Grice e Carabellese: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’arena e la pietra -- la
sabbia e la roccia – il segno – scuola di Molfetta – filosofia barese –
filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco
di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Molfetta). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Molfetta, Bari, Puglia. Grice: “I
love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and the sand,’ which reminds me
of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic on the sand and rocks, which
I’m sure were common in Ostia, too, back in the day! Carabellese speaks of a
‘semiotic scandal’ so it all connects with my pragmatics of dialectics or
conversation.” Studia
a Napoli e Roma. Insegna a Palermo e a Roma.A partire da una critica ferrata
alla dottrina cartesiana (Le obbiezioni al cartesianesimo; il metodo, l’idea,
la dualita; Il circolo vizioso in Cartesio) porta a compimento studi critici su
diversi autori, tra i quali spiccano Kant e Rosmini. Elabora la dottrina dell'ontologismo
critico, in cui l'essere non è mero oggetto della coscienza ma è a essa
intrinseco come fondamento irriducibile, cioè essere-di-coscienza, che in
ultima istanza altri non è che Dio (che, come già asseriva Vico, "è"
e non "esiste"). Difese
l'oggettività essenziale dell'essere e la filosofia, non come sapere
specialistico trincerato, ma come operatrice per l'umanità tutta così che la
coscienza filosofica esplica quella teoria che nel diversificarsi concreto
della spiritualità risulta necessariamente implicita. E allora lo sforzo della
filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto seppure la teoria si
attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del concreto. Insomma
Carabellese difese la filosofia come ascesa teoretico-razionale a realtà
teologiche, o come sentiero che volge al fondamento comune della vita politica
e che alla politica rimane irriducibile. Altre opere: Critica del concreto; Il
problema della filosofia da Kant a Fichte; Il problema teologico come
filosofia; L'idealismo italiano; L'idea politica d'Italia; Da Cartesio a
Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico. L'essere e la
manifestazione. L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme. L'essere.
Filosofo della coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La sabbia e
la roccia: l'ontologia critica di Pantaleo C.. Il problema dell'io in C..
Metafisica in C.. Kant e C. Dizionario
Biografico degl’italiani. Autolimitazione della metafisica critica? Momenti
della recezione italiana di Fichte con particolare riferimento all'ontologismo
critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento
della vera scoperta di Kant, ed era all ' origine della moderna... intesa come
« scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il
Semerari chiama « lo scandalo...seDalla filosofia intesa come « scoperta »
deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama
“lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo, a
prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo
linguistico, " in G. Semerari, La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty,
Sens et non - sens, Paris, Nagel; It. trans. by Caruso, Senso e non senso, Milan, Il
Saggiatore. La ontologia di C., così, si prospetta come una ontologia della
coscienza assiologica e semantica, ossia come una critica antinaturalistica e
antipsiscologistica dei valori e dei significati dell’essere. L’importanza del
lavoro filosofico carabellesiano, secondo Semerari, consiste nell’esigenza
radicale di lavorare alle radici del linguaggio filosofico, di andare al di là
della storia già fatta, come scrive Semerari citando C., scendendo sino ai suoi
presupposti: ciò significa portandosi al grado zero della parola per
reinventare il linguaggio filosofico e le connessioni che in esso si sono
stabilite lungo la sua storia, a partire dalla cosa stessa, ossia dall’essere
in cui la coscienza è già implicata. Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo
non si può trascurare la convergenza con la ontologia critica di quella parte
della filosofia linguistica contemporanea per la quale, al limite tra
fenomenologia, esistenzialismo e analitica, porre la questione del linguaggio è
portarsi al grado zero della parola, al silenzio come radice di ogni
possibilità linguistica, fare giudice della critica del linguaggio, com’è stato
suggestivamente detto, la ‘coscienza silenziosa’. singolari di Coscienza si
costituiscono come soggetti pensanti in comunicazione tra loro. L’alterità
dell’altro io presuppone l’identità dell’io che lo esperisce come altro.
Reciprocamente la coscienza della propria identità egologica richiede il
rapporto di alterità come intrinseco all’essere stesso dell’io. L’alterità
sempre afferma chi dice io, il quale ciò dicendo, anche trascendentalmente si
distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce di
fronte a sé. Con questo chi egli afferma una relazione reciproca con la quale
attua l’egoità. Soggettività ed egoità pura sono sempre pura alterità. L’alterità
di ciascun io è, come scrive C., «l’insondabile residuo di meità intraducibile
in esperienza dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è il limite che la
meità ha nell’esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e
non pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento
dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità.. Alterità e
non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la compattezza non la
relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività molteplice. La relazione
è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente, implica necessariamente
l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea C. Diversamente l’io assoluto
fichtiano, dilaga nella coscienza, identificandosi con essa, riducendo
l’oggettività a negazione; ma resta così l’io nella sua solitudine e, senza
l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io fichtiano, nell’interpretazione
del C., elimina gli altri io dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in tal modo
perde la meità, approdando all’Unico, che egli vede come una nuova forma di
eleatismo. C. sottolinea che se non è da percorrere l’identificazione dell’io
con la coscienza, tuttavia questo non conduce alla cancellazione della meità;
invece, pensare l’immediata appartenenza del me all’essere di coscienza, non
assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri. Non l’annullamento del me
costituisce la base per la relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma
proprio partendo dal me, per C. si giunge agli altri come altri “di” me,
esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli altri “da” me. Il me
esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori di cui parla C., in
primo luogo non si identifica con il corpo, in quanto quest’ultimo trova il suo
limite nell’altro corpo e, più in generale nell’altra cosa: «Io, come
innegabile esigenza di coscienza non sono, o se volete, non sono affatto corpo.
pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono uno esistente, e il mio corpo,
che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può trovar altra) nel limite, che
il mio corpo trova negli altri corpi, e che io non trovo, se non voglio cadere
nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» C. rifiuta l’ipotesi materialistica,
perché se l’io si identificasse con il corpo non potrebbe affermare nemmeno la
propria corporeità, ossia che il corpo è suo. Nella concezione materialistica
l’io si identifica con il corpo che diventa la radice dell’opposizione con gli
altri. Se si realizzasse questa identificazione in realtà si avrebbe la
soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli altri non sarebbero più
altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si porrebbe
contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione spiritualistica che
intende l’io come spirito finito, ha come esito la riduzione dell’io a corpo,
perché sostenere la limitatezza dello spirito implica sottoporlo al limite,
come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte ha evitato la riduzione
dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità identificando l’io con la
coscienza. Infatti nell’io empirico il me è sostanzialmente ridotto a corpo, a
non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se stesso. In Hegel, poi, ogni residuo
di meità è tolta nel Soggetto assoluto. L’io perciò è spirito infinito, ma da
questo non deriva per C. che venga eliminata la distinzione dell’io dal tu
nella coscienza, ossia che vengano tolti gli altri, con il rischio di tornare a
Fichte. Per il filosofo italiano «togliere il limite è affermare gli altri»,
non annullarli; infatti, per giungere alla negazione dell’altro, o degli altri,
«bisogna prima ammettere – osserva C. – che gli altri, in quanto tali,
escludano l’uno di tale essere, e che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè
cominciare proprio con l’opporre ad uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi
ed opposti a questo e cioè col presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli
altri no, e perciò siano non io, non coscienza. Cioè bisogna cominciare col
presupporre la empirica limitazione dei corpi, la quale appunto, nella
identificazione di me col corpo mio, fa ritenere me, col mio corpo, coscienza e
gli altri, che col loro corpo limitano il corpo mio, non coscienza». Già ne Il
problema teologico come filosofia C. afferma, polemizzando con Fichte, che la
molteplicità soggettiva non è semplicemente empirica, ma pura, condizione
trascendentale della “concretezza”; la singolarità non è solitudine, ma
relazione reciproca nel pensare, sentire, agire l’Universale/Dio. L’io
esistente, singolare, è uno, e come tale è ciascuno, essenzialmente altro. «Il
singolare è quell’uno, di cui si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno,
unusquisque. Uno che non sia ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente:
«Io sono altro: solo così “sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io,
per C. non è esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una
identificazione con l’oggetto realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema C. sostiene
l’“identità” dei soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze la
determinazione dell’omogeneità, senza però indicare come possano differenziarsi
i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se
non voluto, è evidente; infatti per spiegare il darsi della molteplicità
soggettiva egli parla di alterazione, come moltiplicazione infinita riferendola
però non all’uno, al soggetto, ma all’Unico, ossia all’essenza divina, al che.
Tuttavia, se la moltiplicazionealterazione è riferita da C. all’Unico, non
all’uno: allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un
impossibile altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo, come possono
derivarne i soggetti? In realtà possiamo muovere anche a C. l’osservazione di
involgersi in una sorta di circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è
la qualità infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione,
nello stesso tempo a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti.
L’uno di cui parla C. è l’io che immediatamente si intuisce singolare, e che
altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia ciascuno, non è
uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di ricondurre e ridurre la
meità ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità e
l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per C.
invece proprio il recupero dell’altro consente la realizzazione di sé. Ma, se
si andasse più profondo in questo amor di me spirituale, che è, o dovrebbe
essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe, si
vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una positività a questa negazione
del “non tu”, se non voglio divenire un puro e semplice “non” devo considerare
me come uno tale che possa e debba riversare l’amor di me uno in altro uno, che
è uno come me, cioè devo riconoscere l’unità, che sono io, nell’alterità.
L’amor mio proprio, che non voglia essere soltanto amor del mio corpo, è
proprio amor dell’altro. L’amor proprio spirituale non mi costringe alla
assolutezza (unicità e incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla sua
alterità: l’amore è sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo. La
struttura dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in
altri. termini, l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura
coscienziale a dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di
ciascuno si afferma e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli
altri: «Io facendo dagli altri riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come
altro, non tolgo ma affermo la mia originalità». Per C. l’amor di sé ha insita
l’esigenza della relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come
l’Unico chiuso in se stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla di
offesa dell’amor proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è più
nemmeno soggetto. Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro
identico rischia di essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera
relazione, più una sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che
il faticoso cammino del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per
cui sono infinitamente penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è
già data immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e
gli scontri a livello empirico. L’altro per C. è un altro me, non la negazione
del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e all’opposizione che
Platone pone tra uno e altri. Per C., sulla base dell’essere di coscienza, tale
opposizione non si dà; alla domanda del Socrate platonico su quel che siano gli
altri, quando io sia, si può rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma
altri uno, sono perciò altri “me”. C. individua la causa della “cacciata” degli
altri dalla coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta
con l’io: per tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri
è individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità”
pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né
oggetto. L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se
nell’essenziale relazione, di cui parla C. è apriori, non si identifica con il
singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e
limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e
illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra
il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra
miglior coscienza e coscienza empirica, per utilizzare in chiave euristica
espressioni di Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della coscienza, non
facendo ancora riferimento alla volontà come principio metafisico. Però proprio
il pensare, da lui inteso in senso ampio come intendere, sentire e volere che
si esplicano nell’attività spirituale umana, esige il livello della purezza
coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza, per C. l’assolutizzazione della.
Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina dell’idea, antologia a cura di Mirri,
Armando, Roma. dimensione spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe
all’annullamento dell’attività spirituale umana. C. non intende semplicemente
opporre la propria concezione a quella fichtiana, ma intende condurne
all’estremo le conseguenze, ipotizzando una sorta di esperimento mentale.
Infatti, se l’Io si ritenesse assoluto e si arrogasse il diritto di sopprimere
il tu, riducendolo soltanto a sua esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io,
ma solo in quanto avrebbe soppresso il tu e quindi anche l’esperienza, che egli
ne ha: non ci sarebbero più i tu, che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto
io empirici: gli altri non sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu
(altri) ci sarei ancora io (uno)?»18. In realtà, per C. c’è un'unica soluzione,
che esclude la fine tragica della disputa: «Non c’è dunque altra via d’uscita
da esso, se non quella che io non mi contenti di ricambiare la tuità, ma gli
ricambi proprio la meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un
altro io, e perciò mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce,
gli contesto il diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così
egli sopprime se stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e
parlare come Io, Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita,
costituisce l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o
moltiplicazione, con tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il
possibile l’esito fichtiano. Secondo C. si può dire che «sono l’identico io
proprio perché siamo due»: se fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo
ad esperienza, sarebbe eliminato anche quel consentire in cui consiste la
stessa esperienza. Non solo l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma
in generale il pensare, che è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21
l’Universale, Dio. Quel cum non è un'aggiunta irrilevante, in quanto la
dimensione intersoggettiva, comunitaria, è essenziale a tutte le forma
dell’attività spirituale umana. «Ci sarà – afferma C. –, anzi c’è senza dubbio,
quella empirica alterità, nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un
insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa
intraducibilità, che è il limite che la meità ha nella esperienza, non prova
che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il
contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura
come schietta egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te,
persone viventi, non è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno
singolare; io, alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è
immesso nell’altro uno, Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in C.. Cfr. in
proposito C., La coscienza. immissione, senza della quale è assurdo non solo
l’innegabile consentimento ma anche la divergenza di noi nell’alterità nostra;
consentimento, e divergenza, per i quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti soggetti
dell’Unico, che è immanente a noi molti. La differenza fra le egoità si dà solo
a livello empirico, a livello trascendentale e metafisico i soggetti sono
identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente penetrativi. C. contrasts the rock of concrete, temporal, plural, relational being in
the light of which the problem of the origin, of the foundation, of validity
cannot be given up, with the sand of historicist becoming, of the historicist
succession of the facts in which law and value coincide with the succession
itself. The metaphor of sand and rock used by the same C. in his later writings
is taken up by Semerari in the title of an essay dedicated to critical
ontologism. This metaphor gives us a good idea of the fundamental theoretical
instance relating to the problem of history. Such a theoretical instance is
asserted by Carabellesian ontology in its opposition to historicism through the
ontological recovery of time and of existence and by contrast as well with the
interpretation, traceable in Heidegger, of time and existence as the outside,
as the not of meta–temporal and meta–existential Being, that is, as its decayed
phenomena21.”La responsabilita profonda, grave, se una se ne vuol trovare, e
questo aver SCAMBIATA LA SABBIA DELL’IERI, OGGI, E DOMANI, SEPARATI, AVER
SCAMBIATA LA SABBIA DEL “FUI” PER LA ROCCIA DELL’ “ESSERE” -- l’eterno – nell’eterno -- nella roccia,
l’ieri, l’oggi, e il domani non sono separati ne successivi – la copula S EST P
– non S FUI P --. La
responsabilita profonda e di questa coscienza storicista, che si resolve
appunto nel credere che tutta la CASA umana sia FATTA SU SABBIA [on sand, not
on rock]– e DI SABBIA. Abbandoniamo questa coscienza storicista di Croce, che
spessso si nasconde, forse piu intransigente anche nel dommatismo ultramondano
degl’ANTI-STORICI, che pur soltanto UNA SABBIOSA STORIA (la storia della
semiotica, la storia di Vitruvio) concedeno all’umana attivita consapevole.
CERCHIAMO LA ROCCIA al di sotto di questo SGRETOLAMENTE (la greta), che sono i successive
e separati ieri, oggi, e domani. CI riuscira forse cosi di ritrovare il
fondamento e di trarre anche dallo SCAVO DI FONDAZIONE, PER LA COSTRUZIONE
DELLA NOSTRA CASA, materiale piu atto che non sia quello datoci dal SABBISO
SUCCEDERSI DI ETA UMANE E COSMICHE. Certo nessuna costruzione noi uomini
pensanti possiame fare SULLA ROCCIA se queso nostro PENSARE NON TOCCA LA
ROCCIA. Nessuna costruzione possiamo fare se nostro pensare no ha LA ROCCIA A
SUO INTIMO FONDAMENTO. Ma tanto meno potremo alcuna costruzione fare SE
INTENDIAMO FARLA CON POLVERE di idee che si facciano sorgere o tramonatre con
la storia. Su Polvere e di polvere non si costruisce. Si COSTRIUCE SOLO CON
PIETRA [stone] DURA [hardened – D. Paul] SULLA ROCCIA. ROCCIA E L’ESSERE
SPIRITUALE CHE *dura* -- durazione, duro – ETERNO.” 24 Omnis ergo, qui audit verba mea haec et
facit ea, assimilabitur viro sapienti, qui aedificavit domum suam supra
petram. 25 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt
venti et irruerunt in domum illam, et non cecidit; fundata enim erat supra
petram. 26 Et omnis, qui audit verba mea haec et non facit ea, similis erit
viro stulto, qui aedificavit domum suam supra arenam. 27 Et descendit pluvia,
et venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et
cecidit, et fuit ruina eius magna ”.Pantaleo Carbellese. Keywords: la sabbia
e la roccia – il segno, lo scandalo del significato, io/tu, Husserl,
intersoggetivita, intersoggetivo, interpersonal, interattivo – interazione,
azione sociale – orientazione all’altro, razionalita strategica, razionalita
comunicativa, complessita intensionale, il significato, i significati,
l’nsieme, la comunita, il noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Caracciolo: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del colloquio – scuola di San
Pietro di Morubio – filosofia veronese – filosofia veneta -- filosofia italiana
– Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library
(San
Pietro di Morubio). Filosofo veronese. Filosofo veneto. Filosofo italiano. San
Pietro di Morubio, Verona, Veneto. Grice: “I like
Caracciolo – at Harvard, I joked on Schlipp, and stated that Heidegger was then
the greatest (grossest, in German) living philosopher – as he then was, living
--. Caracciolo has dedicated his life to translate Heidegger’s ‘Dutch’
mannerism into the ‘volgare’: and now I have concluded that Heidegger is
perhaps the grossest dead philosopher – “in cammino verso il linguaggio: il
dire originario” –“. Grice: “Note that
Caracciolo’s ‘cammino’ translates Heidegger’s ‘weg’ – my ‘way’ of words – but
for Heidegger is ‘way to’ (weg zur) – as it should!” cf. Speranza, “in cammino
verso la conversazione” – versus “il cammino della convresazione’ –“ Grice: “Note
that in Italian, unlike German, you drop the otiose ‘the’ of ‘way – “Nel
cammino” is o-kay, but “in cammino” is the choice by Caracciolo!” – cf.
Aligheri, ‘nel cammino’ OF his life, towards heaven, or paradise, that is.” Studia a
Verona e Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con il quale collaborò alla stesura
dei Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno dei più noti martiri della Resistenza
e a lui Caracciolo dedica un saggio, “Teresio Olivelli: biografia di un
martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi, Brescia, e Genova. La sua filosofia si
sviluppa inizialmente all'interno della tradizione crociana, ma poi acquisisce
tratti più originali a contatto con Jaspers, Löwith e Heidegger. In cammino
verso il Linguaggio. Di particolare interesse e importanza sono i suoi studi
sul nichilismo a partire da Leopardi e sulla dimensione religiosa
dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure mostrato una forte
attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra pensiero e musica. Altre
opere: “L'estetica di Croce nel suo svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica
e la religione di Croce (Arona); Estetica (Brescia); Etica e trascendenza,
Brescia); Arte e pensiero nelle loro istanze metafisiche. I problemi della
"Critica del giudizio", Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona
e il tempo, Arona; Saggi filosofici, Genova); Studi jaspersiani, Milano); La
religione come struttura e come modo autonomo della coscienza, Milano); Arte e
linguaggio, Milano); Religione ed eticità, Napoli); Löwith, Napoli);
Nichilismo, Napoli); Nichilismo ed etica, Genova); Studi heideggeriani,
Genova); Nulla religioso e imperativo dell'eterno, Genova); Politica e
autobiografia, Brescia); Leopardi e il nichilismo, Milano); La virtù e il corso
del mondo (Alessandria); L'assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni,
Napoli); Filosofia della religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania.
Lo spirito della religione antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza.
Lo spazio della trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo.
Sentieri del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino verso il
linguaggio. Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die Sprache im Gedicht. Il
linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht. Aus einem
Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und einem Fragenden. Das Wesen
der Sprache. L’essenza
del linguaggio. Das Wort. La parola. Il verbo. Der Weg zur Sprache. In cammino
verso il linguaggio. Essere e tempo. La riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον
λόγον ἔχον. Ermeneutica e metodo storico-ermeneutico. Il ‘non’ come fondamento.
Più in alto della realtà sta la possibilità. La Kehre. L’essere: un problema
che rimane problema. Poesia. L'arte come messa in opera della verità.
Hӧlderlin. Il tempo della povertà. Il pensiero come Kehre. In cammino verso il
silenzio. La differenza e il fondamento. In cammino verso il linguaggio: il
dire originario. In cammino verso il linguaggio: il suono del silenzio.
“Heidegger is the greatest living philosopher”. Heidegger In cammino
verso il linguaggio Curatore: C. Mursia. Heidegger scrisse In cammino verso il
linguaggio. Ci sono alcune cose interessanti e volevo proporvele questa sera.
Innanzi tutto l’esordio in cui è molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo
parla, noi parliamo nella veglia e nel sonno, parliamo sempre anche quando non
proferiamo parola ma ascoltiamo o leggiamo soltanto perfino quando neppure
ascoltiamo o leggiamo ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in
un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci
è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà, si dice
che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza
della pianta e dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo
non si intende affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità
anche quella del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa
dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in
quanto parla, è la lezione di Humboldt, resta però da riflettere che cosa
significhi “l’Uomo”. Ora considera una poesia di Kraus: Quando la neve cade
alla finestra a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è
pronta, la casa è tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta
per oscuri sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa
della terra, silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la
soglia, là risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita
piena di grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo”
colui che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che
cosa “chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che
“chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove
ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è
l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già
detta, in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce
in ciò che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di
Lacan e di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò
che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che
grazie ad esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e
troppo spesso, ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il
passato del parlare. // Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama”
la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel
senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di
cui parla Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il
luogo 2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza
serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel
nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra
breve il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è
l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della
neve” (qui cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che
si oscura inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li
porta come mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali
alla terra, le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso
di sé cielo e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e
i divini” costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose
trattengono presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e
trattenere consiste l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e
terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi
lo chiamiamo “il mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro
essenza, queste nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel
mondo esse stanno e in questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro
durata, le cose in quanto sono e operano come tali portano a compimento il
mondo. Nel tedesco antico “portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i
termini “gebären” “generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la
loro essenza le cose sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse
generano il mondo. La prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro
di venire, tal dire chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo
stesso sospinge verso le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano,
per questo la prima strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama
i molti che come mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose
condizionano i mortali ciò a questo punto significa: le cose visitano di volta
in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla
nell’atto che dice alle cose di venire, la seconda strofa parla in modo diverso
dalla prima eccetera … qual è la questione qui? Importante perché ci sta
dicendo che c’è il mondo che è fatto di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”,
il mondo è ciò per cui le cose sono quelle che sono, adesso ve la dico in modo
molto più semplice e capirete subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è
l’Essere. In questa posizione sta dicendo che senza il mondo cioè senza
l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è preciso qui quando dice “la caduta
della neve” per esempio nel verso “porta gli uomini sotto il cielo che si
oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della campana della sera li porta
come mortali di fronte al divino” cioè queste parole costruiscono la scena
entro la quale la “cosa” può apparire, come se fosse, adesso preciseremo
meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di significante, adesso sto un po’
stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il significato, senza significante
non c’è significato e viceversa, il significato cioè ciò che questa “cosa”,
questa parola produce, se lui nomina il “suonare della campana” è chiaro che
questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca il divino, evoca la religione,
evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo una, ma potrebbero essere
sterminate ed è all’interno di questo che l’ente compare, Intervento: come se
le cose potessero apparire solo in questa scena che è il “mondo”. Esattamente,
però senza gli enti il mondo non c’è. Intervento: il mondo è la totalità degli
enti? Sì, esattamente, poi: Come il chiamare che nomina la cose chiama presso e
rimanda lontano, così il dire che nomina il “mondo” è invito a questo a farsi
vicino e al tempo stesso lontano. Cosa vuole dire che “chiama presso e rimanda
lontano” questo “chiamare”? le chiama le cose parlando, io chiamo le cose
quindi è come se me le avvicinassi ma mentre avvicino queste cose, queste cose
si allontanano anche, si allontanano perché di cosa sono fatte? Intervento: c’è
sempre quell’assenza di prima. Sì, queste parole sono assenti, nel senso che
non sono lì in quanto tali, sono lì sempre in quanto riferite al mondo ecco:
esso, il chiamare, affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le
cose nello splendore del mondo, il mondo concede alle cose la loro essenza.
Quindi è questo mondo, questa scena, io adesso uso dei termini che lui non usa
ma solo per rendere le cose più semplici, è questo “mondo” che dà alle cose la
loro essenza, qui sembra essere ancora platonico, questo mondo 3 potrebbe
essere pensato come il mondo delle idee ed è questo mondo delle idee che da
alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose d’altra parte fanno essere il
mondo, il mondo consente le cose. Il parlare delle prime due strofe parla
nell’atto che sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le
cose- tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa il linguaggio: neppure
però costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non sono infatti realtà
che stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano vicendevolmente,
compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in questo si
costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e
l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il
“fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde
il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a
pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e
adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure,
L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si
distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra
mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora
adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione
della “differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del
frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui
sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui
area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si
parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con
essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla
quale, e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità
della dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che differenziando
porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser mondo, porta le
cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un verso l’altro. Il
termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione posta tra oggetti
del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo sono quelli che
il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una relazione
oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero presentativo
venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è comunque relazione
tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento negata e trascesa
– cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa che le cose
emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga come quello
che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto misura nella sua
interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio di mondo e cosa,
la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta generandola la
misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel nominare che chiama
“cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la dif-ferenza. A questo
punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato necessariamente a Derrida, il
quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger ma tra breve sarà ancora più
evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha riletto con De Saussure dice:
“Questo chiamare” ricordate prima ha detto del chiamare: Questo chiamare è
l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata dalla quale soltanto ogni
“chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale pertanto ogni possibile
“chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto suono nella “quiete”
(adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta, (ovviamente) portando mondo
e cose alla loro essenza, il fondare e comporre mondo e cose nel modo
dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il linguaggio, il suono della
quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi evento, l’essere del
linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della quiete non è nulla di
umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il termine “parlante”
significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. (lui
è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il linguaggio che parla, e
il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari degli altri, infatti
quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un abominio per
Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere oggetto
dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua portato a
se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere all’essenza del
linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene all’essenza del
linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete) si realizza in
quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si avvale del parlare
dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono della quiete”,
solo in quanto 4 gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete,
i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni. Il parlare
dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è fondamentale in Heidegger lo
ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è invito alle cose e al mondo
farsi presso muovendo dalla semplicità della differenza. La pura del parlare
mortale è la parola della poesia, l’autentica poesia non è mai un modo più
elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto il contrario, che cioè il
parlare quotidiano è una poesia dimenticata come logorata nella quale a stento
è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. Ecco la questione
che sta ponendo è esattamente quella che pone Derrida, questo suono, questo
suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia è ciò che costituisce la
condizione della parola che chiama, beh è ciò che Derrida ha elaborato come
“differance”, lui usa per indicare questo suono che non c’è, usa questo
esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si scrive così, però a
“difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi “differance” che in
francese è scorretto perché si scrive “difference”, però dice anche cambiando
la e con la a, il suono della parola in francese “differance” non cambia, è
esattamente lo stesso cioè questa e non si sente, che metta la e o metta la a,
è uguale, non si sente, cioè quella cosa che lui chiama la “differance” è
esattamente questo suono muto, che tuttavia è quella cosa che consente alla
parola di essere tale e cioè di, mettiamola così, lui, forse dovrei aggiungere
qualcosa, lui, Derrida muove a queste considerazioni partendo da De Saussure,
dal segno di De Saussure “significante/significato” e quindi ciò che dice è che
questa barra è quella che divide il significante dal significato ma è quella
che compone il segno, senza questa barra che distingue il significante dal
significato il segno non c’è, però questa barra si scrive, si mette il
trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel significante né
nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella cosa che non
compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia segno, cioè
perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono di cui parla
qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo “cosa e
mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno altro,
l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito
all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in
essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla
né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla,
per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa
invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto
precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio
non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra
altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan
quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato
Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto
del fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una
proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il
linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa
una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le
cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di
fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la
quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile
costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le
cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in
effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola
“costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella
cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad
Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste”
tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo
mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto
interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono
minimamente interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto
conto di queste asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino
verso il linguaggio” 5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del
linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice
che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non
esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che
mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo
molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in
quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice
denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola
come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un
aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa,
alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire
lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza
una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è
il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e
connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo
dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche
cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il
mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo
determina, non lo può determinare. Intervento: lo potrebbe determinare
l’esserci, “Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente
di volta in volta. Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare che
l’essere non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che, così
notava Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza
improbabile, è come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È
niente. Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere,
significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non
possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo
come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In
questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e
si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più
alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti,
l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la
“presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due
momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua
propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui
lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità,
sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa
differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza
tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono
tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il
significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica
qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa,
chiama anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il
quale mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla
semiotica, in fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati
in queste questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado
dicendo ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili,
perché quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio
è inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per
Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni
all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la
psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono
associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata.
Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto
spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi
Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può
accadere certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche
simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato”
sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si
può pensare la differenza in quanto tale, così come non può 6 neanche
dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice
Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi
la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: non
avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune cosa
ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui incomincia a
parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto “Essere e
tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che una
riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al linguaggio
necessariamente. Il parlare inteso nella sua pienezza significante trascende
sempre la dimensione puramente fisico sensibile del suono ovviamente il parlare
non è soltanto il suono ma il linguaggio come significato fattosi suono o segno
scritto è qualcosa di essenzialmente soprasensibile, qualcosa che perennemente
oltrepassa il puramente sensibile, il linguaggio così inteso è per sua
costitutiva natura metafisico.) È la metafisica che rappresenta, badate bene:
si parla, si rappresenta, se si rappresenta si compie un’operazione metafisica.
Poi sul volere sapere: Il voler sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non
portano mai a un interrogare pensante, nel volere sapere si cela già sempre la
presunzione di un auto coscienza che si appella a una ragione auto fondata e
alla sua razionalità, il volere sapere non vuole che si stia in ascolto di
fronte a ciò che è degno di essere pensato. Intervento: è una forma di
controllo Esattamente, e poi c’è la seconda parte di cui ci occuperemo nel
prosieguo perché ciò che stiamo facendo è straordinariamente vicino a ciò che
qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha dubbi sul fatto che l’uomo è quello
che è, perché c’è il linguaggio, non ha nessun dubbio lo pone proprio nelle
prime pagine il che comporta ovviamente delle implicazioni, perché se l’uomo
non è se non nel linguaggio allora, dice lui giustamente, occorre porsi in
ascolto del linguaggio, che non significa ascoltare quello che qualcuno dice,
ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi in ascolto della domanda che c’è nel
linguaggio, nella chiamata che il linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le
cose e fra le cose, chiama anche l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione
perché ci sia questa chiamata. Questa è una questione sempre presente in
Heidegger, infatti è stato accusato di “umanismo”, “accusato” tra virgolette,
mentre lui si è sempre difeso da questo, la sua non è una posizione
esistenzialista, ha dovuto attraversare l’esistenzialismo perché l’unico
esistente è l’uomo, questo accendisigari per Heidegger non esiste, c’è, ma non
esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto coloro che sono in condizioni di
porre la domanda, questo aggeggio, questo accendino non fa nessuna domanda. Per
Heidegger l’uomo è il portatore in un certo senso del linguaggio, forse non
necessariamente l’unico, però a quanto ci consta per il momento si, e questo,
sempre per Heidegger, è fondamentale perché l’uomo può trarre la verità, cioè
la verità sull’essere e quindi il fatto che l’essere non sia nient’altro che
l’esserci dell’uomo in quanto progetto ciascuna volta, solamente nel dialogo.
Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un dialogo dove le cose si interrogano,
dove si mantiene aperta la domanda non la chicchera, il parlare per il sentito
dire, il sentito dire vuole dire anche averlo letto da qualche parte, ma non
averlo interrogato in modo autentico. Interrogare in modo autentico e lasciarsi
interrogare dalla cosa: una qualunque cosa pone delle questioni, per esempio
“che cos’è?” o quando mi trovo all’interno di un progetto su come posso
utilizzare quella certa cosa, pone comunque sempre delle domande, l’uomo è
sempre all’interno di questo domandare, continuamente. Questo è il domandare
autentico, quello che si lascia interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che
sta facendo, le cose che sta incontrando, non da colui che invece si precipita
a dare la risposta o come dicevo prima ha la fretta di sapere tutto
dimenticandosi della domanda. Nella parte successiva ci saranno delle cose
molto interessanti da dire. per esempio sulla poesia che per lui è importante
perché la poesia accenna, e in questo accennare lascia che la parola chiami le
cose, senza fermarle, senza bloccarle, senza mortificarle ma le lascia essere,
lasciar essere questo è sempre stato fondamentale per Heidegger. Heidegger
prosegue: La ricerca scientifica e filosofica mira da qualche tempo (siamo nel
‘59) in modo sempre più deciso a costruire ciò che viene chiamato
“metalinguaggio” (qui ce l’ha con i filosofi analitici) giustamente pertanto la
filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale super linguaggio,
intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona come metafisica,
non soltanto suona “come” ma è, la metalinguistica è infatti la metafisica
della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento
interplanetario di informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica e
tecnica missilistica sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia
di Stefan George, il titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o
sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia
Norna (Norna è la dea del fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte,
meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e
splende per tutta la marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno
giunsi colà dopo un viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a
lungo e al fine mi annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso
sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi
triste la rinuncia: “nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito
di persone considera non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio,
questa “cosa” che gira vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è
mondo, e per molti essa era ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della
tecnica moderna, la quale dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido
il pensiero che sia la parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le
parole ma le azioni contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario,
lasciamo la fretta del pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa
è, e così come essa è, in nome del suo nome? Certamente. Se l’affrettare nel
senso del massimo potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel
cui spazio temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere
quello che sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità
cioè esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato
all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica
ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se
la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno
sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il
suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo
dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma
sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose
perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che
se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla.
Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che
riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso infatti
appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das Wort
gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato diverso da
quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del discorso indiretto
che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che segue i due punti,
dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo “così io presi triste
la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non indica ciò cui si
rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve immettersi, indica il
comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola e cosa ora esperito,
(“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si esperisce la cosa, allora
c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il poeta ha preso la rinuncia
è la sua precedente opinione nei riguardi del rapporto fra cosa e parola,
rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola a lui fino a quel momento
consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto diverso, nel verso “Kein
ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe allora sul piano grammaticale
un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”, l’indicativo è “ist”) al posto
dell’indicativo “ist” bensì una forma dell’imperativo, un ordine cui il poeta
obbedisce per rispettarlo anche in futuro, nel verso “nessuna cosa “sia”
laddove la parola manca”, il “sia” significherebbe allora “non considerare
d’ora in poi una cosa come esistente dove la parola manca” (è un imperativo
categorico” e non so per quale via mi ha evocato le parole di Parmenide “sulla
via del non essere non ti ci incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con
quel “sia” inteso come 8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella
rinuncia per cui egli abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista,
anche quando la parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La
parola “Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica
dice “Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa”
“rinunciarvi”. Zeihen corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco
“sagan” (il sagen del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un
Entsagen, letteralmente un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al
suo precedente rapporto con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui
rifiuta qualcosa, già gli è stato destinata una chiamata alla quale egli non si
sottrae più. (nella sua rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa
ci sia anche senza la parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di
fronte a ciò che incontro, a pensare che questa cosa che incontro sia già lì
prima che io la dica, prima della parola, non che io la dica propriamente, però
aggiunge no, non è proprio così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato
destinato “una chiamata alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a
quella maniera, se non la parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che
solo la parola fa sì che la parola appaia e sia pertanto presente come quella
cosa che è, la rinuncia che il poeta apprende è della natura di quella compiuta
rinuncia alla quale soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è
propriamente già destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come
una chiamata alla parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione,
seguendo questa chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa,
questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola
dall’altra (qui c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la
parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in
modo che essa è una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte
del linguaggio (poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia
bisogno di portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre
commentando la poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole
che a quella fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo
quelle che convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua
fantasia, prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita
delle sue precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando
di George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già,
da e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto
consistesse poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e
rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è
parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è
per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione
portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui
meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la
poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del
poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge
però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora
gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno
riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i
poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e
anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni
e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo
gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e
questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure
sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale
dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale”
cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la
parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano
quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia
che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di
lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo
semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul
fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia
terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge
all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella
poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non
poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza
del 9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale
l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a
un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di
lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto
proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la
delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività
si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”.
Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta
appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è
all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice
qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite
del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo
allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è
quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire
l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta
cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della
parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola
che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un
altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più
senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo
parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o
meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non
è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso
all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola
manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe
essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire
di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il
discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle
forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il
linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento
in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che
differenzia l’istinto dalla pulsione. Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a
possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della
parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che
si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale
organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda
primitiva, o comunque dai gruppi degli animali. Intervento: dal branco degli
animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei
così. Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una
domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve
esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già
non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza,
sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci
deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui,
come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la
parola sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò
che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita
ancora la frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra
parola e cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in
quanto essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa
(qualunque essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del
rapporto, il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io
che porta all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha
incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è
un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il
passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo,
il passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al
riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si occupa
in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle scienze la
via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός” “attraverso il
cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella scienza moderna un
puro strumento al servizio della scienza 10 anzi al contrario è il metodo
che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo fatto è stato visto in tutta
la sua portata per la prima volta da Nietzsche, che così ne parla nelle
annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus degli inediti pubblicato
postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà di potenza”. La prima dice
“ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la vittoria della scienza ma
la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”. L’altra notazione incomincia
con la proposizione “Le idee più importanti furono trovate per ultime, ma le
idee più importanti sono i metodi” in realtà anche Nietzsche è giunto assai
tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza e precisamente l’ultimo
anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino. Nelle scienze non solo il
tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel metodo e vi resta sottoposto,
la corsa folle, che oggi trascina le scienze verso mete che esse stesse
ignorano, ha la sua forza propulsiva nel potenziamento e nel progressivo
assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a questo
intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il tema rientra nel
metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni, mercoledì prossimo riprendiamo
questo testo. Vi rileggo la poesia di Stefan George perché la riprende si
chiama “La parola”, Das Wort: Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo
estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna il nome trovò nella
sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora
fiorisce e splende per tutta la marca. Un giorno giunsi colà dopo viaggio
felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e alfine mi annunciò
“qui nulla d’eguale dorme sul fondo”. Al che esso sfuggì alla mia mano e mai
più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia “nessuna
cosa è dove la parola manca”. C’è da dire qui che la questione che sta ponendo
questa poesia è interessante perché di fatto sta chiedendo alla Norna di
fornirgli, dicevamo l’altra volta, la parola della parola, e cioè un qualche
cosa che è fuori della parola e che dovrebbe garantire l’essere della parola.
Ovviamente cercare la parola fuori dalla parola è un problema, tant’è che la
Norna, saggia, dice “qui nulla d’eguale dorme sul fondo” e allora lui ha
appreso la rinuncia: non troverà mai qualche cosa che da fuori della parola
possa garantire la parola. Intervento: sarebbe il significato del significato?
Non esattamente, perché il significato del significato è ancora un altro
significato, quindi un altro termine, un altro elemento linguistico, qui cerca
invece proprio la garanzia, cioè il qualche cosa che è fuori dal linguaggio e
che dia alla parola la sua consistenza. “Nessuna cosa è dove la parola manca”
accenna al rapporto tra parola e cosa, prospettandolo in modo che la parola
stessa risulti il rapporto, in quanto essa trae all’essere e mantiene nell’essere
ogni cosa, qualunque essa sia. // Infatti fra le primissime cose cui diede voce
il pensiero occidentale rientra il rapporto tra cosa e parola e precisamente
nella figura del rapporto tra essere e dire, questo rapporto sorprende il
pensiero in modo così subitaneo e sconvolgente da dirsi in una sola parola,
esso suona “λόγος”, ma ancora più sconcertante è per noi il fatto che in tutto
questo non si fa un’esperienza pensante del linguaggio, nel senso cioè che il
linguaggio stesso in base a quel rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta
dicendo che il linguaggio non “si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare
il linguaggio, di uscire dal linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio
sapendo di che cosa si sta parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il
linguaggio ricusa, in questo senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa
realmente è, perché appunto dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo
rifiuto fa parte dell’essenza del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio
non solo si trattiene così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma
trattenendosi esso in sé, con la sua origine nega la sua essenza a quel
pensiero presentativo nel quale comunemente ci muoviamo, per questo non
possiamo nemmeno più dire che l’essenza del linguaggio sia il linguaggio
dell’essenza (come diceva prima) a meno che la parola “linguaggio” non indichi
nel secondo caso qualcosa d’altro che cioè quel rifiuto dell’essenza del
linguaggio a dirsi, proprio esso, parla. (In altri termini sta dicendo che il
linguaggio non dice se 11 stesso, si trattiene dal dire di se stesso
nell’accezione che indicavo prima, e cioè come se volesse parlare da fuori il
linguaggio per dire che cos’è esattamente il linguaggio, si trattiene dal fare
questo. Heidegger dice che non possiamo nemmeno più dire che l’“essenza del
linguaggio sia il linguaggio dell’essenza” come diceva prima e cioè che
l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al linguaggio è il linguaggio
dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel linguaggio che parla di ciò che
è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio non lo si intenda nelle due cose
in modo differente e cioè nel secondo caso intendendo che è proprio lui che
parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò che parla continuamente, il
linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per dirla con Heidegger, il “dire
originario”, quel dire cioè che muove nel momento in cui è qualcosa, qualcosa
appare e questo dire lascia che ciò che appare interroghi, ciò che si dice, a
questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le cose, a questo punto è lui, è
soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse qualcosa che è ancora più chiaro,
dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”. Così suona la rinuncia del
poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene in evidenza il rapporto fra cosa e
parola. (Il rapporto tra cosa e parola è importante perché è ciò che la
metafisica ha sempre cercato di stabilire con certezza, lì c’è la parola e lì
c’è la cosa, però è un problema come dicevamo la volta scorsa, è la questione
tipica della metafisica e cioè il problema del “terzo uomo” come diceva già
Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve fare da tramite tra i due, il
problema è che questo terzo elemento che deve consentire il bloccarsi di questa
relazione tra cosa e parola, anziché compiere questo rinvia la cosa
all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il quarto, c’è il quinto c’è
il sesto e così via all’infinito e quindi non raggiungerà mai la cosa): Abbiamo
anche detto che “cosa” (lui lo mette tra virgolette) indica qui ogni possibile
essente quale ne sia il modo d’essere. (cioè qualunque cosa) Abbiamo detto
ancora riguardo alla parola, che questa non solo sta in rapporto con la cosa ma
porta la cosa che di volta in volta nomina, la cosa in quanto essente che è e
tale, “è”(tra virgolette) in questo reggendola, trattenendola, dandole per così
dire il sostentamento a essere cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la
parola che fa essere ciò che dice, nel momento in cui dice le cose è in quel
momento che esistono, che sono quello che sono. È questo che sta dicendo.
Conseguentemente abbiamo detto che la parola non si limita ad essere in
rapporto con la cosa ma che la parola stessa è ciò che porta e serba la cosa
come cosa. (che è ancora di più che “la parola stessa è la cosa”, perché la
parola è ciò che porta e “mantiene” e fa perdurare la cosa in quanto cosa, dice
che la “parola in quanto ciò che porta e serba è il rapporto stesso”. Qui
badate bene che dice “è il rapporto stesso” anzi l’ha già detto varie volte,
come dire che questo rapporto tra parola e cosa è la parola stessa, quindi non
c’è più la parola e la cosa ma c’è una relazione tra parola e cosa, nel senso
che la parola rende la cosa quella che è, e solo la parola può farlo, cioè il
λόγος, e questo è la parola. Qui si potrebbe anche fare un accenno alla
questione della metafisica, così come trascorre da Platone fino a Heidegger,
non è altro che lo spostare una cosa presente a una cosa che presente non è, e
che deve dare il senso, il significato a ciò che è presente, da qui tutte le
distinzioni dalle più antiche alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”,
“immanente – trascendente”, “significante – significato”, “enunciazione –
enunciato”, l’ultimo in ordine di tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico
che tutta questa struttura è metafisica, è metafisica sempre in questa
accezione ovviamente, cioè ciò che questo significato di “metafisica” che, come
dicevo, trascorre da Platone fino ad Heidegger, indica che ciascuna volta in
cui qualche cosa deve la sua esistenza, la sua essenza, il suo significato, a
qualche cos’altro, questa è una struttura metafisica. Che ha degli effetti
ovviamente, perché comporta la supposizione che una certa cosa sia quello che è
in base a quell’altra, quindi quell’altra dà alla prima il suo significato, lo
ferma, lo blocca e che quindi questo secondo elemento costituisca l’essenza,
potremmo quasi dire, del primo, bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe,
dico “potrebbe”, consentire un passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla
metafisica. È da considerare che invece ciò che dà il significato al primo
elemento costituisca anche questo un elemento che trae il proprio significato
da altro, poi da altro, poi da altro ancora e così via all’infinito, a questo
punto non c’è la possibilità di bloccare un significato 12 ovviamente, ma
questo significato, come ci dice la semiotica, non è altro che un rinvio
continuo, infatti, a quella serie di contrapposizioni potremmo anche aggiungere
quella di Greimas, cioè i sememi danno un senso ai semi nucleari ché da solo,
di per sé, il sema nucleare non significa niente. Ora è chiaro che è il
linguaggio che è strutturato così, per questo da tempo sto dicendo che la
metafisica illustra il modo in cui il linguaggio funziona, né più né meno, per
cui non hanno neanche tutti i torti i metafisici a dire che non c’è uscita
dalla metafisica. Posta in questi termini in effetti non c’è uscita dalla
metafisica, e neanche attraverso la via immaginata da Heidegger ovviamente): La
“parola per la parola” non è dato trovarla là dove il destino dona il
linguaggio (cioè se c’è il linguaggio allora la parola per la parola non c’è,
una parola che dica la parola in modo definitivo, l’ultima parola sulla parola,
non c’è, non si trova perché c’è il linguaggio, il linguaggio che nomina e fa
essere, quindi non c’è), linguaggio che nomina e fa essere per l’essente, non
c’è la parola che dica l’essenza del linguaggio, perché questa sia e come
essente splenda e fiorisca la parola per la parola un tesoro certamente ma un
tesoro non conquistabile per la terra del poeta, e per il pensiero? Può il
pensiero? Quando il pensiero cerca di meditare la parola poetica (cioè la
parola autentica per Heidegger) questo si rivela: la parola, il dire non ha
essere. Il nostro modo corrente di concepire si ribella quando gli si propone
un pensiero così audace. Scritte o parlate ognuno pur vede e sente delle
parole, esse sono. Possono essere come cose, realtà afferrabili dai nostri
sensi, basta solo per far l’esempio più banale aprire un dizionario è pieno di
“cose” stampate, certamente puri vocaboli, non una sola parola, poiché la
parola grazie alla quale i vocaboli si fanno parola, un dizionario non è in
grado né di captarla né di custodirla, dove dobbiamo andare a cercare la
parola? dove il dire? Dall’esperienza poetica della parola ci viene un cenno
che può essere di grande aiuto: la parola non è cosa, nulla di essente, invece
noi abbiamo cognizione delle cose quando per esse c’è a disposizione la parola
allora la cosa è. Ma qual è la natura di questo “è”, “la cosa è”? e questo “è”
è anch’esso una cosa sovrapposta a un’altra, messale su come un cappuccio, noi
non troviamo mai questo “è” come cosa sopra altra cosa, per questo “è” la
situazione è la stessa che per la parola, questo “è” non fa parte delle cose
che sono più di quanto non lo faccia la parola. (sta dicendo che la parola non
è, nel senso dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia comunemente, e cioè
come ente, qui allude al fatto che la parola non sia determinabile, così come
lo è per esempio un vocabolo, un lessema, quindi intende con parola ovviamente
un’altra cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo dalla sonnolenza di un pensare
frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in ciò che l’esperienza del
linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il rapporto fra questo “è” che per
sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione che cioè non è nulla
che sia, (qui sta cercando di complicare le cose, adesso vediamo se) né l’“è”
nella parola hanno l’essenza della cosa, (l’abbiamo detto prima: non sono enti)
l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la parola al quale è affidato il compito
di concedere via, via un “è”, (sta dicendo che né questo è, quando diciamo che
“la parola è qualcosa”, questo “è” per lui costituisce un problema, diciamo “la
parola è”, “è” cosa? infatti né l’“è” né la parola in questa frase hanno
l’essenza della cosa, cioè non hanno l’Essere) né ha (soggetto l’Essere) il
rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non di meno, né l’“è”, né la parola e il dire
di questa, possono venire cacciati nel vuoto del niente (non sono niente,
qualcosa pur sono) Che indica l’esperienza poetica della parola quando il
pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degno d’essere pensato,
pensare il quale si pone al pensiero fino dai tempi più antichi e anche se in
modo velato come suo proprio compito, esso rimanda a quello di cui in tedesco
può dirsi “es gibt senza che possa dirsi “ist” cioè è, “gibt” “esso dà” “si
offre”, di ciò di cui può dirsi “est gibt” fa parte anche la parola (adesso
incomincia a intravedersi che cosa intende con quello che sta dicendo “la
parola non è, propriamente, ma è ciò che si dà, ciò che si offre”.)forse non
solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in modo tale che nella parola e nella
sua essenza si cela quello che “gibt” appunto “dà”, nella parola si cela quello
che essa stessa da. Della parola pensando con rigore non dovremmo mai dire “es
ist” cioè “essa è” ma “es gibt”, ciò non nel senso di quando si dice “es gibt
Worte” “qualcosa dà la parola” ma nel senso che la parola stessa dà, non è
qualcosa che dà la parola ma è la parola che dà, la parola: la datrice. Ma che
dà la parola? 13 secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica
del pensiero la parola dà: l’Essere (ecco perché prima diceva che la parola non
è l’Essere, la parola dà l’Essere) Ma se così stanno le cose allora in quel
“es, das gibt” “esso, il dare” noi dovremmo pensando cercare la parola come ciò
stesso che dà e mai è dato. La parola “es gibt” si trova in tedesco usata in
molteplici modi, si dice per esempio “es gibt an der sonningen Halde Erdbeeren”
“ci sono fragole sul pendio soleggiato”, “là ci sono le fragole”, nella nostra
riflessione “es gibt” è usato diversamente non “des gibt …” “si dà la parola”
ma “es das Word gibt…” cioè “essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war,
soll Ich werden” questo “es” può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là
dove qualcosa era occorre che io avvenga” è una delle traduzioni che sono state
fatte di questa frase. Così dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti
al quale molti e a ragione trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere
pensato resta, si fa anzi evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che
noi indichiamo con l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che
propriamente è degno di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la
determinazione di questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse
il poeta li conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la rinuncia
nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella parola che
dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che non ce l’ha)
il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma comportata
dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma sfugge in che
senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è trattenere ma qui
appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio della parola, il
gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte insignificanza
del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la parola non è
Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale incapacità di
dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a dirla, dice:)
no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si sottrae nel mistero
che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i versi introduttivi
al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone cioè un dire e in
forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che non è la parola
che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola come già aveva
fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione che indica
Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità tra
poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che
l’evento domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice
della sua essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre
raggiunto il segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo
solo se ha risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto
nel linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché
la presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa
dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo
si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché
la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione
dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica
nucleare, non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e
tempo (in tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre
esattamente gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in
grado di produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a
crollare l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché
non avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto
parla contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di
interpretare il cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”,
sennonché ciò che spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è
primariamente la passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad
essere quel che sono in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina
il pensiero moderno nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e nella
difficile situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia dietro la
quale si cela un passivo che non può essere sanato né da parte della scienza,
né da parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente poi qual è
questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere ciò che
stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco
l’ultimo capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande):
(Ripete di nuovo il verso 14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la parola
manca) Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione “Nessuna
cosa è dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè c’è una
frattura, un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle qualcosa,
farle mancare qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo quando c’è la
parola per dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che è la parola
per avere tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della parola per
essere? 3) Che significa qui “essere”, dal momento che appare come un dono
conferito alla cosa dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò che ha
detto nel libro praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono
conferito alla cosa dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde
alle domande poi, perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di
Heidegger che sia antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti
per lui l’uomo è oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si
accorge che l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso
sull’Essere, cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che
parla, senza colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la
risposta “meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta
giunge notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita
nel sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio
come realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole
tenere per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi
sono parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume
così consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così
facendo esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i
“nomi” sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi,
perché “i nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo
modo e cioè che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma
anche che “i nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che
rappresentano parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole
che rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i
nomi) propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù
rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è
l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli deve
prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso potremmo
dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt
consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi
non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si
riferisce sempre alla poesia di George) sono come qualcosa che dorme, che ha
bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle cose,
nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che poi
viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a quel
momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano la
realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto quella
che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si trova? (il
gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello deve sì
restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No, altro
accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che manca il
nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della parola, è
quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente: (cioè la
parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo prende e lo
porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola presenta
improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa sulla realtà,
come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che consiste nel dare
un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta dinnanzi, al
contrario (qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce la presenza
cioè l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente, quest’altro potere
della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo brusco e improvviso,
al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca, perciò il gioiello
dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un tesoro che poi il poeta
non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si dilegua, che cosa manca?
