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Wednesday, January 8, 2025

GRICE ITALO A-Z C CAR

 

Grice e Carabellese: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’arena e la pietra -- la sabbia e la roccia – il segno – scuola di Molfetta – filosofia barese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Molfetta). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Molfetta, Bari, Puglia. Grice: “I love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and the sand,’ which reminds me of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic on the sand and rocks, which I’m sure were common in Ostia, too, back in the day! Carabellese speaks of a ‘semiotic scandal’ so it all connects with my pragmatics of dialectics or conversation.” Studia a Napoli e Roma. Insegna a Palermo e a Roma.A partire da una critica ferrata alla dottrina cartesiana (Le obbiezioni al cartesianesimo; il metodo, l’idea, la dualita; Il circolo vizioso in Cartesio) porta a compimento studi critici su diversi autori, tra i quali spiccano Kant e  Rosmini. Elabora la dottrina dell'ontologismo critico, in cui l'essere non è mero oggetto della coscienza ma è a essa intrinseco come fondamento irriducibile, cioè essere-di-coscienza, che in ultima istanza altri non è che Dio (che, come già asseriva Vico, "è" e non "esiste").  Difese l'oggettività essenziale dell'essere e la filosofia, non come sapere specialistico trincerato, ma come operatrice per l'umanità tutta così che la coscienza filosofica esplica quella teoria che nel diversificarsi concreto della spiritualità risulta necessariamente implicita. E allora lo sforzo della filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto seppure la teoria si attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del concreto. Insomma Carabellese difese la filosofia come ascesa teoretico-razionale a realtà teologiche, o come sentiero che volge al fondamento comune della vita politica e che alla politica rimane irriducibile. Altre opere: Critica del concreto; Il problema della filosofia da Kant a Fichte; Il problema teologico come filosofia; L'idealismo italiano; L'idea politica d'Italia; Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico. L'essere e la manifestazione. L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme. L'essere. Filosofo della coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La sabbia e la roccia: l'ontologia critica di Pantaleo C.. Il problema dell'io in C.. Metafisica in C.. Kant e C.  Dizionario Biografico degl’italiani. Autolimitazione della metafisica critica? Momenti della recezione italiana di Fichte con particolare riferimento all'ontologismo critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento della vera scoperta di Kant, ed era all ' origine della moderna... intesa come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama « lo scandalo...seDalla filosofia intesa come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama “lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo, a prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo linguistico, " in G. Semerari, La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty, Sens et non - sens, Paris, Nagel; It. trans. by  Caruso, Senso e non senso, Milan, Il Saggiatore. La ontologia di C., così, si prospetta come una ontologia della coscienza assiologica e semantica, ossia come una critica antinaturalistica e antipsiscologistica dei valori e dei significati dell’essere. L’importanza del lavoro filosofico carabellesiano, secondo Semerari, consiste nell’esigenza radicale di lavorare alle radici del linguaggio filosofico, di andare al di là della storia già fatta, come scrive Semerari citando C., scendendo sino ai suoi presupposti: ciò significa portandosi al grado zero della parola per reinventare il linguaggio filosofico e le connessioni che in esso si sono stabilite lungo la sua storia, a partire dalla cosa stessa, ossia dall’essere in cui la coscienza è già implicata. Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo non si può trascurare la convergenza con la ontologia critica di quella parte della filosofia linguistica contemporanea per la quale, al limite tra fenomenologia, esistenzialismo e analitica, porre la questione del linguaggio è portarsi al grado zero della parola, al silenzio come radice di ogni possibilità linguistica, fare giudice della critica del linguaggio, com’è stato suggestivamente detto, la ‘coscienza silenziosa’. singolari di Coscienza si costituiscono come soggetti pensanti in comunicazione tra loro. L’alterità dell’altro io presuppone l’identità dell’io che lo esperisce come altro. Reciprocamente la coscienza della propria identità egologica richiede il rapporto di alterità come intrinseco all’essere stesso dell’io. L’alterità sempre afferma chi dice io, il quale ciò dicendo, anche trascendentalmente si distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce di fronte a sé. Con questo chi egli afferma una relazione reciproca con la quale attua l’egoità. Soggettività ed egoità pura sono sempre pura alterità. L’alterità di ciascun io è, come scrive C., «l’insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nell’esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità.. Alterità e non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la compattezza non la relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività molteplice. La relazione è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente, implica necessariamente l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea C. Diversamente l’io assoluto fichtiano, dilaga nella coscienza, identificandosi con essa, riducendo l’oggettività a negazione; ma resta così l’io nella sua solitudine e, senza l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io fichtiano, nell’interpretazione del C., elimina gli altri io dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in tal modo perde la meità, approdando all’Unico, che egli vede come una nuova forma di eleatismo. C. sottolinea che se non è da percorrere l’identificazione dell’io con la coscienza, tuttavia questo non conduce alla cancellazione della meità; invece, pensare l’immediata appartenenza del me all’essere di coscienza, non assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri. Non l’annullamento del me costituisce la base per la relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma proprio partendo dal me, per C. si giunge agli altri come altri “di” me, esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli altri “da” me. Il me esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori di cui parla C., in primo luogo non si identifica con il corpo, in quanto quest’ultimo trova il suo limite nell’altro corpo e, più in generale nell’altra cosa: «Io, come innegabile esigenza di coscienza non sono, o se volete, non sono affatto corpo. pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono uno esistente, e il mio corpo, che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può trovar altra) nel limite, che il mio corpo trova negli altri corpi, e che io non trovo, se non voglio cadere nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» C. rifiuta l’ipotesi materialistica, perché se l’io si identificasse con il corpo non potrebbe affermare nemmeno la propria corporeità, ossia che il corpo è suo. Nella concezione materialistica l’io si identifica con il corpo che diventa la radice dell’opposizione con gli altri. Se si realizzasse questa identificazione in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si porrebbe contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione spiritualistica che intende l’io come spirito finito, ha come esito la riduzione dell’io a corpo, perché sostenere la limitatezza dello spirito implica sottoporlo al limite, come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte ha evitato la riduzione dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità identificando l’io con la coscienza. Infatti nell’io empirico il me è sostanzialmente ridotto a corpo, a non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se stesso. In Hegel, poi, ogni residuo di meità è tolta nel Soggetto assoluto. L’io perciò è spirito infinito, ma da questo non deriva per C. che venga eliminata la distinzione dell’io dal tu nella coscienza, ossia che vengano tolti gli altri, con il rischio di tornare a Fichte. Per il filosofo italiano «togliere il limite è affermare gli altri», non annullarli; infatti, per giungere alla negazione dell’altro, o degli altri, «bisogna prima ammettere – osserva C. – che gli altri, in quanto tali, escludano l’uno di tale essere, e che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè cominciare proprio con l’opporre ad uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi ed opposti a questo e cioè col presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli altri no, e perciò siano non io, non coscienza. Cioè bisogna cominciare col presupporre la empirica limitazione dei corpi, la quale appunto, nella identificazione di me col corpo mio, fa ritenere me, col mio corpo, coscienza e gli altri, che col loro corpo limitano il corpo mio, non coscienza». Già ne Il problema teologico come filosofia C. afferma, polemizzando con Fichte, che la molteplicità soggettiva non è semplicemente empirica, ma pura, condizione trascendentale della “concretezza”; la singolarità non è solitudine, ma relazione reciproca nel pensare, sentire, agire l’Universale/Dio. L’io esistente, singolare, è uno, e come tale è ciascuno, essenzialmente altro. «Il singolare è quell’uno, di cui si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno, unusquisque. Uno che non sia ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente: «Io sono altro: solo così “sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io, per C. non è esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una identificazione con l’oggetto realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema C. sostiene l’“identità” dei soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze la determinazione dell’omogeneità, senza però indicare come possano differenziarsi i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se non voluto, è evidente; infatti per spiegare il darsi della molteplicità soggettiva egli parla di alterazione, come moltiplicazione infinita riferendola però non all’uno, al soggetto, ma all’Unico, ossia all’essenza divina, al che. Tuttavia, se la moltiplicazionealterazione è riferita da C. all’Unico, non all’uno: allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un impossibile altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo, come possono derivarne i soggetti? In realtà possiamo muovere anche a C. l’osservazione di involgersi in una sorta di circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è la qualità infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione, nello stesso tempo a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti. L’uno di cui parla C. è l’io che immediatamente si intuisce singolare, e che altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia ciascuno, non è uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di ricondurre e ridurre la meità ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità e l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per C. invece proprio il recupero dell’altro consente la realizzazione di sé. Ma, se si andasse più profondo in questo amor di me spirituale, che è, o dovrebbe essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe, si vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una positività a questa negazione del “non tu”, se non voglio divenire un puro e semplice “non” devo considerare me come uno tale che possa e debba riversare l’amor di me uno in altro uno, che è uno come me, cioè devo riconoscere l’unità, che sono io, nell’alterità. L’amor mio proprio, che non voglia essere soltanto amor del mio corpo, è proprio amor dell’altro. L’amor proprio spirituale non mi costringe alla assolutezza (unicità e incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla sua alterità: l’amore è sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo. La struttura dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in altri. termini, l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura coscienziale a dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di ciascuno si afferma e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli altri: «Io facendo dagli altri riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come altro, non tolgo ma affermo la mia originalità». Per C. l’amor di sé ha insita l’esigenza della relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come l’Unico chiuso in se stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla di offesa dell’amor proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è più nemmeno soggetto. Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro identico rischia di essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera relazione, più una sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che il faticoso cammino del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per cui sono infinitamente penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è già data immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e gli scontri a livello empirico. L’altro per C. è un altro me, non la negazione del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e all’opposizione che Platone pone tra uno e altri. Per C., sulla base dell’essere di coscienza, tale opposizione non si dà; alla domanda del Socrate platonico su quel che siano gli altri, quando io sia, si può rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma altri uno, sono perciò altri “me”. C. individua la causa della “cacciata” degli altri dalla coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta con l’io: per tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri è individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità” pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né oggetto. L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se nell’essenziale relazione, di cui parla C. è apriori, non si identifica con il singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra miglior coscienza e coscienza empirica, per utilizzare in chiave euristica espressioni di Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della coscienza, non facendo ancora riferimento alla volontà come principio metafisico. Però proprio il pensare, da lui inteso in senso ampio come intendere, sentire e volere che si esplicano nell’attività spirituale umana, esige il livello della purezza coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza, per C. l’assolutizzazione della. Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina dell’idea, antologia a cura di Mirri, Armando, Roma. dimensione spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe all’annullamento dell’attività spirituale umana. C. non intende semplicemente opporre la propria concezione a quella fichtiana, ma intende condurne all’estremo le conseguenze, ipotizzando una sorta di esperimento mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse assoluto e si arrogasse il diritto di sopprimere il tu, riducendolo soltanto a sua esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io, ma solo in quanto avrebbe soppresso il tu e quindi anche l’esperienza, che egli ne ha: non ci sarebbero più i tu, che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto io empirici: gli altri non sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu (altri) ci sarei ancora io (uno)?»18. In realtà, per C. c’è un'unica soluzione, che esclude la fine tragica della disputa: «Non c’è dunque altra via d’uscita da esso, se non quella che io non mi contenti di ricambiare la tuità, ma gli ricambi proprio la meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un altro io, e perciò mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce, gli contesto il diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così egli sopprime se stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come Io, Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita, costituisce l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o moltiplicazione, con tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il possibile l’esito fichtiano. Secondo C. si può dire che «sono l’identico io proprio perché siamo due»: se fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo ad esperienza, sarebbe eliminato anche quel consentire in cui consiste la stessa esperienza. Non solo l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma in generale il pensare, che è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21 l’Universale, Dio. Quel cum non è un'aggiunta irrilevante, in quanto la dimensione intersoggettiva, comunitaria, è essenziale a tutte le forma dell’attività spirituale umana. «Ci sarà – afferma C. –, anzi c’è senza dubbio, quella empirica alterità, nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nella esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te, persone viventi, non è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno singolare; io, alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è immesso nell’altro uno, Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in C.. Cfr. in proposito C., La coscienza. immissione, senza della quale è assurdo non solo l’innegabile consentimento ma anche la divergenza di noi nell’alterità nostra; consentimento, e divergenza, per i quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti soggetti dell’Unico, che è immanente a noi molti. La differenza fra le egoità si dà solo a livello empirico, a livello trascendentale e metafisico i soggetti sono identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente penetrativi. C. contrasts the rock of concrete, temporal, plural, relational being in the light of which the problem of the origin, of the foundation, of validity cannot be given up, with the sand of historicist becoming, of the historicist succession of the facts in which law and value coincide with the succession itself. The metaphor of sand and rock used by the same C. in his later writings is taken up by Semerari in the title of an essay dedicated to critical ontologism. This metaphor gives us a good idea of the fundamental theoretical instance relating to the problem of history. Such a theoretical instance is asserted by Carabellesian ontology in its opposition to historicism through the ontological recovery of time and of existence and by contrast as well with the interpretation, traceable in Heidegger, of time and existence as the outside, as the not of meta–temporal and meta–existential Being, that is, as its decayed phenomena21.”La responsabilita profonda, grave, se una se ne vuol trovare, e questo aver SCAMBIATA LA SABBIA DELL’IERI, OGGI, E DOMANI, SEPARATI, AVER SCAMBIATA LA SABBIA DEL “FUI” PER LA ROCCIA DELL’ “ESSERE”  -- l’eterno – nell’eterno -- nella roccia, l’ieri, l’oggi, e il domani non sono separati ne successivi – la copula S EST P – non S FUI P --. La responsabilita profonda e di questa coscienza storicista, che si resolve appunto nel credere che tutta la CASA umana sia FATTA SU SABBIA [on sand, not on rock]– e DI SABBIA. Abbandoniamo questa coscienza storicista di Croce, che spessso si nasconde, forse piu intransigente anche nel dommatismo ultramondano degl’ANTI-STORICI, che pur soltanto UNA SABBIOSA STORIA (la storia della semiotica, la storia di Vitruvio) concedeno all’umana attivita consapevole. CERCHIAMO LA ROCCIA al di sotto di questo SGRETOLAMENTE (la greta), che sono i successive e separati ieri, oggi, e domani. CI riuscira forse cosi di ritrovare il fondamento e di trarre anche dallo SCAVO DI FONDAZIONE, PER LA COSTRUZIONE DELLA NOSTRA CASA, materiale piu atto che non sia quello datoci dal SABBISO SUCCEDERSI DI ETA UMANE E COSMICHE. Certo nessuna costruzione noi uomini pensanti possiame fare SULLA ROCCIA se queso nostro PENSARE NON TOCCA LA ROCCIA. Nessuna costruzione possiamo fare se nostro pensare no ha LA ROCCIA A SUO INTIMO FONDAMENTO. Ma tanto meno potremo alcuna costruzione fare SE INTENDIAMO FARLA CON POLVERE di idee che si facciano sorgere o tramonatre con la storia. Su Polvere e di polvere non si costruisce. Si COSTRIUCE SOLO CON PIETRA [stone] DURA [hardened – D. Paul] SULLA ROCCIA. ROCCIA E L’ESSERE SPIRITUALE CHE *dura* -- durazione, duro – ETERNO.”  24 Omnis ergo, qui audit verba mea haec et facit ea, assimilabitur viro sapienti, qui aedificavit domum suam supra petram.  25 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et non cecidit; fundata enim erat supra petram. 26 Et omnis, qui audit verba mea haec et non facit ea, similis erit viro stulto, qui aedificavit domum suam supra arenam.  27 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et cecidit, et fuit ruina eius magna ”.Pantaleo Carbellese. Keywords: la sabbia e la roccia – il segno, lo scandalo del significato, io/tu, Husserl, intersoggetivita, intersoggetivo, interpersonal, interattivo – interazione, azione sociale – orientazione all’altro, razionalita strategica, razionalita comunicativa, complessita intensionale, il significato, i significati, l’nsieme, la comunita, il noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Caracciolo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del colloquio – scuola di San Pietro di Morubio – filosofia veronese – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (San Pietro di Morubio). Filosofo veronese. Filosofo veneto. Filosofo italiano. San Pietro di Morubio, Verona, Veneto. Grice: “I like Caracciolo – at Harvard, I joked on Schlipp, and stated that Heidegger was then the greatest (grossest, in German) living philosopher – as he then was, living --. Caracciolo has dedicated his life to translate Heidegger’s ‘Dutch’ mannerism into the ‘volgare’: and now I have concluded that Heidegger is perhaps the grossest dead philosopher – “in cammino verso il linguaggio: il dire originario” –“.  Grice: “Note that Caracciolo’s ‘cammino’ translates Heidegger’s ‘weg’ – my ‘way’ of words – but for Heidegger is ‘way to’ (weg zur) – as it should!” cf. Speranza, “in cammino verso la conversazione” – versus “il cammino della convresazione’ –“ Grice: “Note that in Italian, unlike German, you drop the otiose ‘the’ of ‘way – “Nel cammino” is o-kay, but “in cammino” is the choice by Caracciolo!” – cf. Aligheri, ‘nel cammino’ OF his life, towards heaven, or paradise, that is.” Studia a Verona e Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con il quale collaborò alla stesura dei Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno dei più noti martiri della Resistenza e a lui Caracciolo dedica un saggio, “Teresio Olivelli: biografia di un martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi, Brescia, e Genova. La sua filosofia si sviluppa inizialmente all'interno della tradizione crociana, ma poi acquisisce tratti più originali a contatto con Jaspers, Löwith e Heidegger. In cammino verso il Linguaggio. Di particolare interesse e importanza sono i suoi studi sul nichilismo a partire da Leopardi e sulla dimensione religiosa dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure mostrato una forte attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra pensiero e musica. Altre opere: “L'estetica di Croce nel suo svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica e la religione di Croce (Arona); Estetica (Brescia); Etica e trascendenza, Brescia); Arte e pensiero nelle loro istanze metafisiche. I problemi della "Critica del giudizio", Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona e il tempo, Arona; Saggi filosofici, Genova); Studi jaspersiani, Milano); La religione come struttura e come modo autonomo della coscienza, Milano); Arte e linguaggio, Milano); Religione ed eticità, Napoli); Löwith, Napoli); Nichilismo, Napoli); Nichilismo ed etica, Genova); Studi heideggeriani, Genova); Nulla religioso e imperativo dell'eterno, Genova); Politica e autobiografia, Brescia); Leopardi e il nichilismo, Milano); La virtù e il corso del mondo (Alessandria); L'assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni, Napoli); Filosofia della religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania. Lo spirito della religione antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza. Lo spazio della trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo. Sentieri del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die Sprache im Gedicht. Il linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht. Aus einem Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und einem Fragenden. Das Wesen der Sprache. L’essenza del linguaggio. Das Wort. La parola. Il verbo. Der Weg zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Essere e tempo. La riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον λόγον ἔχον. Ermeneutica e metodo storico-ermeneutico. Il ‘non’ come fondamento. Più in alto della realtà sta la possibilità. La Kehre. L’essere: un problema che rimane problema. Poesia. L'arte come messa in opera della verità. Hӧlderlin. Il tempo della povertà. Il pensiero come Kehre. In cammino verso il silenzio. La differenza e il fondamento. In cammino verso il linguaggio: il dire originario. In cammino verso il linguaggio: il suono del silenzio. “Heidegger is the greatest living philosopher”.  Heidegger In cammino verso il linguaggio Curatore: C. Mursia. Heidegger scrisse In cammino verso il linguaggio. Ci sono alcune cose interessanti e volevo proporvele questa sera. Innanzi tutto l’esordio in cui è molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo parla, noi parliamo nella veglia e nel sonno, parliamo sempre anche quando non proferiamo parola ma ascoltiamo o leggiamo soltanto perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà, si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza della pianta e dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo non si intende affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità anche quella del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla, è la lezione di Humboldt, resta però da riflettere che cosa significhi “l’Uomo”. Ora considera una poesia di Kraus: Quando la neve cade alla finestra a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è pronta, la casa è tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta per oscuri sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa della terra, silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la soglia, là risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita piena di grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo” colui che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che cosa “chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che “chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già detta, in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce in ciò che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di Lacan e di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che grazie ad esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e troppo spesso, ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il passato del parlare. // Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama” la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di cui parla Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il luogo  2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra breve il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della neve” (qui cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li porta come mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali alla terra, le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso di sé cielo e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e i divini” costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose trattengono presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e trattenere consiste l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi lo chiamiamo “il mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro essenza, queste nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel mondo esse stanno e in questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro durata, le cose in quanto sono e operano come tali portano a compimento il mondo. Nel tedesco antico “portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i termini “gebären” “generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la loro essenza le cose sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse generano il mondo. La prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro di venire, tal dire chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo stesso sospinge verso le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano, per questo la prima strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama i molti che come mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose condizionano i mortali ciò a questo punto significa: le cose visitano di volta in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla nell’atto che dice alle cose di venire, la seconda strofa parla in modo diverso dalla prima eccetera … qual è la questione qui? Importante perché ci sta dicendo che c’è il mondo che è fatto di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”, il mondo è ciò per cui le cose sono quelle che sono, adesso ve la dico in modo molto più semplice e capirete subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è l’Essere. In questa posizione sta dicendo che senza il mondo cioè senza l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è preciso qui quando dice “la caduta della neve” per esempio nel verso “porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della campana della sera li porta come mortali di fronte al divino” cioè queste parole costruiscono la scena entro la quale la “cosa” può apparire, come se fosse, adesso preciseremo meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di significante, adesso sto un po’ stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il significato, senza significante non c’è significato e viceversa, il significato cioè ciò che questa “cosa”, questa parola produce, se lui nomina il “suonare della campana” è chiaro che questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca il divino, evoca la religione, evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo una, ma potrebbero essere sterminate ed è all’interno di questo che l’ente compare, Intervento: come se le cose potessero apparire solo in questa scena che è il “mondo”. Esattamente, però senza gli enti il mondo non c’è. Intervento: il mondo è la totalità degli enti? Sì, esattamente, poi: Come il chiamare che nomina la cose chiama presso e rimanda lontano, così il dire che nomina il “mondo” è invito a questo a farsi vicino e al tempo stesso lontano. Cosa vuole dire che “chiama presso e rimanda lontano” questo “chiamare”? le chiama le cose parlando, io chiamo le cose quindi è come se me le avvicinassi ma mentre avvicino queste cose, queste cose si allontanano anche, si allontanano perché di cosa sono fatte? Intervento: c’è sempre quell’assenza di prima. Sì, queste parole sono assenti, nel senso che non sono lì in quanto tali, sono lì sempre in quanto riferite al mondo ecco: esso, il chiamare, affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le cose nello splendore del mondo, il mondo concede alle cose la loro essenza. Quindi è questo mondo, questa scena, io adesso uso dei termini che lui non usa ma solo per rendere le cose più semplici, è questo “mondo” che dà alle cose la loro essenza, qui sembra essere ancora platonico, questo mondo  3 potrebbe essere pensato come il mondo delle idee ed è questo mondo delle idee che da alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose d’altra parte fanno essere il mondo, il mondo consente le cose. Il parlare delle prime due strofe parla nell’atto che sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le cose- tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa il linguaggio: neppure però costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non sono infatti realtà che stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano vicendevolmente, compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in questo si costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il “fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure, L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione della “differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla quale, e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità della dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che differenziando porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser mondo, porta le cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un verso l’altro. Il termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione posta tra oggetti del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo sono quelli che il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una relazione oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero presentativo venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è comunque relazione tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento negata e trascesa – cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa che le cose emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga come quello che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto misura nella sua interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio di mondo e cosa, la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta generandola la misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel nominare che chiama “cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la dif-ferenza. A questo punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato necessariamente a Derrida, il quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger ma tra breve sarà ancora più evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha riletto con De Saussure dice: “Questo chiamare” ricordate prima ha detto del chiamare: Questo chiamare è l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata dalla quale soltanto ogni “chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale pertanto ogni possibile “chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto suono nella “quiete” (adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta, (ovviamente) portando mondo e cose alla loro essenza, il fondare e comporre mondo e cose nel modo dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il linguaggio, il suono della quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi evento, l’essere del linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della quiete non è nulla di umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il termine “parlante” significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. (lui è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il linguaggio che parla, e il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari degli altri, infatti quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un abominio per Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere oggetto dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua portato a se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere all’essenza del linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene all’essenza del linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete) si realizza in quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si avvale del parlare dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono della quiete”, solo in quanto  4 gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete, i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni. Il parlare dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è fondamentale in Heidegger lo ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è invito alle cose e al mondo farsi presso muovendo dalla semplicità della differenza. La pura del parlare mortale è la parola della poesia, l’autentica poesia non è mai un modo più elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto il contrario, che cioè il parlare quotidiano è una poesia dimenticata come logorata nella quale a stento è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. Ecco la questione che sta ponendo è esattamente quella che pone Derrida, questo suono, questo suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia è ciò che costituisce la condizione della parola che chiama, beh è ciò che Derrida ha elaborato come “differance”, lui usa per indicare questo suono che non c’è, usa questo esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si scrive così, però a “difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi “differance” che in francese è scorretto perché si scrive “difference”, però dice anche cambiando la e con la a, il suono della parola in francese “differance” non cambia, è esattamente lo stesso cioè questa e non si sente, che metta la e o metta la a, è uguale, non si sente, cioè quella cosa che lui chiama la “differance” è esattamente questo suono muto, che tuttavia è quella cosa che consente alla parola di essere tale e cioè di, mettiamola così, lui, forse dovrei aggiungere qualcosa, lui, Derrida muove a queste considerazioni partendo da De Saussure, dal segno di De Saussure “significante/significato” e quindi ciò che dice è che questa barra è quella che divide il significante dal significato ma è quella che compone il segno, senza questa barra che distingue il significante dal significato il segno non c’è, però questa barra si scrive, si mette il trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel significante né nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella cosa che non compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia segno, cioè perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono di cui parla qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo “cosa e mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno altro, l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla, per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto del fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola “costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste” tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono minimamente interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto conto di queste asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino verso il linguaggio”  5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa, alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo determina, non lo può determinare. Intervento: lo potrebbe determinare l’esserci, “Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente di volta in volta. Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare che l’essere non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che, così notava Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza improbabile, è come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È niente. Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere, significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti, l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la “presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità, sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa, chiama anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il quale mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla semiotica, in fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati in queste questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado dicendo ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili, perché quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio è inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata. Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può accadere certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato” sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si può pensare la differenza in quanto tale, così come non può  6 neanche dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: non avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune cosa ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui incomincia a parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto “Essere e tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che una riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al linguaggio necessariamente. Il parlare inteso nella sua pienezza significante trascende sempre la dimensione puramente fisico sensibile del suono ovviamente il parlare non è soltanto il suono ma il linguaggio come significato fattosi suono o segno scritto è qualcosa di essenzialmente soprasensibile, qualcosa che perennemente oltrepassa il puramente sensibile, il linguaggio così inteso è per sua costitutiva natura metafisico.) È la metafisica che rappresenta, badate bene: si parla, si rappresenta, se si rappresenta si compie un’operazione metafisica. Poi sul volere sapere: Il voler sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non portano mai a un interrogare pensante, nel volere sapere si cela già sempre la presunzione di un auto coscienza che si appella a una ragione auto fondata e alla sua razionalità, il volere sapere non vuole che si stia in ascolto di fronte a ciò che è degno di essere pensato. Intervento: è una forma di controllo Esattamente, e poi c’è la seconda parte di cui ci occuperemo nel prosieguo perché ciò che stiamo facendo è straordinariamente vicino a ciò che qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha dubbi sul fatto che l’uomo è quello che è, perché c’è il linguaggio, non ha nessun dubbio lo pone proprio nelle prime pagine il che comporta ovviamente delle implicazioni, perché se l’uomo non è se non nel linguaggio allora, dice lui giustamente, occorre porsi in ascolto del linguaggio, che non significa ascoltare quello che qualcuno dice, ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi in ascolto della domanda che c’è nel linguaggio, nella chiamata che il linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le cose e fra le cose, chiama anche l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione perché ci sia questa chiamata. Questa è una questione sempre presente in Heidegger, infatti è stato accusato di “umanismo”, “accusato” tra virgolette, mentre lui si è sempre difeso da questo, la sua non è una posizione esistenzialista, ha dovuto attraversare l’esistenzialismo perché l’unico esistente è l’uomo, questo accendisigari per Heidegger non esiste, c’è, ma non esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto coloro che sono in condizioni di porre la domanda, questo aggeggio, questo accendino non fa nessuna domanda. Per Heidegger l’uomo è il portatore in un certo senso del linguaggio, forse non necessariamente l’unico, però a quanto ci consta per il momento si, e questo, sempre per Heidegger, è fondamentale perché l’uomo può trarre la verità, cioè la verità sull’essere e quindi il fatto che l’essere non sia nient’altro che l’esserci dell’uomo in quanto progetto ciascuna volta, solamente nel dialogo. Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un dialogo dove le cose si interrogano, dove si mantiene aperta la domanda non la chicchera, il parlare per il sentito dire, il sentito dire vuole dire anche averlo letto da qualche parte, ma non averlo interrogato in modo autentico. Interrogare in modo autentico e lasciarsi interrogare dalla cosa: una qualunque cosa pone delle questioni, per esempio “che cos’è?” o quando mi trovo all’interno di un progetto su come posso utilizzare quella certa cosa, pone comunque sempre delle domande, l’uomo è sempre all’interno di questo domandare, continuamente. Questo è il domandare autentico, quello che si lascia interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che sta facendo, le cose che sta incontrando, non da colui che invece si precipita a dare la risposta o come dicevo prima ha la fretta di sapere tutto dimenticandosi della domanda. Nella parte successiva ci saranno delle cose molto interessanti da dire. per esempio sulla poesia che per lui è importante perché la poesia accenna, e in questo accennare lascia che la parola chiami le cose, senza fermarle, senza bloccarle, senza mortificarle ma le lascia essere, lasciar essere questo è sempre stato fondamentale per Heidegger. Heidegger prosegue: La ricerca scientifica e filosofica mira da qualche tempo (siamo nel ‘59) in modo sempre più deciso a costruire ciò che viene chiamato “metalinguaggio” (qui ce l’ha con i filosofi analitici) giustamente pertanto la filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale super linguaggio, intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona come metafisica, non soltanto suona “come” ma è, la metalinguistica è infatti la metafisica della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento interplanetario di informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica e tecnica missilistica sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia di Stefan George, il titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna (Norna è la dea del fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno giunsi colà dopo un viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e al fine mi annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia: “nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito di persone considera non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio, questa “cosa” che gira vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è mondo, e per molti essa era ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della tecnica moderna, la quale dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido il pensiero che sia la parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le parole ma le azioni contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario, lasciamo la fretta del pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa è, e così come essa è, in nome del suo nome? Certamente. Se l’affrettare nel senso del massimo potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel cui spazio temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere quello che sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità cioè esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla. Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso infatti appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das Wort gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato diverso da quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del discorso indiretto che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che segue i due punti, dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo “così io presi triste la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non indica ciò cui si rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve immettersi, indica il comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola e cosa ora esperito, (“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si esperisce la cosa, allora c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il poeta ha preso la rinuncia è la sua precedente opinione nei riguardi del rapporto fra cosa e parola, rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola a lui fino a quel momento consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto diverso, nel verso “Kein ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe allora sul piano grammaticale un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”, l’indicativo è “ist”) al posto dell’indicativo “ist” bensì una forma dell’imperativo, un ordine cui il poeta obbedisce per rispettarlo anche in futuro, nel verso “nessuna cosa “sia” laddove la parola manca”, il “sia” significherebbe allora “non considerare d’ora in poi una cosa come esistente dove la parola manca” (è un imperativo categorico” e non so per quale via mi ha evocato le parole di Parmenide “sulla via del non essere non ti ci incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con quel “sia” inteso come  8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella rinuncia per cui egli abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista, anche quando la parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La parola “Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica dice “Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa” “rinunciarvi”. Zeihen corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco “sagan” (il sagen del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un Entsagen, letteralmente un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al suo precedente rapporto con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui rifiuta qualcosa, già gli è stato destinata una chiamata alla quale egli non si sottrae più. (nella sua rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa ci sia anche senza la parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di fronte a ciò che incontro, a pensare che questa cosa che incontro sia già lì prima che io la dica, prima della parola, non che io la dica propriamente, però aggiunge no, non è proprio così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato destinato “una chiamata alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a quella maniera, se non la parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che solo la parola fa sì che la parola appaia e sia pertanto presente come quella cosa che è, la rinuncia che il poeta apprende è della natura di quella compiuta rinuncia alla quale soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è propriamente già destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come una chiamata alla parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione, seguendo questa chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa, questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola dall’altra (qui c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in modo che essa è una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte del linguaggio (poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia bisogno di portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre commentando la poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole che a quella fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo quelle che convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua fantasia, prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita delle sue precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando di George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già, da e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto consistesse poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale” cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza del  9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”. Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che differenzia l’istinto dalla pulsione. Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda primitiva, o comunque dai gruppi degli animali. Intervento: dal branco degli animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei così. Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza, sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui, come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la parola sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita ancora la frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra parola e cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa (qualunque essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del rapporto, il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io che porta all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo, il passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si occupa in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle scienze la via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός” “attraverso il cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella scienza moderna un puro strumento al servizio della scienza  10 anzi al contrario è il metodo che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo fatto è stato visto in tutta la sua portata per la prima volta da Nietzsche, che così ne parla nelle annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus degli inediti pubblicato postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà di potenza”. La prima dice “ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la vittoria della scienza ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”. L’altra notazione incomincia con la proposizione “Le idee più importanti furono trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” in realtà anche Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza e precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino. Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel metodo e vi resta sottoposto, la corsa folle, che oggi trascina le scienze verso mete che esse stesse ignorano, ha la sua forza propulsiva nel potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a questo intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il tema rientra nel metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni, mercoledì prossimo riprendiamo questo testo. Vi rileggo la poesia di Stefan George perché la riprende si chiama “La parola”, Das Wort: Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. Un giorno giunsi colà dopo viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e alfine mi annunciò “qui nulla d’eguale dorme sul fondo”. Al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia “nessuna cosa è dove la parola manca”. C’è da dire qui che la questione che sta ponendo questa poesia è interessante perché di fatto sta chiedendo alla Norna di fornirgli, dicevamo l’altra volta, la parola della parola, e cioè un qualche cosa che è fuori della parola e che dovrebbe garantire l’essere della parola. Ovviamente cercare la parola fuori dalla parola è un problema, tant’è che la Norna, saggia, dice “qui nulla d’eguale dorme sul fondo” e allora lui ha appreso la rinuncia: non troverà mai qualche cosa che da fuori della parola possa garantire la parola. Intervento: sarebbe il significato del significato? Non esattamente, perché il significato del significato è ancora un altro significato, quindi un altro termine, un altro elemento linguistico, qui cerca invece proprio la garanzia, cioè il qualche cosa che è fuori dal linguaggio e che dia alla parola la sua consistenza. “Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra parola e cosa, prospettandolo in modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa trae all’essere e mantiene nell’essere ogni cosa, qualunque essa sia. // Infatti fra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale rientra il rapporto tra cosa e parola e precisamente nella figura del rapporto tra essere e dire, questo rapporto sorprende il pensiero in modo così subitaneo e sconvolgente da dirsi in una sola parola, esso suona “λόγος”, ma ancora più sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso in base a quel rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta dicendo che il linguaggio non “si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare il linguaggio, di uscire dal linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio sapendo di che cosa si sta parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il linguaggio ricusa, in questo senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa realmente è, perché appunto dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo rifiuto fa parte dell’essenza del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio non solo si trattiene così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma trattenendosi esso in sé, con la sua origine nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel quale comunemente ci muoviamo, per questo non possiamo nemmeno più dire che l’essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza (come diceva prima) a meno che la parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro che cioè quel rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi, proprio esso, parla. (In altri termini sta dicendo che il linguaggio non dice se  11 stesso, si trattiene dal dire di se stesso nell’accezione che indicavo prima, e cioè come se volesse parlare da fuori il linguaggio per dire che cos’è esattamente il linguaggio, si trattiene dal fare questo. Heidegger dice che non possiamo nemmeno più dire che l’“essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza” come diceva prima e cioè che l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al linguaggio è il linguaggio dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel linguaggio che parla di ciò che è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio non lo si intenda nelle due cose in modo differente e cioè nel secondo caso intendendo che è proprio lui che parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò che parla continuamente, il linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per dirla con Heidegger, il “dire originario”, quel dire cioè che muove nel momento in cui è qualcosa, qualcosa appare e questo dire lascia che ciò che appare interroghi, ciò che si dice, a questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le cose, a questo punto è lui, è soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse qualcosa che è ancora più chiaro, dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”. Così suona la rinuncia del poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene in evidenza il rapporto fra cosa e parola. (Il rapporto tra cosa e parola è importante perché è ciò che la metafisica ha sempre cercato di stabilire con certezza, lì c’è la parola e lì c’è la cosa, però è un problema come dicevamo la volta scorsa, è la questione tipica della metafisica e cioè il problema del “terzo uomo” come diceva già Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve fare da tramite tra i due, il problema è che questo terzo elemento che deve consentire il bloccarsi di questa relazione tra cosa e parola, anziché compiere questo rinvia la cosa all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il quarto, c’è il quinto c’è il sesto e così via all’infinito e quindi non raggiungerà mai la cosa): Abbiamo anche detto che “cosa” (lui lo mette tra virgolette) indica qui ogni possibile essente quale ne sia il modo d’essere. (cioè qualunque cosa) Abbiamo detto ancora riguardo alla parola, che questa non solo sta in rapporto con la cosa ma porta la cosa che di volta in volta nomina, la cosa in quanto essente che è e tale, “è”(tra virgolette) in questo reggendola, trattenendola, dandole per così dire il sostentamento a essere cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la parola che fa essere ciò che dice, nel momento in cui dice le cose è in quel momento che esistono, che sono quello che sono. È questo che sta dicendo. Conseguentemente abbiamo detto che la parola non si limita ad essere in rapporto con la cosa ma che la parola stessa è ciò che porta e serba la cosa come cosa. (che è ancora di più che “la parola stessa è la cosa”, perché la parola è ciò che porta e “mantiene” e fa perdurare la cosa in quanto cosa, dice che la “parola in quanto ciò che porta e serba è il rapporto stesso”. Qui badate bene che dice “è il rapporto stesso” anzi l’ha già detto varie volte, come dire che questo rapporto tra parola e cosa è la parola stessa, quindi non c’è più la parola e la cosa ma c’è una relazione tra parola e cosa, nel senso che la parola rende la cosa quella che è, e solo la parola può farlo, cioè il λόγος, e questo è la parola. Qui si potrebbe anche fare un accenno alla questione della metafisica, così come trascorre da Platone fino a Heidegger, non è altro che lo spostare una cosa presente a una cosa che presente non è, e che deve dare il senso, il significato a ciò che è presente, da qui tutte le distinzioni dalle più antiche alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”, “immanente – trascendente”, “significante – significato”, “enunciazione – enunciato”, l’ultimo in ordine di tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico che tutta questa struttura è metafisica, è metafisica sempre in questa accezione ovviamente, cioè ciò che questo significato di “metafisica” che, come dicevo, trascorre da Platone fino ad Heidegger, indica che ciascuna volta in cui qualche cosa deve la sua esistenza, la sua essenza, il suo significato, a qualche cos’altro, questa è una struttura metafisica. Che ha degli effetti ovviamente, perché comporta la supposizione che una certa cosa sia quello che è in base a quell’altra, quindi quell’altra dà alla prima il suo significato, lo ferma, lo blocca e che quindi questo secondo elemento costituisca l’essenza, potremmo quasi dire, del primo, bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe, dico “potrebbe”, consentire un passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla metafisica. È da considerare che invece ciò che dà il significato al primo elemento costituisca anche questo un elemento che trae il proprio significato da altro, poi da altro, poi da altro ancora e così via all’infinito, a questo punto non c’è la possibilità di bloccare un significato  12 ovviamente, ma questo significato, come ci dice la semiotica, non è altro che un rinvio continuo, infatti, a quella serie di contrapposizioni potremmo anche aggiungere quella di Greimas, cioè i sememi danno un senso ai semi nucleari ché da solo, di per sé, il sema nucleare non significa niente. Ora è chiaro che è il linguaggio che è strutturato così, per questo da tempo sto dicendo che la metafisica illustra il modo in cui il linguaggio funziona, né più né meno, per cui non hanno neanche tutti i torti i metafisici a dire che non c’è uscita dalla metafisica. Posta in questi termini in effetti non c’è uscita dalla metafisica, e neanche attraverso la via immaginata da Heidegger ovviamente): La “parola per la parola” non è dato trovarla là dove il destino dona il linguaggio (cioè se c’è il linguaggio allora la parola per la parola non c’è, una parola che dica la parola in modo definitivo, l’ultima parola sulla parola, non c’è, non si trova perché c’è il linguaggio, il linguaggio che nomina e fa essere, quindi non c’è), linguaggio che nomina e fa essere per l’essente, non c’è la parola che dica l’essenza del linguaggio, perché questa sia e come essente splenda e fiorisca la parola per la parola un tesoro certamente ma un tesoro non conquistabile per la terra del poeta, e per il pensiero? Può il pensiero? Quando il pensiero cerca di meditare la parola poetica (cioè la parola autentica per Heidegger) questo si rivela: la parola, il dire non ha essere. Il nostro modo corrente di concepire si ribella quando gli si propone un pensiero così audace. Scritte o parlate ognuno pur vede e sente delle parole, esse sono. Possono essere come cose, realtà afferrabili dai nostri sensi, basta solo per far l’esempio più banale aprire un dizionario è pieno di “cose” stampate, certamente puri vocaboli, non una sola parola, poiché la parola grazie alla quale i vocaboli si fanno parola, un dizionario non è in grado né di captarla né di custodirla, dove dobbiamo andare a cercare la parola? dove il dire? Dall’esperienza poetica della parola ci viene un cenno che può essere di grande aiuto: la parola non è cosa, nulla di essente, invece noi abbiamo cognizione delle cose quando per esse c’è a disposizione la parola allora la cosa è. Ma qual è la natura di questo “è”, “la cosa è”? e questo “è” è anch’esso una cosa sovrapposta a un’altra, messale su come un cappuccio, noi non troviamo mai questo “è” come cosa sopra altra cosa, per questo “è” la situazione è la stessa che per la parola, questo “è” non fa parte delle cose che sono più di quanto non lo faccia la parola. (sta dicendo che la parola non è, nel senso dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia comunemente, e cioè come ente, qui allude al fatto che la parola non sia determinabile, così come lo è per esempio un vocabolo, un lessema, quindi intende con parola ovviamente un’altra cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo dalla sonnolenza di un pensare frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in ciò che l’esperienza del linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il rapporto fra questo “è” che per sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione che cioè non è nulla che sia, (qui sta cercando di complicare le cose, adesso vediamo se) né l’“è” nella parola hanno l’essenza della cosa, (l’abbiamo detto prima: non sono enti) l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la parola al quale è affidato il compito di concedere via, via un “è”, (sta dicendo che né questo è, quando diciamo che “la parola è qualcosa”, questo “è” per lui costituisce un problema, diciamo “la parola è”, “è” cosa? infatti né l’“è” né la parola in questa frase hanno l’essenza della cosa, cioè non hanno l’Essere) né ha (soggetto l’Essere) il rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non di meno, né l’“è”, né la parola e il dire di questa, possono venire cacciati nel vuoto del niente (non sono niente, qualcosa pur sono) Che indica l’esperienza poetica della parola quando il pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degno d’essere pensato, pensare il quale si pone al pensiero fino dai tempi più antichi e anche se in modo velato come suo proprio compito, esso rimanda a quello di cui in tedesco può dirsi “es gibt senza che possa dirsi “ist” cioè è, “gibt” “esso dà” “si offre”, di ciò di cui può dirsi “est gibt” fa parte anche la parola (adesso incomincia a intravedersi che cosa intende con quello che sta dicendo “la parola non è, propriamente, ma è ciò che si dà, ciò che si offre”.)forse non solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in modo tale che nella parola e nella sua essenza si cela quello che “gibt” appunto “dà”, nella parola si cela quello che essa stessa da. Della parola pensando con rigore non dovremmo mai dire “es ist” cioè “essa è” ma “es gibt”, ciò non nel senso di quando si dice “es gibt Worte” “qualcosa dà la parola” ma nel senso che la parola stessa dà, non è qualcosa che dà la parola ma è la parola che dà, la parola: la datrice. Ma che dà la parola?  13 secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica del pensiero la parola dà: l’Essere (ecco perché prima diceva che la parola non è l’Essere, la parola dà l’Essere) Ma se così stanno le cose allora in quel “es, das gibt” “esso, il dare” noi dovremmo pensando cercare la parola come ciò stesso che dà e mai è dato. La parola “es gibt” si trova in tedesco usata in molteplici modi, si dice per esempio “es gibt an der sonningen Halde Erdbeeren” “ci sono fragole sul pendio soleggiato”, “là ci sono le fragole”, nella nostra riflessione “es gibt” è usato diversamente non “des gibt …” “si dà la parola” ma “es das Word gibt…” cioè “essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war, soll Ich werden” questo “es” può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là dove qualcosa era occorre che io avvenga” è una delle traduzioni che sono state fatte di questa frase. Così dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti al quale molti e a ragione trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere pensato resta, si fa anzi evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che noi indichiamo con l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che propriamente è degno di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la determinazione di questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse il poeta li conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la rinuncia nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella parola che dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che non ce l’ha) il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma comportata dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma sfugge in che senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è trattenere ma qui appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio della parola, il gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte insignificanza del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la parola non è Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale incapacità di dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a dirla, dice:) no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si sottrae nel mistero che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i versi introduttivi al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone cioè un dire e in forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che non è la parola che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola come già aveva fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione che indica Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità tra poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che l’evento domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice della sua essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre raggiunto il segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo solo se ha risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto nel linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché la presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica nucleare, non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e tempo (in tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre esattamente gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in grado di produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a crollare l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché non avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto parla contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di interpretare il cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”, sennonché ciò che spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è primariamente la passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad essere quel che sono in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina il pensiero moderno nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e nella difficile situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia dietro la quale si cela un passivo che non può essere sanato né da parte della scienza, né da parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente poi qual è questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere ciò che stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco l’ultimo capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande): (Ripete di nuovo il verso  14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca) Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione “Nessuna cosa è dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè c’è una frattura, un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle qualcosa, farle mancare qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo quando c’è la parola per dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che è la parola per avere tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? 3) Che significa qui “essere”, dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò che ha detto nel libro praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono conferito alla cosa dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde alle domande poi, perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di Heidegger che sia antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti per lui l’uomo è oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si accorge che l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso sull’Essere, cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che parla, senza colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la risposta “meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta giunge notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita nel sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio come realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole tenere per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi sono parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume così consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così facendo esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i “nomi” sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi, perché “i nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo modo e cioè che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma anche che “i nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che rappresentano parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole che rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i nomi) propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli deve prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso potremmo dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si riferisce sempre alla poesia di George) sono come qualcosa che dorme, che ha bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle cose, nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che poi viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a quel momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano la realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto quella che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si trova? (il gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello deve sì restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No, altro accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che manca il nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della parola, è quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente: (cioè la parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo prende e lo porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola presenta improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa sulla realtà, come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che consiste nel dare un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta dinnanzi, al contrario (qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce la presenza cioè l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente, quest’altro potere della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo brusco e improvviso, al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca, perciò il gioiello dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un tesoro che poi il poeta non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si dilegua, che cosa manca? Qui non siamo nella questione della “mancanza a essere”, siamo al fatto che ciò che manca è quella parola che da fuori del linguaggio finalmente dica che cos’è veramente la parola. Il nome che si dà alla parola è un’altra parola, non è qualcosa che da fuori  15 dovrebbe garantire che sia esattamente quella cosa. E qui insiste sul fatto che la parola fa sì che la cosa sia, cosa tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra del poeta mai giunge a possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la potenza e la vita della parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della parola? il fatto di fare essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola, alla sua propria parola ma la parola, per l’essenza della parola, non viene concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è questo che non viene concesso, è questo che manca, in questo senso diceva. L’ultimo capitoletto “In cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al testo. Ecco qui parla dell’¡λήθεια: il testo di Aristotele evidenzia con un dire chiaro e sobrio quella classica struttura in cui si cela l’essenza del linguaggio inteso come parlare, le lettere indicano i suoni, i suoni indicano le affezioni dell’anima, le affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima, il “mostrare” “das Zeigen” è quello che costituisce e regge l’intera impalcatura, in modo vario, velando e disvelando, esso il mostrare, porta qualcosa ad apparire, fa che ciò che appare sia avvertito e ciò che viene avvertito sia considerato (cioè esista) quando riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo abbandonato il modo di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul linguaggio. Non possiamo più andare alla ricerca di concetti generali come “energia” “attività” “lavoro” “forza spirituale” “visione del mondo”, espressione sotto i quali condurre il linguaggio come un caso particolare di tale generalità. Anziché spiegare il linguaggio come questa o quest’altra cosa fuggendone in tal modo lontano, il cammino verso il linguaggio vorrebbe fare esperire il linguaggio come linguaggio, nell’essenza del linguaggio, il linguaggio è sì compreso, ma afferrato per mezzo di altro da esso è il famoso metalinguaggio (di cui diceva prima il metalinguaggio come metafisica) se volgiamo invece l’attenzione unicamente al linguaggio come linguaggio, questo pretende allora da noi che mettiamo finalmente in evidenza tutto quello che fa parte del linguaggio in quanto linguaggio (è quello che ho cercato di fare in questi anni intendendo che cosa fa funzionare il linguaggio) Nel parlare rientrano i parlanti, ma il rapporto tra parlanti e parlare non è riducibile a quello tra causa ed effetto (se no sarebbe come dire che qualcosa dà la parola, mentre lui è stato preciso, “è la parola che dà”, ma cosa dà? Le cose, l’Essere.) I parlanti trovano piuttosto nel parlare il loro essere presenti, presenti a che? A ciò con cui parlano, presso cui dimorano in quanto realtà che sempre già li riguarda, è quanto dire “gli altri, le cose, tutto ciò che fa che queste siano cose, queste precise cose e quelli gli altri quei concreti altri” (questo fa la parola, fa esistere tutte queste cose qui) A tutto questo ora in un modo, ora in un altro già sempre è andato l’appello del parlare. // Ma come sono pensati il parlare e il “parlato”, nel breve racconto che si è precedentemente fatto del linguaggio? Essi si rivelano già come ciò per cui e in cui qualcosa si fa parola, giunge a farsi evidente in quanto qualcosa è detto. Dire e parlare non sono la stessa cosa, uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla, un altro invece tace, non parla e può col suo non parlare dire molto, ma che significa dire, “sagen” in tedesco? Per esperire questo è necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già costringe a pensare con la parola “sagen”. “Sagan” significa “mostrare” “far che qualcosa appaia” “si veda” “si senta” // Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il dire originario “die saghe” in quanto “mostrare” “die Zeige”, il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno ma tutti i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini soltanto acquistano la possibilità di essere segni. (Ma non sta proprio in questo mostrare, nel fatto che tutti i segni traggono origine da un mostrare che si impianta la metafisica stessa, la sua stessa possibilità? Ma ne riparleremo perché è una questione tutt’altro che semplice) // (siamo alla fine volevo riprendere le tre domande che faceva prima, adesso possiamo rispondere a ciò che si è domandato): Il dire originario è mostrare, in tutto ciò (ricordate: il dire originario è mostrare. Questo è il dire originario per Heidegger) in tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca come oggetto di parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non detto è in attesa di noi, non solo ma in quello stesso parlare, che noi veniamo mettendo in atto, che è operante il mostrare sempre e comunque, in virtù di questo che ciò che è presente appare, ciò che è assente dispare. Questo (è sempre il dire originario il soggetto) dischiude ciò che è presente nel suo esser presente (che sembra una ripetizione inutile “dischiude il suo essere presente nel suo essere presente” ma il fatto che qualcosa sia presente per Heidegger non è così automatico, occorre qualcosa che dischiuda, apra l’orizzonte entro il quale qualche cosa può essere presente, non basta che sia presente perché che sia presente da sé non significa niente se non c’è il linguaggio che fa essere presente.) il dire originario domina compone in unità la libera distesa di quella radura … da dove viene il mostrare? La domanda vuol sapere troppo e troppo in fretta (non è che possiamo sapere tutto subito) gioverà accontentarsi di osservare la natura e l’origine del moto presente nel mostrare, non è necessaria qui una lunga ricerca è sufficiente l’intuizione repentina, non obliabile e perciò sempre nuova, di ciò che, sì, è a noi familiare, ma che noi tuttavia lungi dal riconoscere nel modo che ci conviene neppure cerchiamo di conoscere, questa realtà sconosciuta e non di meno familiare da cui ogni mostrare del dire originario trae il proprio moto, è per ogni essere presente ed essere assente l’alba di quel mattino nel quale soltanto può trovare inizio la vicenda del giorno e della notte. Alba che insieme l’ora prima e l’ora più remota tale realtà appena ci è dato nominarla, essa è l’“ort” che non tollera “Er-örterung”. Il tempo che non concede di essere raggiunto perché è luogo di tutti i luoghi e di tutti gli spazi del gioco del tempo, noi la chiameremo con una parola antica e diremo: ciò che muove nel mostrare del dire originario è lo “Eignen”. Lo Eignen adduce ciò che è presente e assente in quello che gli è proprio, cosicché emergendone la cosa presente e assente, si rivela nella sua vera identità e resta se stessa. // Il linguaggio non si irrigidisce in se stesso nel senso di un narcisismo di tutto dimentico tranne che di sé, come sarebbe potuto apparire, (eventualmente) come dire originario il linguaggio è il mostrare appropriante, che appunto prescinde da sé per dischiudere così per mostrare la possibilità di rilevarsi nella figura che gli è propria, (cioè il linguaggio consente alla cosa di mostrarsi e permette anche alla cosa di mostrarsi per quello che è. Il linguaggio è questa possibilità delle cose di essere quelle che sono. Ma non toglie alle cose il fatto che sono quelle che sono.) Il linguaggio che parla dicendosi cura che il nostro parlare, ascoltare il dire che non ha suono, corrisponda a quel che esso (linguaggio) viene dicendo, in tal modo anche il silenzio che non di rado si pone a fondamento del linguaggio, come sua scaturigine, è già un corrispondere (corrispondere alla chiamata del dire, ovviamente, cioè del λόγος. La conclusione sarà a questo punto la risposta a quelle tre domande.) Poiché noi uomini, per essere quelli che siamo, restiamo immessi nel linguaggio, né mai possiamo uscirne e posarci a un punto da cui ci sia dato circoscriverlo con lo sguardo, noi vediamo il linguaggio sempre solo in quanto il linguaggio stesso già si è affissato su di noi (appoggiato su di noi, fissato su di noi) ci ha appropriato a sé, il fatto che del linguaggio ci è precluso il sapere, (perché per sapere sul linguaggio bisognerebbe uscire dal linguaggio e tutte queste storie) il sapere inteso secondo la concezione tradizionale fondata sull’idea che conoscere sia rappresentare, non è certamente un difetto bensì il privilegio grazie al quale siamo eletti e attratti in una sfera superiore, in quella in cui noi assunti a portare a parole il linguaggio dimoriamo come immortali insomma siamo fortunati ad essere parlanti. Allora le tre domande alle quali potete, a questo punto, rispondere voi stessi: Che è la parola per avere tanto potere? È l’Essere è il logos. Perché la parola ha tanto potere? Perché è ciò che in quanto Essere è ciò che consente alle cose di apparire, ma che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? La parola ha bisogno della parola per essere la cosa, e quindi è quella cosa che diventa cosa soltanto se la parola la fa essere cosa. Terza domanda: che significa qui Essere dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola? che significa qui Essere? Λόγος, nient’altro che λόγος e bell’è fatto. Ecco, io vi ho fatto considerare queste cose perché non è tanto il fatto del contenuto delle affermazioni di Heidegger quanto il modo in cui approccia la questione del linguaggio, in un modo che lui direbbe “non presentativo” cioè non mostra, non dice che cos’è il linguaggio come fa la linguistica, come fa la filosofia del linguaggio, come fa la filosofia in generale approcciando il linguaggio come ente, perché sta qui la differenza ontologica: ente/Essere. Il linguaggio è Essere non è ente. Sono considerazioni interessanti che possono portare ad altre considerazioni, possono aprire altre vie, per questo motivo vi ho letto alcune cose di questo testo di Martin Heidegger. The uttered speech of private life is fluctuating and variable. In  every period it varies according to the age, class, education, and habits of  the speaker. His social experience, traditions and general background,  his ordinary tastes and pursuits, his intellectual and moral cultivation are  all reflected in each man’s conversation. These factors determine and  modify a man’s mode of speech in innumerable ways. They may affect  his pronunciation, the speed of his utterance, his choice of vocabulary,  the shade of meaning he attaches to particular words, or turns of phrase,  the character of such similes and metaphors as occur in his speech, his  word order and the structure of his sentences.   But the individual speaker is also affected by the character of those  to whom he speaks. He adjusts himself in a hundred subtle ways to the  age, status, and mental attitude of the company in which he finds himself.  His own state of mind, and the mode of its expression are unconsciously  modified by and attuned to the varying degree of intimacy, agreement,  and community of experience in which he may stand with his companions  of the moment.   Thus an accomplished man of the world, in reality, speaks not  one but many slightly different idioms, and passes easily and instinc-  tively, often perhaps unknown to himself, from one to another, according  to the exigence of circumstances. The man who does not possess,  to some extent at least, this power of adjustment, is of necessity a stranger  in eveuy company but that of one particular type. No man who is not  a fool will consider it proper to address a bevy of Bishops in precisely  the same way as would be perfectly natural and suitable among a party  of fox-hunting country gentlemen.   A learned man, accustomed to choose his own topics of conversation  and dilate upon them at leisure in his College common room where he  can count upon the civil forbearance of other people like himself, would  be thought a tedious bore, and a dull one at that, if he carried his  pompous verbiage into the Officers’ Mess of a smart regiment. 'A  meere scholler is but a woefull creature says Sir Edmund Verney, in  a letter in which he discusses a proposal that his son should be sent to  Leyden, and observes concerning this— ‘ 'tis too private for a youth of  his yeares that must see company at convenient times, and studdy men as  well as bookes, or else his bearing may make him rather ridiculous then  esteemed ^   There is naturally a large body of colloquial expression which is  common to all classes, scholars, sportsmen, officers, clerics, and the rest,  but each class and interest has its own special way of expressing itself,  which is more or less foreign to those outside it. The average colloquial speech of any age is at best a compromise between a variety of different  jargons, each evolved in and current among the members of a particular  section of the community, and each, within certain social limits, affects  and is affected by the others. Most men belong by their ciicumstanccs  or inclinations to several speech-communities, and have little difficulty in  maintaining Ihhmsclvcs creditably in all of these. The wider the social  opportunities and experience of the individual, and the keener his lin-  guistic instinct, the more readily does he adapt himself to the company  in which he finds himself, and the more easily docs he fall into line with  its accepted traditions of speech and bc aiing.   But if so much variety in the details of colloquial usage exists in  a single age, with such well-marked differences between the conventions  of each, how much greater will be the gulf which separates the types of  familiar conversation in different ages. Do we realize that if we could,  by the workings of some Time Machine, be suddenly transported back  into the seventeenth century, most of us would find it extremely difficult  to carry on, even among the kind of people most nearly corresponding  with those with whom we are habitually associated in our present age,  the simplest kind of decent social intercourse? Even if the pronunciation  of the sixteenth century offered no difficulty, almost every other element  which goes to make up the medium of communication with our fellows  would do so.   We should not know how to greet or take leave of those we met, how  to express our thanks in an acceptable manner, how to ask a favour, pay  a compliment, or send a polite message to a gentleman's wife. We  should be at a loss how to begin and end the simplest note, whether to  an intimate friend, a near relative, or to a stranger. We could not scold  a footman, commend a child, express in appropriate terms admiration for  a woman’s beauty, or aversion to the opposite quality. We should hesitate  every moment how to address the person we were talking to, and should be  embarassed for the equivalent of such instinctive phrases as look here, old  man ; my dear chap ; my dear Sir ; excuse me ; I beg your pardon ;  I’m awfully sorry; Oh, not at all; that 's too bad ; that ’s most amusing ;  you see ; don't you know ; and a hundred other trivial and meaningless  expressions with which most men fill out their sentences. Our innocent  impulses of pleasure, approval, dislike, anger, disgust, and so on, would  be nipped in the bud for want of words to express them. How should we  say, on the spur of the moment what a pretty girl 1 ; what an amusing  play I ; how clever and witty Mr. Jones is ! ; poor woman ; that's a perfectly  rotten book ; I hate the way she dresses ; look here, Sir, you had better  lake care what you say ; Oh, shut up ; I'm hanged if I'll do that ; I’m very  much obliged to you. I'm sure ?   It is very probable that we perfectly grasp the equivalents of all these  and a thousand others when we read them in the pages of Congreve and  his contemporaries, but it is equally certain that the right expressions  would not rise naturally to our lips as we required them, were we  suddenly called upon to speak with My Lady Froth, or Mr. Brisk.   The fact is that we should feel thoroughly at sea in such company,  and should soon discover that we had to learn a new language of polite  society. In illustrating the colloquial style of the fifteenth century we have to  be content, either with the account of conversations given in letters, or with  such other passages from letters of the period as appear to be nearest  to the speech of everyday life.   The following passages are from the Shillingford Letters, to which  reference is repeatedly made in this book (see p. 65, &c.}, and are  extracted from the accounts given by the stout and genial Mayor of  Exeter, in letters to his friends, of his conversations with the Chancellor  during his visit to London.   Shillingford begins by referring to himself as ‘ the Mayer but suddenly  changes to the first person— in describing the actual meeting, again  returning for a moment to the impersonal phrase.   Jolm Shillingford*   ‘The Saterdey next (28 Oct. 1447) tberafter the mayer came to West-  minster sone apon ix. atte belle, and ther mette w* my lorde Chanceller atte  brode dore a litell fro the steire fote comyng fro the Sterrechamber, y yn  the courte and by the dore knellyng and salutyng hym yn the moste godely  wyse that y cowde and recommended yn to his gode and gracious lordship  my feloship and all the comminalte, his awne peeple and bedmen of the  Cite of Exceter. He seyde to the mayer ij tymes “ Well come ’’ and the  tyme “Right well come Mayer'’ and helde the Mayer a grete while faste by  the honde, and so went forth to his barge and w* hym grete presse, lordis  and other, &c. and yn especiall the tresorer of the kynges housholde, w*  wham he was at right grete pryvy communication. And therfor y, mayer,  drowe me apart, and mette w* hym at his goyng yn to his barge, and ther  toke my leve of hym, seyyng these wordis, “ My lord, y wolle awayte apon  youre gode lordship and youre better leyser at another tyme He seyde  to me ayen, “Mayer, y pray yow hertely that ye do so, and that ye speke w*  the Chief Justyse and what that ever he will y woll be all redy”. And thus  departed. A little later:   * Nerthelez y awayted my tyme and put me yn presse and went right to my  lorde Chaunccller and seide, “My lorde y am come at your coinmaundc-  ment, but y se youre grete bysynesse is suchc that ye may not attencle ”,  He seide “Noo, by his trauthe and that y myght right well se”. Y scide  “Yee, and that y was sory and hadde pyty of his grete vexacion”. He  seide “ Mayer, y moste to morun ride by tyme to the Kyng, and come ayen  this wyke : ye most awayte apon my comyng, and then y wol speke the  justise and attende for yow ” &c. He seyde “ Come the morun Monedey ” (the Chancellor was speaking on  Sunday). .. “the love of God ” Y seyde the tyme was to shorte, and prayed  hym of Wendysdey ; y enfourmed hym (of t)he grete malice and venym that  they have spatte to me yn theire answeris as hit appercth yn a copy that  y sende to yow of. My lorde seide, “ Alagge alagge, why wolde they do so ?  y woll sey right sbarpely to ham therfor and y nogh  Brews*   The following brief extracts from the letters of Brews, the  affianced wife of Jolm Fasten (junior) are like a ray of sunlight in the  dreary wilderness of business and litigation, which are the chief subjects  of correspondence between the Pa&tons. Even this Iove*letter is not wholly free from the taint, but the girl's gentle affection for her lover is  the prevailing note*   * Yf that ye cowde be content with that good and my por persone I wold  be the meryest mayclen on grounde, and yf ye thynke not your selffe soe  satysfyed or that ye myght hafe much mor good, as I hafe ujtidyrstonde be  youe afor ; good trewe and iovyng volentyne, that ye take no such labur  iippon yowe, as to come more for that matter, but let it passe, and never  more to be spokyn of, as I may be your trewe lover and bedewoman during  my lyfe .’ Pas ton Letters^ hi, A few years later Mrs. Fasten writes to her 'trewe and Iovyng  volentyne ' : ' My mother in lawe thynketh longe she here no word from you. She is in  goode heaie, blissed be God, and al yowr babees also. I marvel I here no  word from you, weche greveth me ful evele. I sent you a letter be Basiour  sone of Norwiche, wher of I have no word.’ To this the young wife adds  the touching postscript : ' Sir I pray yow if ye tary longe at London that it  wii plese to sende for me, for I thynke longe sen I lay in your armes.’  Paston Letie?-Sj  Sir Thomas More.   No figure in the eaily part of Henry VIII’s reign is more distin-  guished and at the same time more engaging than that of Sir Thomas  More* A few typical records of his conversation, as preserved by his  devoted biographer and son-in-law Roper, are chosen to illustrate the  English of this time. The context is given so that the extracts may  appear in Roper's own setting.   'Not long after this the Watter baylife of London (sonietyme his servaunte)  liereing, where he had beene at dinner, certayne Marchauntes^ liberally to  rayle against his ould Master, waxed so discontented therwith, that he  hastily came to him, and tould him what he had hard: "and were I Sir”  (quoth he) " in such favour and authoritie with my Prince as you are, such  men surely should not be suffered so villanously and falsly to misreport and  slander me. Wherefore 1 would wish you to call them before you, and to  there shame, for there lewde malice to punnish them.” Who smilinge upon  him sayde, " Watter Baylie, would you have me punnish them by whome  1 reccave more benefit! then by you all that be my frendes ? Let them  a Gods name speakc as lewdly as they list of me, and shoote never soe  many airowcs at me, so long as they do not hitt me, what am I the worse?  But if the should once hitt me, then would it a little trouble me : howbeit,  I trust, by Gods helpe, (here shall none of them all be able to touch me.  I have more cause, Water Bayly (I assure thee) to pittie them, then to  be angrie with them.” Such frutfiill communication had he often tymes  with his familiar frendes. Soe on a tyme walking a long the Thames syde  with me at Chelsey, in talkinge of other thinges he sayd to me, " Now,  would to God, Sonne Roger, upon condition three things are well estab-  lished in Christendome, I were put in a sacke, and here presently cast into the  Thames.” " What great thinges be these, Sir ” quoth I, " that should move  you $0 to wish?” "Wouldest thou know, sonne Roper, what they be”  quoth he? “Yea marry, Sir, with a good will if it please you”, quoth I,  “ I faith, they be these Sonne ”, quoth he. The first is, that where as the  most part of Christian princes be at mortall warrs, they weare at universal  peace. The second, that wheare the Church of Christ is at this present soare afflicted witli many heresies and errors, it were well settled in an  uniformity. The third, that where the Kinges matter of his marriage is now  come into question, it were to the glory of God and quietnesse of all parties  brought to a good conclusion : ’’ where by, as I could gather, he judged, that  otherwise it would be a disturbance to a great part of Christ endome/   ‘ When Sir Thomas Moore had continued a good while in the Tower, my  Ladye his wife obtayned license to see him, who at her first comminge like  a simple woman, and somewhat worldlie too, with this manner of salutations  bluntly saluted him, ‘‘What the good yeai'e, Moore” quoth shee,   I marvell that you, that have beene allwayes hitherimto taken for soe wise  a man, will now soe playe the foole to lye here in this close filthie prison, and  be content to be shutt upp amonge myse and rattes, when you might be  abroad at your libertie, and with the favour and good will both of the  King and his Councell, if you would but doe as all the Bushopps and best  learned of this Realme have done. And seeing you have at Chelsey a right  fayre house, your librarie, your books, your gallerie, your garden, your  orchards, and all other necessaries soe handsomely about you, where you  might, in the companie of me your wife, your children, and houshould be  merrie, I muse what a Gods name you meane here still thus fondlye to tarry.’'  After he had a while quietly hard her, “ I pray thee good Alice, tell me,  tell me one thinge.” “ What is that ? ” (quoth shee). “ Is not this house  as nighe heaven as myne owne?” To whome shee, after her accustomed  fashion, not likeinge such talke, answeared, “ Tilh valie, Tille valle ”  “How say you, Alice, is it not soe?” quoth he. Bone deus, bone  Deusy man, will this geare never be left?” quoth shee. “Well then  Alice, if it be soe, it is verie well. For I see noe great cause whie  I should soe much joye of my gaie house, or of any thinge belonginge  thereunto, when, if I should but seaven yeares lye buried under ground,  and then arise, and come thither againe, I should not fayle to finde some  Iherin that would bidd me gett out of the doores, and tell me that weare  none of myne. What cause have I then to like such an house as would  soe soone forgett his master?” Soe her perswasions moved him but a little.*   The last days of this good man on earth, and some of his sayings just  before his death, are told with great simplicity by Roper. We cannot  forbear to quote the affecting passage which tells of Sir Thomas More’s  last parting from his daughter, the writer’s wife.   ‘When Sir Tho. Moore came from Westminster to the Towreward againe,  his daughter my wife, desireous to see her father, whome shee thought shee  should never see in this world after, and alsoe to have his finall blessinge,  gave attendaunce aboutes the Towre wharfe, where shee knewe he should  passe by, eVe he could enter into the Towre. There tarriinge for his  coininge home, as soone as shee sawe him, after his blessinges on her  knees reverentlie receaved, shoe hastinge towards, without consideration  and care of her selfe, pressinge in amongest the midst of the thronge and  the Companie of the Guard, that with Hollbards and Billes weare round  about him, hastily ranne to him, and then openlye in the sight of all them  embraced and tooke him about the necke, and kissed him, whoe well likeing  her most daughterlye love and affection towards him, gave her his fatherlie  blessinge, and manye goodlie words of comfort besides, from whome after  shee was departed, shee not satisfied with the former sight of her deare  father, havinge respecte neither to her self, nor to the presse of the people  and multitude that were about him, suddenlye turned backe againe, and  rann to him as before, tqoke him about the necke, and divers tymes togeather  most lovinglay kissed him, and at last with a full heavie harte was fayne to  departe from him; the behouldinge whereof was to manye of them that were  present thereat soe lamentablcj that it made them for very sorrow to mourne  and weepe.’ In his last letter to his ' dearely beloved daughter, written with a Cole  Sir Thomas More refers to this incident :' And I never liked your  manners better, then when you kissed me last. For* I like when  daughterlie Love, and deare Charitie hath noe leasure to looke to worldlie  Curtesie   Next morning ‘ Sir Thomas even, and the Utas of St. Peeter in the yeare  of our Lord God, earlie in the morninge, came to him Sir Thomas  Pope, his singular trend, on messedge from the Kinge and his Councell,  that hee should before nyne of the clocke in the same morninge suffer  death, and that therefore fourthwith he should prepare himselfe thereto.   Pope sayth he, for your good tydinges I most hartily thankyou.  I have beene allwayes^ bounden much to the Kinges Highnes for the  benehtts and honors which he hath still from tyme to tyme most bounti-  fully heaped upon mee, and yete more bounden I ame to his Grace for  putting me into this place, where I have had convenient tyme and space to  have remembraunce of my end, and soe helpe me God most of all Pope,  am I bound to his Highnes, that it pleased him so shortlie to ridd me of  the miseries of this wretched world. And therefore will I not fayle most  earnestlye to praye for his Grace both here, and alsoe in another world, .And I beseech you, good Pope, to be a meane unto his Highnes, that  my daughter Margarette may be present at my buriall.’’ “ The King is well  contented allreadie*' (quoth M^’ Pope) ‘‘that your Wife, Children and other  frendes shall have free libertie to be present thereat “O how much be-  hoiilden” then said Sir Thomas Moore “am I to his Grace, that unto my  poore buriall vouchsafeth to have so gratious Consideration.*’ Wherewithal!   Pope takeinge his leave of him could not refrayne from weepinge, which  Sir Tho. Moore perceavinge, comforted him in this wise, “ Quiete yourselfe  good M^ Pope, and be not discomforted. For I trust that we shall once in  heaven see each other full merily, where we shall bee sure to live and love  togeather in joyfull blisse eternally.Wolsey.   