Grice e Carlini: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia fascista – scuola
di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I
love Carlini, and Speranza loves him even more,
but then he is Italian! My favourite is his “A brief history of
philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto,
con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il
primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica
universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e
Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come
titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia.
Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una collana edita da Laterza
che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei
licei”. Ad introdurlo nella Laterza è GENTILE, conosciuto qualche anno prima, e
CROCE, all'epoca ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di
filosofia ad uso dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre
per l'alto livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno,
fra cui, oltre al C., anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di
direzione e coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due
saggi su Aristotele (in realtà raccolte aristoteliche da lui curate, commentate
e tradotte) cui fa seguito uno studio su BOVIO che desta l'interesse di non
pochi studiosi e l'approvazione di GENTILE, considerato da C. suo tutore
indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di
assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e
l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.
In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio
pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero
immanentista gentiliano (GENTILE è, fino alla propria scomparsa, suo amico,
oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di
dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un
percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli
strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della
conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello
spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile
appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si
espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni
trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di
Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia.
Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla
anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani,
raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a
ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato
al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed
esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la
metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist.
Naz. di Cultura); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo spirito” (Roma,
Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura); Il problema di Cartesio, Bari,
Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni); “La Fondazione Giovanni
Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le ragioni della fede,
Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” (Bologna, Nicola Zanichelli).
Dizionario biografico degli italiani. l'architrave 4 ala I ai Mi L.
LL SIRIA] PST IR del (5 FILOSOFI
ANTICHI E MEDIEVALI b) A CURA DI G. GENTILE ARISTOTELE
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TIPOGRAFI-EDITORI-L]BRAI 1928 PROPRIETÀ
LETTBRARIA APRILE MCMXXVIII - 79105 A GIOVANNI
GENTILE AMICO E MAESTRO AMATISSIMO NOTA
INTRODUTTIVA 1. — Dubbi su l’autenticità di alcuni libri della Metafisica
aristotelica, e su la sua composizione, furono sollevati sin dai tempi
antichi. Il testo, quale noi oggi abbiamo, corrispon- dente, salvo lievi
differenze, a quello del commento che va sotto il nome di Alessandro
d’Afrodisia, mostra sconnessioni tali da far nascere sùbito i sospetti.
L'occasione è offerta già dal piccolo libro II (I minore,
nell’enumerazione greca). Asclepio (4, 9) notò che l’opera lascia molto a
desiderare per l'ordine della trattazione, e che vi sono passi ripetuti e
parti prese da altri scritti aristotelici; e aggiunse che, secondo
al- cuni, Aristotele aveva affidato ad Eudemo il manoscritto per la
pubblicazione, ma Eudemo non reputò opportuno pubbli- carlo così come si
trovava: il manoscritto subì molti danni col tempo, onde, quando più
tardi alcuni della Scuola ne impresero la pubblicazione, non osando
colmar le lacune di loro testa, attinsero ad altre opere aristoteliche e
armonizza- rono il tutto meglio che poterono. L’autorità di Asclepio non
conta molto, ma quel che dice basta a provare che dubbi si sollevarono
ben presto. Questi non mancano del tutto negli Scolastici, e risorgono
più che mai con gli studi aristotelici nel Rinascimento. Nell’età
moderna, dopo un tentativo, riuscito vano, di di- mostrare che la
Metafisica è un complesso risultante da libri aristotelici ricordati
nell’indice di Diogene Laerzio (nel quale non si trova menzione della
Metafisica), la questione è stata ripresa, da un secolo in qua, più
criticamente; ma, come VUuI MBTAFISICA spesso avviene,
a un indirizzo rivoluzionario, che ha rifiutati come spuri alcuni libri o
parti di libri e tentato di dar al resto un ordinamento del tutto
arbitrario, si è opposto l’altro, più cauto, di mantenere e giustificare,
per quanto era possì- bile, il testo nell’ordinamento attuale. A dar
conto di tutto ciò, ci vorrebbe un volume a parte, con dubbio
vantaggio per quel ch’è lo scopo principale della presente
traduzione: l'intelligenza dell’opera: la quale è senza dubbio di
Aristo- tele, anche se redatta in qualche parte su suoi appunti e
ordinata nell’insieme da suoi scolari. Ma non possiamo prescindere da un
critico recente, dallo Jaeger, il quale, dopo di avere, negli Studien zur
Entstehungs- geschichte der Metaphysik des A. (Berlin, 1912), tentato
di sciogliere il testo nelle parti originarie, liberandole da
quelle via via aggiunte in sèguito, ha voluto, nel volume
Aristoteles: Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung
(Berlin, 1923), collegare la storia della costituzione del testo a quella
più generale dello sviluppo del pensiero aristotelico in tutte le sue
opere. A noi conviene, tuttavia, non allontanarci dal nostro scopo, e
però vagliare i risultati, a cui giunge lo Jaeger per la Metafisica in
particolare, soltanto dopo di avere fissata la linea di pensiero che si
svolge in ciascun libro o gruppo di libri. 2. — Cominciamo
dal libro primo ('). Questo primo libro della Metafisica ha une
linea di svolgimento interno e un'unità di concetto benwisibile. Pone
dapprima il concetto del sapere come fondato su l'esperienza e ascendente
per gradi dalla conoscenza sensibile a quella logico-scientifica; poi,
distingue in seno a questa la forma più elevate del sapere, quella
filosofica, ch'è cono- scenza dei principii e cause prime. ° Si
presenta, allora, il problema della causalità come dottrina dei principii
di ogni realtà nel mondo. Dai primi pensamenti della causa- lità come
ricerca dell'elemento o degli elementi primordiali, si passa, Un'esposizione del contenuto (per questo come
per gli altri libri) è data nel Sommario. Qui si dà rilievo alle critica
delle Idee, ch'è la parte più im- portante. NOTA
INTRODUTTIVA r—x sebbene vagamente, al concetto della causalità
come principio efficiente e finale, e alla scoperta della causa
logico-formale, posta, quest'ultima, chiaramente da Platone. L'interesse
della trattazione si concentra naturalmente, ora, su questo punto, ch'è
decisivo, non soltanto per il problema particolare delle varie specie di
causa, ma, ben più, per tutta le concezione aristotelica della realtà.
Della filosofia platonica A. espone prima (nel cap. 6) le origini
sto- riche, la concezione centrale delle idee, la dottrina ultima delle
idee- numeri: e accenna già al punto fondamentale di divergenza dal
suo maestro nel concetto del rapporto tra materia e forma. La critica
si svolge con certa ampiezza nel cap. 9, seguendo nell'insieme
quest'or- dine: a) contro la dottrina generale delle idee; è) contro le
idee-numeri in generale; c) contro la derivazione del geometrico dell’ari tmetico;
d) contro il concetto innatistico dei principii della conoscenza. a) Per
combattere la dottrina delle idee in generale, si parte dal concetto
rimasto nel platonismo delle idee come realtà trascendenti il mondo
sensibile. Le idee, infatti, non sono ancora l’intelligibile ari-
stotelico, e per quanto la dialettica platonica abbia sempre più accen-
nato a considerarle dentro il processo del pensiero pensante il reale,
esse non perdettero mai il carattere di reali posti accanto, e però
fuori, del sensibile. Questa trascendenza restò in seno all'idea stessa,
quando Platone distinse in essa il principio puramente formale (e però
vera- mente ideale) da quello del molteplice, ch'è suo contenuto.
Quindi A. può dire che Platone, per spiegare il mondo sensibile, lo
raddoppia e moltiplica; e che quella spiegazione, in ogni modo, è
puramente formale (detinitoria), non reale, perchè l’idea non è
causalità, attività, principio interno alle cose (reale della stessa realtà
di queste). E anche nella sua formalità non può riuscire a dar ragione
delle cose, perché così il principio dell'unità come quello della
molteplicità, presi nella loro assoluta indeterminazione, non possono
produrre concetti di nulla che valga a intendere il reale nella sua
costituzione effettiva. Col cri- terio dell'unità del molteplice, ad es.,
si dovrebbero ammettere idee di proprietà, di relazioni, ecc., laddove
l’idea vuol essere ragione di ciò che nelle cose è fondamentale, ossia
della sostanza. Ma come per- venirvi senza la distinzione dell'essere
reale in ciò che ha di costitu- tivo ed essenziale da ciò ch'è suo modo
di essere secondario o acci- dentale? b) Contro le idee-numeri A.
fa valere il suo concetto dell'astrat- tezza del numero, e la sua
ripugnanza a identificare il pensare col numerare. Le idee non si possono
trattare aritmeticamente, nè pos- sono esprimere la sostanza delle cose.
Questa è data, invece, nel pro- cesso logico-reale dei generi e delle
specie, con le determinazioni peculiari che l’esperienza ci scopre nel
mondo della natura. c) Dal grande-piccolo, poi, cercano invano, i
Platonici, di dedurre le determinazioni delle figure geometriche. Non
soltanto passano in- X METAFISICA debitamente da ciò
ch'è inesteso (il numero) all’esteso (figura), ma anche, in questo,
tentano invano di spiegare il passaggio dal concetto di punto a quello di
linea, da questo a quello di superficie, da questo a quello di solido.
Considerandoli come divisioni del concetto (con metodo definitorio),
dovrebbero ridursi l'uno all’altro, predicarsi l'uno dell’altro: la
geometria verrebbe annullata. Invece, le figure geome- triche si
costituiscono nel processo di determinazione del concetto di spazio, come
svolgimento logico di esso ch'è insieme la sua gene- razione reale.
d) Tutte queste idee e idee-numeri, poi, in quanto son altra cosa
dalle sensazioni, l'anima le dovrebbe portar in sè, come una scienze
innata, e dimenticata. Ma come, allora, distinguerle e applicarle nei
casi* particolari? E se, avendole dimenticate, non ne possediamo in
principio attualmente nessuna, come dar origine al sapere? Ci vuole,
invece, un principio attuale in noi, l'intelligenza, dal quale
scaturiscano i principii, immediatamente, di ogni sapere; e ci vuole la
sensazione come punto di partenza di ogni conoscenza fondata su
l’esperienza. Così si ritorna al concetto posto nella prima parte del
libro, e si chiude il cerchio del pensiero intorno al fondamento del
sapere. Nello stesso tempo vien conchiusa l'illustrazione, proposta con
la seconda parte, della definizione della filosofia come scienza dei
principii e delle cause prime. L’indagine storica, che ha servito a
quella illustrazione, ha dato questo risultato: i Fisiologi trascurano
l’incorporeo, non vedon chiaro il processo causale
efficiente-teleologico, ignorano la forma; i Pitagorici confondono il
fisico col matematico, ignorano la causa del movimento, identificando le
cose con la loro definizione si lasciano sfuggire il concetto della
forma; Platone mette in rilievo la forma, ma cerca invano di assorbire in
essa le altre specie di causa- lità. Conchiusione ultime è che nessuno
dei filosofi precedenti vide chiaro nel concetto della causalità; e
tuttavia, pur attraverso le de- ficienze e i barlumi, tutti mirarono a
esso e nessuno accennò ad altre specie di cause da quelle poste. Si che
si può dire che il concetto posto della causalità, nella sua distinzione
e precisa formulazione, risulta storicamente confermato. Su
la data probabile (') della composizione di questo li- bro, v. nota al
cap. 9, $ 2; e per il suo rapporto al lib. XIII, dove è ripetuta quasi
letteralmente la parte riguardante la (1) Poco dopo la morte di
Platone, secondo lo Jaeger (Arist., p. 178), a poco distante dalla
composizione del dialogo regi priogoqplas, nel quale erano tre parti: una
storica, una contenente già la critica delle idee, una terza teologica,
corri- spondenti al contenuto dei libri I e XII della Metafisica. I primi
due capitoli, invece, di questo libro riproducono un motivo del giovanile
Protreptico. La critica delle idee in questo libro forse presuppone anche
il magl l8e6v (v. nota a 9, 2). NOTA INTRODUTTIVA XI
critica delle idee, v. nota, ivi, al cap. 4, $ 4. Anche l’ag- giunta del
$ 11 a questo capitolo del lib. XIII prova che quella parte fu
trasportata dal lib. I nel XIII, e non vice- versa, come pensa il Christ
(v. nota al testo greco, nella sua edizione, in fine al cap. 7).
Più difficile da risolvere è la questione per il cap. 10: v. nota, ivi, al
$ 1. L’ipotesi dello Jaeger è ravvalorata dal fatto che la fine di questo
capitolo distingue due ordini di aporie: le prime, intorno allo stesso
argomento del lib. I, debbono spianare la via alle seconde, e queste
ultime sem- brano dover essere quelle del lib. III. Sì che parrebbe
che la clausola finale del cap. 10 stesse più a posto alla fine del
cap. 7. È vero che il Ross obietta potersi riferire anche le prime aporie
al lib. III, adducendo le parole iniziali del $ 3° del III. 1; ma, da un
lato, resterebbero indeterminati «i pro- blemi ulteriori », a cui A.
accenna; dall’altro, par poco vero- simile che un libro così rieco e ben
ordinato, come questo I, dovesse conchiudersi con l’attuale cap. 10.
Ma c’è un’ipotesi ulteriore dello Jaeger: che, trasportata la
critica delle idee al lib. XIII, A. stesso pensasse più tardi di far
terminare il lib. I col cap. 7. Togliendo, infatti, la clausola finale ($
8), si avrebbe un risultato della tratta- zione che par definitivo ($ 7:
questo potrebbe esser stato aggiunto dopo, proprio a questo scopo). Qui
sorge una que- stione che involge quella dell’origine storica e
dell’ordina- mento delle parti di tutto il libro. I lavori dello
Jaeger, a mio avviso, mettono fuori discussione un punto di ca-
pitale importanza: che la Metatisica non segue il piano di svolgimento di
un’opera propriamente detta: essa non è un «libro », come siam soliti
d'intendere, ma una « serie » di libri, o di parti, delle quali ognuna ha
originariamente una sua propria significazione. Certo, non è una
serie « episodica »: c’è un ordine generale tra le varie parti,
anzi un nesso interiore che fa della Metafisica un’opera organica.
Ma quest’organismo risulta dal movimento complessivo del pensiero, indipendentemente
dall'ordine che vi hanno le va- rie parti, e quest'ordine, in quanto mira
a un disegno o XII ’ MBTAFISICA piano costitutivo
dell’opera intera, è dubbio che si possa attribuire (come pur lo Jaeger
sostiene, non ostante la sua tesi accennata) ad A. stesso. Prendiamo
questo libro I: ci sa- rebbe di questo la prima redazione, ch’ è
l’attuale con l’esclu- sione dell’ultimo capitolo; una seconda redazione,
rielabo- rando il cap. 7 come dianzi s’è detto, avrebbe mirato a
unire il lib. I al III; in una terza redazione A. avrebbe pensato
di far terminare il libro al cap. 7. Ora, a me pare che la prima
ipotesi abbia molta probabilità, minore la seconda, presso che nessuna la
terza. Perchè sopprimere tutto il cap. 8 e la parte del 9 non compresa
nel XIII? E, soprattutto, perchè guastare un libro che, integrando
l’esposizione storica con la parte po- lemica, si presenta di così
unitaria fattura come poche altre parti della Metafisica? E con la terza
redazione non si sarebbe perduto il vantaggio della seconda ? Quanto a
questa seconda, poi, non va trascurato che, in ogni modo, il nesso tra il
libro I e il III resta più esterno che interno: non si può dire che
que- sto rappresenti uno sviluppo di quello stesso, o, insomma, che
l’uno presupponga l’altro necessariamente. Lasciando, dunque, in
disparte le questioni d’incerta so- luzione, possiamo tener fermo questo:
che il libro I racco- glie un corso a sè (A6yoc, péd0osoc) di lezioni
(conversazioni e discussioni), tenuto da A. intorno al concetto della
causalità nella formulazione già data in precedenti scritti di
Fisica (cfr. 3, 6), allo scopo di dimostrare ch’essa va concepita
se- condo la quadruplice distinzione immanente a quel concetto, di
cui il valore è insieme ontologico e gnoseologico (episte- mologico).
Quest’immanenza, che tuttavia non accenna an- cora a risolvere le
distinzioni in un principio unitario, è ciò che dà il tono più
aristotelico alla trattazione: chè la di- stinzione, per sè, delle
quattro specie di causa egli la derivava dalla scuola di Platone. :
3. — Lo sviluppo del pensiero nel libro II è il seguente.
Il capitolo primo pone il concetto della filosofia come scienza della
verità, ed illustra poi la definizione a parte subiecti e a parte
obiecti. La difficoltà di vedere con chiarezza la verità dipende dalla
debolezza NOTA INTRODUTTIVA XIILT del nostro occhio
mentale: di qui }a necessità di esercitare ed edu- care la nostra facoltà
intellettiva. A questo può giovare molto il con- tributo de’ pensieri
altrui intorno alle verità. (In questo modo, vien disperso il germe di
misticismo, o di scetticismo, e di aguosticismo, ch’era nel pensiero
precedente: la difficoltà non è insuperabile, come, invece, è quella dei
pipistrelli di fissare la luce del giorno). . La verità, oggettivamente,
è l'essere stesso delle cose. Per cui l'essere ch'è più essere, è anche
il più vero: è causa prima dell’essere e della verità di tutto il resto.
Tale è l’essere eterno, e i suoi prin- cipii Son principii di tutto.
Dopo ciò, si attenderebbe di passare alla ricerca dei principii
del- l'essere eterno, di ciò che non appartiene al mondo corruttibile.
In- vece, il pensiero si abbassa nel capitolo secondo al mon do del
divenire in generale per affermare la necessità di porre un principio,
ansi dei principii o cause prime del suo essere e del nostro conoscerlo.
Non ostante la oscurità e incertezza di singoli punti, la tesi
svolta in questo secondo capitolo, dell'’impossibilità di un processo
all’ infi- nito, risulta abbastanza chiara. Ci ha de essere, anzitutto,
un punto di partenza e un punto di arrivo: un processo chiuso, in somma,
da entrambi i lati. Chi pone, infatti, una questione di causa-effetto,
co- mincia di necessità de un punto, de un fatto, ch'è il primo,
poniamo l'attuale, dal quale procederà, rimontando indietro, alle cause
che l'hanno prodotto. Se, poi, vien concesso un punto di partenza,
l'acqua o l'aria, ad es., per spiegar l'origine causale delle cose, ci
vorrà ne- cessariamente un punto d’arrivo: bisognerà pur arrivare al
mondo attuale delle cose. L'oggetto (il mondo, la cosa, la realtà
attuale) è, così, determinato ne' suoi limiti estremi. Qui,
allora, si pone un problema più interno a esso: il concetto del suo
divenire in quanto processo immanente. A. presenta il suo concetto del
divenire come svolgimento graduale, irriversibile. E passa, quindi, alla
considerazione della necessità di un principio finale e di un principio
formale. (La dimostrazione precedente dava rilievo spe- cialmente alle
causa materiale e a quella efficiente, in riguardo alle quali si esercita
in primo luogo l’aporia del processo all'infinito). In fine: son queste
tutte le possibili specie di cause? Le domanda in A. suona così: possono
esser infinite le specie di causalità? Egli non affronta veramente il
problema, e si limita a constatare che, se fossero infinite, noi non
arriveremmo mai a conoscer veramente una cose. Il concetto di tempo, qui
introdotto, non aveva che vedere. Se mei, un altro: che le molte cause
debbeno formare una causalità to- tale, affinchè possiamo affermere di
conoscere una cosa. L'ultimo capitolo comprove l'indole proemiale del
libro. In esso si chiarisce il metodo di trattazione ed esposizione
proprio delle scienze in riguardo al modo di pensare comune, e la
differenza tra il proce- dere matematico e quello delle scienze fisiche.