Qui non siamo nella questione della “mancanza a essere”, siamo al fatto che ciò
che manca è quella parola che da fuori del linguaggio finalmente dica che cos’è
veramente la parola. Il nome che si dà alla parola è un’altra parola, non è
qualcosa che da fuori 15 dovrebbe garantire che sia esattamente quella
cosa. E qui insiste sul fatto che la parola fa sì che la cosa sia, cosa
tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra del poeta mai giunge a
possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la potenza e la vita della
parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della parola? il fatto di fare
essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola, alla
sua propria parola ma la parola, per l’essenza della parola, non viene
concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è questo che non viene
concesso, è questo che manca, in questo senso diceva. L’ultimo capitoletto “In
cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al testo. Ecco qui parla dell’¡λήθεια:
il testo di Aristotele evidenzia con un dire chiaro e sobrio quella classica
struttura in cui si cela l’essenza del linguaggio inteso come parlare, le
lettere indicano i suoni, i suoni indicano le affezioni dell’anima, le
affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima, il “mostrare” “das Zeigen” è
quello che costituisce e regge l’intera impalcatura, in modo vario, velando e
disvelando, esso il mostrare, porta qualcosa ad apparire, fa che ciò che appare
sia avvertito e ciò che viene avvertito sia considerato (cioè esista) quando
riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo abbandonato il modo
di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul linguaggio. Non
possiamo più andare alla ricerca di concetti generali come “energia” “attività”
“lavoro” “forza spirituale” “visione del mondo”, espressione sotto i quali
condurre il linguaggio come un caso particolare di tale generalità. Anziché
spiegare il linguaggio come questa o quest’altra cosa fuggendone in tal modo
lontano, il cammino verso il linguaggio vorrebbe fare esperire il linguaggio
come linguaggio, nell’essenza del linguaggio, il linguaggio è sì compreso, ma
afferrato per mezzo di altro da esso è il famoso metalinguaggio (di cui diceva
prima il metalinguaggio come metafisica) se volgiamo invece l’attenzione
unicamente al linguaggio come linguaggio, questo pretende allora da noi che
mettiamo finalmente in evidenza tutto quello che fa parte del linguaggio in
quanto linguaggio (è quello che ho cercato di fare in questi anni intendendo
che cosa fa funzionare il linguaggio) Nel parlare rientrano i parlanti, ma il
rapporto tra parlanti e parlare non è riducibile a quello tra causa ed effetto
(se no sarebbe come dire che qualcosa dà la parola, mentre lui è stato preciso,
“è la parola che dà”, ma cosa dà? Le cose, l’Essere.) I parlanti trovano
piuttosto nel parlare il loro essere presenti, presenti a che? A ciò con cui
parlano, presso cui dimorano in quanto realtà che sempre già li riguarda, è
quanto dire “gli altri, le cose, tutto ciò che fa che queste siano cose, queste
precise cose e quelli gli altri quei concreti altri” (questo fa la parola, fa
esistere tutte queste cose qui) A tutto questo ora in un modo, ora in un altro
già sempre è andato l’appello del parlare. // Ma come sono pensati il parlare e
il “parlato”, nel breve racconto che si è precedentemente fatto del linguaggio?
Essi si rivelano già come ciò per cui e in cui qualcosa si fa parola, giunge a
farsi evidente in quanto qualcosa è detto. Dire e parlare non sono la stessa cosa,
uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla, un
altro invece tace, non parla e può col suo non parlare dire molto, ma che
significa dire, “sagen” in tedesco? Per esperire questo è necessario attenersi
a ciò che la lingua tedesca già costringe a pensare con la parola “sagen”.
“Sagan” significa “mostrare” “far che qualcosa appaia” “si veda” “si senta” //
Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il dire originario “die
saghe” in quanto “mostrare” “die Zeige”, il mostrare proprio di questo non si
basa su un qualche segno ma tutti i segni traggono origine da un mostrare nel
cui ambito e per i cui fini soltanto acquistano la possibilità di essere segni.
(Ma non sta proprio in questo mostrare, nel fatto che tutti i segni traggono
origine da un mostrare che si impianta la metafisica stessa, la sua stessa
possibilità? Ma ne riparleremo perché è una questione tutt’altro che semplice)
// (siamo alla fine volevo riprendere le tre domande che faceva prima, adesso
possiamo rispondere a ciò che si è domandato): Il dire originario è mostrare,
in tutto ciò (ricordate: il dire originario è mostrare. Questo è il dire
originario per Heidegger) in tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca
come oggetto di parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non detto è
in attesa di noi, non solo ma in quello stesso parlare, che noi veniamo
mettendo in atto, che è operante il mostrare sempre e comunque, in virtù di
questo che ciò che è presente appare, ciò che è assente dispare. Questo (è sempre
il dire originario il soggetto) dischiude ciò che è presente nel suo esser
presente (che sembra una ripetizione inutile “dischiude il suo essere presente
nel suo essere presente” ma il fatto che qualcosa sia presente per
Heidegger non è così automatico, occorre qualcosa che dischiuda, apra
l’orizzonte entro il quale qualche cosa può essere presente, non basta che sia
presente perché che sia presente da sé non significa niente se non c’è il
linguaggio che fa essere presente.) il dire originario domina compone in unità
la libera distesa di quella radura … da dove viene il mostrare? La domanda vuol
sapere troppo e troppo in fretta (non è che possiamo sapere tutto subito)
gioverà accontentarsi di osservare la natura e l’origine del moto presente nel
mostrare, non è necessaria qui una lunga ricerca è sufficiente l’intuizione
repentina, non obliabile e perciò sempre nuova, di ciò che, sì, è a noi
familiare, ma che noi tuttavia lungi dal riconoscere nel modo che ci conviene
neppure cerchiamo di conoscere, questa realtà sconosciuta e non di meno
familiare da cui ogni mostrare del dire originario trae il proprio moto, è per
ogni essere presente ed essere assente l’alba di quel mattino nel quale
soltanto può trovare inizio la vicenda del giorno e della notte. Alba che
insieme l’ora prima e l’ora più remota tale realtà appena ci è dato nominarla,
essa è l’“ort” che non tollera “Er-örterung”. Il tempo che non concede di
essere raggiunto perché è luogo di tutti i luoghi e di tutti gli spazi del
gioco del tempo, noi la chiameremo con una parola antica e diremo: ciò che
muove nel mostrare del dire originario è lo “Eignen”. Lo Eignen adduce ciò che
è presente e assente in quello che gli è proprio, cosicché emergendone la cosa
presente e assente, si rivela nella sua vera identità e resta se stessa. // Il
linguaggio non si irrigidisce in se stesso nel senso di un narcisismo di tutto
dimentico tranne che di sé, come sarebbe potuto apparire, (eventualmente) come
dire originario il linguaggio è il mostrare appropriante, che appunto prescinde
da sé per dischiudere così per mostrare la possibilità di rilevarsi nella
figura che gli è propria, (cioè il linguaggio consente alla cosa di mostrarsi e
permette anche alla cosa di mostrarsi per quello che è. Il linguaggio è questa
possibilità delle cose di essere quelle che sono. Ma non toglie alle cose il
fatto che sono quelle che sono.) Il linguaggio che parla dicendosi cura che il
nostro parlare, ascoltare il dire che non ha suono, corrisponda a quel che esso
(linguaggio) viene dicendo, in tal modo anche il silenzio che non di rado si
pone a fondamento del linguaggio, come sua scaturigine, è già un corrispondere
(corrispondere alla chiamata del dire, ovviamente, cioè del λόγος. La
conclusione sarà a questo punto la risposta a quelle tre domande.) Poiché noi
uomini, per essere quelli che siamo, restiamo immessi nel linguaggio, né mai
possiamo uscirne e posarci a un punto da cui ci sia dato circoscriverlo con lo
sguardo, noi vediamo il linguaggio sempre solo in quanto il linguaggio stesso già
si è affissato su di noi (appoggiato su di noi, fissato su di noi) ci ha
appropriato a sé, il fatto che del linguaggio ci è precluso il sapere, (perché
per sapere sul linguaggio bisognerebbe uscire dal linguaggio e tutte queste
storie) il sapere inteso secondo la concezione tradizionale fondata sull’idea
che conoscere sia rappresentare, non è certamente un difetto bensì il
privilegio grazie al quale siamo eletti e attratti in una sfera superiore, in
quella in cui noi assunti a portare a parole il linguaggio dimoriamo come
immortali insomma siamo fortunati ad essere parlanti. Allora le tre domande
alle quali potete, a questo punto, rispondere voi stessi: Che è la parola per
avere tanto potere? È l’Essere è il logos. Perché la parola ha tanto potere?
Perché è ciò che in quanto Essere è ciò che consente alle cose di apparire, ma
che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? La parola ha bisogno
della parola per essere la cosa, e quindi è quella cosa che diventa cosa
soltanto se la parola la fa essere cosa. Terza domanda: che significa qui
Essere dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola?
che significa qui Essere? Λόγος, nient’altro che λόγος e bell’è fatto. Ecco, io
vi ho fatto considerare queste cose perché non è tanto il fatto del contenuto
delle affermazioni di Heidegger quanto il modo in cui approccia la questione
del linguaggio, in un modo che lui direbbe “non presentativo” cioè non mostra,
non dice che cos’è il linguaggio come fa la linguistica, come fa la filosofia del
linguaggio, come fa la filosofia in generale approcciando il linguaggio come
ente, perché sta qui la differenza ontologica: ente/Essere. Il linguaggio è
Essere non è ente. Sono considerazioni interessanti che possono portare ad
altre considerazioni, possono aprire altre vie, per questo motivo vi ho letto
alcune cose di questo testo di Martin Heidegger. The uttered
speech of private life is fluctuating and variable. In every period it
varies according to the age, class, education, and habits of the speaker.
His social experience, traditions and general background, his ordinary
tastes and pursuits, his intellectual and moral cultivation are all
reflected in each man’s conversation. These factors determine and modify
a man’s mode of speech in innumerable ways. They may affect his
pronunciation, the speed of his utterance, his choice of vocabulary, the
shade of meaning he attaches to particular words, or turns of phrase, the
character of such similes and metaphors as occur in his speech, his word
order and the structure of his sentences. But the individual
speaker is also affected by the character of those to whom he speaks. He
adjusts himself in a hundred subtle ways to the age, status, and mental
attitude of the company in which he finds himself. His own state of mind,
and the mode of its expression are unconsciously modified by and attuned
to the varying degree of intimacy, agreement, and community of experience
in which he may stand with his companions of the moment. Thus
an accomplished man of the world, in reality, speaks not one but many
slightly different idioms, and passes easily and instinc- tively, often
perhaps unknown to himself, from one to another, according to the
exigence of circumstances. The man who does not possess, to some extent
at least, this power of adjustment, is of necessity a stranger in eveuy
company but that of one particular type. No man who is not a fool will
consider it proper to address a bevy of Bishops in precisely the same way
as would be perfectly natural and suitable among a party of fox-hunting
country gentlemen. A learned man, accustomed to choose his own
topics of conversation and dilate upon them at leisure in his College
common room where he can count upon the civil forbearance of other people
like himself, would be thought a tedious bore, and a dull one at that, if
he carried his pompous verbiage into the Officers’ Mess of a smart
regiment. 'A meere scholler is but a woefull creature says Sir Edmund
Verney, in a letter in which he discusses a proposal that his son should
be sent to Leyden, and observes concerning this— ‘ 'tis too private for a
youth of his yeares that must see company at convenient times, and studdy
men as well as bookes, or else his bearing may make him rather ridiculous
then esteemed ^ There is naturally a large body of colloquial
expression which is common to all classes, scholars, sportsmen, officers,
clerics, and the rest, but each class and interest has its own special
way of expressing itself, which is more or less foreign to those outside
it. The average colloquial speech of any age is at best a compromise
between a variety of different jargons, each evolved in and current among
the members of a particular section of the community, and each, within
certain social limits, affects and is affected by the others. Most men
belong by their ciicumstanccs or inclinations to several
speech-communities, and have little difficulty in maintaining Ihhmsclvcs
creditably in all of these. The wider the social opportunities and
experience of the individual, and the keener his lin- guistic instinct,
the more readily does he adapt himself to the company in which he finds
himself, and the more easily docs he fall into line with its accepted
traditions of speech and bc aiing. But if so much variety in
the details of colloquial usage exists in a single age, with such
well-marked differences between the conventions of each, how much greater
will be the gulf which separates the types of familiar conversation in
different ages. Do we realize that if we could, by the workings of some
Time Machine, be suddenly transported back into the seventeenth century,
most of us would find it extremely difficult to carry on, even among the
kind of people most nearly corresponding with those with whom we are
habitually associated in our present age, the simplest kind of decent
social intercourse? Even if the pronunciation of the sixteenth century
offered no difficulty, almost every other element which goes to make up
the medium of communication with our fellows would do so. We
should not know how to greet or take leave of those we met, how to
express our thanks in an acceptable manner, how to ask a favour, pay a
compliment, or send a polite message to a gentleman's wife. We should be
at a loss how to begin and end the simplest note, whether to an intimate
friend, a near relative, or to a stranger. We could not scold a footman,
commend a child, express in appropriate terms admiration for a woman’s
beauty, or aversion to the opposite quality. We should hesitate every
moment how to address the person we were talking to, and should be
embarassed for the equivalent of such instinctive phrases as look here,
old man ; my dear chap ; my dear Sir ; excuse me ; I beg your pardon
; I’m awfully sorry; Oh, not at all; that 's too bad ; that ’s most
amusing ; you see ; don't you know ; and a hundred other trivial and
meaningless expressions with which most men fill out their sentences. Our
innocent impulses of pleasure, approval, dislike, anger, disgust, and so
on, would be nipped in the bud for want of words to express them. How
should we say, on the spur of the moment what a pretty girl 1 ; what an
amusing play I ; how clever and witty Mr. Jones is ! ; poor woman ;
that's a perfectly rotten book ; I hate the way she dresses ; look here,
Sir, you had better lake care what you say ; Oh, shut up ; I'm hanged if
I'll do that ; I’m very much obliged to you. I'm sure ? It is
very probable that we perfectly grasp the equivalents of all these and a
thousand others when we read them in the pages of Congreve and his
contemporaries, but it is equally certain that the right expressions
would not rise naturally to our lips as we required them, were we
suddenly called upon to speak with My Lady Froth, or Mr. Brisk. The
fact is that we should feel thoroughly at sea in such company, and should
soon discover that we had to learn a new language of polite society. In
illustrating the colloquial style of the fifteenth century we have to be
content, either with the account of conversations given in letters, or
with such other passages from letters of the period as appear to be nearest
to the speech of everyday life. The following passages are from the
Shillingford Letters, to which reference is repeatedly made in this book
(see p. 65, &c.}, and are extracted from the accounts given by the
stout and genial Mayor of Exeter, in letters to his friends, of his
conversations with the Chancellor during his visit to London.
Shillingford begins by referring to himself as ‘ the Mayer but
suddenly changes to the first person— in describing the actual meeting,
again returning for a moment to the impersonal phrase. Jolm
Shillingford* ‘The Saterdey next (28 Oct. 1447) tberafter the mayer
came to West- minster sone apon ix. atte belle, and ther mette w* my
lorde Chanceller atte brode dore a litell fro the steire fote comyng fro
the Sterrechamber, y yn the courte and by the dore knellyng and salutyng
hym yn the moste godely wyse that y cowde and recommended yn to his gode
and gracious lordship my feloship and all the comminalte, his awne peeple
and bedmen of the Cite of Exceter. He seyde to the mayer ij tymes “ Well
come ’’ and the tyme “Right well come Mayer'’ and helde the Mayer a grete
while faste by the honde, and so went forth to his barge and w* hym grete
presse, lordis and other, &c. and yn especiall the tresorer of the
kynges housholde, w* wham he was at right grete pryvy communication. And
therfor y, mayer, drowe me apart, and mette w* hym at his goyng yn to his
barge, and ther toke my leve of hym, seyyng these wordis, “ My lord, y
wolle awayte apon youre gode lordship and youre better leyser at another
tyme He seyde to me ayen, “Mayer, y pray yow hertely that ye do so, and
that ye speke w* the Chief Justyse and what that ever he will y woll be
all redy”. And thus departed. A little later: * Nerthelez y awayted my tyme and put me
yn presse and went right to my lorde Chaunccller and seide, “My lorde y
am come at your coinmaundc- ment, but y se youre grete bysynesse is suchc
that ye may not attencle ”, He seide “Noo, by his trauthe and that y
myght right well se”. Y scide “Yee, and that y was sory and hadde pyty of
his grete vexacion”. He seide “ Mayer, y moste to morun ride by tyme to
the Kyng, and come ayen this wyke : ye most awayte apon my comyng, and
then y wol speke the justise and attende for yow ” &c. He seyde “
Come the morun Monedey ” (the Chancellor was speaking on Sunday). .. “the
love of God ” Y seyde the tyme was to shorte, and prayed hym of Wendysdey
; y enfourmed hym (of t)he grete malice and venym that they have spatte
to me yn theire answeris as hit appercth yn a copy that y sende to yow
of. My lorde seide, “ Alagge alagge, why wolde they do so ? y woll sey
right sbarpely to ham therfor and y nogh Brews* The following
brief extracts from the letters of Brews, the affianced wife of Jolm
Fasten (junior) are like a ray of sunlight in the dreary wilderness of
business and litigation, which are the chief subjects of correspondence
between the Pa&tons. Even this Iove*letter is not wholly free from the
taint, but the girl's gentle affection for her lover is the prevailing
note* * Yf that ye cowde be content with that good and my por
persone I wold be the meryest mayclen on grounde, and yf ye thynke not
your selffe soe satysfyed or that ye myght hafe much mor good, as I hafe
ujtidyrstonde be youe afor ; good trewe and iovyng volentyne, that ye
take no such labur iippon yowe, as to come more for that matter, but let
it passe, and never more to be spokyn of, as I may be your trewe lover
and bedewoman during my lyfe .’ Pas ton Letters^ hi, A few years later
Mrs. Fasten writes to her 'trewe and Iovyng volentyne ' : ' My
mother in lawe thynketh longe she here no word from you. She is in goode
heaie, blissed be God, and al yowr babees also. I marvel I here no word
from you, weche greveth me ful evele. I sent you a letter be Basiour sone
of Norwiche, wher of I have no word.’ To this the young wife adds the
touching postscript : ' Sir I pray yow if ye tary longe at London that it
wii plese to sende for me, for I thynke longe sen I lay in your armes.’ Paston Letie?-Sj Sir Thomas More. No figure in the
eaily part of Henry VIII’s reign is more distin- guished and at the same
time more engaging than that of Sir Thomas More* A few typical records of
his conversation, as preserved by his devoted biographer and son-in-law
Roper, are chosen to illustrate the English of this time. The context is
given so that the extracts may appear in Roper's own setting.
'Not long after this the Watter baylife of London (sonietyme his
servaunte) liereing, where he had beene at dinner, certayne Marchauntes^
liberally to rayle against his ould Master, waxed so discontented
therwith, that he hastily came to him, and tould him what he had hard:
"and were I Sir” (quoth he) " in such favour and authoritie
with my Prince as you are, such men surely should not be suffered so
villanously and falsly to misreport and slander me. Wherefore 1 would
wish you to call them before you, and to there shame, for there lewde
malice to punnish them.” Who smilinge upon him sayde, " Watter
Baylie, would you have me punnish them by whome 1 reccave more benefit!
then by you all that be my frendes ? Let them a Gods name speakc as
lewdly as they list of me, and shoote never soe many airowcs at me, so
long as they do not hitt me, what am I the worse? But if the should once
hitt me, then would it a little trouble me : howbeit, I trust, by Gods
helpe, (here shall none of them all be able to touch me. I have more
cause, Water Bayly (I assure thee) to pittie them, then to be angrie with
them.” Such frutfiill communication had he often tymes with his familiar
frendes. Soe on a tyme walking a long the Thames syde with me at Chelsey,
in talkinge of other thinges he sayd to me, " Now, would to God,
Sonne Roger, upon condition three things are well estab- lished in
Christendome, I were put in a sacke, and here presently cast into the
Thames.” " What great thinges be these, Sir ” quoth I, " that should
move you $0 to wish?” "Wouldest thou know, sonne Roper, what they
be” quoth he? “Yea marry, Sir, with a good will if it please you”, quoth
I, “ I faith, they be these Sonne ”, quoth he. The first is, that where
as the most part of Christian princes be at mortall warrs, they weare at
universal peace. The second, that wheare the Church of Christ is at this
present soare afflicted witli many heresies and errors, it were well
settled in an uniformity. The third, that where the Kinges matter of his
marriage is now come into question, it were to the glory of God and
quietnesse of all parties brought to a good conclusion : ’’ where by, as
I could gather, he judged, that otherwise it would be a disturbance to a
great part of Christ endome/ ‘ When Sir Thomas Moore had continued
a good while in the Tower, my Ladye his wife obtayned license to see him,
who at her first comminge like a simple woman, and somewhat worldlie too,
with this manner of salutations bluntly saluted him, ‘‘What the good
yeai'e, Moore” quoth shee, I marvell that you, that have beene
allwayes hitherimto taken for soe wise a man, will now soe playe the
foole to lye here in this close filthie prison, and be content to be
shutt upp amonge myse and rattes, when you might be abroad at your
libertie, and with the favour and good will both of the King and his
Councell, if you would but doe as all the Bushopps and best learned of
this Realme have done. And seeing you have at Chelsey a right fayre
house, your librarie, your books, your gallerie, your garden, your
orchards, and all other necessaries soe handsomely about you, where you
might, in the companie of me your wife, your children, and houshould be
merrie, I muse what a Gods name you meane here still thus fondlye to
tarry.’' After he had a while quietly hard her, “ I pray thee good Alice,
tell me, tell me one thinge.” “ What is that ? ” (quoth shee). “ Is not
this house as nighe heaven as myne owne?” To whome shee, after her
accustomed fashion, not likeinge such talke, answeared, “ Tilh valie,
Tille valle ” “How say you, Alice, is it not soe?” quoth he. Bone deus,
bone Deusy man, will this geare never be left?” quoth shee. “Well
then Alice, if it be soe, it is verie well. For I see noe great cause
whie I should soe much joye of my gaie house, or of any thinge
belonginge thereunto, when, if I should but seaven yeares lye buried
under ground, and then arise, and come thither againe, I should not fayle
to finde some Iherin that would bidd me gett out of the doores, and tell
me that weare none of myne. What cause have I then to like such an house
as would soe soone forgett his master?” Soe her perswasions moved him but
a little.* The last days of this good man on earth, and some of his
sayings just before his death, are told with great simplicity by Roper.
We cannot forbear to quote the affecting passage which tells of Sir
Thomas More’s last parting from his daughter, the writer’s wife.
‘When Sir Tho. Moore came from Westminster to the Towreward againe,
his daughter my wife, desireous to see her father, whome shee thought
shee should never see in this world after, and alsoe to have his finall
blessinge, gave attendaunce aboutes the Towre wharfe, where shee knewe he
should passe by, eVe he could enter into the Towre. There tarriinge for
his coininge home, as soone as shee sawe him, after his blessinges on
her knees reverentlie receaved, shoe hastinge towards, without
consideration and care of her selfe, pressinge in amongest the midst of
the thronge and the Companie of the Guard, that with Hollbards and Billes
weare round about him, hastily ranne to him, and then openlye in the
sight of all them embraced and tooke him about the necke, and kissed him,
whoe well likeing her most daughterlye love and affection towards him,
gave her his fatherlie blessinge, and manye goodlie words of comfort
besides, from whome after shee was departed, shee not satisfied with the
former sight of her deare father, havinge respecte neither to her self,
nor to the presse of the people and multitude that were about him,
suddenlye turned backe againe, and rann to him as before, tqoke him about
the necke, and divers tymes togeather most lovinglay kissed him, and at
last with a full heavie harte was fayne to departe from him; the
behouldinge whereof was to manye of them that were present thereat
soe lamentablcj that it made them for very sorrow to mourne and
weepe.’ In his last letter to his ' dearely beloved daughter, written with
a Cole Sir Thomas More refers to this incident :' And I never liked
your manners better, then when you kissed me last. For* I like when
daughterlie Love, and deare Charitie hath noe leasure to looke to
worldlie Curtesie Next morning ‘ Sir Thomas even, and the
Utas of St. Peeter in the yeare of our Lord God, earlie in the morninge,
came to him Sir Thomas Pope, his singular trend, on messedge from the
Kinge and his Councell, that hee should before nyne of the clocke in the
same morninge suffer death, and that therefore fourthwith he should
prepare himselfe thereto. Pope sayth he, for your good tydinges I
most hartily thankyou. I have beene allwayes^ bounden much to the Kinges
Highnes for the benehtts and honors which he hath still from tyme to tyme
most bounti- fully heaped upon mee, and yete more bounden I ame to his
Grace for putting me into this place, where I have had convenient tyme
and space to have remembraunce of my end, and soe helpe me God most of
all Pope, am I bound to his Highnes, that it pleased him so shortlie to
ridd me of the miseries of this wretched world. And therefore will I not
fayle most earnestlye to praye for his Grace both here, and alsoe in
another world, .And I beseech you, good Pope, to be a meane unto his Highnes,
that my daughter Margarette may be present at my buriall.’’ “ The King is
well contented allreadie*' (quoth M^’ Pope) ‘‘that your Wife, Children
and other frendes shall have free libertie to be present thereat “O how
much be- hoiilden” then said Sir Thomas Moore “am I to his Grace, that
unto my poore buriall vouchsafeth to have so gratious Consideration.*’
Wherewithal! Pope takeinge his leave of him could not refrayne from
weepinge, which Sir Tho. Moore perceavinge, comforted him in this wise, “
Quiete yourselfe good M^ Pope, and be not discomforted. For I trust that
we shall once in heaven see each other full merily, where we shall bee
sure to live and love togeather in joyfull blisse eternally.Wolsey.
The Ij/e of Wolsey, by George Cavendish, a faithful and devoted
servant of the Cardinal, who was with him on his death-bed, gives a wonderfully
interesting picture of this remarkable man, in affluence and in
adversity, and records a number of conversations which have a convincing
air of verisimilitude. The following specimens are taken from the
Kelmscott Press edition of 1893, which follows the spelling of the
author's MS. in the British Museum. ‘ After ther departyng^ my lord
came to the sayd howsse of Eston to his lodgyng, where he had to supper
with hyme dyvers of his frends of the court. And syttyng at supper, in
came to hyme Doctor Stephyns, the secretary, late ambassitor unto Rome ;
but to what entent he came I know not ; howbeit my lord toke it that he
came bothe to dissembell a certeyn obedyence and love towards hyme, or
ells to espie hys behaviour, and to here his commynycacion at supper. Not
withstandyng my lord bade hyme well come, and commaundyd hyme to sytt
down at the table to supper; with whome my lord had thys commynycacion
with hyme under thys maner. Mayster Secretary, quod my lord, ye
be-welcome home owt of Rally; whan came ye frome Rome? Forsothe, quod he,
I came home allmost a monethe agoo ; and where quod my lord have you byn
ever sence? Forsothe, quod he, folowyng the court this progresse. Than
have ye hunted and had good game and pastyme. Forsothe, Syr, quod he,
and so I have, I thanke the kyngs Majestie, What good greyhounds have
ye? quod my lord. I have some syr quod he. And thus in huntyng, and
in lyke disports,, passed they all ther commynycacion at supper. And
after supper my lord and he talked secretly together until it was
mydnyght or they departed.’ Than all thyng beyng ordered as it is before
reherced, my lord prepared hyme to depart by water. ^ And before his
departyng he com- maundyd Syr William Gascoyne, his treasorer, to se
these thyngs byfore remembred, delyverd safely to the kyng at his
repayer. That don, the seyd Syr William seyd unto my lord. Syr I ame
sorry for your grace, for I understand ye shall goo strayt way to the
tower. Ys this the good comfort and councell, quod my lord, that ye can
geve your mayster in adversitie? Yt hathe byn allwayes your naturall
inclynacion to be very light of credytt, and mych more lighter in reporting
of false newes, I wold ye shold knowe, Syr William, and all other suche
blasphemers, that it is nothyng more false than that, for I never, thanks
be to god, deserved by no wayes to come there under any arrest,
allthoughe it hathe pleased the kyng to take my howse redy furnysshed for
his pleasyr at this tyme. I wold all the world knewe, and so I confesse
to have no thyng, other riches, honour, or dignyty, that hathe not growen
of hyme and by hyme ; therefore it is my verie dewtie to surrender the
same to hyme agayn as his very owen, with al my hart, or ells I ware and
onkynd servaunt. Therefore goo your wayes, and geve good attendaunce unto
your charge, that no thyng be embeselled.’ ‘And the next day we removed
to Sheffeld Parke, where therle of Shrews- bury lay within the loge, and
all the way thetherward the people cried and lamented, as they dyd in all
places as we rode byfore. And whan we came in to the parke of Sheffeld,
nyghe to the logge, my lord of Shrewesbury, with my lady his wyfe, a
trayn of gentillwomen, and all my lords gentilmen, and yomen,
standyng without the gatts of the logge to attend my lords commy ng,
to receyve hyme with myche honor ; whome therle embraced, sayeng these
words. My lord quod he, your grace is most hartely welcome unto me, and
glade to se you in my poore loge ; the whiche I have often desired ; and
myche more gladder if you had come after another sort. Ah, my gentill
lord of Shrewesbury quod my lord, I hartely thanke you ; and allthoughe I
have no cause to rejoyce, yet as a sorowe full hart may joye, I rejoyce
my chaunce, which is so good to come into the hands and custody of so
noble a persone, whose approved honor and wysdome hathe byn allwayes
right well knowen to all nobell estats. And Sir, howe soever my ongentill
accusers hathe used ther accusations agenst me, yet I assure you, and so
byfore your lordshipe and all the world do I protest, that my demeanor
and procedyngs hathe byn just and loyall towards my soverayn and liege
lord ; of whose behaviour and doyngs your lordshipe hathe had good
experyence ; and evyn accordyng to my trowthe and faythfulnes, so I
bescche god helpe me in this my calamytie. I dought nothyng of your
Irouthe, quod therle, tlierfore my lorde I beseche you be of good chere
and feare not, for I have receyved letters from the kyng of his owen hand
in your favour and entertaynyng the whiche you shall se. Sir, I ame
nothyng sory but that I have not wherwith worthely to receyve you, and to
entertayn you accordyng to your honour and my good wyll ; but suche as I
have ye are most hartely welcome therto, desiryng you to accept my good
wyll accordyngly, for I wol not receyve you as a prisoner, but as my good
lord, and the kyngs trewe faythfull subjecte ; and here is my wyfe come
to salute you. Whome my lord kyst barehedyd, and all hir gentilwomen ;
and toke my lords servaunts by the hands, as well gentilmen and yomen as
other. Then these two lords went arme in arme into the logge, conductyng
my lord into a fayer chamber at thend of a goodly gallery within a newe
tower, and here my lord was lodged.’ Here are some short portions of dialogue
between Wolsey and his friends, just before his death : *
Uppon Monday in the mornyng, as I stode by his bedds' side, abought viii
of the clocke, the wyndowes beyng cloose shett, havyng wake lights
burnyng uppon the cupbord, I behyld hyme, as me seemed, drawyng fast to
his end. He perceyved my shadowe uppon the wall by his bedds side, asked
who was there. Sir I ame here, quod I. Howe do you ? quod he to me. Very
well Sir, if I myght se your grace well. What is it of the clocke ? quod
he to me. Forsothe Sir, quod I, it is past viii. of the clocke in the
mornyng. Eight of the clocke, quod he, that cannot be, rehersing dyvers
times eight of the clocke, eight of the clocke. Nay, nay, quod he at the
last, it cannot be viii of the clocke, for by viii of the clocke ye shal
loose your mayster ; for my tyme drawyth nere that I must depart out of
this world.’‘ Mayster Kyngston farewell. I can no moore, but why she all thyngs
to have good successe. My tyme drawyth on fast. I may not tary with
you. And forget not I pray you, what I have seyd and charged you with all
: for whan I ame deade, ye shall peradventure remember my words myche
better. And even with these words he began to drawe his speche at lengthe
and his tong to fayle, his eyes beyng set in his hed, whos sight faylled
hyme ; than we began to put hyme in rembraunce of Christs passion, and
sent for the Abbott of the place to annele hyme ; who came with all spede
and mynestred unto hyme all the servyce to the same belongyng ; and
caused also the gard to stand by, bothe to here hyme talk byfore his
deathe, and also to here wytnes of the same ; and incontinent the clocke
strake viii, at whiche tyme he gave uppe the gost, and thus departed he
this present lyfe.’Latimer. The Sermons of Bp. Latimer present good
examples^ of colloquial oratory, and the style is but little removed from
the colloquial style of the period. The following are from the Sermon of
the Ploughers, preached. ' For they that be lordes vyll yll go to plough.
It is no mete office for them. It is not semyng for their state. Thus
came up lordyng loiterers. Thus crept in vnprechinge prelates, and so
haue they longe continued. ‘ For how many vnlearned prelates haue
we now at this day ? And no maruel. For if ye plough men yat now be, were
made lordes they woulde cleane gyue ouer ploughinge, they woulde leaue of
theyr labour and fall to lordyng outright, and let the plough stand. And
then bothe ploughes nor walkyng nothyng shoulde be in the common weale
but honger. For euer sence the Prelates were made Loordes and nobles, the
ploughe standeth, there is no worke done, the people starue.
‘ Thei hauke, thei hunt, thei card, they dyce, they pastyme m theyr
pre- lacies with galaunte gentlemen, with theyr daunsmge mmyons, and
with theyr freshe companions, so that ploughinge is set a syde. And by
tne lordinge and loytryng, preachynge and ploughinge is cleane gone . ‘But^iiowe
for the defaulte of vnpreaching prelates me thinke I coulde gesse what
myghte be sayed for excusynge of them : They are so troubeled wyth
Lordelye lyuynge, they be so placed in palacies, couched m courte^
ruffelynge in theyr rentes, daunceyng in theyr dominions, burdened with
ambassages, pamperynge of theyr paunches lyke a monke that maketh
his jubilie, moundiynge in their maungers, and moylynge in their gaye
manoures and mansions, and so troubeled wyth loy terynge in theyr
Lordeshyppes : that they canne not attende it. They are other wyse
occupyed, some in the kynges matters, some are ambassadoures, some of the
pryuie counsell, some to furnyslie the courte, some are Lordes of the
Parliamente, some are presidentes, and some comptroleres of myntes. Well,
well. Is thys theyr duetye? Is thys theyr offyee? Is thys theyr
callyng? Should we haue ministers of the church to be comptrollers of the
myntes ? Is thys a meete office for a prieste that hath cure of soules ?
Is this hys charge ? I woulde here aske one question : I would fayne
knowe who comp- trolleth the deuyll at home at his parishe, whyle he
comptrolleth the mynte ? If the Apostles mighte not ieaue the office of
preaching to be deacons, shall one Ieaue it for myntyng ? ’
Wilson’s Ar^e of Rhetorique (1560) has a section 'Of deliting the
hearers, and stirring them to laughter ’ in which are enumerated ' What
are the kindes of sporting, or mouing to laughter'. The subject is
illustrated by various ' pleasant ' stories, which if few of them would
now make us laugh, are at least couched in a very easy and colloquial
style and enlivened by scraps of actual conversation. The most
amusing element in the whole chapter is the attitude of the writer to the
subject, and the combination of seriousness and scurrility with which it
is handled. ' The occasion of laughter’ says Wilson, 'and themeane
that maketh us mery ... is the fondnes, the filthines, the deformitie,
and all such euill be- hauiour as we see to be in other? ... Now when we
would abashe a man for some words that he hath spoken, and can take none
aduauntage of his person, or making of his bodie, we either doubt him at
the first, and make him beleeue that he is no wiser then a Goose : or els
we confute wholy his sayings with some pleasaunt iest, or els we
extenuate and diminish his doings by some pretie meanes, or els we cast
the like in his dish, and with some other devise, dash hym out of
countenance : or last of all, we laugh him to scorne out right, and
sometimes speake almost neuer a word, but only in continuaunce, shewe our
selues pleasaunt’. ^p. 136. ‘ A frend of mine, and a good fellowe,
more honest then wealthie, yea and more pleasant then thriftie, liauing
need of a nagge for his iourney that he had in hande, and being in the
countrey, minded to go to Parlnaie faire in Lincolnshire, not farre from
the place where he then laie, and meeting by the way one of his
acquaintaunce, told him his arrande, and asked him how horses went at the
Faire. The other aunswered merely and saidc, some trot sir, and some
amble, as farre as I can see. If their paces be altered, I praye you tell
me at our next meeting. And so rid away as fast as his horse could cary
him, without saying any word more, whereat he then being alone, fel a
laughing hartely to him self, and looked after a good while, vntil the
other was out of sight.’ p. 140. 'A Gentleman hauing heard a Sermon
at Panics, and being come home, was asked what the preacher said. The
Gentleman answered he would first heare what his man could saie, who then
waited vpon him, with his hatte and cloake, and calling his man to him,
sayd, nowe sir, whate haue you brought from the Sermon. Forsothe good
Maister, sayd the seruaunt your cloake and your hatte- A honest true
dealing seruaunt out of doubt, piaine as a packsadclle, bauing a better
soule to God, though his witte was simple, then those haue, that vnder
the colour of hearing, giuc them selues to priuie picking, and so bring
other mens purses home in their bosomes, in the steade of other mens
Sermons.’— pp. 14X-2. These two stories are intended to illustrate
the point that ' We shall delite the hearers, when they looke for one
ansvvere, and we make them a cleane contrary, as though we would not seeme
to vnderstand what they would haue ^Churlish aunsweres like
the hearers sometimes very well. When the father was cast in judgement,
the Sonne seeing him weepe : why weepe you Father? (quoth he) To whom his
Father aunswered. ^What? Shall I sing I pray thee seeing by Lawe I am
condemned to "dye. Socrates likewise bieing^ mooued of his wife, because
he should dye an innocent and guiltlesse in the Law: Why for shame woman
(quoth he) wilt thou haue me to dye giltic and deseruing. When one had
falne into a ditch, an other pitying his fall, asked him and saied : Alas
how got you into that pit ? Why Gods mother, quoth the other, doest thou
aske me how I got in, nay tell me rather in the mischiefe, how I shall
get out.’ The nearest approach to the colloquial style in Bacon is
to be found in the Apophthegms, in which are scraps of conversation. A
few may be quoted, if only on account of the author. ‘ Master
Mason of Trinity College, sent his pupil to an other of the fellows, to
borrow a book of him, who told him, I am loth to lend my books out of my
chamber, but if it please thy tutor to come and read upon it in my
chamber, he shall as long as he will.” It was winter, and some days after
the same fellow sent to M^‘ Mason to borrow his bellows ; but M^’ Mason
said to his pupil, ‘‘ I am loth to lend my bellows out of my chamber, but
if thy tutor would come and blow the fire in my chamber, he shall as long
as he will.” —ApophtJi. There were fishermen drawing the river at
Chelsea: M^* Bacon came thither by chance in the afternoon, and offered
to buy their draught : they were willing. He askcvl them what they would
take ? They asked thirty shillings. M^ Bacon offered them ten. They
refused it. Why then said M^* Bacon, I will be only a looker on. They
drew and catched nothing. Saith M^ Bacon, Are not you mad fellows now,
that might have had an angel in your purse, to have made merry withal,
and to have warmed you thoroughly, and now you must go home with nothing.
Ay but, saith the fishermen, we had hope then to make a better gain of
it. Saith M^’ Bacon, ‘‘ Well my master, then I will tell you, hope is a
good breakfast, but it is a bad supper.” Otway^s Comedies have all the
coarseness and raciness of dialogue of the latter half of the seventeenth
century, and a pretty vein of genuine comicality. They are packed with
the familiar slang and colloquialisms of the period. A few passages from
Friendship in Fashion illustrate at once the speech and the manners of
the day. Enter Lady SQUEAMISH at the Door, Sir Noble
Clmnsey, Hah, my Lady Cousin ! —Faith Madam you see I am at it.
Malagene, The Devil’s wit, I think ; we could no sooner talk of wh but she must come in, with a pox to her.
Madam, your Ladyship’s most humble Servant. Ldy Squ. Oh,
odious ! insufferable ! who would have thought Cousin, you would have
serv’d me so— fough, how he stinks of wine, I can smell him hither. How
have you the Patience to hear the Noise of Fiddles, and spend your time
in nasty drinking ? Sir Noble, Hum ! ’tis a good Creature : Lovely
Lady, thou shalt take thy Glass. Ldy Sgu, Uh gud ; murder 1 I
had rather you had offered me a toad. B b Sir N, Then
Malagene, here’s a Health to my Lady Cousin’s Pelion upon Ossa. [Drinks
and breaks the Ldy Squ, Lord, dear Malagene what ’s that ?
MaL A certain Place Madam, in Greece, much talk’t of by the Ancients
; the noble Gentleman is well read. Ldy Squ. 'Nay he’s an
ingenious Person I’ll assure you. Sir N. Now Lady bright, I am
wholly thy Slave: Give me thy Hand, I’ll go straight and begin my
Grandmother’s Kissing Dance ; but first deign me the private Honour of thy
Lip. Ldy Squ. Nay, fie Sir Noble 1 how I hate you now ! for shame
be not so rude : I swear you are quite spoiled. Get you gone you
good-natur’d Toad you. [Exetmti\ Malagene, . . . I’m a very
good Mimick ; I can act Punchinello, Scara- mouchir, Harlequin, Prince
Prettyman or anything. 1 can act the rumbling of a Wheel -barrow.
Valentine, The rumbling of a Wheel-barrow ! MaL Ay, the
rumbling of a Wheel-barrow, so I say Nay more than that, I can act a Sow
and Pigs, Saussages a broiling, a Shoulder of Mutton a roasting : I can
act a fly in a Honey-pot, Truman, That indeed must be the Effect of
very curious Observation. MaL No, hang it, I never make it my
business to observe anything, that is Mechanicke. But all this I do, you
shall see me if you will : But here comes her Ladyship and Sir
Noble. Ldy Squ, Oh, dear M^ Truman, rescue me. Nay Sir Noble for
Heav’n’s sake. Sir N, I tell thee Lady, I must embrace thee :
Sir, do you know me ! I am Sir Noble Clumsey : I am a Rogue of an Estate,
and I live Do you want any money ? I have fifty pounds. VaL
Nay good Sir Noble, none of your Generosity we beseech you. The Lady, the
Lady, Sir Noble. Sir N. Nay, ’tis all one to me if you won’t take
ft, there it is. Hang Money, my Father was an Alderman. MaL
’Tis pity good Guineas should be spoil’d, Sir Noble, by your leave.
[Picks up the Guineasl\ Sir N. But, Sir, you will not keep my
Money ? MaL Oh, hang Money, Sir, your Father was an Alderman.
Sir N, Well, get thee gone for an Arch-Wag I do but sham all this
while i ^but by Dad he ’s pure Company. Lady, once more I say be civil, and
come kiss me. VaL Well done Sir Noble, to her, never spare.
Ldy Squ, I may be even with you tho for all this, Valentine : Nay
dear Sir Noble : M^ Truman, I’ll swear he’ll put me into Fits. Sir
N, No, but let me salute the Hem of thy Garment, Wilt thou marry me?
[LTneels.] MaL Faith Madam do, let me make the Match.
Ldy Squ, Let me die Malagene, you are a strange Man, and Fll swear
have a great deal of Wit. Lord, why don’t you write ? MaL Write? I
thank your Ladyship for that with all my Heart. No I have a Finger in a
Lampoon or so sometimes, that ’s all. Truman, But he can act.