The Ij/e of Wolsey, by George Cavendish, a faithful and  devoted servant of the Cardinal, who was with him on his death-bed,  gives a wonderfully interesting picture of this remarkable man, in affluence  and in adversity, and records a number of conversations which have  a convincing air of verisimilitude. The following specimens are taken  from the Kelmscott Press edition of 1893, which follows the spelling of  the author's MS. in the British Museum.   ‘ After ther departyng^ my lord came to the sayd howsse of Eston to his  lodgyng, where he had to supper with hyme dyvers of his frends of the court.  And syttyng at supper, in came to hyme Doctor Stephyns, the secretary,  late ambassitor unto Rome ; but to what entent he came I know not ;  howbeit my lord toke it that he came bothe to dissembell a certeyn  obedyence and love towards hyme, or ells to espie hys behaviour, and to  here his commynycacion at supper. Not withstandyng my lord bade hyme  well come, and commaundyd hyme to sytt down at the table to supper;  with whome my lord had thys commynycacion with hyme under thys  maner. Mayster Secretary, quod my lord, ye be-welcome home owt of  Rally; whan came ye frome Rome? Forsothe, quod he, I came home  allmost a monethe agoo ; and where quod my lord have you byn ever  sence? Forsothe, quod he, folowyng the court this progresse. Than have  ye hunted and had good game and pastyme. Forsothe, Syr, quod he, and  so I have, I thanke the kyngs Majestie, What good greyhounds have ye?  quod my lord. I have some syr quod he. And thus in huntyng, and in  lyke disports,, passed they all ther commynycacion at supper. And after  supper my lord and he talked secretly together until it was mydnyght or  they departed.’ Than all thyng beyng ordered as it is before reherced, my lord  prepared hyme to depart by water. ^ And before his departyng he com-  maundyd Syr William Gascoyne, his treasorer, to se these thyngs byfore  remembred, delyverd safely to the kyng at his repayer. That don, the  seyd Syr William seyd unto my lord. Syr I ame sorry for your grace, for  I understand ye shall goo strayt way to the tower. Ys this the good  comfort and councell, quod my lord, that ye can geve your mayster in  adversitie? Yt hathe byn allwayes your naturall inclynacion to be very  light of credytt, and mych more lighter in reporting of false newes,  I wold ye shold knowe, Syr William, and all other suche blasphemers,  that it is nothyng more false than that, for I never, thanks be to god,  deserved by no wayes to come there under any arrest, allthoughe it hathe  pleased the kyng to take my howse redy furnysshed for his pleasyr at this  tyme. I wold all the world knewe, and so I confesse to have no thyng,  other riches, honour, or dignyty, that hathe not growen of hyme and by  hyme ; therefore it is my verie dewtie to surrender the same to hyme agayn  as his very owen, with al my hart, or ells I ware and onkynd servaunt.  Therefore goo your wayes, and geve good attendaunce unto your charge,  that no thyng be embeselled.’ ‘And the next day we removed to Sheffeld Parke, where therle of Shrews-  bury lay within the loge, and all the way thetherward the people cried and  lamented, as they dyd in all places as we rode byfore. And whan we came  in to the parke of Sheffeld, nyghe to the logge, my lord of Shrewesbury, with  my lady his wyfe, a trayn of gentillwomen, and all my lords gentilmen, and  yomen, standyng without the gatts of the logge to attend my lords commy ng,  to receyve hyme with myche honor ; whome therle embraced, sayeng these  words. My lord quod he, your grace is most hartely welcome unto me, and  glade to se you in my poore loge ; the whiche I have often desired ; and  myche more gladder if you had come after another sort. Ah, my gentill  lord of Shrewesbury quod my lord, I hartely thanke you ; and allthoughe  I have no cause to rejoyce, yet as a sorowe full hart may joye, I rejoyce my  chaunce, which is so good to come into the hands and custody of so noble  a persone, whose approved honor and wysdome hathe byn allwayes right  well knowen to all nobell estats. And Sir, howe soever my ongentill accusers  hathe used ther accusations agenst me, yet I assure you, and so byfore your  lordshipe and all the world do I protest, that my demeanor and procedyngs  hathe byn just and loyall towards my soverayn and liege lord ; of whose  behaviour and doyngs your lordshipe hathe had good experyence ; and evyn  accordyng to my trowthe and faythfulnes, so I bescche god helpe me in this  my calamytie. I dought nothyng of your Irouthe, quod therle, tlierfore my  lorde I beseche you be of good chere and feare not, for I have receyved  letters from the kyng of his owen hand in your favour and entertaynyng the  whiche you shall se. Sir, I ame nothyng sory but that I have not wherwith  worthely to receyve you, and to entertayn you accordyng to your honour and  my good wyll ; but suche as I have ye are most hartely welcome therto,  desiryng you to accept my good wyll accordyngly, for I wol not receyve you  as a prisoner, but as my good lord, and the kyngs trewe faythfull subjecte ;  and here is my wyfe come to salute you. Whome my lord kyst barehedyd,  and all hir gentilwomen ; and toke my lords servaunts by the hands, as well  gentilmen and yomen as other. Then these two lords went arme in arme into the logge, conductyng my lord into a fayer chamber at thend of a goodly  gallery within a newe tower, and here my lord was lodged.’ Here are some short portions of dialogue between Wolsey and his  friends, just before his death :   * Uppon Monday in the mornyng, as I stode by his bedds' side, abought  viii of the clocke, the wyndowes beyng cloose shett, havyng wake lights  burnyng uppon the cupbord, I behyld hyme, as me seemed, drawyng fast to  his end. He perceyved my shadowe uppon the wall by his bedds side,  asked who was there. Sir I ame here, quod I. Howe do you ? quod he to  me. Very well Sir, if I myght se your grace well. What is it of the clocke ?  quod he to me. Forsothe Sir, quod I, it is past viii. of the clocke in the  mornyng. Eight of the clocke, quod he, that cannot be, rehersing dyvers  times eight of the clocke, eight of the clocke. Nay, nay, quod he at the last,  it cannot be viii of the clocke, for by viii of the clocke ye shal loose your  mayster ; for my tyme drawyth nere that I must depart out of this world.’‘ Mayster Kyngston farewell. I can no moore, but why she all thyngs to  have good successe. My tyme drawyth on fast. I may not tary with you.  And forget not I pray you, what I have seyd and charged you with all : for  whan I ame deade, ye shall peradventure remember my words myche better.  And even with these words he began to drawe his speche at lengthe and his  tong to fayle, his eyes beyng set in his hed, whos sight faylled hyme ; than  we began to put hyme in rembraunce of Christs passion, and sent for the  Abbott of the place to annele hyme ; who came with all spede and mynestred  unto hyme all the servyce to the same belongyng ; and caused also the gard  to stand by, bothe to here hyme talk byfore his deathe, and also to here  wytnes of the same ; and incontinent the clocke strake viii, at whiche tyme  he gave uppe the gost, and thus departed he this present lyfe.’Latimer.   The Sermons of Bp. Latimer present good examples^ of colloquial  oratory, and the style is but little removed from the colloquial style of the  period. The following are from the Sermon of the Ploughers, preached. ' For they that be lordes vyll yll go to plough. It is no mete office for  them. It is not semyng for their state. Thus came up lordyng loiterers.  Thus crept in vnprechinge prelates, and so haue they longe continued.   ‘ For how many vnlearned prelates haue we now at this day ? And no  maruel. For if ye plough men yat now be, were made lordes they woulde  cleane gyue ouer ploughinge, they woulde leaue of theyr labour and fall to  lordyng outright, and let the plough stand. And then bothe ploughes nor  walkyng nothyng shoulde be in the common weale but honger. For euer  sence the Prelates were made Loordes and nobles, the ploughe standeth,  there is no worke done, the people starue.   ‘ Thei hauke, thei hunt, thei card, they dyce, they pastyme m theyr pre-  lacies with galaunte gentlemen, with theyr daunsmge mmyons, and with  theyr freshe companions, so that ploughinge is set a syde. And by tne  lordinge and loytryng, preachynge and ploughinge is cleane gone . ‘But^iiowe for the defaulte of vnpreaching prelates me thinke I coulde  gesse what myghte be sayed for excusynge of them : They are so troubeled  wyth Lordelye lyuynge, they be so placed in palacies, couched m courte^  ruffelynge in theyr rentes, daunceyng in theyr dominions, burdened with  ambassages, pamperynge of theyr paunches lyke a monke that maketh his jubilie, moundiynge in their maungers, and moylynge in their gaye manoures  and mansions, and so troubeled wyth loy terynge in theyr Lordeshyppes : that  they canne not attende it. They are other wyse occupyed, some in the  kynges matters, some are ambassadoures, some of the pryuie counsell, some  to furnyslie the courte, some are Lordes of the Parliamente, some are  presidentes, and some comptroleres of myntes. Well, well.   Is thys theyr duetye? Is thys theyr offyee? Is thys theyr callyng?  Should we haue ministers of the church to be comptrollers of the myntes ?  Is thys a meete office for a prieste that hath cure of soules ? Is this hys  charge ? I woulde here aske one question : I would fayne knowe who comp-  trolleth the deuyll at home at his parishe, whyle he comptrolleth the mynte ?  If the Apostles mighte not ieaue the office of preaching to be deacons, shall  one Ieaue it for myntyng ? ’   Wilson’s Ar^e of Rhetorique (1560) has a section 'Of deliting the  hearers, and stirring them to laughter ’ in which are enumerated ' What  are the kindes of sporting, or mouing to laughter'. The subject is  illustrated by various ' pleasant ' stories, which if few of them would now  make us laugh, are at least couched in a very easy and colloquial style  and enlivened by scraps of actual conversation. The most amusing  element in the whole chapter is the attitude of the writer to the subject,  and the combination of seriousness and scurrility with which it is handled.   ' The occasion of laughter’ says Wilson, 'and themeane that maketh us mery  ... is the fondnes, the filthines, the deformitie, and all such euill be-  hauiour as we see to be in other? ... Now when we would abashe a  man for some words that he hath spoken, and can take none aduauntage  of his person, or making of his bodie, we either doubt him at the first,  and make him beleeue that he is no wiser then a Goose : or els we confute  wholy his sayings with some pleasaunt iest, or els we extenuate and diminish  his doings by some pretie meanes, or els we cast the like in his dish, and  with some other devise, dash hym out of countenance : or last of all, we  laugh him to scorne out right, and sometimes speake almost neuer a word,  but only in continuaunce, shewe our selues pleasaunt’. ^p. 136.   ‘ A frend of mine, and a good fellowe, more honest then wealthie, yea and  more pleasant then thriftie, liauing need of a nagge for his iourney that he  had in hande, and being in the countrey, minded to go to Parlnaie faire in  Lincolnshire, not farre from the place where he then laie, and meeting by the  way one of his acquaintaunce, told him his arrande, and asked him how  horses went at the Faire. The other aunswered merely and saidc, some  trot sir, and some amble, as farre as I can see. If their paces be altered,  I praye you tell me at our next meeting. And so rid away as fast as his  horse could cary him, without saying any word more, whereat he then  being alone, fel a laughing hartely to him self, and looked after a good  while, vntil the other was out of sight.’ p. 140.   'A Gentleman hauing heard a Sermon at Panics, and being come home,  was asked what the preacher said. The Gentleman answered he would  first heare what his man could saie, who then waited vpon him, with his  hatte and cloake, and calling his man to him, sayd, nowe sir, whate haue  you brought from the Sermon. Forsothe good Maister, sayd the seruaunt  your cloake and your hatte- A honest true dealing seruaunt out of doubt,  piaine as a packsadclle, bauing a better soule to God, though his witte was  simple, then those haue, that vnder the colour of hearing, giuc them selues  to priuie picking, and so bring other mens purses home in their bosomes,  in the steade of other mens Sermons.’— pp. 14X-2.   These two stories are intended to illustrate the point that ' We shall  delite the hearers, when they looke for one ansvvere, and we make them a cleane contrary, as though we would not seeme to vnderstand what they  would haue   ^Churlish aunsweres like the hearers sometimes very well. When the  father was cast in judgement, the Sonne seeing him weepe : why weepe  you Father? (quoth he) To whom his Father aunswered. ^What? Shall  I sing I pray thee seeing by Lawe I am condemned to "dye. Socrates  likewise bieing^ mooued of his wife, because he should dye an innocent  and guiltlesse in the Law: Why for shame woman (quoth he) wilt thou  haue me to dye giltic and deseruing. When one had falne into a ditch,  an other pitying his fall, asked him and saied : Alas how got you into  that pit ? Why Gods mother, quoth the other, doest thou aske me how  I got in, nay tell me rather in the mischiefe, how I shall get out.’   The nearest approach to the colloquial style in Bacon is to be found  in the Apophthegms, in which are scraps of conversation. A few may be  quoted, if only on account of the author.   ‘ Master Mason of Trinity College, sent his pupil to an other of the fellows,  to borrow a book of him, who told him, I am loth to lend my books out of  my chamber, but if it please thy tutor to come and read upon it in my chamber,  he shall as long as he will.” It was winter, and some days after the same  fellow sent to M^‘ Mason to borrow his bellows ; but M^’ Mason said to his  pupil, ‘‘ I am loth to lend my bellows out of my chamber, but if thy tutor  would come and blow the fire in my chamber, he shall as long as he will.”  —ApophtJi. There were fishermen drawing the river at Chelsea: M^* Bacon came  thither by chance in the afternoon, and offered to buy their draught : they  were willing. He askcvl them what they would take ? They asked thirty  shillings. M^ Bacon offered them ten. They refused it. Why then said  M^* Bacon, I will be only a looker on. They drew and catched nothing.  Saith M^ Bacon, Are not you mad fellows now, that might have had an  angel in your purse, to have made merry withal, and to have warmed you  thoroughly, and now you must go home with nothing. Ay but, saith the  fishermen, we had hope then to make a better gain of it. Saith M^’ Bacon,  ‘‘ Well my master, then I will tell you, hope is a good breakfast, but it is  a bad supper.” Otway^s Comedies have all the coarseness and raciness of dialogue  of the latter half of the seventeenth century, and a pretty vein of genuine  comicality. They are packed with the familiar slang and colloquialisms  of the period. A few passages from Friendship in Fashion illustrate  at once the speech and the manners of the day.    Enter Lady SQUEAMISH at the Door,   Sir Noble Clmnsey, Hah, my Lady Cousin ! —Faith Madam you see I am  at it.   Malagene, The Devil’s wit, I think ; we could no sooner talk of wh  but she must come in, with a pox to her. Madam, your Ladyship’s most  humble Servant.   Ldy Squ. Oh, odious ! insufferable ! who would have thought Cousin, you  would have serv’d me so— fough, how he stinks of wine, I can smell him  hither. How have you the Patience to hear the Noise of Fiddles, and  spend your time in nasty drinking ?   Sir Noble, Hum ! ’tis a good Creature : Lovely Lady, thou shalt take  thy Glass.   Ldy Sgu, Uh gud ; murder 1 I had rather you had offered me a toad.   B b   Sir N, Then Malagene, here’s a Health to my Lady Cousin’s Pelion  upon Ossa. [Drinks and breaks the   Ldy Squ, Lord, dear Malagene what ’s that ?   MaL A certain Place Madam, in Greece, much talk’t of by the Ancients ;  the noble Gentleman is well read.   Ldy Squ. 'Nay he’s an ingenious Person I’ll assure you.   Sir N. Now Lady bright, I am wholly thy Slave: Give me thy Hand,  I’ll go straight and begin my Grandmother’s Kissing Dance ; but first deign  me the private Honour of thy Lip.   Ldy Squ. Nay, fie Sir Noble 1 how I hate you now ! for shame be not so  rude : I swear you are quite spoiled. Get you gone you good-natur’d Toad  you. [Exetmti\    Malagene, . . . I’m a very good Mimick ; I can act Punchinello, Scara-  mouchir, Harlequin, Prince Prettyman or anything. 1 can act the rumbling  of a Wheel -barrow.   Valentine, The rumbling of a Wheel-barrow !   MaL Ay, the rumbling of a Wheel-barrow, so I say Nay more than that,  I can act a Sow and Pigs, Saussages a broiling, a Shoulder of Mutton a  roasting : I can act a fly in a Honey-pot,   Truman, That indeed must be the Effect of very curious Observation.   MaL No, hang it, I never make it my business to observe anything, that  is Mechanicke. But all this I do, you shall see me if you will : But here  comes her Ladyship and Sir Noble.   Ldy Squ, Oh, dear M^ Truman, rescue me. Nay Sir Noble for Heav’n’s  sake.   Sir N, I tell thee Lady, I must embrace thee : Sir, do you know me ! I am  Sir Noble Clumsey : I am a Rogue of an Estate, and I live Do you want  any money ? I have fifty pounds.   VaL Nay good Sir Noble, none of your Generosity we beseech you. The  Lady, the Lady, Sir Noble.   Sir N. Nay, ’tis all one to me if you won’t take ft, there it is. Hang  Money, my Father was an Alderman.   MaL ’Tis pity good Guineas should be spoil’d, Sir Noble, by your leave.   [Picks up the Guineasl\   Sir N. But, Sir, you will not keep my Money ?   MaL Oh, hang Money, Sir, your Father was an Alderman.   Sir N, Well, get thee gone for an Arch-Wag I do but sham all this  while i ^but by Dad he ’s pure Company. Lady, once more I say be civil, and come kiss me.   VaL Well done Sir Noble, to her, never spare.   Ldy Squ, I may be even with you tho for all this, Valentine : Nay  dear Sir Noble : M^ Truman, I’ll swear he’ll put me into Fits.   Sir N, No, but let me salute the Hem of thy Garment, Wilt thou marry  me? [LTneels.]   MaL Faith Madam do, let me make the Match.   Ldy Squ, Let me die Malagene, you are a strange Man, and Fll  swear have a great deal of Wit. Lord, why don’t you write ?   MaL Write? I thank your Ladyship for that with all my Heart. No  I have a Finger in a Lampoon or so sometimes, that ’s all.   Truman, But he can act.   Ldy Squ, I’ll swear, and so he does better than any one upon our  Theatres; I have seen him. Oh the English Comedians are nothing, not  comparable to the French or Italian: Besides we want Poets.   SirN, Poets! Why I am a Poet; I have written three Acts of a Play,  and have nam’d it already. ’Tis to be a Tragedy.   Ldy Squ. Oh Cousin, if you undertake to write a Tragedy, take my Counsel : Be sure to say soft melting tender things in it that may be moving,  and make your Lady’s Characters virtuous whatever you do.   Sir N. Moving I Why, I can never read it myself but it makes me laugh :  well, ’tis the pretty’st Plot, and so full of Waggery.   Ldy Sgti, Oh ridiculous I   Mai But Knight, the Title ; Knight, the Title.   Sir N, Why let me see ; ’tis to be called The Merry Conceits of Love ;  or the Life and Death of the Emperor Charles the Fifth, with the Humours  of his Dog Boabdillo.   Mai PI a, ha, ha. . Ldy Squ, But dear Malagene, won’t you let us see you act a little  something of Harlequin? I’ll swear you do it so naturally, it makes me  think Fm at the Louvre or Whitehall all the time. [Mai acis.] O Lord,  don’t, don’t neither ; I’ll swear you’ll make me burst. Was there ever any-  thing so pleasant ?   Trwn, Was ever anything so affected and ridiculous ? Her whole Life  sure is a continued Scene of Impertinence. What a damn’d Creature is  a decay’d Woman, with all the exquisite Silliness and Vanity of her Sex, yet  none of the Charms ! [Mai s^peaks in PunchinelMs voicei\   Ldy Squ, O Lord, that, that ; that is a Pleasure intolerable. Well, let  me die if I can hold out any longer.   A Comparison between the Stages, wiih an Examen of the Generous  Conqueror^ printed in 1702, is a dialogue between ^ Two Gentlemen’,  Sullen and Ramble (see below), and ^a Critick’,upon the plays of the day and  others of an earlier date. The style is that of easy and natural familiar con-  versation, with little or no artificiality, and incidentally, the tract throws  light upon contemporary manners and social habits. The following  examples are designed to illustrate the colloquial handling of indifferent  topics, and the small-talk of the early eighteenth century, as well as  the treatment of the immediate subject of the essay.   Sullen. They may talk of the Country and what they will, but the Park  for my money.   Ramble. In its proper Season I grant you, when the Mall is pav’d with  lac’d shoes ; when the Air is perfum’d with the rosie Breath of so many fine  Ladies ; when from one end to the other the Sight is entertain’d with nothing  but Beauty, and the whole Prospect looks like an Opera.   Sull And when is it out of Season Ramble ?   Ram. When the Beauties desert it ; when the absence of this charming  Company makes it a Solitude : Then Sullen, the Park is to me no more than  a Wilderness, a very Common ; and a Grove in a country Garden with a  pretty Lady is by much the pleasanter Landscape.   Sull To a Man of your Quicksilver Constitution it may be so, and the  Cuckoo in May may be Music t’ee a hundred Miles off, when all the Masters  in Town can’t divert you.   Ram. I love everything as Nature and the Nature of Pleasure has con-  triv’d it ; I love the Town in Winter, because then the Country looks aged  and deform’d ; and I hate the Town in Summer, because then the Country is  in its Glory, and looks like a Mistress just drest out for enjoyment.   Sull Very well distinguish’d : Not like a Bride, but like a Mistress.   Ram. I distinguish ’em by that comparison because I love nothing well  enough to be wedded to ’t : I’m a Proteus in my Appetite, and love to change  my Abode with my Inclination,   Sull I differ from you for the very Reason you give for your change ; the  Town is evermore the same to me ; and tho* the Season makes it look after  another manner, yet still it has a Face to please me one way or other, and  both Winter and Summer make it agreeable, —pp. 1-3*   B b 2   Here is a conversation during dinner at the ' Blew Posts \   Critik, What have you order’d ?   Ramh. A Brace of Carp stew’d, a piece of Lamb, and a Sallet ; d’ee  like it ?   Crit, I like, anything in the World that will indure Cutting : Prithee  Cook make haste or expect I shall Storm thy Kitchin.   SulL Why thou’rt as hungry as if thou hadst been keeping Garrison in  Mantua : I don’t know whether Flesh and Blood is safe in thy Company.   CriL I wish with all my Heart thou wert there, that thou mightst under-  stand what it is to fast as 1 have done : Come, to our Places • . . the blessed  hour is come. . . . Sit, sit . . . fall to, Graces are out of Fashion.   Ramb. I wish the Charming Madam Subligny were here.   CriL Gad so don’t 1 : I had rather her P'eet were pegg’d down to the  Stage; at present my Appetite stands another way : Waiter, some Wine ., .  or I shall choak. . Suit, This Fellow eats like an Ostrich, the Bones of these great Fish are  no more to him than the Bones of an Anchovy ; they melt upon his Tongue  like marrow Puddings.   Crit Ay, you may talk, but I’m sure I find ’em not so gentle ; here ’s  one yet in my Throat will be my death ; the Flask . . . the Flask . . .,   Ramb. But Critick, how did you like the Play last Night ?   Crit. I’ll tell you by and by, Lord Sir, you won’t give a Man time to break  his Fast: This Fish is such washy Meat ... a Man can’t fix his knife in ’t,  it runs away from him as if it were still alive, and was afraid of the Hook :  Put the Lamb this way.   SulL The Rogue quarrels with the Fish, and yet you cou’d eat up the  whole Pond ; the late Whale at Cuckold’s point, with all its oderiferous Gar-  badge, wou’d ha’ been but a Meal to him : Well, how do you like the Lamb ?  does that feel your knife?   Crit. A little more substantial, and not much : Well, I shou’d certainly be  starv’d if I were to feed with the French, I hate their thin slops, their Pot-  tages, Frigaces, and Ragous, where a Man may bury his Hand in the Sauce,  and dine upon Steam : No, no, commend me to King Jemmy’s English  Surloin, in whose gentle Flesh a Man may plunge a Case-knife to the tip of  the Handle, and then draw out a Slice that will surfeit half a Score Yeoman of  the Guard. Some Wine ye Dog . . . there ., . now I have slain the Giant ;  and now to your Question . . . what was it you askt me ?   Ramb. Won’t you stay the Desert ? Some Tarts and Cheese ?   Crit I abominate Tarts and Cheese, they’re like a faint After-kiss, when  a Man is sated with better Sport ; there ’s no more Nourishment in ’em, than  in the paring of an Apple. Here Waiter take away. . . .   Ramb. Then remove every Thing but the Table-cloth.’, .   Ramb. Here Waiter send to the Booksellers in Pell mell for the Generous  Conqueror and make haste . ., you say you know the Author Critick.   Crit. By sight I do, but no further ; he ’s a Gentleman of good Extraction,  and for ought I know, of good Sense.   Ramb. Surely that’s not to be questioned; I take it for granted that  a Man that can write a Play, must be a Man of good Sense.   Crit That is not always a consequence, I have known many a singing  Master have a worse voice than a Parish Clerk, and I know two dancing  Masters at this time, that are directly Cripples : . . . A Ship-builder may fit  up a Man of War for the West Indies, and perhaps not know his Compas :  Or a great Trpelier, with Heylin, that writ the Geography of the whole  World, may, like him, not know the way from the next Village to his  own House.   Ramb. Your Comparisons are remote M*^ Critick.   Cfit. Not so remote as some successful Authors are from good sense ;  Wit and Sense are no more the same than Wit and Humour; nay there is  even in Wit an uncertain Mode, a variable Fashion, that is as unstable as  the Fashion of our Cloaths : This may be proved by their Works who writ  a hundred Years ago, compar’d with some of the modern ; Sir Philip Sidney,  Don, Overbury, nay Ben himself took singular delight in playing with their  Words : Sir Philip is everywhere in his Arcadia jugling, which certainly by  the example of so great a Man, proves that sort of Wit then in Fashion ; now  that kind of Wit is call’d Punning and Quibbling, and is become too low for  the Stage, nay even for ordinary Converse ; so that when we find a Man who  still loves that old fashion’d Custom, we make him remarkable, as who is  more remarkable than Capt. Swan.   Ramb. Nay, your Quibble does well now a Days, your best Comedies  tast of ’em ; the Old Batchelor is rank.   Crit. But ’tis every Day decreasing, and Queen Betty’s Ruff and Fardin-  gale are not more exploded ; But Sense Gentlemen, is and will be the same  to the World’s end.   SulL And Nonsense is infinite, for England never had such a Stock and  such Variety.   Ramb. Yet I have heard the Poets that flourish’d in the last Reign but  two, complain of the same Calamity, and before that Reign the thing was the  same : All Ages have produced Murmurers ; and in the best of times you shall  hear the Trades-man cry Alas Neighbour ! sad Times, very hard Times ..,  not a Penny of Money stirring . . . Trade is quite dead, and nothing but War  . . . War and Taxes . . . when to my knowledge the gluttonous Rogue shall  drink his two Bottles at Dinner, and his Wife have half a Score of rich Suits,  a purse of Gold for the Gallant, and fifty Pounds worth of Gold and Silver  Lace on her under Petticoats.   Sail, Nay certainly, this that Ramble now speaks of is a great Truth;  those hypocritical Rogues are always grumbling; and tho’ our Nation never  had such a Trade, or so much Money, yet ’tis all too little for their voracious  Appetites : As I live says he, I can’t afford this Silk one Penny cheaper  d’ee mind the Rogues Equivocation ? as I live ^that is, he lives like a Gen-  tleman but let him live like a Tradesman and be hang’d ; let him wear  a Frock, and his Wife a blew Apron.   Ramb, See, the Book ’s here : go Waiter and shut the Door. pp. 76-9.   The dialogue of Hichardson, ' sounynge in moral vertu ^ devoid of all  the lighter touches, is typical of the age that was beginning, the age of  reaction against the levities and negligences in speech and conduct  of the seventeenth and early eighteenth centuries.   The following conversation of rather an agitated character, between  a mother and daughter, is from Letter XVI, in Clarissa Ifarlozue{i*j4S):   * • * • My mother came up to me. I love, she was pleased to say, to come  into this appartment.— No emotions child I No flutters ! Am I not your  mother F—Am I not your fond, your indulgent mother P-— Do not discompose  me by discomposixig Do not occasion me uneasiness, when I would   glveyau nothing but pleasure. Come my dear, we will go into your closet. . . .  PI ear me out and then speak ; for I was going to expostulate. You are no  stranger to the end of M^ Solmes’s visits O Madam! Hear me out;  and then speak. He is not indeed everything I wish him to be : but he is  a man of probity and has no vices No vices Madam ! Hear me out child.  You have not behaved much amiss to him : we have seen with pleasur *. that  you have not O Madam, must I not now speak ! I shall have done pre.‘ fently,  —A young creature of your virtuous and pious turn, she was pleased ! say,  cannot surely love a predicate ; you love your brother too well, to wish p see  any one who had like to have killed him, and who threatened youri incles  and defies us all You have had your own way six or seven times : v|? | w^nt  to secure you against a man so vile. Tell me (I have a right to know)  whether you prefer this man to all others ? Yet God forbid that I should  know you do ; for such a declaration would make us all miserable. Yet tell  me, a.re your affections engaged to this man ?   I know what the inference would be if I had said they were not You hesitate  You answer me not You cannot answer me Rising Nevermore will  I look upon you with an eye of favour O Madam, Madam ! Kill me not  with your displeasure I would not, I need not, hesitate one moment, did  I not dread the inference, if I answer you as you wish. Yet be that inference  what it will, your threatened displeasure will make me speak. And I declare  to you, that I know not my own heart if it be not absolutely free. And pray,  let me ask my dearest Mamma, in what has my conduct been faulty, that  like a giddy creature, I must be forced to marr^r, to save me from— from  what ? Let me beseech you Madam to be the Guardian of my reputation \  Let not your Clarissa be precipitated into a stale she wishes not to enter into  with any man ! And this upon a supposition that otherwise she shall marry  herself, and disgrace her whole family.   When then, Clary [passing over the force of my plea] if your heart be free  O my beloved Mamma, let the usual generosity of your dear heart operate  in my favour.^ Urge not upon me the inference that made me hesitate.   I won’t be interrupted, Clary You have seen in my behaviour to you, on  this occasion, a truly maternal tenderness ; you have observed that I have  undertaken the task with some reluctance, because the man is not everything ;  and because I know you carry your notions of perfection in a man too high.  Dearest Madam, this one time excuse me ! Is there then any danger that  I should be guilty of an imprudent thing for the man’s sake you hint at ?  Again interrupted! Am I to be questioned, and argued with? You know  this won’t do somewhere else. You know it won’t. What reason then,  ungenerous girl, can you have for arguing with me thus, but because you  think from my indulgence to you you may ?   What can I say ? What can I do ? What must that cause be that will not  bear being argued upon ?   Again ! Clary Harlowe   Dearest Madam forgive me : it was always my pride and my pleasure to  obey you. But look upon that man see but the disagreeableness of his  person Now, Clary, do I see whose pei'son you have in your eye ! Now is  M^’ Solmes, I see, but coinparatively disagreeable ; disagreeable only as an«  other man has a much more specious person.   But, Madam, are not his manners equally so 1 Is not his person the true  representation of his mind ? That other man is not, shall not be, anything  to me, release me from this one man, whom my heart, unbidden, resists.   Condition thus with your father. Will he bear, do you think, to be thus  dialogued with? Have I not conjured you, as you value my peace What is  it that / do not give up ?*~-This very task, because I apprehended you would  not be easily persuaded, is a task indeed upon me. And will you give up  nothing ? Have you not refused as many as have been offered to you ? If you  would not have us guess for whom, comply ; for comply you must, or be  looked upon as in a state of defiance with your whole family. And saying  thus she arose, and went from me.’   Miss AusteiL.   The following examples of Miss Austen’s dialogue are not selected  because they are the most sparkling conversations in her works, but  rather because they appear to be typical of the way of speech of the  period, and further they illustrate Miss Austeff s incomparable art. The  first passage is ixomEmma^ which was written between i8ii and  3^5   i8i6. Mr. Woodhouse and his daughter have just received an invitation  to dine with the Coles, enriched tradespeople who had settled in the  neighbourhood. Emma's view of them was that they were ' very respect-  able in their way, but they ought to be taught that it was not for them to  arrange the times on which the superior families would visit them On  the present occasion, however, ‘ she was not absolutely w^ithout inclina-  tion for the party. The Coles expressed themselves so properly there  was so much real attention in the manner of it so much consideration  for her father/ Emma having decided in her own mind to accept the  invitation some of her intimate friends were going it remained to  explain to her father, the ailing and fussy Mr. Woodhouse, that he  would be left alone without his daughter s company for the evening, as it  was out of the question that he should accompany her. ‘ He was soon  pretty well resigned.’   ‘ I am not fond of dinner-visiting ” said he ; “I never was. No more is  Emma. Late hours do not agree with us. I am sorry and Cole  should have done it. I think it would be much better if they would come in  one afternoon next summer and take their tea with us ; take us in their  afternoon walk, which they might do, as our hours are so reasonable, and  yet get home without being out in the damp of the evening. The dews of  a summer evening are what I would not expose anybody to. However as  they are so very desirous to have dear Emma dine with them, and as you  will both be there [this refers to his friend Weston and his wife], and  Knightley too, to take care of her I cannot wish to prevent it, provided  the weather be what it ought, neither damp, nor cold, nor windy.” Then  turning to Weston with a look of gentle reproach “Ah, Miss Taylor,  if you had not married, you would have staled at home with me.”   “ Well, Sir ”, cried Weston, as I took Miss Taylor away, it is incumbent  upon me to supply her place, if I can ; and I will step to M^’® Goddard in  a moment if you wish it.” . . . With this treatment M^ Woodhouse was  soon composed enough for talking as usual. “ He should be happy to see  M^*® Goddard. He had a great regard for Goddard; and Emma  should write a line and invite her. James could take the note. But first  there must be an answer written to M’^® Cole.”   “ You will make my excuses, my dear, as civilly as possible. You will say  that I am quite an invalid, and go nowhere, and therefore must decline their  obliging invitation ; beginning with my comj^limentsy of course. But you will  do everything right. I need not tell you what is to be done. We must  remember to let James know that the carriage will be wanted on Tuesday.  I shall have no fears for you with him. We have never been there above  once since the new approach was made ; but still I have no doubt that James  will take you very safely ; and when you gel there you must tell him at what  time you would have him come for you again ; and you had better name an  early hour. You will not like staying late. You will get tired when tea is over.”   “ But you would not wish me to come away before I am tired, papa ? ”   Oh no my love ; but you will soon be tired. There will be a great many  people talking at once. You will not like the noise.”   “But my dear Sir,” cried M^’ Weston, “if Emma comes away early, it  will be breaking up the party.”   “ And no great harm if it does ” said Woodhouse. “ The sooner every  party breaks up the better.”   “ But you do not consider how it may appear to the Coles. Emma’s going  away directly after tea might be giving offense. They are good-natured  people, and think little of their own claims ; but still they must feel that  anybody’s hurrying away is no great compliment ; and Miss Woodhouse’s doing it would be more thought of than any other personas in the room.  You would not wish to disappoint and mortify the Coles, I am sure, sir;  friendly, good sort of people as ever lived, and who have been your neighbours  these /en years.”   ‘^No, upon no account in the world, Weston, I am much obliged to  you for reminding me. I should be extremely sorry to be giving them any  pain. I know what worthy people they are. Peny tells me that Cole  never touches malt liquor. You would not think it to look at him, but he is  bilious M^' Cole is very bilious. No, I would not be the means of giving  them any pain. My dear Emma we must consider this. I am sure rather  than run any risk of hurting and Cole you would stay a little longer  than you might wish. You will not regard being tired. You will be perfectly  safe, you know, among your friends.”   Oh 5^es, papa. I have no fears at all for myself ; and I should have no  scruples of staying as late as Weston, but on your account. I am only  afraid of your silting up for me. I am not afraid of your not being ex-  ceedingly comfortable with Goddard. ^ She loves piquet, you know ; but  when she is gone home I am afraid you will be sitting up by youiself, instead  of going to bed at your usual time ; and the idea of that would entirely  destroy my comfort. You must promise me not to sit up.” *   The next example is in a very different vein. It is from Sense and  Sensibility (chap, xxi) and records the mode of conversation of the  Miss Steeles. These two ladies are among Miss Austen's vulgar  characters, and their speech lacks the restraint and decorum which her  better-bred personages invariably exhibit. While the Miss Steeles’ con-  versation is in sharp contrast with that of the Miss Dashwoods, with  whom they are here engaged, both in substance and manner, it evidently  passed muster among many of the associates of the latter, especially with  their cousin Sir John Middleton, in whose house, as relations of his  wife's, the Miss Steeles are staying. Apart from the vulgarity of thought,  the diction appears low when compared with that of most of Miss Austen's  characters. As a matter of fact it is largely the way of speech of the  better society of an earlier age, which has come down in the world, and  survives among a pretentious provincial bourgeoisie.   ‘ ‘^What a sweet woman Lady Middleton is” said Lucy Steele . '‘And  Sir John too ” cried the elder sistei', “ what a charming man he is ! And what a charming little family they have ! I never saw such fine children  in my life. I declare I quite doat upon them already, and indeed I am  always destractedly fond of children.” "I should guess so” said Elinor  with a smile “from what I witnessed this morning.”   “I have a notion” said Lucy, “you think the little Middletons rather too  much indulged ; perhaps they may be the outside of enough ; but it is natural  in Lady Middleton; and for my part I love to see children full of life and  spirits ; I cannot bear them if they are tame and quiet”   “I confess ” replied Elinor, “that while I am at Barton Park, I never  think of tame and quiet children with any abhorrence.” *    “ And how do you like Devonshire, Miss Dashwood ? (said Miss Steele)  I suppose you were very sorry to leave Sussex.”   In some suiyrise at the familiarity of this question, or at least in the  manner in which it was spoken, Elinor replied that she was.   “Norland is a prodigious beautiful place, is not it?” added Miss Steele,  “We have heard Sir John admire it excessively,” said Lucy, who seemed  to think some apology necessary for the freedom of her sister. “ I think     MISS LUCY STEELE    B11   every one admire it ’'replied Elinor, “who ever saw the place; though  it is not to be supposed that any one can estimate its beauties as we do."   “ And had you many smart beaux there ? I suppose you have not so many  in this part of the world ; for my part I think they are a vast addition  always."   “ But why should you think " said Lucy, looking ashamec^ of her sister,  “that there are not as many genteel young men in Devonshire as Sussex."   “ Nay, my dear, Fm sure I don’t pretend to say that there an’t. Fm sure  there ’s a vast many smart beaux in Exeter ; but you know, how could I tell  what smart beaux there might be about Norland? and I was only afraid the  Miss Dashwoods might find it dull at Barton ; if they had not so many as  they used to have. But perhaps you young ladies may not care about beaux,  and had as lief be without them as with them. For my part, I think they are  vastly agreeable, provided they dress smart and behave civil. But I can’t  bear to see them dirty and nasty. Now, there’s Rose at Exeter, a pro-  digious smart young man, quite a beau, clerk to Simpson, you know,  and yet if you do but meet him of a morning, he is not fit to be seen. I sup-  pose your brother was quite a beau, Miss Dashwood, before he married, as  he was so rich ? "   “ Upon my word," replied Elinor, “I cannot tell you, for I do not per-  fectly comprehend the meaning of the word. But this I can say, that if he  ever was a beau before he married, he is one still, for there is not the smallest  alteration in him."   “ Oh ! dear 1 one never thinks of married men’s being beaux they have  something else to do."   “Lord! Anne", cried her sister, “you can talk of nothing but beaux;  you will make Miss Dashwood believe you think of nothing else."’   It is not surprising that ‘ “ this specimen of the Miss Steeles’" was enough.  The vulgar freedom and folly of the eldest left her no recommendation  and as Elinor was not blinded by the beauty, or the shrewd look of the  youngest, to her want of real elegance and artlessness, she left the house  without any wish of knowing them better   Greetings and Farewells.   Only the slightest indication can be given of the various modes of greet-  ing and bidding farewell These seem to have been very numerous, and  less stereotyped in the fifteenth and sixteenth centuries than at present. It  is not easy to be sure how soon the formulas which we now employ, or  their ancestral forms, came into current use. The same form often serves  both at meeting and parting.   In 1451, Agnes Paston records, in a letter, that "after evynsonge,  Angnes Ball com to me to my closett and dad me good evyn \ In the  account, quoted above, p. 362, given by Shillingford of his meetings  with the Chancellor, about 1447, he speaks of "saluting hym yn the  moste godely wyse that y coude ' but does not tell us the form he used.  The Chancellor, however, replies " Welcome^ ij times, and the tyme   Right met come Mayer'% and helde the Mayer a grete while faste by  the honde I   In the sixteenth century a great deal of ceremonial embracing and  kissing was in vogue. Wolsey and the King of France, according to  Cavendish, rode forward to meet each other, and they embraced each  other on horseback. Cavendish himself when he visits the castle of the  Lord of Cr^pin, a great nobleman, in order to prepare a lodging for the Cardinal, is met by this great personage, who ^ at his first coming  embraced me, saying I was right heartily welcome'. Henry VIII was  wont to walk with Sir Thomas More, ' with his arm about his neck \  The actual formula used in greeting and leave-taking is too often un-  recorded. When the French Embassy departs from England, whom  Wolsey has sb splendidly entertained, Cavendish says ' My lord, after  humble commendations had to the French King bade them adieu'. The  Earl of Shrewsbury greets the Cardinal thus ‘ My Lord, your Grace is  most heartily welcome unto me', and Wolsey replies ‘Ah my gentle  Lord of Shrewsbury, I heartily thank you '.   It is not until the appearance of plays that we find the actual forms of  greeting recorded with frequency. In Roister Doister, there are a fair  number: God heepe thee worshipful Master Roister Doister; Welcome  my good wenche ; God you saue and see Nourse ; and the reply to this  Welcome friend Merrygreeke; Good flight Roger old farewell   Roger old knaue ; well mef^ I bid you right welcome, A very favourite  greeting is God he with you,   God continue your Lordship is a form of farewell in Chapman's  Monsieur D'Olive, and God-den ‘ good evening occurs in Middleton's  Chaste Maid in Cheapside. Sir Walter Whorehoimd in the same play  makes use of the formula ‘ I embrace your acquaintance Sir \ to which  the reply is vows your service Str\ Massinger's New Way to pay  old Debts contains various formulas of greeting. I ain still your creature^  says Allworth to his step-mother Lady A. on taking leave ; of two old  domestics he takes leave with ‘ rny service to both \ and they reply ‘ ours  waits on you In reply to the simple Farewell Tom, of a friend,  All worth answers ^ All joy stay with you \ Sir Giles Overreach greets  Lord Lovel with ‘ Good day to My Lord ' ; and the prototype of the modern  how are you is seen in Lady Allworth's ‘ Hoiv dost thou Marrall P '  A graceful greeting in this play is ‘ Fou are happily encountered'.   The later seventeenth-century comedies exhibit the characteristic  urbanity of the age in their formulas of greeting and leave-taking.   ‘ A happy day to you Madam is Victoria's morning compliment to  Mrs. Goodvile in Otway's Friendship in Fashion, and that lady replies—  ‘ Dear Cousin, your humble servant'. Sir Wilfull Witwoud in Congreve's  Way of the World, says ‘ Save you Gentleman and Lady ' on entering  a room. His younger brother, on meeting him, greets him with ‘ Four  servant Brother", and the knight replies ‘ servant! Why yours Sir,  Four servant again ; "s heart, and your Friend and Servant to that \  Tm everlastingly your humble servant, deuce take me Madam, says Mr. Brisk  to Lady Froth, in the Double Dealer.   Your servant is a very usual formula at this period, on joining or  leaving company. In Vanbrugh's Journey to London, Colonel Courtly  on entering is greeted by Lady Headpiece Colonel your servant; her  daughter Miss Betty varies it with^ Four servant Colonel, and the visitor  replies to both Ladies, your most ohedienL   Mr. Trim, the formal coxcomb in ShadwelFs Bury Fair, parts thus  from his friends Sir, I kiss your hands ; Mr, Wildish— -S’/r your most  humble servant; Trim Oldwii I am your most faithful servant;  Mr. Oldwit Four servant sweet il/'* Trim, Four servant, madam good morrow to you, is Lady Arabella's greeting  to Lady Headpiece, who replies to you Madam (Vanbrugh's  Journey to London). The early eighteenth century appears not to  differ materially from the preceding in its usage. Lord Formal in  Fielding's Love in Several Masques, says Ladies your most humble  servafit, and Sir Apish in the same play Four Ladyships everlasting  creature^    Epistolary Formulas.   The writing of letters, both familiar and formal, is such an inevitable  part of everyday life, that it seems legitimate to include here some  examples of the various methods of beginning and ending private letters  from the early fifteenth century onwards. A proper and exhaustive  treatment of the subject would demand a rather elaborate classification,  according to the rank and status of both the writer and the recipient,  and the relation in which they stood to each other whether master  and servant, or dependant, friend, subject, child, spouse, and so on.  In the comparatively few examples here given, out of many thousands,  nothing is attempted beyond a chronological arrangement The status  and relationship of the parties is, however, given as far as possible. We  note that the formula employed is frequently a conventional and more  or less fixed phrase which recurs, with slight variants, again and again.  At other times the opening and closing phrases are of a more personal  and individual character.   1418. Archbp* Chichele to Hen. V, Signs simply: your preest and bede-  man. Ellis, i. i. 5.   142 5. IVilL Fasten to . Right worthy and worshepfull Sir. I recom-   maunde me to you, &c. Ends : Almyghty God have you in his governaunce.  Your frend unknowen. Past. Letters, i. 19-20.   1440. Agnes to Will. Fasten. Inscribed: To my worshepful housbond  W. Paston be this letter takyn. Dere housbond I reccommaunde me to yow.  Ends : The Holy Trinite have you in governaunce. P. L. i. 38-9.   1442-5. Dtike of Buckingham to Lord Beau 7 nont, Ryght worshipful and  with all my herte right enterly beloved brother, I recomaunde me to you,  thenking right hastili your good brotherhode for your gode and gentill letters.  I beseche the blissid Trinite preserve you in honor and prosperite. Your  trewe and feithfull broder H. Bukingham. P. L- i. 61-2.   1443. Margaret to John Paston. Ryth worchipful husbon, I reccomande  me to yow desyryng her tel y to her of your wilfar. Almyth God have you in  his kepyn and sendo yow helth, Yorys M. Paston. P. L. i. 48-9.   1444. James Gresham to Will. Fasten. Please it your good Lordship to  wete, &c. Ends : Wretyn right simply the Wednesday next to fore the Fest.  By your laiost symple servaunt P. L. i, 50.   1444, Duchess of Norfolk to J. Past 07 i. Ryght tmsty and entirely wel-  bclovcd we grete you wel hertily as we kan, . . and siche agrement as, &c.  ... we shall duely performe yt with the myght of Jesu who haff you in his  blissed keping. P. L. i. 57,   1444. Sir R. Ckamberlayn to Agn. Paston. Ryght worchepful cosyn,  I comand me to you. And I beseche almyty God kepe you. Your Cosyn  Sir Roger Chamberlain.   1445. Agnes to Edm. Fasten. To myn welbelovid sone. I grete you wel.  Be your Modre Angnes Paston.— i, 58, 59.     380 COLLOQUIAL IDIOM   1449, Marg, to John Paston. Wretyn at Norwych in hast, Be your gronyng  Wyfr.-~i. 76“7-   1449. Same to sa 7 ne. No mor I wryte to ^ow atte this tyme* Your Mar-  karyte Paston. i. 42-3.   1449. John Paston, Ends : Be ^owre pore Broder* . E Its. ^ Clare to J, Paston, No raore I wrighte to 50 w at this tyme,  but Holy Cost have 50W in kepyng. Wretyn in haste on Scynt Peterys day  be candel lyght, Be your Cosyn E. C. P. L. i. 89-90.   1450. Duke of Suffolk to his son. My dear and only welbeloved sone.  Your trewe and lovynge fader Suffolk. P. L. i. 12 1-2.   