, ed isolata dal l'ambiente gentilizio, in cui erasi formata. La famiglia patriarcale infatti riuniva appunto due caratteri, pressochè opposti fra di loro; quello cioè di apparire da una parte unificata nella persona del padre, il che la rendeva unita e compatta per la lotta, che doveva sostenere cogli altri gruppi, da cui era circondata; e quello di sup porre dall'altra un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche, il che produceva un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a costituirla. In questo senso potevasi dire di essa con Cicerone:  una domus, communia omnia . Questa solidarietà e compro prietà fra i membri del medesimo gruppo famigliare viene ad essere dimostrata dai seguenti indizii: che il primitivo heredium era di sua natura trasmessibile di padre in figlio; che il padre trovava un ostacolo alla dilapidazione del patrimonio famigliare, nel iudicium de moribus per parte del consiglio degli anziani della gens; che il padre infine non poteva disporre delle proprie cose per testamento, nè scegliersi un figlio adottivo senza l'approvazione degli altri capi di famiglia, che appartenevano alla sua gente o tribù. Vero è, che tutti questi temperamenti del potere patriarcale del capo di famiglia sembrano scomparire, quando, col formarsi della città, la famiglia venne ad essere staccata dal gruppo patriarcale, di cui entrava a far parte, e il capo di essa apparve così investito di un potere illimitato e senza confini; ma ciò deve essere considerato come un effetto di quella elaborazione giuridica, che tendeva ad uni ficare la famiglia nella persona del proprio capo. Era quindinatu rale, che, quando questa unificazione non era più possibile per la mancanza del capo, risorgesse la primitiva comproprietà famigliare fra le persone libere, che appartenevano allo stesso gruppo. Che anzi la stessa unificazione potente del gruppo nel proprio capo do veva determinare una specie di comunione fra i membri del gruppo, e condurre così alla conseguenza giuridica, che in questo caso non si avverasse una vera successione, ma il dominio del padre conti nuasse in certo modo nella persona dei figli; conseguenza, che ebbe ad essere mirabilmente espressa dal giureconsulto Paolo: in suis heredibus evidentius apparet continuationem dominii eo rem per ducere, ut nulla videatur hereditas fuisse, quasi olim hi domini  Ho cercato di dimostrare questi caratteri della proprietà famigliare nel pe riodo gentilizio nel lib. I, cap. 4,  3º, sopratutto 70. 544 essent, qui, vivo etiam patre, quodammodo domini existimantur. Itaque post mortem patris non hereditatem percipere videntur, sed magis liberam bonorum administrationem consequuntur. Fu in questa guisa, che la famiglia primitiva potè perpetuarsi nelle generazioni, e cambiarsi in un organismo immortale e perpetuo, poichè i figli apparivano come i continuatori della personalità del padre, e al modo stesso, che dovevano perpetuare il culto domestico, così dovevano raccoglierne, anche loro malgrado, l'eredità. 423. Nè si può ammettere, che questa specie di comproprietà, a cui accennano i giureconsulti, sia un concetto penetrato più tardi nella classica giurisprudenza, per spiegare il passaggio del patrimonio famigliare dal padre nei figli : poichè questo intimo rapporto fra l'hereditas ed i sacra, è certo un concetto, che rimonta all'an tichissimo diritto, come pure è a questo, che deve farsi risalire quella posizione del tutto speciale, che gli heredes sui assumono di fronte agli altri ordini di eredi. Questa distinzione infatti già doveva esistere nella universale coscienza, all'epoca della legislazione decem virale. In questa infatti non si fa menzione espressa della succes sione dell'heres suus, ma solo vi si accenna come a cosa, che na turalmente accade, e che quasi non abbisogna di speciale menzione; mentre è solo per il caso, in cui non siavi un heres suus, che le XII Tavole determinano l'ordine della successione per legge, chia mando alla medesima prima l’agnatus proximus, e in mancanza del medesimo i gentiles:  si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto; si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento . Che anzi a questo proposito parmi di poter con fondamento inol trare la congettura, che in occasione della legislazione decemvirale le genti patrizie cercarono di trasportare nel ius proprium civium  PAOLO, Leg. 11, Dig. X (28-2). V. nel CARPENTIER, Op. e loc. cit., una rac colta di testi che confermano questa comproprietà famigliare.  Tale sarebbe l'opinione del PADELLETTI, Op. cit., 201. (3 ) Queste due disposizioni delle XII Tavole, secondo il Voigt, Op. cit., I, 704, sarebbero la 2a e la 3a legge della Tav. IV. A questo proposito poi il Voigt, Op. cit., II, 387, sembra ritenere, che esistesse una comproprietà di fatto, ma non di diritto. Convien però ammettere, che tale comproprietà producesse, dopo la morte del padre, delle vere conseguenze di diritto, dal momento che faceva considerare gli heredes sui, come continuatori della personalità del padre, e li metteva anzi nella impossibilità di rinunziarvi. Vedi Gaio, I, 157. - 545 romanorum, e di rendere così comune a tutte le classi quel sistema di successione ab intestato, che doveva già esistere nel loro costume durante il periodo gentilizio. Noi sappiamo infatti dagli stessi giu reconsulti, che colle XII Tavole soltanto ebbe ad essere introdotto il sistema di successione legittima, e ne abbiamo anche una prova nella circostanza, che fu perfino introdotto un ordine di eredi le gittimi, che era quello dei gentiles, il quale non poteva certo appar tenere alla plebe, dal momento che questa non possedeva le gentes. Per tal modo il patriziato, che già aveva trasportata nella comu nanza quiritaria la propria organizzazione domestica, riusci eziandio a farvi penetrare il proprio sistema di successione. Di qui la con seguenza, che anche il sistema successorio dei romani deve essere considerato come una sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale della famiglia patrizia; come lo dimostra la circostanza, che esso fondasi esclusivamente sull'agnazione, non tiene alcun conto della cognazione, e si propone come scopo esclusivo di perpetuare il pa trimonio nella famiglia agnatizia, e di farlo ritornare alla gente, al lorchè siasi estinta la famiglia. Per tal modo, in base alla legislazione decemvirale, noi veniamo a trovarci di fronte a tre ordini di eredi, che sono: lº gli heredes sui, nei quali si comprendono la moglie, i figli cosi maschi come femmine e gli altri discendenti nella linea maschile, tutte le per sone insomma, che erano soggette alla patria potestà del capo di famiglia; 2 ° gli agnati, cioè tutti coloro, che discendono per la linea maschile da un comune autore, alla cui potestà sarebbero stati sog getti, quando non fosse premorto; 3º e da ultimo i gentiles, ossia tutti coloro, i quali, più non essendo compresi nella familia omnium agnatorum, hanno però comune la discendenza da un medesimo  Che la successione e la tutela legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole, mentre queste non avrebbero fatto altro, che confermare le successioni testa mentarie, è cosa a più riprese affermata da ULPIANO, Fragm. XI, 3, e XXVII, 5. Di qui ilMuirhead avrebbe perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di pianta l'ordine degli agnati, come tutori e successori legittimi. Ho già dimostrato più sopra, 39, nota 1", che questa opinione non può essere accettata, perchè l'ordine degli agnati già esisteva nell'organizzazione gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a fondamento della medesima; ma intanto questa sua opinione può essere accolta, quando sia intesa nel senso, che i decemviri colle XII Tavole estesero anche alla plebe quel sistema di successione legittima, che le consuetudini avevano già svolta presso le genti patrizie. C., Le origini del diritto di Roma. antenato, e come tali hanno ancora ilmedesimo nome e appartengono alla stessa gente. 424. È poi degno di nota il modo diverso, con cui questi varii ordini di eredi sono chiamati a succedere. Finchè trattavasi di heredes sui, essi, essendo soggetti alla patria potestà della stessa persona, e come tali appartenendo almedesimo gruppo, venivano in certo modo ad essere eredi di se stessi; esclu devano gli emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi entrate in un'altra famiglia, tutti coloro insomma, che erano già usciti dal gruppo; non abbisognavano di vera accettazione dell'eredità, ma suc cedevano anche loro malgrado (heredes sui et necessarii): non potevano essere spogliati dell'eredità mediante l'usucapio pro he rede; infine succedevano per stirpe, ossia per rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva i figli rappresen tano il padre. Quando trattavasi invece di agnati, il patrimonio doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro: quindi la legge, per impedirne la suddivisione soverchia, si limitava a devolverlo allo agnatus proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere considerato come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non appartiene al gruppo famigliare nello stretto senso della parola. Egli quindi ha già facoltà di accettare o di respingere l'eredità, e può vedersi usucapita l'eredità da altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse poi l'opinione, che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla successione per stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano è solo nei limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i rappresentanti dei loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti gli altri agnati, e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità, questa viene ad essere devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles .  Gaio, III, 1 a 8; Ulp., Fragm., XXIV, 1 a 3.  GAIB, III, 9 a 15, Ulp., Fragm., XXIV, 1. L'enumerazione, che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati, confermano il concetto, che ho svolto nel lib. I, 38 e 39, secondo cui la cerchia degli agnati sarebbe stata determinata da quella in divisione di patrimonio, che, morto il padre, mantenevasi fra i fratelli e i loro di scendenti per la linea maschile. Questo gruppo continuava in certo modo l'unità indivisa della famiglia, e costituiva quella famiglia più grande, che fu chiamata 547 Qui però l'espressione della legge cambia, in quanto che essa dice senz'altro:  si agnatus proximus nec escit, gentiles familiam habento ; il che fa ritenere, che i gentili non fossero chiamati a succedere come individui, ma in quanto costituivano l'ente collet tivo della gens, cosicchè l'eredità sarebbe in certo modo ritornata alla gente considerata nella propria universalità, e sarebbe così ve nuta a ricadere in quell'ager gentilicius, da cui si erano staccati i primitivi heredia delle singole famiglie. Era sopratutto in questa parte, che erasi cercato di mantenere viva nella città l'antica orga nizzazione gentilizia: ma l'istituzione non potè mantenersi a lungo come lo dimostra Gaio, il quale parla di questo ius gentilicium, come di cosa andata da lungo tempo in disuso. Non ha poi bisogno di essere dimostrato, che questo sistema di successione per legge, desunto dall'antica organizzazione gentilizia, trovava il proprio compimento nella disposizione, per cui la succes sione del cliente o del liberto, che fosse morto senza testamento o senza eredi suoi, veniva dalla legge ad essere devoluta al patrono, od ai figli di lui, od infine alla gente del patrono:  si cliens in testato moritur, cui suus heres nec escit, pecunia ex eius fa milia in patroni familiam redito . omnium agnatorum. Quando poi venne meno quest' indivisione del patrimonio, si chiamarono agnati tutti coloro, che sarebbero stati soggetti alla patria potestà, quando il padre non fosse premorto. Fra essi ULPIANO, loc. cit., comprende anzitutto quelli, che egli chiama i consanguinei,  id est fratres et sorores ex eodem patre ; poscia, quando questi manchino, gli altri agnati prossimi  id est cognatos virilis sexus, per mares discendentes, eiusdem familiae,  Gaio, III, 17; UlP., Fragm., XXIV, 1. Noi abbiamo tuttavia CICERONE, De orat., I, il quale accenna ad una causa di eredità, dibattutasi davanti ai Centum viri fra i Claudii patrizii ed i Marcelli discendenti da un loro liberto, in cui dice che gli oratori delle parti dovettero occuparsi  de toto stirpis ac gentilitatis iure . Sembra tuttavia, che anche all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le cause di questo genere.  Ulp., L. 195,  1, Dig. Nella ricostruzione del Voigt, I, 705, questa legge sarebbe la 4a della Tavola IV. Vedi ciò che dice lo stesso Voigt, II, 392 e 393, quanto alla successione del patrono al liberto. Anche quanto alla successione del liberto si manifesta una specie di antagonismo fra la successione testamentaria e la legittima; poichè,mentre nella prima il liberto poteva nei primi tempi (V. Gaio, III, 40-41) dimenticare impunemente il suo patrono, la seconda invece, introdotta eziandio dalle XII Tavole, tendeva a richiamare il patrimonio del liberto alla famiglia del patrono, quando il primo fosse morto senza eredi suoi. 548 425. Per contro è assai degno di nota, che, unitamente al sistema della successione legittima, dalla legislazione decemvirale fu eziandio introdotto il sistema della tutela legittima. Di cid abbiamo l'espressa attestazione dei giureconsulti : ma la prova più convincente vuolsi riporre nella circostanza, che il sistema della tutela legittima, quale ebbe ad essere regolato dalle XII Tavole, é coordinato con quello della successione legittima, ed obbedisce al medesimo concetto ispi ratore. Per giustificare la cosa i giureconsulti più tardi misero in nanzi la considerazione, che l'onere della tutela doveva cadere su coloro, che avevano il vantaggio della successione:  ubi emolu mentum successionis, ibi onus tutelae ; ma la causa storica deveessere cercata nel fatto, che tanto la tutela, che la successione le gittima si informano ancora ai concetti dell'organizzazione genti lizia, da cui furono desunte, e come tali mirano a conservare il patrimonio prima alla famiglia agnatizia e pos cia alla gente. Viene così a comprendersi, come nel sistema primitivo la tutela degli im puberi ed anche la cura dei prodighi e dei furiosi, fosse affidata agli agnati ed ai gentili; come le donne, anche perfectae aetatis, cadessero sotto la tutela degli agnati; come infine le res mancipii, spettanti alle medesime e ai pupilli, non potessero essere usucapite, quando non si fossero alienate col consenso del tutore. Così pure viene a spiegarsi quel singolare carattere della tutela primitiva del l'impubere, la quale mira piuttosto alla conservazione del patrimonio, che non alla educazione della persona, la cui cura soleva essere lasciata alla madre ed agli altri congiunti, i quali si ispiravano di preferenza all'affetto del sangue, che all'interesse gentilizio di ser bare integro il patrimonio famigliare. Chi tuttavia riguardi al posteriore svolgimento del diritto civile romano, può facilmente inferirne, che tanto il sistema della successione, quanto quello della tutela legittima, non trovarono mai favorevole svolgimento nella opinione comune della cittadinanza ro mana. Conformi al modo di pensare di quella minoranza patrizia, che si atteneva strettamente alle tradizioni gentilizie, esse invece ripugnavano al modo di sentire delle altre classi, i cui rapporti di  Ulp., Fragm. È da vedersi, quanto alla tutela legittima e ai suoi caratteri peculiari, il Pa DELLETTI, Op. cit., 188 e le note relative. 549 famiglia si ispiravano di preferenza al vincolo naturale del sangue e della cognazione. A misura poi, che le traccie dell'organizzazione gentilizia si venivano dissolvendo sotto l'influenza della vita citta dina, questo sistema di successione e di tutela apparve disadatto a quei magistrati stessi, che dovevano applicarlo. È questo il motivo, per cui Gaio a questo proposito non parla solo di sottigliezze del l'antico diritto, ma di vere iuris iniquitates; alle quali cercò poi di riparare il diritto pretorio, introducendo, accanto alla successione legittima, una successione pretoria, e creando, accanto ai tutores legitimi, i tutores Atiliani o dativi. Fu pur questo il motivo, per cui i giureconsulti mal potevano spiegarsi la tutela perpetua, a cui le donne erano sottoposte nell'antico diritto, e vennero creando essi stessi degli espedienti giuridici, quale fu quello veramente ca ratteristico della coemptio cum fiducia, per liberarle da una tutela, le cui ragioni dovevano forse essere cercate in un periodo anteriore di organizzazione sociale. In ogni caso poi una prova di questa generale condanna del si stema di successione e di tutela legittima può scorgersi eziandio nel largo sviluppo che presero in Roma la successione e la tutela testamentaria, e nell'antagonismo che sembra esistervi fra le due maniere di successione. $ 5. – Rapporti fra la successione legittima e la testamentaria nel diritto primitivo di Roma. 427. È noto che in Roma la successione legittima e la testamen taria non poterono mai fondersi insieme, e si mantennero anzi in una specie di antagonismo fra di loro. Ciò è dichiarato espressa mente dal giureconsulto, che scorge nelle due istituzioni un natu  Fra i giureconsulti, che non sanno darsi ragione della tutela perpetua, a cui le donne erano sottoposte, abbiamo Gaio, I, 190. È tuttavia a notarsi, che egli, più sotto, I, 192, finisce per indicare la vera ragione, per cui anche le donne erano sot toposte alla tutela dei loro agnati; la quale consiste in ciò, che siccome gli agnati erano chiamati a succedere alle donne, che morissero ab intestato, così essi avevano interesse a che esse, senza il loro consenso, non potessero fare testamento, nè alienare le cose più preziose, che entravano a costituire il patrimonio. Per tal modo la tutela degli agnati ebbe lo scopo stesso della loro successione legittima, quello cioè di conservare il patrimonio nella famiglia agnatizia; il qual concetto è per certo uno di quelli, le cui origini debbono essere cercate nel periodo gentilizio. 550 rale conflitto; è confermato dalla massima: nemo paganus partim testatus, partim intestatus decedere potest; ed è provato eziandio da quella specie di ripugnanza, che avevano i Romani a morire senza testamento: ripugnanza, che si spinse fino a tale da ritenere pressochè disonorato chi morisse senza testamento. Il fatto può quindi essere affermato con certezza; ma è tanto più ardua la spie gazione di esso, come lo dimostra la varietà grandissima di opinioni e di congetture, che furono emesse in proposito . Credo tuttavia, che anche in questa parte possa condurci a qualche conclusione, forse nuova, lo studio delle origini del ius quiritium. Questo studio infatti ci pone in grado di affermare, che la succes sione legittima ed il testamento hanno avuto una origine e uno svolgimento compiutamente diversi nel primitivo ius quiritium. Mentre la successione e la tutela legittima, le quali soltanto colle XII Tavole entrarono a far parte del diritto comune, sono istitu zioni di origine prettamente gentilizia, ispirate al concetto di ser  L'origine storica della massima  nemo paganus, ecc.  