Ldy Squ, I’ll swear, and so he does better than any one upon our
Theatres; I have seen him. Oh the English Comedians are nothing, not
comparable to the French or Italian: Besides we want Poets. SirN,
Poets! Why I am a Poet; I have written three Acts of a Play, and have
nam’d it already. ’Tis to be a Tragedy. Ldy Squ. Oh Cousin, if you
undertake to write a Tragedy, take my Counsel : Be sure to say soft
melting tender things in it that may be moving, and make your Lady’s
Characters virtuous whatever you do. Sir N. Moving I Why, I can
never read it myself but it makes me laugh : well, ’tis the pretty’st
Plot, and so full of Waggery. Ldy Sgti, Oh ridiculous I
Mai But Knight, the Title ; Knight, the Title. Sir N, Why let
me see ; ’tis to be called The Merry Conceits of Love ; or the Life and
Death of the Emperor Charles the Fifth, with the Humours of his Dog
Boabdillo. Mai PI a, ha, ha. . Ldy Squ, But dear Malagene, won’t
you let us see you act a little something of Harlequin? I’ll swear you do
it so naturally, it makes me think Fm at the Louvre or Whitehall all the
time. [Mai acis.] O Lord, don’t, don’t neither ; I’ll swear you’ll make
me burst. Was there ever any- thing so pleasant ? Trwn, Was
ever anything so affected and ridiculous ? Her whole Life sure is a
continued Scene of Impertinence. What a damn’d Creature is a decay’d Woman,
with all the exquisite Silliness and Vanity of her Sex, yet none of the
Charms ! [Mai s^peaks in PunchinelMs voicei\ Ldy Squ, O Lord, that,
that ; that is a Pleasure intolerable. Well, let me die if I can hold out
any longer. A Comparison between the Stages, wiih an Examen of the
Generous Conqueror^ printed in 1702, is a dialogue between ^ Two
Gentlemen’, Sullen and Ramble (see below), and ^a Critick’,upon the plays
of the day and others of an earlier date. The style is that of easy and
natural familiar con- versation, with little or no artificiality, and
incidentally, the tract throws light upon contemporary manners and social
habits. The following examples are designed to illustrate the colloquial
handling of indifferent topics, and the small-talk of the early
eighteenth century, as well as the treatment of the immediate subject of
the essay. Sullen. They may talk of the Country and what they will,
but the Park for my money. Ramble. In its proper Season I
grant you, when the Mall is pav’d with lac’d shoes ; when the Air is
perfum’d with the rosie Breath of so many fine Ladies ; when from one end
to the other the Sight is entertain’d with nothing but Beauty, and the
whole Prospect looks like an Opera. Sull And when is it out of
Season Ramble ? Ram. When the Beauties desert it ; when the absence
of this charming Company makes it a Solitude : Then Sullen, the Park is
to me no more than a Wilderness, a very Common ; and a Grove in a country
Garden with a pretty Lady is by much the pleasanter Landscape.
Sull To a Man of your Quicksilver Constitution it may be so, and
the Cuckoo in May may be Music t’ee a hundred Miles off, when all the
Masters in Town can’t divert you. Ram. I love everything as
Nature and the Nature of Pleasure has con- triv’d it ; I love the
Town in Winter, because then the Country looks aged and deform’d ;
and I hate the Town in Summer, because then the Country is in its Glory,
and looks like a Mistress just drest out for enjoyment. Sull Very
well distinguish’d : Not like a Bride, but like a Mistress. Ram. I
distinguish ’em by that comparison because I love nothing well enough to
be wedded to ’t : I’m a Proteus in my Appetite, and love to change my
Abode with my Inclination, Sull I differ from you for the very
Reason you give for your change ; the Town is evermore the same to me ;
and tho* the Season makes it look after another manner, yet still it has
a Face to please me one way or other, and both Winter and Summer make it
agreeable, —pp. 1-3* B b 2 Here is a conversation
during dinner at the ' Blew Posts \ Critik, What have you order’d
? Ramh. A Brace of Carp stew’d, a piece of Lamb, and a Sallet ;
d’ee like it ? Crit, I like, anything in the World that will
indure Cutting : Prithee Cook make haste or expect I shall Storm thy
Kitchin. SulL Why thou’rt as hungry as if thou hadst been keeping
Garrison in Mantua : I don’t know whether Flesh and Blood is safe in thy
Company. CriL I wish with all my Heart thou wert there, that thou mightst
under- stand what it is to fast as 1 have done : Come, to our Places • .
. the blessed hour is come. . . . Sit, sit . . . fall to, Graces are out
of Fashion. Ramb. I wish the Charming Madam Subligny were
here. CriL Gad so don’t 1 : I had rather her P'eet were pegg’d down
to the Stage; at present my Appetite stands another way : Waiter, some
Wine ., . or I shall choak. . Suit, This Fellow eats like an Ostrich, the
Bones of these great Fish are no more to him than the Bones of an Anchovy
; they melt upon his Tongue like marrow Puddings. Crit Ay,
you may talk, but I’m sure I find ’em not so gentle ; here ’s one yet in
my Throat will be my death ; the Flask . . . the Flask . . ., Ramb.
But Critick, how did you like the Play last Night ? Crit. I’ll tell
you by and by, Lord Sir, you won’t give a Man time to break his Fast:
This Fish is such washy Meat ... a Man can’t fix his knife in ’t, it runs
away from him as if it were still alive, and was afraid of the Hook : Put
the Lamb this way. SulL The Rogue quarrels with the Fish, and yet
you cou’d eat up the whole Pond ; the late Whale at Cuckold’s point, with
all its oderiferous Gar- badge, wou’d ha’ been but a Meal to him : Well,
how do you like the Lamb ? does that feel your knife? Crit. A
little more substantial, and not much : Well, I shou’d certainly be
starv’d if I were to feed with the French, I hate their thin slops, their
Pot- tages, Frigaces, and Ragous, where a Man may bury his Hand in the
Sauce, and dine upon Steam : No, no, commend me to King Jemmy’s
English Surloin, in whose gentle Flesh a Man may plunge a Case-knife to
the tip of the Handle, and then draw out a Slice that will surfeit half a
Score Yeoman of the Guard. Some Wine ye Dog . . . there ., . now I have
slain the Giant ; and now to your Question . . . what was it you askt me
? Ramb. Won’t you stay the Desert ? Some Tarts and Cheese ?
Crit I abominate Tarts and Cheese, they’re like a faint After-kiss, when
a Man is sated with better Sport ; there ’s no more Nourishment in ’em,
than in the paring of an Apple. Here Waiter take away. . . .
Ramb. Then remove every Thing but the Table-cloth.’, . Ramb.
Here Waiter send to the Booksellers in Pell mell for the Generous
Conqueror and make haste . ., you say you know the Author Critick.
Crit. By sight I do, but no further ; he ’s a Gentleman of good
Extraction, and for ought I know, of good Sense. Ramb. Surely
that’s not to be questioned; I take it for granted that a Man that can
write a Play, must be a Man of good Sense. Crit That is not always
a consequence, I have known many a singing Master have a worse voice than
a Parish Clerk, and I know two dancing Masters at this time, that are
directly Cripples : . . . A Ship-builder may fit up a Man of War for the
West Indies, and perhaps not know his Compas : Or a great Trpelier, with
Heylin, that writ the Geography of the whole World, may, like him, not
know the way from the next Village to his own House. Ramb.
Your Comparisons are remote M*^ Critick. Cfit. Not so remote as
some successful Authors are from good sense ; Wit and Sense are no more
the same than Wit and Humour; nay there is even in Wit an uncertain Mode,
a variable Fashion, that is as unstable as the Fashion of our Cloaths :
This may be proved by their Works who writ a hundred Years ago, compar’d
with some of the modern ; Sir Philip Sidney, Don, Overbury, nay Ben
himself took singular delight in playing with their Words : Sir Philip is
everywhere in his Arcadia jugling, which certainly by the example of so
great a Man, proves that sort of Wit then in Fashion ; now that kind of
Wit is call’d Punning and Quibbling, and is become too low for the Stage,
nay even for ordinary Converse ; so that when we find a Man who still
loves that old fashion’d Custom, we make him remarkable, as who is more
remarkable than Capt. Swan. Ramb. Nay, your Quibble does well now a
Days, your best Comedies tast of ’em ; the Old Batchelor is rank.
Crit. But ’tis every Day decreasing, and Queen Betty’s Ruff and
Fardin- gale are not more exploded ; But Sense Gentlemen, is and will be
the same to the World’s end. SulL And Nonsense is infinite,
for England never had such a Stock and such Variety. Ramb.
Yet I have heard the Poets that flourish’d in the last Reign but two,
complain of the same Calamity, and before that Reign the thing was the
same : All Ages have produced Murmurers ; and in the best of times you
shall hear the Trades-man cry Alas Neighbour ! sad Times, very hard Times
.., not a Penny of Money stirring . . . Trade is quite dead, and nothing
but War . . . War and Taxes . . . when to my knowledge the gluttonous
Rogue shall drink his two Bottles at Dinner, and his Wife have half a
Score of rich Suits, a purse of Gold for the Gallant, and fifty Pounds
worth of Gold and Silver Lace on her under Petticoats. Sail,
Nay certainly, this that Ramble now speaks of is a great Truth; those
hypocritical Rogues are always grumbling; and tho’ our Nation never had
such a Trade, or so much Money, yet ’tis all too little for their
voracious Appetites : As I live says he, I can’t afford this Silk one
Penny cheaper d’ee mind the Rogues
Equivocation ? as I live ^that is, he lives like a Gen- tleman but let
him live like a Tradesman and be hang’d ; let him wear a Frock, and his
Wife a blew Apron. Ramb, See, the Book ’s here : go Waiter and shut
the Door. pp. 76-9. The dialogue of Hichardson, ' sounynge in moral
vertu ^ devoid of all the lighter touches, is typical of the age that was
beginning, the age of reaction against the levities and negligences in
speech and conduct of the seventeenth and early eighteenth
centuries. The following conversation of rather an agitated
character, between a mother and daughter, is from Letter XVI, in Clarissa
Ifarlozue{i*j4S): * • * • My mother came up to me. I love, she was
pleased to say, to come into this appartment.— No emotions child I No
flutters ! Am I not your mother F—Am I not your fond, your indulgent
mother P-— Do not discompose me by discomposixig Do not occasion me
uneasiness, when I would glveyau nothing but pleasure. Come my
dear, we will go into your closet. . . . PI ear me out and then speak ;
for I was going to expostulate. You are no stranger to the end of M^
Solmes’s visits O Madam! Hear me out; and then speak. He is not indeed
everything I wish him to be : but he is a man of probity and has no vices
No vices Madam ! Hear me out child. You
have not behaved much amiss to him : we have seen with pleasur *. that
you have not O Madam, must I not now speak ! I shall have done pre.‘
fently, —A young creature of your virtuous and pious turn, she was
pleased ! say, cannot surely love a predicate ; you love your brother too
well, to wish p see any one who had like to have killed him, and who
threatened youri incles and defies us all You have had your own way six
or seven times : v|? | w^nt to secure you against a man so vile. Tell me
(I have a right to know) whether you prefer this man to all others ? Yet
God forbid that I should know you do ; for such a declaration would make
us all miserable. Yet tell me, a.re your affections engaged to this man
? I know what the inference would be if I had said they were not
You hesitate You answer me not You cannot answer me Rising Nevermore
will I look upon you with an eye of favour O Madam, Madam ! Kill me
not with your displeasure I would not, I need not, hesitate one moment,
did I not dread the inference, if I answer you as you wish. Yet be that
inference what it will, your threatened displeasure will make me speak.
And I declare to you, that I know not my own heart if it be not
absolutely free. And pray, let me ask my dearest Mamma, in what has my
conduct been faulty, that like a giddy creature, I must be forced to
marr^r, to save me from— from what ? Let me beseech you Madam to be the
Guardian of my reputation \ Let not your Clarissa be precipitated into a
stale she wishes not to enter into with any man ! And this upon a supposition
that otherwise she shall marry herself, and disgrace her whole
family. When then, Clary [passing over the force of my plea] if
your heart be free O my beloved Mamma, let the usual generosity of your
dear heart operate in my favour.^ Urge not upon me the inference that
made me hesitate. I won’t be interrupted, Clary You have seen in my
behaviour to you, on this occasion, a truly maternal tenderness ; you
have observed that I have undertaken the task with some reluctance,
because the man is not everything ; and because I know you carry your
notions of perfection in a man too high. Dearest Madam, this one time
excuse me ! Is there then any danger that I should be guilty of an
imprudent thing for the man’s sake you hint at ? Again interrupted! Am I
to be questioned, and argued with? You know this won’t do somewhere else.
You know it won’t. What reason then, ungenerous girl, can you have for
arguing with me thus, but because you think from my indulgence to you you
may ? What can I say ? What can I do ? What must that cause be that
will not bear being argued upon ? Again ! Clary Harlowe Dearest Madam forgive me : it was always
my pride and my pleasure to obey you. But look upon that man see but the
disagreeableness of his person Now, Clary, do I see whose pei'son you
have in your eye ! Now is M^’ Solmes, I see, but coinparatively
disagreeable ; disagreeable only as an« other man has a much more
specious person. But, Madam, are not his manners equally so 1 Is
not his person the true representation of his mind ? That other man is
not, shall not be, anything to me, release me from this one man, whom my
heart, unbidden, resists. Condition thus with your father. Will he
bear, do you think, to be thus dialogued with? Have I not conjured you, as
you value my peace What is it that / do not give up ?*~-This very task,
because I apprehended you would not be easily persuaded, is a task indeed
upon me. And will you give up nothing ? Have you not refused as many as
have been offered to you ? If you would not have us guess for whom,
comply ; for comply you must, or be looked upon as in a state of defiance
with your whole family. And saying thus she arose, and went from
me.’ Miss AusteiL. The following examples of Miss
Austen’s dialogue are not selected because they are the most sparkling
conversations in her works, but rather because they appear to be typical
of the way of speech of the period, and further they illustrate Miss
Austeff s incomparable art. The first passage is ixomEmma^ which was
written between i8ii and 3^5 i8i6. Mr. Woodhouse and his
daughter have just received an invitation to dine with the Coles,
enriched tradespeople who had settled in the neighbourhood. Emma's view
of them was that they were ' very respect- able in their way, but they ought
to be taught that it was not for them to arrange the times on which the
superior families would visit them On the present occasion, however, ‘
she was not absolutely w^ithout inclina- tion for the party. The Coles
expressed themselves so properly there was so much real attention in the
manner of it so much consideration for her father/ Emma having decided in
her own mind to accept the invitation some of her intimate friends were
going it remained to explain to her father, the ailing and fussy Mr.
Woodhouse, that he would be left alone without his daughter s company for
the evening, as it was out of the question that he should accompany her.
‘ He was soon pretty well resigned.’ ‘ I am not fond of
dinner-visiting ” said he ; “I never was. No more is Emma. Late hours do
not agree with us. I am sorry and Cole should have done it. I think it
would be much better if they would come in one afternoon next summer and
take their tea with us ; take us in their afternoon walk, which they
might do, as our hours are so reasonable, and yet get home without being
out in the damp of the evening. The dews of a summer evening are what I
would not expose anybody to. However as they are so very desirous to have
dear Emma dine with them, and as you will both be there [this refers to
his friend Weston and his wife], and Knightley too, to take care of her I
cannot wish to prevent it, provided the weather be what it ought, neither
damp, nor cold, nor windy.” Then turning to Weston with a look of gentle
reproach “Ah, Miss Taylor, if you had not married, you would have staled
at home with me.” “ Well, Sir ”, cried Weston, as I took Miss
Taylor away, it is incumbent upon me to supply her place, if I can ; and
I will step to M^’® Goddard in a moment if you wish it.” . . . With this
treatment M^ Woodhouse was soon composed enough for talking as usual. “
He should be happy to see M^*® Goddard. He had a great regard for
Goddard; and Emma should write a line and invite her. James could take
the note. But first there must be an answer written to M’^® Cole.”
“ You will make my excuses, my dear, as civilly as possible. You will
say that I am quite an invalid, and go nowhere, and therefore must
decline their obliging invitation ; beginning with my comj^limentsy of
course. But you will do everything right. I need not tell you what is to
be done. We must remember to let James know that the carriage will be
wanted on Tuesday. I shall have no fears for you with him. We have never
been there above once since the new approach was made ; but still I have
no doubt that James will take you very safely ; and when you gel there
you must tell him at what time you would have him come for you again ;
and you had better name an early hour. You will not like staying late.
You will get tired when tea is over.” “ But you would not wish me
to come away before I am tired, papa ? ” Oh no my love ; but you
will soon be tired. There will be a great many people talking at once.
You will not like the noise.” “But my dear Sir,” cried M^’ Weston,
“if Emma comes away early, it will be breaking up the party.”
“ And no great harm if it does ” said Woodhouse. “ The sooner every
party breaks up the better.” “ But you do not consider how it may
appear to the Coles. Emma’s going away directly after tea might be giving
offense. They are good-natured people, and think little of their own
claims ; but still they must feel that anybody’s hurrying away is no
great compliment ; and Miss Woodhouse’s doing it would be more thought of than
any other personas in the room. You would not wish to disappoint and
mortify the Coles, I am sure, sir; friendly, good sort of people as ever
lived, and who have been your neighbours these /en years.”
‘^No, upon no account in the world, Weston, I am much obliged to
you for reminding me. I should be extremely sorry to be giving them any
pain. I know what worthy people they are. Peny tells me that Cole never
touches malt liquor. You would not think it to look at him, but he is
bilious M^' Cole is very bilious. No, I would not be the means of giving
them any pain. My dear Emma we must consider this. I am sure rather than
run any risk of hurting and Cole you would stay a little longer than you
might wish. You will not regard being tired. You will be perfectly safe,
you know, among your friends.” Oh 5^es, papa. I have no fears at
all for myself ; and I should have no scruples of staying as late as
Weston, but on your account. I am only afraid of your silting up for me.
I am not afraid of your not being ex- ceedingly comfortable with Goddard.
^ She loves piquet, you know ; but when she is gone home I am afraid you
will be sitting up by youiself, instead of going to bed at your usual
time ; and the idea of that would entirely destroy my comfort. You must
promise me not to sit up.” * The next example is in a very
different vein. It is from Sense and Sensibility (chap, xxi) and records
the mode of conversation of the Miss Steeles. These two ladies are among
Miss Austen's vulgar characters, and their speech lacks the restraint and
decorum which her better-bred personages invariably exhibit. While the
Miss Steeles’ con- versation is in sharp contrast with that of the Miss
Dashwoods, with whom they are here engaged, both in substance and manner,
it evidently passed muster among many of the associates of the latter,
especially with their cousin Sir John Middleton, in whose house, as
relations of his wife's, the Miss Steeles are staying. Apart from the
vulgarity of thought, the diction appears low when compared with that of
most of Miss Austen's characters. As a matter of fact it is largely the
way of speech of the better society of an earlier age, which has come
down in the world, and survives among a pretentious provincial
bourgeoisie. ‘ ‘^What a sweet woman Lady Middleton is” said Lucy
Steele . '‘And Sir John too ” cried the elder sistei', “ what a charming
man he is ! And what a charming little family they have ! I never saw such fine
children in my life. I declare I quite doat upon them already, and indeed
I am always destractedly fond of children.” "I should guess so” said
Elinor with a smile “from what I witnessed this morning.” “I
have a notion” said Lucy, “you think the little Middletons rather too
much indulged ; perhaps they may be the outside of enough ; but it is
natural in Lady Middleton; and for my part I love to see children full of
life and spirits ; I cannot bear them if they are tame and quiet”
“I confess ” replied Elinor, “that while I am at Barton Park, I
never think of tame and quiet children with any abhorrence.” *
“ And how do you like Devonshire, Miss Dashwood ? (said Miss
Steele) I suppose you were very sorry to leave Sussex.” In
some suiyrise at the familiarity of this question, or at least in the
manner in which it was spoken, Elinor replied that she was.
“Norland is a prodigious beautiful place, is not it?” added Miss
Steele, “We have heard Sir John admire it excessively,” said Lucy, who
seemed to think some apology necessary for the freedom of her sister. “ I
think MISS LUCY STEELE B11 every
one admire it ’'replied Elinor, “who ever saw the place; though it is not
to be supposed that any one can estimate its beauties as we do."
“ And had you many smart beaux there ? I suppose you have not so
many in this part of the world ; for my part I think they are a vast
addition always." “ But why should you think " said
Lucy, looking ashamec^ of her sister, “that there are not as many genteel
young men in Devonshire as Sussex." “ Nay, my dear, Fm sure I
don’t pretend to say that there an’t. Fm sure there ’s a vast many smart
beaux in Exeter ; but you know, how could I tell what smart beaux there
might be about Norland? and I was only afraid the Miss Dashwoods might
find it dull at Barton ; if they had not so many as they used to have.
But perhaps you young ladies may not care about beaux, and had as lief be
without them as with them. For my part, I think they are vastly
agreeable, provided they dress smart and behave civil. But I can’t bear
to see them dirty and nasty. Now, there’s Rose at Exeter, a pro- digious
smart young man, quite a beau, clerk to Simpson, you know, and yet if you
do but meet him of a morning, he is not fit to be seen. I sup- pose your
brother was quite a beau, Miss Dashwood, before he married, as he was so
rich ? " “ Upon my word," replied Elinor, “I cannot tell
you, for I do not per- fectly comprehend the meaning of the word. But
this I can say, that if he ever was a beau before he married, he is one
still, for there is not the smallest alteration in him."
“ Oh ! dear 1 one never thinks of married men’s being beaux they
have something else to do." “Lord! Anne", cried her
sister, “you can talk of nothing but beaux; you will make Miss Dashwood believe you think
of nothing else."’ It is not surprising that ‘ “ this specimen
of the Miss Steeles’" was enough. The vulgar freedom and folly of
the eldest left her no recommendation and as Elinor was not blinded by
the beauty, or the shrewd look of the youngest, to her want of real
elegance and artlessness, she left the house without any wish of knowing
them better Greetings and Farewells. Only the slightest
indication can be given of the various modes of greet- ing and bidding
farewell These seem to have been very numerous, and less stereotyped in
the fifteenth and sixteenth centuries than at present. It is not easy to
be sure how soon the formulas which we now employ, or their ancestral
forms, came into current use. The same form often serves both at meeting
and parting. In 1451, Agnes Paston records, in a letter, that
"after evynsonge, Angnes Ball com to me to my closett and dad me
good evyn \ In the account, quoted above, p. 362, given by Shillingford
of his meetings with the Chancellor, about 1447, he speaks of
"saluting hym yn the moste godely wyse that y coude ' but does not
tell us the form he used. The Chancellor, however, replies "
Welcome^ ij times, and the tyme Right met come Mayer'% and helde
the Mayer a grete while faste by the honde I In the sixteenth
century a great deal of ceremonial embracing and kissing was in vogue.
Wolsey and the King of France, according to Cavendish, rode forward to
meet each other, and they embraced each other on horseback. Cavendish
himself when he visits the castle of the Lord of Cr^pin, a great
nobleman, in order to prepare a lodging for the Cardinal, is met by this
great personage, who ^ at his first coming embraced me, saying I was
right heartily welcome'. Henry VIII was wont to walk with Sir Thomas
More, ' with his arm about his neck \ The actual formula used in greeting
and leave-taking is too often un- recorded. When the French Embassy
departs from England, whom Wolsey has sb splendidly entertained,
Cavendish says ' My lord, after humble commendations had to the French
King bade them adieu'. The Earl of Shrewsbury greets the Cardinal thus ‘
My Lord, your Grace is most heartily welcome unto me', and Wolsey replies
‘Ah my gentle Lord of Shrewsbury, I heartily thank you '. It
is not until the appearance of plays that we find the actual forms of
greeting recorded with frequency. In Roister Doister, there are a fair
number: God heepe thee worshipful Master Roister Doister; Welcome my good
wenche ; God you saue and see Nourse ; and the reply to this Welcome friend Merrygreeke; Good flight Roger
old farewell Roger old knaue ; well mef^ I bid you right welcome, A
very favourite greeting is God he with you, God continue your
Lordship is a form of farewell in Chapman's Monsieur D'Olive, and God-den
‘ good evening occurs in Middleton's Chaste Maid in Cheapside. Sir Walter
Whorehoimd in the same play makes use of the formula ‘ I embrace your
acquaintance Sir \ to which the reply is vows your service Str\
Massinger's New Way to pay old Debts contains various formulas of
greeting. I ain still your creature^ says Allworth to his step-mother
Lady A. on taking leave ; of two old domestics he takes leave with ‘ rny
service to both \ and they reply ‘ ours waits on you In reply to the simple
Farewell Tom, of a friend, All worth answers ^ All joy stay with you \
Sir Giles Overreach greets Lord Lovel with ‘ Good day to My Lord ' ; and
the prototype of the modern how are you is seen in Lady Allworth's ‘ Hoiv
dost thou Marrall P ' A graceful greeting in this play is ‘ Fou are
happily encountered'. The later seventeenth-century comedies
exhibit the characteristic urbanity of the age in their formulas of
greeting and leave-taking. ‘ A happy day to you Madam is Victoria's
morning compliment to Mrs. Goodvile in Otway's Friendship in Fashion, and
that lady replies— ‘ Dear Cousin, your humble servant'. Sir Wilfull
Witwoud in Congreve's Way of the World, says ‘ Save you Gentleman and
Lady ' on entering a room. His younger brother, on meeting him, greets him
with ‘ Four servant Brother", and the knight replies ‘ servant! Why
yours Sir, Four servant again ; "s heart, and your Friend and
Servant to that \ Tm everlastingly your humble servant, deuce take me
Madam, says Mr. Brisk to Lady Froth, in the Double Dealer.
Your servant is a very usual formula at this period, on joining or
leaving company. In Vanbrugh's Journey to London, Colonel Courtly on
entering is greeted by Lady Headpiece Colonel your servant; her daughter
Miss Betty varies it with^ Four servant Colonel, and the visitor replies
to both Ladies, your most ohedienL Mr. Trim, the formal coxcomb in
ShadwelFs Bury Fair, parts thus from his friends Sir, I kiss your hands ;
Mr, Wildish— -S’/r your most humble servant; Trim Oldwii I am your most
faithful servant; Mr. Oldwit Four servant sweet il/'* Trim, Four
servant, madam good morrow to you, is Lady Arabella's greeting to Lady
Headpiece, who replies to you Madam (Vanbrugh's Journey to London). The
early eighteenth century appears not to differ materially from the
preceding in its usage. Lord Formal in Fielding's Love in Several
Masques, says Ladies your most humble servafit, and Sir Apish in the same
play Four Ladyships everlasting creature^ Epistolary
Formulas. The writing of letters, both familiar and formal, is such
an inevitable part of everyday life, that it seems legitimate to include
here some examples of the various methods of beginning and ending private
letters from the early fifteenth century onwards. A proper and
exhaustive treatment of the subject would demand a rather elaborate
classification, according to the rank and status of both the writer and
the recipient, and the relation in which they stood to each other whether
master and servant, or dependant, friend, subject, child, spouse, and so
on. In the comparatively few examples here given, out of many
thousands, nothing is attempted beyond a chronological arrangement The
status and relationship of the parties is, however, given as far as
possible. We note that the formula employed is frequently a conventional
and more or less fixed phrase which recurs, with slight variants, again
and again. At other times the opening and closing phrases are of a more
personal and individual character. 1418. Archbp* Chichele to
Hen. V, Signs simply: your preest and bede- man. Ellis, i. i. 5.
142 5. IVilL Fasten to . Right worthy and worshepfull Sir. I recom-
maunde me to you, &c. Ends : Almyghty God have you in his
governaunce. Your frend unknowen. Past. Letters, i. 19-20.
1440. Agnes to Will. Fasten. Inscribed: To my worshepful housbond
W. Paston be this letter takyn. Dere housbond I reccommaunde me to yow.
Ends : The Holy Trinite have you in governaunce. P. L. i. 38-9.
1442-5. Dtike of Buckingham to Lord Beau 7 nont, Ryght worshipful
and with all my herte right enterly beloved brother, I recomaunde me to
you, thenking right hastili your good brotherhode for your gode and
gentill letters. I beseche the blissid Trinite preserve you in honor and
prosperite. Your trewe and feithfull broder H. Bukingham. P. L- i.
61-2. 1443. Margaret to John Paston. Ryth worchipful husbon, I
reccomande me to yow desyryng her tel y to her of your wilfar. Almyth God
have you in his kepyn and sendo yow helth, Yorys M. Paston. P. L. i.
48-9. 1444. James Gresham to Will. Fasten. Please it your good
Lordship to wete, &c. Ends : Wretyn right simply the Wednesday next
to fore the Fest. By your laiost symple servaunt P. L. i, 50.
1444, Duchess of Norfolk to J. Past 07 i. Ryght tmsty and entirely
wel- bclovcd we grete you wel hertily as we kan, . . and siche agrement
as, &c. ... we shall duely performe yt with the myght of Jesu who
haff you in his blissed keping. P. L. i. 57, 1444. Sir R.
Ckamberlayn to Agn. Paston. Ryght worchepful cosyn, I comand me to you.
And I beseche almyty God kepe you. Your Cosyn Sir Roger
Chamberlain. 1445. Agnes to Edm. Fasten. To myn welbelovid sone. I
grete you wel. Be your Modre Angnes Paston.— i, 58, 59.
380 COLLOQUIAL IDIOM 1449, Marg, to John Paston. Wretyn at
Norwych in hast, Be your gronyng Wyfr.-~i. 76“7- 1449. Same
to sa 7 ne. No mor I wryte to ^ow atte this tyme* Your Mar- karyte
Paston. i. 42-3. 1449. John Paston, Ends : Be ^owre pore
Broder* . E Its. ^ Clare to J, Paston, No raore I wrighte to 50 w at this
tyme, but Holy Cost have 50W in kepyng. Wretyn in haste on Scynt Peterys
day be candel lyght, Be your Cosyn E. C. P. L. i. 89-90.
1450. Duke of Suffolk to his son. My dear and only welbeloved sone.
Your trewe and lovynge fader Suffolk. P. L. i. 12 1-2. 1450, IVilL
Lomme to J, Paston, I prey you this bille may recomaunde me to mastrases
your moder and wyfe. Wretyn yn gret hast at London. P.L. i. 126. 1450. y. Gresham to ^
my Mats ter Whyte Esguyer\ After due recomen- dacion I recomaund me to
yow. 1450. J, Paston to above, James Gresham, I pray you labour for
the, &c. i. 145* 1450. Justice Yelverton to Sir J,
Fastolf, By your old Servaunt William Yelverton Justice. P, L. i.
166. 1453. Agnes toJ, Paston, Sone I grete you well and send you
Godys blessyng and myn. Wretyn at Norwych ... in gret hast, Be your
moder A. Paston. P. L. i. 259. 1454. J, Paston to Earl of
Oxford* Youre servaunte to his powr John Paston. P. L. i. 276,
1454. Lord Scales to J, Paston, Our Lord have you in governaunce.
Your frend The Lord Scales. P. L. i. 289. 1454, Thomas Howes
to J, Paston, I pray God kepe yow. Wiyt at Castr hastly ij day of
September, Your owne T. Howes. P. L. i. 301. 1454. The same. Your
chapleyn and bedeman Thomas Howes.— *i. 31 8. 1455. /• PoLstolf to
Duke of Norfolk, Writen at my pore place of Castre, Your humble man and
servaunt. P. L. i. 324. 1455. /. Cudworth, Bp. of Lmcoln^ to J,
Patton, And Jesu preserve you, J. Bysshopp of Lincoln. P.L. i. 350. 1456. Archbp,
Bourchier to Sir J, Fastolf, The blissid Trinitee have you everlastingly
in His keping, Written in my manoir of Lamehith, Your feith- full and
trew Th, Cant. P. L. i. 382. 1456 (Nephew to uncle). H, Fylinglay
to Sir J, Fastolf Ryght wor- shipful unkell and my ryght good master, I
recomniaund me to yow wyth all my servys. And Sir, my brother Paston and
I have, &c. . . . Your nevew and servaunt P. L. i. 397.
1458. John Jerningham to Marg, Paston. Nomor I wryte unto you at
this tyme. . . . Your owne umhle servant and cosyn J. J.— P, L. i. 429.
1458 (Daughter to her mother). Elh, Poynings to Agn, Paston, Right worshipful
and my most entierly belovde moder, in the most lowly maner I recomaund
me unto your gode moderhode. . . . And Jesu for his grete mercy save yow.
By your humble daughter. P. L. i, 434-5. 1469. Chancellor and
University of Oxford to Sir John Say, Ryght wor- shipful our trusty and
entierly welbeloued, after harty commendacyon. . . . Ends : yo’-' trew
and harty louers The Chancelir and Thuniversite of Oxon- ford. Ellis.
1477. John Paston to Ms mother* Your sone and humbyll servaunt P. P. L. iii. 176. 1481-4. Edm,
Paston to Ms mother, umble son and servant. P. L. J, Paston to Ms mother. Your sone
and trwest servaunt P. h* iii. 290. 1482. Margery Paston to
her hushaftd. No more to you at this tyme, Be your servaunt and bede
woman.— iii. 293, 1485. Duke of Norfolk to J, Faston. Welbelovyd frend I
cummaund me to yow. I shall
content you at your metyng with me, Yower lover J. Nor- folk.— iii.
320, 1485. Eliz, Browne to J. Paston. Your loving awnte E. B.
1485. Duke of Suffolk to f Paston, Ryght welbeloved we grete you
well. ., . Suffolk, yor frende. iii. 324-5. 1490. Bp* of
Durham to Sir fohn Paston* IH2, Xps*. Rygiit wortchipful sire, and myne
especial and of long tyme apprevyd, trusty and feythful frende, I in myne
hertyeste wyse recommaunde me un to you. . ., Scribyllyd in the moste
haste, at my castel or manoir of Aucland the xxvij of Januay. Your own
trewe luffer and frende John Duresme. iii. 363. 1490. Lumen H ary
son to Sir f Past on. Onerabyll and well be lov^^'d Knythe, I commend me
on to 5our masterchepe and to my lady 5owyr wyffe. ., . No mor than God
be wyth 50W, L. H. at ^ouyr comawndment. 1503. Q. Margaret of
Scotland to her father Hen. VII. My moste dere iorde and fader in the
most humble wyse that I can thynke I recommaunde me unto your Grace
besechyng you off your dayly blessyngys. . . . Wrytyn wyt the hand of
your humble douter Margaret. Ellis i. i. 43. Hen. VI J to his
Mother.^ the Countess of Richmond. Madam, my most enterely wilbeloved
Lady and Moder . . . with the hande of youre most humble and lovynge
sone. Ellis, i. i. 43-5. Margaret to Hen. VI 1 . My oune suet and
most deare kynge and all my worldly joy, yn as humble manner as y can
thynke I recommand me to your Grace ... by your feythful and trewe
bedewoman, and humble modyr Mar- garet R, Ellis, i. I. 46.
1513. Q. Margaret oj Scotland to Hen. VI IL Richt excellent, richt
hie and mithy Prince, our derrist and best belovit Brothir. . . . Your
louyn systar Margaret. Ellis, i. i. 65. (The Queen evidently employed a
Scottish Secre- tary.) 1515. Margaret to Wolsey. Yours
Margaret R. Ellis, i. i. 131. 1515. Thos. Lord Howard, Lord
Admiral, to Wolsey. My owne gode Master Awlmosner. . . . Scrybeled in
gret hast in the Mary Rose at Plymouth half o^' after xj at night . . .
y^ own Thomas Howard. c. 1515. West Bp. of Ely to Wolsey. Myne
especiall good Lorde in my most humble wise I recommaund me to your Grace
besechyng you to con- tynue my gode Lorde, and I schall euer be as I am
bounden your dayly bedeman. . . . Y^ chapelayn and bedman N 1 .
Elien. c. 1520. Archbp. Warham to Wolsey. Please ityo^ moost
honorable Grace to understand. ... At your Graces commaundement, Willm.
Cantuar. Ellis, iii. I. 230. Also :
Euer, your own Willm. Cantuar. Langland Bp. of Lincoln to Wolsey.
My bownden duety mooste lowly remembrede unto Your good Grace. . . . Yo^
moste humble bedisman John Lincoln.— Ellis, iii. l. 248.
Cath, of Aragon to Princess Mary. Doughter, I pray you thinke not,
&c. —Ellis, i, 2. 19, • . . Your lovyng mother Katherine the
Queue. Archibald, E. of Angus. Addresses letter to Wolsey : To my
lord Car- dinallis grace of Ingland. Ellis, iii. i. 291.
1521. Bp. Tunstal to Wolsey. Addresses letter :— to the most
reverend fader in God and his most singler good Lorde Cardinal. Ellis,
iii. i* 273. Ends a letter : By your Gracys most humble bedeman
Cuthbert TunstalL —Ellis, iii. I. 332 - 1515 or 1521. Duke of
Buckingham to Wolsey, Yorys to my power E. Bukyngham. Gccvin
Douglas, Bp. of Dunkeld, to Wolsey. ZgI chaplan wy^ his lawfull seruyse
Gavin bischop of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 294- Zo^ humble servytor and
Chaplein of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 296. Zo^ humble seruytor and
dolorous Chaplan of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 303- Wolsey to
Gardiner {afterwards Bp. of Winchester)* Ends : Your assurjd lover and
bedysman T. Car^s Ebor.— Ellis, i. 2. 6. Again : Wryttyn hastely at Asher
with the rude and shackyng hand of your dayly bedysman and assuryd frende
T. Car^^® Ebor. 1532. T/ios, AudUy {Lord Keeper) to CromwelL Yo^'
assured to his litell Thomas Audeley Gustos Sigiili. Edw. E,
of Hertford {afterwards Lord Protector). Thus I comit you to God hoo send
yo^‘ lordshep as well to far as I would mi selfe . . . w^ the hand of yo^
lordshepis assured E. Hertford. Hen. VI 11 to Catherine Parr. No
more to you at thys tyme swethart both for lacke off tyme and gret
occupation off bysynes, savyng we pray you in our name our harte
blessyngs to all our chyldren, and recommendations to our cousin Marget
and the rest off the laddis and gentyll women and to our Consell alsoo.
Wryttyn with the hand off your lovyng howsbande Henry R. Ellis, i. 2.
130. Princess Mary to CromwelL Marye Princesse. Maister Cromwell
I commende me to you. Ellis, i. 2. 24, Prince Edward to
Catherine Parr. Most honorable and entirely beloued mother. . . . Your
Grace, whom God have ever in his most blessed keping. Your louing sonne,
E. Prince. Ellis, i. 2. 13 1. 1547. Henry Radclyf E. of Sussex, to
his wife. Madame with most lovyng and hertie commendations. Ellis, i. 2.
137. Princess Elizabeth to Ediv. VI. Your Maiesties humble sistar
to com- maundement Elizabeth. Ellis, i. 2. 146 ; Your Maiesties most
humble sistar Elizabeth. Ellis, i. 1. 148. Princess Elizabeth
to Lord Protector. Your assured frende to my litel power Elizabeth. Ellis,
i. 2. 158. Edward VI to Lord Protector Somerset. Derest Uncle. . .
• Your good neuew Edward. Ellis, ii. i. 148. Q.Mary to Lord
Admiral Seymour. Your assured frende to my power Marye. Ellis, i. 2.
153. Princess Elizabeth to Q. Mary (on being ordered to the Tower).
Your Highnes most faithful subjec that hath bine from the begining and
wyl be to my ende, Elizabeth. (Transcr. of 1732). Ellis, ii. 2.
257. 1553, Princess Elizabeth to the Lords of the Council. Your
verye lovinge frende, Elizabeth- Ellis, ii. 2. 213. 1554,
Henry Darnley to Q. Mary of England. Your Maiesties moste bounden and
obedient subjecte and servant Henry Darnley. Queen Dowager to Lord
Admiral Seymour. By her ys and schalbe your humble true and lovyng wyffe
duryng her lyf Kateryn the Quenc. Ellis, i. 2. 152. Q. Mary
to Marquis of Winchester, Your Mystresse assured Marye the Queue.
-—Ellis, ii. 2. 252. Sir John Grey of Pyrgo to Sir William Cecil.
It is a great while me thinkethe, Cowsine Cecill, since I sent unto you.
... By your lovyng cousin and assured frynd John Grey. Ellis, ii, 2.
73-4; Good cowsyne Cecil!. ., . By yo^ lovyng Cousine and assured pouer
frynd dowring lyfe John Grey. Ellis, ii.
2. 276. Lady Catherine Grey, Cmmtess of Hertford, to Sir W, Cecil.
Good cosyne Cecill . . . Your assured frend and cosyne to my small power
Katheryne Hartford. Ellis, ii. 2. 278 ; Your poore cousyne and assured
frend to my small power Katheryne Hartford. Ellis, ii. 2. 287.
1564. Sir W. Cecil to Sir Thos. Smith. Your assured for ever W.
Cecill. Ellis, ii. 2. 295 ; Yours assured W. Cecill— Ellis, ii, 2. 297 ;
Your assured to command W, Cecill Ellis, ii. 2, 300. 1 566.
Duchess of Somerset to Sir W. Cecil. Good M^ Secretary, yf I have let you
alone all thys whyle I pray you to thynke yt was to tary for my L, of
Leycesters assistans. ... I can nomore . ., and so do leave you to God
Yo’^ assured lovyng frynd Anne Somerset,— Ellis, ii.
288. Christopher Jonson, Master of Winchester^ to Sir W, CeciL Right
honourable my duetie with all humblenesse consydered. . . . Your honoures
most due to commando, Christopher Jonson. Ellis, ii. 2. 313. 1569.
Lacfy Stanhope to Sir W, CeciL Right honorable, my humble dewtie
premised. . . . Your honors most humblie bound Anne Stanhope. Ellis, il 2. 324., 1574. Sir
Philip Sidney to the E. of Leicester, Righte Honorable and my singular
good Lorde and Uncle. . . . Your L. most obedi. . ., Philip Sidney.
—Works, p. 345. 1576. Sir Philip Sidney to Sir Francis Walsingham,
Righte Honorable ... I most humbly recommende my selfe unto yow, and
leaue yow to the Eternals most happy protection, ., . Yours humbly at
commawndement Philipp Sidney. 1578. Sir Philip Sidney to
Edward Molineux^ Esq. (Secretary to Sir H. Sidney), Molineux, Few words
are best My letters to my father have come to the eyes of some. Neither
can I condemn any but you. . . . (The writer assures M. that if he reads
any letter of his to his father ^ without his commandment or my consent,
I will thrust my dagger into you. And trust to it, for I speak it in
earnest’. . . .) In the meantime farewell. From court this last of May 1
578, By me Philip Sidney.— p. 328. 1580. Sir Philip Sidney to his
brother Robert. My dear Brother . . . God bless you sweet boy and
accomplish the joyful hope I conceive of you., . . Lord I how I have babbled :
once again farewell dearest brother. Your most loving and careful brother
Philip Sidney. 1582. Thomas Watson ^ To the frendly Reader^ (in
Passionate Centurie of Love). Courteous Reader, . . and so, for breuitie
sake aprubtlie make and end ;
committing the to God, and my worke to thy fauour. Thine as thou art his,
Thomas Watson. Anne of Denmark to James L Sir ... So kissing your
handes I remain she that will ever love Yow best, Anna R. Ellis, i. 3.
97. c. 1585. Sir Philip to Walsingham. Sir, . . your louing cosin
and frend. In several letters to Walsingham Sidney signs *your humble
Son’. ^ 1586. Wm. Webbe to Ma. (= ^ Master ’) Edward Sulyard
Esquire (Dedi- catory Epistle to the Discourse of English Poetrie). May
it please you Syr, thys once more to beare with my rudenes, &c. ... I
rest, Your worshippes faithfull Seruant W. W. 1593. Edward
Alleyn to his wife. My good sweete mouse . . . and so swett mouse
farwell. Mem. of Edw. Alleyn, L 36; my good sweetharte and loving mouse .
. . thyn ever and no bodies else by god of heaven. ibid. 1596,
Thos., Lord Buckhurst, afterwards Earl of Dorset^ to Sir Robert CeciL Sir
. . . Your very lo: frend T. Buckhurst. 1 597, Sir W. Raleigh to
Cecil. S*^ I humblie thanke yow for your letter ., . S^ I pray love vs in
your element and wee will love and honor yow in ours and every wher. And
remayne to be comanded by yow for evermore W Ralegh. 1602.
Same to same. Good Secretary. . . . Thus I rest, your very loving and
assured frend T, Buckhurst,— Works, xxxiv-xi. 1603. Same to same.
My very good Lord. . ♦ . So I rest as you know, Ever yours T.
Buckurst 1605, Same to same. ... I pray God for your health and for
mine own and so rest Ever yours ... 1607. Same to the
University of Oxford. Your very loving friend and Chancellor T. Dorset—
xlvi. cr. 1608. Sir Menry Wotton to Henry Prince of Wales. Youre
zealous pooie servant H. W. Ellis, i. 3* loo. Q. Anne of
Denmark to Sir George Villiers (afterwards Duke of Buc- kingham). My kind
Dog. # • . So wishing you all happiness Anna R. Ellis, i. 3,
ICO. Charles Duke of York to Prince Heniy. Most loving Brother I
long to see you, . . . Your H. most loving brother and obedient servant,
Charles. Ellis, i. 3. 96. 1612. Prince Charles to James L Your most
humble and most obedient sone and servant Charles. Ellis, i. 3.
102. Same to Viljiers. Steenie, There is none that knowes me so
well as your- self. ., . Your treu and constant loving frend Charles P. Ellis,
i. 3. 104. King Jaynes to Buckingham or to Prince Charles, My onlie
sweete and deare chylde I pray thee haiste thee home to thy deare dade by
sunne setting at the furthest. Ellis, i. 3. 120. Sa 7 ne to
Buckingham, My Steenie. . . . Your clear dade, gosseppe and
stewarde. Ellis, i. 3, 159.
Same to both. Sweet Boyes. . . . God blesse you both my sweete babes,
and sende you a safe and happie returne, James R. Ellis, i. 3 121.
Prmce Charles a?id Buckingham to James, Y’our Majesties most humble
and obedient sone and servant Charles, and your humble slave and doge
Steenie.—Ellis, Buckingham to James. Dere Dad, Gossope and Steward. . . • Your
Majestyes most humble slave and doge Steenie. Ellis, i, 3. 146-7.
1623. Lord Herbert to James, Your Sacred Majesties most obedient,
most loyal, and most affectionate subjecte and servant, E. Herbert
The letters of Sir John Suckling (Works, ii, Reeves et Turner) are
mostly undated, but one to Davenant has the date 1629, and another to
Vane that of 1632. The general style is more modern in tone than
those of any of the letters so far referred to. (See on Suckling’s style,
pp. 152-3.) The beginnings and endings, too, closely resemble and are sometimes
identical with those of our own time. To Davenant, Vane, and
several other persons of both sexes, Suckling signs simply ^ Your humble
servant J. S.’, or 'J. Suckling’. At least two, to a lady, end * Your
humblest servant The letter to Davenant begins ‘WilL; that to Vane ‘Right
Honorable’. Several letters begin ‘ Madam ‘ My Lord one begins ‘ My noble
friend another ‘ My Noble Lord several simply ‘ Sir The more fanciful
letters, to Aglaura, begin ‘ Dear Princess ’, ‘ Fair Princess ’, ‘ My
clear Dear ‘ When I consider, my dear Princess ’, &c. One to a cousin
begins ‘ Honest Charles The habit of rounding off the
concluding sentence of a letter so that the valedictory formula and the
writer’s name form an organic part of it, a habit very common in the
eighteenth century in Miss Burney, for instance is found in Suckling’s
letters. For example : ‘ I am still the humble servant of my Lord
that 1 was, and when I cease to be so, I must cease to be John
Suckling’; ‘yet could never think myself unfortunate, while I can write myself
Aglaura her humble servant ’ ; ‘ and should you leave that lodging, more
wretched than Montferrat needs must be your humble servant J. S.’, and so
on. The longwindedness and prolixity wiiich generally distinguish
the openings and closings of letters of the fifteenth and the greater
part of the sixteenth century, begin to disappear before the end of the
latter period. Suckling is as neat and concise as the letter-writers of
the eighteenth century. ‘Madam, your most humble and faithful
servant' might serve for Dr. Johnson. Most of our modern formulas
were in use before the end of the first half of the seventeenth century,
though some of the older phrases still survive. But we no longer find
" I commend me unto your good master- ship, beseeching the Blessed
Trinity to have you in his governance and such-like lengthy
introductions. The Correspondence of Dr. Basire (see pp. 163-4) is very
instructive, as it covers the period from 1634 to 1675, by which latter
date letters have practically reached their modern form. Dr. Basire
writes in 1635-6 to Miss Frances Corbet, his fiancee, 'Deare Fanny ^
Deare Love ^ ^ Love and ends ' Your most faithfuil frend J. B.', 'Thy
faithful frend and loving servaunt J. B.", 'Your assured frend and
loving well-wisher J. B/, 'Your ever iouing frend J. B.' When Miss Corbet
has become his wife, he constantly writes to her in his exile which
lasted from 1640 to 1661, letters which apart from our present purpose
possess great human and historical interest. These letters generally
begin ' My Dearest', and ' My deare Heart', and he signs himself ' Your
very Iouing husband', 'Yours, more than ever', 'Your faithful husband', '
My dearest. Your faithful friend ', ' Yours till death ' Meanewhile
assure your selfe of the constant love of— My dearest ^Your loyall husband The lady to
whom these affectionate letters were addressed, bore with wonderful
patience and cheerfulness the anxieties and sufferings incident upon a
state bordering on absolute want caused by her husband's depriva- tion of
his living under the Commonwealth, his prolonged absence, together with
the cares of a family of young children, and very indifferent health. She
was a woman of great piety, and in her letters ‘ many a holy text around
she strews ' in reply to the religious soliloquies of her husband. Her
letters all begin ' My dearest ’, and they often begin and close with
pious exclamations and phrases 'Yours as much as euer in the Lord, No,
more thene euer ' ; ' My dearest, I shall not faile to looke thos plases
in the criptur, and pray for you as becometh your obedient wife and
serunt in the Lord F. B. ’ ; another letter is headed ' Jesu 1 and
ends ' I pray God send vs all a
happy meting, I ham your faithful in the Lord, F. B.' Many of the letters
are headed with the Sacred Name. Others of Mrs. Basire's letters end 'Farwall
my dearest, I ham yours faithful for euer'; 'I euer remine Yours
faithfuil in the Lord'; 'So with my dayly prayers to God for you, I
desire to remene your faithfuil loveing and obedient wif '.
