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Wednesday, January 8, 2025

GRICE E CARLE B

 della famiglia e che, potendo, dovevano trasmettere ai proprii eredi. E la gente infine che, in mancanza di prossimi agnati, e chiamata a succedere al capo di famiglia morto senza eredi suoi, e che dove perciò anche provvedere alla tutela perpetua delle femmine e a quella dei figli, che fossero rimasti or di Cnaeus ai Calpurnii Pisones (Tacito). Parteno eziandio dalla gens i provvedimenti, che riguardavano la sepoltura. È da vedersi in proposito l'opera di Henri DANIEL LACOMBE, “Le droit funéraire à Rome” (Paris), dove dice che la gens conserva il suo sepolcro gentilizio, finchè si mantenne la sua organizzazione e l'unione stretta fra i suoi membri, cioè fin sotto il principato. E allora che incominciano i sepolcri di famiglia od ereditarii. Secondo quest'autore, mentre i liberti partecipavano ai sacra gentilicia, e quindi probabilmente anche al sepulchrum gentilicium, essi invece erano esclusi del sepolcro della famiglia, al quale hanno diritto soltanto gl’agnati. In proposito del princeps gentis o magister gentis è da vedersi Voigt, “Die XII Tafeln,” ove parla dei poteri al medesimo spettanti.] fani prima di essere pervenuti alla pubertà, come pure doveva essere essa, che facevasi vindice delle offese, che fossero recate ad alcuno dei membri che entravano a costituirla. Da ultimo, fra i membri della gente esiste l'obbligo della reciproca assistenza, per cui dovevano essere alimentati se indigenti, riscattati se prigionieri, sostenuti nelle loro controversie, e vendicati se fossero stati uccisi od ingiuriati. Se a tutto ciò si aggiunga il vincolo del nome, quello del culto, e quello del sepolcro, e facile il comprendere come un gruppo così intimamente connesso, unito nel passato e nell'avvenire, in vita e dopo la morte, nelle cose divine ed umane non potesse essere facilmente distrutto dalle influenze contrarie che si vennero svolgendo nella città. Esso continua, durante il periodo storico, ad avere una quantità di istituzioni tutte sue proprie, come lo dimostrano i vocaboli di “gentilis” e di “gentilicius”, l'esistenza anche nel periodo storico di un “ager gentilicius”, quelli dei “sacra gentilicia”, del “sepulchrum gentilicium”, per modo che, anche prima del formarsi di Roma, dove svolgersi tutto un “ius gentilicium”, che governa appunto i rapporti fra le varie persone, che entravano a costituire il gruppo gentilizio. Esso quindi non deve confondersi col “ius gentilitatis”, che indica il complesso dei diritti spettanti ai gentiles, al modo stesso che il “ius civitatis” indica i diritti spettanti al civis. Così pure non può esservi dubbio, che il vocabolo di “iura gentium”, che poscia ebbe a prendere un così largo svolgimento, dove nascere già in questo periodo per indicare appunto i rapporti, che intercedevano fra le varie genti e i capi delle medesime. Quanto ai poteri della gens, tanto sui gentiles quanto sui gentilicii, è a vedersi Voigt, “Die XII Tafeln”. La bibliografia copiosissima intorno alla gens può vedersi nel BOUCHÉ-LECLERCQ, “Institutions romaines”, come pure nel WILLEMS, “Le droit public romain”. Fra gli autori che tentarono la “ri-costruzione” del “ius gentilicium”, sono a vedersi sopratutto KARLOWA, Römische R. G., MUIRHEAD, Histor. Introd. Parmi tuttavia importante il distinguere il “ius gentilicium”, che comprende anche i rapporti fra la classe superiore dei gentiles e quella dei dipendenti da essi o gentilici, il “ius gentilitatis” che significa il complesso dei diritti spettanti ai membri di una stessa gente (gentiles), e i “iura gentium”, che governano i rapporti fra le varie gentes. Fra gl’istituti di questo “ius gentilicium”, quello che più merita di essere preso in considerazione è certo quello della clientela, essendo essa una delle cause del numero e dell'importanza, a cui giunsero i gruppi gentilizii. I clienti, durante il periodo storico, costituiscono una classe inferiore di persone, che appare vincolata al patriziato da certe obbligazioni di carattere ereditario, in contraccambio della protezione e difesa che esso gli accorda. Le due persone, fra cui intercede questo vincolo ereditario, sono indicate coi vocaboli di patrono e di cliente, il quale ultimo vocabolo, secondo l'opinione ora generalmente adottata, deriva da “cluere”, che significa audire nel senso di essere obbediente. Come tali, i clienti entrano a far parte della gente, a cui appartiene il loro patrono, ma non assumono perciò la quantità di gentiles. Ma quella soltanto di gentilicii e costituiscono cosi nel gruppo gentilizio una classe di uomini, di condizione inferiore, che in una posizione già alquanto migliorata corrisponde all'ordine dei servi e dei famuli in seno dell'organizzazione domestica. Il servo e il famulo non partecipano al ius gentilitatis, ma sono sotto la tutela del ius gentilicium. È Dionisio quegli, che ci ha conservato l'enumerzione più particolareggiata delle obbligazioni e dei diritti, che intercedono fra il patrono ed il cliente, attribuendo l'istituto della clien [Willems, “Le droit public romain” -- Non potrei però convenire in ciò, che Willems considera i clienti come una classe speciale di cittadini di diritto inferiore, perchè la clientela in ogni tempo e sempre considerata come un rapporto di diritto privato e non mai come un rapporto di diritto pubblico, che basta ad attribuire da solo la qualità di cittadino. I clienti poterono poi avere tale qualità quando hanno degli assegni in terre dal proprio patrono, mediante cui poterono figurare nel censo, ma non si capisce come potessero essere considerati come cittadini e avere il diritto di suffragio persone, le quali non potevano nep far valere direttamente le proprie ragioni in giudizio, ma abbisognano perciò del patrono. Questa è ancora sempre una conseguenza della confusione fra l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica. BRÉAL, Dict. étym. lat., vo Clueo. Cfr. MUIRHEAD, Encyclopedia Britannica, vº Patron and client] -- tela allo stesso Romolo. Ma egli è evidente, che anche la sua descrizione già altera alquanto le fattezze della clientela, stante lo sforzo fatto per trasportare nella convivenza civile e politica un'istituzione, che ee ata e si era svolta nell'organizzazione gentilizia. Secondo Dionisio, il cliente ha delle obbligazioni, nelle quali si può scorgere un carattere, che noi chiameremmo semi-feudale. Il cliente infatti deve al patrono riverenza e rispetto; deve accompagnarlo alla guerra; soccorrerlo pecuniariamente in certe occasioni, come nel caso di matrimonio delle proprie figlie, e di riscatto di sè e dei figli se siano prigionieri, come pure deve concorrere con lui a sostenere le spese di giustizia, ed anche quelle dei sacra gentilicia. Ciò tutto fa credere, che i clienti ottenessero dai loro patroni delle terre a titolo di precario, dalla cui coltura potevano ricavare dei proventi che loro appartenevano, e che le terre loro assegnate facevano parte dell' “ager gentilicius”, proprietà collettiva della gente; il che non rende esatta, ma spiega l'etimologia as segnata al vocabolo di clientes, che si dicevano così chiamati “quasi colentes”, perché avrebbero coltivate le terre dei padri. Infine, Dionisio parla perfino dell'obbligazione del cliente di non poter votare contro il patrono, la quale dimostrerebbe come la clientela, adatta al gruppo gentilizio, venne ad essere un'istituzione ripugnante al carattere di una comunanza civile e politica. Alla sua volta poi il patrono dove al cliente protezione e difesa, e quindi e tenuto a provvederlo diciò, che fosse necessario per il sostentamento di lui e della sua famiglia, il che facevasi mediante concessione di terre, che il cliente coltiva per suo conto. Esso dove di più assisterlo nelle sue transazioni con altre persone, rappresentarlo in giudizio, apprendergli il diritto – “clienti promere iura” --, ottenergli risarcimento per le ingiurie patite, averlo in certo [È Servius, In Aeneidem, 6, 609, che vuol derivare il vocabolo di “clients” da “quasi colentes”. “Si enim clientes quasi colentes sunt, patroni quasi patres, tantundem est clientem quantum filium fallere.” (Bruns). Parmi tuttavia che, tenendo conto del contesto della frase di Servio, qui il vocabolo quasi colentes non accenni tanto al coltivare le terre, quanto piuttosto all'osservanza ed alla riverenza del cliente verso il patrono, per guisa che anche l'etimologia di Servio confermerebbe quella oggidì adottata. Questo passo di Dionisio, in cui egli riporta le obligazioni rispettive del patrono e del cliente, attribuendo in certo modo l'origine della clientela a Romolo, è riportato dal Bruns, Fontes] modo in considerazione di membro della gente, ancorchè in condizione inferiore, in quanto che nella gerarchia gentilizia il cliente venne bensì dopo gl’agnati, ma era prima dei cognati e degli affini, i quali appartenevano ad un altro gruppo. Questi obblighi poi scambievoli, in mancanza di sanzione giuridica, sono collocati sotto la protezione del “fas” come lo dimostra la legislazione posteriore di Le XII Tavole, la quale, sanzionando un obbligazione certo preesistente, ebbe a stabilire – “si patronus clienti fraudem fecerit, sacer esto” -- ed al pari di tutti gli altri rapporti gentilizii hanno un carattere ereditario. Infine, siccome patrono e cliente appartengono entrambi allo stesso gruppo gentilizio, ancorchè in posizione diversa, cosi Dionisio va fino a dire, che essi non possono proseguirsi reciprocamente in giudizio, condizione anche questa, che, consentanea al carattere dell'organizzazione gentilizia, ripugna invece a quello della convivenza civile e politica, ove ognuno deve avere il mezzo di poter far valere le proprie ragioni davanti ad un'autorità, che accorda a tutti la propria protezione. Basta questa esposizione per dimostrare, come la clientela e un istituto nato e svolto nell'organizzazione gentilizia prima esistente, che continua ancora per qualche tempo a produrre i proprii effetti a Roma, ove tuttavia si trova compiutamente disadatto, perchè ripugna a quell'uguaglianza di posizione giuridica, che deve esservi fra coloro, che partecipano alla medesima cittadinanza. Essa quindi era destinata necessariamente a scomparire o quanto meno a trasformarsi, in quanto che nella città le persone, che trovansi in condizione inferiore, possono essere aggruppate nella plebe e fare a meno della protezione del patrono, essendovi un'altra autorità che li tutela. Di qui la conseguenza, che la clientela potè ancora mantenersi finchè i due ordini in lotta fra di loro si [MASURIUS SABINUS – “In officiis apud maiores ita observatum est.” “Primum tutelae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato, postea adfini.” HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae sup. -- Aulo Gellio invece accenna ad un'altra opinione, che dà la preferenza al cliente sull'ospite. Noct. Att., V, 13. Che poi il cliente entri in certo modo a far parte della famiglia è affermato da Festus, vº Patronus.  Patronus a patre cur ab antiquis dictus sit, manifestum; ut quia ut liberi, sic etiam clientes numerari inter domesticos quodammodo possunt >; Bruns. Cfr. Karlowa, Römische R. G., attenneno ancora strettamente alla propria organizzazione e rappresentano in certo modo due elementi fra di loro contrapposti nella medesima Roma. Ma dopo il pareggiamento invece dei due ordini, la clientela riusce solo più a mantenersi di nome, anzichè di fatto. Senza più importare quegli obblighi di carattere religioso ed ereditario, che ne conseguivano un tempo. I clientes si scambiarono cosi in semplici aderenti, che accompagnavano il patrizio od anche l' “homo novus” nella piazza e nel foro e ne costituivano in certo modo il corteo, e diventarono anche semplici salutatores; il che tuttavia non tolse, che il vocabolo “cliente” sopravvive alla istituzione da esso indicata, e rimanesse ad indicare il rapporto di colui che si affida al patrocinio legale di un'altra persona, ricordando così uno dei primitivi uffici, che il patrono ha certamente avuto verso il proprio cliente. Tuttavia, anche dopo il pareggiamento dei due ordini, allorchè la vera clientela già scompare nei rapporti fra i cittadini romani. Noi la vediamo sopravvivere nei rapporti dei cittadini romani colle altre genti, in quanto che trovansi le traccie di un ius applicationis, la cui origine rimonta alle tradizioni gentilizie, col quale un individuo, un municipio, un re od un popolo straniero ricorrevano al patronato di un cittadino romano per far valere o avanti al Senato o davanti ai magistrati di Roma ragioni e diritti che essi non sarebbero stati in caso di far riconoscere. Così pure nell'interno di Roma, la clientela, ancorchè scomparsa come istituzione giuridica, continua pur sempre ad esercitare una grandissima influenza sopratutto nel periodo dell’elezione -- nel quale tutte le aderenze si mettono in movimento e quindi anche quelle che ricordano uno stato di cose ormai scomparso. Accenna al ius applicationis CICERONE, De orat. ma sembra che già ai suoi tempi fosse assai oscuro il carattere di questa istituzione. Sonvi però autori, che, come MISPOULET, vorrebbero scorgere nelmedesimo la forma contrattuale della clientela. “Les institutions politiques de Rome” (Paris). In ogni caso converrebbe pur sempre dire, che il ius applicationis poteva essere la forma, che riveste il rapporto della clientela nell'epoca romana, ma non si potrebbe affer mare altrettanto dell'epoca gentilizia. Le formole epigrafiche, da Mispoulet citate in nota, si riferiscono alla così detta pubblica clientela, che era già stata creata a somiglianza di quella prima esistente. Del resto punto non ripugna, che anche la clientela potesse assumere un carattere contrattuale e che la formola di essa puo anche essere analoga a quella ricostrutta da Voigt. “Te mihi patronum capio. At ego suscipio poichè noi troviamo qualcosa di analogo anche nella deditio”. C. “Le origini del diritto di Roma”. Quanto alla clientela, e sopratutto disputata ed ha veramente grande importanza la questione intorno alla origine di essa. Si è sostenuto in proposito che i clienti fossero i primi plebei stati ripartiti da Romolo sotto il patronato dei patrizii; che essi fossero i primi abitanti del Lazio ridotti a vassalli; che fossero gl’immigranti in Roma in seguito all'asilo aperto da Romolo; che essi infine fossero antichi servi manomessi, la quale opinione, posta innanzi da Mommsen, si appoggerebbe sull'analogia, che corre fra gl’obblighi primitivi del cliente verso il patrono e quelli che ancora si mantengono durante il periodo storico a carico dei *liberti* verso il patrono. Di queste varie opinioni, quella che andrebbe a sorprendere la clientela nella sua prima formazione e che sembra essere più con sentanea al carattere dell'organizzazione gentilizia è l'opinione soste nuta da Mommsen, per cui i primi clienti della gente sarebbero stati i servi, i quali, manomessi dopo un lungo e fedele servizio nel seno della famiglia, sarebbero diventati clienti nel seno della gente, a cui appartene il proprio patrono. Ciò e non solo naturale, ma indispensabile nell'organizzazione gentilizia in quanto che, se cosi non e stato, i servi manomessi si sarebbero trovati abbandonati a se stessi e staccati da quel gruppo, al di fuori del quale non poteva esservi protezione giuridica, finchè non fu costituita una vera autorità civile e politica. Si aggiunge che l'organizzazione gentilizia è una formazione naturale e spontanea, che cerca in ogni suo stadio di bastare a se stessa, e tende così a ricavare dal proprio seno tutti i suoi successivi sviluppi. Viene quindi ad essere naturale e serve anche a dare una certa elasticità ai varii gruppi gentilizii e a permettere il passaggio da uno ad un altro la costumanza per cui coloro, che erano stati famuli o servi nella famiglia, potessero essere accolti come clienti o gentilicii nella gente. La clientela in tal modo venne a costituire una condizione relativamente più elevata a cui poteva aspirare il servo, e si comprende eziandio come la sua co-abitazione in una famiglia potesse da una parte disporre la gente a renderlo partecipe del culto e del sepolcro gentilizio, mentre dall'altra la sua fedeltà ed obbedienza nella qualità di servo e preparazione all'ossequio ed alla riverenza del cliente, L'esposizione più particolareggiata delle varie opinioni, colla indicazione degli autori, che ebbero a professarle, occorre nel.WILLEMS, “Le droit public Romain”, e nel Borché-LECLERC, “Instit. Rom.” È in questo senso che il concetto del Mommsen può essere accettato. Ma il medesimo vuol essere reso compiuto col ritenere che qui dovette verificarsi un processo, che è comune a tutte le istituzioni, per cui, una volta creata la configurazione giuridica della clientela per mezzo di elementi usciti dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia, si poterono poi fare entrare in essa tutti coloro, che essendosi per qualsiasi causa staccati da un gruppo abbisognavano di collegarsi ad un altro e di mettersi sotto la protezione o difesa di esso. Come quindi e naturale, che il servo affrancato dal capo di famiglia divenne cliente della gente a cui esso appartene, così dovette pure essere naturale, che una volta creato il rapporto religioso, giuridico ed ereditario della clientela e compresi nella medesima anche gli immigranti, che si rifugiano presso la gente, vincolandosi mediante il ius applicationis ad uno dei membri di essa, che ne diventava il patrono. Quelli, che per un diritto di guerra universalmente riconosciuto fra le varie genti, essendo posti nella condizione di dediticii, venivano ad esser privi di religione, di territorio, e di mezzi di sussistenza. Quelli, che erano soggiogati e vinti da una gente o tribù, che sopravveniva e si imponeva nel sito da essi occupato. Quelli che, fermata la propria sede accanto ad uno stabilimento di casate patrizie, ne ottenevano concessioni di terra e riconoscevano così il patronato delle medesime. Tutti quelli insomma, che in un'epoca di lotta e di violenza cercano protezione e difesa presso la gente, e che questa, per affinità di stirpe o per altro motivo, riteneva di poter accogliere nella comunanza gentilizia, assegnando pero ai medesimi una posizione subordinate. Cio intanto dimostra come la clientela e una istituzione indispensabile in questo periodo di organizzazione sociale. Serve ad incorporare nel gruppo gentilizio persone, che altrimenti si sarebbero trovate nell'isolamento e percio prive di diritto, e quindi, mentre da una parte accresce il numero e la forza delle genti, dall'altra procura al cliente una protezione giuridica, di cui e stato altrimenti privato. In questo senso non è certamente [Questa più larga estensione data all'origine della clientela, che, senza escludere l'opinione di Mommsen, la comprende, sembra essere giustificata dal seguente passo di Gellio: “Clientes, qui in fidem patrociniumque nostrum sese dediderunt”] destituita di fondamento la potente intuizione del nostro Vico. Vico ritenne che la clientela o come egli la chiama il “famulato” e un mezzo indispensabile per giungere al governo civile, in quanto che essa e il primo mezzo,mediante il quale individui e famiglie di origine diversa poterono, coll'accettare una posizione dipendente e subordinata, essere aggregate ad un gruppo, a cui non apparteneno per nascita, senza tuttavia essere assorbiti intieramente nel gruppo stesso nella qualità di famuli e di servi.  Non può quindi essere accolta l'opinione di coloro, che vorrebbero collocare il cliente in una posizione intermedia fra il servo ed il plebeo, poichè sebbene sia vero che l'uno poteva trasformarsi nel l'altro, tuttavia la clientela e la plebe sono istituti, che compariscono in stadii diversi dell'organizzazione sociale. Mentre la clientela appartiene ancora totalmente all'organizzazione gentilizia, il comparire invece della plebe segna già l'iniziarsi della vita civile e politica in seno della tribù, donde la conseguenza che la città formandosi soffoca la clientela, mentre verrà invece a somministrare il terreno, sovra cui la plebe potrà dispiegare la propria attività ed energia. Al disopra della gens compare infine nella organizzazione delle genti italiche un'aggregazione più vasta, che è quella della TRIBU, come lo dimostra il fatto, che, secondo la tradizione, sarebbe dal confederarsi delle tribù dei Ramnenses, dei Titienses e dei Luceres, che sarebbe uscita Roma, allorchè essa cesso di essere il primitivo stabilimento romuleo. La tribù tuttavia, delle istituzioni anteriori a Roma, è certo la più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Siccome infatti essa, per le funzioni esercitate, e tra le varie aggregazioni quella, che più si accosta Roma, così è anche quella, che per la prima e assorbita dalla medesima, per modo che il nome stesso delle tre tribù primitive di Roma sarebbesi forse perduto, se non l'avesse [Vico, Scienza nuova, Lib. “Della famiglia dei famoli innanzi delle città, senza la quale non potevano affatto nascere le città” – Milano] conservato la curiosità investigatrice di qualche antiquario, e non ne fossero rimaste le vestigia nelle VI centurie degli equites -- VI suffragia -- composte dei Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secondi. Gli è perciò che come e assai difficile il discernere la gente dall'aggregazione più ristretta dalla famiglia, cosi non è meno difficile il constatare in qual modo alle genti venga a sovrapporsi la tribù e come, riunendosi le prime, venga ad apparire la seconda. Di questo pero possiamo essere certi, che le tribù primitive di Roma risultavano composte da una aggregazione di genti, le quali si venivano raggruppando intorno al capo di una gente prevalente fra tutte le altre, da cui desumevano il loro nome complessivo, il quale percio e ricavato dalla persona che guida la tribù, più che dal luogo, ove questa era stabilita. Così, per arrestarsi alle due tribù primitive, la cui origine è meglio accertata, si può essere certi, che la tribù dei “Ramnenses” rica il proprio nome complessivo da “Romolo” *e* da “Remo”, che sono a capo di essa, secondo la tradizione. Il che è pure di quella dei “Titienses”, il cui nome deriva da Tito Tazio, capo della tribù sabina, stabilita sul Quirinale. Nel che è anche a notarsi, che il nome della tribù viene ad essere composto in guisa diversa da quello della gens, per guisa che mentre parlasi di una gens “Romilia”, “Titia” è “Claudia”, le tribù invece vengono ad essere dei Ramnes o Ramnenses, dei Tities o Titienses, e dei Claudienses. Di qui pud indursi, che la [Non mancano negli autori delle trattazioni anche relativamente alla tribù; ma di regola essa suol essere considerata come una ripartizione della città, nè cer casi di ricostruire la tribù primitiva, che sola può porgere il mezzo di comprendere la formazione della città. Tutti però concordano in riconoscere, che altre sono le tribù primitive, fondate sul vincolo genealogico, ed altre quelle posteriori introdotte da Servio Tallio, desunte invece dalle località, ove erano stabilite. Cfr. CARLOWA, “Römische Rechtsgeschichte”. Non può certamente essere accettata l'etimologia di VARRONE, De ling. lat. (Bruns), il quale vorrebbe in certa guisa far derivare il nome delle tre tribù dalle tre parti dell'agro, che sarebbe stato fra esse distribuito. “Ager romanus, primum divisus in partes *tres*, a quo tribus appellatae Titiensium, Ramnium, Lucerum.” Infatti l'opinione di Varrone in questa parte è contraddetta da Livio, da Servio, da Dionisio, che fanno invece derivare il nome delle tre tribù non dalle località, ma dal nome dei loro capi. È quindi evidente, che qui VARRONE confuse in certo modo le tribù primitive con quelle di Servio Tullio, come lo dimostra il [tribù comincia a delinearsi, allorchè viene ad avverarsi un'aggregazione di gentes, le quali, non essendo più strette dal vincolo della comune discendenza, si raggruppano intorno al capo della stirpe prevalente fra di esse e mentre conservano in particolare i proprii nomi gentilizii, assumono in comune un nome, che desumono dal proprio capo. Questa formazione novella viene poi ad essere determinata ogni qualvolta un'impresa o spedizione qualsiasi può porgere occasione a questo aggregarsi delle gentes. Di qui la conseguenza che la tribú - o può assumere un carattere pressochè militare, come accadde della tribù dei Ramnenses, che sarebbesi formata fra le genti albane in occasione di una spedizione di carattere militare, o può invece avere il carattere di una propria comunanza di villaggio, come era di quella dei Titienses già stabilita sul Quirinale. Tanto nell'uno quanto nell'altro caso la tribu assume immedia tamente un carattere religioso, ponendosi sotto la protezione del divino domune patrono – “dius”, “dius-piter” --  perchè fra le genti non si puo comprendere un'aggregazione qualsiasi senza un vincolo religioso che la stringa insieme. Qui intanto l'unificazione del gruppo divenne indispensabile, anche per l'intento che la tribù si propone di conseguire, e quindi viene ad accentuarsi assai più che nella gente la figura di un capo, che prende il nome di “praetor” o di dic. fatto, che egli dopo continua con dire. “Ab hoc agro quatuor quoque partes urbis tribus dictae ab locis, Suburana, Palatina, Esquilina, Collina, etc.” Del resto non pud neppure ammettersi, che occorresse una divisione dell'agro fra le TRE TRIBU, dal momento che ciascuna continua ad avere il proprio terrritorio, salvo che si tratta, non di una ripartizione di territorio, ma di una divisione meramente amministrativa, come dovette appunto essere. Secondo Bouché-LECLERCQ, la cui competenza è incontrastabile nella parte, che si riferisce alla religione di Roma per i suoi studii sui pontefici e sull'arte della divinazione, il culto delle tribù de' Ramnenses sarebbe stato quello di Marte e QUIRINO quello della tribù dei Titienses sarebbe stato quello di QUIRINO e di Giano. Quello infine della tribù de' Luceres sarebbe stato quello di Giove, sebbene queste varie divinità sembrino talvolta confondersi fra di loro, il che accade quanto a Marte e a Quirino, come pure di Giove e di Giano. Si può aggiungere, che del triplice divino rimasero ancora le traccie nei tre flaminimaggiori, che sono quelli di Marte, di QUIRINO e di Giove (Gaius I, 112). Di qui LECLERCQ ricava indizi dei diversi stadii, che Roma ha a percorrere nella sua formazione progressiva. “Institutions Romaines”] tator, se la tribù si trova avviata ad una spedizione; di iudex in tempo di pace; di magister pagi, se trattisi di una comunanza di villaggio già ferma in un determinato sito; dimeddix, come accadeva presso gl’osci, ed infine anche di rex, sebbene questo vocabolo, sembri comparire di preferenza quando trattisi del capo di una città propriamente detta. Tuttavia questo capo suol essere nella tribù ancora designato di preferenza dalla nascita, che non dall'elezione; come lo dimostra il fatto, che i due duci della tribù dei Ramnenses sono entrambi di stirpe regia e per essere *gemelli* debbono conoscere mediante gli auspicii quale di essi sia chiamato a fondare la città, o meglio il primo stabilimento romuleo sul Palatino. Quando invece da capo della tribù dei Ramnenses, Romolo dove già trasformarsi in reggitore della “civitas”, formatasi mediante la confederazione di varie tribù, in allora, secondo Dionisio, e già necessaria l'approvazione dei padri e la creazione del Popolo. Però accanto al capo si mantiene ancor sempre un consiglio, che può continuarsi a chiamare dei patres, perchè è effettivamente composto dei capi delle singole genti, e a cui probabilmente già viene data la denominazione di “senatus”. Infine, nella tribù già può avverarsi la riunione – “comitium” – degl’uomini, che colle armi – “iuniores” -- o col consiglio – “seniors” -- possono provvedere alla comune difesa od al comune in teresse; donde la conseguenza, che già nella stessa tribù può venirsi iniziando il concetto eminentemente concreto ed organico del “populus”, salvo che gl’elementi per costituirlo si ricano ancora direttamente dalle varie genti – “ex generibus hominum” -- cosicchè la sua classificazione continua ancora sempre ad avere un carattere prettamente gentilizio.  