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Wednesday, January 8, 2025

GRICE E CARLE C

 sopratutto, sotto la sferza dell'offesa e sotto l'impeto dell'indignazione, che il capo di famiglia può anche trascendere nel far valere il proprio diritto, e ricorrere anche alla violenza ed alla vendetta. Quindi è, che se per avventura verrà a formarsi nel seno della comunanza qualche forma di procedura, la quale, mentre da una parte rispetta la fiera indipendenza dell'uomo, consapevole del proprio diritto, dall'altra contenga il prorompere violento di colui, che ha ad essere dans son ensemble, dans la série des actes et des paroles, qui doivent la constituer.” Qui però l'autore parla già della “legis actio”. Ma se noi andiamo più oltre nei tempi, allorchè essa non è ancora “legis actio”, ma semplicemente “actio”, questa non è ancora un modo di procedere, ma è soltanto un modo di *agire*, ed è anzi il diritto stesso in azione. Cfr.  C., La vita del diritto. È poi notabile, come per i latini il vocabolo “agere” indichi un'azione continuata, che può scindersi in parti diverse; mentre “facere” si adopera di preferenza invece per indicare un'azione, la quale compiesi, per così dire, in un unico contesto.] offeso nel proprio diritto, l'occasione non dove certamente essere trascurata. E quindi prima il mos, che comincia coll'additare la via consuetudinaria, a cui debbe appigliarsi colui, che vuol far valere il proprio diritto. Poi e il fas, che intervenne anch'esso e dichiara empio chi non segue quel determinato rito. Ed infine sarà anche il ius, che venne notando in certo modo i varii stadii, per cui passa quella procedura, e obbliga i contendenti a passare, almeno per forma – “dicis gratia” --, per ciascuno di questi stadii. E in tal modo, che all'actio violenta, rozza, avida, appassionata dell'individuo sottenne la legis actio, consacrata dalla legge, compassata e lenta, quasi per attutire le passioni irrompenti dei contendenti; ma che intanto ricorda ancora gli stadii dell'anteriore violenza, quasi per ricordare che a quella dovrebbe farsi ritorno, quando la legge non e rispettata. Non è quindi da approvarsi, a mio avviso, l'opinione di coloro, i quali ritengono che il prevalere delle norme procedurali nel diritto, e quindi anche nel romano, sia prevenuto da ciò, che sarebbesi prima badato alla forma, che alla sostanza. La ragione di questo fatto è molto più profonda e deve essere cercata nelle origini stesse della convivenza civile e politica. La causa del fatto sta in ciò, che l'opera della legge negl’inizii e sopratutto necessaria non tanto per assicurare il diritto, quanto per reprimere le reazioni violente, a cui abbandonavasi colui, il cui diritto e violato. In questa parte diritto privato e diritto penale segueno analoghe vicende. Al modo stesso, che la legge penale non mira tanto a punire i misfatti, quanto piuttosto a porre dei confini alla vendetta, e rende cosi obligatoria quella composizione a danaro, che dipende dall'accordo delle parti: cosi anche le norme procedurali comparvero le prime, non tanto perchè i popoli comprendeno più la forma che la sostanza; ma perchè il primo e più urgente bisogno di una società, in via di formazione, e quello di impedire fra i consocii la manuum consertio, ossia l'esercizio violento delle proprie ragioni. Per lo svolgimento parallelo della vendetta e della pignorazione privata, è da vedersi: Del GIUDICE, “La vendetta nel diritto longobardo” (Milano). Sembra poi attribuire la precedenza delle norme di procedura, presso i popoli alla prevalenza, che presso di essi ha la forma sulla sostanza, lo stesso Sumner Maine, The early history of institutions, ove, discorrendo della forma primitiva dei rimedii legali, scrive che in uno stadio delle cose romane i [Intanto non vi ha forse nel vocabolario giuridico parola, che presenti al giureconsulto filosofo e storico una più lunga storia di cose sociali ed umane, dei vocaboli di “agere” e di “actio”, e che lo fa rimontare più oltre nelle tenebre e nella oscurità del passato. Nella loro significazione primitiva di  stimolare  e di  spingere , questi due vocaboli sembrano ancor richiamare gl’antichi abitatori del Lazio, che, pastori di greggi, prima di diventare reggitori di popoli, spingevano al largo le proprie mandre e i proprii armenti. Memori e quasi alteri della propria origine, non dubitarono di applicare il medesimo vocabolo a significare l'attività del magistrato, che si spiega in rapporto col popolo – “ius agendi cum populo” --, ed anchequella di colui, che forte della convinzione nel proprio diritto intraprende quella specie di conflitto e di lotta, che dove essere necessaria per ottenere il riconoscimento delle proprie ragioni. Questo è certo, che fra capi di famiglia dal carattere fiero ed indipendente non dove esser così facile il conseguire che essi si sottoponessero ad un'autorità per la decisione delle loro controversie, e non è quindi meraviglia se l'avvenimento dove loro apparire così importante, che ritennero opportuno di conservare la memoria dei diversi stadii, che hanno dovuto attraversare per giungervi. Allorchè sorgeva una controversia fra capi di famiglia, appartenenti alla medesima tribù, il modo più naturale di risolverla dovette certamente essere quello di rimettersi ad uno o più arbitri ed amichevoli compositori, che doveno essere concordati fra le parti, come lo dimostra un antico costume, che gli filosofi latini attribuiscono ai proprii maggiori. Era poi naturale, che queste persone, chiamate a risolvere la controversia, dovessero essere scelte fra i padri ed anziani del villaggio; del che rimasero le traccie anche in Roma, ove i iudices furono per secoli tratti dall'ordine dei padri diritti ed I doveri sono piuttosto un'aggiunta della procedura, che non la procedura una mera appendice aidiritti ed ai doveri.  BRÉAL, Dict. étym. latin., v° Agere. Cic., Pro Cluentio. “Neminem voluerunt maiores nostri, non modo de existimatione cuiusquam, sed ne pecuniaria quidem de re minima esse iudicem, nisi qui inter adversarios convenisset.” Del resto, anche secondo la legislazione decemvirale, sembra che alla discussione della causa precedesse un tentativo di componimenti, come lo dimostra il fram., Rem, ubi pacant, orato, tavola II, legge 14, secondo la ricostruzione del Voigt, Die XII Tafeln, o senatori, e solo dopo una lunga lotta, che si avvero già sul finire della Repubblica fra il partito deg’ottimati e quello popolare, poterono anche essere scelti fra gl’equites. La cosa però venne a farsi più grave, allorchè i contendenti non si mettevano d'accordo per un amichevole componimento. Non vi ha nulla di ripugnante, che essi, compresi vivamente del proprio diritto, trovandosi sul fondo stesso o davanti allo schiavo, oggetto della controversia, cominciassero dall'affermare altamente il proprio diritto sul fondo o sullo schiavo. Che se niuno di essi cede, lo studio della natura umana ci insegna anche ora, che non è punto improbabile, che essi potessero addivenire a quella vis realis, a cui secondo Gellio e poi sostituita la “vis festucaria”, e che si effettua cosi fra di essi una vera e propria lotta, che prese il nome “dimanuum consertio”. È però consentaneo eziandio al costume patriarcale che, quando due persone sono cosi in lotta fra di loro, puo anche interporsi fra di esse una persona autorevole, la quale goda la comune fiducia, e che loro imponga di separarsi colle parole, che più tardi sonno pronunziate dal praetor nella procedura quiritaria – “mittite ambo hominem”. Tace allora la lotta: i contendenti, fatti umili dall'autorità stessa di chi intervenne fra di loro e dallo stato stesso di violenza, in cui furono sorpresi, chiamano entrambi a testimoni il divino, che la ragione è dalla parte loro, e per dare energia maggiore alla propria affermazione aggiungono alla medesima una scommessa, la quale, per essere accompagnata dall'affermazione giurata di rimettersi al giudizio della persona intervenuta fra di essi, può prendere il nome di “sacramentum:. Si ha cosi una successione di fatti, che conducono naturalmente la persona autorevole, che si è in [La legge che trasporta dall'ordine dei senatori a quello degli equites la capacità ad essere giudici fu la lex SEMPRONIA iudiciaria del 632 di Roma, proposta da C. Gracco, la quale dove però dar luogo a gravi lotte ed agitazioni, che sono fatte manifeste dalle leggi giudiziarie degli anni, che vengono dopo. È da vedersi in proposito ORTOLAN, “Histoire de la législation Romaine”. Aulo Gellio, Noct. attic. -- Questo sentimento veramente sociale ed umano del pudore, che guadagna colui che si appiglia alla violenza, trovasi maravigliosamente espresso da OVIDIO, Fastorum. “Et cum cive pudet conseruisse manus.” È però a notarsi, che Ovidio limita quel senso di pudore alle violenze fra i cittadini. Con quelli che non sono tali sarebbe tutt'altra cosa.] terposta, ad essere giudice non tanto della ragione o del torto dei contendenti, quanto piuttosto della scommessa intervenuta fra i me desimi; sebbene però venne ad essere naturale conseguenza del suo giudizio, che debba ritenersi aver ragione chi vince la scommessa e torto colui, che perde la medesima. Fin qui pertanto, non si ha che un processo di cose sociali ed umane, di cui si potrebbero trovare le traccie anche ai nostri giorni, e che dove certo essere frequente, allorchè le contese sono sostenute dai capi di gruppo, che non conosceno altra autorità superiore, salvo quella, che sono accettata di comune accordo. Pongasi ora, che questo processo di cose si ripeta più e più volte frammezzo a genti, che, come le italiche, siano use a modellare in formole ed in gesti solenni tutti gli atti tipici della loro vita giuridica, e allora si puo facilmente comprendere, come siasi venuta formando quel l’ “actio sacramento”, che costitui poi l'azione fondamentale di tutto il diritto quiritario, e e dai quiriti conservata con cura così gelosa, che, già abolite le altre azioni delle leggi, l' “actio sacramento” continua ancora a celebrarsi davanti al tribunale quiritario per eccellenza, che è il tribunale dei centumviri. Non è quindi il caso di ridurre questa primitiva azione ad una pantomina incomprensibile, nè di cambiare il popolo maestro al mondo nel diritto in un architetto di formalità e di sottigliezze senza scopo; ma è il caso piuttosto di leggervi la storia delle vicende, che ha a percorrere l'amministrazione della giustizia, riportandola in quell'ambiente patriarcale, nel quale soltanto si può riuscire a ricostruirla nelle sue primitive fattezze. Qui tuttavia non posso passare sotto silenzio l'opinione messa innanzi da una grande autorità, quale è il Bekker, e che e poi anche divisa da molti altri autori, secondo cui dovrebbero ritenersi più an [È già da qualche tempo, che rivelasi nei filosofi la tendenza a dare una spiegazione naturale della formazione dell'actio sacramento. Se ne possono vedere degli accenni nel Maynz, Cours de droit Romain, Bruxelles; nel SUMNER MAINE, Early history of institutions, nel MUIRIEAD, Historical Introduction, nel BUONAMICI, Storia della procedura romana. Pisa. Non credo tuttavia che essa sia stata studiata nell'ambiente stesso, in cui ha dovuto formarsi, nè che siasi dimostrato che essa debba riguardarsi come una sopravvivenza di un'epoca anteriore. È però noto, che Omero nell'Iliade descrive, sopra uno dei compartimenti dello scudo di Achille, una procedura del tutto analoga a quella dell'actio sacramento.] tiche della stessa “actio sacramento”, quelle altre forme di azioni, che sono indicate col vocabolo di “manus iniectio” e di “pignoris capio”, in quanto che le medesime ricorderebbero più direttamente l'uso della forza per far valere il proprio diritto. Lasciando per ora in disparte la “pignoris capio”, che ha solo una importanza secondaria, per i pochi casi in cui fu ammessa, importa anzitutto notare, che il vocabolo di “manus iniectio” può essere tolto in due significazioni diverse, anche secondo la legislazione decemvirale. Havvi anzitutto la “manus iniectio”, a cui ricorre colui che, dopo aver invitato inutilmente il debitore a seguirlo avanti al magistrato, gli pone addosso la propria mano e lo trascina in ius, somministrandogli però quei mezzi di trasporto, che possano esser necessari per lo stato di malattia, in cui egli si trovi. In questo senso però non havvi ancora una vera “legis actio”, ma solo un mezzo per ottenere la comparizione del convenuto davanti al magistrato. Invece la “manus iniectio”, in quanto costituisce una “legis actio”, consiste nel potere, che appartiene al creditore di porre la sua mano sopra il nexus, l'aeris confessus, ed il iudicatus per trascinarlo nel suo carcere, e costringerlo così al pagamento del proprio debito od a lavorare per lui finchè sia soddisfatto. BEKKER, Die Actionen der römisches Privatrechts, Berlin. Del resto un tale concetto è stato in parte enunziato anche dal JHERING, L'esprit du droit romain, Trad. Maulenaere, Paris, salvo che egli dà poi alla “manus iniectio”, come “legis action”, una significazione del tutto speciale. A questa “manus iniectio” accennasi nella prima legge delle XII Tavole. “Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino: igitur em capito. Si calvitur pedemve struit, manum endo iacito.” -- Sonvi persino degli autori, i quali dubitano che la “manus iniectio” puo essere considerata come una vera “legis actio”, in quanto che essa non richiede l'intervento del magistrato e ha solo luogo quando trattasi di esecuzione. E questo il motivo, che induce il JHERING a dare una significazione speciale alla “manus iniectio”. Quanto alla letteratura sull'argomento e alle discussioni, che di recente sorgeno intorno alla questione, se la “manus iniectio” dove ritenersi come una “legis actio”, è da vedersi il MUIRHEAD, Histor. Introd. Parmi tuttavia, che il dubbio non possa esistere, quando si tenga conto della significazione larghissima, che ha il vocabolo di “legis actio” nel diritto; nel quale esso indica in sostanza i diversi genera agendi in conformità di una lex publica, per modo da comprendere la stessa in iure cessio, allorchè serve per effettuare una adozione, una emancipazione, una manomissione, od un trasferimento di proprietà.] Quanto alla manus iniectio Voigt, Die XII Tafeln. Or bene la “manus iniectio”, cosi intesa, non può certamente essere considerata, come di formazione anteriore all' “actio sacramento”. Per verità mentre questa contiene la storia delle varie peripezie, per cui passa lo stabilimento dell'umana giustizia, e quindi richiama ancora un'epoca, in cui non eravi amministrazione di giustizia; la “manus iniectio” invece, quale appare nelle XII Tavole, suppone già stabilita una amministrazione della giustizia, in quanto che essa è un modo di procedere all'esecuzione contro colui, che o siasi obbligato colla solennità del nexum, o abbia confessato il proprio debito davanti al magistrato, o sia stato condannato al pagamento. Nè serve il dire, che la “manus iniectio”, essendo un mezzo per l’esercizio delle proprie ragioni, dove essere applicata anche in altri casi; mentre la legislazione decemvirale la circoscrive ai casi da essa determinati, nell'intento di impedirne gli abusi. A ciò infatti si può facilmente rispondere, che se fra i capi di famiglia delle genti patrizie si può comprendere una procedura solenne, come quella dell' “actio sacramento”, in cui le due parti sono eguali fra di loro e finiscono per accordarsi nell'accettazione di un giudice della loro scommessa, è invece affatto ripugnante una procedura, come e quella della “manus iniectio”. Non è un'eguale che può sottomettersi ad una procedura di questa specie, per quanto egli puo essere profondamente convinto del proprio torto. Fra due eguali, che siano in contesa, può comprendersi la “manuum consertio”, e in seguito l'accettazione di un arbitro; ma non mai che uno obbedisca pecorilmente al cenno dell'altro, e si lasci cosi stringere nei ferri e nelle catene del suo carcere. Con ciò tuttavia non voglio dire, che la “manus iniectio” e direttamente introdotta dalla legislazione decemvirale, e che non esiste anteriormente alla medesima. Ritengo anzi, che essa dove già esistere da lungo tempo: ma intanto a questo proposito mi fo lecito di avventurare la congettura, che la “manus iniectio” dove essere una speciale forma di procedura, che non si adopera già nei rapporti fra i capi di genti patrizie, ma bensì unicamente nei rapporti, che intercedeno fra il creditore patrizio ed il debitore plebeo. Si comprende infatti, come un'aristocrazia territoriale, come quella delle genti patrizie, puo anche adoperare modi simili di procedura verso una classe, che nei primi tempi non aveva ancora dimenticato l'origine servile. Quindi è, che la “manus iniectio” deve essere considerata come una delle istituzioni, che non appartiene al diritto, che dovette formarsi nei rapporti fra i capi delle genti patrizie, ma bensi a quello, che dove formarsi nei rapporti fra la classe dominante e la classe inferiore: il che spiega eziandio come la legislazione decemvirale l'ha solo ammessa contro i nexi, gli aeris confessi e i iudicati, e come la plebe lotta cosi lungamente per l'abolizione del nexum, il quale forse era ancora un segno dell'antica sua soggezione servile. Per quello poi, che si riferisce all'esercizio privato delle proprie ragioni, mi limito ad osservare, che esso nel dominio del diritto corrisponde alla vendetta nel campo dei delitti e delle pene. Quindi, come è esistita la vendetta anche fra le genti italiche, così dove anche esservi un tempo, in cui fra queste esiste l'esercizio privato delle proprie ragioni. Questo tuttavia può affermarsi con certezza, che l'intento supremo dell'organizzazione gentilizia e quello di impedire fra i membri di esse cosi la vendetta, che l'esercizio privato e senza confini delle proprie ragioni. E a questo scopo, che il fas, il ius e il mos riunirono i proprii sforzi, e solo a forze riunite riuscirono a cacciare dalla comunanza la violenza, che continuo a dominare fra le persone, che non appartenevano alla medesima e quindi non avevano fra di loro comunanza di diritto. Quindi non è più nell'organizzazione gentilizia, che deve cercarsi l'esercizio privato delle proprie ragioni, dal momento che in essa tutto è regolato dal mos e dal fas, e che il suo intento supremo e quello dimettere termine allo stato anteriore di violenza. Fin qui si considerano soltanto le norme direttive dai rapporti giuridici, che intercedono fra i capi dei diversi gruppi, norme le quali finiranno per dare in parte origine a quel diritto, che e poi chiamato ius quiritium dapprima e ius civium romanorum più tardi. Ora importa cercare invece, quali rapporti corressero fra i varii gruppi collettivamente considerati, e quale sia stata l'origine del primitivo ius pacis ac belli. Anche i rapporti fra le varie genti, collettivamente considerate, hanno nel periodo gentilizio un carattere esclusivamente patriarcale, e appariscono modellati sui rapporti, che possono intercedere fra i varii capi di famiglia. E a questo proposito parmi anzitutto opportuno di rettificare un concetto, che ormai suole essere ripetuto come un dogma, mentre in verità non merita di essere considerato come tale. Di regola suol dirsi, che lo stato naturale delle antiche genti fosse lo stato di guerra. Esse invece non erano nè in uno stato di pace, nè in uno stato di guerra; ma si consideravano come indipendenti le une dalle altre e non avevano fra di loro comunanza di diritto. Era quindi facile, che fra loro scoppiasse la guerra, ma questa non e però lo stato naturale di esse. Ciò e come dire, che due persone che non si conosceno e non hanno fra di loro alcun rapporto giuridico sonno fra di loro in lotta. Puo darsi che esse siano in reciproca diffidenza, e che stiano in guardia: ma non percio puo dirsi che siano in guerra effettiva fra di loro. Ci vorrà pur sempre qualche causa, od anche semplicemente un pretesto, perchè l'una si arresti minacciosa contro dell'altra. Sarebbe qui inutile citare tutti gli autori, che professano questa opinione; mi basta ricordare LAURENT, Histoire du droit des gens a Roma; il JHERING, L'esprit du droit romain, il quale attribuirebbe a questo stato di guerra il concentrarsi delle genti antiche nella città, a cui esse appartengono; il che è certamente vero, ma non proviene unicamente dalle guerre esteriori, ma anche da ciò, che, creandosi una nuova forma di connivenza sociale, e naturale, che tutte le forze ed energie vitali si concentrassero in essa. Anche Fusinato sembra dividere la stessa opinione nel suo lavoro: Dei Feziali e del di ritto feziale, Roma, Atti della R. Accademia dei Lincei, Memorie, Classe scienze mor. stor. filologiche, -- al quale io mi rimetto quanto alla bibliografia completissima sul tema. Egli tuttavia già trova, che il popolo romano e stato, fra le altre genti, il meno esclusivo su questo punto, a differenza di PADELLETTI, Storia del diritto romano. Che questi e lo stato dei rapporti fra le genti primitive è provato dalla distinzione, che nell'antico linguaggio già viene fatta fra “hostis” e “perduellis”. “Hostis” chiamasi quello straniero, con cui non sonno rapporto di diritto, e contro il quale il popolo romano si riserva piena ed intera la propria autorità giuridica e la propria libertà di azione. “Perduellis,” nella sua significazione, e colui con cui era scoppiato il dissidio, e col quale, per mancanza di un comune diritto, venne ad essere necessità di appigliarsi alla guerra. E solo più tardi, che il vocabolo di “hostis” assunse una significazione più dura e significa il nemico. In allora le significazioni accettate furono le seguenti. “Peregrinus” chiamasi colui, col quale non havvi nè amicizia, nè ospitalità, nè alleanza; “hostis” quegli, con cui Roma trovasi in guerra aperta; “perduellis” infine colui, che nell'interno dello stato cerchi di recare perturbazione e conflitto, mettendosi in lotta coll'interesse della patria sua. Questa trasformazione si opera però lenta e note relative, il quale attribuirebbe al popolo romano una esclusività maggiore degli altri popoli, per trattarsi di un popolo agricoltore, conservatore e guerresco ad un tempo. Per parte mia ritengo, che i romani in questa parte si governano colle norme stesse delle altre genti italiche, come lo dimostra il fatto che il primitivo ius foeciale è loro comune cogli altri popoli, da cui sono circondati. Non posso però ammettere che essi, sopratutto nei primi tempi, si ritenne in stato naturale di guerra cogli altri popoli; perchè in tal caso tutte le formalità dell'antico ius foeciale si converte in una commedia inesplicabile e in contraddizione col prin cipio direttivo dei rapporti fra le varie genti. Quanto agli argomenti, che sono messi in campo, essi consistono in sostanza nella significazione di hostis e nel passo di Pomponio, Leg. Dig. Quanto a questo passo di PomPONIO, egli, anzichè affermare che gli stranieri sono nemici, dice anzi espressamente che – “si cum gente aliqua neque amicitiam, neque hospitium, neque foedus amicitiae causa factum habemus, hi hostes quidem non sunt.” Tuttavia siccome con questa gente non vi ha comunione di diritto, così contro di “aeterna auctoritas esto” -- donde la conseguenza, che se le cose nostre cadono in loro mano, diventano loro proprie, e così pure se le cose loro vadano in mano dei romani: certo la conseguenza è grave, ma essa non è una conseguenza dello stato di guerra, ma bensì di ciò che fra i due popoli non esiste comunanza di diritto. Nè vorrei si dicesse, che la questione sia soltanto di parole, poichè se la guerra e lo stato naturale, non si sa come CICERONE scrive: “Nullum bellum esse iustum, nisi quod aut rebus repetitis geratur, aut de nuntiatum ante sit, et indictum.” De off, e De Rep. Del resto anche questa opinione è una conseguenza del ritenere, che le cerimonie del diritto feziale e semplici formalità esteriori, il che certamente non dove essere, allorchè questa procedura fra le genti venne ad essere introdotta. essa [mente, e nella stessa legislazione decemvirale, che, come tutta legge, tende a conservare i vocaboli nella loro significazione arcaica, il vocabolo di  hostis , continua ancora sempre a significare colui, col quale non esiste comunione di diritto, come lo dimostrano le espressioni ricordate da Cicerone di “status dies cum hoste” e l'altra “adversus hostem aeterna auctoritas esto.” Del resto, che il vocabolo “hostis” negli esordii non suonasse nemico, nella significazione, che noi siamo soliti attribuire a questo vocabolo, viene anche ad essere dimostrato dall'analogia evidente, che corre fra i vocaboli di “hostis” e di hospes, il quale ultimo sarebbe una sincope di hosti-pes, che significa o protettore dello straniero o straniero ricevuto in protezione -- donde anche i vocaboli di hospitium e di hospitari. Fermo questo concetto dei rapporti, che intercedeno fra le genti, che non entrano a far parte della medesima tribù e non hanno perciò comunione di diritto fra di loro, viene ad essere facile il comprendere come qualsiasi rapporto giuridico fra di esse dovesse derivare dalla convenzione e dal patto; per modo che anche il “ius pacis ac belli” dove avere un'origine contrattuale, analoga a quella, che abbiamo riscontrato nei rapporti privati fra i diversi capi di famiglia. Infatti al rapporto di carattere negativo, che intercede fra le varie genti, per cui sono estranee le une alle altre, pud poi sottentrare il rapporto positivo di pace o di guerra. Tanto l'uno come l'altro indicano, che le genti sono già uscite da quello stato di indifferenza reciproca, in cui si trovavano fra di loro. Quindi perchè siavi lo stato di pace, già occorre che fra le genti sia intervenuta una conven [BRÉAL, Dict. étym. lat., Paris, vº Hospes e Hostis. Del resto questo trasformarsi dalla significazione di hostis viene ad essere indicato con una mirabile chiarezza da CICERONE, allorchè scrive. “Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus.” “Quamquam id nomen durius iam effecit vetustas; a peregrino enim recessit, et proprie in eo, qui contra arma ferret, re mansit.” De off., I, 12. Ciò è poi confermato da VARRONE, De ling. lat., V, I (Bruns, Fontes). Intanto l'analogia, che vi ha fra hostis straniero, ed hospes, che significa e lo straniero ricevuto in protezione, come pure il fatto, che nelle origini “per-duellis” significa il nemico esterno ed interno ad un tempo, costituiscono una nuova prova, che in quei primordii non distinguevasi la guerra pubblica dalla privata, nè i dissidii interni delle guerre esterne. E solo più tardi, nel seno della città e nei rapporti delle città fra di loro, che potè operarsi questa distinzione, e in allora talvolta i reggitori della città si appigliarono alle guerre esterne per sopire le lotte interne.] zione od un patto (come lo dimostra l'analogia fra il vocabolo di “pax” e quello di “pactum”). Al modo stesso che, accio siano in istato di guerra, occorre, che siavi una dichiarazione della medesima, tanto più se trattisi di genti che, senza essere in rapporto giuridico fra di loro, riconoscano pero l'impero del fas. Si può quindi affermare con certezza, che anche il “ius pacis ac belli” già erasi formato anteriormente alla formazione della comunanza romana, e che la medesima in questa parte non fa che attenersi a pratiche e a riti, i quali, preparatisi in un periodo anteriore ed affidati alla custodia di un collegio sacerdotale, furono poi applicati con qualche modificazione ai rapporti, che vennero a svolgersi più tardi fra i popoli e le città. Di qui in tanto, deriva la conseguenza, che il diritto, che suol essere chiamato foeciale, essendo stato trapiantato da uno in altro periodo di organizzazione sociale, acquisce un carattere artificioso, che lo fa talvolta apparire come un ostentazione puramente esteriore, diretta non a provare che le guerre si fa per una giusta causa, ma piuttosto a dissimulare l'ingiustizia intrinseca della guerra. Non può tuttavia esservi dubbio, che essó, trasportato nell'ambiente, in cui ebbe a formarsi, ha dovuto essere una procedura viva e reale, la quale ebbe ad essere determinata dalle condizioni, in cui si trovano le genti. Siccome nel periodo gentilizio i rapporti di pace, che si vengono a stabilire pressochè contrattualmente fra le varie genti, si riducono in sostanza a rapporti fra i capi delle medesime. Cosi essi finiscono per modellarsi e per ricavare la propria denominazione dai rapporti stessi, che possono intercedere fra i loro capi. In altri termini quei vocaboli stessi, che indicano le gradazioni diverse, in cui possono trovarsi i capi delle varie genti, sono pur quelli, che desi gnano il vincolo più o meno stretto, in cui possono essere le varie genti o i varii popoli, fra cui intervenne una convenzione di pace. Cosicchè i vocaboli anche qui vengono a dimostrare, come in quei primi tempi non esiste la distinzione fra i rapporti pubblici dei varii gruppi ed i rapporti privati fra i capi, da cui essi sono rappresentati. I vocaboli, intanto, che indicano questi rapporti pubblici e privati ad un tempo, sono quelli di amicitia, di hospitium societas. Prima presentasi l' “amicitial”, che indica quel rapporto contrattuale, che intercede fra due genti diverse o meglio ancora fra i capi di esse, senza che il medesimo imponga obbligo reciproco di difesa e di aiuto in tempo di guerra. La gente “amica” è quella, a cui si puo, in caso di bisogno, ricorrere per un favore e con cui si intenda di intrattenere amichevole commercio. L'amicizia quindi conduce già ad un riconoscimento del diritto della gente amica, e quindi se una persona, od una cosa venga a cadere in mano di una gente amica, questa non puo appropriarsela; il che e potuto fare, allorchè non e esistita fra di loro alcuna comunanza di diritto. Possono tuttavia esservi dei casi, in cui i reciproci commerci, fra individui, che appartengono a tribù diverse, porgano occasione al sorgere di controversie. Quindi fra i patti, che accompagnano i trattati di amicizia, dovette essere frequente quello, che più tardi noi troviamo indicato col vocabolo di “actio” e specialmente con quello di “reciperatio”; il quale è certamente bene appropriato per significare il rapporto, a cui intendeva di accennare, malgrado le difficoltà di in terpretazione a cui esso da luogo. È nota in proposito la definizione di Gallo. “Reciperatio est, cum inter populum, reges, natio nesque et civitates peregrinas lex convenit, quomodo per recipe ratores reddantur res reciperenturque, resque privatas inter se persequantur.” La sua interpretazione non può dar luogo a dubbio, quando diasi al vocabolo di “lex” la sua significazione primitiva di convenzione e di patto; interpretazione, che del resto è anche imposta dall'espressione di “lex convenit.” È evidente infatti, che qui trattasi di un patto intervenuto prima fra le tribù e più tardi fra i popoli, le nazioni e le città, nell'intento di permettere ai membri delle genti, delle tribù e delle città di far valere rispettivamente le proprie ragioni presso la gente, tribù o città, con cui trovansi in rapporto di amicizia; come pure è evidente la correlazione, che intercede fra questo vocabolo e quello di “rerum repetitio”, che costitue uno dei preliminari, che precedevano la vera dichiarazione di guerra. Questo vocabolo è poi meglio spiegato da quello di reciprocare, il quale, secondo Festo, significa  ultro citroque poscere  cioè far valere rispettivamente le proprie ragioni: vocabolo, che anche oggidi conserva l'antica sua significazione in quei trattati fra gli stati e le nazioni, che chiamansi di reciprocità e di reciprocanza. Ciò infine spiega eziandio, come si chiamano recuperatores quei giudici od arbitri, che sono chiamati a risolvere le controversie degli stranieri fra di loro e dei cittadini cogli stranieri. Infine si viene anche a darsi ragione, come in una città come Roma, che e sempre un emporio di tutte le genti, i recuperatores abbiano finito per essere una autorità giudiziaria, pressochè permanente, la quale, mentre decide le questioni con stranieri, puo anche essere chiamata a