It may be worth while to give a few examples of beginnings and ends
of letters from other persons in the Basire Correspondence, to illustrate
the usage of the latter part of the seventeenth century. These
letters mostly bear, in the nature of an address, long superscrip- tions
such as 'To the Reverend and ever Honoured Doctour Basire, Prebendary of
the Cathedral Church in Durham. To be recommended to the Postmaster of
Darneton' (p. 213, dated 1662). This letter, from Prebendary Wrench
of Durham, begins ' Sir and ends ' Sir, Your faithfuil and unfeigned
humble Servant R. W.' In the same year the Bishop of St. David's
begins a letter to Dr. Basire '
Sir and ends ' Sir, youre uerie sincere friend and seruant, Wil. St,
David's, The Doctor's son begins ' Reverend Sir, and most loving
Father ' and ends with the same formula, adding ' Your very obedient Son,
P. B ^ p. 221. To his Bishop (of
Durham) Dr. Basire begins 'Right Rev. Father in God, and my very good
Lord ending ' I am still, My L<i, Your Lp 3 . faithfull Servant Isaac
Basire’. In 1666 the Bishop of Carlisle, Dr. Rainbow, evidently an old
friend of Dr. B/s, begins 'Good Mr. Archdeacon and ends ' I commend you
and yours to God’s grace and remaine,'Your very faithfull frend Edw,
Carlioi’, p. 254. In 1668 the Bishop of Durham begins ' M^
Archdeacon ’ and ends ' In the interim I shall not be wanting at this
distance to doe all I can, who am, Sir, Your very loving ffriend and
servant TJo. Duresme', p. 273. Dr. Barlow, Provost of Queen’s, begins 'My
Reverend Friend’, and ends ‘Your prayers are desired for, Sir, Your
affectionate friend and Seruant, Tho. Barlow’. Dr. Basire begins a letter
to this gentleman ‘ Rev. Sir and
my Dear Friend ’ . ., ending ' I remain, Reverend Sir, Your affectionate
frend, and faithful servant To his son Isaac, he writes in 1664 'Beloved
Son’, ending ‘So prays your very lovinge and painfull Father, Isaac
Basire ’. Having now brought our examples of the various types of
epistolary formulas down to within measurable distance of our own
practice, we must leave this branch of our subject. Space forbids us to
examine and illus- trate here the letters of the eighteenth century, but
this is the less necessary as these are very generally accessible. The
letters of that age, formal or intimate, but always so courteous in their
formulas, are known to most readers. Some allusion has already been made
(pp. 20-1) to the tinge of ceremoniousness in address, even among
friends, which survives far into the eighteenth century, and may *be seen
in the letters of Lady Mary Montagu, of Gray, and Horace Walpole, while
as late as the end of the century we find in the letters of Cowper,
unsurpassed perhaps among this kind of literature for grace and charm,
that combination of stateliness with intimacy which has now long passed
away. Exclamations, Expletives, Oaths, &e. Under
these heads comes a wide range of expressions, from such as are mere
exclamations with little or no meaning for him who utters or for him who
hears them, or words and phrases added, by way of emphasis, to an
assertion, to others of a more formidable character which are
deliberately uttered as an expression of spleen, disappointment, or rage,
with a definitely blasphemous or injurious intention. In an age like
ours, where good breeding, as a rule, permits only exclamations of the
mildest and most meaningless kind, to express temporary annoyance,
disgust, surprise, or pleasure, the more full-blooded utterances of a
former age are apt to strike u$ as excessive. Exclamations which to those
who used them meant no more than ' By Jove ’ or ' my word ’ do to us,
would now, if they were revived appear almost like rather blasphemous
irreve- rence. It must be recognized, however, that swearing, from its
mildest to its most outrageous forms, has its own fashions. These vary
from age to age and from class to class. In every age there are
expressions which are permissible among well-bred people, and others
which are not. In certain circles an expression may be regarded with
dislike, not so much because of any intrinsic wickedness attributed to it,
as merely because it is vulgar. Thus there are many sections of society
at the present time where such an expression as ‘ O Crikey * is not in
use. No one would now pretend that in its present form, whatever may
underlie it, this exclamation is peculiarly blasphemous, but many persons
would regard it with disfavour as being merely rather silly and
distinctly vulgar. It is not a gentleman’s expression. On the other hand,
^ Good Heavens \ or ^ Good Gracious \ while equally innocuous in meaning
and intention, would pass muster perhaps, except among those who object,
as many do, to anything more forcible than ‘ dear me \ Human
nature, even when most restrained, seems occasionally to require some meaningless
phrase to relieve its sudden emotions, and the more devoid of all
association with the cause of the emotion the better will the exclamation
serve its purpose. Thus some find solace in such a formula as ‘ O liitle
haiC which has the advantage of being neither particularly funny nor of
overstepping the limits of the nicest decorum, unless indeed these be
passed by the mere act of expressing any emotion at all. It is really
quite beside the mark to point out that utterances of this kind are
senseless. It is of the very essence of such outbursts the mere bubbles
on the fountain of feeling ^that they are quite unrelated to any definite
situation. There is a certain adjective, most offensive to polite ears,
which plays apparently the chief r 61 e in the vocabulary of large
sections of the community. It seems to argue a certain poverty of
linguistic resource when we find that this word is used by the same
speakers both to mean absolutely nothing being placed before every noun,
and often adverbially before all adjectives and also to mean a great deal
everything indeed that is unpleasant in the highest degree. It is rather
a curious fact that the word in question while always impos- sible,
except perhaps when used as it were in inverted commas, in such a way
that the speaker dissociates himself from all responsibility for, or
proprietorship in it, would be felt to be father more than ordinarily
intolerable, if it were used by an otherwise polite speaker as an
absolutely meaningless adjective prefixed at random to most of the nouns
in a sen- tence, and worse than if it were used deliberately, with a
settled and full intent. There is something very terrible in an oath torn
from its proper home and suddenly implanted in the wrong social
atmosphere. In these circumstances the alien form is endowed by the
hearers with mysterious and uncanny meanings ; it chills the blood and
raises gooseflesh. We do not propose here to penetrate into the
sombre history of blasphemy proper, nor to exhibit the development through
the last few centuries of the ever-changing fashions of profanity. At
every period there has been, as Chaucer knew a
companye Of yonge folk, that haunteden folye, As ryot,
hasard, stewes and tavemes, Wher-as with harpes, lutes and gitemes,
They daunce and pleye at dees both day and night, And ete also and
drinken over hit might, Thurgh which they doon the devel
sacrifyse Within the develes tempel in cursed wyse, By
superfiuitee abhominable; c c 2 Hir othes been so grete
and so dampnable^ That it is grisly for to here hem swere ;
Our blissed lordes body they to-tere; Hem though te Jewes
rent him noght y-nough. We are concerned, for the most part, with
the milder sort of expres- sions which serve to decorate discourse, without
symbolizing any strong feeling on the part of those who utter them. Some
of the expletives which in former ages were used upon the slightest
occasion, would certainly appear unnecessarily forcible for mere
exclamations at the present day, and the fact that such expressions were
formerly used so lightly, and with no blasphemous intention, shows how
frequent must have been their employment for familiarity to have robbed
them of all meaning. So saintly a person as Sir Thomas More
was accustomed, according to the reports given of his conversation by his
son-in-law, to make use of such formulas as a Gods name^ p. xvi ; would
to God, ibid. ; in good faith, xxviii, but compared with some of the
other personages mentioned in his Life, he is very sparing of such
phrases. The Duke of Norfolk, ‘his singular deare friend*, coming to dine
with Sir Thomas on one occasion, ‘ fortuned to find him at Church
singinge in the quiere with a surplas on his backe ; to whome after
service, as the(y) went home togither arme in arme, the duke said, “ God
body, God body, My lord Chauncellor, a parish Clark, a parish Clarke ! ”
' On another occasion the same Duke said to him ^ By the
Masse, Moore, it is perillous strivinge with Princes ... for Gode's
body, Moore, Indignatio principis mors est *, p. xxxix. In the
conversation in prison, with his wife, quoted above, p. 364, we find that
the good gentlewoman ‘ after her accustomed fashion * gives vent to such
exclama- tions as ‘ What the goody ear e Moore ' : ‘ Tille mile, tille
vallc ' ; ^ Bone deus, hone Deus man \ ‘ I muse what a Gods name
you meane here thus fondly to tarry*. At the trial of Sir Thomas More,
the Lord Chief Justice swears by St, Julian ‘ that was ever his oath p. li. ‘
Tilly folly, Sir John, ne’er tell me and ‘ What the good year ! ' are
both also said by Mrs. Quickly in Henry IV, Pt. II, ii. 4. Marry, which
means no more than ‘ indeed *, was a universally used expletive in the
sixteenth century, Roper uses it in speaking to More, Wolsey uses it,
according to Cavendish ; it is frequent in Roister Doister, and is con-
stantly in the mouths of Sir John Falstaff and his merry companions. By
sweete Sanct Anne, by cocke, by gog, by cocks precious potsiick, kocks
nownes, by the armes of Caleys, and the more formidable by the passion of
God Sir do not so, all occur in Roister Doister, and further such
exclama- tions as O Lords, hoigh dagh !, I dare sweare, I shall so God me
saue, I make God a vow (also written avow), would Christ I had, &c.
Meaning- less imprecations like the Devil take me, a mischiefe take his
token and him and thee too are sprinkled about the dialogue of this play.
The later plays of the great period offer a mine of material of this
kind, but only a few can be mentioned here. What a Devil (instead of the
Devil), what a pox, hfr lady, bounds, d blood, Gods body, by the mass, a
plague on thee, are among the expressions in the First Part of Henry IV,
In the Second Part Mr. Justice Shallow swears by cock and pie. By the
side of these are mild formulas such as Tm a Jew else^ Tm a rogue if I
drink today. In Chapman’s comedies there is a rich sprinkling both
of the slighter forms of exclamatory phrases, as well as of the more
serious kind. Of the former we may note j/ faitk^ Ur lord^ Ur lady, by
the Lord, How the divell (instead of how a devil), all in A Humorous
Day's Mirth ; He he sworne, All Fooles; of the latter kind of expression
Gods precious soles., H. D. M. ; sjoot, shodie, God^s my life, Mons.
D'Olive ; Gods my passion, H. D. M. ; swounds, zwoundes, Gentleman
Usher. Massinger's New Way to pay old Debts has 'slight, 'sdeath,
and a fore- shadowing of the form of asseveration so common in the later
seventeenth century in the phrase ‘ If I know the mystery may I perish
ii. 2, It is to the dramatists of the later seventeenth and early
eighteenth century that the curious inquirer will go for expletives and
exclamatory expressions of the greatest variety. Otway, Congreve, and
Vanbrugh appear to excel all their predecessors and contemporaries in the
fertility of their invention in this respect. It is indeed probable that
while some of the sayings of Mr. Caper, my Lady Squeamish, my Lady
Plyant, my Lord Foppington, and others of their kidney, are the creations
of the writers who call these ' strange pleasant creatures ' into
existence, many others were actually current coin among the fops and fine
ladies of the period. Even if many phrases used by these characters are
artificial con- coctions of the dramatists they nevertheless are in
keeping with, and express the spirit and manners of the age. If Mr.
Galsworthy or Mr. Bernard Shaw were to invent corresponding slang at the
present day, it would be very different from that of the so-called
Restoration Dramatists. The bulk of the following selection of expletives
and oaths is taken from the plays of Otway, Congreve, Wycherley, Mrs.
Aphra Behn, Vanbrugh, and Farquhar. A few occur in Shadwell, and many
more are common to all writers of comedies. These are undoubtedly
genuine current expressions some of which survive. Among the
more racy and amusing are : Ld me
die : ‘ Let me die your Ladyship obliges me beyond expression* (Mr.
Saunter in Otway's Friendship in Fashion) ; ^ Let me die, you have a
great deal of wit' (Lady Froth, Congreve's Double Dealer); also much used
by Melantha, an affected lady in Dryden's Marriage \ la Mode. . .
1 Ld me perish ‘ I'm your humble servant let me perish ' (Brisk,
Double Dealer) ; also used by Wycherley, Love in a Wood.
^le (Vanbrugh's Relapse), Death and eternal iartures Sir, I
vow the packet's (= pocket) too high (Lord Foppington), Burn
me if I do (Farquhar, Way to win him). Mai me, ^ rat my packet
handkerchief (Lord Foppington). Never Never stir if it did not'
(Caper, Otway, Friendship in Love) ; * Thou shalt enjoy me always,
dear, dear friend, never stir '• BU take my death you're handsomer
' (Mrs. Millamont, Congreve, Way of the World)., Bm a Person
(Lady Wishfort, Way of the World). Stap my vitals (Lord Foppington ; very
frequent). Split my wmdpipe Lord Foppington gives his brother his
blessing, on finding that the latter has married by a trick the lady he
had designed for himself 'You have married a woman beautiful in her
person, charming in her airs, prudent in her canduct, canstant in her
inclina- tions, and of a nice marality split my windpipe As I
hope to breathe (Lady Lurewell, Farquhar, Sir Harry Wildair), Tm a
Dog if do (Wittmore in Mrs. Behn’s Sir Patient Fancy). By the
Universe (Wycherley, Country Wife). I swear and declare (Lady
Plyant) ; / swear and vow (Sir Paul Plyant, Double Dealer) ; I do protest
and vow (Sir Credulous Easy, Aphra Behn’s Sir Patient Fancy) ; I protest
I swoon at ceremony (Lady Fancyfull, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; 1 profess
ingenuously a very discreet young man (Mrs, Aphra Behn, Sir Patient
Fancy). Gads my hfe (Lady Plyant). O Crimine (Lady
Plyant). O Jeminy (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife).
Gad take me, between you and I, I was deaf on both ears for three
weeks after (Sir Humphrey, Shadwell, Bury Fair). ril lay my Life he
deserves your assistance (Mrs. Sullen, Farquhar, Beaux' Strategem).
By the Lord Harry (Sir Jos. Wittol, Congreve, Old Bachelor). the
universe (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife). Gadzooks
(Heartfree, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; Gadt s Bud (Sir Paul Plyant,
Double Dealer) ; Gud soons (Lady Arabella, Vanbrugh, Journey to London) ;
Marry-gep (Widow Blackacre, Wycherley, Plain Dealer) ; ^sheart (Sir
Wilful, Congreve, Way of the World) ; Eh Gud, eh Gud (Mrs. Fantast,
Shadwell, Bury Fair); Zoz I was a modest fool; ads^- zoz (Sir Credulous
Easy, Devonshire Knight, Aphra Behn, Sir Petulant Fancy); 'D's diggers
Sir (a groom in Sir Petulant Fancy); ^sheart (Sir Wilf. Witwoud,
Congreve, Way of the World); odsheart (Sir Noble Clumsey, Otway,
Friendship in Fashion); Adsheart (fkx Jos, Wittol, Congreve, Old
Bachelor) ; Gadswouns (Oldfox, Plain Dealer). By the side of marry,
frequent in the sixteenth and seventeenth centuries, the curious
expression Marry come up my dirty cousin occurs in Swift's Polite
Conversations (said by the young lady), and again in Fielding's Tom Jones
said by the lady's maid Mrs. Honor. With this compare marry gep above,
which probably stands for ' go up Such expressions as Lard are
frequent in the seventeenth-century comedies, and the very
modern-sounding as sure as a gun is said by Sir Paul Plyant in the Double
Dealer. The comedies of Dryden contain but few of the more or less
mild, and fashionable, semi-bantering exclamatory expressions which
enliven the pages of many of his contemporaries ; he sticks on the whole
to the more permanent oaths 'sdeath, ^sblood, &c. It must be allowed
that the dialogue of Dry den's comedies is inferior to that of Otway or
Congreve in brilliancy and natural ease, and that it probably does not
reflect the familiar colloquial English of the period so faithfully as
the conversation in the works of these writers. Dryden himself says, in
the Defense of the Essay of Dramatic Poesy, ' I know I am not so fitted
by Nature to write Comedy : 1 want that Gaiety of Flumour which is required
to it. My Conversation is slow and dull, my Humour Saturnine and reserv’d
: In sliortj I am none of those who endeavour to break all Jests in
Com- pmy, or make Repartees It may be noted that the frequent
use almost in ever;^ sentence of such phrases as A/ me perish, hum me,
and other meaningless interjec- tions of this order, is attributed by the
dramatists only to the most frivolous fops and the most affected women of
fashion. The more serious characters, so far as such exist in the later
seventeenth-century comedies, aie addicted rather to the weightier and
more sober sort of swearing. It is perhaps unnecessary to pursue this
subject beyond the* first third of the eighteenth century. Farquhar has
many of the manner- isms of his slightly older contemporaries, and some
stronger expressions, e. g. ‘ There was a neighbour's daughter I had a
woundy kindness for Truman, in Twin Rivals ; but Fielding in his numerous
comedies has but few of the objurgatory catchwords of the earlier
generation. Swearing, both of the lighter kind as well as of the
deliberately profane variety, appears to have diminished in intensity,
apart from the stage country squire, suc h as Squire Badger in Don
Quixote, who says ^ShodUkins and ecod, and Squire Western, whose artless
profanity is notorious. Ladies in these plays, and in Swift's Polite
Conversations, still say lard, O Ltid, and la, and mercy, ^shuhs, God
bless my eyesight, but the rich variety of expression which we find in Lady
Squeamish and her friends has vanished. Some few of the old mouth-filling
oaths, such as zounds, ^sdeath, and so on, still linger in Goldsmith and
Sheridan, but the number of these available for a gentleman was very
limited by the end of the century. From the beginning of the nineteenth
century it would seem that nearly all the old oaths died out in good
society, as having come to be considered, from unfamiliarity, either too
profane or else too devoid of content to serve any purpose. It seems to be
the case that the serious oaths survive longest, or at any rate die
hardest, while each age produces its own ephemersil formulas of mere
light expletive and asseveration. Hyperbole ; Compliments ;
Approval ; Disapproval ; Abuse, Very characteristic of a particular
age is the language of hyperbole and exaggeration as found in phrases
expressive on the one hand of compliments, pleasure, approval, amusement,
and so on, and of disgust, dislike, anger, and kindred emotions, on the
other. Incidentally, the study of the different modes of expressing such
feelings as these leads us also to observe the varying fashion in
intensives, corresponding to the present-day awfully, frightfully, and
the rest, and in exaggeration generally, especially in paying
compliments. The following illustrations are chiefly drawn from the
seventeenth century, which offers a considerable wealth of
material. It is wonderful what a variety of expressions have been
in use, more or less transitorily, at different periods, as intensives,
meaning no more than i>iry, very much, &c. Rarely in Chapman^s
Gentleman Usher ^How did you like me
aunt? 0 rarely, rarely \ ^Oh lord, that, that is a pleasure intolerahU \
Lady Squeamish in Otway’s Friendship in Love ; ‘Let me die if that was
not extravaganily pleasant vtry amusing), ibid. ; ^ I vow he himself
sings a tune extreme prettily \ ibid. : ‘ I love dancing immoderately \
ibid. ; ‘ O dear ’tis violent hot \ ibid. ; ‘ Deuce take me if your
Ladyship has not the art of surprising the most naturally in the world I
hope you'll make me happy in communicating the Poem Brisk in Congreve's
Double Dealer ; ‘With the reserve of my Honour, I aSvSure you Careless, I
don't know anything in the World I would refuse to a Person so
meritorious You’ll pardon my want of expression', Lady Plyant in Double
Dealer; to which Careless replies ‘O your “Xadyship is abounding in all
Excellence^ particularly that of Phrase ; My Lady Froth is very well in
her Accomplishments But it is when my Lady Plyant is not thought of— if
that can ever be ' ; Lady Plyant : ‘O
you overcome me That is so excessive' ; Brisk, asked to write notes to
Lady Froth's Poems, cries ‘ With all my Heart and Soul, and proud of the
vast Honour let me perish ‘ I swear Careless you are very alluring^ and
say so many fine Things, and nothing is so moving as a fine Thing. ., .
Well, sure if I escape your Importunities, I shall value myself as long
as I live, I swear ; Lady Plyant. The following bit of dialogue between
Lady Froth and Mr. Brisk illustrates the fashionable mode of bandying
exaggerated, but i*ather hollow compliments. ‘ Ldy P. Ah Gallantry
to the last degree Brisk was ever anything so well bred as My Lord ?
Brisk Never anything but your Ladyship let me perish. Ldy F, O prettily
turned again ; let me die but you have a great deal of Wit. Mellefont
don^t you think Brisk has a World of Wit ? MeUefont O yes Madam. Brisk O
dear Madam Ldy F» An mfinite deal!
Brisk, O Heaven Madam. 'Ldy F. More Wit than Body. Brisk Pm everlastingly
your humble Servant^ deuce take me Madam. Lady Fancyful in
Vanbrugh’s Provok'd Wife contrives to pay herself a pretty compliment in
lamenting the ravages of her beauty and the con- sequent pretended
annoyance to herself ‘ To confess the truth to you, Fm so everlastingly
fatigued with the addresses of unfortunate gentlemen that were it not for
the extravagancy of the example, I should e'en tear out these wicked eyes
with my own fingers, to make both myself and mankind easy
Swift's Polite Conversations consist of a wonderful string of slang
words, phrases, and clicMs^ all of which we may suppose to have been
current in the conversation of the more frivolous part of Society in the
early eighteenth century. The word pure is used for very ‘ this almond
pudden is pure good ’ ; also as an Adj., in the sense of excellent^ as in ‘
by Dad he's pure Company \ Sir Noble Clumsey's summing-up of the
'Arch- Wag' Malagene. To divert in the characteristic sense of
‘amuse', and instead of this ‘ Well ladies and gentlemen, you are pleased
to divert yourselves'. Lady Wentworth in 1706 speaks of her ‘munckey'
as ‘ full of devertin tricks and twenty years earlier Cary Stewkley
(Verney), taxed by her brother with a propensity for gambling, writes ‘
whot dus becom a gentilwoman as plays only for divariion I hope I
know The idiomatic use of obliging is shown in the Polite
Conversations, by Lady Smart, who remarks, in answer to rather excessive
praise of her house ‘ My lord, your lordship is always very obliging ' ;
in the same sense Lady Squeamish says 'I sweai*e Mr. Malagene you are a
very obliging person \ Extreme amusement, and approval of the
persons who provoke it, are frequently expressed with considerable
exaggeration of phrase. Some instances are quoted above, but a few more
may be added^. ‘ A you mad slave you, you are a ticUing Acior\ says
Vincentio to Pogio in Chapman’s Gentleman Usher. Mr. Oldwit,
in Shadwelbs Bury Fair, professes great delight at the buffoonery of Sir
Humphrey : ‘ Forbear, pray forbear ; you'll be the death of me ; 1 shall
break a vein if I keep you company, you arch Wag you, . . . Well Sir
Humphrey Noddy, go thy ways, thou art the ar«hesT Wit and Wag. I must
forswear thy Company, thou'lt kill me elsei' The arch wag asks ' What is
the World worth without Wit and Waggery and Mirth ? and describing some
prank he had played before an admiring friend, remarks Mf you’d seen his
Lordship laugh! I thought my Lord would have killed himself. He desired
me at last to forbear ; he was not able to endure it! 'Why what a notable
Wag^s this" is said sarcastically in Mrs. Aphra Behn’s Sir Patient Fancy.
The passages quoted above, pp. 369-71, from Otway’s Friendship in
Love illustrate the modes of expressing an appreciation of ' Waggery
In the tract Reasons of Mr. Bays for changing his religion (1688),
Mr. Bays (Dryden) remarks a propos of something he intends to write ^you 'll half kill yourselves with laughing at
the conceit and again ' I protest Ml’ Crites you are enough to make
anybody split with laugh- ing', Similarly 'Miss’ in Polite Conversation
declares 'Well, I swear you'll make one die with laughing The
language of abuse, disparagement, contempt, and disapproval, whether real
or in the nature of banter, is equally characteristic. The
following is uttered with genuine anger, by Malagene Goodvile in Otway’s
Friendship in Love, to the njusicians who are entertaining the company '
Hold, hold, what insufferable rascals are these ? Why you scurvy
thrashing scraping mongrels, ye make a worse noise than crampt hedgehogs.
’Sdeath ye dogs, can’t you play more as a gentleman sings ? ’
The seventeenth-century beaux and fine ladies were adepts in the
art of backbiting, and of conveying in a few words a most unpleasant
picture of an absent friend 'O my Lady Toothless’ cries Mr. Brisk in
the Double Dealer, ' O she ’s a mortifying spectacle, she "s always
chewing the cud like an old Ewe ’ ; ' Fie M*^ Brisk, Eringos for her
cough ’ pro- tests Cynthia ; Lady Froth : ' Then that t’other great strapping
Lady— I can't hit of her name ; the old fat fool that paints so
exorbitantly ’ ; Brisk : ' I know whom you mean But deuce take me I can't
hit of her Name neither— Paints d’ye say ? Why she lays it on with a
trowel’ Mr. Brisk knows well how to 'just hint a fault ' Don't you
apprehend me My Lord? Careless is a very honest fellow, but harkee ^you
under- stand me somewhat heavy, a little shallow or so Lady
Froth has a picturesque vocabulary to express disapproval— '0 Filthy M**
Sneer? he's a nauseous figure, a most fulsamic Fop . Nauseous and filthy
are favourite words in this period, but are often used so as to convey
little or no specific meaning, or in a tone of rather affectionate banter.
^ He ’s one of those nauseous offerers at wit Wycherley’s Country Wife ;
^ A man must endeavour to look wholesome ’ says Lord Foppington in
Vanbrugh's Relapse, ‘lest he make so nauseous a figure in the side box,
the ladies should be compelled to turn their eyes upon the Play ’ ; again
the same nobleman remarks ‘ While I was but a Knight I was a very
nauseous fellow ’ ; and, speaking to his tailor I shall never be
reconciled to this nauseous packet A remarkable use of the verb, to
express a simple aversion, is found in Mrs. Millamont’s ^ I nauseate walking
; 'tis a country divertion ' (Congreve, Way of the World). In
the Old Bachelor, Belinda, speaking of Belmour with whom she is Th In^e,
cries out, at the suggestion of such a possibility ‘ Filthy Fellow I ... Oh I love your
hideous fancy I Ha, ha, ha, love a Man 1 ' In the same play Lucy the maid
calls her lover, Setter, ‘ Beast, filthy toad ’ during an exchange of
civilities. ‘ Foh, you filthy toad I nay, now IVe done jesting ’ says
Mrs. Squeamish in the Country Wife, when Horner kisses her. ‘Out upon you
for a filthy creature' cries ‘Miss^ in the Polite Conversations, in reply
to the graceful banter of Neverout. Toad is a term of endearment
among these ladies ; ‘ I love to torment the confounded toad' says Lady
Fidget, speaking of Mr. Horner for whom she has a very pronounced
weakness. ‘ Get you gone you good- natur’d toad you ' is Lady Squeamish's
reply to the rather outre compli- ments of Sir Noble. Plague
(Vb.), plaguy^ plaguily are favourite expressions in Polite Con-
versations. Lord Sparkish complains to his host ‘ My Lord, this venison
is plaguily peppered ' ; ' 'Sbubs, Madam, I have burnt my hand with your
plaguy kettle ' says Neverout, and the Colonel observes, with
satisfaction, that ‘ her Ladyship was plaguily bamb'd ‘ Don't be so
teizing ; you plague a body so ! can't you keep your filthy hands to
yourself? ' is a playful rap administered by ‘ Miss ' to Neverout.
Strange is another word used very indefinitely but suggesting mild
disapproval ‘ I vow you'll make me hate you if you talk so strangely, but
let me die, I can't last longer ' says Lady Squeamish, implying a certain
degree of impropriety, which nevertheless makes her laugh ; again, she
says, ‘I'll vow and swear my cousin Sir Noble is a strange pleasant
creature We have an example above of exorbitantly in the sense of
‘out- rageously', and the adjective is also used in the same sense ^‘Most
exorbitant and amazing' is Lady Fantast’s comment, in Bury Fair, upon her
husband's outburst against her airs and graces. We may close this series
of illustrations, which might be extended almost indefinitely, with two
from the Verney Memoirs, which contain idiomatic uses that have long
since disappeared. Susan Verney, wishing to say that her sister's husband
is a bad-tempered disagreeble fellow, writes ‘poore peg has married a
very humersome cros boy as ever I see' (Mem.). Edmund Verney, Sir Ralph's
heir, having had a quarrel with a neigh* bouring squire concerning
boundaries and rights of way, describes him as ‘very malicious and
stomachfull' (Mem.). The phrase ‘as ever I see' is common in the Verney
letters, and also in the Went- worth Papers. Preciosity,
&c. We close this chapter with some examples of
seventeenth-century preciosity and euphemism. The most characteristic
specimens of this kind of affected speech are put by the writers into the
mopths of female characters, and of these we select Shadwell's Lady
Fantast and her daughter (Bury Fair), Otway's Lady Squeamish, Congreve's
Lady Wishfort, and Vanbrugh's Lady Fancyful in the Provok'd Wife.
Some of the sayings of a few minor characters may be added ; the
waiting- maids of these characters are nearly as elegant, and only less
absurd than their mistresses. Luce, Lady Fantast's woman,
summons the latter's stepdaughter as follows : ^ Madam, my Lady Madam
Fantast, having attir'd herself in her morning habiliments, is ambitious
of the honour of your Ladyship's Company to survey the Fair ' ; and she
thus announces to her mistress the coming of Mrs. Gertrude the stepdaughter
: ‘ Madame, M^s Gatty ' will kiss
your Ladyship's hands here incontinently '. The ladies Fan- tast, highly
respectable as they are in conduct, are as arrant, pretentious, and
affected minxes as can be found, in manner and speech, given to
interlarding their conversation with sham French, and still more dubious
Latin. Says the daughter ‘To all that
which the World calls Wit and Breeding, I have always had a natural
Tendency, a penchen^ derived, as the learned say, ex traduce, from your
Ladyship : besides the great Prevalence of your Ladyship's most shining
Example has perpetually stimulated me, to the sacrificing all my
Endeavours towards the attaining of those inestimable Jewels ; than
which, nothing in the Universe can be so much a mon gre, as the French
say. And for Beauty, Madam, the stock I am enrich'd with, comes by
Emanation from your Ladyship, who has been long held a Paragon of
Perfection : most Charmanf, most Tuant! ‘Ah my dear Child' replies the
old lady, ‘II alas, alas 1 Time has been, and yet I am not quite gone .
When Gertrude her stepsister, an attractive and sensible girl, comes in
Mrs. Fantast greets her with ‘ Sweet Madam Gatty, I have some minutes
impatiently expected your Arrival, that I might do myself the Great
Honour to kiss your hands and enjoy the Favour of your Company into the
Fair ; which I see out of my Window, begins to fill apace.'
To this piece of afifectation Gatty replies very sensibly, ‘ I got ready
as soon as e'er I could, and am now come to wait on you ', but old
Lady Fantast takes her to task, with ‘ Oh, fie, Daughter ! will you never
attain to mine, and my dear Daughter's Examples, to a more polite way
of Expression, and a nicer form of Breeding ? Fie, fie ; I come to wait
on you! You should have said; I assure you Madam the Honour is all
on my side ; and I cannot be ambitious of a greater, than the sweet
Society of so excellent a Person. This is Breeding/ ‘Breeding!' exclaims
Gatty, ‘ Why this had been a Flam, a meer Flam And with this judgement,
we may leave My Lady Fantast. We pass next to Lady Squeamish, who
is rather ironically described by Goodvile as ‘the most exact Observer of
Decorums and Decency alive Her manner of greeting the ladies on entering,
along with her cousin Sir Noble Clumsey, if it has the polish, has also
the insincerity of her age—' Dear Madam Goodvile, ten thousand Happinesses
wait on you ! Fair Madam Victoria, sweet charming Camilla, which way
shall I express my Service to you ? Cousin your honour, your honour to
the Ladies. Sir Noble : Ladies as low as
Knee can bend, or Head can bow, I salute you all : And Gallants, I am
your most humble, most obliged, and most devoted Servant/ The
character of this charming lady, as well as her taste in language, is
well exhibited in the following dialogue between her and Victoria.
^ Oh my dear Victoria ! the most unlock’d for Happiness ! the
pleasantest Wlc^ent ! the strangest Discovery ! the very thought of it
were enough to cure Melancholy. Valentine and Camilla, Camilla and
Valentine, ha, ha, ha, Viet, Dear Madam, what is ’t so transports
you ? Ldy Sqti, Nay ’tis too precious to be communicated : Hold me,
hold me, or I shall die with laughter
ha, ha, ha, Camilla and Valentine, Valentine and Camilla, ha, ha,
ha 0 dear, my Heart’s broke. Viet, Good Madam refrain your Mirth a
little, and let me know the Story, that I may have a share in it.
Ldy Squ, An Assignation, an Assignation tonight in the lower Garden ; by strong good Fortune I overheard it all just
now but to think of the pleasant
Consequences that will happen, drives me into an Excess of Joy beyond all
sufferance. Viet, Madame in all probability the pleasantest
Consequence is like to be theirs, if any body’s ; and I cannot guess how
it should touch your Ladyship in the least. Ldy Squ, O Lord,
how can you be so dull ? Why, at the very Hour and Place appointed will I
greet Valentine in Camilla’s stead, before she can be there herself ;
then when she comes, expose her Infamy to the World, till I have thorowly
revenged my self for all the base Injuries her Lover has done me.
Viet But Madam, can you endure to be so malicious ? Ldy Squ,
That, that ’s the dear Pleasure of the thing ; for I vow I’d sooner die
ten thousand Deaths, if I thought I should hazard the least Temptation to
the prejudice of my Honour. Viet, But why should your Ladyship run
into the mouth of Danger? Who knows what scurvy lurking Devil may stand
in readiness, and seize your Virtue before you are aware of him ?
Ldy Squ, Temptation? No, I’d have you know I scorn Temptation: I
durst trust myself in a Convent amongst a Kennel of cramm’d Friers:
Besides, that ungrateful ill-bred fellow Valentine is iny mortal
Aversion, more odious to me than foul weather on a May-day, or ill smell
in a Morning. ... No, were I inclined to entertain Addresses, I assure
you I need not want for Servants ; for I swear I am so perplexed with
Billet-Doux^ every day, I know not which way to turn myself: Besides
there’s no Fidelity, no Honour in Mankind. O dear Victoria I whatever you
do, never let Love come near your Heart : Tho really 1 think true Love is
the greatest Pleasure in the World.’ And so we let Lady
Squeamish go her ways for a brazen jilt, and an affected, humoursome
baggage. If any one wishes to know whither her ways led her, let him read
the play. Only one more example of foppish refinement of speech
from this play the remarks of the whimsical Mr. Caper to Sir Noble
Clumsey, who coming in drunk, takes him for a dandng-master ^ I thought you had known me’ says he,
rather ruefully, but adds, brightening— 'I doubt you may be a little overtaken.
Faith, dear Heart, Fm glad to see you so merry I ’ The
character of Lady Wishfort in the Way of the World is perhaps one of the
best that Congreve has drawn; her conversation in spite of the deliberate
affectation ir^ phrase is vivid and racy, and for all its preciosity has
a naturalness which puts it among the triumphs of Con- greve’s art. He
contrives to bring out to the full the absurdity of the lady’s
mannerisms, in feeling and expression, to combine these with vigour and
ease of diction, and to give to the whole that polish of which he is the
unquestioned master in his own age and for long after. The position
of Lady Wishfort is that of an elderly lady of great ouii ward propriety
of conduct, and a steadfast observer of decorum, in sjl^ch no less than
in manners. Her equanimity is considerably upset by the news that an
elderly knight has fallen in love with her portrait, and wishes to press
his suit with the original. The pretended knight is really a valet in
disguise, and the whole intrigue has been planned, for reasons into which
we need not enter here, by a rascally nephew of Lady Wishfort’s. This,
however, is not discovered until the lover has had an interview with the
sighing fair. The first extract reveals the lady discussing the coming
visit with Foible her maid (who is in the plot). ‘ I shall never
recompose my Features to receive Sir Rowland with any Oeconomy of Face Fm
absolutely decayed. Look, F oible. Foible, Your Ladyship has
frown’d a little too rashly, indeed Madam. There are some Cracks
discernible in the white Varnish. Ldy W, Let me see the Glass—
Cracks say’st thou ? Why I am arrantly flead (e. g. flayed) I look like
an old peel’d Wall. Thou must repair me Foible before Sir Rowland comes,
or I shall never keep up to my picture. F, I warrant you, Madam ; a
little Art once made your picture like you ; and now a little of the same
Art must make you like your Picture. Your Picture must sit for you,
Madam. Ldy W, But art thou sure Sir Rowland will not fail to come ?
Or will he not fail when he does come? Will he be importunate, Foible,
and push? For if he should not be importunate ... I shall never break
Decorums I shall die with Confusion ; if I am forc’d to advance— O
no, I can never advance. ... I shall swoon if he should expect Advances.
No, I hope Sir Rowland is better bred than to j)ut a Lady to the
Necessity of breaking her Forms. I won’t be too coy neither.— I won’t
give him Despair— But a little Disdain is not amiss ; a little Scorn is
2X\mm%,--Foible.--h little Scorn becomes your Ladyship . Ldy IV. Yes, but Tendeimess becomes me
best— A Sort of a Dyingness— You see that Picture has a Sort of a Ha
Foible !— A Swimmingness in the Eyes— Yes, I’ll look so— My Neice affects
it but she wants Features. Is Sir Rowland handsom ? Let my Toilet be
remov’d— I’ll dress above. I’ll receive Sir Rowland here. Is he handsom ?
Don’t answer me. I won’t know : I’ll be surpris’d ; He’ll be taken by Sm-
prise.— By Storm Madam. Sir Rowland’s a brisk Man. TV. Is he ! O then
he’ll importune, if he ’s a brisk Man. I shall save Decorums if Sir
Rowland importunes. I have a mortal Terror at the Apprehension of
offending against Decorums. O Pm glad he ’s a brisk Man. Let my things be
remov’d good Foible*’ The next passage reveals the lady ready
dressed, and expectant of Sir Rowlands arrival. ‘Well, and how do I look Foible! Z; Most
killing well, Madam. Ldy IV, Well, and how shall I receive him ? In what
Figure shall I give 39S colloquial IDIOM his
Heart the first Impression ? There is a great deal in the first
Impression, Shall I sit? No, I won’t sit I’ll walk— ay I’ll walk from the
door upon his Entrance; and then turn full upon him No, that will be too
sudden. I’ll lie, ay Ell lie down I’ll receive him in my little
Dressing-Room. There *s a Couch Yes, yes, I’ll give the first Impression
on a Couch I won’t lie neither, but loll, and lean upon one Elbow; with
one Foot a little dangling off, jogging in ^ thoughtful Way Yes Yes
and then as soon as he appears, start, ay, start and be surpris’d,
and rise to meet him in a pretty Disorder Yes O, nothing is more alluring than a Levee from
a Couch in some Con- fusion— It shews the Foot to Advantage, and furnishes
with Blushes and recomposing Airs beyond Comparison. Hark ! there ’s a
Coach.’ .^t it is when theure du Berger draws near, as she supposes,
that Lady Wishfort rises to the subiimest heights of expression : ‘Well, Sir Rowland, you have the Way, you
are no Novice in the Labyrinth of Love— You have the Clue But as I’m a
Person, Sir Rowland, you must not attribute my yielding to any sinister
Appetite, or Indigestion of Widow- hood ; nor impute my Complacency to
any Lethar^ of Continence I hope you don’t think me prone to any
iteration of Nuptials If you do, I protest I must recede or think that I
have made a Prostitution of Decorums, but in the Vehemence of Compassion,
or to save the Life of a Person of so much Importance Or else you wrong
my Condescension If you think the least Scruple of Carnality was an
Ingredient, or that Here Foible enters and announces that the
Dancers are ready, and thus puts an end to the scene at its supreme
moment of beauty and absurdity. Even Congreve could not remain at that
level any longer. It is worth while to record that in this play, a
maid, well called Mincings announces ‘ Mem, I am come to acquaint your
Laship that Dinner is impatient The hostess invites her guests to go into
dinner with the phrase ‘ Gentlemen, will you walk ? ' This
chapter and book cannot better conclude than with a typical piece of
seventeenth-century formality. May it symbolize at once the author's
leave-taking of the reader and the eagerness of the latter to pursue the
subject for himself. The passage is from the Provok’d Wife : ‘ Lady FancyfuL Madam, your humble
servant, I must take my leave. Lady Brute. What, going already
madam ? Ldy F. I must beg you’ll excuse me this once ; for really 1
have eighteen visits this afternoon. . . . {Goin^ Nay, you shan’t go one
step out of the room. Ldy B. Indeed I’ll wait upon you
down. Ldy F. No, sweet Lady Brute, you know I swoon at
ceremony. Ldy B, Pray give me leave Ldy F. You know I won’t I^dy B.
You know I must. Ldy F. Indeed you shan’t Indeed I will Indeed you
shan’t Ldy B. Indeed I will. Ldy F. Indeed you shan’t. Indeed,
indeed, indeed, you shan’t’ [Exit running. They follow.\ Alberto
Caracciolo. Keywords: il colloquio, in cammino verso il linguaggio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Caracciolo” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Caramella: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’eroi di Vico – scuola di
Genova – filosofia genovese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Caritone
e Melanippo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Genova). Filosofo
genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice:”I like
Caramella – like me, he is into the metaphysics of conversation! And he reminds
me that I should re-read Vico!” -- Grice:
“I like Caramella; he prefaced Fichte’s influential tract on ‘la filosofia
della massoneria’ – but also wrote on more orthodox subjects like Kant,
Cartesio, Bergson, and most of them!” – Grice: “Like me, he thought truth is
found in conversation!” Ancora al liceo, comincia a collaborare con Gobetti,
il quale gli affida la trattazione della filosofia su “Energie Nove”. Dopo un
primo contatto con PGobetti e La Rivoluzione liberale, su segnalazione di
questi, entra in collaborazione con Radice, da cui apprese le dottrine del
neo-idealismo di Croce e Gentile. Dopo la laurea, insegna a Genova. Per le sue
idee antifasciste fu arrestato e rinchiuso prima nelle carceri di Marassi a
Genova, e poi fu trasferito a San Vittore a Milano; fu scarcerato, ma venne
sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Ottenne, per intercessione di
Croce, l'incarico di filosofia a Messina. Vinse la cattedra a Catania. Prese
parte ai convegni organizzati dalla Scuola di mistica fascista Insegna a Palermo, ereditando la cattedra che
era stata di Gentile. Il suo allievo principale, che ne cura il lascito, è Armetta,
docente alla Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia. La sua vasta cultura, gli permise di vedere
la continuità della filosofia antica romana classica e e, nell'ambito della
filosofia italiana, l'unità delle opposte dialettiche nella legge vivente dello
spirito e nel dinamismo della natura e della storia. Apprezzato storico della
filosofia. La sua filosofia si può definire un neo-idealismo crociano e
gentiliano, ma reinterpretatto alla luce dello spiritualismo. La sua filosofia
supera lo storicismo e la dottrina crociana degli opposti e dei distinti, e si
esprime nell'interpretazione della pratica come eticità storica.. La religione
e la teosofia rappresentano la possibilità dello spirito attento da un lato
alla concretezza dell'uomo e dall'altro all'ineffabilità. Lo spirito, anziché
risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il
progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione dello
spirito ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferito una distinta
funzione teoretica. Altre opere: “Problemi
e sistemi della filosofia, Messina); “Religione, teosofia e filosofia”; “Logica
e Fisica” (Roma); “La filosofia di Plotino e il neoplatonismo” Catania);
Ideologia”; “Metafisica, filosofia dell'esperienza”; “Metalogica, filosofia
dell'esperienza” (Catania); “Autocritica, in: Filosofi italiani contemporanei,
M.F. Sciacca, Milano); “L'Enciclopedia di Hegel, Padova); “La filosofia dello
Stato nel Risorgimento, Napoli); “Introduzione a Kant, Palermo); “Conoscenza e
metafisica, Palermo); “La mia prospettiva etica, Palermo); “Carteggio con Croce.
Carteggio. La dialettica del vero e del certo nella "metafisica
vichiana" di C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di
Caramella, Palermo. Ontologia storico-dialettica di C..Lo spirito nella
filosofia di C..C.. La verità in dialogo. Carteggio con Radice.Dizionario
biografico degli italiani. Il linguaggio come auto-analisi. 2 C., La cultura
ligure nell’alto Medioevo, in II Comune di Genova, La recente Vita d
i Bruno, con documenti e inediti 1, in cui Vincenzo Spampanato lia potuto
finalmente sintetizzare oltre vent’anni di ricerche bruniane, mi suggerisce
l’opportunità di un breve eenno sul soggiorno del filosofo nella n o s tra regione,
così sulla base di quanto lo Spampanato ha messo novamente in luce come su
quella delle antiche notizie da lui rinfrescate. Cel resto l’unica seria
esposizione dei fatti che stiamo per narrare era, prima delle dotte pagine
dello Spampanato, nella biografia del Berti2: ma sommaria e imprecisa per molti
rispetti. Arrivò il Bruno in Genova poco prima della domenica delle Palme, nell’anno
in cui la festa cadeva il 15 aprile? Cont raria m en te al parere del Berti, il
quale sostiene non essere capace di prova che il filosofo sia entrato nella
nostra città, dobb iam o infatti tener presente una scena del Candelaio dove
tino dei protagonisti giura, entrando in scena, sulla « benedetta coda
dell’asino, che adorano i Genoesi’3 », e il passo correlativo dello Spaccio d e
lla B e stia trio n fa n te, che dice proprio così: « Ho visto io i religiosi
di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda,
dicendo: non toccate, baciate: questa è la santa reliquia di quella benedetta
asina che fu fatta degna di portar il nostro Dio dal monte Oliveto a
Jerosolina. Adoratela, baciatela, -porgete limosina: Centum accipietis, et vita
aeternam possidebitis». I « religiosi di Castello» sono, è evidente, i
Domenicani di Santa Maria di Castello, dove uffiziavano: e la preziosa reliquia
doveva certo esser mostrata 1 Messina, Principato, Vedi, per l’argomento di
questa com unicazione, Torino, Paravia, ed. Spampanato (Bari, Laterza), ed.
Gentile (Dial. morali di G. B.), Quetifet Echard, S c rip t. ord. praed., t.
il, p. in. Società Ligure di Storia Patria - al p opolo nella precisa
circostanza della commemorazione del giorno in cui Gesù discese trionfante su
ll’asina a Gerusalemme 1. Il Bruno veniva da Roma, um ile fu ggiasco. A v ev a
avu to notizia che il processo istruttorio p endente presso l’inquisizione, per
i sospetti di erodossia avanzati contro di lui, non annunziava buon esito: e
così, deposto l’ abito, si diresse verso la valle Padana. Più tardi raccontò
egli stesso, ai giudici di V enezia, di essere andato subito a N oli. Ma è prob
abile c h e la peste, da cui quella plaga fu proprio in quel torno di rem po
violentemente aiflitta, lo abbia genericam ente con sigliato a v o lgersi verto
la Liguria, contrada m eno infetta, o non ancora raggiunta dal contagio, e a
fermarsi alm eno qualche giorno a Genova. Le sarcastiche espressioni dello
Spaccio ci fanno im m aginare agevolmente il Bruno là sulla piazzetta della
vetusta ch iesa romanica, pieno l’animo non già di ammirazione estetica perla
caratteristica facciata o per gli ornamenti molteplici dell’ interno, eh’ è
tutto un m usaico di con q uiste orientali, - e tanto meno di interesse
psicologico e religioso per la folla affluente ed effluente dal tempio, - ma di
cruccio e disdegno: lui da poco a ccostatosi alle nuove idee dei riformatori
oltremontani, lui per questo costretto a fuggire di patria e dall’ am ato
convento napoletano di San Domenico Maggiore, dove gli allievi p endevano dalla
sua parola, dottamente teologizzante. La peste arrivò presto, anzi subito,
anche a Genova; a Milano l’ ambasciatore veneto Ottaviano di Mazi ne aveva già
n o tizia tre giorni dapo il 15 aprile, il m ercoledì santo 2. E allora il
Bruno, com e ci attestano, questa volta, più veracem ente, le sue note
dichiarazioni ai giudici veneti, se ne andò a N oli. Forse il ricordo dantesco,
che per lui u m anista p oteva con tar qualche cosa, e la simiglianza del nom e
con quello della sua Nola; forse la persistente libertà della piccola
repubblica, e anche, chissà, qualche lettera di raccomandazione, qualche c o n
siglio di amico lo spinsero in quel tranquillo rifugio, l’ unico veramente
tranquillo per lui nella storia delie sue lunghe peregrinazioni. « Andai a
Noli, territorio genoese, d ove m i intrattenni quattro o cinque mesi a
insegnar la gram m atica a’ putti ». « Io 1 Per la storia d ella re liqu ia v.