è una questione, che è lungi dall'essere risolta, malgrado la ricchissima letteratura, di cui fu argomento. Fra autori, che la esaminarono di recente, citero soltanto il RUGGERI, nei Documenti di storia e di diritto; il CARPENTIER, nella Nouvelle Revue historique, 1886, 449 a 474; il Padel LETTI, La istituzione di erede ex re certa ( Archivio giuridico). Anche l'ESMEIN, La manus, la paternité, ecc., 4, nota 10. accenno di passaggio ad una spiegazione di questa massima, dicendo che la medesima proveniva da che il patrimonio si trasmetteva come l'accessorio di un culto, e che siccome di un culto non si poteva disporre per una parte soltanto, così non si poteva neppure lasciare un'eredità parte per testamento e parte per legge. Parmi che questa non possa an cora essere la risoluzione definitiva: poichè se un culto poteva dividersi fra più eredi legittimi, non vi può essere ragione, per cui non si potesse anche dividere fra eredi legittimi e testamentarii. Il CARPENTIER poi, nel suo dotto lavoro sopra citato, verrebbe alla conseguenza, che questa massima fosse una conseguenza logica del concetto romano, per cui tanto la successione legittima, quanto la testamentaria, do vevano comprendere l'intiero patrimonio; ma anche qui si potrebbe sempre dire, che quest'universum ius, come poteva dividersi fra gli eredi per legge e testamentarii; così avrebbe potuto dividersi eziandio fra gli uni e gli altri. Secondo il RUGGIERI, Op. cit., il motivo della massima starebbe in ciò, che anche il testamento dapprima era una vera lex, e quindi doveva prevalere o la lex publica o la lex testamenti,ma non potevano concorrere insieme; ma egli è evidente, che questa ragione, se po trebbe valere per il testamentum in calatis comitiis, non può certo applicarsi al testamentum per aes et libram, che non ha più il carattere di una legge. Fu questo il motivo, per cui ho creduto didover cercare la causa prima di questa mas sima nella stessa dialettica fondamentale, a cui si informa il diritto primitivo di Roma. 551 - bare il patrimonio alla famiglia agnatizia ed alla gente; il testamento invece, che prevalse nel ius quiritium, non è più il testamento delle genti patrizie, ma è già un'applicazione dell'atto quiritario per ec cellenza, ossia dell'atto per aes et libram, che si ispira al prin cipo: uti legassit, ita ius esto. In quella prevale ancora lo spirito conservatore dell'antico gruppo patriarcale: mentre in questo già campeggia la fiera individualità del quirite, la cui volontà solenne mente manifestata deve essere legge, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere. A cið si aggiunge, che la successione legittima e la testamentaria, nella struttura organica del ius quiritium, muovono da un con cetto fondamentale compiutamente diverso. Mentre infatti la suc cessione legittima prende le mosse dal ius connubii, ed è quindi una conseguenza dell'organizzazione giuridica della famiglia romana, il testamento invece, che prevalse nel diritto quiritario, fu un'ap plicazione del principio:  qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto ; come tale, esso prese le mosse dal ius commercii, e fu considerato come un mezzo di disporre libe ramente delle proprie cose . Fu sopratutto questa circostanza del l'essere le due istituzioni partite nella loro elaborazione giuridica da un concetto fondamentale diverso, che impedì alle medesime di con fondersi e di compenetrarsi insieme; poichè è un carattere della dialet tica quiritaria, che gli istituti giuridici, una volta separati, obbediscano ciascuno al proprio concetto ispiratore, nè sogliano mai confondersi con un altro, che si informi ad un concetto compiutamente diverso. Tale sembra appunto essere la significazione della celebre regola del giureconsulto Paolo:  ius nostrum non patitur eundem in paganis et testato et intestato decessisse, earumque rerum natu raliter inter se pugna est, testatus et intestatus. Per verità  Quanto al carattere diverso di queste due successioni vedi il cap. III,  4, in cui si discorre della successione testamentaria, ed il $ precedente relativo alla successione legittima.  Questo carattere speciale del testamento per aes et libram è attestato, ancorchè solo di passaggio, da Cic., De orat.; ma è poi dimostrato all'evidenza da ciò, che questo testamento ebbe ad essere ritenuto come un negozio, che compie vasi fra testatore ed erede, e in cui la volontà del testatore dominava sovrana.  Paolo, Leg. 7, Dig. Secondo il PadELLETTI, Storia del dir. rom., 201, questa massima sarebbe invece una conseguenza della superiorità esclusiva della successione testamentaria sulla legittima; ma questo non è ancora un motivo adeguato per impedire che le due eredità si confondessero fra di loro. 552 sarebbe stato illogico, che quel diritto, il quale in tutto il suo svi luppo tenne sempre mai distinte fra di loro le obbligazioni e i trasferimenti di proprietà, di cui quelle erano partite dal concetto primitivo del nexum e questi da quello del mancipium, avesse pui consentito, che concorressero insieme due istituzioni, le quali muove vano da concetti fondamentali anche più distanti fra di loro. Questo quindi fu uno dei casi in cui la logica quiritaria non volle piegarsi alle nuove esigenze, e si limitò ad introdurre una eccezione a fa vore del testamento dei soldati. 428. Qui intanto cade in acconcio di esaminare brevemente un'altra gravissima questione, quella cioè della precedenza, che nel diritto primitivo di Roma abbia avuto la successione legittima o la successione testamentaria. Sull'autorità del Sumner Maine, suole essere generalmente seguita l'opinione, che nella evoluzione storica del diritto romano dovette precedere la successione ab intestato, poichè la possibilità del testa mento, anche nel diritto romano, avrebbe cominciato dall'essere am messa soltanto in quei casi, in cui non vi fosse figliuolanza, e poi sarebbe stata estesa anche agli altri casi. Mentre ritengo, che questa opinione possa essere conforme al vero, per quanto si rife risce al periodo gentilizio, nel quale il testamento non dovette essere, che un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto, per il caso in cui non vi fossero dei figli, crederei invece, che essa non sia con forme all'evoluzione storica, che ebbe ad avverarsi nel ius quiritium. Sonvi infatti degli indizii, che ci inducono ad affermare, che nel ius quiritium penetrd dapprima il testamento, mentre la successione legittima vi fu solo introdotta più tardi, e che il testamento ebbe fin dal principio una prevalenza incontrastata sulla successione le gittima. È noto infatti, che Ulpiano dice espressamente, che la suc cessione legittima fu introdotta dalle XII Tavole, mentre queste invece avrebbero confermata la successione testamentaria; il che indica appunto, che il testamento era già comune ai due ordini, e aveva già subito l'elaborazione del ius quiritium, mentre la suc cessione legittima non sarebbe penetrata nel diritto comune, che colla legislazione decemvirale. Anteriormente a quest'epoca la suc cessione legittima, per ciò che si riferisce agli agnati ed ai gentili,  SUMNER MAINE, L'ancien droit, 186. 553 doveva probabilmente essere esclusivamente propria delle genti pa trizie, le cui consuetudini in quest'argomento erano certo diverse dalle semplici costumanze della plebe. Appare poi fino all'evidenza dalle espressioni stesse delle XII Tavole, che la successione testamentaria ha una prevalenza indiscutibile sulla successione legittima, in quanto che quest'ultima non può verificarsi, che quando manchi il testa mento (si intestato moritur); il qual concetto perdurò poi per tutto lo svolgimento storico del diritto civile romano . In cid abbiamo un'altra prova, che il ius quiritium non deve essere considerato unicamente, come il frutto di un'evoluzione lenta e graduata delle istituzioni giuridiche, a misura che ne occorra il bisogno, ma piuttosto come il frutto di una selezione su materiali giuridici preesistenti. In esso infatti istituzioni più antiche penetra rono talvolta più tardi di altre, la cui formazione nella realtà dei fatti doveva essere più recente. Così, ad esempio, la successione le gittima, che fu certo la prima a svolgersi nell'ordine dei fatti, fu l'ul tima a penetrare nel ius quiritium, mentre il testamento, che era stato ultimo a comparire, fu il primo ad esservi accolto, come quello che meglio rispondeva a quella potente individualità giuridica, che era il quirite. — Cid apparirà anche più evidente trattando del si stema delle actiones, le quali, mentre furono le prime a formarsi nell'ordine dei fatti, furono invece le ultime ad essere elaborate nel primitivo ius quiritium.  ULP., Fragm., XI, 3; XXVII, 5; L. 130, Dig. (50-16 ).  La prevalenza della successione testamentaria sulla legittima nel diritto civile romano è provata da una quantità grande di passi di giureconsulti, fra i quali mi limito a citaro i seguenti:  quamdiu possit valere testamentum, tamdiu legitimus non admittitur  (Paolo, L., dig.);  quamdiu potest ex testamento adiri hereditas, ab intestato non defertur  (Ulp., L. 39, dig. 29, 2). Le legis actiones e la storia primitiva della procedura civile romana. $  Le origini della procedura ex iure quiritium. Quella tecnica giuridica, di cui già si riscontrarono le traccie nelle varie parti del ius quiritium, appare anche più rigida e se vera nella parte, che si riferisce alla procedura delle legis actiones. È qui sopratutto, ove l'elemento giuridico del fatto umano compare del tutto isolato e disgiunto da ogni elemento estraneo, e ove l'ela borazione giuridica dell'antico diritto ebbe a spingersi a tal punto di tecnicismo da rendere difficile alle nostre menti il comprenderne i concetti direttivi, e la logica inesorabile, a cui obbedi nella pro pria formazione. Alla difficoltà intrinseca dell'argomento si aggiun sero poi altre cause, che contribuirono a mantenere in questa parte una quantità di dubbii e di incertezze, la quale non potè del tutto essere dileguata dalla scoperta delle istituzioni di Gaio, dalla ricchissima letteratura, che in seguito alla medesima ebbe a svolgersi sull'argomento. È noto infatti, in base alle attestazioni concordi degli antichi au tori, che la parte dell'antico diritto, relativa alla procedura delle legis actiones, ebbe ad essere custodita ed elaborata dal collegio dei pontefici, anche dopo le XII Tavole, e continuò cosi ancora a co e  Anche qui non mi propongo di dare una bibliografia completa: ma piuttosto di indicare le opere, di cui ho potuto giovarmi per il punto speciale di vista, a cui mi collocai in questo lavoro. Fra esse citerò lo ZIMMERN, Traité des actions, trail. Etienne, Paris 1843; BONJEAN, Traité des actions chez les Romains, Paris 1845; il KELLER, Il processo civile romano e le azioni, trad. Filomusi-Guelfi, Napoli 1872; BETHMANN-HOLLWEGG, Der röm. Civilprocess in seiner geschichtl. Entwichelung, Bonn, e sopratutto il primo, che tratta delle legis actiones; BEKKER, Die Aktionen d. röm. Privatrechts, 2 vol., e sopratutto il vol. I, 18-74; KAR LOWA, Der röm. Civilprocess zur Zeit d. Legisactionen, Berlin 1872; BUONAMICI, La storia della procedura civile romana, Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da 15 a 86; JHERING, L'esprit du droit romain, tome 36, 312 a 343; MuiraEAD, Histor. Introd., 181 a 235; Zocco-Rosa, Le palingenesi della procedura civile romana, Roma 1887; WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig 1888. 555 stituire per qualche tempo un segreto di professione e di casta. Pomponio infatti attribuisce ai pontefici di aver modellate le legis actiones, in base alla legislazione decemvirale; egli anzi dice con Gaio, che di qui sarebbe provenuta la denominazione di legis actio nes, le quali poi per la prima volta sarebbero state rese di pubblica ragione da Gneo Flavio, segretario di Appio Claudio. La notizia poi, che ci pervenne di queste legis actiones, è molto imperfetta; poichè lo stesso Gaio, che è forse il solo che ebbe a discorrerne di proposito, ci descrive il sistema delle legis actiones nell'ultimo stadio del suo svolgimento, e quindi si limita alla enu merazione ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al lorchè questi furono definitivamente formati, senza farci assistere alla progressiva formazione di essi, salvo quel poco, che egli ci dice, circa la introduzione della legis actio per condictionem. A ciò si aggiunge, che Gaio, discorrendo di un sistema di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si limita a cenni assai generali, i quali per giunta ci pervennero anche con gravissime lacune, quali quelle relative alla iudicis postulatio, ed alla condictio . 430. Da questa notizia, per quanto imperfetta, si possono tuttavia ricavare alcune illazioni, che, per quanto generali, sono perd impor tantissime per la ricostruzione della prima procedura quiritaria, che fu senz'alcun dubbio quella delle legis actiones. È certo anzitutto, che anche in questa parte il primitivo ius qui ritium non venne creando speciali procedure, per i varii casi, che si presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche di proce dura, che i pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai casi particolari, per guisa che le primitive legis actiones costitui scono, secondo l'esatta espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui ciascuno poteva comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi sappiamo in secondo luogo, che il sistema delle legis actiones è decisamente informato al concetto, secondo cui la procedura per ogni controversia, che percorresse tutti i suoi stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali, di cui una compievasi in iure, cioè  Pomp., Leg. 2,  6, Dig.; Gaio, IV, 11.  V. Gaio, IV, 17, ove manca il foglio, in cui egli doveva trattare dell'actio per iudicis postulationem, e passare poi a discorrere della legis actio per condictionem.  Gaio, IV, 12, scrive:, lege agebatur modis quinque etc. 556 davanti al magistrato, e l'altra invece seguiva davanti al giudice singolo od al corpo collegiale dei giudici, al quale le parti potevano essere rimesse dal magistrato. Mentre in iure si decideva, se in quel determinato caso si potesse far luogo all'applicazione della legis actio, e si dava alla fattispecie la configurazione giuridica delle me desima; in iudicio invece giudicavasi della ragione e del torto fra le parti contendenti, in base alla configurazione giuridica, che la controversia aveva assunto davanti al magistrato. Ci consta infine, che le legis actiones si dividevano in due ca tegorie, ispirate ad un concetto compiutamente diverso, in quanto che vi erano quelle, che miravano a fissare il punto in questione e ad ottenere la decisione del medesimo, e costituivano così la pro cedura, che potrebbe chiamarsi processuale o contenziosa; e quelle invece, che miravano all'esecuzione del giudicato, e costituivano così la procedura esecutiva. Nella prima categoria noi troviamo la legis actio sacramento e la iudicis postulatio, alle quali venne ad ag giungersi più tardi la legis actio per condictionem; mentre nella seconda la vera procedura di esecuzione è costituita dalla manus iniectio, che è diretta contro la persona del debitore condannato o confesso, poichè solo in pochi casi, determinati dalla legge o dal costume, è accordata la pignoris capio.  Ho già accennato altrove n ° 243, 296 e seg., come la distinzione fra il ius ed il iudicium debba considerarsi come una conseguenza necessaria di ciò, che la pubblica giurisdizione del magistrato non estendevasi dapprima a tutte le con troversie civili e penali, ma comprendeva soltanto quelle, che eransi sottratte alla giurisdizione domestica e gentilizia, per essere deferite alla giurisdizione del magi strato. Di qui la conseguenza, che ogni controversia civile ed ogni accusa penale davano anzitutto luogo ad una questione preliminare, da decidersi in iure, in cui trattavasi di vedere, se la controversia, o se il delitto, di cui si trattava, potessero dare argomento ad un iudicium. Di qui le espressioni di actionem dare, iudicium dare. Questa distinzione pertanto, fra il ius ed il iudicium, non ha nulla che fare colla separazione tra il fatto ed il diritto: ma mira in certo modo a sceverare le questioni, che debbono essere lasciate alla giurisdizione domestica ed agli arbitra menti privati, da quelle, che debbono essere giudicate a secundum legem publicam .  Questa distinzione fra la procedura contenziosa e la procedura di esecuzione non è espressamente indicata in Gaio, il quale si limita a dare come caratteristica delle legis actiones, che esse, ad eccezione della pignoris capio, si compievano in iure, cioè davanti al magistrato; ma tale distinzione è comunemente accettata e può dedursi dalla circostanza, che Gaio comincia in effetto a discorrere delle azioni, che si potrebbero chiamare processuali, e poi viene a parlare delle procedure esecu. tive, ancorchè queste fossero certo più antiche della legis actio per condictionem. In questo stato di cose, la questione fondamentale, che pre sentasi all'investigatore delle origini della procedura quiritaria, sta in cercare, se il sistema delle legis actiones debba ritenersi creato di pianta dopo la legislazione decemvirale ed in base alla medesima, o se invece debba ritenersi costruito e modellato con materiali giu ridici già preesistenti. A questo proposito ho cercato di dimostrare a suo tempo, che già fin dal periodo regio, cosi nei giudizii penali come nei civili, si possono trovare le traccie di quella separazione fra il ius ed il iudicium, che venne poi ad essere fondamentale nel sistema delle legis actiones, e che dovettero fin d'allora già esistervi delle pro cedure consuetudinarie, certamente analoghe a quelle, che compa riscono più tardi col nome di legis actiones. Che anzi abbiam visto eziandio essere probabile, che sopratutto all'epoca serviana, in cui si cominciò ad elaborare un ius quiritium, comune al patriziato ed alla plebe, e si modello l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, siasi pure iniziata la formazione di una procedura propria per le questioni di carattere quiritario. Le prime origini di tale procedura sembrano accennate dalla tradizione, che at tribuisce appunto a Servio Tullio, di aver distinto i giudizii pubblici dai privati, e di aver ritenuto per sè la cognizione delle contro versie di maggior importanza, mentre avrebbe affidato a giudici scelti nell'ordine dei senatori, la risoluzione delle controversie di minor importanza. È infatti questa tradizione, che unita alla considerazione del grande movimento legislativo, che dovette ve rificarsi in quell'epoca, rende assai verosimile l'opinione di co loro, che farebbero rimontare a Servio Tullo l'origine del tribu che egli ci dice essere stata introdotta per l'ultima. Cfr. BUONAMICI, Op. cit., 19 e 20.  