Di quello filosofico non X1V MBTAFISICA si parla. Ma,
mentre nel cap. 1 la metafisica par aver in comune con la fisica lo
studio della realtà delle cose, qui il suo oggetto (e però anche il suo
metodo) par più vicino a quello della matematica. Per
l’autenticità, v. nota (1) al libro: ne sarebbe redat- tore Pasicle, di
Rodi; per la sua tardiva inserzione in que- sto punto, v. nota a IlI. 1,
3. Ma anche il tono generale è ancora quello del libro precedente: cfr.
il cap. 1 col 2 del], e la susseguente trattazione della causalità in
entrambi. La sconnessione tra il cap. 1 e il 2 (cfr. nota a 2, 1) si
può spiegare con l'interruzione degli appunti presi da Pasicle.
4. — La serie di questioni, di cui risulta composto il li- bro
III, comunque si vogliano dividere e numerare, ha un ordine interno di
pensiero, e comprende veramente i pro- blemi capitali della metafisica
aristotelica ? Poichè la filosofia è la scienza delle cause prime,
è giusto cominciare dall’aporia prima: se, infatti, le cause son di più
specie, l’esistenza di quella scienza par compromessa. Quando A. avrà
definito come oggetto della metafisica l’essere in quanto essere (IV. 1 e
VI. 1), serà chiaro che quelle cause debbono esser studiate da essa in
quanto cau- selità dell'essere stesso. Questo concetto porta a una superiorità
della metafisic a su le altre scienze: a una scienza dei principii di
tutte le scienze. Questi son di tre specie: principii logici, o assiomi;
il genere delle sostanze o cose prese in considerazione; e le proprietà,
accidenti o attributi che vengon dimostrati di esse. Bisognerà che la
metafisica sia scienza di questi principii. Di qui le aporie 2-4, nelle
quali A. tace: a) che c’è un altro tipo di scienza oltre quello
apodittico; è) che dei principii logici, o assiomi, la metafisica deve
considerare il principio primo, quello ch’ è il fondamento degli altri di
ciascuna scienza; c) che la sostanza studiata dalla metafisica è, diciam
così, l'a priori o tra- scendentale delle sostanze particolari, sì che
una scienza di essa non è, per questo, una scienza (unica) delle sostanze
(tutte); d) e che gli accidenti, di cui tratta la metafisica, son quelli
soltanto che apper- tengono al concetto dell'essere in quanto tale.
Il predetto modo di considerare la scienza e i suoi principii
riceve in concreto il suo significato, per A., dall'opposizione in cui si
pone al concetto platonico del sapere. Per Platone e per i Platonici
la scienza non è della realtà sensibile, ma delle sdee e degli
intermedi: essi, staccando l’oggetto del sapere dal sapere stesso, lo
ipostatizzano e moltiplicano in entità ideali o matematiche. Non vedono
che la realtà studiata dalle scienze è la stessa, la realtà naturale:
solo che è con- NOTA INTRODUTTIVA xv siderata da
punti di vista diversi. Soltanto su la base di questa di- versità di
punti di vista è lecito porre una diversità anche dei loro oggetti:
dell'oggetto della fisica da quello della matematica, e di quello proprio
della metafisica. — La forma aporematica in questa questione (ò3) è più
tenue: prevale l'opinione contraria all’esistenza delle idee e
degl’intermedi. Ma è pur vero che l'oggetto della scienza fisica solo in
generale si può dire ch'è la medesima realtà naturale: in concreto ci
sono tante scienze quanti sono i generi di essa. Sì che, pare, i suoi
principii (che la metafisica deve studiare) debbono essere questi generi
resli, non quelli dell'essere nella generalità del concetto. La tesi vien
ri- badita nella questione 6a con la considerazione delle superiorità
del principio definitorio su quello meramente materiale delle cose. Ma
il vero sviluppo della tesi è nelle questioni che seguono. In primo
luogo, nélla 7a: se si prendono come principii i generi, come
determinarne il numero? Si ricorrerà all'’Uno e all'Essere come principio
di tutti? Ma l'Uno e l'Essere non son genere, e per la loro
indeterminatezza non possono in concreto spiegarne nessuno. Senza dire
che entro l’imbito dello sviluppo di ciascun genere, questo genere stesso
si mol- tiplica indefinitamente passando attraverso le sue varie specie,
sì che, da una parte, non si tratta, in realtà, di un genere unico nel
senso dell'identità, anzi di molti generi; dall'altra, esso non esiste
fuori delle specie in cui si realizza: sì che principii, se mai, sono le
specie o concetti specifici piuttosto che quelli generici, Qui
sorge, allora, une difficoltà: noi, anche ponendo come principii le
specie, riconosciamo che i principii son tali in quanto universali. Ln
specie, anche quella più vicina alla concretezza dell'individuo, è pur
sempre un'universelità. Questo pensiero, mentre chiude la que- stione 7*
con un’argomentazione in favore dei generi che hanno un’uni- versalità
maggiore delle specie, apre la via alla questione 8*. La quale ha una
parte poco o nulla aporematica: quella in cui A. si pone lui stesso il
problema d'intendere come un principio possa essere universale, e
tuttavia non esistere fuori dell'individuo. Egli lo risolve facendo della
specie la forma che si realizza nell’individuo, nel sinolo, e tuttavia
non si esaurisce nella particolarità di questo. Ma c'è una parte, anche,
veramente aporematice: la forma in niun caso è separata? (Dio è se-
parato). E anche dove non è separata (nella natura), ma immanente
agl'individui, diremo ch'essa è unica (identica) in tutti, o differente
in ognuno? Nè l'una nè l’altra affermazione è sostenibile: nel primo caso
si ha una identità materiale, numerica, una sostanza uguale in tutti
gl'individui, che sarebbero, così, tutti, una cosa sola; nel secondo, la
differenze sarebbero tante de sopprimere ogni realtà, unità e iden- tità,
della specie entro la quale soltanto, poi, si realizzano quelle
differenze. La questione ®, infatti, fa vedere che nè il primo punto di
vista, XVI METAFISICA nè il secondo, sono
soddisfacenti. — A. qui tace la sua soluzione: del- l’unità che si
realizza attraverso le differenze, onde il punto di vista ch'egli chiama
numerico non è guardato fuori di quello specifico, e viceversa. .+
Questa soluzione, sottintesa, presenta, tuttavia, una difficoltà al
pensiero di A.:il concetto di svolgimento, in cui l'identità si concilia
con le differenze, vale, propriamente, per il mondo della generazione-
corruzione. Come estenderlo al mondo di ciò ch'è eternamente lo stesso?
La soluzione di questa difficoltà (questione 10*) parrebbe data nel
pensiero aristotelico dalla considerazione della realtà naturale nel
complesso del sistema, dove i cieli rappresentano anch'essi un grado di
svolgimento in perfezione. Ma, qui, allora, torna più incalzante la
questione (11°) già accen- nata a proposito dei generi: se, cioè,
considerando la realtà nella sua totalità, e non nelle divisioni in cui
si offre dei generi diversi, si debba dire che essa è quell’Essere e Uno
che Parmenide, Pitagorici e Platonici, per diverse vie, ponevano come
principio primo e asso- luto. Il pensiero prevalente in questa aporia è
che porre l’Essere e Uno come reale porta necessariamente a negare il
molteplice e il nu- mero. A questo punto s'insinuerebbe una difficoltà,
quale un oppo- sitore potrebbe addurre: se non è reale l'Essere-uno, come
è reale il molteplice-numero? Come, senza quello, spiegar questo? A., che
alla difficoltà ha tacitamente risposto dianzi per quanto riguarda la
realtà della forma e della natura nel loro svolgimento, attenua la
questione riducendola alla parte riguardante l'uno-molteplice matematico,
cioè alla realtà del numero e degli enti matematici in generale. E passa,
così, ‘alla questione 12*. Spezza una lancia in loro favore, me per
dovere dialettico più che per convinzione: questa si vede bene nella
parte opposta, la quale conferma definitivamente l’astrattezza del punto
di vista matematico, impotente a spiegare la realtà sostanziale e il
pro- cesso di generazione delle cose. ° Quella realtà sostanziale
i numeri, mera determinazione quantita- tiva, non possono darla. Ci vuole
una determinazione qualitativa, un'unità formale, non materiale. A
questo, infine, mirò Platone quando, prima di complicare la sua dottrina
con quella pitagorica, pose per, principio l’Idea. Nella questione 13*,
infatti, A. par così pensare. Il passaggio alla 14° questione è oscuro:
l'occasione può esser of- ferta del pensiero che l'Idea platonica, pur in
certo modo lodata dianzi, é mera possibilità, non attività. Le
questione 15* non sembra introdurre un problema nuovo ed è, come la
precedente, appena accennata. ‘Integrando, dunque, il pensiero
espresso con quello sot- tinteso, si vede svolgersi, attraverso
l’apparente molteplicità, una questione unica: qual"è la natura del
principio o dei NOTA INTRODUTTIVA XVII principii, di
cui la metafisica è scienza. Le prime quattro questioni sono
introduttive, e son quelle che hanno una più immediata soluzione nei
primi tre capitoli del libro IV e nel 1 del VI. Questi tre libri (ITI,
IV, VI) vengono perciò considerati come formanti un gruppo idealmente e
storica- mente Compatto, e la prova maggiore di ciò è attinta dal
fatto che il loro contenuto si presenta unito anche nell’ab- bozzo del
lib. XI. 1-3. Ma la forma in cui queste prime quat- tro questioni vengon
riprese, discusse e risolte, mostra, con la diversità d’impostazione nel
IV e nel VI, con gli sviluppi ed i pensieri ivi aggiunti, che il III ha,
anche, una propria autonomia. Tanto più questo diventa evidente per il
resto della trattazione: le undici questioni, che vengon dopo
quelle, trovano una risposta nei libri VII, IX, X, XII-XIV, ma in
forma generalmente indipendente da quella che hanno nel lib. III ('). Sì
che soltanto approssimativamente, e badando più ai germi speculativi
racchiusi in esso che alla loro po- steriore trasformazione, si può
riguardare questo libro come un programma svolto nei libri seguenti. Per
se stesso, esso è una ripresa del motivo dominante già nel I: i
principii del reale non si possono più concepire platonicamente,
come idee e intermedi, e tuttavia essi debbono, come Platone pur
vide, trascendere la realtà considerata al modo dei Preso- eratici. Per
questo rispetto la questione 13° è da considerare come conchiusiva (*).
Il « noi », ch’è in principio (6, 1: cfr. anche 2, 17), mostra che A. si
considera ancora dell’Acca- demia come nel lib. I. : 5. —
Anche il lib. IV ha un’unità di pensiero, che ne fa una trattazione
indipendente, non ostante la connessione col III. (1) Vegga,
chi desidera, i raffronti fatti dal Ross, nell’Introduzione (vol. I della
sua ediz. della Met. con comm.: Oxford, 1934), pp. XxIM-xxIv, © pp.
298-233; e i richiami da noi posti nelle note al libro, (9) Lo
Jaeger (Arist., p. 322) ha avanzata l’ipotesi, abbastanza persuasiva, che
la questione 14° sia stata aggiunta più tardi, dopo l’inserzione dei libri
VII-IX: e888 MANCA, infatti, nei capitoli corrispondenti dell'XI. Si può
pensare che anche la questione 16 sia stata rielaborata e posta in fine a
questo scopo. ARISTOTELE, Metafisica. “n XVIII
MRTAFISICA La Parte prima espone concetti generali su l’oggetto
della filosofia e sul suo rapporto alle altre scienze; e, propriamente,
nel cap. 1 si accenna all’universalità e necessità dell'oggetto della
metafisica in opposizione alla particolarità e contingenza di quello
delle altre scienze in generale; nel 2, la metafisica (non ostante alcune
riprese dell'argomento del cap. prec.) si presenta piuttosto come
«filosofia » nel senso platonico più generale, e la questione del
rapporto non è più ‘alle scienze, ma alla dialettica. Meglio: alle
specificazioni o appli- cazioni della dialettica, nella Sofistica
(eristica), nella Dialettica propria- mente detta-(esercitazione logica),
nell’Apodittica. Questa tripartizione corrisponde a quella da noi notata
(a 2, 1) dei tre aspetti del pensiero per A.: soggettivo-verbalistico,
logico-discorsivo, logico-oggettivo: tre aspetti che abbiamo trovato
espressi anche nella formulazione del prin- cipio di non-contraddizione,
e nella conseguente difesa che ne fa A. nella Parte seconda. In
conchiusione, quanta è la distanza tra la Sofi- stica e la Dialettica,
tanta e più è tra la Dialettica e l'Apodittica: la di- stanza, qui, è
misurata dall'amore della verità, e qui la Filosofia sta vicino
all’Apodittica. Se ne allontana, invece, per l'oggetto e per il metodo:
l’oggetto dell'Apodittica è quello della scienza propriamente detta,
sempre empirica in fine; mentre la filosofia studia la realtà in sé e per
sè, nel suo significato e valore assoluto. Il metodo scientifico è,
perciò, dogmatico, quello della filosofia critico: essa soltanto esamina
e discute i principii primi nel senso dei fondamenti stessi di ogni
conoscere e sapere. E si rifà, quindi, al principio primo di quei prin-
cipii, che è il pensiero in sè e per sè. — È da notare, tuttavia, che A.
mantiene questo concetto dentro l'ambito della dialettice platonica, per
cui i principii dell’apodittica vengon limitati a certe verità logiche o
nozioni comuni del pensiero discorsivo, chiamate assiomi, e conse-
guentemente anche il principio primo resta limitato nell’ambito di essi,
come un assioma, per quanto supremo e più saldo. La difesa di questo
principio logico si svolge in tre parti: la prime (cap. 4) mire
prevalentemente all'eristica; la seconda (capp. 6-6), ai dialettici
seguaci di Protagora; la terza (capp. 7-8), a confermare, contro i
precedenti avversari, il principio di non-contraddizione me- diante
l’altro, implicito in esso, del terzo o mezzo escluso. A quali avversari
A. abbia l'occhio, nella loro precisa determinazione sto- rica, non è
sempre facile stabilire. Oltre gli Eraclitei e i Protagorei, è molto
probabile ch'egli abbia in viste i Megarici ei seguaci di An- tistene (v.
lib. V. 29, 2): è il gruppo stesso contro il quale è diretto il Teeteto
di Platone, ma allargato e fatto più petulante per pretese di ragioni
logiche. La prima parte della difese ha carattere negativo (la seconda,
ca- rattere positivo), e, trattando con gente che fa questione
meramente discorsiva, non rifugge dall'uso del metodo sofistico (così
come negli Elenchi Sofistici). Quel che più importa è di costringere
l'avversario & NOTA INTRODUTTIVA XIX der un
significato preciso alle parole ch'egli adopera (cfr. Sommario, a).
L'essere e il non-essere (0, uomo e non-uomo) sono presi come casi
estremi: se non si riesce a fargli distinguere questi, non c'è da sperar
più nulla. Un secondo ordine di considerazioni riguarda le conseguenze in
rispetto al reale (chè, in fine, non si vuol far questione di parole,
dice A., ma di fatto): non c'è più modo di distinguere la sostanza
dall’accidente, un accidente de un altro, una cosa da un'altra cosa (è,
c). Vien fuori il caos! (A., con la maggiore serietà, dà all’av- versario
un fondamento scientifico e avvicina questo caos alla dottrina
anassagorea, o alla propria della potenza indeterminata). Un terzo ordine
di considerazioni riguarda le conseguenze in rispetto al giu- dizio (d,
e): non c’è più opposizione tra l'affermare e il negare, e co- storo o
non dicon nulla o contraddicono se stessi. Ma, poichè neanche questa
considerazione può spaventer l'avversario, che fe proprio di questa
contraddizione il suo principio inespugnabile, A., stanco del- l'assedio
($ 32), invoca contro di Jui il buon senso e la testimonianza del
giudizio pratico, onde nella vita nessuno è scettico, perchè della verità
noi abbiamo bisogno per inoppugnabile necessità. La difesa è ripresa da ccapo
determinatamente ai Protagorei (distinti in seri e non seri, ma questi
sono ancora quelli della parte precedente, e non si aggiunge per essi
nulla di nuovo). Anche questa è divisa in tre ordini di considerazioni,
le quali, per maggiore chiarezza, chia- meremo oggettive, soggettive,
oggettivo-soggettive. Quelle oggettive si rifanno alla dottrina eraclitea
e le sostituiscono le concezione che A. he del rapporto dei contrari nel
divenire reale (a). In conchiusione, il divenire presuppone l'essere:
l'essere del sostrato e delle sue forme (non solo intelligibili, me anche
sensibili!); e oltre quest'essere che passa da una forma all'altra, c'è
l'essere che non passa, ma è eterna- mente lo stesso. — Le considerazioni
soggettive prendono in esame il criterio della verità posto da Protagora
nella sensazione (d, c). L'errore dei Protagorei è di ridurre
l'intelligenza alle sensazione, questa o all'immaginazione o
all'impressione corporea (si scopre la tendenza materialistica,
l'affinità alla dottrina democritea, di questa dottrina). Con felice
ardire A. prende l’avversario nel suo stesso prin- cipio: l’atto del
sentire è vero, di una verità non contradittoria, se guardato nella sua
piena attualità. Le differenze di quell'atto si spie- geno dal di dentro
di esso stesso, come capacità dell'anima di sentire l'un contrario e
l'altro. Ma A. non ve più in là di quanto gli basta contro i suoi
avversari: quest'atto si determina nell’attualità come la potenza dei contrari
nelle cose, e il suo determinarsi in un modo o nel modo opposto dipende
da circostanze esteriori. Per questo, il pen- siero arietotelico trova
aperta lo via a ripassare dalla legge di non- contraddizione a quelle dei
contrari (6, 12), come s'è notato a suo luogo (nota alla fine del. cap.