Imbriani, Natanar II in Propu gnatore, Vili, M utin elli, Storia arcana ed
aneddotica d’Italia, Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale -
stetti in Noli circa quattro o cinque mesi, insegnando la grammatica a’
figliuoli e leggendo la Sfera o certi gentiluomini...1 ». Lo Spampanato, per
ragioni di coerenza con ulteriori dati biografici, pensa che il soggiorno sia
durato un po’ più di quattro mesi. Comunque, le occupazioni del Nolano a Noli
sono ben chiare: l’ esule cercava di trar qualche mezzo di vita con lezioncine
private. Ma anche « leggeva la Sfera a certi gentiluomini »: la Sfera, cioè il
famoso trattato di Giovanni da Sacroboseo, professore alla Sorbona e monaco
domenicano quasi contemporaneo di Dante: che si soleva considerare come
perfetta e sintetica esposizione di una teoria fisico-geometrica fondamentale
per l’astronomia tolemaica, (la teoria delle sfere celesti), e che Γ insinuarsi
dell’ ipotesi copernicana aveva, nella seconda metà del Cinquecento, rimesso in
gran voga2. Persino a Noli era dunque penetrato il novello interesse del secolo
per i problemi astronomici; perfino a Noli alcuni giovani signori sentivano il
bisogn o di stipendiare un povero erudito piovuto di lontano perchè spiegasse
loro il sistema del mondo. E il Bruno cominciava di quia occuparsi direttamente
di quelle indagini che fur o n o oggetto delle polemiche da lui sostenute in
Inghilterra e che formano l’argomento della Cena delle Ceneri. Non possiamo n
atu ralm e n te sapere (a meno che venissero fuori i quaderni di queste sue
legioni liguri) s’ egli già a Noli professasse la dottrina copernicana,
servendosi della Sfera per criticare il sistema tolem aico: o invece, come il
Galilei ne’ suoi corsi allo Studio di Padova, si limitasse all’illustrazione
del classico libretto. Un sacerdote napoletano, anzi padre Iazzarista, Raffaele
de Martinis, che p otè consultare gli atti del Santo Uffizio, asserisce nella
sua biografia del Bruno che a questi fu intentato in Vercelli un processo (che
sarebbe il quarto dopo i primi due di Napoli 1 Docc. veneti, vili, c. 8 r-v.
(SPAMPANATO). Vedi A. Pellizzar i, Il quadrivio nel Rinascimento (Genova,
Perrella). Bruno (Napoli). Ma cfr. Amabile, in Atti Acc. Scienze mor. e
politiche di Napoli n.; espampanato (e anche Tocco in Arch. fiir Gesch. der P h
ilo s., Bonghi, ne La Cultura, Gentile, Bruno e il pensiero del Rinascimento,
[Firenze, Vallecchi Società Ligure di Storia Patria - e il terzo di Roma) « dalla Inquisizione
dello Repubblica g e n o vese»: ma dell’asserzione importantissima (secondo
la quale si potrebbe proprio pensare aver il Bruno palesato ancora una volta la
sua eterodossia nell’insegnamento di Noli) il De Martinis non dà, e confessa di
non aver potuto trovare, le prove. E la notizia non pare affatto fondata, posto
che manca ogni riferimento a questo processo genovese nei posteriori documenti
processuali di Venezia, e di Roma dove pur dovrebbe trovarsi, posto che a
Vercelli non ci consta che il Bruno facesse soggiorno (nè quindi l’inquisizione
genovese avrebbe avuto ragione alcuna di perseguirvelo). « Eppoi me partii de
là [da Noli] ed andai prima a Savona, dove stetti circa quindeci giorni; e da
Savona a Turino, dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a
Venezia per il Po1 ». Da Venezia, di lì a due mesi, a Padova; da Padova a
Brescia, Bergamo, Milano. Qui rivestì l’ abito, e poi per Buffalora, Novara,
Vercelli, Chivasso, Torino, Susa arrivò alla Novalesa, sotto il Cenisio. Un giorno
ancora e fu in Francia, oltre monti, lanciato per la gran carraia della Sua
fortuna. Troverà onori, trionfi accademici, soddisfazioni di filosofo e di
scrittore; ma la queta pace di Noli, mai più. C. 1 Docc. veti., c. 8La Logica
di Porto Reale. Con Prefazione del Prof. Santino... Storia del pensiero e del
gusto letterario in Italia ad uso dei licei. La scuola di mistica
fascista e la discoperta del vero VICO L'azione combinata della storiografia al
bianchetto e della credulità strisciante fra le righe del conformismo
teologico, ha fatto sparire la notizia della sfida al neoidealismo, che fu
lanciata dalle avanguardie cattoliche inquadrate nella scuola milanese di
mistica fascista. In tal modo la memoria storica degli italiani è stata privata
della nozione necessaria a contrastare seriamente l'ideologia totalitaria e ad
avviare gli studi filosofici su un cammino di ricerca opposto a quello
tracciato dall'intossicante influsso del gramscismo. Un percorso, quella
anticipato dalla scuola di mistica fascista, che avrebbe messo capo ad
un'evoluzione del Novecento - un'autentica rivoluzione italiana - di segno
contrario al coatto e calamitoso trasferimento (narrato da Zangrandi) degli
intellettuali fascisti nel partito di Togliatti. L'accertata esistenza di una
forte opposizione cattolica alla filosofia di matrice hegeliana, comunque, fa
crollare i due pilastri della mistificazione comunista: la leggenda della
complicità cattolica con l'ideologia anticomunista prevalente in Germania -
leggenda sintetizzata dal calunnioso slogan «Pio XII papa di Hitler» - e la
rappresentazione degli intellettuali italiani nella figura di un coacervo
nazifascista, redento in extremis dalla longanimità del partito
staliniano. La vicenda degli oppositori italiani all'idealismo rivela,
invece, l'autonomia, la straordinaria vitalità e l'attitudine del pensiero
cattolico ad entusiasmare ed orientare i giovani studiosi, che avevano aderito
al fascismo senza separarsi dalla radice religiosa della patria italiana.
Curiosamente, l'autorità del pensiero cattolico si rafforzò nella prima fase
della II guerra mondiale, quando la Germania nazionalsocialista sembrava
avviata a vincere la guerra. Dopo che il governo italiano ebbe sottoscritto
l'alleanza con la Germania, il dubbio si era, infatti, diffuso fra i giovani,
causando la divisione dell'area fascista in due opposte scuole di pensiero: una
corrente maggioritaria, intesa a metter fine al dominio della cultura tedesca e
perciò risoluta a percorrere la via d'uscita indicata dalla tradizione
cattolica, e una corrente minoritaria, rimasta fedele ai princìpi
dell'idealismo e perciò decisa a seguire le avanguardie germaniche sulla via
del fanatismo e dell'estremismo anticristiano. Espressione del fermento in atto
durante quegli anni cruciali è un magnifico saggio di Tripodi, interprete delle
novità introdotte nella scuola milanese di mistica fascista da Schuster e dal
fondatore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, il francescano Gemelli
(confronta «Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo», Milani).
Tripodi, grazie ad una profonda conoscenza della filosofia italiana tentò un
audace confronto tra lo storicismo cristiano di VICO e la dottrina politica di MUSSOLINI. L'affinità
del fascismo e della scienza nuova, nell'acuta analisi di Tripodi, non è
causata dalle letture (Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla comune
tendenza a riconoscere che «maestra non è la mente di questo o quell'uomo che
razionalmente pone un principio, ma la storia delle attività di tutti gli
uomini che si svolgono come debbono svolgersi perché provvidenzialmente si
compia la socialità che ad esse è intrinseca». La scelta di Tripodi cade su
Vico poiché «fu perenne nel suo spirito la distinzione tra la sostanza divina e
quella delle creature, tra l'essenza o ragion di essere di Dio e quella delle
cose create, come fu perenne ed inequivocabile la inintelligibilità di Dio se
ricercata nel mondo bruto della natura anziché in quello della storia, nella
quale la Provvidenza si manifesta, chiamando gli uomini a collaboratori della
divinità». Pubblicato e presto rimosso dalla censura di sinistra e
dall'indifferenza di destra, il saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i
risultati delle ricerche iniziate da quegli studiosi cattolici (nel testo sono
citati Chiocchetti, Vecchio, Amerio, Gemelli, Olgiati, C., Orestano, Carlini e
Giuliano) che avevano sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla
filosofia tedesca, confutando le tesi di Croce e di Gentile su VICO precursore
dell'idealismo. Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per
quanto concerne l'ontologia, «ha sempre creduto nella finitezza dell'umano,
riconoscendo che esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano
non può scrivere che una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di
sfondare quella parete, «hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il
monismo soggettivista o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli
inequivocabili atteggiamenti dualistici di essa». Di qui il ribaltamento
della linea neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di VICO quale
orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli apparenti
successi della modernità: «La stessa barriera che Vico oppone, in nome della
genuinità del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo
all'idealismo. Né GENTILE, né CROCE, anche se il primo ha la camicia nera e
cercò di darla al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina». Tripodi
indica in VICO l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo dominanti
nell'età moderna: «Vico non può essere idealista perché la sua filosofia
impugna Cartesio e fa impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine,
costruite unicamente su di una realtà interiore». La filosofia vichiana,
inoltre, è apprezzata perché rivendica la responsabilità dell'azione umana nei
fatti della storia «che altre indagini speculative avevano invece interpretato
o come involuti in una meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale
definita dal pensiero che l'aveva posta. La coscienza delle proprie virtù
creatrici della storia non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa
prima di esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori
perché affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e
rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina
provvidenza». L'invito a separare il destino dell'Italia fascista dalle
chimere del razionalismo e dalle suggestioni dell'attivismo prometeico e
dell'amor fati, non poteva essere formulato con maggiore chiarezza. Nelle
penetranti tesi formulate da Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema
della strategia culturale elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori
dell'avanguardia cattolica (Vecchio, Petruzzellis, Sciacca, Noce, Tejada,
Montano, Grisi, Torti) che nella filosofia di VICO vedranno lo strumento adatto
a contrastare e battere i poteri dell'astrazione hegeliana trasferita, intanto,
nella parodia inscenata dal gramscismo. La posta in gioco era la corretta
impostazione della dottrina del diritto naturale, in ultima analisi la
soluzione del problema riguardante il rapporto tra la giustizia ideale e le
cangianti leggi che i popoli producono nel corso della loro storia. Dagli
scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse una indicazione che gli permise di
risolvere il problema senza nulla concedere alle dottrine storicistiche
contemplanti un pensiero dell'assoluto che evolve nel tempo: «esiste non una
separazione ma una diversa gradazione d'intensità etica tra giustizia e
diritto. La prima è un diritto naturale soprastorico, che è patrimonio
universale e depositario del sommo vero. Il secondo è dato dall'insieme delle
norme che il mondo delle nazioni partitamente elabora nel suo progressivo
avvicinamento alla giustizia». Di qui l'indicazione di due altri motivi del
consenso fascista alla scienza nuova: il fermo rifiuto delle astrazioni
suggerite dal contrattualismo e la confutazione delle teorie utilitaristiche,
che ritengono l'interesse materiale unica molla delle azioni umane. Nella
definizione del comune fondamento della teoria dello Stato, Tripodi sostiene,
pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di Mussolini la Provvidenza
fa prevalere la solidarietà sull'istinto egoistico: «la provvidenza ha il suo
più alto attributo nel senso della socialità che perennemente richiama agli
uomini, facendo loro vincere il senso egoistico per cui vorrebbero tutto
l'utile per se e niuna parte per lo compagno». Tripodi conclude il suo
ragionamento affermando che «l'unitario ordine di idee nel quale relativamente
alla concezione dello Stato si muovono la dottrina vichiana e quella fascista»
è dimostrato dalla condivisione del fine soprannaturale: «l'uomo trova nello
Stato l'organizzazione storica che gli consente di realizzare quei principi
morali conferitigli dalla divinità e con ciò di assolvere alla sua stessa
funzione trascendente di uomo». E' evidente che l'identificazione della
dottrina fascista con la filosofia vichiana era, per Tripodi, un mezzo usato al
fine rafforzare la convinzione sulla necessità, imposta dai dubbi destati
dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere con la cultura prevalente
in Germania e di condurre all'approdo cattolico le vere ragioni dell'ideologia
fascista. E' però incontestabile che le tesi di Tripodi erano un ottimo
strumento per estinguere l'ipoteca che la filosofia tedesca aveva acceso sulla
cultura italiana. Non a caso, nel dopoguerra, Tripodi occupò un posto di prima
fila nel gruppo degli intellettuali dell'INSPE (Vecchio, Costamagna, Ottaviano,
Marzio, Teodorani, Volpe, Sottochiesa, Tricoli, Siena, Grammatico, Rasi)
l'istituto che progettava la trasformazione del MSI di Arturo Michelini in
avanguardia di una moderna e rigorosa destra cattolica. L'attenzione prestata
da Pio XII all'evoluzione del MSI in conformità alle tesi di Tripodi, aprivano
le porte del futuro alla destra. Il congresso del MSI, che doveva tenersi a
Genova, doveva, infatti, approvare in via definitiva la lungimirante linea
culturale e politica di Tripodi, mandando a vuoto i progetti dell'oligarchia favorevole
all'apertura a sinistra. Purtroppo la tollerata (dai democristiani) violenza
della piazza comunista impedì lo svolgimento di quel congresso, respingendo il
MSI nel sottosuolo dionisiaco del pensiero moderno e nelle magiche grotte del
tradizionalismo spurio. La lunga immersione nell'area dell'indigenza filosofica
impoverì a tal punto la cultura di destra che, quando la discesa in campo di
Berlusconi offrì un'altra occasione all'inserimento nella politica di governo,
la classe dirigente del MSI, ottusa dalla retorica almirantiana ed espropriata
dal pensiero neodestro, non seppe produrre altro che le esangui e rachitiche
tesi di Fiuggi. Nato a Genova da Eleucadio e da Delfò, segui gli studi
classici nella città natale. Ancora liceale, cominciò a collaborare a Energie
nuove di Gobetti, con il quale aveva preso contatto epistolare, dicendosi
lettore entusiasta del periodico e seguace della dottrina filosofica crociana. Gobetti,
ormai orientato verso interessi più specificamente politici, affidò al giovane
C. la trattazione sulla rivista dei temi filosofici. Su segnalazione di GOBETTI
(si veda), Radice comincia ad accogliere i suoi scritti su L'Educazione
nazionale. In linea con l'orientamento pedagogico idealistico del
Lombardo Radice, fin dall'inizio degli anni Venti il C. prese le distanze dal
positivismo pedagogico con un contributo (Studi sul positivismo pedagogico,
Firenze), nato proprio da un suggerimento del pedagogista siciliano che glielo
aveva proposto come tema di studio. È qui osteggiato un pensiero ispirato
agli schemi dell'evoluzionismo deterministico e del positivismo scientifico; in
particolare e avversato il meccanicismo naturalistico biologicoevolutivo
(Spencer e Ardigò), cui viene opposta la concezione umanistica dell'educazione
di un Angiulli, di un Siciliani, di un Gabelli. Un'idea di fondo anima le
critiche del C.: è inutile ogni speculazione teoretica che non sappia apportare
nuove indicazioni pedagogiche per il miglioramento delle condizioni di vita
umana, sociale e pratica. Nello stesso orizzonte critico degli Studi si
muovono Le scuole di Lenin (Firenze), La pedagogia di Gioberti e la Guida
bibliografica della pedagogia, specialmente italiana e recente, che faceva
seguito alla Bibliografia ragionata della pedagogia (Milano) scritta in
collaborazione con Radice. Nutrito di idee democratiche, che gli facevano
ritenere inadeguato per l'obiettivo della costruzione di una "nuova
Italia" il vecchio quadro politico postunitario, il C. si impegnò
politicamente partecipando alla costituzione a Genova di un gruppo democratico
di sinistra, che aveva tra i leader Codignola. Collaborò sia all'Arduo, sia al
quotidiano socialriformista Il Lavoro. In particolare, tipico dei gruppo
di pedagogisti che, in certo qual modo, si ponevano nell'ambito del pensiero
gentiliano (verso cui anche il C. veniva avvicinandosi sulla scia del Lombardo
Radice, sia pure su posizioni autonome), è il tema dell'educazione come
strumento di realizzazione di una coscienza democratico-nazionale. Da qui,
anche per l'influsso delle idee gobettiane, l'attenta considerazione di quanto
veniva fatto in quel campo in Unione Sovietica, all'indomani della rivoluzione
bolscevica. In Le scuole di Lenin l'ammirazione con cui il C. guardava al piano
scolastico educativo diretto da Lunačarskij era determinata in concreto dalla
considerazione che si trattava di una rivoluzione culturale unica nella storia
dell'umanitàl tesa all'elevazione delle classi inferiori per farle partecipare
alla guida della società; la critica più forte, propria della formazione
laico-democratica del C., stava nella denuncia del carattere dogmatico delle
idee del Lunačarskij, quando questi sosteneva che la sua scuola del lavoro non
era disgiungibile dal sistema sociale comunista e dal controllo politico del
partito. Conseguita la laurea in filosofia, ottenne presso l'università di
Genova la libera docenza in storia della filosofia e vinse il concorso per le
grandi sedi per la cattedra di filosofia, pedagogia ed economia negli istituti
magistrali, ottenendo come sede Genova. Frattanto la collaborazione con
Gobetti, che più che un sodalizio intellettuale aveva costituito un formativo
comune impegno politico-sociale all'insegna del programma di democrazia
liberale, lo portò in breve tempo allo scontro con il fascismo ormai
trionfante. è la diffida dei prefetto di
Torino contro la Rivoluzione liberale (alla quale il C. collabora) e i suoi
redattori. La conferma di questo impegno politico e intellettuale, il C. la
offrì ulteriormente curando la pubblicazione postuma di Risorgimento senza eroi
(Torino) del Gobetti e continuando a far uscire IlBaretti, pur orientando la
rivista sempre più verso temi letterari e filosofici onde evitare scontri
ancora più aspri con il regime. Nel 1926, grazie al Croce, che ormai era
divenuto per lui - come per tanti altri antifascisti - "maestro di
libertà", assunse la direzione della collana "Scrittori
d'Italia" edita da Laterza. Nel maggio di quell'anno fu costretto a
rinunciare alla collaborazione all'Enciclopedia Italiana, a cui era stato
invitato dal Gentile, per gli atttacchi mossigli dalla stampa di regime.
Il dissenso dalla politica del fascismo ne provoco l'arresto; rinchiuso prima
nelle carceri. di Marassi a Genova e quindi trasferito a S. Vittore a Milano,
fu scarcerato. Venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Le
accuse - come si legge in una lettera al Croce (in Il Dialogo) - erano tra
l'altro di aver collaborato "al giornale socialistoide-democratico Il
Lavoro" di Genova e di aver avuto rapporti con l'associazione antifascista
Giovane Italia, insomma di essere "in una condizione di incompatibilità
con le direttive generali del governo". Scagionato anche grazie all'intervento
del Croce, il C. fu riammesso all'insegnamento e la libera docenza gli fu
restituita con d. m. Venne però destinato all'istituto magistrale di Messina,
dove prese servizio. Dall'ottobre di quell'anno ottenne l'incarico di
filosofia e storia della filosofia e di pedagogia presso il magistero
dell'università di Messina. Mantenne questi incarichi finché vincitore di più
concorsi, fu chiamato a coprire la cattedra di pedagogia nell'università di
Catania. Passa alla cattedra di filosofia teoretica, conseguendo
l'ordinariato. Furono questi anni di studio intenso. Pur nel crocianesimo
di base, si intravvede in Religione, teosofia, filosofia (Messina) e in Senso
comune. Teoria e pratica (Bari) lo sforzo di plasmare un proprio e originale
impianto teoretico. In dialogo con i principali pensatori dell'idealismo
tedesco e italiano, il C. si misura particolarmente con la crociana logica dei
distinti. L'indagine si muove sul terreno dell'attività teoretico-pratica dello
Spirito. Particolarmente Religione, teosofia, filosofia rappresenta questo
tentativo compiuto dal C. per una revisione del sistema idealistico: vi è fatta
emergere l'esigenza di un pensiero spirituale più attento da una parte alla
concretezza dell'uomo e dall'altra alla ineffabilità di Dio. Perseguendo tale assunto,
nella ricerca di un ordine della verità oltre la logica e la nozione di storia
del Croce, il C. ripercorre in Senso comune le tappe storiche del pensiero
occidentale, ricostruendo la genesi della dualità dello Spirito nella filosofia
greca e poi seguendola nel suo sviluppo e nel suo problematicizzarsi nel
pensiero moderno. La concezione della filosofia come educazione e storia, la
stretta connessione tra la filosofia e la sua storia pongono il C. medianamente
tra Croce e Gentile, e tuttavia nel senso di una sicura indipendenza dal loro
pensiero. La sua posizione teoretica può essere così schematizzata: la teoresi
è fondamentalmente caratterizzata dalla dialettica dei distinti, mentre la
prassi genera lo scontro tra gli opposti; la sintesi dei distinti non è un
tertium quid da essi distinto, ma consiste nella loro stessa inscindibile
relazione. La loro circolarità consente, come riaffermerà in Ideologia
(Catania), di guardare alla pratica come alla realizzazione della teoria, così
che si può parlare e di un finalismo teoretico della pratica e di un finalismo
pratico della teoria. All'approfondimento critico dei neoidealismo
italiano, il C. affianca l'approfondimento del rapporto tra ricerca filosofica
e fede religiosa. Egli mantiene costante il dialogo tra filosofia, scienza e
fede nelle trattazioni della piena maturità: Ideologia (Catania), Metalogica:
filosofia dell'esperienza, Metafisica vichiana (Palermo), in cui è auspicata la
possibilità della sopravvivenza del problema metafisico nell'orizzonte di una
metafisica rinnovata, Conoscenza e metafisica. In quest'ultima opera è
affrontato il rapporto verità-conoscere, con l'intento di delimitare i confini
del sapere scientifico e di affermare razionalmente la capacità di intelligere
la realtà della rivelazione. Qui la religione, anziché risolversi nella filosofia,
colloca il proprio progresso in intima unità con il progresso della filosofia
stessa: da un lato è esclusa la riduzione della religione ad atteggiamento
pratico; dall'altro, le è conferita una distinta funzione teoretica. La piena
adesione del C. allo spiritualismo cristiano, dunque, fa si che sia elusa la
riduzione della filosofia a metodologia, senza dover rinunciare alla
fondamentale esigenza di criticità, e che l'interesse si concentri su quelle
istanze spiritualistiche, invero in lui presenti dagli anni giovanili sia come
atteggiamento di vita - lo si evince dalle Lettere dal carcere - sia come
ricerca originale di pensiero. In tal senso, l'adesione allo spiritualismo
cristiano va dunque letta più nella prospettiva della continuità, dinamica e
perciò trasformantesi e trasformante, che in quella della svolta. Durante
la sua lunga e proficua attività accademica, il C. ricoprì numerose cariche,
tra cui quella di preside della facoltà di lettere e filosofia dell'università
di Catania; fu presidente di sezione del British Council di Catania e
presidente di sezione della Società filosofica italiana a Catania e a Palermo;
fu anche presidente di sezione dell'Associazione pedagogica italiana. A Palermo
si era stabilito definitivamente allorché venne chiamato prima alla cattedra di
pedagogia e poi a quella di filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e
filosofia. Il C. morì a Palermo. Opere: Per un elenco completo si rinvia
a Bibliografia degli scritti di C., a cura di T. Caramella, in Miscellanea di
studi filosofici in memoria di C. (Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti
di Palermo), Palermo. Oltre alle opere citate ci limitiamo a ricordare qui:
Bergson, Milano; Antologia vichiana, Messina, Breve storia della pedagogia, La
filosofia di Plotino e il neoplatonismo, Catania; Autocritica, in Filosofi
italiani contemporanei, a cura di Sciacca, Milano L'Enciclopedia di Hegel,
Padova; La filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli; Introduzione a Kant,
Palermo La pedagogia tedesca in Italia, Roma; Pedagogia. Saggio di voci nuove,
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Casellario politico centrale,
Per l'epistolario del C. contributi in: Lettere dal carcere di C., in Giornale
di metafisica, Carteggio con Croce e Gobetti, in Il Dialogo, Carteggio Radice-C.,
a cura di T. Caramella, Genova. Vedi inoltre: M.F. Sciacca, Profilo di C., in
Annali della facoltà di magistero della università di Palermo, Di Vona, Religione e filosofia nel pensiero
giovanile di C., Conigliaro, Verità e dialogo nel pensiero di C., in Il
Dialogo, Guzzo, C., in Filosofia, Sciacca, Il pensiero di C., in Atti
dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo, Sofia, Il dialogo di S. C.
con gli uomini d'oggi, in Labor, Cafaro, Commemoraz. di C., in Nuova Riv.
pedagogica, Piovani, La dialettica del vero e del certo nella "metafisica
vichiana" di C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di C.,
Palermo Ganci, C., Raschini, Commemoraz. del prof. S. C., in Giornale di
metafisica, Brancato, C.: senso fine e significato della storia, Trapani; V.
Mathieu, Filosofia contemporanea, Firenze; P. Prini, La ontologia
storico-dialettica di C., in Theorein, Pareyson, Inizi e caratteri del pensiero
di C., in Giornale di metafisica, Corselli, La vita dello spirito nella
filosofia di C., in Labor, Raschini, Storiografia e metafisica nella
interpretazione vichiana di C., in Filosofia oggi; M. Corselli, La figura di
C., in Labor, Sciacca, C. filosofo, pedagogista, educatore, in Pegaso. Annali
della facoltà di magistero della università di Palermo. δικά, ώς φησιν
Ηρακλείδης ο Ποντικός εν τω περί
Ερωτικών. ούτοι Φανέντες επιβουλεύοντες Φαλάριδί, Chariton& Melanippus και
βασανιζόμενοι αναγκαζόμενοί τε λέγειν τους συν- confpirant ειδότας,ουμόνονουκατείπον, αλλά καιτονΦάλα-
adν.Ρhala ριν αυτόν είς έλεον ' των βασάνων ήγαγον, ως α π ο λύσαι αυτουςπολλά
επαινέσαντα. διοκαιοΑπόλ. λων, ησθείς επί τούτοις, αναβολην του θανάτου το
Φαλάριδίέχαρίσατο, τούτο έμφήνας τουςπυν θανομέ νουςτης Πυθία ςόπωςαυτόεπιθώνται
έχρησέτεκαι cπερί των αμφί τον Χαρίτωνα, προτάξας του εξαμέ τρου το
πεντάμετρον, καθάπερ ύστερον και Διονύσιος 'Αθηναίος εποίησεν, ο επικληθεις
Χαλκους, εν τοις Έλεγείοις. έστιδεοχρησμόςόδε ετε -- Ευδαίμων Χαρίτων και
Μελάνιππος έφυ, θείαςαγητηρες έφαμερίοις φιλότατος. 1 Perperamέλαιονms. Εp. et moxα
πολαύσαι1ns. A.proαπολύσαι. α> 737 Σ 2 Alibi άγητήρες. 2 amasius, ut ait
Heraclides Ponticus in libro de Amatoriis. Hi igitur deprehensi insidias
ftruxisse Phalaridi et tormentis subiecti quo coniuratos denunciare coge
rentur, non modo non denunciarunt, fed etiam Phala rin ipsum ad misericordiam
tormentorum commoverunt, ut plurimum collaudatos dimitteret. Quare etiam
Apollo, delectatusfacto, moram mortisindullit Phalaridi, hoc ipsum declarans
his qui ipsum de ratione, qua tyran num adgrederentur, consuluerunt: atque et iamde
Charitone et Melanippo oraculum edidit, in quo pentame ter praepofitus
hexametro erat; quemadmodum etiam poftea Dionysius Athenienfis, isqui Aeneuseft
cognomi natus, in Elegiis fecit. Erat autem oraculum
hocce Felix et Chariton et Melanippus erat, mortalium genti auctores coeleftis
amoris. Santino
Caramella. Keywords: il culto dell’eroe, gl’eroi, il culto degl’eroi, Niso ed
Eurialo, Nicodemo, gl’eroi di Vico, “la verita in dialogo”, soggetto,
intersoggetivita, lo spirito oggetivo, spiriti intersoggetivi, Apollo su
Nicodemo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramella” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Caramello: la ragione
conversazionale e l’implictatura conversazionale dell’interpretare – scuola di
Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino,
Piemonte. Grice: “I love Caramello – he exemplifies all that I say about
latitudinal and longitudinal unities of philosophy – Aquinas is a ‘great,’ and
Caramello has dedicated his life to him!” Studia al prestigioso liceo classico
Gioberti di Torino, entra in seminario e riceve l'ordinazione presbiteriale con
una speciale dispensa papale dovuta alla giovane età a cui aveva completato gli
studi. Si laurea a Torino. Insegna a Torino, e Chieri. Studia e cura Aquino. Praemittit
autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in
hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de
principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet
intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et
quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat.
Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt,
merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum,
de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur. Si quis
autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae
fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc
dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una
quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum
consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem,
prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et
ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod
significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae
pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem.
Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo
syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro
priorum. Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis
partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia
de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes
enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat.
Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex
aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus
determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales
orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quæ, etsi non
nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur:
sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine
convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis,
significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et
alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.
His igitur præmissis quasi principiis, subiungit de his, quæ pertinent ad
principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quæ
sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum
(alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam
esse), sed partes subiectivæ, idest species. Quod quidem nunc supponatur,
posterius autem manifestabitur. Sed potest dubitari: cum enunciatio
dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem,
sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio
ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum
differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica
enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in
demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat
aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis
demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis
enunciationis. Et ideo Aristoteles prætermisit tractatum de hypotheticis enu
nciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quæ est genus
negationis et affirmationis; et oratio, quæ est genus enunciationis. Si
quis ulterius quærat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est
quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis
philosophiæ, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione
animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad
constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium.
Videtur autem ordo enunciationis esse præposterus: nam affirmatio naturaliter
est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per
consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus
inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quæ
divisionem continet, eadem ratione præponit affirmationi, quæ consistit in
compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis
accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod præmittitur negatio,
quia in iis quæ possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat
negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex
æquo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum præponatur.
Præmisso prooemio, philosophus accedit ad propositum
exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces
significativæ complexæ vel incomplexæ, ideo præmittit tractatum de
significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de quibus
in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit
significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum
complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa
primum duo facit: primo quidem, præmittit ordinem significationis vocum;
secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex
impositione; ibi: et quemadmodum nec litteræ et cetera. Est ergo
considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur
quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animæ passiones, ex
quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et
sic passiones animæ originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset
naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animæ passiones, quibus ipsis
rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis
innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces
significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi,
qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si
homo uteretur sola cognitione sensitiva, quæ respicit solum ad hic et nunc,
sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et cæteris
animalibus, quæ per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant:
sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quæ abstrahit ab hic et
nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de præsentibus secundum locum et
tempus, sed etiam de his quæ distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his
qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturæ.
Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum,
quæ est immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem
considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota,
non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici.
Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus:
quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quæ sunt in voce,
notæ, idest, signa earum passionum quæ sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi
ex præmissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et
verbo et aliis prædictis; hæc autem sunt voces significativæ; ergo oportet
vocum significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat,
ea quæ sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum prædictis.
Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Hæc autem
tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio
modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit
ergo, ea quæ sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia
consequentia, quæ tantum sunt in voce, sunt notæ. Vel, quia non omnes voces
sunt significativæ, et earum quædam sunt significativæ naturaliter, quæ longe
sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet suum
dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quæ sunt in voce, idest quæ
continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam
naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quæ advenit
rei naturali sicut materiæ, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina et
verba et alia consequentia dicit, ea quæ sunt in voce, ac si de lecto
diceretur, ea quæ sunt in ligno. Circa id autem quod dicit, earum quæ sunt in
anima passionum, considerandum est quod passiones animæ communiter dici solent
appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut
dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod
huiusmodi passiones significant naturaliter quædam voces hominum, ut gemitus
infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicæ. Sed nunc sermo est
de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones
animæ hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et
orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim
potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi
apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a
singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem
singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis
separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter
secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit
Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et
eis mediantibus res. Sed quia non est consuetum quod conceptiones
intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum
non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animæ
vocat omnes animæ operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici
potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est
sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat
passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem,
etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in
III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia
ex aliqua animæ passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem
conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum
refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum
cuiusdam impressionis vel passionis. Secundo, cum dicit: et ea quæ
scribuntur etc., agit de significatione Scripturæ: et secundum Alexandrum hoc
inducit ad manifestandum præcedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit
sensus: ita ea quæ sunt in voce sunt signa passionum animæ, sicut et litteræ
sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et
quemadmodum nec litteræ etc.; inducens hoc quasi signum præcedentis. Quod enim
litteræ significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversæ voces
apud diversos, ita et diversæ litteræ. Et secundum hanc expositionem, ideo non
dixit, et litteræ eorum quæ sunt in voce, sed ea quæ scribuntur: quia dicuntur
litteræ etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod
sunt in Scriptura, dicantur litteræ; secundum autem quod sunt in prolatione,
dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quæ
scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut
Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem
significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quæ sunt in voce,
sunt signa eorum quæ sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quæ
scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quæ sunt in voce. Deinde cum
dicit: et quemadmodum nec litteræ etc., ostendit differentiam præmissorum
significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum
naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam
signum, quo manifestatur quod nec voces nec litteræ naturaliter significant. Ea
enim, quæ naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem
litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc
quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum
ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per
artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit,
utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine
litterarum, quæ sicut non sunt eædem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste
relinquitur quod sicut nec litteræ, ita nec voces naturaliter significant, sed
ex institutione humana. Voces autem illæ, quæ naturaliter significant, sicut
gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud omnes. Secundo,
ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animæ naturaliter esse, sicut et
res, per hoc quod eædem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem; idest sicut
passiones animæ sunt eædem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum
primarum, hæ, scilicet voces, sunt notæ, idest signa; comparantur enim
passiones animæ ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non proferuntur,
nisi ad exprimendum interiores animæ passiones), et res etiam eædem, scilicet
sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hæ, scilicet passiones animæ sunt
similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa
vocum, et voces passionum animæ similiter; passiones autem animæ dicit esse
similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per
aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litteræ
autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua
ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut et in multis aliis
signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem animæ oportet attendi
rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non
ex institutione. Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc
quod dicit passiones animæ, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo
quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur
esse eædem apud omnes animæ passiones. Ad quod respondet Boethius quod
Aristoteles hic nominat passiones animæ conceptiones intellectus, qui numquam
decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si
quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest
esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod
cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima;
referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant
voces incomplexæ), quæ sunt eædem apud omnes: quia, si quis vere intelligit
quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat, non
intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt,
quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicæ quod ratio, quam
significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum hæ
notæ sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo
significatas. Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus æquivocis, in
quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quæ significatur apud omnes. Et
respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam
intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui
loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod
referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis
non est asserere identitatem conceptionis animæ per comparationem ad vocem, ut
scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversæ apud diversos;
sed intendit asserere identitatem conceptionum animæ per comparationem ad res,
quas similiter dicit esse easdem. Tertio, ibi: de his itaque etc.,
excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animæ
passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima.
Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam
philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum
significatione: quarum quædam significant verum vel falsum, quædam non. Et circa
hoc duo facit: primo, præmittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi:
circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus præambulæ
sunt ordine naturæ vocibus, quæ ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex
similitudine differentiæ, quæ est circa intellectum, assignat differentiam, quæ
est circa significationes vocum: ut scilicet hæc manifestatio non solum sit ex
simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus. Est ergo
considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio
intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et
falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit
quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem
ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativæ formantur ad
exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur
signato, necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quædam
significent sine vero et falso, quædam autem cum vero et falso. Deinde
cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum
ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de
assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera.
Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso,
quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est
circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum
operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet
intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per
seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero
operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul
componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus,
idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod
in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima. Sed circa
hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad
indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas
vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones
intellectus sint similitudines rerum, ea quæ circa intellectum sunt dupliciter
considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum
rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se
quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis
nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quæ sunt circa intellectum
secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quæ nunquam
invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem
conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio,
quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum
conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum,
quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum
alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus
affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei
significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum
separationem. Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et
divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel
falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam
simplex conceptio intellectus, quæ est similitudo rei, non careat veritate et
falsitate. Præterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in
sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla
est compositio, ut probatur in XII metaphysicæ; et tamen ibi est prima et summa
veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem. Ad
huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur
dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente
vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam
in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum,
non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic
patet. Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum
intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per
respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut
signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum
autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo,
sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum
speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur
rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur
esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam
antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est
videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera,
quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquæ
veræ vel falsæ per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel
formaliter, sed effective, in quantum scilicet natæ sunt facere de se veram vel
falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio
autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut
patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur
esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum
deficit a ratione artis. Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad
intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quælibet res
dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur
artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quælibet res naturalis per suam
formam arti divinæ conformatur. Unde philosophus in I physicæ, formam
nominat quoddam divinum. Et sicut res dicitur vera per comparationem ad
suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra
animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra
animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit
verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque
compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est
autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen
cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis
suæ ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi
habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest
cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicæ quod veritas
est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem
prædictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in
re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non
cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a
re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quæ significat verum intellectum,
falsa autem quæ significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quædam, dicatur vera sicut et aliæ res. Unde hæc vox, homo est asinus, est vere
vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.
Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod
pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus
componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque
compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit
materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit
compositionem et divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur
ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex præmissis quod, cum solum circa
compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens
est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui
est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil
aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur
esse vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est instantia de eo, qui per
unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quærenti:
quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod
fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non
significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primæ et secundæ personæ, et de verbo exceptæ
actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est
implicita compositio, licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem
etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur
ex hirco et cervus et quod in Græco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus,
et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam
conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel
falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quæ exprimitur iudicium
intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum præsens tempus,
quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel
secundum tempus præteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed
secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem
utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo
statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit
verum vel falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine
significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus
significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quæ est
subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet prænoscere principia
subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa
enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo
facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis,
scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale,
scilicet orationem, quæ est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine,
quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat
actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod
consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen;
secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.;
tertio, excludit quædam, quæ perfecte rationem nominis non habent, ibi: non
homo vero non est nomen. Circa primum considerandum est quod definitio
ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil
rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid
aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat. Et ideo
quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per
quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus
ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur
autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque
vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris,
sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex præmissis
concludit quod nomen est vox significativa. Sed cum vox sit quædam res
naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum,
videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quæ est ex natura, sed
magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale;
sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas
ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas. Sed
dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiæ ex parte materiæ,
in genere autem accidentium ex parte formæ: nam formæ artificialium accidentia
sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum
autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est
quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione
ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi
differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina
accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel
subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum
est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas
accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in
eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella
est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus
autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas
formas artificiales in abstracto. Tertio, ponit secundam differentiam cum
dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito
hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus
naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.
Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt
nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus
significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari.
Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quædam, et sic potest
significari a nomine, sicut quælibet alia res. Alio modo, potest considerari
id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et
principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio,
ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore.
Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et
pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum
secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo
verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen.
Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod
significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. Quinto,
ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa
separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis
secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma
nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab
homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione,
cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. Deinde cum
dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat præmissam definitionem. Et primo,
quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero
placitum et cetera. Nam primæ duæ particulæ manifestæ
sunt ex præmissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur
in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo,
manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc
differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum
et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat,
per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est
equiferus, hæc pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac
oratione, quæ est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad
significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur
nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis
imponitur a læsione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad
significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi,
quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem
conceptionis compositæ, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio
significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem
conceptionis compositæ. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit
quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod
non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in
simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque
secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet
significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine
equiferus. Hæc autem ratio differentiæ est, quia nomen simplex sicut imponitur
ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab
aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita
conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. Deinde
cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem prædictæ
definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum
placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter,
sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando
imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed
naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut
ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos
quam voces, quia quædam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed
tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem
horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non
significat naturaliter. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa
quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter
significant: nec differt quæ res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt
quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales
similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter
significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut
Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod
eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una
res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multæ
similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa
diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est
nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam
nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis
sonus est nomen, ut dictum est. Deinde cum dicit: non homo vero etc.,
excludit quædam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus
nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non
homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut
homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut
Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque
determinatam personam significat. Imponitur enim a
negatione hominis, quæ æqualiter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo
potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si
dicamus, Chimæra est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum
dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret
subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de
ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per
modum nominis, quod potest subiici et prædicari, requiritur ad minus suppositum
in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo
huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non
significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem
non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit
negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit
huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem
significationis, ut dictum est. Deinde cum dicit: Catonis autem vel
Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia
huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen,
per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem
obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis
originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem
dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt,
idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod
nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui
cadens ligno infigitur. Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit
consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio,
quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in
hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit
semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter
autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quædam alia verba,
scilicet impersonalia, quæ cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum
dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum;
ac si diceretur, poenitentia habet Socratem. Sed contra: si nomen
infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est præmissa nominis
definitio, quæ istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra
communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat
subtrahendo hæc a nomine. Vel dicendum quod præmissa definitio non simpliciter
convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus
nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est.
Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa
hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quædam a ratione
verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit
convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et
cetera. Circa
primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi:
dico autem quoniam consignificat et cetera. Est autem considerandum quod
Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quæ sunt
nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quæ dixerat
in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi:
quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod
consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen
significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur
verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra
significat. Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur
hoc debuisse prætermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad
placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum
est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quæ componuntur ex nominibus; ut cum
dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quædam orationes quæ componuntur
ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum,
oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod
quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum
significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi
quædam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quædam pars materialis et
subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari. Tertia vero particula
est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio
quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quæ de altero prædicantur
nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte
subiecti et prædicati, sed verbum semper est ex parte prædicati. Sed hoc
videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quæ interdum ponuntur ex
parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod
verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et
in Græco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut
et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet
rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet
actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo,
per se in abstracto, velut quædam res, et sic significatur per nomen; ut cum
dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum
actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhærens ei ut subiecto, et
sic significatur per verba aliorum modorum, quæ attribuuntur prædicatis. Sed
quia etiam ipse processus vel inhærentia actionis potest apprehendi ab
intellectu et significari ut res quædam, inde est quod ipsa verba infinitivi
modi, quæ significant ipsam inhærentiam actionis ad subiectum, possunt accipi
ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res
quasdam. Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum
videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed
dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter,
secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter
significat ipsam vocem, quæ accipitur ut res quædam. Et ideo tam verba,
quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi
nominum. Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit
definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat
tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quæ de altero
prædicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non
exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod
verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia
significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se
existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit
verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus
tempore mensurari; actiones autem nobis notæ sunt in tempore. Dictum est autem
supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum.
Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest
nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit
nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam
particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut
cui inhæret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de
cuius ratione est ut inhæreat, semper ponitur ex parte prædicati, nunquam autem
ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo
verbum semper esse nota eorum quæ dicuntur de altero: tum quia verbum semper
significat id, quod prædicatur; tum quia in omni prædicatione oportet esse
verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua prædicatum componitur
subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quæ de subiecto vel
in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter
prædicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto
prædicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel
passionem, quæ sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quæ
dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et
ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de
subiecto prædicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione
utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum
Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quæ de altero prædicantur,
non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quæ prædicantur,
quia cum prædicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa
verba sunt quæ prædicantur, magis quam significent prædicata. Est ergo
intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua prædicentur, quia omnis
prædicatio fit per verbum ratione compositionis importatæ, sive prædicetur
aliquid essentialiter sive accidentaliter. Deinde cum dicit: non currit
vero et non laborat etc., excludit quædam a ratione verbi. Et primo,
verbum infinitum; secundo, verba præteriti temporis vel futuri; ibi: similiter
autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat,
non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per
modum actionis vel passionis; quod prædictæ dictiones non faciunt: removent
enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel
passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen
conveniunt sibi ea quæ supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum
est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quæ sicut sunt in
tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI
physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte prædicati, sicut et
verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut
verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero
existens, ita prædictæ dictiones significant remotionem actionis vel
passionis. Si quis autem obiiciat: si prædictis dictionibus convenit
definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra
posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur
esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat
nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi
dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata
ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest
dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim
negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis.
Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba
a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba
vero negativa in vi duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem
curret etc., excludit a verbo verba præteriti et futuri temporis; et dicit quod
sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est
futuri temporis, vel currebat, quod est præteriti temporis, non sunt verba, sed
sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat præsens
tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem
signanter præsens tempus, et non simpliciter præsens, ne intelligatur præsens
indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut
passio; sed oportet accipere præsens tempus quod mensurat actionem, quæ
incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quæ consignificant
tempus præteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum
proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod
significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed
agere vel pati in præterito vel futuro est secundum quid. Dicuntur etiam
verba præteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod
consignificat præsens tempus; quia præteritum vel futurum dicitur per respectum
ad præsens. Est enim præteritum quod fuit præsens, futurum autem quod erit præsens.
Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas,
variatio quæ fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis
variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quæ est
per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus
verbi. Nam
verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba præteriti vel
futuri temporis. Sed verba indicativi modi præsentis temporis non dicuntur
casus, cuiuscumque sint personæ vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc.,
ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo,
proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant
aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt
nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quæ sumuntur in vi nominis, ut
dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive
sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed hæc non videtur esse
intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et
ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat
quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quædam res, inde est quod et ipsa
verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus
comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo
distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest
intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et prædicari.
Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per
hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non
significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et
cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in
quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia
supra dictum est quod voces significativæ significant intellectus. Unde
proprium vocis significativæ est quod generet aliquem intellectum in animo
audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit
quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad
hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit. Sed hoc
videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non
autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est
animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est
eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus
operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se,
constituit intellectum quantum ad primam operationem, quæ est simplex conceptio
alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam
nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem
constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quæ est intellectus
componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad
hoc facit quiescere audientem. Et ideo statim
subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat
aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est
secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quæ
maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum
quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se
dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus
alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim
dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter
manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest
quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia
currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia
non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum,
scilicet rem esse vel non esse. Et hoc consequenter probat per id, de quo
magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem
nihil est. Ubi notandum est quod in Græco habetur: neque si ens ipsum nudum
dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant
rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse,
scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia
ens æquivoce dicitur de decem prædicamentis; omne autem æquivocum per se
positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius
significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non
est. Sed hæc expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie
æquivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur
de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio æquivoca non nihil
significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam
accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem præsentem.
Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam
alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam
coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine
compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia
si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque
nomen, neque verbum, sicut nec præpositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter
exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non
significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit:
consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit,
consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed
consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem
significat, quæ non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc
commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur hæc expositio esse
secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam
speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod
ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum
ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest
non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens:
quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per
hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem hæc dictio ens
significaret esse principaliter, sicut significat rem quæ habet esse, procul
dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quæ importatur in hoc
quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum
significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non
sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas
et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent,
planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse,
probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid
esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quædam,
et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare
compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa
compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine
componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quæ si non
apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse
verum, vel falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat
compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti;
significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis
absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo
significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat
hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formæ, vel actus substantialis
vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel
actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est,
vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum præsens tempus;
secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum
est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de
verbo, quæ sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius
existentes; nunc determinat de oratione, quæ est principium formale
enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim,
proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo
etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.
Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo
ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est
vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de
verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia
supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati,
ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia
significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen
vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et
verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim
dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum
quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars
est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est
significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quæ secundum se non
significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia
duplex est significatio vocis, una quæ refertur ad intellectum compositum, alia
quæ refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi,
secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est
significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut
affirmatio, quæ componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de
affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit
affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat
aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Sed contra hanc
definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis
convenire. Sunt enim quædam orationes, quarum partes significant aliquid ut
affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et
ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et
posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius
speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo
quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio
simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest
dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi.
Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et
compositæ. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit
soli orationi, compositæ; sed habere partes significantes aliquid per modum
dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et
compositæ. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc
non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit
affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod
significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem
redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper
differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne
dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut
dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii,
non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus
autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod hæc definitio orationis
daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi
alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo
secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic
decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum
perfectum, quædam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et
tectum ad domum, et membra organica ad animal: quædam vero mediantibus partibus
principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante
pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet
manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter
referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quæ etiam
ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi
perfectæ, quam imperfectæ. Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc.,
exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur;
secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et
cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse
significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat
aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse
vel non esse. Et
hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius
additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum. Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset
hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel
negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed
quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id,
quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium
eius sit significativum separatim. Sed quia pars
alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem
totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus
immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de
partibus nominis vel verbi, quæ sunt syllabæ vel litteræ. Et ideo dicitur quod
pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quæ est una
nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quæ quandoque possunt esse
dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una
dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quædam syllaba
huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola.