Questa naturale formazione della tribù dimostra, come la medesima corrisponda fra le genti italiche a ciò che per l'Oriente suol essere indicato col vocabolo di “vîc” o comunanza di villaggio, e fra I greci col vocabolo di dñuos. Essa costituisce in certo modo [Dion., HAUSSOULIER, “La vie municipale en Attique”. Devo però far no tare che, secondo l'autore, il demos dei Greci sarebbe già una vera associazione civile e politica e corrisponderebbe alla “curia” e più soventi al “pagus”, sebbene a mio avviso la curia ed il pagus siano due cose compiutamente diverse. La “curia”, infatti, è una divisione politica di Roma. Il “pagus” e la località, in cui dimora la tribus. Crederei quindi più esatto che il demos corrisponda a quest'ultima.] il più largo sviluppo, a cui pervenne l'organizzazione patriarcale, perchè mentre il suo elemento costitutivo e il modello, a cui si in forma, è pur sempre il gruppo gentilizio, da essa pero già si vengono elaborando quegl’elementi, che, trasportati nella comunanza civile e politica, finiranno per dare origine ad un rapporto del tutto nuovo, che è quello della “civitas”, il quale più non dispiegasi nel “pagus” come la “tribù”, ma bensi nell' “urbs”. Ben si potrebbe osservare contro questo tentativo di “ri-costruzione” concettuale, che la tribù mal puo essere l'ultimo stadio dell'organizzazione patriarcale, mentre essa ricompare poi come la prima ripartizione della città; ma anche ciò può essere facilmente spiegato quando si consideri, che era dalla tribus, che si sono ricavati i primi elementi, in base a cui si costituie Roma, come lo dimostrano anche i vocaboli di “tri-bunus”, “tri-butum”, “tri-bunal”, i quali tutti richiamano la “tribù”, e quindi era conforme al processo costantemente seguito nelle formazioni italiche, che l'edifizio novello di Roma si ripartisse nell'interno sul modello degli elementi primitivi, che con correvano a costituirlo. D'altronde è noto, che le tribù di Servio Tullio hanno un carattere di preferenza locale e non già genealogico come le tribù primitive. Intanto, senza volere per ora trattare a fondo dell'origine della plebe, non sarà inopportuno indicare, che è certamente colla formazione delle tribù, il cui nucleo è ancor sempre composto di genti patrizie, che può essersi iniziata la formazione della plebs, essendo naturale che attorno ad uno stabilimento di genti patrizie, che già riconoscono un capo, si venne formando una comunanza plebea, che provede al proprio sostentamento, o coltivando terre concesse dalle genti o dal capo di esse, o esercitando i mestieri e le professioni diverse. Il bisogno di questo nuovo elemento puo essere sentito dalle stesse genti, per quanto esse coi loro servi e coi loro client sono organizzate in guisa da poter bastare da sole a tutte le loro esigenze. Ciò è comprovato eziandio da quelle Quanto al diverso svolgimento di questi varii elementi in Roma, vedi  C., “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale”] come pure: Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e politica, colle opere ivi citate. La distinzione è fatta nettamente da Dionisio, il quale chiama la tribù primitiva “qulai revikai” e quelle di Servio Tullo “qulai totikaí”.antiche formole, in cui parlasi di populus et plebes, dualismo il quale fa credere che dovette esservi un tempo, in cui si chiamo populus l'assemblea politica e militare ricavata dal seno delle genti, secondo il rito e l'ordine prescritto dalle consuetudini e dalle tradizioni, mentre invece si chiama plebes dapprima e poscia plebs (da “pleo”, riempire) quella moltitudine ragunaticcia, che dopo essersi cominciata a formare con clienti rimasti senza patrono e che come tali venivano ad essere esclusi dal gruppo gentilizio, potè poi una volta formata accrescersi in guise varie e molteplici. Questo infatti risulta dalla storia delle istituzioni sociali, che il compito più difficile nella grande povertà delle idee primitive è la formazione di un nuovo gruppo. Ma quando esso è formato e corrisponde alle esigenze dei tempi, viene ad essere un potente richiamo per tutti gl’elementi, che per questo o quel motivo si vengono staccando dall'organizzazione prima esistente, e che abbandonati a se cercano un nucleo novello a cui possano aderire. Riassumendo questa lenta e faticosa ricostruzione dell'organizzazione sociale delle genti Italiche anteriore a Roma, credo che la medesima abbia abbastanza dimostrato, come l'organizzazione stessa siasi venuta svolgendo mediante un processo di naturale e spontanea formazione, costituita in certo modo da altrettanti sedimenti, che si vennero sovrapponendo l'uno all'altro, in modo pero che gli elementi, che formansi in ciascuno di essi, subiscono delle trasformazioni allorchè passano in quelli che vengono dopo. Infatti, anche lasciando in disparte la grave questione della provenienza delle genti Italiche, è molto probabile, che esse già recassero con sè l'organizzazione gentilizia, quantunque la medesima non avesse forse assunto quelle determinazioni precise, che acquisto più tardi. Furono i conflitti delle genti colle stirpi già stabilite sullo stesso suolo, le lotte fra vincitori e vinti, e quelle eziandio fra le stesse genti migranti, che presto dimenticarono la discendenza comune, che produssero un irrigidirsi dei varii gradi dell'organizzazione gentilizia e condussero alla formazione di una potente aristocrazia territoriale, militare e religiosa ad un tempo, che attrasse anche i vinti nei quadri del proprio ordinamento, collocandoli però in una posizione subordinata a quella dei vincitori. Ne consegui che la famiglia, per rendersi atta a sostenere i conflitti cogli altri gruppi, si venne concentrando e raggruppando sotto il potere del proprio capo, il quale sembra quasi perdere l'aureola di padre per assumere quella di sacerdote, di giudice, di uomo di guerra e di fondatore di una schiatta destinata a perpetuarsi. Intanto le persone, cheda lui dipendono, si dividono in liberi o figli e in servi o famuli, due vocaboli che si contrappongono fra di loro ed indicano due classi di uomini, che rimarranno distinte per contrassegnare in certo modo la discendenza dei vincitori e quella dei vinti. Di qui quel carattere eminentemente monarchico della costituzione della famiglia gentilizia, che tenacemente conservato nella famiglia quiritaria fini per attribuire alla medesima quella speciale impronta, che i giureconsulti romani più non ravvisavano nelle istituzioni famigliari degl’altri popoli. La gente invece continua sempre a ritenere alquanto dell'elasticità primitiva, nè giunge ad una concentrazione uguale a quella della famiglia. Ma intanto, memore del culto del proprio antenato, custode gelosa delle proprie tradizioni, riunita e resa compatta dai comuni pericoli, accresciuta dai clienti, si cambia anch'essa in una specie di corporazione potente, che continua ad essere il perno del l'organizzazione gentilizia, e mentre da una parte tiene unite le famiglie, dall'altra, aggruppandosi con altre genti, dà origine alla tribù. Intanto però anche in essa continua quel dualismo, che già erasi rivelato nella famiglia, salvo che i rapporti fra quelli, che un di furono i vincitori e quelli che furono i vinti, rimettono al quanto della propria rigidezza, e vengono cosi a trovarsi di fronte i gentiles ed i gentilicii, i cui rapporti. prendono un carattere pressochè giuridico nel patronato e nella clientela. Così pure nella gente, accanto all'elemento monarchico della famiglia, già viene a svolgersi un elemento, che potrebbe chiamarsi aristocratico, il quale costituisce un consiglio degl’anziani, che concentra in sè medesimo le principali funzioni, che appartengono alla gente. Da ultimo, nella tribu havvi pur sempre un'aggregazione di genti, ma intanto fra le medesime già distinguesi una gente, che predomina su tutte le altre e viene così ad essere ritenuta come di stirpe regia. Di qui la conseguenza, che in essa compare la figura di un capo, che è il principe della gente, che predomina su tutte le altre, conservasi il consiglio degl’anziani, che già mutasi in senato, perchè è già composto dei capi di genti diverse, ma intanto aggiungesi l'elemento democratico o popolare, che componesi di tutti gl’uomini, che, ricavati dalle varie genti, possono valere come uomini di armi o come uomini di consiglio. Cio però non toglie, che continui sempre il dualismo, che già esi steva negli altri gruppi in quanto che accanto al popolo formasi la plebe, la quale trovasi dapprima al di fuori della comunanza gentilizia e ha percio più un'esistenza di fatto, che non un'esistenza di diritto. Essa è dapprima riguardata con disprezzo dal patriziato, perchè esce dai quadri consacrati dalla religione e dal diritto delle genti. Ma cio non toglie, che passandosi dall'organizzazione gentilizia a Roma essa sia l'unico elemento, che possa sostenere la lotta coll'antico ordine di cose. Per tal modo si ha nel periodo gentilizio una vera formazione naturale delle varie condizioni di persone e dei varii elementi, che entrarono più tardi a costituire la comunanza civile e politica. Che anzi, mentre dura ancora il periodo gentilizio, già si vengono lentamente e gradatamente elaborando quei concetti, che serviranno poi di base a Roma. “Tantae molis erat romanam condere gentem.” Non è già che questo processo di naturale formazione sia proprio soltanto delle genti italiche, in quanto che le traccie di essa appariscono evidenti presso tutte le stirpi di origine aria. Nessuna però giunse a racchiudere i varii stadii di questa formazione in forme più determinate e precise delle stirpi italiche, e sono esse parimenti che, gettando nel crogiuolo i materiali tutti elaborati e conservati nel periodo gentilizio, seppero ricavarne le basi e il fondamento di Roma. Ciò è stato provato largamente dal SUMNER MAINE, “L'ancien droit.” È poi interessantissima a questo proposito la comparazione, che fa Revillout fra l'organizzazione domestica dei romani e quella che vigeva presso gli Egiziani nella sua opera col titolo, “Cours de droit égiptien” (Paris) della quale può considerarsi come un compimento, per ciò che si riferisce alle forme di celebrazione del matrimonio, il lavoro del suo allievo PATURET, “La condition juridique de la femme dans l'ancien Egipte” (Paris). Fra i problemi, che presenta la storia delle istituzioni primitive di Roma, uno fra i più difficili per comune accordo degli autori è certo quello, che si riferisce all'origine di quella forma di “proprietà”, che suol essere indicata col nome di proprietà quiritaria, la quale in certo modo venne ad essere il modello, sovra cui si foggia la proprietà presso la maggior parte dei popoli civili. A questo proposito le tradizioni a noi pervenute sembrano presentare alcune contraddizioni a prima giunta inesplicabili. Da una parte infatti, anche dopo la formazione di Roma, si rinvengono ancora le traccie di una proprietà collettiva, conosciuta sotto il nome di “ager gentilicius” e di “ager compascuus”, mentre dall'altra la proprietà quiritaria si presenta fin dai proprii inizi con un carattere cosi assoluto ed esclusivo, che sembra perfino escludere la possibilità dell'esistenza anteriore di una proprietà collettiva. A cio si aggiunge, che mentre da una parte la storia primitiva di Roma ci dipinge il patriziato fin dai più antichi tempi in condizioni tali da concentrare nelle sue mani tutto il capitale – “pecunia” --  allora esistente, e come il proprietario pressochè esclusivo di una gran parte del territorio, dall'altra la tradizione parla di una ri-partizione fatta da Romolo del territorio di Roma e di un assegno da esso fatto di soli due iugeri – “bina iugera” --  ai capi di famiglia, che lo segueno, il quale assegno avrebbe co stituito il primo patrimonio – “heredium” -- del più antico patriziato, che era quello della tribù dei Ramnenses. Ecco i principali passi di filosofi che si riferiscono all'argomento. VARRONE:: “Bina iugera, quod a Romulo primum divisa viritim, quae heredem sequerentur, heredium appellarunt”. PLINIO: “Bina tunciugera populo romano satis erant, nullique maiorem modum attribuit (Romulus).” Lo stesso Plinio: “M. Curii nota dictio est, perniciosum intel legi civem, cui septem iugera non essent satis. Haec autem mensura plebi post ex ictos reges adsignata esto.” (Brons, Fontes). Se ne ricaverebbe pertanto - Non è quindi meraviglia se le congetture a questo proposito siansi avviate in direzioni compiutamente diverse. Alcuni ritenneno che la proprietà privata in Roma sia stata una creazione dello stato. Contro questa opinione si è osservato che l'idea di una sovranità territoriale e affatto ignota ai romani, per guisa che un'imposta fondiaria qualsiasi sarebbe loro parsa un segno di soggezione odioso tanto, che fino al principato, Roma e l'Italia ne furono escluse. In senso contrario, si fa pero notare, che non può ammettersi che la proprietà in Roma siasi potuta sottrarre a quella evoluzione storica, che sarebbesi avverata presso tutti i popoli, in quanto che Roma avrebbe esordito con un concetto della proprietà, che presso gli altr’popoli non si rinviene che quando essi sono pervenuti al termine della loro evoluzione. Ne deriva che, lasciando in disparte le gradazioni diverse delle opinioni intermedie, le teorie estreme si potrebbero ridurre essenzialmente alle seguenti. Vi ha l'opinione di Niebhur, di Mommsen, seguita anche da molti altri, fra cui noto De Ruggero, secondo cui la proprietà in Roma, come presso gl’altri popoli, sarebbe prima esistita sotto forma collettiva e non sarebbesi cambiata in proprietà esclusivamente privata ed individuale, che colla ammessione della plebe alla cittadinanza e cogli assegni di terre fatti dallo stato ai che ai primi fondatori dello stabilimento romuleo l'assegno non fu che di due iugeri, mentre poi più non parlasi di altri assegni fatti anche al patriziato. Per contro gli assegni posteriori, incominciando da Numa, appariscono fatti ai plebei ed anzi ai più poveri della plebe. Solo fa eccezione Cicerone, il quale dice che Numa divide fra i cittadini l'agro pubblico conquistato sotto Romolo – “agros divisit viritim viribus” (De rep.). Ma in ciò è contraddetto da Dionisio, il quale parla di una distribuzione da Numa fatta ai più poveri, Quanto agl'assegni attribuiti ai re, che vennero dopo, sono tutti fatti alla plebe, ed è dopo le leggi Licinie Sestie, che i medesimi furono portati a sette iugeri. Ciò è attestato fra gl’altri da Columella, De re rustica. “Post reges exactos Liciniana illa VII iugera, quae plebi tribunus viritim diviserat, maiores quaestus antiquis retulere, quam nunc nobis praebent amplissima vetereta.” Ho citato questi varii testi per provare, che il solo assegno fatto ai primi padri o capi di famiglia fu quello di II iugeri attribuito a Romolo, mentre gli altri sono fatti alla plebe; il che dimostra che i padri dovettero continuare ad avere i loro agri gentilizii. PADELLETTI, Storia del diritto Romano, con annotazioni di Cogliolo, Firenze, si sforza, e a parer mio, inutilmente, a dimostrare che il piccolo “heredium” di II iugeri puo bastare ai bisogni della famiglia, stante la coltura intensiva applicata al medesimo.] singoli cittadini; e vi ha quella invece, sostenuta con ardore dal nostro Padelletti, secondo cui sarebbe affatto esclusa questa origine collettiva dalla proprietà, in quanto che l'istituto della medesima, quale si è svolto fin dai più antichi tempi di Roma, per usare le sue stesse parole, avrebbe assunto un carattere spiccatamente privato ed avrebbe segnato il grado più perfetto, a cui sia pervenuto il regime della proprietà. È poi degno di nota che siccome oggidi la ricerca intorno all'origine delle proprietà assunse le proporzioni di una questione economica e sociale, in quanto che ad essa si rannodano teorie diverse intorno all'ordinamento delle proprietà, così la ricerca delle sue origini presso un popolo, le cui istituzioni esercitarono tanta influenza sopra tutti gl’altri, ha assunto eziandio il carattere di un problema economico e sociale. Sonvi infatti coloro che, come Laveleye ed altri autori più o meno apertamente favorevoli ad un ordinamento collettivo della proprietà, vogliono trovare, anche presso [L'autore, che primo approfondì i concetti dell' “ager publicus” e dell’ “ager privatus”, è certamente Niedhur, “Histoire romaine.” Niedhur però sembra partire dal preconcetto, che anteriormente a Roma non esiste proprietà privata, e che questa e costituita mediante gli assegni stati fatti alla plebe. La sua opinione e seguita da Puchta, “Corso delle Istituzioni”. Trad. Turchiarulo, da MOMMSEN (“Histoire romaine”). Segue pare questa opinione De-RUGGERO nei suoi dotti articoli sull’ “ager publicus”, “ager privatus”, e sulle “lex agrariae”, inserti nell'”Enciclopedia giuridica italiana”, come pure nel suo precedente lavoro, “La gens in Roma avanti la formazione del comune” (Napoli). PADELLETTI. La questione dell'origine collettiva della proprietà comincia dall'essere posta in campo dal Sumner Maine (“L'ancien droit, -- Histoire de la propriété primitive”). Essa poi fu allargata da Laveleye nel “La propriété et ses formes primitives”, dove si oc cupa della proprietà presso i romani. Di recente poi la discussione -surse di nuovo, a proposito della proprietà primitiva presso i germani, in occasione di una dissertazione letta da FUSTEL DE COULANGES all'Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi, in cui sostiene che anche i primitivi germani conosceno la proprietà famigliare e privata. Alla discussione presero parte GEFFROY, Glasson, Aucoc e Ravaisson, e ne usce una specie di studio comparativo fra la proprietà e la famiglia romana e la proprietà e la famiglia dei primitivi germani. Compte rendu de l'Académie des sciences morales et politiques. L'opinione del Fustel DE COULANGES, quanto alla proprietà privata già conosciuta dai germani, e stata già sostenuta in modo anche più esclusivo da Ross, “The early of Land-holding among the Germans” (Boston)] i Romani, le traccie di una proprietà collettiva, mentre altri, sostenitori invece della proprietà privata ed individuale, cercano di avere per sè l'autorità di un grande popolo per giustificare la forma di proprietà che è loro prediletta. Il vero si è che tanto l'una come l'altra teoria solleva dei grandi dubbi. Da una parte infatti, quando si riconosca presso i romani solo una proprietà originariamente collettiva, viene ad essere inesplicabile come un popolo, che suole procedere così gradatamente nella trasformazione delle proprie istituzioni giuridiche, abbia potuto senza altro operare una rivoluzione così radicale nel concetto della proprietà. Dall'altra, se si sostiene che la proprietà romana e senz'altro una proprietà assoluta ed esclusiva, non è men vero che il popolo romano sembre rebbe appartarsi da tutta l'evoluzione della proprietà, quale almeno sarebbe stata formolata da coloro, che si occuparono delle forme primitive dalla medesima assunte. In questa condizione di cose non puo negarsi la gravità e la importanza del problema, e questo è certo che il medesimo non potrà mai essere risolto, finché non si ricerchino le condizioni della proprietà presso le genti del Lazio, per mettersi cosi in caso di apprezzare le trasformazioni, che esse ebbero a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla comunanza civile e politica. Tuttavia, prima di inoltrarsi nella ricerca, non e inopportuno di premunirsi contro alcune idee, che, sopratutto in questi ultimi tempi, si vennero introducendo intorno alla legge di evoluzione storica, che governa la proprietà. Laveleye cerca di stabilire sopra una grande quantità di fatti una legge storica, secondo cui la proprietà comincia dall'esistere sotto forma collettiva e poi sarebbe venuta assumendo un carattere sempre più individuale, lasciando così sottintendere, che l'unico rimedio di ovviare a questa individualizzazione soverchia della proprietà sarebbe quello di richiamare l'istituzione ai propri inizii. L'opera del LAVELEYE è quella già citata col titolo, “La propriété et ses formes primitives” (Paris), e la legge storica ricordata nel testo è da lui formolata nello stesso primo capitolo, il che giustifica alquanto la censura fattagli dal PADELLETTI di essersi sforzato a dimostrare una tesi. Del resto le idee del LAVELEYE trovano molti seguaci e possono anche essere accettate in certi confini, con che non si voglia cambiare in una legge storica generale un fenomeno, che ebbe solo a verificarsi in un periodo dell'umanità stessa, cioè nel periodo gentilizio. Di più si potrebbe [Senza entrare ora nella discussione di questa legge, devesi però notare, che ricerche di altri investigatori imparziali, fra i quali  Spencer, hanno già dimostrato, che una legge di questa natura non puo essere ammessa, in quanto che presso popoli del tutto primitivi già si trovano le traccie di una proprietà privata ed individuale. Quindi è che l'unica legge storica, relativa all'evoluzione della proprietà, che allo stato attuale degli studi possa formolarsi, e che la proprietà, essendo una istituzione eminentemente sociale, ha in tutti i tempi ad assumere tante forme, quanti sono gli stadii per corsi dall'organizzazione sociale. Sopratutto poi la storia delle istituzioni giuridiche presso i varii popoli dimostra, che le sorti della proprietà si presentano strettamente connesse con quelle della famiglia, cosa del resto che può essere facilmente compresa quando si consideri, che il primo bisogno della famiglia e certamente quello di assicurare il proprio sostentamento. Siccome pero la famiglia nel periodo, che suole essere chiamato patriarcale, entra essa stessa a far parte di un organizzazione maggiore, che è l'organizzazione gentilizia, cosi anche la proprietà finisce per assumere tante con figurazioni diverse, quanti sono i gradi di questa organizzazione sociale. Ciò può scorgersi anche presso quei popoli, i quali sono recati come esempio da quelli, che sostengono che nelle origini e prevalso il regime collettivo della proprietà, quali e le antiche comunanze dell'Oriente e anche dell'Occidente, il cui ter sempre notare a LAVELEYE e con esso al SUMNER MAINE che, finchè non sia provato che l'organizzazione patriarcale è l'organizzazione primitiva, non si puo neppure sostenere che la forma di proprietà, che trovasi durante l'organizzazione gentilizia, sia la forma primitiva. Quanto alla letteratura copiosa sull'argomento, può vedersi il dotto lavoro di VioLLET (“Précis de l'histoire du droit français”, Paris). L'autore ritiene, che la proprietà privata e la collettiva possano essere ugualmente antiche, ma che nella origine ha prevalenza la proprietà collettiva, mentre la proprietà individuale sarebbe stata ristretta a qualche cosa mobile di uso esclusivamente personale. Questa proprietà collettiva si e poi venuta frazionando ed avrebbe assunto un carattere sempre più individuale, in quanto che la proprietà famigliare e privata ha prevalso su quella più estesa della tribù. L'autore però non spiega, come ciò abbia potuto accadere, mentre il passaggio può invece essere seguìto presso i romani. SPENCER, Principes de sociologie, Paris, ove egli parla “de la fausseté de la croyance mise en avant par certains auteurs, à savoir que la propriété individuelle était inconnue aux hommes primitifs.”] ritorio, secondo consuetudini antichissime, suole essere ripartito in varie parti, di cui una viene ad essere assegnata alle singole fa miglie. L'altra è lasciata a prato ed a pascolo, ove i singoli capi di famiglia possono pascolare un numero determinato di capi di bestiame; e l'altra infine è considerata come proprietà della intera comunanza, ancorchè sovra di essa continuino ancora ad esercitare certi diritti i singoli comunisti. Or bene se la legge dell'evoluzione storica della proprietà è contenuta in questi, che sono i suoi veri confini, credo di poter affermare in base ai fatti, che la storia della proprietà a Roma non solo non costituisce un'eccezione alla medesima, ma è quella invece, che conserva le traccie più evidenti di tale evoluzione. Non è dubbio anzitutto, che presso i romani le sorti della proprietà e quelle della famiglia procedettero strettamente connesse fra di loro. Basterebbe a dimostrarlo il fatto, che il quirite entra nella comunanza civile e politica nella sua doppia qualità di capo di famiglia e di proprietario sopratutto del suolo, e che nel diritto primitivo di Roma i poteri del capo di famiglia sopra le persone e le cose si presentano così strettamente uniti fra di loro, che un solo vocabolo, quello appunto di familia, comprende le une e le altre. A ciò si aggiunge che è un principio, costantemente applicato dai romani, quello per cui non può esi stere nè alcuno stadio di organizzazione sociale, nè alcuna corporazione anche di carattere sacerdotale senza che le debba essere assegnato un patrimonio, il quale, indicato col vocabolo generico di “ager”, [LAVELEYE, come pure il SUMNER Maine, Village Communities. London, Early history of institutions. London, Early law and custom. London. Questa è la significazione che il vocabolo “familia” riceve nell'antico diritto, come lo dimostrano le espressioni familia habere, emere, mancipio dare e simili. Che anzi essa talvolta significa direttamente la proprietà, come può vedersi nella Lex latina tabulae Bantinae. Le varie significazioni del vocabolo “familia”, coi testi che loro servono di appoggio, possono vedersi in Roby, Introduction to Justinian's Digest. Cambridge, Notae ad Tit.  de usufructu , vº Familiae. G.  C., Le origini del diritto di Roma] può essere chiamato, secondo i casi, ager privatus, gentilicius, compascuus, publicus, communis, peregrinus e simili. Ciò prova fino all'evidenza, che il romano primitivo, allorchè si presenta nella storia, ha già il concetto profondamente radicato, che non possa quasi esservi la famiglia senza una proprietà, che le serva di sede e le fornisca i mezzi di sostentamento, e che questo concetto e da esso applicato a tutte le altre corporazioni, le quali tutte furono primitivamente modellate sulla famiglia. Non è quindi possibile il sostenere, che la proprietà privata o meglio famigliare possa, presso i romani, considerarsi come una creazione dello stato, ma conviene necessariamente ammettere che e conosciuta già prima, se appena fondato lo stato, il primo atto che esso compie, secondo la tradizione, è quello di assegnare una proprietà ai singoli capi di famiglia. È questo il motivo per cui anche qui, per comprendere l'istituto della proprietà quale comparisce in Roma, conviene cercarne l'origine presso le genti, fra cui Roma si è formata. Vero è che sono pochissime le vestigia veramente genuine, che ci riman gano dello stato di cose, che esiste anteriormente a Roma. Ma tuttavia anche con pochi frammenti non è impossibile la ricostruzione di questa condizione anteriore, quando si tenga conto del processo costantemente seguito dai romani, anche nel periodo storico, che è quello di trasportare nel periodo seguente i concetti e le istituzioni, che hanno ad elaborarsi nel periodo anteriore.  