risolvere delle controversie fra i cittadini, in quei casi sopratutto, in cui non si trattasse di applicare il ius quiritium, ma piuttosto quei iura gentium, che fin dai primi tempi dovettero almeno di fatto esistere accanto al medesimo. A proposito dei “re-cuperatores”, si è poi lungamente disputato se i medesimi fossero chiamati soltanto a risolvere controversie di diritto privato, o se potessero essere chiamati eziandio a risolvere controversie di carattere pubblico fra i popoli e le genti. La definizione di Elio Gallo sembra comprendere le une e le altre, in quanto che essa accenna alla ricupera delle cose tolte da un popolo ad un altro, e alla prosecuzione delle cose private. Se quindi e lecito avventurare una congettura, misembrerebbe essere probabile, che in quell'epoca, in cui ancora mal si distingue la ragion pubblica dalla privata, i recuperatores, che sono persone scelte fra le due genti amiche, possono essere arbitri dell'uno ed un altro genere di controversie, perchè queste tenevano del pubblico e del privato ad un tempo. Allorchè invece, al disopra delle genti, venne a formarsi la città, e per tal modo comincia a distinguersi la cosa pubblica dalla privata, i recuperatores hanno circoscritta la propria competenza alle controversie di carattere privato. Fu in allora che i recuperatores si manteneno per le controversie di indole privata, e che i “fetiales” sono creati invece per le controversie, che insorgevano fra i varii popoli. E allora parimenti che la recuperatio e il modo, con cui gli individui “res privatas inter se persequuntur”, mentre la “rerum repetitio” divenne un preliminare della guerra. E allora infine che i iura gentium si vennero biforcando, e mentre da una parte il vocabolo di ius gen tium rimane ad indicare un complesso di norme, che governa i rapporti di indole privata, quello invece di ius foeciale o di ius belli ac pacis e adoperato per indicare i rapporti di carattere pubblico fra i popoli e le città. Anche qui insomma non si fa che applicare un processo, le cui traccie sono evidenti in ogni argomento, il quale consiste nel “publica privatis secernere, sacra profanes” -- Di qui deriva quell'incertezza di significazione, che questi vocaboli sembrano avere nelle proprie origini; incertezza, che non dovette recare imbarazzo a coloro, che avevano operate queste distinzioni; ma che complica invece grandemente l'opera di coloro che tentano fondarsi sovra pochissime vestigia di ricostrurre l'opera compiuta. Al modo stesso poi, che nei rapporti fra i privati dopo l'amico viene l'ospite, il quale già viene accolto nella casa e per qualche tempo entra in certo modo a far parte della famiglia; cosi nei rapporti fra le varie genti, al disopra dell'amicitia, viene a comparire l'hospitium. L'ospitalità, che diventa un ufficio di cortesia presso le nazioni civili, è invece una vera necessità presso tutti i popoli primitivi, i quali senza di essa si troverebbero isolati gli uni dagli altri. Non è quindi meraviglia, se i doveri dell'ospitalità, oltre al fondarsi sul costume, entrino eziandio sotto la protezione del fas, e se la medesima, presso le genti primitive, tenda ad acquistare un carattere ereditario. L'ospite entra in un certo senso a far parte della stessa famiglia, come lo dimostra il fatto che gli antichi giureconsulti disputano perfino, se gl’ufficii verso l'ospite dovessero precedere o susseguire quelli verso il cliente: nella quale questione, [Quanto alla definizione della recuperatio, HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae sup. Questa congettura, che d'altronde è molto semplice, ha il vantaggio di risolvere parecchie controversie, che sono largamente trattate da Voigt, Das ius naturale, gentium, etc., e dal Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale. Essa spiega anzitutto come una sola frase, quello di “ius gentium”, possa presentarsi con un duplice significato (V. FusInATO, dove egli combatte in parte l'opinione del Voigt). Essa spiega in secondo luogo, come la recuperatio, che più tardi trovasi solo applicata alle controversie private, nell'antica sua definizione comprenda invece anche quelle di carattere pubblico. Di qui una divergenza fra Fusinato da una parte, che vorrebbe negare ai recuperatores ogni competenza giudiziaria in interessi di pubblica natura e il SelL ed il Rein da lui citati, che sostengono invece un'opinione diversa. Credo poi che non possa essere posta in dubbio l'analogia strettissima fra recuperatio e rerum repetitio, sebbene i due vocaboli abbiano ciascuno una propria significazione, poichè recuperatio significa reciproca actio, mentre rerum repetitio significa il tentativo, che un popolo fa per riavere ciò che gli fu tolto, prima di appigliarsi alla guerra. Del resto questa stessa analogia compare fra le noxae datio del diritto privato e le noxae deditio dei cittadini colpevoli contro il diritto delle genti, di cui discorre lo stesso Fusinato. Ciò significa pertanto, che noi ci troviamo di fronte ad un processo logicamente applicato in tutte le distinzioni, che si vennero introducendo fra i rapporti pubblici e privati, e quindi la coerenza stessa dei risultati, in varii argomenti ad un tempo, dimostra come sia fondata la congettura di cui si tratta. Come poi i recuperatores sono in Roma an’autorità giudiziaria, pressochè permanente, appare da ciò, che essi non sono ignoti alla stessa legislazione decemvirale, il cui impero era ristretto ai soli cittadini.] -- mentre vi era chi colloca prima le persone affidate alla tutela del capo di famiglia, poi il cliente, quindi l'ospite. Masurio Sabino invece preponeva l'ospite al cliente. Tutti però sono concordi nel ritenere, che l'ospite dove avere la precedenza sui cognati e sugli affini. Non puo quindi essere temeraria la congettura, che l'ospitalità e la clientela sono nell'organizzazione gentilizia due istituzioni, che hanno una correlazione fra di loro; colla differenza, che la ospitalità importa solo una difesa e protezione provvisoria, mentre la clientela importa un rapporto di protezione permanente. Sotto quest'aspetto pertanto, si puo dire che il cliente venne prima del l'ospite. Ma, quando, invece si consideri che la clientela importa subordinazione e dipendenza, mentre l'ospitalità può alternarsi in guisa che l'ospitato di un giorno sia l'ospite in un altro, ben si puo comprendere il motivo, per cui Masurio Sabino concede sotto questo aspetto la precedenza all'ospite sopra il cliente, in quanto che l'ospite e l'ospitato sono in rapporto di UGUAGLIANZA fra di loro, il che non accade del patrono e del cliente. Così il concetto dell'amicitia, che quello dell'hospitium, dove nel periodo gentilizio avere un carattere pubblico e privato ad un tempo. E solo posteriormente, quando dalle genti e dalle tribù usceno le città, che cosi l'amicitia come l'hospitium subirono quella distinzione, che si opera in qualsiasi altro argomento, per cui si ebbero l'amicitia e l'hospitium pubblico e privato. Che anzi nella transizione fuvvi un periodo, in cui la casa stessa del re dapprima e del magistrato dappoi servì per accogliere gl’ospiti del popolo romano; ma, a misura che si venne distinguendo l'ente collettivo dello stato dalla persona dei singoli cittadini, si dove anche distinguere l'amicizia e l'ospitalità in pubblica e in privata. Cosi e un effetto della pubblica amicizia, che il cittadino romano, quando e fatto prigioniero di guerra, gode senz'altro del diritto di postliminio, appena ponesse il piede nel territorio di un re alleato od anche solo amico, poichè da quel momento comincia ad essere “pubblico nomine tutus.” Parimenti l'hospitium pubblicum, allorchè e accordato non solo ad un individuo, ma alla intiera popolazione di una città, venne a cambiarsi in certo modo nella [V. sopra il passo di Masurio Sabino -- Dig.] concessione della civitas sine suffragio: il che rende non destituita di fondamento l'opinione di coloro, i quali, dietro l'autorità del Niebhur, vogliono trovare nel concetto dell'hospitium pubblicum la primitiva significazione, che, secondo Festo, e stata attribuita al vocabolo di “municipium”. Infine al disopra dell'amicizia e dell'ospitalità, presentasi la “societas”. Qui non trattasi più di semplici officii di cortesia, ma di obbligazioni che già assumono un carattere giuridico; poichè la “societas” fra le genti, al pari della societas fra i privati, è un accomunare le proprie forze per il conseguimento di un intento comune, e per ripartire i vantaggi, che si possono ricavare dall'opera insieme “associate”. I patti e le condizioni di questa “societas” possono essere molto diversi; ma di regola essa importa alleanza difensiva ed offensiva delle genti, fra cui interviene, e una conseguente ripartizione del bottino. Di qui la conseguenza, che mentre l'amicizia e l'ospitalità possono anche trovare origine nel fatto e nella consuetudine; la “societas” invece suppone una convenzione espressa fra le genti ed i popoli, fra cui interviene: quindi con essa viene a sorgere il concetto del foedus, il quale ha larghissimo svolgimento e da luogo ad importantissime conseguenze nel periodo gentilizio. Per quanto sia dubbià l'origine della parola, questo è certo, che l'essenza del “foedus” sta nella “fides”, che stringe quelli che entrano in confederazione fra di loro, e che il medesimo, nei rapporti fra le varie genti, compie quello stesso ufficio, a cui adempie il contratto fra i singoli capi di famiglia. Infatti, sebbene di regola sogliano ado perarsi come sinonimi i due vocaboli di societas e di foedus, è [NIEBhur, Histoire romaine. Questa opinione e sostenuta dal TADDEI, Roma e i suoi municipii, Firenze] Senza negare che possa esservi esistito un qualche rapporto fra l'hospitium pubblicum e il municipium, nella prima delle significazioni che è attribuita a quest'ultimo vocabolo da Festo, vº Municipium, vuolsi però avere presente che l'hospitium è istituzione di origine gentilizia, mentre il municipium suppone già esistente e svolta la convivenza civile e politica.] però facile l'avvertire, che i medesimi, sopratutto negli inizii, dove avere significazione diversa. Mentre infatti la “societas” indica il rapporto, in cui entrano le genti ed i popoli, il vocabolo di “foedus” invece significa di preferenza l'accordo, la convenzione, con cui questo rapporto viene ad essere stipulato. Che anzi, siccome fra le genti non si distinguono i rapporti di carattere pubblico da quelli di carattere privato: cosi il vocabolo “foedus: si presenta dapprima con una larghissima significazione, instesse convenzioni e stipulazioni private e, sopratutto nei filosofi, significa persino quelle convenzioni tacite, che sembrano stringere tutti i popoli, che si trovino in analoghe condizioni di civiltà: convenzioni e rapporti, che sono appunto indicati col vocabolo di “foedera generis humani”, poichè il popolo che vi venisse meno sembra in certo modo uscire dal novero dalle umane genti. Tali so fra i romani l'inviolabilità e l'immunità dei legati, senza la quale e stata impossibile qualsiasi trattativa fra genti, che non hanno fra di loro comunione di diritto; tale e eziandio quel costume veramente umano per cui, terminata la battaglia, ad divenivasi ad una breve tregua, accio i due eserciti potessero addi venire alla sepoltura dei morti. Di più, anche nei rapporti fra le genti, il “foedus” non significa soltanto la confederazione o l'alleanza; ma puo significare qualsiasi accordo, che venisse a seguire fra due popoli, sia per conchiudere la pace, sia per rimettere la decisione della guerra ad un duello fra individui scelti negli eserciti che si trovavano di fronte, ed anche quell'accordo, in base a cui si addivenne alla deditio di un popolo ad un altro e se ne fissano le condizioni. Il “foedus” insomma indica il momento, in cui l'elemento contrattuale comincia a penetrare nei rapporti fra le varie genti; ed è perciò, che, malgrado tutti i dubbii che possano avere gl’etimologi, non sotrattenermi dall'esprimere la persuasione profonda, che il vocabolo di “ius foeciale”, con cui si indicava il complesso delle pratiche e delle trattative, che poterono seguire fra i varii popoli così in pace, come in guerra, non può essere che una corruzione ed una sincope di “ius foederale”. Gl’etimologi non possono accertare che “foedus” origina da “fides”, nè che “foeciale” derivi da “foedus”. Ma questo è certo, che le parole di “fides”, “foedus”, e “foeciale”, come sembrano avere una parentela materiale, così hanno una strettissima attinenza, quanto al concetto dalle medesime espresso, ed è questo il motivo, per cui continuo a scrivere “ius foeciale” a vece di “ius fetiale.” Quanto alla larghissima significazione pri [Intanto il “foedus” è il rapporto fra le genti e le tribù, che suppone un maggiore progresso nell'organizzazione sociale. Qui infatti non è più il caso di un semplice ufficio di amicizia e di ospitalità; ma trattasi già di un rapporto che assume il carattere GIURIDICO, in quanto che il foedus impone alle genti e alle tribù, che vi addivengono, delle vere e proprie obbligazioni giuridiche, sebbene queste continuino ancora sempre ad essere sotto la protezione del fas. Gli è perciò, che col foedus già comincia a comparire quell'istituto della stipulazione giuridica, che le genti latine recarono non solo nelle convenzioni private, ma eziandio nelle convenzioni di pubblica natura; stipulazione che, a mio avviso, dovette probabilmente essere prima adoperata per i rapporti di carattere pubblico, che non per quelli di carattere privato. Quanto alle formalità solenni, che accompagnavano il foedus, ritengo, che se più tardi potè essere attribuita importanza sopratutto all'elemento esteriore, che serve per dargli il carattere di iustum, come lo dava al testamento, alle nozze e a qualsiasi altro atto; questo è però certo, che le cerimonie, che accompagnavano la conclusione del foedus nel periodo, in cui si vennero formando, dovettero avere una reale ed effettiva significazione. Non dove quindi nel periodo gentilizio esservi un “pater patratus”, che addivenisse alla formazione dell'alleanza: ma erano i padri o capi effettivi delle genti, che da essi erano rappresentati, quelli che conchiudevano il patto. Così pure dovette anche avere una efficace significazione l'obtestatio deorum, per cui chiedevasi il divino in testimonio del patto, che interveniva fra di essi, e si poneva il trattato sotto la protezione del fas, chiamando la collera del cielo contro colui, che venisse meno al patto intervenuto, e simboleggiando, col ferire con un coltello di selce la vittima, il modo, con cui il divino avrebbe colpito il violatore del patto.  [mitiva di foedus, essa appare sopratutto dall'uso che ne fanno I filosofi latini, pei quali indica dapprima qualsiasi patto fra gli individui e fra le genti; quindi anche qui abbiamo una parola, che si rifere dapprima ai rapporti pubblici e privati ad un tempo; argomento questo che gli uni non si distinguevano dagli altri. Questo significato di foeduse presentito dal nostro Vico, allorchè chiama le religioni, le sepolture ed i matrimonii “i foedera generis humani”. Il duplice significato pubblico e privato di foedus occorre poi nel seguente passo di LIVIO (si veda) – “Ænean apud Latinum fuisse in hospitio: ibi Latinum, apud penates deos, dome sticum pubblico adiunxisse foedus, filia Aeneae in matrimonium data.” Questo è provato anche da ciò, che nel primo caso narratoci di un patto se [Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il concetto del foedus, vincolo religioso e giuridico ad un tempo fra le varie genti e le tribù, ha certamente a precedere la formazione della comunanza romana, e dove anche prima ricevere applicazioni molteplici e diverse, durante il period gentilizio. Il foedus può essere anzitutto il mezzo, con cui si pone termine allo stato di guerra fra diverse tribù, e siccome al momento, in cui si addiviene al medesimo, le sorti delle armi possono essere diverse per i contendenti, cosi è probabile, che già, anteriormente a Roma, dovesse esservi quella distinzione, di cui essa poi fa così larga applicazione fra il “foedus aequum” ed il “foedus non aequum”. Eranvi infatti dei casi, in cui il foedus, nella significazione di convenzione e di trattato, serve, come ricorda Gellio, per dettare la legge ai vinti; altri in cui, senza opprimere affatto quello dei contendenti, per cui volgessero sfavorevoli le sorti della guerra, il medesimo in una posizione di ossequio e di subordinazione verso quello che sta per vincere, il che costituie appunto il “foedus non aequum” e da origine ad una specie di clientela di un popolo verso un'altro, che nell'epoca romana e poi indicata coll'espressione  at maiestatem populi romani coleret ; altri infine, in cui, essendo incerte le sorti della guerra, si pone termine alla medesima con un “aequum foedus” e si veniva, secondo i patti, alla reciproca restituzione dei prigionieri di guerra e all'abbandono del territorio occupato.] si pone. Per quanto poi si riferisce a quella distinzione fra foedus e sponsio, stata invocata qualche volta dai romani, sembra che la medesima costituisca già un'applicazione, eminentemente giuridica, trovata dallo stesso popolo romano e posteriore alla formazione della città. È noto in proposito, che i romani ritenevano per foedus il trattato guìto secondo il “ius foeciale”, che è quello relativo al combattimento degl’orazii e dei curiazii, DIONISIO ci narra, che il medesimo e solennemente stipulato, e che due cittadini eletti a ciò, facendo le veci di padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno d'essi. Dion. Cfr. Bonghi, Storia di Roma. Ritengo poi verosimile l'opinione di Pantaleoni, ricordata da Fusinato, “Le droit international de la république romaine” (Bruxelles) – “Revue de droit international”, secondo cui il coltello di selce rimonterebbe all'età della pietra, poichè questo studio di conservare anche materialmente l'antico è veramente nel carattere romano. Quanto alle varie specie di foedera fra le città ed i re è da vedersi Livio. Esempii poi di foedera non aequa possono vedersi in Gellio, Noc. att., e nello stesso Livio] stipulato coll'intervento del “pater patratus” e colle cerimonie tutte del “ius foeciale”, mentre “sponsio” e la pace giurata soltanto dal generale. Mentre il primo obbliga direttamente il popolo pomano, l'altra invece, quando non fosse ratificata dal senato, obbliga solo a fare la consegna del generale, che ha giurato la pace. Ora è evidente, che questa distinzione cosi ingegnosa e sottile presuppone già il passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Finchè trattasi di tribù o di genti, è il pater o capo effettivo della tribù, che la guida nelle sue imprese militari, e quindi è egli stesso, che tratta la pace circondato da altri capi, ed adempie alle cerimonie tutte di carattere religioso, che devono accompagnare la stipulazione del foedus. Non occorre quindi ancora l'artificio del “pater patratus”, nè l'intervento dei feziali, perchè esso possa obbligare direttamente il proprio popolo. Quando invece trattasi di una città, tanto più se retta a repubblica, il generale non può più dirsi che rappresenti il popolo e il senato, e quindi egli non può addivenire che ad una semplice “sponsio”, la quale, per essere cambiata in un vero trattato, abbisogna della ratifica del senato e dell'adempimento delle cerimonie del diritto feziale. Intanto pero, siccome il generale è colpevole per aver giurata una promessa, che non mantiene o per aver obligato il popolo oltre i limiti del suo mandato; cosi il senato, che non ratifica il suo operato, si appiglia alla noxae deditio del generale stesso. Intanto si comprende, che altri popoli, come i Sanniti, al tempo della pace delle forche caudine, i quali non erano ancora pervenuti ad un eguale sviluppo della loro organizzazione civile e politica, stentassero a comprendere questa sottigliezza giuridica dei romani: poichè per essi il loro generale era anche il loro capo effettivo, e quindi puo obbligare direttamente il popolo da lui rappresentato. Non parmi quindi, che possa essere il caso di introdurre qui la triplice distinzione, a cui accenna Mommsen nel “Le droit public romain” fra la semplice “sponsio” del capitano, il foedus foeciale e il foedus del solo capitano; poichè è dichiarato abbastanza chiaramente da Livio, che tanto il foedus che la sponsio, se siano fatte in iussu populi, non possono obbligare il popolo romano. Quindi la distinzione viene ad essere questa: o la convenzione è opera del solo capitano, in iussu populi ac senatus, che sono quelli che inviano i feziali, e in allora abbiamo una semplice sponsio; o invece vi ha il iussus populi ac senatus, che inviano i feziali e abbiamo il vero foedus: donde la prova che la distinzione dove essere un effetto del passaggio dall'organizzazione gentilizia all'organizzazione politica. Cfr. Fusinato, “Dei Feziali e del diritto feziale.” Non credo poi si possa ammettere con Mommsen, che sulla forma del foedus ha esercitata una visibile influenza la teoria del contratto, in quanto che nel foedus sarebbesi adoperata per analogia la forma della stipulazione, come quella che era considerata come il modo generale e di diritto comune per contrarre le obbligazioni. Ciò è del tutto impossibile: perchè è certo che esisteno già il foedus e la sponsio nei rapporti fra i varii popoli e che l'uno e l'altra già si stipulano con quella forma determinata, assai prima che i giureconsulti costruissero la teoria della stipulazione e ne fanno applicazione alle convenzioni private. Del resto la forma della stipulazione, adoperata dai romani nei rapporti col divino, nella formazione della legge, nella conclusione dei trattati di pace, solo più tardi sembra essere stata accolta nel diritto civile romano ed applicata alle convenzioni private; per guisa che vi sono autori, che ritengono la stipulazione nelle convenzioni private come di impor tazione greca. Il vero si è, che nel diritto primitivo trovasi sempre un'analogia fra i rapporti di diritto pubblico e quelli di diritto privato; la quale deriva da ciò, che nel periodo gentilizio tanto gli uni come gli altri sono rapporti tra capi di gruppo, e quindi le stesse forme, che servono nei rapporti fra le varie genti, possono poi anche servire nei rapporti contrattuali e privati. Sonvi però molte pratiche comuni agli uni e agli altri e fra le altre havvi quella della sponsio, che sembrano aver acquistato forma ed efficacia giuridica prima nei rapporti fra le genti, che nei rapporti dicarattere privato. Del resto cio è anche attestato da Gaio, che chiama sottigliezza il voler applicare la teoria della stipulazione privata alla sponsio del generale romano; poichè, se si venga meno al patto, non ex stipulata agitur, sed iure belli res vindicatur. V. Mommsen, Le droit public romain, il quale, secondo la traduzione Gérard, di cui mi valgo, scrive. “En ce qui concerne la forme, le principe du droit civil a fait employer ici par analogie les formes de la stipulation, parce qu'elle était considérée comme le mode général et de droit commun de contracter des obligations.” Parmi, con tutta la riverenza al dottissimo autore, che questa proposizione non possa essere accolta, e che sarebbe vera piuttosto la proposizione inversa. Infatti secondo MUIRHEAD, Hist. Introd., e molti altri, la sponsio o stipulatio nelle convenzioni private non sarebbe penetrate in Roma, che verso l’epoca, in cui la teoria della sponsio e del foedus, nei rapporti fra le città ed i popoli, aveva già ricevuto tutto il suo sviluppo. Quindi è che pur non ainmettendo l'opinione del MUIRHEAD, in quanto che ritengo che la sponsio e romana fino dalle origini e vivesse nel costume, anche [Un'altra applicazione del foedus era anche quella, per cui tribù e genti, che potevano anche non essere in guerra fra di loro, stringevano fra di loro un'alleanza, i cui patti potevano essere molto diversi, ma che il più spesso costituiva una lega difensiva ed offensiva ad un tempo; la cui idea tipica pud essere ricavata dal foedus latinum, detto anche foedus Cassianum, il cui tenore ha ad esserci conservato da Dionisio. È poi notabile, che queste specie di alleanze fra tribù e popoli vicini, siccome per lo più dipendevano da relazioni ed aderenze fra i capi di gruppo, cosi si venivano for mando e disfacendo con grande facilità, per cui bene spesso l'alleato di oggi poteva essere il nemico di domani. Il che tuttavia non toglie, che la forza e l'efficacia del patto d'alleanza sia cosi profondamente sentita, che stipulavasi talvolta che essa dovesse durare eterna ed im mortale, come lo erano i popoli, fra cui interveniva. Ciò è dimostrato dall'energica espressione adoperata nel foedus latinum, secondo la quale la pace e l'alleanza fra romani e latini doveva durare:  dum coelum et terra eandem stationem obtinuerint.” Infine un'altra importantissima applicazione del foedus nelle epoche primitive, è quella, in virtù della quale più tribù, che possono anche essere di origine diversa, societatem ineunt fra di loro, nel l'intento di formare una stessa civitas e di partecipare così ad una vita pubblica comune. È stato questo il foedus, che ha servito per la formazione dell'urbs e della civitas dei latini, e che fu anche il tipo, sovra cui ebbe ad essere foggiata Roma primitiva; il qual ca rattere è importantissimo, in quanto che induce ad affermare che Roma nei suoi inizii ebbe un carattere federale e pressochè con trattuale. Dal momento infatti, che fra le varie tribù mancava il vincolo della comune discendenza, non poteva esservi che quello della fides, e quindi è nel foedus, che deve essere cercata l'origine prima dientrare nel diritto, conviene pur sempre riconoscere che la teoria della sponsio si svolse prima nei rapporti fra le genti, che non nel diritto civile di Roma. Giu stamente quindi Gaio voleva tener distinte le due cose: poichè, dalmomento che la sponsio nei trattati fra i popoli erasi distinta da quella nelle convenzioni private, non era più il caso di confonderle insieme. Da questa nasceva l'actio ex stipulatu, mentre dalla violazione di quella nasceva la guerra. I due isti tuti, che nella origine potevano essere uniti, ora seguono invece ciascuno la propria via, come la recuperatio e la repetitio rerum, il ius gentium e il ius belli ac pacis e simili, e più non debbono essere insieme confusi. Dion.] 154 della città. Se la tribù può ancora essere una formazione del tutto naturale, perchè è l'effetto del primato, che una gente acquista sopra le altre che la circondano; la città invece suppone di necessità l'accordo delle varie tribù, che entrano a costituirla, accordo, che riveste appunto la forma di un foedus. Intanto egli è evidente, che allorquando le cose sono per venute a tale, che nell'organizzazione gentilizia, in cui prima do minava esclusivamente il vincolo di discendenza, già comincia a pe netrare l'elemento federale e contrattuale, questo non può a meno di attribuire all'organizzazione stessa una elasticità e pieghevolezza, che essa prima non poteva avere. Infatti egli è sopratutto da questo punto, che nel seno della tribù e della città, costituita mediante la federazione di varie tribù, cominciano a comparire dei mezzi, i quali o servono ad aggregare alla comunanza un nuovo elemento, o ser vono invece a staccarne un elemento, che prima ne faceva parte per trasportarlo altrove. Fu in questa guisa, che, già anterior mente alla formazione della comunanza romana, si erano venuti svolgendo gli istituti della cooptatio, della concessio civitatis sine suffragio, della secessio e della colonia; la cui nozione è indispen sabile per comprendere la storia primitiva di Roma. In virtù della cooptatio le genti, che già entrarono a far parte di una medesima comunanza civile e politica, possono accoglierne delle altre a far parte della medesima. Essa fu applicata più volte in Roma primitiva; come lo dimostra la cooptazione delle genti Al bane, dopochè Alba fu, secondo la tradizione, distrutta da Tullo Ostilio, e fu applicata eziandio alla gente sabina, capitanata da Atto Clauso.Questa origine federale delle città costituite sul tipo latino pud servire a spiegare il fatto, per cui i Latini nella loro qualità di socii coi Romani abbiano messa innanzi la pretesa, che Roma e il Lazio dovessero dare origine ad una comu nione ed unità di governo; per cui dei consoli uno dovesse essere nominato dal Lazio e l'altro da Roma, e il senato dovesse comporsi in parti eguali dai due popoli. Vedi Liv. VIII, 3, 4, 5. Cfr. WALTER, Storia del diritto di Roma, Trad. Bollati, Torino. È poi questa istituzione, che ci dà la ragione per cui, durante il periodo di Roma patrizia, la cittadinanza non era conceduta ad in dividui, ma a genti collettivamente considerate, in quanto che la cooptatio era per sua natura applicabile all'intiero gruppo gentilizio e non ai singoli individui. Non pud poi esservi dubbio, che questa cooptatio, per essere una istituzione eminentemente patrizia, doveva certainente essere accom pagnata da cerimonie religiose; perchè la gente, che era ammessa nella tribù o alla città, diventava eziandio partecipe della religione di esse, ne aveva comuni gli auspicia, ed il suo capo poteva anche conseguire un seggio nel senato. Quasi si direbbe, che la cooptatio di una gente nella tribù o città corrispondeva alla adrogatio per la famiglia. Quindi si comprende, come al modo stesso che l'adrogatus, per essere disgiunto dalla gens, di cui faceva parte, doveva prima addivenire alla detestatio sacrorum; così anche il gentile, per uscire dall'ordine delle genti patrizie e passare, ad esempio, nella plebe, il che chiamavasi transitio ad plebem, doveva pure appigliarsi ad una specie di abdicatio o detestatio sacrorum; alla quale dovette appunto assoggettarsi Clodio, allorchè abbandono l'ordine patrizio e passò alla plebe per poter essere nominato tribuno [È poi degno di nota, che questa cooptatio ebbe pure ad essere applicata ai collegi sacerdotali, finchè i medesimi furono esclusiva mente tratti dall'ordine patrizio, e fu solo più tardi, allorchè anche la plebe fu ammessa ai sacerdozii pubblici del popolo romano, che ad alcuni fra essi fu applicata l'elezione popolare, la quale anzi fini per essere affidata ai comizi tributi. Quando poi la città cesso di essere esclusivamente patrizia, in allora noi vediamo svolgersi, qualmodo di accrescere la popola zione, la concessione della civitas sine suffragio, in virtù della quale gli abitanti di una città vicina, che venivano a prendere il [Dion., III, 29; Liv., 1, 30. Cfr. Willems, Le droit public romain; CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte. La necessità di una specie diabdicatio, anche per uscire da una gens, è provata dal seguente passo di Servio, In Aen. 2, 156:  Consuetudo apud maiores fuit, ut qui in familiam vel gentem transiret, prius se abdicaret ab ea, in qua fuerat, et sic ab alia reciperetur . Quanto alla transitio ad plebem, è da vedersi Cic., Brut., 16, e Aulo Gellio] nome di municipes (a munere capiendo), recandosi a Roma, erano ammessi a partecipare ai diritti e alle obbligazioni del cittadino, esclusa però la partecipazione al godimento dei diritti pubblici, che consistevano nel ius suffragii e nel ius honorum. Fu con questo mezzo, che Roma incominciò a mettere le basi di quel sistema mu nicipale, per mezzo del quale tutti gli abitanti prima delle città del Lazio e poi quelli delle città italiche, finirono per essere considerati come cittadini di Roma, che era la patria communis; il che però non impediva, che ogni città avesse una propria amministrazione municipale. Questo carattere dei municipia, i quali in sostanza erano città per sè esistenti, che venivano ad essere associate alle sorti di Roma, fu espresso da Gellio con dire, che imunicipia, a differenza delle colonie, veniunt extrinsecus in civitatem et radicibus suis nituntur. Ciò però non tolse, che il concetto del municipium abbia subito poi delle trasformazioni profonde, le quali sono indicate dalle significazioni diverse, che Festo attribuisce a questo vocabolo (). i 125. A questi duemezzi, con cui veniva accrescendosi il numero di coloro, che partecipavano alla stessa civitas, se ne contrapponevano invece degli altri, che servivano piuttosto a trasportare altrove una parte della popolazione, sia che ciò occorresse per il vantaggio della stessa città, come accadeva nella colonia, sia che una parte di essa si trovasse in condizioni incompatibili col rimanente, nel qual caso si ricorreva alla secessio e all'expulsio. Non può esservi dubbio, che il sistema delle colonie, che prese poi cosi largo sviluppo in Roma, esisteva già prima nel costume delle genti italiche, ed era anzi loro comune colle genti elleniche, sebbene il suo scopo potesse essere diverso. Ciò è dimostrato dal fatto, che, secondo la tradizione, la tribù dei Ramnenses non dovette essere dapprima, che una colonia di Alba Longa. Le colonie poi sono gruppi di famiglie, le quali, collettivamente considerate, si staccano dalla madre patria, colla approvazione di quelli che rimangono, la quale si manifesta nella lex coloniae deducendae, e colla buona volontà di coloro che partono, i quali debbono perciò farsi iscrivere nel numero dei coloni. Ciò ebbe ad essere espresso da Servio con dire, che le [I principali passi degli autori, relativi almunicipium e alla colonia, possono trovarsi raccolti nella eruditissima opera del Rivier, Introdution historique au droit romain, Bruxelles, la quale contieneun numero grandissimodi passi di autori e questi raccolti con molta sagacia.] colonie  ex consensu pubblico, non ex secessione conditae sunt . Di qui la conseguenza, che la colonia porta con sé la religione, la lingua, le tradizioni della tribù o della città, dalla quale si stacca e si organizza a somiglianza di essa, per guisa che, secondo la efficace espressione di Gellio, le colonie sono quasi effigies parvae, simula craque della madre patria, e sono quasi propaggini della città, da cui sonosi staccate, comequelle, che continuano ancor sempre a mantenersi in rapporti con essa (ex civitate quasi propagatae sunt). Punto non ripugna, che le colonie nelle loro origini siansi cosi chiamate a colendo; in quanto che può darsi benissimo, che esse fossero in certo modo delle spedizioni agricole, che partivano da una tribù, sta bilita sopra un territorio, per trasportarsi sopra un altro suolo, quando quello prima occupato più non potesse bastare ai bisogni della intiera popolazione. Però anche in questa parte, allorchè riuscì a delinearsi l'istituto della colonia, nulla impedi che esso potesse essere rivolto ad intenti di diversissima natura, marittimi, militari, commerciali, e che servisse anche a diminuire il numero soverchio della plebe, quando essa, raccolta nella sola città, già cominciava a cambiarsi in una factio forensis e a diventare pericolosa. 