3). — Il terzo ordine di considerazioni riguerda, più propriamente, il
concetto protagoreo della correlatività, XX METAFISICA
dell’esistenza del soggetto e dell'oggetto nell'atto o incontro istantaneo
che produce il conoscere. In quell’atto soltanto esiste per Protagora il
soggetto e l'oggetto, almeno per noi. Ad A. sembra che questo sia un
vanificare la realtà (5, 26-28; 6, 8-10), la realtà dell'oggetto e quella
del soggetto, le quali esistono come potenze per se stesse, e sono il
sostrato nelle cose e l’anima in noi. Egli ha, bene, il suo principio
dell’atto, ma questo, a differenza di quello protagoreo, è realtà ch'è
insieme esistenza e verità positiva dell'oggetto e del soggetto, perchè
ripete il suo principio primo da quell’atto puro ch'è la ragion prima di
tutto il reale. La parte terza illustra il principio del terzo
escluso mostrando come la negazione di esso porta alle conseguenze
esaminate prece- dentemente: si confonde tutto, e non si dà più un
significato alle parole; si sopprime il giudizio, il quale non può non
essere o affer- mativo o negativo; non s'intende più la realtà nel suo
divenire de- terminato dalla legge (aristotelica)dei contrari. Sono
ancora i tre aspetti della questione, come noi l'abbiamo distinta. E questi
si avvicendano paragrafo per paragrafo nel cap. 7. La dottrina eraclitea
sembra fa- vorire il mezzo nel senso positivo (e-e), e negare più
immediatamente il giudizio nella sua disgiuntività e la stericità del
negativo nel dive- nire reale; la dottrina anassagorea sembra favorire il
terzo nel senso negativo (né-nè), e l’eristica. Ma poichè la forma
positiva e la negativa si equivalgono in fine, le due dottrine vengon
ridotte l’une all'altra (7, 10; 8, 2). — L'ultimo capitolo ha carattere
conchiusivo: il principio di non-contraddizione esige per ogni giudizio
l'affermazione del vero come opposto al falso, sì che l’uno non s'intenda
senza l’altro: nasce nel- l'opposizione all’altro. Posti uno fuori
dell’altro (come due che si contraddicono), il vero si converte in falso,
il falso in vero, immedia- tamente, Il giudizio presuppone questa
disgiuntività, ch'è opposizione assoluta del vero al falso, e mediazione
dell'uno per mezzo dell'altro. Ma, come per l'atto del sentire, così qui
per quello del pensare logico A. non dialettizza, poi, in sè l’atto del
giudizio ne’ suoi momenti delle negazione e dell’affermazione: queste,
così come il vero e il falso, pur opposti e uniti nella sintesi che li
media, gli divengono due giudizi corrispondenti a quelli che nella realtà
delle cose sono i contrari. Il capitolo, infatti, termina passando
bruscamente ell’esempio di coloro che o affermano esistere soltanto il
movimento (eraclitismo), o soltanto la quiete (eleatismo): i quali sono
due stati contrari, ognuno in fine esistente positivamente in atto senza
l’altro, anche se idealmente l'uno nasca dall’opposizione all’altro: onde
sono insieme in potenza. Anche realmente, in quafito si guardi ell’essere
nella sua universalità: nell'universo, infatti, il movimento, ch'è anche
cangiamento, digrada sempre più verso la quiete e l'’immutabilità
assoluta. L’e-e di Eraclito, così come il nè-nè anassegoreo risorge, ma
in altro senso, dentro la dottrine aristotelica dei contrari, come un
divenire ch'è intermedio NOTA INTRODUTTIVA XXI tra i
due stati opposti dell'essere, attraverso i quali passa l’essere
svolgendosi nella fenomenia della natura: quell’essere che, in quanto è,
spiega il divenire (Eraclito), mea è anche al di là del divenire (Par-
menide). E come l'essere, così il pensiero nello svolgimento umano
dall’errore alla verità, de una verità a una verità superiore. La scienza
di questo essere ch'è pensiero, perchè il pensiero è l'essere stesso
delle cose, è la filosofia, nel senso ancora della dialettica platonica,
diversa dalla Sofistica per l’amore della verità, dalla dialettica delle
opinioni per la verità, dall’apodittica per la consapevolezza della ve-
rità che possiede e cerca (i). 6. — Il lib. V, citato più volte
nella Metafisica e altrove con la frase tà megi toù smocayic, o altra
simile, e ricordato con proprio titolo nel catalogo di Diogene Laerzio, è
sem- brato a molti una mescolanza di pensieri troppo disordinati e
di vario genere per poterne ricavare, come pure altri ten- tarono, un
disegno o una qualsiasi linea di trattazione. Qual- cuno lo riguarda
quasi un piccolo dizionario dei termini più usati in filosotla; ma questa
non può esser stata, di Si- curo, l'intenzione dell’autore: chè troppi
sono i termini mancanti, e de’ più importanti; nè l'indole della
trattazione è quella di un’esposizione in tal senso. Pare piuttosto
che si tratti di un primo tentativo (questo libro è probabile che
sia stato composto prima degli altri della Metafisica) di chia- rimento
di alcuni concetti, dai quali moverà la riflessione aristotelica per
l'ulteriore elaborazione. Gran parte di essi, infatti, vengon ripresi,
chiariti e sistemati in altri libri e scritti. Guardando bene, si scorge
facilmente che un ordine, o meglio una serie di problemi organizzati
intorno a, un nu- cleo di carattere strettamente conforme al resto della
Meta- fisica, c'è; ma è un ordine piuttosto interiore che esterno,
(1) Un’esposizione di questo libro sì trova nel volume di Guino
CaLoczro, I fondamenti della logica aristotelica (Firenze, Le Monnier,
1927), di cui un saggio fu citato in nota al 8 20 del cap. 4. La tesi del
C. è che la logica dianoetica di A., che concepiace l'attività del
pensiero come sdoppiamento predicativo (e quindi come giudizio,
sillogismo ed apodissi) sl riduce interamente alla posizione noetica,
laquale fonda ogni determinazione del contenuto logico su l'atto uni-
tarlo dell’appercezione intellettuale (noetico). La dimostrazione è condotta
con vigore e penetrazione. La mia esposizione, qui come altrove, vuol
essere più aderente ai termini in cui si presentava ad A. storicamente il
problema. XIII MBTAFIBICA risultante piuttosto dal
complesso che dalle parti così come son disposte in questo libro.
I primi capitoli su principio, causa ed elemento mostrano subito
l’in- teresse predominante per l'oggetto della scienza prima, e
preludiano alla ricerca propria del lib. I; il cap. su la natura è
strettamente le- gato allo stesso argomento: la distinzione di materia e
forma, e i principii aristotelici intorno al divenire naturale ci sono
già tutti chiaramente. Aggiungerei a questi, come complementari, i
capitoli su ctò per cui e per se stesso, da qualcosa, genere, perfetto e
limite o termine. — Un altro gruppo ben definito di pensieri è
intorno.alla sostanza e alle sue determinazioni: quantità, qualità,
disposizione, abito, affezione, pri- vazione, avere, e intorno al
relativo. — L'essere già si pone nelle distin- zioni dell’accidentale e
dell’essenziale, del vero e del falso, e (per il processo reale) della
potenza e dell’atto. Le indagini su la potenza, sul necessario e su
l’accîdente, sul falso, approfondiscono l’uno o l’altro aspetto di quelle
distinzioni. Meglio ancora si profilano le distinzioni dialettiche
dell'unità, dell’identico, dell’opposto, che verranno elaborate nel lib.
X. Con il concetto di unità stanno quelli di parte, intero e tutto, e
anche il capitolo su mutilato ha relazione con questi; mentre il ca-
pitolo su anteriore e posteriore si lega variamente alle riflessioni su
la natura in sè o in rapporto alla nostra conoscenza. — Sono, come
si vede, i problemi dei primi libri della Metafisica, sebbene non
ancora distinti e ordinati come, poniamo, nel lib. III. Onde il
raggruppamento da noi fatto non è rigoroso: nel capitolo, ad es., su ciò
per cui e per se stesso ci sono considerazioni che toccano di più la
questione della sostanza e dell'essenza; e il capitolo su relativo ha
pensieri che stanno bene con quelli delle distinzioni dialettiche.
Si può notare, inoltre, in questo libro, una più rilevante mesco- lanza
del punto di vista naturale e oggettivo con quello umano e sog- gettivo:
già nel cap. 1 si vedono, per es., al paragrafo conchiusivo, messi
insieme la natura e gli elementi col pensiero e la deliberazione; così
nel cap. 5 per il necessario, nel 28 per i) genere, e nel capitolo
seguente per il falso ($ 3: un «uomo falso »). E spesso anche altrove. La
mescolanza su detta deriva in parte dell'altra, molto lamentata dai
commentatori, del modo comune di parlare messo insieme con quello
filosofico, e, in generale, dal minor rigore (ch’ è spesso anche minore
chiarezza), o nel pensiero o nell'esposizione, predominante in questo
libro in confronto con gli altri della Metafisica. Niun dubbio che
questo libro è stato aggiunto in epoca posteriore: messo qui forse perchè
citato in VI. 2, 1 e in VII. 1, 1. Ma, evidentemente, esso interrompe la
continuità del gruppo che dopo il IV vuole il VI. NOTA
INTRODUTTIVA XXIII 7.— Il lib. VI è breve, quasi quanto il II, ma
supera questo di assai per importanza, in sè e in rapporto agli
altri libri. Anch'esso si compone di tre parti, tra le quali non è
visibile im- mediatamente il legame, se si bada, non al-risultato comune
dichia- rato, ma alla sostanza di ognuna di esse. Il risultato comune è
che l’oggetto della metafisica è l'essere in quanto essere, non
l’accidentale, o ciò che ha una realtà soltanto soggettiva: è il vero
essere, di cui la realtà è eternamente, universalmente e necessariamente,
tale. Ma, poi, la prima parte svolge, con punti di mirabile chiarezza, il
rap- porto tra la metafisica e le altre scienze, come un problema a s';
la seconda tratta la questione dell’accidente senza coordinarla a quanto
precede o segue; e così la terza, per il vero e falso. Nè si può dire che
A. nelle parte prima non faccia un posto conveniente anche alle altre
scienze; e nella seconda oltre « ciò ch'è sempre » si pone come oggetto di
scienza anche «il per lo più»; e nella terza è un accenno che oltre al
vero nel senso soggettivo c'è pure una verità che serve di fondamento a
quello, e non è perciò da relegare fuori della meta- fisica, insieme
all’accidente e quasi al non-essere. Tuttavia, nel com- plesso, il movimento
principale del pensiero in questo libro si può dire lineare, e in senso
inverso a quello del lib. IV. Là dal concetto dell’essere in quanto
essere si passa ai presupposti della pensabilità e conoscibilità del
reale in generale; qui dal rapporto tra l'oggetto della « filosofia
prima» e quello delle altre scienze si procede elimi- nando ciò che non
ha vera e stabile realtà; e per assicurarne que- sti attributi, si arriva
persino a identificare il pensiero con l’acci- dentale. Cfr. note a IV.
1, 1 e 2, 1 su questo doppio movimento del pensiero in A. Lo
Jaeger (Arist., pp. 209-212) pensa che, mentre il ca- pitolo 1
rappresenta una ripresa del cap. 1 del IV rielabo- rato sin da principio
nella forma attuale, come prova il corrispondente cap. 7 del lib. XI, il
cap. 2 e il 4 abbiano, invece, subìto un ritocco che alterò la fisonomia
generale del libro. Confrontando, infatti, i capitoli 2-4 con il
corri- spondente cap. 8 dell’ XI si trova che in questo mancano i
$$ 2 e 3 del cap. 2, e che il contenuto del cap. 4 è ivi ridotto alla
pura e semplice esclusione del pensiero sogget- tivo dall'essere in sè e
per sè, ch’è l'oggetto della metafisica. Si può aggiungere che anche la
trattazione dell’accidente nel cap. 3 mostra l’influsso di pensieri
posteriori (cfr. $ 1 e XXIV . MBTAFISICA le citazioni
in fine della mia nota al $ 4). Secondo lo Jae- ger il pensiero
originario di questo libro (e del gruppo III, IV, VI, tutt’intero) era
schiettamente platonico: la vera realtà è quella dell’essere divino,
immoto e separato, trascen- dente. A questi libri, i quali, a cominciare
dal I, costitui- scono, con le loro ricche indagini intorno all’oggetto
della metafisica, una parte di carattere essenzialmente introduttivo,
doveva seguire oramai la parte costruttiva di carattere emi- nentemente
teologico. Invece, segue il gruppo VII-IX che ha un carattere del tutto
opposto! Questi libri, infatti, come ora vedremo, appartengono con ogni
probabilità a un pe- riodo posteriore dell’attività filosofica di A., e
si possono considerare come espressione della piena maturità della
sua riflessione critica. In essi non è quasi più nessuna traccia
del precedente suo platonismo. Ora, secondo lo Jaeger, quando A. decise
di introdurre questi libri nel corpus meta- physicum, rielaborò i capp.
2-4 del VI in modo che si sta- bilisse un passaggio dai libri
introduttivi I, III, IV, VI (cap. 1) ai libri VII-IX. Al cap. 2 aggiunse
i $3 2-3, affin- chè, oltre i modi dell’essere come accidente e come
vero, venissero anticipati quelli delle categorie e della potenza-
atto (‘). Il cap. 4, poi, fu rielaborato in modo da costituire un
precedente al cap. 10 del lib. IX: accanto al principio dianoetico fu
accolto quello noetico (*), non senza un visi- (1) Il lib. VII,
infatti, prende per punto di partenza la categoria della so- stanza e in
questa approfondisce l'indagine logico-ontologica sino alla fine del lib.
VIII. Ed è notevole che al principio del cap. 1 (del VII) si richiama per
i vari sensi dell'essere nelle categorie al megl toù a0cay®g, anzichè al
8 2 del cap. 3 del VI: non c’era, dunque, ancora in A. il proposito di
unire questa trattazione a quella dei libri precedenti della Metafisica.
Anche il cap, 10 del lib. IX è
un'aggiunta posteriore, che mal s'intona ai capitoli precedenti del lib.
IX: cfr. nota, ivi. Il principio noetico, dice lo Jaeger, ò l'ultimo
avanzo della platonica intuizione delle idee (in A., le essenze sem-
plict) rimasto nella metafisica aristotelica. L'osservazione è esatta, se
s'intende quel principio nel senso del cap. 10 del IX. Ma nei libri
VII-I1X c'è anche uno sforzo potente di calare quel principio dentro il
pensiero dianoetico stesso e farne motivo dell’unità del molteplice
nell'oggetto e nella nostra conoscenza di esso. In questo senso, esso è
un principio ben lontano dall’intuizione platonica, pura- mente
intellettuale, del trascendente. NOTA INTRODUTTIVA xxv
bile turbamento della chiarezza del ragionamento e della re-
golarità della costruzione sintattica di questa parte del capitolo (‘).
Le congetture dello Jaeger sono a primo aspetto del tutto
persuasive, e soltanto in un secondo tempo, scoprendosi il loro
fondamento meramente ipotetico, perdono alquanto della loro persuasione.
Intanto, le aggiunte o modificazioni appor- tate ai capitoli 2 e 4 non
introducono pensieri nuovi per A.: cfr. V. 6, 9-10 e 7, 4-7 (qui l’essere
nel senso delle categorie e quello nel senso della potenza-atto è
parimenti unito a quello nel senso del vero-falso). Sì che aggiunte e
modifica- zioni si potrebbero spiegare anche fuori dello scopo
attribuito ad A. dallo Jaeger. Poi, quel deciso atteggiamento
platonico ch’egli vede nei libri introduttivi va, a mio avviso,
attenuato nel senso dato dianzi nell'esame sintetico di essi. C'è
un concetto fondamentale nel IV e nel VI, e che, essendo pre- sente
già nell’ XI anteriore a questi secondo lo stesso Jaeger, si può ben
sottintendere nel III e anche nel I(*): quello dell’oggetto della
metafisica come l’essere in quanto essere, il quale basta a bilanciare la
tendenza platonica della con- cezione teologizzante con una tendenza
opposta, in cui vien sorpassato il criterio della distinzione della «
filosofia prima » dalle altre scienze su la base della diversità e
dignità del genere de’ loro oggetti. Come, poi, avvenga che A.
passi d’un tratto da un concetto all’altro, sebbene non inconsa-
pevole della differenza (la quale non era per lui tanto grande da
costituire, come per noi, un’irriducibile opposizione) (?), sì cercò di
chiarire nella nota in fine al cap. 1 del lib. VI. In fine: che A. stesso
adattasse con un mero accomodamento (1) V. JaEGER, Fntst., pp. 29
88. L’essere in quanto essere è
ancora il concetto della causalità come im- manenza a uno stesso
principio della quadruplice distinzione colà posta. (9) L'essera in
quanto essere è l'essere che il pensiero scopre nel fondo di tutto ciò
ch'esiste (nel mondo seneibile e in quello intelligibile), in quanto
ragione della realtà e conoscibilità di esso: p. d. v. critico e
immanentistico, dunque, che A. non poteva scambiare con quello dogmatico
e trascendente dello schietto platonismo (dell’essere eterno e immobile).
XIVÌ METAFISICA esteriore una sua precedente trattazione a
un intendimento addirittura opposto a quello ch’essa realmente aveva, è,
per lo meno, una congettura che lascia molto perplessi. 8. —
Il lib. VII è de’ più ampi, e prosegue nell'VIII. Il IX, invece, è una
trattazione ben distinta, e tuttavia forma con i due precedenti un sol
gruppo, che qui si esaminerà insieme. Nel VII specialmente, ch'è il più
aspro a interpre- tare, le singole parti paiono talora seguirsi come
serie d’in- @agini che mirano, sì, a uno stesso scopo, ma per vie
diverse. Il Natorp lo ha scisso in due parti, e in ciascuna ha
rior- dinati a modo suo i capitoli del libro. Il Ross pensa che i
capp. 7-9 formassero originariamente una trattazione sepa- rata. Lo
Jaeger divide i libri VII-VIII in tre parti originarie, delle quali le
prime due son costituite dai capp. 1-11 e 13-17 del VII, la terza dai
capp. 1-5 dell’ VIII; e poichè l’11 par conchiudere la prima parte, e il 13
cominciarne un’altra, il 12 si trova isolato. L’annuncio, infatti, verso
la fine dell’11 (cfr. ivi, nota al $ 11), non può riferirsi al 12 che
segue subito dopo, e questo (pensa lo Jaeger) è una rielaborazione,
rimasta incompiuta, del cap. 6 del lib. VIII: i due capitoli sono stati
aggiunti dopo, questo come un’ulteriore illustra- zione del precedente
cap. 3, quello perchè c’era forse spazio disponibile nel rotolo (cfr.
Entst., pp. 53 ss.). Ma a noi preme di più individuare il problema
intorno al quale gira il pen- siero di questi libri.
L'essere in quanto essere è qui la pura essenza, il ti fiv slva: che vuol
essere il principio trascendentale del x65 » 11° (IV) a» fs (XIV) —= »
18 (Vv) = » 4* (XV) —> » i4s (VI) cx (manca) (XVI) = (manca)
(VII) = Questione Ga (XVII) = Questione 12% (VIII) —> » 7 — »
136 (IX 6e.X)= » gs Quest'ultima (13%) non è enunciata a
parte nel presente capitolo, ma è pur compresa nella IV (5) e T1X-X (8).
Nella (III) c'è una parte non trattata nella 8*: 86, cioè, qualora delle
sostanzo siano più le scienze, queste sian tutte « filosofie ». Ma essa è
risolta insieme alla parte precedente nel lib. IV, capp. :-2, e nel VI,
cap. 1. Anche la (VI) è ripresa in connessione con In (V) nel lib. IV, cap.
2. E Siriano, infatti, la riduce alla (V), perchè, secondo lui, le
contrarietà dialetticho Appartengono agli «accidenti essenziali » delle
sostanze (p. 59, 17 88.) — Per lu (XVI), similmente, si può diro ch'è
inclusa, in certo modo, nolla 14* (fin dove la questione della potenza
coincide con quella del movimento: per la differenza v. lib, IX, cap. 6).
Per il rapporto tra i problemi posti in questo libro quasi come un
programma da eseguire in seguito, o gli altri libri della Metafisica, v.
Introduzione. (2) Il riferimento è al lib. I, come notò già Alessandro,
uon al II, che fu interpolato forse per il suo carattere proemiale.
A*r 6 9 i, LIBRO
TERZO 67 eneri, ovvero alcune si debbano chiamare filosofie,
altre generi, ovVero alcune altrimenti (‘). E anche
questo è necessario investigare: se soltanto le sostanze sensibili si
deve concedere che esistono, ovvero, oltre esse, anche altre; e se
delle sostanze c'è un genere soltanto, o più, come vogliono quei
che pongono le specie Ro. intermedie tra queste e i sensibili, le entità
matematiche. “Questi problemi, dunque, a nostro avviso, sono
necessari a considerare. Poi, se la speculazione versi intorno alle
so- stanze soltanto, o anche intorno agli accidenti essenziali (*)
delle sostanze. Anche, il medesimo e il diverso, il simile e il
dissimile, l'identità e la contrarietà, il prima e il poi, e tutte le
altre determinazioni di questa specie, in cui i dialettici si
eserci- tano con un’indagine che non sorpassa il modo comune di
vedere, di quale scienza formano tutte l’oggetto di studio? E anche le
proprietà di queste stesse determinazioni. E non solo ciò che sia
ciascuna di loro, ma anche se a ogni con- trario si opponga un solo
contrario (*). Inoltre, se principii elementari siano i generi, ovvero
le 10 parti costitutive in cui ciascun essere si divide (').