Intanto un primo sussidio può aversi in questo carattere del l'organizzazione gentilizia, per cui essa, a misura che giunge a produrre un nuovo gruppo, che si sovrappone e si intreccia al precedente, viene ad essere naturalmente condotta a creare una sede esteriore, in cui il gruppo stesso possa trovare il proprio svolgimento. Come più tardi la sede esteriore della “civitas” è stata l' “urbs”, così le sedi esteriori dei varii gruppi gentilizii sembrano, presso le antiche genti italiche, essere state indicate coi vocaboli certo antichissimi di domus, di vicus e di pagus. De-RUGGERO, Enciclopedia giuridica italiana, vº Ager publicus-privatus. Ciò può vedersi nel Pictet, Origines Indo Européennes; Paris, come pure nel BRÉAL, Dict. étym. lat. ai vocaboli indicati. Non vi è dubbio, che tutti questi vocaboli già esistevano anteriormente alla [Domus è la sede del capo famiglia coi proprii figli e coi proprii servi, sede, che può anche avere un cortile ed essere circondata da un piccolo orto e forse anche da un piccolo ager, che uniti colla casa costituiscono un tutto, che con un vocabolo non meno antico poteva es sere chiamato heredium da “herus”, od anche mancipium, perchè di pendeva direttamente dalla manus del capo di famiglia, intesa come la somma dei poteri al medesimospettanti, o infine anche familia, perchè comprendeva tanto i liberi quanto i servi. Non vi ha poi dubbio che è dalla domus, che si staccherà più tardi il concetto di “dominium” e si capisce anche che di questo dominium, il quale potrà poi acquistare una larghissima estensione, la parte più sacra, più preziosa, quella, da cui il capo di famiglia si separa più a malincuore e che egli vorrebbe perpetuare nella famiglia, continua sempre ad essere riposta in quel nucleo primitivo, che costitue l'heredium, e che nel diritto quiritario prese poi il nome di mancipium. La riunione poi delle abitazioni di diverse famiglie, provviste di un cortile e cinte da uno spazio, a somiglianza diquelle che Tacito ci descrive presso i germani, viene a costituire il vicus, il quale di regola nella organizzazione gentilizia suole comprendere le abitazioni delle familiae, che dividono il medesimo culto e appartengono alla medesima gente. Il vicus quindi ha ancora un carattere del tutto patriarcale e si comprendono cosi le circostanze attestateci da Festo: che i vici si trovavano di preferenza presso quei popoli, che non avevano ancora delle città, quali erano i Marsi ed iPeligni; che essi erano stabiliti fra i campi – “in agris” -- ; e che se essi già avevano un luogo di mercato, non avevano però sempre un luogo, dove si amministrasse giustizia, nè sempre nominavano un magister vici, a somiglianza del magister pagi, che ogni anno si nominava invece nel pagus. Cio dimostra, che se il vicus puo svolgersi formazione della comunanza, e quindi dalla loro esistenza si può argomentare che dovevano pur conoscersi le istituzioni, che con essi erano indicate. Quanto alle domus familiaque è da vedersi il numero stragrande dei passi raccolti da Voigt, “Die XII Tafeln” -- TACITUS, Germania. Festo, vº Vici, fa, quanto al vocabolo di vicus, ciò che suol fare per ogni altro vocabolo, la cui significazione siasi venuta trasformando, indica cioè le significazioni diverse, che il medesimo ebbe ad assumere. Egli quindi esamina il vicus, finchè trovasi ancora fra i campi – “in agris” --, ed è a proposito di questo primo vicus, che egli dice: “sed ex vicis partim habent rempubblicam, et ius dicitur, partim nihil eorum et -- talvolta in guisa da prendere le proporzioni ed avere le esigenze del pagus, nei casi ordinarii però era la sede di una comunanza puramente gentilizia. E poi naturale, che come le singole famiglie in esso avevano il proprio heredium, cosi anche il vicus, sede della gente, fosse circondato dal proprio ager gentilicius, sul quale si potevano anche fare gli assegni ai clienti. Viene ultimo il “pagus”, ove esiste un sito per il mercato, ma che contemporaneamente può anche servire per amministrarvi giustizia, sito, che probabilmente può già essere chiamato forum, almodo stesso che in esso già trovasi il magister pagi, dal cui nome ebbe a derivarsi senza alcun dubbio quel vocabolo di magistratus, che tamen ibi nundinae aguntur, negotii gerendi causa. Poi trova il vicus nel seno degli oppida, e dice che comprende  id genus aedificiorum, quae continentia sunt his oppidis, quae itineribus regionibusque distributa inter se distant, nominibusque dissimilibus discriminis causa sunt distributa . Tuttavia, anche nella città, il “vicus” indica ancora qualche cosa di privato, cioè quei vicoli privati, che dànno accesso esclusivo ad abitazioni contigue. V. Bruns, Fontes. L'interporsi di un elemento estraneo nel seno del vicus e poi naturalmente impedito da quella antica consuetudine romana, per cui il fratello vende al fratello, il vicino al vicino, il consorte al consorte. Che poi esistesse veramente una proprietà spettante al vicus e destinata ad uso comune degl’abitanti di esso lo dimostrano certe iscrizioni, in cui il vicus quale *persona giuridica* fa contratti di compra e di vendita, Corpus inscrip. latin.-- Del resto anche il Digesto ammette il vicus a ricevere donazionie legati. L. 73, 1 Dig. -- È da vedersi, quanto ai vocaboli con cui ebbe ad essere indicato il vicus nelle lingue Indo-Europee, il Pictet, Origines Indo-Européennes. Quanto al concetto del vicus e delle “vicinitas” presso i germani vedi Ross, Land holding among the Germans. Boston. Il vocabolo di “forum” è uno di quelli, che ci indica il processo col quale le genti latine, trovato una volta il vocabolo, venivano trasportandolo a tutte quelle significazioni, che corrispondevano al concetto ispiratore del medesimo. Noi sappiamo da Festo, che “forum” significa il vestibolo di un sepolcro, ove convenivano i parenti per dare l'estremo saluto al defunto. V. Bruns, Fontes. Poi sappiamo da VARRONE, De lingua latina, che le genti latine  quo conferrent suas controversias et quae vendere vellent quo ferrent, forum appellarunt. Infine l'abbre viatore di VERRIO Flacco colla sua consueta diligenza ci dice che “forum sex modis intellegitur; primo negotiationis locus; alio, in quo iudicia fieri, cum populo agi, contiones haberi solent; tertio cum is, qui provinciae praeest, forum agere dicitur, cum civitates vocat et de controversiis earum cognoscit, ecc.” (Brons). Per tal modo, il luogo di convegno per i parenti, che piangono un defunto, viene col tempo a convertirsi nel sito, ove il magistrato romano risolve le controversie fra le città ed i popoli.] serve ad indicare tutte le cariche della città. Nel “pagus” per tanto havvi già un accenno alla vita civile, e quindi si può ritenere con certezza, che esso è già la riunione di più vici e comprende il complesso delle abitazioni occorrenti per un'intera tribù. Ciò del resto è dimostrato dal fatto, che le tribù rustiche di Servio Tullio presero il nome di tanti pagi, che prima esisteno nella stessa località. Così pure, nota Lange, e dimostrato che il pagus Succusanus e sostituito dalla tribus Suburana, che è una delle quattro tribù urbane dello stesso Servio, come pure vi sono iscri zioni, che parlano di un pagus Aventiniensis e di un pagus laniculensis, nei quali nomi è anche degna di nota la terminazione di essi, che è analoga a quella, con cui si indicano le popolazioni, che compongono le tribù. È poi anche naturale, che questo pagus ha pur esso un ager, certamente situato a maggiore distanza, perchè in prossimità vi sono gli agri gentilicii, e che questo ager chiamisi “compascuus”, e che comprenda talvolta eziandio, oltre il sito destinato per il pascolo, anche delle siloae e dei saltus. Intanto da questa configurazione esteriore dell'organizzazione gentilizia si può inferire che, almodo stesso che questa venne forman dosi per una naturale sovrapposizione di varii gruppi, così anche le varie forme di proprietà si vennero assidendo l'una sull'altra. L'ager [LANGE, Histoire intérieure de Rome, NIEBHUR, Histoire Romaine. Del saltus è da vedersi la diffinizione di Elio GALLO conservatasi da Festo, pº Saltus. I saltus potevano essere oggetto di proprietà collettiva del pagus e della città, ed anche di proprietà privata. È poi degno di nota, che il vocabolo “saltus”, allorchè già si venivano formando i latifondi per modo che, secondo Plinio, sei persone possedevano metà dell'Africa (Hist. nat., XVIII, 7), finì per significare quegli immensi dominii, posseduti da privati e soventi anche dal principe, sovra cui dimora una popolazione, di carattere pressochè colonico, che dipende più dall'arbitrio del possessore o del suo procurator, che non dalle leggi del principato. Riguardo ad uno di questi saltus, situato appunto nell'Africa e chiamato Saltus BURANITANUS, si scoperse di recente una importante iscrizione, che contiene una petizione della popolazione del saltus al principe. Fondandosi su di essa ESMEIN, sostiene che in questi saltus comincia a formarsi l'istituzione del colonato. — Mélanges d'histoire du droit et de critique. Paris, V. pure FUSTEL DE COULANGES, Le colonat romain. Paris] si viene, per dir così, atteggiando in tante guise, quanti sono i gruppi che si vengono sovrapponendo. Presentasi anzitutto la casa (domus od anche tugurium, se nel contado) colla sua corte, coll'orto e col campicello attiguo, che appartiene alla famiglia nella persona del suo capo, e ne costituisce l'heredium, la familia, il mancipium. Ma siccome ogni capo di famiglia, oltre questa parte sostanziale del suo patrimonio, può anche avere un capitale circolante, composto di greggi e di armenti e di altre cose mobili, così è naturale, che accanto al concetto dell'heredium si formi quello del peculium, accanto a quello della familia quello della pecunia e accanto a quello del mancipium quello del nec mancipium; distinzione, che tornerà poi in acconcio per spiegare a suo tempo la famosa divisione del diritto quiritario fra le resmancipii e le res nec mancipii. Che veramente questa forma di proprietà già preesiste alla comunanza romana viene ad essere provato da cio, che fin dal primo formarsi di questa occorrono i concetti di herus, di heredium, di heres, il qual ultimo vocabolo ha pur la stessa origine di “herus” e scrivesi talvolta anche semplicemente “eres”, per guisa che anche questo vocabolo significa, se non il proprietario, al meno il comproprietario, come lo prova la testimonianza di Festo, secondo la quale  heres apud antiquos pro domino ponebatur . Non vi ha poi dubbio, che con questi vocaboli ha eziandio strettissima attinenza il vocabolo di herctum o erctum, che significa ripartizione da erciscere, donde proviene la denominazione certamente antica dell'actio familiae erciscundae. Tuttavia, comegià si accenna, è un costume antichissimo quello indicatoci dall' ercto non cito  di Aulo Gellio, la cui significazione letterale è, a mio avviso, quella di non venire ad una pronta divisione e che indica il più antico dei con [Trovo confermata la descrizione sovra esposta dell' heredium dal dottissimo lavoro, di recente pubblicato da Voigt, così benemerito degli studii sull'antica Roma, col titolo, “Die römischen Privataltertümer und römische Kulturgeschichte”, estratto dall' Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft, pubblicato dal Beck in Nördlingen. Quivi Voigt ritiene che l'heredium comprenda l'hortus, l'ager, la cohors o chors, il pomatum, più tardi detto anche “pomerium”, e di più la casa, detta anche tugurium, che comprende il granarium, il foenilium, il palearium ecc. Ivi poi si trova citata tatta la letteratura sull'argomento, compresa anche l’italiana, così spesso trascurata. Anche Voigt sembra accostarsi alla significazione qui attribuita al dualismo di familia pecuniaque, senza però accennare alla correlazione, che sembra esistere eziandio fra heredium e peculium, mancipium e nec mancipium, sorzii e delle società, che è quella fra i fratelli e gli agnati, che lascia vano indivisa l'eredità ed il patrimonio. Intanto la conseguenza viene ad essere questa, che i vocaboli di mancipium e di manceps, quelli di familia e di pater familias rimontano tutti al periodo gentilizio, e segnano, insieme con herus ed heredium, l'atteggiamento diverso sotto cui poteva essere considerata la figura molteplice del capo di famiglia. Di questi vocaboli però quello che significa meglio il potere giuridico del capo di famiglia era quello certamente di man ceps e di mancipium, ed è questa forse la causa, per cui il vocabolo, che prevarrà più tardi nel diritto quiritario e quello di “mancipium”, al quale solo più tardi sottentrerà quello di dominium ex iure Quiritium. Non vi è poi dubbio, che all'heredium ed all’ager privatus si sovrapponesse l'ager gentilicius, che era quello spazio, non compreso negli heredia, che trovavasi nei dintorni e nelle circostanze del vicus e ritenevasi come proprietà collettiva della intiera gente. Era su quest'ager gentilicius, che potevansi fare degli assegni ai clienti, i quali però non hanno una proprietà, ma ritenevano e godevano le terre loro assegnate a titolo di semplice precario. Dell'esistenza di questo ager gentilicius e del modo di ripartirlo noi troviamo ancora un esempio durante il periodo storico, in occasione della venuta a Roma di Atto Clauso, e della sua gente. Questi viene di Regillo per porre la propria dimora nel territorio stesso di Roma, senza che vi siano elementi nè per affermare nè per negare, che egli con ciò avesse rinunziato all'agro gentilizio, che dove certamente essere posseduto colà da una gente che, come la Claudia all'epoca. Questa induzione, a cui già ebbi occasione di accennare, parlando della familia omnium agnatorum, trova una conferma nel diligente lavoro di POISNEL, “Les sociétés universelles chez les Romains,” specialmente in quella parte ove si occupa del primitivo consortium, accennato da Aulo Gellio, il quale avveravasi tra fratelli ed agnati, stante l'indivisione del patrimonio. “Nouvelle revue historique de droit français et étranger”. È anche degna di nota l'attinenza fra i vocaboli di consortium e di consors con quello di “sors”, che dapprima indicava la quota di eredità spettante a ciascuno. V. BRÉAL, Dict. étym. lat., vu Sors. Ciò è anche confermato dall'espressione di familia inercta nel significato di indivisa, ricordata da Paolo Diacono [Cfr. in proposito i passi citati da Voigt, Die XII Tafeln. Festo, v° Patres. Tale è pure l'opinione di Esmein, “Les baux de cinq ans en droit romain” – “Mélanges d'histoire de droit”, Paris.] della sua venuta a Roma, ha, secondo la tradizione, compresi ben MMMMM clienti. Questo è certo, che dal momento che egli abbandona la sua sede originaria e veniva accolto nel patriziato romano, mediante la cooptatio, gli fu dato un tale spazio di terreno oltre l'Aniene, che egli potè assegnare II iugeri in godimento a tutti i suoi clienti, oltre al che gli sarebbero ancora rimasti XXV iu geri per sè e la sua gente. Questo assegno di territorio, mediante il quale e la gente Claudia, che diede il nome a quella tribù rustica, non impede, secondo Dionisio, che e eziandio assegnato ad Atto Clauso un sito nel circuito stesso di Roma, ove puo abitare egli e la sua famiglia. È facile il vedere, che qui occorrono i concetti tanto dell'heredium, quanto dell’ager gentilicius, e si ha pur anche la prova, che nell'organizzazione gentilizia e alla stessa gens od al consiglio di essa, che si appartene di fare il riparto fra le singole famiglie ed anche gli assegni ai clienti. Di qui deriva la conseguenza, che, fra le varie forme della proprietà nel periodo gentilizio, quella che predomina sopra tutte le altre è la proprietà della gente, ossia l'ager gentilicius; perchè al modo stesso che è nella gens, che si formano le famiglie, cosi è pure dall'ager gentilicius, che si ricano gli heredia. Cosi pure è anche probabile che, in mancanza di eredi suoi, i quali possono in certo modo essere considerati quali comproprietarii dell'heredium, e in difetto eziandio di agnati prossimi, che mantengano ancora indiviso l'asse paterno, questi heredia tornano all’ager gentilicius, cioè alla sorgente stessa, da cui essi furono staccati. Da ultimo sonvi eziandio molti indizii dell'esistenza di una proprietà, che considerasi come spettante alla intiera tribù, e che prende il nome di ager compascuus, di compascua, di pascua, presso le genti del Lazio piuttosto dedite alla pastorizia, e di communia o communalia nell'Etruria. Puo darsianzi, che un ager compascuus puo esservi già nello stesso vicus, come lo dimostrerebbe la deffinizione di Festo – “compascuus ager relictus ad pascendum com muniter vicinis.” Ma in ogni caso non vi ha dubbio, che questo compascuus ager certo esiste nel pagus e già dava origine ad una [Dion. Cfr. Bonghi, Storia di Roma. L'esistenza di questi compascua è dimostrata da diversi passi, sopratutto di agrimensori. Basti il seguente di FRONTINO – “Est et pascuorum proprietas, pertinens ad fundos, sed in commune, propter quod ea compascua communia appellantur, qui busdam provinciis pro indiviso.” Bruns, Fontes] specie di pubblico reddito (vectigal), consistente nel contributo, che doveno dare gl’abitanti, che ivi pascolavano i proprii greggi ed armenti, contributo, che all'epoca romana viene poi ad essere indicato col nome di scriptura. Una prova dell'esistenza di questi pascua e di ciò, che essi costituirono forse le prime sorgenti di reddito pubblico, può ricavarsi da un testo prezioso di Plinio, il quale, dopo aver detto che pecunia a pecude appellatur, cosa del resto che è attestata da tutti gli antiquarii, aggiunge questo particolare importantissimo – “etiam nunc in tabulis censoriis PASCUA dicuntur omnia, ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat” -- il che vuol dire in sostanza, che i romani, in questa parte conservatori come in tutto il resto, finirono per indicare col vocabolo primitivo dei “Pascua”, che costituivano la proprietà collettiva della tribù, tutta quella parte della proprietà collettiva del populus, ossia dell’ager publicus, da cui il popolo stesso ricava qualche reddito. Del resto l'esistenza di questo ager compascuus e anche accennata in quel tradizionale riparto, che Romolo fa fra i Ramnenses, quando aveva fondata la Roma Palatina, poiché delle tre parti una sarebbe stata assegnata al Re ed al culto; l'altra alle singole famiglie e avrebbe costituito gli heredia; e la terza sarebbe stata appunto l'ager compascuus, che e anche la prima forma di ager publicus, in cui le genti patrizie, probabilmente dedite ancora in parte alla pastorizia, potevano far pascolare i proprii greggi ed armenti. Credo che le cose premesse dimostrino abbastanza che, anche anteriormente alla formazione di Roma, la proprietà già esi stesse in tante gradazioni, quanti erano i gruppi, che entravano nella stessa organizzazione gentilizia, per modo che vi era una proprietà privata o meglio famigliare, una proprietà gentilizia, e una proprietà spettante alla comunanza della tribù. Di queste varie forme di proprietà, quella che predomina era la proprietà gentilizia, perchè da essa usceno e ad essa ritornano gli heredia, come poi erano anche i capi di famiglia delle varie genti, che hanno il godimento dei compascua; nel che può forse trovarsi l'origine pro [NIEBHUR, “Histoire romaine”, Voigt, “Die römis. Privataltert.”, LANGE, “Histoire intér. de Rome” --- Plinio -- Dion. NIEBHUR, Hist. rom. - babile di quel fatto importantissimo nella storia di Roma, per cui le genti patrizie riputarono per qualche tempo di avere da sole il diritto di occupare l'ager publicus, il quale a Roma non è che una trasformazione ed un ampliamento per mezzo della conquista del primitivo ager compascuus. Queste varie forme di proprietà nel periodo gentilizio si intrecciano insieme per modo, che si vengono temperando e limitando scambievolmente per guisa, che il potere giuridicamente illimitato del capo di famiglia sul proprio heredium nel costume gentilizio viene ad essere trattenuto da una quantità di temperamenti, che ne impediscono qualsiasi abuso per parte del capo di famiglia. Quindi anche quel potere, che più tardi e affidato al “praetor” di interdire nel iudicium de moribus quel padre di famiglia che disperdesse i bona paterna avitaque, dove certamente rimontare alle consuetudini gentilizie e che probabilmente appartenne al consiglio degl’anziani della gens di frenare queste dispersioni e prodigalità del capo di famiglia con un iudicium, che e de moribus e con una formola, che certo dovette essere analoga a quella adoperata dal praetor. oLe cose premesse intanto ci mettono anche in condizione di poter risolvere in poche parole alcune questioni grandemente agitate fra gli interpreti del diritto romano primitivo. La prima di esse sta in vedere se gl’antichi heredia, ossia quei bina iugera, che Romolo distribusce ai capi di famiglia e di cui Varrone dice che erano così chiamati in quanto che heredem sequerentur, doveno o non ritenersi inalienabili, e se i figli doveno considerarsi come com proprietarii del patrimonio del padre. Senza occuparci per ora della trasformazione, che subi l'heredium ossia la proprietà famigliare e [Questa esclusione dei plebei dall'agro pubblico è attestato da un testo di Nonio MARCELLO, riportato dagli Annali di qualche autore più antico – “Quicumque propter plebitatem agro pubblico eiecti sunt.” Bruns, Fontes, -- il che è pur confermato da un passo di Sallustio. “Regibus exactos servili imperio patres plebem exercere, agro pellere.” Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., accenna per nota, che anche in Grecia vi era un' eguale sollecitudine per i beni aviti.] privata colla formazione di Roma – ANNO I --, noi possiamo perd affermare con certezza che questo concetto dell'heredium esiste già anteriormente ed erasi naturalmente formato durante il periodo gentilizio. O che l'heredium doveva potersi alienare dal capo di famiglia, perchè, se questa alienazione non e stata possibile, non si comprenderebbe il concetto e l'esistenza di un commercium, come pure non si comprende l'esistenza certo antichissima di un iudicium de moribus, di- a retto appunto ad impedire l'imprudente e prodiga dispersione di questo patrimonio, che nel suo concetto informatore era destinato ad essere trasmesso dai genitori nei figli e da questi ai nipoti. O che tuttavia questa alienazione, durante il periodo gentilizio, dovette essere gover nata da solenni formalità e dovette forse anche compiersi colla approvazione o quanto meno colla testimonianza dei notabili del villaggio. O che infine nella primitiva organizzazione gentilizia i figli si riputano comproprietarii sopratutto di quella parte del patrimonio paterno che costituie l'heredium, il che e in certo modo indicato dal vocabolo “heres”, che in antico avrebbe significato comproprietario, e che posteriormente continua a significare la medesima cosa mediante l'espressione più completa di “heredes sui”. Insomma nel concetto primitivo il padre è come custode e detentore del patrimonio famigliare nell'interesse suo e della sua prole. È questo probabilmente il motivo, per cui non dove nei primi tempi di Roma avere nulla di ripugnante al modo dipensare e diagire del tempo quel concetto giuridico del diritto quiritario primitivo, che ora a noi appare cosi ostico e pressochè inesplicabile, per cui tutto ciò che appartiene od è acquistato dalla moglie, dai figli, dai servi, finisce per essere considerato come di spettanza del padre e tutto ciò, che essi stipulano od acquistano, deve in certo modo ritenersi fatto per conto e nell'interesse del capo di famiglia. Questo concetto infatti, mentre indica l'unificazione potente della famiglia romana sotto l'aspetto giuridico, prova eziandio la comunione ed intimità di vita, che dove esistere nel costume della medesima; comunione ed intimità di cui il diritto non si occupa, perchè non dove occuparsene, ma che sono largamente attestate da tutti gli scrittori, che richia -- Ciò è anche confermato dalla nota proposizione di Gaio, II, 157:  Qui quidem heredes sui ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quo dammodo domini existimantur .] mano la memoria della primitiva famiglia, governata dal “mos pa trius, ac disciplina”. Ad ogni modo la conseguenza ultima della nostra ricerca è questa, che, se gli heredia erano alienabili allorchè l'individuo era ancora legato nei vincoli strettissimi dell'organizzazione gentilizia, per maggior ragione dovettero esser tali, quando egli venne ad essere libero cittadino di una libera Roma. Intanto se si ammette che nell'organizzazione della proprietà nel periodo gentilizio la forma prevalente è quella della proprietà gentilizia, in quanto che essa da una parte origina la proprietà privata e famigliare e dall'altra si estende al godimento della proprietà collettiva della tribù, è facile il dedurne la conseguenza, che il sistema di successione, allora introdotto dal costume e che fini col tempo per cambiarsi in successione legittima, dovette proporsi essenzialmente per iscopo di mantenere e perpetuare la proprietà nella gente con impedire che la medesima potesse passare ad estranei. Si comprende pertanto, che in base al costume gentilizio la proprietà va ai figli, che ne sono comproprietarii, ed anche agli agnati prossimi, finchè essi mantengono indiviso il patrimonio paterno, ma appena questi manchino, dovranno succedere i gentiles e questi non individualmente, come alcuni credono, ma collettivamente in quanto cioè formano la comunanza gentilizia. Il motivo è questo, che se la legge di Roma puo favorire il riparto immediato fra gli eredi, il costume invece di una comunanza gentilizia favorisce invece per quanto esso può l'ercto non cito, come diceno i Romani, cioè l'indivisione e la comunione dei patrimonii; perchè essa mira, non a favorire lo svolgimento dell'individualità del capo di famiglia, ma a rendere compatto per quanto è possibile il gruppo, in cui gli individui vengono ad essere pressochè assorbiti. Parimenti è certo incontrastabile, che la successione, quale compare nei primitivi tempi di Roma e quale esiste anteriormente, non ammette nè distinzioni di primogenitura, nè distinzioni di sesso, quanto alle persone che erano chiamate a succedere. Ma si può anche [Cic., Cato maior, 11, 37, parlando di Appio Claudio il cieco scrive:  Quatuor robustos filios, quinque filias, tantam domum, tantas clientelas Appius regebat et caecus et senex... Tenebat non modo auctoritatem, sed etiam imperium in suos; metuebant servi, verebantur liberi, carum omnes habebant; vigebat in illa domo mos patrius ac disciplina.]