126. La secessio invece sembra contrapporsi alla cooptatio, colla differenza che questo vocabolo, in cui non havvi accenno ad alcun rito religioso, sembra aver trovato origine piuttosto nei rapporti fra patriziato e plebe, che non in seno all'ordine patrizio. Ad ogni modo la secessio, intesa in largo senso, ha luogo allorchè un ele mento già ammesso nella comunanza, trovandosi incompatibile colla medesima, se ne stacca volontariamente e recasi altrove a porre la propria sede. Lasciando anche a parte i tentativi di secessio per parte della plebe, i quali non ebbero mai un esito definitivo, può forse scorgersi un esempio di secessio, ancorchè dissimulato dalle tradizioni, nel fatto della gens Fabia, che abbandonava Roma coi suoi numerosi clienti per stabilirsi alla Cremera, ove poi fini per essere distrutta dai Sanniti, lasciando un solo superstite, che entrò di nuovo a far parte della cittadinanza romana. Servio, In Aen., I, 12; Gellio. L'importanza delle colonie nel periodo gentilizio fu già messa in evidenza dal Vico, Scienza nuova. Intorno alle colonie ed alle varie loro specie, è accurata la trattazione del WALTER, Storia del Dir. Rom., Trad. Bollati.Quanto alla tradizione circa la gens Fabia, vedi Bonghi, Storia di Roma. Alla secessio, che è volontaria, si contrappone invece l'expulsio, quale fu quella, che ebbe ad avverarsi per la gens Tarquinia; espul sione, che per la intimità del vincolo, che stringe insieme i membri di una medesima gente, dovette poi essere estesa a tutti coloro che portavano quel nome, non escluso quel Tarquinio Collatino, marito a LUCREZIA, il cui oltraggio, secondo la tradizione, e stata occasione allo scoppio di quella rivoluzione patrizia e plebea ad un tempo, che condusse alla trasformazione del governo regio in repubblicano. Intanto questi varii istituti, unitamente all'amicitia, all'hospitium, alla societas e al foedus, che serviva a dar forma giuridica e so lenne a tutti i rapporti amichevoli fra le varie genti e tribù, avendo in gran parte avuto origine nel periodo gentilizio, dimostrano abba stanza come la città, la quale era uscita dalla federazione e dall'accordo, potesse anche subire dei mutamenti, che si operavano nella stessa guisa. Essa aveva mezzi diversi per accrescere o scemare il numero di coloro, che partecipavano alla stessa comunanza. Finchè infatti la città fu esclusivamente patrizia, potevano bastare la cuoptatio o la expulsio, mediante cui una gente poteva essere ac colta o respinta dall'ordine patrizio, e cosi entrare od uscire dalla partecipazione alla stessa comunanza. Quando poi patriziato e plebe si fusero insieme ed entrarono così a far parte dello stesso esercito e dei medesimicomizii, in allora si svolgono la secessio da una parte e la concessio civitatis dall'altra, e quest'ultima potè essere consen tita cum suffragio o sine suffragio. Infine havvi la colonia che, adoperata prima dalla tribù e poscia dalla città, serve a questa per trapiantare le sue propaggini altrove; mentre il municipium viene a convertirsi in un mezzo,me diante cui popolazioni,che avevano altrove la propria sede ed avevano anzi una propria amministrazione ed una propria vita, vengono ad es sere ammesse a partecipare alla vita pubblica della città, senza però essere ammesse agli onori ed al suffragio. Sarà solo più tardi, allorchè il sistema municipale sarà svolto in tutte le sue conseguenze, che le città latine prima e le città italiche dappoi, pur serbando il diritto di partecipare alla amministrazione della loro patria originaria, otter ranno tuttavia la partecipazione alla piena cittadinanza di Roma, che comincierà cosi ad essere considerata come la communis patria. Così viene preparandosi l'organismo della città per guisa, che essa possa essere capo e centro di qualsiasi vasto impero, e mentre le popolazioni, ammesse alla cittadinanza romana, avranno ancor esse interesse al mantenimento della grandezza romana, sarà però sempre in Roma, dove si decideranno le sorti del mondo e si eleggeranno i magistrati chiamati a governarlo. Solo più ci resta a vedere, se anche le varie forme, sotto cui ebbe a svolgersi il ius belli, già aves sero avuto origine nello stesso periodo e come siansi venute formando. In proposito già si è dimostrato, come non possa ammettersi il concetto, pressoché universalmente accolto, che la guerra debba essere considerata come lo stato naturale delle genti italiche. Esse invece si considerano come straniere le une alle altre e non hanno fra di loro comunione di diritto. Quindi al modo stesso che occorrono degli accordi, perché si trovino in condizione di amicizia e di pace; cosi è necessario che intervenga qualche fatto speciale, che le faccia uscire da questo stato di reciproca indifferenza, accið esse possano essere considerate come in stato di guerra. Quanto alle cause, che possono far scoppiare una guerra, esse sono determinate dalle condi zioni sociali, in cui si trovano le tribù ed i popoli diversi. Appena uscite da uno stato nomade, in cui dovette dominare la privata vio lenza, le genti si fissarono in territorii, i cui confini non erano an cora ben determinati, e quindi dovettero essere frequenti le questioni di confine e le reciproche usurpazioni di territorio. Di più pud ac cadere, che una comunanza nella sua totalità (populus da populari) o gli uomini singoli,che appartengono alla medesima (homines Her munduli) abbiano commesso devastazioni e saccheggi nel territorio della comunanza vicina. Così pure può avvenire, che una contro versia insorta fra due famiglie, appartenenti a tribù diverse, ingros sandosi mediante le parentele e le aderenze dell'una e dell'altra, come avvenne appunto in occasione della cacciata da Roma di Tarquinio e della sua gente, prenda le proporzioni di una vera e propria guerra. Siccome poi le varie genti e tribù sono in questo pe [A questo proposito però fu giustamente notato, che una delle cause della de. cadenza di Roma fu l'impossibilità, in cui erano le popolazioni delle città italiche di prendere parte effettiva alla vita politica di Roma,.in cui finiva perciò per pre valere la turba forensis. Vedi a questo proposito GENTILE, Le elezioni e il broglio nella Repubblica Romana.] riodo rappresentate dai proprii capi; cosi punto non ripugna che le sorti della guerra siano anche rimesse ad un combattimento singolare fra individui, col patto che l'esito della guerra dipenda dalle sorti di un privato duello. Così pure, è nel carattere del tempo che, quando si incontrano i due capi, essi vengano fra loro ad un combattimento non dissimile da quello, che la tradizione attribuisce a Giunio Bruto e ad Arunte, il più forte fra i figli di Tarquinio, e che la moltitudine dei combattenti si arresti a contemplare la lotta fra i proprii capi. Niuna maggior gloria potrà ottenersi, che quando uno dei capi potrà avere le spoglie dell'altro, ed è a questo concetto certamente che rannodasi il culto, che ancora trovasi così radicato in Roma, per cui le spoglie opime, che erano quelle appunto che dal capo di una tribù erano state tolte a quello dell'altra, erano appese nel tempio di Giove Capitolino, ed i fasti e gli annali ricordavano le volte in cui rinnovavasi il memorabile fatto. Per quanto questimodi di pensare e diagire possano riuscire singolari per noi, che siamo giunti a scorgere nella guerra un rap porto fra due Stati; questo è però certo, che i medesimi trovano una naturale spiegazione nel fatto, che durante il periodo gentilizio i rap porti fra le stesse tribù non riescono ancora a distinguersi da quelli fra i capi, che le rappresentano. Diqui conseguita, che il concetto della guerra fra i popoli ancora si confonde col duello fra i capi che lo rappresentano; il che è dimostrato fino all'evidenza dall'origine co mune dei vocaboli duellum e bellum, come appare dal vocabolo perduellis, che mentre ancora accenna al duellante significa già il pubblico nemico. Ciò spiega eziandio le traccie, che occor rono anche in Roma di duello giudiziario, poichè in esso noi abbiamo quel mezzo, che serve per risolvere le controversie fra i popoli appli [È ovvio osservare l'analogia,che presentano le primitive guerre di Roma con quelle, che Omero ci descrive nell'Iliade, ove soventi gli eserciti si arrestano spetta tori delle gesta dei proprii capi. Quanto alla spiegazione del culto per le spoglie opime parmi così naturale, che mi meraviglio di non averla trovata negli autori, che da me furono letti.  A questo proposito osserva il BRÉAL, Dict. étym. lat., vº Duo, che il cambia mento di duellum in bellum è analogo a quello di duonus in bonus, di Duilius in Bilius, di duis in bis, per guisa che come da duo derivd duellum, così da bis potè derivare bellum. Del resto il vocabolo di duellum per bellum occorre ancora sovente nei poeti latini e fra gli altri Plauto chiama i Romani  duellatores optimi ] cato a risolvere una controversia privata fra individui; il che in so stanza costituisce il processo inverso di quello, in cui il duello fra due individui viene ad essere adoperato qual mezzo per risolvere la guerra fra due popoli, e dipende perciò dal medesimo ordine di idee, cioè dal sostituirsi dei rapporti pubblici ai privati e viceversa. È nello stesso modo, che possiamo riuscire a darsi ragione di quella analogia costante, che non può a meno di essere notata fra le formalità, che accompagnano la dichiarazione di guerra, e quelle, che accompagnano l'azione che il capo ili famiglia propone in giudizio. 130. È solo infatti questo modo di riguardare le cose, fondato sulla realtà dei fatti ed ispirato al modo di pensare degli uomini e dei tempi, che può condurre a dare una spiegazione del tutto naturale di quella procedura grandiosa e solenne, che accompagna appunto la dichiarazione di guerra. Per quanto tale procedura, tras portata dallo spirito conservatore dei Romani in un'epoca diversa da quella in cui erasi formata, possa apparire artificiosa e siasi talvolta considerata come un complesso di formalità esteriori, archi tettato per celare l'ingiustizia e la prepotenza di un grande popolo; questo è però certo, che essa, ricondotta col pensiero all'ambiente in cui ebbe a formarsi, viene ad essere l'immagine di modi di pen sare e di agire veri e reali, che intanto poterono essere espressi in modo così vigoroso ed efficace, in quanto furono a quell'epoca profondamente sentiti. Questo intanto è fuori di ogni dubbio, che i varii stadii del dramma corrispondono mirabilmente alla realtà dei fatti, quali dovet tero svolgersi in un'epoca patriarcale. Una popolazione vicina o uomini appartenenti alla medesima in vasero il territorio della comunanza, saccheggiandone i raccolti ed  Le formole grandiose del ius fociale ci furono conservate sopratutto da Livio, nel libro primo delle sue storie, ove descrive il processo per la dichiarazione di guerra al cap. 32; quello per la conclusione di un'alleanza al cap. 24; e quello per la deditio al cap. 38. Come è notabile la solennità di esse, così è degna di attenzione la coerenza che esiste fra queste varie procedure, le quali perciò appari scono come lo svolgimento di un medesimo concetto. Quanto alle divergenze circa la loro interpretazione e ai tentativi di ricostruzione di formole, che a parer mio appariscono del tutto complete, mi rimetto all'opera del FusinaTO, I Feziali ed il diritto feziale. G.  C., Le origini del diritto di Roma. [esportandone mandre ed armenti. La comunanza ne è profonda mente commossa, e il capo di essa, che è pur sempre il padre co mune di tutti, accompagnato da altri capi di famiglia, recasi in persona sul confine del territorio, che appartiene al popolo unde res repetuntur; quivi, chiamando in testimonio le divinità patrone della sua comunanza, quella che protegge il confine e il fas, protettore comune ditutte le genti, espone l'ingiuria e il danno sofferto, e questo ripete a chiunque incontri per la via, e da ultimo sulla piazza del villaggio, spergiurandosi di dire il vero. Questa parte preliminare chiamasi clarigatio, da questo dichiarare ad alta voce e ripetuta mente il torto sofferto, e repetitio rerum, dal chiedere la restituzione delmal tolto. Se le cose, che eglidomanda, sono restituite, egli ritorna con esse, e cogli uomini, che hanno compiuto il saccheggio, che gli sono consegnati, mediante la noxae deditio; ma se egli non ottiene soddisfazione, ha luogo l'obtestatio deorum, con cui chiede in testi monio le divinità del suo popolo e tutti gli altri Dei, che il popolo, di cui si tratta, è ingiusto e vienemeno al diritto (populum illum iniustum esse, neque ius persolvere). Viene infine l'ultima parte della dichiarazione di guerra, in cui il capo del popolo offeso, dopo essersi consultato coi suoi, dichiara al popolo offensore la guerra, get tando entro i confini del suo territorio un dardo intriso di sangue accompagnato dalle parole:  bellum indico facioque , e si ha così in un solo atto l'indictio belli e l'initium pugnae. È fuori di ogni dubbio, che questa procedura, eminentemente patriarcale, dovette assumere alcun che di artificioso per essere adat tata ad un popolo, come il romano: poichè il medesimo aveva una co stituzione politica molto complicata, in base alla quale i feziali, che si erano recati per la rerum repetitio, dovevano poi tornare per avere l'avviso dei padri, e forse anche la deliberazione del popolo intorno alla guerra, che trattavasi di fare; ma questo è certo, che anche così trasformata essa non perde le sue primitive fattezze. Tolgasi il pater patratus, che, anche essendo una finzione, richiama pur sempre l'im poneute figura del patriarca primitivo; tolgansi i feziali, che erano sacerdoti, i quali, al pari di ogni altro collegio sacerdotale del popolo románo, avevano solo per compito di custodire le tradizioni, relative al diritto di guerra e di pace, senza avere alcuna competenza intorno alla giustizia intrinseca della causa, per cui si addiveniva alla guerra o all'alleanza; e non si potrà a meno di riconoscere, che tanto la repetitio rerum, accompagnata dalla clarigatio, quanto l'obtestatio deorum, quanto infine l'indictio belli, sono altrettante procedure, che serbano il colore e il carattere di un età patriarcale e richiamano scene vive e reali, che dovettero seguire in quella primitiva condi zione di cose. Ciò però non toglie, che le procedure del diritto fe ziale, al pari delle antiche procedure dell'actio sacramento e simili, allorchè furono trapiantate nel seno di un organizzazione sociale di altra indole e natura, affidate alla custodia di un collegio sacerdotale, rese complicate dei varii congegni di una costituzione politica, che più non consentiva un perfetto adattamento delle medesime, assun sero di necessità un carattere alquanto artificioso, e apparvero come forme, vuote di contenuto e conservate solo per imitazione dell'an tico, da un popolo, che in sostanza si era già spogliato di ogni ca rattere patriarcale, ed era venuto nel proposito tenace di conquistare e di sottomettere le altre genti. Il diritto feziale tuttavia rimane an cora sempre ad attestare, che in un'epoca remotissima dovette già essere conosciuto un tentativo di amichevole accomodamento nelle controversie, non solo fra i privati, ma anche fra le varie genti. Era pero naturale, che questa sopravvivenza dell'epoca patriarcale fosse destinata a scomparire, a misura che diventava più difficile di pene trarne l'intima significazione. Tuttavia, anche in questa parte, appare sempre lo spirito conservatore del popolo romano, che continuò a conservare e a tenere in onore l'istituto dei feziali, anche allorchè il diritto, di cui essi erano i depositarii ed i custodi, era andato compiutamente in disuso. Intanto non pud essere negata eziandio una certa analogia fra questa procedura e quella, che abbiamo visto svolgersi nell'actio sacramento. Siccome però queste procedure non sono invenzioni di pontefici e di giureconsulti, come alcuni le avrebbero ritenute, ma sono forme tipiche di fatti, che un tempo dovettero seguire nella realtà: cosi, per essere il processo effettivo veramente diverso nel venire al duello od alla guerra fra due popoli, e nel sorgere di una controversia fra due privati, ne derivò, che le due procedure non poterono essere perfettamente conformi, comevorrebbe sostenere il Danz, ma dovettero di necessità riuscire diverse. Nell'actio sa cramento noi abbiamo la storia di una controversia fra due capi di famiglia, i quali, stando già per venire alle mani, piuttosto che ab bandonarsi alla forza ed alla violenza, accettano l'interposizione di una persona autorevole, scommettendo di essere dalla parte della ragione e chiamando lui a giudice della scommessa. Fra due genti 164 invece non può esservi altro giudice che la divinità, e quindi, dopo aver reclamato il mal tolto, è questa, che chiamasi in testimonianza del l'ingiustizia, che quel popolo ha commessa, e a nomedella medesima divinità gli si dichiara la guerra  extremum remedium expedien darum litium . Quello è il processo, che si è seguito per strappare i contendenti alla privata violenza e per indurli ad accettare l'au torità di un arbitro o di un giudice: questo è il processo, che deve seguirsi prima di cedere alla triste necessità della guerra. Che poi vi fossero buone ragioni, perchè una procedura solenne precedesse una dichiarazione di guerra, appare dalle dure conseguenze, che il consenso delle genti aveva attribuito al diritto di guerra. Questa nel periodo gentilizio era un vero duello fra due popoli, che non doveva cessare, finchè uno non avesse portato nel proprio tempio le spoglie opime dell'altro. Era guerra di uomini e guerra anche fra gli Dei dei due popoli, come lo provano le for mole che ci furono conservate, con cui quel popolo, che faceva delle stipulazioni e dei contratti  do utdes  anche cogli Dei, cercava di attirare a se il favore delle divinità del popolo, con cui era in guerra. Una volta poi, che questa era intrapresa ben potevasi dire, che la guerra diventava lo stato naturale dei due popoli; perchè se si tol gono le tregue (induciae), o per seppellire imorti o a causa della cattiva stagione, la guerra si continuava finché non si veniva ad un trattato di pace, o non si avverasse la dedizione di uno dei popoli in guerra. La deditio era per un popolo ciò, che per un privato il darsi a [È mirabile lo sforzo di sottigliezza fatto dal dotto e compianto Danz, prof. a Iena, per trovare una identità, che non esiste. I suoi ragionamenti sono riportati dal Fusinato nell'opera più volte citata. Intanto tutto questo sforzo di acutezza è ancor esso una conseguenza dell'aver ritenuto il diritto primitivo di Roma, e quindi anche il diritto feziale, come una costruzione essenzialmente formale e non basata sulla realtà dei fatti. Se invece si ritenga, che tutto il diritto primitivo di Roma dovette in altri tempi essere up complesso di reali ed effettive procedure, non si potrà certo pretendere che l'actio sacramento e l'indictio belli, avendo com piuto un ufficio diverso, potessero essere pienamente identiche fra di loro. Quanto alle loro analogie esse sono facilmente spiegate, stante l'indistinzione fra il diritto pubblico e privato,durante il periodo gentilizio. Queste formole ci furono conservate da MACROBIO, Saturn., il quale dice di averle ricavate da un libro antichissimo di un certo Furio (cuius dam Furii), che l'HUScake ritiene possa essere un A. Furio Anziate, scrittore di diritto sacro e di annali in versi. Esse sono riportate dall' HUSCHKE, Iurisp. an teiust. quae sup., mancipio, cioè un perdere famiglia, patria, territorio, religione, libertà e non avere altra speranza, che quella della clemenza del vincitore. Erano le sue divinità, che l'avevano abbandonato, e a lui non rimaneva, che di accettare rassegnato la propria sorte, entrando in quella classe dei vinti, che formava un eterno dualismo con quella dei vincitori. Che anzi i Romani applicavano anche a se stessi quel medesimo diritto di guerra, e fu soltanto colla fin zione del diritto di postliminio, che riuscirono ad attribuire effi cacia ad atti, che il cittadino romano aveva compiuto, mentre era prigioniero di guerra, e a fare astrazione dal tempo, che egli aveva trascorso in tale qualità presso il nemico. Sono queste dure conseguenze del diritto di guerra, che spiegano quanto dovesse essere profondo il solco, che erasi venuto scavando fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, e come fra essi non potesse esservi, nè comunione di matrimonii, nè di reli gione, salvo dopo una lunga convivenza nei quadri dell'organizza zione gentilizia, in cui i vinti formarono la classe dei servi, dei clienti e per ultimo quella dei plebei, mentre i vincitori costituirono quella dei padri, dei patroni e dei patrizi. Intanto di tutto questo periodo, in cui le genti italiche vennero elaborando la religione, il diritto, la famiglia, le istituzioni, il co stume, non un solo nome proprio è sopravvissuto: dei veri grandi uomini, dei veri fondatori di una convivenza sociale non si conosce nè la patria, nè il nome, nè l'epoca precisa, in cui siano vissuti; ma se la memoria degli uomini è perita, sopravvissero perd le isti tuzioni e tutti i concetti fondamentali, che costituirono poi la base della futura grandezza di questi popoli. Fin qui del patriziato e delle sue istituzioni, di cui dovette essere lungo il discorso, perchè era lungo il suo passato; ora importa stu diare le condizioni della plebe, la quale se non ha per sè il passato, dovrà perd avere una gran parte nell'avvenire della città. La formola della deditio ci fa conservata da Livio, I, 38. È notabile: che in essa intervengono anche i Feziali; che si domanda se il popolo che fa la deditio è in sua potestate (il che prova che un popolo, al pari di una persona, poteva essere sotto la potestà di un altro); e che è serbata affatto la forma contrattuale della stipu lazione:  Deditisne vos populum Conlatinum, urbem, agros, aquam, terminos, de  lubra, utensilia, divinaque humanaque omnia, in meam populique romani ditio  nem? – Dedimus. At ego recipio . Le cose premesse intorno all'organizzazione ed alle istituzioni proprie delle genti patrizie ci pongono finalmente in condizione di prendere in esame la questione della origine della plebe e della sua posizione giuridica di fronte al patriziato negli inizii della comu nanza romana. La genesi di questo elemento, che, poco importante dapprima, fini per esercitare tanta influenza sull'avvenire della città, è certo il più importante problema della storia primitiva di Roma, e quindi si comprende che gli autori tutti siansi travagliati intorno al medesimo ed abbiano anche proposto opinioni compiutamente di verse. Sonovi alcuni, fra i quali il Lange, che vorrebbero rannodare l'origine della plebe alla caduta di Alba e alla conquista di altre città latine, la cui popolazione sotto Anco Marzio sarebbe stata tras portata a Roma. Certo un tale avvenimento non potè a meno di avere grande importanza per accrescere il numero ed assicurare l'avvenire della plebe romana; ma egli è impossibile riconoscere in questo fatto l'origine primitiva della plebe, dappoichè, secondo la tradizione, la medesima sarebbe già esistita all'epoca della prima fondazione di Roma; cosicchèRomolo prima e Numa dappoi già avreb bero preso dei provvedimenti per l'ordinamento di essa.L'enumerazione delle varie opinioni circa l'origine della plebe colla indicazione degli autori, che le professano, può vedersi nel Willems, Le droit public romain, 31, e nel Bouchè-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, 11, né 3; come pure nell'opera, ancora in corso di pubblicazione, del prof. LANDO LANDUCCI, col titolo: Storia del diritto romano dalle origini fino a Giustiniano. Corso scola stico. Padova, 1886, 274; opera che,mentre nel testo offre riassunti i risultati, a cui son pervenuti gli studii sulla storia del diritto romano, nelle note porge no tizia agli studiosi della ricchissima letteratura sull'argomento.  Il Lange, Histoire intérieure de Rome, I, 56 e segg., tratta largamente la questione e considera la plebe primitiva di Roma, come una moltitudine di pe regrini dediticii, il cui nucleo più importante sarebbe uscito dalle città latine. A suo avviso, essa è dapprima affatto estranea al popolo delle curie, la quale opinione è pure seguita dal KarlowA, Römisches Rechtsgeschichte] Non può parimenti ammettersi col Vico, che la plebe fosse origina riamente costituita da clienti ammutinati contro l'ordine dei padri, in quanto che, durante il periodo regio, la plebe non trovasi an cora in condizioni tali da impegnare la lotta col patriziato; lotta che, sebbene siasi forse iniziata al tempo dei re, cominciò solo ad essere argomento di racconto e di storia col periodo repubblicano. A ciò si aggiunge, che anche durante la lotta i clienti ed i plebei appariscono in opposizione fra di loro, comeappare dai richiamidella plebe contro la clientela, che costituiva la forza maggiore dell'or dine patrizio. Tuttavia questo fatto, che condusse taluni a con siderare la plebe e la clientela, come due termini inconciliabili ed opposti fra di loro, non ha impedito, che più tardi sianvi state delle famiglie, che originariamente erano in condizione di clienti, e che poi il quale considera anzi la plebe comeuna popolazione residente fuori della cerchia della Roma primitiva, e nota che il Celio, l’Appio e il Cispio, secondo una osservazione stata fatta di recente, hanno un nome identico a quello proprio di genti plebee. Anche il Voigt, Die XII Tafeln, I, 258, viene alla conclusione che i plebei non solo non partecipassero alle curie; ma che essi costituissero una corporazione distinta, la quale, dopo l'istituzione del tribunato della plebe, si sarebbe organizzata nei comitia tributa. La corporazione esercitava sui suoi membri un potere di coerci zione, ne quid ex publica lege corrumpent. Il suo magistrato era il tribunus plebis; al modo stesso che i suoi giudici non sarebbero stati dapprima i centumviri, ma i decemviri, che sarebbero stati tratti dalla plebe. È quindi questa l'opinione, che contrappone più apertamente il populus e la plebes, e ci fa assistere alla lenta fu sione dei due elementi, anche dopo che entrarono a formare parte della stessa comu. nanza. Questo è certo, e cid apparirà meglio a suo tempo, che quella singolare isti tuzione del tribunato della plebe, che non riesce mai ad inquadrarsi perfettamente nella costituzione politica di Roma, dimostra abbastanza, che se colla legislazione decemvirale i due ordini cominciarono ad essere governati da un comune diritto; essi continuarono però ancora per lungo tempo a costituire due classi sociali com piutamente distinte, e recarono un contributo molto diverso sia nello svolgimento della costituzione politica, che in quello del diritto privato di Roma. Cfr. al riguardo PADELLETTI, Storia del diritto romano, 19, e la nota del prof. Cogliolo, in cui pare che l'annotatore si scosti dall' opinione certamente troppo recisa del Padel LETTI, il quale sostiene che patriziato e plebe siano stati, fin dalle origini, ammessi a far parte della assemblea delle curie. Il luogo, in cui il V100 svolge più chiaramente questo suo concetto, è nella prima Scienza nuova, lib. II, Cap. XXXII, dove scrive:  che le prime repubbliche sorsero dagli ammutinamenti dei clienti, attediati sempre di coltivare i campi per li signori, dai quali essendo fino all'anima malmenati, gli si rivoltarono contro; e dai clienti così uniti sorsero le prime plebi; onde, per resister loro, furono i nobili dalla natura portati a stringersi in ordini : Di qui appare, che anche il Vico fa rimontare l'origine della plebe ad epoca anteriore alla formazione della città. 168 recarono un contributo potente alla plebe nella sua lotta col patri ziato; donde si può argomentare, che anche nella plebe primitiva possono essere entrati degli antichi clienti, che per circostanze di varia natura erano stati prosciolti dal vincolo della clientela. Cosi stando le cose, ha molto del verosimile l'opinione del Mommsen, che in qualche parte si accosta a quella del Vico, secondo cui il nucleo primitivo della comunanza plebea si sarebbe venuto formando per mezzo di clienti, che di fatto si trovavano svincolati dal loro patrono per l'estinzione della gente, da cui essi dipendevano. Se non che si presenta ovvia l'osservazione, che quando questo fosse stato il solo mezzo per costituire la plebe, la medesima diffi cilmente avrebbe potuto, fin dal periodo regio, prendere così grandi proporzioni da imporsi al patriziato e farsi accogliere nella città. Quindi è, che l'opinione del Mommsen trova forse un opportuno compimento nella teoria del Niebhur, il quale, tenuto conto del modo, in cui le comunanze plebee si erano formate in condizioni sto riche analoghe a quelle in cui trovavansi i primitivi stabilimenti delle genti patrizie, venne a considerare come una legge storica costante, quella per cui accanto ad uno stabilimento di casate pa trizie, chiuso e fortificato in sè stesso, formasi naturalmente una specie di comunanza plebea; la quale, senza partecipare dapprima agli onori, ai suffragi, e ai matrimonii della città patrizia, pud tut tavia giungere ad una certa indipendenza dalla medesima, mediante il possesso e la coltura delle terre, e mediante l'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse . Tuttavia anche l'opinione del Niebhur  MOMMSEN, Histoire romaine, I, Chap. V, 103.Questa opinione fu poiadottata dal WILLEMS, Le Sénat de la République Romaine,Paris, 1878, 15.  