Qualora 11 poi siano i generi, è a vedere quali di
quelli che si predi- "cano ‘degl’ individui: se i più prossimi, o i
generi sommi; ‘voglio dire, se sia principio ed abbia maggiore realtà,
dopo quella del singolare, uomo o essere vivente. Di somma
importanza sarà la ricerca, con adeguata trat- tazione, se oltre la
materia esiste, o no, una causa per sè; e questa, se sia separata. C) no,
una di numero ‘o più. tr nni (1) Nel lib. VI, cap. 1,
si distinguono le scienze pratiche o poietiche da quelle puramente
teoretiche. ‘2) Che la somma degli angoli di un triangolo sia uguale a
due retti è un accidente essenziale (ovpfefaxòds xad’avté) del triangolo;
che questo ala grande LI piccolo, mM un colore o di un altro, è
uu_accidonte secondario, ‘ (8) Le coppie qui enunciate di contrari
vengon ridotte a quella dell'uno e del molteplice nel lib. IV, a 2; è
riprese in esame nel lib, X. L'uno è un punto di vista «logico», l’altro «
reale»; ma, poi, iu quanto _i generi sono reali, l'uno è un punto di
vista, come appunto si dice, « generale » . l’altro ‘semplicemente
«materiale », Asi IG a 68
METAFISICA E se c’è qualcosa oltre il « sinolo » (‘) (dico sinolo
quando la materia è in qualche modo determinata), o nulla; ovvero,
Se per certe cose sì, per altre no, e quali sono esse. Di più: se i
principii sono determinati di numero o di specie, sia quelli riguardanti
i concetti delle cose, e sia quelli riguardanti il sostrato (”). E
se delle cose corruttibili e delle incorruttibili i principii sono gli
stessi o diversi; e se son tutti incorruttibili, o cor- ruttibili quelli
delle cose corruttibili. Ancora (e qui è il problema più difficile e più
degli altri pieno di dubbi): se l’uno e l’ente, come i Pitagorici e
Platone dicevano, non è altra cosa dalla sostanza degli enti; o se
è diversa (*), e però il sostrato sia qualcosa di diverso, per es.
l’amicizia , come dice Empedocle, o il fuoco, o l’acqua, o l’aria, come
dicono altri. Poi, se i principii sono universali o al modo delle
cose singolari; e se in potenza o in atto. E se si debbano congsi-
derare anche da un altro punto di vista che per rispetto al movimento. ;
Tutte questioni, queste, che possono offrire grandì diffi- coltà.
E oltre queste, se i numeri e le lunghezze e le figure e i punti sono
sostanze, o no; e qualora fossero sostanze, se separate dai sensibili, o
in essi esistenti. In tutti questi problemi, non soltanto è difficile
proce- dere speditamente alla verità, ma neppure è facile
discorrerne i dubbi acconciamente. (1) «Tutto-insieme », il
reale nella «totalità e unità» delle sue determina- zioni. Ho preferito
conservare il termine molto espressivo di A. Si potrebbe, sì, tradurre
«concreto », ma questo ha un significato troppo ristretto alla sua oppo-
sizione all’« astratto ». (8) Principii logico-formali e principii
materiali. L'enunciazione è generica. ma è ovvio che A. ha in vista, qui
e altrove, le concezioni più determinate che di questi principii avevano
avuto i filosofi di cui ha parlato nel lib. I. (9) Cfr. lib. I, cap. 5,
8 22. Cfr. qui 4, 93: chè,
altrimenti, è un po' difficile interidere l’Amicizia empedoclea come
sostrato. 12 13 14 15
16 17 18 1 LN)
LIBRO TARZO 69 CapitoLo II. Cominciamo di dove
si prese le mosse: se appartenga a una sola scienza, o a più, studiare
tutti i generi delle cause. Ora, come mai apparterrebbe ad una sola
scienza di co- noscere principii che non sono contrari? E poi, tra gli
enti ce ne sono molti, ai quali non tutti i principii convengono
('). Infatti, come potrebbero il principio del movimento e la na-
tura del bene riguardare gli esseri immobili, se tutto quel che è buono
per sè e per propria natura, è fine, e però causa, sì che per cagion sua
le altre cose e si generano ed esistono? Il fine e lo scopo sono termine
di qualche azione, c le azioni sono tutte con movimento; laonde negli
esseri immobili non può darsi questo principio del movimento; nè quello
di un bene per sè. Appunto per ciò nelle matematiche non si di-
mostra nulla mediante questa causa, nè c’è nessuna dimostra- zione finchè
s’adduce che così è meglio o peggio: anzi addi- rittura nessuno fa
menzione di simili cose. Tanto che alcuni Sofisti, per es. Aristippo (2),
le coprivano di disprezzo, perchè, dicevano, mentre nelle altre arti,
anche volgari, come quella del falegname e del calzolaio, di ogni cosa si
discorre in ra- gione del meglio o del peggio, nelle matematiche invece
nes- suno fa parola del bene e del male. D'altra parte, se sono
parecchie le scienze delle cause e diverse quelle di principii diversi:
quale di esse si dovrà 998 b (1)
(Questione 18) — Ossia: a) ogni scienza è di contrari (vero-falso, bene-.
male, sano-malato, ecc.); ma le quattro specie di causalità non costituiscono
con-' trarietà (i contrari, propriamente, per A., son quelli che
implicano un sostfato che li comprende entranbi), La materia, ad es., non
è un contrario della forma (efr. XII, 10, 6). ») I generi delle cose
sono, per A., diversi, e però di essi non e’ è un’unica scienza (il genere
della fisica è diverso da quello della matema- tica). E tuttavia in tutti
si può considerare, come fa la metafisica, l'essere semplicemente, in
quanto essere. Questo solo è un oggetto universale assoluta- mente. Ma,
non essendo ancora stata spiegata questa universalità, vien sottinteso un
conc
etto
affine: che i generi di causalità studiati da quell’unica scienza do-
vrebbero valere per ogni essere. (2) Aristippo seguì Protagora nella
dottrina della conoscenza. Molti dei so- cratici minori proseguono ancora
il movimento dei Sofisti. 70 METAFISICA dire che è
quella di cui noi andiamo in cerca? e chi, tra coloro che le posseggono,
si dovrà dire che conosce meglio l'oggetto delle nostre ricerche? Poichè
può ben avvenire che nella considerazione di una stessa cosa trovino
luogo tutti i modi della causalità: per una casa, ad es., l’arte e
l’archi- tetto sono principio del movimento, l’utilità è lo scopo,
la terra e le pietre sono la materia, la nozione è la forma (').
Ora, stando a quanto fu da noi precedentemente determinato (?) intorno a
quale tra le scienze si dovesse chiamare sapienza, si avrebbe ragione di
chiamar tale ciascuna di quelle (*). Infatti, in quanto è
principalissima e la più alta signora delle altre scienze, le quali,
quasi serve sue, non hanno di- ritto neppure di far obiezioni, tale è
quella del fine e del bene (chè per questo si fa tutto il resto). Invece,
in quanto fu stabilito che fosse la scienza delle cause prime e di
ciò che è massimamente conoscibile, tale sarà quella della so- stanza
(*). Poichè, quando una stessa cosa è nota in molteplici modi, noi
diciamo che ne sa più chi la conosce per quello che è, piuttosto che per
quello che non è; e di quelli stessi che ne conoscono l’essere, diciamo
che uno ne sa più di un altro, e più di tutti chi sa l’essenza, non chi
ne sa la quan- tità o la qualità (*), o quel che naturalmente può fare o
pa- tire. E come nelle altre cose, così anche in quelle di cui c’è
dimostrazione, allora noi reputiamo di sapere, quando cono- sciamo
l’essenza. Per es.: che cosa è ridurre a quadrato? La scoperta d’una
media (°). E similmente negli altri casi. (1) Traduco elBos con «
forma» quando la specie è contrapposta alla materia. (2) Nel lib. I. 2.
Ciascuna di quelle scienze che
riguardano una delle quattro cause. Sostanza è la categoria principale
dell'essere, l'essenza concreta (non fuori della materia). Paiono, così,
ricordate qui soltanto tre delle quattro specie di cause, perché la
materia, osservano giustamente i commentatori, non è oggetto di
conoscenza: salvo, si può aggiungere, in quanto è compresa nel concetto
della sostanza. (5) A. dice qui, o spesso, «il quanto », «Il
quale» (nel senso del nostro plu- ale: «le qualità » di una cosa).
(6) La media proporzionale ai lati di un’altra figura. Pare che con «le
cose di cui c'è dimostrazione » si vogliano distinguere i due tipi di
conoscenza: l’uno, immediato, l’altro mediato. Nel qual caso sarebbe
meglio tradurre: « E nelle 6 LIBRO TERZO 71
Invece, le generazioni e le azioni, ed ogni mutazione, ci pare di
conoscerle quando ne sappiamo il principio del mo- vimento. Ma questo è
diverso dal fine, anzi opposto. Di ma- niecra che parrebbe appartenere ad
una scienza diversa lo studio di ciascuna di queste cause (').
Anche per i principii delle dimostrazioni c’è da star in dubbio se
appartengono a una scienza sola o a più. E chiamo principii delle
dimostrazioni quelle comuni sentenze (°), da cui tutti muovono a
dimostrare, per es., che ogni cosa è necessità affermarla o negarla, e
che è impossibile insieme essere e non essere, e quante altre
proposizioni sono simili a queste. Si chiede se la scienza di essi e
quella dell'essenza è una stessa, o se son diverse; e se diverse, quale
bisugna riconoscere per quella che si cerca qui. Intanto, che
appartengano a una scienza soltanto, non pare ragionevole. Perchè mai
sarebbe proprio, poniamo, della geometria piuttosto che di qualunque
altra scienza intendersi di essi? Se, dunque, spetta del pari a ciascuna,
e d'altronde a tutte quante non può spettare (*), non è più proprio
della scienza che conosce le sostanze, che di qualunque altra,
averne cognizione. altre cose, in quelle di cui c'è dimostrazione
», c considerare, così, come cpeso- getico il secondo «at della 1, 19. Ma
forse la distinzione non è voluta, e il senso è che l’ossenza ci fn
conoscer le cose meglio dello loro qualità accidentali, così come si vele
anche nella conoscenza propriamente sclentifica di esse. (1) Alesa.
inserisce un otx innanzi a &XXmg, € il ragionamento, allora, sarebbe:
«Ne si pongono scienze diverse per ognuna delle apecie di causalità, non s!
saprà più qualo chiamare Rapionza; quindi di ciascuna di esso non c’è una
scienza di- versa ». Ma non pare necessario alterare il testo: A. non
pretende In questo libro a una trattazione rigorosa delle questioni, por
tesi e antitesi ben definite; ma pone innanzi dubbi e pensieri
discordanti. Qui,ad es., dice che se la causa effi- ciente e la finale
sono diverse, anzi opposte (cfr. I. 3, 6), auche le scienze di esse
dovrebbero esser diverse, La questione è ripresa, sebbene non in questa
forma, e risolta in lib, IV. 1-2. (2) (Quertione 2*)— xotval
Béear, ma «opinioni comuni» ben fondate, ge- neralmente ammesse (cfr. tò
EvBofov, il probabile da cui muovo la dialettica delle opinioni). A. le
chiama anche « principii comuni », « principii apodittici» (&gxal
Uroberntixal), «assioni comuni», o semplicemente « assiomi» (&Ebpara) o
«co- muni » (tà xotvd), (3) « Quia sic sequeretur quod idem
tractaretur in diversis scientiis, quod esset superfluum »: 8. Tom. (8
388). 007 a 72 METAFISICA E insieme,
come s'avrà mai una scienza di essi? Quel che sia ciascuno, lo sappiamo
sin d’ora: tanto è vero, che anche le scienze pratiche (') se ne servono
come di principii noti. Ma se ci fosse una scienza che li dimostrasse,
hisogne- rebbe che avesse per soggetto un qualche genere; e che di
quelli alcuni fossero sue affezioni; altri, assiomi (poichè è impossibile
che ci sia dimostrazione di tutto): infatti, la dimo- strazione, di
necessità, è da qualcosa, intorno a qualcosa, e di qualcosa (?); sì che
accadrebbe che, servendosi di assiomi ogni scienza dimostrativa, tutte le
cose che si d imostrano apparterrebbero a un unico genere.
Dall’altra parte, se la scienza dell’essenza è diversa da quella di
codesti principii, quale delle due deve precedere (1) Il testo
dico le altre arti: intendo le scienze non apodittiche, quelle che nel
lib. I. 1, son considerate anche come téyvat. (2) In ogni dimostrazione
o scienza apodittica sono tre cose: seo 5 te Belxvuor sal & Seixvuor
xaì E &v (Anal. Post., I. 10. 76b, 21). Ossia: l'oggetto, il genere
di enti, «intorno a cui» versa (per es. il numero, per l’aritmetica); l’assioma,
o gli assiomi « da cui» trae forza l’argomentazione (per es., che tutti i
numeri deri- vano dall'unità; ovvero, che le unità non cambiano comunque
si raggruppino;ecc.); le affezioni o proprietà « di cuì » si dimostra o
sì mostra che l’osgetto è inve- stito, e qui propriamente consiste il
lavoro scientifico (per es., cho ogni numero è o dispari o pari; che
cambiando posto agli addendi, il totale non muta; ecc.). Per
l’argomentazione complessiva, più chiaro di tutti il Ross. Se gli assiomi
sono dimostrabili, di questi alcuni debbono esser provati, altri accettati
come assiomi non provati (per cul la supposizione che gli assiomi siano
dimostrabili, va corretta in questa: che alcuni di essi sono dimostrabili
per mezzo di altri îndimostrabili). Ora, tutte le scienze dimostrative
usano gli assiomi come loro premesse, e le loro conchiusioni appartengono
allo stesso genore delle premesse (questo non è detto, ma evidentemente
sottinteso). Quindi, se gli assiomi sono dimostrabili, tutto ciò che si
può dimostrare appartiene a un unico genere, e tutte le scienze diventano
un’unica scienza: ch'è per A. una reductio ad absurdum. Si noti che A.
trascura qui due punti: 1. Che c'è una terza via in cui può esserci una
scienza degli assiomi: quella iudicata nel lib. IV, per cui essi non
vengono nè definiti nè dimostrati, ma raccomandati al senso comune col
mostrare le conseguenze assurde a cui conduce la loro negazione; 2. A.
qui non distingue tra i principii propri e quelli comuni: ogni scienze
deve avere principii riguar- danti lo stesso genere di cui trattano le
sue conchiusioni, ma essa ha unche prin- cipii comuni a tutte le sclenze,
(Questi stanno a quelli come l’essere in generale ai generi reali delle
cose, i quali non possono esser, per A., assorbiti in quello senza disperdere
la distinzione necessaria alle scienze: ne verrebbe fuori un'unica
scienza, quella dell'essere nella sua indistinzione, ch'è un concutto contro il
quale A. combatte ripetutamente). 10 11
12 13 14 LIBRO TERZO 13
ed è superiore per natura? Gli assiomi, di certo, sono gli
universali supremi e i principii di tutto. E se non spetta al filosofo, a
chi mai altro spetterà di studiarne il vero e il falso? Poi, per le
sostanze, c’è una sola scienza di tutte in ge- nerale, o più? E se non è
una sola, di quale sostanza si deve stabilire che è scienza, questa
nostra? Che ce ne sia una sola di tutte, non pare ragionevole, perchè,
allora, ci sarebbe anche una sola scienza dimostrativa di tutti gli
acci- denti, una volta che ogni scienza dimostrativa, versando in-
torno a un sostrato, ne studia gli accidenti essenziali mo- vendo dalle
opinioni comuni. In quanto, dunque, spetta a una stessa scienza studiare
gli accidenti per sè di uno stesso genere e dalle stesse opinioni, — e poichè
sarebbe una sola la scienza del sostrato, e una sola quella degli assiomi
(siano poi la stessa o diverse), — anche gli accidenti li
studieranno o quelle due scienze, o una che le comprenda entrambe (‘).
Ancora, lo studio verserà soltanto intorno alle sostanze, o anche
intorno ai loro accidenti? Voglio dire: se il solido e le linee e le
superfici sono sostanze (*), spetterà a una stessa scienza conoscere
queste cose e insieme gli accidenti di ciascun genere di cui trattano le
dimostrazioni matemati- che, — ovvero a un’altra? Se a una stessa, ci
sarebbe una scienza dimostrativa anche della sostanza: ma non pare
che (1) (Questione 3*)— Nella questione presente, e in quella che
segue, ven- gon prospettnte tre ipotesi: che ci sia una scienza unica
degli assiomi, una scienza unica delle sostanze, e una sclenza unica
degli accidenti (i tre termini intorno al quali versa ‘ogni scienza
apodittica). Viene, naturalmente, lasciato in sospeso non soltanto
l’esistonza di queste tre presunte scienze, ma anche Il loro rapporto: sé
sarebbero, In realtà, tre scienze distinte, due, o una soltanto. — Le ultime
pa- role, èx tovtwy pla, è dubbio come si debbano tradurre. Il Bonitz (a
q. 1.) inter- preta: «sive haoc sclentia suspensa nb illis eademque ab
illis diversa, at una tamen est». Il Ross: «one compounded out of these
». Il pensiero sottinteso è che, per tali ipotesi, tra gli accidenti non
sì può far distinzione, quanto alla scienza che li deve studiare: onde si
distruggerebbe, da capo, ogni criterio di distinzione delle scienze
particolari. Per le questioni 3* e 42, v. lib. IV. 2 (per la 9», anche
VI. 1). (2) (Questione 4*)— Quelle della matematica sono «sostanze
intelligibili ». Ma qui (come spesso) « sostanze » vale semplicemente «
esseri reali », 0 « realmente esistenti ». 997 b
74 METAFISICA dell'essenza ci sia dimostrazione('). Se a
una scienza di- versa, quale sarà quella che studia gli accidenti che
riguar- dano la sostanza? Dar conto di ciò è ben difficile.
Un’altra questione è questa: si deve dire che esistono le sole sostanze
sensibili, o anche altre oltre di esse?.e di ge- neri di sostanze ce n’è
uno solo; o più, come dicono quei che pongono le specie e
gl’intermedi, di cui, secondo essi, trattano le matematiche? In
qual senso noi diciamo (*) che le specie sono causa e sostanze per sè,
s'è discorso precedentemente, Tra le diffi- coltà e gl’inconvenienti
molteplici, non è minore degli altri quello di affermare, da un lato, che
ci sono certe nature al di là di questo mondo; e dall’altro, che esse
sono le stesse delle sensibili, tranne che quelle sono eterne, e queste
cor- ruttibili. Essi dicono che esiste l’uomo in sè, il cavallo in
sè, la salute in sè, sì che par non ci sia altra differenza (*).
Essi fanno press’a poco come quelli che van dicendo che ci sono,
sì, gli dei, ma simili agli uomini : come costoro non rie- scono ad altro
che a far degli uomini eterni, così quelli non fanno delle specie altro
che sensibili eterni. Parimenti, se alcuno oltre la specie e oltre i
sensibili vorrà porre degl’intermedi, si avranno molte difficoltà.
Poi- chè è chiaro che, come ci saranno delle linee oltre le linee
in sè e le linee sensibili, così per ciascuna cosa degli altri generi: di
maniera che, essendo l’astronomia una scienza pure matematica, ci sarà un
cielo oltre quello sensibile, con un sole e una luna, e così di tutto il
resto che al cielo ap- (1) L'essenza del triangolo non si
dimostra. Si dofinisce. SI dimostra, invece, che la somma degli angoli
suoi è di due retti. (2) (Questione 5%)— Noi della scuola di Platone.