È questa la questione, che fu di recente presa in esame dallo Zocco-Rosa, Palingenesi della procedura civile romanı, Roma 1887. Egli ridurrebbe le teorie in proposito enunciate a tre, cioè: 1) a quella che vuol fare uscire la primitiva procedura dal seno stesso della religione e del ius sacrum; 2) alla teoria, che egli chiama della preesistenza delle legis actiones alle XII Tavole; 3 ) e alla teoria della discendenza delle medesime dalle XII Tavole. Egli viene alla conclusione ammessa dalla generalità degli autori, che prima delle XII Tavole moribus agebatur, mentre posteriormente lege agebatur. Passa poi a cercare le origini della primitiva proce dura consuetudinaria presso i popoli di origine Aria, e questa sarebbe ricerca di grande interesse; ma forse per ora non si hanno ancora materiali sufficienti per giungere ad una conclusione definitiva)  nale quiritario dei centumviri, quella dei iudices selecti, ed anche la prima distinzione fra l'actio sacramento e la iudicis postulatio; di cui quella avrebbe aperto l’adito al centumvirale iudicium, e questa invece alla nomina di arbitri o di giudici, scelti dal novero dei iudices selecti. Questi indizii tuttavia, che accennano alla for mazione di una procedura quiritaria, anteriore alle XII Tavole, non impediscono punto, che la medesima abbia dovuto subire un rima neggiamento in tutte le sue parti, di fronte ad un avvenimento cosi importante per il diritto privato di Roma, quale fu quello della le gislazione decemvirale. Non parmi quindi, che possano essere respinte le attestazioni con cordi degli antichi autori, secondo cui la procedura civile, se non creata, dovette almeno essere rimaneggiata, in base alla legislazione decemvirale, per opera del collegio dei pontefici, e che in quell'oc casione appunto le actiones, essendo state accomodate alla legge, abbiano assunta la denominazione caratteristica di legis actiones. Che anzi da questo fatto parmi si possa indurre con fondamento, che la parte del ius quiritium, relativa alle legis actiones, dovette essere l'ultima ad essere elaborata dai veteres iuris conditores, al lorchè già erasi formato un vero ius quiritium, e che, ciò stante, questa parte, per essere sopraggiunta più tardi, quando le altre già erano formate, non potè ridursi ad una semplice incorporazione di consuetudini processuali già preesistenti, ma dovette già essere il frutto di una selezione e di una elaborazione, a cui le medesime furono sottoposte. Nė può ritenersi improbabile, che questa elabo razione abbia potuto essere l'opera degli stessi pontefici, quando si ritenga, che essi da una parte erano i custodi delle tradizioni delle genti patrizie e personificavano in certo modo lo spirito conserva tore delle medesime, e dall'altra furono senz'alcun dubbio i creatori della tecnica giuridica, e i primi maestri alla cui scuola si forma rono i grandi giureconsulti della Repubblica e dei primi secoli del l'Impero. Parmi anzi, che questa elaborazione dei pontefici, giure consulti e patrizii ad un tempo, valga a spiegare quel doppio carattere dell'antica procedura romana, la quale nelle proprie forme e nei proprii vocaboli richiama ancora l'organizzazione patriarcale, mentre sotto un altro aspetto è già un capolavoro di tecnica giuridica, che corrisponde mirabilmente alle altre parti del diritto privato romano e al concetto del quirite, ispiratore del medesimo. A quel modo in somma, che i veteres iuris conditores, trascegliendo fra le forme di matrimonio e di negozii già preesistenti nelle consuetudini delle - 559 genti italiche, riuscirono a sceverarne un connubium ed un com mercium ex iure quiritium, e a richiamare l'uno e l'altro a certe forme tipiche e solenni, che costituirono il diritto esclusivamente proprio della comunanza quiritaria: cosi essi, operando una scelta fra i modi di procedere, che già potevano essersi formati nei rap porti fra i capi di famiglia, e in quelli fra essi ed i loro dipendenti, riuscirono a ricavarne una procedura tipica, che potè essere consi derata come propria della comunanza quiritaria. Anche qui pertanto i materiali certo erano preesistenti; ma il primitivo diritto romano non li accetto senz'altro, quali esistevano, il che avrebbe dato ori gine ad una varietà di procedure, analoga a quella che occorre presso gli altri popoli primitivi; ma li sottopose invece ad una se lezione, riducendoli a quelle forme tipiche, in cui tanto si compia ceva il genio giuridico romano, come lo dimostra il modo, in cui fu rono modellate tutte le loro istituzioni giuridiche. Fu in questa guisa, che si riuscì ad una procedura, la quale, mentre è adatta ad un popolo agricolo e militare ad un tempo, quale era il popolo romano, porta perd le traccie evidenti dell'organizzazione patriarcale, da cui usciva, e contiene cosi un ricordo prezioso delle varie fasi, per cui passo lo stabilimento della civile giustizia. 432. Noi abbiamo infatti veduto a suo tempo, come già nella stessa organizzazione gentilizia, e sopratutto, allorchè al disopra della gens venne a svolgersi la tribus, e colla riunione dei vici si formò il pagus, già potessero sorgere controversie di carattere giu ridico fra i varii capi di famiglia, ed anche fra essi ed i loro di pendenti, e come il bisogno di venire alla risoluzione di tali con  Questa spiegazione intorno all'origine delle legis actiones ha il vantaggio di mettere d'accordo fra di loro i passi di antichi autori, relativi a quest'argomento, che pervennero fino a noi. Con essa infatti può conciliarsi la vetustissimi iuris ob servantia, a cui accenna Pomponio, coll'attestazione concorde dello stesso Pomponio e di Gaio, secondo cui le legis actiones furono composte ed accomodate sulle parole stesse delle XII Tavole. Questi due caratteri, pressochè in opposizione fra di loro, possono conciliarsi fra di loro, quando si accetti la teoria, svolta più sotto, di distin guere nella legis actio, come già nell'atto per aes et libram due parti, cioè la parte mimica, e la verborum conceptio. È la prima, che costituisce una vetustissimi iuris observantia, ed è un ricordo delle varie fasi attraversate nello stabilimento della civile giustizia; ed è la seconda, che potè invece essere accomodata e composta sulle parole stesse della legge. GAIO, IV, 11; POMP., Leg. 2, 8 6 e 24, Dig. (1,2). 560 troversie, abbia potuto dare origine a certimodi di procedura, che col tempo dovettero acquistare una vera autorità consuetudinaria. Da una parte si dovette formare una procedura fra i capi di fa miglia, uguali fra di loro, che nella loro fiera indipendenza non accettavano altro giudice, che quello che erasi fra loro concordato, il quale, anzichè giudice diretto della controversia, lo era invece della scommessa, con cui cercavano di rafforzare l'affermazione so lenne della propria ragione. Questa è quella procedura, che presso i romani fu ridotta ad una forma tipica, e denominata actio sacra mento, le cui traccie trovansi non solo fra le genti italiche, ma anche fra le elleniche, e presso i popoli Arii dell'India. L'altra invece fu una procedura, la quale ricorda ancora uno stato di privata violenza, e che probabilmente dovette svolgersi nei rapporti fra i vincitori ed i vinti, e più tardi nei rapporti fra la classe superiore dei padri, dei patroni, dei patrizii, e quella infe riore dei servi, dei clienti e dei plebei. Essa nelle proprie origini dovette essere una effettiva manus iniectio, ma poscia fu richiamata ad una significazione giuridica, e significò l'esercizio anche violento della potestà giuridica spettante a una persona, come lo dimostra il fatto, che essa continuò anche più tardi ad essere adoperata dal padrone sul servo, dal padre sul figlio, ed anche dal patrono sul liberto (3 ). Or bene entrambe queste forme di procedere, che certo ricordano un periodo anteriore di organizzazione sociale, entrarono nella com pagine del ius quiritium, e vi furono modellate per modo da cor rispondere alle altre parti di esso. La prima fu adottata come azione tipica, allorchè trattasi di istituire un giudizio fra quiriti: come tale essa mira a serbare la più scrupolosa imparzialità ed ugua glianza fra i contendenti, non sapendosi ancora chi possa essere il vincitore e chi il soccombente. La seconda invece fu adottata come azione tipica, allorchè trattasi di procedere all'esecuzione contro chi abbia subita una condanna, o confessato il proprio debito.  Quanto alla primitiva formazione delle actiones, nei rapporti fra i capi di fa miglia della stessa tribù e in quelli fra i capi famiglia e i loro dipendenti, vedi ciò, che si è detto nel lib. I, cap. V,  3º, 130.  V. in proposito lib. I, nº 104, 135, nota 14. Cfr. il SUMNER MAINE, Early history of institutions, Lect. IX; e lo Zocco- Rosa, Op. cit., 209(3 ) V., quanto alle prime origini della manus iniectio. Cfr. CAPUANO, Storia del diritto romano, Napoli 1878; Cugino, Trattato storico della procedura civile romana, 116; BuonamiCI, Op. cit., 58. - 561 433. Di qui provennero i caratteri compiutamente diversi del l'actio sacramento e della manus iniectio. Nella prima abbiamo una procedura fra eguali; quindi i con tendenti sono in certo modo attori e convenuti ad un tempo: sono le persone, fra cui si discute, che recansi dinanzi al magistrato. Esse fingono un combattimento fra di loro; affermano con identiche parole il proprio diritto; fanno le medesime scommesse di 50 o di 500 assi, secondo il valore della controversia; sono ugualmente obbligati a dare garanzia (vindicias dare) se siano ammessi al possesso della cosa, che forma oggetto della controversia. Lo scru polo nel mantenere l'uguaglianza non potrebbe spingersi più oltre, ed è uguale anche il pericolo per l'uno e per l'altro dei contendenti; poichè la somma scommessa si perde dal soccombente, e mentre nell'epoca gentilizia era forse consacrata ad usi religiosi, nel periodo storico deve andare invece a benefizio del pubblico erario. L'altra procedura invece, rozza, violenta suppone una assoluta disuguaglianza fra i contendenti. Quella stessa legge, che procedeva titubante e quasi diffidente per il timore dioffendere l'indipendenza dei contendenti, non teme invece di accordare diritti illimitati e pres sochè senza confine al creditore contro il iudicatus ed il confessus. Essa non si preoccupa dei beni di quest'ultimo, ma dà diritto al creditore di procedere contro la persona del debitore, di imporre sopra di lui la sua manus, e di trascinarlo avanti al magistrato per farsi aggiudicare la persona del debitore stesso. Questi invece non ha diritto di reagire contro la violenza del creditore (a se de pellere manum ) né di agere pro se lege; ma solo di nominare un altro, che faccia valere le sue ragioni (vindicem dare) . Mentre l'actio sacramento è come una rappresentazione simbolica (vis festucaria) di quel combattimento effettivo (vis realis), a cui poteva dar luogo una privata controversia fra capi di famiglia indipendenti e sovrani, dell'interporsi fra essi di un vir pietate gravis, dell'affermazione scambievole della propria ragione, fatta dai contendenti e rafforzata da una scommessa, della quale deve esser giudice quegli a cui le parti si sono rimesse; la manus in  Tutti questi caratteri della legis actio sacramento si possono ricavare dalla descrizione di quest'azione fatta da Gaio, IV, 13 a 17, per quanto la medesima presenti molte lacune, sia quanto all' actio sacramento in personam, che quanto all'actio sacramento relativa agli immobili.  Gaio, Comm., C., Le origini del diritto di Roma. 36 562 iectio invece è la procedura del vincitore contro il vinto, di colui, che ha il diritto, contro colui, il quale ne è privo, di quegli, che può dettare la legge, contro colui, che deve subirla. Anche la controversia è una lotta: quindi se durante la me desima deve essere serbata l'uguaglianza, allorchè invece essa è finita, il vincitore può stendere la propria mano sul vinto e questi è forzato ad arrendersi. Era poi naturale, che la procedura di un popolo agricolo e militare ad un tempo, per cui l'asta era il sim bolo del giusto dominio, venisse eziandio ad essere simboleggiata in una specie di lotta e di conflitto. 434. È tuttavia degno di nota, che i pontefici, nell'accogliere e nel modellare queste forme di procedura, si attennero ad un processo del tutto analogo a quello, che abbiam visto essersi seguito nel fog giare le forme dei negozii giuridici del diritto quiritario. Al modo stesso, che nell'atto quiritario per aes et libram può ravvisarsi una parte, che compievasi  dicis gratia, propter veteris iuris imitationem  e che costituiva cosi un ricordo del passato, ed una parte veramente viva, che era la nuncupatio, mediante cui un medesimo atto poteva accomodarsi ad una varietà grandissima di negozii, anche di carattere compiutamente diverso; cosi anche nella procedura primitiva, miri essa ad istituire un giudizio od alla esecuzione di un giudicato, possono facilmente distinguersi due parti, che compiono una funzione compiutamente diversa. Havvi anzitutto una parte, che potrebbe chiamarsi mimica, che si presenta sempre uniforme ed uguale, la quale è mantenuta evidentemente più come un ricordo del passato, che per l'utilità effettiva, che si possa ricavarne; come lo dimostra la disinvoltura, con cui si accettano gli espedienti, che mirano a semplificarla. Questa parte nell'actio sacramento è rappresentata dal recarsi sul luogo, ove trovasi l'oggetto in contestazione, se trattisi di immobile; dal portare davanti al magistrato la cosa mobile o una particella di essa; dal simbolo della festuca, che adoperavasi hastae loco; dalla finta manuum consertio, dalla mutua provocatio, e dal sacra mentum. Nella manus iniectio invece essa è rappresentata dal fatto di adprehendere manu qualche parte del corpo del proprio debitore. È questa parte mimica, la quale, costituendo in certomodo una soprav vivenza, col tempo divento pressochè incomprensibile, e potè talvolta essere posta in derisione, anche da autori antichi e fra gli altri da Cicerone. E tuttavia a notarsi, che lo stesso Cicerone, allorchè scrisse 563 nell'interesse del vero e non in quello del cliente, non dubito di dichiarare, che era di grande diletto questa impronta di vetusta, inerente alle legis actiones, e di affermare che:  actionum ge nera quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant. Queste formalità infatti, conservateci da un popolo, che, più di qualsiasi altro, seppe sceverare l'essenzialità del fatto umano dalle circostanze accidentali del medesimo, sono anche oggidi un impor tantissimo documento del modo di pensare e di agire. che era proprio delle primitive genti italiche. Intanto perd, accanto a questa parte, il cui mantenimento era l'effetto dello spirito conservatore del popolo romano, eravi eziandio la parte veramente viva ed attuosa, e questa consisteva in quelle concezioni verbali, solenni e precise (conceptiones verborum, verba concepta, certa verba ), che servivano a dare una configurazione giuridica alle varie fattispecie e a farle entrare nella veste rigida delle legis actiones. Era in questo modo, che, malgrado la va rietà infinita delle fattispecie, si riusciva ad isolare l'obbiettività giuridica delle medesime e a richiamarle tutte a pochissimi genera agendi. Questo era l'ufficio, a cui attesero dapprima i pontefici, poi il pretore, e da ultimo i giureconsulti, e fu con questo magistero che la sola actio sacramento fini per essere accomodata a tutte le controversie di carattere quiritario, e la sola manus iniectio poté bastare a qualsiasi procedura esecutiva. Vuolsi quindi conchiudere, che queste due legis actiones costi tuiscono in certo modo il nucleo centrale della procedura quiritaria. Esse sono quelle, in cui si può leggere il modo di pensare e di agire del primitivo quirite, fiero, indipendente, geloso del proprio  Co., Pro Murena, vol. 2, scherza spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla proprietà di un fondo, dimostrando come le forme primitive avessero complicata una procedura, che avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De orat., I, riconosce eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in questo studio dell'antico, allorchè scrive:  Nam si quem aliena studia delectant, plurima est in omni iure civili, et in pontificum libris, et in XII Tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum prisca vetustas cognoscitur, et actionum genera quaedam maiorum con suetudinem vitamque declarant.  A mio avviso, la conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della nuncupatio nell'atto per aes et libram. Ciò sarà meglio dimostrato più sotto, nº 449, ed apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole atte nersi il primitivo diritto romano. 564 diritto, finchè la sentenza non sia pronunziata; umile, sottomesso, pronto ad abbandonare se stesso al proprio creditore, allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria. Intanto però, accanto a queste due procedure fondamentali, se ne vennero svolgendo delle altre, che sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di ri cercare lo svolgimento storico, così della procedura contenziosa, che della procedura esecutiva.  2. – Lo svolgimento storico della procedura contenziosa nel primitivo diritto. 485. Se l'actio sacramento costituisce il nucleo centrale della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones, noi sappiamo però, che attorno ad essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo la iudicis postulatio fra i cittadini, e la recuperatio fra cittadini e stranieri, e che alle medesime più tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis actio per condictionem. Importa quindi di determinare la funzione, che questi vari genera agendi esercitarono sulla pri mitiva procedura, e di ricercare eziandio l'ordine progressivo della loro formazione. Delle antiche legis actiones, quella, intorno a cui ci pervennero maggiori notizie, è certo l'actio sacramento. Noi sappiamo della medesima, che generalis erat, in quanto che poteva essere adoperata per tutte le controversie, per cui non fosse stata introdotta altra speciale procedura, si trattasse di agere in rem, od anche di agere in personam. Essa quindi sembra riportarci ad un'epoca, in cui non doveva esistere ancora la distin zione fra l'azione in rem e l'azione in personam; il che però non impedisce, che essa presentasse delle differenze nelle solennità e nelle espressioni adoperate, secondo che trattavasi di agere in rem o di agere in personam. Cosi pure in essa non vi è ancora la distin zione netta e precisa fra l'attore ed il convenuto, ma i contendenti sono attori e convenuti ad un tempo, come lo dimostra l'identità delle espressioni da essi adoperate. Infine essa non conduce alla ri soluzione diretta della controversia, ma piuttosto a giudicare quale dei due contendenti abbia affermato il vero e quale il falso, e quale perciò debba essere soccombente nella scommessa fra i medesimi intervenuta (utrius sacramentuin iustum, utrius sacramentum in iustum sit); cosicchè in essa il soccombente, oltre al perdere in 565 - direttamente la lite, corre anche il rischio di perdere la scom messa. Noi sappiamo poi, quanto alle controversie che dovevano rivestire la forma di questa legis actio, che essa costituiva un preliminare indispensabile per tutte le cause di carattere veramente quiritario, le quali erano sottoposte al centumvirale iudicium, ed anche per quelle relative alla verità ed allo stato delle persone (caussae liberales), quanto alle quali noi sappiamo, che il sacramentum era solo di cinquanta assi (quinquagenarium ), e che esse erano devolute ai decemviri stlitibus iudicandis . Tutti questi caratteri imprimono un suggello di vetustà all'actio sacramento, e ci richiamano a quella potente sintesi, che è carat teristica del primitivo ius quiritium, in cui non distinguesi ancora fra diritto personale e reale, fra attore e convenuto, fra la provo. catio e la litis contestatio. Si comprende quindi, che la mimica, che la precede, sia come un ricordo dei varii stadii, per cui passò lo stabilimento della civile giustizia, fra i capi di famiglia, e che essa, trapiantata dall'organizzazione gentilizia nella città, sia stata rico nosciuta come l'azione tipica del diritto quiritario. Ciò spiega eziandio come essa, mentre è certamente la più antica, sia stata anche la più duratura delle legis actiones; poichè, quando le altre furono abolite, continud pur sempre ad essere mantenuta qual preliminare al centumuirale iudicium, cioè davanti a quel tribunale dei cen tumviri, che può essere considerato come il tribunale essenzial mente quiritario, sia per il modo, in cui era composto, sia per le controversie, che gli erano sottoposte, che erano appunto quelle, che riguardavano la posizione di ciascun cittadino nel censo, e quindi anche nello Stato. GAIO, IV, 13 a 17: Cic., Pro Caecina, 33, ove dice, che in una causa da lui trattata per la libertà di una certa Aretina fu deciso, che il suo sacramentum era iustum. Di qui le espressioni: iusto sacramento contendere, iniustis sacramentis petere.  La necessità della legis actio sacramento, per una causa da istituirsi davanti al centumvirale iudicium, è dimostrata dal fatto che, secondo Gaio, IV, 31, anche dopo l'abolizione delle legis actiones, fu ancora permesso di agire in questa guisa: a domini infecti nomine, et si centumvirale iudicium futurum sit . È poi lo stesso Gaio, IV, 14, il quale ci attesta, che le cause di stato erano precedute dall'actio sacramento, in quanto che egli afferma, che in base alle XII Tavole il sacramentum per una questione di libertà era solo di cinquanta assi. L'uso del sacramentum nelle caussae liberales è poi anche confermato da Cic., Pro Caec. 33.  