Dictio enim quædam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando
habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et
ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quæ sit vox, inquantum
autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde
syllabæ quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum
tamen quod in nominibus compositis, quæ imponuntur ad significandum rem
simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid
significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus,
idest in nominibus compositis, syllabæ quæ possunt esse dictiones, in
compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito
et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se,
prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.
Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim
aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad
placitum. Ad
probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse
naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem
interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia.
Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa
interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens
operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana
significans, sed naturaliter. Huic autem rationi, quæ dicitur esse
Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod
omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet
naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativæ sunt guttur et
pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac
articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus
virtutis interpretativæ per instrumenta prædicta. Sicut enim virtus motiva
utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes
eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit
quod oratio significat ad placitum, idest secundum institutionem humanæ
rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia
causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem
interpretativam non attribuamus virtuti motivæ, sed rationi; sic non est virtus
naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus
alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quæ
movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut
instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis
corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi
instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus
determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa
enunciatione. Et dividitur pars hæc in duas: in prima, determinat de
enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quæ provenit
secundum ea quæ simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi:
quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in
partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est
autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad
invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit:
primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc
definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in
omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi:
et cæteræ quidem relinquantur. Circa primum considerandum est quod
oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis,
est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum
oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis,
sicut et omnis vocis significativæ est significare conceptionem intellectus, ut
supra dictum est: duæ autem sunt operationes intellectus, in quarum una non
invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et
ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens
quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi
considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem
orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et
definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est:
ut intelligatur quod hæc sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in
qua verum vel falsum est. Dicitur autem in enunciatione esse verum vel
falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est
verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicæ, in re autem sicut in
causa: quia ut dicitur in libro prædicamentorum, ab eo quod res est vel non
est, oratio vera vel falsa est. Deinde cum dicit: non autem in
omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis
orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non
significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo
audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo
consistit verum vel falsum. His igitur prætermissis, sciendum est quod perfectæ
orationis, quæ complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa,
deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum
est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid
partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed
per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non
autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre).
Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum,
quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel
falsum. Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso
veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum
alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam
orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquæ aliæ
orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur.
Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad
attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum
voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere;
et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad
superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu
superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii.
Quia igitur istæ quatuor orationis species non significant ipsum conceptum
intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc
consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed
solum in enunciativa, quæ significat id quod mens de rebus concipit. Et inde
est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub
enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam.
Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad
deprecativam. Deinde cum dicit: cæteræ igitur relinquantur etc., ostendit
quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliæ quatuor orationis
species sunt relinquendæ, quantum pertinet ad præsentem intentionem: quia earum
consideratio convenientior est rhetoricæ vel poeticæ scientiæ. Sed enunciativa
oratio præsentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius
libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per
rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quæ sunt propria rei; et ideo
demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus,
significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et
poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quæ sunt
propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetæ
plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut
philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum
orationis, quæ pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub
consideratione rhetoricæ vel poeticæ, ratione sui significati; ad
considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum
constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et
dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda,
manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera. Circa primum
considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones
enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum
quædam est una simplex, quædam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quæ
sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum,
aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et
unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem
aliqualiter esse unam. Alia vero subdivisio enunciationis est
quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum
tria quæ supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et
intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est
prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra
affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa
enunciatio, quæ significat compositionem intellectus, est prior negativa, quæ
significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est
compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio
nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quæ significat
esse, prior est negativa, quæ significat non esse: sicut habitus naturaliter
prior est privatione. Dicit ergo quod oratio enunciativa una et
prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat
prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior
affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet
simpliciter, subdit quod quædam aliæ sunt unæ, non simpliciter, sed
coniunctione unæ. Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander
quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio
generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus
enim univoce prædicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius:
unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius prædicatur
de substantia, quam de novem generibus accidentium. Sed dicendum quod
unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo,
secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum
participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non
tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius
secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen æqualiter
participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius
multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest
esse genus substantiæ et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quæ
est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud
et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione;
tamen æqualiter participant rationem enunciationis, quam supra posuit,
videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est. Deinde
cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo,
manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel
coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio
simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex
enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, præmittit quædam, quæ
sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum;
ibi: est autem una oratio et cetera. Circa primum duo facit: primo, dicit
quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est præsentis
temporis, vel ex casu verbi quod est præteriti vel futuri. Tacet autem de verbo
infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum.
Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non
facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta.
Definitio enim oratio quædam est, et tamen si ad rationem hominis, idest
definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quæ sunt
casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi,
nondum est oratio enunciativa. Potest autem esse dubitatio: cum
enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine,
sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla
oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua
enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum;
ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum
est, verbum est nota eorum quæ de altero prædicantur. Prædicatum autem est
principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva
ipsius. Unde vocatur apud Græcos propositio categorica, idest prædicativa.
Denominatio autem fit a forma, quæ dat speciem rei. Et ideo potius fecit
mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum
est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione
verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur
affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua
denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio
Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem
complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia
dixerat quod quædam enunciatio est una simpliciter, quædam autem coniunctione
una; posset aliquis intelligere quod illa quæ est una simpliciter careret omni
compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet
esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine
compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non
importat compositionem, et ideo non exigit præsens intentio ut de nomine
faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit
aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod
dico, animal gressibile bipes, quæ est definitio hominis, est unum et non
multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi
rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad
metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicæ ratio huius assignatur: quia
scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam
determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a
materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et
materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit
autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet
propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquæ, idest sine
aliqua interpositione coniunctionis vel moræ. Et quidem non interruptio
locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur
coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed
significarentur ut actu multæ in locutione: et idem operatur interpositio moræ,
qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis
requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione:
quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter
materiam et formam: sed prædicta non interruptio non sufficit ad unitatem
definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in
his, quæ non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus
musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta
unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat
verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est
eadem ratio utrobique, nam prædicatum comparatur ad subiectum ut forma ad
materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum
simpliciter. Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad
manifestandam prædictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod
dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis
secundum proprias rationes; ibi: harum autem hæc simplex et cetera. Circa
primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod
ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et
verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis
unitatem manifestat per modos pluralitatis. Dicit ergo primo quod
enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quæ unum de uno significat, vel
una secundum quid, scilicet quæ est coniunctione una. Per oppositum autem est
intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant
et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque
coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.
Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas
orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur
secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum
solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est
albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quæ quidem unam rem
significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam,
animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in
conditionalibus, quæ quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate,
puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam,
canis latrat, hæc oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex
est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum
ponuntur plura in subiecto vel in prædicato, ex quibus non fit unum, sive
interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et
similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive
sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum
hoc sensus litteræ est quod enunciatio una est illa, quæ unum de uno
significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et
similiter enunciationes plures dicuntur quæ plura et non unum significant: non
solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel
etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque
aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen æquivocum,
multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex
quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus
currit. Sed hæc expositio non videtur esse secundum intentionem
Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur
distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quæ est
coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non
multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum
et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod
Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam
coniunctione unam, vult hic manifestare quæ sit una. Et quia supra
dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile
bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate
nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quæ unum
significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quæ multa significet, non erit
una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, hæc enunciatio, animal
gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in
prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quæ
sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod
plures dicuntur enunciationes quæ plura significant. Contingit autem aliqua
plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile,
sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen hæc
enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut
dicatur hoc esse additum propter definitionem, quæ multa significat quæ sunt
unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus
pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam
illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo
modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur
primo modo pluralitatis. Ea autem quæ non sunt opposita, possunt simul esse.
Unde manifestum est, enunciationem quæ est una coniunctione, esse etiam plures:
plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus
accipere tres modos enunciationis. Nam quædam est simpliciter una, in quantum
unum significat; quædam est simpliciter plures, in quantum plura significat,
sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quædam sunt
simpliciter plures, quæ neque significant unum, neque coniunctione aliqua
uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia
quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est
coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Deinde cum
dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et
verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quæ unum significat: posset autem
aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum
significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio
sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo
loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis.
Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest
dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel
verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi
enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes;
puta si quæratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem
utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit.
Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non
enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui
profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte.
Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad
interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium
enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod
intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quærenti,
quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si
ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est
quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem
inducit sicut conclusionem eius quod supra præmisit: necesse est omnem
orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Deinde cum dicit: harum autem hæc simplex etc., manifestat præmissam
divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quæ
unum de uno significat, et alia est quæ est coniunctione una. Ratio autem huius
divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et
ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, hæc
dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est
coniunctione. Hæc quidem simplex enunciatio est, quæ scilicet unum significat.
Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad
excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis,
vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Hæc autem ex his coniuncta,
quæ scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi
dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo præmissa, sicut aliquod
unum dividitur in simplex et compositum. Deinde cum dicit: est autem
simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet
quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Hæc autem divisio
primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit
compositæ enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem prædictæ divisionis
dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid:
quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad
negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum præsens tempus, subdit:
quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis
temporibus sicut et in præsenti. Alexander autem existimavit quod
Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis
videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod
enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam
ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce prædicatur de multis
(quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non
potest notificari nisi per illa multa quæ significantur. Et inde est quod quia
unum non dicitur æquivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius,
Aristoteles in præcedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus
est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum
enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de
affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Sed
contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine
enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit
quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis,
negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine
autem æquivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo
Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et
definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non
est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed
quia differentiæ divisivæ generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum
quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius
dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa
de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed
virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse
vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem
postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse
enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab
aliquo. Sed
sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quæ sunt
propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et
significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum
Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim
posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est
verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de
affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime
procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas.
Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox
significativa de eo quod est, quæ est differentia specifica affirmationis, vel
de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo
ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit:
quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse;
et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium
enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse
dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter
enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa
prædeterminata et solvit; ibi: in his ergo quæ sunt et quæ facta sunt et
cetera. Circa
primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri;
secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera.
Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione
affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi
oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera.
Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio
opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et
negationis absolute; ibi: et sit hoc contradictio et cetera. Circa primum
considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit
duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo
enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per
quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur
aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua
dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur
aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin
est oratio falsa. Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio,
secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re
enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta
cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur
aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum
dicitur, Æthiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod
in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus
est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod
pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus
autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris præponit: inter quas
negativam præmittit affirmativæ, cum dicit quod contingit enunciare quod est,
scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit
affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse.
Tertio autem, ponit affirmativam veram, quæ opponitur negativæ falsæ, quam
primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto
autem, ponit negativam veram, quæ opponitur affirmationi falsæ, cum dicit: et
quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum
quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam
existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per
prædicatum insit vel non insit rei significatæ per subiectum. Nam cum dicitur,
corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res
existens. Et sicut istæ quatuor differentiæ enunciationum inveniuntur in
propositionibus, in quibus ponitur verbum præsentis temporis, ita etiam
inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba præteriti vel futuri
temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel
ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet
variari diversimode enunciationem circa ea, quæ sunt extra præsens tempus,
idest circa præterita vel futura, quæ sunt quodammodo extrinseca respectu præsentis,
quia præsens est medium præteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne
quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod
quidem manifestum est ex præmissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est
in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum
contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari,
et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote
ex opposito contradictoriæ, consequens est quod quælibet affirmatio habeat
negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo
posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare
non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc.,
manifestat quæ sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo,
manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera.
Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e
converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio.
Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur
intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni
affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem
opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio
est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem,
quæ requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem
opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et prædicato,
requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint
eiusdem prædicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est
contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur,
Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur
quod identitas subiecti et prædicati non solum sit secundum nomen, sed sit
simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non
sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una,
requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quæ
unum de uno significat; et ideo subdit: non autem æquivoce, idest non sufficit
identitas nominis cum diversitate rei, quæ facit æquivocationem. Sunt autem et
quædam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas,
præter eam quæ est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non
omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Hæc autem diversitas
potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes
subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Æthiops est albus dente et non
est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte prædicati: non enim est
contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si
dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit
diversitas ex parte mensuræ, puta loci vel temporis; non enim est contradictio
si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non
pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si
dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et hæc
omnia designat cum subdit: et quæcumque cætera talium determinavimus, idest
determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates,
idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus
plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem
affirmationis et negationis esse contradictionem, quæ est eiusdem de eodem,
consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et
negationis, ut cognoscatur quæ sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit:
primo, præmittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad prædictam
differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si
ergo universaliter et cetera. Præmittit autem divisionem enunciationum quæ
sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo,
dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum,
ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen
vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum
simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis
distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quædam sunt universalia,
quædam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo
quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus
prædicari, singulare vero quod non est aptum natum prædicari de pluribus, sed
de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est
universale, Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc
divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicæ, universale non
est aliquid extra res existens. Item, in prædicamentis dicitur quod secundæ
substantiæ non sunt nisi in primis, quæ sunt singulares. Non ergo videtur esse
conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullæ res videntur
esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic
dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quæ subiiciuntur in
enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi
mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur
secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quæ sunt coniuncta in rebus
intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione
alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est
proprium illi rei, in quantum est hæc res, sicut Socrati vel Platoni in quantum
est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis
quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut
risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi
soli rei in quantum est hæc res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid
singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis
aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen
significat naturam sive dispositionem aliquam, quæ est communis multis. Quia
igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra
animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale
et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale
extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animæ
intellectivæ, quod est prædicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam
secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur
quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque
quod propria ratio alicuius formæ intellectæ non repugnat ei quod est esse in
pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter
adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit
propter conditionem materiæ, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet
rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formæ ipsius, sed quia non
est alia materia susceptiva talis formæ; et ideo non dixit quod universale est
quod prædicatur de pluribus, sed quod aptum natum est prædicari de pluribus.
Cum autem omnis forma, quæ nata est recipi in materia quantum est de se,
communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod
significatur per nomen, non sit aptum natum prædicari de pluribus. Uno modo,
quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam,
sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est
in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quæ non est
nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis;
sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde
esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si
essent species rerum separatæ, sicut posuit Plato, essent individua. Potest
autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus prædicari,
quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet
responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit nomina in
universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale
dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus prædicari, sed id, quod
significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit
in prædictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam
humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen
imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic
eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed æquivocum. Deinde
cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem
enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quædam
sunt universalia, quædam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur
aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui
singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus:
quoniam autem sunt hæc quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est
autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam
universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per
se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum
esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter.
Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam
operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est prædicabile de multis,
sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus
attribuens eas naturæ intellectæ, secundum quod comparat ipsam ad res, quæ sunt
extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato,
quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei
non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in
rebus, quæ sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima
creaturarum. Hoc enim convenit naturæ humanæ etiam secundum quod est in
singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis
irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra
animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei
prædicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout
est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturæ
universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet,
vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal,
vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione
singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad
actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem
attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in
apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel prædicabile de uno
solo. Quandoque autem, ratione naturæ communis; ut cum dicitur,
Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur,
Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod
contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem hæc
tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit
quod enunciationum quædam est una simpliciter, quædam vero coniunctione una. Quæ
quidem est divisio analogi in ea de quibus prædicatur secundum prius et
posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius
in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et
negationem. Quæ quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum
differentiam prædicati ad quod fertur negatio; prædicatum autem est pars
formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad
qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod
differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quæ
sumitur secundum differentiam subiecti, quod prædicatur de pluribus vel de uno
solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas
consequitur materiam. Deinde cum dicit: si ergo universaliter
etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum
diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos
oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversæ
oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has
quidem impossibile est et cetera. Circa primum considerandum est quod cum
universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod
est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut
supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventæ
sunt quædam dictiones, quæ possunt dici determinationes vel signa, quibus
designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo prædicetur. Sed quia
non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia
subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad
designandum illum modum prædicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a
singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere,
adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid
attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale
separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se
hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale
secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et
ideo adinventæ sunt quædam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid
universali sic accepto. Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid
attribuitur universali ratione ipsius naturæ universalis; et ideo hoc dicitur
prædicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam
multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis prædicationibus
adinventa est hæc dictio, omnis, quæ designat quod prædicatum attribuitur
subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In
negativis autem prædicationibus adinventa est hæc dictio, nullus, per quam
significatur quod prædicatum removetur a subiecto universali secundum totum id
quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Græco
dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto
universali a quo prædicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur
universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc
designandum, in affirmativis quidem adinventa est hæc dictio, aliquis vel
quidam, per quam designatur quod prædicatum attribuitur subiecto universali
ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam
alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et
dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed
possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod
significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non
omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem
affirmationem. Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus
aliquid de universali prædicatur. Una quidem est, in qua de universali prædicatur
aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua
aliquid prædicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo
est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali prædicatur absque
determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio
solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositæ. De
singulari autem quamvis aliquid diversa ratione prædicetur, ut supra dictum
est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura
universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad
naturam singularitatis, utrum aliquid prædicetur de eo ratione universalis
naturæ; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione
singularitatis. Si igitur tribus prædictis
enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad
quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus
et particularis. Sic igitur secundum has differentias Aristoteles
assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum
differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam
universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa
primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium
adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in
universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et
cetera. Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto
universali universaliter, idest secundum continentiam suæ universalitatis,
quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariæ
enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus.
Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quæ maxime a se distant: non
enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod
est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum
extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur
per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem,
non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo prædicatum
dicitur de subiecto, quem designat hæc dictio, omnis. Sed super hanc remotionem
addit hæc enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quæ est
extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo
convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. Deinde cum dicit:
quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in
indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum
per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem
manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo
primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non
tamen universaliter, non sunt contrariæ enunciationes, sed illa quæ
significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non
universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non
dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis
indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quæ ponit, dicens fieri in
universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus
homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo,
qui subiicitur, est universale, sed tamen prædicatum non universaliter de eo prædicatur,
quia non apponitur hæc dictio, omnis: quæ non significat ipsum universale, sed
modum universalitatis, prout scilicet prædicatum dicitur universaliter de
subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de
eo dicatur universaliter. Tota autem hæc expositio refertur ad hoc
quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt
contrariæ. Sed hoc quod additur: quæ autem significantur contingit esse
contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a
diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad
contrarietatem veritatis et falsitatis, quæ competit huiusmodi enunciationibus.
Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est
albus; et sic non sunt contrariæ, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut
cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati
videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum
pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate
enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem prædicati. Contingit enim quandoque quod prædicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est
albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non
est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a
subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut
cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei
privatio actus vel habitus seu potentiæ; ut cum dicitur, aliquis non est
videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel
etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic
igitur illa, quæ significantur contingit esse contraria, sed ipsæ enunciationes
non sunt contrariæ, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariæ
opiniones quæ sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa
quæ est, quod aliquid non est bonum. Sed nec hoc videtur ad propositum
Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum,
sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda
expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis
enunciationibus non determinatur utrum prædicatum attribuatur subiecto
universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter
(quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi
enunciationes indefinitæ non sunt contrariæ secundum modum quo proferuntur.
Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta,
cum attribuitur aliquid universali ratione naturæ universalis, quamvis non
apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est
animal: quia hæ enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si
diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. Deinde cum
dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim
posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod
universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset
aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte prædicati, ex hoc
scilicet quod universale prædicari posset et universaliter et non
universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod prædicatur
aliquod universale, non est verum quod prædicetur universale universaliter.
Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus prædicandi
videtur repugnare prædicato secundum propriam rationem quam habet in
enunciatione. Dictum est enim supra quod prædicatum est quasi pars formalis
enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod
universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum
habitudinem quam habet ad singularia, quæ sub se continet; sicut et quando
universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad
aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem
determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare
convenienter additur prædicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur,
nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter
convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album.
Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum prædicato,
ad insinuandum quod prædicatum est in plus quam subiectum, et hoc præcipue cum,
habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de
anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex
parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in
affirmationibus quæ falsæ essent si prædicatum universaliter prædicaretur. Et
ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua,
scilicet vere, de universali prædicato universaliter prædicetur, idest in qua
universali prædicato utitur ad universaliter prædicandum; ut si diceretur,
omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum prædicta, quod hoc prædicatum
animal, secundum singula quæ sub ipso continentur, prædicaretur de singulis quæ
continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si prædicatum sit
in plus quam subiectum, neque si prædicatum sit convertibile cum eo. Oporteret
enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quæ
repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali. Nec est
instantia si dicatur quod hæc est vera, omnis homo est omnis disciplinæ
susceptivus: disciplina enim non prædicatur de homine, sed susceptivum
disciplinæ; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne
susceptivum disciplinæ. Signum autem universale negativum, vel
particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non
tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte prædicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: hæc
enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter hæc est vera, omnis
homo aliquod animal est. Sed hæc, omnis homo omne animal est, in quacumque
materia proferatur, falsa est. Sunt autem quædam aliæ tales enunciationes
semper falsæ; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quæ habet eamdem causam
falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quæ aliæ similes, sunt
semper falsæ: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus
reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes
consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de oppositione
enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic
determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares.
Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una
quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis
ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariæ vero et cetera.
Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie
loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum;
subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter
sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque;
et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel
negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de
eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum præmissa.
Dicit ergo primo quod enunciatio, quæ universale significat, scilicet
universaliter, opponitur contradictorie ei, quæ non significat universaliter
sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa
(sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso);
ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod
dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde æquipollet ei
quæ est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si
diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hæ
duæ, quidam homo est albus (quæ est particularis affirmativa), nullus homo est
albus (quæ est universalis negativa), sunt contradictoriæ. Cuius ratio
est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem;
universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec
aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa
removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod
particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativæ. Unde
relinquitur quod universali affirmativæ contradictorie opponitur particularis
negativa, et particulari affirmativæ universalis negativa. Deinde cum
dicit: contrariæ vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et
dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariæ;
sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis
negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat
extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc
pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et
negativa se habent sicut medium inter contraria. Deinde cum dicit:
quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio
oppositæ ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum
ad contradictorias; ibi: quæcumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum
ad ea quæ videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quæcumque autem in
universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et
universalis negativa sunt contrariæ, impossibile est quod sint simul veræ.
Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quæ contradictorie
opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut,
non omnis homo est albus, quæ contradictorie opponitur huic, omnis homo est
albus, et, quidam homo est albus, quæ contradictorie opponitur huic, nullus
homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam
album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et
nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum,
sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariæ enunciationes non
possunt simul esse veræ, sed earum contradictoriæ, a quibus removentur, simul
possunt esse veræ. Deinde cum dicit: quæcumque igitur contradictiones etc.,
ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod
considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non
plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno
modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum
est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate
refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest
se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis
affirmativa semper contradicit singulari negativæ, supposita identitate prædicati
et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium
universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum,
semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil
aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum
autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV
metaphysicorum. Deinde cum dicit: quæcumque autem universalium etc.,
ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quæ videntur esse
contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod
intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.;
tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem
subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio
et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi
propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare,
et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum
philosophus dicit quod quæcumque affirmative et negative dicuntur de
universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit
verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum
dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus,
et, homo non est probus. In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui
Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit
accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali
ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiæ;
materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est;
dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et
ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa:
sed negativam universalem, quæ totum destruit, dicunt esse indigniorem
particulari negativa, quæ destruit partem, sicut universalis corruptio peior
est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro
universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse
Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in
libro Physic. quod non est motus præter res; et in libro de anima, quod non est
sensus præter quinque. Sed istæ rationes non concludunt. Quod enim primo
dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum
sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est
verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et
alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per
accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato
etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro
universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis
affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens;
ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem
in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id
quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa
esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo
indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior,
sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione
partis contentæ sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod prædicatum uni
parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas
particularis affirmativæ sufficit ad veritatem indefinitæ affirmativæ. Et
simili ratione veritas particularis negativæ sufficit ad veritatem indefinitæ
negativæ, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione
suiipsius, vel ratione suæ partis. Utuntur autem quandoque philosophi
indefinitis negativis pro universalibus in his, quæ per se removentur ab
universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in
his, quæ per se de universalibus prædicantur. Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod
est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa
verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas
affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum
sunt opposita prædicata: quæ quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno
modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus,
opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus,
opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est
probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo
est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istæ duæ veræ simul, homo
est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo
non est probus; ergo istæ duæ sunt simul veræ, homo est probus, homo non est
probus: et eadem ratione istæ duæ, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia
autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri
opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non
esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est
in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo hæc est vera, homo est
albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit
albus, hæc est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo
istæ duæ sunt simul veræ, homo est albus, homo non est albus. Deinde cum
dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa prædicta;
et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod
dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare
cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque
idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex prædictis
manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in
enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio
opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una
negatio opponitur; secundo, ostendit quæ sit una affirmatio vel negatio, ibi:
una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio,
epilogat quæ dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Dicit ergo
primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc
quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum
genera, videbatur quod uni affirmationi duæ negationes opponerentur; sicut huic
affirmativæ, omnis homo est albus, videtur, secundum prædicta, hæc negativa
opponi, nullus homo est albus, et hæc, quidam homo non est albus. Sed si quis
recte consideret huius affirmativæ, omnis homo est albus, negativa est sola
ista, quidam homo non est albus, quæ solummodo removet ipsam, ut patet ex sua æquipollenti,
quæ est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in
suo intellectu negationem universalis affirmativæ, in quantum includit
particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet
importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem
eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis
affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde cum dicit: hoc enim etc.,
manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico
autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est
quod negatio opponitur affirmationi, quæ est eiusdem de eodem: ex quo hic
accipitur quod oportet negationem negare illud idem prædicatum, quod affirmatio
affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare,
sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed
hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod
affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola
negatio. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico
autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in
singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, hæc sola opponitur,
Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud prædicatum
vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut
ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quæ est, Socrates est albus;
neque etiam illa quæ est, Plato est albus, huic quæ est, Socrates non est
albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale
universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur
sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quæ æquipollet
particulari negativæ. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est
universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis
homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus.
Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum
quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod
isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa
quæ est, non est homo albus. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed
videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita
verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest
verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem
affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur
intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc
potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini
ratione sui ipsius (quod est per se de eodem prædicari), et hoc ipsum negatio
negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui
singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una
affirmatio etc., epilogat quæ dicta sunt, et concludit manifestum esse ex prædictis
quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum
et negationum aliæ sunt contrariæ, aliæ contradictoriæ; et dictum est quæ sint
utræque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositæ, ut supra
dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et
sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et
negationis: nam in his quæ sunt vere contradictoriæ semper una est vera, et
altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum
est supra; quia scilicet quædam non sunt contradictoriæ, sed contrariæ, quæ
possunt simul esse falsæ. Contingit etiam affirmationem et negationem non
proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem
quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quæ
vere sunt contradictoria. Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc.,
ostendit quæ sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi
habitum est quod una est enunciatio, quæ unum significat; sed quia enunciatio,
in qua aliquid prædicatur de aliquo universali universaliter vel non
universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non
impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod
unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quæ continetur sub
universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas
enunciationis per multitudinem, quæ continetur sub sola nominis unitate; ibi:
si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio
cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale
universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale
particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una,
omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quæ est eius negatio,
scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quæ sunt manifesta.
In fine autem apponit quamdam conditionem, quæ requiritur ad hoc quod quælibet
harum sit una, si scilicet album, quod est prædicatum, significat unum: nam
sola multitudo prædicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem
universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium
comprehendat, quia prædicatum non attribuitur multis singularibus, secundum
quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. Deinde cum
dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad
unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat;
ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare
nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus
rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex
quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc
quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc
enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et
differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio
modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint
partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quæ sunt partes definitionis:
sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis
fit domus. Si ergo sit tale prædicatum quod attribuatur rei, requiritur ad
unitatem enunciationis quod illa multa quæ significantur, concurrant in unum
secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si
vero sit tale prædicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si
dicam, canis est nomen. Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat
quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum
hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una,
neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim
differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et
equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est
albus, et, equus est albus; sed istæ, homo est albus, et equus est albus,
significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est
alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas:
si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat,
quia non est aliqua res quæ componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod
non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus,
non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam hæc copulativa,
homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit
vera: sed hæc, tunica est alba, prædicta positione facta, potest esse vera
etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices
propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum
quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus
et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur prædicatum;
ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba. Deinde cum dicit: quare nec
in his etc., concludit ex præmissis quod nec in his affirmationibus et
negationibus, quæ utuntur subiecto æquivoco, semper oportet unam esse veram et
aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio
affirmet. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et
ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositæ enunciationes; hic inquirit
de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t
similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo
facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis
affirmatio et cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in
præmissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit
secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter
vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet
enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem,
utpote quod enunciatio quædam est universalis, quædam particularis, quædam
indefinita et quædam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio
enunciationum secundum tempus. Nam quædam est de præsenti, quædam de præterito,
quædam de futuro; et hæc etiam divisio potest accipi ex his quæ supra dicta
sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo
vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat præsens tempus; casus
autem verbi sunt, qui consignificant tempus præteritum vel futurum. Potest
autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quæ quidem divisio
attenditur secundum habitudinem prædicati ad subiectum: nam si prædicatum per
se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali;
ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero prædicatum
per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio
esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si
vero medio modo se habeat prædicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se
repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia
possibili sive contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis,
non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde
philosophus dicit, ex præmissis concludens, quod in his quæ sunt, idest in
propositionibus de præsenti, et in his quæ facta sunt, idest in enunciationibus
de præterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel
falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis;
nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid
universaliter prædicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet
affirmativa vel negativa, et altera falsa, quæ scilicet ei opponitur. Dictum
est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid
universaliter prædicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e
converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativæ,
sed particularis; et sic oportet, secundum prædicta, quod semper una earum sit
vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quæ etiam
contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in
quibus aliquid prædicatur de universali non universaliter, non est necesse quod
semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambæ esse simul veræ, ut
supra ostensum est. Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones,
quæ sunt de præterito vel de præsenti: sed si accipiamus enunciationes, quæ
sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quæ sunt de
universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia
necessaria omnes affirmativæ determinate sunt veræ, ita in futuris sicut in præteritis
et præsentibus; negativæ vero falsæ. In materia autem impossibili, e
contrario. In contingenti vero universales sunt falsæ et particulares sunt veræ,
ita in futuris sicut in præteritis et præsentibus. In indefinitis autem,
utraque simul est vera in futuris sicut in præsentibus vel præteritis.
Sed in singularibus et futuris est quædam dissimilitudo. Nam in præteritis et
præsentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera
falsa in quacumque materia; sed in singularibus quæ sunt de futuro hoc non est
necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur
quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et
impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in præsentibus et
præteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia
illa proprie ad singularia pertinent quæ contingenter eveniunt, quæ autem per
se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium
rationes. Circa hoc igitur versatur tota præsens intentio: utrum in
enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod
determinate una oppositarum sit vera et altera falsa. Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat præmissam
differentiam. Et
circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo,
ostendit illa esse impossibilia quæ sequuntur; ibi: quare ergo contingunt
inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in
singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri
oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate
careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes,
in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio
vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut
in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non
esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut
habetur in Græco, probat consequentiam prædictam. Ponamus enim quod sint duo
homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret,
alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita præmissa positione,
scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet
vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum
verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus
propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et
negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse
est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse
vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter
consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re.
Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod
album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare,
ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re
vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et
eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum
dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel
negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat,
sequitur quod affirmans vel negans mentiatur. Est ergo processus huius
rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in
singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans
vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne
necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio
determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc
concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus
contingentium excluditur. Quædam enim contingunt ut in paucioribus, quæ
accidunt a casu vel fortuna. Quædam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet
non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex
electione. Quædam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in
senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent,
nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam
permanentiam eorum quæ permanent contingenter; neque fit quantum ad
productionem eorum quæ contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quæ sunt
in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quæ se
habent æqualiter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum
sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo
enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum
dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit,
iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde
et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non
incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere
potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius
incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non
determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici,
neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad
utrumlibet ex præmissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio
vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille
qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse
aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret,
et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem
considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut
in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit
quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut
dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a
casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus:
nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi
quod deficit in minori parte. Deinde cum dicit: amplius si est album
etc., ponit secundam rationem ad ostendendum prædictam dissimilitudinem,
ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in præsentibus
et futuris, sequitur ut quidquid verum est de præsenti, etiam fuerit verum de
futuro, eo modo quo est verum de præsenti. Sed determinate nunc est verum
dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud
fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur
esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod
hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quæ
facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de præsenti quoniam
est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius
consequentiæ ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere
dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in
significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod
dicitur de præsenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit præsens vel
futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est
impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo
quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex præmissis
quod omnia, quæ futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod
nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non
est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro
inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum
esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum. Ad cuius evidentiam
considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod
est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in præsenti
habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu
aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa:
quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex
necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde
determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa,
ut quæ habet inclinationem ad suum effectum, quæ tamen impediri potest; unde et
hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici
potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in
sua causa pure in potentia, quæ etiam non magis est determinata ad unum quam ad
aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici
quod sit futurum, sed quod sit vel non sit. Deinde cum dicit: at vero
neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus
futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut
non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate,
sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque
erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit
etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio
et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi:
nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et
nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic
oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed
secundum prædictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec
tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non
existente vera; ergo prædicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas
desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad hæc si verum est et
cetera. Quæ talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit;
puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque
esse. Et ita de futuro sicut de præsenti: sequitur enim esse cras, si verum est
dicere quod erit cras. Si ergo vera est prædicta positio dicens quod neque cras
erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra
rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad
alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur
idem inconveniens quod in præmissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad
inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero
oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus
dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quæ adduxerat esse impossibilia.
Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quæ sequebantur;
secundo, concludit quomodo circa hæc se veritas habeat; ibi: igitur esse quod
est et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia
quæ sequuntur; secundo, ostendit hæc inconvenientia ex prædicta positione
sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia
inconvenientia memorata; ibi: quod si hæc possibilia non sunt et cetera. Dicit
ergo primo, ex prædictis rationibus concludens, quod hæc inconvenientia
sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut
in universalibus, quod scilicet nihil in his quæ fiunt sit ad utrumlibet, sed
omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo
inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo
consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his,
quæ sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quæ possunt esse et non
esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanæ, quæ sunt propter
aliquem finem (puta negotiatio, quæ est propter divitias acquirendas), erunt
superfluæ: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non
operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea
intentione videntur consiliari et negotiari ut, si hæc faciant, erit talis
finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis. Deinde cum
dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur
ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit prædicta
inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem
inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et
cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando
nihil apud homines erat præcogitatum, vel præordinatum de his quæ nunc aguntur,
unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem
dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est
vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit
alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo
omnia ex necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at vero neque hoc
differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil
enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc
esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc
factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum
affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia
veritas nostræ enunciationis non est causa existentiæ rerum, sed potius e
converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur,
utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque
tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore præterito, ita se habebat veritas
enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad
hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel
fieri; consequens est quod unumquodque eorum quæ fiunt, sic se habeat ut ex
necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiæ rationem assignat per hoc, quod si
ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut
supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim
significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur.
Eadem autem habitudo est eorum, quæ nunc dicuntur, ad ea quæ futura sunt, quæ
erat eorum, quæ prius dicebantur, ad ea quæ sunt præsentia vel præterita; et
ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc
factum est, utpote in præsenti vel in præterito existens, semper verum erat
dicere, quoniam erit futurum. Deinde cum dicit: quod si hæc possibilia
non sunt etc., ostendit prædicta esse impossibilia: et primo, per rationem;
secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam
in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res
humanas ostendit esse impossibilia quæ dicta sunt, per hoc quod homo manifeste
videtur esse principium eorum futurorum, quæ agit quasi dominus existens suorum
actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium
si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanæ, et omnia principia
philosophiæ moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua
utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis,
quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur
tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto
quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per
hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quæ agunt absque consilio non
habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quæ sunt agenda, sed
quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis.
Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari
vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet
quod omnia ex necessitate eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est
omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in
rebus naturalibus esse quædam, quæ non semper actu sunt; ergo in eis contingit
esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem
quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non
est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album
permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit
etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel
fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non
fieri, esse et non esse. Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc.,
ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova;
manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec
ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod
possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo
supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per
assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita
possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non
inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et
ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quæ non sunt in actu
semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate
sunt vel fiunt, sed eorum quædam sunt ad utrumlibet, quæ non se habent magis ad
affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum
contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod
altera pars sit vera, et non alia, quæ scilicet contingit ut in pluribus.
Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa
possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim
distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse
impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile
vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt hæc
secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non
potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a
veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem
distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non
enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper
erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio
est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium,
quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere
non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut
scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum
ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile
autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum
quam ad alterum, sive se habeat æqualiter ad utrumque, quod dicitur contingens
ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste
hæc est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem
possibilitatis et contingentiæ, in his quidem quæ sunt a nobis ex eo quod sumus
consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque
oppositorum. Sed videtur hæc ratio non esse sufficiens. Sicut enim
in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse
et non esse, ita etiam in corporibus cælestibus invenitur potentia ad diversa
ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde
dicendum est quod possibilitas materiæ ad utrumque, si communiter loquamur, non
est sufficiens ratio contingentiæ, nisi etiam addatur ex parte potentiæ activæ
quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad
unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in
actum potentiam passivam eodem modo. Hoc igitur quidam attendentes
posuerunt quod potentia, quæ est in ipsis rebus naturalibus, sortitur
necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum
Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes
quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse
est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multæ causæ ad hoc
concurrentes accipiunt rationem unius causæ sufficientis; et ita concludebant
quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed hanc rationem solvit Aristoteles
in VI metaphysicæ interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim
quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud
quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis
ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam,
et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet
causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam hæc est falsa,
quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis
causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non
possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per
effusionem aquæ impeditur combustio. Si autem utraque propositionum prædictarum
esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si
quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque
dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic
quousque esset devenire ad causam, quæ nunc est in præsenti, vel iam fuit in præterito;
si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum
deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet:
si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus.
Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc
excludendum ostendit utramque prædictarum propositionum esse falsam, ut dictum
est. Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens
reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens
reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens
reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum
accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et
similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa
aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se,
quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed
causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad
causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicæ dicitur. Quidam
vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt
reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se,
quam ponebant esse virtutem cælestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes
nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa
non potest provenire necessitas in omnibus quæ hic aguntur. Multa enim hic
fiunt ex intellectu et voluntate, quæ per se et directe non subduntur virtuti cælestium
corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quæ est in ratione, non
sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est
quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti cælestium
corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream.
Vires autem sensitivæ in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens
subduntur actioni cælestium corporum. Unde philosophus in libro de anima
opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui cæli adscribit his, qui
non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen
vis cælestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum
scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem
est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et
voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut
patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute cælestium
corporum non provenit necessitas in his quæ per rationem et voluntatem fiunt.
Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus
multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci
ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturæ se habet
ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est
quod hæc enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non
significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod
multa, quorum signa præexistunt in corporibus cælestibus, puta in imbribus et
tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis
illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam cælestem;
tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam
causam naturaliter agentem. Sed considerandum est quod id quod est per
accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod
quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum
scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id,
quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem
intellectum præordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est
per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest
tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo
loco sibi occurrant. Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quæcumque in
hoc mundo aguntur, etiam quæ videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem
providentiæ divinæ, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui
stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri,
qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et
velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit
omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem
ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem
cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit
omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso
quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod
est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid
cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per
intellectum agens. Sed si providentia divina sit per se causa
omnium quæ in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex
necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiæ eius: non enim potest eius
scientia falli; et ita ea quæ ipse scit, videtur quod necesse sit evenire.
Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest;
videtur ergo quod omnia quæ vult, ex necessitate eveniant. Procedunt
autem hæ obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinæ
voluntatis pensantur ad modum eorum, quæ in nobis sunt, cum tamen multo
dissimiliter se habeant. Nam primo quidem ex parte cognitionis vel
scientiæ considerandum est quod ad cognoscendum ea quæ secundum ordinem
temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quæ sub ordine temporis
aliqualiter continetur, aliter illa quæ totaliter est extra ordinem temporis.
Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum
philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est
prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi
homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine
transeuntium continetur habet cognitionem de præcedentibus et subsequentibus,
in quantum sunt præcedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui
eos præcedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset
aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri
constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via
existentes, non sub ratione præcedentis et subsequentis (in comparatione
scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum
alium præcedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per
se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet
adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius
cognitione cadant res sub ratione præsentis, præteriti et futuri. Et ideo præsentia
cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; præterita
autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum
sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si
totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate
evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri
possint, sicut quæ sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis
sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quæ
sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in
potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX
metaphysicæ. Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce æternitatis
constitutus, quæ est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum
unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quæ aguntur
secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso
existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo
ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino æternaliter
sic videt unumquodque eorum quæ sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus
videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt
Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quæ respicit ordinem causæ ad
effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem
sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est.
Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia
quæ fiunt in tempore; et tamen ea quæ in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex
necessitate, sed contingenter. Similiter ex parte voluntatis divinæ
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quædam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiæ entis possibile et necessarium; et ideo ex
ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest
potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur
vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina,
sicut a prima causa, quæ transcendit ordinem necessitatis et contingentiæ. Hoc
autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis
alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiæ; et ideo oportet
quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed
necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus
eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem
contingentiæ, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui
subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex
necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non
potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur
bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi
videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex
necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium
et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis
differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam
verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex
necessitate intellectus assentit; sunt autem quædam vera non per se nota, sed
per alia. Horum autem duplex est conditio: quædam enim ex necessitate
consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa,
principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum.
Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit
ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quædam autem sunt, quæ non ex
necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa
principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate
assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem
quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile,
sicut felicitas, quæ habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex
necessitate inhæret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt
esse felices. Quædam vero sunt bona, quæ sunt appetibilia propter finem, quæ
comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum
in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus,
non posset aliquis esse felix, hæc etiam essent ex necessitate appetibilia et
maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere
et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus
humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut
sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut
abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod
bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate
inducitur ad hæc eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem
contingentiæ in his quæ fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est
eorum quæ sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut
dicitur in III Ethicorum. Et hæc quidem dicta sunt ad salvandum radices
contingentiæ, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii
modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quæ ex prædictis
rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et
circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab
enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quæ circa res
sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas
circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare
quoniam orationes veræ sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas;
secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi:
et in contradictione eadem ratio est et cetera. Dicit ergo primo, quasi ex
præmissis concludens, quod si prædicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia
ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod
omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non
esse quando non est. Et hæc necessitas fundatur super hoc principium:
impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est
illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non
esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo
necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est
quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse
est non esse pro illo tempore quando non est: et hæc est necessitas non
absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici
quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non
esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate,
et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat
necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod
dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est
simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando
non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est,
quod si in his, quæ sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam
fieret alterum determinate esset futurum. Deinde cum dicit: et in
contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa
res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in
contradictione, quæ est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute
necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse
quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium
per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit,
et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et hæc necessitas
fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse
vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse
est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est
illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est
navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum
futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia
hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum
cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quæ est sub
disiunctione. Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet
circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit
quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et
non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi:
quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent
orationes enunciativæ ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex
eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in
omnibus rebus quæ ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quæcumque ita se
habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive æqualiter
sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se
habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quæ sint illæ res,
quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quæ neque
semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed
quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter
se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum
enunciationum, quæ sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione
altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen hæc vel illa
determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars
contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quæ sunt ut in
pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum
determinate sit vera vel falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est
etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex prædictis quod
non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet
veritas et falsitas in his quæ sunt iam de præsenti et in his quæ non sunt, sed
possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum
est, quia scilicet in his quæ sunt necesse est determinate alterum esse verum
et alterum falsum: quod non contingit in futuris quæ possunt esse et non esse.
Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro
determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de
enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt
autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsæ dictiones, quæ prædicantur
vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba;
secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione
affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam.
Dividitur ergo hæc pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat
enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel prædicato
positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad
determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero
determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones
enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi;
ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum
quod additio facta ad prædicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem
enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis
dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat
enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo,
ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi:
at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat
de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in
quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed
etiam ex parte prædicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera.
Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales
enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima
est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes
distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest
esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: præter verbum autem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi
enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.;
tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. Resumit
ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet
affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est
proprie nota eorum quæ de altero prædicantur, consequens est ut illud, de quo
aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum;
et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum
affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut
in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur
innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed
solum removet determinationem formæ. Et ne aliquis diceret quod id quod in
affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum
subdit quod id quod est, scilicet prædicatum, in affirmatione, scilicet una, de
qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod
subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. Deinde
cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum
est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non
homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est
verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad
dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat
unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod
significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum
significat negationem formæ alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut
in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et
ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum
quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicæ, ita etiam negatio
est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne
aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non
significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet
quod duplex est modus affirmationis. Quædam enim est affirmatio, quæ constat ex
nomine et verbo; quædam autem est quæ constat ex infinito nomine et verbo. Et
hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid
significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi
ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et
negare, ut in primo habitum est. Deinde cum dicit: præter verbum
etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi.
Dictum est enim supra quod, præter verbum nulla est affirmatio vel negatio.
Potest enim præter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si
ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non
potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum
verbum constituitur per additionem infinitæ particulæ, quæ quidem addita verbo
per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut
addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem
potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum.
Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet
verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex
parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur
compositio, quæ importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione
positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas
enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut
faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori
intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit
affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut
diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis præter differentiam
finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam
verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut
in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in
casibus verbi includitur ipsum verbum præsentis temporis. Præteritum enim et
futurum, quæ significant casus verbi, dicuntur per respectum ad præsens. Unde
si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc
est præteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo
subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quæcumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero prædictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad præsens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex præmissis distinctionem enunciationum in quibus nomen
finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex
differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem;
alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum
universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione
prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem
ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem,
non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit
illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quæ sunt
quatuor, sicut et illæ in quibus est subiectum non universaliter positum. Prætermisit
autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut,
Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod
signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia
inveniri. Similiter etiam prætermittit exemplificare de enunciationibus, quarum
subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim
habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem
aliquam differentiam ex parte verbi, quæ posset sumi secundum casus verbi, quia
sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in præterito et in futuro,
quæ circumstant præsens, est eadem ratio sicut et in præsenti, ut iam dictum
est. Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel
infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas
enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti
et ex parte prædicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi
enunciationes; secundo, manifestat quædam quæ circa eas dubia esse possent;
ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit
de enunciationibus in quibus nomen prædicatur cum hoc verbo, est; secundo de
enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et
cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum
triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de
enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum;
secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi:
similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen
infinitum; ibi: aliæ autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa
primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium
enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem;
ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et
cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit
quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet
intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens prædicatur.
Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in
enunciatione prædicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod
nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura.
Quandoque vero non prædicatur per se, quasi principale prædicatum, sed quasi
coniunctum principali prædicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum
dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem
esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et
ideo in talibus, est, prædicatur ut adiacens principali prædicato. Et dicitur
esse tertium, non quia sit tertium prædicatum, sed quia est tertia dictio
posita in enunciatione, quæ simul cum nomine prædicato facit unum prædicatum,
ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres. Secundo,
considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum
est, tertium adiacens prædicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod
considerandum est quod in præmissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur
solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta
si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una
oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens prædicatur,
oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam
nominis prædicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut hæc est una
oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo
est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per
appositionem negativæ particulæ ad hoc verbum est, quod est nota prædicationis.
Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est
tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est,
adiacet, scilicet prædicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quælibet dictio nomen dicitur, et
sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum
loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter
hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum
dicatur nomen vel verbum. Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc.,
concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo,
ponit earum habitudinem; ibi: quarum duæ quidem etc.; tertio, rationem numeri
explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duæ
sunt oppositiones, quando est tertium adiacens prædicatur, cum omnis oppositio
sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes
illæ in quibus est, tertium adiacens, prædicatur, subiecto finito non
universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duæ quidem etc., ostendit
habitudinem prædictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duæ dictarum
enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam,
sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Græco habetur, sicut
privationes; aliæ vero duæ minime. Quod quia breviter et obscure dictum est,
diversimode a diversis expositum est. Ad cuius evidentiam
considerandum est quod tripliciter nomen potest prædicari in huiusmodi
enunciationibus. Quandoque enim prædicatur nomen finitum, secundum quod
assumuntur duæ enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo
est iustus, et homo non est iustus; quæ dicuntur simplices. Quandoque vero prædicatur
nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duæ aliæ, scilicet homo est non
iustus, homo non est non iustus; quæ dicuntur infinitæ. Quandoque vero prædicatur
nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duæ aliæ, scilicet homo est
iniustus, homo non est iniustus; quæ dicuntur privativæ. Quidam ergo sic
exposuerunt, quod duæ enunciationes earum, quas præmiserat scilicet illæ, quæ
sunt de infinito prædicato, se habent ad affirmationem et negationem, quæ sunt
de prædicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes,
idest sicut illæ, quæ sunt de prædicato privativo. Illæ enim duæ, quæ sunt de
prædicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quæ sunt de
finito prædicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad
negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quæ est
affirmatio de infinito prædicato, respondet secundum consequentiam negativæ de
prædicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito
prædicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativæ de finito prædicato,
huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quæ sunt
de infinito prædicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de
privativo prædicato respondet secundum consequentiam negativæ de finito prædicato,
scilicet hæc, homo est iniustus, ei quæ est, homo non est iustus. Negativa vero
affirmativæ, scilicet hæc, homo non est iniustus, ei quæ est, homo est iustus.
Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illæ, quæ sunt de
finito prædicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda
autem linea, negativa de infinito prædicato sub affirmativa de finito et
affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo prædicato
similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in
subscripta figura.Sic ergo duæ, scilicet quæ sunt de infinito prædicato, se
habent ad affirmationem et negationem de finito prædicato, sicut privationes,
idest sicut illæ quæ sunt de privativo prædicato. Sed duæ aliæ quæ sunt de
infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus,
manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit
herminus hoc quod dicitur, duæ vero, minime, referens hoc ad illas quæ sunt de
infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum præmisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito prædicato
et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duæ quidem et
cetera. Duæ
vero, minime; ubi datur intelligi quod utræque duæ intelligantur in præmissis.
Illæ autem quæ sunt de infinito subiecto non includuntur in præmissis, sed de
his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur. Et
ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod prædictarum
quatuor propositionum duæ, scilicet quæ sunt de infinito prædicato, sic se
habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et
negationis, ut privationes, idest ut privativæ affirmationes seu negationes. Hæc
enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed
secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non
est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de
negativa, quæ est de infinito prædicato. Duæ vero, quæ sunt de finito prædicato,
non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed
simpliciter. Hæc enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa,
et hæc, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus
convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: hæc igitur quemadmodum in
resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum
pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quæ in fine I priorum dicuntur de
propositionibus, quæ sunt de finito vel infinito vel privativo prædicato, alium
sensum accipit. [Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse
dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in
enunciatione significatur vere prædicari potest: sicut hæc enunciatio, homo est
iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est
homo iustus; et similiter hæc enunciatio, homo non est iustus, se habet ad
omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus.
Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus
est quam affirmativa infinita, quæ ei correspondet. Nam, quod sit homo non
iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiæ;
sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente
habitum iustitiæ, sed etiam de eo qui penitus non est homo: hæc enim est vera,
lignum non est homo iustus; tamen hæc est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam
animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam
ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo
quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa
infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et
de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non
iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa
vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non
iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non
est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa
infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine
habente habitum iustitiæ, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum
quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de
omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiæ neque habent habitum
iniustitiæ. His igitur visis, facile est exponere præsentem litteram hoc
modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum prædictarum, duæ quidem, scilicet
infinitæ, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices,
quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in
modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duæ privativæ: quia
scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non
convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem
affirmativam sequitur negativa privativa, quæ est in plus, et non convertitur.
Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quæ est in
minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam
affirmativam, quæ est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est
habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quæ est etiam
privativarum. Sequitur, duæ autem, scilicet simplices, quæ relinquuntur,
remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor præmissis, minime, idest non ita
se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativæ se habent ad eas; quia
videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa
infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia
vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed
affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet
quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativæ
se habent ad infinitas. Quamvis autem
secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse
aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas
habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in prædicta
expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea
dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis
conveniens litteræ Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit;
secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum
consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor
præmissarum, duæ quidem, scilicet affirmativæ, quarum una est simplex et alia
infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut
scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam
simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur
negativa simplex. Duæ vero, scilicet negativæ, minime, idest non ita se habent
ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativæ, sicut ex
affirmativis sequebantur negativæ. Et quantum ad utrumque similiter se habent
privativæ sicut infinitæ. Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc.,
manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor prædictæ
enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est
solum prædicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito:
puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum
quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra
harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa.
Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod prædictis duabus enunciationibus affirmativis
respondet duæ aliæ negativæ. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices
enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra
dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in
supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quædam
quadrata figura, in cuius uno angulo describatur hæc enunciatio, homo est
iustus, et ex opposito describatur eius negatio quæ est, homo non est iustus;
sub quibus scribantur duæ aliæ infinitæ, scilicet homo est non iustus, homo non
est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum
vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur
quatuor enunciationes. Ultimo autem concludit quod prædictæ enunciationes
disponuntur secundum ordinem consequentiæ, prout dictum est in resolutoriis,
idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut
non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini
adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur
ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quæ sunt de infinito
subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte prædicati.
Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte prædicati
ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod prædicta littera sit
corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter
Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in
quibuscunque nominibus ponantur exempla. BOEZIO. COMMENTARII in LIBRUM
ARISTOTELIS IIEPI EPMHNEIAS RECENSUIT CAROLUS MEISER. PARS POSTERIOR SECUNDAM
EDITIONEM ET INDICES CONTINENS. CHE T HILLr L,v-LIPSIÆ IN ÆDIBUS B. G.
TEUBNERI. LIPSIÆ: B. G. TETJBNERI. In secundæ editionis textu recensendo lii
libri manu scripti mihi præsto fuerunt: S codex (Salisb. 10) bibliothecæ
Palatinæ Vindobonensis (Endlicheri) qui continet f. 1— 8V versionem continue
scriptam libri Aristotelici itEQi EQiirjvecag, quam littera 2J signavi, deinde
f. 9— 176v sex libros Boetii commentariorum. F codex (Frisingensis 166)
Monacensis 6366 s. XI et
X: vetustior manus
s. X incipit
a f. 33 (p.
352 editionis Basileensis
= nostræ editionis). T codex (Tegernseensis) Monacensis s. XI, qui f. 1
56v priorem editionem expositionis BOEZIO, f. 57v—65v versionem continuam, quam
1. % signavi, f. 66v191 secundam editionem complectitur. E codex
(Ratisb. S. Emm.
582) Monacensis 14582
s. XI. Præter hos quattuor codices, quorum plenam scripturæ discrepantiam studio legentium
proposui, hi quattuor alii libri a mehic
aut illic inspecti et difficilioribus locis excussi sunt: X codex
Einsidlensis 301 s. X, in quo non pauca
desiderantur: nam desunt p. 371, 17 huius
editionis conposita 378, 6 sit, 395, 21 possibile 410, 17 non
necessarium, postremo desinit in
verba p. 417,
19 de contingenti
et de possi
(sic), ut finis
quinti et sextus
liber totus perierit. J codex Einsidlensis 295 s. XI. IV
PRÆFATIO. G codex Sangallensis
830 s. XI.
B codex Bernensis
332 s. XII, in quo
desunt p. 383, 1 ut in eo —
434, 3 et
dicit. Hos omnes codices ex
uno eodemque fonte
fluxisse inde apparet,
quod eædem in
omnibus lacunæ, eædem
interpolationes, eadem vitiorum
genera deprehenduntur, et
de lacunis quidem
conferas: p. 70, 15. 161, 18. 208, 22. 288, 7. 382, 8. 432, 9, præterea
p. 126, 8. 267, 12. 290, 18. 312, 14. 341, 3. 447, 9. 482, 14. 489, 7, de
interpolationibus autem — 13. iisdem vero cunctos vitiis foedatos esse ut
demonstrem, satis erit unum aut
alterum ex plurimis
passim obviis proferre
exemplum, nam et p. 361,
ubi Peripatetica interrogationis divisio
proditur, cum in
codicibus nostris v.
8 sqq. legatur:
'non dialecticæ autem interrogationis duæ sunt species, sicut audivimus
docet 5, manifestum est pro vocabulo corrupto audivimus 5 Eu de mus
restituendum fuisse, 23 quin recte
scripserim: ad tenacioris memoriæ subsidium 5, cum codices inperversa
scritione t elatior is consentiant, quis est qui dubitet?
confer præterea p.237, 25 28 locum illum
in omnibus æqualiter libris turbatum. Pro fundamento autem textus constituendi
codicem S habui, omnium longe præstantissimum,
qui non raro ceteris fidelius veræ scripturæ vestigia servaverit, confer e. c.
p. 500, 9, ubi huius codicis lectio a
bonum 5 propius ad verum ad unum 5 accedit quam reliquorum ad bonum 5, hoc unum
dolendum est, quod a correctore quodam, quamquam multa emendata sunt, tamen
ipsis locis difficillimis ita rasuris depravatus est, ut quid primitus in eo
scriptum fuerit sæpe dinosci non possit, nec tamen multum interest, cum propter similitudinem ceterorum
codicum fere semper quid S habuerit ex aliis suspicari liceat. V Codici S
plerumque consentit F, nisi quod in hoc librarius interdum pravo varietatis
studio et verba transposuisse et pro solitis rariora vocabula inculcasse
videtur, nam cum hic codex p. 395, 20
pro voce Socratem mire elimannum
posueri, quod aperte falsum est, iure in dubium vocari potest, num recte aliis
locis hunc codicem solum contra ceterorum consensum secutus sim. quare hos
locos notare velim et quid F habeat, quid ceteri adscribam: F ceterip.
195, 21 autumant putant 208, 25 itidem similiter 212, 17 infit
dicit 223, 1 potiores
meliores 246, 20
itidem similiter. Ad S et F
libros optimos proxime accedit E, et
ipse optimæ notæ idemque
pulcherrime et diligentissime scriptus,
a secunda manu
et in S
(= S2) et
in E (=
E2), rarius in
F (= F2)
multa egregie sunt emendata. N J G et ipsi in optimis numerandi sunt et
intima cognation cum S F E coniuncti,
sed vix quidquam novi ex iis elicitur, quod non in ceteris
reperiatur. Minus fidei codici T tribuendum
est, quippe qui fere semper cum secunda manu codicis G (=
G2) consentiat, ut quæ
in G supra
lineam vel in
margine leguntur in
T in textum
irrepserint, quare nec
interpolationibus vacat et
variæ lectiones promiscue
iuxta positæ inveniuntur,
sunt tamen quæ
in hoc codice
melius quam in
ceteris servata videantur. Minimæ auctoritatis
et omnium deterrimus
est codex B
(plerumque = E2),
qui pauca emendavit,
plurima demendo addendo
mutando turbavit ac
miscuit. Ut in
prima, sic in
secunda editione lemmata
non plenum Aristotelis
textum exhibent, sed
pauciora in secunda
editione desiderantur, quorum
quædam in E
Boetii comment. II.
a**VI PRÆFATIO. a secunda manu
in margine et
in B sunt
addita, ceteram B sæpius prima
tantum et postrema
Aristotelis verba expositioni
BOEZIO præmittit, quæ vocula
'usque5 (vel 'reliqua
usque5) iunguntur (cf.
p. 227, 13
— 26). De versione BOZIO ana
libri Aristoteliei Ttegi eQ[ir}-
vaiccg eiusque a nostro Aristotelis textu discrepantia in Fleckeiseni
annal. vol. CXVII . 247 — 253
disputavi. Monachii mense
Martio a. MDCCCLXXX.
Car. Meiser. Boezio. IH LIBRVM
ARISTOTELIS nEPI EPMHNEIAS COMMENTARII.
SECVNDA EDITIO. BOEZIO (vedasi) comment.
S = codex (Salisb. n. 10) Vindobonensis n. 80. ( E — præmissa translatio).
F = codex
(Frisingensis n. 166)
Monacensis T =
codex (Tegernseensis) Monacensis (X
= præmissa translatio).
E = codex
(Ratisb. S. Emm. n.
582) Monacensis n.
14582. N = codex
Einsidlensis n. 301. J
= codex Einsidlensis
n. 295. G
= codex Sangallensis
n. 830. B
= codex Bernensis
n. 332. b
= editio Basileensis
a. 1570. BOEZIO
COMMENTARIORVM IN LIBRVM
ARISTOTELIS IIEPI EPMHNEIA2
SECVNDÆ EDITIONIS LIBER
PRIMYS. Alexander in commentariis
suis hac se inpulsum causa pronuntiat sumpsisse longissimum expositionis
laborem, quod in multis ille a priorum scriptorum sententiis dissideret: mihi
maior persequendi operis causa est, quod
non facile quisquam vel transferendi vel etiam commentandi continuam sumpserit
seriem, nisi quod Vetius Prætextatus
priores BOEZIO VIRI ILLVSTRIS EX CONSVLV
ORDINE (CONS ORD F) IN PERIERMENIAS ARISTOTOLIS
(ARESTOTELIS F) EDITIONIS SECVNDÆ LIBER
I INCIPIT. SF A-M-S-B- SECVNDA ÆDITIO IN LIBRVM PERI HERMENIAS INCIPIT. GT BOEZIO VIRI
ILL ÆDITIONIS SCDÆ IN PERIERMENIAS ARIST-
LIB I INCIPIT. J
BOEZIO VIRI CLARISSIMI ET ILLVSTRIS EX CONSVLARI ORDINE PATRICII SCDÆ EDITIONIS EXPO SITIONV IN ARISTOTELIS PERIHERMENIAS
INCIPIT LIBER I E titulum om. NB 1 Alexander longissimum
om. N 2 longissimg T 4 dissidet
F 6 etiam om.
F 1* ed.Bas 5\ 4
SECVNDA EDITIO postremosque analyticos non vertendo Aristotelem LATINO
SERMONE tradidit, sed transferendo Themistium, quod qui utrosque legit facile
intellegit. ALBINO quoque de isdem rebus
scripsisse perhibetur, cuius ego geometricos quidem libros editos scio,
de DIALECTICA uero diu multumque quæsitos reperire non valui, sive igitur ille
omnino tacuit, nos prætermissa dicemus, sive aliquid scripsit, nos quoque docti viri imitati studium in eadem
laude versabimur. sed quamquam multa sint Aristotelis, quæ SUBTILISSIMA
PHILOSOPHIÆ arte celata sint, hic tamen ante omnia liber nimis et acumine
sententiarum et verborum brevitate constrictus est. quocirca plus hic quam in X prædicamentis
expositione sudabitur. Prius igitur quid
VOX sit definiendum est. hoc enim perspicuo et manifesto omnis libri
patefiet intentio. VOX est æris per linguam percussio, quæ per quasdam gutturis
partes, quæ arteriæ vocantur, ab animali profertur, sunt enim quidam alii SONI,
qui eodem perficiuntur flatu, quos lingua non percutit, ut est tussis, hæc
enim flatu fit quodam per arterias egrediente, sed nulla linguæ inpressione
formatur atque ideo nec ullis subiacet elementis, scribi enim nullo modo
potest, quocirca vox hæc non dicitur, sed tantum sonus, illa quoque potest esse
definitio vocis, ut eam dicamus SONUM esse cum quadam imaginatione SIGNIFICAND,
vox namque cum emittitur, SIGNIFICATIONIS alicuius causa profertur, tussis
vero cum sonus sit, nullius SIGNIFICATIONIS causa subrepit
3 Qu§ qui T 4 eisdem E 5
ergo T 6
repp. sic semper
codices 7 omnino
ille T 12
nimis tacumine T
16 omnis om.
F 17 intentio
de voce SG-J
et in marg.
T definitio vocis
E diff vocis
F2 19 guturis
F 29 alicuius
— SIGNIFICATIONIS G2 in marg.
tusis F 30
subripit S surripit
GT I. 5 potius quam profertur,
quare quoniam noster flatus ita sese habet, ut si ita percutitur atque
formatur, ut eum lingua percutiat, vox sit: si ita percutiat, ut terminato
quodam et circumscripto sono vox exeat, LOCUTIO fit quæ Græce dicitur Xs%ig. locutio enim est ARTICULATA VOX (neque enim hunc sermonem id est Xe%iv
dictionem dicemus, idcirco
quod cpccGiv dictionem
interpretamur, Xi%iv vero locutionem), cuius
locutionis partes sunt litteræ,
quæ cum iunctæ fuerint, unam efficiunt vocem coniunctam conpositamque,
quæ locutio prædicatur. sive autem aliquid quæcumque vox SIGNIFICET, ut
est hic sermo
“homo”, sive omnino nihil, sive
positum alicui nomen SIGNIFICARE possit,
ut est “HLITYRI” (hæc enim vox per se cum nihil SIGNIFICET, posita tamen ut alicui
nomen sit SIGNIFICABIT), sive per se quidem nihil SIGNIFICET, cum
aliis vero iuncta designet, ut sunt coniunctiones: hæc omnia locutiones vocantur, ut sit propria
locutionis forma vox conposita quæ litteris describatur, ut igitur sit locutio, voce opus est id est eo sono quem
percutit lingua, ut et vox ipsa sit per linguam determinata in eum sonum qui
inscribi litteris possit, sed ut hæc locutio SIGNIFICATIVA sit,
illud quoque addi oportet, ut sit aliqua
significandi imaginatio, per quam id quod in voce vel in locutione est
proferatur: ut certe ita dicendum sit: si
in hoc flatu, quem per arterias
emittimus, sit linguæ sola percussio, vox est; sin vero talis percussio sit, ut
in litteras redigat sonum, locutio; quod
si vis quoque quædam imaginationis
adda- 1 quoniam dei. S2
om. F 2
percutitur atque formatur
g2p2g2g. percuti atq.
formari SFEN, percuti
atq. formari possit T
(possit supra lin.
GJ) ut cu
eu B 3
sit] est STGNJ
( corr. S2) 5 fit]
sit S2FE2 lexis
codices, item 6
et 8 lexin,
7 phasin 9
literæ in marg.
S quæ coniunctæ
S, corr. S2
13 alicuius SF
14 blythyri SG
blithyri NT blytbiri
EF? {in fine
suprascr. s F)
21 et ut b 22
scribi? 28 fit
T 5 10
15 20 6
tur, illa SIGNIFICATIVA vox redditur. concurrentibus
igitur his tribus: linguæ percussione, articulato vocis
sonitu, imaginatione aliqua proferendi
fit interpretatio, interpretatio namque
est vox articulata per se ipsam 5
SIGNIFICANS, quocirca non omnis vox interpretatio est. sunt enim ceterorum animalium voces, quæ
interpretationis vocabulo non tenentur, nec omnis locutio interpretatio
est, idcirco quod (ut dictum est) sunt locutiones quædam, quæ significatione careant et cum per se quædam
non significent, iunctæ tamen cum aliis
significant, ut coniunctiones. interpretatio autem in solis per se significativis et articulatis vocibus
permanet. quare convertitur, ut quidquid sit interpretatio, illud significet,
quidquid significat, interpretationis vocabulo nuncupetur, unde etiam
ipse quoque Aristoteles in libris quos
de poetica scripsit locutionis partes esse syllabas vel etiam
coniunctiones tradidit, quarum syllabæ in eo quod sunt syllabæ nihil omnino
significant, coniunctiones vero consignificare quidem possunt, PER SE VERO
NIHIL DESIGNANT, interpretationis vero
partes hoc libro constituit nomen et verbum, quæ scilicet per se ipsa
SIGNIFICANT, nihilo minus quoque
orationem, quæ et ipsa cum vox sit ex significativis partibus iuncta
significatione non caret quare quoniam non de oratione sola, sed etiam de verbo
et nomine, nec vero de sola locutione, sed etiam de SIGNIFICATIVA locutione, quæ est interpretatio, hoc libro
ab Aristotele tractatur, id circo
quoniam in 16 Ar. Poet. c. 20.
1 significatiua b: significatio
SG-TE, significatione FS1 2E2?
redditur uox T
4 interpretatio om.
SNF, in marg.
addunt GE quæ
namq; S2F 10
iunctæ F: iuncta
ceteri 14 illud
quoq; E 16
arte poetica S2FE
23 post orationem
addit partem esse
tradidit S2F cum
om. T 28
in hoc S2F
ab om. T I.
7 verbis atque nominibus et in significativis locutionibus nomen
interpretationis aptatur, a communi nomine eorum, de quibus hoc libro
tractabitur, id est
ab interpretatione, ipse
quoque de interpretatione liber
inscriptus est. cuius
expositionem nos scilicet
quam 5 maxime
a Porphyrio quamquam
etiam a ceteris
transferentes Latina oratione
digessimus, hic enim
nobis expositor et
intellectus acumine et
sententiarum dispositione videtur
excellere, erunt ergo
interpretationis duæ primæ
partes nomen et
verbum, his enim
10 quidquid est
in animi intellectibus
designatur; his namque
totus ordo orationis
efficitur, et in
quantum vox ipsa
quidem intellectus significat,
in duas (ut
dictum est) secatur
partes, nomen et
verbum, in quantum
vero vox per
intellectuum medietatem subiectas
intellectui res demonstrat,
significantium vocum Aristoteles
numerum in X prædicamenta partitus
est. atque hoc
distat libri huius
intentio a prædicamentorum in denariam
multitudinem numerositate p. 291 collecta, ut hic quidem tantum de numero
SIGNIFICANTIUM vocum quæratur,
quantum ad ipsas
attinet voces, quibus
significativis vocibus intellectus
animi designentur, quæ
sunt scilicet simplicia
quidem nomina et
verba, ex his
vero conpositæ orationes:
prædicamentorum vero hæc
intentio est: de
significativis rerum vocibus
in tantum, quantum
eas medius animi
SIGNIFICET intellectus, vocis
enim quædam qualitas
est nomen et
verbum, quæ nimirum
ipsa illa decem
prædicamenta significant, decem
namque prædicamenta numquam
sine aliqua verbi
qualitate vel 30
nominis proferentur, quare
erit libri huius
intentio de significativis vocibus
in tantum, quantum
con- 1 in
om. E 3 in
hoc S2F 9 dispositio
S corr. S2 10
partes primæ T
11 intellectus F
corr. F1 12
totius F 18 in hoc
T 20 in
tantum? 26 uocibus
tractare F, uoc.
dicere TE, tractare inmarg.
S 31proferuntur S2F
32 signatiuis S corr. S2 8 SECVNDA EDITIO ceptiones animi
intellectus que significent,
de decem prædicamentis
autem libri intentio
in eius commentario
dicta est, quoniam
sit de significativis rerum
vocibus, quot partibus
distribui possit earum
signifi- 5 catio
in tantum, quantum
per sensuum atque
intellectuum medietatem res
subiectas intellectibus voces
ipsæ valeant designare,
in opere vero
de poetica non
eodem modo dividit
locutionem, sed omnes
omnino locutionis partes
adposuit confirmans esse
locu- 10 tionis
partes elementa, syllabas,
coniunctiones, articulos, nomina,
casus, verba, orationes,
locutio namque non in solis
significativis vocibus constat,
sed supergrediens significationes vocum
ad articulatos sonos
usque consistit, quælibet
enim syllaba vel quodlibet
nomen vel quælibet
alia vox, quæ
scribi litteris potest,
locutionis nomine continetur,
quæ Græce dicitur
sed non eodem
modo interpretatio. huic
namque non est
satis, ut sit
huiusmodi vox quæ
litteris valeat adnotari,
sed ad hoc
ut aliquid quoque
significet, prædicamentorum vero
in hoc ratio
constituta est, in
quo hæ duæ
partes interpretationis res
intellectibus subiectas designent,
nam quoniam decem
res omnino in
omni natura reperiuntur,
decem quoque intellectus
erunt, quos intellectus quoniam verba
nominaque significant, decem
omnino erunt prædicamenta,
quæ verbis atque
nominibus DESIGNENTUR, duo vero quædam id est nomen et verbum, quæ
ipsos significent intellectus,
sunt igitur elementa
interpretationis verba et
nomina, propriæ vero
partes 30 quibus
ipsa constat interpretatio
sunt orationes, orationum
vero aliæ sunt
perfectæ, aliæ inperfectæ.
7 Ar.
Poet. c. 20.
3 pro quoniam:
cum F 4 quod F
7 arte poetica
FE2, arte in
marg. S 17
lexis FTE 31 aliæ uero
inp. TE, aliæ
inperf. om. S
in marg. addit
S2 I. 9
perfectæ sunt ex
quibus plene id
quod dicitur valet
intellegi, inperfectæ in
quibus aliquid adhuc
plenius animus exspectat
audire, ut est
Socrates cum Platone.
nullo enim addito
orationis intellectus pendet
ac titubat et
auditor aliquid ultra
exspectat audire, perfectarum
vero orationum partes
quinque sunt: deprecativa
ut Iuppiter omnipotens,
precibus si flecteris
ullis, Da deinde
auxilium, pater, atque
hæc omina firma,
imperativa ut Yade
age, nate, voca
Zephyros et labere
pennis, interrogativa ut Dic mihi,
Damoeta, cuium pecus?
an Meliboei? vocativa
0 pater, o
hominum rerumque æterna
potestas, enuntiativa, in
qua veritas vel
falsitas invenitur, ut
Principio arboribus varia
est natura serendis,
huius autem duæ
partes sunt, est
namque et simplex
oratio enuntiativa et
conposita. simplex ut dies
est, lucet, conposita
ut si dies
est, lux est.
in hoc igitur
libro Aristoteles de
enuntiativa simplici oratione
disputat et de
eius elementis, nomine
scilicet atque verbo,
quæ quoniam et
significativa sunt et
significativa vox articulata
interpretationis nomine continetur,
de communi (ut
dictum est) vocabulo
librum de interpretatione appellavit,
et Theophrastus quidem
in eo libro,
quem de adfirmatione
et negatione conposuit,
de enuntiativa oratione
tractavit, et Stoici
quoque in his
libris, quos ttsqI
a^tco^uzcov appellant, de
isdem 7 Yerg. Æn. II
689. 691 9
Yerg. Æn. IY
223 11 Yerg.
Ecl. III 1
12 Yerg. Æn.
X 18 14
Yerg. Georg. II
9 9 omnia
TE 10 pinnis
S^1 11 damgta
T 12 melibei
T ut b
:'om. codices, alterum
o om. SFE1
15 creandis Vergilii
codices 16 et
om. E 17
est et conp.
S2FE2 lux est
F2E2 21 uox
et art. S2FE2
27 peri axiomaton
codices 5 10 15 20 25 nihilominus
disputant, sed illi
quidem et de
simplici et de
non simplici oratione
enuntiativa speculantur, Aristoteles
vero hoc libro
nihil nisi de
sola simplici enuntiativa oratione
considerat. Aspasius quoque
et 5 Alexander
sicut in aliis
Aristotelis libris in
hoc quoque commentarios
ediderunt, sed uterque
Aristotelem de oratione
tractasse pronuntiat, nam si oratione
aliquid proferre ut
aiunt ipsi interpretari
est, de interpretatione liber
nimirum veluti de
oratione per scriptus
est, quasi vero
sola oratio ac
non verba quoque
et nomina interpretationis vocabulo
concludantur. æque namque
et oratio et
verba ac nomina,
quæ sunt interpretationis elementa,
nomine interpretationis vocantur,
sed Alexander addidit
inperfecte sese habere
libri titulum: neque
enim designare, de
qua oratione perscripserit, multæ
namque ut dictum
est sunt orationes;
sed adiciendum vel
subintellegendum putat de
oratione illum scribere
philosophica vel dialectica
id est, qua
verum falsumque valeat
expediri sed qui semel
solam orationem interpretationis nomine
vocari recipit, in
intellectu quoque ipsius
inscriptionis erravit, cur
enim putaret inperfectum
esse titulum, quoniam
nihil de qua
oratione disputaret adiecerit?
ut si quis
interrogans quid est
homo? alio respondente animal
culpet ac dicat
inperfecte illum dixisse,
quid sit, quoniam
non sit omnes
differentias persecutus, quod
si huic, id
est homini, sunt
quædam alia communia
ad nomen animalis,
nihil tamen inpedit
perfecte demonstrasse, quid
homo esset, eum
qui animal dixit:
sive enim differentias
addat quis sive
non, hominem animal
esse necesse est.
eodem quoque modo
et de oratione,
si quis hoc
concedat primum, nihil
aliud interpretationem dici
nisi orationem, 5
alios libros in
hunc? 21 recepit?
21.22 scriptionis S^1
23. 24 adiecit
T 26 non
o. diff. sit
E 30 addit
T 33 interpretatione F I. 11 cur
qui de interpretatione inscripserit
et de qua
interpretatione dicat non
addiderit culpetur, non
est. satis est
enim libri titulum
etiam de aliqua
continenti communione fecisse,
ut nos eum
et de nominibus
et verbis et
de orationibus, cum bæc omnia
uno interpretationis nomine
continerentur, supra fecisse
docuimus, cum bic
liber ab eo
de interpretatione notatus
est. sed quod
addidit illam interpretationem solam
dici, qua in
oratione possit veritas
et falsitas inveniri,
ut est enuntiativa
oratio, fingentis est
ut ait Porphyrius
significationem nominis potius
quam docentis, atque
ille quidem et
in intentione libri
et in titulo
falsus est, sed
non eodem modo
de iudicio quoque
libri buius erravit.
Andronicus enim librum
bunc Aristotelis esse
non puta,quem Alexander
vere fortiterque redarguit,
quem cum exactum
diligentemque Aristotelis librorum
et iudicem et
repertorem iudicarit antiquitas,
cur in huius
libri iudicio sit
falsus, prorsus est
magna admiratione dignissimum,
non esse namque
proprium Aristotelis bine
conatur ostendere, quoniam
quædam Aristoteles in
principio libri huius
de intellectibus animi
tractat, quos intellectus
animæ passiones vocavit,
et de bis
se plenius in
libris de anima
disputasse commemorat, et
quoniam passiones animæ
vocabant vel tristitiam
vel gaudium vel
cupiditatem vel alias
huiusmodi adfectiones, dicit
Andronicus ex boc
probari hunc librum
Aristotelis non esse,
quod de huiusmodi
adfectionibus nihil in
libris de anima
tractavisset, non intellegens
in hoc libro
Aristotelem passiones animæ
non pro adfectibus,
sed pro intellectibus
posuisse, his Alexander
multa alia addit
argumenta, cur hoc
opus Aristotelis maxime
esse videatur, ea
namque dicuntur hic,
quæ sententiis Aristotelis
quæ sunt de
enuntia- [5. 6 continentur F 6 cum om. F1 hæc S, corr. S2
10. 11 potius sign. nom. S2F 22 et animæ T 23
in supra lin. T 24 vocabat b 30 prius pro om. S1 Hic E1 5 10 15 20 25 30 12
SECVNDA EDITIO] tione consentiant;
illud quoque, quod
stilus ipse propter
brevitatem pressior ab
Aristotelis obscuritate non
discrepat; et quod
Theophrastus, ut in
aliis solet, cum
de similibus rebus
tractat, quæ scilicet
ab Aristotele ante
tractata sunt, in
libro quoque de
adfirmatione et negatione,
isdem aliquibus verbis
utitur, quibus hoc
libro Aristoteles usus
est. idem quoque
Theophrastus dat signum
hunc esse Aristotelis
librum: in omnibus
enim, de quibus
ipse disputat post magistrum, leviter
ea tangit quæ
ab Aristotele dicta
ante cognovit, alias
vero diligentius res
non ab Aristotele
tractatas exsequitur, hic
quoque idem fecit,
nam quæ Aristoteles
hoc libro de
enuntiatione tractavit, leviter
ab illo transcursa
sunt, quæ vero
magister eius tacuit,
ipse subtiliore modo
considerationis adiecit. addit
quoque hanc causam,
quoniam Aristoteles quidem
de syllogismis scribere
animatus num- quam
id recte facere
potuisset, nisi quædam
de propositionibus adnotaret.
mihi quoque videtur
hoc subtiliter
perpendentibus liquere hunc
librum ad analyticos
esse præparatum, nam
sicut hic de
simplici propositione disputat,
ita quoque in
analyticis de simplicibus
tantum considerat syllogismis,
ut ipsa syllogismorum
propositionumque simplicitas non
ad aliud nisi
ad continens opus Aristotelis
pertinere videatur, quare non est audiendus Andronicus, qui propter passionum nomen hunc librum ab
Aristotelis operibus separat.
Aristoteles autem idcirco passiones animæ intellectus vocabat, quod
intellectus, quos sermone dicere et oratione proferre consuevimus, ex aliqua
causa atque utilitate profecti sunt: ut enim dispersi homines colligerentur et
legibus vellent esse subiecti civitatesque condere, utilitas quædam fuit et
causa, quocirca 3 et b:
uel codices 15
subtilior S1 16
addidit E 17 pro scribere:
est T 19
hoc uidetur F
22 in om. F1 29
uocauit E I
c, 1. 13 quæ
ex aliqua utilitate
veniunt, ex passione
quoque provenire necesse
est. nam ut
divina sine ulla
sunt passione, ita
nulla illis extrinsecus
utilitas valet adiungi:
quæ vero sunt
passibilia semper aliquam
causam atque utilitatem
quibus sustententur inveniunt quocirca huiusmodi
intellectus, qui ad
alterum oratione proferendi
sunt, quoniam ex
aliqua causa atque
utilitate videntur esse
collecti, recte passiones
animi nominati sunt,
et de intentione
quidem et de
libri inscriptione et
de eo, quod
hic maxime Aristotelis
liber esse putandus
est, hæc dicta
sufficiunt, quid vero
utilitatis habeat, non
ignorabit qui sciet
qua in oratione
veritas constet et
falsitas. in sola
enim hæc enuntiativa
oratione consistunt, iam
vero quæ dividant
verum falsumque quæve
definite vel quæ
varie et mutabiliter
veritatem falsitatemque partiantur,
quæ iuncta dici
possint, cum separata
valeant prædicari, quæ
separata dicantur, cum
iuncta sint prædicata,
quæ sint negationes
cum modo propositionum, quæ
earum consequentiæ aliaque
plura in ipso
opere considerator poterit
diligenter agnoscere, quorum
magnam experietur utilitatem
qui animum curæ
alicuius investigationis adverterit,
sed nunc ad
ipsius Aristotelis verba
veniamus. Primum
oportet constituer, quid
nomen et quid
verbum, postea quid
est negatio et
adfirmatio et enuntiatio
et oratio. Librum
incohans de quibus
in omni serie
tractaturus sit ante
proposuit, ait enim
prius oportere de
2 sunt om.
F1 5 inuenient
E 8 animæ?
11 sufficiant b
16 patiantur T 16. 17 quæ iuncta
om. F, in
marg. quæ iunctim
F2? 17.18 iuncta
— cum om.
S1 20.21 consideratior SF*T
21 quorum ego:
quarum codices 22 curæ ego:
cura codices 23
ipsius om. F
25 quid Ar. xL: quid
sit codices 26
sit uerbum codices
præter 2/E2 est
om. 2% {eras,
in S) quibus
disputaturus est definire,
hic enim constituere
definire intellegendum est.
determinandum namque est
quid hæc omnia
sint id est
quid nomen sit,
quid verbum et
cetera, quæ elementa
interpretationis esse prædiximus, sed
adfirmatio atque negatio
sub interpretatione sunt,
quare nomen et
verbum adfirmatio- nis
et negationis elementa
esse manifestum est.
his enim conpositis
adfirmatio et negatio
coniunguntur. exsistit hic quædam quæstio,
cur duo tantum
nomen et verbum se
determinare promittat, cum
plures partes orationis
esse videantur, quibus
hoc dicendum est
tantum Aristotelem hoc
libro definisse, quantum
illi ad id
quod instituerat tractare
suffecit, tractat namque
de simplici enuntiativa
oratione, quæ scilicet huiusmodi est,
ut iunctis tantum
verbis et nominibus
conponatur. si quis
enim nomen iungat
et verbum, ut
dicat Socrates ambulat,
simplicem fecit enuntiativam
orationem, enuntiativa namque
oratio est ut
supra memoravi quæ
habet in se
falsi verique designationem, sed
in hoc quod
dicimus Socrates ambulat
aut veritas necesse
est contineatur aut
fal- sitas. hoc
enim si ambulante
Socrate dicitur, verum
est, si non
ambulante, falsum, perficitur
ergo enuntiativa oratio
simplex ex solis
verbis atque nominibus quare superfluum
est quærere, cur
alias quoque quæ
videntur orationis partes
non proposuerit, qui
non totius simpliciter
orationis, sed tantum
simplicis enuntiationis instituit
elementa partiri, quamquam
duæ propriæ partes
orationis esse dicendæ
sint, nomen 30
scilicet atque verbum,
hæc enim per
sese utraque significant,
coniunctiones autem vel præpositiones nihil
omnino nisi cum
aliis iunctæ designant;
participia verbo cognata
sunt, vel quod
a gerundivo modo
2 definire om.
S1 17 et
T 22. 23
est verum F
25 quæ om.
S1 26 proposuit
T 33 uerbis
E2? vero verbo
editio princeps conata
T gerundi FXE
(gerunti? F) I
c. 1. 15
veniant vel quod
tempus propria significatione contineant;
interiectiones vero atque
pronomina nec non
adverbia in nominis
loco ponenda sunt,
idcirco quod aliquid
significant definitum, ubi
nulla est vel
passionis significatio vel
actionis, quod si
casibus horum quædam flecti
non «possunt, nihil
inpedit. sunt enim
quædam nomina quæ
monoptota nominantur, quod
si quis ista
longius et non
proxime petita esse
arbitretur, illud tamen
concedit, quod supra
iam diximus, non
esse æquum calumniari
ei, qui non de omni
oratione, sed de
tantum simplici enuntiatione
proponat, quod tantum
sibi ad definitionem
sumpserit, quantum arbitratus
sit operi instituto
sufficere, quare dicendum
est Aristotelem non omnis
orationis partes hoc opere
velle definire, sed
tantum solius simplicis
enuntiativæ orationis, quæ
sunt scilicet nomen
et verbum, argumentum
autem huius rei
hoc est. postquam
enim proposuit dicens:
primum oportet constituere,
quid sit nomen
et quid verbum,
non statim inquit,
quid sit oratio,
sed mox addidit
et quid sit negatio,
quid adfirmatio, quid
enuntiatio, postremo vero
quid oratio, quod
si de omni
oratione loqueretur, post
nomen et verbum
non de adfirmatione
et negatione et
post hanc de
enuntiatione, sed mox
de oratione dixisset,
nunc vero quoniam
post nominis et verbi
propositionem adfirmationem, negationem
et enuntiationem et
post orationem proposuit,
confitendum est, id
quod ante diximus,
non orationis universalis,
sed simplicis enuntiativæ
orationis, quæ dividitur
in adfirmationem atque
negationem, divisionem partium
facere voluisse, quæ
sunt nomina et
verba, hæc enim
per se ipsa
intellectum simplicem servant,
1. 2 continent
F 7 monopta
S 9 concedat
b 10 calumpniari
E eum? 11
tantum de E2
enuntiatione om. S1
12 sumpserat F
14 omnes SFT
20 et om.
F 26 et
negationem et F
31 uerba et
nomina F „ quæ eadem
dictiones vocantur, sed
non sola dicuntur,
sunt namque dictiones
et aliæ quoque:
orationes vel inperfectæ
vel perfectæ, cuius
plures esse partes
supra iam docui,
inter quas perfectæ
orationis species est
enuntiatio, et hæc
quoque alia simplex,
alia con- posita
est. de simplicis
vero enuntiationis speciebus
inter philosophos commentatoresque certatur,
aiunt enim quidam
adfirmationem atque negationem
enuntiationi ut species
supponi oportere, in
quibus et Porphyrius est:
quidam vero nulla
ratione consentiunt, sed
contendunt adfirmationem et
negationem æquivoca esse
et uno quidem
enuntiationis vocabulo nuncupari,
prædicari autem enuntiationem
ad utrasque ut
nomen æquivocum, non
ut genus univocum;
quorum princeps Alexander
est. quorum contentiones
adponere non videtur
inutile, ac prius
quibus modis adfirmationem
atque negationem non
esse species enuntiationis
Alexander putet dicendum
est, post vero
addam qua Porphyrius
hæc argumentatione
dissolverit. Alexander namque
idcirco dicit non
esse species enuntiationis
adfirmationem et negationem,
quoniam adfirmatio prior
sit. priorem vero
adfirmationem idcirco conatur
ostendere, quod omnis
negatio adfirmationem tollat
ac destruat, quod
si ita 25
est, prior est
adfirmatio quæ subruatur
quam negatio quæ
subruat, in quibus
autem prius aliquid
et posterius est,
illa sub eodem
genere poni non
possunt, ut in
eo titulo prædicamentorum dictum
est qui de his quæ
sunt simul inscribitur.
amplius: negatio omnis, inquit,
divisio est, adfirmatio
conpositio atque coniunctio.
cum enim dico
Socrates vivit, vitam
cum Socrate coniunxi;
cum dico Socrates
non vivit, vitam
a Socrate disiunxi.
divisio igitur quædam
negatio est, coniunctio
adfirmatio. conpositi autem
est con- 1 eædem SF
sola ego: solæ
codices 2 quoq;
ut b 4.
5 est species
F 5 alias
— alias E2
12 unum S1T
22 fit T I c.
1. 17 iunctique
divisio, prior est
igitur coniunctio, quod
est adfirmatio; posterior
vero divisio, quod
est negatio, illud
quoque adicit, quod
omnis per adfirmationem
facta enuntiatio simplicior
sit per negationem
facta enuntiatione, ex
negatione enim particula
negativa 5 si
sublata sit, adfirmatio
sola relinquitur, de
eo enim quod
est Socrates non
vivit si non
particula quæ est
adverbium auferatur, remanet
Socrates vivit. simplicior igitur
adfirmatio est quam
negatio, prius vero
sit necesse est
quod simplicius est.
in quantitate etiam
quod ad quantitatem
minus est prius
est eo quod
ad quantitatem plus
est. omnis vero
oratio quantitas est.
sed cum dico
Socrates ambulat, minor
oratio est quam
cum dico Socrates
non ambulat, quare
si secundum quantitatem
adfirmatio minor est, eam
priorem quoque esse
necesse est. illud
quoque adiunxit adfirmationem
quendam esse habitum,
negationem vero privationem,
sed prior habitus
privatione: adfirmatio igitur
negatione prior est.
et ne singula
persequi laborem, cum
aliis quoque modis demonstraret adfirmationem
negatione esse priorem,
a communi eas
genere separavit, nullas
enim species arbitratur
sub eodem genere
esse posse, in
quibus prius vel
posterius consideretur, sed
Porphyrius ait sese
docuisse species enuntiationis
esse adfirmationem et
negationem in his
commentariis quos in
Theophrastum edidit; hic
vero Alexandri argumentationem tali
ratione dissolvit, ait
enim non oportere
arbitrari, quæcumque quolibet
modo priora essent
aliis, ea sub
eodem genere poni non
posse, sed quæ-
cumque secundum esse
suum atque substantiam
priora vel posteriora sunt,
ea sola sub
eodem genere non
ponuntur, et recte
dicitur, si enim
omne quidquid si
om. S^E1 16
quoq. priorem F
esse om. SF
22 separaret SF,
separabat S2F2, separat
T nullus SF1
24 aliquid prius
GrTE consideratur F
26 iis F2
Boetii comxnent. prius
est cum eo
quod posterius est
sub uno genere
esse non potest,
nec primis substantiis
et secundis commune
genus poterit esse
substantia; quod qui
dicit a recto
ordine rationis exorbitat,
sed quemadmodum quamquam
sint primæ et
secundæ substantiæ, tamen
utraque æqualiter in
subiecto non sunt
et idcirco esse
ipsorum ex eo
pendet, quod in
subiecto non sunt,
atque ideo sub
uno substantiæ genere
conlocantur: ita quoque
quamquam adfirmationes negationibus
in orationis prolatione
priores sint, tamen
ad esse atque
ad naturam propriam
æqualiter enuntiatione participant,
enuntiatio vero est in
qua veritas et
falsitas inveniri potest,
qua in re
et adfirmatio et
negatio æquales sunt, æqualiter enim
et adfirmatio et
negatio veritate et
falsitate participant, quocirca
quoniam ad id quod
sunt adfirmatio et
negatio æqualiter ab
enuntiatione participant, a
communi eas enuntiationis
genere dividi non
oportet, mihi quoque
videtur quod Porphyrii
sit sequenda sententia,
ut adfirmatio et
negatio communi enuntiationis
generi supponantur, longa
namque illa et
multiplicia Alexandri argumenta
soluta sunt, cum
demonstravit non modis
omnibus ea quæ
priora sunt sub
communi genere poni
non posse, sed quæ ad
esse proprium atque
substantiam priora sunt
illa sola sub
communi genere constitui
atque poni non
posse. Syrianus vero,
cui Philoxenus cognomen
est, hoc loco
quærit, cur proponens
prius de negatione,
post de adfirmatione
pronuntiaverit dicens: primum
oportet constituere, quid nomen
et quid verbum,
postea quid est
negatio et adfirmatio.
et primum quidem
nihil proprium dixit,
quoniam in quibus
et ad- 1
posterius] prius S^E1
6 utræque b
8 sint E
13 et post
re om. F
16 ad ego
addidi: om. codices
17 pro a:
et SF 21
supponatur SF multiplica
F ^ 30
quid sit n. codices 31
est om. F
primum S: primo
S2 et ceteri
I c. 1.
19 firmatio potest
et negatio provenire,
prius esse negatio,
postea vero adfirmatio
potest, ut de
Socrate sanus est. potest ei aptari
talis adfirmatio, ut
de eo dicatur
Socrates sanus est;
etiam huiusmodi potest
aptari negatio, ut
de eo dicatur
Socrates sanus non
est. quoniam ergo
in eum adfirmatio
et negatio poterit
evenire, prius evenit
ut sit negatio
quam ut adfirmatio.
ante enim quam
natus esset: qui
enim natus non
erat, nec esse
poterat sanus, liuic
illud adiecit: servare
Aristotelem conversam propositionis
et exsecutionis distributionem. hic
enim prius post
nomen et verbum
de negatione proposuit,
post de adfirmatione,
dehinc de enuntiatione,
postremo vero de
oratione, sed proposita
definiens prius orationem,
post enuntiationem, tertio
adfirmationem, ultimo vero
loco negationem determinavit,
quam hic post
propositionem verbi et
nominis primam locaverat,
ut igitur ordo
servaretur conversus, idcirco
negationem prius ait
esse propositam, qua
in expositione Alexandri
quoque sententia non
discedit, illud quoque
est additum, quod
non esset inutile,
enuntiationem genus adfirmationis
et negationis accipi
oportere, quod quamquam
(ut dictum est)
ad prolationem prior
esset adfirmatio, tamen
ad ipsam enuntiationem
id est veri
falsique vim utrasque
æqualiter sub enuntiatione
ab Aristotele constitui,
id etiam Aristotelem
probare, præmisit enim
primam negationem, secundam
posuit adfirmationem, quæ
res nihil habet
vitii, si ad
ipsam enuntiationem adfirmatio
et negatio ponantur
æquales, quæ enim
natura æquales sunt,
nihil retinent contrarii
indifferenter acceptæ, est
igitur ordo quo
proposuit: primum totius
orationis 1 est.
potest T 2
non est F;
non supra lin.
SE; sanus est
delet S2 3
de eo om.
T1 6 eo?
8 post esset
addit potuit dici
sanus non est
T, in marg.
G2 enim om.
F, eras, in
E 12 et
hinc E 17
primum F ergo
T 23 est
F (in rasura)
26 probare dicit
FTE2S2(m»Mf^.) probare dr
Misit G (suprascr.
dicit Premisit G2)
enim om. E1
31 quod F,
quoq. T 2 5 10
elementum, nomen scilicet
et verbum, post hæc negationem
et adfirmationem, quæ
species enuntiationis sunt,
quorum genus id
est enuntiationem tertiam
nominavit, quartam vero
orationem posuit, quæ
ipsius enuntiationis genus
est. et horum
se omnium definitiones
daturum esse promisit,
quas interim relinquens
atque præteriens et
in posteriorem tractatum
differens illud nunc
addit quæ sint
verba et nomina
aut quid ipsa
significent, quare antequam
ad verba Aristotelis
ipsa veniamus, pauca
communiter de nominibus
atque verbis et
de his quæ
significantur a verbis
ac nominibus disputemus,
sive enim quælibet
interrogatio sit atque
responsio, sive perpetua
cuiuslibet orationis
continuatio atque alterius
auditus et intellegentia, sive
hic quidem doceat
ille vero discat,
tribus his totus
orandi ordo perficitur:
rebus, intellectibus, vocibus,
res enim ab
intellectu concipitur, vox
vero conceptiones animi
intellectusque significat, ipsi
vero intellectus et
concipiunt subiectas res et significantur
a vocibus, cum
igitur tria sint hæc per quæ omnis
oratio conlocutioque perficitur,
res quæ sub-
iectæ sunt, intellectus
qui res concipiant
et rursus a
vocibus significentur, voces
vero quæ intellectus
designent, quartum quoque
quiddam est, quo
voces ipsæ valeant designari,
id autem sunt
litteræ, scriptæ namque
litteræ ipsas significant
voces, quare quattuor
ista sunt, ut
litteræ quidem significent
voces, voces vero
intellectus, intellectus autem
concipiant res, quæ
scilicet habent quandam
non confusam neque fortuitam consequentiam, sed
terminata naturæ suæ
ordinatione constant, res
enim semper comitantur
eum qui ab
ipsis concipitur
intellectum, ipsum vero
intellectum vox sequitur,
sed voces elementa
id est 3
quarum? 17 20 res
vocibus
om. F, in
marg. add. F1?