Cfr. lib. LT. 9, 2. (3) Non che le Idee fossero sensibili, ma la natura
loro, per quanto univer- ralizzata e sottratta al flusso del diveniro,
era quella stessa delle cose sensibili : donde quel raddoppiamento della
realtà, di cui si parlò in I. 9, 1. (In A. la forma non riproduce,
immediatamento, il contenuto, ma Jo media in un processo, sì che esso
diventa un momento, quello potenziale, della forma stessa). (4) Nella
seconda parte del lib. XII A. espone il suo concetto della divinità
‘come puro pensiero (Dio e le Intelligenze motrici: queste sono
«sostanze» non sensibili od esistenti separatamente).
15 16 17 18 19
20 21 LIBRO TERZO 15 partiene. Eppure,
come crederci? Poichè esso non si do- vrebbe dire che è immobile;
d’altronde, non è affatto possi- bile che si muova ('). Parimenti per le
cose di cui. tratta l'ottica e l’armonica matematica: è impossibile che
di esse ce ne siano altre oltre quelle sensibili, per gli stessi
motivi. Che se gl’intermedi fossero sensibili, e di essi ci fosse
sen- sazione, è evidente che dovrebbero esserci anche degli ani-
mali intermedi tra quelli in sè e quelli che periscono (?). Ci sarebbe
anche imbarazzo a stabilire di quali enti si danno questi intermedi
intorno (*) ai quali converrebbe cer- care queste scienze. Poichè, se la
geometria differisse dalla geodesia soltanto perchè questa è di cose
sensibili e quella no, è evidente che dovrà esserci una scienza
intermedia tra la medicina in sè e la medicina attuale; e come per la
me- dicina, così per ogni altra scienza. Ma, come questo è pos-
sibile? Ci dovrebbero essere anche delle cose salubri oltre quelle
sensibili e ciò che è salubre in sè. E bada che nonè neppur vero che la
geodesia sia scienza di grandezze sensibili e corruttibili: chè, perendo
queste, anch’essa perirebbe. (1) Come «cielo», parimenti a
quello che si vede, dovrebbe muoversi; ma, essendo matematico, dovrebbe,
così come gli oggetti della geometria, esser im- mobile. —l'Armonica come
scienza di rapporti quantitativi dei suoni, non come musica, era
considerata come matematica anch'essa. Ricorda le speculazioni pita-
goriche, che «nei numeri vedevano le proprietà e ragioni dell'armonia » e
del- l'ordinamento dei cieli: I. 5, 3-5. (2) «Si (ista) sensibilia
sint intermedia, sc. soni et visibilia, sequetur etiam quod sensus sunt
intermedii. Et cum sensus non sint nisì in animali, sequetur quod etiam
animalia sint intermedia inter species et corruptibilia, quod est omnino
absurdumn »: S. Tom. ($ 419). Così anche Aless, (198, -28). (3) Leggo
xegt, non ragd: v. giusta osservazione del BonuHI [Metafisica di A.,
l'orino, 1854}, p. 139 F. Per il senso, tieni presente che per A. anche le
matema- tiche, come le scienze fisiche, riguardano il mondo sensibile; e
la differenza è che quelle nstraggono dalla materia e dallo qualità, per
considerare la sola quantità e i rapporti quantitativi delle cose; le
scienze fisiche, invece, pur astraendo dalle particolarità delle cose
singole, considerano la forma o le forme in quanto sono unite alla
materia. I Platonici non partivano da questo doppio modo di considerare
la stessa realtà, matematicamente o fisicamente; e però A. dice che, come
per spiegare il carattere scientifico delle matematiche ricorre- vano a
questi enti intermedi tra le idee e i sensibili, così essi avrebbero
dovuto, coerentemente, porre tali intermedi anche per le altre
scienze. 998 a 76 METAFISICA D'altra
parte, l'astronomia non può essere scienza di gran- dezze sensibili e del
cielo che si vede: poichè, nè le linee sensibili sono tali, quali dice il
geometra (') (non c’è nessuna cosa sensibile retta o rotonda a quella
maniera: chè, come già Protagora obiettava ai geometri, il cerchio non
tocca la riga in un punto solo), nè i movimenti e le spirali sono
simili a quelli del cielo, dei quali discorre l’astronomia, nè i
punti hanno la stessa natura degli astri. Ci sono, infine, alcuni
(?), i quali dicono che ci sono, sì, questi intermedi tra le specie e i
sensibili, ma pon separati da questi, anzi ad essi immanenti. A scorrere
tutte le con- chiusioni assurde che vengon fuori a costoro, ci vorrebbe
un lungo discorso. Contentiamoci di queste considerazioni: le cose
non è ragionevole che stiano così per quegl’intermedi soltanto, ma anche
le specie, evidentemente, dovrebbero esser immanenti ai sensibili: chè le
stesse ragioni sono qui e là. Aggiungi che ci sarebbero in questo modo,
di necessità, due solidi nello stesso luogo; e che gl’intermedi non
potrebbero esser immobili, essendo dentro ai sensibili che sono in
moto. E insomma, a che scopo si dovrebbero porre queste entità,
quando poi si debbono porre dentro ai sensibili? Si cadrà negli stessi
assurdi di cui già si discorse: ci sarà un cielo oltre al cielo, salvo
che non separato, bensì nello stesso luogo: la qual cosa, se così si può
dire, è ancora più impossibile. t (1) Alessandro
(200, 11): « A. disso il geometra invece dell’astronomo »: in- tende,
cioè, della geometria di cui fa uso l'astronomia. Protagora moveva, nella
obiezione che segue, dalla sua dottrina sensistica. Pare ch’egli scrivesse
un libro segì tov pa&nuicov (Diog. Laert., IX, 55). (2)
Platonici anch'essi: v. XIII. 1, 7 e 2, 1 ss. (MA in XIV. 3, 3-4 quest’opi-
nione par attribuita ai Pitagorici). Cfr. Zeller, II4, 1009-4. Lo Schwegler
suppone che si tratti di E1dosso, e cita il lib. I. 9, 11: ma ivi si dice
che Eudosso poneva le Idee immanenti alle cose. La presente questione è
discussa ampiamente nei due ultimi libri. 22
24 25 26 1 LIBRO TERZO
71 CapitoLo III. Intorno a queste cose, dunque, ci
sono molti dubbi, come dobbiamo giudicarne per cogliere la verità. Così
pure intorno ai principii: dobbiamo ritenere che i principii
elementari siano i generi, o piuttosto i componenti primi da cui
risulta costituita ciascuna cosa? Elementi, per es., e principii
della voce sembrano essere quelli da cui tutte le voci son com-
poste per natura: non quel ch'è comune a tutte, l’esser voce. Anche delle
proposizioni geometriche diciamo elementari quelle le cui dimostrazioni
entrano nelle dimostrazioni o di tutte le proposizioni o della maggior
parte ('). E nei corpi, tanto coloro che dicono che gli elementi di essi
sono più, quanto coloro che ne pongono uno solo, chiamano principii
ciò di cui essi si compongono e da cui son costituiti: Empe- docle, per
citarne uno, dice che il fuoco l’acqua e i loro intermedi (*) sono gli
elementi da cui risultano le cose in- trinsecamente, e non ne parla già
come di generi degli enti. Oltre di che, se qualcuno vuole indagare la
natura di una cosa qualsiasi, di un letto, per esempio, allora è pago
di conoscere, quando sa di che parti consti e come composte.
Per queste ragioni, dunque, non dovrebbero esser i generi i
principii degli enti. Eppure, in quanto noi conosciamo ciascuna cosa per
mezzo delle definizioni, e poichè principii delle definizioni sono
i generi, di necessità anche dei definiti saranno principii i ge-
(1) (Questione 6*)— Cfr. gli Elementi di geometria di
Euclide (fiorito circa 300); 6 anche prima, al tempo di A., si chiamavano
così . Il termine, tut- tavia, è usato da A. per « proposizioni
elementari» anche fuori della geometria: v. Index Arist., 702 b, 59 88. —
Proposizioni: &eyoGppara, prop. « figure », ma, come notano Asclepio
(174, 9) e Bonitz, vale qui «proposizioni », « teoremi ». (2) tà usetatò
tovtov; leggendo, invece, t. petà t.: «e seguenti», Il Ross osserva in
proposito: « Empedocle non sembra aver trattato l’aria e la terra come
intermedi tra il fuoco e l’acqua: anzi egli oppose il fuoco a tutti gli
altri elementi (cfr. lib. I. 4, 9). Ma A., per il quale il fuoco è caldo
e asciutto, l’acqua fredda e umida, può naturalmente aver trattato l’aria
(calda e umida) e la terra (fredda e asciutta) come fornite di differenze
intermedie (sebbene si possa dire altrettanto del fuoco e dell’acqua in
rispetto all'aria e alla terra)», 998 b 18
METAFISICA neri. E se acquistare la scienza degli enti è
acquistare quella delle specie alle quali ci riferiamo quando parliamo
degli enti, i generi, di certo, sono i principii delle specie.
Sembra che anche alcuni (‘') di coloro che pongono quali elementi
Uno e l’Ente, o il grande e il piccolo, se ne servano come di generi.
D'altronde, dire che i principii sono in entrambi i modi, non è
possibile: perchè il concetto della sostanza è unico: invece, la
definizione per mezzo dei generi sarebbe diversa da quella che ne dicesse
gli elementi costitutivi. Inoltre, se anche spetta soprattutto ai generi
di esser principii, bisogna poi ritenere per principii i generi
sommi, o quelli infimi che si predicano degl’individui (*)? Anche
questo è da discutere. Se, difatti, gli universali sono sempre a maggior
diritto principii, è evidente che tali saranno i generi che stanno
più in su: chè questi si dicono di tutti. Tanti, allora, saranno i
principii degli esseri, quanti i primi generi. Vien di conse- guenza che
principii sostanziali sarebbero l’Ente e l’Uno, perchè essi, più che
alcun altro genere, si dicono di tutti gli esseri. Invece, non è
possibile che l’Uno e l’Ente siano generi degli esseri: poichè è
necessario che le differenze di ciascun genere e siano e siano una
ciascuna; ora non può (1) Pitagorici e Platonici. Le questioni 6°
e 72 vengon riprese vel lib. VII. 10-13, da un altro punto di vista (del
rapporto concreto di materia e forma): se, cioò, gli elementi materiali
entrino nella detinizione di una cosa, e se gli univer- sali (generic! o
specifici) costituiscano la sostanza. (2) (Questione 7%)—Si bndi che con
tà Aropa A, designa tanto « gl'indi- vidui », le cose singolari; quanto
«le specie indivisibili », le specie propr. dette, in quanto « generi
prossimi all'individuo ». Un terzo significato è quello puramente
fisico-matematico, riguardante ad es. l'atomo propr. detto o il punto. V.
Znder Arist. Prescindendo da questo terzo, puramente materiale, si
potrebbe dire che il primo è piuttosto logico-reale; il secondo
reale-logico: nel senso del determinarsi tlel pensiero, nel giudizio,
come pensamento dell'individuo concreto, ovvero come sua
universalizzazione. Per A., infatti, il processo del pensiero deve
corrispondere a quello del reale. Vi corrisponde, in effetto? Si sa che
A. non riesco nd assorbire interamente la materia nel processo accennato,
sì ch’essa resta come un « caput mortuum », che fa ostacolo alla piena
intelligibilità delle cose. Di qui la verata quasestio del « principium
individuationis », e le controversie medievali su la realtà
dell'universale, dei generi e delle specie. c. L}BRO
TERZO 79 concedersi che delle proprie differenze si predichino o
le specie ‘del genere o il genere senza le sue specie: così che, se
l’Uno e l'Ente fossero generi, nessuna differenza dovrebbe essere nè ente
nè una. E se d’altra parte non sono generi, non saranno neppur principii,
una volta che principii sono i generi (*). Di più, anche ciò che
tramezza fra i sommi e gl’infimi generi, preso insieme con le differenze,
formerebbe una serie di generi, fino al punto che è possibile dividere
(*): ora, per (1) Più breve e chiara In nota del
RoLFES (A.' Metaphysil, 2 ediz. 1931, presso il Meiner di Lipsia) a q.
l.: « Prendinmo un esempio, Il genere nnimale sl divide in duo specie:
uomo e bruto. La differenza specifica è ragionevole e irragionevole. Ora,
io non posso dire: il ragionevole è uomo: perchè ragionevole ha
un’'esten- sione maggiore di uomo. Ma neppure: il ragionevolo è animale:
perchò il concetto di ragionevole non ha che vedere con quello di animale.
Invece, io posso e debbo dire: Il ragionevole è ente, è uno. Quindi ente
e uno non possono esser un genere, al quale ragionevole è irragionevole
si riferiscano come difl'erenze specifiche ». Una dimostrazione dal
punto di vista logico-ustratto sl può avere dai Topic/. VI. 6. 144 a,
36-Db, 11. Ma più interessante a notare è che qui si considernuo le
diffo- renze specifiche come forme o concetti che, mentre rendono
intelligibile la realtà al pensiero, la «determinano, ingieme, come un
processo di generi-specie, Sì che non questi generi-specie renli si
predicano (si pensano come predicati determi- nanti) delle difforenze, ma
queste di quelli (nel processo dol peuslero, onde la razionalità si
predica dell'animale come niteriore determinazione di questo nel- l’uomo).
Le differenze, qui, sono come i concetti puri che noi moderni
distinguiamo da quelli empirici. O, meglio, come le idee platoniche,
fatte tuttavia immanenti nl reale e organizzate nel suo svolgimento. S'
intende, orn, che l’essere e l’unità indifferenziata, non facendo pensar
nulla di determinato, non possano esser prin- cipiî, nè nol senso delle
ditforenzo, nè in quello dei goneri-spocie reali. IL tut- tavia, se si va
cal criteria «dell’universalità, esst dovrebbero esser principi più che
mai. (2) héxet TtOv dtépov: alcuni intendono «sino nile specie ultime »,
altri « sino agli individui »: in entrambi i casi non senza
inconvenienti, perchè nel primo caso l'individuo vien escluso dal
processo del reale; nel secondo, vien trattato come punto finale di una
serie di generi. Meglio, in ogni modo, la prima interprota- zione in
questo Inogo, e però ad essa ho intonato la traduzione, nllargando un po’
il testo. Il quale, letteralmente, dice: « Inoltre nnche gl’intermedi, presi
con le differenze, saranno generi sino agl'indivisibili: ora, alcuni par
di sì, altri no ». Cfr. la buona nota del Bonghi a q. I., conforme del
rosto nd Alessandro (207, 17) e n Siriano (33, 8), i quali fauno
osservare che, seguendo il metodo platonico dotla di- visione
contradittorin, i concetti negativi (auimali-senza piedi) e quelli
indicanti qualità accidentali (animali con i piedi) non fondano generi
reali. lL’argomenta- zione, in questo modo, sembrerebbe «diretta contro
il metodo platonico della divi- sione. Ma, in realtà, il pensiero
prevalente è che, piuttosto che porre l’Uno è l'Ente come principio, si
dovrebbero porre infiniti principii, se priucipii sono i generi, e generi
son tutti quelli superiori all'individuo. Questo pensiero, a sua
80 METAFISICA alcune divisioni partebbe doversi concedere, per
altre no. Aggiurigi che le differenze sarebbero principii ancora
più che non i generi: ma, se anch’esse sono principii, i prin-
cipii diventano, per così dire, infiniti, soprattutto se uno ponga per
principio il primo genere ('). D’altra parte, si ponga pure che l’Uno ha
maggiormente carattere di principio. Ma l’Uno è indivisibile, e ogni
indi- visibile è tale 0 secondo la quantità o secondo la specie:
quello secondo specie è anteriore; ora i generi sono divisi- bili in
specie; dunque maggiormente uno dovrebbe essere l’ultimo predicato: di
fatto l’ «uomo» non è genere degli uomini singoli (?). Di più,
nelle cose in cui c’è priorità e posteriorità, non è possibile che quel
che han di comune sia qualcosa fuori di esse. Per es., se tra i numeri
vien prima la dualità, non può esserci un numero oltre la specie dei
numeri. E simil- mente, non si dà figura oltre le specie delle figure. E
se per queste cose, di cui par ci siano generi più che mai, non ci
son generi fuori delle specie, tanto meno per le altre: nelle
volta, non sembra diretto immediatamente alla questione se
principii son piut- tosto i generi sommi o gl’infimi. Il pensiero nascosto
sembra, invece, che i generi non sono affatto principii. (1) Il
primo genere è l’essere (o l’ Uno), che, per A., non è genero (in «rerum
natura» ci 6ono i generi, in cui si divide l'unità astratta dell’essere, come
di un mero xovw6v). Per il senso, meglio di tutti, mi pare, S. Tom. (8
485): «Si prima genera sunt principia, quia sunt principia cognitionis
epecierum, multo magis differentiae sunt principia formalia specierum.
Forma autem et actus est maxime priocipium cognoscendi. Sed differentias
esse principia rerum est inconveniens: quia, secundum hoc, erunt quasi
infinita principia. Sunt, enim, ut ita dicatur, infinitae rerum
differentiae, non quidem infinitae secundum rerum naturam, sed quoad nos.
Et quod sint infinitae patet dupliciter, uno modo si quis consideret
multitudinem ipsarum differentiarum secundum se, alio modo si quis
accipiat primum genus quasi primum principium. Manifestum, enim, est quod
sub eo con- tinentur innumerabiles differentiae ». i (3: L'uomo,
specie ultima, non è ulteriormente divisibile, perchè i singoli momini (criterio
quantitativo) non rappresentano una divisione de! concetto. L'an-
teriorità del criterio qualitativo, qui, è superiorità dal punto di vista
concettuale. Il che non toglie che altrove A., contro l’unità meramente
generica del concetto, non faccia valere come superiore all’Ev tò elber
l'Ev td dortuò, in quanto sintesi del qualitativo e del quantitativo,
nell'individuo che realizza la specie. Cfr. lib. V. 6, 15; e VII. 6. (In
Dio, ch'è puro atto di pensiero, la coincidenza dei due punti di vista,
dell'essenza e dell’esistenza, è perfetta). V. note segg. a 4, 16, ed a 6,
1-5. 10 11 12 LIBRO TERZO
81 indivisibili specie, poi, non c’è «questo vien prima » e
«que- sto vien dopo ». Anche: dovunque c'è un «questo è meglio » e
«questo è peggio », il meglio ha sempre la priorità: così che neanche di
queste cose ci sarà un genere (‘). Per queste ragioni, dunque, pare che
le specie che si predicano degli individui siano principii a maggior
diritto che non i generi. Eppure, da capo, non è facile dire come
si debbano ammettere queste per principii. Il principio e la causa
bisogna che siano al di là delle cose di cui son prin- cipii, e ne
possano star separati (*). Ora, una simil cosa al di là del singolare,
perchè mai uno la penserebbe, se non perchè si predica in universale e di
tutti? Ma, se per questo, i più universali più si debbono reputare
principii: di ma- niera che sarebbero principii i primi generi.