La competenza del centumvirale iudicium, per le cause di carattere eminente. - 566 436. È invece ben poca cosa quello, che ci pervenne intorno alla legis actio per iudicis postulationem. Dal palimpsesto di Verona non si potè ritrarne, che il titolo, mentre da Valerio Probo si ricavo la formola, che dovette adoperarsi per ottenere la nomina di un giudice o di un arbitro: iudicem arbitrumve postulo uti des. Nelle XII tavole poi sono indicati varii casi, in cui trattandosi di controversie di carattere indeterminato, che suppongono una certa libertà di apprezzamento, e che talvolta sono anche designate col vocabolo di iurgia, piuttosto che con quello di lites, si propone la nomina di uno o più arbitri. Bastano tuttavia questi pochiindizii per dimostrare le molte e gravi differenze, che la contraddistinguono dall'actio sacramento. Essa in fatti già suppone la persona dell'attore distinta da quella del conve nuto; suppone una amministrazione della giustizia già organizzata, in cuiil magistrato procede alla designazione del giudice; conduce alla risoluzione diretta della controversia; non trae più con sè, per quanto almeno noi possiamo saperne, il pericolo di perdere una scommessa. Essa parimenti, come lo indica la sua denominazione, non conduce più alla rimessione dei contendenti avanti ad un tribunale collegiale, come quello dei centumviri e dei decemviri; ma dà origine ad un iudicium privatum, nel vero senso della parola, in cui il giudice o l'arbitro, secondo un antichissimo costume ro mano, dovevano essere concordati fra le parti . Essa infine differisce eziandio dall'actio sacramento per il ca rattere di indeterminatezza delle controversie, che ne formavano oggetto, le quali supponevano una certa libertà di apprezzamento 1 mente quiritario, è attestata dall'enumerazione fatta di tali cause da Cic., De orat., I, 38.  I casi, in cui la legge decemvirale parla di nomine di arbitri, sono quelli relativi al regolamento di confini:  si iurgant de finibus, tres arbitros dato ; alla divisione dell'eredità fra i coeredi (actio familiae erciscundae); all'apprezzamento del danno dato dall'acqua piovana (arbiter aquae pluviae arcendae) e qualche altro caso analogo. Vedi KELLER, Il processo civile romano; ORTOLAN, Expli cation historique des Institutes de Iustinien, Paris.  Sebbene non si possa dire, che il centumvirale iudicium si contrapponga in senso stretto al iudicium privatum, tuttavia occorrono passi di autori, in cui i centumviri sono contrapposti al privatus iudex, come in Cic., De or.; in Quint., Instit. or., 10, n ° 115, ove scrive:  alia apud centumviros, alia apud iudicem privatum in iisdem quaestionibus ratio . Cfr. ZIMMERN, Traité des actions, 36, nota 3 e 4. 567 - — nel giudice o nell'arbitro chiamato a risolverlo; cosicchè, di fronte al iudicium directum, asperum, simplex, che era istituito col l'actio sacramento, essa iniziava di preferenza un iudicium od un arbitrium moderatum, mite, in cui cominciava ad essere lasciata qualche parte a quell'equità e buona fede, che erano escluse dalle forme rigide e precise del primitivo ius quiritium. Al qual pro posito vuolsi eziandio notare, che quando si confronti la denomi nazione attribuita da Gaio a questa legis actio, che è quella di iudicis postulatio, colla formola serbataci da Valerio Probo, secondo la quale si domanda un giudice od un arbitro, è lecito di inferirne, che in essa dovette avverarsi uno svolgimento storico. Essa dapprima infatti dovette implicare soltanto la nomina di un iudex, sotto il quale vocabolo si comprendeva anche l'arbiter. Più tardi invece, e probabilmente in seguito alla legislazione decemvirale, la quale am metteva per certe questioni anche la nomina di arbitri, essa dovette porgere occasione a quella distinzione fra iudicium ed arbitrium, la quale presentava ancora tante incertezze all'epoca di Cicerone. Questi caratteri presi insieme mi condurrebbero alla conclusione, che la iudicis postulatio non presenti più quell'impronta di vetustà, che è propria dell'actio sacramento, e non possa perciò considerarsi come una procedura di carattere patriarcale, trasportata a Roma. Essa invece dove già formarsi sotto l'influenza della vita cittadina, e dove probabilmente essere una conseguenza della stessa formazione del ius quiritium. Siccome infatti, secondo appare dalle leggi, che ne governarono la formazione, il ius quiritium non costitui mai tutto il diritto di Roma, ma solo quella parte di esso che corrisponde al concetto del quirite, e che primo era riuscito a consolidarsi mediante il riconoscimento di una lex publica. Cosi ne consegui necessariamente, che anche le controversie, che potevano sorgere fra i cittadini, si divi [Cic., Pro Mur.,osserva, scherzando, che i giuristi non si sono ancora potuti accordare circa l'uso delle parole di iudex o di arbiter. La difficoltà di allora non è ancora scomparsa oggidì; poichè la distinzione fra iudicium e arbitrium, fra il ius strictum e l'aequitas, fra la lis e il iurgium, è una di quelle questioni di limiti, che non saranno mai definitivamente risolte. Cfr. KELLER. Quanto alla differenza fra iudicium strictum e arbitrium, mi rimetto al “De exceptionibus in iure romano” (Torino)] dessero naturalmente in due categorie. Vi erano da una parte le controversie di carattere eminentemente quiritario, relative al caput, alla manus, al mancipium, all'atto per aes et libram, ai negozii rivestiti della forma del medesimo (nexum, mancipium, testamentum ), all'eredità e alla tutela legittima; le quali, per poggiare sopra una legge o sopra un atto od un negozio di carattere quiritario, potevano ridursi in certo modo ad una affermazione o ad una negazione, ed accomodarsi così alle forme rigide dell'actio sacramento. Vi erano invece dall'altra parte quelle controversie, le quali, o per l'indeterminatezza del loro oggetto, o per supporre una certa latitudine di apprezzamento in chi era chiamato a giudicarle, o per dipendere più dalla consuetudine, che da una vera legge, abbisogna vano in certo modo più di un arbitro, che non di un giudice, nel significato ristretto, che ebbe ad assumere più tardi questo vocabolo. Quest'ultime pertanto richiedevano una procedura più semplice, non accompagnata dai pericoli dell’actio sacramento, in quanto che le parti contendenti possono anche in parte essere nella ragione ed in parte essere nel torto. Quindi è probabile, che siano state appunto queste controversie, le quali, al punto di vista quiritario, hanno minor importanza, che Servio Tullio comincia a deferire al iudex privatus, introducendo appunto per esse la iudicis postulatio. Così pure non è punto improbabile, che nella precisione ed esattezza del linguaggio le prime controversie di carattere quiritario si indicassero col vocabolo di vere lites, mentre le altre fossero designate piuttosto col vocabolo di iurgia. Siccome poi col tempo, una parte di quel diritto, che in certo modo esiste allo stato fluttuante intorno al nucleo centrale del ius quiritium, fini per essere attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle forme rigide e precise del diritto quiritario. Cosi si può comprendere, come col tempo la iudicis postulatio, che dapprima ha un carattere sussidiario, puo entrare anch'essa a far parte del sistema delle legis actiones. Ciò anzi dovette avvenire naturalmente, allorchè la legislazione decemvirale accolge la iudicis arbitrive postulatio, come lo dimostrano le controversie, [L'opinione qui svolta, circa i rapporti fra l'actio sacramento e le iudicis postulatio, si avvicina a quella enunziata da KARLOWA (“Der röm. Civilprozess”) per cui essa prescrisse al magistrato di addivenire alla nomina di un giudice, o di uno o più arbitri. Da quel punto la iudicis postulatio entra a far parte del sistema della procedura civile romana. Costitui ancor essa una legis actio; che anzi, per il minor pericolo che offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento, come lo dimostra Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di azioni alla iudicis postulatio, che alla stessa actio sacramento. Questo svolgimento poi fu sopratutto favorito dalla distinzione, che si opera nella stessa iudicis postulatio, fra il iudicium e l'arbitrium, il quale ultimo, accompagnato dalla clausola “ex fide bona”, fini, secondo l'attestazione di Cicerone, per essere applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in tutti quei negozii, in cui domina la buona fede, quali sarebbero la società, la fiducia, il mandato, la vendita, la locazione, e simili. Questi negozii infatti, negli inizii, sono ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium, e come tali non potevano formar tema dell'actio sacramento, ma solo della iudicis postulatio, alla quale probabilmente dovette appartenere la clausola conservataci dallo stesso Cicerone – “uti ne propter te fi demve tuam captus fraudatusve siem.” Pervenuto a questo punto nella storia della primitiva procedura romana, parmi opportuno di arrestarmi alquanto all'esame di un istituto, il quale, malgrado le sue modeste apparenze, dovette tuttavia esercitare una potente influenza sullo svolgimento della medesima. Esso è quell'antichissimo istituto, che è indicato col vocabolo di “reciperatio”, ed al quale si rannoda senz'alcun dubbio quella categoria di giudici, o di arbitri, che vengono sotto il nome di recuperatores. Si è veduto in proposito, che nelle consuetudini delle genti italiche era indicata col vocabolo di “reciperatio” quella clausola, che soleva aggiungersi aitrattati di amicitia e di hospitium fra le varie genti o tribù, con cui stipulavasi fra esse un diritto di reciproca actio, cosicchè i cittadini di un popolo potevano chiedere ed ottenere ragione nel territorio e presso il magistrato di un altro. Era con [Voigt (“XII Tafeln”) assegna alla iudicis arbitrive postulatio ben XXXV azioni, di cui IX apparterrebbero agl’arbitria, e il rimanente ai iudicia propriamente detti. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., -- Cic., De offic.] questa clausola, che la protezione giuridica, in base ad un trattato (foedus), comincia ad oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio per estendersi a quelli di un altro, con cui si fosse in amichevoli rapporti. Essa poi aveva questo di particolare, che pone in certo modo di riscontro i diritti dei due popoli, e rendeva anche necessario il ministero di più recuperatores, tolti anche da popoli diversi, in quanto che i medesimi doveno rappresentare l'elemento cittadino e lo straniero ad un tempo. Quando poi si ritenga, che Roma usci essa stessa dalla confederazione di genti di origine diversa, e fin dalle proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle amicizie e colle alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come in essa la “reciperatio” sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente, e ha col tempo assunto il carattere di una procedura regolare, da applicarsi nei rapporti fra i cives ed i peregrini. Cio è dimostrato dal fatto, che gl’antichi autori indicano talvolta la “recuperatio” col vocabolo caratteristico di actio, e che in Roma i recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed i peregrini, si cambiarono in una categoria di giudici, che potevano essere nominati anche per le controversie inter cives, e sopratutto dal bisogno sentito più tardi di creare un “praetor peregrinus” “qui inter peregrinos ius diceret.” La reciperatio s’applica anche al ius pacis, nei rapporti fra le varie genti. Se fosse lecito di paragonare istituti, che si svolsero a distanza di migliaia di anni,direi che la reciperatio, nel passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città nel mondo an tico, corrispose a quella istituzione, che pure ebbe a svolgersi nel periodo di forma zione degli Stati moderni, e che si esplicò col nome analogo di reciprocanza di diritto, la quale consisteva nell'accordare agli stranieri quella stessa protezione di diritto, che fosse accordata ai nostri concittadini nello stato, a cui gli stranieri ap partenevano. In quei tempi antichissimi la “reciperatio”, come nei tempi moderni la reciprocanza, concorsero alla formazione dell'idea di una comunanza di diritto fra i diversi popoli, che presso i romani prenderà il nome di ius gentium, e che nell'età moderna e dal Savigny indicata col nome di comunanza di diritto, la quale, secondo il grande fondatore della scuola storica, dove essere posta a fondamento del diritto internazionale. V. Savigny, “Traité de droit romain,” trad. Guenoux. Quanto ai rapporti poi, che intercedono fra il concetto dell'antico ius gentium, e questa comunanza di diritto fra gli stati moderni, mi rimetto ad altro mio lavoro col titolo, “La dottrina giuridica del fallimento nel diritto internazionale private” (Napoli) come pure all'opera, “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino). Quanto all'influenza, che esercitarono in Roma la recuperatio ed i recupera [Queste circostanze intanto rendono probabile la congettura, che in Roma, fin dai più antichi tempi, dovettero trovarsi di fronte due forme di procedura. L'una, propria dei quiriti, e perciò adatta al rigore del diritto quiritario; l'altra invece, applicabile ai rapporti fra cittadini e stranieri, e percid più semplice e spedita. Siccome pero uno stesso magistrato sovraintendeva dapprima all'una e all'altra, cosi esso veniva ad essere posto nella posizione singolare di proseguire da una parte l'elaborazione del ius quiritium e di sentire dall'altra l'influenza del diritto degli altri popoli, e di potere cosi giudicare dell'opportunità e del bisogno di trasportare nella procedura romana certe semplificazioni, che sono invece proprie della reciperatio. Di qui una scambievole influenza di queste due forme di procedura, la quale continua ancora, allorchè l'accrescersi delle controversie condusse a dividere la iurisdictio fra due pretori, che nella loro stessa denominazione di “praetor urbanus” e di “praetor peregrinus” portano le traccie del dualismo, che essi rappresentano. E questo il motivo per cui, a quelmodo stesso, che i recuperatores finirono per essere accolti nelle categorie dei giudici fra i cittadini, così certe procedure, che prima dovettero essere seguite nei rapporti fra i cives e i peregrini, finirono, come più semplici e spedite, per essere accolte eziandio nel diritto civile di Roma. Che anzi la coesistenza di queste due procedure dovette, a mio tores, i quali diventarono col tempo una istituzione romana e sono i modesti preparatori della maggior opera, che doveva poi compiere il praetor peregrinus, istituito probabilimente nell'anno 512 dalla fondazione di Roma (KELLER, “Il processo civile romano”, ZIMMERN, “Traité des actions,” JHERING, “L'esprit du droit romain”, KarLOWA, “Röm. Civil prozess,” Bouché-LECLERQ, “Instit. rom.,” MUIRHEAD, Histor. introd., quanto all'applicazione della recuperatio inter cives. Keller nota a ragione che il riguardare la legis actio come propria soltanto dei cittadini romani, è una asserzione più volte prodotta, ma non pienamente giustificata. Noi sappiamo anzi da Gaio, che coll'actio sacramento poteva procedersi, anche davanti al praetor peregrinus, al modo stesso che il praetor urbanus nomina dei recuperatores, anche per cause inter cives; ma ciò venne appunto ad essere l'effetto di questa esistenza contemporanea delle due procedure, la quale condusse ad uno scambio fra di esse. Intanto qui non può esservi dubbio, che negli inizii le cause relative allo stretto diritto quiritario, quali erano quelle, che si recano davanti al centumvirale iudicium, non potevano essere che assolutamente proprie dei cives romani o dei latini, o dei peregrini, a cui fosse stato esteso il ius quiritium.] avviso, servire a preparare lentamente certi effetti, chenegli avvenimenti posteriori appariscono pressochè repentini. Cosi, ad esempio, essa dovette essere una delle principali cause, per cui, accanto al concetto rigido del ius civile, si dovette venir gradatamente delineando nella mente del pretore e dei giureconsulti, che lo circondavano, il concetto più largo di un ius gentium, il quale, una volta formato, doveva poi recare cosi profonde trasformazioni nel primo. Cosi pure egli è probabile, che il pretore in questa procedura, non essendo vincolato ai terminidi una legge, dovette avere una maggior libertà nel formolare giuridicamente la controversia, il che lo pose in condizione di poter lentamente preparare, fin da quel tempo, in cui fra i cittadini duravano ancora le legis actiones, quel sistema delle formulae, il quale col tempo dove poi essere accolto dal ius civile. Infine, per non spingere troppo oltre le induzioni, parmi eziandio probabile, che quella “egis actio per condictionem,” che ultima comparve nel sistema delle legis actiones, siasi modellata sulla condictio, che certo già esisteva nella procedura della recuperatio. Noi sappiamo infatti, che questa era appunto iniziata, mediante una condictio, in quanto che i contendenti condicebant diem, ossia fis savano di comparire fra XXX giorni, avanti il magistrato, per ot tenere la nomina dei recuperatores; come lo dimostrano le espres sioni, che occorrono nelle XII Tavole, di  status, condictus dies cum hoste , il quale doveva essere sacro per modo da essere un legittimo impedimento a comparire in un giudizio fra cittadini. Sembra tuttavia, che vi fosse una differenza fra la condictio nella procedura inter peregrinos, e la condictio come legis actio inter cives; poichè, mentre nella prima era in certo modo concordato il giorno di comparire avanti al magistrato, nella seconda invece, secondo la descri zione di Gaio, era l'attore, che intimava al convenuto (actor adver sario denuntiabat) di comparire fra trenta giorni avanti almagistrato ad iudicem capiendum .  Quanto all' influenza del praetor peregrinus nel preparare il sistema delle formole e dell'editto provinciale nell'estendere il concetto del ius gentium è da ve dersi il Glasson (“Étude sur Gajus,” Paris). Cfr.  C., “L'evoluzione storica del diritto romano” (Torino). Secondo Voigt, XII Tafeln, la legge II, Tav. II, fra le altre cause di legittimo impedimento a comparire avanti il magistrato, accenna appunto lo status, condictus dies cum hoste. Cfr. quanto alla “condictio cum hoste,” il MuruEAD]. Anche intorno alla legis actio per condictionem ci per vennero notizie molto scarse, in quanto che il manoscritto di Gaio si presenta manchevole in quella parte, in cui egli, accingendosi a parlare della legis actio per condictionem, sembrava accennare alle origini di essa. Da quel poco tuttavia, che egli ne dice, si può ricavare: lº che la sostanza di questa legis actio consisteva nella condictio, o meglio nella denuntiatio, che l'attore faceva al conve nuto di comparire fra XXX giorni ad iudicem capiendum; 2º che nella medesima quella scommessa, che occorreva nel sacramentum, appare surrogata dalla sponsio et restipulatio tertiae partis, per cui il soccombente, oltre l'importo della controversia, deve corrispondere al vincitore il terzo della medesima a titolo di pena; 3º che infine essa fu introdotta prima da una lex Silia per le obbligazioni di una certa pecunia e poi estesa dalla lex Calpurnia alle obbligazioni di una certa res: leggi, che sogliono essere assegnate approssima tivamente al principio del sesto secolo di Roma. Quanto alla causa, per cui la condictio ha ad essere intro dotta, essa forma oggetto di discussione fra i giureconsulti, i quali ha ad osservare, che per le controversie di questa natura possono servire le anteriori legis actiones. Ricomponendo tuttavia questi pochi indizii col resto, che sappiamo delle legis actiones, si possono ricavare alcune importanti illazioni. È certo anzitutto, che la condictio non e del tutto nuova, nè quanto al nome, nè quanto alla sostanza, e non è punto improbabile, che fosse una imitazione della condictio, propria della procedura inter cives et peregrinos. Essa poi e accolta nel sistema delle legis actiones per le controversie, che volgevano o intorno ad una certa pecunia o intorno ad una certa res. Quindi, riguardando obbligazioni relative ad un certum, essa dovette restringere il dominio della [Gaio.  