- essere certi, che il costume dovette certamente dirigersi costantemente, se non a favorire il primogenito, almeno ad impedire, che si venisse alla divisione del patrimonio, ed anche ad evitare, che le femmine colla libera disposizione della parte di sostanza, che loro apparteneva, potessero compromettere gli interessi della gente. Ciò infatti viene ad essere comprovato dalla tutela perpetua, a cui le donne erano soggette per parte degli agnati -- tutela che aveva sopratutto lo scopo di sottrarre alle femmine la libera disposizione delle proprie cose, e che col tempo divenne per modo odiosa, che esse, aiutate dai giu reconsulti, trovano modo di sottrarvisi mediante quell'espediente giuridico, di carattere eminentemente romano, che è la “coemptio fiduciaria.” Quanto alle istituzioni dell'adrogatio e del testamentum, non può esservi dubbio, che esse doveno certamente esistere nel costume antico dei maggiori, anche anteriormente alla formazione di Roma, in quanto che esse sono istituzioni, che compariscono compiutamente formate, come appare da ciò che le XII tavole, nei frammenti a noi pervenuti, non parlano dell'adrogatio e quanto al testamento non fanno che confermare una istituzione preesistente. Di più e ben naturale, che il concetto dell'una e dell'altro doveno presentarsi naturalmente a capi di famiglia, che da una parte erano tutti in tesi al culto dell'antenato e dall'altra sono fissi nel pensiero di perpetuarsi in una posterità, che continuasse il proprio culto gentilizio. Istituzioni quindi, come l'adrogatio e come il testamento, sono acconcie e indispensabili ad una organizzazione come la gentilizia, ma intanto cosi l'una che l'altra non possono nella medesima servire come mezzo per soddisfare ad un affetto o ad una predilezione capricciosa, ma dovevano avere l'unico scopo di provvedere alla perpetuazione della famiglia e del suo culto. Questa coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu di una persona che non divenne marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomettere da lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio. E questa coemptio, che fa dire a CICERONE, pro Murena, che i tutori, anzichè essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo per liberarle da ogni tutela. Cfr. MUIRHEAD. Puo sembrare poco logico, che io qui discorra, trattando della proprietà, anche dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui [Questo carattere è incontrastabile per ciò, che si riferisce al l'antica adrogatio, la quale e una istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di perpetuare una famiglia ed un culto, che sarebbero andati perduti per difetto di prole maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba giudicare dalle formalità, che sono poscia seguite dal patriziato nella comunanza romana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge, l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie) conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul ceppo sterile di un'altra si opera fra le famiglie della stessa gente, puo forse bastare l'approvazione del consiglio della gente, ma se seguiva invece fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, dove certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. La cosa invece potrebbe lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento, ma se si considera, che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis calatis, cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del tutto analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne,che lo spirito informatore del testamento in questo periodo gentilizio dove essere del tutto analogo a quello, che ispira l'adrogatio. Il testamento per sua natura è tale che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la propria morte, l'impero di una volontà arbitraria, così può anche es sere il mezzo per impedire, che si avveri fra gli eredi quella ripartizione e quell'uguaglianza di parti, che può essere introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è certo, che la successione invalsa nel periodo gentilizio, secondo cui succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e infine la gente collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare il patrimonio nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto di vista gentilizio. L'uno di essi consiste nel diritto, che i figli hanno di venire ad una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni uguali, divisione che face i sacra, e in ciò ha un'attinenza anche col testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la famiglia sono ancora strettamente connesse fra di loro, per modo che non può essere il caso di scindere affatto le istituzioni che le riguardano.] vasi per stirpi e non per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che fa si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla famiglia una parte del patrimonio uguale a quella di un maschio. Queste conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi di famiglia, che mirano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a perpetuarlo come tale nella famiglia. Si può quindi essere certi, che i capi di famiglia, che si ispirano a questo concetto e che nel fare testamento dovevano anche avere l'approvazione degl’anziani, che pure avevano la stessa tendenza, non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per impedire la pronta ripartizione del patrimonio, usando le antiche parole  ercto non cito  – o per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine, come quella, che dove essere riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero della famiglia perpetuantesi nella linea maschile. Mone della famiglia e del suo culto. Si può quindi conchiudere, che per lo genti patrizie il testamento non dovette certamente essere un mezzo per disporre liberamente e a capriccio delle proprie cose, come fu poi il testamento nel di ritto quiritario; ma dovette servire alle medesime per conseguire quello scopo, che anche oggi si propongono bene spesso i capi delle famiglie, anche non patrizie ma solo ricche ed agiate, allorchè, dettando il loro testamento, cercano d'accentrare la loro fortuna in una od in poche persone, nell'intento di assicurare ciò che con linguaggio antico e moderno suole essere chiamato il decoro e la dignità della famiglia. Pervenuto a questo punto, parmi di aver dimostrato in un modo, che avendo convinto me potrà forse anche persuadere gli altri, che le genti patrizie, anche anteriormente alla formazione di Roma, già conoscevano una proprietà privata, attribuita al capo di famiglia. Ciò pero non toglie, che quest'ultimo fosse ben lontano dall'avere quella libera disposizione delle proprie cose per atto tra vivi e per testamento, che trovasi invece riconosciuta senza alcun confine nel diritto quiritario, e ciò perchè lo spirito dell'organizzazione gentilizia si informava tutto all'intendimento di serbare integro il patrimonio alla famiglia, ancora indivisa, degli agnati dap prima e in mancanza di essa alla gente. Come dunque potrà essersi operata presso un popolo, di spirito così eminentemente conservatore, una trasformazione cosi radicale nel carattere della proprietà da cambiare la medesima di proprietà gentilizia in quiritaria, allorchè esso passò dal periodo gentilizio alla convivenza civile e politica? Ecco il gravissimo problema, al quale non credo che siasi data ancora una soddisfacente risposta, a causa del l'idea universalmente accolta sull'autorità di Niebhur e di Mommsen, che lo stato romano siasi formato mediante la fusione e l'incorporazione di varie genti e tribù. Secondo questi autori infatti, lo stato costituendosi avrebbe in certo modo incorporato in sè la proprietà gentilizia, cambiandola cosi in territorio nazionale, e sarebbe poi addivenuto al riparto di una parte di esso a favore dei singoli capi di famiglia, ritenendo il restante come ager publicus. Fra gli autori, che trattarono largamente e di recente il gravissimo tema, mi limito a citare De-Ruggero, come quegli che riassume nettamente la opinione universalmente seguita. Egli, dopo di aver premesso che prima della formazione dello stato esiste soltanto la proprietà collettiva o gentilizia, la quale appartene alla gens e non alle singole famiglie, viene alla conclusione seguente. Fondatosi quindi il comune e lo stato con la unione di più genti, esso sarebbe divenuto, come la gente stessa nel periodo della sua autonomia, proprietario del territorio generale di tutte le genti romane, cioè, del territorio nazionale. E come la gens lascia alle sue singole famiglie la coltivazione e l'uso di alcuni terreni (fundi), rimanendo gli altri proprietà comune. Cosi anche lo stato lascia ai privati una parte del territorio come proprietà (adsignatio romulea) e ritiene per sè un'altra parte destinata a tutta la cittadinanza (ager publicus). Di fronte ad una teoria così recisa, conforme del resto alla opinione generalmente seguita, mi sia lecito osservare, che anzitutto non è provato, che prima della formazione dello stato non vi fosse che la proprietà gentilizia, e che la gente non lascia alle famiglie, che la coltivazione e l'uso di alcuni terreni. I vocaboli certamente preesistenti di herus, heres, heredium, che senza alcun dubbio si applicano al capo di famiglia, provano invece che il concetto di una proprietà privata già preesiste fra [DE- RUGGERO, V° Ager publicus-privatus, nella Enciclopedia giuridica italiana. Del resto queste sono le idee che l'autore aveva già sostenute in “La gens avanti la formazione del comune romano” (Napoli), e che stanno pure a base del suo dotto ed interessante articolo sulle Agrariae leges nella stessa Enciclopedia giuridica italiana.] le genti del Lazio; poichè se così non fosse stato non sarebbesi trovata la parola già preparata ed acconcia per indicare gli assegni fatti ai capi di famiglia, e gli assegni si sarebbero fatti alle genti, alle tribù e non ai singoli capi di famiglia, o meglio a ciascun individuo, che segue Romolo nella sua intrapresa. Viha di più, ed è che, tenendo conto del carattere delle genti latine, in cui l'idea del “mio” e del “tuo” – il “nostro” -- presentasi in ogni tempo cosi profondamente radicata, non può essere probabile che le gentes e le tribù, che potevano essere ed erano in effetto in condizioni disuguali quanto ai loro possedimenti, come continuarono ancora ad esserlo dopo, si siano contentate dimettere tutto in comune, malgrado la loro origine diversa, per starsi paghe “ai bina iugera”, assegnati da Romolo. Si aggiunge, che se tutta la fortuna del patriziato primitivo Ramnense si riducesse soltanto ai II iugeri, non si saprebbe veramente comprendere come la medesima potesse bastare per la famiglia coi servi e coi clienti. Del resto non consta, che siavi veramente alcun autore antico, che accenni a questa specie di societas omnium bonorum, per cui si sarebbero messi in comune tutti gl’agri gentilicii. Noi sappiamo soltanto, che Romolo, in base ad un costume tradizionale fra le genti latine, che dove già esistere prima e che e applicato anche più tardi in occasione dell'impianto di colonie, divide Roma in parte fra i proprii seguaci, mentre un'altra parte ritenne per sè e per il culto, ed un'altra riservò a titolo di pascolo comune. Intanto pero le varie genti, che parteciparono alla fondazione di Roma, dovettero continuare a tenere i proprii agri gentilicii, come lo dimostra il fatto, che anche all'epoca di Servio Tullio le varie tribù rustiche continuarono a prendere il nome da quelle genti patrizie, che dovevano avere più larghi possessi nel territorio delle medesime. Vi ha di più, ed è che la tradizione accenna a due testamenti, fatti durante il regno stesso di Romolo, a favore del popolo romano, coi quali questo avrebbe ereditato dei campi presso Roma, ed anche quello stesso campo marzio, che avrebbe poi costituito il primo nucleo dell'ager publicus; fatti e tradizioni queste, che sarebbero del tutto incomprensibili, quando lo Stato romano nella propria formazione fosse diventato il proprietario di tutti i territorii gentilizii, e li avesse poi distribuiti ai singoli privati. Inoltre se Romolo, come dicesi, avesse imitato [I testamenti, a cui qui si accenna, sono quelli ricordati da Aulo Gellio, Noct. Attic., VII, 7, 4, 6, e che egli attribuisce l'ano ad Acca Laurenzia, la quale fino il sistema gentilizio, i capi di famiglia avrebbero dovuto soltanto avere la coltivazione e l'uso dei fondi loro assegnati, mentre la proprietà avrebbe dovuto spettare alle genti; e ciò mentre noi sappiamo, che non vi fu mai proprietà più assoluta, che la proprietà quiritaria fin dai proprii inizii. Del resto convien dire, che l'opinione, di cui si tratta, è per sè una conseguenza logica ed inesorabile del ritenere con Mommsen, che Roma risulta dall'incorpora zione e fusione delle varie genti e tribù; poichè è naturale che con un tale sistema lo stato avrebbe dovuto incorporare ogni cosa nelle proprie mani e farne poi il riparto ai singoli capi di famiglia. Solo sarebbe a spiegarsi come lo stato, creando esso la proprietà famigliare e privata, l'avesse costituita senz'altro cosi illimitata, senza confini e senza alcuna sua ingerenza, quale appare essere stata la proprietà quiritaria. Tutte queste incoerenze invece scompariscono quando si ritenga che il comune romano non assorbi nè le tribù, nè le genti, nè le famiglie, ma intese solo a costituire fra di esse un centro di vita pubblica, e non distribui quindi ai privati altre terre. Quanto alla divisione dell'agro fra le tre tribù, a cui accenna Varrone, la medesima non potè essere che una divisione puramente amministrativa, con cui si riconobbe alle varie tribù la parte del territorio, che già loro apparteneva, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza. Di qui la conseguenza, che la proprietà quiritaria, ed anche la famiglia, con cui essa appare strettamente congiunta, non possono essere che quella proprietà e quella famiglia, che già esistevano nell'anteriore organizzazione gentilizia, salvo che le medesime, staccate dall'organizzazione stessa, apparvero con un carattere di assolutezza, che prima era temperato dall'am dall'epoca romulea avrebbe lasciato allo stato certi campi siti presso Roma, e da lei ereditati dal proprio marito; e l'altro alla vestale Gaia Taracia, che avrebbe lasciati al popolo romano tutti quei campi presso il Tevere, che presero poscia il nome di campo marzio, dove si radunarono più tardi i comizi centuriati. Pongasi pure che i due racconti siano leggendarii. Ma essi certo hanno un fondo di vero ed indicano quanto meno, che'i cittadini romani non hanno mai creduto che lo stato fosse il proprietario di tutto il territorio. I due testamenti sono anche citati dal De Rug GERO, V ° Ager publicus privatus, nell'Enc. giur. it. Devo però dichiarare che questa divergenza di opinione nulla toglie alla stima che ho grandissima per l'autore, così benemerito per gli studi di diritto pubblico romano.] biente in cui si erano formate. La causa poi, per cui gli assegni di terre furono fatti ai singoli capi di famiglia, o meglio ai singoli seguaci di Romolo proviene da ciò che essi entrarono nella comunanza non come membri delle genti ma nella loro qualità di capi di famiglia, donde la conseguenza, che di fronte alla nuova formazione della convivenza civile e politica, mediante una federazione fra le varie tribù, più non si trovarono di fronte che la proprietà del capo di famiglia (ager privatus) e la proprietà dell'ente collettivo (ager publicus). Continuano però ancora sempre a mantenersi nel fatto gli agri gentilizii, i quali però sono naturalmente destinati a scomparire, a misura che si dissolve l'organizzazione gentilizia, in quanto che a costituire il populus primitivo non entrano già i membri delle genti, come tali, ma soltanto i capi di famiglia in quanto sono ad un tempo proprietarii di terre; il qual carattere del populus viene ancora ad accentuarsi maggiormente colla costituzione Serviana, in base a cui ognuno partecipa ai diritti ed agli obblighi di cittadino (munera), in proporzione del censo. Questo e non altro e il processo seguito nella formazione di Roma, e per conseguenza anche nella formazione della famiglia e della proprietà, quali comparvero nel diritto quiritario. Per ora intanto, prendendo le mosse dall'ordine logico dei fatti e delle idee, che si vennero svolgendo fin qui, cercherò di riassumere logicamente e sotto forma di ipotesi quello svolgimento del l'istituto della proprietà, che più tardi appare comprovato nell'ordine dei fatti. Pongasi che una mano di uomini forti ed avventurosi, appartenenti a genti diverse ma tutte di stirpe latina – “nomen latinum” -- si raccolgano intorno ad un duce di stirpe regia e sotto la sua guida abbandonino la loro residenza gentilizia, per recarsi a fondare uno stabilimento fortificato sul Palatino. Essi, lasciando per ora in disparte il rito religioso seguito nella fondazione, cominciano dall'occupare il suolo necessario per erigervi il loro stabilimento, e cercano anche di fortificarsi in esso, per essere in caso di difendersi dalle popolazioni vicine, le quali, per appartenere forse a stirpi diverse, non possono vedere di buon occhio quest'ospite novello e pericoloso. Quanto al suolo conquistato ed occupato, è naturale che si cominci dal ripartirlo, secondo le regole tradizionali seguite dai maggiori. Del suolo quindi sono fatte tre parti. Una è assegnata al loro capo, al culto, ai publici edifizi. L’altra è divisa fra i singoli capi di famiglia in altrettanti piccoli heredia di due iugeri, i quali potranno essere ritenuti sufficienti quando si consideri, che questi capi di famiglia continuano ancor sempre ad avere i loro agri gentilizi nei dintorni, e solo abbisognano di uno spazio per costruirvi le loro case, con un cortile ed un orto. La terza, infine, è lasciata a pascolo comune per i singoli capi di famiglia, che possono immettervi i proprii greggi ed armenti, pagando un corrispettivo (scriptura), che costi tuirà il primo reddito pubblico. Fin qui però noi non abbiamo ancora, che la tribù dei Ramnenses e lo stabilimento romuleo da essa fondato sul Palatino. Pongasi ora, che, in seguito ad ostilità seguite con altre comunanze stanziate sui colli vicini, gl’uomini atti alle armi e abili per consiglio di queste varie tribù, rappresentati dal proprio capo, con vengano sotto forma di foedera, di entrare nella loro qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre a far parte della stessa comunanza civile e politica. È naturale allora, che il centro e la [Cfr. De RUGGERO, V ° Ager pub. priv., -- ove considera appunto questo riparto attribuito a Romolo come una istituzione fondamentale romana che, conservatasi nei tempi posteriori, puo naturalmente essere attribuita, nella ricostruzione che si fa posteriormente della storia e del diritto primitivo di Roma, anche al fondatore e al legislatore di questo. Ciò lascia credere che l'autore vegga in questo riparto, che pur è attestato da tanti autori e che d'altronde non ha nulla d'improbabile, in quanto che lascia anche le sue traccie nella centuria in agris e nel centuriatus ager, ricordati da Festo e da VARRONE. Non mipare che siavi motivo per un dubbio di questa natura, solo che si spieghi la formazione di Roma, come è accaduta. Che poi il centuriatus ager e la centuria in agris non comprendessero tutto il territorio romano, nè tutto l'ager romanus conglobando in esso anche gli agri gentilizi, ma solo la parte di esso, che era conquistata sul nemico, risulta oltre che dalla definizione datane da VARRONE e da Festo, anche da un testo di Siculo Flacco, citato dallo stesso DE RUGGERO, vº Ager pub. priv. – “Antiqui agrum ex hoste captum victori populo per bina iugera partiti sunt. Centenis hominibus ducentena iugera dederunt.” Cfr. NIEBHUR, Histoire romaine] fortezza dell'urbs si trasportino in un sito, a cui possano avere facile accesso gl’abitanti delle varie comunanze, quale e il sito, che è fra il Palatino ed il Capitolino, il quale verrà così ad essere la comune fortezza e servirà per la costruzione dei pubblici edifizi e sacri. È pero a notarsi, che per eseguire un simile accordo, siccomei capidi famiglia entrano come tali nella comunanza e non quali membri delle genti e delle tribù, così non e punto il caso, che si mettano in comune gli agri gentilizii e i pascoli delle varie tribù. Quindi se le genti e le tribù sono prima ricche ed agiate e possedevano larghi spazii di suolo, sopra cui disperdevano i proprii servi e clienti, continueranno ad essere tali e a poterlo fare anche dopo. Ciò che viene ad essere comune fra di esse è soltanto l'urbs, in quanto essa comprende i pubblici edifizii, i templi consacrati al divino, che la protegge, non che l'arx o fortezza, che serve per assicurare la comune difesa. Intanto, di fronte a questa nuova specie di comunanza, teatro ed organo della vita civile, politica e militare, non esistono che capi di famiglia proprietarii di terre e quindi le sole istituzioni, che abbiano un'importanza giuridica, politica e militare negli inizii di Roma, sono la proprietà e la famiglia unificate sotto il proprio capo. Pongasi ora, procedendo innanzi, che questa mano di uomini forti raccolta in esercito entri in lotta con altre comunanze e che, in virtù di un diritto delle genti universalmente riconosciuto, venga soggiogandone le popolazioni e conquistandone il territorio. Allora e naturale che questa comune conquista appartenga dapprima al popolo stesso e sia cosi considerata come un ager publicus, che verrà con trapponendosi a quell'ager privatus, che già prima apparteneva ai singoli capi di famiglia. Questo infatti è il dualismo, che domina tutta la storia economica di Roma. Però, a misura che si accrescono le conquiste, l'ager publicus pud anche crescere permodo da sopravanzare ai pubblici bisogni e quindi si comprende, che quelli, che cooperarono alla sua conquista, ne domandino la ripartizione almeno parziale. Dapprima tali assegni sul l'agro pubblico – “adsignationes viritanae” -- sono fatti ai più poveri, i quali sono per tal modo posti in condizione di avere quella pro prietà, che è riputata necessaria per partecipare alla comunanza; ma poscia, di fronte all'incremento sempre maggiore dell'ager publicus, si comincia anche a disporne in guisa diversa. Continua sempre ad esservi una parte dell'ager, che è distribuita fra i più poveri della città e fra quelli, che partono per fondare una colonia, e si ha cosi l'ager adsignatus, che serve per somministrare ai cittadini poveri quella proprietà, quel censo, quell'”ager privatus censui censendo”, che è ritenuto necessario per far parte della vera cittadinanza. Un'altra parte invece e venduta ai pubblici incanti (ager quaestorius), o sarà data in affitto, mediante il pagamento di un corrispettivo, detto scriptura (ager vectigalis). Il primo di questi continuerà ad accrescere l'ager privatus, ma non più quello della classe povera, ma di quella ricca ed agiata, che possiede già il capitale per acquistarlo; ed il secondo, quello cioè dato in affitto, finirà col tempo per dare origine a quelle lunghe locazioni, che quasi si assomigliano a vere compre-vendite, dalle quali uscirà poi una nuova forma di contratto, che è l'enfiteusi. Infine dell'ager publicus puo ancora rimanervene una parte, la quale, o per essere sterile o scoscesa (propter asperitatem ac sterilitatem ), non trovi compratori nè affittavoli, o che il consiglio dei padri non abbia ritenuto opportuno di mettere in vendita. Questa parte continua naturalmente ad appartenere all'ager publicus e ancorchè immensamente ampliata colle conquiste corrisponde in certa guisa ai pascua o compascua, che esistevano nelle antiche tribù. Quindi si comprende come i padri delle genti patrizie, memori ancora del diritto che hanno di slargare nei pascua i proprii greggi ed armenti (compascere), affermino il loro diritto di occupare questa terra in certo modo abbandonata e di spargere in essa le tormedei clienti e dei servi ed anche dei liberi, che siano alla loro mercede. Sorge per tal modo il concetto dell'ager occupatorius, il quale, non essendo stato acquistato, non può certo essere oggetto di proprietà privata, ma costituisce le cosi dette possessiones, le quali, dopo essere durate per qualche tempo, acquistano un carattere pressochè giuridico e danno occasione di [Tutto questo processo ci è attestato dagli agrimensori romani, dei quali sappiamo, che avevano grande autorità anche nelle provincie. L'autore, che primo mise in evidenza l'importanza dei loro scritti, e NIEBHUR, che loro dedica un saggio che può vedersi nell' Histoire romaine. Ora poi sta preparando un lavoro di lena sugli agrimensores Brugi. Quanto alle affermazioni, che sono contenute nel testo, sono esse abbastanza giustificate da quegli estratti degli agrimensores, che sono raccolti dal Bruns, Fontes. Qui infatti io non mi proponeva di entrare in particolari discussioni, ma bensì di mettere in evidenza il processo, che i romani hanno ad applicare costantemente nella distribuzione di un agro, che veniva crescendo colle loro conquiste.] svolgersi alla protezione pretoria, la quale fa cosi entrare nelius honorarium l'istituto giuridico del possesso. Intanto tutta questa parte dell'ager publicus, che è cosi lasciata alla occupazione, viene ad essere come una sottrazione alle ripartizioni gratuite fra quelle classi inferiori, che non hanno mezzi e capitali per tentare una occupazione, e che, anche avendoli, non sarebbero dal senato autorizzati a farla, e quindi tra il patriziato antico, a cui si aggiunge col tempo la nuova nobiltà plebea, e la plebe minuta viene ad esservi una opposizione di interessi. Da una parte si ha interesse a provocare nuovi riparti per impedire le occupazioni e per limitare le occupazioni stesse, che col tempo minacciano di trasformarsi in latifondi; e dall'altra parte ogni ripartizione, se riguarda terreni già occupati, appare in certa guisa come una usurpazione di possessi lungamente durati, e se riguarda terreni solo conquistati di recente, appare come una sottrazione a quel diritto di occupazione, che il patriziato attribuisce a sè stesso. Di qui le lotte intorno alle leggi agrarie, le trasformazioni del concetto ispiratore delle medesime, e infine la insufficienza di esse per risolvere la grande questione sociale dell'epoca, allorchè l'antico patriziato e la nuova nobiltà plebea si strinsero insieme contro una plebe minuta, che già comincia a cambiarsi in una turba forensis, e che incapace di durare in lunghi e persistenti sforzi già si era as suefatta a preferire alle conquiste legali gli spettacoli del circo e le distribuzioni di frumento. Con cio non intendo però di ammettere l'opinione di Niebhur, di SAVIGNY e di altri, che farebbero nascere il concetto della possessio coll'ager pubblicus. Io credo che la *possession*, come istituzione di *fatto* più che di diritto, avesse origini ben più antiche, e che la medesima sia stata anzi il modo, con cui i plebei occuparono le prime terre nei dintorni della città patrizia, il che però non toglie che la prima tutela giuridica del possesso abbia anche potuto cominciare colle possessiones nell'agro pubblico: cosicchè accade del possesso, come di un grandissimo numero di altre istituzioni, che prima cominciano ad esistere di fatto e solo più tardi entrano a far parte del diritto civile di Roma. Che anzi, dacchè sono in quest'ordine di idee, aggiungerà ancora che il concetto dell'ager occupaticius già erasi formato anche prima delle occupazioni del patriziato sull'ager publicus. Lo dimostra Festo, vº Occupaticius, ove scrive: < occupaticius ager dicitur qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur . (Bruns, Fontes) -- la qual deffinizione dimostra che anche fuori dell'ager publicus poteva formarsi l'ager occupaticius, il quale perciò differisce dall'occupatorius. Intanto è sempre da questo ager publicus, che ricavansi eziandio gli assegni, che si sogliono fare alle colonie, alle città benemerite del popolo romano, e infine alle stesse provincie. Trattandosi di colonie, questi esemplari di stabilimenti che Roma crea a somiglianza di sè stessa, traendone la popolazione dal proprio seno, si applica quel medesimo sistema, che si applica per la popolazione di Roma, il sistema cioè delle adsignationes viritanae, fatte ad ogni capo di famiglia, ed hannosi così quegli agri, che gli agrimensori chiamano divisi et adsignati, i quali sono fuori di Roma una imitazione di quegli assegni di piccoli heredia, che facevansi un tempo ai cittadini poveri di Roma. Se trattisi invece di città benemerita, a cui il senato e il popolo sovrano intendano di dare un segno di soddisfazione ed un corrispettivo ad un tempo per i servizii prestati, havvi l'ager mensura comprehensus, il quale, essendo assegnato come proprietà collettiva ad una città, non è determinato che nella sua generale misura. Infine se trattasi di delimitare in modo almeno generico i confini del territorio di una popolazione si ricorre alle indicazioni delle valli, dei fiumi, dei torrenti, delle grandi strade, dell'acqua pendente, a quelle indicazioni insomma, che in un periodo ancora molto remoto serviranno poi ad indicare il territorio, che dalla natura stessa sembra essere segnato ai singoli stati e alle nazioni, e si avrà così quell'ager, che gli agrimensores chiamano “arcifinius”. Infine anche nelle porzioni di agro pubblico, che sono vendute all'incanto o date in affitto (ager quaestorius, ager vectigalis), possono esservidelle parti, che, per essere scoscese o sterili, non possono trovare da sole nè compratori, nè affittavoli, e in allora questi siti si aggregano a quelli, che già furono venduti o a quelli dati in af fitto  in modum compascuae , il che significa che essi, a somiglianza dei primitivi compascua, si ritengono appartenere per la proprietà o per il godimento ai più vicini fra quelli, che hanno comprato od affittato gli altri. Di qui la creazione di una specie di proprietà o di possessione privata, con pertinenze consistenti in pascoli accessorii, la cui proprietà e il cui godimento possono dare occasione a questioni fra i giureconsulti per vedere se, vendendosi od affittandosi il fondo principale senza parlare del pascolo accessorio, anche questo debba ritenersi compreso nella vendita o nell'affittamento, sul che [Frontinus, De agrorum qualitate et condicionibus, BRUNS, Fontes] giureconsulti risponderanno affermativamente, quando non consti dell'intenzione contraria dei contraenti. Pongasi infine, e anche quest'ultima supposizione è stata una realtà, che la piccola tribù del Palatino, mutatasi poi nella Roma dei sette colli, divenga conquistatrice dell'universo allora conosciuto, e quindi anche legislatrice del suo suolo. Ma essa continua pur sempre ad applicare, nel piccolo e nel grande, entro l'Italia e fuori di essa, nella proprietà e nel possesso, nel territorio italico e nel suolo provinciale, quei concetti, che ebbe ad applicare nelle proprie origini, e che noi abbiamo dimostrato essersi già preparati in un periodo anteriore alla formazione stessa di Roma. Certo questi sono svolgimenti logici, che precorrono la serie dei fatti, ancorchè siano fondati sopra di essi; ma non sono inopportuni per mettere ordine in una materia, che le minute indagini hanno tal volta resa intricatissima, e danno anche un esempio sensibile del processo semplice, ma sempre logico e coerente, che Roma ha ad applicare non solo nell'estendere il concetto della sua proprietà a tutto il territorio da essa conquistato, ma anche nell'estendere la sua cittadinanza e l'impero della sua legislazione al mondo allora conosciuto. Sono i grandi popoli che con mezzi semplici e pressochè tipici applicati in proporzioni e in condizioni diverse sanno conseguire i grandi effetti. È questo un esempio di quella dialettica potente e pressochè celata, che senza apparire negli scritti dei giureconsulti, i quali sembrano talvolta smarrirsi nei casi singoli e nelle fattispecie, trovavasi tuttavia nei loro intelletti, ed era certo nella mente del popolo da essi rappresentato. Ci sono altre applicazioni di questo processo dialettico, che, mentre non appare allo sguardo, stringe però con una coerenza meravigliosa le parti più disparate della giurisprudenza romana. [Higinus, 117.  