(1) Passo controverso: cfr. Zeller, pp. 568 ss. del vol. cit. (Platone)
e com- mentatori posteriori che in parte concordano, in parte discordano
da lui. Rifa- cendomi alla concezione intera di A., intendo così: dove
c'è un processo di svolgimento, il principio appare in tutta la sua
evidenza nell’ultimo termine, o in ogni punto del processo dove esso
mette capo a una realtà «determinata. Il genere, che è un comune astratto
o un indeterminato, non può valere, quindi, come principio. Si prenda, ad
es., la serie dei numeri o delle figure geometriche, pensandola come
sviluppo concettuale: numero e figura che non siano un deter- minato
numero o figura sono astratti. E il numero e In figura che vengon dopo,
in quanto implicano il numoro o la figura precedente, rivelano ancor meglio
il concetto (îl tre meglio del due, il quadrato meglio del triangolo). E
nei numeri e nelle figure il processo dei generi è infinito? Che se
consideriamo le altre cose, dove pare lo svolgimento non aver luogo (le
specie indivisibili), perchè di generi diversi (uomo, albero, ecc.), o
coordinati in uno stesso genere (uomo, bruto, ecc.), tanto più per esse è
chiaro che il genere non esiste fuori delle specie concrete. Che se anche
in queste si vuo! guardare al processo teleologico, come svolgimento in
perfezione dell’essere (il bene), e si dirà che il bruto vale più
dell’albero, l’uomo più del bruto (il meglio o il peggio), varrà anche
per esse ‘la conside- razione precedente. Cfr. Eth. Eud., I. 8. 1318 a,
2: «In tutte quelle cose in cui ha luogo il prima e il dopo, non esiste
qualcosa di comune oltre di esse, e che sia da esse separabile. Infatti,
se esistesse, sarebbe qualcosa di anteriore al primo termine: e sarebbe
anteriore, il comune e separabile, per questo, che, tolto esso, verrebbe
tolto il primo termine. Per es.: se l'esser doppio è il primo termine dei
molteplici, non può darsi che esista separatamente l'essere molteplice, che è
ciò che di essi si predica in comune: poichè sarebbe, allora, prima del
doppio. E così dovrebbe accadere, se il comune gi vuol porre come idea,
ovvero se del comune si vuol far qualcosa di separato », Con la
interpretazione proposta circa le «specie indivisibili » si evita la con-
traddizione che il Ross rimprovera ad A. di ammettere un universale ragù
calura. (2) Come il Motore Immoto e le Intelligenze motrici di A.
ARISTOTELE, Metafisica. 6 y09 b 82
METAFISICA CapriroLo IV. Una questione affine a
queste ('), la più difficile di tutte e pure la più necessaria a
meditare, è quella di cui è venuto il momento ora di ragionare. Se
non c’è niente fuori dei singoli esseri, e questi sono infiniti, come mai
di esseri infiniti si può acquistare scienza? Di fatto, intanto
conosciamo ogni cosa, in quanto c’è qual- cosa di unico e identico, in
quanto c’è qualcosa d’universale. Ma, allora, se ciò è necessario, e se
bisogna che ci sia qual- cosa oltre gli esseri singoli, bisognerà che i
generi, o gli ultimi o i primi, siano fuori dei singoli: il che s’è
questio- nato dianzi che è impossibile. Di più, dato che esista
qualcosa oltre il sinolo, quando qualcosa vien predicato della materia
(*°), — si domanda se, dato che esista, esso debba esser fuori di tutte
le cose, o di alcune sì e di alcune no, o di nessuna. Che se non
ci fosse niente fuori dei singolari, niente sa- rebbe intelligibile, ma
sarebbe meramente sensibile ogni cosa e non ci sarebbe scienza di nulla:
a meno che uno non dica che scienza è la sensazione (*). E neanche ci
sarà nulla di eterno e immobile: poichè le cose sensibili tutte s!
corrom- pono e sono in movimento (‘). Ma, allora, se niente c’è di
eterno, neppure è possibile che ciì sia il divenire, perchè quel che
diviene ha da essere qualcosa, e così anche quel da cui viene, e l’ultimo
di questi termini più non deve essere ge- nerato: chè una fermata ci
vuole, ed è impossibile che il divenire venga dal non-essere. Così,
essendoci generazione e (1) (Questione 8*)— Ripresa, infatti, in
lib, VII. 93. 7-9. 17; VIIL A. 6. (2) La forma sostanziale, l’anima, ad
es., la quale, appunto, è principio deter- minante, o categorico, del
corpo vivente. (3) Così Protagora nel Teeteto. Qui la questione
s'incontra con la 5*, la quale, tuttavia, fu trattata piuttosto
storicamente e criticgmente, che in via teoretica e .
costruttiva. (4) I cieli sono sensibili, ma ‘eterni, sebbene in
movimento. A., tuttavia, qui parla degl'individui soggetti al processo di
generazione-corruzione, (da | e. 1
10 11 14 LIBRO TERZO 83
movimento, c'è di necessità anche’ un limite; poichè nè c’è
movimento che non abbia fine, ma ognuno ha un termine ('); nè è possibile
che divenga quel che non perviene mai ad essere: di necessità, tosto che
il suo divenire si compie, ogni cosa, divenuta, è. E se la materia deve
esistere, appunto per- chè non soggetta al divenire, sarà molto più
ancora ragio- nevole che ci debba essere la sostanza, che è ciò che
la materia diviene. Altrimenti, se nè quella nè questa ci fossero,
non ci sarebbe proprio niente del tutto. Questo non è am- missibile;
deve, dunque, esistere qualcosa oltre il sinolo: la forma e la specie.
Ma, di nuovo, se si ammetterà. questo, sorgerà il dubbio per quali
cose si debba ammettere, e per quali no. Di tutte è evidente che non si
può: di certo, non ammetteremo che ci sia una qualche casa (*) fuori
delle cose particolari. Inoltre, la sostanza sarà unica per tutti: ad
es. per tutti gli uomini? È assurdo: chè gli esseri di cui la sostanza
è unica per tutti, sono una cosa sola. Diremo, invece, che sono
molti e differenti? Ma anche questo è assurdo (*). E intanto, come la
materia diviene ciascuna delle cose particolari, e come il sinolo è
materia e forma insieme? Si potrebbe su i principii sollevare anche
questo dubbio. Se la loro unità è specifica, niente sarà uno numericamente,
neppure lo stesso Uno e l'Ente (‘). (1) In conchiusione, come ha
dimostrato nel lib, II. 3, ci ha da essere per il divenire, nella serie
delle cause, un principio materiale, da cui vengono le cose; un termine
finale (ch'è anche principio motore), e una causa formale (per cui ciò
che diviene diviene qualcosa). (2) La casa è un prodotto artificiale,
non naturale, onde la sua forma non è organizzata nel sistema delle
specie dell'essere. Non c’è, quindi, la casa-specie, come forma pura che
si svolga attraverso le case particolari. (3) Nè un'unica forma
sostanziale, nè una molteplicità di forme sostanziali, ma un'unica forma
che, diversamente sostanziandosi con la materia, produce la molteplicità
degl’individui. In questo senso soltanto par doversi concedere l’esi-
stenza di un principio puramente formale oltre la materia e il sinolo, per la
realtà e intelligibilità delle cose della natura. (4) (Questione
9£)— Principii della stessa specie possono esser meramente simili. non
esser forme di un unico principio. 84 MRTAFISICA E
come potrà esserci il sapere, se non ci sarà qualcosa 15 di unico che si
predica di tutti? Invece, se la loro unità è numerica, ciascuno dei
principii 16 sarà uno e identico; e non, come nelle cose sensibili,
sempre diverso, secondo la diversità delle cose ('). Ad es.: se
questa sillaba è tale perchè ha una determinata qualità, anche i
suoi principii, o elemen ti, sono da considerare
specificamente gli stessi: ma, se li ripeto, non son più gli stessi
quanto al nu- mero. Se, dunque, non è così, ma l’unità dei principii
dei reali è soltanto numerica, non esisterà nient'altro fuori degli
elementi: infatti, dire «uno di numero» e dir «singolare » 1000 a è lo
stesso. Noi diciamo, appunto, singolo quel che è uno numericamente,
universale quel che riguarda tutti. Sarebbe come se gli elementi fonici
delle parole fossero determinati quanto al numero: necessariamente,
l’alfabeto non potrebbe contenere un numero di lettere maggiore di quegli
elementi: e non ce ne sarebbero due, nè più, della stessa specie.
Di non minore importanza delle altre è una questione 17 trascurata dai
moderni non meno che dagli antichi: se i principii delle cose
corruttibili (*) e delle incorruttibili siano gli stessi, o diversi. Se
sono g li stessi, come accade che le 18 (1) Un principio unico
senza differenze non può spiegare la diversità delle cose. Separando, per
la discussione, nel concetto dell’unità, il lato fomnale dal materiale,
questo assume un significato aritmetico, semplicemente quantitativo, con
esclusione del qualitativo 0 specifico; quello, a sua volta, acquista il
senso di un'universalità astratta, indifferente al contenuto. (Il
rapporto dei due punti di vista nel giudizio concreto è dato da quello
del soggetto individuale al predicato universale: sì che s'intende come
ognuno dei due può giustamente aver pretesa di superiorità su l’altro).
Le lettere dell’alfabeto, le sillabe, ecc. (noì diremmo le parole) son
sempre diverse nelle parole (e queste nel discorso), pur essendo
numericamente e speci- ficamente le stesse (è pur sempre quel certo
significato che si svolge nella diversità della parola). Se dovessero
esser le stesse soltanto numericamente, sarebbero come tessere che, per
quanto diversamente configurabili, resterebbero identiche: così erano gli
elementi (terra, acqua, ecc.) immaginati come dati, una volta per sempre,
per la costruzione del mondo. Questo, non ostante le apparenze, sarebbe
immobile, senza generazione nè svolgimento. Così il linguaggio sì
ridurrebbe a parole, la parola a lettere alfabetiche corrispondenti al
numero degli elementi fonici di essa. La questione è ripresa, ma in
polemica contro le Idee, nel lib. XIII. 10. (2) (Questione 104)—
Corruttibili e incorruttibili: noi diremmo transitorie ed eterne.
21 LIBRO TERZO 85 une siano corruttibili e le
altre incorruttibili, e per quale motivo? Quei del tempo di
Esiodo, e tutti quanti teologizzarono, pensarono soltanto a dir cose
conformi alle loro credenze, e delle difficoltà che travagliano noi non
si curarono. Essi dei principii facevano Dei e dagli Dei facevano venir
tutto, e dicevano che gli esseri i quali non hanno gustato il
nettare e l'ambrosia nascono mortali. Certamente, parlavano così
sapendo, essi, quel che dicevano. Ma le ragioni che appor- tano,
sorpassano la nostra intelligenza. Poichè, se è per cagion del piacere
che quegli esseri l’assaggiano, non è il nettare o l'ambrosia la causa
del loro essere; e se fosse la causa del loro essere, come sarebbero
eterni avendo bisogno di nutrimento? Ma non vale la pena di fermarsi a
indagare intorno a queste escogitazioni mitologiche. Bisogna
appren- dere da quelli che parlano dimostrando, e chieder loro come
mai degli enti che vengon dagli stessi principii, alcuni sono eterni per
natura, e altri periscono. Non dicendo costoro la ragione di questo
fatto, e non sembrando neppur ragionevole che stia così, si potrebbe
conchiudere che non sono gli stessi i principii degli enti, nè le loro
cause. A Empedocle, del quale si potrebbe pensare che più degli altri sia
d’accordo con se stesso, anche a lui è accaduto lo stesso. Egli pone, è
vero, un principio causa della corruzione, la discordia; ma
parrebbe che questa fosse causa non più della corruzione che della
generazione d’ogni cosa, ad eccezione dell’ Uno ('), perchè le altre cose
tutte vengono da essa, tranne Dio. Dice, infatti: Dei quali sono
tutti gli esseri, quanti ce ne furono, e quanti ce ne saranno di nuovo;
{quanti ce ne sono, e le piante germogliarono, e gli uomini e le donne,
e le belve e gli uccelli e i pesci che nutre l'onda, e i numi
longevi. E anche senza questi versi, è evidente: chè, se non
ci fosse la discordia nelle cose, queste sarebbero tutte una sola,
(1) L' Uno, Dio, è lo Sfero (quando questo era governato
dall’Amore soltanto). 1000 b 86 METAFISICA
come egli stesso dice: infatti, quando si trovavano riunite, allora
«la Contesa se ne stava all’estremo confine ». D’onde gli avviene anche
di fare il felicissimo Dio meno intelligente degli altri: di fatto, non
possedendo la discordia, non ha cognizione di tutti gli elementi, chè la
cognizione è del simile col simile. Egli dice: terra con
terra, acqua con acqua scorgiamo, con l’etere l’etere divino, e il fuoco
distruttore col fuoco, con l’Amore l'Amore, con la Discordia funesta la
Discordia. Ma, per tornare al nostro discorso, è manifesto che
per lui la discordia bisogna che sia non meno cagione dell’essere
che della corruzione. E neppure l’amicizia è causa soltanto dell'essere:
rimenando tutto all’unità, fa perire ogni altra cosa. Intanto non ci dice
niente su la causa di questa mu- tazione, ma solo che così è per
natura: ma quando la Discordia fu cresciuta grande nelle
membra e sali al comando, compiendosi il tempo che ad entrambe è
prefisso, in alterna vicenda, da un inviolabile giuramento ('),
come se la mutazione fosse necessaria; ma non ci palesa nes- suna
cagione di questa necessità. Pur tuttavia egli è il solo che parli
coerentemente, in quanto non fa già degli enti gli uni corruttibili, e
gli altri no; ma tutti corruttibili, eccetto gli elementi. Invece la questione,
di cui qui trattiamo, è perchè aleuni sono corruttibili ed altri
incorruttibili, una volta che vengono da gli stessi principii.
Che, dunque, i principii non possano esser gli stessi, basti quanto s’è
detto. Ma se i principii son diversi, uno dei dubbi sarà se quelli
delle cose corruttibili siano ineorruttibili, o corruttibili an- ch’essi
(*). Se corruttibili, è chiaro che anch’essi debbono
(1) Per frammenti Empedoclei, cfr. Diels, op. cit., I, 180 88. (nn. 21,
30, 96, 109). V. anche E. BicnonE, E., pp. 417 88. (9) Così anche
il Lasson (trad. della Met. di A., Jena, 1* ediz. 1907, p. 51).
Letteralmente sarebbe: «uno dei dubbi sarà se essi stessi sono incorruttibili
o 22 24 25 26
27 28 29 30 31 LIBRO
TERZO 87 necessariamente venire da altri principii, perchè ogni
cosa si corrompe in ciò da cui deriva: onde risulterebbe che ci
sono altri principii anteriori ai principii. Ma questo non è accettabile,
sia che ci si voglia fermare, sia che si proceda all’ infinito (‘). E
poi, quando i principii loro saranno stati distrutti, come possono
esserci più i corruttibili? — Se, in- vece, sono incorruttibili: perchè
mai da alcuni di essi verran fuori gli enti incorruttibili, mentre da
altri, incorruttibili anche essi, verran fuori enti corruttibili? Non par
davvero ragionevole: anzi, o è impossibile, o c’è bisogno di molte
spiegazioni. In fine, nessuno mai ha preso a dire che i principii
degli enti fossero diversi, anzi dicono che son gli Stessi per tutti.
Nella questione, tuttavia, che agitammo dianzi, non s’adden- trano, quasi
reputandola di poco conto. La questione più di tutte difficile a
meditare e la più ne- cessaria alla conoscenza della verità, è se l’Ente
e l’Uno sono sostanze degli enti, sì che ciascuno di essi, quello
in quanto ente, questo in quanto uno, non siano predicato di altro;
ovvero se bisogni cercare che cosa sia l’Ente, e che cosa sia l’ Uno, in
quanto un’altra natura sta loro a sostrato. Alcuni la pensano nella prima
maniera, altri nella seconda. Platone e i Pitagorici ritennero che l’
Ente e 1’ Uno non siano null’altro se non quello che è la loro natura, di
essere cioè la sostanza loro l’essenza dell’ Ente, appunto, e dell’ Uno
(?). I corruttibili ». Ma mì par chiaro, da quel che
segue, che la questione riguarda 801- tanto i principii dello cose
corruttibili. Delle incorruttibili come può sorgere il dubbio? Nò ia
questione è diversa dalla precedente: l’incorruttibilità dì quei
privcipii, infatti, è dimostrata per la medesimezza, laddove la corruttibilità
de’ loro effetti è adotta in prova della loro diversità, (1) Se ci
sì ferma, ci son principii anteriori, e son essi principii, non gli
altri. Se si volesse procedere (o regredire) all'infinito, non ci
sarebbero principii addi- rittura, In entrambi i casi quei principii
supposti corruttibili verrebbero distrutti come principii, logicamente e,
in quanto abbassati a cose corruttibili, anche real- mente. La presente
questione si può considerare risolta nel lib. XII (spec. nei primi
capitoli). (2) (Questione 11)— L'essere in sò e per Sè, e così l'Uno,
sono sostanza «lelle cose, come vogliono Pitagorici e Platonici; ovvero
la sostanza delle cose consiste nel sostrato determinato (materia e forma
nell’unità del BIinolo), del quale si possono predicare l’essere e
l'uno? 1001 a 88 METAFISICA I Fisiologi
la pensarono altrimenti. Empedocle, ad es., per dire che cosa è
l’Uno cerca di ridurlo a qualcosa di più facile a sapersi, e
parrebbe che questo fosse per lui l’ami- cizia: per lo meno, essa è la
causa dell’unità di tutte le cose. Altri dicono il fuoco, altri l’aria:
questa è, per essi, la na- tura dell’ Uno e dell'Ente, da cui sono e si
generano le cose. E del pari, coloro che pongono più elementi: anch'essi
son costretti a dire che l’Uno e l’Ente è tante cose quanti per
l'appunto sono i principii (‘). Se non si volesse concedere che l’Uno e
l’Ente sia una sostanza, neppure quindi può esser tale nessuno degli
altri universali: chè quelli sono universali a maggior titolo degli
altri. Se per ciò non è qualcosa (?) l’Uno per sè e l’Ente per sè, molto
meno si può dire degli altri che siano qualcosa oltre le cose singolari.