Quanto alla stipulatio et restipulatio tertiae partis essa non è accennata nel testo mutilato di Gaio, relativo alla legis actio per condictionem. Ma noi possiamo indurne la esistenza da ciò, che egli dice altrove, che questa stipulatio et restipulatio tertiae partis fa parte dell’actio certae creditae pecuniae propter sponsionem. Ora l' “actio certae creditae pecuniae”, nel sistema formolario, succedette alla legis actio per condictionem. Quindi se essa ritiene questo carattere, che certamente sa di antico, e richiama sott'altra forma la scommessa del “sacramentum”, dove certo ereditarlo dalla medesima. È poi lo stesso Gaio accenna ai dubbi fra i giureconsulti circa il motivo, per cui fu introdotta questa nuova legis action] actio sacramento, anzichè quello della iudicis postulatio, la quale e propria delle controversie di carattere indeterminato. Per tal modo, la condictio si presenta come una semplificazione dell'actio sacramentu. Abolisce tutta la parte mimica del sacramentum. Sostituisce, quanto alle obbligazioni aventi per oggetto un certum, il giudice singolo al tribunale popolare dei centumuiri. Infine surroga alla scommessa, che anda a beneficio dell'erario, la sponsio et restipulatio tertiae partis, che va invece a benefizio del vincitore delle lite. Quanto alla causa storica, che può aver determinata questa semplificazione nella procedura relativa alle obbligazioni di un certum, essa deve certamente essere cercata in qualche importantissima tra sformazione, che dovette avverarsi nell'epoca della Lex Silia e Calpurnia, quanto alle obbligazioni di carattere quiritario. Qui per tanto viene ad aprirsi un largo campo alle congetture. Ma è possibile di giungere a qualche risultato probabile, se si tenga dietro al processo storico del ius quiritium nella parte relativa alle obbligazioni. A questo proposito si è dimostrato a suo tempo, che la forma primitiva dell'obbligazione ex iure quiritium e quella del l'atto per aes et libram, che piglia il nome di nexum. Colla medesima il debitore sottoponeva senz'altro la sua persona a tutti i rigori della manus iniectio, per il caso che non avesse soddisfatto il suo debito a scadenza. In questa parte però il ius quiritium subi una trasformazione profonda, allorchè la Lex Poetelia tolse di mezzo gl’effetti speciali del nexum, negando al medesimo l'efficacia di un'esecuzione immediata contro la persona del debitore. Da quel momento il nexum cessa di costituire quell'ingens vinculum fidei che prima e, e comincia a cadere in disuse. Ma sottentrarono in suo luogo e vece altri modi, esclusivamente proprii dei cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una certa pecunia, o di una certa res, quali furono ad esempio la “sponsio” o “stipulatio”, la expensi latio o litteris obligatio, o infine la mutui datio, di cui formano oggetto quelle cose “quae numero, pondere acmensura constant.” Per tutte queste obbligazioni di un certum, non essendo più consentita la immediata manus iniectio, che un tempo era con- [Cfr. in Keller e il Buonamici, “Proc. civ. rom.”] -sentita per il nexum, non puo più esservi altra procedura, che quella dell'actio sacramento, la quale, per il pericolo, che vi e inerente, non puo a meno di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa, il cui credito risulta in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile. Si comprende pertanto, che prima la lex Silia, per una certa pecunia, e poi la lex Calpurnia, per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento la legis actio per condictionem, in cui evvi ancora un vestigio dell'antica scommessa nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non va più a benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il vincitore ed una pena per il soccombente. Siccome poi nel diritto romano ogni istituto, che riesce a pene trare nella compagine di esso, ben presto si rivendica il posto, che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può essere capace; così la condictio, appena fu ammessa come legis actio, essendo più semplice, più spedita, meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per richiamare a sè stessa tutte le controversie relative all'obbligazione di un certum, mentre l'actio sacramento si circoscrive a tutte quelle controversie, che hanno il carattere di una vindicatio, intesa in largo senso. Di qui consegui col tempo, che il vocabolo di “condictio”, nel linguaggio giuridico, divenne pressochè sinonimo di “actio in personam”, mentre l'actio sacramento finì per significare di preferenza l'actio in rem o la vindicatio. Ha quindi tutte le ragioni Gaio di accusare di improprietà l'uso, che facevasi ai suoi tempi, del vocabolo di “condictio” per indicare l' “actio in personam”, poiché l'essenza della primitiva condictio non consiste tanto nel dari oportere, quanto piuttosto nella denuntiatio diei. Ma ciò punto non toglie, che di fatto, in virtù di un lungo processo storico, verificatosi nel sistema delle legis actiones, l'actio sacramento si riduce alle sole vindicationes, mentre la condictio e in sostanza divenuta la forma, sotto cui facevansi valere tutte le actiones in [ Cf. il nexum -- ove trattasi appunto del comparire della mutui datio e della stipulatio, in surrogazione del nexum primitivo, che anda in disuso. Anche il MUIRHEAD stiene un'opinione analoga a quella proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che egli tratta contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della legis actio per condictionem. Ho però già notato, come quest'autore ritenga col Leist la stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da ammettersi.] personam, e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo dell'actio in personam. Intanto dalle cose premesse può esser ricavato il seguente svolgimento storico della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones. Le due procedure più antiche, le quali rimontano probabilmente ad epoca anteriore alla fondazione stessa di Roma, sono l'actio sacramento e la reciperatio. Quella è la procedura, che e accolta come esclusivamente propria dei quiriti, per le questioni di carattere quiritario, e quindi negli inizii dove essere la legis actio fondamentale del ius quiritium, nello stretto senso della parola. Questa invece si applica nei rapporti inter peregrinos ed anche in quelli inter cives et peregrinos. Siccome però a Roma e continuo l'attrito fra i cives ed i peregrini, e l'una e l'altra procedura segue davanti allo stesso magistrato, così ne venne, che le due procedure finirono per esercitare scambievole influenza l'una sull'altra. Cosicchè col tempo le forme più semplici e spedite della procedura inter cives et peregrinos finirono talvolta per essere trasportate ed accomodate alle esigenze del diritto civile romano. Così, ad esempio, allorchè fra i cittadini, accanto alle vere lites di carattere quiritario, che per la precisione ed esattezza di questo diritto, potevano risolversi affermando o negando, si svolsero delle questioni di carattere più indeterminato, che chiamavansi piuttosto iurgia, accanto all’actio sacramento, che continua ad essere l'a zione tipica del ius quiritium, comincia a svolgersi la iudicis postulatio, la quale fini colla legislazione decemvirale per entrare eziandio nel novero delle legis actiones. Per tal guise, le controversie, che hanno per oggetto un certum, si trattano coll'actio sacramento. Quelle invece, che riguardano un incertum, danno argomento alla iudicis postulatio. Ognuna poi di queste due legis actiones fini- [Gaio, dopo aver detto, che l'essenza dell'antica legis actio per condictionem consiste nella denuntiatio diei, aggiunge:  nunc vero non proprie condictionem dicimus actionem in personam, qua intendimus dari oportere; nulla enim hoc tempore eo nomine denuntiatio fit.” Gaio ha ragione dal suo punto di vista, perchè l'essenza dell'actio in personam ai suoi tempi sta non più nella denuntiatio diei, ma nel dari oportere. Ma storicamente lo scambio della parola si era operato, perchè nel sistema delle legis actiones la condictio era divenuta la forma, sotto cui si proponevano tutte le actiones in personam aventi per oggetto un certum.] per subire una suddistinzione. Quando infatti, accanto all'actio sacramento, penetra la condictio, la prima fini per restringersi alle vindicationes, e questa invece attire a sè tutte le actiones in personam, che avessero per oggetto un certum, e divenne quasi si nonimo di actio in personam. Cosi pure, allorchè nel diritto civile romano penetra in parte la considerazione dell'aequitas e della bona fides, nel seno della iudicis postulatio si opera pure una distinzione; poichè essa puo dar luogo o alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un arbitro, secondo la larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro affidata nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni di equità. Intanto però, mentre si ha questo svolgimento storico, è probabile, che tanto la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in parte, imitano delle procedure, che già si applicano nei rapporti inter cives et peregrinos. Fu in questa guisa, che, già sotto la veste ferrea delle legis actiones, si vennero preparando tutte quelle distinzioni di actiones, che poterono poi acquistare un libero svolgimento col sistema delle formulae. Tali sono le distinzioni fra la vindicatio e la condictio; fra l'actio in rem e l'actio in personam; fra le actiones stricti iuris e bonae fidei; fra le actiones certae e le incertae; fra l'actio nesin ius conceptae e le actiones in factum. Si può quindi conchiudere che, anche in tema di procedura, tutte le varietà e distinzioni delle azioni sembrano procedere da un'unica forma tipica, che è quella dell’ “actio sacramento”, la quale fu il nucleo centrale, intorno a cui si svolge la procedura contenziosa del diritto; ma che accanto alla medesima fin dai primi tempi fuvvi la reciperatio per le controversie inter cives et peregrinos, dalla quale dovettero essere mutuate certe procedure più semplici, come quella della “condictio”. E poi eziandio in questa procedura, che dove essere applicata dal praetor peregrinus, che comincia a prepararsi quel concetto del ius gentium, e quel sistema delle formulae, che esercitarono poi tanta influenza sul diritto civile romano. Mentre nella procedura contenziosa il diritto cerca di mantenere la più rigorosa IMPARZIALITA fra i contendenti, esso invece apre l'adito ad una procedura ben più decisiva, allorchè la lotta fra i contendenti giunse al suo termine, e trattisi di procedere all'esecuzione contro il soccombente. Anche il linguaggio giuridico sembra allora richiamare un'epoca di violenza. Ciascuno e vindice del proprio diritto. Noi veniamo cosi a trovarci di fronte alla manus iniectio e alla pignoris capio, di cui quella sembra avere il carattere di una esecuzione contro la persona del debitore, e questa invece il carattere di una pignorazione contro i beni del medesimo. È tuttavia facile lo scorgere, che nella procedura quiritaria si preferisce nell'esecuzione di procedere contro la persona del debitore, anzichè contro i beni del medesimo. Infatti nel diritto il modo generale di esecuzione per le obbligazioni viene ad essere la manus iniectio, che è diretta appunto contro la persona. Mentre la pignoris capio riveste in certo modo il carattere di un privilegium, e viene così ad essere ristretta a pochissimi casi, che furono specificamente introdotti o dalla legge o dal costume, e determinati dalla natura del credito. Intanto nell'una e nell'altra procedura già apparisce evidente, che se i vocaboli richiamano ancora l'uso della forza, questa pero viene già ad essere regolata dall'impero della legge; poichè è questa che determina i varii casi, in cui può ricorrersi all'uno od all'altro modo di esecuzione. Incominciando dalla manus iniectio, noi troviamo che la medesima, nel ius quiritium, compare sotto forme diverse, che vogliono essere tenute ben distinte fra di loro. Una prima forma di essa era la manus iniectio, a cui puo appigliarsi il padrone col servo, che avesse cercato di sottrarsi al suo potere, e questa era una conseguenza della podestà del padrone sul servo, di cui rimasero le traccie nella “vindicatio in servitutem”. Un'altra forma era quella invece, a cui dava origine l'obbligazione solenne del “nexum”, in base a cui il debitore, che non paga a scadenza, poteva, anche senza l'intervento del magistrato, essere trascinato nella casa del debitore, e quivi essere ridotto a condizione pressochè servile, fino a che non avesse soddisfatto il proprio debito. Vuolsi qui aggiungere, che Gaio accenna perfino al dubbio surto fra i giureconsulti, relativamente alla natura della pignoris capio, che alcuni ritenevano non essere una legis actio, in quanto che la medesima, sebbene si compiesse certis verbis, a differenza tuttavia delle altre legis actiones, extra ius peragebatur, e poteva perfino compiersi *in giorno nefasto*. Questa manus iniectio rimonta certamente ad epoca anteriore alla legislazione decemvirale, ed era una conseguenza del rigore dell’obbligazione quiritaria, contratta colle formedell'atto per aes et libram. Questa e quella manus iniectio, la quale, applicata sopratutto nei rapporti coi debitori plebei, da origine a quelle dissensioni civili, a proposito dei nexi, a cui cercò di porre termine la Lex Poetelia nel 428 di Roma. La Lex Poetelia però non e ancora una vera legis actio, in quanto che non fondavasi sulla legge, ma derivava direttamente dal rigore dell'obbligazione quiritaria, assunta colle forme del nexum, nella quale la volontà manifestata dalle parti costituiva legge, ed implica la condanna del debitore. Havvi infine quella manus iniectio, che occorre nella legislazione decemvirale e che costituisce un modo generale di esecuzione contro coloro, che avessero confessato il proprio debito (aeris confessi), o che avessero subita una condanna giudiziale per il pagamento di una determinata somma (iudicati vel damnati). A mio avviso, è solo a quest'ultima, che Gaio attribuisce il carattere di una vera legis actio, e che egli indica col nome di manus iniectio iudicati, sive damnati. La severità inumana, a cui poteva giungere la procedura della [Gaio. L'opinione espressa nel testo fondasi sulla considerazione, che Gaio restringe evidentemente la legis actio per manus iniectionem ai casi  de quibus, ut ita ageretur, lege aliqua cautum est , e si limita a fare una rassegna storica delle varie leggi, le quali, incominciando da Le XII Tavole, avrebbero consentito questo mezzo di esecuzione. Nella sua esposizione pertanto non si accenna più a quella rigorosa procedura, di origine pressochè contrattuale, a cui dava origine il primitivo nexum; tanto più che la medesima era andata in disuso fin dal tempo, in cui la Lex Poetelia ha tolte di mezzo le conseguenze speciali del nexum. Non mi sembra quindi il caso di voler forzare le espressioni di Gaio per far entrare i nexi nella espressione dei iudicati o dei damnati, adoperata da Gaio. Piuttosto i nexi dell'antico diritto possono ritenersi compresi negli aeris confessi di Le XII Tavole, dei quali non era più il caso che Gaio si occupasse. Poichè, se con quel vocabolo si intendevano gli obbligati col nexum, le disposizioni di Le XII Tavole sono state abrogate, e se si intendevano gli in iure confessi, non era il caso di farne una categoria speciale di fronte al principio – “in iure confessus pro iudicato habetur.” Questa opinione intanto si differenzia da quella di coloro, che vorrebbero comprendere i nexi nei damnati, di cui parla Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, e da quella eziandio di coloro, che appoggiati al testo di Gajo, il quale non parla dei nexi, vorrebbero escludere gli obbligati col nexum dalla procedura della manus iniectio, e porre imedesimi nella condizione di tutti gli altri debitori, come Voigt e Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, “Storia del dir. rom.,” il quale pure ha adottato l'opinione del Voigt.] manus iniectio, e probabilmente una delle cause, per cui la medesima col tempo diventa oggetto di investigazione curiosa per gli stessi autori latini, i quali hanno cosi occasione di tramandarci le espressioni testuali di Le XII Tavole a questo riguardo. Allorchè altri aveva subito condanna per un proprio debito, gli era prima consentita una specie di tregua (velut quoddam iustitium ), che durava XXX giorni, in cui doveva avvisare almodo di pagare il debito (conquirendae pecuniae causa ). Trascorsi i medesimi senza che egli pagasse, il creditore puo porre sopra di lui la sua manus, condurlo davanti al magistrato, e quivi pronunziare la formola solenne della manus iniectio. Né al debitore era lecito di depellere manum a se, né di agere lege pro se, ma solo poteva nominare un vindex, che fa valere le sue ragioni, dando sicurtà per il processo e per l'eventuale pagamento del doppio nel caso in cui vincesse l'attore. Intanto il creditore puo condurre il debitore nel suo carcere, e quivi metterlo in catene, con scelta al debitore di alimentarsi del suo o di lasciarsi alimentare dal creditore. Questo arresto durava LX giorni, e negli ultimi III giorni di mercato, compresi in questo spazio di tempo, il creditore dove condurlo di nuovo davanti al magistrato, e far pubblica la somma da lui dovuta accid qualcuno potesse pagare per lui. Che se anche allora non si fosse fatto il pagamento, il creditore poteva *ucciderlo* o venderlo al di là del Tevere (“capite poenas dabat, aut trans Tiberim venum ibat”). Ed anzi, se più fossero i creditori, venivano le famose espressioni conservateci da Gellio – “partis se canto: si plus minusve secuerunt, se fraude esto.” L'autore, che ci ha serbata più particolare notizia della procedura esecutiva nel diritto, conservandoci perfino le parole testuali della legge, è Gellio, Noc. Att., -- dove introduce il giureconsulto Sesto Cecilio Africano e il filosofo Favorino, a discutere intorno ad alcune singolari disposizioni del diritto. Interessante discussione, poichè da una parte abbiamo il giureconsulto, che, riportandosi alle opportunità dei tempi, cerca di scusare il vigore del diritto. Dall'altra abbiamo il filosofo, il quale, a nome della ragione, viene combattendone quelle disposizioni, che il tempo aveva fatto apparire o irragionevoli od inumane. Intanto, a questa discussione poi dobbiamo la maggior parte di quelle testuali disposizioni di Le XII Tavole, che a noi siano pervenute, le quali composte insieme colle informazioni dateci da Gaio, ci porgono le fattezze primitive della manus iniectio. Si comprende come l'enormezza del potere, che la legge qui accorda al creditore,  lascia increduli gli antichi ed anche i moderni. Di qui il tentativo recente di Voigt di interpretare la legge nel senso, che il capite poenas dabat significasse la riduzione in schiavitù del debitore, e che il partis secanto si riferisse alla ripartizione del prezzo ricavato dalla vendita, per il caso in cui fossero più i coeredi del creditore. Certo è, che se noi avessimo soltanto il testo della legge, questo potrebbe forse consentire questa interpretazione, punto non ripugnando che la legge attribuisse a quei vocaboli una significazione giuridica, anzichè letterale. Ma noi, oltre al testo della legge, abbiamo anche il commento, che vi diedero gli antichi. E questo è tale da escludere qualsiasi interpretazione più benigna. Noi troviamo infatti presso Gellio, che il giureconsulto Sesto Cecilio, pur tentando di spiegare il rigore della legge, punto non accenna alla possibilità di tale interpretazione. Sesto Cecilio dice invece, che il legislatore, nell'intento di tutelare la fede nei negozii,  introduce una pena, che, per la propria immanità, non puo essere applicata, come in effetto non lo era mai stata. Voigt, “XII Tafeln”. Egli, ciò stante, nella ricostruzione della legge VIII della Tav. III, aggiungerebbe alle parole serbateci da Gellio. “Tertiis nundinis, partis secant” -- le parole “si coheredes sunt” -- il che vorrebbe dire, che se il debitore era domum ductus da uno dei suoi creditori, egli non poteva più essere soggetto alla manus iniectio degli altri; ma intanto se fossero stati più i co-eredi del creditore, che