Ritengo che anche oggi il Niebhur sia l'autore, che è pervenuto a studiare con vedute più larghe l'origine della plebe. Di regola esso è annoverato fra coloro, i quali ritengono che la plebe sia stata composta delle popolazioni vicine a Roma, state dalle medesima sottomessa. Tale è, ad esempio, l'opinione, che gli è attribuita dal WILLEMS dal Bouchè-LECLERCQ, op. e loc. cit. La lettura invece del capitolo intitolato:  La commune et les tribus plébéiennes  della Histoire romaine, mi ha convinto che il NIEBHUR si è fatta una idea più larga della questione. Le conquiste, secondo lui, hanno bensì contribuito ad accrescere e a trasformare la plebe romana, sopratutto coll'incorporazione delle popolazioni latine; ma intanto essa già preesisteva nelle stesse tribù primitive, costituiva una specie di vera comunanza separata e distinta dal patriziato, composta mediante l'ammessione di cives sine suffragio, e di clienti rimasti senza patrono (op. e loc. cit., 149). Tuttavia misia pur lecito di constatare, che l'autore, il quale ha meglio compreso quel carattere 169 lascia ancor sempre senza spiegazione quello stato di inferiorità e di abbiezione, pressochè servile, in cui una parte almeno della plebe trovasi di fronte al patriziato negli inizii di Roma; cose tutte, che non si comprenderebbero quando si trattasse di possessori e di cul tori di terre, che fossero stati sempre indipendenti dal patriziato. 137. Tutte queste considerazioni mi confermano nell'opinione già altrove manifestata, che il fenomeno della formazione primitiva della plebe debba cercarsi nella sovrapposizione delle genti italiche di origine aria sovra altre razze già preesistenti. In quel periodo di privata violenza, che non dovette essere dissimile da quello, che ebbe poi ad avverarsi, allorchè le razze germaniche invasero l'Impero, gli elementi in urto ed in lotta fra di loro dovettero dividersi in due classi, cioè, in quella dei vincitori e in quella dei vinti; in quella di coloro, che erano tenuti compatti dalla potente organizzazione genti lizia, e in quella di coloro, che non erano ancora cosi progrediti nella loro organizzazione domestica e sociale. Quelli costituirono la classe dominante dei padri, dei patroni, dei patrizii e si vennero sempre più fortificando nella loro ferrea organizzazione gentilizia, e tentarono di fare entrare nei quadri della medesima anche la classe dei vinti, ponendola nella condizione subordinata di servi e di clienti. È in quest'epoca di lotta e di conflitto, che è mestieri di cercare l'o rigine prima di quella distinzione di classi, che si trova agli inizii della comunanza romana; al modo stesso, che è nell'epoca feudale, che deve essere cercata l'origine di quelle distinzioni di classi, le cui traccie simantennero a lungo dappoi, e la cui lotta diede eziandio origine al movimento democratico odierno. Per trovare quindi la prima origine della distinzione converrebbe poter scomporre le po polazioni italiche primitive, conoscere le stirpi diverse da cui esse provennero, e determinare la posizione, in cui i vinti ebbero a tro varsi di fronte alla potente organizzazione dei vincitori; problemi tutti, per la cui risoluzione ci mancano per ora gli elementi necessarii. particolare della città antica, per cui essa suppone il concorso di due elementi, di cui l'ano superiore e l'altro inferiore, le cui lotte danno vita e movimento alla città, è certamente il nostro Vico. La città patrizia non è ancora che un ordine e una cor porazione di padri; mentre è la città patrizio-plebea, che ci porge lo spettacolo della lotta tra quelli, che intendono sopratutto a conservare l'antico ordine di cose, e quelli che abbisognano di innovare per migliorare la condizione presente. Forse tali indagini potrebbero anche condurre al risultato, che fra le varie comunanze di villaggio ve ne erano di quelle dedite alle armi ed organizzate per genti e che come tali appartenevano al patriziato e costituivano una specie di aristocrazia territoriale;mentre poi ve ne erano delle altre, prive di tradizioni, dedite soltanto al lavoro dei campi e all'esercizio delle professioni e dei mestieri di versi (quale sembra essere stato ad esempio il vicus Tuscus), che costituivano delle comunanze plebee. Quest' ultime naturalmente dovevano trovarsi in una specie di dipendenza e pressochè di vas sallaggio, rimpetto alle prime; il che potrebbe spiegare in certi con fini quei forcti ac sanates, di cui ci parla Festo, che comprende vano le popolazioni superiori ed inferiori a Roma e trovavansi in dipendenza rimpetto alla medesima, la quale tuttavia già accomunava ad essi una parte del proprio diritto, cioè il ius nexi manci piique. Tuttavia, se ciò può esser vero delle plebi rurali, questo si può affermare con certezza, che certamente un buon dato della plebe primitiva e sopratutto della plebe urbana di Roma ebbe ad uscire dalla classe, che trovavasi in condizione inferiore nell'orga nizzazione gentilizia. Cid soltanto può spiegare la superiorità incon trastata del patriziato e l'abbiezione pressochè servile di una parte della plebe, che tradisce ancora quel sentimento di rispetto e di paura, che ha il servo affrancato per il suo antico padrone .  La questione intorno alla condizione dei forcti ac sanates è una delle più difficili, che presenti la storia primitiva di Roma, per la povertà ed anche la muti lazione dei passi degli autori, che vi si riferiscono (V. Festo, vº Sanates, quale è riportato nel Bruns, Fontes, 364, nella Va edizione, pubblicatasi in quest'anno dal Mommsen). Io credo tuttavia, che la medesima, dandoci un concetto del tratta mento giuridico, che i Romani usavano colle popolazioni circostanti a Roma, possa porgerci dei dati preziosi per argomentare quale fosse la condizione della plebe, du rante il periodo esclusivamente patrizio. Rimetto quindi l'esame della questione al Capitolo I di questo stesso libro.  Ecco quindi la conclusione, a cui parmi di poter venire. Nella plebe primitiva di Roma voglionsi distinguere due correnti: una uscita dalla stessa organizzazione gentilizia forma il primo nucleo di una popolazione, che ha sede contigua allo stabili mento patrizio, ma non è più compresa nei quadri del medesimo; l'altra invece, per conquiste o per immigrazione, viene ad incorporarsi in questo nucleo primitivo, e l'accresce per modo da richiamare l'attenzione sopra di esso. Questi due elementi appariscono accennati dalla tradizione stessa intorno alla plebe primitiva, poichè altra è la plebe, che già appartiene alle varie tribù, e che viene ancora ad essere col locata sotto la clientela dei padri, ed altra è la plebe, che la tradizione dice rac --. La formazione poi di questa plebe dovette cominciare, allorchè i vincoli dell'organizzazione gentilizia già cominciavano a rallentarsi. Ciò accadde quando alla gente, che era ancora stretta insieme dal vincolo della discendenza, cominciò a sovrapporsi la tribù; la quale comprendendo elementi, che potevano essere di origine diversa, fini per non riuscire sempre a chiudere nei suoi quadri, consacrati dalla religione, tutti gli elementi, che si venivano affollando intorno alla medesima. Cominciò cosi a formarsi al di fuori dell'organizza zione gentilizia, che era l'unica riconosciuta dalle genti patrizie, una moltitudine ed una folla, il cui primo nucleo può essere uscito dal seno stesso della medesima, ed essere anche costituito da clienti rimasti senza patrono; al modo stesso, che le comunanze popolari del medio Evo erano in parte costituite da famiglie, che un tempo erano vassalle del feudatario. Siccome però nell'epoche primitive ciò che è più difficile è il creare l'elemento novello, mentre il mede simo, una volta formato, può poi accrescersi in varie guise ed acco. gliere tutti coloro, che, per questa o quella considerazione, si trovano spostati nell'anteriore organizzazione: cosi questo primo nucleo, dopo essersi staccato dalla stessa organizzazione gentilizia, venne richia mando e quasi attraendo a sè rifugiati di altre comunanze; servi fuggitivi; immigranti, che non amavano di porsi sotto la protezione del patriziato, o che, per motivi religiosi o di altra natura, non erano ammessi alla medesima; popolazioni di vinti, che perdevano territorio, religione e famiglia; abitatori di vici, che si erano dati all'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse; cultori di terre, che di fatto si erano stabiliti sul territorio situato nelle circostanze dello stabilimento patrizio; popolazioni stabilite superiormente od inferiormente a Roma, a cui per necessità di commercio si dovette dapprima accordare quel ius nexi mancipiique, di cui parlano le dodici Tavole, quanto ai forcti ac sanates. Ciò spiegherebbe anche come queste popolazioni, il cui nome era diventato inesplicabile per gli stessi antiquarii romani, abbiano col tempo perduta la loro an tica denominazione, in quanto che, a misura che estendevasi la do minazione romana, tutte queste popolazioni vennero ad essere com prese nella plebe, e non fu cosi più il caso di attribuire ad esse una colta mediante l'asilo offerto da Romolo. È parlando di questo asilo, che Livio, I, 8, ebbe a scrivere:  E. (asylo) ex finitimis populis, turba omnis, sine discrimine liber seu servus esset, avida novarum rerum, perfugit; idque ad caeptam magnitu dinem roboris fuit . 172 speciale posizione giuridica. Per tal guisa il nucleo primitivo si venne ingrossando, e quando le genti patrizie volgero lo sguardo at torno a sè videro in esso una plebs, che nel significato primitivo suona moltitudine o folla. Il nome pertanto, che le fu dato, corrisponde alla impressione, che questa folla deve aver fatto sopra una classe di uomini, che non conosceva altra organizzazione fuorchè la gentilizia. Le genti infatti non potevano scorgere in essa dapprima, che ceti di uomini riuniti in una guisa, che per esse non aveva quel carattere religioso e sacro, che avevano tutte le loro istituzioni. Non potevano infatti chiamarla un populus, perchè non era nè divisa in curie, nè aveva consiglio di anziani, nè aveva un magistrato, che la diri gesse, nè era insomma un  coetus hominum iuris consensu et uti. litatis comunione sociatus , e quindi la chiamarono plebes. Di qui il dualismo fra populus et plebes, che trovasi in alcune formule arcaiche; dualismo, che per essere l'effetto di cause naturali viene a presentarsi non solo in Roma, ma in tutte le comunanze delle genti italiche. Di queste tuttavia, se ne hanno di quelle, in cui quest'elemento è tenuto in umile stato, come sarebbero le città etrusche, ed altre invece, in cui esso già ottiene qualche concessione, quali sarebbero appunto le città latine. Il primo senso del patriziato per quest'elemento novello, che prendeva ad esistere fuori dei quadri della propria gerarchia, dovette essere di un disprezzo non dissimile da quello, che più tardi i patrizii manifestarono per quei concilia plebis, che pur dovevano trasformarsi nei comizii tributi; ma al lorchè il numero di questa plebe venne facendosi sempre più grande, si comprende come questo elemento dovesse di necessità essere te nuto in conto, sopratutto in una comunanza di carattere belligero, quale era la romana. 140. Narra infatti la tradizione, per bocca almeno di Dionisio e di Cicerone, che il fondatore della città avrebbe collocata la plebe nella clientela del patriziato, e incaricato i padri di farle assegnidi terre, a titolo di precario, non dissimili da quelli, che essi facevano ai clienti. In verità per una città eminentemente patrizia, come era Roma primitiva, il miglior modo per organizzare la folla, che aveva seguito l'esercito del fondatore o che erasi accalcata intorno allo stabilimento da essa fondato, era quello di farla entrare nella ge rarchia dell'organizzazione gentilizia. Fin qui pertanto la plebe non è ancora veramente tale, ma è costretta ancora nei quadri della clientela. Pero a misura che la fortuna nascente di Roma od 173 anche l'apertura stessa di un asilo ai rifugiati e agli esuli dalle altre città (questo vetus urbis condentium consilium, che non è poi cosi improbabile, come ebbe a farlo la critica storica ) cominciarono a richia mare nei dintorni della città una quantità di individui e di capi di famiglia di provenienza diversa; anche la clientela venne ad essere insufficiente per comprendere nei proprii ranghi questa folla di uo mini, di cui una parte potè forse essere di origine ellenica ed etrusca, ed avere tradizioni e credenze diverse da quelle dai fondatori della città. Era stata la lunga coabitazione come servi e famuli nella famiglia, che nell'anteriore organizzazione gentilizia aveva servito a preparare la clientela delle genti patrizie. Questa preparazione invece mancava nel nuovo elemento, che accorreva nei dintorni di Roma; per tal modo l'antica istituzione religiosa ed ereditaria della clientela venne ad essere inadeguata e disacconcia al bisogno ed inetta a dare un'organizzazione al nuovo elemento. Quasi si direbbe che, collo svolgersi della città, l'antica forma, sovra cui si era modellata l'anteriore organizzazione sociale, che colla tribù già erasi alquanto sgretolata, venne a rompersi affatto. Quindi mentre tutto prima era compreso nella gerarchia gentilizia, colla città in vece comincia a farsi palese e a colpire lo sguardo questo ele mento novello, che guadagna e richiama a sè tutto ciò, che sfugge all'antica organizzazione. Dapprima il fatto dovette colpire l'ordine stesso dei padri, e loro parve strano di dover riconoscere, che l'or ganizzazione gentilizia più non potesse bastare ad ogni emergenza. Ma col tempo fu necessità arrendersi all' evidenza, e l'elemento nuovo non poteva essere trascurato per una comunanza come la Romana di carattere eminentemente belligero, e che abbisognava perciò di un contingente sempre nuovo per riempire le file del proprio esercito. Sopratutto il nuovo elemento doveva apparire im portante per il re, il quale da una parte poteva trovare in esso un sussidio potente per la formazione dell'esercito, e dall'altra, as sumendo la qualità di patrono non dei singoli plebei, ma dell'in tiera classe, poteva anche trovare in essa un appoggio per bilanciare la soverchia influenza dei padri. Questi infatti, memori, che il re era il loro eletto ed il rappresentante, a cui avevano affidato i proprii auspicia, lo volevano naturalmente ligio ai proprii interessi e mira vano a valersi di esso per trasportare anche nella città l'organiz zazione per genti e per tribù, per quanto la medesima male si accon ciasse alla nuova condizione.  Gli è questo il motivo, per cui noi vediamo, secondo la tra dizione, prendersi dai re, che vengono dopo, una serie di provve dimenti nell'intento di organizzare la plebe. Mentre Romolo, dopo avere, secondo Dionisio, affidato alla plebe la coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, si limita a porla sotto la clientela dei padri, e si vale cosi di un istituto vecchio per comprendere un ele mento nuovo , Numa invece già prende quanto alla plebe due importantissimi provvedimenti. Il primo è quello di distribuire direttamente ai più poveri, che sono appunto quei tenuiores, di cui parla Festo, e che appartengono alla plebe, l'ager conquistato da Romolo, e che era venuto ad ac crescere l'ager publicus; il quale provvedimento produsse l'effetto, che la plebe da questo momento, almeno in parte, cesso di essere sotto il patronato dei patres. Però siccome i cambiamenti sono e devono essere lenti; cosi al patronato dei patres sembra sottentrare una specie di patronato del re, il quale fa alla plebe quegli assegni di terre, che dapprima erano affidati ai patres. Forse può darsi che dapprima questi assegni di terre, fatti dal re alla plebe sull'ager publicus, fossero soltanto a titolo di semplice precario, come quelli che erano fatti dai patres ai clienti sull'ager gentilicius; ma in tanto è già un passo importante per la plebe quello di non dipen dere più direttamente dai capi delle genti, ma di essere sotto il patronato o almeno sotto la protezione diretta del re, custode e ma gistrato della città. L'altro provvedimento, ricordato da Plutarco, e che egli dice essere stato altamente lodato, fu quello per cui Numa avrebbe di  Dion., 2, 9:  Romulus postquam potiores ab inferioribus secrevit;mox legem tulit et quid utrisque faciendum esset disposuit: patricii sacerdotiis et magistra tibus fungerentur et iudicarent, plebeiï vero agros colerent et pecus alerent etmer. cenarias artes exercerent  (Bruns, Fontes, 3 ).  Quanto a questa ripartizione fatta da Numa, vi ha divergenza fra CICERONE, De rep., II, 14, secondo cui la ripartizione si sarebbe fatta viritim ai cittadini in genere, mentre DIONISIO vuole che siasi fatta ai più poveri, II, 62. Cfr. Bongur, Storia di Roma, I, 85. - Per quello che si riferisce al patronato del re sopra la plebe, ritengo col KARLowa, che ilmedesimo non possa essere preso nella signifi cazione giuridica attribuita al vocabolo (Röm. R. G., I, 63 ). Ciò tuttavia pon toglie, che la plebe, dopo essersi resa indipendente dal patriziato, abbia trovato nel re il suo protettore naturale, e siccome tale protezione non si comprendeva al lora che sotto la figura di clientela, così gli autori considerarono il re come patrono o la plebe come sua cliente. - stribuito quella parte della plebe, che era dedita alle arti manuali e all'esercizio delle professioni diverse, in corporazioni di arti e mestieri (collegia ), che furono nove: quella cioè dei suonatori di flauto, degli orefici, dei muratori, dei tintori, dei calzolai, dei cuoiai, dei fabbri, dei vasai e l'ultima di tutte le altre professioni, dando alle medesime proprie riunioni e i proprii riti. Vero è, che questo provve dimento ebbe ad essere posto in dubbio dalla critica e fra gli altri dal Mommsen, e che probabilmente i collegi, la cui formazione si attribuisce a Numa, potevano già esistere precedentemente, sopra tutto nel vicus Tuscus, la cui popolazione fu una delle prime ad essere compresa nella plebe romana: ma non è punto improbabile che, come erasi cercato di provvedere alla plebe dedita alla coltura delle terre, cosi si cercasse di dare un'organizzazione alla plebe dedita agli esercizi delle arti e professioni diverse, o di consacrare almeno l'organizzazione, che già esisteva precedentemente o che tro vavasi in via di formazione. Non è quindi il caso di respingere la tradizione, dal momento che non vi ha nulla di meglio da sosti tuirvi; almodo stesso che è meglio accettare anche le figure alquanto leggendarie dei re, piuttosto che sostituirvi qualche cosa, che non ha neppur più della leggenda, la quale è pur sempre intessuta sopra un fondo di vero. Intanto questo si può affermare con certezza, che fin dagli inizii di Roma cominciò ad apparire un dualismo nella plebe ro mana, che, accennato fin dall'epoca di Romolo con affidare alla plebe la coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, già comincia a delinearsi con Numa, il quale ad una parte della plebe fa assegni di terre e l'altra distribuisce per arti e mestieri, e che più tardi finisce per accentuarsi molto più recisamente. Havvi infatti in Roma, fin dai proprii esordii, una plebe rurale, composta di piccoli possidenti, ed  PLUTARCO, Numa, 17:  De ceteris eius institutis maximam admirationem  habet plebis per artificia distributio; haec vero fuit: tibicinum, aurificum, fabrorum  tignuariorum, tinctorum, sutorum, coriariorum, fabrorum aerariorum, figulorum;  reliquas artes in unum cöegit, unumque ex iis omnibus fecit corpus; consortia et < concilia et sacra cuique generi tribuens convenientia  (V. BRUNS, Fontes). L'autore, che sembrava porre in dubbio questa distribuzione della plebe in arti e mestieri, sarebbe lo stesso MOMMSEN, De collegiis ac sodaliciis; Liliae, 1843, citato dal MUIRHEAD, Histor. Introd., 11; ma pare che nella Storia Romana accetti la ripartizione stessa come una verità di fatto. - - una plebe, composta di artieri, commercianti, esercenti le arti e le professioni diverse. L'ideale della prima è quello sopratutto di mu tare le sue possessioni di terre in una proprietà indipendente, che la ponga in condizione di provvedere al sostentamento di sè e della propria famiglia; quello insomma di avere quell'heredium o man cipium, che pur appartiene al capo della famiglia patrizia. A questa plebe, che non abita nelle mura di Roma, ma nelle circostanze di essa, dovette probabilmente dalla città patrizia essere riconosciuto quel diritto, che più tardi da Roma fu pure riconosciuto alle popo lazioni vicine, che sono indicate col nome di forcti ac sanates, cioè il ius nexi mancipiique. Cid pud essere argomentato da cid, che Roma di regola suole seguire gli stessi processi in condizioni anaa loghe e quindi è probabile, che questa plebe, che risiedeva fuori della città, e costituiva in certo modo una popolazione circostante alla medesima, fosse trattata nel modo stesso, in cui da essa furono poi trattate le altre popolazioni vicine. L'altra parte della plebe invece, mancando di altra organizzazione, cerca di rafforzarsi, come farà più tardi anche la popolazione commerciante dei comuni del Medio Evo, mediante le corporazioni di arti e di mestieri. Quelli, che apparten gono alla plebe rurale, convengono in Roma i giorni di mercato per vendervi i loro prodotti, e per conoscere anche i provvedimenti, che siano presi nell'interesse comune; mentre gli altri, che apparten gono alla classe dei piccoli commercianti ed artieri, formano fin d'allora il primo nucleo di quella plebe urbana, nel seno della quale si formerà più tardi quella forensis factio, che già comincia ad apparire sotto la censura di Appio Claudio, e getta il discredito sulle tribù urbane. 143. Già erasi così delineata la distinzione fra plebe rurale ed urbana, quando sopraggiunse un avvenimento, il quale diede una grande compattezza all'organizzazione della plebe romana, e mentre ne accrebbe il numero e la potenza, le diede anche un nuovo indi rizzo e ne assicurò l'avvenire. Questo avvenimento fu l'aggregarsi alla plebe romana della parte più povera della popolazione di Alba, la cui distruzione è attribuita a Tullo Ostilio, e quella del trasporto od anche, come pare più probabile, della riunione alla plebe di Roma per opera di Anco Marzio, della popolazione di varie città latine da lui conquistate. Questo nuovo contributo venne ad accrescere la forte plebe rurale, vivamente affezionata al fondo da essa coltivato, e disposta a porre la vita per la difesa di esso, e fece entrare nella - 177 plebe un elemento, la cui origine era analoga a quella del patriziato, e che aveva già un'organizzazione domestica, non dissimile da quella del medesimo. Fu il rifiuto del corpo chiuso del patriziato primitivo di Roma di ricevere nel proprio seno queste famiglie delle città la tine, che assicurò l'avvenire della plebe romana, incorporando in essa un elemento, che portò nella lotta per il pareggiamento giuri dico e politico una tenacità e perseveranza, non dissimili da quelle, che contraddistinguono il patriziato romano. Di qui la conseguenza, che come era stata latina l'organizzazione del patriziato romano, poichè gli elementi sopraggiunti erano entrati nei quadri della città latina; così fu sopratutto latina la massa più forte della plebe ro mana, quella massa, di cui una buona parte entro più tardi a costi tuire la nuova nobiltà. Senza questo elemento la plebe primitiva, di origine diversa e che in parte era forse di origine servile, avrebbe molto probabilmente continuato lungamente a mantenersi tale;mentre questo innesto di famiglie latine, che nel loro paese nativo tenevano già un certo grado, per cui loro dovette riuscire grave di vedersi respinte dai quadri dell'ordine patrizio, portò forza, organizzazione, tenacità nella plebe e ne assicurò l'avvenire, fino a che questo ele mento vigoroso e vitale non fini per uscire dalla plebe stessa, che aveva resa potente, e aggregandosi alla nobiltà abbandonò la plebe minuta agli spettacoli del circo e alle distribuzioni di frumento. 144. Per comprendere però un avvenimento di questa natura, importa farsi un'idea chiara della lotta, che vi era fra Alba da una parte e Roma dall'altra. Erano entrambe due città latine, cioè due centri di vita pubblica fra varie comunanze di villaggio, ed erano troppo vicine per poter coesistere. L'una o l'altra doveva cedere, e la conseguenza era per la soccombente di dover scompa rire come città e come urbs, per modo che le comunanze, che mettevano capo ad essa, dovessero invece fare capo a quella, che riusciva vittoriosa. Il patto quindi che, secondo la tradizione, ebbe ad essere suggellato fra i capi dei due popoli, con tutte le cerimonie del diritto feziale, era che, trattandosi di popoli fratelli, si dovessero rimettere al combattimento di tre per parte le sorti della guerra. Questo intento della guerra Albana è messo in evidenza dalle parole, che Livio, I, 27, attribuisce a Tullo Ostilio nella concione tenuta avanti ai due popoli prima di condannare allo squartamento Metto Fuffezio:  Quod bonum, faustum G.  C., Le origini del diritto di Roma. 12 178 La lotta quindi leggendaria fra Orazii e Curiazii era lotta di pre dominio fra le due città, la cui parentela era ricordata e riconosciuta, ed era una specie di giudizio di Dio per sapere quale dovesse preva lere: senza che occorra di sforzarsi col Lange a volere che il numero dei tre corrisponda alle tre tribù, e che il nome di Curiazi provenga dalle curie. Conseguenza dell'esito del duello fu, che la città soccombente perdette la propria esistenza separata e fu distrutta come urbs, e quindi le genti patrizie albane furono aggregate al patriziato romano, a cui si aggiunsero cosi i Tullii, i Servilii, i Quinzii, iGe ganei, i Curiazii, i Clelii, le cui genti pero, per essere sopraggiunte più tardi, furono poi collocate dallo stesso Tullo Ostilio o da Tar quinio Prisco nel novero delle gentes minores. Tutta la popolazione invece, che, nelle condizioni, in cui allora si trovava, non poteva entrare nel patriziato entro in massa nei ranghi della plebe, e una parte di essa, cioè la più povera, ebbe anche degli assegni di terre. Cid pure accadde, quando Anco Marzio vinse altre comunanze latine, e ne aggregò la popolazione alla plebe romana; il che fu dalla tradi zione espresso con dire, che Anco Marzio aveva trasportata a Roma la popolazione di quattro città latine . 145. È a questo punto pertanto, che la plebe acquista in Roma una vera importanza, e che viene ad essere indispensabile di trovare un modo per farla entrare, ancorchè a condizioni disuguali, nella cittadi nanza romana; tentativo cominciato con Tarquinio Prisco, e condotto a compimento da Servio Tullio. Mentre Tarquinio Prisco non riesce felixque sit populo romano ac mihi,vobisque, Albani; populum omnem Albanum Romam traducere in animo est; civitatem dare plebi; primores in patres legere: unam urbem, unam rempublicam facere .  Lange, Histoire intérieure de Rome, I, 35.  Questi fatti attestati dalla tradizione e da tutti gli storici rendono a parer mio non accoglibile l'opinione sostenuta con molta erudizione dal PANTALEONI nella sua Storia civile e costituzionale di Roma, lib. I, cap. 6, 97 a 113, Torino, 1881, secondo cui il partiziato romano sarebbe stato Sabellico, mentre la plebe sarebbe stata Latina. Questi fatti invece dimostrano, che la popolazione delle città latine era essa pure divisa in patriziato ed in plebe, cosicchè quel dualismo che presentasi in Roma già preesisteva nel Lazio. Del resto l'ipotesi del dotto au tore sarà poi presa in esame quando si tratterà della legislazione regia, Lib. II, cap. IV, discorrendo del contributo recato dalle varie stirpi italiche alle istituzioni giuridiche di Roma.  L'importanza grandissima per l'avvenire della plebe romana di quest' innesto 179 che a conglobare i rappresentanti di queste varie genti nei sacer dozii, nel senato e nell'ordine dei cavalieri, raddoppiandone il numero, e continua a lasciare la plebe nella condizione, in cui prima si trovava; Servio Tullio invece inizia una organizzazione novella, che può comprendere così nelle file dell'esercito, che nelle riunioni dei comizii quella plebe, che è già pervenuta a tale po sizione economica e sociale, da interessarla alla cosa pubblica. È da questo punto parimenti, che la plebe rustica di Roma comincia ad essere più apprezzata che la plebe urbana, e che principia ad avverarsi fra i due ordini la possibilità della formazione di un diritto comune ai medesimi. Il motivo di questo ravvicinamento deve anche essere riposto nel fatto, che le istituzioni del patriziato e quelle del nuovo elemento, aggiuntosi alla plebe, non erano a grande distanza fra di loro; poichè l'uno e l'altro avevano la medesima organizza zione domestica, ed oltre a ciò fra queste famiglie latine ve ne erano di quelle che un patriziato, meno esclusivo e geloso dei suoi privilegi, avrebbe potuto accogliere nel proprio seno. Ferma quest'origine della plebe e questa primitiva organizzazione della medesima, veniamo a ricercare quali fossero le istituzioni giu ridiche, che essa poteva possedere all'epoca, in cui entrò a far parte della comunanza romana. di forti popolazioni latine sulla plebe primitiva, in parte di origine servile, è un fatto riconosciuto da tutti gli storici. Cominciò a notarlo il NIEBHUR, e dopo di lui il Mommsen, il Lange e molti altri.  Nota molto accortamente a questo proposito il Gentile, Le elezioni e il bro glio, 142, che  quella nobiltà, che poscia fu chiamata nuova e che in gran parte esce di ceppo latino, non era tanto nuova, quanto sembra alla prima; perchè discendeva dalle vecchie aristocrazie di comunità italiche, venute ad aggregarsi allo stato romano, e che avevano aspirato agli onori in quella cittadinanza, a cui più o meno recentemente erano ascritte . Di qui la conseguenza, a cui egli allude a 150, che  la costituzione romana, eminentemente democratica nei principii, colla piena sovranità popolare nel nome, lasciava il reggimento della cosa pubblica, immobile nella mano di pochi . La posizione giuridica della plebe di fronte al patriziato. 146. Se posta questa origine della plebe e questa primitiva or ganizzazione della medesima, si domandasse ora in che consistesse la plebe all'epoca, in cui essa appare nella storia di Roma, sarebbe necessità di rispondere con una deffinizione di carattere negativo. La plebe infatti è negli esordii di Roma tutto quel nucleo di indi. vidui e di famiglie di origine diversa, che di fatto trovasi stabilita nel territorio romano, nei dintorni della città patrizia; ma che intanto è priva ancora di qualsiasi posizione giuridica, perchè non entra a far parte dell'organizzazione gentilizia. Essa è, come dice Gellio, quella parte di popolazione, che è stabilita di fatto sul suolo romano, ma in cui  gentes patriciae non insunt  ; o meglio an cora quella parte di tale popolazione, che, non essendo compresa nei quadri della organizzazione gentilizia, non può dapprima entrare nelle curie e negli ordini della città patrizia. Al modo stesso, che più tardi si chiamerà peregrinus chiunque non sia cittadino di Roma, o non sia in guerra con essa, e per passare anche ad un altro ordine di idee si chiameranno con Gaio nec mancipii tutte quelle cose, che non appartengono alla cerchia prima formatasi della res mancipii, e anche più tardi si diranno in bonis tutte quelle cose, che appar tengono ad una persona senza appartenerle ex iure quiritium; cosi alla domanda in che consista la primitiva plebe di Roma si pud solo rispondere, che essa è quell'elemento, che esiste accanto al po pulus, ma che non entra nei quadri di esso, consacrati dalla reli gione; quell'elemento, che esiste di fatto sul territorio della città patrizia, ma che non è compreso nell'organizzazione giuridica e politica di essa. Ora e sempre sarà questo il punto di vista, a cui si colloca il popolo romano, il quale ferma il suo sguardo sopra di sè, sopra il suo culto, sopra la sua religione, sopra la sua urbs, la sua civitas, sopra il suo diritto, e in base al medesimo classifica e dispone tutto il rimanente dell'universo, secondo la posizione, che esso tiene riguardo a sè e alle proprie istituzioni. Questo modo di  GELL., Noct. att., X, 21, 5. - 181 - procedere del resto non sembra esser proprio soltanto dei Romani, che chiamano tutti gli altri popoli hostes o peregrini; ma anche dei Greci, che hanno una sola qualificazione per tutti gli altri, che è quella di Barbari; anche dei cristiani del Medio Evo, che chia mano tutti gli altri col nome di infedeli; ed in genere sembra es sere proprio di tutte le stirpi Ariane, anche nell'Oriente, le quali cre. dono di avere il diritto di sovrapporsi a tutte le altre. Che anzi questo modo di procedere può anche ritenersi comune a tutto il genere umano, sopratutto nelle epoche primitive, in cui ogni popolo, chiuso in sè stesso, mal conoscendo il rimanente, giudica ed ap prezza ogni cosa, facendo sè il centro dell'universo. È sempre applicando questa logica superba, ma ad un tempo ingenua e del tutto conforme alla natura dell'uomo, che il popolo formato dalle genti patrizie, chiamò plebe tutto ciò, che non era compreso nei suoi ordini, cioè nelle sue genti e nelle sue curie, e che poscia il populus romanus quiritium, dopo che già comprende va la plebe, vide una folla e moltitudine di peregrini e di hostes in tutti quelli, che non erano compresi nei quadri della città romana. Di qui con seguita, che la definizione di quell'elemento, che è il solo ad essere tenuto in conto, implica eziandio la deffinizione negativa di quello, che ne costituisce il contrapposto. 