In secondo luogo, se l’Uno non fosse sostanza, è chiaro che neppur
il numero sarebbe una natura separata (*) dalle altre: poichè il numero è
fatto di unità, e l’unità è l’essenza, per l'appunto, d’ogni cosa ch'è
una. Ma se l’Uno e l’Ente sono qualcosa che è in sè e per sè,
necessariamente la loro sostanza è l’Uno e l'Ente, perchè non c’è in essi
qualche altro sostrato di cui essi si predichino universalmente, ma sono
essi questo sostrato. Ma, allora, se l’Ente e l’Uno sono qualcosa in sè
e per sè, la difficoltà grande è come ci potrà essere qualche altra
cosa oltre di essi: in altri termini come gli enti potranno essere più di
uno. Poichè l’altro dall’ente non è: per cui si è costretti a ragionare
come Parmenide (‘), che tutte le cose (1) I Fisiologi posero per
principio, non l' Uno in sò e per sè, ma una materia primordlale, unica o
molteplice, come sostrato del divenire, (2) Qualcosa di esistente in sè
e per sè: i. e. una sostanza. (3) I. e., come prima, una sostanza: ciò
che ha un'esistenza indipendente (in sè e per sò), (4) I Platonici
intendono l'essere come essenza (l'essere intelligibile) dolle cose, e in
questo il loro principio è ben altro da quello parmenideo. Ma essi, dice
A., debbono pure, come Parmenide, escludere ogni molteplicità dal prin-
cipio posto come assolutamente Uno. (Ricorda che, pur riconoscendo
l'esistenza del molteplice, Platone, come si vide nel lib. I. 6, 9, pose
questo come contenuto 33 34 36
37 LIBRO TERZO 89 38 sono Uno, e questo è
l’Ente. Non c’è da star contenti nè in 1001 b un caso nè nell’altro: o
che l’Uno non sia sostanza, o che l’Uno sia qualcosa in sè e per sè, il
numero non può essere sostanza. Se l’Uno non è sostanza,
quest’impossibilità s'è dimostrata prima. Se invece è sostanza, vale per
esso la stessa difficoltà che intorno all’Ente: donde verrà un
altro uno oltre l’Uno in sè e per sè? Necessariamente, esso non
potrà esser uno. Ora, tutto ciò che è, o è uno, o molti, dei quali
ciascuno è uno. 39 In secondo luogo, se l’Uno è in sè indivisibile,
stando alla sentenza di Zenone esso sarebbe nulla; poichè, ciò che
o aggiunto o sottratto non fa esser perciò una cosa nè più grande nè più
piccola, non è secondo lui da annoverare tra gli enti; come se fosse
evidente che l’essere sia una gran- dezza, e, se grandezza, sia perciò
corporeo: chè questo sa- rebbe ente da ogni lato. Le altre grandezze ('),
invece, ag- giunte in un certo modo (*), dice, fanno più grande ciò
a cui si aggiungono, e in un altro, no: per es. una superficie, 40
una linea. Il punto e l’unità, in nessun caso, mai. Costui è rozzo nelle
sue speculazioni; e poichè qualcosa indivisibile esiste, se ne potrebbe
far la difesa contro di lui anche così: esso è di tal natura che,
aggiunto, non farà più grande ciò 41 a cui si aggiunge, ma, con esso,
farà più nel numero. Rimar- rebbe, ciò non ostante, la questione (*):
come da un tale uno, soltanto: laddove il principio
formale dell'idea era l’unità pura). In termini filoso- fico-religlos!,
la dottrina platonica conduceva ad un misticismo pantelstico (salvo il
motivo, teistico, della trascendenza formale, svolto da A.). (1) L'Uno,
contro il quale Zenone combatte, non è (come giustamente fa osservare il
Ross) il principio parmenideo, ma quello pitagorico, o l'uno come
prinelpio di spiegazione del molteplice fisico (sensibile, corporeo). Esso era
pen- sato, infatti, come una grandezza indivisibile (cfr. l'atomo
democriteo). E però Zenone accetta questo modo di vedere, e considera il
corpo (il solido, la gran- dezza a tre dlmensloni) come ente a maggior
ragione delle altre grandezze. Egli può, così, dimostrare che il mondo e
ogni cosa, in quanto risultante da quelle unità elementari, sarebbero
insieme infinitamente grandi e infinitamente piccoli, ossia
contradittorli. (2) Secondo che si agglungono l’una di seguito
all'altra, oppure vengon so0- vrapposte; (3) A. non condivide il
modo dl vedere pitagorico-platonico che identifica l'arltmetico col
geometrico, e però trova rozza l’argomentazione di Zenone. 1002
a 90 MBTAFISICA o da molti come esso, si avrà la
grandezza? Poichè è come dire che la linea risulti di punti. E se anche
si vuol ammet- tere quel che dicono alcuni, che il numero provenga
dal- l’Uno in sè e da qualcos’altro non uno ('), resta sempre a
sapersi perchè e come l’effetto è talora un numero, talora’
una grandezza, una volta che il non-uno è la disuguaglianza e la sua
natura è sempre la stessa (?). Non si vede nè come da l’Uno più questa,
nè come da un numero più questa, potrebbero venir fuori le
grandezze. CapPITOLO V. A queste fa seguito la
questione, se i numeri e i corpi (*) e le superfici e i punti siano da
porre tra le sostanze, o no. Se non sono sostanze, ci sfugge che cosa
sia l’essere, e quali cose siano sostanze. Le affezioni, i movimenti, le
rela- zioni, gli ordinamenti e rapporti diversi delle cose, non
pare davvero che esprimano la sostanza di nulla: essi vengono tutti
riferiti a un sostrato, e nessuno è un essere concreto. Si prendano pure,
come esprimenti la sostanza meglio di ogni altra cosa, l’acqua e la terra
e il fuoco e l’aria, di cui constano i corpi composti; ma il loro
riscaldarsi o raffred- darsi, e simili altre affezioni, non sono
sostanze: solo il corpo che li riceve, rimane come qualcosa di concreto e
come una sostanza reale. E tuttavia, il corpo è ancor meno sostanza
della superficie, e la superficie della linea, e la linea del-
‘Tuttavia dà ragione a costui quanto all’impossibilità di dedurre l’esteso
dal- l’ inesteso. Ricorda, infatti, l'imbarazzo di Platone per il
concetto di punto: lib, I. 9, 25. (1) La diade indefinita (il
grande-piccolo). (2) Onde, o è ineste sa, e dall'unione
con l'Uno verranno i numeri, non le grandezze; o è estesa, e dall'unione
con l’Uno verranno le grandezze, non i numeri. Nè, se uno dicesse che,
prima, dall’Uno e dalla diade si genera il nu- mero, poi da questo con la
diade le grandezze, — neanche così resterebbe spiegato il passaggio
dall'inesteso all’esteso. La questione 11° è ripresa in VII. 16, 3-4 e X.
2 (oltre gli accenni sparsi nei libri XIII-XIV). (8) (Questione
12*)—I solidi (corpi matematici). 42 LIBRO TERZO
91 ‘unità e del punto. Infatti, da questi vien determinato
il corpo: e se questi parrebbe che possano esistere senza il 5
corpo, il corpo senza di essi non può('). Avvenne per ciò che i più
antichi filosofi, pur reputando, conforme all’opi- nione dei più, che il
corporeo fosse la sostanza reale delle cose, considerarono il resto sue
affezioni, così che i principii dei corpi erano, anche per essi, i
principii delle cose. Ma i filosofi posteriori (*) e più raffinati di
quelli reputarono che principii siano i numeri. 6 Dunque, come s’è
detto, se questi non Sono sostanza, non c’è punto nessuna sostanza, nè
alcun essere reale: chè i loro accidenti non meritano davvero di esser
chiamati enti. 7 D’altra parte, se si concede questo, che le linee e i
punti sono sostanza più dei corpi, non vedendo noi di quali corpi
possano esser sostanza (di quelli sensibili non è possibile), 8 non ci
sarebbe sostanza nessuna (*). Inoltre, pare che tutte queste cose siano
divisioni del corpo, l’una in larghezza, 9 l’altra in profondità, e
l’altra in lunghezza (*). Aggiungi che nel solido o c’è del pari ogni
sorta di figure, o non ce n'è nessuna: per cui, se, poniamo, non c’è un
Ermete nella pie- tra, neppure c’è la metà del cubo nel cubo(°):
s’intende (1) Tanto poco si deve ritenere per sostanza ciò che a
unu veduta grossolana pare più corporeo, che anzi gli elementi primi e i
principii generatori del reale si trovano per ultimo con l’anallsl della
riflessione: la superficie come principio generatore del solido, lu linea
della superficie, il punto della linea. — Parrebbe che il semplice possa
esistere prima e indipendentemente dal più complesso (v. lib. I. 8, 9
88.), 6 però esser sostanza n maggior diritto. (2) I più antichi
filosofi: i Fisiologi. I filosofi posteriori: Pitagorici e Platonici.
(3) Cfr. VII. 10, 19: «La materia intelligibile, quale quella delle
matematiche, è nei sensibili, ma non in quanto sensibili ». E già in I.
8, 1 aveva detto che con i principii matematici non si può dar conto
delle proprietà e qualità delle cose oggetto della Fisica. (4) Non
sostanze, ma divisioni che noi operiamo nei corpi. (5) Come nota S. Tom.
(8 509): «haec in continuo non sunt in actu, nisi solum quantum ad illa
quae terminant continuum, quae manifestum est non esse sub- stantiam
corporis. Aliae vero superficies vel lineae non possunt esse corporis
substantiae, quia non sunt actu in ipso: substantia autem actu est in eo
cuius est substantie ». In potenza ci son tutte: così come la figura di
Mercurio è nel blocco di marmo, e la superficie che divide 11 cubo a metà
è nel cubo. In atto ci sono soltanto se le realizziamo: se no, rimangono,
come idee soltanto, nel 1002 b 92 METAFISICA
come figura determinata. E così per le superfici: se, infatti, ci
fosse ogni sorta di superfici, ci sarebbe anche quella che determina la
metà del cubo. Lo stesso ragionamento vale anche per la linea, per il
punto e l’unità. Sì che, se il corpo principalmente è sostanza, ma queste
cose, che pur han di- ritto di esser sostanza più di esso, non sono poi
per nulla determinate sostanze, — ci sfuggirà quel che è il reale,
e quale sia la sostanza degli enti. Altri assurdi vengon fuori
considerando la generazione e la corruzione. Sembra, infatti, che la
sostanza, se prima non era ed ora è, oppure prima era ed ora non è,
subisca queste vicende perchè si genera e si corrompe. Ma i punti e le
linee e le superfici, pur talora essendo e talora no, non possono
nè generarsi nè corrompersi, per la ragione che è nell’atto in cui
i corpi si toccano e si dividono che, in un caso, di quel che viene in
contatto (') si fa unità, nell’altro, quel che vien di- viso diventa due:
quei che si compongono, c’erano, ma, es- sendo stati distrutti nella
composizione, non sono più; quando invece vengono divisi, ci sono, mentre
prima non c’erano. Di sicuro, non si è già diviso in due l’indivisibile
punto (?). Eppure, se si generano e corrompono, ciò avviene da qualcosa.
Press’a poco lo stesso vale, in riguardo al tempo, per l'istante:
neppur di esso si dà generazione e corruzione, e tuttavia sembra che sia
sempre diverso pur non essendo una sostanza. È chiaro che lo stesso vale
anche per i punti, per le linee e per le superfici: perchè il discorso è
lo stesso: tutti sono similmente o limiti o divisioni (*).
pensiero e virtualmente (ricorda Leibniz!) nelle cose. L'« argumentationis
fraus » (Bonitz, p. 167), per cui A. estenderebbe la conchiusione «ad eam
figuram quae actu corpus circumsceribit », non mi par che ci sia.
(1) I. e. punti, linee, superfici (propriamente, superfici, so si compongono
0 dividono due corpi; linee, se due superfici; punti, se due
linee). (2) «Neque enim illud quisque statuitur, ita in dirimendis
corporibus fieri - planum vel lineam, ut ipsum punctum
dissecetur»: Bonitz (p. 168). A ciò, infatti, ci vorrebbe un passaggio,
dalla potenza all'atto. Laddove l’atto è istantaneo, e nell'istante non
c'è generazione (che implica un processo temporale). (3) V. il passo di
S. Ton. cit. dianzi. Degli enti matematici trattano ampia- mente i libri
XIII-XIV; ivi è ripresa anche la questione delle idee, alla quale si
ritorna nella 13% (efr. la questione 5* e 9°). 10
11 LIBRO TERZO 93 CapiToLo VI. 1 Si
potrebbe anche in generale far questione, perchè mai bisogna cercare
altre entità oltre le sensibili e le intermedie, 2 e quali siano: per
es., le specie, che noi poniamo. Si può rispondere che gli enti
matematici differiscono bensì per un verso dalle cose di quaggiù, ma non
ne differiscono punto in quanto ce ne sono molti della stessa specie ('):
per cui i principii delle cose non si possono determinare con il
numero; così come l'alfabeto non è determinato dal numero delle
let- tere, ma dalla loro specie (a meno che uno non prenda le
lettere di una sillaba o parola attualmente determinata: chè 3 lì anche
il loro numero è determinato). Ma lo stesso vale per gli intermedi:
anche-là, infiniti sono quelli della stessa specie. Così che, se oltre le
cose sensibili e gli enti matematici non ci fossero altri enti, quali
sono le specie secondo alcuni, — nè ci sarebbe una sostanza unica per
numero, oltre che per spe- cie (°), nè i principii degli enti sarebbero
tanti, e non più, di numero, ma di specie soltanto. Che se questo è necessa-
riamente conchiuso, bisogna conchiudere anche che le specie 4 esistono. E
se pure non si spiegano bene i loro sostenitori, bene è questo quel che
vogliono, ed è necessario che questo essi intendano dire: che delle
specie ciascuna è una sostanza (1) (Questione 18%) — Molti
(infiniti) triangoli sensibili, e molti (infiniti) triangoli geometrici
(sebbene questi siano eterni e immobili). Questa molteplicità ha bisogno
di un principio di unificazione, che non può esser altro che ideale (in
questo caso, il concetto stesso dij triangolo). Così, come l'alfabeto è tale
per In «specificità» delle lettere in cui i suoni fonici ri determinano,
non per il numero dei suoni che fan capo a esso. (2) Oppure,
secondo la variante difesa dlal Bonitz e dallo Schwegler (e già in
Aless.): «ma soltanto di specie ». Il senso, tuttavia, è giusto anche
tenendo il testo com'è. Nota che nell'argomentazione i termini
s'inerociano: il molte- plice sensibile e matematico è veduto deutro la
specie, ed è perciò « della stessa specie »; esigere, poi, che anche per
questo molteplice ci sia una specie unica, che ne dia la ragione logica e
insieme reale, è esigere un’unità numerica, oltre che specifica: laddove,
se quel molteplice è veduto fuori della specie, questa rap- presenta di
esso un’unità specifica, non numerica. 1003 a 94
MMTAFISICA determinata, sì che non si tratta .di determinazioni
acciden- tali dell’essere. D'altra parte, se noi porremo che le
specie esistono ('), e che i principii abbiano unità per il numero, non
per la specie, — s'è detto innanzi (*) a quali conchiusioni
inaccet- tabili si arrivi. Affine a questa è la questione se gli
elementi sono in po- tenza o in qualche altro modo (*). Se fossero in
qualche altro modo, ci sarebbe qualcos’altro, anteriore ai principii,
poichè la potenza sarebbe anteriore a una tal causa, non essendo
necessario che tutto ciò che è possibile sia a quel modo (*). Se,
invece, gli elementi sono in potenza, potrebbe non esister nulla
attualmente, poichè è possibile anche ciò che ancora non è. Diviene,
infatti, ciò che non è ancora. Invece, nulla diviene di quel che è
impossibile che sia. Queste, dunque, sono le questioni da discutere
intorno ai principii; e anche se siano universali, o al modo che
diciamo dei singolari. Se universali, non saranno sostanze, perchè
nessun termine comune esprime un essere concretamente de- terminato,
bensì una certa natura dell’essere; invece, la so- stanza è un essere
concretamente determinato. Se ciò che si predica in comune (*) fosse un
essere concretamente deter- (1) A sè, come sostanze, enti separati
o indipendenti. (2) V. nel Sommario quest. 54, a); quest. 9, b). L'unità
per il numero, soltanto, fa dei principii elementi materiali, incapaci di
dar ragione delle cose. Cfr. S. Tom. (8 518): « Principia rerum
efficientia et moventia sunt quidem determinata nuniero; sed principia
rerum formalia, quorum sunt multa individua unius speciei, non sunt
determinata numero, sed solum specie ». (3) (Questione 148) — In atto.
La questione è a/fne alla procedente, per- chò l’unità numerica, oltre
che specifica, è Atto e individualità; quella soltanto specifica
corrisponde alla mera possibilità, (4) L'attuale (empiricamente inteso)
presuppone il possibile (come sua propria pensabilità, diremmo noi), non
viceversa. Nota che altro è il « possibile », altro ciò ch’ è «in potenza
» (sebbene di solito indicati con lo stesso termine: tò Buvaréy): in
questo è già il principio del processo determinato del divenire, che si svolge
da una forma già realizzata in una materia; il possibile, invece, non ha
altra determinazione che di non esser contradittorio. La questione è
ripresa e trat- tata in lib. IX. 1-9. (5) (Questione 15%) —
xatnyogovpeva, universali astratti. La questione è implicata già nella
72, 8, 93, 115, 10 11 12
LIBRO TERZO 95 minato, e si potesse staccare dai particolari,
Socrate sarebbe molti esseri viventi: cioè, lui stesso, l'uomo,
l’animale: dato che ognuno di questi sia un essere concreto e qualcosa
che sta da solo. Questo, dunque, accade se i principii sono universali.
Se, poi, non sono universali, ma al- modo dei singolari, non
saranno più oggetto di scienza, perchè la scienza in ogni cosa è
dell'universale. Sicchè, se la scienza deve esserci, ci saranno altri
principii anteriori ai principii: quelli che si pre- dicano in
universale. LIBRO QUARTO CapPiTOLO I.
C'è una scienza che studia l'essere in quanto essere (') e le sue
proprietà essenziali. Essa è diversa da ognuna delle scienze
particolari: poichè nessuna delle altre scienze studia in universale
l'essere in quanto essere, re, ma, dopo averne re- cisa qualche parte, di
questa considera gl: gli accidenti. Così, le matematiche.
(1) Td Bv fi Bv: l’essere, il reale, in Sè e per sò. Questa è "la
definizione fondamentale della Metafisica, alla quale si riducono le
altre due vedute finora: quella del lib. I, di scienza dei principii e
cause prime, e quella del lib. II, di scienza della verità. Salvo che l’una
determina il senso della definizione fonda- mentale piuttosto in riguardo
alla realtà delle cose, l’altra piuttosto in riguardo al pensiero che le
pensa. Ma, sì può chiedere, i principil e le cause prime delle cose non
le studinno anche le altre scienze, e in primo logo le fisiche? Qual'è,
allora, la differenza tra la Metafisica e le altre scienze? La questione è
trattata più ampiamente nel cap. 1 del lib. VI, Qui si.ascenna
soltanto-che-le-Matafisica considera 1’ essere nella sua universalità e
necessità. Le altre scienze, il infatti, si restringono t) “considerare
un genere di enti (gli unimalt, Te piante, ece.; i ‘’auoni, i colori,
ecc.; i numeri, lo figure reometriche, ecc.), € però son tutte
particolari. Non solo: ma nel genere particolare di cose, che studiano,
non riguardano no alla loro pura essenza, a ciò che sono per una
necessità intima dell'essere stesso, ma considerano le loro qualità e
proprietà, astraendole (quasi recidendole) dalla sostanza ed essenza
loro, data nel concetto e nella definizione. Ne cgnsiderano gli
accidenti: le fisiche, gli accidenti sensibili; le matematiche (che
astraggono dal resto per considerare le sole proprietà quantitative), gli
accidenti che possiam chiamare intelligibili. Invece, l’essere vien
studiato dalla Metafisica come prin- cipio da cui necessariamente
dipendono gli altri principi, in quanto questi non son altro che parti o
elementi dell’intelligibilità e realtà dell'essere per se stesso.
ARISTOTELE, Metafisica, "i 98 METAFISICA Ora,
volendo noi conoscere i principii e le cause supreme, è chiaro che li
dobbiamo cercare come proprietà di una natura considerata per se stessa.