l'aveva domum ductus, i medesimi potevano, in base alle XII Tavole, procedere contro di lui soltanto per la quota loro spettante di credito, e perciò dovevano chiedere il riparto della somma loro dovuta. Questa supposizione è ingegnosa. Ma è difficile di persuadersi, che una espressione larghissima, quale e quella di Gellio, puo restringersi ad un caso abbastanza speciale, qual e quello posto innanzi dal Voigt. Questa interpretazione letterale della legge, di cui si tratta, non e  solo attribuita alla medesima da Gellio ma eziandio da Quintiliano e da TERTULLIANO -- ma con parole alquanto vaghe, e coll'ag giunta,pur fatta da Gellio,  che la storia non ricorda alcun caso di “sectio corporis”. “Dissectum esse antiquitus neminem equidem neque legi, neque audiri.” Parmi poi, che un argomento per questa letterale interpretazione siavi eziandio in quell'altra disposizione delle XII Tavole. “Si membrum rupit, ni cum eo pacit, talio esto” -- ove compare in certo modo la stessa tendenza di accordare a colui che ha subìto un danno per colpa di un altro, una potestà corrispondente sul corpo di lui. Questa letterale interpretazione ha pure ad essere sostenuta, col sussidio della giurisprudenza comparata, dal Kohler (“Das Recht als Culturerscheinung”, Vürzburg) il cui brano relativo è riportato dal MUIRHEAD. Non può quindi essere il caso di dare alla legge una significazione diversa da quella, che vi attribuirono gl’antichi, ma piuttosto di cercare, come mai i decemviri possono giungere ad una disposizione di questa natura. Tale spiegazione non deve essere cercata tanto nella rozzezza dei costumi romani, quanto piut tosto in quella logica inesorabile, di cui già sonosi trovate le traccie nelle varie parti del “ius quiritium”, e sopratutto nel rigoroso concetto, che questo diritto ha a formarsi dell'obbligazione personale. Al modo stesso che il diritto quiritario, nella sua logica rude, trattandosi del dominio, immedesimò in certo modo la cosa, oggetto della proprietà, colla persona a cui essa appartiene. Così pure esso, nel concepire il diritto di obbligazione, vide nel medesimo un vincolo strettamente personale, che stringe pressochè materialmente il debitore al suo creditore (nexum), senza punto preoccuparsi dei beni, che appartenessero a quest'ultimo. Se quindi il debitore condannato non soddisfi il debito, la logica del diritto non si appiglie all'espediente di ripiegarsi sovra i beni del debitore. Procede diritta per la sua via, e verrà così aggravando i mezzi di co-azione contro il debitore che non paga, nell'intento di forzarlo ad eseguire il pagamento. Che se le co-azioni di carattere giudiziale od estra-giudiziale non bastano, questa logica, fissa nel carattere esclusivamente personale dell'obbligazione, puo anche giungere fino al l'estremo di accordare al creditore il diritto di vendere o di *uccidere* il debitore, al modo stesso, che attribuisce al proprietario la facoltà di distruggere la cosa, che gl’appartiene (ius abutendi). È tuttavia evidente, che il diritto, accordando simili diritti al creditore contro il debitore condannato, non intende tanto di accordargli un diritto reale ed effettivo, quanto piuttosto di attribuirgli efficaci e potenti mezzi di co-azione. Ciò è dimostrato da tutta la procedura. Lo stesso Kohler già erasi occupato della questione nel “Shakespeare vor dem Forum der Jurisprudenz” (Vürzburg), di cui può vedersi un largo resoconto del GIRARD nella “Nouvelle revue historique.” A compimento di questa notizia ricordo anche l’interessante saggio di ESMEIN, “Débiteur privé de sépulture, nei  Mélanges d'histoire de droit” -- ove il diritto del creditore prende un altro singolare svolgimento, quello cioè di porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di rifiutare al medesimo il riposo della tomba, finchè i congiunti o gl’amici non ne abbiano pagato il debito. Qui la co-azione adoperata s'appoggia sull'opinione popolare che l’ANIMA del debitore non trova riposo, finchè il suo CORPO non riposa nella tomba.] della manus iniectio, dalla necessità nei varii stadii della medesima della presenza del magistrato, dall'obbligo imposto al creditore di far pubblico il suo credito e di esporre sul mercato la persona del debitore. Ed è questo il concetto, che ebbe ad esprimere, presso Gellio, il giureconsulto Sesto Cecilio dicendo che i decemviri. “eam capitis poenam, sanciendae fidei gratia, horrificam atrocitatis ostentu, novisque terroribus metuendam reddiderunt.” Che anzi, prendendo alla lettera l'espressione di Le XII Tavole, nella parte, che si riferisce alla spartizione del corpo del debitore, appare perfino di impossibile attuazione, poichè vien dichiarato in frode il creditore, che tolga dal corpo del debitore una parte maggiore o minore diquella che gli sia dovuta, il che conferma eziandio l'altra espressione dello stesso giureconsulto, secondo cui – “eo consilio tanta immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam perveniretur.” Del resto non è questo il solo esempio di questa logica astratta, propria del diritto, che talora si spinge fino a tale da non essere quasi più applicabile nel fatto. Il diritto infatti del creditore sul corpo del debitore trova un riscontro nel diritto al talione, spettante a colui, di cui fosse stato rotto un membro -- talione che, secondo l'osservazione da Gellio attrituita al filosofo Favorino,  non puo essere più facilmente eseguito che la spartizione del corpo del creditore in proporzione dei crediti. Cosi pure esso ha un altro riscontro nel ius vitae et necis, che giuridicamente parlando spetta al padre sui figli, al marito sulla moglie, al padrone sullo schiavo, ancorchè in questa parte sia certo, che il rigore del diritto trova dei temperamenti nel pubblico costume. Non è quindi il caso di inferire da queste disposizioni l'esistenza di costumi antropofagi presso i romani. Ma soltanto di scorgere in ciò una nuova prova, che il loro “ius quiritium”, essendo il frutto di una elaborazione giuridica, la quale mira ad isolare l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo, fini per essere governato da una logica inesorabile, che tal volta appare non solo inumana, ma perfino inapplicabile nel fatto. Dice infatti Favorino presso Gellio: “Praeter enim ulciscendi acerbitatem ne procedere quoque executio iustae talionis potest; nam, cui membrum ab alio ruptum est, si ipsi itidem rumpere per talionem velit, quaero, an efficere possit rampendi pariter membri aequilibrium? in qua re primum ea difficultas est inexplicabilis”. KOHLER dice scherzevolmente, che alla lista delle ipotesi escogitate per spiegare questa disposizione, ne manca una sola, quella cioè che i romani sono degli antropofagi. Dal momento poi che il primitivo ius quiritium, nella sua procedura di esecuzione, ha preso di mira piuttosto la persona del debitore, che non i beni, che ne costituivano il patrimonio, si comprende, che esso, nella sua perseveranza tenace, stenta più tardi ad abbandonare la via, che prima segue. Noi troviamo infatti, che nel posteriore svolgimento della procedura esecutiva in Roma, mentre il diritto civile nello stretto senso della parola continua sempre a dirigersi contro la persona, anzichè contro i beni del debitore, e invece il ius honorarium, il quale soltanto molto più tardi riusci ad organizzare una procedura esecutiva contro i beni, che costituivano il patrimonio del debitore. L'una e l'altra circostanza è abbastanza comprovata dalle atte stazioni di Gaio. Questi infatti, parlando delle legis actiones, ci fa assistere allo svolgimento storico della manus iniectio nel diritto civile di Roma, dimostrando, come, sul modello della manus iniectio iudicati, altre leggi abbiano introdotto una manus iniectio pro iu dicato, ed altre abbiano poi dato occasione ad una manus iniectio pura, la quale, a differenza delle altre due, non impede che il debitore potesse “manum a se depellere et lege agere pro se”, senza ricorrere all'opera di un vindex. Posteriormente poi, la legge Vallia ristrenge di nuovo i casi, in cui non potevasi manum de pellere e pro se lege agere, a quei due, che primierano stati introdotti, in cui si agiva o in base a un giudicato, o contro una persona per cui altri aveva dovuto pagare qual sicurtà. Di questo, secondo Gaio, rimane una traccia anche dopo l'abolizione delle legis actiones in ciò, che anche ai suoi tempi colui, col quale si agisce in base a un giudicato o per aver pagato per esso, ”iudicatum solvi satisdare cogitur.” Lo stesso Gaio poi, sebbene alla sfuggita, dice altrove, che l'introduzione della bonorum venditio sole essere attribuita a Publio Rutilio, il quale dovette essere praetor nel 647 di Roma, e noi sappiamo, che è appunto con questa bonorum venditio, che si introdusse in Roma un concorso fra i creditori, non dissimile da quello, che ora ha luogo nella procedura per fallimento. E solo più tardi, che anche il diritto civile, per mezzo della lex Iulia de [Gaio. È notabile infatti come Gaio in tutta la sua esposizione della procedura esecutiva non accenni mai alla esecuzione sui beni del debitore. Gaio, IV, 35. Quanto a questa procedura contro i beni, vedi KELLER, “Il processo civ. rom.” e quanto alle analogie, che questo con corso dei creditori presenta col fallimento, cfr. Montluc, “La faillite chez les Romains” – ] -cessione bonorum, accordo al debitore il mezzo di evitare l'esecuzione personale, ricorrendo alla cessio bonorum. Ma anche allora questa cessio bonorum dove essere consentita dallo stesso debitore, e costitui in certo modo un benefizio, che gli venne accordato per cansare la esecuzione personale e per evitare anche l'infamia, da cui questa era accompagnata. Quindi neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione contro la persona, ma piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso, essendosi introdotto un mezzo per liberarsi da essa. Parmi poi, che questa preferenza indiscutibile del ius quiritium per la esecuzione contro la persona del debitore, anzichè contro i beni spettanti al medesimo, sia stata eziandio la ragione, per cui si mantenne in così ristretti confini l'applicazione della pignoris capio. Essa infatti si ridusse ad essere un privilegio per crediti di origine militare (aes militare, hordearium, equestre), e per crediti di origine religiosa (il prezzo di un hostia e il nolo di giumento allo scopo di un sacrificio, in dapem). Un solo caso di pignoris capio lascia traccie durature nella storia delle istituzioni giuridiche, e fu quello introdotto da una lex praediatoria o censoria, a favore degl’appaltatori delle imposte, sui fondi che sono gravati dalle medesime: privilegio di carattere fiscale, che ha un'analogia incontrastabile col privilegio generale sugl’immobili, che ancora oggidi spetta al fisco per le imposte dirette. Intanto però sta sempre il concetto, che nel diritto di Roma è la persona, che risponde direttamente delle proprie obligazioni, e che la missio in bona deve ritenersi soltanto introdotta dal pretore. Che anzi è degno di nota, che anche questa procedura sembra negl’inizii essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo dimostra il fatto, che noi la troviamo descritta dapprima nella “Lex Rubria” de Gallia Cisalpina. Una ragione di questa preferenza [Quanto all'origine pretoria dell'esecuzione contro i beni, vedi eziandio LENEL, “Das Edictum perpetuum”, La lex Rubria, Bruns, Fontes, attribuisce la facoltà di accordare questa missio in bona al solo pretore della città di Roma, come lo dimostrano le seguenti parole della legge “Praetor” – “isve qui de eis rebus Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius de  eius rebus omnibus ius deiicito, decernito, eosque dari bona eorum, possideri,  proscribique venire iubeto, etc.  Cfr. WLASSAK, “Röm. Processegesetze”] dell'antico diritto per la persona, anzichè per i beni del debitore, non potrebbe essa trovarsi nella considerazione, che tutto il primitivo ius quiritium ha ad essere modellato sul concetto fondamentale del “quirites”, in quanto era considerato come una individualità integra e completa sotto l'aspetto giuridico, la cui parola dava origine al “nexum”, e la cui volontà costituiva una legge, cosi nei negozii tra vivi come nel testamento? Non abbiamo anche in questo una conseguenza dal punto speciale di vista, a cui eransi collocati i modellatori del diritto? Basta ora ricomporre insieme queste varie parti della procedura romana e metterle in movimento ed in azione, per comprendere come il sistema della “legis actio”, anzichè essere, come vorrebbero taluni, un complesso di solennità, escogitate dallo spirito sottile e formalista dei romani, sia stato invece il mezzo più potente ed efficace,mediante cui venne preparandosi l'elaborazione del diritto civile romano. La “legis actio” e per cosi esprimerci, il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica del fatto umano puo essere isolata da tutti gl’elementi estranei, ed essere ridotta cosi a quello stato di purezza, che solo si rinviene negli scritti dei giureconsulti romani. Siccome infatti ogni diritto, per poter affermarsi in giudizio, dove passare per lo strettoio della “legis actio”: cosi ne venne, che con questo sistema prima il pontefice, nel modellare la “legis actio”, poscia le parti nell'adattare alle medesime la loro controversia. Quindi il magistrato nel determinare i termini, in cui tale controversia dove essere giuridicamente concepita. Infine i giudici, che doveno di necessità restringere la loro decisione al punto di questione che e loro sottoposto, attendeno tutti ad un medesimo lavoro, che e quello di spogliare una fattispecie da ogni elemento etico (morale) o religioso, con cui si trovasse implicata, per ridurla ad una configurazione e ad una formola ESCLUSIVAMENTE LEGALE O GIURIDICA. Siccome poi, il giudice della controversia, o e tolto dalle varie classi o tribù, come i centumviri e forse anche i decemviri, o scelto nel l'ordine dei senatori, come i iudices selecti, o convenuto fra le parti, come gl’arbitri, od anche scelto in parte fra i peregrini, come i recuperatores. Cosi ne veniva, che l'elaborazione del diritto in Roma e un'opera collettiva, a cui concorrevano tutti gl’ordini e le V classi, e che puo perfino sentire l'influenza del diritto e della procedura, che applicasi dei rapporti fra i cittadini e gli stranieri. Siccome parimenti tutto questo lavoro e unificato e coordinato per opera del magistrato, che sovraintende all'amministrazione della giustizia, ed e poi assecondato dall'opera dei giureconsulti, che venivano racchiudendo in formole la varietà grandissima dei negozii giuridici. Cosi ne venne, che in Roma fin dai suoi inizii si trova sapientemente organizzato un sistema di mezzi, il quale mira ad isolare l'elemento giuridico del fatto umano dagl’elementi estranei, a consolidare le consuetudini fluttuanti in una forma determinata e precisa, a richiamare le varietà dei fatti umani a certe forme tipiche e generali. E in questo modo, che puossono scomparire i contendenti e si sostituirono ai medesimi dei nomi convenzionali -- Aulus Agerius e Numerius Negidius nella formola processuale, Titius, Caius, Sempronius, etc. in quella contrattuale --; che una controversia PARTICOLARE e richiamata a certa forma GENERALE; e che intanto i concetti primordiali, da cui ha preso le mosse il diritto di Roma, poterono con una logica perseverante e tenace essere spinti a tutte le conseguenze, di cui erano capaci. E quindi sopratutto in Roma, che il diritto potè essere l'espressione della coscienza giuridica di tutto un popolo, un elemento organico della vita sociale, il frutto di un'elaborazione unica e varia ad un tempo, la quale obbedisce costantemente a quei processi, i quali, applicati prima dal pontifice, passarono poscia al praetor ed al giureconsulto, e non furono neppure abbandonati sotto gli stessi principi. Per tal modo, quel lavoro di selezione, che erasi in Roma iniziato mediante la legge, le quali, trascegliendo fra le istituzioni delle varie genti, ne hanno ricavato un diritto tipico, esclusivamente proprio del quirites, e perciò chiamato “ius quiritium”, venne ad essere eziandio proseguito nella interpretazione della legge e nell'amministrazione della giustizia, le quali si sforzarono dapprima di fare entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente dei rap porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e vennero poi gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse, allorchè esse cominciavano ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di provvedere. Per tal modo il “ius quiritium” si allarga ed amplia nel “ius proprium civium romanorum”; poscia accanto a questo venne svolgendosi il “ius honorarium”, il quale pur derogando al ius civile ed assimilando nuovi elementi, li forza tuttavia ad entrare in forme analoghe a quelle già preparate dal ius civile. È in questa guisa, che il diritto romano, dopo essere stato la selezione più rigida dell'ELEMENTO ESCLUSIVAMENTE GIURDIICO E NON ETICO, che presenti la storia, ed essere stato una produzione esclusivamente propria del popolo romano, viene a poco a poco attirando nella propria cerchia le considerazioni di equità e di buona fede, assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che potevano ricevere l'impronta del genio giuridico di Roma, finchè non diventa tale da poter essere comune a tutte le genti, che avevano somministrato i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Può darsi ed è anzi probabile, che i principii di questa grande opera di selezione sono dapprima inconsapevoli, come gl’inizii di tutte le opere umane, e fossero determinati dal modo di formazione di Roma, e dal genio eminentemente giuridico dei fondatori di essa. Ma egli è certo eziandio, che essa non tarda a cambiarsi ben presto in un'opera consapevolmente voluta e proseguita con una perseveranza tenace, di cui non potrebbesi trovare paragone. Così, ad esempio, dell'importanza della “legis actio” già dovette aver consapevolezza il patriziato romano, allorchè, dopo avere in parte reso comune alla plebe il proprio diritto, continua tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici la formazione della “legis actio”, e la cambia in un segreto di professione e di casta; come pure dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana, come lo dimostra la sua riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la tradizione, ha resa di pubblica ragione la piu primitiva “legis actio”. Questa influenza poi del sistema delle azioni venne ad essere anche maggiore, allorchè l'abolizione della “legis actio” e l'intro duzione del sistema delle formole attribui da una parte al magistrato libertà maggiore nella concezione giuridica delle varie fattispecie, e dall'altra gli porse eziandio il modo di introdurre nuove azioni, accanto a quelle, che si fondano direttamente sui termini della legge. Fu in quest'epoca, che il medesimo, oltre al ius dicere, si [(Pomp., Leg., Dig.; Liv. Secondo la tradizione, Gneo Flavio e dalla riconoscenza della plebe elevato alla dignità di *tribune* della plebe, di senatore e di edile curule.] trova eziandio nella necessità di edicere, ossia di pubblicare, entrando in ufficio, la norma, che avrebbe applicate nell'amministrazione della giustizia; che accanto ai iudicia legitima si svolgeno quelli imperio continentia; che, accanto alle “actiones legitimae”, quae ipso iure competunt, se ne formarono eziandio di quelle, “actiones quae a praetore dantur.”Da quel momento il “praetor” puo essere considerato come una “lex loquens”, e venne in certo modo ad essere arbitro sovrano nell'amministrazione della giustizia. Tuttavia l'abolizione della “legis action” e la sostituzione del sistema delle formulae devono essere intese alla romana, il che vuol dire, che l'abolizione è soltanto parziale e non impedisce la sopravvivenza dell' “actio sacramento”, come preliminare del “centum. virale iudicium” e di quello “damni infecti nominee”, al modo stesso che l'introduzione delle formulae, anzichè una rivoluzione, è