147. Se quindi è solo il populus delle gentes, che possiede un diritto, ne verrà comeconseguenza, che la plebe non può negli inizii avere rimpetto ad esso che una posizione di fatto, e continuerà ad esser sempre in questa condizione, finchè il populus non le verrà facendo qualche concessione, o la plebe stessa troverà modo di ac costarsi all'organizzazione del populus, e di penetrare, sotto questo o quell'aspetto, nei suoi ordini e nei suoi quadri, consacrati dalla religione e tutelati dal diritto. La plebe insomma è un elemento, che ha una posizione di fatto, e che si viene avviando alla conquista di una posizione di diritto. Essa è nella stessa posizione, in cui saranno poi i Latini e gli Italici, allorchè formeranno già il grosso dell'e sercito romano, e intanto non saranno ancora ammessi alla cittadi.  Fo qui applicazione di un concetto del Vico, il quale certo vide molto addentro alla natura dell'uomo primitivo. Tale concetto costituisce anzi la prima degnità della sua Seconda scienza nuova, secondo cui:  L'uomo per l'indefinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sè regola dell'universo . Solo è a notarsi, che i Romani ciò non facevano per ignoranza,ma perchè veramente attri buivano a se stessi una superiorità sugli altri. 182 nanza romana: mentre questi ricorreranno in tale intento alla guerra sociale, la plebe ricorrerà invece alle lotte civili, finchè non avrà ottenuto il pareggiamento civile e politico. Qui, comenel resto, il processo della logica romana è sempre il medesimo; incomincia da tanti cerchi, che si vengono formando nell'interno della città, e che poi si vengono sempre più allargando, finchè non giungono a comprendere tutto l'universo conquistato dalla eterna città. 148. Ciò premesso si può comprendere, quale potesse essere lo stato delle istituzioni giuridiche presso la plebe primitiva di Roma. Esse erano istituzioni, che avevano un'esistenza di fatto: ma a cui il patriziato non annetteva effetti e conseguenze giuridiche. Tuttavia, anche considerate sotto questo aspetto, le istituzioni plebee non po tevano certo avere fra di loro un ' analogia, che possa paragonarsi con quella, che esisteva fra le istituzioni delle genti patrizie, la quale erasi fatta più intima, stante la loro partecipazione alla stessa co munanza civile e politica. Anzitutto si cercherebbero indarno presso la plebe quei concetti fondamentali, che abbiamo trovato cosi nettamente delineati presso le genti patrizie coi vocaboli di fas, di mos e di ius. Alla plebe invece non si applica dal patriziato che il vocabolo di usus, che riceve però presso di essa una larghissima applicazione. Per verità è coll'usus, che si vengono a rivelare esteriormente le unioni ma trimoniali della plebe, le quali non importano comunione delle cose divine ed umane. Parimenti è col mezzo dell'usus, che nelle consuetudini plebee potè avverarsi l'appropriazionedelle cose esterne. Non essendovi presso di essa quelle forme, che a giudizio del patriziato sono indispensabili per l'acquisto ed il trasferimento dei beni; così è solo, mediante l'usus, che appartenga ad una persona, a scienza e pazienza di tutti gli altri, che viene a manifestarsi non tanto la pro prietà, quanto la possessio, che dapprima tiene luogo di essa. In fine sarà eziandio, mediante l'usus, che, allorquando verrà a morire un capo di famiglia plebea, i suoi figli prima, e in sua mancanza i suoi congiunti ed anche i suoi vicini verranno a mettersi a possesso dei beni da esso lasciati; e avrà così origine quella singolare istitu zione dell'usucapio pro herede, che il buon Gaio trovava disonesta ed immorale, perchè non era coerente al principio dell'agnazione posto a fondamento della successione quiritaria. Tutto ciò insomma,  GAIO, Comm., II, 53, 54. 183 in cui predomina l'usus auctoritas (per usare l'efficacissimo voca bolo adoperato dalla legislazione decemvirale), piuttosto che il ius propriamente detto, tutto ciò che si fonda di preferenza sul fatto che sul diritto, è da ritenersi di origine plebea, e solo più tardi entrò a far parte del diritto quiritario sotto il nome di usucapio, di usureceptio, di possessio e simili. Cid spiega anche il motivo, per cui, allorchè la legislazione decemvirale attribuì carattere giuridico a queste istituzioni, essa abbia dovuto imporvi delle limi tazioni e prescrivere delle condizioni, alle quali poi si aggiunsero quelle richieste più tardi dalla giurisprudenza, perchè siavi usu capione, e perchè il possesso possa ottenere protezione giuridica. Ciò del resto era una conseguenza delle condizioni reali, in cui trovavasi la comunanza plebea; poichè se in un patriziato, dalle an tiche tradizioni, tutto era preveduto e regolato con norme e regole fisse, le quali se non avevano sempre un carattere giuridico, avevano almeno un carattere religioso e morale; in una comunanza invece, composta di individui e di famiglie di origine diversa, priva di tra dizioni e di recente formazione, i rapporti fra i singoli individui non potevano essere governati, che dall'usus. Credo non occorra qui di richiamare l'attenzione sulla grandissima importanza, che ha questa induzione per spiegare l'origine dimolte istituzioni primitive di Roma, e sopratutto quell'usucapione, che appare introdotta dalla legislazione decemvirale. Colla medesima viene ad apparire l'unità di concetto, a cui si informarono idecem viri, allorchè introdussero contemporaneamente l'usus auctoritas per l'acquisto della manus, per l'acquisto della proprietà immobile e mobile, e per l'acquisto anche del l'eredità. L'usucapio infatti era l'unico mezzo per mutare al più presto la posizione di fatto, in cui trovavasi la plebe, in una posizione di diritto. Ciò spiega eziandio come la primitiva possessio non dovesse richiedere nè giusto titolo, nè buona fede, e come sia stata necessaria una lunga elaborazione, perchè potesse uscirne la teorica del possesso e quella a un tempo dell'usucapione, le quali hanno fra di loro strettissima attinenza. Così pure si spiegano le definizioni di Ulpiano e di Modestino, secondo cui: < Usucapio est dominii adeptio per continuationem possessionis anni vel biennii , senza che richiedasi altra condizione. Lo stesso è a dirsi degli sforzi dei decemviri per trattenere l'istituzione da essi accolta in limiti tali, che non la rendessero pe ricolosa per la convivenza sociale, escludendola per le cose rubate, e consentendo alla moglie, che coabitava colmarito, di interrompere l'usucapione della manus, mediante il singolare istituto del trinoctium. Intendo però di riconoscere, che un avviamento a questa spiegazione già può ravvisarsi nel MUIRHEAD, Histor. Introd., 48 e 179, nella sua ingegnosa congettura intorno all'origine della usucapio pro haerede, e nell' Esmein nel suo recente articolo sull'  Histoire de l'usucapion  che si trova nei suoi Mélanges d'Histoire de droit, Paris. Solo credo di 184 149. Parimenti, è sempre sotto l'influenza di queste speciali con dizioni, in cui trovasi la plebe, che i suoi commercii non possono essere governati da forme solenni, simili a quelle che si erano for mate fra i padri delle famiglie patrizie; ma dovettero svolgersi con forme semplici, quali erano suggerite dai bisogni di una comunanza, in seno a cui non era ancora organizzata una vera propria pro tezione giuridica. Fu quindi certamente nei rapporti della comune plebea, che dovette anche svolgersi l'emptio-venditio, accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, e questo fu forse anche il motivo, per cui presso gli antichi, secondo Festo, emere pro accipere ponebatur, in quanto che emere era vera mente prendere la cosa comperata. Fu in essa parimenti, che dovette aver origine quel singolare istituto della fiducia, il quale serve qual mezzo per accordare una efficace garanzia al proprio creditore, lasciando a sua mano la cosa, che deve servirgli di malle veria . Fu parimenti in essa, che dovette svolgersi quel modo aver allargato il concetto riunendo istituzioni, che potevano apparire disparate, e dimostrando, che l'opera dei decemviri fu in questa parte indirizzata a dare carat tere giuridico ad istituzioni, che avevano solo un'esistenza di fatto presso la comu nanza plebea.  Sarebbe infatti pressochè incomprensibile, che un popolo nelle condizioni eco nomiche, in cui trovavasi allora il Romano, e del quale una parte aveva già attra versato, e non inutilmente, tutto un periodo di organizzazione sociale, potesse igno rare contratti, come l'emptio venditio, la locatio conductio, e simili. Essi dovevano certamente esistere, quand'anche non fossero per avventura penetrati nel diritto qui ritario. Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd., COGLIOLO, Prefazione, XI, alla traduzione del GOODWIN, Le XII Tavole, eseguita dal Gaddi, Città di Ca stello, 1887. È poi noto, che la disposizione della legge decemvirale, per cui la ven dita non è perfetta, che col pagamento del prezzo, è anche coinune alla Grecia; il che dimostra, che dovette essere determinata da comuni necessità, in quanto che la vendita seguiva talora fra persone, che appartenevano a genti e a comunanze diverse, e non sarebbe stato facile riavere la cosa, quando non ne fosse stato pagato il prezzo.  Anche l'istituto della fiducia è uno dei più antichi e dovette nascere nella comunanza plebea, perchè fuorusciti ed immigranti senza posizione giuridica non potevano ricorrere che a quella. Si spiega pertanto il largo uso, che se ne fece nel diritto primitivo di Roma, in quanto che vi si ricorre nel testamento, per la nomina di un tutore, per la concessione di un pegno e forse in molti altri casi ancora, che dovettero verificarsi pel costume e non penetrarono nel diritto quiritario propria mente detto. Ciò è dimostrato dalla frequenza, con cui nei poeti latini e sopratutto nei comici occorre il caso, in cui una persona, allontanandosi, affida il patrimonio e la figliuolanza (mandat familiam pecuniamque suam ) ad una persona di sua confi denza. Questo costume è anzi il perno, intorno a cui si aggira il Trinummus di PLAUTO. 185 - semplicissimo di fare testamento, che ci venne più tardi ancora de scritto da Gaio nelle sue forme primitive ed arcaiche, e che dovea servire più tardi come base al testamento quiritario per aes et li bram, per cui il plebeo, che muore senza figliuolanza, affida ad un amico il suo patrimonio e le sue sostanze, indicandogli la maniera in cui dovrà poi distribuirli, quando egli sarà morto. Del resto è questo il modo che ancora oggidi torna opportuno all'emigrante, che, trovandosi in pericolo di vita ed essendo lontano dalla patria e dalla famiglia, affida ad un amico, che avrà la fortuna di tornare in patria, tutto ciò, che egli ha potuto risparmiare, perchè lo riporti a coloro, che gli sono cari. Che anzi, dacchè siamo nella ricostruzione di quest'ordine di idee, parmi che a questo modo pri mitivo di fare testamento si rannodi senz'alcun dubbio quella istitu zione del fedecommesso, che, mantenutasi per certo nel costume, senza poter penetrare nella cerchia rigida del diritto civile romano, fini tuttavia per trionfare negli inizii dell'Impero e trionfo, perchè popu lare erat. Quel testamento quindi, che per un capo di famiglia patrizia doveva essere fatto coll'approvazione dell'assemblea della tribù dapprima, e poi davanti ai comizii della città e serviva sopra tutto a perpetuare l'heredium nelle famiglie, e ad impedire che il patrimonio uscisse dalla gente; per i membri invece della comunanza plebea non poteva essere che un atto di fiducia, un rimettersi,  Il testamento primitivo, a cui accennanoGaio, Comm. II, 102, ed anche Gellio, XV, 27, 3, è una specie di mancipatio cum fiducia, in virtù della quale una persona  si subita morte arguebatur, amico familiam suam, id est patrimonium suum,mancipio dabat, eumque rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet . Ciò indica che la prima forma, sotto cui comparve il vero testamento, quello che poi si svolse nel testa mento per aes et libram, fu il fedecommesso,malgrado tutte le difficoltà che il mede simo incontrò poi per passare dal costume nel diritto civile romano. È poi degno di nota, che i Romani più tardiritennero di aver ricevuto dai peregrini questa istituzione del fedecommesso, che certo già esisteva nella primitiva comunanza plebea. Gaio in fatti, Comm. II, 285, scrive:  ut ecce peregrini poterant fidem commissam facere et ferre: haec fuit origo fideicommissorum ; il che mi conferma nell'induzione, che il primitivo diritto plebeo, di fronte al diritto già elaborato delle genti patrizie, dovette compiere quello stesso ufficio, che più tardi il diritto delle genti verrà a compiere di fronte al diritto civile di Roma. Che il fedecommesso poi, ancorchè non accolto nel diritto quiritario, abbia sempre continuato a mantenersi nel costume, è provato ad evidenza dai comici latini. Fra gli altri esempi basti il seguente tolto dall'Andria di TERENZIO, I, 5:  Bona nostra tibi permitto et tuae mando fidei . È da vedersi in proposito l’Henriot, Mours jurid. et judic., I, 411.186 che altri faceva ad un amico o ad congiunto, acciò egli distribuisse le sue cose per il tempo, in cui avrebbe cessato di vivere. 150. Lo stesso infine è a dirsi dei modi di procedere contro il debitore in questo primitivo diritto plebeo. Sarebbe inutile cercarvi la forma solenne dell'actio sacramento, che era nata e si era svolta fra capi di famiglia, che sentivano la loro superiorità ed indipen denza; ma è più facile che trovisi fra la plebe l'uso della manus iniectio, ed anche quello della pignoris capio, istituzioni che sa rebbero incomprensibili fra capi di famiglie patrizie, ove sono già penetrati il fas ed il ius, ed hanno escluso, almeno nei rapporti fra i capi famiglia, l'uso di farsi ragione colla forza e l'esercizio della pignorazione privata. Così pure è naturale, perchè conforme alle condizioni della plebe, che in essa ancora si rinvengano le traccie della privata vendetta, del taglione, come pena di colui che ha recato un danno, della composizione a danaro per un furto sofferto, e perfino anche per un adulterio;perchè queste sono tutte istituzioni, che sono consentanee col modo di agire e di pensare di una comunanza plebea, mentre ri pugnerebbero all'organizzazione gerarchica e di carattere religioso, che era così fermamente stabilita presso il patriziato. La plebe  L'origine plebea dell'actio sacramento è esclusa dal carattere religioso inerente alla medesima ed anche dalla circostanza, che noi la troviamo comune alle genti italiche ed elleniche, come lo dimostra la descrizione, che ne troviamo in OMERO, Iliade, Canto XVIII, ove descrive lo scudo di Achille, il che può indurre a credere, che essa fosse già importata dall'Oriente. Quanto alla manus iniectio, essa poteva esistere fra la plebe, come esercizio privato delle proprie ragioni; ma non poteva avere la significazione giuridica, che vi attribuì il patriziato. In questo senso ritengo, che la manus iniectio fosse una procedura usata dai padri contro i debitori plebei, il che cercherò di provare nel capitolo seguente.  Questa varia concezione del delitto presso ceti di persone, che erano in con dizioni sociali compiutamente diverse, può essere facilmente compresa. Il patrizio sente di far parte di una corporazione religiosa e civile ad un tempo, e quindi può scorgere nel delitto un'offesa al costume dei maggiori, una violazione del fas, ed un danno alla comunanza: non così il plebeo, che è ancora soltanto un individuo, o un capo di famiglia, pressochè isolato in una comunanza in via di formazione. È quindi naturale, che egli nel delitto senta sopratutto il danno materiale che gliene deriva, che consideri la noxa (colpa ) come una noxia (danno): che quindi reagisca contro quel danno; ricorra al taglione; venga alla composizione a danaro; e così riverberi in modo più schietto l'impressione, che dovette fare il delitto nelle epoche primitive. Quegli vede già ogni cosa attraverso al gruppo di cui fa parte, e quindi comincia 187 primitiva nel delitto sente sopratutto il danno e reagisce contro di esso; mentre il patriziato già vi scorge un peccato contro la divinità e già comincia a ravvisarvi un danno, che colpisce l'intiera comu nanza. Tutte le istituzioni insomma, che non presuppongono una lunga preparazione anteriore, che non hanno una storia nel passato, ma che trovano direttamente la propria radice nelle tendenze naturali dell'uomo e nei bisogni immediati di una comunanza, che è soltanto in via di formazione, e in cui entra ad ogni istante un nuovo ele mento, che si viene aggregando, debbono essere ritenute di origine plebea. Non chiedansi alla plebe nè i iura gentium colle cerimonie solenni, da cui sono circondati, né le procedure, che contengono una storia del passato, nè gli auspicia, che ad ogni atto pubblico e pri vato imprimono un carattere religioso;ma solo chiedasi ad essa il senso di quel ius naturale, quod natura omnia animalia docuit. Sarà anzi questo connubio di un elemento onusto di tradizioni con un altro vergine di esse, che potrà rendere possibile la formazione di un di ritto, che finirà per dar forma giuridica a tutta l'immensa suppel lettile dei rapporti derivanti dalla civil convivenza. Come quindi esistevano, fin dagli inizii di Roma le traccie del ius gentium; cosi vi erano anche quelle del ius naturale, non come idea filosofica, pre sente alla mente di un giureconsulto, ma come un complesso di forze e di energie inerenti all'umana natura, che spingevano una comu nanza in via di formazione a provvedere a tutti i bisogni e a tutte le esigenze, che si venivano presentando. Per talmodo ciò che più tardi verrà ad essere nozione astratta, negli inizii è forza ed energia, che spinge, come direbbe il Vico, l'uomo ad celebrandam suam so cialem naturam. Basta questo per dimostrare, come anche negli usi della plebe potesse esistere un materiale greggio, che potè a poco a poco ricevere forma giuridica nel diritto quiritario. Per tal modo certe istituzioni, che compariscono solo più tardi, poterono già esi stere, come usi, da un'epoca ben più antica. Cid serve intanto a spiegare come nel diritto quiritario non trovisi dapprima una quan tità di atti e di negozii, senza cui sarebbe stato impossibile ogni com già a scorgere nel delitto un'offesa collettiva; mentre questi non sente ancora che il danno privato, che possa derivargliene. È questa la ragione, per cui i delitti nel diritto quiritario si presentano dapprima col carattere di offese private, e solo a poco a poco si convertono in delitti pubblici. Cfr. Voigt, Die XII Tafeln, I, 434. 188 mercio per un popolo, le cui istituzioni giuridiche e politiche già dimostrano assai progredito. Qui intanto, per non spingere questa ricostruzione a particolari troppo minuti, arresterò l'attenzione alle due istituzioni fondamentali del diritto privato, che sono la famiglia e la proprietà. Se noi consideriamo la plebe riguardo all'organizzazione della famiglia, quale è giudicata dai patrizii, noi troviamo che essa non ha le iustae nuptiae,madei semplici matrimonia, quasi ad in dicare che i plebei potevano bensi indicare le loro madri, ma non potevano indicare con certezza i loro padri. Al qual proposito si deve ammettere col Muirhead, che, trattandosi di persone, alcune delle quali erano di origine servile, potesse anche esistere una certa qual rilassatezza nelle unioni matrimoniali dell'infima plebe. Non sembra tuttavia, che la congettura possa spingersi fino al punto, a cui la spinge il Bachofen, secondo il quale, fra gli elementi che entra vano a costituire la plebe, avrebbero dovuto esservene di quelli (e sarebbero quelli di origine etrusca, abitanti nel vicus Tuscus) i quali avrebbero solo conosciuta la parentela dal lato delle femmine, e si sarebbero cosi trovati nella condizione del matriarcato. Senza affermare, nè negare il fatto, perchè mancano gli elementi per decidere, credo pero didovere osservare che, quando questo fosse stato, ne sarebbero rimaste maggiori traccie ed indizii. Il vocabolo dima trimonia per sè significa soltanto, che la plebe riconosceva la pa rentela dal lato di madre, ossia la cognazione, mentre l'organizza zione della famiglia patrizia fondavasi esclusivamente sul vincolo dell'agnazione. Quindi quello solo, che noi possiamo affermare con certezza, si è che nella plebe primitiva quanto che serve talora ad indicare leesisteva una famiglia, costi tuita sulle sue basi naturali, cioè fondata sulla cognazione e sulla affinità. Ed è anche facile trovare la ragione di questo fatto, la quale consiste in questo, che la famiglia plebea, appunto perchè non era ancora entrata a far parte dell'organizzazione gentilizia, cosi non aveva ancora potuto subire quell'artificiale ordinamento, che veniva ad essere necessario per una famiglia, che doveva servire di convivenza domestica e politica ad un tempo. Era quindi naturale, che la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia fondata sull'a [Cfr. Muirhead, Histor. Introd., e il Bachofen, Das Mutterrecht Stuttgart] gnazione, cercasse modo di rafforzarsi mediante vincoli più natu rali e più facili a comprendersi, quali sono appunto quelli della co gnazione e dell'affinità. Non è quindi il caso di contrapporre alla famiglia patriarcale una famiglia matriarcale; ma solo di dire, che la plebe, non avendo la famiglia fondata sull'agnazione, aveva in vece quella fondata sulla cognazione, in quanto che quella potrà aver valore per le genti dalle antiche tradizioni, mentre questa pud essere capita e sentita da chicchessia. Qui però si potrebbe opporre che, così essendo, male si com prende come nel diritto quiritario a vece della famiglia, fondata sul vincolo del sangue, che certo dal nostro punto di vista avrebbe do vuto essere preferita, abbia invece avuta prevalenza la famiglia, fon data sull’agnazione, e come solo più tardi la cognazione sia riuscita a correggere almeno in parte la famiglia primitiva romana. Cid tuttavia può essere facilmente compreso, quando si consideri, che la città, in cui trattavasi di entrare, era stata fondata dai patrizii; che questi erano i forti ed i ricchi, mentre i plebei erano, almeno negli esordii, i deboli ed i poveri; che quelli avevano una posizione di diritto, e che questi erano solo tollerati per la loro posizione di fatto. Era quindi naturale, necessario, che la plebe, sopratutto quando fu for temente compenetrata dall'elemento latino, la cui organizzazione domestica era analoga a quella delle genti patrizie, si sforzasse di imitare anche in questa parte il patriziato, e che anzi col tempo le famiglie plebee, che erano pervenute al ius imaginum, si sforzassero di imi tare perfino l'organizzazione per gentes in un'epoca, in cui essa åveva già certamente perduto della propria importanza. Del resto è incontrastabile, che di questo fondamento cognatizio della famiglia plebea rimasero delle traccie nella legislazione pri mitiva di Roma, sopratutto in quelle istituzioni domestiche, che dovettero probabilmente essere di origine plebea. Così, ad esempio, è notabile che la legislazione decemvirale, mentre assegna la suc cessione legittima e la tutela legittima agli agnati, lascia invece al gruppo dei cognati e degli affini (cognati et adfines ) il diritto ed il dovere di proseguire e porre in accusa l'uccisore di un parente, quello di appellare da una sentenza capitale pronunziata contro un congiunto: disposizioni, che possono considerarsi come sopravvivenze e quasi accenni di vendetta privata, la quale, come si è visto sopra, sussisteva sopratutto in seno alla plebe. Insomma la conclusione ultima sarebbe questa, che Roma, fin dai suoi esordii, non ignorò la famiglia fondata sulla cognazione e la possedette anzi sotto la umile apparenza di un'istituzione plebea; che tuttavia questa famiglia naturale, nel periodo di formazione del di ritto civile di Roma, fu in certo modo soverchiata dalla famiglia agnatizia, propria del patriziato; e solo riusci di nuovo più tardi, comemolte altre istituzioni, a rientrare in modo indiretto nella cer chia del diritto romano, sotto la protezione del pretore e del diritto delle genti. Nè questa è conseguenza di poca importanza, perchè colla famiglia si connette tutto il sistema della successione e della tutela legittima, le quali perciò penetrarono eziandio coll'organizza zione gentilizia della famiglia nel diritto quiritario. Cid intanto spiega eziandio, come in via di reazione nello stesso diritto quiritario abbia preso così largo svolgimento l'istituzione del testamento, perchè questo era il solo mezzo per sottrarsi alle conseguenze di un sistema di successione legittima, ispirato ancora al concetto di serbare in tegro il patrimonio nelle gentes; sistema, che una piccola minoranza di genti patrizie era riuscita ad imporre ad un numero assai mag giore di famiglie, e che col tempo, col dissolversi della organizza zione gentilizia, fini per divenire grave allo stesso patriziato. 154. Per quello poi, che si riferisce alle condizioni economiche della plebe, è assai probabile che la medesima, prima di giungere ad una vera proprietà di diritto, abbia cominciato dall'occupare di fatto quella parte di suolo, sovra cui i plebei venivano a stabilirsi nelle vicinanze di Roma insieme colla propria famiglia. Dapprima queste possessioni figuravano, od erano in effetto assegni loro fatti o dai padri o dal re come loro patroni, od erano anche terreni incolti, sovra cui si arrestava la famiglia plebea, per fondarvi il proprio tugurium e dissodarvi attorno un piccolo ager. Questo stato primitivo di cose può essere indotto da alcuni passi di Festo, che si riferiscono a questi primitivi possessi ed all'occu pazione di agri, che, per mancanza di coltivatori, fossero stati ab bandonati. Egli infatti scrive: Possessiones appellantur agri late patentes, publici privatique, quia non mancipatione sed usu  Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd., tenebantur, et ut quisque occupaverat, colebat. Qui infatti è evidente, che non si parla solo di possessioni nell'agro pubblico, ma anche di possessioni di carattere privato, e furono queste, che do vettero appunto essere le prime possessioni della plebe. Ciò è pure confermato dallo stesso Festo, ove scrive: occupaticius ager di citur, qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur , indicando cosi l'esistenza di una consuetudine, per cui, se l'agro era abbandonato dai suoi cultori, ne sottentravano degli altri. Del resto che le possessioni dovessero acquistarsi in questo modo, in seno alle comunanze plebee, lo dimostra l'importanza, che presso di esse acquistò l'usus auctoritas. Tale importanza appare dal fatto, che secondo le leggi decemvirali bastava il possesso di un anno per l'acquisto delle cose mobili e quello di due anni per quello delle immobili; disposizione questa, che dovette uscire dagli usi proprii della plebe. Mentre infatti, presso le genti patrizie, tutto era governato dal mos e dal fas; in una comunanza plebea, che era soltanto nella propria formazione, non poteva esservi altra autorità, che quella dell'usus, e doveva apparire proprietario quegli, che in effetto usucapiva la cosa od il fondo, del quale si trattava. La pro prietà non poteva ancora in questa condizione di cose distinguersi affatto dal possesso, e quindi si comprende che il giureconsulto più tardi ancora dicesse: dominium rerum ex naturali possessione cae pisse, Nerva filius ait; eiusque rei vestigium remanere de his, quae terra, mari, coeloque capiuntur; nam haec protinus eorum fiunt, qui primi possessionem eorum apprehenderint. Si com prende parimenti, comein una comunanza di questa natura, che dap principio era costituita da una massa mobile ed eterogenea, dovesse ri. tenersi sufficiente il breve termine di un anno per l'usucapione delle cose mobili, e di due anni per l'usucapione di quelle immobili; e cið nell'intento di poter trasformare con celerità lo stato di fatto in stato di diritto, il possesso in proprietà. Se in una comunanza già formata importa di allungare il termine dell'usucapione, acciò essa non serva come mezzo per usurpare il diritto esistente; in una co  V. Festo, v° Possessiones (Bruns, Fontes, 354): la qual definizione è ri portata tal quale anche da Isidoro (BRUNs). Festo, Occupaticius. Di qui già il RUDDORF ebbe ad indurre che l'ager occupatorius non doveva confondersi coll'ager occupaticius (Bruns, Fontes, 348, nota 6). Vedi per l'opinione contraria Karlowa, Röm. R. G.; Paulus, L. 1,  1, Dig.] munanza invece, la quale sia in via di formazione e attragga in sé nuovi elementi, importa di abbreviare il termine di tale usuca pione, acciò lo stato di fatto mutisi al più presto in uno stato di diritto. Con tale sistema una famiglia plebea, quando fermava il piede sopra un suolo incolto od abbandonato (possessio, da pedum quasi positio) aveva appena tempo a metterlo in coltivazione, che già ne diventava proprietaria ex iure quiritium, e intanto, appena un posto rimaneva vacante, veniva ad esservi quello, che lo occu pava, e dopo breve tempo era considerato ancor esso come legittimo proprietario. Certo non poteva esservi un migliore sistema per po polare immediatamente il territorio circostante a Roma, e per popo larlo di famiglie che, affezionandosi al suolo, finissero per prendere interesse alla grandezza e all'avvenire di quella città patrizia, sotto la cui protezione e tutela la plebe aveva potuto diventare anch'essa proprietaria del suolo . Ciò però non dovette accadere di un tratto; ma solo a misura che i commerci fra Roma patrizia e la popola zione circostante conducevano alla formazione di un comune diritto. 155. Fu quindi solo col tempo, che queste possessioni, tollerate dai padri, od anche dai medesimi o dal re assegnate ai plebei a titolo di precario, poterono cambiarsi in una specie di proprietà di fatto più che di diritto, sovra cui essi vivevano colla propria famiglia. Intanto questo piccolo podere coi frutti, che se ne potevano ricavare e che portavansi al mercato, porgeva anche alla plebe occasione di entrare in commercio col patriziato. Si comprende quindi, che quando le cose furono a tal punto, che i re sentirono la conve nienza di aggregare la plebe alla cittadinanza romana, anche per afforzare l'esercito della città patrizia, dovesse sorgere naturalmente l'idea, attuata poi da Servio Tullio, di ammetterli alla comunanza, in quanto erano capi di famiglia, e avevano uno spazio di terra, sovra cui potevano vivere colla propria famiglia. Siccome poi la plebe non conosceva altra proprietà, che la privata, o meglio quella, che ap  Trovo in Gellio, Noc. Att., XVI, 11 un passo, che dimostra come i Romani comprendessero l'importanza, che aveva la proprietà per interessare la plebe alle sorti della Repubblica:  Sed quoniam res pecuniaque familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque in patriam, fides quaedam in ea, firmamentumque erat . Fu questo, aggiunge Gellio, il motivo, per cui i prole tarii, e i capite censi, solo tardi e quando non se ne potè fare a meno, furono chia inati a far parte dell'esercito. 