26 significent SF 30 suæ
naturæ E 31
constat SE comitatur
F2 32 eum
dei. F2 intellectus
F I c. 1. 21
litteræ, rebus enim
ante propositis et
in propria substantia
constitutis intellectus oriuntur,
rerum enim semper
intellectus sunt, quibus
iterum constitutis mox
significatio vocis exoritur,
præter intellectum namque
vox penitus nihil
designat, sed quoniam
voces sunt, idcirco
litteræ, quas vocamus
elementa, repertæ sunt,
quibus vocum qualitas
designetur, ad cognitionem
vero conversim sese
res habet, namque
apud quos eædem
sunt litteræ et
qui eisdem elementis
utuntur, eisdem quoque
nominibus eos ac
verbis id est
vocibus uti necesse
est et qui
vocibus eisdem utuntur,
idem quoque apud
eos intellectus in
animi conceptione versantur,
sed apud quos
idem intellectus sunt,
easdem res eorum
intellectibus subiectas esse
manifestum est. sed
hoc nulla ratione
convertitur, namque apud
quos eædem res
sunt idemque intellectus,
non statim eædem
voces eædemque sunt
litteræ. nam cum ROMANUS,
Græcus ac barbarus
simul videant equum,
habent quoque de
eo eundem intellectum
quod equus sit
et apud eos
eadem res subiecta
est, idem a
re ipsa concipitur
intellectus, sed Græcus
aliter equum vocat,
alia quoque vox
in equi significatione ROMANA
est et barbarus
ab utroque in
equi designatione dissentit,
quocirca diversis quoque
voces proprias elementis
inscribunt, recte igitur
dictum est apud
quos eædem res
idemque intellectus sunt,
non statim apud
eos vel easdem
voces vel eadem
elementa consistere, præcedit
autem res intellectum,
intellectus vero vocem,
vox litteras, sed
hoc converti non
potest, neque enim
si litteræ sint,
mox aliqua ex
his significatio vocis
exsistit, hominibus namque
qui litteras ignorant
nullum nomen quælibet
elementa significant, quippe
quæ nesciunt, nec
si voces 1
positis F 8
habent T 20
sit om. F1
24 designi- ficatione
S1 28 intellectum
res F 31
consistit E sint,
mox intellectus esse
necesse est. plures
enim voces invenies
quæ nihil omnino
significent, nec intellectui
quoque subiecta res
semper est. sunt
enim intellectus sine
re ulla subiecta,
ut quos centauros vel
chimæras poetæ finxerunt,
horum enim sunt
intellectus quibus subiecta
nulla substantia est.
sed si quis
ad naturam redeat
eamque consideret diligenter,
agnoscet cum res
est, eius quoque
esse intellectum: quod
si non apud
homines, certe apud
eum, qui propriæ
divinitate substantiæ in
propria natura ipsius
rei nihil ignorat,
et si est
intellectus, et vox
est; quod si
vox fuerit, eius
quoque sunt litteræ,
quæ si Ignorantur,
nihil ad ipsam
vocis naturam, neque
enim, quasi causa
quædam vocum est
intellectus aut vox
causa litterarum, ut
cum eædem sint
apud aliquos litteræ,
necesse sit eadem
quoque esse nomina:
ita quoque cum eædem sint
vel res vel
intellectus apud aliquos,
mox necesse est
intellectuum ipsorum vel
rerum eadem esse
vocabula, nam cum
eadem sit et res
et intellectus hominis,
apud diversos tamen
homines huiusmodi substantia
aliter et diverso
nomine nuncupatur, quare
voces quoque cum eædem sint,
possunt litteræ esse
diversæ, ut in
hoc nomine quod
est homo: cum
unum sit nomen,
diversis litteris scribi
potest, namque Latinis
litteris scribi potest,
potest etiam Græcis,
potest aliis nunc
primum inventis litterarum
figuris, quare quoniam
apud quos eædem
res sunt, eosdem
intellectus esse necesse
est, apud quos
idem intellectus sunt,
voces eædem non
30 sunt et
apud quos eædem
voces sunt, non
necesse 2 significant
F 3 est
semper E 9
omnes T2 Denm
b 10 snbst.
div. E
13 nataram pertinet
F2 14 quædam
causa F 15
ut enim cum
S2F 16 pro
litteræ: uoces E2
easdem E2 pro
nomina: literas E2
18 mox non
S2FE2 25 namque
— potest in
marg. F 28
res om. F1
29 non eædem
(non supra lin .)
F 30 prius
sunt om. F
I c. 1.
23 est eadem
elementa constitui; dicendum
est res et
intellectus, quoniam apud omnes
idem sunt, esse NATURALITER constitutos, voces vero atque litteras, quoniam
diversis hominum positionibus
permutantur, NON ESSE NATURALITER, SED POSITIONE, concludendum est igitur, quoniam apud quos eadem sunt
elementa, apud eos eædem quoque voces sunt et apud quos eædem voces sunt, idem
sunt intellectus; apud quos autem idem sunt intellectus, apud eosdem res quoque
eædem subiectæ sunt: rursus apud
quos eædem res sunt,
idem quoque sunt
intellectus; apud quos
idem intellectus, non eædem voces;
nec apud quos eædem voces
sunt, eisdem semper
litteris verba ipsa
vel nomina designantur,
sed nos in
supra dictis sententiis
elemento atque littera
promiscue usi sumus,
quæ 15 autem
sit horum distantia
paucis absolvam, littera
est inscriptio atque
figura partis minimæ
vocis articulatæ, elementum
vero sonus ipsius
inscriptionis: ut cum
scribo litteram quæ
est a, formula
ipsa quæ atramento
vel graphio scribitur
littera nominatur, ipse
vero sonus quo
ipsam litteram voce
proferimus dicitur elementum,
quocirca hoc cognito
illud dicendum est,
quod is qui
docet vel qui
continua oratione loquitur
vel qui interrogat,
contrarie se habet
his qui vel
discunt vel audiunt
vel respondent in
his tribus, voce scilicet,
intellectu et re (prætermittantur enim
litteræ propter eos
qui earum sunt
expertes), nam qui
docet et qui
dicit et qui
interrogat a rebus
ad intellectum profecti
per nomina et
verba vim propriæ
actionis exercent atque
officium (rebus enim
subiectis ab his capiunt
intellectus et per
nomina verbaque 0
14 designentur T
doctis S1 17. 18 min. p.
art. voc. E
19 littera T
pro a: id T 20 grafio STE 24. 25 vel qui F1 29
profecti ego : profecto
SFE, profectu T,
profectus S2F2E2 30
exercent ego: exercet
codices atque in
marg. S pronuntiant), qui
vero discit vel
qui audit vel
etiam qui respondet
a nominibus ad
intellectus progressi ad res usque
perveniunt, accipiens enim
is qui discit
vel qui audit
vel qui respondet
docentis vel dicentis
vel interrogantis sermonem,
quid unusquisque illorum
dicat intellegit et
intellegens rerum quoque
scientiam capit et
in ea consistit,
recte igitur dictum
est in voce,
intellectu atque re
contrarie sese habere
eos qui docent,
dicunt, interrogant atque
eos qui discunt,
audiunt et respondent,
cum igitur hæc
sint quattuor, litteræ,
voces, intellectus, res,
proxime quidem et
principaliter litteræ verba
nominaque significant, hæc
vero principaliter quidem
intellectus, secundo vero
loco res quoque
designant, intellectus vero
ipsi nihil aliud
nisi rerum significativi
sunt, antiquiores vero
quorum est Plato,
Aristoteles, Speusippus, Xenocrates
hi inter res
et significationes intellectuum
medios sensus ponunt
in sensibilibus rebus
vel imaginationes quasdam,
in quibus intellectus
ipsius origo consistat,
et nunc quidem
quid de hac
re Stoici dicant
prætermittendum est. hoc
autem ex his
omnibus solum cognosci
oportet, quod ea quæ sunt
in litteris eam
significent orationem quæ
in voce consistit
et ea quæ
est vocis oratio
quod animi atque
intellectus orationem designet,
quæ tacita cogitatione
conficitur, et quod hæc intellectus
oratio subiectas principaliter
res sibi concipiat
ac designet, ex
quibus quattuor duas
quidem Aristoteles esse
NATURALITER dicit, res et
animi conceptiones, id
est eam quæ
fit in intellectibus
orationem, idcirco 30
quod apud omnes
eædem atque inmutabiles
sint; 6 et
om. S1 12
uerba et nomina
S2F, nomina et
uerba (in ras .)
E 12 — 13 hæc —
designant in marg.
E 14 significationes F
16 //usippus S,
siue usippus S2FT
19 nunc om.
SFT 20 dicunt
SF 23 et
quod S2FE2 est
om. S1 uocis
est F 24
quod dei. S2,
om. FE 29 intellectus S1
I c. 1.
25 duas vero
NON NATURALITER, SED POSITIONE constitui, quæ sunt scilicet verba nomina
et litteræ, quas idcirco NATURALITER fixas esse non dicit, quod ut supra demonstratum est non eisdem
vocibus omnes aut
isdem utantur elementis,
atque hoc est
quod ait: Sunt ergo
ea quæ sunt in voce earum quæ
sunt in anima passionum notæ et ea quæ scribuntur
eorum quæ sunt
in voce, et
quemadmodum nec litteræ
omnibus eædem, sic
nec voces eædem,
quorum autem hæc
primorum notæ, eædem
omnibus passiones animæ
et quorum hæ
similitudines, res etiam
eædem, de his
quidem dictum est
in his quæ
sunt dicta de
anima, alterius est
enim negotii. Cum igitur prius
posuisset nomen et
verbum et quæcumque
secutus est postea
se definire promisisset,
hæc interim prætermittens
de passionibus animæ
deque earum notis,
quæ sunt scilicet
voces, pauca præmittit,
sed cur hoc
ita interposuerit, plurimi
commentatores causas reddere
neglexerunt, sed a
tribus quantum adhuc
sciam ratio huius
interpositionis explicita est.
quorum Hermini quidem
a rerum veritate
longe disiuncta est.
ait enim idcirco
Aristotelen de notis
animæ passionum interposuisse
sermonem, ut utilitatem
propositi operis inculcaret,
disputaturus enim de vocibus,
quæ sunt notæ
animæ passionum, recte
de his quædam
ante præmisit, nam
cum suæ nullus
animæ passiones ignoret,
notas quoque cum
animæ passionibus non
nescire utilissimum est. neque enim
illæ cognosci possunt
nisi per voces
quæ sunt 30
1 non om. S1 4.5
eisdem FE 10
noces eædem F
Ar.: eædem uoces
ceteri hæ codices
cf. p. 43, 6 12 animæ sunt
codices : sunt om.
Ar. cf. ed. I hæ 27,
he§ X: eædem
ceteri 14 dicta
post anima X
enim om. X1
(enim est X2)
16 definire se
F 20 neglexerunt
h: neglexerant codices
21. 22 explicata
E ( corr . E2) Aristotelem F SECVNDA
EDITIO earum scilicet
notæ. Alexander vero
aliam huius- modi
interpositionis reddidit causam,
quoniam, iquit, verba
et nomina interpretatione simplici
continentur, oratio vero
ex verbis nominibusque
coniuncta est et in
ea iam veritas
aut falsitas invenitur;
sive autem quilibet
sermo sit simplex,
sive iam oratio
coniuncta atque conposita,
ex his quæ
significant momentum sumunt
(in illis enim
prius est eorum
ordo et continentia,
post redundat in
voces): quocirca quo-
10 niam significantium momentum
ex his quæ
signifcantur oritur, idcirco
prius nos de
his quæ voces
ipsæ significant docere
proponit, sed Herminus
hoc loco repudiandus
est. nihil enim
tale quod ad
causam propositæ sententiæ
pertineret explicuit. Ale-
15 x and
er vero strictim
proxima intellegentia prætervectus
tetigit quidem causam,
non tamen principalem
rationem Aristotelicæ propositionis
exsolvit. sedPor- phyrius
ipsam plenius causam
originemque sermonis huius
ante oculos conlocavit,
qui omnem apud
priscos philosophos de
significationis vi contentionem
litemque retexuit, ait
namque dubie apud
antiquorum philosophorum sententias
constitisse quid esset
proprie quod vocibus
significaretur, putabant namque
alii res vocibus
designari earumque vocabula
esse ea quæ sonarent
in vocibus arbitrabantur, alii
vero incorporeas quasdam
naturas meditabantur, quarum
essent significationes quæcumque
vocibus designarentur: Platonis
aliquo modo species
incorporeas æmulati dicentis
hoc ipsum homo
et hoc ipsum
equus non hanc
cuiuslibet subiectam substantiam,
sed illum ipsum
hominem specialem et
illum ipsum equum,
universaliter et incorporaliter co-
2 interprætationis T
6 pro iam:
autem S, om.
F 7 significantur
b 13 ad
in marg. E 20 de
om. F1 21
apud om. E1
22 sententiæ S1
24 eorum/////q; SE,
eorumq; T uocubula
T 25 sonarent
ego: sonauerunt S,
sonauerint S2FE, sonuerint
T 31 equum
significare T I
c. 1. 27
gitantes incorporales quasdam
naturas constituebant, quas
ad significandum primas
venire putabant et
cum aliis item
rebus in significationibus posse
coniungi, ut ex his aliqua
enuntiatio vel oratio
conficeretur, alii vero
sensus, alii imaginationes
significari vocibus arbitrabantur. cum
igitur ista esset
contentio apud superiores
et hæc usque
ad Aristotelis pervenisset
ætatem, necesse fuit
qui nomen et
verbum significativa esset
definiturus prædiceret quorum
ista designativa sint.
Aristoteles enim nominibus
et verbis res
subiectas significari non
putat, nec vero
sensus vel etiam
imaginationes, sensuum quidem
non esse significativas voces
nomina et verba
in opere de
iustitia sic declarat
dicens cpvdeL yaQ
ev&vg diriQ^rai tcc
rs votf- { Lata
nal ta aiGfrri [luta, quod
interpretari Latine potest
hoc modo: NATURA
enimdivisa sunt intellectus
et sensus, differre
igitur aliquid arbitratur
sensum atque intellectum,
sed qui passiones
animæ a vocibus
significari dicit, is
non de sensibus
loquitur, sensus enim
corporis passiones sunt,
si igitur ita
dixisset passionescorporis a
vocibus significari, tunc
merito sensus intellegeremus, sed
quoniam passiones animæ
nomina 'et verba
significare proposuit, non
sensus sed intellectus
eum dicere putandum
est. sed quoniam imaginatio
quoque res animæ
est, dubitaverit aliquis
ne forte passiones
animæ imagi- 14
Ar. fragm. coli.
VRose 76 2
per quas se
F2 9 designativa
b: designificatiua codices
14 dirjQ7]Tcu ego
(cf. Ar. 1162,22
eth. Nic. VIII,
14: sv&vs yocQ
di7iQi]Tcu tu %Qya
v.ul S6TLV sxsQu
uvSqos Y.ui yv-
vaixog): anhphtai SGNJTE;
verba Græca om.
F (rsEl FAP
EY& et alia
in marg. F2),
dicens hic deest
grecum quod interpretari
B 15 AIZTHMATA
EN Latine om.
F 16 potes
VRose statim ego
add.: om. codices
diuersa E2 est
N 19 a om. S*F
23 designificare F
26 animæ om.
F 5 10
15 20 25 nationes,
qnas Græci (pavraCiag
nominant, dicat, sed hæc in
libris de anima
verissime diligentissimeque separavit
dicens etircv de
cpavraoCa eteqov epaOeog
nal unoepaGeag' Gvintloxr}
yaQ vorj[icctav etirlv
ro ccArjfreg 5
xcd ro tyevdog.
rd de tcqcotcc
vocata t C dioCcei
rov [. irj cpavrccANTAZMsl codices
pro rj: N
codices 7 interpretatur
EN 10 aliquid
S2F 13. 14 demonstret
T, corr. T2 19 quis
F 25 idem (
pro id
est) T2 26
pro qui: quid
S, quod S2F
I c. 1.
29 ginatio quædam
primæ figuræ sunt,
supra quas velut
fundamento quodam superveniens
intellegentia nitatur, nam
sicut pictores solent
designare lineatim corpus
atque substernere ubi
coloribus cuiuslibet exprimant
vultum, sic sensus
atque imaginatio naturaliter
in animæ perceptione
substernitur, nam cum
res aliqua sub
sensum vel sub
cogitationem cadit, prius
eius quædam necesse
est imaginatio nascatur,
post vero plenior
superveniat intellectus cunctas
eius explicans partes
quæ confuse fuerant
imaginatione præsumptæ.
quocirca inperfectum quiddam
est imaginatio, nomina
vero et verba
non curta quædam,
sed perfecta significant.
quare recta Aristotelis
sententia est: quæcumque
in verbis nominibusque
versantur, ea neque
sensus neque imaginationes, sed
solam significare intellectuum
qualitatem, unde illud
quoque ab Aristotele
fluentes Peripatetici rectissime
posuerunt tres esse
orationes, unam quæ
scribi possit elementis,
alteram quæ voce
proferri, tertiam quæ
cogitatione conecti unamque
intellectibus, alteram voce,
tertiam litteris contineri,
quocirca quoniam id
quod significaretur a
vocibus intellectus esse
Aristoteles putabat, nomina
vero et verba
significativa esse in
eorum erat definitionibus positurus,
recte quorum essent
significativa prædixit erroremque lectoris ex
multiplici veterum lite
venientem sententiæ suæ
manifestatione conpescuit. atque
hoc modo nihil in eo deprehenditur esse
superfluum, nihil ab
ordinis continuatione se-
iunctum. quærit vero
Porphyrius, cur ita
dixerit: sunt ergo ea quæ sunt in voce, et non sic: sunt si quod
S^1 7 ait. sub om. F
enim (pro eius)
E 10 confuse
b: confusæ SF,
confusa TE in
im. S2, in
yma- ginationem F præsumpta T
15 imaginationis SFE1?
18 sit ( pro
possit) S1 19
cogitationem SFE 20
conecti ego : conectit
codices, connectitur b
21 teneri F,
corr. F2 22
esse om. T1
28 ad T
igitur voces; et
rursus cur ita
et ea quæ
scribuntur et non
dixerit: et litteræ,
quod resolvit hoc
modo, dictum est
tres esse apud
Peripateticos orationes, unam
quæ litteris scriberetur,
aliam quæ proferretur
in voce, tertiam
quæ coniungeretur in
animo, quod si
tres orationes sunt,
partes quoque orationis
esse triplices nulla
dubitatio est. quare
quoniam verbum et
nomen principaliter orationis
partes sunt, erunt
alia verba et
nomina quæ scribantur,
alia quæ 10
dicantur, alia quæ
tacita mente tractentur,
ergo quoniam proposuit
dicens: primum oportet
constituere, quid nomen
et quid verbum,
triplex autem nominum
natura est atque
verborum, de quibus
potissimum proposuerit et quæ definire
velit ostendit, et
quoniam de his
nominibus loquitur ac
verbis, quæ voce
proferuntur, idem ipsum
planius explicans ait:
sunt ergo ea quæ sunt
in voce earum
quæ sunt in
anima passionum notæ
et ea quæ
scribuntur eorum quæ
sunt in voce,
velut si diceret:
ea verba et
nomina quæ in
vocali oratione proferuntur
animæ passiones denuntiant,
illa autem rursus
verba et nomina
quæ scribuntur eorum
verborum nominumque SIGNIFICANTIÆ præsunt
quæ voce proferuntur,
nam sicut vocalis
orationis verba et
nomina CONCEPTIONES [not passions] animi
intellectusque significant, ita
quoque verba et
nomina illa quæ
in solis litterarum
formulis iacent ijjorum
verborum et nominum
significativa sunt quæ
loquimur, id est quæ per
vocem sonamus, nam
quod ait: sunt
ergo ea quæ
sunt in voce,
30 subaudiendum est
verba et nomina,
et rursus cum
dicit: et ea quæ scribuntur,
idem subnectendum rursus
est verba scilicet
vel nomina, et
quod rursus 1
cur om. F1
4. 5 proferetur
F2T 8 post
nomen ras. sex
vel octo litt.
in S 12
quid sit n.
codices 17 ergo
om. SF 21
uerba rursus F
24 uerba orationis
F 30. 31
cum dicit rursus
F 32 vel]
et b I
c. 1. 31
adiecit: eorum quæ
sunt in voce,
addendum eorum nomimum
atque verborum quæ
profert atque explicat
vocalis oratio, quod
si nihil deesset
omnino, ita foret
totius plenitudo sententiæ:
sunt ergo ea
verba et nomina
quæ sunt in
voce earum quæ
sunt in anima
passionum notæ et
ea verba et
nomina quæ scribuntur
eorum verborum et
nominum quæ sunt
in voce, quod
communiter intellegendum est,
licet ea quæ
subiunximus deesse videantur,
quare non est
disiuncta sententia, sed
primæ propositioni continua.
nam cum quid
sit verbum, quid
nomen definire constituit,
cum nominis et verbi NATURA sit
multiplex, de quo verbo et nomine
tractare vellet clara significatione distinxit, incipiens igitur ab his
nominibus ac verbis quæ in voce sunt, quorum essent significativa disseruit,
ait enim hæc passiones animæ designare. illud quoque adiecit quibus ipsa verba
et nomina quæ in voce sunt designentur, his scilicet quæ litterarum formulis
exprimuntur, SED QUONIAM NON OMNIS VOX SIGNIFICATIVA EST, VERBA VERO VEL NOMINA
NUMQUAM SIGNIFICATIONIBUS VACANT QUONIAMQUE NON OMNIS VOX QUÆ SIGNIFICAT QUÆDAM
*POSITIONE* DESIGNAT, SED *QUÆDAM NATURALITER*, UT LACRIMÆ, GEMITUS ATQUE MÆROR
– ANIMALIUM QUOQUE CETERORUM QUÆDAM *VOCES NATURALITER ALIQUID OSTENTANT* UT EX
CANUM LATRATIBUS IRACUNDIA EORUMQUE ALIA QUADAM VOCEM BLANDIMENDA *MONSTRANTUR
--verba autem et nomina positione significant neque solum sunt verba et nomina
voces, sed voces significativæ nec solum significativæ, sed etiam QUÆ POSITIONE
DESIGNENT ALIQUID, NON NATURA: non
dixit: sunt igitur voces earum quæ sunt in anima passionum notæ, namque
neque omnis vox significativa quæ
sunt in v. nomina in marg. F
15 sunt] sunt designantes TGr
17 et uerba
et T 20
vel] et b 21
vacant ego: uacarent
codices, carent b
que om. S1
22 quadam S2E
24 moerorem S,
merore FE 32
nam FT est et SUNT QUÆDAM *SIGNIFICATIVÆ* QUÆ
*NATURALITER* NON POSITIONE SIGNIFICENT, quod si ita dixisset, nihil ad
proprietatem verborum et nominum pertineret, quocirca noluit communiter
dicere voces, sed dixit tantum ea quæ
sunt in voce, vox enim universale quiddam est, nomina vero et verba partes,
pars autem omnis in toto est. verba ergo
et nomina quoniam sunt intra vocem, recte dictum est ea quæ sunt in voce, velut si diceret: quæ intra vocem continentur
intellectuum designativa sunt, sed hoc simile est ac si ita dixisset: vox certo modo sese habens significat
intellectus. non enim ut dictum est nomen et verbum voces tantum sunt, sicut nummus quoque non
solum æs inpressum
quadam figura est,
ut nummus vocetur,
15 sed etiam
ut alicuius rei
sit pretium: eodem
quoque modo verba
et nomina non
solum voces sunt,
sed POSITÆ AD QUANDAM
INTELLECTUUM SIGNIFICATIONEM, vox enim
quæ nihil designat,
ut est GARALUS, licet eam
grammatici figuram vocis intuentes nomen esse contendant, tamen eam nomen philosophia non putabit,
nisi sit posita ut designare
animi aliquam conceptionem
eoque modo rerum
aliquid possit, etenim
nomen alicuius nomen
esse necesse erit;
sed si vox
aliqua nihil designat,
nullius nomen est;
quare si nullius
est, ne nomen quidem
esse dicetur, atque
ideo huiusmodi vox
id est significativa
non vox tantum,
sed verbum vocatur
aut nomen, quemadmodum
nummus non æs,
sed proprio nomine
nummus, quo ab
alio ære discrepet,
nuncupatur, ergo hæc
Aristotelis sententia 30
qua ait ea quæ sunt
in voce nihil
aliud designat nisi
eam vocem, quæ
non solum vox
sit, sed quæ
cum vox sit
habeat tamen aliquam
proprietatem et 4 dicere
( pro dixit) T
9. 10 des.
s. intell. T,
corr. T2 13
nummos S1 18
garulus F 20
putabit ego: putavit
codices 22 aliq.
rer. F 25
dicitur T ideo
om. F1 27
28 non nummus
in marg. S
30 qua ait
om. F1 I c. 1. aliquam
quodammodo figuram positæ
significationis inpressam. horum
vero id est
verborum et nominum
quæ sunt in
voce aliquo modo
se habente ea
sunt scilicet significativa
quæ scribuntur, ut
hoc quod dictum
est quæ scribuntur
de verbis ac
nominibus dictum quæ sunt
in litteris intellegatur,
potest vero hæc
quoque esse ratio
cur dixerit et quæ scribuntur:
quoniam litteras et
inscriptas figuras et
voces, quæ isdem
significantur formulis, nuncupamus
(ut a et
ipse sonus litteræ
nomen capit et
illa quæ 10
in subiecto ceræ
vocem significans forma
describitur), designare volens,
quibus verbis atque
nominibus ea quæ
in voce sunt
adparerent, non dixit
litteras, quod ad
sonos etiam referri
potuit litterarum, sed
ait quæ scribuntur,
ut ostenderet de his litteris
dicere quæ 15
in scriptione consisterent
id est quarum
figura vel in
cera stilo vel
in membrana calamo
posset effingi, alioquin
illa iam quæ
in sonis sunt
ad ea nomina
referuntur quæ in
voce sunt, quoniam
sonis illis nomina
et verba iunguntur.
sed Porphyrius de
utraque expositione iudicavit
dicens: id quod
ait et quæ
scribuntur non potius
ad litteras, sed
ad verba et
nomina quæ posita
sunt in litterarum
inscriptione referendum, restat
igitur ut illud
quoque addamus, cur
non ita dixerit:
sunt ergo ea quæ sunt
in voce intellectuum notæ,
sed ita earum
quæ sunt in
anima passionum notæ, nam
cum ea quæ
sunt p.30l in
voce res intellectusque significent,
principaliter quidem intellectus,
res vero quas
ipsa intellegentia con-
prehendit secundaria significatione per
intellectuum medietatem,
intellectus ipsi non
sine quibusdam passionibus
sunt, quæ in
animam ex subiectis
veniunt rebus, passus
enim quilibet eius
rei proprietatem, 3
sese E 5
et F 8
scriptas b 15
se de? 15.
16 quæ inscriptione
T 17 menbrana
F 23 proposita
F 24 illas
Tl 26 si
T 31. medietatibus (pro pass.)
T BOEZIO (si veda) comment.
II. 3 quam
intellectu conplectitur, ad
eius enuntiationem designationemque contendit,
cum enim quis
aliquam rem intellegit,
prius imaginatione formam
necesse est intellectæ
rei proprietatemque suscipiat
et fiat vel
5 passio vel
cum passione quadam
intellectus perceptio, hac
vero posita atque
in mentis sedibus
conlocata fit indicandæ
ad alterum passionis
voluntas, cui actus
quidam continuandæ intellegentiæ
protinus ex intimæ
rationis potestate supervenit,
quem scilicet explicat
et 10 effundit
oratio nitens ea quæ primitus
in mente fundata
est passione, sive,
quod est verius,
significatione progressa oratione
progrediente simul et
significantis seorationis motibus
adæquante, fit vero bæc passio
velut figuræ alicuius
inpressio, sed ita ut in
animo 15 fieri
consuevit, aliter namque
naturaliter inest in
re qualibet propria
figura, aliter vero
eius ad animum
forma transfertur, velut
non eodem modo
ceræ vel marmori
vel chartis litteræ
id est vocum
signa mandantur. et
imaginationem Stoici del PORTICO a rebus
in animam 20
translatam loquuntur, sed
cum adiectione semper
dicentes ut in
anima, quocirca cum
omnis animæ passio
rei quædam videatur
esse proprietas, porro
autem designativæ voces
intellectuum principaliter, rerum
dehinc a quibus
intellectus profecti sunt
significatione nitantur, quidquid
est in vocibus
significativum, id animæ
passiones designat, sed hæ
passiones animarum ex rerum similitudine procreantur, videns 4 intellegi T
(corr. T1) intellectio
T 6 Hæc
T 8 quidem
F quem actum
F, actum supra
lin. J, s.
actum supra lin.
S2 oratione ego:
oratio codices; oratio
suprascr. s. explicat
S2, oratio explicat F
significatione dei et
post simul transponit
F2 (E in
marg.: aliter siue
quod est verius
significatione progrediente oratio progressa simul et se signif. or. mot. adæq.)
metibus S1, mentibus
F1 transferetur T,
corr. T2 17 vel om.
F 19 a
om. S1 25
nitatur S^1 27
animorum SFE et
T^1 I c. 1. 35
namque aliquis sphæram
vel quadratum vel
quamlibet aliam rerum
figuram eam in
animi intellegentia quadam
vi ac similitudine
capit, nam qui
sphæram viderit, eius
similitudinem in animo
perpendit et cogitat
atque eius in
animo quandam passus
imaginem id cuius
imaginem patitur agnoscit,
omnis vero imago
rei cuius imago
est similitudinem tenet:
mens igitur cum
intellegit, rerum similitudinem
conprehendit. unde fit
ut, cum duorum
corporum maius unum,
minus alterum contuemur,
a sensu postea
remotis corporibus illa
ipsa corpora cogitantes
illud quoque memoria
servante noverimus sciamusque
quod minus, quod
vero maius corpus
fuisse conspeximus, quod
nullatenus eveniret, nisi
quas semel mens
passa est rerum
similitudines optineret. quare
quoniam passiones animæ
quas intellectus vocavit
rerum quædam similitudines
sunt, idcirco Aristoteles,
cum paulo post
de passionibus animæ
loqueretur, continenti ordine
ad similitudines transitum
fecit, quoniam nihil
differt utrum passiones
diceret an similitudines, eadem
namque res in
anima quidem passio est, rei vero similitudo, et Alexander hunc locum: sunt ergo ea quæ sunt
in voce earum quæ sunt in anima passionum notæ et ea quæ scribuntur eorum quæ
sunt in voce, et quemadmodum nec litteræ omnibus eædem, sic nec voces eædem hoc
modo conatur exponere: proposuit, inquit, ea quæ sunt in voce intellectus animi
designare et hoc alio probat exemplo,
eodem modo enim ea quæ sunt in voce passiones animæ SIGNIFICANT,
quemadmodum ea quæ scribuntur voces DE-SIGNANT, ut id quod ait et ea quæ 1 aliquis
om. T, aliqui
E feram S,
speram S2FT 3
ui§ (pro vi
ac) SF speram
FT 9 duum
S2F2 12 sciamusque
ego: sciemusq. codices
14 mens om.
T 20 pass. animæ
editio princeps 24 inscribuntur
SFE 26 eædem
uoces codices enim
modo F scribuntur ita
intellegamus, tamquam si
diceret: quemadmodum etiam
ea quæ scribuntur
eorum quæ sunt
in voce, ea
vero quæ scribuntur,
inquit Alexander, notas
esse vocum id
est nominum ac
verborum ex hoc
monstravit quod diceret
et quemadmodum nec litteræ omnibus
eædem, sic nec
voces eædem, SIGNVM namque
est vocum ipsarum
significationem litteris contineri,
quod ubi variæ
sunt litteræ et non eadem quæ scribuntur varias quoque voces esse necesse est. hæc
Alexander. Porphyrius vero
quoniam tres proposuit orationes, unam
quæ litteris contineretur,
secundam quæ verbis
ac nominibus personaret,
tertiam quam mentis
evolveret intellectus, id
Aristotelem significare pronuntiat,
15 cum dicit: sunt ergo ea quæ sunt in voce earum quæ
sunt in anima passionum notæ, quod ostenderet si ita dixisset: sunt ergo ea quæ
sunt in voce et verba et nomina animæ passionum
| notæ, et
quoniam monstravit quorum essent voces SIGNIFICATIVÆ, illud quoque
docuisse quibus SIGNIS [“Words are not signs” – H. P. Grice] verba vel nomina
panderentur ideoque addidisse et
ea quæ scribuntur
eorum quæ sunt
in voce, tamquam
si diceret: ea quæ scribuntur
verba et nomina
eorum quæ sunt in
voce verborum et
nominum notæ sunt. nec
disiunctam esse sententiam
nec (ut Alexander
putat) id quod
ait: et ea quæ scribuntur
ita intellegendum, tamquam
si diceret: sicut
ea quæ scribuntur
id est litteræ
illa quæ sunt
in voce significant,
ita ea quæ
sunt in voce
notas esse animæ passionum, primo
quod ad simplicem
sensum nihil addi
oportet, deinde tam
brevis ordo tamque
necessaria orationis non
est intercidenda partitio,
tertium vero quoniam,
si similis significatio
est litterarum vo-
5 quo TE1
9 eædem F,
eedem T 13 quæ F
14 aristotelen T
18 prius et
om. TE 20 et b
29 sunt om.
SF 30 primum?
quidem quod b
31 deinde quod
b tamque] tamquam
T esset E2 I
c. 1. 37 cumque, quæ
est vocum et
animæ passionum, oportet
sicut voces diversis
litteris permutantur, ita
quoque passiones animæ
diversis vocibus permutari,
quod non fit.
idem namque intellectus
variatis potest vocibus
significari, sed Alexander
id quod eum
superius sensisse memoravi
boc probare nititur
argumento, ait enim
etiam in hoc
quoque similem esse
significationem litterarum ac
vocum, quoniam sicut
litteræ non naturaliter
voces, sed positione
significant, ita quoque
voces non naturaliter
intellectus animi, sed
aliqua positione designant, sed
qui prius recepit,
ut id quod
Aristoteles ait: et
ea quæ scribuntur
ita dictum esset,
tamquam si diceret:
sicut ea quæ
scribuntur, quidquid ad
hanc sententiam videtur
adiungere, æqualiter non
dubitatur errare, quocirca
nostro iudicio qui
rectius tenere volent
Porphyrii se sententiis adplicabunt. Aspasius quoque
secundæ sententiæ Alexandri,
quam supra posuimus,
valde consentit, qui
a nobis in
eodem quo Alexander
errore culpabitur. Aristoteles
vero duobus modis
esse has notas
putat litterarum, vocum
passionumque animæ constitutas:
uno quidem positione,
alio vero naturaliter. atque hoc
est quod ait: et
quemadmodum nec litteræ omnibus eædem, sic nec voces
eædem, nam si
litteræ voces, ipsæ
vero voces intellectus
animi naturaliter designarent,
omnes homines isdem
litteris, isdem etiam
vocibus uterentur, quod
quoniam apud omnes
neque eædem litteræ
neque eædem voces
sunt, constat eas non
esse naturales, sed
hic duplex lectio
est. Alexander enim hoc
modo legi putat oportere: quorum
autem hæc primo-
oporteret E 11 recipit S, corr. S2 quam
Alexander in marg.
S 21 vocum
om. S1 24.
25 eædem v.
codices hisdem S2F2TE hisdem
SF2TE 31 hæ codices rum NOTÆ, eædem
omnibus PASSIONES animæ et
quorum eædem similitudines, res etiam
eædem, volens enim
Aristoteles ea quæ
positione significant ab
bis quæ aliquid DE-SIGNANT NATVRALITER segregare hoc
interposuit: ea quæ POSITIONE
(thesei, not physei – Grice) SIGNIFICANT varia
esse, ea vero
quæ naturaliter apud
omnes eadem, et
incobans quidem a vocibus
ad litteras venit easque
primo non esse
naturaliter significativas demonstrat
dicens: et quemadmodum
nec litteræ omnibus
eædem, sic nec
voces eædem, nam
si idcirco probantur
litteræ non esse
naturaliter significantes, quod
apud alios aliæ
sint ac diversæ,
eodem quoque modo
probabile erit voces
quoque NON NATURALITER
SIGNIFICARE, quoniam singulæ
hominum gentes non eisdem
inter se vocibus
conio quantur. volens vero similitudinem
intellectuum rerumque subiectarum
docere NATVRALITER
constitutam ait: quorum
autem hæc primorum
notæ, eædem omnibus passiones
animæ, quorum, inquit,
voces quæ apud
diver- 20 sas
gentes ipsæ quoque
diversæ sunt SIGNIFICATIONEM retinent, quæ
scilicet sunt animæ
passiones, illæ apud
omnes eædem sunt,
neque enim fieri
potest, ut quod APVD
ROMANOS “homo” intellegitur lapis apud barbaros
intellegatur, eodem quoque
modo de ceteris
25 rebus, ergo
huiusmodi sententia est,
qua dicit ea quæ
voces significent apud omnes hominum
gentes non mutari,
ut ipsæ quidem
voces, sicut supra
monstravit cum dixit
quemadmodum nec litteræ
omnibus eædem, sic
nec voces eædem,
apud 30 plures
diversæ sint, illud
vero quod voces
ipsæ significant apud
omnes homines idem
sit nec ulla
ra- 1 animæ sunt
codices inchoatis T 8
significas S1, signifitivas
T colloquuntur b
ait S, quod
ait TE (quod
dei. E1?) 22
apud om. F,
add. F1 23
qui T 24
modo quoq. F
29 apud ego:
cum apud codices
31 fit F
I c. 1. tione
valeat permutari, qui
sunt scilicet intellectus
rerum, qui quoniam
naturaliter sunt permutari
non possunt, atque
hoc est quod
ait: quorum autem
hæc primorum notæ,
id est voces,
eædem omnibus passiones
animæ, ut demonstraret
voces quidem esse diversas,
quorum autem ipsæ
voces significativæ essent,
quæ sunt scilicet
animæ passiones, easdem
apud omnes esse
nec | ullratione,
quoniam sunt constitutæ
naturaliter, permutari, nec
vero in hoc
constitit, ut de
solis vocibus atque
intellectibus loqueretur, sed quoniam voces atque litteras non esse
naturaliter constitutas per id significavit, quod eas non apud omnes easdem
esse proposuit, RURSUS INTELLECTUS QUOS
ANIMÆ PASSIONES VOCAT PER HOC ESSE NATURALES OSTENDIT, QUOD *APUD OMNES IDEM
SINT, a
quibus id est intellectibus
ad res transitum
fecit, ait enim
quorum hæ similitudines, res
etiam eædem hoc
scilicet sentiens, quod
res quoque naturaliter
apud omnes homines
essent eædem: sicut
ipsæ animæ passiones
quæ ex rebus sumuntur
apud omnes homines
eædem sunt, ita
quoque etiam ipsæ
res quarum similitudines
sunt animæ passiones
eædem apud omnes
sunt, quocirca quoque
naturales sunt, sicut
sunt etiam rerum
similitudines, quæ sunt
animæ passiones. H
er minus vero
huic est expositioni
contrarius. dicit enim
non esse verum eosdem
apud omnes homines
esse intellectus, quorum
voces significativæ sint,
quid enim, inquit,
in æquivocatione dicetur,
ubi unus idemque
vocis modus plura
significat? sed magis
hanc lectionem veram
putat, ut ita
30 sit: quorum
autem hæc primorum
notæ, hæ omnibus
passiones animæ et quorumhæ
similitudines, res etiam hæ: ut demonstratio vi- 4 hæ codices animæ sunt codices quarum b:
quorum codices homines F,
corr. F2 res
quoq. b sunt
F 31 autem
ovi.deatur quorum voces significativæ sint vel quorum passiones animæ
similitudines, et lioc simpliciter accipiendum
est secundum Her minum,
ut ita dicamus:
quorum voces significativæ
sunt, illæ sunt animæ passiones, tamquam
diceret: animæ passiones
sunt, quas significant
voces, et rursus
quorum sunt similitudines
ea quæ intellectibus
continentur, illæ sunt
res, tamquam si
dixisset: res sunt
quas significant intellectus.
sed Porphyrius de
utrisque acute subtiliterque iudicat et
Alexandri magis sententiam
probat, hoc quod
dicat non debere
dissimulari de multiplici
æquivocationis
significatione, nam et
qui dicit ad
unam quamlibet rem
commodat animum, scilicet
quam intellegens voce declarat,
et unum rursus
intellectum quemlibet is
qui audit exspectat,
quod si, cum
uterque ex uno nomine
res diversas intellegunt,
ille qui nomen æquivocum dixit
designet clarius, quid
illo nomine significare
voluerit, accipit mox
qui audit et
ad unum intellectum
utrique conveniunt, qui
rursus fit unus
apud eosdem illos
apud quos primo diversæ fuerant animæ
passiones propter æquivocationem nominis.
neque enim fieri
potest, ut qui
voces POSITIONE SIGNIFICANTES A NATVRA eo distinxerit
quod easdem apud
omnes esse non
diceret, eas res
quas esse naturaliter proponebat non
eo tales esse
monstraret, quod apud
omnes easdem esse
contenderet, quocirca Alexander
vel propria sententia vel
Porphyrii auctoritate probandus est. sed
quoniam ita dixit Aristoteles: quorum autem hæc primorum notæ, eædem omnibus passiones animæ sunt, quærit Ale-
9. 10 suptiliterq. SE 11 hoc dei.
S2, om. F quod F:
quo STEGN, quoque
E2 dicit E2
14 voce eras,
in F utrique? 17 designat T quod T 18 nomen S1 23 distinxerint T quos (suprascr. d) S,
qui (in
marg. quod) T
24 eas] is?
25 demonstraret T
pro porphirii E
29 hæ codices
I c. 1.
x and er:
si rerum nomina
sunt, quid causæ
est ut primorum
intellectuum notas esse
voces diceret Aristoteles?
rei enim ponitur
nome, ut cum
dicimus “homo” SIGNIFICAMUS
(ROMANI) quidem intellectum, rei tamen nomen est id est animalis rationalis
mortalis, cur ergo non primarum magis rerum notæ sint voces quibus ponuntur
potius quam intellectuum? sed fortasse quidem ob hoc dictum est, inquit, quod licet voces
rerum nomina sint, tamen non idcirco utimur vocibus, ut res significemus, sed
ut eas quæ ex rebus nobis io innatæ sunt animæ passiones, quocirca propter
quorum significantiam voces ipsæ proferuntur, recte eorum primorum esse dixit
notas, in hoc vero Aspasius permolestus est. ait enim: qui fieri
potest, ut eædem
apud omnes passiones
animæ sint, cum
tam diversa sententia
de iusto ac
bono sit? arbitratur
Aristotelem passiones animæ
non de rebus
incorporalibus, sed de
his tantum quæ
sensibus capi possunt
passiones animæ dixisse,
quod perfalsum est.
neque enim umquam
intellexisse dicetur, qui
fallitur, et fortasse
quidem passionem animi
habuisse dicetur, quicumque id
quod est bonum non eodem modo quo est, sed aliter ARBITRATVR, intellexisse vero
non dicitur. Aristoteles autem cum de similitudine loquitur, de intellectu
pronuntiat, neque enim fieri potest, ut qui quod bonum est malum esse
arbitratur boni similitudinem mente conceperit, neque enim intellexit rem
subiectam. sed quæ sunt iusta ac bona ad positionem omnia naturamve referuntur,
et si de
iusto ac bono ita loquitur, ut de eo
quod civile ius
aut civilis in-
1 quod T
causa S F
2 dixerit b
pro tamen: quidem
T 6 sunt
E, corr. E2 8 quidem
post dictum F
10 nris STE
(corr. S2E2) 11
sint S præter
T 13esse prim. F 22 id S,
cum id
TE (cum dei. E2) quidem
(pro quod est)
T quo S2F2:
quod SFTE 23
dicetur? si om.
S1 ita om. F1 iuria dicitur, recte
non eædem sunt
passiones animæ, quoniam
civile ius et
civile bonum positione
est, non natura,
naturale vero bonum
atque iustum apud
omnes gentes idem
est. et de
deo quoque idem:
cuius quamvis diversa cultura
sit, idem tamen
cuiusdam eminentissimæ naturæ
est intellectus, quare
repetendum breviter a
principio est. partibus
enim ad orationem
usque pervenit: nam
quod se prius
quid esset verbum,
quid nomen constituere
dixit, hæ minimaæ orationis partes
sunt; quod vero
adfirmationem et negationem,
iam de conposita
ex verbis et nominibus oratione
loquitur, quæ eædem
rursus partes sunt
enuntiationis, et post
enuntiationis propositionem de
oratione loqui proposuit,
cuius ipsa quoque
enuntiatio, pars est.
et quoniam ut
dictum est triplex
est oratio, quæ
in litteris, quæ
in voce, quæ
in intellectibus est,
qui verbum et
nomen definiturus esset
eaque significativa positurus,
dicit prius quorum
significativa sint ipsa
verba et nomina
et incohat quidem
ab his nominibus
et verbis quæ
sunt in voce
dicens: sunt ergo
ea quæ sunt
in voce et
demonstrat quorum sint SIGNIFICATIVA adiciens earum
quæ sunt in
anima passionum notæ.
rursus nominum ipsorum verborumque
quæ in voce
sunt ea verba
et nomina quæ
essent in litteris
constituta significativa esse
declarat dicens et
ea quæ scribuntur
eorum quæ sunt
in voce, et
quoniam quattuor ista
quædam sunt: litteræ,
voces, intellectus, res,
quorum litteræ et
voces positione sunt,
natura vero res
atque intellectus,
demonstravit voces non
esse naturaliter, sed
positione per hoc
quod ait non
easdem esse apud
omnes, sed varias,
ut est et
quemadmodum nec 1
non recte F
7 a ego
add.: om. codices
8 quod om. T
15. 16
or. est F
16 postrem. in
om. FE 18
ea quæ FE
positurus b: positurus
est codices 22 sign.
sint F eorum
SFE 30 litteras
et voces? 31
per om. SFT
quod b: quo///F,
quo STE I c.
1. litteræ omnibus
eædem, sic nec
voces eædem. ut
vero demonstraret intellectus
et res esse
naturaliter, ait apud
omnes eosdem esse
intellectus, quorum essent
voces significativæ, et
rursus apud omnes easdem
esse res, quarum
similitudines essent animæ
passiones, ut est
quorum autem hæc
primorum notæ, scilicet
quæ sunt in
voce, eædem omnibus
passiones animæ et
quorum hæ similitudines, res
etiam eædem, passiones
autem animæ dixit,
quoniam alias diligenter
ostensum est omnem
vocem animalis aut
ex passione animæ
aut propter passionem
proferri, similitudinem vero
passionem animæ vocavit,
quod secundum Aristotelem
nihil aliud intellegere
nisi cuiuslibet subiectæ
rei proprietatem atque
imaginationem in animæ
ipsius reputatione suscipere, de quibus
animæ passionibus in libris se de anima commemorat diligentius disputasse, sed
quoniam demonstratum est, quoniam
et verba et nomina et oratio intellectuum principaliter
significativa sunt, quidquid
est in voce
significationis ab intellectibus
venit, quare prius
paululum de intellectibus
perspiciendum ei qui
recte aliquid de
vocibus disputabit, ergo
quod supra passiones
animæ et similitudines
vocavit, idem nunc
apertius intellectum vocat
dicens: Est autem,
quemadmodum in anima
aliquotiens quidem intellectus
sine vero vel
falso, aliquotiens autem
cui iam necesse
est horum alterum
inesse, sic etiam
in voce; circa
conpositionem enim et
divisionem est falsitas
veri- 1. 2 eædem
v. codices 2
et] ut intellectus esse quarum b: quorum codices 6 hæc
E Ar. : hæ Eet ceteri 8 animæ sunt
codices aliud S:
aliud est est
aliud TE ait. quon.] quomodo
E 22 perspiciendum
S: persp. est S2FTE
de om. SF
23 disputauit S^F1TE
28 cui Ar.
<p cf. ed.
I: cum codices
30 autem falsitas veritasq; veritas fals. ceteri SECVNDA EDITIO tasque. nomina
igitur ipsa et verba consimilia
sunt sine conpositione
vel divisione intellectui, ut homo vel album, quando non
additur aliquid; neque
enim adhuc verum
aut falsum est.
huius autem signum
hoc est: hircocervus
enim significat aliquid, sed nondum verum vel falsum, si non
vel esse vel non esse addatur, vel
simpliciter vel secundum
tempus. Pietro Caramello. Keywords: interpretare, peryermeneias, Aquino,
blityri – blythyri SG blithyri NT blythiri EF? (in fine suprascr. S F)”.
“signatiuis” “significativis” garalus garulus F. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramello” –
The Swimming-Pool Library.
No comments:
Post a Comment