piut tosto il riconoscimento e l'adozione fatta per legge di una pratica, che dove già essersi prima introdotta nel fatto. È infatti probabile che il sistema delle formulae già puo esser applicato nella “procedura inter cives et peregrinos”, nella quale non potevano essere applicate la “legis actio”, e che in tal guisa una procedura propria della “recuperatio” sia penetrata nel “ius proprium civium romanorum”, almodo stesso, che più tardi l'”actio sacramento” puo eziandio essere proposta davanti al “praetor peregrinus”. Il sistema delle formole e in certa guisa già contenuto in germe nel sistema della “legis actio”. A quel modo, che la “stipulatio” riducesi in sostanza alla parte nuncupativa del “nexum”, la quale, liberata dalla solennità del l'atto “per aes et libram”, puo essere adattata alla varietà dei negozii [Gaio dice espressamente, che, negl’esordii di questo sistema di procedura, “edicta praetorum nondum in usu habebantur”. Era quindi naturale, che quando questi sono introdotti, accanto a quella parte di diritto, che fondasi direttamente sulla legge, e che perciò da origine alle denominazioni di “actus legitimus”, “actio legitima”, “iudicium legitimum”, si svolgesse un diritto, che fondasi in certo modo sull'autorità del magistrato, e che, come tale, “imperio continebatur”, il quale finì poi per essere compreso sotto il concetto di “ius honorarium”. È poi Cic., pro Cluentio, il quale ha a dire, che siccome la legge e al disopra del magistrato, e questo è al disopra del popolo, “vere dici potest magistratum legem esse loquentem -- legem mutum magistratum.” Quanto ai concetti di “actio legitima” e di “iudicium legitimum”, vedi WLASSAK. Sull'influenza del “praetor peregrinus” e dell'edictum provinciale sul sistema delle formulae, v. Glasson, “Étude sur Gajus”] giuridici. Così, la formola consiste essenzialmente in quei “concepta verba”, che già occorrevano nella “legis actio”, salvo che questa “verborum conceptio”, liberata dalla parte mimica, da cui era accompagnata, e da quel rigore di termini (“certis verbis”), che era propria della “legis actio”, puo acquistare una duttilità e pieghevolezza, che la prima non ha. Noi trovammo infatti, che già sotto la veste ferrea della “legis actio”, ogni modus agendi finisce per abbracciare diverse azioni particolari. Queste azioni già cominciano a distinguersi nelle “actiones in rem” in “actiones in personam”, in quelle, che hanno per oggetto un certum od un incertum, e in quelle, che dano origine ad un iudicium o ad un arbitrium. Or bene tutti questi materiali, che ancora erano riuniti nella sintesi potente della legis actio, si trovano in certo modo abbandonati a se stessi, e si cambiarono in altrettante azioni, autonome ed indipendenti, aventi un nome specifico, una propria formola ed un proprio contenuto, e diedero cosi origine a quello splendido ed opulento sviluppo, che ebbe ad avverarsi col sistema delle formole. Quella libertà della formola, che sarebbe stata pericolosa negl’inizii della elaborazione giuridica, venne invece ad es sere opportuna, quando questa era già iniziata ed abbastanza progredita. Le prime formole, essendo state preparate sotto la rigida disciplina della “legis actio” e del “ius pontificium”, indicano abbastanza la via, in cui dove mettersi il magistrato per continuare l'opera già incominciata. È questa la ragione, per cui il “praetor”, malgrado la libertà apparente, che lo appartiene, sia di introdurre nuove azioni, sia di modificare le formole già ricevute, procede in cio molto a rilento, ed ama piuttosto di ricorrere a finzioni e di forzare cosi fatti ad entrare nelle forme riconosciute dal diritto, che non di alterare la forma che già e accolta. Per tal modo, il nuovo trova sempre un addentellato nell'antico, anche allorchè mira ad introdurre una modificazione al medesimo, e intanto ciò non impedisce, che una parte del diritto, che vive fluttuante pelle consuetudini, accanto al vero ius civile, si venisse ancor esso consolidando sotto forma di un ius honorarium, che è pur sempre modellato sul primo. Così pure, nella opera progressiva del praetor succedentisi l’uno all’altro, puo manifestarsi uno spirito di continuità, per cui le azioni ed eccezioni introdotte opportunamente da alcuno di essi finirono per costituire un ius translaticium, che passa al praetor successore, e serve cosi a preparare i materiali, che raccolti e coordinati costituirono poi l'editto perpetuo di Salvio Giuliano. In questa condizione di cose appare ad evidenza l'importanza del sistema delle azioni, poichè ogni progresso pratico della giurisprudenza romana viene ad esser introdotto, o per mezzo di una nuova azione, che tuteli un diritto prima non riconosciuto, o per mezzo di una eccezione, che neutralizzi l'effetto di un'azione già riconosciuta dal diritto civile. Allorchè poi un'azione è accolta od un'eccezione è ammessa, essa viene ad essere come un centro, intorno a cui si moltiplicano le formole per abbracciare l'infinita varietà delle fattispecie, finchè si giunge a quella ricchezza di formole, a cui accenna Cicerone, allorchè dice: -- “sunt formulae de omnibus rebus constitutae, ne quis aut in genere iniuriae aut in ratione actionis errare possit: expressae sunt enim, ex uniuscuiusque damno, dolore, incommodo, calamitate, iniuria, publicae a praetore formulae, ad quas privata lis accomodatur.” Le formole pertanto servirono anch'esse ad ampliare e a compiere quel lavoro di selezione, iniziato sotto l'impero della “legis actio”. Esse si accomodano alle varie fattispecie. Isolano l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo, gl’elementi essenziali del fatto umano dalle circostanze accidentali: accolgeno quelle aggiunte, che sono rese necessarie dalla maggiore varietà dei negozii; riassunggeno le varie fasi della controversia in guisa da presentare come uno specchio ed un compendio dell'intiero giudizio. Queste formole poi non furono qualche cosa di esclusivo alla procedura. All'epoca stessa, in cui penetrarono in questa, si vennero eziandio esplicando nel contratto, nei testamento, nei legato, e in ogni altra parte del diritto civile romano, e vi portarono cosi dappertutto l’ESATTEZZA E LA PRECISIONE DELLA LOGICA DEI CONCETTI GIURIDICHI, non disgiunta da elasticità e pieghevolezza alla varietà infinita dei negozii. È quindi facile il comprendere come il pontefice, il pretore e il giureconsulto, non credeno indegno del loro ufficio l'attendere alla composizione delle formole, e come bene spesso l'invenzione di una formola ha reso celebre e tramandato fino a noi il nome di un pretore o di un giureconsulto. Basta perciò aver presente l'importanza grandissima e la larghissima applicazione, che [Cic, Pro Roscio -- Cfr. WLASSAK. Occorrono delle notevoli osservazioni sulla importanza delle formole nel diritto civile romano presso LABBÉ-ORTOLAN, “Explication historique des Institutes de Justinien” (Paris)] ricevettero le clausole “ex fide bona” “quando aequiusmelius” e “propter te fidemve tuam fraudatus siem” -- le formole aquiliane de dolo malo ed altre, che sarebbe lungo ricordare; le quali serveno a far penetrare nel diritto la considerazione dell'equità e della buona fede, e a dare forma concreta e pratica applicazione alle lente mutazioni, che si venivano operando nella coscienza giuridica del popolo romano. E infatti per mezzo di una piccola aggiunta in una formola contrattuale e giudiziaria, che le aspirazioni latenti della coscienza giuridica popolare ricevevano applicazione pratica, e che il diritto fluttuante nelle consuetudini venne ad ottenere la tutela e la sanzione dell'autorità giudiziaria. Questa considerazione  mi porge opportunità di conchiudere questo saggio, spiegando un carattere del tutto peculiare della giurisprudenza romana. Nostro tentativo di “ri-costruzione” del primitivo ius quiritium quanto meno dimostra che il diritto civile romano, anzichè essere il frutto di una incorporazione qualsiasi di consuetudini preesistenti, operatasi a caso e lasciata in balia delle cir costanze, fu invece governato, fin dai proprii inizii, da una logica fondamentale, che non venne mai meno a se stessa. Esso può es sere paragonato ad un lavoro lento di cristallizzazione, in virtù di cui gli elementi affini, fluttuanti in un liquido, cominciano dal precipitarsi a poco a poco, e poi si compongono insieme, atteggiandosi costantemente a quelle forme tipiche, che sono imposte dalla legge, che ne governa la formazione. Se ciò è fuori di ogni dubbio, vuolsi però anche ammettere, che questa dialettica fondamentale, la quale regge tutta la formazione del diritto civile romano, sembra in certo modo essere dissimulata nelle opere anche dei grandi giureconsulti. In tali opere, per quel poco che a noi ne pervenne, i singoli istituti appariscono come autonomi ed indipendenti gli uni dagli altri, go [Questa importanza delle formole appare sopratutto nelle formole processuali, poichè ogni progresso nell'amministrazione della giustizia lascia in certo modo le traccie nella composizione della formola giudiziaria. Questo concetto ha ad esprimere, molti anni or sono, in “De exceptionibus in iure romano” (Torino) -- colle seguenti parole. “Neque vereor dicere, omnia quae in  iudiciorum ordine, progressione temporum et seculorum elaboratione, invecta fuerunt ad corrigendam, producendam, emendandam et adiuvandam antiquissimi iuris  formulam quodammodo adhibita fuisse.”] --vernati ciascuno da una propria logica, senza che più si scorgano le commettiture, che possono stringere un istituto cogli altri. Vero è, che considerando attentamente il formarsi di ogni singolo istituto, facilmente si riconosce la mano di artefici, educati tutti alla medesima scuola, cosicchè i varii istituti si possono paragonare ad altrettanti cristalli foggiati sulla stessa forma. Ma intanto più non si scorgono le traccie della legge, che ne governa la formazione. Era questo disordine apparente dei giureconsulti, che torna grave alla mente FILOSOFICA ed ordinata di Cicerone, il quale perciò giunse fino a dire, che i primi grandi maestri cercano di dissimulare la propria arte. Ma se questo potè forse esser vero, finchè la scienza del diritto – come la filosofia, dopo -- e un monopolio della gente patrizia, o meglio del pontefice massimo, custode delle loro tradizioni, non può più ammettersi per il tempo, in cui la casa del giureconsulto e aperta a tutti coloro, che volevano consultarlo. Anche i plebei furono ammessi a questo collegio dei pontefici e a professare giurisprudenza. Non è quindi in una causa alquanto puerile e di carattere transitorio, che vuolsi cercare il motivo di questa specie di contraddizione, che presenta l'elaborazione della giurisprudenza romana. Ma questo e piuttosto il modo, in cui venne in Roma operandosi l'elaborazione stessa. A questo riguardo vuolsi aver presente, che i modellatori del primitivo diritto di Roma – “veteres iuris conditores” – non hanno mai in animo di insegnare una scienza, ma piuttosto di professare un'arte (“iuris prudentia”), che forma solo più tardi argomento di scienza. Essi quindi non intesero punto di soddisfare alle esigenze didattiche, nè di introdurre quell'ordine sistematico, che è proprio della scienza. Si proposero sopratutto di soddisfare alle esigenze pratiche. Sono i casi, che si venneno presentando, che loro offrivano occasione di applicare l'arte loro. Siccome per tanto nella pratica era l' “actio”, che predomina, poichè era con l’ “actio”, che il diritto sperimenta se stesso. Così ne venne, che dapprima sono la “legis actio” che costitue il punto di richiamo dell'elaborazione giuridica, e determina l'ordine, a cui la medesima venne obbedendo. Quando poi la sintesi potente della “legis actio” venne ad essere disciolta, e pullularono così azioni e formole, molteplici e svariate, aventi ciascuna una propria vita ed una propria funzione nella formazione dei negozii e nell'amministrazione della giustizia, sono eziandio le actiones, l’”interdictum.” -- Cic., De orat., I. la “exceptio” e simili, che costituirono il punto centrale, intorno a cui dovette appuntarsi l'arte dei giureconsulti. Quindi è, che essi, per quanto ubbidissero ad una dialettica fondamentale, trascurarono naturalmente di far scorgere i fili, che componevano la trama. Cosicchè la girusprudenza apparisce come a frammenti, e ravvicinano istituti, che non hanno attinenza, disgiungendone altri, che sono in vece strettamente affini fra di loro. Di qui la conseguenza, che la costruzione giuridica romana non segue il processo dei concetti fondamentali, da cui parte, ma venne seguendo invece l'ordine, prima, di Le XII Tavole, e, poscia, dell'Editto. Nè questo disordine apparente puo recare imbarazzo agl’esperti, perchè l'arte in essi era viva e feconda. Puo invece riuscire grave agl’altri, i quali, come Cicerone, cercano di inoltrarsi in questo campo con un indirizzo mentale concettuale e filosofico – di ‘re-costruzione logica.’. Fu soltanto, allorchè la ricchezza dei materiali comincia ad ingombrare il campo, che si senti il bisogno di introdurre questa o quella distinzione sistematica, al modo del Liceo per genere e specie, ma anche queste distinzioni non compariscono nelle opere di costruzione giuridica propriamente detta, quali sono quelle dei classici giureconsulti, ma soltanto nell’opere di carattere didattico o tutoriale -- donde la spiegazione dell'ordine diverso, che occorre nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano e nelle Pandette. Siccome poi anche l'ordine sistematico, introdotto nelle Istituzioni, ha naturalmente lo scopo pratico di coordinare la giurisprudenza romana nello stato in cui si trova, anzichè di fare assistere alla formazione progressiva di essa; cosi ne viene, che anche le distinzioni, che occorrono in Gaio ed in Giustiniano, danno talvolta come contemporanei degl’istituti, che possono avere avuto origine in epoca compiutamente diversa. Ne consegue, che la giurisprudenza romana, quale a noi pervenne, colle sue proporzioni armoniche e colla coerenza delle sue varie parti, cela in certo modo la trasformazione lenta e graduata, che venne operandosi in essa, e la dialettica, che ne governa la for [Ciò appare sopratutto nelle “Receptae sententiae” di Paolo Diacono. Questo apparente disordine invece è alquanto minore nei cosidetti “Fragmenta” di Ulpiano, in quanto che questo lavoro di Ulpiano segue già passo passo l'ordine dei “Commentarii” di Gajo, abbreviandoli in qualche parte, e facendovi altrove qualche aggiunta, che altera talvolta le armoniche proporzioni dei “Commentarii” di Gajo. Questi ultimi poi, a parte l'originalità maggiore o minore del giureconsulto, sono il nostro modello di ordinamento sistematico, fatto in un intento didattico o tutorial per l’elite diriggente. Cfr. Huschke, Jurisp. antijustin., ed i proemii da lui preposti alle opere sopra citate dei giureconsulti] –mazione. Ma ciò punto non impedisce, che, penetrando sotto la scorza di essa, tosto si incontrino le traccie di materiali e di ruderi, che appartengono a sorgenti e ad epoche diverse, e rivelano cosi al l'investigatore i diversi periodi e momenti, per cui passa la lenta e graduata formazione della legislazione romana. Giunto al termine di questo faticoso lavoro di ricostruzione, ritengo opportuno di riassumere a grandi linee quelli fra i risultati a cui sono pervenuto, che possono cambiare in qualche parte il modo comunemente seguito di spiegare la storia primitiva di Roma, nel l'intento sopratutto di porre in evidenza quella mirabile coerenza organica, che sempre si mantenne nello svolgimento storico delle istituzioni di Roma. Allorchè le genti italiche si sovrapposero alle popolazioni già prima stanziate sopra quel suolo, che più tardi e denominato “italic”, dove avverarsi un periodo di forza e di violenza, non dissimile da quello, che si avvero più tardi all'epoca delle invasioni barbariche, ed il maggior bisogno, che dove sentirsi allora dai vincitori e dai vinti, e quello di uscire da quello stato di privata violenza. E allora, che le genti sopravvenute, memori forse delle tradizioni, che portavano dall'antico oriente, irrigidirono la propria organizzazione gentilizia, cercando di attirare nella medesima anche le popolazioni dei vinti, e costituirono così l'aristocrazia territoriale dei patres, dei patroni, dei patricii, mentre i vinti sono organizzati nella classe inferiore dei servi, dei clienti, e infine dei plebei. Questa organizzazione, malgrado le differenze nei particolari, assunge pressochè dapertutto un carattere uniforme, non dissimile da quello dell'organizzazione feudale nel Medio Evo. Essa organizzazione venne cosi ad essere composta di familiae, di gentes e di tribus, strette in sieme dal vincolo di discendenza reale o fittizia da un medesimo antenato, le quali risiedevano rispettivamente nella domus, nel vicus e nel pagus, mentre il territorio da esse occupato era ripartito in heredia, in agri gentilicii, e in compascua. Fu a questo stadio del proprio svolgimento, che le genti italiche presero tutte a travagliarsi intorno alla grande opera del passaggio dall'organizzazione gentilizia a Roma. Questa organizzazione ha sopratutto lo scopo di assicurare la comune difesa e di fortificarsi nelle lotte pres sochè quotidiane fra i varii gruppi. Roma comincia dall'essere un sito fortificato (“arx”, “oppidum”, “capitolium” ) per servire di rifugio in caso di pericolo. Poi diventa un sito per il mercato (“forum”) e un luogo di riunione dei capi di famiglia delle varie comunanze confederate per la trattazione degli affari comuni (“conciliabulum”, “comitium”). E posta sotto la protezione di un divino – “dius,” “dius-piter” --, comune patrono. Finchè da ultimo sotto la protezione della comune fortezza cominciano eziandio a costruirsi le abitazioni private. Non tutte le stirpi però sono pervenute al medesimo stadio di svolgimento, nè tutte hanno seguito il medesimo indirizzo nella formazione di Roma. Mentre gl’umbro-sabelli adereno ancora strettamente alla organizzazione gentilizia, e gl’etruschi sono già pervenuti alla città chiusa e fortificata, i Latini invece si trovano in uno stato intermedio. I latini sono pervenuti a Roma di carattere federale, considerata come un centro della vita pubblica per varie comunanze di villagio. È al buon seme latino, che s’attribuie l'origine del nome di Roma. Roma comincia dall'essere lo stabilimento fortificato di un nucleo di uomini forti ed armati – “vir”, “quirites”), staccatisi d’Alba per cercare altrove sorti migliori, secondo una consuetudine comune delle genti primitive, fidenti sopratutto nella forza del proprio braccio, ma non immemori delle tradizioni proprie della stirpe, a cui appartenno. Le lotte di questo nucleo di uomini di arme, stabilitosi sul Palatino, i quali, senza essere ancora veri capi di famiglia, tendeno a diventarlo, colle comunanze di villagio stabilite sulle alture circostanti dell'antico septimontium, lo conducenno prima alla comunanza dei connubii e in seguito alla confederazione colle medesime. Percorse due periodi compiutamente distinti -- cioè: il periodo della città federale, in cui Roma è una città esclusivamente patrizia, ed è un centro di vita pubblica fra varie comunanze gentilizie. Il secondo, quello in cui Roma, esclusivamente patrizia associasi anche la plebe circostante delle periferii, già pervenuta ad una certa agiatezza, nell'intento sopra tutto di provvedere alla comune difesa, e chiude nelle proprie mura le primitive comunanze di villagio, che entrano a costituirla.  