193 partiene al capo di famiglia, non aveva agro gentilizio, e non doveva neppure dapprima essere ammessa ad immettere i proprii greggi nell'ager compascuus della tribù, al modo stesso che più tardi non fu ammessa all'occupazione dell'ager publicus, la quale occupazione dapprima ritenevasi come un privilegio dell'ordine pa trizio; cosi ne derivò la conseguenza, che l'unica proprietà, che poteva essere riguardata come posta a base della comunanza patrizio-plebea, perchè era la sola, che fosse comune ai due or dini, era la proprietà privata. Cid può servire a spiegare il fatto, che da Servio Tullio in poi quasi più non si discorre degli agri gentilicii, che pur continuavano sempre ad appartenere alle genti: ma solo più dell'ager privatus, delmancipium, dei praedia censui censendo, e dell'ager publicus. Questi sono l'unica proprietà della plebe; mentre l'occupazione dell'agro pubblico è una gran sor gente della ricchezza del patriziato. Quindi si comprende l'affetto tenace, con cui la plebe si attacca alla propria terra, il suo sotto porsi al duro vincolo del nexum, piuttosto che alienarla, e la lotta, che essa sostiene per ottenere quelle ripartizioni dell'ager publicus, che le porgevano mezzo di entrare nella vera cittadinanza di Roma. Intanto siccome questa proprietà e il commercio, che derivava da essa, erano gli unici diritti, che la plebe avesse comuni col patri ziato: così viene eziandio a spiegarsi, come gli atti tutti del primitivo diritto quiritario assumano un carattere essenzialmente mercantile, e siano tutti fatti entrare forzatamente sotto le figure del nexum e del mancipium, come meglio apparirà più tardi. Dalle cose premesse si può raccogliere la conclusione se guente, quanto ai rapporti, che intercedono fra il patriziato e la plebe negli esordii della comunanza romana. Per quanto debba ri tenersi, che il primo nucleo della plebe siasi costituito mediante ele menti,che si vennero staccando dalla stessa organizzazione gentilizia, perchè più non potevano essere compresi nei quadri della medesima; tuttavia la plebe, avendo richiamati a sè tutti coloro, che si trovarono spostati nell'anteriore organizzazione, crebbe per modo in numero ed importanza da costituire di fronte alla città patrizia una vera e propria comunanza plebea, che doveva di necessità essere presa in considerazione. Siccome tuttavia la plebe è fuori di quella organiz zazione, che è l'unica riconosciuta dal patriziato; così essa viene dapprima ad essere lasciata a se stessa ed è considerata come una moltitudine ed una folla, la quale ha bensì una esistenza, C. Le origini del diritto di Roma.] di fatto, ma che è priva di qualsiasi posizione giuridica di fronte al patriziato. Di qui il dualismo fra i due ordini, che, nato già nella tribù, viene a costituire il gran dramma della comunanza civile e politica. In questa infatti son chiamati a convivere due elementi: di cui uno ha una posizione di diritto, ha la città, ha gli auspicii, le magistrature, gli onori; mentre l'altro non ha che una posizione di fatto, più tollerata che riconosciuta, e non può fare as segnamento, che su quello spazio di terra, sovra cui si è stabilito colle proprie famiglie, ed è solo poggiandosisopra di esso, che potrà entrare a fare parte della comunanza. Per quello poi, che si riferisce alle loro istituzioni religiose, giu ridiche e politiche, non corre una minore differenza fra i due or dini. Mentre il patriziato è nei vincoli delle tradizioni e del culto dei suoi antenati, dei concetti, che forse ha recati dallo stesso Oriente, e trovasi fra le strette dell'organizzazione gentilizia, che dopo aver fatta la sua forza, comincia ora ad impedirne il naturale sviluppo e a cambiarlo in un'aristocrazia chiusa in se stessa; la plebe invece ha l'inconveniente, ma al tempo stesso il vantaggio di en trare nella vita politica, senza la memoria dei maggiori ed il culto di essi, senza essere vincolata dalle proprie tradizioni, e trovasi cosi in condizione di ubbidire al proprio interesse, alle proprie esi genze, ai bisogni e alle necessità della nuova organizzazione so ciale. A ciò si aggiunge, secondo la profonda osservazione del Kar lowa, che nell'uomo della plebe per la prima volta compare la nozione per cui l'uomo libero, sciolto da ogni vincolo sociale e gen tilizio, deve essere riguardato come persona, ossia come capace di diritto e di obbligazioni; per guisa che anche il maggior concetto, a cui abbia saputo elevarsi il diritto romano, che è quello di rico noscere l'uomo libero come capace di diritto, ebbe in parte a svol gersi sotto l'influenza dell'elemento plebeo. 157. Per tal modo Roma si trovò di fronte al problema di far convivere nelle stesse mura, e di sottoporre all'impero delmedesimo  KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, 64. L'autore, che ebbe giusta mente a notare che il più alto concetto, a cui giunse il diritto privato di Roma, è quello che l'uomo libero, come tale, sia capace di diritto, è il compianto Bruns, Geschichte und Quellen des römisches Recht's, $ 3, in HoltZENDORFF's, Encyclo pädie, I, 105, 4.ed. — È da vedersi in proposito il Brugi, Le cause intrinseche della universalità del dir. rom., Prol., Palermo, 1886. 195 diritto due ordini, di cui uno era ricco di tradizioni e stretto nei vincoli del passato, mentre l'altro, per le speciali sue condizioni di fatto, non aveva per sè che il presente e sopratutto l'avvenire. Il problema per la plebe era quello di mutare la sua posizione di fatto in una posizione di diritto, e per il patriziato quello di dare alla plebe un diritto e di farla entrare nei quadri della sua città, senza comunicarle che gradatamente quel fascio di tradizioni reli giose, giuridiche e morali, di cui esso era gelosissimo conservatore. Certo il problema era di difficile risoluzione, ma la logica giuri dica di Roma seppe risolverlo in un modo, che può veramente dirsi meraviglioso. La conseguenza venne ad essere questa, che il di ritto, che venne formandosi in Roma, si presenta antico sotto un aspetto e nuovo sotto un altro. È antico nei concetti, nelle forme, nei vocaboli stessi, che già tutti esistevano precedentemente ed erano stati elaborati dal patriziato nel periodo dell'organizzazione genti lizia; ma è nuovo in quanto che nelle forme antiche penetra uno spirito nuovo e si fa entrare tutta una nuova vita civile e poli tica, che più non poteva essere contenuta nei quadri dell'organiz zazione gentilizia. Nella formazione di questo diritto tutto ciò che è di forme solenni, di concetti già elaborati, di istituzioni aventi carat tere religioso e morale, viene ad essere di origine patrizia; mentre tutto ciò, che trova origine nel semplice usus, nella semplice pos sessio, nel fatto più che nel diritto, e non è avvolto ancora in forme solenni e tradizionali, deve ritenersi piuttosto di origine plebea. La distanza stessa poi, a cui trovavansi i due elementi, che dovevano entrare a far parte della medesima città, obbliga il diritto quiritario a prendere le mosse nella propria formazione dai concetti elemen tari della proprietà e della famiglia, che erano i soli, che fossero comuni ai due ordini, per venire poi all'elaborazione lenta e graduata di tutti gli altri istituti giuridici. Per tal modo nella formazione del diritto pubblico e privato di Roma noi abbiamo un nucleo co piosissimo di tradizioni, di concetti e di vocaboli, già preparati in un periodo anteriore, che viene in certo modo a fondersi nel cro giuolo della comunanza civile e politica, per guisa che, precipitando e cristallizzando lentamente e gradatamente, finisce per dare origine ad un diritto, del quale si può dire con ragione, che si è formato rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente. Solo resta a spiegare, come in questa condizione di cose siasi de. terminata la prima formazione del diritto quiritario nello stretto senso, che suol essere attribuito a questo vocabolo. Non può certamente negarsi, anche da uno schietto ammi ratore della logica, che ha governata la formazione e lo svolgimento del diritto privato di Roma, che esso nei proprii esordii presentasi con un carattere di rozzezza e di violenza, che desta un'impressione sfavorevole e pressochè di ripugnanza, e spiega anche l'affermazione di coloro, che ebbero a considerarlo, come l'opera esclusiva della forza. Tale impressione è prodotta specialmente da certi vocaboli e concetti, che occorrono nel primitivo jus quiritium: vocaboli, che portano con sè l'impronta della forza e della violenza. Fra questi vocaboli non deve essere annoverato quello di manus, che nel di ritto quiritario significò il potere spettante al capo di famiglia sulle persone e sulle cose, che da esso dipendono, in quanto che questo vocabolo se da una parte indica la forza e la potenza, che si impone; dall'altra può anche significare la protezione e la difesa, che la manus accorda a tutti coloro, che da essa dipendono. Si aggiunge, che questo vocabolo di manus o qualche altro, che corrisponda al me desimo, sembra essere stato adoperato nella stessa significazione dalle altre stirpi di origine ariana. Sonvi invece nel primitivo ius quiritium altri vocaboli, come quelli di mancipium, di nexum, di manus iniectio, che non solo si ispirano al concetto della forza, [ È abbastanza noto in proposito che alla manus del capo di famiglia romano corrisponde anche nella sua significazione materiale il mund ed il mundium del capo di famiglia germanico; il che però non toglie che i due istituti abbiano rice vuto un diverso svolgimento presso i due popoli, sopratutto per ciò che si riferisce al potere del padre sui figli. V. in proposito: VIOLLET, Histoire du droit français, Paris, cogli autori citati a 447. Del resto fra il primitivo diritto romano e il primitivo diritto germanico vi hanno ben altre istituzioni, che si corrispondono, e fra le altre potrebbesi forse fare un interessante raffronto fra il ius applicationis dei Romani, e il comitatus e la commendatio presso i popoli Germanici. 197 ma, applicandosi anche alle persone, sembrano recare con sè l'idea di soggezione e di dipendenza di una persona da un'altra. È quindi assai difficile a spiegarsi, come mai dal mos e dal fas delle genti patrizie, e dall'usus, che veniva formandosi nel seno della plebe, abbiano potuto scaturire concetti di questa natura, a cui manca non solo quell’aureola religiosa, da cui sono circondate le istituzioni gentilizie, ma perfino quel carattere di fiera indipendenza, che con traddistingue le istituzioni primitive dei popoli italici. 159. Ritengo tuttavia, che questa apparente contraddizione fra questi concetti del primitivo ius quiritium e gli elementi, che avreb bero contribuito alla sua formazione, possa essere spiegata, quando si ammetta la congettura, a cui ho accennato più sopra parlando dell'actio sacramento e della manus iniectio, e sulla quale importa qui di insistere più lungamente. La congettura sta in questo, che nelle istituzioni del diritto quiritario vene hanno alcune, che si erano formate nei rapporti fra i capi delle famiglie patrizie, e perciò nel seno stesso delle genti e delle tribù; ma ve ne hanno eziandio delle altre, le quali dovettero invece formarsi ed assumere un contenuto preciso nelle lotte e nei conflitti fra la classe dei vincitori e quella dei vinti. Il ius quiritium primitivo non governo solo rapporti fra capi di famiglia uguali fra di loro e appartenenti alla stessa tribù; ma dovette eziandio reggere i rapporti fra le genti organizzate nella tribù e la moltitudine e la folla, per la maggior parte di origine servile, che ancora circondava i primitivi stabilimenti patrizii. Quindi se era naturale, che la prima parte del ius quiritium portasse le traccie della fiera indipendenza di quei capi di famiglia, dei quali nemo servitutem servivit; la seconda invece doveva portare quelle della soggezione, a cui era ridotta la classe inferiore. Non può cer. tamente presumersi, che questi due ordini di persone potessero en trare in rapporti giuridici fra di loro, sopra un piede di assoluta eguaglianza. Quindi mi sembra naturale, che il primitivo ius qui ritium, a somiglianza del diritto feudale, che ebbe poi a formarsi in una condizione di cose non dissimile da questa, debba in qualche parte portare le traccie della superiorità, che si attribuivano i vincitori, i conquistatori, i primi organizzatori di una convivenza sociale, e dell'abbiezione invece, a cui erano ridotti i vinti, i con quistati e quelli, che, non essendo ancora pervenuti ad una organize zazione sociale, abbisognavano perciò di protezione e di difesa. Questo è certo che anche più tardi noi troviamo una disu guaglianza di condizione giuridica fra Roma e le popolazioni, da cui essa è circondata; come lo dimostra ancora l'accenno, che più tardi è fatto dalla legislazione decemvirale dei forcti ac sanates, ai quali, secondo Festo, sarebbe stato accordato unicamente il ius nesi man cipiique. Da questo peculiare rapporto giuridico, che intercede fra Roma e le popolazioni circostanti, mi sembra di poter dedurre con fondamento, che quel nexum e quel mancipium, che poscia vennero a significare dei rapporti privati fra i cittadini, abbiano potuto un tempo indicare dei rapporti, che correvano fra le genti patrizie e le popolazioni di diritto inferiore e pressochè vassalle, che abitavano nel territorio circostante a Roma. Che anzi qui mi pare opportuno di dare svolgimento ad un concetto, che fino ad ora potè solo essere accennato, ma non svolto. Il medesimo consiste in ritenere, che la condizione primitiva della plebe, di fronte alla città patrizia, dovette essere analoga a quella, in cui ci vengono descritti posteriormente i forcti ac sanates, in base alla legislazione decem virale. È un magistero eminentemente romano quello di seguire sempre il medesimo processo, allorchè si avverano le stesse condizioni di fatto. Ora non è dubbio, che la plebe in Roma primitiva era costituita da popolazioni circostanti, superiori ed inferiori a Roma, in condi zioni quasi del tutto simili a quelle, in cui Festo ci descrive essersi poscia trovati i forcti ac sanates. È quindi naturale e del tutto pro babile, che Roma abbia fatto dapprincipio alle popolazioni, che lo erano più vicine, e che costituivano così la prima plebe, la posizione stessa, che fece poi ai forcti ac sanates; che cioè abbia loro rico nosciuto dapprima il ius nexi mancipiique, il diritto cioè di obbli garsi, di acquistare e di trasferire la proprietà nei modi riconosciuti dal suo stesso diritto. Ciò era necessità, perchè fossero possibili i commercii fra patriziato e plebe; e intanto spiega eziandio, come i primi concetti, che compariscano nel diritto quiritario, comune ai due ordini, siano appunto quelli del nexum e delmancipium, i quali perciò, al pari di quello del commercium, al quale corrispondono, si svolsero dapprima fra popolazioni diverse, e poi furono portati nei rap porti interni fra i membri di una stessa città. Roma patrizia insomma avrebbe in questa parte usato il più semplice dei processi. Dapprima avrebbe considerata la plebe come una popolazione circostante alla città, con cui non poteva a meno di essere in commercio, e perciò avrebbe accordato alla medesima quel ius nexi mancipiique, che anche più tardi continuò ad accordare ai forcti ac sanates. Quando 199 - poi la plebe fu anch'essa incorporata nella città, e coll'ampliamento delle mura serviane una parte delle abitazioni dei plebei si trovò entro il recinto dell'urbs, quel diritto, che prima governava i rap porti, che intercedevano fra due popolazioni distinte, continud natu ralmente a governare i rapporti dei due ordini, in quanto essi fa cevano parte della stessa comunanza; quello, che era dapprima un diritto esterno, divento diritto interno, e fu il punto di partenza dello svolgimento del ius quiritium. Certo questa non è che una congettura fondata sul processo solitamente seguito dai Romani; ma fornisce una spiegazione così naturale delle cose, e così conforme al metodo romano, che non mi sembra temerità di aggiungerla alle altre, che già si escogitarono al riguardo. Intanto, come ho già altrove avvertito , viene eziandio a comprendersi il motivo, per cui questa speciale posizione giuridica dei forcti ac sanates, poscia sia scomparsa per guisa da non sapersi più comprendere il signifi cato della medesima, poichè col tempo anch'essi entrarono a far parte della plebe romana, e quindi mancò ogni ragione per serbare loro questa peculiare condizione giuridica. et neaco (Il solo passo, che a noi pervenne intorno ai forcti ac sanates, è di Festo, ed il medesimo è ancora in tale stato, che fu assaidifficile la ricostruzione di esso. L'OFFMANN, Das Gesetz d. XII Tafeln von den Forcten und Sanaten. Vienna, 1866, ritiene che il passo delle XII Tavole, a cui Festo accenna, vº Sanates (Bruns, Fontes, 664), fosse così concepito: mancipatoque ac forcti sanatique idem iuris esto . Questa lezione stata adottata dal LANGE, Hist. intér. de Rome, I, 171, fu respinta dal MOMMSEN, sulla conside razione che qui trattavasi di determinare la condizione dei forcti ac sanates in sè considerati, e non di metterli a comparazione coi nexi ac mancipati, dei quali non si saprebbe poi dire, quale potesse essere la speciale posizione giuridica. Il Voigt, Die XII Tafeln, I,pag. 273 e 733, Tab. XI,6, ricostruirebbe invece la legge in questa guisa: e nexum mancipiumque, idem quod Quiritium, forcti sanatisque supra infra que urbem esto ; ma non pare che sia nell' indole della legge decemvirale di en trare in particolari così minuti. Parmi quindi di adottare piuttosto il testo della legge, quale sarebbe accettato dal MOMMSEN; ~ Nexi mancipiique forcti sanatesque idem iuris esto ; il che significherebbe in sostanza ciò, che pure dice il Voigt, che cioè i forcti ac sanates possono obbligarsi e trasferire il proprio mancipium nel modo riconosciuto dal diritto quiritario, cosicchè verrebbe ad essere probabile, che la loro posizione fosse precisamente quella della plebs, allorchè era già ammessa in questi confini al commercium,ma non aveva ancora il connubium. Quanto alle varie lezioni proposte è da vedersi il Mommsen nella nota al Bruns, Fontes; ed anche il MUIRHEAD, Histor. Introd., 111, nota 12, ove proporrebbe la se guente ricostruzione:  nexum mancipiumque forcti sanatisque idem esto ; pure avrebbe la medesima significazione. Non conosco però che altri abbia cercato di. la quale 200 161. Del resto, checchè si possa dire di questa induzione, questo deve certo essere ammesso, che il ius quiritium, il quale, sebbene comparisca con Roma, pud tuttavia avere le sue radici, in epoca di gran lunga anteriore, almeno in parte si formò in un periodo di lotta e di violenza fra gruppi e ceti di persone, che si trovavano in condi zione affatto diversa, in quanto che alcuni di tali gruppi e ceti già erano pervenuti alla formazione di consorzii civili ed umani: mentre gli altri ancora vivevano in uno stato di promiscuità e confusione, che le genti patrizie riputavano nefario. Non può quindi essere mera viglia, se alcuni dei resti, che giunsero fino a noi, portino ancora i segnidelle lotte e dei conflitti, che vi furono fra vincitori e vinti, non che della soggezione e della dipendenza, in cui erano le classi inferiori. Al modo stesso, che i ruderi delle costruzioni primitive di mostrano, colla rozzezza e coll'enormità delle loro proporzioni, quali edifizii in quell'epoca fossero necessarii per ripararsi contro i cataclismi del suolo: così i resti, che ancora ci rimangono del primitivo ius qui ritium, in questi vocaboli, che sono sopravvissuti ai tempi, in cui si sono formati, dimostrano quali specie di vincoli si potessero richiedere per richiamare da una condizione pressochè nefaria, per usare l’es pressione del Vico, le moltitudini e le folle ad celebrandam suam socialem naturam. Gli uomini in questa epoca dovettero sentire l'impotenza loro di fronte ai terrori della sconvolta natura, ai pe ricoli delle fiere, e agli scontri continui con genti di origine stra niera, e quindi non poterono preoccuparsi tanto della loro libertà, quanto sentire il bisogno di ripararsi sotto la protezione di quelle genti, che prime erano riuscite ad organizzarsi e a fortificarsi sotto il potere dei loro capi. Cid spiega come l'antico vocabolo di  iobi lare  abbia potuto significare il gridare salvezza per l'aperta campagna e come i deboli fossero nella necessità di fare appello alla fede ed alla protezione dei forti, e disposti ad accettare la posizione portata dal mancipium e dal nexum, pur di averne la protezione e la difesa. Non era perciò un diritto mite ed umano e pieno di grada zioni delicate e sottili, che poteva nascere in questi inizii dell'organiz zazione sociale, sopratutto nei rapporti fra classi, di cui una era su periore e l'altra inferiore; ma bensi un diritto rozzo e violento, che risentisse in certo modo della lotta, da cui esso usciva, e che da una inferire da questa disposizione la condizione giuridica primitiva, in cui si trovò la plebe di fronte alla città patrizia. - 201 parte avesse l'impronta della superiorità dei vincitori e dei forti e dall'altra dell'abbiezione, a cui erano ridotti i vinti ed i deboli. 162. Si comprende quindi come in questo periodo, la manus, armata di lancia, pronta da una parte ad atterrare il nemico, a seguirlo fuggi tivo e a farlo prigioniero di guerra, e dall'altra disposta a difendere tutti i proprii dipendenti, potesse presentarsi come l'espressione più, naturale e più energica ad un tempo per significare il potere giu. ridico, che spetta al capo di una famiglia sopra tutte le persone, che da lui dipendono, e per significare eziandio l'unità della famiglia nei rapporti esteriori. Genti come le italiche, le quali, secondo l'at testazione di Servio, avevano nella loro ingenua personificazione di tutte le energie proprie dell'uomo dedicato ad un nume le varie parti del corpo, cioè l'orecchia alla memoria, la fronte all'ingegno, la destra alla fede, le ginocchia alla pietà e alla misericordia, perchè abbracciano le ginocchia coloro che implorano, non avevano che ad applicare il medesimo processo per dedicare la manus ad espri mere il potere unificatore della famiglia. Non era forse la manus che atterrava il nemico e lo faceva prigioniero di guerra e che intanto proteggeva moglie, figli, clienti e servi? Non era essa, che riuniva e stringeva la famiglia nella sua compagine interna, e che serviva a renderla forte e compatta contro le aggressioni esterne? Intanto però è evidente, che la manus, intesa in questo significato, poteva solo spettare a quei capi di famiglia, che avevano serbata intatta la loro autorità di diritto, perchè non erano mai stati sotto  Buona parte di questi concetti trovasi accennata qua e là dal Vico; na è avvolta in una forma fantastica, proveniente dall'idea preconcetta di voler conside rare i Romani come i rappresentanti di quell' epoca eroica, che, secondo le sue teorie, avrebbe susseguito quei tempi,che egli chiama divini, e preceduto quelli, che egli chiama umani; idea, che finì per condurlo a considerare come una leggenda tutta la storia primitiva di Roma, fino alla prima guerra Cartaginese. Ciò però non impedisce che le sue divinazioni, anche non essendo vere, se applicate a Roma sto rica, possano contenere del vero, se riportate all'epoca veramente patriarcale ed eroica, che avrebbe preceduta la fondazione di Roma. In proposito è da vedersi il MORIANI, La filosofia del diritto nel pensiero dei Giureconsulti romani, Firenze, 1856, 14 e segg., ove parla dell'origine del diritto e dell'etimologia del vocabolo ius.  Servius, In Aen., 3, 607:  Phisici dicunt esse consecratas singulis numinibus singulas corporis partes: ut aurem Memoriae, frontem Genio, dexteram Fidei, genda Misericordiae, unde haec tangunt rogantes. Iure pontificali, si quis flamini genua fuisset amplexus, eum verberari non licebat.] posti a servitù, e primi erano pervenuti a fondare una vera organiz zazione sociale. Il concetto quindi di manus, in quanto è l'unificatore della famiglia e dà alla medesima la compattezza necessaria per re spingere ogni aggressione, dovette prima formarsi nei rapporti fra le famiglie, le genti e le classi diverse, che non nei rapporti interni della famiglia; perchè la causa, che determino questo irrigidirsi della famiglia, non fu interiore alla medesima, ma bensì esterna, ossia la necessità di provvedere alla lotta per l'esistenza. Dal momento per tanto, che il concetto di manus ha un'origine, che potrebbe chia marsi pressochè esteriore ed internazionale, ne consegue eziandio, che nel conflitto delle genti il concetto della manus, in quanto indica un potere, che non ebbe giammai a soccombere sotto la schiavitù, non potè essere applicato che ai capi delle famiglie patrizie, e non già alla folla e alla moltitudine, di cui erano circondati gli stabili menti dei padri. Si comprende pertanto, come nel diritto quiritario primitivo continuamente comparisca la manus, la quale è quella, che lotta nella manuum consertio; che rivendica nella vindicatio; che trascina il debitore nella manus iniectio; che distendendosi lascia in libertà lo schiavo (manu emittit); che obbliga la propria fede nella dextrarum iunctio; e da ultimo è anche quella, che afferrando il vinto, lo trasmuta in mancipium. Essa quindi non ha soltanto una significazione relativa alla costituzione interna della famiglia, ma dap prima ha sopratutto una significazione, quanto ai rapporti esteriori in cui la famiglia può trovarsi, essendo la manus, che la rende unita e compatta nel respingere ogni aggressione. Sarà solo più tardi, che essa verrà a significare il complesso dei poteri giuridici, che ap partengono ai quiriti, in quanto essi costituiscono una specie di ari stocrazia fra la moltitudine e la folla, da cui sono circondati. Però almodo stesso, che la manus in questa significazione è già il frutto di una specie di astrazione, cosi deve pur dirsi del concetto del qui rite. Senza entrare nell'etimologia della parola e senza discutere se la medesima venga da quiris lancia, o da curia, come vorrebbe il Lange; questo è certo che in ogni caso il vocabolo di quiriti non significa i membri delle genti patrizie individualmente considerati; ma li indica in quanto appartengono ad uno stesso populus, che ora ra dunasi nelle curie, ed ora costituisce un esercito. Come tali i qui riti trovansi in una posizione privilegiata e quindi sono essi sol tanto, a cui appartiene la manus, come simbolo del diritto quiritario; sono essi soli, che abbiano le iustae nuptiae; che sappiano consultare gli Dei cogli auspizii; e che partecipino direttamente al bene fizio delle istituzioni proprie della città. Malgrado di ciò è improbabile, che nel periodo anteriore alla fondazione della città, e in quello della città esclusivamente patrizia non intercedano dei rapporti fra la classe dominante e quelle inferiori, da cui essa è circondata. Sarebbe tuttavia a meravigliarsi, se in questi rapporti essi si trattassero alla pari, e se le istituzioni, che dovettero nascere in questa condizione di cose, non portassero le traccie della disuguaglianza di condizione, in cui si trovavano le due classi. Il plebeo, che non ha una posizione giuridica, e che quindi non può offrire garanzia di sorta al patrizio, quando voglia entrare in rapporto con esso, non può avere altro mezzo che quello di darsi a mancipio o divincolarsi col nexum, per guisa che, se esso non paghi, possa essere ridotto alla condizione di mancipio, assoggettandosi cosi alla manus iniectio. Di qui la conseguenza, che i durissimi concetti del mancipium, del nexum, della manus iniectio, prima di diventare istituti proprii del diritto quiritario, in cui presero poi una significazione speciale, dovettero significare dei rapporti, che si stabilirono fra patriziato e plebe, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza; il che spiega appunto quel carat tere di soggezione e di dipendenza di una persona ad un'altra, che è loro inerente. Che anzi, siccome le origini di certi concetti primitivi debbono talora cercarsi in un periodo anteriore a quello, in cui essi appari scono e cominciano a prendere una forma determinata e precisa, cosi anche questa significazione dei vocaboli di mancipium, di nexum, di manus iniectio non è ancora quella assolutamente pri mitiva; ma conviene cercarne le origini nelle lotte, che dovettero esistere in epoca più remota fra i vincitori ed i vinti, fra i con quistatori ed i conquistati. In questa indagine non può esservi altra luce fuori di quella, che viene dalla significazione diversa, che as sunsero i vocaboli, di cui si tratta. NELLA POVERTÀ DEL LINGUAGGIO giuridico primitivo il vocabolo mancipium assume significazioni molto diverse, che però riduconsi a due essenziali; a quelle cioè per cui significa: - o ciò  LANGE, Hist. inter. de Rome, I, 29. 204 che è soggetto al potere del capo di famiglia – o il modo per trasfe rirlo di una ad altra persona. Nel primo significato mancipium in dica anzitutto il prigioniero di guerra, stato ridotto in schiavitù; poi indica eziandio tutto cid, che può essere preso e assogettato colla manus: quidquid manu capi subdique potest,uthomo, equus, ovis; infine indica eziandio, allorchè il diritto quiritario è già formato, il complesso delle persone e delle cose, che dipendono dalla manus del capo di famiglia. Questa serie di significazioni, che si vengono sempre più estendendo, contengono in compendio la storia dell'istituzione. Non può esservi dubbio, che il primo mancipium dovette essere lo schiavo ed il vocabolo era anche acconcio ad esprimerlo, in quanto che questo era stato veramente manu captum e poi ridotto in schia vitù; poscia l'analogia lo fece estendere eziandio alle cose e persone, che erano assoggettate in modo analogo al potere della persona, quali erano i cavalli e i buoi, allorchè domati cominciavano a dipendere dalla mano dell'uomo; infine, quando la manus prese la significazione traslata, per cui essa designa il potere del capo di famiglia, tanto le persone, che le cose soggette al medesimo, poterono essere indi cate col vocabolo di mancipium. Giunge però tempo, in cui questo vocabolo sembra per la sua stessa origine essere disadatto a signi ficare tanto le persone, che le cose soggette al capo di famiglia, ed in allora esso scompare in questa significazione, ma continua ancora sempre a mantenersi nella sua significazione primitiva, che era la vera; come lo dimostrano le disposizionidell'editto degli edili curuli col titolo de mancipiis vendundis, ove il vocabolo continua sempre a significare lo schiavo. Quanto al tenore dell'Editto curule vedi Bruns, Fontes, 214. Non potrei ciò stante ammettere la significazione, che il MUIRHEAD ebbe di recente a proporre per i vocaboli di mancipium e di mancipatio, colla quale egli direbbe, che mancipium significa eziandio il potere, ossia la padronanza del manceps, e che perciò debba ritenersi come sinonimo di manus; donde egli deriva, che mancipare non deriverebbe da manu capere, ma piuttosto da manum capere (Histor. Introd.). Oltrecchè questa etimologia non servirebbe veramente a spiegar meglio la significazione primitiva del vocabolo; parmi eziandio che contraddica all'uso, che i giureconsulti fecero di questo vocabolo, attribuendo costantemente al medesimo una significazione passiva, la quale indica piuttosto la soggezione di una persona o di una cosa, che non il potere che appartiene sulla persona o cosa soggetta. Noi ve diamo infatti, che mentre occorrono talvolta le espressioni di habere manum, habere potestatem, habere dominium, i giureconsulti invece non direbbero mai habere man cipium nel senso di significare un potere, che spetti ad una persona,al modo stesso - 205 Se non che il vocabolo mancipium non significa soltanto ciò, che è soggetto al capo di famiglia, ma indica eziandio il trasferimento, di cui possono essere oggetto le cose, che entrano a costituirlo. Ciò è dimostrato dall'espressione vigorosa della legislazione decemvirale, nella quale si dice facere mancipium, facere nexum, al modo stesso, che direbbesi facere testamentum. Or bene non vi ha dubbio, che anche il facere mancipium deve avere subito delle trasforma zioni profonde nel proprio significato. Facere mancipium infatti dovette negli inizii indicare il darsi o il prendere a mancipio, la dedizione del vinto o la presa del vincitore, per cui quello viene in tutto ad essere a disposizione di questo. Ciò è dimostrato da questo che i servi, che erano chiamati mancipia ex eo, quod ab hostibus manu capiuntur, sono anche chiamati servi dediticii, in quanto che essi provenivano da una specie di resa o di dedizione del vinto al vin citore. Cio però non tolse, che il concetto del facere mancipium si applicasse eziandio a persone libere, che potevano dare se stesse a mancipio, od anche a persone, che dipendevano da esse, come accadeva nella noxae deditio. Che anzi è molto probabile, che nel periodo, in cui i plebei non erano ammessi a far parte della citta dinanza, il solo mezzo, che essi avessero per trovare protezione e difesa, fosse quello di darsi a mancipio. Infine, allorchè il mancipium prese quella significazione, eminentemente giuridica, per cui significa il complesso delle persone e delle cose, soggette al capo di famiglia, anche il facere mancipium ricevette una larghissima applicazione, per modo che la mancipatio verrà ad essere come il perno, sovra cui si modellano tutti gli atti, che modificano in qualche modo il potere del capo di famiglia . che non adoperano mai il vocabolo di nexus per indicare il creditore, ma sempre per designare il debitore. Convien quindi dire, che mancipium significò sempre la cosa soggetta o la trasmissione della medesima, ed è anche questo il significato, che ha sempre conservato dipoi, allorquando accade ancora di usare il vocabolo di mancipio. A ciò si può anche aggiungere, che il vocabolo di capio nella sua significazione giuridica suole sempre essere accompagnato dall'ablativo, come accade nell'usucapio, nell'usureceptio e simili.  