In his igitur agris quaedam loca, propter asperitatem aut sterilitatem, non invenerunt emptores; itaque in formis locorum talis adscriptio facta est in modum compascuae; quae pertinerent ad proximos quosque possessores, qui ad ea attingunt finibus suis . Bruns, -- Frontinus poi, De controversiis agrorum, soggiunge:  Nam et per haereditates aut emptiones eius generis (pascuorum) controversiae fiunt, de quibus iure ordinario litigatur . Bruns -- È da vedersi a proposito di tali controversie lo scritto del Brugi, “Dei pascoli acces sorii a più fondi alienate”. Bologna. In una organizzazione come quella che ho cercato di ricostruire, così nelle persone che entravano a costituirla, che nei territorii che le servivano di sede, sarebbe affatto fuor di luogo il ricercare delle norme direttive della vita pubblica e privata, che potessero meritarsi il nome di leggi nella significazione, che noi sogliamo attribuire a questo vocabolo. Ormai il lavoro di secoli ha strettamente legato il vocabolo di “legge” e la significazione sua propria alla convivenza civile e politica. Senza negare che un tempo l'uomo abbia ricavato l'idea di una legge direttiva delle cose umane dalla contemplazione dell'ordine, che governa l’universa natura, questo è certo che il vocabolo di legge, nella sua significazione originariamente romana, che poi fu adottata da tutti gli altri popoli, significa ormai l'espressione di una volontà collettiva, che si imponga alle singole volontà individuali. Esso quindi suppone la distinzione fra l'ente collettivo ed i singoli, fra lo stato organo ed interprete della volontà comune e I membri che entrano a costituirlo. È quindi inutile cercare della legge, nel senso proprio della parola, in un'organizzazione, in cui lo stesso gruppo compie ad un tempo le funzioni domestiche e le funzioni politiche, e nel quale pertanto non si può rinvenire la distinzione fra il tutto in sè e le parti, che entrano a costituirlo e neppure quella fra la vita pubblica e la vita privata. Siccome tuttavia qualsiasi stadio di organizzazione sociale suppone di necessità delle norme, che lo governino, cosi noi possiamo indurre, che queste norme non dovettero mancare nel periodo gentilizio. Anzi si può anche aggiungere, che fra le varie forme di organizzazione sociale quella, che tende più di qualsiasi altra a stringere in certe regole precise cosi i rapporti domestici, che quelli della vita esteriore, è certo la comunanza gentilizia, la quale, essendo esclusivamente fondata sulla eredità, finisce per trasmettere, di generazione in generazione, non solo IL SANGUE e degli antenati, non solo il patrimonio e il territorio da essi conquistato, ma anche il nucleo delle tradizioni dei maggiori. Si aggiunge, che al modo stesso che le genti, fisse nell'esempio dei proprii antenati, finiscono per mutarli in oggetto di culto, cosi anche le loro tradizioni tendono, non per impostura di uomini ma per un naturale processo di cose umane, ad assumere un carattere sacro e religioso, per cui qualsiasi atto anche meno importante finisce per acquistare una significazione religiosa. È questa tendenza, cheha condotto tutte le comunanze gentilizie a diventare pressoché immobili e stazionarie, e che avrebbe prodotto forse il medesimo effetto fra le genti italiche, come lo produsse fra le altre genti che appartengono alla medesima stirpe, quando fra esse non si fosse formato un nuovo focolare di vita, che fu quello che brucia nel tempio di Vesta, cambiatasi in patrona della città. Che anzi non dubiterei di affermare, che quello stesso spirito conservatore, che appare in Roma primitiva, sopratutto per parte del patriziato, non è che una trasformazione di questa tendenza naturale delle comunanze gentilizie a diventare immobili e stazionarie, quando sono pervenute a quel maggiore sviluppo, che può comportare il principio informatore di esse. Dal momento in fatti, che questa tendenza all'immobilità e a fare entrare ogni elemento in quadri precisi, determinati dal costume e consacrati dalla religione, male può accomodarsi ad una città piena di vita, i cui elementi nuovi più non possono ad un certo punto entrare nei quadri antichi, è ben naturale, che la tendenza stessa riducasi a trapiantare nel nuovo terreno quanto più si possa dell'antico ordine di cose ed a lottare per la conservazione di esso, come chi è pro fondamente convinto di lottare per uno scopo religioso e santo. È questo culto del passato, che contraddistingue le genti italiche [È abbastanza noto come in quella guisa che la famiglia aveva per centro il focolare, che le serviva anche di altare, così la città ha pur essa un pubblico focolare nel tempio di Vesta, la quale per tal modo di dea del focolare domestico venne a cambiarsi in custode e patrona del focolare di Roma. Questo invece è da essere notato, che le recenti scoperte intorno al “locus Vestae” hanno dimostrato, come questo focolare si trovasse a piedi del Palatino presso il foro e fuori della Roma quadrata; il che serve a provare sempre più, che la vera città, di cui dove essere centro il tempio di Vesta, non era già lo stabilimento romuleo primitivo, ma bensì la città dei Quiriti, che risultò dalla confederazione delle varie comunanze. In una casa poi attigua altempio di Vesta dimora, secondo la tradizione, il Re (domus regia Numæ), il quale, come custode della città, dove pur trovarsi nel centro di essa. Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, -- dalle elleniche. Mentre queste colla loro intelligenza acuta e profondamente critica, appena hanno analizzate le proprie tradizioni, rivestite anch'esse di carattere religioso, le abbellirono e trasformano colla propria fantasia e finirono per ridurle in frantumi, la credula e religiosa Italia invece colla sua intelligenza più tarda, ma colla sua volontà più tenace le conservo a lungo e potè cosi rica varne tutto il succo vitale, che contenevasi in esse. Questo intanto è certo, che appena noi possiamo arrestare lo sguardo, non sulle gesta primitive delle genti italiche, che solo più tardi furono argomento di storia, ma sul linguaggio di esse e sulle traccie della loro civiltà, che sopratutto ci serbd il culto per i tra passati, noi riconosciamo immediatamente, che tutte le loro tradizioni, le cui origini sono celate in un remotissimo e misterioso passato, hanno già assunto un carattere sacro e religioso. Una religione, per nulla immaginosa ed estetica come la ellenica, ma eminentemente pratica ed applicata con cura minuta a tutte le emergenze della vita, ha già consacrato le basi della organizzazione gentilizia, per modo che le genti italiche, sempre occupate dal divino, che sovraintendono a ciascun atto della vita, cercano con tutti i mezzi di riconoscere i segni della benevolenza o malevolenza divina. Per gli atti della vita quotidiana questa volontà potrà essere indicata anche dai piccoli incidenti della vita; mentre per i fatti di importanza maggiore per il gruppo, è la volontà del cielo, che deve essere consul [Osserva giustamente il SUMNER Maine, L'ancien droit, che mentre l'intelligenza greca colla sua mobilità e la sua elasticità era incapace di chiudersi nella stretta veste delle formole legali, Roma invece possede una delle qualità più rare nel carattere delle nazioni, che è l'attitudine ad applicare e a svolgere il diritto come tale, anche in condizioni non favorevoli alla giustizia astratta, non scompagnata tale attitudine dal desiderio di conformare il diritto ad un ideale sempre più elevato. Del resto il primo, che con occhio veramente acuto abbia scrutato le attitudini mentali diverse dei greci e dei romani, è il nostro Vico, De uno et universo iuris principio et fine uno. D'allora in poi il paragone non è più venuto meno. Lo fanno gli storici, come Mommsen, LANGE ed altri; lo fanno parimenti gli studiosi della giurisprudenza comparata, come MAINE, op. cit., Freeman, Comparative politics, London, Hearn, Arian Household, London, IHERING, L'esprit du droit Romain. Per maggiori particolari in proposito mirimetto al libro: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale,. ove ho tentato di richiamare alle facoltà psicologiche prevalenti presso i due popoli il diverso svolgimento, che i medesimi ebbero a dare alla religione, al diritto, ed alle istituzioni sociali e politiche] tata. Di qui quella osservazione antichissima del volo degl’uccelli, che è d'origine latina, e l'altra dell'osservazione delle viscere degli animali da sacrifizio, che è di origine etrusca, e quel concetto per noi pressochè incomprensibile degli auspicia, che appartengono al magistrato e che danno al suo potere una consacrazione religiosa e giuridica ad un tempo. Per attenersi tuttavia a quel complesso di norme, che riflettono la vita, intesa questa distinzione in un senso che possa applicarsi al periodo gentilizio, noi troviamo che anche in questa parte le genti italiche mostrano fin da principio decisa tendenza a racchiudere le loro tradizioni in forme certe e precise, e a designarle con vocaboli di significazione determinata, la cui semplicità primitiva sembra indicarne l'antichità remota. Questi vocaboli per le genti latine sono quelli di “mos”, di “fas” e di “jus”, i quali tutti nelle origini sembrano presentarsi con una significazione, che tiene del religioso e del sacro. Del “mos” infatti noi abbiamo una definizione conservataci da Festo. “Mos est institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum.” Qui è notabile anzitutto la significazione larghissima, attribuita al vocabolo, per cui tutte le patrie tradizioni sarebbero inchiuse nel medesimo, come pure l'esplicazione che viene dopo, la quale, restringendo in apparenza il contenuto del vocabolo, indica in sostanza che la parte. BouchÊ-LECLERCQ, Histoire de la divination dans l'antiquité, e lo stesso autore, Institutions romaines. Questo ricorrere agli auspizii in ogni affare pubblico e privato è attestato da Servio, In Aen. “Romani nihil nisi captatis faciebant auguriis et praecipue nuptias” e da CICERONE, De divin. “Nihil fere quondam maioris rei nisi auspicato ne privato quidem gerebatur, quod etiam nunc nuptiarum auspices declarant.” Per quello poi, che si riferisce agl’auspicia, alle varie loro specie, alla procedura solenne, da cui erano accompagnati, ed alla importantissima distinzione fra auspicia privata e publica, distinzione, che fu anch'essa un effetto della formazione di Roma, non ho che a riferirmi alla trattazione magistrale di Mommsen, “Le droit pubblic romain”. Trad. Girard, Paris] prevalente nelle istituzioni dei padri era sopratutto quella, che si rifere alla religione ed alle cerimonie di essa. Questo carattere religioso non ha poi bisogno di essere provato quanto al vocabolo di “fas”. Poichè il fas delle genti italiche è paragonato dagli stessi scrittori latini alla Oeuis dei Greci, e col tempo fu questo vocabolo di fas, che, distinguendosi sempre più da ogni altro elemento estraneo, fini per significare quelle norme di carattere esclusivamente religioso, che si riferiscono agli auspicia, al l'arte augurale ed alle cerimonie del culto. Infine i più recenti investigatori del significato primitivo del “ius”, quali Leist,  Bréal, al quale aderisce anche Muirhead, e diavviso, che il medesimo nelle proprie origini avesse eziandio una significazione religiosa. Cosi Bréal ritiene, che il “ious” antico dei latini, cambiatosi poscia in “ius”, sia perfettamente conforme al iaus, che occorre nel più antico vocabolo, la cui significazione è alquanto vaga ed incerta, ma che egli ritiene essere quella di  volontà, potenza, protezione divina . Questa primitiva signifi [Festo, vo Mos. È poi notabile come lo stesso Festo, confermando il carattere religioso, comune al mos ed al fas, definisca il ritus dicendolo un “mos comprobatus in administrandis sacrificiis . Bruns, Fontes, -- Festo, v° Themin, scrive. “Themin deam putabant esse, quae praeciperet ho minibus quid fas esset, eamque id esse existimabant, quod et fas est.” Bruns, Fontes. Lo stesso concetto ha ad esprimere Ausonio, Edyl.: “Prima deum Fas Quae Themis est Graiis.” Per altri passi è da vedersi Voigt, Die XII Tafeln. È poi degno di nota, che nelle formole antiche occorre sovente la frase “secundum ius fasque”, la quale indica in certo modo il bisogno di dare al diritto anche l'appoggio del fas. BRÉAL tratta la questione in “Sur l'origine des mots dési gnant le droit et la loi en latin” nella “Nouvelle revue historique de droit Français et étranger” -- la cui conclusione è la seguente: “Le droit, qu'on a appelé la création la plus originale du génie latin, et qui a l'air de sortir tout d'une pièce de la tête des décemvirs a ses origines dans le passé le plus lointain. Il est inséparable des premières idées religieuses de la race. Questo è pure il concetto di LEIST, Graec. Ital. R. G., MUIRHEAD, Hist. Introd., segue l'opinione del Bréal. Parmi però, che questa etimologia non debba fare abbandonare intieramente quella dalla radice s < iu, che significa stringere, legare, unire, la quale indicherebbe la funzione, che il diritto compie di vinculum societatis humanae. Questo è certo, ad ogni modo, come nota Bréal, che le parole mos, fas e ius debbono essere considerate come caposti pite, e quindi, più che derivare da altre, sono esse che diedero dei derivati, quali. cazione del vocabolo spiega poi come tanto i Latini attribuissero un carattere religioso e sacro alla “lex”, sebbene questi due vocaboli siano di più recente formazione, e ritenessero la legge come un dono del divino; come pure spiega quel sentimento, le cui traccie occorrono ancora in Roma, per cui si ama meglio di lasciar cadere in dessuetudine il diritto costituito, che non di abrogarlo espressamente. Intanto questo carattere comune a questi diversi vocaboli e ai concetti inchiusi neimedesimi, conduce ad inferire, che dovette forse esservi tempo, in cui furono contenuti in qualche concetto più vasto e comprensivo, del quale essidebbono perciò considerarsi come specificazioni ed aspetti diversi. Questo concetto, secondo Müller ed anche secondo Leist, sarebbe stato dagli antichi arii significato col vocabolo di rita, il quale esprime ora l'ordine che regge l'universo, col suo alternarsi del giorno e della notte, ed ora l'ordine stesso della natura, in quanto governa il generarsi, il crescere e il disparire degli esseri viventi. A questo vocabolo di rita corrispon dono perfettamente i concetti del “ritus”, del “ratum” e della “ratio” dei latini, ed anche quello, che essi indicano coll'espressione di “rerum natura”, per guisa che anche il concetto di “ius naturale” nel senso che ha ad essergli attribuito da Ulpiano di un “ius quod natura omnia animalia docuit” puo rannodarsi a questi primitivi concetti. Lo stesso Leist poi osserva, che al concetto fondamentale di rita o di ratio la sapienza antichissima degl’arii associa altri con sarebbero quelli di fari, iubere, iustitia, iudes, iurgium, iniuria e simili. Una trattazione poi di questo elemento etico e religioso dell'antico diritto, sussidiata da una larghissima erudizione, occorre in Voigt, Die XII Tafeln. Leist. Ciò confermerebbe l'asserzione contenuta nelle Institut. Justin.: “palam est autem vetustius esse ius naturale, quod cum ipso genere humano rerum natura prodidit: civilia enim iura tunc esse caeperunt, quum et civitates condi, et magistratus creari,et leges scribi caeperunt.” Questo è certo poi, che a questo diritto naturale primitivo anteriore alle leggi accennano soventi i filosofi latini. Cfr. Henriot, Meurs jur. et judic. Conviene quindi indurne che il concetto di un diritto della natura comincia in certo modo ad essere sentito dall'universale coscienza, e solo più tardi diventò anch'esso argomento di una elaborazione filosofica. In proposito la classica opera del Voigt, “Das ius naturale, bonum et aequum et ius gentium der Römer”, Leipzig] -cetti, che sono espressi coi vocaboli di orata, a cui corrisponde il fas e il ratum dei latini, due vocaboli che sovente procedono uniti: di dhāma, che egli dice analogo alla Oeuis greca e infine quello di svadhā, che corrisponderebbe all'čnog od neos dei Greci e quindi anche al mos dei latini, mentre infine il concetto di dharma già si accosterebbe, quanto alla sua significazione, al vocabolo latino di lex, il quale sarebbe però sopravvenuto più tardi. Parmi tuttavia che la parentela ed analogia fra questi varii concetti possa essere facilmente spiegata, quando si consideri che fra i latini il vocabolo di ratum e quello più astratto di ratio, si associano talvolta al fas, al ius ed anche al mos. Si può quindi inferirne con fondamento, che il ratum, da cui derivò poi ratio, significava l'ordine, che governa il corso delle cose divine ed umane, mentre il fas, il mos ed il ius, che dapprincipio si presentano tutti circondati da un'aureola religiosa, significano i diversi aspetti, sotto cui si manifesta questa forza o volontà operosa, che muove e regge l'universo. Il fas quindisarebbe la stessa volontà divina, in quanto si estrinseca nei fenomeni della natura, ed è interpretata da coloro che sanno conoscerne il significato riposto. È quindi dal fas, che derivano i riti e le cerimonie del culto, le quali sono appunto intese a rendere propizia agli uomini la volontà divina, e che presso le genti italiche assumono anche esse il carattere contrattuale del  do ut des . Il mos significa la stessa volontà divina, ma non più in [ Leist. Questo scindersi dal concetto primitivo appare nelle parole di Virgilio “Fas et iura sinunt” che Servio commenta con dire – “id est divina humanaque iura per mittunt; nam ad religionem fas, ad homines iura pertinent.” In Aen.  (Bruns, Fontes). La parentela poi fra i vocaboli di ratum e di ratio è dimostrata da Leist con una quantità di passi da lui citati nella Graec. It. R. G. Ciò appare da tutte le formole primitive, che si indirizzavano agli dei di una città nemica, per ottenere che i medesimi abbandonassero la città stessa. V. HUSCHKE, Iurisp. anteiust. quae supersunt, Nota in proposito il Bouche-LECLERCQ, Institutions romaines, che il culto romano e una procedura del tutto analoga a quella delle  legis actiones > che i pontefici trasmisero poi più tardi ai giureconsulti. Che anzi per i Romani il sacrifizio è una offerta fatta in uno scopo interessato e la preghiera, che necessariamente l'accompagna, è una stipulazione, il cui effetto è infallibile, se essa sia concepita nei termini sacramentali, fissati dal costume – “rite”. Ciò significa che è per tal modo immedesimata coi romani l'idea secondo la quale il diritto formasi mediante la convenzione e l'accordo, che essi in ogni argomento scorgono una specie di contratto.] quanto si rivela con segni, la cui interpretazione è lasciata al sacerdote. Ma bensì in quanto si palesa in quella tacita hominum conventio, che dà appunto origine al costume ed alla consuetudine. Infine il “ius” è sempre questa stessa volontà divina, ma in quanto viene ad essere interpretata e statuita espressamente dagli uomini, che appartengono alla comunanza, nell'intento di provvedere alle esigenze della medesima. Per tal modo da un unico ceppo sonosi staccate propaggini diverse; ma siccome esse continuano ancora sempre ad essere in comunicazione fra di loro, così è molto difficile il precisare la significazione di ciascuna, sopratutto nel periodo gentilizio, allorchè vindice di questi varii aspetti della volontà divina era l'autorità patriarcale del padre e del consiglio degli anziani. È poi'degno di nota, che questi varii concetti, negli inizii di Roma, si presentano come patrimonio esclusivo delle genti patrizie come appare da ciò, che queste chiamano le usanze plebee non già col vocabolo di mores, ma con quello di “usus.” Ed anche da ciò che la cognizione del fas e del ius fu per lungo tempo un privilegio del patriziato ed una causa della sua superiorità sopra la plebe. In ciò può con fondamento scorgersi una prova, che queste nozioni doveno elaborarsi in altro suolo ed essere trapiantate da genti migranti dall'Oriente sul suolo italico, ove hanno poiservito per l'educazione di stirpi, che si trovavano in condizioni inferiori di civiltà. Sebbene qui non possa essere il caso di cercare in quale ordine questi varii concetti siansi venuti formando, non è tuttavia inopportuno di avvertire, che, nelle origini, il primo a prodursi, almeno nell'ordine dei fatti, dovette probabilmente essere il “mos”, il quale, dopo essersi formato pressochè inconsapevolmente nel seno delle comunanze patriarcali, viene poi mutandosi in una tradizione, che si trasmette di genitore in figlio e che col tempo assume un carattere sacro e religioso. È poi nel seno di questo mos primitivo, che si opera una distinzione, in virtù della quale una parte di esso riceve una sanzione religiosa, e l'altra una sanzione giuridica, mentre una parte continua sempre ad avere un carattere puramen temorale e costituisce ciò che le genti latine chiamano “i boni mores”. Intanto egli è certo, che le genti italiche si presentano con questi varii concetti, già compiutamente formati, e che fra essi ha già acquistata una incontestabile prevalenza quello del fas. E il fas, che primo ha a ricevere elaborazione e a concretarsi in certe massime, riti e pratiche, che tendono a diventare immutabili e ferme, come la volontà divina, di cui si ritengono essere l'espressione. È poi sotto la protezione del fas, che si vennero elaborando i concetti del ius e e dei boni mores, al modo stesso che più tardi sarà sul modello del ius pontificium, che verrà a formarsi il ius civile. Quasi si direbbe che, mancando ancora un'autorità abbastanza salda per porsi alle passioni dell'uomo in un periodo di lotta e di violenza, siasi sentita la necessità di porre sotto la protezione divina anche quelle regole, che appariscono indispensabili per il mantenimento della convivenza sociale. Intanto queste considerazioni intorno ai concetti fondamentali, che costituiscono il substratum della sapienza popolare delle genti italiche, ci preparano la via a comprendere il processo storico, secondo cui venne svolgendosi ciascuno di essi. Il vocabolo di fas esprime per le genti italiche, più fantastici ed immaginosi, giunsero perfino a personificare nei concetti di Themis, Nemesis, Adrasteia. Esso è l'espressione della volontà divina, in quanto impone e regge l'ordine delle cose divine ed umane, e vendica in modo irresistibile le violazioni, che l'uomo rechi al medesimo colle proprie azioni. Nel fas pertanto non è solo compresa una parte, che si riferisce ai riti e alle cerimonie del culto, ma una parte eziandio, che contiene delle norme che riguardano l'umana condotta. Che anzi, siccome la riverenza per il divino non è propria di questa o di quella gente, ma è comune alle varie genti, cosi è anche sotto la protezione del fas, che si trovano tutti quei rapporti fra le varie genti, senza di cui sarebbe stato impossibile, che esse potessero entrare in comunicazione le une colle altre. È quindi il fas, che determina i modi in cui debba es sere dichiarata una guerra, e copre della sua protezione coloro, che sono inviati a trattare le alleanze e le paci. È esso parimenti che dà un carattere sacro a quell'istituzione dell'ospitalitá (hospitium), che ha un così largo sviluppo presso le genti primitive, e che poi ricompare, come hospitium publicum, dopo la formazione [Per una più larga prova di questa analogia, vedi  C., La vita del di ritto, cogli autori ivi citati] della città, come pure è il fas che consacra le obligazioni, che intercedono fra il patrono ed il cliente. È esso, che condanna le violenze dei figli verso i genitori, le nozze incestuose, il falso giuramento e il venir meno ai voti fatti al divino, e alle promesse, che sotto il suggello della fides siansi fatte anche ad uno straniero. Esso in somma nei primordii sembra abbracciare i rapporti fra i membri della famiglia, quelli fra le varie genti, e quelli infine fra le varie tribù; donde la conseguenza, che anche più tardi, allorchè si tratto di patti fondamentali fra il patriziato e la plebe, questa per assicurarne l'adempimento non trova altro mezzo, che di porre i medesimi sotto la protezione di quel fas, che esercita tanto impero fra le genti patrizie, come lo dimostra il concetto ispiratore delle cosi dette leges sacratae. Chi poimanchi a questo complesso di norme, sopratutto allorchè lo faccia di proposito (dolo sciens), mentre offende gli uomini reca pure offesa al divino, e quindi deve espiare il proprio fallo, mediante certi sacrifizii, le cui traccie occorrono ad ogni istante nel ius pontificium e negli scritti dei più antichi giureconsulti, che si erano formati sullo studio di esso; i quali sacrificii prendevano il nome di piacula, e dovevansi anche fare, allorchè altri cade in fallo per semplice imprudenza (imprudens). Di qui si raccoglie, che già dall'epoca più remota, a cui rimontino le tradizioni, trovasi la distinzione, almeno fra le genti patrizie, fra colui che abbia compiuto un delitto di proposito (dolo malo, dolo sciens, prudens), e quello invece, che l'abbia compiuto solo per imprudenza (imprudens), nel che si avrebbe una prova, che queste genti già erano pervenute a tale da analizzare l'atto umano e scrutare perfino l'intenzione dell'agente, sebbene più tardi il diritto quiritario dove fare un passo in dietro, come quello che dove applicarsi a classi, che non erano tutte giunte allo stesso grado di sviluppo. Che se il fallo sia tale [Sul carattere delle leges sacratae è da vedersi Lange, De sacrosanctae tribuniciae potestatis natura, eiusque origine. Lipsiae -- Sono poi diversissime le guise, mediante cui le promesse, che non avevano ancora sanzione giuridica, si mettevano sotto la protezione del fas. Sopratutto a ciò serviva il giuramento, la cui larghissima applicazione, nel periodo storico, appare dal diligente lavoro di Bertolini, Il giuramento nel diritto privato romano. Roma. Cio è dimostrato dal fatto, che la distinzione fra l'omicidio commesso di proposito e quello commesso per imprudenza già occorre nelle leges regiae attribuite da non potersi espiare in questa guisa, in allora il reo viene assoggettato ad una specie di espiazione sacrale, la cui forma tipica consiste nella capitis sacratio. Questa dove essere pena gravissima durante il periodo gentilizio, poichè il colpevole veniva con essa ad essere sot toposto ad una specie di scomunica religiosa e domestica, che lo stacca dal gruppo gentilizio, di cui faceva parte, e lo poneva