Nel primo periodo, i cittadini di Roma sono i capi famiglia delle genti patrizie, confederati in uno scopo di comune difesa, e la loro città, posta nel centro delle varie comunanze di villaggio, rispecchia in se medesima le istituzioni dell'organizzazione gentilizia, a quella guisa che un lago limpido rispecchia le abitazioni e i villaggi, collocati sulle alture, che lo circondano. Essi infatti trapiantano a Roma, centro della loro vita pubblica, le proprie istituzioni gentilizie, salvo che le medesime, assumendo un intento essenzialmente civile, politico e militare, cominciano a perdere alquanto il proprio carattere patriarcale, e ricevono cosi uno svolgimento compiutamente diverso. Roma esce cosi dalla confederazione e dal l'accordo dei capi di famiglia (patres) e dei loro discendenti (patricii). Ma intanto assume un carattere religioso, politico e militare ad un tempo, come le genti che concorsero alla sua formazione. Sono i pontefici, che ne serbano le tradizioni giuridiche e religiose ad un tempo. Gli auguri modellano gli auspicia publica sugli auspicia, a cui già ricorrevano i capi di famiglia o delle genti. I feziali serbano le tradizioni relative ai rapporti fra le varie genti. In questo periodo la città serve ad operare la selezione della vita pubblica, che comincia a spiegarsi nella città, dalla vita domestica e patriarcale, che continua a svolgersi nelle varie comunanze di villaggio. L'urbs infatti designa l'orbita sacra, in cui trovansi riuniti gli edifizii aventi pubblica destinazione, ed ha nel proprio contro il tempio di Vesta e la domus regia. La civitas non comprende ancora quelli rapporti soltanto che si riferiscono alla vita civile, politica e militare. Il populus non comprende tutta la popolazione, ma quella parte eletta della medesima che puo giovare alla res publica col braccio (“iunior”) o col consiglio (“senior”). Per tal modo il grande intento della città in questo periodo e quello di sceverare la vita pubblica dalla privata – “publica privatis secernere” --, di modellare il concetto della “res publica”, in quanto essa ha un'esistenza distinta dalla “res familiaris”, e di architettarne la costituzione politica, la quale venne cosi ad uscire dal concorso di tutti gli elementi, che entravano a costituirla. La sorgente della pubblica potestà risiede quindi nel “populus.” Ma in tanto la parte dovuta all'età e all'esperienza nel provvedere all'interesse comune viene ad essere rappresentata dal “senatus”, che è già elettivo ed è nominato dal “rex”; il quale alla sua volta è l'eletto del “populus” e unifica in se medesimo l'”imperium”, che il medesimo gli conferisce. Tutto cio, che riguarda l'interesse comune, si delibera col concorso di tutti questi elementi, cioè essere proposto dal re, appoggiato dal senato, votato dal popolo. Cosicchè, la legge assume la forma di una pubblica stipulazione – “communis reipublicae sponsion”. Per quello invece, che si riferisce alla vita domestica e privata – “res familiaris” --, essa continua a svolgersi nel seno della “domus”, del “vicus”, del “pagus”, sotto la potestà dei capi di famiglia o delle genti. Queste continuano a possedere le proprie terre sotto la forma collettiva di “agri gentilicii” e di compascua, soli eccettuati gli heredia, assegnati dalla gens od anche dal re, i quali appariscono intestati ai singoli capi di famiglia. Anche la repressione dei delitti continua ad essere lasciata al potere domestico e patriarcale, e le pene conservano quel carattere religioso, che hanno nel periodo gentilizio. Solo assumono carattere di delitti *pubblici*, e sono sotto posti alla giurisdizione del re, temperata dalla provocatio ad populum, il parricidium e la perduellio, di cui quello è come il germe del reato comune e questa il germe del reato politico. Ma il diritto private continua in gran parte ad essere governato dal costume (“mos”), il quale appare ancora circondato da un ' aureola religiosa (“fas”). Cio tuttavia non impedisce, che fra le consuetudini e le tradizioni preesistenti già ve ne sono di quelle, che sono sanzionate dala “lex publica”, la quale è preparata dal pontefice, proposta dal re, e votata dal popolo; donde la formazione della “lex regia”, nelle quali tuttavia le istituzioni giuridiche serbano ancora quel carattere religioso, che era proprio delle istituzioni delle genti patrizie. Nel frattempo quell'elemento plebeo, la cui formazione già erasi iniziata nelle stesse comunanze di villaggio, prende un grandissimo incremento collo svolgersi della città. Poichè, esso trovasi accresciuto dalle popolazioni conquistate e da coloro che, spostati nell'organizzazione gentilizia, vengono a stanziarsi nel territorio circostante alla città. Questa moltitudine, che per essere composta di elementi di provenienza diversa e per difetto di organizzazione chiamasi “plebes”, non entra ancora a formare il “populus”, nè è ammessa alle curiae della città patrizia, ma abita nelle circostanze di essa, e tiene cosi una posizione più di *fatto* che di diritto. Ai plebei, che la compongono, solo dovette essere accordato, negli ultimi tempi della città esclusivamente patrizia, il “ius nexi”, ossia il diritto di contrarre dei prestiti, vincolando direttamente la propria persona, e il “ius mancipii”, ossia il diritto di ritenere quello spazio di terra, sovra cui essi erano stanziati colle proprie famiglie. È sotto l'influenza etrusca, che Roma comincia a prepararsi ad un secondo stadio, a quello cioè di città chiusa e fortificata nelle proprie mura, il che però non toglie, che essa continui ancor sempre ad essere un centro di vita pubblica per le comunanze e le famiglie, che trovansi stanziate nell'ager romanus, ma fuori del pomoerium della città. La trasformazione, iniziata da Tarquinio Prisco, si compie, allorchè con Servio Tullio Roma viene a comprendere nella propria cerchia non solo gli edifizii pubblici, ma anche le abitazioni private, e in base alla sua costituzione viene a formarsi accanto ai patres o patricii, un nuovo populus, composto di patrizii e di plebei, ripartito in V classi ed in centurie, di carattere essenzialmente militare, i cui membri hanno i loro diritti ed obblighi civili, politici e militari determinati sulla base del CENSO. Da questo momento quel dualismo, che esiste negl’elementi, che entra vano a partecipare alla medesima Roma, penetra eziandio nelle istituzioni politiche. Per tal modo accanto ai veri magistrati del popolo, comparvero il “tribune” della plebe. Accanto ai comizii delle curie e delle centurie si formar il “concilium plebis”, il quale col tempo si trasforma in comizio tribute. Da ultimo, accanto alla “lex” si svolge il “plebiscitum.” Di qui lotte, che condussero a svolgere e in parte anche a modificare i concetti fondamentali, che servivano di base alla costituzione primitiva di Roma. Intanto Roma si è ingrandita. Nelle suemura non si esplica più soltanto la vita pubblica, ma anche la vita domestica e private. Quindi la grande opera, che si inizia in questo periodo, viene ad essere la formazione di un diritto privato, comune ai due ordini, e la creazione di quell'arte, in cui i romani dovevano essere maestri al mondo, cioè dell'”ars iura condendi.” Gl’elementi, che dovevano convivere sotto la protezione di un comune diritto, sono due, cioè: il patriziato, onusto di tradizioni religiose, giuridiche e politiche, e la plebe la quale e un agglomeramento di elementi diversi, nuovo ancora alla vita civile e politica. Quello ha l'organizzazione gentilizia fondata sul vincolo civile dell'agnazione, e questa non conosce che la famiglia, stretta insieme dal vincolo naturale della cognazione. Quella ha tante forme di proprietà, quante sono le gradazioni dell'organizzazione gentilizia. Questa non ha in certo modo che il possesso delle terre, sovra cui era stanziata (“mancipium”). Qello ha il “fas”, il “ius”, l' “imperium”, l’ “auspicium”, il “mos veterum”. Questa non conosce che l'”usus auctoritas”.  Fu la distanza stessa, a cui trovavansi collocati i due elementi, e il loro modo di sentire e di pensare compiutamente diverso, in fatto di religione e di morale, che resero necessaria la elaborazione di un DIRITTO, comune ai due ordini, il quale FA COMPIUTAMANTE ASTRAZIONE DALLA MORALE E DALL RELIGIONE. Cosi pure è questa distanza, che spiega la lentezza di questa elaborazione e la ricchezza dei risultati a cui essa pervenne. Questa dove prendere le mosse dalle istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi estendersi a poco a poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche tempo ciascun elemento continua ad attenersi alle proprie consuetudini e costumanze. La convivenza dei due ordini, pero, nelle stesse mura e l'attrito dei quotidiani interessi finirono per determinare una specie di precipitazione del materiale giuridico, fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (“mos veterum”), o di costumanze della plebe (“usus”). Si inizia così la più mirabile selezione dell'elemento giuridico dagl’elementi affini, con cui trovasi implicato, che siasi mai avverata nella storia dell'umanità; selezione, che da una parte obbedisce alla legge naturali di formazione, e dall'altra è già l'opera di una elaborazione, per parte sopratutto del pontefice, i quali, essendo i custodi delle tradizioni delle genti patrizie, già sono in possesso di una vera tecnica giuridica. Il nucleo centrale di questa formazione venne ad essere il concetto del “quirites”, ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e proprietario di terre, quale appunto compariva nel censo. Il “quirites” viene cosi ad essere una realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un soldato ed un agricoltore ad un tempo. Ed il punto di vista, sotto cui si riguardano il “quirites” nel reciproco rapporto, essendo determinato dal censo, viene ad essere quello del mio e del tuo – “il nostro” --. Di qui consegue, che per essi ogni negozio riducesi ad un trapasso dal MIO al TUO – il nostro --, simboleggiato nell'atto “per æs et libram”, e ogni procedura viene ad essere simboleggiata in una specie di combattimento e di reciproca scommessa. Questo diritto, costituendo un privilegio dei “quiriti”, viene ad essere denominato “ius quiritium”. I suoi concetti fondamentali sono quelli vasti e comprensivi di caput, manus, mancipium, commercium, connubium ed actio. Esso costituisce in certo modo l'ossatura rigida di tutta la giurisprudenza romana. Siccome pero, attorno a questo primo nucleo, che si vien precipitando e consolidando, si mantengono ancora sempre, allo stato fluttuante, tanto le consuetudini e le tradizioni dei patres, quanto gli usi della plebe; così il primitivo “ius quiritium” viene in certo modo attraendo ed assimilando quelle istituzioni preesistenti, che potevano avere qualche analogia col diritto già formato. Per tal guisa il medesimo, arricchendosi di nuove forme, si viene gradatamente allargando nel “ius pro prium civium Romanorum”, il quale può essere considerato come un proseguimento di quella selezione, che erasi già incominciata col “ius quiritium”. Sono Le XII Tavole, che danno forma scritta alle basi fondamentali di questo ius civile. Quindi nelle medesime si possono scorgere le commettiture dei varii elementi, che entrano a costituirlo. Infatti in qualsiasi istituzione di quel ius, che i giureconsulti chiamano “proprium civium Romanorum”, può scorgersi una formazione centrale, che è dovuta al “ius quiritium”, e due laterali, di cui una suole essere di origine patrizia, e l'altra di origine plebea. Così, ad esempio, fra le forme del matrimonio havvi da una parte la “confarreatio,” di origine patrizia e dall'altra l'”usus” di origine plebea. La “coemption” sta nel mezzo, ed è la forma essenzialmente quiritaria. Fra le forme del testamento, le più antiche sono il testamento “in calatis comitiis”, propria del patriziato, e la “mancipatio familiae cum fiducia”, propria della plebe, le quali poi, pressochè componendosi insieme, dànno origine al vero testamento quiritario, che è quello “per aes et libram.” Infine, fra i modi di acquistare e trasmettere il dominio, il primo a formarsi è quello essenzialmente quiritario della “mancipatio”, attorno a cui si vengono poi accogliendo l'”in iure cessio” e l'”usucapion”. Intanto pero questa selezione non si arresta ancora colla formazione di un “ius civile”, e quindi, accanto al medesimo, si esplica il “ius honorarium”, il quale, pur derogando al primo, assimila nuovi elementi, facendoli pero entrare in forme modellate a somiglianza di quelle già adottate dal “ius civile”. È con questo meraviglioso processo che il diritto di Roma, dopo aver cominciato dall'essere la *selezione* più rigida dell'elemento giuridico, che ricordi la storia, ed una produzione esclusivamente romana, venne a poco a poco attraendo nella propria orbita anche le considerazioni di equità e di buona fede, ed assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che si acconciavano alla logica fondamentale, da cui era governato, finchè divenne poi tale da essere considerato come un diritto universale, e da poter essere accomunato a tutte le genti, da cui aveva tolti i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Il diritto romano riusci cosi ad essere una costruzione eminentemente dialettica, la quale riunisce da sè gli opposti ed i contrarii. Il diritto romano è antico nei materiali, che lo compongono, nuovo per le applicazioni che se ne ricavano. Sotto un aspetto il diritto romano è sempre fisso e fermo nei proprii concetti, sotto un altro è sempre in via di formazione. Il diritto romano obbedisce ad una logica fondamentale, e intanto lascia che ogni istituto proceda per proprio conto e segna un proprio concetto ispiratore. Mentre il diritto romano è una produzione del tutto propria del genio romano, assimila in se stesso le istituzioni di tutte le genti; è un'arte ed una scienza ad un tempo. Esso infine, mentre obbedisce e si piega alle esigenze pratiche, appare informato, come ben dice il giureconsulto, ad una vera e propria FILOSOFIA, la quale non si abbandona alle speculazioni ideali, mamedita sui fatti sociali ed umani, ne scevera l'essenza giuridica, la modella in concezioni tipiche, e svolge le medesime in tutte le conseguenze, di cui possono essere capaci. È questo il motivo, per cui le costruzioni giuridiche dei giureconsulti romani sono sempre dei modelli, che difficilmente potranno essere superati, poichè nella divisione di lavoro, che si opera fra i popoli moderni, non ve ne ha certamente alcuno, che possegga in questa parte le attitudini veramente meravigliose dell'ingegno romano per l'elaborazione dell'elemento giuridico, e nessuno parimenti, che possa aver l'occasione, il modo e il campo, che esso ebbe, per applicare la sua giurisprudenza alla immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare destino quello di Roma. Come le sue mura furono costrutte coi massi più solidi dell'epoca gentilizia; così i concetti, che le servirono di base, furono la sintesi potente di tutto un periodo di umanità, le cui vestigia si vengono ora discoprendo nelle necropoli delle più antiche città italiche e nelle civiltà fossili dell'antico oriente. Da questi ruderi di un periodo che può chiamarsi pre-istorico, essa seppe ricavare uno svolgimento storico e logico ad un tempo, che basta ad organizzare il mondo per tutto un grande periodo di civiltà. Senza essere ricca di concetti proprii, essa ebbe però tanta forza ed energia assimilatrice da fare entrare nei medesimi il lavoro di tutte le genti, con cui denne a trovarsi a con tatto. Senza abbandonarsi a speculazioni ideali, essa riusci ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, e a svolgerla in tutte le sue conseguenze con una logica inesorabile e tenace. Quando poi i concetti, che stano a base della sua grandezza, sono anch'essi esauriti, dalle loro macerie usce ancora la grande idea della umanità civile, e la sua legge puo servire come punto di partenza ad un nuovo periodo di cose sociali ed umane, Soltanto Roma, fra le città dell'universo, puo personificare in se stessa quella legge di continuità, che unifica la storia del genere umano. Le sue radici si perdono nella preistoria, e le nazionalità moderne sono  preparate da essa. Essa e l'erede e la raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio, e intanto pose le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne. Inchiniamoci a Roma. Quando si pretende di cambiarla in sede esclusiva del potere spirituale, essa sa di nuovo rivivere alla vita civile. Quando si crede di riguardarla come una specie di museo del mondo civile, colle sole sue memorie essa coopera a ridestare a vita una giovine nazione. I dualismi, che ora esistono in Roma, non ci debbono impaurire. Roma e sempre la città dei dualismi. Punto non ripugna, che Roma e la sede del governo civile. Già altra volta essa apprese l'arte di separare il potere religioso dal civile – “sacra profanis secernere.” Non ripugna parimenti, che Roma continua ad essere la città dei dotti e degl’eruditi, e che intanto sia la capitale di un giovine stato. Roma ha tal copia di monumenti del passato da ricavarne la più splendida passeggiata archeologica, e ha spazio che basta per fondare nuovi quartieri, che possano corrispondere alle nuove esigenze ed ai nuovi bisogni. Ormai er tempo, che essa un'altra volta arricchisse il nucleo ristretto della sua popolazione, accordando nuovamente la sua cittadinanza alle popolazioni, che vi concorsero da ogni parte dell'Italia. Lo stato federale non cerca di far rivivere la tradizione civile e politica di Roma. Lasciamo ad altri di combattere l'influenza della romanità. Noi, studiando fra i ruderi di Roma antica, abbiamo nella grandezza del suo passato uno stimolo ed un incitamento per l'avvenire; nè e inutile, che il giovine regno cerchi di educare il suo senso politico e legislativo, studiando l'opera dei più grandi politici e legislatori del mondo. La storia civile e politica di Roma e quella del suo diritto non deve in Italia essere privilegio di dotti e di eruditi. Deve essere parte dell'istruzione e dell'educazione civile e politica del popolo italiano. È solo in questo modo, che si spiega la falange di giovani studiosi, che si precipito sopra questo patrimonio, che deve essere nostro, allorchè lo studio della storia del diritto romano e opportunamente chiamato a far parte dell'insegnamento giuridico nell’università italiane. Credo infatti di poter affermare, senza timore di essere contraddetto, che nessun nuovo insegnamento provoca nel nostro paese cosi largo movimento di studii, come lo dimostrano le pubblicazioni fattesi sull'argomento, gli istituti per lo studio del diritto romano, che ora vengono sorgendo, e l'entusiasmo stesso, con cui non solo l'Italia, ma tutta l’Europa partecipa alla commemorazione solenne di quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli studi sul diritto ro mano pone le fondamenta dell'illustre ateneo di Bologna. L'importanza dogmatica del diritto romano potrà forse diminuire colla pubblicazione del codice civile germanico, il quale fa si che il diritto romano cessi di essere il diritto comune di un grande Popolo. Ma la sua importanza storica venne per cio stesso ad essere accresciuta, perchè si tratta pur sempre di determinare la parte, che nelle moderne legislazioni deve essere attribuita alla grande in fluenza del diritto romano. Ne è da farsi illusione, che questo gepere di studii possa ugualmente mantenersi fuori della cerchia dell’università. Poichè, tanto in Italia che in Germania, la scienza è nata e si è svolta nell’università, ed è in esse, che deve essere tenuto vivo il focolare della medesima. È soltanto nell’università, che la storia del diritto antico può cessare di occuparsi esclusivamente di minute ricerche archeologiche, per cambiarsi in un sistema di concetti, che possa essere succo e sangue per la giovine generazione. Giuseppe Carle. Diritto romano. Keywords: implicatura, diritto romano, legge romana, concetto di legge romana, natura romana Roman law often invoked nature to justify a legal ius – the principle of individual ownership: JOINT position of a single object  is said to be contra naturam. CONTRA NATVRAM QVIPPE EST VT CVM ALIQVID TENEAM TV QVOQVE ID TENERE VIDARIS. SERVITVS EST CONSTITVTIO IVRIS GENTIVM QVA QVIS DOMINIO ALIENO CONTRA NATVRAM SVBICITVR. Orazio. Sat, Roma – filosofia antica – Luigi Speranza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carle” – The Swimming-Pool Library.

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