1450, IVilL Lomme to J, Paston, I prey you this bille may recomaunde  me to mastrases your moder and wyfe. Wretyn yn gret hast at London.  P.L. i. 126.   1450. y. Gresham to ^ my Mats ter Whyte Esguyer\ After due recomen-  dacion I recomaund me to yow.   1450. J, Paston to above, James Gresham, I pray you labour for the, &c.  i. 145*   1450. Justice Yelverton to Sir J, Fastolf, By your old Servaunt William  Yelverton Justice. P, L. i. 166.   1453. Agnes toJ, Paston, Sone I grete you well and send you Godys  blessyng and myn. Wretyn at Norwych ... in gret hast, Be your moder  A. Paston. P. L. i. 259.   1454. J, Paston to Earl of Oxford* Youre servaunte to his powr John  Paston. P. L. i. 276,   1454. Lord Scales to J, Paston, Our Lord have you in governaunce. Your  frend The Lord Scales. P. L. i. 289.   1454, Thomas Howes to J, Paston, I pray God kepe yow. Wiyt at Castr  hastly ij day of September, Your owne T. Howes. P. L. i. 301.   1454. The same. Your chapleyn and bedeman Thomas Howes.— *i. 31 8.   1455. /• PoLstolf to Duke of Norfolk, Writen at my pore place of  Castre, Your humble man and servaunt. P. L. i. 324.   1455. /. Cudworth, Bp. of Lmcoln^ to J, Patton, And Jesu preserve you,  J. Bysshopp of Lincoln.  P.L. i. 350.   1456. Archbp, Bourchier to Sir J, Fastolf, The blissid Trinitee have you  everlastingly in His keping, Written in my manoir of Lamehith, Your feith-  full and trew Th, Cant. P. L. i. 382.   1456 (Nephew to uncle). H, Fylinglay to Sir J, Fastolf Ryght wor-  shipful unkell and my ryght good master, I recomniaund me to yow wyth all  my servys. And Sir, my brother Paston and I have, &c. . . . Your nevew  and servaunt P. L. i. 397.   1458. John Jerningham to Marg, Paston. Nomor I wryte unto you at  this tyme. . . . Your owne umhle servant and cosyn J. J.— P, L. i. 429.   1458 (Daughter to her mother). Elh, Poynings to Agn, Paston, Right  worshipful and my most entierly belovde moder, in the most lowly maner  I recomaund me unto your gode moderhode. . . . And Jesu for his grete  mercy save yow. By your humble daughter. P. L. i, 434-5.   1469. Chancellor and University of Oxford to Sir John Say, Ryght wor-  shipful our trusty and entierly welbeloued, after harty commendacyon. . . .  Ends : yo’-' trew and harty louers The Chancelir and Thuniversite of Oxon-  ford. Ellis.   1477. John Paston to Ms mother* Your sone and humbyll servaunt P.  P. L. iii. 176.   1481-4. Edm, Paston to Ms mother, umble son and servant.   P. L. J, Paston to Ms mother. Your sone and trwest servaunt P. h*  iii. 290.   1482. Margery Paston to her hushaftd. No more to you at this tyme, Be  your servaunt and bede woman.— iii. 293, 1485. Duke of Norfolk to J, Faston. Welbelovyd frend I cummaund me  to yow.  I shall content you at your metyng with me, Yower lover J. Nor-  folk.— iii. 320,   1485. Eliz, Browne to J. Paston. Your loving awnte E. B.   1485. Duke of Suffolk to f Paston, Ryght welbeloved we grete you well.  ., . Suffolk, yor frende. iii. 324-5.   1490. Bp* of Durham to Sir fohn Paston* IH2, Xps*. Rygiit wortchipful  sire, and myne especial and of long tyme apprevyd, trusty and feythful frende,  I in myne hertyeste wyse recommaunde me un to you. . ., Scribyllyd in the  moste haste, at my castel or manoir of Aucland the xxvij of Januay. Your  own trewe luffer and frende John Duresme. iii. 363.   1490. Lumen H ary son to Sir f Past on. Onerabyll and well be lov^^'d  Knythe, I commend me on to 5our masterchepe and to my lady 5owyr wyffe.  ., . No mor than God be wyth 50W, L. H. at ^ouyr comawndment.   1503. Q. Margaret of Scotland to her father Hen. VII. My moste dere  iorde and fader in the most humble wyse that I can thynke I recommaunde  me unto your Grace besechyng you off your dayly blessyngys. . . . Wrytyn  wyt the hand of your humble douter Margaret. Ellis i. i. 43.   Hen. VI J to his Mother.^ the Countess of Richmond. Madam, my most  enterely wilbeloved Lady and Moder . . . with the hande of youre most  humble and lovynge sone. Ellis, i. i. 43-5.   Margaret to Hen. VI 1 . My oune suet and most deare kynge and all my  worldly joy, yn as humble manner as y can thynke I recommand me to your  Grace ... by your feythful and trewe bedewoman, and humble modyr Mar-  garet R, Ellis, i. I. 46.   1513. Q. Margaret oj Scotland to Hen. VI IL Richt excellent, richt hie  and mithy Prince, our derrist and best belovit Brothir. . . . Your louyn systar  Margaret. Ellis, i. i. 65. (The Queen evidently employed a Scottish Secre-  tary.)   1515. Margaret to Wolsey. Yours Margaret R. Ellis, i. i. 131.   1515. Thos. Lord Howard, Lord Admiral, to Wolsey. My owne gode  Master Awlmosner. . . . Scrybeled in gret hast in the Mary Rose at Plymouth  half o^' after xj at night . . . y^ own Thomas Howard.   c. 1515. West Bp. of Ely to Wolsey. Myne especiall good Lorde in my  most humble wise I recommaund me to your Grace besechyng you to con-  tynue my gode Lorde, and I schall euer be as I am bounden your dayly  bedeman. . . . Y^ chapelayn and bedman N 1 . Elien.   c. 1520. Archbp. Warham to Wolsey. Please ityo^ moost honorable Grace  to understand. ... At your Graces commaundement, Willm. Cantuar.  Ellis, iii. I. 230. Also : Euer, your own Willm. Cantuar.   Langland Bp. of Lincoln to Wolsey. My bownden duety mooste lowly  remembrede unto Your good Grace. . . . Yo^ moste humble bedisman John  Lincoln.— Ellis, iii. l. 248.   Cath, of Aragon to Princess Mary. Doughter, I pray you thinke not, &c.  —Ellis, i, 2. 19, • . . Your lovyng mother Katherine the Queue.   Archibald, E. of Angus. Addresses letter to Wolsey : To my lord Car-  dinallis grace of Ingland. Ellis, iii. i. 291.   1521. Bp. Tunstal to Wolsey. Addresses letter :— to the most reverend  fader in God and his most singler good Lorde Cardinal. Ellis, iii. i* 273.   Ends a letter : By your Gracys most humble bedeman Cuthbert TunstalL  —Ellis, iii. I. 332 -   1515 or 1521. Duke of Buckingham to Wolsey, Yorys to my power  E. Bukyngham.   Gccvin Douglas, Bp. of Dunkeld, to Wolsey. ZgI chaplan wy^ his lawfull  seruyse Gavin bischop of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 294- Zo^ humble servytor  and Chaplein of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 296. Zo^ humble seruytor and  dolorous Chaplan of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 303-   Wolsey to Gardiner {afterwards Bp. of Winchester)* Ends : Your assurjd  lover and bedysman T. Car^s Ebor.— Ellis, i. 2. 6. Again : Wryttyn hastely  at Asher with the rude and shackyng hand of your dayly bedysman and  assuryd frende T. Car^^® Ebor.   1532. T/ios, AudUy {Lord Keeper) to CromwelL Yo^' assured to his litell  Thomas Audeley Gustos Sigiili.   Edw. E, of Hertford {afterwards Lord Protector). Thus I comit you to  God hoo send yo^‘ lordshep as well to far as I would mi selfe . . . w^ the hand  of yo^ lordshepis assured E. Hertford.   Hen. VI 11 to Catherine Parr. No more to you at thys tyme swethart  both for lacke off tyme and gret occupation off bysynes, savyng we pray you  in our name our harte blessyngs to all our chyldren, and recommendations to  our cousin Marget and the rest off the laddis and gentyll women and to our  Consell alsoo. Wryttyn with the hand off your lovyng howsbande Henry R.  Ellis, i. 2. 130.   Princess Mary to CromwelL Marye Princesse. Maister Cromwell I  commende me to you. Ellis, i. 2. 24,   Prince Edward to Catherine Parr. Most honorable and entirely beloued  mother. . . . Your Grace, whom God have ever in his most blessed keping.  Your louing sonne, E. Prince. Ellis, i. 2. 13 1.   1547. Henry Radclyf E. of Sussex, to his wife. Madame with most  lovyng and hertie commendations. Ellis, i. 2. 137.   Princess Elizabeth to Ediv. VI. Your Maiesties humble sistar to com-  maundement Elizabeth. Ellis, i. 2. 146 ; Your Maiesties most humble sistar  Elizabeth. Ellis, i. 1. 148.   Princess Elizabeth to Lord Protector. Your assured frende to my litel  power Elizabeth. Ellis, i. 2. 158.   Edward VI to Lord Protector Somerset. Derest Uncle. . . • Your good  neuew Edward. Ellis, ii. i. 148.   Q.Mary to Lord Admiral Seymour. Your assured frende to my power  Marye. Ellis, i. 2. 153.   Princess Elizabeth to Q. Mary (on being ordered to the Tower). Your  Highnes most faithful subjec that hath bine from the begining and wyl be to  my ende, Elizabeth. (Transcr. of 1732). Ellis, ii. 2. 257.   1553, Princess Elizabeth to the Lords of the Council. Your verye lovinge  frende, Elizabeth- Ellis, ii. 2. 213.   1554, Henry Darnley to Q. Mary of England. Your Maiesties moste  bounden and obedient subjecte and servant Henry Darnley.   Queen Dowager to Lord Admiral Seymour. By her ys and schalbe  your humble true and lovyng wyffe duryng her lyf Kateryn the Quenc. Ellis,  i. 2. 152.   Q. Mary to Marquis of Winchester, Your Mystresse assured Marye the  Queue. -—Ellis, ii. 2. 252.   Sir John Grey of Pyrgo to Sir William Cecil. It is a great while me  thinkethe, Cowsine Cecill, since I sent unto you. ... By your lovyng cousin  and assured frynd John Grey. Ellis, ii, 2. 73-4; Good cowsyne Cecil!. ., .  By yo^ lovyng Cousine and assured pouer frynd dowring lyfe John Grey.  Ellis, ii. 2. 276.   Lady Catherine Grey, Cmmtess of Hertford, to Sir W, Cecil. Good cosyne  Cecill . . . Your assured frend and cosyne to my small power Katheryne  Hartford. Ellis, ii. 2. 278 ; Your poore cousyne and assured frend to my  small power Katheryne Hartford. Ellis, ii. 2. 287.   1564. Sir W. Cecil to Sir Thos. Smith. Your assured for ever W. Cecill.  Ellis, ii. 2. 295 ; Yours assured W. Cecill— Ellis, ii, 2. 297 ; Your assured  to command W, Cecill Ellis, ii. 2, 300.   1 566. Duchess of Somerset to Sir W. Cecil. Good M^ Secretary, yf I have  let you alone all thys whyle I pray you to thynke yt was to tary for my L, of  Leycesters assistans. ... I can nomore . ., and so do leave you to God Yo’^  assured lovyng frynd Anne Somerset,— Ellis, ii. 288. Christopher Jonson, Master of Winchester^ to Sir W, CeciL Right  honourable my duetie with all humblenesse consydered. . . . Your honoures  most due to commando, Christopher Jonson. Ellis, ii. 2. 313.   1569. Lacfy Stanhope to Sir W, CeciL Right honorable, my humble  dewtie premised. . . . Your honors most humblie bound Anne Stanhope.  Ellis, il 2. 324.,   1574. Sir Philip Sidney to the E. of Leicester, Righte Honorable and my  singular good Lorde and Uncle. . . . Your L. most obedi. . ., Philip Sidney.  —Works, p. 345.   1576. Sir Philip Sidney to Sir Francis Walsingham, Righte Honorable  ... I most humbly recommende my selfe unto yow, and leaue yow to the  Eternals most happy protection, ., . Yours humbly at commawndement  Philipp Sidney.   1578. Sir Philip Sidney to Edward Molineux^ Esq. (Secretary to Sir H.  Sidney), Molineux, Few words are best My letters to my father have  come to the eyes of some. Neither can I condemn any but you. . . . (The  writer assures M. that if he reads any letter of his to his father ^ without his  commandment or my consent, I will thrust my dagger into you. And trust  to it, for I speak it in earnest’. . . .) In the meantime farewell. From court  this last of May 1 578, By me Philip Sidney.— p. 328.   1580. Sir Philip Sidney to his brother Robert. My dear Brother . . .  God bless you sweet boy and accomplish the joyful hope I conceive of you., . . Lord I how I have babbled : once again farewell dearest brother. Your  most loving and careful brother Philip Sidney.   1582. Thomas Watson ^ To the frendly Reader^ (in Passionate Centurie of  Love). Courteous Reader, . . and so, for breuitie sake  aprubtlie make and  end ; committing the to God, and my worke to thy fauour. Thine as thou  art his, Thomas Watson.   Anne of Denmark to James L Sir ... So kissing your handes I remain  she that will ever love Yow best, Anna R. Ellis, i. 3. 97.   c. 1585. Sir Philip to Walsingham. Sir, . . your louing cosin and frend.  In several letters to Walsingham Sidney signs *your humble Son’. ^   1586. Wm. Webbe to Ma. (= ^ Master ’) Edward Sulyard Esquire (Dedi-  catory Epistle to the Discourse of English Poetrie). May it please you Syr,  thys once more to beare with my rudenes, &c. ... I rest, Your worshippes  faithfull Seruant W. W.   1593. Edward Alleyn to his wife. My good sweete mouse . . . and so  swett mouse farwell. Mem. of Edw. Alleyn, L 36; my good sweetharte and  loving mouse . . . thyn ever and no bodies else by god of heaven. ibid.   1596, Thos., Lord Buckhurst, afterwards Earl of Dorset^ to Sir Robert  CeciL Sir . . . Your very lo: frend T. Buckhurst.   1 597, Sir W. Raleigh to Cecil. S*^ I humblie thanke yow for your letter ., .  S^ I pray love vs in your element and wee will love and honor yow in ours  and every wher. And remayne to be comanded by yow for evermore  W Ralegh.   1602. Same to same. Good Secretary. . . . Thus I rest, your very  loving and assured frend T, Buckhurst,— Works, xxxiv-xi.   1603. Same to same. My very good Lord. . ♦ . So I rest as you know,  Ever yours T. Buckurst   1605, Same to same. ... I pray God for your health and for mine own  and so rest Ever yours ...   1607. Same to the University of Oxford. Your very loving friend and  Chancellor T. Dorset— xlvi.   cr. 1608. Sir Menry Wotton to Henry Prince of Wales. Youre zealous  pooie servant H. W. Ellis, i. 3* loo.   Q. Anne of Denmark to Sir George Villiers (afterwards Duke of Buc-  kingham). My kind Dog. # • . So wishing you all happiness Anna R.  Ellis, i. 3, ICO. Charles Duke of York to Prince Heniy. Most loving Brother  I long to see you, . . . Your H. most loving brother and obedient servant,  Charles. Ellis, i. 3. 96.   1612. Prince Charles to James L Your most humble and most   obedient sone and servant Charles. Ellis, i. 3. 102.   Same to Viljiers. Steenie, There is none that knowes me so well as your-  self. ., . Your treu and constant loving frend Charles P. Ellis, i. 3. 104.   King Jaynes to Buckingham or to Prince Charles, My onlie sweete and  deare chylde I pray thee haiste thee home to thy deare dade by sunne setting  at the furthest. Ellis, i. 3. 120.   Sa 7 ne to Buckingham, My Steenie. . . . Your clear dade, gosseppe and  stewarde.  Ellis, i. 3, 159.   Same to both. Sweet Boyes. . . . God blesse you both my sweete babes,  and sende you a safe and happie returne, James R. Ellis, i. 3 121.   Prmce Charles a?id Buckingham to James, Y’our Majesties most humble  and obedient sone and servant Charles, and your humble slave and doge  Steenie.—Ellis, Buckingham to James. Dere Dad, Gossope and Steward. . . • Your  Majestyes most humble slave and doge Steenie. Ellis, i, 3. 146-7.   1623. Lord Herbert to James, Your Sacred Majesties most obedient,  most loyal, and most affectionate subjecte and servant, E. Herbert   The letters of Sir John Suckling (Works, ii, Reeves et Turner) are  mostly undated, but one to Davenant has the date 1629, and another to  Vane that of 1632.   The general style is more modern in tone than those of any of the  letters so far referred to. (See on Suckling’s style, pp. 152-3.) The  beginnings and endings, too, closely resemble and are sometimes identical  with those of our own time.   To Davenant, Vane, and several other persons of both sexes, Suckling  signs simply ^ Your humble servant J. S.’, or 'J. Suckling’. At least  two, to a lady, end * Your humblest servant The letter to Davenant  begins ‘WilL; that to Vane ‘Right Honorable’. Several letters  begin ‘ Madam ‘ My Lord one begins ‘ My noble friend another  ‘ My Noble Lord several simply ‘ Sir The more fanciful letters,  to Aglaura, begin ‘ Dear Princess ’, ‘ Fair Princess ’, ‘ My clear Dear  ‘ When I consider, my dear Princess ’, &c. One to a cousin begins  ‘ Honest Charles   The habit of rounding off the concluding sentence of a letter so that  the valedictory formula and the writer’s name form an organic part of it,  a habit very common in the eighteenth century in Miss Burney, for  instance is found in Suckling’s letters. For example : ‘ I am still the   humble servant of my Lord that 1 was, and when I cease to be so,   I must cease to be John Suckling’; ‘yet could never think myself  unfortunate, while I can write myself Aglaura her humble servant ’ ; ‘ and  should you leave that lodging, more wretched than Montferrat needs  must be your humble servant J. S.’, and so on.   The longwindedness and prolixity wiiich generally distinguish the  openings and closings of letters of the fifteenth and the greater part of  the sixteenth century, begin to disappear before the end of the latter  period. Suckling is as neat and concise as the letter-writers of the  eighteenth century. ‘Madam, your most humble and faithful servant'  might serve for Dr. Johnson.  Most of our modern formulas were in use before the end of the first  half of the seventeenth century, though some of the older phrases still  survive. But we no longer find " I commend me unto your good master-  ship, beseeching the Blessed Trinity to have you in his governance and  such-like lengthy introductions. The Correspondence of Dr. Basire (see  pp. 163-4) is very instructive, as it covers the period from 1634 to 1675,  by which latter date letters have practically reached their modern form.  Dr. Basire writes in 1635-6 to Miss Frances Corbet, his fiancee, 'Deare  Fanny ^ Deare Love ^ ^ Love and ends ' Your most faithfuil frend J. B.',  'Thy faithful frend and loving servaunt J. B.", 'Your assured frend  and loving well-wisher J. B/, 'Your ever iouing frend J. B.' When  Miss Corbet has become his wife, he constantly writes to her in his  exile which lasted from 1640 to 1661, letters which apart from our present  purpose possess great human and historical interest. These letters generally  begin ' My Dearest', and ' My deare Heart', and he signs himself ' Your  very Iouing husband', 'Yours, more than ever', 'Your faithful husband',  ' My dearest. Your faithful friend ', ' Yours till death ' Meanewhile assure  your selfe of the constant love of— My dearest  ^Your loyall husband   The lady to whom these affectionate letters were addressed, bore with  wonderful patience and cheerfulness the anxieties and sufferings incident  upon a state bordering on absolute want caused by her husband's depriva-  tion of his living under the Commonwealth, his prolonged absence, together  with the cares of a family of young children, and very indifferent health.  She was a woman of great piety, and in her letters ‘ many a holy text  around she strews ' in reply to the religious soliloquies of her husband. Her  letters all begin ' My dearest ’, and they often begin and close with pious  exclamations and phrases 'Yours as much as euer in the Lord, No, more  thene euer ' ; ' My dearest, I shall not faile to looke thos plases in the  criptur, and pray for you as becometh your obedient wife and serunt in  the Lord F. B. ’ ; another letter is headed ' Jesu 1 and ends  ' I pray God  send vs all a happy meting, I ham your faithful in the Lord, F. B.'  Many of the letters are headed with the Sacred Name. Others of  Mrs. Basire's letters end 'Farwall my dearest, I ham yours faithful  for euer'; 'I euer remine Yours faithfuil in the Lord'; 'So with my  dayly prayers to God for you, I desire to remene your faithfuil loveing  and obedient wif '.   It may be worth while to give a few examples of beginnings and ends  of letters from other persons in the Basire Correspondence, to illustrate  the usage of the latter part of the seventeenth century.   These letters mostly bear, in the nature of an address, long superscrip-  tions such as 'To the Reverend and ever Honoured Doctour Basire,  Prebendary of the Cathedral Church in Durham. To be recommended  to the Postmaster of Darneton' (p. 213, dated 1662).   This letter, from Prebendary Wrench of Durham, begins ' Sir and  ends ' Sir, Your faithfuil and unfeigned humble Servant R. W.'   In the same year the Bishop of St. David's begins a letter to Dr. Basire   ' Sir and ends ' Sir, youre uerie sincere friend and seruant, Wil.  St, David's,   The Doctor's son begins ' Reverend Sir, and most loving Father '  and ends with the same formula, adding ' Your very obedient Son, P. B ^   p. 221. To his Bishop (of Durham) Dr. Basire begins 'Right Rev.  Father in God, and my very good Lord ending ' I am still, My L<i,  Your Lp 3 . faithfull Servant Isaac Basire’. In 1666 the Bishop of Carlisle,  Dr. Rainbow, evidently an old friend of Dr. B/s, begins 'Good  Mr. Archdeacon and ends ' I commend you and yours to God’s grace  and remaine,'Your very faithfull frend Edw, Carlioi’, p. 254.   In 1668 the Bishop of Durham begins ' M^ Archdeacon ’ and ends ' In  the interim I shall not be wanting at this distance to doe all I can, who  am, Sir, Your very loving ffriend and servant TJo. Duresme', p. 273.  Dr. Barlow, Provost of Queen’s, begins 'My Reverend Friend’, and  ends ‘Your prayers are desired for, Sir, Your affectionate friend and  Seruant, Tho. Barlow’. Dr. Basire begins a letter to  this gentleman  ‘ Rev. Sir and my Dear Friend ’ . ., ending ' I remain,  Reverend Sir, Your affectionate frend, and faithful servant To his  son Isaac, he writes in 1664 'Beloved Son’, ending ‘So prays your  very lovinge and painfull Father, Isaac Basire ’.   Having now brought our examples of the various types of epistolary  formulas down to within measurable distance of our own practice, we  must leave this branch of our subject. Space forbids us to examine and illus-  trate here the letters of the eighteenth century, but this is the less necessary  as these are very generally accessible. The letters of that age, formal or  intimate, but always so courteous in their formulas, are known to most  readers. Some allusion has already been made (pp. 20-1) to the tinge of  ceremoniousness in address, even among friends, which survives far into  the eighteenth century, and may *be seen in the letters of Lady Mary  Montagu, of Gray, and Horace Walpole, while as late as the end of the  century we find in the letters of Cowper, unsurpassed perhaps among  this kind of literature for grace and charm, that combination of stateliness  with intimacy which has now long passed away.    Exclamations, Expletives, Oaths, &e.   Under these heads comes a wide range of expressions, from such as  are mere exclamations with little or no meaning for him who utters or  for him who hears them, or words and phrases added, by way of emphasis,  to an assertion, to others of a more formidable character which are  deliberately uttered as an expression of spleen, disappointment, or rage,  with a definitely blasphemous or injurious intention. In an age like  ours, where good breeding, as a rule, permits only exclamations of the  mildest and most meaningless kind, to express temporary annoyance,  disgust, surprise, or pleasure, the more full-blooded utterances of a former  age are apt to strike u$ as excessive. Exclamations which to those who  used them meant no more than ' By Jove ’ or ' my word ’ do to us, would  now, if they were revived appear almost like rather blasphemous irreve-  rence. It must be recognized, however, that swearing, from its mildest  to its most outrageous forms, has its own fashions. These vary from  age to age and from class to class. In every age there are expressions  which are permissible among well-bred people, and others which are not.  In certain circles an expression may be regarded with dislike, not so much because of any intrinsic wickedness attributed to it, as merely  because it is vulgar. Thus there are many sections of society at the  present time where such an expression as ‘ O Crikey * is not in use. No  one would now pretend that in its present form, whatever may underlie  it, this exclamation is peculiarly blasphemous, but many persons would  regard it with disfavour as being merely rather silly and distinctly  vulgar. It is not a gentleman’s expression. On the other hand, ^ Good  Heavens \ or ^ Good Gracious \ while equally innocuous in meaning and  intention, would pass muster perhaps, except among those who object, as  many do, to anything more forcible than ‘ dear me \   Human nature, even when most restrained, seems occasionally to  require some meaningless phrase to relieve its sudden emotions, and the  more devoid of all association with the cause of the emotion the better  will the exclamation serve its purpose. Thus some find solace in such  a formula as ‘ O liitle haiC which has the advantage of being neither  particularly funny nor of overstepping the limits of the nicest decorum,  unless indeed these be passed by the mere act of expressing any emotion  at all. It is really quite beside the mark to point out that utterances of  this kind are senseless. It is of the very essence of such outbursts the  mere bubbles on the fountain of feeling ^that they are quite unrelated  to any definite situation. There is a certain adjective, most offensive to  polite ears, which plays apparently the chief r 61 e in the vocabulary of  large sections of the community. It seems to argue a certain poverty  of linguistic resource when we find that this word is used by the same  speakers both to mean absolutely nothing being placed before every  noun, and often adverbially before all adjectives and also to mean a  great deal everything indeed that is unpleasant in the highest degree.  It is rather a curious fact that the word in question while always impos-  sible, except perhaps when used as it were in inverted commas, in such  a way that the speaker dissociates himself from all responsibility for, or  proprietorship in it, would be felt to be father more than ordinarily  intolerable, if it were used by an otherwise polite speaker as an absolutely  meaningless adjective prefixed at random to most of the nouns in a sen-  tence, and worse than if it were used deliberately, with a settled and full  intent. There is something very terrible in an oath torn from its proper  home and suddenly implanted in the wrong social atmosphere. In these  circumstances the alien form is endowed by the hearers with mysterious  and uncanny meanings ; it chills the blood and raises gooseflesh.   We do not propose here to penetrate into the sombre history of  blasphemy proper, nor to exhibit the development through the last few  centuries of the ever-changing fashions of profanity. At every period  there has been, as Chaucer knew    a companye   Of yonge folk, that haunteden folye,   As ryot, hasard, stewes and tavemes,   Wher-as with harpes, lutes and gitemes, They daunce and pleye at dees both day and night,   And ete also and drinken over hit might,   Thurgh which they doon the devel sacrifyse  Within the develes tempel in cursed wyse,   By superfiuitee abhominable;   c c 2   Hir othes been so grete and so dampnable^   That it is grisly for to here hem swere ;   Our blissed lordes body they to-tere;   Hem though te Jewes rent him noght y-nough.   We are concerned, for the most part, with the milder sort of expres-  sions which serve to decorate discourse, without symbolizing any strong  feeling on the part of those who utter them. Some of the expletives  which in former ages were used upon the slightest occasion, would  certainly appear unnecessarily forcible for mere exclamations at the  present day, and the fact that such expressions were formerly used so  lightly, and with no blasphemous intention, shows how frequent must  have been their employment for familiarity to have robbed them of all  meaning.   So saintly a person as Sir Thomas More was accustomed, according  to the reports given of his conversation by his son-in-law, to make use  of such formulas as a Gods name^ p. xvi ; would to God, ibid. ; in good  faith, xxviii, but compared with some of the other personages mentioned  in his Life, he is very sparing of such phrases. The Duke of Norfolk,  ‘his singular deare friend*, coming to dine with Sir Thomas on one  occasion, ‘ fortuned to find him at Church singinge in the quiere with  a surplas on his backe ; to whome after service, as the(y) went home  togither arme in arme, the duke said, “ God body, God body, My lord  Chauncellor, a parish Clark, a parish Clarke ! ” '   On another occasion the same Duke said to him ^ By the Masse,  Moore, it is perillous strivinge with Princes ... for Gode's body,  Moore, Indignatio principis mors est *, p. xxxix. In the conversation  in prison, with his wife, quoted above, p. 364, we find that the good  gentlewoman ‘ after her accustomed fashion * gives vent to such exclama-  tions as ‘ What the goody ear e Moore ' : ‘ Tille mile, tille vallc ' ; ^ Bone   deus, hone Deus man \ ‘ I muse what a Gods name you meane here thus  fondly to tarry*. At the trial of Sir Thomas More, the Lord Chief  Justice swears by St, Julian  ‘ that was ever his oath p. li.   ‘ Tilly folly, Sir John, ne’er tell me and ‘ What the good year ! ' are  both also said by Mrs. Quickly in Henry IV, Pt. II, ii. 4. Marry, which  means no more than ‘ indeed *, was a universally used expletive in the  sixteenth century, Roper uses it in speaking to More, Wolsey uses it,  according to Cavendish ; it is frequent in Roister Doister, and is con-  stantly in the mouths of Sir John Falstaff and his merry companions.  By sweete Sanct Anne, by cocke, by gog, by cocks precious potsiick, kocks  nownes, by the armes of Caleys, and the more formidable by the passion of  God Sir do not so, all occur in Roister Doister, and further such exclama-  tions as O Lords, hoigh dagh !, I dare sweare, I shall so God me saue,  I make God a vow (also written avow), would Christ I had, &c. Meaning-  less imprecations like the Devil take me, a mischiefe take his token and him  and thee too are sprinkled about the dialogue of this play. The later plays  of the great period offer a mine of material of this kind, but only a few  can be mentioned here. What a Devil (instead of the Devil), what a pox,  hfr lady, bounds, d blood, Gods body, by the mass, a plague on thee, are  among the expressions in the First Part of Henry IV, In the Second  Part Mr. Justice Shallow swears by cock and pie. By the side of these  are mild formulas such as Tm a Jew else^ Tm a rogue if I drink today.   In Chapman’s comedies there is a rich sprinkling both of the slighter  forms of exclamatory phrases, as well as of the more serious kind. Of  the former we may note j/ faitk^ Ur lord^ Ur lady, by the Lord, How the  divell (instead of how a devil), all in A Humorous Day's Mirth ; He he  sworne, All Fooles; of the latter kind of expression Gods precious soles.,  H. D. M. ; sjoot, shodie, God^s my life, Mons. D'Olive ; Gods my passion,  H. D. M. ; swounds, zwoundes, Gentleman Usher.   Massinger's New Way to pay old Debts has 'slight, 'sdeath, and a fore-  shadowing of the form of asseveration so common in the later seventeenth  century in the phrase ‘ If I know the mystery may I perish ii. 2,   It is to the dramatists of the later seventeenth and early eighteenth  century that the curious inquirer will go for expletives and exclamatory  expressions of the greatest variety. Otway, Congreve, and Vanbrugh  appear to excel all their predecessors and contemporaries in the fertility  of their invention in this respect. It is indeed probable that while some  of the sayings of Mr. Caper, my Lady Squeamish, my Lady Plyant,  my Lord Foppington, and others of their kidney, are the creations of the  writers who call these ' strange pleasant creatures ' into existence, many  others were actually current coin among the fops and fine ladies of the  period. Even if many phrases used by these characters are artificial con-  coctions of the dramatists they nevertheless are in keeping with, and  express the spirit and manners of the age. If Mr. Galsworthy or  Mr. Bernard Shaw were to invent corresponding slang at the present  day, it would be very different from that of the so-called Restoration  Dramatists. The bulk of the following selection of expletives and oaths is  taken from the plays of Otway, Congreve, Wycherley, Mrs. Aphra Behn,  Vanbrugh, and Farquhar. A few occur in Shadwell, and many more  are common to all writers of comedies. These are undoubtedly genuine  current expressions some of which survive.   Among the more racy and amusing are :   Ld me die : ‘ Let me die your Ladyship obliges me beyond expression*  (Mr. Saunter in Otway's Friendship in Fashion) ; ^ Let me die, you have  a great deal of wit' (Lady Froth, Congreve's Double Dealer); also  much used by Melantha, an affected lady in Dryden's Marriage \ la   Mode. . . 1   Ld me perish ‘ I'm your humble servant let me perish ' (Brisk, Double   Dealer) ; also used by Wycherley, Love in a Wood.   ^le (Vanbrugh's Relapse),   Death and eternal iartures Sir, I vow the packet's (= pocket) too high  (Lord Foppington),   Burn me if I do (Farquhar, Way to win him).   Mai me, ^ rat my packet handkerchief (Lord Foppington).   Never Never stir if it did not' (Caper, Otway, Friendship in   Love) ; * Thou shalt enjoy me always, dear, dear friend, never stir '•   BU take my death you're handsomer ' (Mrs. Millamont, Congreve, Way   of the World).,   Bm a Person (Lady Wishfort, Way of the World). Stap my vitals (Lord Foppington ; very frequent).   Split my wmdpipe Lord Foppington gives his brother his blessing, on  finding that the latter has married by a trick the lady he had designed  for himself 'You have married a woman beautiful in her person,  charming in her airs, prudent in her canduct, canstant in her inclina-  tions, and of a nice marality split my windpipe   As I hope to breathe (Lady Lurewell, Farquhar, Sir Harry Wildair),   Tm a Dog if do (Wittmore in Mrs. Behn’s Sir Patient Fancy).   By the Universe (Wycherley, Country Wife).   I swear and declare (Lady Plyant) ; / swear and vow (Sir Paul Plyant,  Double Dealer) ; I do protest and vow (Sir Credulous Easy, Aphra Behn’s  Sir Patient Fancy) ; I protest I swoon at ceremony (Lady Fancyfull,  Vanbrugh, Provok'd Wife) ; 1 profess ingenuously a very discreet young  man (Mrs, Aphra Behn, Sir Patient Fancy).   Gads my hfe (Lady Plyant).   O Crimine (Lady Plyant).   O Jeminy (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife).   Gad take me, between you and I, I was deaf on both ears for three  weeks after (Sir Humphrey, Shadwell, Bury Fair).   ril lay my Life he deserves your assistance (Mrs. Sullen, Farquhar,  Beaux' Strategem).   By the Lord Harry (Sir Jos. Wittol, Congreve, Old Bachelor).  the universe (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife).   Gadzooks (Heartfree, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; Gadt s Bud (Sir Paul  Plyant, Double Dealer) ; Gud soons (Lady Arabella, Vanbrugh, Journey  to London) ; Marry-gep (Widow Blackacre, Wycherley, Plain Dealer) ;  ^sheart (Sir Wilful, Congreve, Way of the World) ; Eh Gud, eh Gud  (Mrs. Fantast, Shadwell, Bury Fair); Zoz I was a modest fool; ads^-  zoz (Sir Credulous Easy, Devonshire Knight, Aphra Behn, Sir  Petulant Fancy); 'D's diggers Sir (a groom in Sir Petulant Fancy);  ^sheart (Sir Wilf. Witwoud, Congreve, Way of the World); odsheart  (Sir Noble Clumsey, Otway, Friendship in Fashion); Adsheart (fkx Jos,  Wittol, Congreve, Old Bachelor) ; Gadswouns (Oldfox, Plain Dealer).  By the side of marry, frequent in the sixteenth and seventeenth centuries,  the curious expression Marry come up my dirty cousin occurs in Swift's  Polite Conversations (said by the young lady), and again in Fielding's  Tom Jones said by the lady's maid Mrs. Honor. With this compare  marry gep above, which probably stands for ' go up   Such expressions as Lard are frequent in the seventeenth-century  comedies, and the very modern-sounding as sure as a gun is said by  Sir Paul Plyant in the Double Dealer.   The comedies of Dryden contain but few of the more or less mild, and  fashionable, semi-bantering exclamatory expressions which enliven the  pages of many of his contemporaries ; he sticks on the whole to the more  permanent oaths 'sdeath, ^sblood, &c. It must be allowed that the  dialogue of Dry den's comedies is inferior to that of Otway or Congreve  in brilliancy and natural ease, and that it probably does not reflect the  familiar colloquial English of the period so faithfully as the conversation  in the works of these writers. Dryden himself says, in the Defense of  the Essay of Dramatic Poesy, ' I know I am not so fitted by Nature to write Comedy : 1 want that Gaiety of Flumour which is required to it.  My Conversation is slow and dull, my Humour Saturnine and reserv’d :  In sliortj I am none of those who endeavour to break all Jests in Com-  pmy, or make Repartees   It may be noted that the frequent use almost in ever;^ sentence of  such phrases as A/ me perish, hum me, and other meaningless interjec-  tions of this order, is attributed by the dramatists only to the most  frivolous fops and the most affected women of fashion. The more  serious characters, so far as such exist in the later seventeenth-century  comedies, aie addicted rather to the weightier and more sober sort of  swearing. It is perhaps unnecessary to pursue this subject beyond the*  first third of the eighteenth century. Farquhar has many of the manner-  isms of his slightly older contemporaries, and some stronger expressions,  e. g. ‘ There was a neighbour's daughter I had a woundy kindness for  Truman, in Twin Rivals ; but Fielding in his numerous comedies has  but few of the objurgatory catchwords of the earlier generation. Swearing,  both of the lighter kind as well as of the deliberately profane variety,  appears to have diminished in intensity, apart from the stage country  squire, suc h as Squire Badger in Don Quixote, who says ^ShodUkins and  ecod, and Squire Western, whose artless profanity is notorious. Ladies  in these plays, and in Swift's Polite Conversations, still say lard, O Ltid,  and la, and mercy, ^shuhs, God bless my eyesight, but the rich variety of  expression which we find in Lady Squeamish and her friends has  vanished. Some few of the old mouth-filling oaths, such as zounds,  ^sdeath, and so on, still linger in Goldsmith and Sheridan, but the number  of these available for a gentleman was very limited by the end of the  century. From the beginning of the nineteenth century it would seem  that nearly all the old oaths died out in good society, as having come to  be considered, from unfamiliarity, either too profane or else too devoid  of content to serve any purpose. It seems to be the case that the serious  oaths survive longest, or at any rate die hardest, while each age produces  its own ephemersil formulas of mere light expletive and asseveration.    Hyperbole ; Compliments ; Approval ; Disapproval ; Abuse,   Very characteristic of a particular age is the language of hyperbole  and exaggeration as found in phrases expressive on the one hand of  compliments, pleasure, approval, amusement, and so on, and of disgust,  dislike, anger, and kindred emotions, on the other. Incidentally, the  study of the different modes of expressing such feelings as these leads  us also to observe the varying fashion in intensives, corresponding to the  present-day awfully, frightfully, and the rest, and in exaggeration generally,  especially in paying compliments.   The following illustrations are chiefly drawn from the seventeenth  century, which offers a considerable wealth of material.   It is wonderful what a variety of expressions have been in use, more  or less transitorily, at different periods, as intensives, meaning no more  than i>iry, very much, &c. Rarely in Chapman^s Gentleman Usher  ^How did you like me aunt? 0 rarely, rarely \ ^Oh lord, that, that is a pleasure intolerahU \ Lady Squeamish in Otway’s Friendship in Love ;  ‘Let me die if that was not extravaganily pleasant vtry amusing),  ibid. ; ^ I vow he himself sings a tune extreme prettily \ ibid. : ‘ I love  dancing immoderately \ ibid. ; ‘ O dear ’tis violent hot \ ibid. ; ‘ Deuce take  me if your Ladyship has not the art of surprising the most naturally in  the world I hope you'll make me happy in communicating the Poem  Brisk in Congreve's Double Dealer ; ‘With the reserve of my Honour,  I aSvSure you Careless, I don't know anything in the World I would  refuse to a Person so meritorious You’ll pardon my want of expression',  Lady Plyant in Double Dealer; to which Careless replies ‘O your  “Xadyship is abounding in all Excellence^ particularly that of Phrase ; My  Lady Froth is very well in her Accomplishments But it is when my  Lady Plyant is not thought of— if that can ever be ' ; Lady Plyant :  ‘O you overcome me That is so excessive' ; Brisk, asked to write notes  to Lady Froth's Poems, cries ‘ With all my Heart and Soul, and proud of  the vast Honour let me perish ‘ I swear Careless you are very  alluring^ and say so many fine Things, and nothing is so moving as a fine  Thing. ., . Well, sure if I escape your Importunities, I shall value myself  as long as I live, I swear ; Lady Plyant. The following bit of dialogue  between Lady Froth and Mr. Brisk illustrates the fashionable mode of  bandying exaggerated, but i*ather hollow compliments.   ‘ Ldy P. Ah Gallantry to the last degree Brisk was ever anything so  well bred as My Lord ? Brisk Never anything but your Ladyship let me  perish. Ldy F, O prettily turned again ; let me die but you have a great  deal of Wit. Mellefont don^t you think Brisk has a World of Wit ?  MeUefont O yes Madam. Brisk O dear Madam  Ldy F» An mfinite  deal! Brisk, O Heaven Madam. 'Ldy F. More Wit than Body.  Brisk Pm everlastingly your humble Servant^ deuce take me Madam.   Lady Fancyful in Vanbrugh’s Provok'd Wife contrives to pay herself  a pretty compliment in lamenting the ravages of her beauty and the con-  sequent pretended annoyance to herself ‘ To confess the truth to you,  Fm so everlastingly fatigued with the addresses of unfortunate gentlemen  that were it not for the extravagancy of the example, I should e'en tear  out these wicked eyes with my own fingers, to make both myself and  mankind easy   Swift's Polite Conversations consist of a wonderful string of slang  words, phrases, and clicMs^ all of which we may suppose to have been  current in the conversation of the more frivolous part of Society in the  early eighteenth century. The word pure is used for very ‘ this almond  pudden is pure good ’ ; also as an Adj., in the sense of excellent^ as in ‘ by  Dad he's pure Company \ Sir Noble Clumsey's summing-up of the 'Arch-  Wag' Malagene. To divert in the characteristic sense of ‘amuse',  and instead of this ‘ Well ladies and gentlemen, you are pleased to divert  yourselves'. Lady Wentworth in 1706 speaks of her ‘munckey' as  ‘ full of devertin tricks and twenty years earlier Cary Stewkley (Verney),  taxed by her brother with a propensity for gambling, writes ‘ whot dus  becom a gentilwoman as plays only for divariion I hope I know   The idiomatic use of obliging is shown in the Polite Conversations, by  Lady Smart, who remarks, in answer to rather excessive praise of her  house ‘ My lord, your lordship is always very obliging ' ; in the same sense Lady Squeamish says 'I sweai*e Mr. Malagene you are a very  obliging person \   Extreme amusement, and approval of the persons who provoke it, are  frequently expressed with considerable exaggeration of phrase. Some  instances are quoted above, but a few more may be added^. ‘ A you mad  slave you, you are a ticUing Acior\ says Vincentio to Pogio in Chapman’s  Gentleman Usher.   Mr. Oldwit, in Shadwelbs Bury Fair, professes great delight at the  buffoonery of Sir Humphrey : ‘ Forbear, pray forbear ; you'll be the  death of me ; 1 shall break a vein if I keep you company, you arch Wag  you, . . . Well Sir Humphrey Noddy, go thy ways, thou art the ar«hesT  Wit and Wag. I must forswear thy Company, thou'lt kill me elsei'  The arch wag asks ' What is the World worth without Wit and Waggery  and Mirth ? and describing some prank he had played before an admiring  friend, remarks Mf you’d seen his Lordship laugh! I thought my  Lord would have killed himself. He desired me at last to forbear ; he  was not able to endure it! 'Why what a notable Wag^s this" is said  sarcastically in Mrs. Aphra Behn’s Sir Patient Fancy.   The passages quoted above, pp. 369-71, from Otway’s Friendship in  Love illustrate the modes of expressing an appreciation of ' Waggery   In the tract Reasons of Mr. Bays for changing his religion (1688),  Mr. Bays (Dryden) remarks a propos of something he intends to write  ^you 'll half kill yourselves with laughing at the conceit and again  ' I protest Ml’ Crites you are enough to make anybody split with laugh-  ing', Similarly 'Miss’ in Polite Conversation declares 'Well, I swear  you'll make one die with laughing   The language of abuse, disparagement, contempt, and disapproval,  whether real or in the nature of banter, is equally characteristic.   The following is uttered with genuine anger, by Malagene Goodvile  in Otway’s Friendship in Love, to the njusicians who are entertaining  the company ' Hold, hold, what insufferable rascals are these ? Why  you scurvy thrashing scraping mongrels, ye make a worse noise than  crampt hedgehogs. ’Sdeath ye dogs, can’t you play more as a gentleman  sings ? ’   The seventeenth-century beaux and fine ladies were adepts in the art  of backbiting, and of conveying in a few words a most unpleasant picture  of an absent friend 'O my Lady Toothless’ cries Mr. Brisk in the  Double Dealer, ' O she ’s a mortifying spectacle, she "s always chewing  the cud like an old Ewe ’ ; ' Fie M*^ Brisk, Eringos for her cough ’ pro-  tests Cynthia ; Lady Froth :  ' Then that t’other great strapping Lady—  I can't hit of her name ; the old fat fool that paints so exorbitantly ’ ;  Brisk : ' I know whom you mean But deuce take me I can't hit of her  Name neither— Paints d’ye say ? Why she lays it on with a trowel’   Mr. Brisk knows well how to 'just hint a fault ' Don't you apprehend  me My Lord? Careless is a very honest fellow, but harkee ^you under-  stand me somewhat heavy, a little shallow or so   Lady Froth has a picturesque vocabulary to express disapproval—  '0 Filthy M** Sneer? he's a nauseous figure, a most fulsamic Fop .  Nauseous and filthy are favourite words in this period, but are often used so  as to convey little or no specific meaning, or in a tone of rather affectionate banter. ^ He ’s one of those nauseous offerers at wit Wycherley’s Country  Wife ; ^ A man must endeavour to look wholesome ’ says Lord Foppington  in Vanbrugh's Relapse, ‘lest he make so nauseous a figure in the side  box, the ladies should be compelled to turn their eyes upon the Play ’ ;  again the same nobleman remarks ‘ While I was but a Knight I was  a very nauseous fellow ’ ; and, speaking to his tailor I shall never be  reconciled to this nauseous packet A remarkable use of the verb, to  express a simple aversion, is found in Mrs. Millamont’s ^ I nauseate walking ;  'tis a country divertion ' (Congreve, Way of the World).   In the Old Bachelor, Belinda, speaking of Belmour with whom she is  Th In^e, cries out, at the suggestion of such a possibility  ‘ Filthy Fellow I  ... Oh I love your hideous fancy I Ha, ha, ha, love a Man 1 ' In the  same play Lucy the maid calls her lover, Setter, ‘ Beast, filthy toad ’  during an exchange of civilities. ‘ Foh, you filthy toad I nay, now IVe  done jesting ’ says Mrs. Squeamish in the Country Wife, when Horner  kisses her. ‘Out upon you for a filthy creature' cries ‘Miss^ in the  Polite Conversations, in reply to the graceful banter of Neverout.   Toad is a term of endearment among these ladies ; ‘ I love to torment  the confounded toad' says Lady Fidget, speaking of Mr. Horner for  whom she has a very pronounced weakness. ‘ Get you gone you good-  natur’d toad you ' is Lady Squeamish's reply to the rather outre compli-  ments of Sir Noble.   Plague (Vb.), plaguy^ plaguily are favourite expressions in Polite Con-  versations. Lord Sparkish complains to his host ‘ My Lord, this venison  is plaguily peppered ' ; ' 'Sbubs, Madam, I have burnt my hand with your  plaguy kettle ' says Neverout, and the Colonel observes, with satisfaction,  that ‘ her Ladyship was plaguily bamb'd ‘ Don't be so teizing ; you  plague a body so ! can't you keep your filthy hands to yourself? ' is  a playful rap administered by ‘ Miss ' to Neverout.   Strange is another word used very indefinitely but suggesting mild  disapproval ‘ I vow you'll make me hate you if you talk so strangely, but  let me die, I can't last longer ' says Lady Squeamish, implying a certain  degree of impropriety, which nevertheless makes her laugh ; again, she  says, ‘I'll vow and swear my cousin Sir Noble is a strange pleasant  creature   We have an example above of exorbitantly in the sense of ‘out-  rageously', and the adjective is also used in the same sense ^‘Most  exorbitant and amazing' is Lady Fantast’s comment, in Bury Fair, upon  her husband's outburst against her airs and graces. We may close this  series of illustrations, which might be extended almost indefinitely, with  two from the Verney Memoirs, which contain idiomatic uses that have  long since disappeared. Susan Verney, wishing to say that her sister's  husband is a bad-tempered disagreeble fellow, writes ‘poore peg has  married a very humersome cros boy as ever I see' (Mem.).  Edmund Verney, Sir Ralph's heir, having had a quarrel with a neigh*  bouring squire concerning boundaries and rights of way, describes him  as ‘very malicious and stomachfull' (Mem.). The phrase  ‘as ever I see' is common in the Verney letters, and also in the Went-  worth Papers. Preciosity, &c.   We close this chapter with some examples of seventeenth-century  preciosity and euphemism. The most characteristic specimens of this  kind of affected speech are put by the writers into the mopths of female  characters, and of these we select Shadwell's Lady Fantast and her  daughter (Bury Fair), Otway's Lady Squeamish, Congreve's Lady  Wishfort, and Vanbrugh's Lady Fancyful in the Provok'd Wife. Some  of the sayings of a few minor characters may be added ; the waiting-  maids of these characters are nearly as elegant, and only less absurd  than their mistresses.   Luce, Lady Fantast's woman, summons the latter's stepdaughter as  follows : ^ Madam, my Lady Madam Fantast, having attir'd herself in  her morning habiliments, is ambitious of the honour of your Ladyship's  Company to survey the Fair ' ; and she thus announces to her mistress  the coming of Mrs. Gertrude the stepdaughter :  ‘ Madame, M^s Gatty  ' will kiss your Ladyship's hands here incontinently '. The ladies Fan-  tast, highly respectable as they are in conduct, are as arrant, pretentious,  and affected minxes as can be found, in manner and speech, given to  interlarding their conversation with sham French, and still more dubious  Latin. Says the daughter  ‘To all that which the World calls Wit and  Breeding, I have always had a natural Tendency, a penchen^ derived, as  the learned say, ex traduce, from your Ladyship : besides the great  Prevalence of your Ladyship's most shining Example has perpetually  stimulated me, to the sacrificing all my Endeavours towards the attaining  of those inestimable Jewels ; than which, nothing in the Universe can be  so much a mon gre, as the French say. And for Beauty, Madam, the  stock I am enrich'd with, comes by Emanation from your Ladyship, who  has been long held a Paragon of Perfection : most Charmanf, most Tuant!  ‘Ah my dear Child' replies the old lady, ‘II alas, alas 1 Time has been,  and yet I am not quite gone . When Gertrude her stepsister, an  attractive and sensible girl, comes in Mrs. Fantast greets her with  ‘ Sweet Madam Gatty, I have some minutes impatiently expected your  Arrival, that I might do myself the Great Honour to kiss your hands and  enjoy the Favour of your Company into the Fair ; which I see out of my  Window, begins to fill apace.'   