in certo modo fuori della legge, per guisa che sebbene il sacrifizio della sua vita non potesse essere accetto al divino, esso puo pero essere ucciso impunemente da chicchesia. Di qui il carattere di espiazione sacrale, che informa ancora tutto il diritto penale di Roma, durante il periodo patrizio, come pure i vocaboli e i concetti di expiatio, supplicium, di consecratio bonorum, di interdictio aqua et igni, i quali confermano l'osservazione di Voigt, secondo la quale le genti patrizie avrebbero ravvisato nei delitti più un'offesa al divino che non agl’uomini, a differenza delle plebi, che risentivano di preferenza l'offesa e il danno materiale. Non potrei quindi ammettere l'opinione di coloro, i quali, supponendo le genti italiche in una condizione del tutto primitiva e come nella loro infanzia, mentre sotto un certo aspetto sono già nella loro età matura, vogliono ad ogni costo trovare nel diritto penale le traccie della vendetta. Se cio intendasi nel senso che erano i singoli capi di famiglia, che dovevano essere essi i vindici del proprio diritto e proseguire le offese, che loro fos sero recate, in mancanza di un'altra autorità che lo facesse per essi, ciò può essere facilmente ammesso. Che se invece si intenda che nella stessa comunanza gentilizia dovessero spesseggiare una reazione violente e una vendetta, cio più non può conciliarsi col rattere patriarcale di una comunanza, ove tutto è già regolato dalla a Numa. V. Bruns, Fontes. Tale distinzione poi incontrasi frequentemente in ciò, che a noi pervenne degli scritti dei pontefici dei veteres iurisconsulti. Che anzi pare, che, secondo il Pontefice Quinto Muzio Scevola, i fatti commessi contro il fas allora soltanto potessero espiarsi colla piacularis hostia, quando fossero compiuti per imprudenza; mentre non ammettevano espiazione, quando fossero commessi di proposito. Ciò appare dal seguente passo tolto da VARRONE, De ling. lat. Praetor, qui diebus fastis tria verba fatus est, si imprudens fecit, piacu lari hostia piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius ambigebat eum expiari non posse.” Altri esempi occorrono in Huschke, Iurisp. anteiust. quae sup., Voigt, XII Tafeln] religione e dal costume. Non potrebbe certo affermarsi che anche le genti italiche non abbiano attraversato uno stadio, in cui dovette dominare la forza, la vendetta e la violenza. Ma l'organizzazione patriarcale e i vincoli strettissimi di essa erano già un mezzo per uscire da tale condizione di cosa. Quindi, se si deve giudicare dal diritto primitivo di Roma patrizia, sarebbero così poche le traccie, che rimangono in esso della vendetta, nel senso che suole attribuirsi a questo vocabolo, da doverne inferire che nel periodo gentilizio la religione, compenetratasi in ogni atto della vita, ne aveva già cacciata la vendetta ed aveva esclusa perfino la composizione a danaro, almeno nella cerchia delle genti patrizie. Che se il padre di famiglia può incrudelire contro la moglie e la figlia adultera e contro l'adultero (sorpresi in flagrante), o contro il ladro, egli lo fa più come giudice e come investito di un carattere sacerdotale, che non come uomo, che si abbandoni all'impeto della collera e della vendetta. La religione già incatena le passioni dell'uomo, ed è solo più fra la plebe, che ancora si trovano le traccie della vendetta e della composizione a danaro, le quali poi ricompariscono in qualche parte nella legislazione decemvirale, come quella che era comune ad entrambe le classi. Fra gli autori, che cercano di dare una larga parte alla vendetta nel diritto romano, havvi il MUIRHEAD, Hist.introd. Egli argomenta da ciò, che colui il quale commetteva un omicidio per imprudenza dove fare l'offerta di un ariete agli agnati dell'ucciso. Da ciò che il vendicare la morte di un congiunto ucciso e un dovere per i superstiti per acquetare i mani di lui. Dal diritto del padre e del marito di uccidere la figlia o la moglie sorprese in adulterio unitamente all'adultero. Dal taglione, le cui traccie ancora rimangono nella legislazione decemvirale, e perfino dal diritto del creditore di chiudere nel carcere il debitore, chemancasse ai proprii impegni. Parmi tuttavia, che di questi fatti alcuni indichino invece la preponderanza dell'elemento religioso, e gli altri siano concessioni, che il diritto decemvirale fece al modo di pensare e di agire proprio della plebe, presso la quale avevano ancora certamente una più larga parte la privata vendetta, il taglione e la composizione a danaro. Cfr. Ihering, L'esprit du droit Romain. Trad. Meulenaere. Paris, -- ove discorre della giustizia privata e delle forme, con cui essa e esercitata. Finchè quindi si dice, che sono i singoli capi di famiglia, che, in mancanza di una autorità investita dal pubblico potere, perseguono essi stessi le ingiurie e le violazioni di diritto, di cui furono vittima, si afferma una verità indiscutibile. Ma ciò non deve più confondersi coll'esercizio sregolato di una vendetta, che non prende norma che dalla violenza della passione, dal momento che la religione e la consuetudine già hanno determinato la procedura solenne, a cui egli deve attenersi per ottenere soddisfazione dell'ingiuria o del danno sofferto, e che l'organizzazione gentilizia ha appunto per iscopo di porre termine alla pri vata violenza fra coloro che appartenevano alla medesima gente o tribù.Accanto però a queste regole dell'umana condotta, che già sono munite di sanzione religiosa, sonvene delle altre che, appoggiate unicamente al costume, costituiscono, per cosi esprimerci, una morale. Esse vengono indicate col vocabolo di “mos patrius”, di “mores maiorum”, di “boni mores”, e costituiscono un complesso di norme direttive della condotta, le cui traccio si trovano più tardi ancora nel iudicium de moribus, at tribuito al Praetor, e sopratutto nel “regimen morum”, affidato alla custodia dei censori. Anche questi “mores maiorum” si sono venuti formando durante il periodo gentilizio, nella cerchia sopratutto delle familia e delle gens, e sono quelli, a cui deve essere attribuito l'obsequium e la reverentia verso gli ascendenti, la pudicitia delle mogli e il mantenimento della fides, anche per quelle promesse, che non fossero munite di sanzione giuridica e che fossero fatte anche ad uno straniero. Sono questi boni mores, che da una parte conteneno in certi confini il potere delle varie autorità, le quali, giuridicamente considerate, apparivano senza alcun confine; e che dal l'altra colpivano colla sanzione efficace della disistima generale della comunanza coloro, che mancavano a certi doveri, i quali non erano muniti di sanzione giuridica. Così, ad esempio, furono i boni mores, che ancora molto più tardi condussero l'opinione pubblica dei cittadini Romani a condannare al disprezzo quei prigionieri d’Annibale che, lasciati liberi sotto la condizione del ritorno, credettero di liberarsi dalla promessa mediante lo stratagemma di ritornare immediatamente nel campo e di sostenere di aver così attenuta la loro [Questo concetto trovasi espresso da Publio Siro, allorchè scrive – “Etiam hosti est aequus, qui habet in consilio fidem.” Del resto sono diversissime le guise, con cui i filosofi esprimono l'efficacia moralmente obbligatoria delle promesse. È qui che compariscono i concetti del pudor humani generis, del foedus, che talvolta significa anche il patto e la convenzione, il concetto della casta fides, quello della santità inerente alle parole, in quanto che immutabile sanctis Pondus inest verbis; concetto che trova poi la sua espressione giuridica nell' “uti lingua nuncupassit, ita ius esto.” Così pure nell'Andria di Terenzio trovasi elegantemente espresso il concetto, che l'obbligazione è un vincolo che la volontà impone a se stessa colle parole – “coactus tua voluntate es” -- concetto che trova pur esso forma nell'assioma giuridico, “Quae ab initio sunt voluntatis ex post facto fiunt necessitates.” Per altri esempi può vedersi HENRIOT, Meurs juridiques et judiciaires] promessa. Del resto è sempre questo concetto del buon costume, che tornerà poi a penetrare, per opera della classica giurisprudenza, nella compagine soverchiamente rigida del diritto civile romano, come lo dimostrano le considerazioni di ordine morale, che talvolta occorrono nei grandi giureconsulti, l'influenza che esercitò mai sempre l'existimatio anche sulla capacità di diritto, e l'introduzione dell'infamia, della ignominia, della levis nota, che danno in certo modo una configurazione giuridica alle varie gradazioni della publica disistima, in cui sia incorsa una determinata persona. Al qual proposito non e inopportuno di osservare, che quella separazione fra l'elemento esclusivamente GIURIDICO ed il meramente morale, che tarda così lungamente ad operarsi nella scienza, presentasi invece con una meravigliosa nettezza nel diritto di Roma, il quale, dopo essersi separato dal fas e dai boni mores, continua logicamente la propria via, e assunse così quel carattere di rigidezza e di logica pressochè inumana (“dura lex, sed lex”), che solo più tardi e temperato nella classica giurisprudenza, la quale di nuovo richiama in esso quell'alito morale, da cui almeno in apparenza erasi dapprima compiutamente disgiunto. Intanto, per ciò che si riferisce ai boni mores, non è più la religione, che si incarica di punirne le violazioni, ma sono i capi stessi dei diversi gruppi, che vegliano sovra quel retaggio del buon costume, che loro ebbe ad essere trasmesso dagli antenati. Sono quindi il padre nella famiglia, il consiglio degl’anziani nella gente ed il magister pagi nella tribù, che sovraintendono almantenimento di questa morale. Mentre è poi la disistima generale della comunanza, che condanna al disprezzo e all'isolamento coloro, che abbiano esercitato professioni ignominiose, o abbiano mancato alla fede promessa, o abusato del potere loro spettante, o abbiano infine commessa alcuna di quelle azioni, che, senza senza essere colpite [Cfr. Muirhead, Hist. Introd. Basta leggere le commedie di Plauto, e fra le altre specialmente il Trinummus, per scorgere la significazione larghissima, che davasi al vocabolo di boni mores, e come fosse altamente sentita l'importanza di essi di fronte alle leggi e l'impotenza di queste, quando quelli cominciavano a venir meno. Ciò verrà ad essere largamente provato nel ius Quiritium, dovuto ad un ' astrazione potente, mediante cui si riuscì ad isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini.] dalla sanzione religiosa o giuridica, incorrono però nella disapprovazione generale. Se il modo in cui formasi questa generale opinione e l'influenza, che essa esercita, male possono scorgersi ancora a Roma, in cui già scomparve ogni traccia della vita patriarcale, possono invece essere anche oggidi facilmente compresi quando si arresti lo sguardo ad una comunanza di villaggio, ove tutti si conoscono e debbono necessariamente essere in rapporto fra di loro, ed ove le colpe dei padri pesano più duramente sulla riputazione dei figli. Se ora si vogliano cercare le origini del ius nel periodo gentilizio, apparisce fino all'evidenza, che e soltanto, collocandosi in un posto intermedio, fra il fas da una parte ed i boni mores dall'altra, che puo riuscire e farsi strada quel ius, che dove poi ricevere cosi largo sviluppo durante il periodo della comunanza civile e politica. Sonvi in una comunanza certi modi di operare e di agire, che, per essere costantemente ripetuti in modo uniforme, fini scono per acquistare un carattere pressochè obbligatorio per tutti coloro, che trovansi in una determinata condizione sociale, e danno cosi origine non più al mos propriamente detto, ma a quella formazione giuridica, che viene poi ad essere indicata col vocabolo efficacissimo di “consuetudo”, il quale in certo modo contiene in sè la propria deffinizione. Colui che manca a queste regole non offende solo il divino e non viola solamente il buon costume, ma viene meno ad obbligazioni, che sono imposte dalla convivenza, cui appartiene e si sottrae cosi alle esigenze della vita sociale. Fra i fatti irreligiosi ed immorali viene così formandosi una categoria di fatti umani, in cui appare soltanto in seconda linea l'offesa alla religione ed alla morale, mentre viene ad essere evidente sopratutto l'offesa [Servius, In Aen. -- VARRO valt morem esse communem consensum omnium simul habitantium, qui inveteratus *consuetudinem* facit . Del resto questo passaggio del costume, che ha carattere meramente MORALE, in *consuetudine*, che ha carattere strittamente GIURIDICO, è indicato anche da molti passi dei giureconsulti, che possono trovarsi raccolti nell'Heumann, “Handlexicon zu den Quellen des römisches Rechts”. Jena, Va Mos e Consuetudo] alla comunanza, a cui altri appartiene e il danno che vengono a soffrirne gli altri membri della comunanza. Di qui la conseguenza, che comincia già ad operarsi, nel seno delle comunanze anche patriarcali, come una specie di selezione, per cui dal complesso dei precetti religiosi e morali se ne vengono sceverando alcuni, che assumono il carattere *giuridico* propriamente detto. Naturalmente questo lavoro di selezione non può ancora spingersi molto oltre, fino a che trattasi di una comunanza, che adempie a funzioni domestiche, religiose e civili ad un tempo. Ma intanto già comincia ad avvertirsi il carattere particolare di certi precetti, che appariscono più rigidi di quelli puramente morali e religiosi, per ottenere l'adempimento dei quali non può più bastare una sanzione meramente religiosa, né la disistima generale, ma vuolsi una specie di sanzione co-attiva da parte della intiera comunanza e dell'autorità che la governa. Al modo stesso, che già fra le genti e le tribù si vengono gradatamente svolgendo quelle arces, quegli oppida, quei conciliabula, quei fora, che sono il primo nucleo, intorno a cui verrà poi a svolgersi l'urbs e la civitas; cosi, anche frammezzo ad una convivenza, i cui precetti hanno ancora sopratutto un carattere religioso e morale, già cominciano a presentarsene alcuni, che assumono un carattere civile e politico. Che anzi, per continuare nello stesso paragone, al modo stesso che Roma, limitata dapprima ad essere il rifugio degli abitanti dei villaggi, viene poi ad essere il luogo, ove si amministra la giustizia e si tengono le riunioni, e viene infine ad abbracciare nella sua cerchia anche le abitazioni private, e a sottrarre all'organizzazione domestica e gentilizia tutte quelle funzioni di carattere civile e politico, a cui essa prima adempiva; così anche [Questo concetto, per cui chi manca al diritto offende non solo l'individuo, ma reca un danno alla intiera comunanza, che ora noi diremmo danno sociale, è un concetto profondamente sentito dai romani, il quale ha ad essere variamente espresso dai filosfi latini. Basti riportare dall'Henriot questi versi di Pubblio Siro: Multis minatur, qui uni facit iniuria: Tuti sunt omnes, ubi defenditur unus; Omne ius supra omnem iniuriam positum est. O quello di Orazio:  nam tua res agitur, paries quum proximus ardet . Come pure le frequenti scene di Plauto e di TERENZIO, in cui una persona ingiuriata chiama gli altri testi in testimonio e chiede aiuto con formole, che hanno una precisione giuridica: “Obsecro vos, populares, ferte misero atque innocenti auxilium. Ovvero: Obsecro vestram fidem, subvenite cives .] questo primo nucleo di precetti giuridici, che negli inizii abbisogna ancora dell'appoggio della religione e del costume e si modella sul fas, viene col tempo accrescendosi sempre più, e richiamando a se una quantità di precetti, i quali nell'organizzazione anteriore non hanno che un carattere religioso o MORALE. Per tal guisa il ius viene in certo modo accrescendosi a spese degl’elementi, da cui si è staccato. Quando poi sentesi forte abbastanza per procedere per proprio conto, afferma senz'altro la propria indipendenza, e assume, per opera dei romani, un processo tutto speciale nel proprio svolgimento, che chiamasi appunto iuris ratio, mediante cui finisce per qualche tempo per isolarsi anche troppo da quegli elementi, da cui ricava il suo primitivo nutrimento. Quel carattere pertanto di rigidezza, che suole condannarsi nel diritto dei Quiriti, è la miglior prova della sua potenza ed energia; perchè indica come l'elemento giuridico ormai fosse giunto a tale da potersi svolgere senza più tener conto della considerazione MORALE o religiose -- al modo stesso che Roma, teatro del suo svolgimento, ormai e pervenuta a tale da cercare ancor essa di spogliarsi di ogni traccia della influenza gentilizia e patriarcale. Questo è poi degno di nota, che anche quando il ius viene ad affermare la propria esistenza separata continua pur sempre a svolgersi sotto due forme, che corrispondono alle due sorgenti da cui esso ebbe a derivarsi. Havvi infatti la parte, in cui il diritto cerca in certo modo di imitare la solennità del fas, ed è quella in cui esso viene ad essere rivestito della forma di “lex.” Quando cioè il popolo, interrogato dal magistrato, dà una forma solenne ed espressa alla propria volontà – “iubet atque constituit” -- creando cosi il “ius legibus introductum”. Intanto si mantiene sempre un altro aspetto del ius, in cui la volontà collettiva del popolo si manifesta nella formazione lenta delle proprie consuetudini, che i romani considerano come il frutto di una tacita civium conventio – “ius moribus constitutum”. Ad ognimodo però il ius, prenda esso il carattere di una *regola*, che il popolo pone a sè stesso, o di una norma, che formisi tacitamente nel costume, è pur sempre il frutto di un accordo espresso e tacito dei cittadini, e deve essere considerato come l'espressione di una volontà comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui. Finchè esso è in via di formazione può essere argomento di discussioni, le quali hanno luogo nelle riunioni meno solenni del popolo, che chiamansi contiones; ma allorchè la legge viene ad essere posta e costituita con quei riti solenni, che accompagnano i comizii, la vox populi viene ad essere considerata come vox dei, e debbono ubbidirvi tutti coloro, che cooperarono a formarla, non eccettuati quelli che erano di avviso contrario. Vi ha di più, ed è che accanto a questo dualismo se ne delinea ben presto un altro, per cui distinguesi una parte del diritto, che si riferisce all'interesse generale della comunanza, e chiamasi ius publicum; e una parte invece, che si riferisce all'interesse parti colare delle famiglie e delli individui, che entrano a costituirla, e chiamasi ius privatum. Il primo si forma sulla piazza e nel foro, fra gli urti ed i conflitti delle varie classi, lascia le sue traccie nella storia politica di Roma, e si esplica mediante gli accordi e le transazioni, cheavvengono fra patriziato e plebe. L’altro viene elaborandosi pressochè tacitamente nella coscienza generale del popolo, e trova i suoi interpreti nei pontefici e nei giureconsulti. Intanto però l'uno e l'altro sono in certa guisa atteggiamenti diversi di un medesimo diritto, in quanto che il di ritto pubblico è in certo modo il palladio, sotto la cui protezione può nascere e svolgersi il diritto private. Insomma al modo stesso, che l'urbs e il frutto di una lenta formazione, mediante cui si vennero sceverando dalle abitazioni pri vate gl’edifizii aventi pubblica destinazione, e che il formarsi della civitas e del populus si dovette al raccogliersi e al riunirsi di tutti gli uomini (viri) che col braccio o col consiglio potevano provve dere alla difesa ed all'interesse comune; cosi anche la formazione del diritto e attribuita ad una specie di elaborazione, che venne operandosi nella coscienza generale di un popolo, e all'attrito dei varii elementi, che entravano a costituirlo, [È da vedersi, quanto alla distinzione fra diritto pubblico e privato, Savigny, Sistema del diritto privato romano, trad. Scialoia. Sopratutto importa il notare, che il diritto pubblico e il privato, nel concetto romano, sono due atteggiamenti diversi del medesimo diritto – “duae positions” -- e non deve essere dimenticato il detto, che Bacone certo ricava dallo spirito del diritto romano, secondo cui “ius privatum sub tutela iuris publici latet”, De augm. scient., de iust. univ. Quanto alle altre suddistinzioni, che presentansi nel campo del diritto, è da consultarsi Voigt, Die XII Tafeln, come pure lo stesso autore, Das ius naturale, gentium etc. Leipzig] mediante cui da tutti gli elementi morali e religiosi, che già si erano formati durante il periodo gentilizio, si vennero sceverando tutti quelli, che potevano ritenersi indispensabili per il mantenimento della convivenza civile e politica. Roma insomma che, piccola dapprima e limitata a pochi edifizii, si venne però sempre ingrandendo a spese delle comunanze di villaggio, che erano entrate a costituirla, deve essere considerata come il crogiuolo, in cui si gettarono indistintamente tutti gl’elementi della vita patriarcale, per sceverarne ed isolarne quella parte, che ha un carattere essenzialmente giuridico, politico e militare. E questa una specie di chimica scomposizione, che un popolo mirabilmente atto a sceverare nel fatto umano tutto ciò, che in esso si presenti di giuridico, e a concretarlo in forme tipiche e precise, venne in certo modo compiendo a benefizio del genere umano. Espresse quindi una grande verità il filosofo coll'esclamare: Fuit sapientia quondam Publica privatis secernere sacra profanes. Poichè tale veramente e il compito delle città primitive e quello sopratutto di Roma. Il nucleo di questi precetti, di carattere esclusivamente giuri dico, e dapprima assai scarso, e si ridusse a quel poco che Roma, ancora nei proprii esordii, poteva sottrarre ad un'organizzazione come la gentilizia, che ancora aveva tutta la sua vitalità ed energia. Poscia però col crescere di Roma, coll'estendersi delle sue mura, col fondersi insieme degli elemeuti, che entrano a costituirla, coll'in corporarsi di nuovi elementi nel populus, quel ius, che prima ha solo una posizione subordinata, si cambiò invece in tutore e custode della vita pubblica e privata, ed e riconosciuto come sovrano nel seno della comunanza civile e politica. E allora che, consapevole della propria forza e dell'ufficio, che gli e affidato, si riaccosta di nuovo a quell'elemento religioso e sopratutto etico, da cui aveva dovuto disgiungersi, allorchè nel periodo della propria formazione non riconosce più altra guida, che una logica esclusivamente giu ridica – “iuris ratio”. Di qui intanto deriva la conseguenza, che Roma, pur ricevendo [Orazio, Ars poetica] le proprie istituzioni dal passato, ci fa però assistere alla formazione lenta e graduata di un diritto, che venne adattandosi alle esigenze della convivenza civile e politica, e differenziandosi sotto molteplici aspetti. Questo diritto tuttavia può essere logicamente spiegato in tutto il suo processo, ed anche nelle distinzioni che comparvero in esso, in quanto che è stato veramente una costruzione logica e coe rente in tutte le sue parti, che venne svolgendosi “rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente.” Che questo sia stato veramente il processo, con cui si esplica il diritto in Roma, risulta poi con tanta evidenza dallo svolgersi della comunanza romana, che per ora non occorre altra dimostrazione. Bensi importa, ed è assai più difficile determinare, quali siano i rapporti, che primi hanno ad assumere un carattere giuridico, e quali siano stati gli aspetti essenziali, sotto cui si presenta questo primitivo diritto presso le antiche genti italiche. Finchè noi siamo nelle mura domestiche e nel seno della famiglia la religione comune, la riverenza verso il proprio capo, il suo carattere patriarcale, il suo potere pressochè senza confini, non che l'autorità moderatrice di quel consiglio o consesso di parenti, da cui egli è circondato, creano un'organizzazione di tale natura, che può bastare a qualsiasi emergenza, senza che occorra perciò di ricorrere al diritto propriamente detto. Che anzi, se il diritto cerca di penetrare nelle mura domestiche, la fiera indipendenza dei padri riguarderebbe ciò come una violazione del proprio domicilio ed una usurpazione della propria autorità, come lo dimostra ancora il padre di Orazio, uccisore della sorella, allorchè osserva che, se il proprio figlio non ha a ragione uccisa la sorella – “iure caesam” -- e toccato a lui di provvedere. Se quindi la moglie, i figli, gli schiavi manchino a quei doveri, che sono fissati dal costume e consacrati dalla religione, e il padre stesso, che e vindice dei loro [Liv., Hist., I, 24. Di qui si può' raccogliere, come non possa ammettersi l'opinione di coloro, i quali vorrebbero senz'altro attribuire al re, come primo magistrato di Roma, la giurisdizione per giudicare di qualsiasi misfatto. CLARK, Early roman law. Deve invece ritenersi a questo riguardo col MuiruEAD, Histor. che la giurisdizione criminale del re o magistrato venne gradatamente svolgendosi frammezzo alla giurisdizione dei capi di famiglia, e a quella che apparteneva alle singole genti, quanto ai delitti, che erano commessi da membri, che entravano a costituirle.] falli, salvo che in certi casi di maggior gravità, come quando trattisi della moglie adultera, non stata sorpresa in flagrante, egli dove circondarsi del tribunale domestico e pronunziare la condanna, dopo averne sentito l'avviso. Allorchè poi l'azione, che reca danno altrui, sia stata compiuta da un altro capo di famiglia, o da persona soggetta al potere del medesimo, e fra i due capi di famiglia, che la questione e risolta, e se quest'ultimo non intenda di riparare il danno arrecato dal suo dipendente, non ha nulla di ripugnante al modo di pensare dell'epoca, che egli consegni la persona, che ha recato il danno, al capo di famiglia, che ha a soffrirlo, mediante l'antichissimo istituto delle noxae deditio. Cosi pure [È noto a questo proposito come nel diritto, distinguasi fra “noxia” e “noxa”, per cui mentre il vocabolo “noxia” significa il danno, veniva anche dai filosofi adoperato per significare la colpa, mentre il vocabolo “noxa” si adopera per significare il peccato, il delitto, ed anche la pena di esso -- donde la espres sione di noxae deditio, la quale trova poi una larga applicazione, tanto nei rapporti fra i capi di famiglia, quanto eziandio nei rapporti fra le varie genti e tribù nel “ius pacis ac belli” nel periodo gentilizio. V. Festo, vº Noxia (Bruns, Fontes). Intanto dalla estesa comprensività del vocabolo di “noxa” o di “nocia”, nella sua significazione primitiva, parmi di poter inferire con fondamento, che nelle origini uno stesso vocabolo significa ad un tempo la colpa, che cagionava il danno, e il danno, che deriva da essa, e che non dove esservi distinzione fra colpa e danno di carattere civile e colpa e danno di carattere penale, come neppure dove distinguersi fra colpa contrattuale ed extra-contrattuale od aquiliana. I concetti e i vocaboli sono sinteticamente potenti nel diritto romano, ed è solo col tempo, che in essi si osservano quegli atteggiamenti diversi, che costituiscono poi altrettante configurazioni giuridiche di un unico concetto fondamentale. Un altro carattere del diritto si è anche questo, che esso prende di regola le mosse da un vocabolo di significazione materiale, e poi gli attribuisce una significazione sempre più estesa e perfino traslata o figurate. Abbiamo un esempio di ciò nel vocabolo “rupere”, che significa il rompere materialmente un membro, od altra cosa; ma fu poscia recato ad una significazione traslata, attestataci da Festo, per cui rupere significa damnum dare, al modo stesso che rupitias e ruptiones finiscono per significare ogni maniera di danno. È uno dei processi più consueti nel diritto di Roma, quello per cui una volta formato un concetto od un vocabolo giuridico non si teme di estenderlo a tutte le configurazioni affini. Come si estese il parricidium ad ogni uccisione di un uomo libero. Così il membrum rupere o la rupitias, essendo stato il danno, che prima ebbe ad essere configurato giuridicamente, passa poi ad indicare qualsiasi danno. Rimando in proposito al dottissimo lavoro del collega G. P. Cuironi, “La