A questo proposito è notabile il seguente passo di Festo, Vº Quot.: Quot servi tot hostes in proverbio est, de quo Sinnius Capito existimat esse dictum initio quot hostes tot servi quod tot captivi fere ad servitutem adducebantur , BRUNS, Fontes, 359.  Per la larghissima esplicazione della mancipatio nel diritto quiritario è da vedersi il Longo, La mancipatio, parte 14, Firenze, 1886. 206 165. Passando ora alla manus iniectio, noi riscontriamo nella medesima un processo del tutto analogo. Non può esservi dubbio che essa dovette essere dapprima il modo effettivo, con cui il vinci tore afferrava il vinto, in base al diritto di guerra e lo riduceva in schiavitù. Il suo concetto quindi nacque anch'esso nella lotta e nella violenza; ma poscia dai rapporti fra vincitori e vinti fu tra sportato anche fra le persone, che appartenevano alla stessa co munanza e significò l'esercizio privato delle proprie ragioni, come lo dimostra la seguente deffinizione di Servio: manus iniectio di citur, quotiens, nulla iudicis auctoritate expectata, rem nobis de bitam vindicamus. Pare però, che quest'esercizio privato delle proprie ragioni, che non si può conciliare coll'esistenza della pubblica autorità, non fosse riconosciuto dal diritto quiritario, che in alcuni casi soltanto. Infatti nel diritto quiritario noi troviamo la manus iniectio in due significazioni. Essa è il modo per trascinare avanti al magistrato colui che invitato a venirvi siasi rifiutato; ma in ciò non havvi ancora un esercizio privato delle proprie ragioni, bensì un mezzo per ottenere la presenza del convenuto avanti al magistrato. La manus iniectio poi, nella legislazione decemvirale, è anche un mezzo di esecuzione contro il proprio debitore; ma in questo senso è solo ammessa in alcuni casi, cioè: contro coloro che o abbiano confes sato il proprio debito (aeris confessi); contro coloro che siano stati condannati (iudicati); o infine contro coloro, che si siano ob bligati mediante il nexum (nexi). Ora di queste varie applicazioni del diritto di esecuzione privata contro il debitore, quella, che ri guarda gli aeris confessi ed i iudicati, suppone già un intervento dell'autorità giudiziaria; mentre quella, che riguarda il nexum, ri monta certamente ad epoca anteriore alla formazione della comu nanza, il che fa credere che la manus iniectio nelle proprie origini abbia avuto una stretta attinenza col nexum. Cio miporge quindi occasione di discorrere brevemente di esso e di dimostrare, che anche l'istituto del nexum è una di quelle istituzioni primitive, che trovo solo applicazione nei rapporti fra il patriziato e la plebe, e che poi entró a far parte del diritto quiritario. 166. Il nexum è certo uno degli istituti, che diffonde una triste aureola sul diritto primitivo di Roma. La sua origine è ignota; ma si può affermare con certezza, che essa rimonta ad epoca anteriore alla formazione della comunanza romana: poichè la tradizione già attribuisce a Servio Tullio dei provvedimenti diretti a limitare gli effetti, che derivavano da esso. Lo stesso è a dirsi della legislazione decemvirale, che lo suppone già esistente e si limita a trattenere in certi confini i maltrattamenti contro il debitore. Fu poi notato a ragione dal Niebhur, che il nexum con tutti i tristi suoi effetti apparisce soltanto nei rapporti fra il patriziato e la plebe; per guisa che la sua abolizione si riduce ad una specie di questione sociale fra le due classi; come è anche dimostrato da ciò, che Livio consi derd l'abolizione di esso come una vittoria della plebe sopra il pa triziato. Vero è, che questo fatto può anche essere spiegato con dire che solo il patriziato era in condizione di fare degli imprestiti alla plebe, e che perciò esso solo aveva interesse al mantenimento di questo  ingens vinculum fidei ; ma parmiche il carattere vero di questa istituzione possa essere più facilmente spiegato, quando si cer chino le cause, che vi hanno dato origine. Il nexum dovette essere un modo di obbligarsi di colui, che, non avendo altre garanzie da offrire al proprio creditore, obbligava direttamente la propria persona. Ora è questa appunto la condizione, in cui si trovò il plebeo di fronte al patrizio, anteriormente alla formazionedella comunanza romana, allorchè, sprovvisto di qualsiasi diritto, non aveva altro mezzo, per trovare protezione o credito, che o di dare a mancipio se o la fa miglia, o di vincolarsi col nexum. Quello era una specie di dedizione di se stesso e questa era una specie di ipoteca, che egli consentiva sulla propria persona. Siccome poi, come si vedrà a suo tempo e come del resto fu già ritenuto dal Niebuhr, il nexum non obbligava che la persona, e non attribuiva qualsiasi diritto sui beni di esso; cosi in parte si comprende che il diritto del creditore sul debitore, sia stato spinto a quelle estreme esagerazioni, che a noi riescono pressochè inesplicabili. 167. Quanto al vocabolo poi non può esservi dubbio, che esso ebbe ad assumere significazioni molto diverse. (Liv. VIII, 28, in princ.:  Eo anno plebi romanae velut aliud initium liber tatis factum est, quod necti desierunt ; e più sotto:  victum eo die ingens vin culum fidei. Cfr. Niebhur, Hist. Rom. Della portata e degli effetti del nexum, come pure del mancipium, si discorrerà più sotto; poichè qui importava solo di cercare l'origine dei vocaboli e dei concetti coi medesimi significati. 208 Anche qui è probabile, che il nexum nella sua primitiva signifi cazione indicasse veramente i vincoli, a cui sottoponevasi lo schiavo fuggitivo; ma che poscia dalla significazione letterale siasi fatto pas saggio alla significazione giuridica. Tuttavia rimangono ancor sempre le traccie delle due significazioni, in quanto che gli storici chiamano col vocabolo di nexi, ora quelli che si trovano già condotti nel car cere privato del debitore, ed ora invece i debitori, che si sono ob bligati colle forme solenni del nexum. Del resto anche questo vo cabolo, al pari di quello dimancipium, significa non solo il vincolo fisico o giuridico, a cui altri si sottopone, ma eziandio l'atto con cui egli contrae il vincolo stesso (nexum facere). La conclusione intanto viene ad essere cotesta, che tutti questi istituti più rozzi, che appariscono nel primitivo ius quiritium, dovet tero aver avuto origine nei rapporti fra i vincitori e i vinti, i quali trasformati in varia guisa furono poi estesi anche ai rapporti fra il patriziato e la plebe. Sarebbe insomma anche qui accaduto cið, che pure accadde delle altre istituzioni del diritto quiritario, che esse si svolsero dapprima fra le varie genti o almeno fra i diversi capi di gruppo e furono poiapplicate nei rapporti dei quiriti fra di loro. Al modo istesso, che i concetti di connubium, di commercium e dell'actio sacramento si spiegarono dapprima fra le varie genti ed i loro capi, e solo più tardi si svilupparono nel diritto quiritario; così i concetti del mancipium, del nexum, e della manus iniectio, dopo essersi formati fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, ed essersi poi applicati ai rapporti fra il patriziato e la plebe, si tra sformarono in istituzioni proprie del diritto quiritario. Di qui il carattere di rozzezza, di violenza, inerente ai medesimi, che rese necessaria la loro trasformazione ed anche il cambiamento dei vo caboli, con cui furono indicati, a misura, che vennero sempre più pareggiandosi le due classi, dopo che entrarono a far parte della stessa comunanza civile e politica. 168. Che se, riassumendo, si volesse ora dare uno sguardo sinte tico a quelle istituzioni esistenti fra le genti italiche, anteriormente alla fondazione della città, che si vennero ricostruendo a poco a poco, noi possiamo scorgere fin d'ora, che già si erano poste le basi fondamentali del diritto pubblico, privato ed internazionale, che ebbe poi a svolgersi in Roma. Quanto al diritto pubblico infatti, già erasi elaborato il concetto del potere monarchico, di cui avevasi il modello nel capo di famiglia; - 209 quello di un elemento aristocratico, che era rappresentato dal con siglio degli anziani, proprio della gente; e quello infine di un ele mento popolare e democratico, il quale già aveva cominciato a svolgersi nelle tribù e a presentare quel dualismo fra patriziato e plebe, che doveva poi ricevere nella città tutto lo svolgimento, di cui poteva essere capace. Furono questi elementi che, accomodati alle esigenze della vita civile e politica, servirono di base alla co stituzione primitiva di Roma e condussero naturalmente allo svolgi mento dei poteri, che furono attribuiti al re, al senato ed al popolo. 169. Così pure quanto al diritto privato, già erano in pronto gli elementi diversi, i quali,amalgamandosi insieme, dovevano porre le basi del diritto civile di Roma. Eravi infatti un diritto proprio delle genti patrizie, che, appoggiandosi da una parte sull'elemento religioso del fas e dall'altra sopra l'elemento morale del mos, già aveva dato origine ai concetti fondamentali del connubium, del commercium e dell'actio sacramento, ed aveva elaborato tutte quelle forme tradizionali e solenni, in cui si fecero entrare a poco a poco i nuovi rapporti giu ridici, ai quali diede occasione il formarsi e lo svolgersi della convi venza civile e politica. Esisteva parimenti, ancorchè solo in via di formazione, un diritto proprio della comunanza plebea, fondato so pratutto sull'usus auctoritas, il quale, per essere più semplice nella sua forma, più alieno dalle solennità, più libero da ogni influenza del passato poteva meglio adattarsi alle esigenze della vita civile e po litica. Da ultimo già cominciava ad elaborarsi un diritto, che non poteva dirsi proprio, nè del patriziato, nè della plebe, mache ten deva a racchiudere in forme rozze e primitive i rapporti, che inter cedevano fra di essi. Questo diritto era tutto uscito dal concetto fondamentale della manus, in quanto esprime il potere del capo di famiglia patrizio, ed aveva dato origine ai concetti del mancipium, del nexum e della manus iniectio, i quali, debitamente trasformati, si dovranno poi convertire in altrettanti concetti fondamentali del diritto quiritario. È quest'ultimo elemento, che attribuisce al ius qui ritium quel carattere di rozzezza e di forza, che lo contraddistingue. Tuttavia fu esso che, isolando l'elemento giuridico dall'elemento re ligioso e dal morale, con cui prima trovavasi confuso, viene a for mare il primo nucleo di quel ius quiritium il quale, assimilando col tempo istituzioni patrizie e costumanze plebee, finirà per conver tirsi in un ius civile, che poteva convenire alle due classi, che erano chiamate a far parte della stessa comunanza civile e politica. C., Le origini del diritto di Roma. De ultimo, anche per quello che si riferisce a quei rapporti, che con vocabolo moderno si potrebbero chiamare internazionali, già erausi poste le basi di un ius belli ac pacis, e si erano elabo rati i concetti dell'amicitia, dell'hospitium,della societas, e del più importante fra tutti, che era quello del foedus, il quale poi doveva somministrare il mezzo per far partecipare più tribù alla stessa vita politica, militare e giuridica, e per dare cosi origine alla città. Questa parimenti, traendo profitto dagli istituti della cooptatio, della co lonia, della concessio civitatis sine suffragio, del municipium, pos sedeva anche i mezzi per accrescere la sua popolazione e per esten dere il proprio impero. I materiali quindi erano in pronto: solo rimane a vedersi il pro cesso, col quale Roma, gittandoli tutti nello stesso crogiuolo, abbia saputo scegliere ciò, che in essi eravi di vigoroso e di vitale, e sia così riuscita a ricavarne lentamente e gradatamente la propria co stituzione politica, e quel diritto privato, il quale svolgendosi sempre sul medesimo modello e sempre arricchendosi di nuovi elementi, finirà per diventare tale da poter essere accettato da tutte le genti. Intanto una delle cause, che condurrà a questo risultato, sarà la distanza stessa, a cui trovansi i due ordini, che debbono insieme con tribuire alla formazione della città. Sarà tale distanza infatti, che forzerá la costituzione di Roma a percorrere tutte le gradazioni, di cui possa essere capace, e che obbligherà il diritto privato di Roma a riconoscere la capacità di diritto ad ogni uomo, purchè libero. Per tal guisa tutte le gradazioni del senso giuridico, dalle più semplici e naturali alle più sottili e raffinate, cadranno sotto l'elabo razione dei giureconsulti, e l'universalità del diritto romano dovrà sopratutto essere attribuita a ciò, che esso è la più completa e pre cisa espressione di un complesso di sentimenti eminentemente sociali ed umani, che nacquero e si svolsero insieme colla convivenza ci vile e politica. - 1 LIBRO II. Roma e le sue istituzioni nel periodo esclusivamente patrizio ("). CAPITOLO I. Genesi e carattere della città primitiva. 171. Nella storia non vi ha forse avvenimento, il quale abbia eser citata maggiore influenza sulle sorti dell'umanità che il passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica. Sotto quest'aspetto non sarà mai abbastanza approfondita la storia pri mitiva di Roma, perchè non vi ha certamente altro popolo, che abbia più vivamente sentito, e quindi più profondamente scolpito nelle proprie istituzioni questa importantissima trasformazione, che (* ) Pervenuto a questo punto della trattazione, trovomidi fronte ad una lettera tura così copiosa, che mi sarebbe impossibile di poter indicare la bibliografia, che può riferirsi ad ogni singolo argomento. Siccome quindi l'intento del libro è quello unicamente di tentare una ricostruzione delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma primitiva; così mi limitero ad indicare in nota gli autori, di cui prendo in esame le opinioni, e i passi di antichi scrittori, sui quali si fonda l'opinione da me sostenuta, e non mi fard anche scrupolo di citare una traduzione, quando non tenga l'originale, sopratutto di autori tedeschi. Quanto alla bibliografia, essa potrà essere facilmente trovata nei recenti trattati di storia del diritto romano, o di introduzione storica allo studio del diritto romano, quali sono in Francia quelli dell' ORTOLAN, del Bouché -LECLERCQ, del Maynz, del MISPOULET, del Roblou et Delaunay, del MORLot, ecc.; nel Belgio quelli del Maynz, del Rivier, del WILLEMS, ecc.; in Ger mania quelli del Bruns, del BARON, del KARLOWA, del Voigt, dell'HERZOG, ecc.; in Inghilterra quelli del MUIR EAD e del Roby; e nella nostra Italia quelli del PA DELLETTI-Cogliolo, e del LANDUCCI, ecc.; trattati, che ho citato già, o che mi occor rerà di citare in seguito. Mi perdoni il lettore: ma la sola bibliografia, fatta un po ' a dovere, mi avrebbe assorbito il volume. 212 accadde nell'organizzazione sociale. A ciò si aggiunge, che lo spirito conservatore del popolo Romano ha fatto si, che esso, modellando e svolgendo la città primitiva, abbia sempre conservato le traccie delle istituzioni preesistenti, e dei periodi diversi, per cui passò la nuova formazione. Di qui la conseguenza, che quando si riesca a penetrare il processo logico, stato seguito dai Romani nella fondazione della loro città, si potranno determinare con rigore geometrico non solo l'orientamento materiale di essa, e il modo, con cui furono costrutte le sue mura; ma eziandio la serie di quei concetti fondamentali, che, preparati in un periodo anteriore, ricevettero poi nella città tutto lo sviluppo, di cui potevano essere capaci. Già si è veduto, come nella organizzazione gentilizia siasi svolta la famiglia colla sua distinzione fra i padroni ed i servi, la gente con quella fra patroni e clienti, e infine la tribù con quella fra patrizii e plebei. È da questo punto dell'evoluzione sociale e da questo dualismo costante, che incomincia la formazione della città. Trattasi pertanto di vedere in qual modo, con questi elementi, che si erano naturalmente formati e sovrapposti gli uni agli altri, abbia potuto essere iniziata la convivenza civile e politica. Fu questa una continuazione del medesimo processo formativo dell'organizzazione gentilizia, o fu invece il risultato di qualche nuova energia o forza operosa, che si introdusse nell'organizzazione sociale? 172. Le teorie, che furono escogitate in proposito dagli studiosi della storia primitiva di Roma, sono molte in numero e diverse nei risultati a cui giunsero; quindi per noi sarà necessità di arrestarsi alle principali. Per il Mommsen, il Sumner Maine, e per la maggior parte degli autori moderni, la città primitiva avrebbe nei proprii esordii un ca rattere eminentemente patriarcale, e non sarebbe in certo modo, che un ulteriore svolgimento della stessa organizzazione gentilizia; essa sarebbe un edifizio, le cui proporzioni si sono fatte più grandi, ma che è foggiato sempre sul medesimo modello. A quel modo, che la famiglia ingrandita, dando origine a diramazioni diverse, avrebbe costituita la gente, e che le genti, riunendosi insieme, avrebbero dato origine alle tribù; cosi l'aggregazione delle tribù in un numero determinato, che sembra essere diverso secondo i varii popoli, avrebbe dato origine alla civitas. Afferma pertanto il Mommsen, che la famiglia e la gente non solo avrebbero somministrati gli elementi, da cui fu costituita, ma anche il modello, sovra cui sarebbesi fog  213 giata la comunanza civile e politica. Il re della città sarebbesi mo dellato sul capo di famiglia, e avrebbe i poteri patriarcali al mede simo spettanti; il senato non sarebbe che un consiglio di anziani, come lo prova il nome di patres, dato per tanto tempo ancora ai senatori, e compierebbe nella città quella medesima funzione, che il tribunale domestico compieva nella famiglia, e il consiglio degli anziani nella gente e nella tribù; il populus non sarebbe che la riu nione delle gentes, per guisa che sarebbe cittadino ogni individuo, che appartenga ad una di tali gentes; e da ultimo il territorio ro mano comprenderebbe i territorii riuniti, che appartenevano alle varie gentes, le quali pertanto sarebbero incorporate nello Stato nella condizione stessa, in cui prima si trovavano, e con tutte le fa miglie, che entravano a costituirle. Tale a un dipresso sarebbe eziandio la teoria del Sumner Maine, il quale si limita a dire, che come la tribù era stata una riunione di gentes, cosi la città era dovuta all'incorporazione di varie tribù. Il Lange invece, mentre si studia in tutti i modi per dimostrare, che lo Stato e il suo ordi namento è fondato sulla famiglia, e che il diritto pubblico di Roma sarebbe in certo modo uscito dal seno del diritto privato, e sareb besi modellato sul medesimo, viene poi a riconoscere, che la città primitiva è già fondata sopra una specie di contratto, il quale avrebbe modificato i poteri patriarcali del re, e al principio dell'e redità avrebbe fatto sottentrare quello dell'elezione (3 ). Il Jhering invece scorge nella costituzione primitiva di Roma un carattere essenzialmente militare. Per lui il re sarebbe un condottiero, un capitano, e il suo potere sarebbe, in sostanza, un militare im perium, destinato sopratutto a mantenere la disciplina nell'esercito, e percid accompagnato dal ius gladii; la curia da conviria sa rebbe una riunione di uomini armati, che si chiamano quiriti da quiris, asta, che è il contrassegno del potere aimedesimi spettante; il populus romanus quiritium sarebbe l'assemblea complessiva dei guerrieri, portatori di lancia; e infine le gentes stesse, in cui egli ritiene ancora che si dividano le curiae, sarebbero gruppi naturali, basati bensì sulla discendenza, ma già raffazzonati secondo le esi  Mommsen, Histoire Romaine. Trad. DeGuerle. Paris, 1882, I, 77 et suiv.  SUMNER MAINE, L'ancien droit. Trad. Courcelle Seneuil. Paris, 1874, 121.  Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier, Paris, 1885, 37. 214 - genze di un esercito; donde quel numero fisso di trenta curiae, in cui sarebbe ripartito il popolo primitivo di Roma, le quali poi sareb bero suddivise in trecento gentes. A queste vuolsi eziandio aggiungere la teoria, così splendidamente esposta dal Fustel de Coulanges, secondo la quale quella religione, che avrebbe fondata la famiglia e la proprietà, la gente e la tribù, sarebbe pur quella, che avrebbe fondata e cementata la primitiva città. La civitas pertanto sarebbe per lui l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù; mentre l'urbs sarebbe il luogo di riunione, il domicilio, e sopratutto il santuario di questa associa zione, nella quale ogni istituzione assumerebbe un carattere essen zialmente religioso. Non è a dubitarsi, che queste varie opinioni contengano tutte alcun che di vero, e che ognuna possa invocare delle analogie e degli argomenti, che le servano di appoggio; ma intanto ciascuna di esse, collocandosi ad un punto di vista esclusivo, mal pud riuscire a spie gare in modo coerente la natura cosi varia e complessa della costi tuzione primitiva di Roma: il cui concetto sembra sbocciare da una sintesi potente, la quale non può altrimenti essere ricostruita, che riportandoci nell'ambiente stesso, in cui essa ebbe a formarsi. È questo il motivo, per cui è impossibile spiegare quel carattere di unità e di varietà ad un tempo, con cui Roma compare nella storia, senza seguire la lenta e progressiva formazione della città, e tener conto delle necessità reali ed effettive, a cui le genti primitive cer carono di soddisfare, creando la comunanza civile e politica. Or bene io non dubito di affermare che, collocandosi a questo punto di vista, apparisce fino all'evidenza, che la città per le po polazioni latine non può essere considerata come una continuazione del processo formativo dell'organizzazione gentilizia prima esistente; ma inizia un nuovo ordine di cose sociali, e segue un indirizzo  V. IHERING, L'esprit du droit romain. Trad. Maulenaere. Paris, 1880, I, $ 20, 246 e segg.; dove mette molto bene in evidenza il carattere militare della primitiva costituzione romana, e l'influenza che esso esercitò anche sullo svolgersi del suo diritto; alla quale opinione in parte anche si accosta lo SchweGLER, Rö mische Geschichte, I, 523.  FUSTEL DE COULANGES, La cité antique. Paris, 1876. Liv. III, Chap. IV, p. 155. È però a notarsi, che l'autore è a un tempo fra quelli, che a ragione insistono sul carattere confederativo della città primitiva. Cfr. 147. 215. compiutamente diverso, il quale doveva logicamente condurre alla dissoluzione dell'organizzazione sociale preesistente. Per verità si è veduto più sopra, come le popolazioni latine, che avevano preceduta la fondazione di Roma, già fossero pervenute ai concetti dell'urbs, del populus, della civitas. Che anzi tali concetti, per le popolazioni del Lazio, erano già stati il frutto di una lunga evoluzione. Esse avevano cominciato dal costruire dei siti fortificati (arces, oppida ), in cui le comunanze rurali potessero cercare rifugio nei momenti di pericolo, e in cui potessero ricoverarsi coi proprii greggi e coi proprii armenti in un'epoca, in cui erano quotidiane le scorrerie e le depredazioni nei rispettivi territorii delle varie co munanze. Il primo bisogno pertanto, a cui le genti del Lazio ave vano cercato di soddisfare, era stato quello di provvedere alla co mune difesa. Poscia, siccome la sicurezza è condizione, che favorisce gli scambi ed i commerci, così fu naturale, che, accanto a questi luoghi fortificati, si siano formati dei siti (fora ), a cui le genti convenivano per scopo di commercio, e dove, occorrendo, si tratta vano anche le alleanze e le paci. Col tempo infine questa mede sima località apparve anche sede opportuna così per l'amministra zione della giustizia, che per la trattazione di quegli affari, che riguardassero l'interesse delle varie comunanze (conciliabula ). Per genti poi, in cui era vivo il sentimento della religione, era naturale, che questa comune fortezza e questo luogo di convegno (comitium ) fossero posti sotto la protezione di una divinità, non propria di questa o di quella gente, ma comune alle varie genti; e fu anche in questa guisa, che le menti giunsero a concepire una reli gione collettiva al di sopra di quella propria delle singole famiglie e genti. 174. Per tal modo il concetto della città non sboccið di un tratto, ma ebbe ad essere provato e riprovato in varie guise sotto forma di arces, di oppida, di fora, di conciliabula, di comitia, e infine di urbes; e fu soltanto, allorchè questa lenta costruzione ebbe ad essere compiuta, che i riti, secondo cui le città dovevano essere fon date e la loro popolazione doveva essere ripartita, assunsero un Questa idea, che è fondamentale nella presente trattazione, ebbe ad essere accennata e dimostrata più sopra, nei suoi varii aspetti, nel lib. I, ai numeri 5, 14, 66, 99. - 216 - carattere sacro e religioso, per modo che ogni fondazione di città ebbe ad essere accompagnata da cerimonie religiose. L'urbs venne così ad essere il frutto di una lunga evoluzione, che già erasi inco minciata in seno alla stessa organizzazione gentilizia. Essa per tanto, fin dai suoi primordii, non si presenta sotto l'aspetto di una aggregazione di gruppi gentilizii, come vorrebbero il Mommsen e gli autori sopra citati; ma piuttosto come il frutto di una specie di selezione, per cui dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia, si viene sceverando ed isolando tutto ciò, che si riferisce alla vita pub blica. Quindi la città primitiva viene ad apparire come un centro e un focolare di vita pubblica, fra varie comunanze di villaggio, la cui vita domestica e patriarcale continua a svolgersi nei vici e nei pagi. Di qui la conseguenza, che se essa sia materialmente consi derata, cioè come urbs, non si presenta, nelle proprie origini, come la riunione delle abitazioni private; mapiuttosto come la riunione in una orbita sacra degli edifizi, aventi pubblica destinazione, come la fortezza, il santuario comune, la dimora del re (custos urbis ) e dei sacerdoti (sacerdotes populi), il luogo (forum ) ove si tiene il mercato e si am ministra la giustizia, il sito ove si tengono le riunioni (comitia ) per deliberazioni di pubblico interesse; donde la curia, il qual vocabolo designa tanto il luogo di riunione, quanto il complesso delle persone che vi si riuniscono. Che se poi la città primitiva sia riguardata negli ele menti, che entrano a costituirla, essa non è più l'organizzazione delle gentes o delle tribù, nelle quali si comprendevano anche le donne, i vecchi ed i fanciulli; ma è solo il complesso di quegli uomini, ricavati dalle gentes e dalle tribù, che possano aver partecipazione attiva alla vita pubblica; di quegli uomini cioè, che possano difendere la cosa pubblica come soldati (iuniores), o che col proprio consiglio possano giovare alla medesima nelle deliberazioni, che la riguardano (se niores). L'urbs insomma è il risultato di una selezione, in virtù della quale si raccolgono in uno stesso sito tutti gli edifizi, che hanno pubblica destinazione; il populus è una selezione, per cui fra i membri delle gentes si organizzano, in esercito ed in comizii ad un tempo, coloro, che siano in età e in condizione di provvedere alla difesa ed all'interesse comune; la civitas infine, è quel rapporto speciale, che intercede fra le persone, che compongono il populus, in quanto esse appartengono alla medesima cittadinanza, e parteci pano alla stessa vita politica e militare. La città latina pertanto, e quindi anche Roma, che è un esemplare tipico della medesima, anzichè essere un'aggregazione di gentes e di tribus, corrisponde invece a un nuovo aspetto di vita sociale: cioè al nascere ed allo svolgersi di una comune vita poli tica, frammezzo a popolazioni rurali, che continuano ancora a svol gere la loro vita domestica nelle comunanze patriarcali. Allorchè essa compare, quella organizzazione gentilizia, che aveva prima com piuto le funzioni di associazione domestica e politica ad un tempo, si viene biforcando: mentre la vita privata continua a spiegarsi nelle pareti domestiche, ed in gruppi concentrati sotto l'autorità del capo di famiglia, la vita politica invece prende a svolgersi nella piazza e nel foro, e dà cosi origine a quelle discussioni e a quelle lotte, che costituiscono la vita e il movimento della città. Di qui la conseguenza, che la città, dopo aver ricavato gli elementi, che entrano a costituirla, dalle comunanze che la circondano, finisce per preparare la via alla estinzione dell'organizzazione gentilizia, e sopratutto di quelle gradazioni di essa, che prima compievano eziandio una funzione politica, quali sarebbero la gente, la tribù e la clientela. Le istituzioni invece, che colla sua formazione vengono ad affermarsi e a costituire le due basi dell'organizzazione sociale, sono i due elementi estremi, cioè: la famiglia da una parte, la quale finisce per richiamare a sè medesima tutto quello, che si riferisce alla vita domestica; e la città dall'altra, poichè essa, essendo la meta e l'aspirazione comune, tende ad attirare nella propria cerchia tutte le energie naturali e sociali, che possono conferire a darle forza e con sistenza. Di qui la conseguenza, che le due figure preponderanti, negli inizii della città, vengono ad essere il pater familias, il quale è il solo, che abbia piena capacità di diritto, ed il populus, il quale richiama a sè tutti gli elementi vigorosi e vitali, che esistono nelle comunanze, che colla propria federazione hanno dato origine alla città. Siccome perd l'opera si viene compiendo gradatamente; cosi sarà necessario un lungo svolgimento, prima che la città si possa affatto spogliare di quelle forme, che essa ricava ancora dall'orga nizzazione gentilizia, e prima che la famiglia possa perdere quel carattere pressochè civile e politico, che essa aveva assunto durante il periodo gentilizio. 