To this piece of afifectation Gatty replies very sensibly, ‘ I got ready as  soon as e'er I could, and am now come to wait on you ', but old Lady  Fantast takes her to task, with ‘ Oh, fie, Daughter ! will you never attain  to mine, and my dear Daughter's Examples, to a more polite way of  Expression, and a nicer form of Breeding ? Fie, fie ; I come to wait on  you! You should have said; I assure you Madam the Honour is all  on my side ; and I cannot be ambitious of a greater, than the sweet  Society of so excellent a Person. This is Breeding/ ‘Breeding!'  exclaims Gatty, ‘ Why this had been a Flam, a meer Flam And with  this judgement, we may leave My Lady Fantast.   We pass next to Lady Squeamish, who is rather ironically described by  Goodvile as ‘the most exact Observer of Decorums and Decency alive  Her manner of greeting the ladies on entering, along with her cousin  Sir Noble Clumsey, if it has the polish, has also the insincerity of her age—' Dear Madam Goodvile, ten thousand Happinesses wait on you !  Fair Madam Victoria, sweet charming Camilla, which way shall I express  my Service to you ? Cousin your honour, your honour to the Ladies.  Sir Noble : Ladies as low as Knee can bend, or Head can bow, I salute  you all : And Gallants, I am your most humble, most obliged, and most  devoted Servant/   The character of this charming lady, as well as her taste in language,  is well exhibited in the following dialogue between her and Victoria.   ^ Oh my dear Victoria ! the most unlock’d for Happiness ! the pleasantest  Wlc^ent ! the strangest Discovery ! the very thought of it were enough to  cure Melancholy. Valentine and Camilla, Camilla and Valentine, ha, ha, ha,   Viet, Dear Madam, what is ’t so transports you ?   Ldy Sqti, Nay ’tis too precious to be communicated : Hold me, hold me,  or I shall die with laughter  ha, ha, ha, Camilla and Valentine, Valentine and  Camilla, ha, ha, ha 0 dear, my Heart’s broke.   Viet, Good Madam refrain your Mirth a little, and let me know the Story,  that I may have a share in it.   Ldy Squ, An Assignation, an Assignation tonight in the lower Garden ;  by strong good Fortune I overheard it all just now  but to think of the  pleasant Consequences that will happen, drives me into an Excess of Joy  beyond all sufferance.   Viet, Madame in all probability the pleasantest Consequence is like to be  theirs, if any body’s ; and I cannot guess how it should touch your Ladyship  in the least.   Ldy Squ, O Lord, how can you be so dull ? Why, at the very Hour and  Place appointed will I greet Valentine in Camilla’s stead, before she can be  there herself ; then when she comes, expose her Infamy to the World, till  I have thorowly revenged my self for all the base Injuries her Lover has  done me.   Viet But Madam, can you endure to be so malicious ?   Ldy Squ, That, that ’s the dear Pleasure of the thing ; for I vow I’d  sooner die ten thousand Deaths, if I thought I should hazard the least  Temptation to the prejudice of my Honour.   Viet, But why should your Ladyship run into the mouth of Danger?  Who knows what scurvy lurking Devil may stand in readiness, and seize  your Virtue before you are aware of him ?   Ldy Squ, Temptation? No, I’d have you know I scorn Temptation:  I durst trust myself in a Convent amongst a Kennel of cramm’d Friers:  Besides, that ungrateful ill-bred fellow Valentine is iny mortal Aversion,  more odious to me than foul weather on a May-day, or ill smell in a Morning.  ... No, were I inclined to entertain Addresses, I assure you I need not  want for Servants ; for I swear I am so perplexed with Billet-Doux^ every  day, I know not which way to turn myself: Besides there’s no Fidelity, no  Honour in Mankind. O dear Victoria I whatever you do, never let Love  come near your Heart : Tho really 1 think true Love is the greatest Pleasure  in the World.’   And so we let Lady Squeamish go her ways for a brazen jilt, and an  affected, humoursome baggage. If any one wishes to know whither her  ways led her, let him read the play.   Only one more example of foppish refinement of speech from this  play the remarks of the whimsical Mr. Caper to Sir Noble Clumsey,  who coming in drunk, takes him for a dandng-master  ^ I thought you  had known me’ says he, rather ruefully, but adds, brightening— 'I doubt you may be a little overtaken. Faith, dear Heart, Fm glad to see you so  merry I ’   The character of Lady Wishfort in the Way of the World is perhaps  one of the best that Congreve has drawn; her conversation in spite of  the deliberate affectation ir^ phrase is vivid and racy, and for all its  preciosity has a naturalness which puts it among the triumphs of Con-  greve’s art. He contrives to bring out to the full the absurdity of the  lady’s mannerisms, in feeling and expression, to combine these with vigour  and ease of diction, and to give to the whole that polish of which he is the  unquestioned master in his own age and for long after.   The position of Lady Wishfort is that of an elderly lady of great ouii  ward propriety of conduct, and a steadfast observer of decorum, in sjl^ch  no less than in manners. Her equanimity is considerably upset by the  news that an elderly knight has fallen in love with her portrait, and wishes  to press his suit with the original. The pretended knight is really a valet  in disguise, and the whole intrigue has been planned, for reasons into  which we need not enter here, by a rascally nephew of Lady Wishfort’s.  This, however, is not discovered until the lover has had an interview with  the sighing fair. The first extract reveals the lady discussing the coming  visit with Foible her maid (who is in the plot).   ‘ I shall never recompose my Features to receive Sir Rowland with any  Oeconomy of Face Fm absolutely decayed. Look, F oible.   Foible, Your Ladyship has frown’d a little too rashly, indeed Madam.  There are some Cracks discernible in the white Varnish.   Ldy W, Let me see the Glass— Cracks say’st thou ? Why I am arrantly  flead (e. g. flayed) I look like an old peel’d Wall. Thou must repair me  Foible before Sir Rowland comes, or I shall never keep up to my picture.   F, I warrant you, Madam ; a little Art once made your picture like you ;  and now a little of the same Art must make you like your Picture. Your  Picture must sit for you, Madam.   Ldy W, But art thou sure Sir Rowland will not fail to come ? Or will he  not fail when he does come? Will he be importunate, Foible, and push?  For if he should not be importunate ... I shall never break Decorums    I shall die with Confusion ; if I am forc’d to advance— O no, I can never  advance. ... I shall swoon if he should expect Advances. No, I hope  Sir Rowland is better bred than to j)ut a Lady to the Necessity of breaking  her Forms. I won’t be too coy neither.— I won’t give him Despair— But  a little Disdain is not amiss ; a little Scorn is 2X\mm%,--Foible.--h little  Scorn becomes your Ladyship .  Ldy IV. Yes, but Tendeimess becomes me  best— A Sort of a Dyingness— You see that Picture has a Sort of a Ha  Foible !— A Swimmingness in the Eyes— Yes, I’ll look so— My Neice affects  it but she wants Features. Is Sir Rowland handsom ? Let my Toilet be  remov’d— I’ll dress above. I’ll receive Sir Rowland here. Is he handsom ?  Don’t answer me. I won’t know : I’ll be surpris’d ; He’ll be taken by Sm-  prise.— By Storm Madam. Sir Rowland’s a brisk Man. TV.  Is he ! O then he’ll importune, if he ’s a brisk Man. I shall save Decorums  if Sir Rowland importunes. I have a mortal Terror at the Apprehension of  offending against Decorums. O Pm glad he ’s a brisk Man. Let my things  be remov’d good Foible*’   The next passage reveals the lady ready dressed, and expectant of  Sir Rowlands arrival.   ‘Well, and how do I look Foible! Z; Most killing well, Madam.  Ldy IV, Well, and how shall I receive him ? In what Figure shall I give     39S colloquial IDIOM   his Heart the first Impression ? There is a great deal in the first Impression,  Shall I sit? No, I won’t sit I’ll walk— ay I’ll walk from the door upon his  Entrance; and then turn full upon him No, that will be too sudden. I’ll  lie, ay Ell lie down I’ll receive him in my little Dressing-Room. There *s  a Couch Yes, yes, I’ll give the first Impression on a Couch I won’t lie  neither, but loll, and lean upon one Elbow; with one Foot a little dangling  off, jogging in ^ thoughtful Way  Yes Yes  and then as soon as he appears,  start, ay, start and be surpris’d, and rise to meet him in a pretty Disorder   Yes  O, nothing is more alluring than a Levee from a Couch in some Con-  fusion— It shews the Foot to Advantage, and furnishes with Blushes and  recomposing Airs beyond Comparison. Hark ! there ’s a Coach.’   .^t it is when theure du Berger draws near, as she supposes, that  Lady Wishfort rises to the subiimest heights of expression :   ‘Well, Sir Rowland, you have the Way, you are no Novice in the Labyrinth  of Love— You have the Clue But as I’m a Person, Sir Rowland, you must  not attribute my yielding to any sinister Appetite, or Indigestion of Widow-  hood ; nor impute my Complacency to any Lethar^ of Continence I hope  you don’t think me prone to any iteration of Nuptials If you do, I protest  I must recede or think that I have made a Prostitution of Decorums, but  in the Vehemence of Compassion, or to save the Life of a Person of so much  Importance Or else you wrong my Condescension If you think the least  Scruple of Carnality was an Ingredient, or that    Here Foible enters and announces that the Dancers are ready, and thus  puts an end to the scene at its supreme moment of beauty and  absurdity. Even Congreve could not remain at that level any longer.   It is worth while to record that in this play, a maid, well called Mincings  announces ‘ Mem, I am come to acquaint your Laship that Dinner is  impatient The hostess invites her guests to go into dinner with the  phrase ‘ Gentlemen, will you walk ? '   This chapter and book cannot better conclude than with a typical piece  of seventeenth-century formality. May it symbolize at once the author's  leave-taking of the reader and the eagerness of the latter to pursue the  subject for himself.   The passage is from the Provok’d Wife :   ‘ Lady FancyfuL Madam, your humble servant, I must take my leave.   Lady Brute. What, going already madam ?   Ldy F. I must beg you’ll excuse me this once ; for really 1 have eighteen  visits this afternoon. . . . {Goin^ Nay, you shan’t go one step out of  the room.   Ldy B. Indeed I’ll wait upon you down.   Ldy F. No, sweet Lady Brute, you know I swoon at ceremony.   Ldy B, Pray give me leave Ldy F. You know I won’t I^dy B. You  know I must. Ldy F. Indeed you shan’t Indeed I will Indeed you shan’t Ldy B. Indeed I will.   Ldy F. Indeed you shan’t. Indeed, indeed, indeed, you shan’t’   [Exit running. They follow.\ Alberto Caracciolo. Keywords: il colloquio, in cammino verso il linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caracciolo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Caramella: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’eroi di Vico – scuola di Genova – filosofia genovese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Caritone e Melanippo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice:”I like Caramella – like me, he is into the metaphysics of conversation! And he reminds me that I should re-read Vico!” --  Grice: “I like Caramella; he prefaced Fichte’s influential tract on ‘la filosofia della massoneria’ – but also wrote on more orthodox subjects like Kant, Cartesio, Bergson, and most of them!” – Grice: “Like me, he thought truth is found in conversation!” Ancora al liceo, comincia a collaborare con Gobetti, il quale gli affida la trattazione della filosofia su “Energie Nove”. Dopo un primo contatto con PGobetti e La Rivoluzione liberale, su segnalazione di questi, entra in collaborazione con Radice, da cui apprese le dottrine del neo-idealismo di Croce e Gentile. Dopo la laurea, insegna a Genova. Per le sue idee antifasciste fu arrestato e rinchiuso prima nelle carceri di Marassi a Genova, e poi fu trasferito a San Vittore a Milano; fu scarcerato, ma venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Ottenne, per intercessione di Croce, l'incarico di filosofia a Messina. Vinse la cattedra a Catania. Prese parte ai convegni organizzati dalla Scuola di mistica fascista  Insegna a Palermo, ereditando la cattedra che era stata di Gentile. Il suo allievo principale, che ne cura il lascito, è Armetta, docente alla Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia.  La sua vasta cultura, gli permise di vedere la continuità della filosofia antica romana classica e e, nell'ambito della filosofia italiana, l'unità delle opposte dialettiche nella legge vivente dello spirito e nel dinamismo della natura e della storia. Apprezzato storico della filosofia. La sua filosofia si può definire un neo-idealismo crociano e gentiliano, ma reinterpretatto alla luce dello spiritualismo. La sua filosofia supera lo storicismo e la dottrina crociana degli opposti e dei distinti, e si esprime nell'interpretazione della pratica come eticità storica.. La religione e la teosofia rappresentano la possibilità dello spirito attento da un lato alla concretezza dell'uomo e dall'altro all'ineffabilità. Lo spirito, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione dello spirito ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferito una distinta funzione teoretica.  Altre opere: “Problemi e sistemi della filosofia, Messina); “Religione, teosofia e filosofia”; “Logica e Fisica” (Roma); “La filosofia di Plotino e il neoplatonismo” Catania); Ideologia”; “Metafisica, filosofia dell'esperienza”; “Metalogica, filosofia dell'esperienza” (Catania); “Autocritica, in: Filosofi italiani contemporanei, M.F. Sciacca, Milano); “L'Enciclopedia di Hegel, Padova); “La filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli); “Introduzione a Kant, Palermo); “Conoscenza e metafisica, Palermo); “La mia prospettiva etica, Palermo); “Carteggio con Croce. Carteggio. La dialettica del vero e del certo nella "metafisica vichiana" di C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di Caramella, Palermo. Ontologia storico-dialettica di C..Lo spirito nella filosofia di C..C.. La verità in dialogo. Carteggio con Radice.Dizionario biografico degli italiani. Il linguaggio come auto-analisi. 2 C., La cultura ligure nell’alto Medioevo, in II Comune di Genova,  La recente Vita d i Bruno, con documenti e inediti 1, in cui Vincenzo Spampanato lia potuto finalmente sintetizzare oltre vent’anni di ricerche bruniane, mi suggerisce l’opportunità di un breve eenno sul soggiorno del filosofo nella n o s tra regione, così sulla base di quanto lo Spampanato ha messo novamente in luce come su quella delle antiche notizie da lui rinfrescate. Cel resto l’unica seria esposizione dei fatti che stiamo per narrare era, prima delle dotte pagine dello Spampanato, nella biografia del Berti2: ma sommaria e imprecisa per molti rispetti. Arrivò il Bruno in Genova poco prima della domenica delle Palme, nell’anno in cui la festa cadeva il 15 aprile? Cont raria m en te al parere del Berti, il quale sostiene non essere capace di prova che il filosofo sia entrato nella nostra città, dobb iam o infatti tener presente una scena del Candelaio dove tino dei protagonisti giura, entrando in scena, sulla « benedetta coda dell’asino, che adorano i Genoesi’3 », e il passo correlativo dello Spaccio d e lla B e stia trio n fa n te, che dice proprio così: « Ho visto io i religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda, dicendo: non toccate, baciate: questa è la santa reliquia di quella benedetta asina che fu fatta degna di portar il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolina. Adoratela, baciatela, -porgete limosina: Centum accipietis, et vita aeternam possidebitis». I « religiosi di Castello» sono, è evidente, i Domenicani di Santa Maria di Castello, dove uffiziavano: e la preziosa reliquia doveva certo esser mostrata 1 Messina, Principato, Vedi, per l’argomento di questa com unicazione, Torino, Paravia, ed. Spampanato (Bari, Laterza), ed. Gentile (Dial. morali di G. B.), Quetifet Echard, S c rip t. ord. praed., t. il, p. in. Società Ligure di Storia Patria - al p opolo nella precisa circostanza della commemorazione del giorno in cui Gesù discese trionfante su ll’asina a Gerusalemme 1. Il Bruno veniva da Roma, um ile fu ggiasco. A v ev a avu to notizia che il processo istruttorio p endente presso l’inquisizione, per i sospetti di erodossia avanzati contro di lui, non annunziava buon esito: e così, deposto l’ abito, si diresse verso la valle Padana. Più tardi raccontò egli stesso, ai giudici di V enezia, di essere andato subito a N oli. Ma è prob abile c h e la peste, da cui quella plaga fu proprio in quel torno di rem po violentemente aiflitta, lo abbia genericam ente con sigliato a v o lgersi verto la Liguria, contrada m eno infetta, o non ancora raggiunta dal contagio, e a fermarsi alm eno qualche giorno a Genova. Le sarcastiche espressioni dello Spaccio ci fanno im m aginare agevolmente il Bruno là sulla piazzetta della vetusta ch iesa romanica, pieno l’animo non già di ammirazione estetica perla caratteristica facciata o per gli ornamenti molteplici dell’ interno, eh’ è tutto un m usaico di con q uiste orientali, - e tanto meno di interesse psicologico e religioso per la folla affluente ed effluente dal tempio, - ma di cruccio e disdegno: lui da poco a ccostatosi alle nuove idee dei riformatori oltremontani, lui per questo costretto a fuggire di patria e dall’ am ato convento napoletano di San Domenico Maggiore, dove gli allievi p endevano dalla sua parola, dottamente teologizzante. La peste arrivò presto, anzi subito, anche a Genova; a Milano l’ ambasciatore veneto Ottaviano di Mazi ne aveva già n o ­ tizia tre giorni dapo il 15 aprile, il m ercoledì santo 2. E allora il Bruno, com e ci attestano, questa volta, più veracem ente, le sue note dichiarazioni ai giudici veneti, se ne andò a N oli. Forse il ricordo dantesco, che per lui u m anista p oteva con tar qualche cosa, e la simiglianza del nom e con quello della sua Nola; forse la persistente libertà della piccola repubblica, e anche, chissà, qualche lettera di raccomandazione, qualche c o n ­ siglio di amico lo spinsero in quel tranquillo rifugio, l’ unico veramente tranquillo per lui nella storia delie sue lunghe peregrinazioni. « Andai a Noli, territorio genoese, d ove m i intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la gram m atica a’ putti ». « Io 1 Per la storia d ella re liqu ia v. Imbriani, Natanar II in Propu gnatore, Vili, M utin elli, Storia arcana ed aneddotica d’Italia, Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - stetti in Noli circa quattro o cinque mesi, insegnando la grammatica a’ figliuoli e leggendo la Sfera o certi gentiluomini...1 ». Lo Spampanato, per ragioni di coerenza con ulteriori dati biografici, pensa che il soggiorno sia durato un po’ più di quattro mesi. Comunque, le occupazioni del Nolano a Noli sono ben chiare: l’ esule cercava di trar qualche mezzo di vita con lezioncine private. Ma anche « leggeva la Sfera a certi gentiluomini »: la Sfera, cioè il famoso trattato di Giovanni da Sacroboseo, professore alla Sorbona e monaco domenicano quasi contemporaneo di Dante: che si soleva considerare come perfetta e sintetica esposizione di una teoria fisico-geometrica fondamentale per l’astronomia tolemaica, (la teoria delle sfere celesti), e che Γ insinuarsi dell’ ipotesi copernicana aveva, nella seconda metà del Cinquecento, rimesso in gran voga2. Persino a Noli era dunque penetrato il novello interesse del secolo per i problemi astronomici; perfino a Noli alcuni giovani signori sentivano il bisogn o di stipendiare un povero erudito piovuto di lontano perchè spiegasse loro il sistema del mondo. E il Bruno cominciava di quia occuparsi direttamente di quelle indagini che fur o n o oggetto delle polemiche da lui sostenute in Inghilterra e che formano l’argomento della Cena delle Ceneri. Non possiamo n atu ralm e n te sapere (a meno che venissero fuori i quaderni di queste sue legioni liguri) s’ egli già a Noli professasse la dottrina copernicana, servendosi della Sfera per criticare il sistema tolem aico: o invece, come il Galilei ne’ suoi corsi allo Studio di Padova, si limitasse all’illustrazione del classico libretto. Un sacerdote napoletano, anzi padre Iazzarista, Raffaele de Martinis, che p otè consultare gli atti del Santo Uffizio, asserisce nella sua biografia del Bruno che a questi fu intentato in Vercelli un processo (che sarebbe il quarto dopo i primi due di Napoli 1 Docc. veneti, vili, c. 8 r-v. (SPAMPANATO). Vedi A. Pellizzar i, Il quadrivio nel Rinascimento (Genova, Perrella). Bruno (Napoli). Ma cfr. Amabile, in Atti Acc. Scienze mor. e politiche di Napoli n.; espampanato (e anche Tocco in Arch. fiir Gesch. der P h ilo s., Bonghi, ne La Cultura, Gentile, Bruno e il pensiero del Rinascimento, [Firenze, Vallecchi Società Ligure di Storia Patria -  e il terzo di Roma) « dalla Inquisizione dello Repubblica g e n o ­ vese»: ma dell’asserzione importantissima (secondo la quale si potrebbe proprio pensare aver il Bruno palesato ancora una volta la sua eterodossia nell’insegnamento di Noli) il De Martinis non dà, e confessa di non aver potuto trovare, le prove. E la notizia non pare affatto fondata, posto che manca ogni riferimento a questo processo genovese nei posteriori documenti processuali di Venezia, e di Roma dove pur dovrebbe trovarsi, posto che a Vercelli non ci consta che il Bruno facesse soggiorno (nè quindi l’inquisizione genovese avrebbe avuto ragione alcuna di perseguirvelo). « Eppoi me partii de là [da Noli] ed andai prima a Savona, dove stetti circa quindeci giorni; e da Savona a Turino, dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il Po1 ». Da Venezia, di lì a due mesi, a Padova; da Padova a Brescia, Bergamo, Milano. Qui rivestì l’ abito, e poi per Buffalora, Novara, Vercelli, Chivasso, Torino, Susa arrivò alla Novalesa, sotto il Cenisio. Un giorno ancora e fu in Francia, oltre monti, lanciato per la gran carraia della Sua fortuna. Troverà onori, trionfi accademici, soddisfazioni di filosofo e di scrittore; ma la queta pace di Noli, mai più. C. 1 Docc. veti., c. 8La Logica di Porto Reale. Con Prefazione del Prof. Santino... Storia del pensiero e del gusto letterario in Italia ad uso dei licei.  La scuola di mistica fascista e la discoperta del vero VICO L'azione combinata della storiografia al bianchetto e della credulità strisciante fra le righe del conformismo teologico, ha fatto sparire la notizia della sfida al neoidealismo, che fu lanciata dalle avanguardie cattoliche inquadrate nella scuola milanese di mistica fascista. In tal modo la memoria storica degli italiani è stata privata della nozione necessaria a contrastare seriamente l'ideologia totalitaria e ad avviare gli studi filosofici su un cammino di ricerca opposto a quello tracciato dall'intossicante influsso del gramscismo. Un percorso, quella anticipato dalla scuola di mistica fascista, che avrebbe messo capo ad un'evoluzione del Novecento - un'autentica rivoluzione italiana - di segno contrario al coatto e calamitoso trasferimento (narrato da Zangrandi) degli intellettuali fascisti nel partito di Togliatti. L'accertata esistenza di una forte opposizione cattolica alla filosofia di matrice hegeliana, comunque, fa crollare i due pilastri della mistificazione comunista: la leggenda della complicità cattolica con l'ideologia anticomunista prevalente in Germania - leggenda sintetizzata dal calunnioso slogan «Pio XII papa di Hitler» - e la rappresentazione degli intellettuali italiani nella figura di un coacervo nazifascista, redento in extremis dalla longanimità del partito staliniano. La vicenda degli oppositori italiani all'idealismo rivela, invece, l'autonomia, la straordinaria vitalità e l'attitudine del pensiero cattolico ad entusiasmare ed orientare i giovani studiosi, che avevano aderito al fascismo senza separarsi dalla radice religiosa della patria italiana. Curiosamente, l'autorità del pensiero cattolico si rafforzò nella prima fase della II guerra mondiale, quando la Germania nazionalsocialista sembrava avviata a vincere la guerra. Dopo che il governo italiano ebbe sottoscritto l'alleanza con la Germania, il dubbio si era, infatti, diffuso fra i giovani, causando la divisione dell'area fascista in due opposte scuole di pensiero: una corrente maggioritaria, intesa a metter fine al dominio della cultura tedesca e perciò risoluta a percorrere la via d'uscita indicata dalla tradizione cattolica, e una corrente minoritaria, rimasta fedele ai princìpi dell'idealismo e perciò decisa a seguire le avanguardie germaniche sulla via del fanatismo e dell'estremismo anticristiano. Espressione del fermento in atto durante quegli anni cruciali è un magnifico saggio di Tripodi, interprete delle novità introdotte nella scuola milanese di mistica fascista da Schuster e dal fondatore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, il francescano Gemelli (confronta «Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo», Milani). Tripodi, grazie ad una profonda conoscenza della filosofia italiana tentò un audace confronto tra lo storicismo cristiano di VICO e la dottrina politica di MUSSOLINI. L'affinità del fascismo e della scienza nuova, nell'acuta analisi di Tripodi, non è causata dalle letture (Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla comune tendenza a riconoscere che «maestra non è la mente di questo o quell'uomo che razionalmente pone un principio, ma la storia delle attività di tutti gli uomini che si svolgono come debbono svolgersi perché provvidenzialmente si compia la socialità che ad esse è intrinseca». La scelta di Tripodi cade su Vico poiché «fu perenne nel suo spirito la distinzione tra la sostanza divina e quella delle creature, tra l'essenza o ragion di essere di Dio e quella delle cose create, come fu perenne ed inequivocabile la inintelligibilità di Dio se ricercata nel mondo bruto della natura anziché in quello della storia, nella quale la Provvidenza si manifesta, chiamando gli uomini a collaboratori della divinità». Pubblicato e presto rimosso dalla censura di sinistra e dall'indifferenza di destra, il saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i risultati delle ricerche iniziate da quegli studiosi cattolici (nel testo sono citati Chiocchetti, Vecchio, Amerio, Gemelli, Olgiati, C., Orestano, Carlini e Giuliano) che avevano sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla filosofia tedesca, confutando le tesi di Croce e di Gentile su VICO precursore dell'idealismo. Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per quanto concerne l'ontologia, «ha sempre creduto nella finitezza dell'umano, riconoscendo che esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano non può scrivere che una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di sfondare quella parete, «hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il monismo soggettivista o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli inequivocabili atteggiamenti dualistici di essa». Di qui il ribaltamento della linea neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di VICO quale orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli apparenti successi della modernità: «La stessa barriera che Vico oppone, in nome della genuinità del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo all'idealismo. Né GENTILE, né CROCE, anche se il primo ha la camicia nera e cercò di darla al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina». Tripodi indica in VICO l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo dominanti nell'età moderna: «Vico non può essere idealista perché la sua filosofia impugna Cartesio e fa impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine, costruite unicamente su di una realtà interiore». La filosofia vichiana, inoltre, è apprezzata perché rivendica la responsabilità dell'azione umana nei fatti della storia «che altre indagini speculative avevano invece interpretato o come involuti in una meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale definita dal pensiero che l'aveva posta. La coscienza delle proprie virtù creatrici della storia non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa prima di esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori perché affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina provvidenza». L'invito a separare il destino dell'Italia fascista dalle chimere del razionalismo e dalle suggestioni dell'attivismo prometeico e dell'amor fati, non poteva essere formulato con maggiore chiarezza. Nelle penetranti tesi formulate da Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema della strategia culturale elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori dell'avanguardia cattolica (Vecchio, Petruzzellis, Sciacca, Noce, Tejada, Montano, Grisi, Torti) che nella filosofia di VICO vedranno lo strumento adatto a contrastare e battere i poteri dell'astrazione hegeliana trasferita, intanto, nella parodia inscenata dal gramscismo. La posta in gioco era la corretta impostazione della dottrina del diritto naturale, in ultima analisi la soluzione del problema riguardante il rapporto tra la giustizia ideale e le cangianti leggi che i popoli producono nel corso della loro storia. Dagli scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse una indicazione che gli permise di risolvere il problema senza nulla concedere alle dottrine storicistiche contemplanti un pensiero dell'assoluto che evolve nel tempo: «esiste non una separazione ma una diversa gradazione d'intensità etica tra giustizia e diritto. La prima è un diritto naturale soprastorico, che è patrimonio universale e depositario del sommo vero. Il secondo è dato dall'insieme delle norme che il mondo delle nazioni partitamente elabora nel suo progressivo avvicinamento alla giustizia». Di qui l'indicazione di due altri motivi del consenso fascista alla scienza nuova: il fermo rifiuto delle astrazioni suggerite dal contrattualismo e la confutazione delle teorie utilitaristiche, che ritengono l'interesse materiale unica molla delle azioni umane. Nella definizione del comune fondamento della teoria dello Stato, Tripodi sostiene, pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di Mussolini la Provvidenza fa prevalere la solidarietà sull'istinto egoistico: «la provvidenza ha il suo più alto attributo nel senso della socialità che perennemente richiama agli uomini, facendo loro vincere il senso egoistico per cui vorrebbero tutto l'utile per se e niuna parte per lo compagno». Tripodi conclude il suo ragionamento affermando che «l'unitario ordine di idee nel quale relativamente alla concezione dello Stato si muovono la dottrina vichiana e quella fascista» è dimostrato dalla condivisione del fine soprannaturale: «l'uomo trova nello Stato l'organizzazione storica che gli consente di realizzare quei principi morali conferitigli dalla divinità e con ciò di assolvere alla sua stessa funzione trascendente di uomo». E' evidente che l'identificazione della dottrina fascista con la filosofia vichiana era, per Tripodi, un mezzo usato al fine rafforzare la convinzione sulla necessità, imposta dai dubbi destati dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere con la cultura prevalente in Germania e di condurre all'approdo cattolico le vere ragioni dell'ideologia fascista. E' però incontestabile che le tesi di Tripodi erano un ottimo strumento per estinguere l'ipoteca che la filosofia tedesca aveva acceso sulla cultura italiana. Non a caso, nel dopoguerra, Tripodi occupò un posto di prima fila nel gruppo degli intellettuali dell'INSPE (Vecchio, Costamagna, Ottaviano, Marzio, Teodorani, Volpe, Sottochiesa, Tricoli, Siena, Grammatico, Rasi) l'istituto che progettava la trasformazione del MSI di Arturo Michelini in avanguardia di una moderna e rigorosa destra cattolica. L'attenzione prestata da Pio XII all'evoluzione del MSI in conformità alle tesi di Tripodi, aprivano le porte del futuro alla destra. Il congresso del MSI, che doveva tenersi a Genova, doveva, infatti, approvare in via definitiva la lungimirante linea culturale e politica di Tripodi, mandando a vuoto i progetti dell'oligarchia favorevole all'apertura a sinistra. Purtroppo la tollerata (dai democristiani) violenza della piazza comunista impedì lo svolgimento di quel congresso, respingendo il MSI nel sottosuolo dionisiaco del pensiero moderno e nelle magiche grotte del tradizionalismo spurio. La lunga immersione nell'area dell'indigenza filosofica impoverì a tal punto la cultura di destra che, quando la discesa in campo di Berlusconi offrì un'altra occasione all'inserimento nella politica di governo, la classe dirigente del MSI, ottusa dalla retorica almirantiana ed espropriata dal pensiero neodestro, non seppe produrre altro che le esangui e rachitiche tesi di Fiuggi.  Nato a Genova da Eleucadio e da Delfò, segui gli studi classici nella città natale. Ancora liceale, cominciò a collaborare a Energie nuove di Gobetti, con il quale aveva preso contatto epistolare, dicendosi lettore entusiasta del periodico e seguace della dottrina filosofica crociana. Gobetti, ormai orientato verso interessi più specificamente politici, affidò al giovane C. la trattazione sulla rivista dei temi filosofici. Su segnalazione di GOBETTI (si veda), Radice comincia ad accogliere i suoi scritti su L'Educazione nazionale.  In linea con l'orientamento pedagogico idealistico del Lombardo Radice, fin dall'inizio degli anni Venti il C. prese le distanze dal positivismo pedagogico con un contributo (Studi sul positivismo pedagogico, Firenze), nato proprio da un suggerimento del pedagogista siciliano che glielo aveva proposto come tema di studio.  È qui osteggiato un pensiero ispirato agli schemi dell'evoluzionismo deterministico e del positivismo scientifico; in particolare e avversato il meccanicismo naturalistico biologicoevolutivo (Spencer e Ardigò), cui viene opposta la concezione umanistica dell'educazione di un Angiulli, di un Siciliani, di un Gabelli. Un'idea di fondo anima le critiche del C.: è inutile ogni speculazione teoretica che non sappia apportare nuove indicazioni pedagogiche per il miglioramento delle condizioni di vita umana, sociale e pratica.  Nello stesso orizzonte critico degli Studi si muovono Le scuole di Lenin (Firenze), La pedagogia di Gioberti e la Guida bibliografica della pedagogia, specialmente italiana e recente, che faceva seguito alla Bibliografia ragionata della pedagogia (Milano) scritta in collaborazione con Radice.  Nutrito di idee democratiche, che gli facevano ritenere inadeguato per l'obiettivo della costruzione di una "nuova Italia" il vecchio quadro politico postunitario, il C. si impegnò politicamente partecipando alla costituzione a Genova di un gruppo democratico di sinistra, che aveva tra i leader Codignola. Collaborò sia all'Arduo, sia al quotidiano socialriformista Il Lavoro.  In particolare, tipico dei gruppo di pedagogisti che, in certo qual modo, si ponevano nell'ambito del pensiero gentiliano (verso cui anche il C. veniva avvicinandosi sulla scia del Lombardo Radice, sia pure su posizioni autonome), è il tema dell'educazione come strumento di realizzazione di una coscienza democratico-nazionale. Da qui, anche per l'influsso delle idee gobettiane, l'attenta considerazione di quanto veniva fatto in quel campo in Unione Sovietica, all'indomani della rivoluzione bolscevica. In Le scuole di Lenin l'ammirazione con cui il C. guardava al piano scolastico educativo diretto da Lunačarskij era determinata in concreto dalla considerazione che si trattava di una rivoluzione culturale unica nella storia dell'umanitàl tesa all'elevazione delle classi inferiori per farle partecipare alla guida della società; la critica più forte, propria della formazione laico-democratica del C., stava nella denuncia del carattere dogmatico delle idee del Lunačarskij, quando questi sosteneva che la sua scuola del lavoro non era disgiungibile dal sistema sociale comunista e dal controllo politico del partito. Conseguita la laurea in filosofia, ottenne presso l'università di Genova la libera docenza in storia della filosofia e vinse il concorso per le grandi sedi per la cattedra di filosofia, pedagogia ed economia negli istituti magistrali, ottenendo come sede Genova. Frattanto la collaborazione con Gobetti, che più che un sodalizio intellettuale aveva costituito un formativo comune impegno politico-sociale all'insegna del programma di democrazia liberale, lo portò in breve tempo allo scontro con il fascismo ormai trionfante.  è la diffida dei prefetto di Torino contro la Rivoluzione liberale (alla quale il C. collabora) e i suoi redattori. La conferma di questo impegno politico e intellettuale, il C. la offrì ulteriormente curando la pubblicazione postuma di Risorgimento senza eroi (Torino) del Gobetti e continuando a far uscire IlBaretti, pur orientando la rivista sempre più verso temi letterari e filosofici onde evitare scontri ancora più aspri con il regime. Nel 1926, grazie al Croce, che ormai era divenuto per lui - come per tanti altri antifascisti - "maestro di libertà", assunse la direzione della collana "Scrittori d'Italia" edita da Laterza. Nel maggio di quell'anno fu costretto a rinunciare alla collaborazione all'Enciclopedia Italiana, a cui era stato invitato dal Gentile, per gli atttacchi mossigli dalla stampa di regime.  Il dissenso dalla politica del fascismo ne provoco l'arresto; rinchiuso prima nelle carceri. di Marassi a Genova e quindi trasferito a S. Vittore a Milano, fu scarcerato. Venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Le accuse - come si legge in una lettera al Croce (in Il Dialogo) - erano tra l'altro di aver collaborato "al giornale socialistoide-democratico Il Lavoro" di Genova e di aver avuto rapporti con l'associazione antifascista Giovane Italia, insomma di essere "in una condizione di incompatibilità con le direttive generali del governo". Scagionato anche grazie all'intervento del Croce, il C. fu riammesso all'insegnamento e la libera docenza gli fu restituita con d. m. Venne però destinato all'istituto magistrale di Messina, dove prese servizio.  Dall'ottobre di quell'anno ottenne l'incarico di filosofia e storia della filosofia e di pedagogia presso il magistero dell'università di Messina. Mantenne questi incarichi finché vincitore di più concorsi, fu chiamato a coprire la cattedra di pedagogia nell'università di Catania. Passa alla cattedra di filosofia teoretica, conseguendo l'ordinariato.  Furono questi anni di studio intenso. Pur nel crocianesimo di base, si intravvede in Religione, teosofia, filosofia (Messina) e in Senso comune. Teoria e pratica (Bari) lo sforzo di plasmare un proprio e originale impianto teoretico.  In dialogo con i principali pensatori dell'idealismo tedesco e italiano, il C. si misura particolarmente con la crociana logica dei distinti. L'indagine si muove sul terreno dell'attività teoretico-pratica dello Spirito. Particolarmente Religione, teosofia, filosofia rappresenta questo tentativo compiuto dal C. per una revisione del sistema idealistico: vi è fatta emergere l'esigenza di un pensiero spirituale più attento da una parte alla concretezza dell'uomo e dall'altra alla ineffabilità di Dio. Perseguendo tale assunto, nella ricerca di un ordine della verità oltre la logica e la nozione di storia del Croce, il C. ripercorre in Senso comune le tappe storiche del pensiero occidentale, ricostruendo la genesi della dualità dello Spirito nella filosofia greca e poi seguendola nel suo sviluppo e nel suo problematicizzarsi nel pensiero moderno. La concezione della filosofia come educazione e storia, la stretta connessione tra la filosofia e la sua storia pongono il C. medianamente tra Croce e Gentile, e tuttavia nel senso di una sicura indipendenza dal loro pensiero. La sua posizione teoretica può essere così schematizzata: la teoresi è fondamentalmente caratterizzata dalla dialettica dei distinti, mentre la prassi genera lo scontro tra gli opposti; la sintesi dei distinti non è un tertium quid da essi distinto, ma consiste nella loro stessa inscindibile relazione. La loro circolarità consente, come riaffermerà in Ideologia (Catania), di guardare alla pratica come alla realizzazione della teoria, così che si può parlare e di un finalismo teoretico della pratica e di un finalismo pratico della teoria.  All'approfondimento critico dei neoidealismo italiano, il C. affianca l'approfondimento del rapporto tra ricerca filosofica e fede religiosa. Egli mantiene costante il dialogo tra filosofia, scienza e fede nelle trattazioni della piena maturità: Ideologia (Catania), Metalogica: filosofia dell'esperienza, Metafisica vichiana (Palermo), in cui è auspicata la possibilità della sopravvivenza del problema metafisico nell'orizzonte di una metafisica rinnovata, Conoscenza e metafisica. In quest'ultima opera è affrontato il rapporto verità-conoscere, con l'intento di delimitare i confini del sapere scientifico e di affermare razionalmente la capacità di intelligere la realtà della rivelazione. Qui la religione, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione della religione ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferita una distinta funzione teoretica. La piena adesione del C. allo spiritualismo cristiano, dunque, fa si che sia elusa la riduzione della filosofia a metodologia, senza dover rinunciare alla fondamentale esigenza di criticità, e che l'interesse si concentri su quelle istanze spiritualistiche, invero in lui presenti dagli anni giovanili sia come atteggiamento di vita - lo si evince dalle Lettere dal carcere - sia come ricerca originale di pensiero. In tal senso, l'adesione allo spiritualismo cristiano va dunque letta più nella prospettiva della continuità, dinamica e perciò trasformantesi e trasformante, che in quella della svolta.  Durante la sua lunga e proficua attività accademica, il C. ricoprì numerose cariche, tra cui quella di preside della facoltà di lettere e filosofia dell'università di Catania; fu presidente di sezione del British Council di Catania e presidente di sezione della Società filosofica italiana a Catania e a Palermo; fu anche presidente di sezione dell'Associazione pedagogica italiana. A Palermo si era stabilito definitivamente allorché venne chiamato prima alla cattedra di pedagogia e poi a quella di filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e filosofia.  Il C. morì a Palermo. Opere: Per un elenco completo si rinvia a Bibliografia degli scritti di C., a cura di T. Caramella, in Miscellanea di studi filosofici in memoria di C. (Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo), Palermo. Oltre alle opere citate ci limitiamo a ricordare qui: Bergson, Milano; Antologia vichiana, Messina, Breve storia della pedagogia, La filosofia di Plotino e il neoplatonismo, Catania; Autocritica, in Filosofi italiani contemporanei, a cura di Sciacca, Milano L'Enciclopedia di Hegel, Padova; La filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli; Introduzione a Kant, Palermo La pedagogia tedesca in Italia, Roma; Pedagogia. Saggio di voci nuove, Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Casellario politico centrale, Per l'epistolario del C. contributi in: Lettere dal carcere di C., in Giornale di metafisica, Carteggio con Croce e Gobetti, in Il Dialogo, Carteggio Radice-C., a cura di T. Caramella, Genova. Vedi inoltre: M.F. Sciacca, Profilo di C., in Annali della facoltà di magistero della università di Palermo,  Di Vona, Religione e filosofia nel pensiero giovanile di C., Conigliaro, Verità e dialogo nel pensiero di C., in Il Dialogo, Guzzo, C., in Filosofia, Sciacca, Il pensiero di C., in Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo, Sofia, Il dialogo di S. C. con gli uomini d'oggi, in Labor, Cafaro, Commemoraz. di C., in Nuova Riv. pedagogica, Piovani, La dialettica del vero e del certo nella "metafisica vichiana" di C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di C., Palermo Ganci, C., Raschini, Commemoraz. del prof. S. C., in Giornale di metafisica, Brancato, C.: senso fine e significato della storia, Trapani; V. Mathieu, Filosofia contemporanea, Firenze; P. Prini, La ontologia storico-dialettica di C., in Theorein, Pareyson, Inizi e caratteri del pensiero di C., in Giornale di metafisica, Corselli, La vita dello spirito nella filosofia di C., in Labor, Raschini, Storiografia e metafisica nella interpretazione vichiana di C., in Filosofia oggi; M. Corselli, La figura di C., in Labor, Sciacca, C. filosofo, pedagogista, educatore, in Pegaso. Annali della facoltà di magistero della università di Palermo. δικά, ώς φησιν Ηρακλείδης  ο Ποντικός εν τω περί Ερωτικών. ούτοι Φανέντες επιβουλεύοντες Φαλάριδί, Chariton& Melanippus και βασανιζόμενοι αναγκαζόμενοί τε λέγειν τους συν- confpirant  ειδότας,ουμόνονουκατείπον, αλλά καιτονΦάλα- adν.Ρhala ριν αυτόν είς έλεον ' των βασάνων ήγαγον, ως α π ο λύσαι αυτουςπολλά επαινέσαντα. διοκαιοΑπόλ. λων, ησθείς επί τούτοις, αναβολην του θανάτου το Φαλάριδίέχαρίσατο, τούτο έμφήνας τουςπυν θανομέ νουςτης Πυθία ςόπωςαυτόεπιθώνται έχρησέτεκαι cπερί των αμφί τον Χαρίτωνα, προτάξας του εξαμέ τρου το πεντάμετρον, καθάπερ ύστερον και Διονύσιος 'Αθηναίος εποίησεν, ο επικληθεις Χαλκους, εν τοις Έλεγείοις. έστιδεοχρησμόςόδε  ετε -- Ευδαίμων Χαρίτων και Μελάνιππος έφυ, θείαςαγητηρες έφαμερίοις φιλότατος. 1 Perperamέλαιονms. Εp. et moxα πολαύσαι1ns. A.proαπολύσαι. α> 737 Σ 2 Alibi άγητήρες. 2 amasius, ut ait Heraclides Ponticus in libro de Amatoriis. Hi igitur deprehensi insidias ftruxisse Phalaridi et tormentis subiecti quo coniuratos denunciare coge rentur, non modo non denunciarunt, fed etiam Phala rin ipsum ad misericordiam tormentorum commoverunt, ut plurimum collaudatos dimitteret. Quare etiam Apollo, delectatusfacto, moram mortisindullit Phalaridi, hoc ipsum declarans his qui ipsum de ratione, qua tyran num adgrederentur, consuluerunt: atque et iamde Charitone et Melanippo oraculum edidit, in quo pentame ter praepofitus hexametro erat; quemadmodum etiam poftea Dionysius Athenienfis, isqui Aeneuseft cognomi natus, in Elegiis fecit. Erat autem oraculum hocce Felix et Chariton et Melanippus erat, mortalium genti auctores coeleftis amoris. Santino Caramella. Keywords: il culto dell’eroe, gl’eroi, il culto degl’eroi, Niso ed Eurialo, Nicodemo, gl’eroi di Vico, “la verita in dialogo”, soggetto, intersoggetivita, lo spirito oggetivo, spiriti intersoggetivi, Apollo su Nicodemo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramella” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Caramello: la ragione conversazionale e l’implictatura conversazionale dell’interpretare – scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I love Caramello – he exemplifies all that I say about latitudinal and longitudinal unities of philosophy – Aquinas is a ‘great,’ and Caramello has dedicated his life to him!”  Studia al prestigioso liceo classico Gioberti di Torino, entra in seminario e riceve l'ordinazione presbiteriale con una speciale dispensa papale dovuta alla giovane età a cui aveva completato gli studi. Si laurea a Torino. Insegna a Torino, e Chieri. Studia e cura Aquino. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur.  Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum.  Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quæ, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.  His igitur præmissis quasi principiis, subiungit de his, quæ pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quæ sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivæ, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur.  Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles prætermisit tractatum de hypotheticis enu nciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quæ est genus negationis et affirmationis; et oratio, quæ est genus enunciationis.  Si quis ulterius quærat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiæ, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse præposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quæ divisionem continet, eadem ratione præponit affirmationi, quæ consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod præmittitur negatio, quia in iis quæ possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex æquo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum præponatur. Præmisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativæ complexæ vel incomplexæ, ideo præmittit tractatum de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, præmittit ordinem significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litteræ et cetera.  Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animæ passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic passiones animæ originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animæ passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quæ respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et cæteris animalibus, quæ per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant: sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quæ abstrahit ab hic et nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de præsentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quæ distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturæ.  Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quæ est immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota, non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici. Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus: quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quæ sunt in voce, notæ, idest, signa earum passionum quæ sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex præmissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis prædictis; hæc autem sunt voces significativæ; ergo oportet vocum significationem exponere.  Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quæ sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum prædictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Hæc autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quæ sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quæ tantum sunt in voce, sunt notæ. Vel, quia non omnes voces sunt significativæ, et earum quædam sunt significativæ naturaliter, quæ longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quæ sunt in voce, idest quæ continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quæ advenit rei naturali sicut materiæ, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quæ sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quæ sunt in ligno. Circa id autem quod dicit, earum quæ sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animæ communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quædam voces hominum, ut gemitus infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicæ. Sed nunc sermo est de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones animæ hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus res.  Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animæ vocat omnes animæ operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animæ passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.  Secundo, cum dicit: et ea quæ scribuntur etc., agit de significatione Scripturæ: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum præcedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quæ sunt in voce sunt signa passionum animæ, sicut et litteræ sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litteræ etc.; inducens hoc quasi signum præcedentis. Quod enim litteræ significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversæ voces apud diversos, ita et diversæ litteræ. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litteræ eorum quæ sunt in voce, sed ea quæ scribuntur: quia dicuntur litteræ etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litteræ; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quæ scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quæ sunt in voce, sunt signa eorum quæ sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quæ scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quæ sunt in voce. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litteræ etc., ostendit differentiam præmissorum significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litteræ naturaliter significant. Ea enim, quæ naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quæ sicut non sunt eædem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litteræ, ita nec voces naturaliter significant, sed ex institutione humana. Voces autem illæ, quæ naturaliter significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud omnes.  Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animæ naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eædem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animæ sunt eædem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hæ, scilicet voces, sunt notæ, idest signa; comparantur enim passiones animæ ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animæ passiones), et res etiam eædem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hæ, scilicet passiones animæ sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animæ similiter; passiones autem animæ dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litteræ autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem animæ oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione.  Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animæ, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eædem apud omnes animæ passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animæ conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexæ), quæ sunt eædem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicæ quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum hæ notæ sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo significatas.  Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus æquivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quæ significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animæ per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversæ apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum animæ per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.  Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animæ passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quædam significant verum vel falsum, quædam non. Et circa hoc duo facit: primo, præmittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus præambulæ sunt ordine naturæ vocibus, quæ ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiæ, quæ est circa intellectum, assignat differentiam, quæ est circa significationes vocum: ut scilicet hæc manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus.  Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativæ formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quædam significent sine vero et falso, quædam autem cum vero et falso.  Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima.  Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quæ circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quæ sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quæ nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem.  Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quæ est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Præterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicæ; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem.  Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet.  Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquæ veræ vel falsæ per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natæ sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis.  Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quælibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quælibet res naturalis per suam formam arti divinæ conformatur. Unde philosophus in I physicæ, formam nominat quoddam divinum.  Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suæ ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicæ quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem prædictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quæ significat verum intellectum, falsa autem quæ significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quædam, dicatur vera sicut et aliæ res. Unde hæc vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.  Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter.  Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex præmissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum.  Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quærenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primæ et secundæ personæ, et de verbo exceptæ actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio, licet non explicita.  Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus et quod in Græco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quæ exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum præsens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus præteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Postquam philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quæ est subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet prænoscere principia subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quæ est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quædam, quæ perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.  Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat.  Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex præmissis concludit quod nomen est vox significativa.  Sed cum vox sit quædam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quæ est ex natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiæ ex parte materiæ, in genere autem accidentium ex parte formæ: nam formæ artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas artificiales in abstracto.  Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.  Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quædam, et sic potest significari a nomine, sicut quælibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi.  Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus.  Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat præmissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primæ duæ particulæ manifestæ sunt ex præmissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, hæc pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quæ est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a læsione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositæ, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositæ.  Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Hæc autem ratio differentiæ est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet.  Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem prædictæ definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quædam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter.  Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quæ res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multæ similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est.  Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quædam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quæ æqualiter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimæra est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et prædicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est.  Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur.  Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quædam alia verba, scilicet impersonalia, quæ cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem.  Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est præmissa nominis definitio, quæ istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo hæc a nomine. Vel dicendum quod præmissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quædam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera.  Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quæ sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quæ dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat.  Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse prætermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quæ componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quædam orationes quæ componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quædam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quædam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari.  Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quæ de altero prædicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et prædicati, sed verbum semper est ex parte prædicati.  Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quæ interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Græco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quædam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhærens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quæ attribuuntur prædicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhærentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quædam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quæ significant ipsam inhærentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.  Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quæ accipitur ut res quædam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum.  Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quæ de altero prædicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notæ sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo.  Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhæret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhæreat, semper ponitur ex parte prædicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quæ dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod prædicatur; tum quia in omni prædicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua prædicatum componitur subiecto.  Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quæ de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter prædicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto prædicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quæ sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quæ dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto prædicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quæ de altero prædicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quæ prædicantur, quia cum prædicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quæ prædicantur, magis quam significent prædicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua prædicentur, quia omnis prædicatio fit per verbum ratione compositionis importatæ, sive prædicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter.  Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quædam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba præteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod prædictæ dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quæ supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quæ sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte prædicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita prædictæ dictiones significant remotionem actionis vel passionis.  Si quis autem obiiciat: si prædictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum.  Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba præteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est præteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat præsens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter præsens tempus, et non simpliciter præsens, ne intelligatur præsens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere præsens tempus quod mensurat actionem, quæ incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quæ consignificant tempus præteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in præterito vel futuro est secundum quid.  Dicuntur etiam verba præteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat præsens tempus; quia præteritum vel futurum dicitur per respectum ad præsens. Est enim præteritum quod fuit præsens, futurum autem quod erit præsens.  Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quæ fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quæ est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba præteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi præsentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personæ vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quæ sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed hæc non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quædam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et prædicari.  Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativæ significant intellectus. Unde proprium vocis significativæ est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit.  Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quæ est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quæ est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem.  Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quæ maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse.  Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Græco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens æquivoce dicitur de decem prædicamentis; omne autem æquivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed hæc expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie æquivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio æquivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem præsentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec præpositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quæ non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur hæc expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem hæc dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quæ habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quæ importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis.  Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quædam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quæ si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum.  Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formæ, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum præsens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quæ sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quæ est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum.  Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quæ secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quæ refertur ad intellectum compositum, alia quæ refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quæ componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio.  Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quædam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositæ. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositæ; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositæ. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod hæc definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quædam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quædam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quæ etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectæ, quam imperfectæ.  Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum.  Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quæ sunt syllabæ vel litteræ. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quæ est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quæ quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quædam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quædam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quæ sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabæ quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quæ imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabæ quæ possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.  Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter.  Huic autem rationi, quæ dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativæ sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativæ per instrumenta prædicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat ad placitum, idest secundum institutionem humanæ rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivæ, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quæ movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars hæc in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quæ provenit secundum ea quæ simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et cæteræ quidem relinquantur.  Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativæ est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duæ autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod hæc sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.  Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicæ, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro prædicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est.  Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur prætermissis, sciendum est quod perfectæ orationis, quæ complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum.  Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquæ aliæ orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istæ quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quæ significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam.  Deinde cum dicit: cæteræ igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliæ quatuor orationis species sunt relinquendæ, quantum pertinet ad præsentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricæ vel poeticæ scientiæ. Sed enunciativa oratio præsentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quæ sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quæ sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetæ plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quæ pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricæ vel poeticæ, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera.  Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quædam est una simplex, quædam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quæ sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam.  Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quæ supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quæ significat compositionem intellectus, est prior negativa, quæ significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quæ significat esse, prior est negativa, quæ significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.  Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quædam aliæ sunt unæ, non simpliciter, sed coniunctione unæ.  Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce prædicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius prædicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium.  Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen æqualiter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiæ et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quæ est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen æqualiter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est.  Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, præmittit quædam, quæ sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.  Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est præsentis temporis, vel ex casu verbi quod est præteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quædam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quæ sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa.  Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quæ de altero prædicantur. Prædicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Græcos propositio categorica, idest prædicativa. Denominatio autem fit a forma, quæ dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quædam enunciatio est una simpliciter, quædam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quæ est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit præsens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quæ est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicæ ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquæ, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel moræ. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multæ in locutione: et idem operatur interpositio moræ, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed prædicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quæ non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam prædicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter.  Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam prædictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem hæc simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis.  Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quæ unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quæ est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.  Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quæ quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quæ quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, hæc oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in prædicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litteræ est quod enunciatio una est illa, quæ unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quæ plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen æquivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit.  Sed hæc expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quæ est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quæ sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quæ unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quæ multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, hæc enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quæ sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quæ plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen hæc enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quæ multa significat quæ sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quæ non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quæ est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quædam est simpliciter una, in quantum unum significat; quædam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quædam sunt simpliciter plures, quæ neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans.  Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quæ unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quæratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quærenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra præmisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi.  Deinde cum dicit: harum autem hæc simplex etc., manifestat præmissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quæ unum de uno significat, et alia est quæ est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, hæc dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Hæc quidem simplex enunciatio est, quæ scilicet unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Hæc autem ex his coniuncta, quæ scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo præmissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum.  Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Hæc autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositæ enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem prædictæ divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum præsens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in præsenti.  Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce prædicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quæ significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur æquivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in præcedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus.  Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem æquivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiæ divisivæ generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quæ sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quæ est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa prædeterminata et solvit; ibi: in his ergo quæ sunt et quæ facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoc contradictio et cetera.  Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa.  Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Æthiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris præponit: inter quas negativam præmittit affirmativæ, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quæ opponitur negativæ falsæ, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quæ opponitur affirmationi falsæ, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per prædicatum insit vel non insit rei significatæ per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istæ quatuor differentiæ enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum præsentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba præteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quæ sunt extra præsens tempus, idest circa præterita vel futura, quæ sunt quodammodo extrinseca respectu præsentis, quia præsens est medium præteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex præmissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriæ, consequens est quod quælibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quæ sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quæ requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et prædicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem prædicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et prædicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quæ unum de uno significat; et ideo subdit: non autem æquivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quæ facit æquivocationem. Sunt autem et quædam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, præter eam quæ est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Hæc autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Æthiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte prædicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensuræ, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et hæc omnia designat cum subdit: et quæcumque cætera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quæ est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quæ sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, præmittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad prædictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Præmittit autem divisionem enunciationum quæ sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quædam sunt universalia, quædam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus prædicari, singulare vero quod non est aptum natum prædicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicæ, universale non est aliquid extra res existens. Item, in prædicamentis dicitur quod secundæ substantiæ non sunt nisi in primis, quæ sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullæ res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quæ subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quæ sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est hæc res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est hæc res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quæ est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animæ intellectivæ, quod est prædicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formæ intellectæ non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiæ, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formæ ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formæ; et ideo non dixit quod universale est quod prædicatur de pluribus, sed quod aptum natum est prædicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quæ nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum prædicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quæ non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatæ, sicut posuit Plato, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus prædicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus prædicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in prædictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed æquivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quædam sunt universalia, quædam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt hæc quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est prædicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturæ intellectæ, secundum quod comparat ipsam ad res, quæ sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quæ sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturæ humanæ etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei prædicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturæ universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel prædicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturæ communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem hæc tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quædam est una simpliciter, quædam vero coniunctione una. Quæ quidem est divisio analogi in ea de quibus prædicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quæ quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam prædicati ad quod fertur negatio; prædicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quæ sumitur secundum differentiam subiecti, quod prædicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam.  Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversæ oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera.  Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventæ sunt quædam dictiones, quæ possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo prædicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum prædicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventæ sunt quædam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto.  Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturæ universalis; et ideo hoc dicitur prædicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis prædicationibus adinventa est hæc dictio, omnis, quæ designat quod prædicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem prædicationibus adinventa est hæc dictio, nullus, per quam significatur quod prædicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Græco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo prædicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est hæc dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod prædicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem.  Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali prædicatur. Una quidem est, in qua de universali prædicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid prædicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali prædicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositæ.  De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione prædicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid prædicetur de eo ratione universalis naturæ; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis.  Si igitur tribus prædictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis.  Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera.  Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suæ universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariæ enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quæ maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo prædicatum dicitur de subiecto, quem designat hæc dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit hæc enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quæ est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem.  Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariæ enunciationes, sed illa quæ significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quæ ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen prædicatum non universaliter de eo prædicatur, quia non apponitur hæc dictio, omnis: quæ non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet prædicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem hæc expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariæ.  Sed hoc quod additur: quæ autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quæ competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariæ, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici.  Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem prædicati. Contingit enim quandoque quod prædicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiæ; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quæ significantur contingit esse contraria, sed ipsæ enunciationes non sunt contrariæ, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariæ opiniones quæ sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quæ est, quod aliquid non est bonum.  Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum prædicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitæ non sunt contrariæ secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturæ universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hæ enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal.  Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte prædicati, ex hoc scilicet quod universale prædicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod prædicatur aliquod universale, non est verum quod prædicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus prædicandi videtur repugnare prædicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod prædicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quæ sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur prædicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum prædicato, ad insinuandum quod prædicatum est in plus quam subiectum, et hoc præcipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quæ falsæ essent si prædicatum universaliter prædicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali prædicato universaliter prædicetur, idest in qua universali prædicato utitur ad universaliter prædicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum prædicta, quod hoc prædicatum animal, secundum singula quæ sub ipso continentur, prædicaretur de singulis quæ continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si prædicatum sit in plus quam subiectum, neque si prædicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quæ repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali.  Nec est instantia si dicatur quod hæc est vera, omnis homo est omnis disciplinæ susceptivus: disciplina enim non prædicatur de homine, sed susceptivum disciplinæ; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinæ.  Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte prædicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: hæc enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter hæc est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed hæc, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quædam aliæ tales enunciationes semper falsæ; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quæ habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quæ aliæ similes, sunt semper falsæ: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariæ vero et cetera.  Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum præmissa.  Dicit ergo primo quod enunciatio, quæ universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quæ non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde æquipollet ei quæ est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hæ duæ, quidam homo est albus (quæ est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quæ est universalis negativa), sunt contradictoriæ.  Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativæ. Unde relinquitur quod universali affirmativæ contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativæ universalis negativa.  Deinde cum dicit: contrariæ vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariæ; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria.  Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositæ ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quæcumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quæ videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quæcumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariæ, impossibile est quod sint simul veræ. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quæ contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quæ contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quæ contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariæ enunciationes non possunt simul esse veræ, sed earum contradictoriæ, a quibus removentur, simul possunt esse veræ. Deinde cum dicit: quæcumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativæ, supposita identitate prædicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.  Deinde cum dicit: quæcumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quæ videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quæcumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus.  In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiæ; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quæ totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quæ destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus præter res; et in libro de anima, quod non est sensus præter quinque. Sed istæ rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentæ sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod prædicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativæ sufficit ad veritatem indefinitæ affirmativæ. Et simili ratione veritas particularis negativæ sufficit ad veritatem indefinitæ negativæ, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suæ partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quæ per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quæ per se de universalibus prædicantur.  Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita prædicata: quæ quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istæ duæ veræ simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istæ duæ sunt simul veræ, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istæ duæ, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo hæc est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, hæc est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istæ duæ sunt simul veræ, homo est albus, homo non est albus.  Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa prædicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex prædictis manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quæ sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quæ dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera.  Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duæ negationes opponerentur; sicut huic affirmativæ, omnis homo est albus, videtur, secundum prædicta, hæc negativa opponi, nullus homo est albus, et hæc, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativæ, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quæ solummodo removet ipsam, ut patet ex sua æquipollenti, quæ est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativæ, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis.  Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quæ est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem prædicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, hæc sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud prædicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quæ est, Socrates est albus; neque etiam illa quæ est, Plato est albus, huic quæ est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quæ æquipollet particulari negativæ. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quæ est, non est homo albus. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem prædicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quæ dicta sunt, et concludit manifestum esse ex prædictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliæ sunt contrariæ, aliæ contradictoriæ; et dictum est quæ sint utræque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositæ, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quæ sunt vere contradictoriæ semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quædam non sunt contradictoriæ, sed contrariæ, quæ possunt simul esse falsæ. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quæ vere sunt contradictoria.  Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quæ sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quæ unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid prædicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quæ continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quæ continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quæ est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quæ sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quæ requiritur ad hoc quod quælibet harum sit una, si scilicet album, quod est prædicatum, significat unum: nam sola multitudo prædicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia prædicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi.  Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quæ sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale prædicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quæ significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale prædicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen.  Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istæ, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quæ componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam hæc copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed hæc, tunica est alba, prædicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur prædicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.  Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex præmissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quæ utuntur subiecto æquivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositæ enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in præmissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quædam est universalis, quædam particularis, quædam indefinita et quædam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quædam est de præsenti, quædam de præterito, quædam de futuro; et hæc etiam divisio potest accipi ex his quæ supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat præsens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus præteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quæ quidem divisio attenditur secundum habitudinem prædicati ad subiectum: nam si prædicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero prædicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat prædicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex præmissis concludens, quod in his quæ sunt, idest in propositionibus de præsenti, et in his quæ facta sunt, idest in enunciationibus de præterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter prædicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quæ scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter prædicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativæ, sed particularis; et sic oportet, secundum prædicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quæ etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid prædicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambæ esse simul veræ, ut supra ostensum est.  Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quæ sunt de præterito vel de præsenti: sed si accipiamus enunciationes, quæ sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quæ sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativæ determinate sunt veræ, ita in futuris sicut in præteritis et præsentibus; negativæ vero falsæ. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsæ et particulares sunt veræ, ita in futuris sicut in præteritis et præsentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in præsentibus vel præteritis.  Sed in singularibus et futuris est quædam dissimilitudo. Nam in præteritis et præsentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quæ sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in præsentibus et præteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quæ contingenter eveniunt, quæ autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota præsens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa.  Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat præmissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quæ sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Græco, probat consequentiam prædictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita præmissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur.  Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur.  Quædam enim contingunt ut in paucioribus, quæ accidunt a casu vel fortuna. Quædam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quædam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quæ permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quæ contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quæ sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quæ se habent æqualiter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex præmissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte.  Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum prædictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in præsentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de præsenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de præsenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quæ facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de præsenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiæ ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de præsenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit præsens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex præmissis quod omnia, quæ futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in præsenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quæ habet inclinationem ad suum effectum, quæ tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quæ etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit.  Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum prædictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo prædicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad hæc si verum est et cetera. Quæ talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de præsenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est prædicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in præmissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quæ adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quæ sequebantur; secundo, concludit quomodo circa hæc se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera.  Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quæ sequuntur; secundo, ostendit hæc inconvenientia ex prædicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si hæc possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex prædictis rationibus concludens, quod hæc inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quæ fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quæ sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quæ possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanæ, quæ sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quæ est propter divitias acquirendas), erunt superfluæ: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si hæc faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis.  Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit prædicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat præcogitatum, vel præordinatum de his quæ nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt.  Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostræ enunciationis non est causa existentiæ rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore præterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quæ fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiæ rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quæ nunc dicuntur, ad ea quæ futura sunt, quæ erat eorum, quæ prius dicebantur, ad ea quæ sunt præsentia vel præterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in præsenti vel in præterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.  Deinde cum dicit: quod si hæc possibilia non sunt etc., ostendit prædicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quæ dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quæ agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanæ, et omnia principia philosophiæ moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quæ agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quæ sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant.  Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quædam, quæ non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse.  Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quæ non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quædam sunt ad utrumlibet, quæ non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quæ scilicet contingit ut in pluribus.  Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt hæc secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat æqualiter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste hæc est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiæ, in his quidem quæ sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum.  Sed videtur hæc ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus cælestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiæ ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiæ, nisi etiam addatur ex parte potentiæ activæ quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo.  Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quæ est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multæ causæ ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causæ sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt.  Sed hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicæ interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam hæc est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquæ impeditur combustio.  Si autem utraque propositionum prædictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quæ nunc est in præsenti, vel iam fuit in præterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque prædictarum propositionum esse falsam, ut dictum est.  Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicæ dicitur.  Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem cælestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quæ hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quæ per se et directe non subduntur virtuti cælestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quæ est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti cælestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivæ in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni cælestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui cæli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis cælestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute cælestium corporum non provenit necessitas in his quæ per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturæ se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod hæc enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa præexistunt in corporibus cælestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam cælestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem.  Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum præordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant.  Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quæcumque in hoc mundo aguntur, etiam quæ videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiæ divinæ, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens.   Sed si providentia divina sit per se causa omnium quæ in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiæ eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quæ ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quæ vult, ex necessitate eveniant.  Procedunt autem hæ obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinæ voluntatis pensantur ad modum eorum, quæ in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant.  Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiæ considerandum est quod ad cognoscendum ea quæ secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quæ sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quæ totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de præcedentibus et subsequentibus, in quantum sunt præcedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos præcedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione præcedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium præcedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione præsentis, præteriti et futuri. Et ideo præsentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; præterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quæ sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quæ sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicæ.  Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce æternitatis constitutus, quæ est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quæ aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino æternaliter sic videt unumquodque eorum quæ sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quæ respicit ordinem causæ ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quæ fiunt in tempore; et tamen ea quæ in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter.  Similiter ex parte voluntatis divinæ differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quædam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiæ entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quæ transcendit ordinem necessitatis et contingentiæ. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiæ; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem contingentiæ, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quædam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quædam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quædam autem sunt, quæ non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quæ habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhæret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quædam vero sunt bona, quæ sunt appetibilia propter finem, quæ comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, hæc etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad hæc eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiæ in his quæ fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quæ sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et hæc quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiæ, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quæ ex prædictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quæ circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes veræ sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera. Dicit ergo primo, quasi ex præmissis concludens, quod si prædicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et hæc necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et hæc est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quæ sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.  Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quæ est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et hæc necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quæ est sub disiunctione.  Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativæ ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quæ ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quæcumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive æqualiter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quæ sint illæ res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quæ neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quæ sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen hæc vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quæ sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa.  Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex prædictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quæ sunt iam de præsenti et in his quæ non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quæ sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quæ possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsæ dictiones, quæ prædicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo hæc pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel prædicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad prædicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte prædicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: præter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera.  Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quæ de altero prædicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formæ. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet prædicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum.  Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formæ alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicæ, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum.  Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quædam enim est affirmatio, quæ constat ex nomine et verbo; quædam autem est quæ constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est.  Deinde cum dicit: præter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, præter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim præter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitæ particulæ, quæ quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quæ importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis præter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum præsentis temporis. Præteritum enim et futurum, quæ significant casus verbi, dicuntur per respectum ad præsens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est præteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quæcumque alia huiusmodi verba, sunt de numero prædictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad præsens.  Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex præmissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quæ sunt quatuor, sicut et illæ in quibus est subiectum non universaliter positum. Prætermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam prætermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quæ posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in præterito et in futuro, quæ circumstant præsens, est eadem ratio sicut et in præsenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte prædicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quædam quæ circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen prædicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliæ autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens prædicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione prædicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non prædicatur per se, quasi principale prædicatum, sed quasi coniunctum principali prædicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, prædicatur ut adiacens principali prædicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium prædicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quæ simul cum nomine prædicato facit unum prædicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres.  Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens prædicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in præmissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens prædicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis prædicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut hæc est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativæ particulæ ad hoc verbum est, quod est nota prædicationis.  Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet prædicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quælibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.  Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duæ quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duæ sunt oppositiones, quando est tertium adiacens prædicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illæ in quibus est, tertium adiacens, prædicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duæ quidem etc., ostendit habitudinem prædictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duæ dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Græco habetur, sicut privationes; aliæ vero duæ minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest prædicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim prædicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duæ enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quæ dicuntur simplices. Quandoque vero prædicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duæ aliæ, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quæ dicuntur infinitæ. Quandoque vero prædicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duæ aliæ, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quæ dicuntur privativæ. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duæ enunciationes earum, quas præmiserat scilicet illæ, quæ sunt de infinito prædicato, se habent ad affirmationem et negationem, quæ sunt de prædicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illæ, quæ sunt de prædicato privativo. Illæ enim duæ, quæ sunt de prædicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quæ sunt de finito prædicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quæ est affirmatio de infinito prædicato, respondet secundum consequentiam negativæ de prædicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito prædicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativæ de finito prædicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quæ sunt de infinito prædicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo prædicato respondet secundum consequentiam negativæ de finito prædicato, scilicet hæc, homo est iniustus, ei quæ est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativæ, scilicet hæc, homo non est iniustus, ei quæ est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illæ, quæ sunt de finito prædicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito prædicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo prædicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo duæ, scilicet quæ sunt de infinito prædicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito prædicato, sicut privationes, idest sicut illæ quæ sunt de privativo prædicato. Sed duæ aliæ quæ sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duæ vero, minime, referens hoc ad illas quæ sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum præmisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito prædicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duæ quidem et cetera. Duæ vero, minime; ubi datur intelligi quod utræque duæ intelligantur in præmissis. Illæ autem quæ sunt de infinito subiecto non includuntur in præmissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur.  Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod prædictarum quatuor propositionum duæ, scilicet quæ sunt de infinito prædicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativæ affirmationes seu negationes. Hæc enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quæ est de infinito prædicato. Duæ vero, quæ sunt de finito prædicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Hæc enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et hæc, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: hæc igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quæ in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quæ sunt de finito vel infinito vel privativo prædicato, alium sensum accipit.  [Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere prædicari potest: sicut hæc enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter hæc enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quæ ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiæ; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiæ, sed etiam de eo qui penitus non est homo: hæc enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen hæc est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiæ, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiæ neque habent habitum iniustitiæ.  His igitur visis, facile est exponere præsentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum prædictarum, duæ quidem, scilicet infinitæ, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duæ privativæ: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quæ est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quæ est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quæ est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quæ est etiam privativarum.  Sequitur, duæ autem, scilicet simplices, quæ relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor præmissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativæ se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativæ se habent ad infinitas.  Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in prædicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litteræ Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor præmissarum, duæ quidem, scilicet affirmativæ, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duæ vero, scilicet negativæ, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativæ, sicut ex affirmativis sequebantur negativæ. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativæ sicut infinitæ.  Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor prædictæ enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum prædicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod prædictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duæ aliæ negativæ. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quædam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur hæc enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quæ est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duæ aliæ infinitæ, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes.  Ultimo autem concludit quod prædictæ enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiæ, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quæ sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte prædicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte prædicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod prædicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. BOEZIO. COMMENTARII in LIBRUM ARISTOTELIS IIEPI EPMHNEIAS RECENSUIT CAROLUS MEISER. PARS POSTERIOR SECUNDAM EDITIONEM ET INDICES CONTINENS. CHE T HILLr L,v-LIPSIÆ IN ÆDIBUS B. G. TEUBNERI. LIPSIÆ: B. G. TETJBNERI. In secundæ editionis textu recensendo lii libri manu scripti mihi præsto fuerunt: S codex (Salisb. 10) bibliothecæ Palatinæ Vindobonensis (Endlicheri) qui continet f. 1— 8V versionem continue scriptam libri Aristotelici itEQi EQiirjvecag, quam littera 2J signavi, deinde f. 9— 176v sex libros Boetii commentariorum. F codex (Frisingensis 166) Monacensis 6366  s. XI  et   X:  vetustior  manus  s.  X  incipit  a  f. 33  (p.  352  editionis  Basileensis  = nostræ editionis). T codex (Tegernseensis) Monacensis s. XI, qui f. 1 56v priorem editionem expositionis BOEZIO, f. 57v—65v versionem continuam, quam 1. % signavi, f. 66v191 secundam editionem complectitur. E  codex  (Ratisb.  S.  Emm.  582)  Monacensis  14582  s. XI. Præter hos quattuor codices, quorum plenam  scripturæ discrepantiam studio legentium proposui, hi quattuor alii libri a  mehic aut illic inspecti et difficilioribus locis excussi sunt: X codex Einsidlensis  301 s. X, in quo non pauca desiderantur: nam desunt  p. 371, 17  huius  editionis  conposita  378, 6 sit, 395, 21 possibile 410, 17 non necessarium, postremo  desinit  in  verba  p.  417,  19  de  contingenti  et  de  possi  (sic),  ut  finis  quinti  et  sextus  liber  totus  perierit. J codex Einsidlensis 295 s. XI. IV PRÆFATIO. G  codex  Sangallensis  830  s.  XI.   B  codex  Bernensis  332  s. XII,  in  quo desunt p. 383, 1  ut  in  eo    434,  3  et  dicit. Hos omnes  codices  ex  uno  eodemque  fonte  fluxisse  inde  apparet,  quod  eædem  in  omnibus  lacunæ,  eædem  interpolationes,  eadem  vitiorum  genera  deprehenduntur,  et  de  lacunis  quidem  conferas: p. 70, 15. 161, 18. 208, 22. 288, 7. 382, 8. 432, 9, præterea p. 126, 8. 267, 12. 290, 18. 312, 14. 341, 3. 447, 9. 482, 14. 489, 7, de interpolationibus autem — 13. iisdem vero cunctos vitiis foedatos esse ut demonstrem, satis erit  unum  aut  alterum  ex  plurimis  passim  obviis  proferre  exemplum,  nam  et  p.  361,  ubi  Peripatetica  interrogationis  divisio  proditur,  cum  in  codicibus  nostris  v.  8  sqq.  legatur:  'non dialecticæ autem interrogationis duæ sunt species, sicut audivimus docet 5, manifestum est pro vocabulo corrupto audivimus 5 Eu de mus restituendum fuisse,  23 quin recte scripserim: ad tenacioris memoriæ subsidium 5, cum codices inperversa scritione  t  elatior is consentiant, quis est qui dubitet? confer præterea p.237, 25 28  locum illum in omnibus æqualiter libris turbatum. Pro fundamento autem textus constituendi codicem S habui,  omnium longe præstantissimum, qui non raro ceteris fidelius veræ scripturæ vestigia servaverit, confer e. c. p.  500, 9, ubi huius codicis lectio a bonum 5 propius ad verum ad unum 5 accedit quam reliquorum ad bonum 5, hoc unum dolendum est, quod a correctore quodam, quamquam multa emendata sunt, tamen ipsis locis difficillimis ita rasuris depravatus est, ut quid primitus in eo scriptum fuerit sæpe dinosci non possit, nec tamen multum  interest, cum propter similitudinem ceterorum codicum fere semper quid S habuerit ex aliis suspicari liceat. V Codici S plerumque consentit F, nisi quod in hoc librarius interdum pravo varietatis studio et verba transposuisse et pro solitis rariora vocabula inculcasse videtur, nam cum hic codex  p. 395, 20 pro voce  Socratem mire elimannum posueri, quod aperte falsum est, iure in dubium vocari potest, num recte aliis locis hunc codicem solum contra ceterorum consensum secutus sim. quare hos locos notare velim et quid F habeat, quid ceteri adscribam:  F ceterip.  195,  21 autumant putant 208,  25 itidem similiter 212, 17  infit  dicit   223, 1 potiores meliores   246,  20  itidem similiter. Ad S et  F libros optimos proxime accedit  E, et ipse optimæ notæ idemque  pulcherrime  et  diligentissime  scriptus,  a  secunda  manu  et  in  S  (=  S2)  et  in  E  (=  E2),  rarius  in  F  (=  F2)  multa egregie sunt emendata. N J G et ipsi in optimis numerandi sunt et intima cognation cum  S  F  E  coniuncti,  sed vix quidquam novi ex iis elicitur, quod non in ceteris reperiatur.  Minus fidei codici  T tribuendum  est, quippe qui fere semper cum secunda manu codicis G  (=  G2)  consentiat,  ut quæ  in  G  supra  lineam  vel  in  margine  leguntur  in  T  in  textum  irrepserint,  quare  nec  interpolationibus  vacat  et  variæ  lectiones  promiscue  iuxta  positæ  inveniuntur,  sunt  tamen  quæ  in  hoc  codice  melius  quam  in  ceteris  servata  videantur. Minimæ  auctoritatis  et  omnium  deterrimus  est  codex  B  (plerumque  =  E2),  qui  pauca  emendavit,  plurima  demendo  addendo  mutando  turbavit  ac  miscuit.   Ut  in  prima,  sic  in  secunda  editione  lemmata  non  plenum  Aristotelis  textum  exhibent,  sed  pauciora  in  secunda  editione  desiderantur,  quorum  quædam  in  E   Boetii  comment.  II.  a**VI PRÆFATIO. a  secunda  manu  in  margine  et  in  B  sunt  addita,  ceteram  B  sæpius  prima  tantum  et  postrema  Aristotelis  verba  expositioni  BOEZIO præmittit,  quæ  vocula  'usque5  (vel  'reliqua  usque5)  iunguntur  (cf.  p.  227,  13    26). De versione BOZIO ana libri Aristoteliei  Ttegi  eQ[ir}-  vaiccg eiusque a nostro Aristotelis textu discrepantia in Fleckeiseni annal. vol. CXVII . 247 — 253  disputavi.   Monachii  mense  Martio  a.  MDCCCLXXX.    Car.  Meiser. Boezio. IH LIBRVM ARISTOTELIS nEPI EPMHNEIAS  COMMENTARII. SECVNDA EDITIO. BOEZIO (vedasi) comment.  S = codex (Salisb. n. 10) Vindobonensis n. 80.  ( E — præmissa  translatio).  F  =  codex  (Frisingensis  n.  166)  Monacensis  T  =  codex  (Tegernseensis)  Monacensis  (X  =  præmissa  translatio).   E  =  codex  (Ratisb.  S.  Emm.  n.  582)  Monacensis  n.  14582.  N  = codex  Einsidlensis  n. 301.  J  =  codex  Einsidlensis  n.  295.   G  =  codex  Sangallensis  n.  830.  B  =  codex  Bernensis  n.  332.  b  =  editio  Basileensis  a.  1570. BOEZIO COMMENTARIORVM  IN  LIBRVM  ARISTOTELIS  IIEPI  EPMHNEIA2   SECVNDÆ  EDITIONIS   LIBER  PRIMYS.  Alexander in commentariis suis hac se inpulsum causa pronuntiat sumpsisse longissimum expositionis laborem, quod in multis ille a priorum scriptorum sententiis dissideret: mihi maior persequendi operis  causa est, quod non facile quisquam vel transferendi vel etiam commentandi continuam sumpserit seriem, nisi  quod Vetius Prætextatus priores  BOEZIO VIRI ILLVSTRIS EX CONSVLV ORDINE  (CONS  ORD F) IN PERIERMENIAS ARISTOTOLIS (ARESTOTELIS F) EDITIONIS SECVNDÆ  LIBER I INCIPIT. SF  A-M-S-B-  SECVNDA ÆDITIO  IN LIBRVM PERI HERMENIAS INCIPIT. GT  BOEZIO VIRI  ILL ÆDITIONIS  SCDÆ  IN PERIERMENIAS  ARIST-  LIB  I INCIPIT.  J  BOEZIO VIRI CLARISSIMI ET ILLVSTRIS EX CONSVLARI ORDINE  PATRICII SCDÆ EDITIONIS  EXPO SITIONV IN ARISTOTELIS PERIHERMENIAS INCIPIT  LIBER I  E titulum om. NB  1 Alexander  longissimum  om. N 2 longissimg  T 4  dissidet  F 6  etiam  om.  F  1*  ed.Bas 5\ 4  SECVNDA  EDITIO postremosque  analyticos non vertendo Aristotelem LATINO SERMONE tradidit, sed transferendo Themistium, quod qui utrosque legit facile intellegit. ALBINO quoque de isdem rebus  scripsisse perhibetur, cuius ego geometricos quidem libros editos scio, de  DIALECTICA uero diu multumque  quæsitos reperire non valui, sive igitur ille omnino tacuit, nos prætermissa dicemus, sive aliquid scripsit, nos  quoque docti viri imitati studium in eadem laude versabimur. sed quamquam multa sint Aristotelis, quæ SUBTILISSIMA PHILOSOPHIÆ arte celata sint, hic tamen ante omnia liber nimis et acumine sententiarum et verborum brevitate constrictus est.  quocirca plus hic quam in X prædicamentis expositione sudabitur. Prius igitur quid  VOX sit definiendum est. hoc enim perspicuo et manifesto omnis libri patefiet intentio. VOX est æris per linguam percussio, quæ per quasdam gutturis partes, quæ arteriæ vocantur, ab animali profertur,  sunt enim quidam alii  SONI,  qui eodem perficiuntur flatu, quos lingua non percutit, ut est tussis, hæc enim flatu fit quodam per arterias egrediente, sed nulla linguæ inpressione formatur atque ideo nec ullis subiacet elementis, scribi enim nullo modo potest, quocirca vox hæc non dicitur, sed tantum sonus, illa quoque potest esse definitio vocis, ut eam dicamus SONUM esse cum quadam imaginatione SIGNIFICAND, vox namque cum emittitur, SIGNIFICATIONIS alicuius causa profertur,  tussis  vero cum sonus sit, nullius SIGNIFICATIONIS causa  subrepit  3 Qu§ qui  T 4  eisdem E 5  ergo  T  6  repp.   sic  semper  codices  7  omnino  ille  T  12  nimis  tacumine  T  16  omnis  om.  F  17  intentio  de  voce  SG-J  et  in  marg.  T  definitio  vocis  E  diff  vocis  F2  19  guturis  F  29  alicuius    SIGNIFICATIONIS  G2  in  marg.  tusis  F  30  subripit  S  surripit  GT    I. 5 potius quam profertur, quare quoniam noster flatus ita sese habet, ut si ita percutitur atque formatur, ut eum lingua percutiat, vox sit: si ita percutiat, ut terminato quodam et circumscripto sono vox exeat, LOCUTIO fit quæ Græce dicitur  Xs%ig. locutio enim est ARTICULATA VOX  (neque enim hunc sermonem id est  Xe%iv  dictionem  dicemus, idcirco quod  cpccGiv  dictionem  interpretamur,  Xi%iv  vero locutionem),  cuius  locutionis  partes  sunt litteræ,  quæ cum iunctæ fuerint, unam efficiunt vocem coniunctam conpositamque, quæ locutio prædicatur. sive autem aliquid quæcumque vox SIGNIFICET,  ut  est  hic  sermo  “homo”,  sive omnino nihil, sive positum alicui nomen SIGNIFICARE possit,  ut  est  “HLITYRI” (hæc enim vox per se cum  nihil SIGNIFICET, posita tamen ut alicui nomen  sit  SIGNIFICABIT),  sive per se quidem nihil SIGNIFICET, cum aliis vero iuncta designet, ut sunt coniunctiones:  hæc omnia locutiones vocantur, ut sit propria locutionis forma vox conposita quæ litteris describatur, ut igitur sit  locutio, voce opus est id est eo sono quem percutit lingua, ut et vox ipsa sit per linguam determinata in eum sonum qui inscribi litteris possit, sed ut hæc locutio SIGNIFICATIVA  sit,  illud quoque addi oportet, ut sit aliqua  significandi imaginatio, per quam id quod in voce vel in locutione est proferatur: ut certe ita dicendum sit: si  in  hoc flatu, quem per arterias emittimus, sit linguæ sola percussio, vox est; sin vero talis percussio sit, ut in litteras  redigat sonum, locutio; quod si vis quoque quædam imaginationis  adda-   1 quoniam  dei. S2  om.  F  2  percutitur  atque  formatur  g2p2g2g.  percuti  atq.  formari  SFEN,  percuti  atq.  formari  possit  T  (possit  supra  lin.  GJ)  ut  cu  eu  B  3  sit]  est  STGNJ  ( corr.  S2)  5  fit]  sit  S2FE2  lexis  codices,  item  6   et  8  lexin,  7  phasin  9  literæ  in  marg.  S  quæ  coniunctæ  S,  corr.  S2  13  alicuius  SF  14  blythyri  SG  blithyri  NT  blytbiri  EF?  {in  fine  suprascr.  s  F)  21  et  ut  b  22  scribi?  28  fit  T    5   10   15   20    6   tur,  illa  SIGNIFICATIVA vox redditur. concurrentibus igitur  his  tribus: linguæ percussione, articulato vocis sonitu, imaginatione aliqua  proferendi fit interpretatio,  interpretatio namque est vox articulata per se ipsam 5  SIGNIFICANS, quocirca non omnis vox interpretatio est. sunt  enim ceterorum animalium voces, quæ interpretationis vocabulo non tenentur, nec omnis locutio interpretatio est,  idcirco quod  (ut dictum est) sunt locutiones quædam,  quæ significatione careant et cum per se quædam non  significent, iunctæ tamen cum aliis significant, ut coniunctiones. interpretatio autem in solis per  se significativis et articulatis vocibus permanet. quare convertitur, ut quidquid sit interpretatio, illud  significet,  quidquid significat, interpretationis vocabulo nuncupetur, unde etiam ipse quoque Aristoteles in libris quos  de poetica scripsit locutionis partes esse syllabas vel etiam coniunctiones tradidit, quarum syllabæ in eo quod sunt syllabæ nihil omnino significant, coniunctiones vero consignificare quidem possunt, PER SE VERO NIHIL DESIGNANT,  interpretationis vero partes hoc libro constituit nomen et verbum, quæ scilicet per se ipsa SIGNIFICANT,  nihilo minus quoque orationem, quæ et ipsa cum vox sit ex significativis partibus iuncta significatione non caret quare quoniam non de oratione sola, sed etiam de verbo et nomine, nec vero de sola locutione, sed etiam de SIGNIFICATIVA  locutione, quæ est interpretatio, hoc libro ab Aristotele tractatur,  id circo quoniam in  16 Ar. Poet. c.  20.    1 significatiua  b:  significatio  SG-TE,  significatione  FS1 2E2?  redditur  uox  T  4  interpretatio  om.  SNF,  in  marg.  addunt  GE  quæ  namq;  S2F  10  iunctæ  F:  iuncta  ceteri  14  illud  quoq;  E  16  arte  poetica  S2FE  23  post  orationem  addit  partem  esse  tradidit  S2F  cum  om.  T  28  in  hoc  S2F   ab  om.  T    I. 7    verbis atque nominibus et  in significativis locutionibus nomen interpretationis aptatur, a communi nomine eorum, de quibus hoc  libro  tractabitur,  id  est  ab  interpretatione,  ipse  quoque  de  interpretatione  liber  inscriptus  est.  cuius  expositionem  nos  scilicet  quam  5  maxime  a  Porphyrio  quamquam  etiam  a  ceteris  transferentes  Latina  oratione  digessimus,  hic  enim  nobis  expositor  et  intellectus  acumine  et  sententiarum  dispositione  videtur  excellere,  erunt  ergo  interpretationis  duæ  primæ  partes  nomen  et  verbum,  his  enim  10  quidquid  est  in  animi  intellectibus  designatur;  his  namque  totus  ordo  orationis  efficitur,  et  in  quantum  vox  ipsa  quidem  intellectus  significat,  in  duas  (ut  dictum  est)  secatur  partes,  nomen  et  verbum,  in  quantum  vero  vox  per  intellectuum  medietatem  subiectas  intellectui  res  demonstrat,  significantium  vocum  Aristoteles  numerum  in  X  prædicamenta  partitus  est.  atque  hoc  distat  libri  huius  intentio  a  prædicamentorum  in denariam  multitudinem  numerositate  p.  291  collecta, ut hic quidem tantum de numero SIGNIFICANTIUM vocum quæratur,  quantum  ad  ipsas  attinet  voces,  quibus  significativis  vocibus  intellectus  animi  designentur,  quæ  sunt  scilicet  simplicia  quidem  nomina  et  verba,  ex  his  vero  conpositæ  orationes:  prædicamentorum  vero  hæc  intentio  est:  de  significativis  rerum  vocibus  in  tantum,  quantum  eas  medius  animi  SIGNIFICET  intellectus,  vocis  enim  quædam  qualitas  est  nomen  et  verbum,  quæ  nimirum  ipsa  illa  decem  prædicamenta  significant,  decem  namque  prædicamenta  numquam  sine  aliqua  verbi  qualitate  vel  30  nominis  proferentur,  quare  erit  libri  huius  intentio  de  significativis  vocibus  in  tantum,  quantum  con-   1  in  om.  E  3  in  hoc  S2F  9 dispositio  S  corr.  S2  10 partes  primæ  T  11  intellectus  F  corr.  F1  12  totius  F  18  in  hoc  T  20  in  tantum?  26  uocibus  tractare  F,  uoc.  dicere  TE, tractare inmarg. S  31proferuntur  S2F  32  signatiuis S  corr. S2 8 SECVNDA  EDITIO ceptiones  animi  intellectus  que  significent,  de  decem  prædicamentis  autem  libri  intentio  in  eius  commentario  dicta  est,  quoniam  sit  de  significativis  rerum  vocibus,  quot  partibus  distribui  possit  earum  signifi-  5  catio  in  tantum,  quantum  per  sensuum  atque  intellectuum  medietatem  res  subiectas  intellectibus  voces  ipsæ  valeant  designare,  in  opere  vero  de  poetica  non  eodem  modo  dividit  locutionem,  sed  omnes  omnino  locutionis  partes  adposuit  confirmans  esse  locu-  10  tionis  partes  elementa,  syllabas,  coniunctiones,  articulos,  nomina,  casus,  verba,  orationes,  locutio  namque  non  in  solis  significativis  vocibus  constat,  sed  supergrediens  significationes  vocum  ad  articulatos  sonos  usque  consistit,  quælibet  enim  syllaba  vel quodlibet  nomen  vel  quælibet  alia  vox,  quæ  scribi  litteris  potest,  locutionis  nomine  continetur,  quæ  Græce  dicitur  sed  non  eodem  modo  interpretatio.  huic  namque  non  est  satis,  ut  sit  huiusmodi  vox  quæ  litteris  valeat  adnotari,  sed  ad  hoc  ut  aliquid  quoque  significet,  prædicamentorum  vero  in  hoc  ratio  constituta  est,  in  quo    duæ  partes  interpretationis  res  intellectibus  subiectas  designent,  nam  quoniam  decem  res  omnino  in  omni  natura  reperiuntur,  decem  quoque  intellectus  erunt,  quos  intellectus quoniam  verba  nominaque  significant,  decem  omnino  erunt  prædicamenta,  quæ  verbis  atque  nominibus  DESIGNENTUR,  duo vero quædam id est nomen et verbum,  quæ  ipsos  significent  intellectus,  sunt  igitur  elementa  interpretationis  verba  et  nomina,  propriæ  vero  partes  30  quibus  ipsa  constat  interpretatio  sunt  orationes,  orationum  vero  aliæ  sunt  perfectæ,  aliæ  inperfectæ.   7  Ar.  Poet.  c.  20.    3  pro  quoniam:  cum  F  4  quod  F  7  arte  poetica  FE2,  arte  in  marg.  S  17  lexis  FTE  31  aliæ  uero  inp.  TE,  aliæ  inperf.  om.  S  in  marg.  addit  S2    I.    9    perfectæ  sunt  ex  quibus  plene  id  quod  dicitur  valet  intellegi,  inperfectæ  in  quibus  aliquid  adhuc  plenius  animus  exspectat  audire,  ut  est  Socrates  cum  Platone.  nullo  enim  addito  orationis  intellectus  pendet  ac  titubat  et  auditor  aliquid  ultra  exspectat  audire,  perfectarum  vero  orationum  partes  quinque  sunt:  deprecativa  ut  Iuppiter  omnipotens,  precibus  si  flecteris  ullis,  Da  deinde  auxilium,  pater,  atque  hæc  omina  firma,  imperativa  ut  Yade  age,  nate,  voca  Zephyros  et  labere  pennis,  interrogativa  ut  Dic  mihi,  Damoeta,  cuium  pecus?  an  Meliboei?  vocativa    0  pater,  o  hominum  rerumque  æterna  potestas,  enuntiativa,  in  qua  veritas  vel  falsitas  invenitur,  ut  Principio  arboribus  varia  est  natura  serendis,  huius  autem  duæ  partes  sunt,  est  namque  et  simplex  oratio  enuntiativa  et  conposita.  simplex  ut  dies  est,  lucet,  conposita  ut  si  dies  est,  lux  est.  in  hoc  igitur  libro  Aristoteles  de  enuntiativa  simplici  oratione  disputat  et  de  eius  elementis,  nomine  scilicet  atque  verbo,  quæ  quoniam  et  significativa  sunt  et  significativa  vox  articulata  interpretationis  nomine  continetur,  de  communi  (ut  dictum  est)  vocabulo  librum  de  interpretatione  appellavit,  et  Theophrastus  quidem  in  eo  libro,  quem  de  adfirmatione  et  negatione  conposuit,  de  enuntiativa  oratione  tractavit,  et  Stoici  quoque  in  his  libris,  quos  ttsqI  a^tco^uzcov  appellant,  de  isdem   7  Yerg.  Æn.  II  689.  691  9  Yerg.  Æn.  IY  223   11  Yerg.  Ecl.  III  1  12  Yerg.  Æn.  X  18  14  Yerg.   Georg.  II  9    9  omnia  TE  10  pinnis  S^1  11  damgta  T  12   melibei  T  ut  b  :'om.  codices,  alterum  o  om.  SFE1  15   creandis  Vergilii  codices  16  et  om.  E  17  est  et  conp.  S2FE2  lux  est  F2E2  21  uox  et  art.  S2FE2  27  peri  axiomaton  codices  5 10 15 20 25  nihilominus  disputant,  sed  illi  quidem  et  de  simplici  et  de  non  simplici  oratione  enuntiativa  speculantur,  Aristoteles  vero  hoc  libro  nihil  nisi  de  sola  simplici  enuntiativa  oratione  considerat.  Aspasius  quoque  et  5  Alexander  sicut  in  aliis  Aristotelis  libris  in  hoc  quoque  commentarios  ediderunt,  sed  uterque  Aristotelem  de  oratione  tractasse  pronuntiat,  nam  si  oratione  aliquid  proferre  ut  aiunt  ipsi  interpretari  est,  de  interpretatione  liber  nimirum  veluti  de  oratione  per  scriptus  est,  quasi  vero  sola  oratio  ac  non  verba  quoque  et  nomina  interpretationis  vocabulo  concludantur.  æque  namque  et  oratio  et  verba  ac  nomina,  quæ  sunt  interpretationis  elementa,  nomine  interpretationis  vocantur,  sed  Alexander  addidit  inperfecte  sese  habere  libri  titulum:  neque  enim  designare,  de  qua  oratione  perscripserit,  multæ  namque  ut  dictum  est  sunt  orationes;  sed  adiciendum  vel  subintellegendum  putat  de  oratione  illum  scribere  philosophica  vel  dialectica  id  est,  qua  verum  falsumque  valeat  expediri sed  qui  semel  solam  orationem  interpretationis  nomine  vocari  recipit,  in  intellectu quoque ipsius  inscriptionis  erravit,  cur  enim  putaret  inperfectum  esse  titulum,  quoniam  nihil  de  qua  oratione  disputaret  adiecerit?  ut  si  quis  interrogans  quid  est  homo?  alio respondente  animal  culpet  ac  dicat  inperfecte  illum  dixisse,  quid  sit,  quoniam  non  sit  omnes  differentias  persecutus,  quod  si  huic,  id  est  homini,  sunt  quædam  alia  communia  ad  nomen  animalis,  nihil  tamen  inpedit  perfecte  demonstrasse,  quid  homo  esset,  eum  qui  animal  dixit:  sive  enim  differentias  addat  quis  sive  non,  hominem  animal  esse  necesse  est.  eodem  quoque  modo  et  de  oratione,  si  quis  hoc  concedat  primum,  nihil  aliud  interpretationem  dici  nisi  orationem,   5  alios  libros  in  hunc?  21  recepit?  21.22  scriptionis  S^1  23.  24  adiecit  T  26  non  o.  diff.  sit  E  30  addit   T  33  interpretatione  F I. 11 cur  qui  de  interpretatione  inscripserit  et  de  qua  interpretatione  dicat  non  addiderit  culpetur,  non  est.  satis  est  enim  libri  titulum  etiam  de  aliqua  continenti  communione  fecisse,  ut  nos  eum  et  de  nominibus  et  verbis  et  de  orationibus,  cum  bæc  omnia  uno  interpretationis  nomine  continerentur,  supra  fecisse  docuimus,  cum  bic  liber  ab  eo  de  interpretatione  notatus  est.  sed  quod  addidit  illam  interpretationem  solam  dici,  qua  in  oratione  possit  veritas  et  falsitas  inveniri,  ut  est  enuntiativa  oratio,  fingentis  est  ut  ait  Porphyrius  significationem  nominis  potius  quam  docentis,  atque  ille  quidem  et  in  intentione  libri  et  in  titulo  falsus  est,  sed  non  eodem  modo  de  iudicio  quoque  libri  buius  erravit.  Andronicus  enim  librum  bunc  Aristotelis  esse  non  puta,quem  Alexander  vere  fortiterque  redarguit,  quem  cum  exactum  diligentemque  Aristotelis  librorum  et  iudicem  et  repertorem  iudicarit  antiquitas,  cur  in  huius  libri  iudicio  sit  falsus,  prorsus  est  magna  admiratione  dignissimum,  non  esse  namque  proprium  Aristotelis  bine  conatur  ostendere,  quoniam  quædam  Aristoteles  in  principio  libri  huius  de  intellectibus  animi  tractat,  quos  intellectus  animæ  passiones  vocavit,  et  de  bis  se  plenius  in  libris  de  anima  disputasse  commemorat,  et  quoniam  passiones  animæ  vocabant  vel  tristitiam  vel  gaudium  vel  cupiditatem  vel  alias  huiusmodi  adfectiones,  dicit  Andronicus  ex  boc  probari  hunc  librum  Aristotelis  non  esse,  quod  de  huiusmodi  adfectionibus  nihil  in  libris  de  anima  tractavisset,  non  intellegens  in  hoc  libro  Aristotelem  passiones  animæ  non  pro  adfectibus,  sed  pro  intellectibus  posuisse,  his  Alexander  multa  alia  addit  argumenta,  cur  hoc  opus  Aristotelis  maxime  esse  videatur,  ea  namque  dicuntur  hic,  quæ  sententiis  Aristotelis  quæ  sunt  de  enuntia-   [5.  6  continentur F 6 cum om. F1 hæc S, corr. S2 10. 11 potius sign. nom. S2F 22 et animæ T 23 in supra lin. T 24 vocabat b 30 prius pro om. S1 Hic E1 5 10 15 20 25 30 12 SECVNDA  EDITIO] tione  consentiant;  illud  quoque,  quod  stilus  ipse  propter  brevitatem  pressior  ab  Aristotelis  obscuritate  non  discrepat;  et  quod  Theophrastus,  ut  in  aliis  solet,  cum  de  similibus  rebus  tractat,  quæ  scilicet  ab  Aristotele  ante  tractata  sunt,  in  libro  quoque  de  adfirmatione  et  negatione,  isdem  aliquibus  verbis  utitur,  quibus  hoc  libro  Aristoteles  usus  est.  idem  quoque  Theophrastus  dat  signum  hunc  esse  Aristotelis  librum:  in  omnibus  enim,  de  quibus  ipse  disputat  post magistrum,  leviter  ea  tangit  quæ  ab  Aristotele  dicta  ante  cognovit,  alias  vero  diligentius  res  non  ab  Aristotele  tractatas  exsequitur,  hic  quoque  idem  fecit,  nam  quæ  Aristoteles  hoc  libro  de  enuntiatione  tractavit,  leviter  ab  illo  transcursa  sunt,  quæ  vero  magister  eius  tacuit,  ipse  subtiliore  modo  considerationis  adiecit.  addit  quoque  hanc  causam,  quoniam  Aristoteles  quidem  de  syllogismis  scribere  animatus  num-  quam  id  recte  facere  potuisset,  nisi  quædam  de  propositionibus  adnotaret.  mihi  quoque  videtur  hoc subtiliter  perpendentibus  liquere  hunc  librum  ad  analyticos  esse  præparatum,  nam  sicut  hic  de  simplici  propositione  disputat,  ita  quoque  in  analyticis  de  simplicibus  tantum  considerat  syllogismis,  ut  ipsa  syllogismorum  propositionumque  simplicitas  non  ad  aliud  nisi  ad  continens opus Aristotelis pertinere videatur, quare non est audiendus Andronicus,  qui propter passionum nomen hunc librum ab Aristotelis  operibus separat. Aristoteles autem idcirco passiones animæ intellectus vocabat, quod intellectus, quos sermone dicere et oratione proferre consuevimus, ex aliqua causa atque utilitate profecti sunt: ut enim dispersi homines colligerentur et legibus vellent esse subiecti civitatesque condere, utilitas quædam fuit  et  causa,  quocirca   3  et  b:  uel  codices  15  subtilior  S1  16  addidit  E  17  pro  scribere:  est  T  19  hoc  uidetur  F  22  in  om.  F1  29  uocauit  E    I  c,  1. 13    quæ  ex  aliqua  utilitate  veniunt,  ex  passione  quoque  provenire  necesse  est.  nam  ut  divina  sine  ulla  sunt  passione,  ita  nulla  illis  extrinsecus  utilitas  valet  adiungi:  quæ  vero  sunt  passibilia  semper  aliquam  causam  atque  utilitatem  quibus  sustententur  inveniunt quocirca  huiusmodi  intellectus,  qui  ad  alterum  oratione  proferendi  sunt,  quoniam  ex  aliqua  causa  atque  utilitate  videntur  esse  collecti,  recte  passiones  animi  nominati  sunt,  et  de  intentione  quidem  et  de  libri  inscriptione  et  de  eo,  quod  hic  maxime  Aristotelis   liber  esse  putandus  est,  hæc  dicta  sufficiunt,  quid  vero  utilitatis  habeat,  non  ignorabit  qui  sciet  qua  in  oratione  veritas  constet  et  falsitas.  in  sola  enim  hæc  enuntiativa  oratione  consistunt,  iam  vero  quæ  dividant  verum  falsumque  quæve  definite  vel  quæ  varie  et  mutabiliter  veritatem  falsitatemque  partiantur,  quæ  iuncta  dici  possint,  cum  separata  valeant  prædicari,  quæ  separata  dicantur,  cum  iuncta  sint  prædicata,  quæ  sint  negationes  cum  modo  propositionum,  quæ  earum  consequentiæ  aliaque  plura  in  ipso  opere  considerator  poterit  diligenter  agnoscere,  quorum  magnam  experietur  utilitatem  qui  animum  curæ  alicuius  investigationis  adverterit,  sed  nunc  ad  ipsius  Aristotelis  verba  veniamus. Primum  oportet  constituer,  quid  nomen  et  quid  verbum,  postea  quid  est  negatio  et  adfirmatio  et  enuntiatio  et  oratio.   Librum  incohans  de  quibus  in  omni  serie  tractaturus  sit  ante  proposuit,  ait  enim  prius  oportere  de    2  sunt  om.  F1  5  inuenient  E  8  animæ?  11  sufficiant  b  16  patiantur  T  16.  17  quæ  iuncta  om.  F,  in  marg.  quæ  iunctim  F2?  17.18  iuncta    cum  om.  S1  20.21   consideratior  SF*T  21  quorum  ego:  quarum  codices  22  curæ  ego:  cura  codices  23  ipsius  om.  F  25  quid  Ar.  xL:  quid  sit  codices  26  sit  uerbum  codices  præter  2/E2  est  om.  2%  {eras,  in  S)    quibus  disputaturus  est  definire,  hic  enim  constituere  definire  intellegendum  est.  determinandum  namque  est  quid  hæc  omnia  sint  id  est  quid  nomen  sit,  quid  verbum  et  cetera,  quæ  elementa  interpretationis  esse prædiximus,  sed  adfirmatio  atque  negatio  sub  interpretatione  sunt,  quare  nomen  et  verbum  adfirmatio-  nis  et  negationis  elementa  esse  manifestum  est.  his  enim  conpositis  adfirmatio  et  negatio  coniunguntur.  exsistit  hic  quædam  quæstio,  cur  duo  tantum  nomen et  verbum  se  determinare  promittat,  cum  plures  partes  orationis  esse  videantur,  quibus  hoc  dicendum  est  tantum  Aristotelem  hoc  libro  definisse,  quantum  illi  ad  id  quod  instituerat  tractare  suffecit,  tractat  namque  de  simplici  enuntiativa  oratione,  quæ  scilicet huiusmodi  est,  ut  iunctis  tantum  verbis  et  nominibus  conponatur.  si  quis  enim  nomen  iungat  et  verbum,  ut  dicat  Socrates  ambulat,  simplicem  fecit  enuntiativam  orationem,  enuntiativa  namque  oratio  est  ut  supra  memoravi  quæ  habet  in  se  falsi  verique designationem,  sed  in  hoc  quod  dicimus  Socrates  ambulat  aut  veritas  necesse  est  contineatur  aut  fal-  sitas.  hoc  enim  si  ambulante  Socrate  dicitur,  verum  est,  si  non  ambulante,  falsum,  perficitur  ergo  enuntiativa  oratio  simplex  ex  solis  verbis  atque  nominibus quare  superfluum  est  quærere,  cur  alias  quoque  quæ  videntur  orationis  partes  non  proposuerit,  qui  non  totius  simpliciter  orationis,  sed  tantum  simplicis  enuntiationis  instituit  elementa  partiri,  quamquam  duæ  propriæ  partes  orationis  esse  dicendæ  sint,  nomen  30  scilicet  atque  verbum,  hæc  enim  per  sese  utraque  significant,  coniunctiones  autem  vel  præpositiones  nihil  omnino  nisi  cum  aliis  iunctæ  designant;  participia  verbo  cognata  sunt,  vel  quod  a  gerundivo  modo   2  definire  om.  S1  17  et  T  22.  23  est  verum  F  25  quæ  om.  S1  26  proposuit  T  33  uerbis  E2?  vero  verbo  editio  princeps  conata  T  gerundi  FXE  (gerunti?  F)    I  c.  1.    15    veniant  vel  quod  tempus  propria  significatione  contineant;  interiectiones  vero  atque  pronomina  nec  non  adverbia  in  nominis  loco  ponenda  sunt,  idcirco  quod  aliquid  significant  definitum,  ubi  nulla  est  vel  passionis  significatio  vel  actionis,  quod  si  casibus  horum quædam  flecti  non  «possunt,  nihil  inpedit.  sunt  enim  quædam  nomina  quæ  monoptota  nominantur,  quod  si  quis  ista  longius  et  non  proxime  petita  esse  arbitretur,  illud  tamen  concedit,  quod  supra  iam  diximus,  non  esse  æquum  calumniari  ei,  qui  non  de  omni  oratione,  sed  de  tantum  simplici  enuntiatione  proponat,  quod  tantum  sibi  ad  definitionem  sumpserit,  quantum  arbitratus  sit  operi  instituto  sufficere,  quare  dicendum  est Aristotelem  non  omnis  orationis  partes  hoc opere  velle  definire,  sed  tantum  solius  simplicis  enuntiativæ  orationis,  quæ  sunt  scilicet  nomen  et  verbum,  argumentum  autem  huius  rei  hoc  est.  postquam  enim  proposuit  dicens:  primum  oportet  constituere,  quid  sit  nomen  et  quid  verbum,  non  statim  inquit,  quid  sit  oratio,  sed  mox  addidit  et  quid  sit negatio,  quid  adfirmatio,  quid  enuntiatio,  postremo  vero  quid  oratio,  quod  si  de  omni  oratione  loqueretur,  post  nomen  et  verbum  non  de  adfirmatione  et  negatione  et  post  hanc  de  enuntiatione,  sed  mox  de  oratione  dixisset,  nunc  vero  quoniam  post  nominis et  verbi  propositionem  adfirmationem,  negationem  et  enuntiationem  et  post  orationem  proposuit,  confitendum  est,  id  quod  ante  diximus,  non  orationis  universalis,  sed  simplicis  enuntiativæ  orationis,  quæ  dividitur  in  adfirmationem  atque  negationem,  divisionem  partium  facere  voluisse,  quæ  sunt  nomina  et  verba,  hæc  enim  per  se  ipsa  intellectum  simplicem  servant,   1.  2  continent  F  7  monopta  S  9  concedat  b  10  calumpniari  E  eum?  11  tantum  de  E2  enuntiatione  om.  S1  12  sumpserat  F  14  omnes  SFT  20  et  om.  F  26  et  negationem  et  F  31  uerba  et  nomina  F      quæ  eadem  dictiones  vocantur,  sed  non  sola  dicuntur,  sunt  namque  dictiones  et  aliæ  quoque:  orationes  vel  inperfectæ  vel  perfectæ,  cuius  plures  esse  partes  supra  iam  docui,  inter  quas  perfectæ  orationis  species  est  enuntiatio,  et  hæc  quoque  alia  simplex,  alia  con-  posita  est.  de  simplicis  vero  enuntiationis  speciebus  inter  philosophos  commentatoresque  certatur,  aiunt  enim  quidam  adfirmationem  atque  negationem  enuntiationi  ut  species  supponi  oportere,  in  quibus  et Porphyrius  est:  quidam  vero  nulla  ratione  consentiunt,  sed  contendunt  adfirmationem  et  negationem  æquivoca  esse  et  uno  quidem  enuntiationis  vocabulo  nuncupari,  prædicari  autem  enuntiationem  ad  utrasque  ut  nomen  æquivocum,  non  ut  genus  univocum;  quorum  princeps  Alexander  est.  quorum  contentiones  adponere  non  videtur  inutile,  ac  prius  quibus  modis  adfirmationem  atque  negationem  non  esse  species  enuntiationis  Alexander  putet  dicendum  est,  post  vero  addam  qua  Porphyrius  hæc  argumentatione dissolverit.  Alexander  namque  idcirco  dicit  non  esse  species  enuntiationis  adfirmationem  et  negationem,  quoniam  adfirmatio  prior  sit.  priorem  vero  adfirmationem  idcirco  conatur  ostendere,  quod  omnis  negatio  adfirmationem  tollat  ac  destruat,  quod  si  ita  25  est,  prior  est  adfirmatio  quæ  subruatur  quam  negatio  quæ  subruat,  in  quibus  autem  prius  aliquid  et  posterius  est,  illa  sub  eodem  genere  poni  non  possunt,  ut  in  eo  titulo  prædicamentorum  dictum  est  qui  de  his  quæ  sunt  simul  inscribitur.  amplius:  negatio omnis,  inquit,  divisio  est,  adfirmatio  conpositio  atque  coniunctio.  cum  enim  dico  Socrates  vivit,  vitam  cum  Socrate  coniunxi;  cum  dico  Socrates  non  vivit,  vitam  a  Socrate  disiunxi.  divisio  igitur  quædam  negatio  est,  coniunctio  adfirmatio.  conpositi  autem  est  con-   1  eædem  SF  sola  ego:  solæ  codices  2  quoq;  ut  b   4.  5  est  species  F  5  alias    alias  E2  12  unum  S1T  22  fit  T    I  c.  1.    17    iunctique  divisio,  prior  est  igitur  coniunctio,  quod  est  adfirmatio;  posterior  vero  divisio,  quod  est  negatio,  illud  quoque  adicit,  quod  omnis  per  adfirmationem  facta  enuntiatio  simplicior  sit  per  negationem  facta  enuntiatione,  ex  negatione  enim  particula  negativa  5  si  sublata  sit,  adfirmatio  sola  relinquitur,  de  eo  enim  quod  est  Socrates  non  vivit  si  non  particula  quæ  est  adverbium  auferatur,  remanet  Socrates  vivit.  simplicior  igitur  adfirmatio  est  quam  negatio,  prius  vero  sit  necesse  est  quod  simplicius  est.  in  quantitate  etiam  quod  ad  quantitatem  minus  est  prius  est  eo  quod  ad  quantitatem  plus  est.  omnis  vero  oratio  quantitas  est.  sed  cum  dico  Socrates  ambulat,  minor  oratio  est  quam  cum  dico  Socrates  non  ambulat,  quare  si  secundum  quantitatem  adfirmatio minor  est,  eam  priorem  quoque  esse  necesse  est.  illud  quoque  adiunxit  adfirmationem  quendam  esse  habitum,  negationem  vero  privationem,  sed  prior  habitus  privatione:  adfirmatio  igitur  negatione  prior  est.  et  ne  singula  persequi  laborem,  cum  aliis  quoque  modis demonstraret  adfirmationem  negatione  esse  priorem,  a  communi  eas  genere  separavit,  nullas  enim  species  arbitratur  sub  eodem  genere  esse  posse,  in  quibus  prius  vel  posterius  consideretur,  sed  Porphyrius  ait  sese  docuisse  species  enuntiationis  esse  adfirmationem  et  negationem  in  his  commentariis  quos  in  Theophrastum  edidit;  hic  vero  Alexandri  argumentationem  tali  ratione  dissolvit,  ait  enim  non  oportere  arbitrari,  quæcumque  quolibet  modo  priora  essent  aliis,  ea  sub  eodem  genere poni  non  posse,  sed  quæ-  cumque  secundum  esse  suum  atque  substantiam  priora vel  posteriora  sunt,  ea  sola  sub  eodem  genere  non  ponuntur,  et  recte  dicitur,  si  enim  omne  quidquid  si  om.  S^E1  16  quoq.  priorem  F  esse  om.  SF  22  separaret  SF,  separabat  S2F2,  separat  T  nullus  SF1  24  aliquid  prius  GrTE  consideratur  F  26  iis  F2  Boetii  comxnent.  prius  est  cum  eo  quod  posterius  est  sub  uno  genere  esse  non  potest,  nec  primis  substantiis  et  secundis  commune  genus  poterit  esse  substantia;  quod  qui  dicit  a  recto  ordine  rationis  exorbitat,  sed  quemadmodum  quamquam  sint  primæ  et  secundæ  substantiæ,  tamen  utraque  æqualiter  in  subiecto  non  sunt  et  idcirco  esse  ipsorum  ex  eo  pendet,  quod  in  subiecto  non  sunt,  atque  ideo  sub  uno  substantiæ  genere  conlocantur:  ita  quoque  quamquam  adfirmationes  negationibus  in  orationis  prolatione  priores  sint,  tamen  ad  esse  atque  ad  naturam  propriam  æqualiter  enuntiatione  participant,  enuntiatio  vero est  in  qua  veritas  et  falsitas  inveniri  potest,  qua  in  re  et  adfirmatio  et  negatio  æquales  sunt,  æqualiter  enim  et  adfirmatio  et  negatio  veritate  et  falsitate  participant,  quocirca  quoniam  ad id  quod  sunt  adfirmatio  et  negatio  æqualiter  ab  enuntiatione  participant,  a  communi  eas  enuntiationis  genere  dividi  non  oportet,  mihi  quoque  videtur  quod  Porphyrii  sit  sequenda  sententia,  ut  adfirmatio  et  negatio  communi  enuntiationis  generi  supponantur,  longa  namque  illa  et  multiplicia  Alexandri  argumenta  soluta  sunt,  cum  demonstravit  non  modis  omnibus  ea  quæ  priora  sunt  sub  communi  genere  poni  non  posse,  sed  quæ  ad  esse  proprium  atque  substantiam  priora  sunt  illa  sola  sub  communi  genere  constitui  atque  poni  non  posse.  