colpa nel diritto civile” (Torino). Di quest'opera credo di poter dire, senza offendere la modestia dell'amico, che servirà a rimettere in onore fra noi quel mirabile magistero, che ha fatto la] gli è tenendo conto della posizione rispettiva, in cui in questo periodo si trovano due capi di famiglia, che si può comprendere il nascere e lo svolgersi di certe procedure, che più tardi appariscono strane e pressochè incomprensibili. Tale è, per dare un esempio, quella del “furtum lance lincioque conceptum”, in cui abbiamo un capo di famiglia, che ricercando una cosa statagli derubata può ottenere di entrare nella casa del vicino, in cui teme sia stata nascosta; ma cio a condizione di fare anzitutto una libazione propiziatoria ai lari della casa, in cui egli si inoltra, il che è dimostrato dal piatto, che egli tiene fra mano (lance), e intanto deve stringersi la persona con un cingolo (lincio), che gli impedisca di nascondere qualsiasi oggetto. Sembra però, che questa perquisizione domiciliare dove per un senso di pudicizia arrestarsi dinanzi al cubiculum della moglie, con che però il capo di casa giurasse che nulla di derubato vi era stato nascosto. Del resto in questa condi grandezza della giurisprudenza romana, secondo cui, una volta che si è formata una configurazione giuridica, la medesima non deve più essere perduta di vista nelle in definite trasformazioni e distinzioni, che pud subire nelle vicissitudini delle legislazioni e della giurisprudenza, ma deve sempre essere richiamata alle proprie origini e seguita nella sua dialettica fondamentale. L'autore tratta dei concetti di “rupere”, di “rupitias”, di culpa della lex Aquilia.] Esmein in “La poursuite du vol et le serment purgatoire”, trova le traccie di una procedura analoga a quella, che seguivasi per il “furtum lance lincioque conceptum”, anche presso il popolo di Israele nel fatto di Rachele, che avendo sottratti gli idoli di Labano, li aveva poi nascosti sotto le coperte del cammello, sovra cui essa si era seduta; come pure nel fatto narrato da MACROBIO, Saturnalia, ove si narra di un Tremellio, a cui sarebbesi imposto il soprannome di Scrofa, perchè avendo rubata una scrofa uccisa, aveva poi fatto sedere sopra di essa la propria moglie, e aveva giurato, in via di purgazione, che colà non eravi altra scrofa, fuori di quella. Ciò dimostra come questa procedura siasi naturalmente formata presso popoli diversi. Ma non posso convenire nell'apprezzamento dell'autore, per cui nelle epoche primitive non si guarderebbe che all'adempimento delle forme esteriori della procedura. Poichè nel fatto stesso citato da MACROBIO, noi abbiamo l'opinione generale, che segna a dito colui, che ricorse a quell'ignobile stratagemma, imponendogli il soprannome di Scrofa (Esmein, Mélanges d'histoire de droit, Paris). L'autore poi, il quale avvertì che il piatto, tenuto fra mani da colui, che ricerca la cosa derubata nel “furtum lance lincioque conceptum”, ricorda in certo modo la libazione propiziatoria ai lari e ai penati, che dovevasi fare prima di metter piede nella casa altrui, è Leist, Graec. Ital. R. G. Sul “furtum lancie lincioque conceptum” è da vedersi il saggio di Gulli, “Del furtum conceptum secondo la legge delle XII Tavole. Bologna] zione di cose, mancando ancora un'autorità, che siasi fatta ella stessa investigatrice e punitrice dei misfatti, si comprendeche sia il derubato che prosegue il ladro, il marito offeso che tenga dietro all'adultero e sorpreso l'uccida, e si richiederà ancora lungo tempo prima che, in Roma, l'autorità pubblica si incarichi direttamente della punizione di questi e di altri misfatti. Che se la riparazione non venga ad essere accordata all'offeso, e anche naturale, che impegnisi una lotta fra le due famiglie, e che associandosi alle medesime le genti, a cui esse appartengono, il DUELLO mutisi talvolta in un conflitto fra le due genti, ed anche in una guerra fra le tribù, di cui esse entrano a far parte. Cosi è pure dei rapporti interni fra i diversi membri, che entrano a costituire la gente, quali sono i rapporti fra il patrono ed il cliente, ed anche i doveri della ospitalità, poichè essi cadono sotto la protezione religiosa, e le violazioni di essi sono punite mediante la pubblica disistima, e coll'intervento dell'autorità patriarcale e del consiglio degl’anziani, custodi e vindici delle tradizioni dei maggiori. Siccome però nella gente già vengono ad esservi diversi capi di famiglia, che hanno una propria familia, un proprio “heredium”, un proprio “peculium”. Cosi comprendesi come nel “vicus” già puo sorgere delle controversie di carattere GIURIDICO fra i diversi padri. Controversie che talvolta possono anche essere rese più accanite dal vincolo stesso di parentela, che intercede fra le famiglie che appartengono alla medesima gente. È tuttavia ancora sempre verosimile, che l'interporsi di qualche anziano, che goda la fiducia comune dei contendenti, possa indurli ad un amichevole componimento. Il che spiega come nei vici siavi sempre un luogo per il mercato, in quanto che la distinzione del mio e del tuo già rende possibile il commercium, manon vi si rinvenga sempre il luogo per amministrare giustizia. Infatti, il carattere esclusivamente patriarcale dei rapporti, che intercedono fra i membri di essa, rendono [Ciò accade sopratutto, quanto all'adulterio, che comincia a formare oggetto di un “iudicium publicum” solo colla legge Iulia, De adulteriis, che e una di quelle con cui Ottaviano cerca, ancorchè con poco frutto, di far rivivere il buon costume. [In proposito l'interessante articolo dell'Esmein, “Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia, De adulteriis” – “Mélanges d'histoire de droit”. Quanto al vicus e al difetto, che talora trovasi in esso di un magistrato per amministrarvi giustizia] ripugnante l'idea di una vera e propria lite, non solo fra patrono e cliente, ma anche fra i padri o capi di famiglia, che discendono dal medesimo antenato e hanno per mettersi d'accordo fra di loro l'autorità dei proprii anziani. Nella tribù invece, già si trovano di fronte capi di famiglia, che appartengono a genti diverse e che più non discendono dal medesimo antenato, nè partecipano allo stesso culto gentilizio. Quindi già viene ad imporsi il bisogno di provvedere in qualche modo all'amministrazione della giustizia, più non essendovi un'autorità di carattere esclusivamente patriarcale, che possa imporsi ai capi di famiglia, che sono di discendenza e d'origine diversa. Dovette quindi probabilmente essere questa necessità di provve dere all'amministrazione della giustizia, che suggere l'idea di una autorità chiamata a dirigere e ad amministrare il pagus – “magister pagi” --, la cui primitiva destinazione è ancora indicata dai nomi di “iudex” e di “praetor”, ed anche da quello di “tribunal” (derivato certamente da “tribus”), che significa dapprima il seggio, più elevato sovra cui collocavasi quegli che e chiamato ad amministrare giustizia, e indica così anche esteriormente la posizione cospicua, in cui egli trovavasi di fronte agli altri membri della comunanza. Queste controversie intanto non puo naturalmente sorgere che fra i varii capi di famiglia, i quali, memori delle loro tradizioni, sono dapprima troppo altamente compresi del proprio diritto, perchè sia necessario che intervenga una legge a dichiarare quello che loro appartenga. Ma hanno piuttosto bisogno di essere contenuti nell'esercizio violento delle proprie ragioni e di conoscere il processo, che deve seguire per ottenere giustizia, senza dover ricorrere alla privata violenza. È questo il motivo, per cui presso tutti i popoli la prima forma che giunse ad assumere il diritto e quella dell' “actio”, che è il complesso degli atti e dei riti solenni, che si debbono compiere per far valere il proprio diritto davanti al magistrate. Atti e riti solenni, che presso genti come le latine, le quali imitano coi gesti e coi riti. La posizione elevata del tribunal, sovra cui trovasi assiso il magistrato, perchè – “sedendo quiescit animus, et sedendo ac quiescendo fit animus prudens” -- trovasi soventi accennata dai filosofi latini, come indizio della dignità, a cui era assunto colui, che e chiamato ad amministrare giustizia. V. Henriot, “Mæurs juridiques et judi ciaires de l'ancienne Rome”).] giudiziarii, ciò che un tempo dovette seguire nei fatti, finiranno per contenere una storia simbolica dei varii stadii, per cui dovette passare l'amministrazione della giustizia, prima di giungere ad essere accettata e riconosciuta dallo spirito fiero ed indipendente dei primi capi di famiglia. Che se si volesse spingere anche più oltre questa ri-costruzione logica e concettuale del diritto romano, che ha a svolgersi nel seno della tribù, potrebbe affermarsi con certezza, che le due prime figure di rei, contro cui la giustizia umana associa i proprii sforzi colla giustizia divina e colla esecrazione della generale opinione, dove essere quella del parricidas e del perduellis. Ivi infatti è sopratutto l'uccisione del padre di famiglia, che per il carattere patriarcale della comunanza viene ad essere considerato come padre rimpetto a tutti i membri di essa, i quali talvolta continuano ancora a chiamarsi col nome di fratelli, che è il grande misfatto contro la legge umana e divina, il quale puo mettere in lotta le famiglie fra di loro, ed anche rimanere impunito, quando l'autorità comune non si mette in movimento contro di esso. Nè ripugna al carattere della comunanza patriarcale, che la punizione del parricida acquistasse in certo modo un carattere tradizionale e fosse accompagnata da certe pratiche, che possono anche avere un significato simbolico, e che potrebbero anche essere state portate dall'Oriente. Tali sono quelle, che più tardi ancora accompagnano la punizione del parricida; pratiche tradizionali, che anche oggi in parte sopravvivono e non possono dirsi compiutamente abbandonate anche presso le nazioni civili. Così pure dovette essere un processo del tutto natu [Questa circostanza, che tutti i membri della comunanza patriarcale si chiamano fratelli, è attestata dal Sumner MAINE, “The early history of institutions”, e qualche cosa di analogo dovette accadere ancora nella tribù italica, ove non vi ha dubbio, che i capi di famiglia sono generalmente indicati col vocabolo di patres; poichè di questo stato di cose rimasero ancora le traccie in Roma. È nota la punizione tradizionale contro il parricida, ricordata ancora nel Digesto: “Poena parricidii more maiorum haec instituta est, ut parricida, virgis sanguineis verberatus, deinde culleo insuatur cum cane, gallo gallinaceo et vipera et simia; deinde in mare profundum culleus iactatur . Qui il giure-consulto lascia travedere, che la pena del parricidio e conservata nel costume e trasmessa per via tradizionale – “mos maiorum”. Essa pertanto dopo essersi mantenuta nel costume più che nella legge, contro i parricidi in senso stretto, ha poi ad essere sanzionata dalla lex POMPEIA, De parricidiis] rale, che condusse l'opinione generale di una comunanza patriarcale a ravvisare un nemico in colui, che getta la perturbazione nella comunanza stessa e si disponeva a tradirla coi nemici di essa. Cosicchè non dubitarono di applicargli il nome stesso, che davano al nemico, con cui erano in guerra, il qual nome era quello appunto di “perduellis”. Cio intanto darebbe una spiegazione molto probabile e naturale del fatto, che fa meravigliare gli stessi romani, per cui Romolo, prima e Numa, dopo chiamare col nome di “parricidas” anche l'uccisore di un uomo libero, non che di quello per cui le prime e sole autorità incaricate di perseguire e punire i mi sfatti in Roma avrebbero assunto il nome di “quaestores parricidii” e di “duumviri perduellionis”. Anche qui la legislazione di Roma comincia dal riconoscere come pubblici reati quelli, che già hanno cominciato ad assumere questo carattere nello stesso periodo gentilizio, e a questi sarebbe poi venuta aggiungendo man mano quelli la cui repressione appare necessaria. Vi ha di più, ed è che nella tribù già si incomincia la formazione di due ordini diversi di persone, che sono i patrizi e i plebei, i quali ultimi più non entrano nei quadri dell'organizzazione gentilizia, ma già cominciano ad es sere indipendenti dal patriziato, sebbene ancora si trovino in condizione assai inferiore e non abbiano potuto ancora dimenticare la loro antica origine servile. Di fronte a questa condizione parmi non sia temeraria la congettura, che mi permetto di avventurare, secondo cui, nel periodo della tribù e nel seno del pagus, non dovette soltanto cominciarsi lo svolgimento dell'elemento giuridico, ma questo diritto primitivo dovette assumere due forme essenziali; in quanto che altro dovette essere il diritto, che governava i rapporti fra i padri, che appartenevano alla stessa comunanza gentilizia, ispirato all'idea della loro parità ed uguaglianza di condizione; ed altro invece il diritto, che venne a svolgersi nei rapporti, che necessariamente dovettero stabilirsi fra l'ordine superiore dei padri e quello INFERIORE della plebe, il quale non potè a meno di ritenere qualche traccia della superiorità che [La questione del “parricidium” e della perduellio scorreno delle leges regiae.] si attribuivano i primi e dell'inferiorità di condizione, in cui sanno di trovarsi i secondi. È solo col dare la debita parte a queste due forme del diritto, le quali del resto trovano la loro base nelle condizioni di fatto dei due ordini, che si possono spiegare certe istituzioni del diritto romano, quali sarebbero quelle del “mancipium”, del “nexum”, della “manus iniectio” e simili; le quali sono tutte forme giuridiche, che non trovarono applicazione nei rapporti fra i padri e i loro discendenti patrizii, ma soltanto nei rapporti fra i patrizii ed i plebei. Se si comprende infatti che un plebeo, il quale non ha altra garanzia da dare che quella della propria persona, e costretto a dare a mancipio sè stesso o la propria figliuolanza, o ad obbligarsi con quella severità, che era propria del nexum, e che il patrizio insoddisfatto puo mettere la mano sopra di lui e trascinarlo nel suo carcere, mediante la procedura della “manus iniectio”. Questi modi di procedere non si possono invece comprendere fra due capi di famiglia appartenenti alle genti patrizie. Nè serve il dire, che queste istituzioni passarono poi effettivamente nel diritto quiritario; poichè anche questo e l'opera dei patrizii, i quali, dettandolo, hanno sopratutto per iscopo di governare e di reggere le plebi. Di più è un processo del tutto romano quello per cui, quando si è creato un vocabolo o un concetto, non si dubita di trapiantarlo in condizioni anche diverse da quella in cui ebbe a formarsi. E quindi opportuno tentare la ricostruzione dell'una e dell'altra forma di questo diritto per trovare in esso la spiegazione alcune singolarità del tutto peculiari al diritto quiritario. Lo svolgimento di questa teorica tratta appunto di alcuni primitivi concetti del diritto quiritario. I giureconsulti col dire che il “ius hominum causa constitutum est”, enunciarono una verità che trova una piena conferma nei fatti, quando seguasi il processo, con cui il diritto vennesi formando fra le genti del Lazio. Finchè trattasi di persone che appartenno al medesimo gruppo, il fas, il mos e l'autorità patriarcale, stabiliti in seno delle varie aggregazioni, possono bastare a qualsiasi emergenza. Così invece non era, allorchè i capi di fa miglie, appartenenti ai diversi gruppi, venivano a mettersi in rapporto fra di loro; poichè in allora, mancando la comune discendenza e l'autorità patriarcale di un capo, convenne di necessità porre le reciproche obligazioni sotto l'impero di un comune diritto. Di qui provennero alcuni caratteri importantissimidel diritto, che possono spargere molta luce sulla formazione del diritto quiritario, e dileguare una quantità di sottigliezze, che furono immaginate per spiegare quel diritto, senza cercarne la causa nelle condizioni sociali che ne determinano la formazione. Il primo di tali caratteri sta in questo, che i rapporti giuridici, sorgeno dapprima fra i capi di gruppo, anzi che fra i singoli individui, che sono assorbiti ed unificati nel medesimo. Di qui le solennità, che dove necessariamente accompagnarne gl’atti, come quelli che non riguardavano gli interessi particolari di questo o di quell'individuo; ma si rifereno all'interesse dell'intiero gruppo da lui rappresentato, e così hanno, per usare il linguaggio moderno, un'importanza pressochè internazionale. Non fu pertanto amore di formalismo, che guida un popolo così eminentemente pratico come il romano nella formazione del proprio diritto; ma questo, nei suoi esordii apparve ingombro di formalità e difinzioni, solo perchè, dopo essere stato preparato in un periodo di organizzazione sociale, e trapiantato in un altro dallo spirito conservatore del popolo romano. Anzichè archittettare formalità artificiose, i romani si valgono invece di quelle, che si sono formate nella realtà dei fatti in un periodo anteriore, e con piccole modificazioni, che sono rese necessarie dalle nuove esigenze, fanno entrare in esse i rapporti, che si vengono svolgendo più tardi nella comunanza civile e politica. Nel che seguono un processo, che non abbandonno neppure più tardi; quello cioè di non creare giammai una forma novella, finchè quella già prima [Il formalismo è certo uno dei caratteri più salienti del diritto di Roma. Si comprende quindi, che I filosofi se ne siano largamente occupati e fra gli altri il SUMNER Maine, L'ancien droit, in cui si occupa delle finzioni legali, e sopratutto poi JHERING, che ha a dedicarvi buona parte del “L'esprit du droit Romain”. La conclusione, a cui sarebbero venuti questi filosofi, e, che questo formalismo del diritto di Roma dove essere attribuito alla predilezione del popolo romano per l'elemento esteriore; carattere, che Roma avrebbe comune con tutti i popoli, e proveniente da ciò, che i medesimi riguardano più alla forma che alla sostanza. Senza voler qui entrare in una discussione, che mitrarrebbe troppo in lungo, mi limito unicamente ad osservare, che il formalismo non è un fenomeno, che comparisca presso tutti i popoli. Esso compare soltanto, al lorchè istituzioni formatesi in un'epoca si trasportano in un'altra, in cui più non si comprenda la significazione delle medesime. Dei popoli non si può dire, che essi siano amici della formalità; perchè essi cercano di esprimere ciò che sentono col gesto, cogli atti e colle parole ad un tempo, e quindi hanno una mimica, la quale, anzichè essere artificiosa ed architettata, tende ad essere l'espressione effettiva e reale delle loro sensazioni ed emozioni. Quindi, il formalismo, anzichè essere l'indizio di un popolo, è invece l'effetto dello spirito conservatore, che trasporta una forma creata in un periodo ad un altro, in cui esse hanno perduto qualsiasi significazione. Tutte le forme che si conservano come tali sono sopravvivenze di un'epoca trascorsa, che sono trapiantate in un'altra, la quale più non le capisce, e quindi si limita ad osservarle pressochè materialmente. Ciò accade nella religione, nella morale, nel di ritto, e accadde certamente nel diritto di Roma, il quale, se divenne formalista, e perchè il patriziato romano vuole conservare le vestigia del passato e fare entrare nella forma preparata nel periodo gentilizio un nuovo rapporto che e creato dalla convivenza civile e politica colla plebe. Non è quindi da ammettersi, che la forma esteriore del diritto si elabori prima della sostanza di esso; nè che i popoli primitivi diano maggior importanza alla forma, che alla sostanza. Forma e sostanza invece si presentano dapprima indissolubilmente congiunte, ed è solo più tardi, allorchè si vorrebbero conservare la forma antica, e fare entrare nelle medesime una sostanza nuova, che si viene alla conseguenza, per cui “a forma dat esse rei”. Ciò che accade nel diritto, avverasi eziandio nel linguaggio, il quale nella sua formazione adatta la parola al concetto; il che non impedisce pero, che più tardi, trasportandosi la stessa parola ad un altro concetto, si venga alle significazioni traslate, la cui origine può talvolta essere poi difficilmente compresa.] esistente possa ancora bastare al bisogno. Del resto non può neppure dirsi, che negli inizii di Roma questo diritto e veramente disacconcio, dal momento che allora soltanto si usce da una condizione di cose, in cui il padre rappresenta effettivamente quel complesso di persone e di cose, che dipendeno da esso. Quindi e naturale che per qualche tempo il diritto conserva quel medesimo carattere, che aveva acquistato durante il periodo gentilizio. Solo comincia a diventare artificioso e disadatto alle nuove condizioni sociali il diritto di Roma, quando al PADRE si venne sostituendo il CITTADINO, e più ancora quando al cittadino si sostitui L’UOMO LIBERO e L’UOMO NUOVO. Del resto non è poi difficile il ricostruirsi nel pensiero un'organizzazione, in cui sia veramente il PADRE, che compia tutto ciò, che si riferisce al gruppo da lui rappresentato, per guisa, che esso sia PADRE (quanto ai figlio), PADRONE (quanto al servo), PATRONO (quanto al cliente), e rappresenti il gruppo da lui governato, ogni qualvolta trattasi di entrare in rapporto con altri gruppi. Di questo padre antico ci hanno conservato la imponente figura non tanto gli scrittori di cose giuridiche, che lo irrigidiscono di troppo perchè lo riguardano sotto l'aspetto esclusivamente giuridico; ma i filosofi latini, allorchè ci dipingono, ad esempio, APPIO Claudio, capo di una grande famiglia, custode geloso dell'antico costume, il quale continua, ancorchè vecchio e CIECO, ad esercitare, venerato e temuto ad un tempo, la propria autorità sui figli, sui servi, e sopra un numero grandissimo di client. Del resto anche il diritto lascia di quando in quando travedere quest'aureola patriarcale, che circonda il capo di famiglia, come lo dimostrano le seguenti parole attribuite ad Ascanio. “Moris fuit, unumquemque domesticam rationem sibi totius vitae suae per dies singulos scribere, quod appareret quid quisque de reditibus suis, quid de arte, de foenore lucrove sepo suisset, et quo die, et quid idem sumptus damnive fecisset.” Tuttavia anche questa descrizione tende già a dare all'autorità del padre un carattere essenzialmente giuridico. Mentre invece, riportandoci al periodo gentilizio, questa figura primitiva presentasi anche [Cic., Cato maior -- È poi sopratutto nei filosofi latini, e specialmente nei comici, come Plauto, che si può facilmente scorgere la differenza fra la patria podestà, quale era giuridicamente concepita é quale invece esisteva nel fatto. È da vedersi in proposito Henriot, Moeurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome. Bruns, Fontes juris romani antiqui. Edit. V, Friburgi] più imponente col suo carattere patriarcale e religioso ad un tempo; e quindi si può comprendere come l'acceptum, l'expensum, lo sponsum, lo stipulatum, l'actum, il iussum del capo di famiglia si cambiano in altrettanti atti solenni, che diventarono poi il substratum di altrettante configurazioni giuridiche in un periodo posteriore. Un secondo carattere poi sta in questo, che il diritto presentasi fra questi capi di famiglia appartenenti a genti e a tribù diverse, come il solo mezzo per stabilire e mantenere la pace fra i medesimi. Se infatti il suo impero non fosse riconosciuto non ha altro espediente, che quello di ricorrere alla manuum consertio, la quale, allargandosi dalla famiglia alle genti, e da queste alle tribu, mantenne le medesime in uno stato di guerra permanente, i cui rancori si verrebbero poi perpetuando di generazione in generazione. Accenno qui ad un concetto, che sarà svolto più largamente altrove. Diregola si suol cercare nel diritto quiritario il complesso di tutti gli atti e dei negozi giu ridici, che potevano essere richiesti dalle condizioni sociali del popolo, fra cui esso vige. Esso invece non comprese dapprima tutti i rapporti giuridici, che già esi stevano nel costume e nella consuetudine; ma comincia dal comprendere quelli, che erano resi più urgenti dalle esigenze della vita civile e politica. E in questo modo, che esso comincia dall'essere un ius quiritium, che si aggira su pochissimi concetti fondamentali, i quali si adattano a tutte le possibili evenienze; poi trasformasi nel “ius proprium civium romanorum”; quindi assorbisce anche nella propria cerchia le istituzioni del ius gentium; e da ultimo giunge ad informarsi persino al ius naturale; concetti questi che, se non avevano ancora una configurazione scientifica, viveno però già nella coscienza generale del popolo romano, fin dal proprio esordire nella storia. Ciò mi conferma in una antica convinzione, che ho già avuto occasione di esporre nell'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, la quale consiste in ritenere, che anche nelle epoche primitive il diritto non confondesi colla forza; ma compare invece qual mezzo per reprimere la forza e la violenza. So che questa opinione ha ad essere combattuta da egregi che si occuparono dell'argomento, e fra gli altri da Zocco-Rosa, Preistoria del diritto. Milano, e da Puglia, L'evoluzione storica e scientifica del diritto e della procedura penale, nota; ma i fatti mi inducono a persistere nella medesima. Non è già che io nego, che siavi stato un periodo, in cui abbia predominata la forza e la privata violenza: ma quando presentasi il diritto, esso non solo non confondesi colla forza, ma si propone senz'altro di reprimerla, obbligandola a seguire certi processi, che ne impediscono l’esagerazioni e gl’eccessi. In questo senso aveva ragione il filosofo di scrivere – “Nam genus humanum. Ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum Sponte sua cecidit sub leges arctaque iura.” Lucretius, De rerum natura. Cio è anche dimostrato dal carattere del tutto particolare, che assumono le guerre in questo periodo, e che si mantiene ancora per qualche tempo nella storia di Roma. Tali guerre infatti il più spesso prendono le mosse da qualche controversia, di carattere pressochè famigliare, che viene poi estendendosi mediante le aderenze e le parentele, e riduconsi in sostanza a scambievoli scorrerie, che le varie tribù e genti vengono facendo nei rispettivi loro territorii; scorrerie, che si sospendono mediante le induciae nella cattiva stagione, e vengono poi ad essere riprese nell' anno seguente. Ciò fa quasi credere, che queste genti primitive sono in uno stato perpetuo di guerra; il che non può essere ammesso, perchè è contraddetto dalle solennità stesse, che accompagnano così le dichiarazioni di guerra, come la formazione delle tregue, delle alleanze e delle paci. Un ultimo carattere infine, sta in ciò, che la formazione del diritto non si ha dapprima nei rapporti interni dei singoli gruppi; ma piuttosto nei rapporti fra le famiglie, fra le genti, fra le tribù, o almeno fra i loro capi, per guisa che i primi vocaboli di significazione eminentemente giuridica contrappongono sempre l'uomo all'uomo, ed indicano dei rapporti amichevoli od ostili, che vengono a svolgersi fra i diversi capi di gruppo. Di qui la conseguenza in apparenza strana, ma certamente fondata sui fatti, che la formazione di un diritto, che governava i rapporti fra le varie genti, precede la formazione del diritto privato propriamente detto: il che è dimostrato anche dalla considerazione, che nei filosofi si discorre dei “iura gentium”, prima ancora che si discorra del ius quiritium e del ius civium romanorum. Infatti, i iura gentiun, i foedera, le sponsiones fra i capi delle varie genti sono già rapporti, che si sono svolti anteriormente alla formazione della comunanza romana, mentre il ius quiritium dapprima e il ius civile più tardi nacquero e si svolsero colla stessa Roma; il che appare eziandio dal processo delle cose sociali ed umane, che ci è descritto dai filosofi latini. Intanto e sopratutto sui mercati, ove compareno i varii capi di famiglia, ed ove, oltre gli scambi, si puo anche trattare le alleanze e le paci, che comincia la formazione del diritto; il quale, esplicandosi fra capi di famiglia, che appartenano a genti diverse, e che non erano ancora soggetti al medesimo diritto, dove necessariamente essere dapprima piuttosto un “ius gentium”, che non un diritto, che potesse chiamarsi ius civile. Questo anzi non potè formarsi altri menti, che col trasportare fra i cittadini della medesima città quelle forme, che si sono prima elaborate nei rapporti contrattuali fra i capi delle varie genti e famiglie. Si può quindi affermare, che anche quel diritto pdi Roma, che appare nella storia con caratteri di maggior rozzezza e violenza, non trova sempre la propria origine nella forza, come molti sostengono; ma che in parte ha invece un'origine essenzialmente *contrattuale*, come la città, in cui esso era chiamato a ricevere il suo svolgimento. Il diritto, anziché doversi confondere colla forza, compare invece, allorchè si comincia ad uscire da uno stato di violenza, e se la forza continua ancora nei rapporti fra le varie tribù, gli è perchè esse non riuscirono ancora a sottoporsi, mediante accordo, all'impero di un medesimo diritto. E solamente più tardi, allorchè la città comincia ad essere abbastanza forte e potente, per imporsi ai singoli gruppi, che l'autorità civile potè penetrare eziandio nelle mura do [Non mi dissimulo l'arditezza di una idea, che conduce in sostanza a dire, che si forma dapprima il ius gentium, che non lo stesso ius civile, e che il ius quiritium e un diritto, formatosi dapprima fra le genti e i loro capi, e poscia trapiantato fra i quiriti: ma questo processo è per tal modo confermato dai fatti e ne appariranno man mano prove così evidenti, che mi sembra impossibile il poterlo negare. Del resto la ragione di esso trovasi in questo, che mentre la famiglia poo fare a meno del diritto nei suoi rapporti interni; questo invece e indispensabile nei rapporti fra le varie famiglie e fra le varie genti. Che anzi, dacchè sono nel dominio delle induzioni, aggiungerò ancora, che ai iura gentium dovette precedere il senso di quei iura naturalia, quae natura omnia animalia docuit; per guisa che il diritto nel suo svolgimento di fatto sarebbe prima uscito dalle tendenze spontanee dell'umana natura. Poi sarebbe stato elaborato nei rapporti fra le varie genti. Solo più tardi e comparso nell'interno di Roma. Esso insomma nei fatti seguì un processo del tutto opposto a quello che segue la scienza del diritto in Roma; la quale comincia invece dalle cautele del *ius civile*. Poi venne ad abbracciare anche l'equità del *ius gentium*. Più tardi soltanto giunse ad innalzarsi all'umanità del *ius naturale*. Vi ha però questa differenza, che i iura naturalia primitivi sono l'opera in consapevole degli istinti dell'umana natura, e i primitivi iura gentium consistono in un complesso di pratiche fra le varie genti, imposte dalle necessità di fatto; mentre il ius gentium accolto dal praetor e il ius naturale dei giureconsulti sono già nozioni astratte, a cui essi pervennero, mediante la riflessione ed il ragionamento, e forse neppure da soli, quanto al ius naturale, ma col sussidio della filosofia, atta a svolgere questi concetti speculativi ed astratti. Mi rimetto, quanto allo svolgimento del concetto di ius gentium e di ius naturale, a ciò che ho scritto nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, lasciando a chi legge di notare le modificazioni, che qui sonovi arrecate.] mestiche, e sostituirsi a poco a poco alle norme di carattere esclusivamente morale o religioso, imponendo un diritto, a cui tutti devono inchinarsi, perchè è l'espressione della volontà collettiva e comune. I caratteri del diritto che ho fin qui cercato di ricavare dall'esame dei fatti, appariscono eziandio dai vocaboli più antichi, che presso le genti latine abbiano avuta una portata veramente giuridica, quali sono quelli di “connubium”, di “commercium” e di “actio”, e dalla significazione, che questi vocaboli hanno anteriormente alla formazione stessa di Roma. Infatti non può esservi dubbio, che questi tre concetti già avevano un contenuto preciso, allorchè comparve la comunanza romana. Ma essi non indicano ancora un complesso di diritti, che appartenga a questa od a quella persona, ma piuttosto dei rapporti, di carattere pressochè *contrattuale*, che esistono fra le famiglie, le genti e le tribù e i capi rispettivi delle medesime. L’ “action”, nel suo significato giuridico, ha un'origine pressochè contrattuale, come lo dimostra il fatto, che essa suppone il rimettersi di due persone ad un'autorità accettata da entrambi, ed una reciproca scommessa fra i contendenti, con cui entrambi affermano di essere nel buon diritto. E solo più tardi, che questi vocaboli, i quali significavano primitivamente dei rapporti, che intercedevano fra le varie genti e i loro capi, trapiantati fra i cittadini vennero a costituire altrettanti capi saldi, da cui si staccarono le forme essenziali, sotto cui ebbe poi a svolgersi il diritto quiritario. È poi degno di nota, come questi vocaboli, che primi acquistarono una significazione giuridica, abbiano questo di particolare, che contrappongono l'uomo all'uomo, indicando per tal modo come il diritto sia veramente nato colla società umana, e sia chiamato ad essere il “vinculum societatis humanae”. Nel “connubium” infatti abbiamo una persona, che esce da una famiglia per entrare in un'altra. Nel “commercium” abbiamo una persona, che, obligando se stessa od alienando la sua proprietà, addiviene a quelle molteplici relazioni di affari e di negozii giuridici, di cui si intesse la vita sociale sotto l'aspetto economico. Nell' “actio”, infine, abbiamo parimente una persona che, ritenendosi lesa in questo o in quel diritto da un'altra persona, lo afferma e lo fa valere di fronte alla medesima, appigliandosi a quei mezzi, che possono conciliarsi colle esigenze della vita sociale. Per tal modo il ius pone l'uomo di fronte all'altro uomo, e si può affermare con ragione che “hominum causa constitutum est.” Intanto ciascuno di questi concetti è eminentemente sintetico e comprensivo per modo che ognuno può servire come punto di partenza a tutto un complesso di diritti; il che apparirà ancora, allorchè Gaio, riassumendo l'elaborazione scientifica di molti secoli, finisce per con chiudere: “omne ius vel ad personas, vel ad res, vel ad actiones pertinet.” Non ignoro come questa classificazione sia stata di recente combattuta sopra tutto in Germania, e fra gli altri. dallo stesso SAVIGNY, il grande iniziatore del movimento contemporaneo negli studii storici intorno al diritto, il quale giunse fino a sostenere, che la distinzione di Gaio non ha nè valore storico, nè valore intrinseco. Traité de droit Romain. Trad. Guexoux, Paris. Parmi tuttavia, che chi consideri la correlazione perfetta, che vi ha fra la classificazione teorica di Gaio, e i concetti da cui il diritto quiritario prende le mosse, e tenga conto di quella dialettica potente, che stringe insieme le varie parti della giurisprudenza romana, malgrado il tempo per cui durò l'elaborazione di essa, possa difficilmente ammettere, che qui trattisi, come il SAVIGNY dice dell'opinione individuale di un giureconsulto, e che come tale sia priva di qualsiasi valore storico ed intrinseco. Essa invece ha valore storico ed intrinseco ad un tempo, perchè compenetra tutta la giurisprudenza romana, in quanto che e facile il dimostrare a suo tempo, che nel diritto civile romano tutta la parte relativa ai diritti di famiglia e quindi alle persone non e che uno svolgimento del concetto primitivo del “connubium.” Tutta quella relativa alle cose non fa che una deduzione dal concetto di “commercium.” Infine, quella che si riferisce alle azioni, non fu che il frutto di un'elaborazione lenta e non mai interrotta del concetto primitivo di “actio”. Cfr. al riguardo  C., “De exceptionibus in iure romano” (Torino). L'autore che pose meglio in evidenza la correlazione fra “connubium”, “commercium” ed “actio”, e LANGE, Histoire intérieure de Rome. Che anzi i giureconsulti proseguirono lo svolgimento di queste forme essenziali del diritto, senza mai confondere lo svolgimento dialettico dell'una con quello dell'altra; per modo che certe singolarità del diritto romano solo si puo spiegare, in quanto che la dialettica giuridica non consente di confondere due ordini diversi di idee. Di più se fosse qui lecito di porre innanzi una considerazione, che puo parere TROPPO filosofica, non dubito di affermare, che nel concetto romano la distinzione seguita da Gaio esprime tre atteggiamenti diversi del diritto compreso in tutta la sua larghezza, il quale appartiene alla persona, si spiega sulle cose, e infine, violato, affermasi mediante l'azione. È da questa concezione sintetica e potente del diritto in Roma, che procede la primitiva indistinzione fra il diritto *personale*, il diritto reale, e l'azione, che serve a difenderli. Fra questi concetti presentasi anzitutto quello di “connubium”, che nella sua significazione primitiva indica la facoltà, che appartiene ad individui, i quali appartengono a genti diverse, di imparentarsi fra di loro, mediante quelle nozze, che dalle genti sono riconosciute come giuste e legittime. Esso ha per effetto di mescolare le stirpi, e quindi si comprende, che nell'alto concetto, che hanno le genti patrizie dei proprii antenati e del SANGUE, che corre nelle loro vene, questo dove essere un rapporto, in cui tendevano piuttosto a restringersi, che non ad estendersi. Solo le genti, che appartenevano al medesimo “nomen” -- e questo il latino, il sabino o l'etrusco – hanno fra di loro comunanza di connubii, il che è anche provato dalla tradizione, secondo cui, se i Ramnenses vuoleno il connubium coi Titienses, doveno ricorrere alla violenza ed alla forza; il che pero non tolse, che il MESCOLARSI DEL SANGUE delle due tribù sia stata la causa del loro successivo affratellarsi per formare una medesima Roma. Furono infatti le DONNE di origine SABINE che secondo una tradizione, la quale è certo ben trovata -- si interposero fra i mariti ed i fratelli e riuscirono così ad affratellarli, dando perfino il loro nome alle curie, in cui essa è ripartita. Cosi pure si comprende, che anche fra le genti, che appartenevano allo stesso “nomen” e facevano anche parte della STESSA tribù, il connubium non potesse esistere fra i due elementi, di cui [È questa la significazione primitiva, che si attribuisce al vocabolo, allorchè parlasi di “connubium” fra le varie genti, o fra il patriziato e la plebe. E solo nel diritto quiritario, che il “ius connubië” passa a significare il diritto di addivenire alle iustae nuptiae, e venne così a dare origine a tutti quei rapporti giuridici, che si riferiscono alla famiglia. È da esso infatti, che deriva la manus, che fonda la famiglia; la patria potestas, che spiegasi, allorchè nascono dei figli; e infine la stessa successione legittima, la quale si avvera, allorchè, morendo il capo di famiglia, si discioglie quel gruppo, e si riparte quel patrimonio, che in lui trovavansi unificati. Questa tradizione è riferita da Livio e da Dionisio: ma non sembra essere confermata dai fatti, perchè alcuni dei nomi delle curie primitive, che giunsero fino a noi, sembrano essere tolti più dai luoghi che dalle persone. V. LANGE, Hist. intér. de Rome. Ad ogni modo questa è una tradizione, che è certo ben trovata, in quanto che dimostra l'importanza, che dove avere un avvenimento che la rompe col passato, e rende possibile il connubium fra persone che non appartenevano al medesimo nomen, preso nel senso di stirpe e di schiatta. E questa prima MESCOLANZA DEL SANGUE latino col sabino, che rese possibile la potente attrazione esercitata da Roma su tutte le stirpi italiche, il che è riconosciuto da CICERONE, De Rep.] l'uno in origine rappresenta la classe dei vincitori e l'altro quella dei vinti. Non poteva quindi esservi connubio, nè fra i liberi ed i servi, nè nè fra i patroni ed i clienti, e neppure fra i patrizii ed i plebei. Queste varie gradazioni costituivano pressochè due caste diverse, il cui sangue non dove confondersi, come lo dimostrano le lunghe lotte, che si dovettero sostenere anche più tardi per accomunare i matrimonii fra il patriziato e la plebe. Intanto pero questo connubium, frammezzo a genti, che costitui vano per così dire altrettante piccole potenze, riducesi in realtà a staccare una donna da un gruppo, di cui prima fa parte, per trasportarla in un altro; il che importa eziandio un cambiamento nel culto gentilizio, perchè la donna abbandona il culto dei suo padre per diventare partecipe di quello del marito. Di qui la necessità per le giuste nozze di una cerimonia religiosa, come quella della “confarreation”, a cui assisteno i capi di famiglia della gente e delle tribù, a cui appartene lo sposo e la moglie, e che importa la comunione delle cose divine ed umane. Di qui la conseguenza eziandio, che quanto era dalla moglie recato con sè dovesse diventare [A chi chiedesse col linguaggio ora adottato, se le genti italiche praticassero l'endogamia o l'exogamia (V. SPENCER, Principes de sociologie), si dove rispondere, che esse sotto un certo aspetto erano exogame, perchè ritenevano nefarie le nozze fra persone strette da un certo vincolo di parentela, fra quelle persone cioè, fra cui esiste, secondo l'antico linguaggio, il “ius osculi”, ossia fino al sesto grado; mentre poi erano endogame nel senso, che il Patrizio, per scegliere la propria compagna, non puo uscire dalle genti che appartenevano allo stesso nomen. Pare però, che questa consuetndine tradizionale siasi modificata dagli stessi romani, i quali, misti fin dalla origine, furono anche in seguito i più facili a mescolare il proprio sangue con altre stirpi. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Torino. Parmi allo stato attuale degli studii incontrastabile l'opinione, che considera la “confarreatio” come esclusivamente propria delle genti patrizie. Tra gli autori seguono tale opinione EsMein (“La manus, la paternité et le divorce” – “Mélanges d'histoire de droit, Paris); Glasson (“Le mariage civil et le divorce, Paris), e pare anche il nostro Brininel suo bel lavoro sul “Matrimonio e divorzio nel diritto romano” (Bologna). Del resto varii indizii di questa origine patrizia della “confarreatio” si hanno nel carattere religioso della cerimonia, nei X testimonii che ricordano le X curie delle tribù, e in ciò che le leggi regie da Dionisio attribuite a Romolo ed a Numa, non ricordano che le nozze confarreate. V. Bruns, Fontes. Per ciò che si riferisce alla famiglia romana è fondamentale l'opera dello SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano. Padova] proprietà del marito, o di colui, sotto la cui potestà trovavasi ancora il marito; e che la medesima, per entrare nei quadri del gruppo, a cui venne ad aggregarsi, cadesse sotto la manus del capo di famiglia, ed acquistasse la posizione migliore, che puo esservi nella medesima, che era quella di figlia – “filiae loco”. Viene in seguito il “commercium”, il quale in questo periodo non significa ancora quel complesso di diritti, che scaturiscono dal dominio, ma ha il suo vero e proprio significato di rapporti commerciali, che possono intervenire fra i capi di famiglia, appartenenti a genti diverse. Qui il rapporto è assai più superficiale, ed è per sua natura tale, che può essere di reciproco vantaggio per i contraenti. Il “commercium” pertanto prende un più largo sviluppo; ed esiste non solo fra il patriziato e la plebe, fra cui era reso indispensabile dalla coesistenza sul medesimo suolo, ma anche fra coloro, che appartengono a stirpi diverse. Che anzi fra queste sonvi anche le stirpi, che, per avere attitudine maggiore ai commerci, fannosi in certo modo intermediarie dei medesimi fra le varie genti e tribù; il quale ufficio fra le genti italiche sembra essersi compiuto sopratutto per opera dell'elemento etrusco. Sono questi commerci, che vengono ravvicinando le varie genti, e conducono gradatamente a cambiare certi siti neutrali in luoghi di riunione ad epoche de terminate e fisse – “conciliabula”, “for a” --. È poi un grande vantaggio [Anche qui la significazione primitiva del vocabolo “commercium” appare da ciò, che Roma fin dagli inizii trovasi circondata da popolazioni, con cui pratica il “commercium”. È solo per opera del diritto quiritario, che il concetto di commercium, applicato fra i cittadinidi una medesima città, dà origine al “ius commercii,” il quale poi, sviscerato negli elementi, che entrano a costituirlo, viene a scindersi; nel “ius emendi ac vendendi”, che operasi colla “mancipatio”; nel “nexum”, da cui deriva la teoria delle obbligazioni; e infine nella “testamenti factio”, che comprende la facoltà di fare e di ricevere per testamento, e quella perfino di essere testimonio nel medesimo. Cfr. Lange, Histoire intérieure de Rome. Per tal modo, nello svolgimento dialettico del diritto quiritario la successione legittima e la testamentaria vengono a spiegarsi in un diverso ordine di idee in quanto che la prima dipende dal connubium, e l'altra deriva dal commercium. Questa forse è la vera ragione della massima. “Ius nostrum non patitur eumdem in paganis testato et intestato decessisse, earumque rerum naturaliter inter se pugna est.” Pomp., I, Dig. È proprio infatti dei giureconsulti, che essi una volta, che hanno separato due ordini di idee, non li confondano più insieme. Secondo il SUMNER Maine, qualche cosa di analogo sarebbe anche accaduto fra 128 per una comunanza incipiente, se la medesima sia posta in tal sito da richiamare alle proprie fiere ed ai proprii mercati le popolazioni vicine; vantaggio, che e una delle cause, per cui Roma, diventata ben presto un emporio per il commercio delle popolazioni latine, potè esercitare sovra di esse un'attrazione ed assimilazione potente] le antiche comunanze di villaggio dell'Oriente; fra le quali esistevano degli spazii di terreno neutrali, che serveno per trattare le paci e per il mercato (Village Communities). Secondo Maine, si ha un indizio dell’associazione del commercio e della neutralità negli attributi di MERC-V-RIO, dio comune alle stirpi di origine aria, che da una parte sarebbe il dio dei termini, il primo dei messaggeri ed ambasciatori, e per ultimo anche il patrono del commercio, dei confini, e un poco anche dei furti e dei ladronecci. Intanto da questa circostanza in apparenza di poco rilievo, per cui nel medesimo sito si fanno gli scambii e si trattavano le alleanze e le paci fra le varie genti, deriva questa importantissima conseguenza, che come in quest'epoca non si distingueva il diritto privato dal pubblico, così non distinguesi il diritto commerciale, da quel diritto, che ora si chiama internazionale. L'uno e l'altro erano compresi nel ius gentium, il che spiega come questo vocabolo talvolta indichi soltanto dei rapporti fra cittadini e stranieri, e talvolta comprenda anche i rapporti di carattere pubblico fra varii popoli. Non puo però esservi dubbio, che il ius gentium, allorchè viene a penetrare nel diritto romano, per opera del “praetor”, appare circoscritto ai rapporti privati fra cittadini e stranieri, ed ha quindi un carattere essenzialmente commerciale. Ciò è molto bene dimostrato da Fusinato nel suo accurato lavoro “Dei Feziali e del diritto feziale”, Accademia dei Lincei. Memorie della Classe di scienze mor. stor. filol.; del quale credo di poter dire, senza offendere la modestia di un collega ed amico, che ha cominciato ad introdurre qualche concetto direttivo in una materia, che certo ne ha grande bisogno. È poi noto, che la grande autorità sull'argomento è Voigt, Das ius naturale, bonum et equum, gentium, etc. Leipzig, dei quali il 2° si occupa pressochè esclusivamente del ius gentium. Fra il modo di vedere di questi autori e quello qui esposto corre però questa differenza, che essi ritenne il concetto ed anche la denominazione del ius gentium, come opera riflessa dei giureconsulti; mentre per me il ius gentium esiste nel fatto e nella parola anche anteriormente e solo più tardi riuscì a trovar posto anche nel diritto civile di Roma. Sembra tuttavia che prima fossero adoperate le espressioni di iura gentium, e di iura naturalia, mentre dopo i vocaboli adottati sono quelli di ius gentium e di ius naturale, i quali indicano l'unificazione, che vi si è operata. MOMMSEN, Histoire Romaine, da tale importanza alla posizione eminentemente commerciale di Roma, da ritenere la popolazione primitiva di essa comededita al commercio e Roma come una città commerciale. PADELLETTI ha combattuta tale opinione (Storia del diritto romano) e parmi in verità che il fatto, per cui Roma divenne l'emporio delle genti del Lazio, possa essere spiegato senza dire, che essa fosse una città sopratutto commerciale; poichè anche per una città agricola e militare ad un tempo, come era Roma nei propri inizii, puo essere grandemente utile di essere in tal sito, da richiamare il commercio [E sui mercati, dove convenivano persone appartenenti a comunanze diverse, che dovettero formarsi quelle convenzioni più semplici, fondate unicamente sul consenso dei contraenti, e fra le altre anche la compra e vendita, che alcuni vorrebbero far nascere solo, quando Roma era già divenuta una grande città. Solo deve avvertirsi, che questa compra e vendita primitiva, avverandosi talvolta fra capi di famiglia, che appartenevano a comunanze diverse, fra cui non esiste forse comunione di diritto, non dove naturalmente ritenersi perfetta, se non era accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, come ha a stabilire anche più tardi la legislazione decemvirale. E qui parimenti, che dove nascere e svolgersi quella sponsio o stipulatio, la quale, allorchè poi ottenne di essere riconosciuta dal diritto quiritario, venne ad essere il mezzo più semplice e più acconcio per dar forma giuridica ad ogni maniera di convenzioni. Sono eziandio queste fiere, che die delle popolazioni latine. Può darsi anzi, che anche questa posizione eminentemente commerciale l'ha resa meno esclusiva nell'accogliere nuovi elementi. Del resto anche i romani senteno l'eccellenza della posizione della loro città, e ce ne parla CICERONE, De Rep. Non può quindi, a parer mio, essere giustificata l'opinione di coloro i quali ritengono, che solo più tardi si fosse introdotta in Roma l’emptio venditio, e che la sponsio e la stipulatio, che certo già esisteno nei rapporti fra le varie genti, sonno state invece importate di Grecia, per ciò che si riferisce alle convenzioni private. L'opinione erronea proviene dal credere, che il diritto quiritario comprende dapprima tutto il diritto in uso presso i romani; mentre invece esso fu una codificazione e un adattamento progressivo del diritto già esistente nelle consuetudini. Esso quindi comincia dal comprendere solo quella parte di esso, che era confermata da una “lex publica”, come lo dimostrano le antiche espressioni di “agere per aes et libram”, di “facere testamentum, nexum, mancipium secundum legem publicam”. Quindi, accanto al ius quiritium, visse sempre in Roma un ius gentium, che, senza aver ricevate le forme quiritarie, e però sempre adoperato e forse anche applicato nelle controversie dai recuperatores, anche anteriormente all'istituzione del praetor peregrinus. Ciò è provato dai filosofi latini e sopratutto da Plauto, che ne danno come usuali e frequenti certe forme di negozii e di atti, che non risultano ancor sempre penetrati nel diritto quiritario. Ciò poi è indubitabile per la sponsio o stipulatio, atto romano per eccellenza, dai romani applicato nei trattati pubblici e nelle convenzioni private. Può darsi quindi, che le genti italiche l'avessero comune colle elleniche, e che la espressione spondeo fosse anche comune ai due popoli. Ma i romani non ebbero certo bisogno di apprenderlo d’altri, nè aspettarono ad adoperarlo solo piu tarde verso come sostengono fra gli altri MurueAD, Histor. Introd. e Leist, Graeco- Italische Rechts geschichte. Solo può ammettersi, che, dopo aver vissuto lungamente nell'uso e davanti ai recuperatores, la sponsio o stipulatio penetra anche nello stretto diritto civile ed e adottata come forma propria del medesimo] dero più tardi occasione al giureconsulto Manilio di concretare in poche parole delle formole acconcie per concepire quelle vendite, che sono più frequenti per una popolazione agreste; delle quali formole alcune pervennero a noi e potrebbero trovare riscontro in formole, ancora oggi usate nelle stesse occasioni, salvo che queste non hanno più la sobrietà e precisione antica. È qui infine, che dove prepararsi la formazione di un ius gentium, che ha dapprima un carattere commerciale, come il commercium da cui esso deriva, e che, accanto al diritto proprio di ogni singola gente o tribù, era indispensabile per le transazioni commerciali fra i capi di famiglia, appartenenti a genti ed a tribù diverse. Sia pure, che solo più tardi questo modesto ius gentium, formatosi sulle fiere e sui mercati, richiami l'attenzione del pretore, e gli dia animo per scostarsi dalle formalità ormai divenute soverchie del ius proprium civium romanorum: cio però non toglie, che le origini di quelle lente formazioni, che si verificano nella coscienza generale di un popolo, si debbano talvolta anche cercare in un'epoca di gran lunga anteriore, come accade delle piccole sorgenti, che solo appariscono degne di osservazione e di ricerca, quando si scorge il corso maestoso del fiume, che ebbe a derivarsi da esse. Da ultimo non può esservi dubbio che, già nel periodo gentilizio, dovette essersi formato il concetto dell' “actio”, ma questa non significa un mezzo accordato dalla legge o dal pretore, per far valere in giudizio un proprio diritto, ma e, per dir cosi, il diritto stesso, che mettevasi in azione, estrinsecandosi in quel complesso di atti, che erano indispensabili per ottenere il proprio riconoscimento. Il poco che pervenne a noi delle formole Maniliane, trovasi riportato dall'HuSCHKE, Iurispr. anteiust. quae supersunt, ed è una prova dell'attitudine dei veteres iurisconsulti a sceverare da un fatto tutto ciò, che in esso eravi di giuridico, modellandolo in una formola tipica, che puo poi servire per tutti i casi dello stesso genere. Accostasi a questo concetto dell' “actio”, nella sua significazione primitiva, l'ORTOLAN, Histoire de la legislation romaine, Paris, parla dell'azione nel periodo decemvirale. “Action est une dénomination Générale. C’est une forme de procéder, une procédure considérée] È a questo punto, che si può trovare la ragione, per cui il diritto di tutti i popoli e quindi anche il romano si è sviluppato dapprima sotto forma di azione e di procedura, che non come legge, che determini i diritti rispettivi dei cittadini. Finché il capo di famiglia è esso il sovrano nella propria casa, egli NON HA BISOGNO CHE LA LEGGE VENGA A RICORDARGLI QUALI SIANO I SUOI DIRITTI. Questo diritto egli porta con sè e ha profondamente impresso nella sua coscienza. Quindi, se il medesimo diritto venne ad essere violato, egli non può aspettare che lo Stato, che quasi ancora non esiste, si metta in moto per ottenere la riparazione dal torto, che ha ad essergli arrecato. Come quindi è il capo di famiglia che vendica l'adulterio, o che corre sui passi del ladro che lo ha derubato, e ne perquisisce la casa, mediante certi riti, che sono determinati dal costume e a cuiniuno osa ribellarsi, perchè sono sotto la protezione del fas: così è pur egli che, quando si vede occupato un fondo, od usurpato uno schiavo, o sottratto un figlio, si mette in movimento ed in azione e afferma in presenza ed a scienza della intiera comunanza, che è suo quel fondo, quello schiavo, quel figlio. Quindi è, che l'azione viene ad essere naturalmente la prima manifestazione del diritto. Prima il diritto esiste allo stato latente, ed ora si produce, si afferma, perchè incontro una persona, che ebbe a violarlo. Quest'azione tuttavia, non è ancora la “legis actio”; perchè in compierla l'uomo offeso non ispirasi ad una *legge*, che forse non esiste ancora, ma ispirasi al senso intimo e profondo del proprio diritto. Tuttavia è in questo momento sopratutto

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