176. Si può quindi conchiudere, che il processo formativo della organizzazione gentilizia e quello della città si avverano in guisa com piutamente diversa, e sono avviati in senso pressochè contrario ed opposto. - 218 Mentre il processo formativo dell'organizzazione gentilizia, in tutte le sue gradazioni, consiste in una stratificazione di gruppi natu rali, che si sovrappongono gli uni agli altri, e intanto continuano sempre ad essere foggiati sul medesimo modello, che è quello della famiglia patriarcale; la città invece non deve più la sua esistenza ad un processo di aggregazione, ma ad un processo, che potrebbe chiamarsi diselezione. Essa non comprende più tutta la vita sociale, come la tribù; ma tende invece ad isolare l'elemento giuridico, po litico e militare dagli altri aspetti di vita sociale, che si spiegavano strettamente uniti, e pressochè confusi gli uni cogli altri nell'orga nizzazione patriarcale. Di qui derivano alcune importantissime conseguenze. Mentre l'organizzazione gentilizia, per quanto abbia già in sè qualche cosa di artificiale, in quanto che in essa la famiglia deve anche compiere funzioni politiche, può tuttavia ancora considerarsi come una pro duzione naturale, come quella che è composta di gruppi uniformi, che si sovrappongono gli uni agli altri, e il cui vincolo, vero o supposto, è pur sempre quello della discendenza da un antenato comune; la città invece viene già ad essere il frutto dell'accordo, del contratto, della federazione insomma di varii elementi, che si associano per costituirsi un centro comune di vita politica, e per provvedere così alla comune utilità ed alla comune difesa. Mentre l'organizzazione gentilizia, comprendendo persone, che si suppongono derivare da un medesimo antenato, tende a mantenere una proprietà comune e collettiva; la città invece, uscendo dalla federazione e dall'accordo, tende ad assicurare ai singoli capi di famiglia le possessioni e le terre, che loro appartengono, solo se parandone quel complesso di beni e di interessi, che riguarda l'uni versalità dei cittadini, il quale costituisce così un patrimonio co mune, che col tempo sarà indicato col vocabolo di res publica. Mentre infine il principio informatore dell'organizzazione gentilizia consiste nell'eredità e nella discendenza, per guisa che in essa tutto tende ad acquistare un carattere ereditario; il principio in vece informatore della comunanza civile e politica, appena essa compare, viene ad essere quello della capacità e dell'elezione. Tutto questo svolgimento della città primitiva, che solo erasi iniziato presso le popolazioni latine, potè spingersi con Roma a tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Allorchè essa compare, il periodo di incubazione della città può 219. già ritenersi compiuto, e quindi le cerimonie, che ne accompagnano la fondazione, già hanno assunto un carattere sacro e religioso. È cogli auspizii, che incomincia la fondazione di Roma, per conoscere a quale dei due fratelli debba essere affidata la fondazione e il reg gimento della città. Tuttavia la Roma Palatina, finchè è contenuta. nei limiti dello stabilimento romuleo, non pud ancora chiamarsi una vera e propria città; ma è piuttosto lo stabilimento fortificato di una aggregazione di genti, dedita di preferenza alle armi, che è la tribù dei Ramnenses. Tutto è ancora patriarcale nella medesima; il suo re, che è il sacerdote, il capitano, e che non è ancora eletto, ma è designato dalla propria nascita e dagli auspizii; i suoi anziani, i quali non sono che i padri delle genti, che entrano a costituire la tribù; e infine anche il suo populus, che è composto ancora di persone, che si ritengono unite dal vincolo della comune discendenza, come lo dimostra la loro stessa denominazione di Ramnenses, derivata dal nome del proprio capo. Non è quindi appena stabilitosi sul Palatino, che Romolo, secondo la tradizione, procede alla costituzione politica della città. Secondo Livio, ciò accade soltanto dopo la guerra coi Sabini, e secondo Ci cerone aspettasi perfino la morte di Tito Tazio, capo dei medesimi. È da questo momento, che la città assume un carattere federale e pressochè contrattuale. Le singole tribù infatti continuano a risie dere ciascuna sopra il proprio colle, e ad avere delle proprie forti ficazioni; ma è il Capitolium, che mutasi nella fortezza delle varie comunanze, come pure gli edifizii pubblici si vengono raccogliendo nel sito, che trovasi fra il Palatino ed il Capitolino. È quivi che è collocato il locus Vestae, la domus regia Numae, le novae cu riae, da non confondersi colle curiae veteres , il cui sito era sul Palatino, edifizii tutti, che, secondo il rito, dovevano trovarsi nel cuore stesso della città. Non consta quindi che le tribù confederate abbiano abbandonate le proprie possessioni e le proprie terre; ma ciò, che esse ebbero comune fu soltanto la città ed il governo di essa, come lo dimostra il fatto, che secondo la tradizione vi sarebbe stato un breve periodo di tempo, in cui Romolo e Tazio avrebbero (Livio, I, 13; Cic., de Rep. II, 8. Cfr. più sopra, i numeri 85, 86.  Novae curiae (scrive Festo) proxime compitum Fabricium aedificatae sunt, quod parum amplae erant veteres a Romulo factae . Tuttavia vi restarono an cora sette curie, che continuarono a compiere i loro sacra nel sito antico (Bruns, Fontes, 346 ). 220 regnato contemporaneamente: il che significa, che ciascuno di essi avrebbe conservato la qualità di capo della propria tribù. Non è quindi meraviglia, se la città primitiva presenti ancora per qualche tempo le traccie dell'organizzazione gentilizia, perchè il trapasso dalla semplice tribù ad una vera e propria città si operò solo gra datamente. Intanto però la trasformazione viene ad essere iniziata e proseguita senz'interruzione fin da quel momento, in cui al vin. colo della discendenza si sostituisce quello della federazione e del l'accordo, e alla trasmessione ereditaria sottentra il principio del l'elezione. 178. A ciò si aggiunge, che Roma, fin dai proprii esordii, si trovo in una condizione diversa da quella delle altre città latine, da cui trovavasi circondata. Essa infatti non costitui soltanto un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze rurali; ma diventò ben presto un centro di vita urbana, contrapposta alla vita rustica dei campi. I suoi primi fondatori, pur conservando i proprii agri genti lizii, avevano ottenuto nel recinto stesso della città uno spazio di terra, ove avevano potuto costruirsi una casa, circondata da un orto. Per tal guisa in Roma non eravi soltanto l'elemento, che conveniva nei giorni di festa, o di pubbliche riunioni, o per causa di fiera e di mercato; ma eravi una parte eziandio, e questa era quella dell'antico patriziato, che, pur conservando la propria dimora gentilizia, aveva posta sede permanente dentro la città, o in prossimità di essa. Fu in questa guisa, che Roma diventò ben presto, secondo l'espressione del Mommsen, l'emporio del Lazio, e che, dopo aver cominciato, al pari delle altre città latine, dall'essere un centro di vita pub blica fra diverse comunanze, cambiossi ben presto eziandio in un centro urbano, la cui vita si contrappose a quella dei campi, e venne cosi accrescendosi costantemente, mediante quell'attrazione, che i centri urbani esercitano anche oggi sulle popolazioni, da cui tro vansi circondati. È questo che spiega come, durante lo stesso periodo regio, Roma da sola già potesse conchiudere un foedus aequum con tutta la confederazione latina, e come l'intento costante dei re sia stato quello di estenderne la cerchia per guisa da comprendere in essa anche le abitazioni private dei cittadini. Intanto agli altri dua lismi, che presenta Roma fin dai proprii inizii, debbe anche aggiun gersi quello, per cuidistinguesi la vita urbana dalla vita rustica; come lo dimostra il fatto che il patriziato romano ha serbata sempre la consuetudine di passare un periodo di tempo fra le mura della città, 221 e un altro invece alla campagna (ruri), frammezzo alle proprie pos sessioni gentilizie: consuetudine, che anche oggi può dirsi mantenuta dal patriziato romano. Di qui la conseguenza, che Roma, in una lunga e lenta evoluzione, poté compiere in ogni sua parte quello svolgimento, che solo erasi iniziato presso le altre popolazioni latine. Essa riusci a sceverare la vita pubblica dalla privata, l'elemento sacro dal pro fano, la vita urbana dalla vita rustica, la vita militare dalla vita civile; ed effigid questi atteggiamenti diversi della vita sociale ed umana con un linguaggio così efficace e scultorio, che nessun'altra città può in questa parte competere con essa. Di queste varie distin zioni, quella, che cominciò ad effettuarsi fin dal periodo di Roma esclusivamente patrizia, fu la distinzione fra la vita pubblica e la vita privata; mentre la distinzione fra l'elemento sacro ed il profano cominciò solo ad operarsi, allorchè la plebe, che non era partecipe del culto gentilizio, fu anche ammessa a far parte della cittadinanza romana; e da ultimo la distinzione fra la popolazione rustica ed urbana, solo prese a farsi evidente, allorchè la città si accorse di essere in parte dominata dalla turba forense. Infine il dualismo fra la vita militare e la vita civile è anche uno di quelli, che appariscono costantemente nella storia di Roma, e che rimontano fino agli inizii di essa. Il suo populus è un'assem blea ed un esercito ad un tempo; il suo magistrato ha l'imperium domi, militiaeque; i suoi cittadini hanno un periodo di età, in cui partecipano al servizio attivo, e un altro, in cui entrano a formare l'esercito di riserva; gli atti stessi più importanti della vita, quale sarebbe, ad esempio, il testamento, possono farsi in guisa diversa, secondo che trattisi di cittadini in tempo di pace, o di soldati in procinto di venire a battaglia; la quale distinzione poi mantiensi co stante per modo, che anche con Giustiniano il testamento pud distin guersi in comune ed in militare. Per tal modo il cittadino di Roma è uomo di toga e di spada ad un tempo, e si acconcia alle esigenze della pace e a quelle della guerra (rerum dominos, gentemque togatam ). 180. Sopratutto qui importa di mettere in evidenza quel dua lismo, che colla formazione della città venne ad introdursi fra la vita pubblica e la privata; in quanto che fu questo il grande intento, a cui si ispirò Roma primitiva, e a cui accennano costantemente i 222 poeti latini, i quali non trovano espressione più efficace per indicare la corruzione del costume, e il perdersi delle buone tradizioni, che l'accennare alla confusione della cosa pubblica colla privata. È questo il dualismo veramente fondamentale, che, una volta in trodotto, finisce per riverberarsi, con un processo logico non mai in terrotto, in una quantità di altri dualismi, che compariscono costan temente nelle stesse circortanze sociali, e che potrebbero essere paragonati ad una voce, che con gradazioni diverse viene ad es sere ripercossa e ripetuta dall'eco. 181. Per verità è ovvio il considerare, come in seguito alla forma zione della città, accanto alla gentilitas, che era il rapporto, che stringeva i varii membri dell'organizzazione gentilizia, si svolga la civitas, la quale è il rapporto, che unisce coloro, che appartengono alla stessa comunanza militare e politica. Quindi è, che alla distin zione fra liberi e servi, fra gentiles e gentilicii, viene ad aggiun gersi e ad acquistare un'importanza sempre maggiore quella fra cives e peregrini. Cosi pure, accanto ai genera hominum, che sono sparsi nei pagi e nei vici, e che comprendono senza distinzione tutti coloro, che si suppongono discendere da un medesimo antenato, si svolge il concetto del populus, che dapprima non comprende ogni ordine di persone, ma solo il complesso degli uomini validi ed ar mati, che col braccio e col consiglio possono partecipare alla difesa ed al governo della cosa pubblica. Procedendo ancora innanzi, accanto al concetto della res fami liaris, che comprende il complesso degli interessi privati di una de terminata persona, si esplica il concetto della res publica, il quale, per essere più astratto, compare più tardi, che non quello del popu lus; ma finisce anch'esso per esprimere con potenza ed efficacia il complesso degli interessi comuni alla intiera città, ed a tutto il popolo (res populi). Intanto così la res familiaris, come la res pu blica debbono avere un'autorità che le governi, e mentre questa per la famiglia sarà indicata col vocabolo di manus, nella sua signi ficazione più larga, per la repubblica invece sarà indicata col vo cabolo di publica potestas. Che anzi i due poteri sono cosi distinti  Per dimostrare l'importanza, che nel concetto romano ha la distinzione fra il pubblico e il privato, basti citare il Trinummus di Plauto, questa commedia, così profondamente morale, in cui, ogni qualvolta occorre una censura contro i corrotti costumi, si lamenta sempre questo mescersi del pubblico col privato. 223 fra di loro, che la subordinazione più estesa nel seno della famiglia non toglie, che altri possa esercitare tutti i suoi diritti come cit tadino, e partecipare come tale agli onori ed alle magistrature. La distinzione poi, che è nella natura dei rapporti, viene natu ralmente a riflettersi eziandio nel diritto, che è chiamato a gover narli. Di qui la distinzione che, iniziata fin dalla formazione della città, viene col tempo facendosi sempre più netta e precisa fra il diritto pubblico ed il diritto privato; il quale ultimo, secondo il con cetto romano, non deve già essere soffocato ed assorbito dal diritto pubblico, ma trovasi invece collocato sotto la tutela e la protezione di esso. Non può quindi essere ammesso il concetto del Lange, che in parte è anche quello del Mommsen, secondo cui il diritto pubblico verrebbe in certo modo a modellarsi sul diritto privato: poichè il processo che si segui in Roma si avverd invece in senso contrario ed opposto. Non fu il diritto pubblico, che si modello sopra il pri vato; ma fu il diritto privato, che venne svolgendosi in quella guisa e in quei confini, che erano consentiti dalla costituzione politica della città. Quindi è che il diritto privato di Roma non si formo di un tratto, ma venne svolgendosi gradatamente, a misura che le esigenze della vita civile fecero sentire il bisogno del suo ricono scimento. Ciò ci è dimostrato dal fatto, che fin dalle origini di Roma noi possiamo trovare poste le basi di tutto il diritto pubblico di Roma, mentre la vera elaborazione del diritto civile romano, co mune alle due classi del patriziato e della plebe, incomincia solo più tardi. Prima si fondò la città, e poi si pensò alla formazione del suo diritto, ed è anche questo uno dei motivi, per cui il diritto di Roma potè riuscire tipico ed esemplare per tutti i popoli. Intanto, in prosecuzione del medesimo processo, anche la legge, che è l'espressione delle volontà riunite e concordi, viene a distin guersi in les privata ed in lex publica, di cui quella esprime l'accordo di due o più contraenti, mentre la lex publica invece è l'espressione della volontà collettiva del popolo, che si impone alla volontà dei singoli individui. Anche i sacra vengono a subire la medesima distinzione; la quale pure si verifica per cid, che si rife [ La distinzione fra la lex publica e la lex privata è accennata più volte da Garo in formole, che da lai ci furono conservate. Comm. I, 3; II, 104; III, 174. Una delle modificazioni state introdotte dal MOMMSEN nell'ultima edizione, Friburgi, da lui curata del Bruns, Fontes iuris romani antiqui, fu quella di intito larne il capo terzo: Leges publicae populi romani post XII Tabulas latae. 224 - risce agli auspicia. Lo stesso infine deve dirsi dei crimina, i quali, a misura che si vengono delineando, sono pure richiamati alla distinzione fondamentale di publica e di privata, secondo che il danno, che ne deriva, e quindi la prosecuzione di essi appar tenga ai singoli individui, oppure colpisca ed interessi l'intiera co munanza; distinzione, che riflettesi eziandio nei iudicia, i quali fin da Servio Tullio cominciano a dividersi in iudicia publica e pri vata. A queste si potrebbero aggiungere ancora molte altre distin zioni, che son tutte il riverbero di un medesimo concetto, che una volta accettato percorre l'intiera vita sociale e lascia dapertutto le traccie del suo passaggio. È in questo senso, che le proprietà si distinguono in due categorie, indicate coi vocaboli di ager pri vatus e di ager publicus; che i rapporti stessi, che possono correre fra cittadini e stranieri, subiscono la stessa distinzione, cosicchè la societas, l'amicitia, l'hospitium, il foedus si distinguono anche essi in pubblici e in privati. Non è quindi meraviglia, se parlisi eziandio di costume pubblico e privato, di virtù pubbliche e private, e se la distinzione si inoltri nei particolari più minuti della vita, co sicchè anche i servi stessi si distinguono in publici e privati, e chiamasi publicus l'equus, che è somministrato dallo Stato agli equites, che vengono così ad essere denominati equo publico. 182. Conviene quindi ammettere, che la distinzione dovesse es sere profondamente sentita, se essa lasciò le proprie traccie in qual siasi argomento. Non occorre poi di notare, che l'esplicazione dia lettica dei due concetti, che qui si compendia in pochi tratti, dovette naturalmente essere il frutto di una lunga evoluzione; ma se questa potè accadere colla fondazione della città, mentre prima non erasi avverata, la causa di un tal fatto deve trovarsi in ciò, che la città non si propose di agglomerare genti e famiglie, ma intese fin dapprincipio a sceverare la vita pubblica dalla privata. Che se si volesse spingere più oltre lo sguardo sarebbe anche facile il dimostrare, che la formazione della città cooperò eziandio allo svol gersi di sentimenti e di affetti, che prima non riuscivano a sceverarsi  Quanto alla distinzione dei sacra publica ac privata, è da vedersi Festo, vu Publica sacra (Bruns, Fontes 358), stato già citato a 43, nota nº 3. Quanto alla distinzione poi fra gli auspicia publica e gli auspicia privata, è da vedersi Mommsen, Le droit pubblic romain. Trad. Girard. Paris, 1887, I, 101, cogli autori ivi citati in nota. 225 dagli affetti domestici e patriarcali. Fu infatti la città, che, accanto agli affetti di famiglia ed al culto per gli antenati, suscitò l'affetto per la propria terra, e il culto per coloro, che si sacrificavano per essa, e quell'illimitato amore di patria, che informa tutta la storia e tutta la letteratura di Roma, e che fece esclamare al cittadino ro mano: dulce et decorum est pro patria mori. Fu essa parimenti, che accanto al culto per i mores maiorum riusci a svolgere il concetto di una legge, espressione della volontà comune, che doveva a tutti essere nota, e costituire in certo modo la base e il fonda mento della comunanza civile. Fu essa ancora, che, accanto alle tradizioni, che si serbavano gelosamente nelle famiglie e nelle genti e si trasmettevano di generazione in generazione, diede origine a quella narrazione dei fasti e degli avvenimenti notevoli per la città, da cui doveva poi uscire la storia; al modo stesso che, accanto al comando del padre ed alla persuasione degli anziani, fece svolgere l'arte oratoria e l'eloquenza, le quali più non si impongono per l'au reola religiosa, da cui sono circondate, ma commuovono e trasci nano la moltitudine e la folla, a cui si indirizzano. Fu essa infine, che, accanto alla narrazione delle gesta degli eroi e dei principi, cantate nelle epopee primitive, rese possibile la storia militare e po litica della città e del popolo, e pose anche in evidenza l'impor tanza politica di quell'elemento, che chiamavasi plebe . Dopo cið parmi di poter conchiudere, che non può essere accolta l'opinione di coloro, che considerano Roma primitiva come uno Stato patriarcale.  Lo Stato romano, noi diremo con un re. cente autore, che è il Pelham, appartiene, quanto alla sua struttura, ad uno stadio già molto più inoltrato dello sviluppo della convivenza sociale e suppone innanzi a sè una lunga preparazione storica. Certo esso conserva ancora le traccie di un più antico e più pri mitivo ordine di cose; ma queste sono traccie di un periodo ormai trascorso, le quali tendono sempre più a scomparire . La supre  Per una più larga trattazione dei mutamenti, che recò nella vita sociale il surrogarsi della città all'organizzazione patriarcale, mi rimetto all'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, nº. 34, 94 e segg., e alla dissertazione: Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e po litica. Torino, 1878.  Pelham, vº Rome (ancient), nell'Encyclopedia Britannica, ninth edition. Edinburgh, 1886, vol. XX, 731. C. Le origini del diritto di Roma.] mazia dello Stato è ormai stabilita sopra ciascuno dei gruppi, dalla cui confederazione esso è uscito, e ciascuno di questi gruppi più non si mantiene, che come una corporazione di carattere esclusivamente privato. In questa parte pertanto  lo Stato Romano, come ben nota il Gentile, lascia a grande distanza la monarchia delle popolazioni Orientali, ed anche quella delle primitive società greche, la quale è ancora stretta da intimo vincolo colla divinità, da cui ritiensi pro cedere, e che trasmettesi per eredità nei discendenti per sangue, e signoreggia con assoluta potestà il populus od il demos, il quale è solo convocato ad udire le decisioni sovrane e non mai a deliberare. Il principio invece della sovranità popolare ed il diritto a partecipare all'amministrazione della cosa pubblica con un voto direttamente esercitato, e il diritto anche di voto nell'elezione dei reggitori dello Stato è fin dalle prime origini inerente alla cittadinanza romana . Il Re, fin dagli esordii della città, è la suprema magistratura dello Stato, e questo è l'opera del volontario accordo dei cittadini e dei capi di famiglia, che concorsero alla sua formazione, i quali, nella propria elezione, più non badano esclusivamente alla nascita ed alla stirpe, ma cominciano a riguardare al valore ed alla sapienza dei proprii reggitori. Sarà collocandosi a questo punto di vista, che non segue questo o quell'elemento esclusivo, ma cerca di riguardarli tutti ad un tempo nel loro progressivo sviluppo, che potrà riuscire più facile di com prendere i primitivi elementi dello Stato romano, ed il carattere dei poteri, che lo governano.  GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, Milano, 1879, 2 e 3. 227. Le cose premesse hanno abbastanza dimostrato, come nella formazione primitiva dell'organizzazione sociale domini una legge di evoluzione, non dissimile da quella, che governa le formazioni naturali. Le traccie di essa apparirono evidenti, allorchè fra i gruppi gentilizii si veniva lentamente preparando e quasi sperimentando in varie guise la convivenza civile e politica. Tuttavia questo concetto deve essere completato con osservare, che nella storia delle cose sociali ed umane, ogni qualvolta sono preparati gli elementi di una formazione novella, e questa trovi un terreno acconcio al proprio sviluppo, gli elementi, di cui si tratta, sembrano richiamarsi l'un l'altro, attirarsi scambievolmente, riunirsi per guisa, che la nuova formazione sboccia tanto più rigogliosa e potente, quanto è più matura la preparazione di essa. Per tal modo ad una lenta incuba zione può anche succedere una pronta e rapida formazione: il che talvolta accade ancora a ' nostri tempi, e accadde senz'alcun dubbio nella storia primitiva di Roma, allorchè la nuova città, dopo essere stata lungamente preparata, presentasi nella storia pressochè con sapevole della propria destinazione. Tutte le incertezze sembrano essere scomparse, e quasi si potrebbe dire con ragione, che la co stituzione primitiva di Roma, al pari di Minerva, sembra uscire compiutamente armata dal cervello di Giove. Se infatti si possono ancora scorgere delle incertezze, in quanto riguarda la formazione di una religione, comune alle varie tribù, perchè questo non è lo scopo essenziale, a cui Roma intende; la costituzione politica di Roma invece sembra in certo modo essere il frutto di una intuizione po tente, tanta è l'armonia dell'edifizio, tanta l'efficacia e l'acconcezza dei vocaboli, con cui si esprimono le singole istituzioni, tanto è il sentimento, che ciascun organo del nuovo Stato ha di sè medesimo. e del contributo, che deve recare all'opera comune. Noi ci troviamo 228 di fronte ad un popolo, che con uno sforzo collettivo giunge a mo dellare ne' fatti un edificio, al quale a stento potrebbe riuscire un pensatore, che raccolto nelle proprie meditazioni cercasse di isolare da una quantità di materiali, posti a sua disposizione, tutto ciò, che si riferisce alla vita politica, giuridica e militare. Tutte le energie naturali e sociali sembrano concentrarsi in un'opera sola, e ben può dirsi con Ennio e con Cicerone, che fin dai propri esordii: Moribus antiquis res stat romana virisque. Secondo la tradizione, bastó un solo regno per porre le basi di una costituzione, che richiese poi parecchi secoli per svolgersi in tutte le sue parti : nè la tradizione pud essere così facilmente respinta, come vorrebbe la critica moderna, in quanto che noi difficilmente possiamo comprendere l'entusiasmo potente, da cui poterono essere stimolati re, senato, sacerdozii e popolo, allorchè erano intesi tutti all'attuazione di un grande concetto. 185. L'urbs, dopo la federazione delle varie tribù, viene ad essere collocata in un sito, a cui hanno facile accesso le diverse comunanze e trovasi così in tale posizione da potersi cambiare nel l'emporio del Lazio. Essa per la prima, fra le comunanze italiche, da cui trovasi circondata, l'ha rotta colle tradizioni, e si è formata mediante il connubio di genti, che appartengono a stirpi e a nomi diversi. I padri, che si riunirono per costituirla, hanno parentele ed aderenze nei territori contigui, e probabilmente continuano a tenervi delle possessioni, e possono così esercitare un'attrazione potente sulle popolazioni vicine, a qualunque stirpe esse appartengono. Se a tutto ciò si aggiunge la fortuna della nascente città, la fortezza della sua posizione e delle sue mura, il carattere tenace e perseverante de' suoi cittadini, che tutto aspettano dall'avvenire di essa, potrà lasciarci ammirati, ma non increduli il suo rapido incremento. Anche lasciando in disparte il provvedimento, che viene attribuito a Ro molo, di aver aperto un asilo ai rifugiati delle altre città, era na turale, che essa dovesse cambiarsi in un asilo per tutti coloro, che  Vi.  Cic., de Rep., V, 1. È lo stesso CICERONE, che insiste più volte sul rapido svolgimento di Roma all'epoca romulea, e fa dire fra le altre cose a Scipione: detisque igitur, unius viri consilio non solum ortum novum populum, neque ut in cunabulis vagientem relictum, sed adultum iam pene et puberem?  (De rep.). Lo stesso pure appare dal racconto di Livio e di Dionisio. 229 si trovassero spostati nella propria terra o nella propria organiz zazione gentilizia. Il grande scopo dei fondatori era quello di fon dere insieme questi elementi diversi e di unificare così la città, tanto nelle mura, che la circondano, quanto nei concetti giuridici politici e militari, che servono a stringerne insieme le parti diverse. 186. La cerchia delle mura e la sua compagine interna sembrano cosi procedere di pari passo. I suoi fondatori già hanno una lunga esperienza di cose civili e non ignorano anche i riti religiosi, da cui deve essere accompagnata la fondazione di una città. Cominciasi pertanto dagli auspizi, per conoscere  quod bonum, felix, faustum, fortunatumque siet populo Romano, e per tal modo anche la re ligione viene ad essere posta a base della nuova formazione. Quanto alla sua costituzione interna, tutto sembra essere preparato ed ac concio. I concetti politici di Roma primitiva, nella loro sintesi po tente, possono essere paragonati a quei massi rozzamente modellati, che sovrapposti gli uniagli altri formano la cerchia delle sue mura, e che per il proprio peso e la propria quadratura non abbisognano di essere cementati gli uni con gli altri. Essi non escono da una costituzione scritta: ma erompono dalla stessa realtà dei fatti, e sono altrettante costruzioni logiche e coerenti in tutte le loro parti, le quali, una volta accolte nella costituzione, potranno essere svolte con rigore dialettico, fino a che non abbiano ricevuto tutto lo svi luppo, di cui possono essere capaci. Le forme esteriori delle istituzioni politiche di Roma sono bensì ricavate da istituzioni analoghe, esi stenti nell'organizzazione anteriore, ma il contenuto di esse viene ad essere determinato dalle esigenze della nuova città. Quanto all'in tento, che la città si propone, esso è universalmente sentito, e quindi non è meraviglia, se la nuova città proceda verso il proprio scopo con l'ordine, con cui si dispiegherebbe un esercito, e se dei suoi fondatori possa dirsi col poeta: cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc, nec lucidus ordo. Per tal modo il concetto della città presentasi determinato in tutte le sue parti, e si esplica con un rigore geometrico, che rende pos sibile di rifare i diversi stadii, che ha dovuto percorrere.  ORAZIO, Ars poetica. 230 187. La città è un edifizio nuovo, costruito con elementi tolti dall'organizzazione gentilizia preesistente, i quali però, mirando ad un intento novello, ricevono uno svolgimento compiutamente diverso. L'urbs è una selezione dalle comunanze di villaggio circostanti, per cui tutti gli edifizii, che hanno pubblica destinazione, sono con centrati in un medesimo sito; il populus non è tutta la popolazione delle comunanze, ma il complesso dei viri, che col braccio e col consiglio possono cooperare all'interesse comune; la civitas non è più un vincolo di sangue, ma è determinata dalla partecipazione alla medesima vita pubblica sotto l'aspetto politico e militare ad un tempo; il munus non è il complesso delle obbligazioni, che incom bono all'uomo come tale, ma il complesso dei diritti e delle obbli gazioni, che derivano dall'ubbidire al medesimo diritto e dal par tecipare alla stessa comunanza civile e politica ; la res publica non è la somma degli interessi de' singoli cittadini,ma il complesso degli interessi, che riguarda l'universalità dei cittadini, considerata come un tutto organico e coerente; infine la lex publica è il com plesso dei patti ed accordi votati nei comisii, in base ai quali si conviene di partecipare alla stessa vita pubblica, e quindi per la formazione di essa debbono concorrere tutti gli elementi costitutivi della città. 188. Intanto perd nella formazione della città non può aversi altro punto di partenza, che quello delle istituzioni preesistenti, per guisa che il nuovo edificio richiama pur sempre l'antico, ma intanto la sua base è mutata; poichè mentre quello si reggeva sull'eredità e sulla discendenza, questo invece si fonda sulla capacità e sull'ele zione; mentre quello si fondava sul vincolo del sangue, questo invece pone la sua base salda sopra un determinato territorio, nel quale si fortifica e si chiude; mentre in quello ogni cosa veniva ad essere determinata dall'età e dalla posizione naturale, che altri tiene nella famiglia e nella gente, in questo invece le funzioni degli   Munus (scrive Festo, quale è restituito dal Mommsen nell'ultima ediz. del Bruns, Fontes, 344 e 3-15 ) dicitur administratio reipublicae, magistratus alicuius, aut curae, imperiive, quae multitudinis universae consensu, atque legitimis in unum convenientis populi comitiis, alicui mandatur per suffragia, ut capere eum eamque oporteat, et statim, certove ex tempore, certum usque ad tempus administrare , Qui però il vocabolo munus è preso in una significazione più ristretta, che non quella che lo stesso autore vi attribuisce, quando discorre del municipium.] individui vengono ad essere determinate dalla cooperazione, che possono recare alla città. Giovani debbono esserne i soldati; anziani debbono esserne i consiglieri. — Solo potrebbe trarre in inganno quel l'aureola religiosa, che sembra ancora circondare la formazione della città; maanc

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