Syrianus  vero,  cui  Philoxenus  cognomen  est,  hoc  loco  quærit,  cur  proponens  prius  de  negatione,  post  de  adfirmatione  pronuntiaverit  dicens:  primum  oportet constituere,  quid  nomen  et  quid  verbum,  postea  quid  est  negatio  et  adfirmatio.  et  primum  quidem  nihil  proprium  dixit,  quoniam  in  quibus  et  ad-   1  posterius]  prius  S^E1  6  utræque  b  8  sint  E  13  et  post  re  om.  F  16  ad  ego  addidi:  om.  codices  17  pro  a:  et  SF  21  supponatur  SF  multiplica  F  ^  30  quid   sit  n.  codices  31  est  om.  F  primum  S:  primo  S2  et  ceteri    I  c.  1.    19    firmatio  potest  et  negatio  provenire,  prius  esse  negatio,  postea  vero  adfirmatio  potest,  ut  de  Socrate  sanus  est.  potest  ei  aptari  talis  adfirmatio,  ut  de  eo  dicatur  Socrates  sanus  est;  etiam  huiusmodi  potest  aptari  negatio,  ut  de  eo  dicatur  Socrates  sanus  non  est.  quoniam  ergo  in  eum  adfirmatio  et  negatio  poterit  evenire,  prius  evenit  ut  sit  negatio  quam  ut  adfirmatio.  ante  enim  quam  natus  esset:  qui  enim  natus  non  erat,  nec  esse  poterat  sanus,  liuic  illud  adiecit:  servare  Aristotelem  conversam  propositionis  et  exsecutionis  distributionem.  hic  enim  prius  post  nomen  et  verbum  de  negatione  proposuit,  post  de  adfirmatione,  dehinc  de  enuntiatione,  postremo  vero  de  oratione,  sed  proposita  definiens  prius  orationem,  post  enuntiationem,  tertio  adfirmationem,  ultimo  vero  loco  negationem  determinavit,  quam  hic  post  propositionem  verbi  et  nominis  primam  locaverat,  ut  igitur  ordo  servaretur  conversus,  idcirco  negationem  prius  ait  esse  propositam,  qua  in  expositione  Alexandri  quoque  sententia  non  discedit,  illud  quoque  est  additum,  quod  non  esset  inutile,  enuntiationem  genus  adfirmationis  et  negationis  accipi  oportere,  quod  quamquam  (ut  dictum  est)  ad  prolationem  prior  esset  adfirmatio,  tamen  ad  ipsam  enuntiationem  id  est  veri  falsique  vim  utrasque  æqualiter  sub  enuntiatione  ab  Aristotele  constitui,  id  etiam  Aristotelem  probare,  præmisit  enim  primam  negationem,  secundam  posuit  adfirmationem,  quæ  res  nihil  habet  vitii,  si  ad  ipsam  enuntiationem  adfirmatio  et  negatio  ponantur  æquales,  quæ  enim  natura  æquales  sunt,  nihil  retinent  contrarii  indifferenter  acceptæ,  est  igitur  ordo  quo  proposuit:  primum  totius  orationis   1  est.  potest  T  2  non  est  F;  non  supra  lin.  SE;  sanus  est  delet  S2  3  de  eo  om.  T1  6  eo?  8  post  esset  addit  potuit  dici  sanus  non  est  T,  in  marg.  G2  enim  om.  F,  eras,  in  E  12  et  hinc  E  17  primum  F  ergo  T  23  est  F  (in  rasura)  26  probare  dicit  FTE2S2(m»Mf^.)  probare  dr  Misit  G  (suprascr.  dicit  Premisit  G2)  enim  om.  E1  31  quod  F,  quoq.  T   2  5   10   elementum,  nomen  scilicet  et  verbum,  post  hæc  negationem  et  adfirmationem,  quæ  species  enuntiationis  sunt,  quorum  genus  id  est  enuntiationem  tertiam  nominavit,  quartam  vero  orationem  posuit,  quæ  ipsius  enuntiationis  genus  est.  et  horum  se  omnium  definitiones  daturum  esse  promisit,  quas  interim  relinquens  atque  præteriens  et  in  posteriorem  tractatum  differens  illud  nunc  addit  quæ  sint  verba  et  nomina  aut  quid  ipsa  significent,  quare  antequam  ad  verba  Aristotelis  ipsa  veniamus,  pauca  communiter  de  nominibus  atque  verbis  et  de  his  quæ  significantur  a  verbis  ac  nominibus  disputemus,  sive  enim  quælibet  interrogatio  sit  atque  responsio,  sive  perpetua  cuiuslibet orationis  continuatio  atque  alterius  auditus  et  intellegentia,  sive  hic  quidem  doceat  ille  vero  discat,  tribus  his  totus  orandi  ordo  perficitur:  rebus,  intellectibus,  vocibus,  res  enim  ab  intellectu  concipitur,  vox  vero  conceptiones  animi  intellectusque  significat,  ipsi  vero  intellectus  et  concipiunt  subiectas  res  et  significantur  a  vocibus,  cum  igitur  tria  sint  hæc  per  quæ  omnis  oratio  conlocutioque  perficitur,  res  quæ  sub-  iectæ  sunt,  intellectus  qui  res  concipiant  et  rursus  a  vocibus  significentur,  voces  vero  quæ  intellectus  designent,  quartum  quoque  quiddam  est,  quo  voces  ipsæ valeant  designari,  id  autem  sunt  litteræ,  scriptæ  namque  litteræ  ipsas  significant  voces,  quare  quattuor  ista  sunt,  ut  litteræ  quidem  significent  voces,  voces  vero  intellectus,  intellectus  autem  concipiant  res,  quæ  scilicet  habent  quandam  non  confusam  neque fortuitam  consequentiam,  sed  terminata  naturæ  suæ  ordinatione  constant,  res  enim  semper  comitantur  eum  qui  ab  ipsis  concipitur intellectum,  ipsum  vero  intellectum  vox  sequitur,  sed  voces  elementa  id  est   3  quarum?  17   20  res  vocibus  om.  F,  in  marg.  add.  F1?  26  significent  SF  30  suæ  naturæ  E  31  constat  SE  comitatur  F2  32  eum  dei.  F2  intellectus  F I  c.  1. 21    litteræ,  rebus  enim  ante  propositis  et  in  propria  substantia  constitutis  intellectus  oriuntur,  rerum  enim  semper  intellectus  sunt,  quibus  iterum  constitutis  mox  significatio  vocis  exoritur,  præter  intellectum  namque  vox  penitus  nihil  designat,  sed  quoniam  voces  sunt,  idcirco  litteræ,  quas  vocamus  elementa,  repertæ  sunt,  quibus  vocum  qualitas  designetur,  ad  cognitionem  vero  conversim  sese  res  habet,  namque  apud  quos  eædem  sunt  litteræ  et  qui  eisdem  elementis  utuntur,  eisdem  quoque  nominibus  eos  ac  verbis  id  est  vocibus  uti  necesse  est  et  qui  vocibus  eisdem  utuntur,  idem  quoque  apud  eos  intellectus  in  animi  conceptione  versantur,  sed  apud  quos  idem  intellectus  sunt,  easdem  res  eorum  intellectibus  subiectas  esse  manifestum  est.  sed  hoc  nulla  ratione  convertitur,  namque  apud  quos  eædem  res  sunt  idemque  intellectus,  non  statim  eædem  voces  eædemque  sunt  litteræ.  nam  cum ROMANUS,  Græcus  ac  barbarus  simul  videant  equum,  habent  quoque  de  eo  eundem  intellectum  quod  equus  sit  et  apud  eos  eadem  res  subiecta  est,  idem  a  re  ipsa  concipitur  intellectus,  sed  Græcus  aliter  equum  vocat,  alia  quoque  vox  in  equi  significatione  ROMANA  est  et  barbarus  ab  utroque  in  equi  designatione  dissentit,  quocirca  diversis  quoque  voces  proprias  elementis  inscribunt,  recte  igitur  dictum  est  apud  quos  eædem  res  idemque  intellectus  sunt,  non  statim  apud  eos  vel  easdem  voces  vel  eadem  elementa  consistere,  præcedit  autem  res  intellectum,  intellectus  vero  vocem,  vox  litteras,  sed  hoc  converti  non  potest,  neque  enim  si  litteræ  sint,  mox  aliqua  ex  his  significatio  vocis  exsistit,  hominibus  namque  qui  litteras  ignorant  nullum  nomen  quælibet  elementa  significant,  quippe  quæ  nesciunt,  nec  si  voces   1  positis  F  8  habent  T  20  sit  om.  F1  24  designi-  ficatione  S1  28  intellectum  res  F  31  consistit  E    sint,  mox  intellectus  esse  necesse  est.  plures  enim  voces  invenies  quæ  nihil  omnino  significent,  nec  intellectui  quoque  subiecta  res  semper  est.  sunt  enim  intellectus  sine  re  ulla  subiecta,  ut  quos  centauros vel  chimæras  poetæ  finxerunt,  horum  enim  sunt  intellectus  quibus  subiecta  nulla  substantia  est.  sed  si  quis  ad  naturam  redeat  eamque  consideret  diligenter,  agnoscet  cum  res  est,  eius  quoque  esse  intellectum:  quod  si  non  apud  homines,  certe  apud  eum,  qui  propriæ  divinitate  substantiæ  in  propria  natura  ipsius  rei  nihil  ignorat,  et  si  est  intellectus,  et  vox  est;  quod  si  vox  fuerit,  eius  quoque  sunt  litteræ,  quæ  si  Ignorantur,  nihil  ad  ipsam  vocis  naturam,  neque  enim,  quasi  causa  quædam  vocum  est  intellectus  aut  vox  causa  litterarum,  ut  cum  eædem  sint  apud  aliquos  litteræ,  necesse  sit  eadem  quoque  esse  nomina:  ita  quoque  cum  eædem  sint  vel  res  vel  intellectus  apud  aliquos,  mox  necesse  est  intellectuum  ipsorum  vel  rerum  eadem  esse  vocabula,  nam  cum  eadem  sit et  res  et  intellectus  hominis,  apud  diversos  tamen  homines  huiusmodi  substantia  aliter  et  diverso  nomine  nuncupatur,  quare  voces  quoque  cum  eædem  sint,  possunt  litteræ  esse  diversæ,  ut  in  hoc  nomine  quod  est  homo:  cum  unum  sit  nomen,  diversis  litteris  scribi  potest,  namque  Latinis  litteris  scribi  potest,   potest  etiam  Græcis,  potest  aliis  nunc  primum  inventis  litterarum  figuris,  quare  quoniam  apud  quos  eædem  res  sunt,  eosdem  intellectus  esse  necesse  est,  apud  quos  idem  intellectus  sunt,  voces  eædem  non   30  sunt  et  apud  quos  eædem  voces  sunt,  non  necesse   2  significant  F  3  est  semper  E  9  omnes  T2  Denm  b  10  snbst.  div.  E  13  nataram  pertinet  F2  14  quædam  causa  F  15  ut  enim  cum  S2F  16  pro  litteræ:  uoces  E2  easdem  E2  pro  nomina:  literas  E2  18  mox  non  S2FE2  25  namque    potest  in  marg.  F  28  res  om.  F1  29  non  eædem  (non  supra  lin .)  F  30  prius  sunt  om.  F    I  c.  1.    23    est  eadem  elementa  constitui;  dicendum  est  res  et  intellectus,  quoniam apud omnes idem sunt, esse NATURALITER constitutos, voces vero atque litteras, quoniam diversis  hominum positionibus permutantur, NON ESSE NATURALITER, SED POSITIONE, concludendum  est igitur, quoniam apud quos eadem sunt elementa, apud eos eædem quoque voces sunt et apud quos eædem voces sunt, idem sunt intellectus; apud quos autem idem sunt intellectus, apud eosdem res quoque eædem subiectæ sunt:  rursus  apud  quos  eædem  res sunt,  idem  quoque  sunt  intellectus;  apud  quos  idem  intellectus,  non  eædem  voces;  nec  apud  quos  eædem  voces  sunt,  eisdem  semper  litteris  verba  ipsa  vel  nomina  designantur,  sed  nos  in  supra  dictis  sententiis  elemento  atque  littera  promiscue  usi  sumus,  quæ  15  autem  sit  horum  distantia  paucis  absolvam,  littera  est  inscriptio  atque  figura  partis  minimæ  vocis  articulatæ,  elementum  vero  sonus  ipsius  inscriptionis:  ut  cum  scribo  litteram  quæ  est  a,  formula  ipsa  quæ  atramento  vel  graphio  scribitur  littera  nominatur,  ipse  vero  sonus  quo  ipsam  litteram  voce  proferimus  dicitur  elementum,  quocirca  hoc  cognito  illud  dicendum  est,  quod  is  qui  docet  vel  qui  continua  oratione  loquitur  vel  qui  interrogat,  contrarie  se  habet  his  qui  vel  discunt  vel  audiunt  vel  respondent  in  his  tribus, voce  scilicet,  intellectu  et  re  (prætermittantur  enim  litteræ  propter  eos  qui  earum  sunt  expertes),  nam  qui  docet  et  qui  dicit  et  qui  interrogat  a  rebus  ad  intellectum  profecti  per  nomina  et  verba  vim  propriæ  actionis  exercent  atque  officium  (rebus  enim  subiectis ab  his  capiunt  intellectus  et  per  nomina  verbaque   0   14  designentur  T  doctis  S1  17.  18  min.  p.  art.  voc.   E  19  littera  T  pro  a:  id T 20 grafio STE 24. 25 vel qui F1 29 profecti  ego :  profecto  SFE,  profectu  T,  profectus  S2F2E2  30  exercent  ego:  exercet  codices  atque  in  marg.  S    pronuntiant),  qui  vero  discit  vel  qui  audit  vel  etiam  qui  respondet  a  nominibus  ad  intellectus  progressi  ad  res  usque  perveniunt,  accipiens  enim  is  qui  discit  vel  qui  audit  vel  qui  respondet  docentis  vel  dicentis  vel  interrogantis  sermonem,  quid  unusquisque  illorum  dicat  intellegit  et  intellegens  rerum  quoque  scientiam  capit  et  in  ea  consistit,  recte  igitur  dictum  est  in  voce,  intellectu  atque  re  contrarie  sese  habere  eos  qui  docent,  dicunt,  interrogant  atque  eos  qui  discunt,  audiunt  et  respondent,  cum  igitur  hæc  sint  quattuor,  litteræ,  voces,  intellectus,  res,  proxime  quidem  et  principaliter  litteræ  verba  nominaque  significant,  hæc  vero  principaliter  quidem  intellectus,  secundo  vero  loco  res  quoque  designant,  intellectus  vero  ipsi  nihil  aliud  nisi  rerum  significativi  sunt,  antiquiores  vero  quorum  est  Plato,  Aristoteles,  Speusippus,  Xenocrates  hi  inter  res  et  significationes  intellectuum  medios  sensus  ponunt  in  sensibilibus  rebus  vel  imaginationes  quasdam,  in  quibus  intellectus  ipsius  origo  consistat,  et  nunc  quidem  quid  de  hac  re  Stoici  dicant  prætermittendum  est.  hoc  autem  ex  his  omnibus  solum  cognosci  oportet,  quod  ea  quæ  sunt  in  litteris  eam  significent  orationem  quæ  in  voce  consistit  et  ea  quæ  est  vocis  oratio  quod  animi  atque  intellectus  orationem  designet,  quæ  tacita  cogitatione  conficitur,  et  quod  hæc  intellectus  oratio  subiectas  principaliter  res  sibi  concipiat  ac  designet,  ex  quibus  quattuor  duas  quidem  Aristoteles  esse  NATURALITER dicit,  res  et  animi  conceptiones,  id  est  eam  quæ  fit  in  intellectibus  orationem,  idcirco  30  quod  apud  omnes  eædem  atque  inmutabiles  sint;   6  et  om.  S1  12  uerba  et  nomina  S2F,  nomina  et  uerba  (in  ras .)  E  12  — 13  hæc    designant  in  marg.  E  14  significationes  F  16  //usippus  S,  siue  usippus  S2FT  19   nunc  om.  SFT  20  dicunt  SF  23  et  quod  S2FE2  est  om.  S1  uocis  est  F  24  quod  dei.  S2,  om.  FE  29  intellectus  S1    I  c.  1.    25    duas  vero  NON NATURALITER, SED POSITIONE constitui, quæ sunt scilicet verba nomina et litteræ, quas idcirco NATURALITER fixas esse non dicit, quod  ut supra demonstratum est non  eisdem  vocibus  omnes  aut  isdem  utantur  elementis,  atque  hoc  est  quod  ait: Sunt  ergo  ea  quæ sunt in voce earum quæ sunt in anima passionum notæ et ea  quæ  scribuntur  eorum  quæ  sunt  in  voce,  et  quemadmodum  nec  litteræ  omnibus  eædem,  sic  nec  voces  eædem,  quorum  autem  hæc  primorum  notæ,  eædem  omnibus  passiones  animæ  et  quorum    similitudines,  res  etiam  eædem,  de  his  quidem  dictum  est  in  his  quæ  sunt  dicta  de  anima,  alterius  est  enim  negotii. Cum igitur prius posuisset  nomen  et  verbum  et  quæcumque  secutus  est  postea  se  definire  promisisset,  hæc  interim  prætermittens  de  passionibus  animæ  deque  earum  notis,  quæ  sunt  scilicet  voces,  pauca  præmittit,  sed  cur  hoc  ita  interposuerit,  plurimi  commentatores  causas  reddere  neglexerunt,  sed  a  tribus  quantum  adhuc  sciam  ratio  huius  interpositionis  explicita  est.  quorum  Hermini  quidem  a  rerum  veritate  longe  disiuncta  est.  ait  enim  idcirco  Aristotelen  de  notis  animæ  passionum  interposuisse  sermonem,  ut  utilitatem  propositi  operis  inculcaret,  disputaturus enim  de  vocibus,  quæ  sunt  notæ  animæ  passionum,  recte  de  his  quædam  ante  præmisit,  nam  cum  suæ  nullus  animæ  passiones  ignoret,  notas  quoque  cum  animæ  passionibus  non  nescire  utilissimum  est.  neque  enim  illæ  cognosci  possunt  nisi  per  voces  quæ  sunt  30   1  non  om.  S1  4.5  eisdem  FE  10  noces  eædem  F  Ar.:  eædem  uoces  ceteri    codices  cf. p. 43, 6 12  animæ   sunt  codices :  sunt  om.  Ar.  cf.  ed.  I    27,  he§  X:  eædem  ceteri  14  dicta  post  anima  X  enim  om.  X1  (enim  est  X2)   16  definire  se  F  20  neglexerunt  h:  neglexerant  codices  21.  22  explicata  E  ( corr .  E2)  Aristotelem  F SECVNDA  EDITIO    earum  scilicet  notæ.  Alexander  vero  aliam  huius-  modi  interpositionis  reddidit  causam,  quoniam,  iquit,  verba  et  nomina  interpretatione  simplici  continentur,  oratio  vero  ex  verbis  nominibusque  coniuncta est  et  in  ea  iam  veritas  aut  falsitas  invenitur;  sive  autem  quilibet  sermo  sit  simplex,  sive  iam  oratio  coniuncta  atque  conposita,  ex  his  quæ  significant  momentum  sumunt  (in  illis  enim  prius  est  eorum  ordo  et  continentia,  post  redundat  in  voces):  quocirca  quo-  10  niam  significantium  momentum  ex  his  quæ  signifcantur  oritur,  idcirco  prius  nos  de  his  quæ  voces  ipsæ  significant  docere  proponit,  sed  Herminus  hoc  loco  repudiandus  est.  nihil  enim  tale  quod  ad  causam  propositæ  sententiæ  pertineret  explicuit.  Ale-  15  x  and  er  vero  strictim  proxima  intellegentia  prætervectus  tetigit  quidem  causam,  non  tamen  principalem  rationem  Aristotelicæ  propositionis  exsolvit.  sedPor-  phyrius  ipsam  plenius  causam  originemque  sermonis  huius  ante  oculos  conlocavit,  qui  omnem  apud  priscos  philosophos  de  significationis  vi  contentionem  litemque  retexuit,  ait  namque  dubie  apud  antiquorum  philosophorum  sententias  constitisse  quid  esset  proprie  quod  vocibus  significaretur,  putabant  namque  alii  res  vocibus  designari  earumque  vocabula  esse  ea  quæ sonarent  in  vocibus  arbitrabantur,  alii  vero  incorporeas  quasdam  naturas  meditabantur,  quarum  essent  significationes  quæcumque  vocibus  designarentur:  Platonis  aliquo  modo  species  incorporeas  æmulati  dicentis  hoc  ipsum  homo  et  hoc  ipsum  equus  non  hanc  cuiuslibet  subiectam  substantiam,  sed  illum  ipsum  hominem  specialem  et  illum  ipsum  equum,  universaliter  et  incorporaliter  co-   2  interprætationis  T  6  pro  iam:  autem  S,  om.  F  7  significantur  b  13  ad  in  marg.  E  20  de  om.  F1  21   apud  om.  E1  22  sententiæ  S1  24  eorum/////q;  SE,  eorumq;  T  uocubula  T  25  sonarent  ego:  sonauerunt  S,  sonauerint  S2FE,  sonuerint  T  31  equum  significare  T    I  c.  1.    27    gitantes  incorporales  quasdam  naturas  constituebant,  quas  ad  significandum  primas  venire  putabant  et  cum  aliis  item  rebus  in  significationibus  posse  coniungi,  ut  ex  his  aliqua  enuntiatio  vel  oratio  conficeretur,  alii  vero  sensus,  alii  imaginationes  significari  vocibus  arbitrabantur.  cum  igitur  ista  esset  contentio  apud  superiores  et  hæc  usque  ad  Aristotelis  pervenisset  ætatem,  necesse  fuit  qui  nomen  et  verbum  significativa  esset  definiturus  prædiceret  quorum  ista  designativa  sint.  Aristoteles  enim  nominibus  et  verbis  res  subiectas  significari  non  putat,  nec  vero  sensus  vel  etiam  imaginationes,  sensuum  quidem  non  esse  significativas  voces  nomina  et  verba  in  opere  de  iustitia  sic  declarat  dicens  cpvdeL  yaQ  ev&vg  diriQ^rai  tcc  rs  votf-  { Lata  nal  ta  aiGfrri [luta,  quod  interpretari  Latine  potest  hoc  modo:  NATURA  enimdivisa  sunt  intellectus  et  sensus,  differre  igitur  aliquid  arbitratur  sensum  atque  intellectum,  sed  qui  passiones  animæ  a  vocibus  significari  dicit,  is  non  de  sensibus  loquitur,  sensus  enim  corporis  passiones  sunt,  si  igitur  ita  dixisset  passionescorporis  a  vocibus  significari,  tunc  merito  sensus  intellegeremus,  sed  quoniam  passiones  animæ  nomina  'et  verba  significare  proposuit,  non  sensus  sed  intellectus  eum  dicere  putandum  est.  sed  quoniam  imaginatio  quoque  res  animæ  est,  dubitaverit  aliquis  ne  forte  passiones  animæ  imagi-   14  Ar.  fragm.  coli.  VRose  76    2  per  quas  se  F2  9  designativa  b:  designificatiua  codices  14  dirjQ7]Tcu  ego  (cf.  Ar.  1162,22  eth.  Nic.  VIII,  14:  sv&vs  yocQ  di7iQi]Tcu  tu  %Qya  v.ul  S6TLV  sxsQu  uvSqos  Y.ui  yv-  vaixog):  anhphtai  SGNJTE;  verba  Græca  om.  F  (rsEl  FAP  EY&  et  alia  in  marg.  F2),  dicens  hic  deest  grecum  quod  interpretari  B  15  AIZTHMATA  EN  Latine  om.  F  16  potes  VRose  statim  ego  add.:  om.  codices  diuersa  E2  est  N  19  a  om.  S*F  23  designificare  F  26  animæ  om.  F    5   10   15   20   25 nationes,  qnas  Græci  (pavraCiag  nominant,  dicat,  sed  hæc  in  libris  de  anima  verissime  diligentissimeque  separavit  dicens  etircv  de  cpavraoCa  eteqov  epaOeog  nal  unoepaGeag'  Gvintloxr}  yaQ  vorj[icctav  etirlv  ro  ccArjfreg  5  xcd  ro  tyevdog.  rd  de  tcqcotcc  vocata  t C  dioCcei  rov  [. irj  cpavrccANTAZMsl  codices  pro  rj:  N  codices  7  interpretatur  EN  10  aliquid  S2F  13.  14  demonstret  T,  corr.  T2  19  quis  F  25  idem  ( pro  id  est)  T2  26  pro  qui:  quid  S,  quod  S2F    I  c.  1.    29    ginatio  quædam  primæ  figuræ  sunt,  supra  quas  velut  fundamento  quodam  superveniens  intellegentia  nitatur,  nam  sicut  pictores  solent  designare  lineatim  corpus  atque  substernere  ubi  coloribus  cuiuslibet  exprimant  vultum,  sic  sensus  atque  imaginatio  naturaliter  in  animæ  perceptione  substernitur,  nam  cum  res  aliqua  sub  sensum  vel  sub  cogitationem  cadit,  prius  eius  quædam  necesse  est  imaginatio  nascatur,  post  vero  plenior  superveniat  intellectus  cunctas  eius  explicans  partes  quæ  confuse  fuerant  imaginatione  præsumptæ. quocirca  inperfectum  quiddam  est  imaginatio,  nomina  vero  et  verba  non  curta  quædam,  sed  perfecta  significant.  quare  recta  Aristotelis  sententia  est:  quæcumque  in  verbis  nominibusque  versantur,  ea  neque  sensus  neque  imaginationes,  sed  solam  significare  intellectuum  qualitatem,  unde  illud  quoque  ab  Aristotele  fluentes  Peripatetici  rectissime  posuerunt  tres  esse  orationes,  unam  quæ  scribi  possit  elementis,  alteram  quæ  voce  proferri,  tertiam  quæ  cogitatione  conecti  unamque  intellectibus,  alteram  voce,  tertiam  litteris  contineri,  quocirca  quoniam  id  quod  significaretur  a  vocibus  intellectus  esse  Aristoteles  putabat,  nomina  vero  et  verba  significativa  esse  in  eorum  erat  definitionibus  positurus,  recte  quorum  essent  significativa prædixit erroremque lectoris  ex  multiplici  veterum  lite  venientem  sententiæ  suæ  manifestatione  conpescuit.  atque  hoc modo nihil in eo deprehenditur esse  superfluum,  nihil  ab  ordinis  continuatione  se-  iunctum.  quærit  vero  Porphyrius,  cur  ita  dixerit: sunt ergo ea quæ sunt in voce, et non sic: sunt si  quod  S^1  7  ait.  sub  om.  F  enim  (pro  eius)  E   10  confuse  b:  confusæ  SF,  confusa  TE  in  im.  S2,  in  yma-  ginationem  F  præsumpta  T  15  imaginationis  SFE1?   18  sit  ( pro  possit)  S1  19  cogitationem  SFE  20  conecti  ego :  conectit  codices,  connectitur  b  21  teneri  F,  corr.  F2  22  esse  om.  T1  28  ad  T    igitur  voces;  et  rursus  cur  ita  et  ea  quæ  scribuntur  et  non  dixerit:  et  litteræ,  quod  resolvit  hoc  modo,  dictum  est  tres  esse  apud  Peripateticos  orationes,  unam  quæ  litteris  scriberetur,  aliam  quæ  proferretur  in  voce,  tertiam  quæ  coniungeretur  in  animo,  quod  si  tres  orationes  sunt,  partes  quoque  orationis  esse  triplices  nulla  dubitatio  est.  quare  quoniam  verbum  et  nomen  principaliter  orationis  partes  sunt,  erunt  alia  verba  et  nomina  quæ  scribantur,  alia  quæ  10  dicantur,  alia  quæ  tacita  mente  tractentur,  ergo  quoniam  proposuit  dicens:  primum  oportet  constituere,  quid  nomen  et  quid  verbum,  triplex  autem  nominum  natura  est  atque  verborum,  de  quibus  potissimum  proposuerit  et  quæ  definire  velit  ostendit,  et  quoniam  de  his  nominibus  loquitur  ac  verbis,  quæ  voce  proferuntur,  idem  ipsum  planius  explicans  ait:  sunt  ergo  ea  quæ  sunt  in  voce  earum  quæ  sunt  in  anima  passionum  notæ  et  ea  quæ  scribuntur  eorum  quæ  sunt  in  voce,  velut  si  diceret:  ea  verba  et  nomina  quæ  in  vocali  oratione  proferuntur  animæ  passiones  denuntiant,  illa  autem  rursus  verba  et  nomina  quæ  scribuntur  eorum  verborum  nominumque SIGNIFICANTIÆ  præsunt  quæ  voce  proferuntur,  nam  sicut  vocalis  orationis  verba  et  nomina CONCEPTIONES [not passions] animi  intellectusque  significant,  ita  quoque  verba  et  nomina  illa  quæ  in  solis  litterarum  formulis  iacent  ijjorum  verborum  et  nominum  significativa  sunt  quæ  loquimur,  id  est  quæ  per  vocem  sonamus,  nam  quod  ait:  sunt  ergo  ea  quæ  sunt  in  voce,  30  subaudiendum  est  verba  et  nomina,  et  rursus  cum  dicit:  et  ea  quæ  scribuntur,  idem  subnectendum  rursus  est  verba  scilicet  vel  nomina,  et  quod  rursus   1  cur  om.  F1  4.  5  proferetur  F2T  8  post  nomen  ras.  sex  vel  octo  litt.  in  S  12  quid  sit  n.  codices  17  ergo  om.  SF  21  uerba  rursus  F  24  uerba  orationis  F  30.  31  cum  dicit  rursus  F  32  vel]  et  b    I  c.  1.    31    adiecit:  eorum  quæ  sunt  in  voce,  addendum  eorum  nomimum  atque  verborum  quæ  profert  atque  explicat  vocalis  oratio,  quod  si  nihil  deesset  omnino,  ita  foret  totius  plenitudo  sententiæ:  sunt  ergo  ea  verba  et  nomina  quæ  sunt  in  voce  earum  quæ  sunt  in  anima  passionum  notæ  et  ea  verba  et  nomina  quæ  scribuntur  eorum  verborum  et  nominum  quæ  sunt  in  voce,  quod  communiter  intellegendum  est,  licet  ea  quæ  subiunximus  deesse  videantur,  quare  non   est  disiuncta  sententia,  sed  primæ  propositioni  continua.  nam  cum  quid  sit  verbum,  quid  nomen  definire  constituit,  cum nominis et verbi NATURA sit  multiplex,  de quo verbo et nomine tractare vellet clara significatione distinxit, incipiens igitur ab his nominibus ac verbis quæ in voce sunt, quorum essent significativa disseruit, ait enim hæc passiones animæ designare. illud quoque adiecit quibus ipsa verba et nomina quæ in voce sunt designentur, his scilicet quæ litterarum formulis exprimuntur, SED QUONIAM NON OMNIS VOX SIGNIFICATIVA EST, VERBA VERO VEL NOMINA NUMQUAM SIGNIFICATIONIBUS VACANT QUONIAMQUE NON OMNIS VOX QUÆ SIGNIFICAT QUÆDAM *POSITIONE* DESIGNAT, SED *QUÆDAM NATURALITER*, UT LACRIMÆ, GEMITUS ATQUE MÆROR – ANIMALIUM QUOQUE CETERORUM QUÆDAM *VOCES NATURALITER ALIQUID OSTENTANT* UT EX CANUM LATRATIBUS IRACUNDIA EORUMQUE ALIA QUADAM VOCEM BLANDIMENDA *MONSTRANTUR --verba autem et nomina positione significant neque solum sunt verba et nomina voces, sed voces significativæ nec solum significativæ, sed etiam QUÆ POSITIONE DESIGNENT ALIQUID, NON NATURA: non  dixit: sunt igitur voces earum quæ sunt in anima passionum notæ, namque neque omnis vox significativa quæ  sunt  in  v.  nomina  in  marg. F  15 sunt] sunt  designantes  TGr  17  et  uerba  et  T  20  vel]  et  b 21  vacant  ego:  uacarent  codices,  carent  b  que  om.  S1  22  quadam  S2E  24  moerorem  S,  merore  FE  32  nam  FT  est et SUNT QUÆDAM *SIGNIFICATIVÆ* QUÆ *NATURALITER* NON POSITIONE SIGNIFICENT, quod si ita dixisset, nihil ad proprietatem verborum et nominum pertineret, quocirca noluit communiter dicere  voces, sed dixit tantum ea quæ sunt in voce, vox enim universale quiddam est, nomina vero et verba partes, pars  autem omnis in toto est. verba ergo et nomina quoniam sunt intra vocem, recte dictum est ea quæ sunt in voce,  velut si diceret: quæ intra vocem continentur intellectuum designativa sunt, sed hoc simile est ac si ita dixisset:  vox certo modo sese habens significat intellectus. non enim ut dictum est nomen et verbum voces tantum sunt,  sicut nummus quoque  non  solum  æs  inpressum  quadam  figura  est,  ut  nummus  vocetur,  15  sed  etiam  ut  alicuius  rei  sit  pretium:  eodem  quoque  modo  verba  et  nomina  non  solum  voces  sunt,  sed  POSITÆ AD QUANDAM INTELLECTUUM SIGNIFICATIONEM,  vox  enim  quæ  nihil  designat,  ut  est GARALUS, licet eam grammatici figuram vocis intuentes nomen esse contendant,  tamen eam nomen philosophia non  putabit,  nisi  sit posita ut  designare  animi  aliquam  conceptionem  eoque  modo  rerum  aliquid  possit,  etenim  nomen  alicuius  nomen  esse  necesse  erit;  sed  si  vox  aliqua  nihil  designat,  nullius  nomen  est;  quare  si  nullius  est, ne  nomen  quidem  esse  dicetur,  atque  ideo  huiusmodi  vox  id  est  significativa  non  vox  tantum,  sed  verbum  vocatur  aut  nomen,  quemadmodum  nummus  non  æs,  sed  proprio  nomine  nummus,  quo  ab  alio  ære  discrepet,  nuncupatur,  ergo  hæc  Aristotelis  sententia  30  qua  ait  ea  quæ  sunt  in  voce  nihil  aliud  designat  nisi  eam  vocem,  quæ  non  solum  vox  sit,  sed  quæ  cum  vox  sit  habeat  tamen  aliquam  proprietatem  et 4  dicere  ( pro  dixit)  T  9.  10  des.  s.  intell.  T,  corr.  T2   13  nummos  S1  18  garulus  F  20  putabit  ego:  putavit   codices  22  aliq.  rer.  F  25  dicitur  T  ideo  om.  F1  27   28  non  nummus  in  marg.  S  30  qua  ait  om.  F1    I  c.  1. aliquam  quodammodo  figuram  positæ  significationis  inpressam.  horum  vero  id  est  verborum  et  nominum  quæ  sunt  in  voce  aliquo  modo  se  habente  ea  sunt  scilicet  significativa  quæ  scribuntur,  ut  hoc  quod  dictum  est  quæ  scribuntur  de  verbis  ac  nominibus dictum  quæ  sunt  in  litteris  intellegatur,  potest  vero  hæc  quoque  esse  ratio  cur  dixerit  et  quæ  scribuntur:  quoniam  litteras  et  inscriptas  figuras  et  voces,  quæ  isdem  significantur  formulis,  nuncupamus  (ut  a  et  ipse  sonus  litteræ  nomen  capit  et  illa  quæ  10  in  subiecto  ceræ  vocem  significans  forma  describitur),  designare  volens,  quibus  verbis  atque  nominibus  ea  quæ  in  voce  sunt  adparerent,  non  dixit  litteras,  quod  ad  sonos  etiam  referri  potuit  litterarum,  sed  ait  quæ  scribuntur,  ut  ostenderet  de  his  litteris  dicere  quæ  15  in  scriptione  consisterent  id  est  quarum  figura  vel  in  cera  stilo  vel  in  membrana  calamo  posset  effingi,  alioquin  illa  iam  quæ  in  sonis  sunt  ad  ea  nomina  referuntur  quæ  in  voce  sunt,  quoniam  sonis  illis  nomina  et  verba  iunguntur.  sed  Porphyrius  de  utraque  expositione  iudicavit  dicens:  id  quod  ait  et  quæ  scribuntur  non  potius  ad  litteras,  sed  ad  verba  et  nomina  quæ  posita  sunt  in  litterarum  inscriptione  referendum,  restat  igitur  ut  illud  quoque  addamus,  cur  non  ita  dixerit:  sunt  ergo  ea  quæ  sunt  in  voce intellectuum  notæ,  sed  ita  earum  quæ  sunt  in  anima  passionum notæ,  nam  cum  ea  quæ  sunt  p.30l  in  voce  res  intellectusque  significent,  principaliter  quidem  intellectus,  res  vero  quas  ipsa  intellegentia  con-  prehendit  secundaria  significatione  per  intellectuum medietatem,  intellectus  ipsi  non  sine  quibusdam  passionibus  sunt,  quæ  in  animam  ex  subiectis  veniunt  rebus,  passus  enim  quilibet  eius  rei  proprietatem,   3  sese  E  5  et  F  8  scriptas  b  15  se  de?  15.  16   quæ  inscriptione  T  17  menbrana  F  23  proposita  F   24  illas  Tl  26  si  T  31. medietatibus (pro  pass.)  T  BOEZIO (si veda)  comment.  II.  3   quam  intellectu  conplectitur,  ad  eius  enuntiationem  designationemque  contendit,  cum  enim  quis  aliquam  rem  intellegit,  prius  imaginatione  formam  necesse  est  intellectæ  rei  proprietatemque  suscipiat  et  fiat  vel  5  passio  vel  cum  passione  quadam  intellectus  perceptio,  hac  vero  posita  atque  in  mentis  sedibus  conlocata  fit  indicandæ  ad  alterum  passionis  voluntas,  cui  actus  quidam  continuandæ  intellegentiæ  protinus  ex  intimæ  rationis  potestate  supervenit,  quem  scilicet  explicat  et  10  effundit  oratio  nitens  ea  quæ  primitus  in  mente  fundata  est  passione,  sive,  quod  est  verius,  significatione  progressa  oratione  progrediente  simul  et  significantis  seorationis  motibus  adæquante,  fit  vero  bæc  passio  velut  figuræ  alicuius  inpressio,  sed  ita  ut  in  animo  15  fieri  consuevit,  aliter  namque  naturaliter  inest  in  re  qualibet  propria  figura,  aliter  vero  eius  ad  animum  forma  transfertur,  velut  non  eodem  modo  ceræ  vel  marmori  vel  chartis  litteræ  id  est  vocum  signa  mandantur.  et  imaginationem  Stoici del PORTICO a  rebus  in  animam  20  translatam  loquuntur,  sed  cum  adiectione  semper  dicentes  ut  in  anima,  quocirca  cum  omnis  animæ  passio  rei  quædam  videatur  esse  proprietas,  porro  autem  designativæ  voces  intellectuum  principaliter,  rerum  dehinc  a  quibus  intellectus  profecti  sunt  significatione nitantur, quidquid  est  in  vocibus  significativum,  id  animæ  passiones  designat,  sed  hæ passiones animarum ex rerum similitudine procreantur, videns  4 intellegi T  (corr.  T1)  intellectio  T  6  Hæc  T   8  quidem  F  quem  actum  F,  actum  supra  lin.  J,  s.  actum  supra  lin.  S2  oratione  ego:  oratio  codices;  oratio  suprascr.  s.  explicat  S2,  oratio explicat  F  significatione  dei  et  post  simul  transponit  F2  (E  in  marg.:  aliter  siue  quod  est  verius  significatione  progrediente  oratio progressa simul et se signif. or. mot.  adæq.)  metibus  S1,  mentibus  F1  transferetur  T,  corr.  T2  17  vel  om.  F  19  a  om.  S1  25  nitatur  S^1  27  animorum  SFE  et  T^1    I  c.  1.    35    namque  aliquis  sphæram  vel  quadratum  vel  quamlibet  aliam  rerum  figuram  eam  in  animi  intellegentia  quadam  vi  ac  similitudine  capit,  nam  qui  sphæram  viderit,  eius  similitudinem  in  animo  perpendit  et  cogitat  atque  eius  in  animo  quandam  passus  imaginem  id  cuius  imaginem  patitur  agnoscit,  omnis  vero  imago  rei  cuius  imago  est  similitudinem  tenet:  mens  igitur  cum  intellegit,  rerum  similitudinem  conprehendit.  unde  fit  ut,  cum  duorum  corporum  maius  unum,  minus  alterum  contuemur,  a  sensu  postea  remotis  corporibus  illa  ipsa  corpora  cogitantes  illud  quoque  memoria  servante  noverimus  sciamusque  quod  minus,  quod  vero  maius  corpus  fuisse  conspeximus,  quod  nullatenus  eveniret,  nisi  quas  semel  mens  passa  est  rerum  similitudines  optineret.  quare  quoniam  passiones  animæ  quas  intellectus  vocavit  rerum  quædam  similitudines  sunt,  idcirco  Aristoteles,  cum  paulo  post  de  passionibus  animæ  loqueretur,  continenti  ordine  ad  similitudines  transitum  fecit,  quoniam  nihil  differt  utrum  passiones  diceret  an  similitudines,  eadem  namque  res  in  anima  quidem  passio est, rei vero similitudo, et  Alexander hunc locum: sunt ergo ea quæ sunt in voce earum quæ sunt in anima passionum notæ et ea quæ scribuntur eorum quæ sunt in voce, et quemadmodum nec litteræ omnibus eædem, sic nec voces eædem hoc modo conatur exponere: proposuit, inquit, ea quæ sunt in voce intellectus animi designare et hoc alio probat exemplo,  eodem modo enim ea quæ sunt in voce passiones animæ SIGNIFICANT, quemadmodum ea quæ scribuntur voces DE-SIGNANT, ut id quod ait et ea quæ 1  aliquis  om.  T,  aliqui  E  feram  S,  speram  S2FT  3  ui§  (pro  vi  ac)  SF  speram  FT  9  duum  S2F2  12  sciamusque  ego:  sciemusq.  codices  14  mens  om.  T  20  pass. animæ  editio princeps 24 inscribuntur  SFE  26  eædem  uoces  codices  enim  modo  F scribuntur  ita  intellegamus,  tamquam  si  diceret:  quemadmodum  etiam  ea  quæ  scribuntur  eorum  quæ  sunt  in  voce,  ea  vero  quæ  scribuntur,  inquit  Alexander,  notas  esse  vocum  id  est  nominum  ac  verborum  ex  hoc  monstravit  quod  diceret  et quemadmodum nec  litteræ  omnibus  eædem,  sic  nec  voces  eædem,  SIGNVM namque  est  vocum  ipsarum  significationem  litteris  contineri,  quod  ubi  variæ  sunt  litteræ et non eadem quæ  scribuntur varias  quoque voces esse necesse est.  hæc  Alexander.  Porphyrius vero quoniam tres proposuit orationes, unam  quæ  litteris  contineretur,  secundam  quæ  verbis  ac  nominibus  personaret,  tertiam  quam  mentis  evolveret  intellectus,  id  Aristotelem  significare  pronuntiat,  15  cum  dicit: sunt ergo ea quæ sunt in voce earum quæ sunt in anima passionum notæ, quod ostenderet si ita dixisset: sunt ergo ea quæ sunt in voce et verba et nomina animæ passionum  |  notæ,  et  quoniam monstravit quorum essent voces SIGNIFICATIVÆ, illud quoque docuisse quibus SIGNIS [“Words are not signs” – H. P. Grice] verba vel nomina panderentur ideoque  addidisse  et  ea  quæ  scribuntur  eorum  quæ  sunt  in  voce,  tamquam  si  diceret:  ea  quæ  scribuntur  verba  et  nomina  eorum  quæ sunt  in  voce  verborum  et  nominum  notæ  sunt. nec  disiunctam  esse  sententiam  nec  (ut  Alexander  putat)  id  quod  ait:  et  ea  quæ  scribuntur  ita  intellegendum,  tamquam  si  diceret:  sicut  ea  quæ  scribuntur  id  est  litteræ  illa  quæ  sunt  in  voce  significant,  ita  ea  quæ  sunt  in  voce  notas  esse  animæ passionum,  primo  quod  ad  simplicem  sensum  nihil  addi  oportet,  deinde  tam  brevis  ordo  tamque  necessaria  orationis  non  est  intercidenda  partitio,  tertium  vero  quoniam,  si  similis  significatio  est  litterarum  vo-   5  quo  TE1  9  eædem  F,  eedem  T  13  quæ  F  14  aristotelen  T  18  prius  et  om.  TE  20  et  b  29  sunt  om.  SF  30  primum?  quidem  quod  b  31  deinde  quod  b  tamque]  tamquam  T esset  E2    I  c.  1. 37 cumque,  quæ  est  vocum  et  animæ  passionum,  oportet  sicut  voces  diversis  litteris  permutantur,  ita  quoque  passiones  animæ  diversis  vocibus  permutari,  quod  non  fit.  idem  namque  intellectus  variatis  potest  vocibus  significari,  sed  Alexander  id  quod  eum  superius  sensisse  memoravi  boc  probare  nititur  argumento,  ait  enim  etiam  in  hoc  quoque  similem  esse  significationem  litterarum  ac  vocum,  quoniam  sicut  litteræ  non  naturaliter  voces,  sed  positione  significant,  ita  quoque  voces  non  naturaliter  intellectus  animi,  sed  aliqua positione  designant,  sed  qui  prius  recepit,  ut  id  quod  Aristoteles  ait:  et  ea  quæ  scribuntur  ita  dictum  esset,  tamquam  si  diceret:  sicut  ea  quæ  scribuntur,  quidquid  ad  hanc  sententiam  videtur  adiungere, æqualiter non  dubitatur  errare,  quocirca  nostro  iudicio  qui  rectius  tenere  volent  Porphyrii  se  sententiis adplicabunt. Aspasius  quoque  secundæ  sententiæ  Alexandri,  quam  supra  posuimus,  valde  consentit,  qui  a  nobis  in  eodem  quo  Alexander  errore  culpabitur.  Aristoteles  vero  duobus  modis  esse  has  notas  putat  litterarum,  vocum  passionumque  animæ  constitutas:  uno  quidem  positione,  alio  vero  naturaliter. atque  hoc  est  quod  ait: et  quemadmodum nec litteræ omnibus eædem, sic nec  voces  eædem,  nam  si  litteræ  voces,  ipsæ  vero  voces  intellectus  animi  naturaliter  designarent,  omnes  homines  isdem  litteris,  isdem  etiam  vocibus  uterentur,  quod  quoniam  apud  omnes  neque  eædem  litteræ  neque  eædem  voces  sunt,  constat eas  non  esse  naturales,  sed  hic  duplex  lectio  est.  Alexander  enim hoc  modo  legi  putat oportere:  quorum  autem  hæc  primo-  oporteret E 11 recipit S, corr. S2  quam  Alexander  in  marg.  S  21  vocum  om.  S1  24.  25  eædem  v.  codices hisdem  S2F2TE   hisdem  SF2TE  31  hæ codices rum NOTÆ,  eædem  omnibus  PASSIONES animæ  et  quorum  eædem  similitudines,  res etiam  eædem,  volens  enim  Aristoteles  ea  quæ  positione  significant  ab  bis  quæ  aliquid DE-SIGNANT NATVRALITER segregare  hoc  interposuit:  ea  quæ  POSITIONE (thesei, not physei – Grice) SIGNIFICANT varia  esse,  ea  vero  quæ  naturaliter  apud  omnes  eadem,  et  incobans quidem  a  vocibus  ad  litteras venit  easque  primo  non  esse  naturaliter  significativas  demonstrat  dicens:  et  quemadmodum  nec  litteræ  omnibus  eædem,  sic  nec  voces  eædem,  nam  si  idcirco  probantur  litteræ  non  esse  naturaliter  significantes,  quod  apud  alios  aliæ  sint  ac  diversæ,  eodem  quoque  modo  probabile  erit  voces  quoque  NON NATURALITER SIGNIFICARE,  quoniam  singulæ  hominum  gentes non  eisdem  inter  se  vocibus  conio quantur. volens vero similitudinem  intellectuum  rerumque  subiectarum  docere  NATVRALITER constitutam  ait:  quorum  autem  hæc  primorum  notæ,  eædem omnibus  passiones  animæ,  quorum,  inquit,  voces  quæ  apud  diver-  20  sas  gentes  ipsæ  quoque  diversæ  sunt  SIGNIFICATIONEM retinent,  quæ  scilicet  sunt  animæ  passiones,  illæ  apud  omnes  eædem  sunt,  neque  enim  fieri  potest,  ut  quod  APVD ROMANOS “homo” intellegitur lapis apud barbaros  intellegatur,  eodem  quoque  modo  de  ceteris  25  rebus,  ergo  huiusmodi  sententia  est,  qua  dicit  ea  quæ voces  significent apud omnes  hominum  gentes  non  mutari,  ut  ipsæ  quidem  voces,  sicut  supra  monstravit  cum  dixit  quemadmodum  nec  litteræ  omnibus  eædem,  sic  nec  voces  eædem,  apud  30  plures  diversæ  sint,  illud  vero  quod  voces  ipsæ  significant  apud  omnes  homines  idem  sit  nec  ulla  ra- 1  animæ  sunt  codices inchoatis  T  8  significas  S1,  signifitivas  T  colloquuntur  b  ait  S,  quod  ait  TE  (quod  dei.  E1?)  22  apud  om.  F,  add.  F1   23  qui  T  24  modo  quoq.  F  29  apud  ego:  cum  apud  codices  31  fit  F    I  c.  1. tione  valeat  permutari,  qui  sunt  scilicet  intellectus  rerum,  qui  quoniam  naturaliter  sunt  permutari  non  possunt,  atque  hoc  est  quod  ait:  quorum  autem  hæc  primorum  notæ,  id  est  voces,  eædem  omnibus  passiones  animæ,  ut  demonstraret  voces quidem  esse  diversas,  quorum  autem  ipsæ  voces  significativæ  essent,  quæ  sunt  scilicet  animæ  passiones,  easdem  apud  omnes  esse  nec  |  ullratione,  quoniam   sunt  constitutæ  naturaliter,  permutari,  nec  vero  in  hoc  constitit,  ut  de  solis  vocibus  atque  intellectibus  loqueretur,  sed quoniam voces atque litteras non esse naturaliter constitutas per id significavit, quod eas non apud omnes easdem esse proposuit,  RURSUS INTELLECTUS QUOS ANIMÆ PASSIONES VOCAT PER HOC ESSE NATURALES OSTENDIT, QUOD *APUD OMNES IDEM SINT,  a  quibus id  est  intellectibus  ad  res  transitum  fecit,  ait  enim  quorum    similitudines,  res  etiam  eædem  hoc  scilicet  sentiens,  quod  res  quoque  naturaliter  apud  omnes  homines  essent  eædem:  sicut  ipsæ  animæ  passiones  quæ ex  rebus  sumuntur  apud  omnes  homines  eædem  sunt,  ita  quoque  etiam  ipsæ  res  quarum  similitudines  sunt  animæ  passiones  eædem  apud  omnes  sunt,  quocirca  quoque  naturales  sunt,  sicut  sunt  etiam  rerum  similitudines,  quæ  sunt  animæ  passiones.  H  er  minus  vero  huic  est  expositioni  contrarius.  dicit  enim  non esse  verum  eosdem  apud  omnes  homines  esse  intellectus,  quorum  voces  significativæ  sint,  quid  enim,  inquit,  in  æquivocatione  dicetur,  ubi  unus  idemque  vocis  modus  plura  significat?  sed  magis  hanc  lectionem  veram  putat,  ut  ita  30  sit:  quorum  autem  hæc  primorum  notæ,    omnibus  passiones  animæ et quorumhæ similitudines, res etiam hæ: ut demonstratio vi-  4 hæ codices animæ sunt codices quarum b: quorum codices  homines  F,  corr.  F2  res  quoq.  b  sunt  F  31  autem  ovi.deatur quorum voces significativæ sint vel quorum passiones animæ similitudines, et lioc simpliciter accipiendum  est  secundum  Her minum,  ut  ita  dicamus:  quorum  voces  significativæ  sunt,  illæ sunt  animæ passiones,  tamquam  diceret:  animæ  passiones  sunt,  quas  significant  voces,  et  rursus  quorum  sunt  similitudines  ea  quæ  intellectibus  continentur,  illæ  sunt  res,  tamquam  si  dixisset:  res  sunt  quas  significant  intellectus.  sed  Porphyrius  de  utrisque  acute  subtiliterque iudicat  et  Alexandri  magis  sententiam  probat,  hoc  quod  dicat  non  debere  dissimulari  de  multiplici  æquivocationis  significatione,  nam  et  qui  dicit  ad  unam  quamlibet  rem  commodat  animum,  scilicet  quam  intellegens voce  declarat,  et  unum  rursus  intellectum  quemlibet  is  qui  audit  exspectat,  quod  si,  cum  uterque ex  uno  nomine  res  diversas  intellegunt,  ille  qui  nomen æquivocum  dixit  designet  clarius,  quid  illo  nomine  significare  voluerit,  accipit  mox  qui  audit  et  ad  unum  intellectum  utrique  conveniunt,  qui  rursus  fit  unus  apud  eosdem  illos  apud  quos  primo diversæ fuerant  animæ  passiones  propter  æquivocationem  nominis.  neque  enim  fieri  potest,  ut  qui  voces POSITIONE SIGNIFICANTES A NATVRA eo  distinxerit  quod  easdem  apud  omnes  esse  non  diceret,  eas  res  quas  esse  naturaliter proponebat  non  eo  tales  esse  monstraret,  quod  apud  omnes  easdem  esse  contenderet,  quocirca  Alexander  vel  propria sententia vel Porphyrii auctoritate probandus est.  sed quoniam ita dixit Aristoteles: quorum autem hæc primorum notæ,  eædem omnibus passiones animæ sunt,  quærit Ale-   9.  10 suptiliterq. SE 11 hoc dei. S2, om. F  quod  F:   quo  STEGN,  quoque  E2  dicit  E2  14  voce  eras,  in  F  utrique? 17 designat T quod T 18 nomen S1 23 distinxerint T quos (suprascr.  d)  S, qui  (in  marg.  quod)  T  24  eas]  is?  25  demonstraret  T  pro  porphirii  E  29    codices  I  c.  1.  x  and  er:  si  rerum  nomina  sunt,  quid  causæ  est  ut  primorum  intellectuum  notas  esse  voces  diceret  Aristoteles?  rei  enim  ponitur  nome,  ut  cum  dicimus  “homo” SIGNIFICAMUS (ROMANI) quidem intellectum, rei tamen nomen est id est animalis rationalis mortalis, cur ergo non primarum magis rerum notæ sint voces quibus ponuntur potius quam intellectuum? sed fortasse quidem ob  hoc dictum est, inquit, quod licet voces rerum nomina sint, tamen non idcirco utimur vocibus, ut res significemus, sed ut eas quæ ex rebus nobis io innatæ sunt animæ passiones, quocirca propter quorum significantiam voces ipsæ proferuntur, recte eorum primorum esse dixit notas, in hoc vero Aspasius permolestus est. ait enim: qui  fieri  potest,  ut  eædem  apud  omnes  passiones  animæ  sint,  cum  tam  diversa  sententia  de  iusto  ac  bono  sit?  arbitratur  Aristotelem  passiones  animæ  non  de  rebus  incorporalibus,  sed  de  his  tantum  quæ  sensibus  capi  possunt  passiones  animæ  dixisse,  quod  perfalsum  est.  neque  enim  umquam  intellexisse  dicetur,  qui  fallitur,  et  fortasse  quidem  passionem  animi  habuisse  dicetur, quicumque id quod est bonum non eodem modo quo est, sed aliter ARBITRATVR, intellexisse vero non dicitur. Aristoteles autem cum de similitudine loquitur, de intellectu pronuntiat, neque enim fieri potest, ut qui quod bonum est malum esse arbitratur boni similitudinem mente conceperit, neque enim intellexit rem subiectam. sed quæ sunt iusta ac bona ad positionem omnia naturamve  referuntur,  et  si  de  iusto  ac  bono ita loquitur, ut de  eo  quod  civile  ius  aut  civilis  in-  1  quod  T  causa  S  F  2  dixerit  b   pro  tamen:  quidem  T  6  sunt  E,  corr.  E2  8  quidem  post  dictum  F  10  nris  STE  (corr.  S2E2)  11  sint  S  præter  T 13esse prim.  F 22  id  S, cum  id  TE  (cum  dei.  E2)  quidem  (pro  quod  est)  T  quo  S2F2:  quod  SFTE  23  dicetur?   si  om.  S1  ita  om.  F1 iuria  dicitur,  recte  non  eædem  sunt  passiones  animæ,  quoniam  civile  ius  et  civile  bonum  positione  est,  non  natura,  naturale  vero  bonum  atque  iustum  apud  omnes  gentes  idem  est.  et  de  deo  quoque  idem:  cuius quamvis  diversa  cultura  sit,  idem  tamen  cuiusdam  eminentissimæ  naturæ  est  intellectus,  quare  repetendum  breviter  a  principio  est.  partibus  enim  ad  orationem  usque  pervenit:  nam  quod  se  prius  quid  esset  verbum,  quid  nomen  constituere  dixit,    minimaæ orationis  partes  sunt;  quod  vero  adfirmationem  et  negationem,  iam  de  conposita  ex verbis et  nominibus  oratione  loquitur,  quæ  eædem  rursus  partes  sunt  enuntiationis,  et  post  enuntiationis  propositionem  de  oratione  loqui  proposuit,  cuius  ipsa  quoque  enuntiatio,  pars  est.  et  quoniam  ut  dictum  est  triplex  est  oratio,  quæ  in  litteris,  quæ  in  voce,  quæ  in  intellectibus  est,  qui  verbum  et  nomen  definiturus  esset  eaque  significativa  positurus,  dicit  prius  quorum  significativa  sint  ipsa  verba  et  nomina  et  incohat  quidem  ab  his  nominibus  et  verbis  quæ  sunt  in  voce  dicens:  sunt  ergo  ea  quæ  sunt  in  voce  et  demonstrat  quorum  sint SIGNIFICATIVA adiciens  earum  quæ  sunt  in  anima  passionum  notæ.  rursus  nominum ipsorum  verborumque  quæ  in  voce  sunt  ea  verba  et  nomina  quæ  essent  in  litteris  constituta  significativa  esse  declarat  dicens  et  ea  quæ  scribuntur  eorum  quæ  sunt  in  voce,  et  quoniam  quattuor  ista  quædam  sunt:  litteræ,  voces,  intellectus,  res,  quorum  litteræ  et  voces  positione  sunt,  natura  vero  res  atque intellectus,  demonstravit  voces  non  esse  naturaliter,  sed  positione  per  hoc  quod  ait  non  easdem  esse  apud  omnes,  sed  varias,  ut  est  et  quemadmodum  nec   1  non  recte  F  7  a  ego  add.:  om.  codices  8  quod  om.  T 15.  16  or.  est  F  16  postrem.  in  om.  FE  18  ea  quæ  FE  positurus  b:  positurus  est codices  22  sign.  sint  F  eorum  SFE  30  litteras  et  voces?  31  per  om.  SFT  quod  b:  quo///F,  quo  STE I  c.  1.  litteræ  omnibus  eædem,  sic  nec  voces  eædem.  ut  vero  demonstraret  intellectus  et  res  esse  naturaliter,  ait  apud  omnes  eosdem  esse  intellectus,  quorum  essent  voces  significativæ,  et  rursus  apud  omnes easdem  esse  res,  quarum  similitudines  essent  animæ  passiones,  ut  est  quorum  autem  hæc  primorum  notæ,  scilicet  quæ  sunt  in  voce,  eædem  omnibus  passiones  animæ  et  quorum    similitudines,  res  etiam  eædem,  passiones  autem  animæ  dixit,  quoniam  alias  diligenter  ostensum  est  omnem  vocem  animalis  aut  ex  passione  animæ  aut  propter  passionem  proferri,  similitudinem  vero  passionem  animæ  vocavit,  quod  secundum  Aristotelem  nihil  aliud  intellegere  nisi  cuiuslibet  subiectæ  rei  proprietatem  atque  imaginationem  in animæ ipsius  reputatione suscipere, de quibus animæ passionibus in libris se de anima commemorat diligentius disputasse, sed quoniam demonstratum  est,  quoniam  et verba et nomina et oratio intellectuum  principaliter  significativa  sunt,  quidquid  est  in  voce  significationis  ab  intellectibus  venit,  quare  prius  paululum  de  intellectibus  perspiciendum  ei  qui  recte  aliquid  de  vocibus  disputabit,  ergo  quod  supra  passiones  animæ  et  similitudines  vocavit,  idem  nunc  apertius  intellectum  vocat  dicens:   Est  autem,  quemadmodum  in  anima  aliquotiens  quidem  intellectus  sine  vero  vel  falso,  aliquotiens  autem  cui  iam  necesse  est  horum  alterum  inesse,  sic  etiam  in  voce;  circa  conpositionem  enim  et  divisionem  est  falsitas  veri-   1. 2  eædem  v.  codices  2  et]  ut  intellectus esse quarum b: quorum codices 6 hæc E Ar. : hæ Eet  ceteri  8  animæ  sunt  codices  aliud  S:  aliud  est  est  aliud  TE ait. quon.]  quomodo  E  22  perspiciendum  S:  persp.  est S2FTE  de  om.  SF  23  disputauit  S^F1TE  28  cui  Ar.  <p  cf.  ed.  I:  cum  codices  30  autem falsitas veritasq; veritas  fals. ceteri SECVNDA EDITIO tasque. nomina igitur ipsa et verba consimilia  sunt  sine  conpositione  vel  divisione  intellectui, ut homo vel album, quando  non  additur  aliquid;  neque  enim  adhuc  verum  aut  falsum  est.  huius  autem  signum  hoc  est:  hircocervus  enim  significat  aliquid, sed nondum verum vel falsum, si non vel esse vel non esse addatur, vel  simpliciter  vel  secundum  tempus. Pietro Caramello. Keywords: interpretare, peryermeneias, Aquino, blityri – blythyri SG blithyri NT blythiri EF? (in fine suprascr. S F)”. “signatiuis” “significativis” garalus  garulus F. --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramello” – The Swimming-Pool Library.

 

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