Se, dunque, coloro che cercavano gli elementi degli enti ('), cercavano
anch'essi questi prin- cipii, di necessità anche gli elementi erano
dell’essere non accidentalmente considerato, ma in quanto essere. Per
ciò anche a noi convien prendere le prime cause dell’essere in
quanto essere. CaPiToLO II. Dell’ente si parla in
molti modi (*), ma sempre per un solo rispetto e determinatamente alla
natura di una cosa, non per omonimia semplicemente, ma nello stesso modo
che di- (1) I Fisiologi, i quali facevano anch'essi,
inconsapevolmente, della metafisica. (2) L'essere in quanto oggetto del
pensiero è l'essere che viene affermata nel conoscere e nel sapere:
l'essere delle cose di cui il metafisico indaga le categorie supremo. Le
altre scienze adoperano queste categorie; il metafisico le studia come
puri concetti in cuì si distingue o determina il concetto in sè e per sè
dell'essere. Dell'essere reale, s'intende: di quello ch'è predicato delle
cose. Questo viene quindi distinto in sostanza e accidenti, gli accidenti
in essenziali e non essenziali, e vla dicendo. E di ognuno di questi aspetti,
che il pensiero coglie nelle cose, si chiarisce il significato e il
rapporto che hauno tra loro. Il conoscore e il sapere, inoltre,
procedono ponendo rapporti tra le cose dentro ciascuna delle categorie
sostanziali o accidentali: rapporti, cioè, di identità, di uguaglianza,
di somiglianza, ecc., e de’ loro contrari, Il metafisico studia il signi-
ficato e il rapporto anche di queste categorie che potremo chiamare
dialettiche, pur che sai badi che qui A. intende del pensiero che si
muove nella realtà delle cose: non per mera esercitazione. Non
basta. Questo pensiero che peusa le cose e i loro rapporti, già nel cono-
scere comune; ma molto più visibilmente in quello scientifico, procede
affermando o negando, con giudizi, ragionamenti, dimostrazioni. Ma affermare
o negare, giu- dicare, ragionare e dimostrare, è impossibile se non si
pongono a fondamento principii di pensabilità delle cose: ci sono certe
verità evidenti, sopprimendo le quali diventa impossibile pur cominciare,
non che a pensare, n parlare. Parlare non è lo stesso che pensare e
ragionare: uno può parlare per espri- mere un sentimento o per
comunicarlo ad altri. Ma anche il pensare discorsiva- mente può essere
riguardato e studiato in sè e per sè, come mero movimento 0 processo
dialettico del pensiero attraverso i concetti e i loro rapporti. Di
questo trattano specialmente i Primi Analitici. Data questa indipendenza
del pensiero in quanto discorso, è possibile abusarne come fanno i
Sofisti. La Metafisica lo sottrae a questo pericolo soggettivo, perchè
essa considera il pensiero in quanto pensa l'essere reale delle cose; e
però spetta ad essa lo studio di quelle verltà 9
LIBRO QUARTO 99 ciamo salubre tutto ciò che riguarda la salute: o
perchè la conserva, o perchè la produce, o perchè indizio di salute,
o perchè ci rende capaci di essa. Così, dicesi «medico » ciò 1008 b
che riguarda la medicina: chiamiamo medico chi possiede l’arte della
medicina, e anche ciò che ha natura buona a medicare, oppure quel che è
effetto di essa. E nella stessa maniera di queste si avranno da intendere
altre espressioni. L'ente si dice per l'appunto così, in molti sensi, ma
tutti in riguardo a un solo principio: enti noi diciamo le
sostanze, e anche le affezioni della sostanza, e tutto ciò che
alla sostanza conduce : corruzioni, privazioni, qualità, quel che
produce o genera una sostanza, cose che si riferiscono. alla.
sostanza, ovvero sono o negazioni ( di i qualcuna di ‘queste v della
sostanza stessa: per cui del non-ente diciamo pure che «è» non-ente(!).
supreme o assiomi, o principii di pensabilità, che scaturiscono
immediatamente dall’intelletto nell'atto del conoscere e di costruire il
sapere. Di questi principii il fondamentale è quello di
non-contraddizione. La Metafisica di Aristotele, veduta da questo lato,
è una scienza della scienza, fin dove, alineno, questo concetto moderno
può essere, senza anacronismo, attri- buito a lui. Manca, naturalmente,
il senso dì soggettività in cui si pone questo concetto dopo Kant, C'è
soltanto quel senso di essa che poteva esserci dopo la Sofistica e in
opposizione all’idealismo oggettivo di Platone. Di qui un primo spunto di
criticismo. La Metafisica di A. è più critica che costruttiva. E poichè
la critica è fondamentalmente concettuale, si può definire una scienza che
mira a chiarire, nella molteplicità del reale, il concetto puro di esso.
La dipendenza, in cui il pensiero è ancora dalle cose, dà, tuttavia,
anche a questa definizione un significato lontano da quello che oggi ci
sì potrebbe aspettare: molte volte, più che elaborare i concetti, A. si
limnita ad esporne il significato, o a distinguerne i vari significati.
Dono, più che risolva, spesso, i problemi: mostrandosi, anche in questo,
scolaro di Platone. (1) In questo capitolo il peusiero procede un po' a
sbalzi, e sembra infatti che il testo vada in qualche punto riordinato.
Esso si compone di tre parti: due pongono il concetto che c' è un'unica
scienza dell'essere in quanto essere, sia in riguardo alla sostanza e ai
suoi attributi, sia in riguardo alle opposizioni dialetticheia terza
differenzia questa forma di scienza dalle altre. Riassumiaino brevemente,
per mostrare l’ordine delle idee: I) Ogni scienza ha un suo oggetto (un
certo genere di cose), del quale con- sidera i vari aspetti. Ma questi si
posson ridurre tutti a quello fondamentale della sostanza e de’ suoi
attributi. Questa distinzione riguarda l'essere di ogni cosa: sarà,
dunque, oggetto della scienza che studia l'essere in sè e per sè. La
quale sarà unica, così come resta unica ogni scienza non ostante la varietà
delle specie del genere che studia: il che non impedisce che abbia parti,
e saranno, queste, organizzate in essa, così come lo sono in ogni altra
scienza [1-4, 7]. 100 METAFISICA In quel modo,
dunque, che di tutte le cose salubri c’è 2 una scienza sola, così anche
delle altre. Compito, infatti, di un’unica scienza è lo studio, non
soltanto di quel che si dice per uno stesso rispetto (‘), ma anche di
quel che si dice con- siderando una stessa natura: chè anche questo, in
certo modo, si dice per uno Stesso rispetto. È dunque chiaro altresì che
3 unica è la scienza che dovrà studiare gli enti tutti in quanto
enti. Ma, dappertutto, scienza è principalmente quella del- l'essere che
è primo, e da cui tutto il resto dipende, e per cui di tutte le cose sì
parla. Se dunque questo primo è la sostanza, dovrà il filosofo possedere
i principii e le cause delle sostanze (?). In ogni genere di cose,
come uno è il senso (*), se i sen- 4 sibili appartengono a uno stesso
genere, così è della scienza: la grammatica, ad es., sola, basta alla
considerazione di tutte le voci. Per ciò ad una scienza unica di genere
spetta di studiare quante ci sono specie dell’ente come ente: alle specie
di quella, poi, le specie di questo (*). II) Parlar
dell'Uno e parlar dell’ Essere è lo stesso. Le opposizioni dialet- ‘tiche
sono opposizioni dell'essere, perchè il non-essere in realtà è, non mera
negazione, ma privazione, contrarietà. Ora, l'opposizione unità-molteplicità è
op- posizione di contrari, e questi, a lor volta, si riducono sempre
all'opposizione upo-molteplice. E poichè ognuno concede che dei contrari
la scienza è unica, unica sarà la scienza della contrarietà in generale.
Questa avrà significati diversi. che tale scienza dovrà studiare,
chiarire e organizzare logicamente [5-6, 8-11, 15-16). III) E per il
primo e per il secondo rispetto si conchiude che unica è la scienza
dell'essere în quanto essere, la quale studierà l’essere in quanto
sostanza e attributi, e in quanto alle contrarietà o opposizioni
dialettiche [12]; vien ng- giunto il concetto di svolgimento e di
definizione (19; così mi par si possano intendere le ultime parole «
genere e specie», «tutto e parte»: questi concetti non si riducono,
infatti, immediatamente salle opposizioni precedenti). Questa scienza è
diversa da quella sofistica, che guarda gli accidenti e le «opposizioni,
e non li coglie come determinazioni essenziali dell’essere in se ‘stesso
[13-14]. Ma è diversa anche da quella degli scienziati, perchè, sebbene
l'essere nella sua universalità astratta non sia nulla di reale, pure,
considerato come dianzi s'è detto, è quella realtà che fa roali tutto le
cose: intorno a queste versano le scienze, intorno a quella la Metafisica
[17-18]. / (1) xa@” Ev, distinto da reds plav qpuow, l'uno come poni di
vista logico, l’altro reale (e logico insieme), (2) Enti,
sostanze: questi plurali vanno intesi nel senso del singolare. (8) Uno è
il senso per i colori, ad es., per i suoni, ecc. (4) L’organizzazione
del sapere coincide, così, in ogni scienza, con quella dell’essere nelle
cose. LIBRO QUARTO 101 5. -L’ente. poi, e l’uno
sonola stessa cosa, ed esprimono una medesima natura,.in quanto
s’implicano l’up l'altro così. come principio e causa, sebbene i loro.
concetti, a volerli illustrare, non siano identici (') (e non fa nulla se
noi ora Ii conside- riamo tali, che anzi, ci gioverà meglio allo scopo).
Non è, infatti, la stessa cosa « uno-uomo » e «un uomo», «ente-uomo»
e «l’uomo » (?)? E che altro è se non una ripetizione verbale il dire:
«l’uomo è», «l’uomo è uno»? E se l’uomo nasce e muore, è chiaro che non
per questo esso si separa dal suo essere; e similmente dicasi anche per
la sua unità (*). Per cui è evidente che l’aggiunta nelle frasi su dette
non muta il senso, e che l’uno non è nulia di diverso dall’ente. La
sostanza di ciascun essere è un’unità,-enon--per-aeeidente, ma pro-
6 prio come ogni cosa che sia un essere determinato. Così che
tante saranno le specie dell’uno(‘*), e tante saranno anche quelle
dell’essere; e la scienza che studia l'essenza delle une é Ia stessa, in
fondo,. di. quella che studia }essenza . delle altre. Voglio dire, ad
es., lo studio dell’identità, dell’ugua- glianza e delle altre simili, e
delle loro opposte: chè, si può dire, tutti i contrari si riducono-a
questo principio dell’uno 1004 a (1) L'Uno si adopera in sensi più
particolari, esposti in V.6 e X. 1: esprime, soprattutto,
l’indivisibilità, la misura, il principio del numero. Per principio e
causa, v, llb, V.162. (2) Ho accettata nel testo la giusta modificazione
proposta dal Ross. Il greco non ba l'articolo indeterminato, nò quello
determinativo, ch’io ho aggiunti innanzi all'« uomo » del secondo membro
dei due incisi. Questi mirano a porre le due uguaglianze, poi
l'uguaglianza loro, in fine quella dei due termini uno e ente. (3)
Questo periodetto (che il Christ mette tutto tra parentesi, e io ho così
interpretato, perchè mi par giusto intendere la seconda parte, «e
similmente dicasi, ecc.», in rapporto a quel che precede, anzichè a quel
che segue, come intendono invece il Bonitz e il Ross) vuole semplicemente
dire che il divenire non muta la questione. Cfr. S. Tom, (552): « Et sicut elictum est quod ens et homo non
separantur in generatione et corruptione, similiter apparet de uno. Nam
cum generatur homo, generatur unus homo; et cum corrumpitur, similiter
corrumpitur. Unde manifestum est quod appositio in Istis ostendit idem;
et per hoc quod additur vel unum vel ens, non intelligitur addi alique
natura supra hominem. Ex quo manifeste apparet quod unum non est
praeter ens: quia quaecumque uni et eidem sunt eademi, sibi invicem sunt
eadem ». , (4) Qui specie vale, evidentemente, nozioni, concetti: chè 1’
Uno e l'Ente non sono generi (v. III. 3, 7; VIII. 6, 8; X. 9, 2).
102 MBTAFISICA e del molteplice (‘). Si vegga in proposito
la nostra tratta- zione: La scelta dei contrari (?). Ci sono, in
conchiusione, tante parti della filosofia, quante appunto sono le
sostanze delle cose, onde, di necessità, ci deve essere tra esse quella
che vien prima e quella che vien dopo. Poichè l’essere e l’uno si trovano
sin da principio di- visi in generi (*), e anche le scienze si partiscono
in conse- guenza. Il filosofo è come colui che diciamo matematico: la
matematica anch'essa ha parti, e delle scienze matematiche ce n’è una che
vien prima, un’altra viene in secondo luogo, e ordinatamente le altre.
E poichè a una sola scienza appartiene lo studio degli opposti, e
all'uno si oppone il molteplice, apparterrà a una sola scienza lo studio
della negazione e della privazione, per- chè in ambedue i rispetti si
considera pur sempre quell’uuo a cui la negazione e Ja privazione si
riferiscono. O infatti noi diciamo semplicemente che esso non ha luogo,
ovvero che non ha luogo in un certo genere di cose: quivi, dunque,
(1) Non è, questa specificazione, nel testo. Cfr. S. Tom. (561-562): «
Et ad hoc principium, sc. unum, reducuntur omnia contraria fere [si può
dire]. Et hoo addit quia in quibusdam non est ita manifestum. Et tamen
hoc esse necesse est: quia cum in omnibus contrariis alterum habeat
privationem inclusam, oportet fieri reductionem nd privativa prima, inter
quae praecipue est unwn. Et iterum mul- titudo, quae ex uno cansatur,
causa est diversitatis differentiae et contrarietatis, ut infra dicetur».
L'uno è il sostrato in cui il molteplice è allo stato potenziale, di
privazione (positiva), non di mera negazione (astratta), (2) ‘’ExAZoyd
t6v èvavilov sembra il titolo di un'opera di A. perduta (intorno a essa,
v. Fragmenta, ed. Rose, 118-124), (3) L'essere è un xovvév, astratto; iu
realtà si presenta eù@vs, immediatamente, diviso neì generi del reale,
oggetti delle particolari scienze. Qui si tornerebbe alla prima
definizione della Metafisica, anzi al primo significato di essa: ci sono
i generi della sostanza materiale e immateriale, mobile e immobile, sensibile
e intelligibile, ecc. (cfr. XII. 1). Ma generi può esser inteso anche
come equivalente n specie, di dianzi, cloè a concetti sostanziali, 1 quali
possono esser organizzati logicamente, così come le parti della
matematica, nell'esempio che segue, col criterio della semplicità o
complessità maggiore (noi diremmo: astrattezza è concretezza graduale):
aritmetica (11 numero), geometria (la figura), astronomin (il movimento
celeste), armonica (rapporti matematici di suoni), ecc. In questa seconda
veduta viene implicato il concetto di una gradualità logica dell'essere,
che nella prima (molto più frequente in A.) può mancare. Per A. tra i
generi non c'è passaggio. 10 li
LIBRO QUARTO 103 oltre a ciò che è nella negazione, viene aggiunta
all’uno la differenza ('): poichè la negazione di esso indica soltanto
l’as- senza, mentre nella privazione viene in chiaro anche una
deter- minata natura come sostrato di cui si predica la privazione.
All’unità si oppone la molteplicità, così che anche gli op- posti
dei concetti citati dianzi, il diverso e il dissimile e il disuguale, e
quanti altri si dicono o secondo quelli, o in gene- rale secondo il
molteplice e l’uno, vanno imparati a conoscere dalla scienza in discorso.
Tra essi è anche la contrarietà, poichè la contrarietà è una differenza,
e la differenza è di- versità (?). Di modo che, dicendosi l’uno in molti
modi, anche quelli si diranno in molti modi; tuttavia appartiene a
una sola scienza di conoscerli tutti. Questa molteplicità di modi non
richicde scienze diverse, le quali ci vogliono quando questa molteplicità
non sì lascia ridurre logicamente nè sotto un unico rispetto nè sotto
un’unica relazione. Ma, poichè tutto sì può ridurre a un principio
supremo, ad es., tutto ciò di cui si predica l’unità a un’unità suprema,
lo stesso si deve ripetere anche dell’identico e del diverso e dei
contrari. Cosicchè, dopo di aver distinto in quanti modi ciascuno
di essi si dice, bisogna render ragione, per ciascuna categoria
(*), in qual rapporto esso stia con il modo principale e come a
esso venga attribuito: di alcuni, ad es., si troverà che esso (1)
Alessandro, Schwegler, Bonitz intendono che si parli non dello
privazione, mn della negazione, e non riescono a dar un senso alla frase.
Vedo che anche il Ross propone di riferliria alla privazione;
l'esitazione, che ancora lo trattiene, ò per l’inciso «nll’uno », ch'egli
vorrebbe soppresso: i mo pare che il passo citato dianzi di S. Tom, lo
chiarisca a sufficienza, In ogni modo, è nota In dottrina aristotelica
cho non-bianco è negazione soltanto (astratta), nero è privazione
(concreta, positiva): nell'una non sì deterinina altro, e potrebbe predicarsi,
ad es., anche di un suono; nell'altra viene aggiunta «la differenza» di
colore, in rife- rimento nl sostrato ra cui nppartiene (diremmo,
l'inchiostro). Così, non-veggente e cieco, non-dotto e ignorante, ecc.
(2) La diversità è, propriamente, una cifferenza di genere; la differenza
(propr. detta) è una diversità nello stesso genere (le specie), la quale,
quando è massima, è contrarietà: X. 8, 8; ivi, 4, 1-2. (8)
Categoria, qui, vale (come avverte il Bonit2, p. 180) predicato, nozione,
ecc.: ossia, per la nozione d'identità, diversità, ecc., si deve far lo
stesso lavoro d'analisi che per l’essero in generale: distinguere i
diversi significati e determinare la relazione tra i significati
secondari o derivati e quello fondamentale originario. 104
METAFISICA li comprende, di altri che li produce, di altri esso
sarà pre- dicato in altri modi siffatti. È dunque palese quel che
già si accennò nella esposizione dei problemi: che spetta a un’unica
scienza ragionare di tutte queste determinazioni e della sostanza. Questa
era una delle questioni colà agitate. Ed è dovere del filosofo di esser
in 1004 » grado di speculare intorno 4 tutte queste cose. Che se
tale non è il compito del filosofo, chi sarà allora che indagherà
se Socrate e Socrate seduto sono lo stesso (*); ovvero, se ogni contrario
ha un solo contrario, e che cosa è il con- trario, e in quanti modi si
dice? E così di altre tali questioni. Orbene, essendo queste per se stesse
affezioni dell’uno in quanto uno e dell’ente in quanto ente, e non in
quanto nu- meri o linee o fuoco, è chiaro che quella scienza dovrà
cono- scere e che cosa sono e le loro proprietà. E coloro che
intorno a esse indagano, non sbagliano già perchè non sia da filosofi
l’indagarne, ma perchè par che non s’accorgano neppure della sostanza; e
sì che questa è prima di tutto il resto! Che se il numero in quanto
numero ha le sue proprie affezioni, come parità e disparità,
commensurabilità e uguaglianza, ec- cesso e difetto (qualità che appartengono
ai numeri o per se stessi considerati o in relazione gli uni con gli
altri); e se altre ne ha di proprie parimenti il solido, quel che è
immo- bile e quel che è mobile, quel che ha peso e quello che ne
manca; bene ne avrà di sue proprie anche l’ente in quanto ente, e queste
costituiranno appunto ciò di cui sarà compito del filosofo l’indagare il
vero. Ne è un indizio questo: dialettici e sofisti, volendo fare
la stessa figura del filosofo, sebbene la loro sapienza sia solo
apparente, ragionano di tutte le cose e dell’essere che è comune a tutte,
evidentemente perchè questo è l’oggetto proprio della filosofia. Infatti,
la dialettica e la sofistica s’ag- girano intorno alla stessa sfera di
oggetti della filosofia, ma (1) La sostanza per sè o congiunta con
alcun accidente (ricorda discussioni sofistiche, soprattutto dei
Megarici, in proposito). — Ovvero, se riascun contrario, ece.: per queste
questioni v. lib. X. 4 13 14 15
16 17 LIBRO QUARTO 105 questa
differisce dall’una per il modo d’impiegare la facoltà conoscitiva,
dall’altra per il tenore di vita (‘) da quella pre- scelto. La dialettica
si esercita saggiando intorno a quelle cose di cui la filosofia si sforza
di aver conoscenza; la s0- fistica si contenta di un sapere apparente,
non reale. Si noti anche che una delle due serie di contrari
indica la privazione, e che entrambe si riducono all’essere e al
non essere, all’uno e al molteplice: ad es., la quiete all’uno, il
movimento al molteplice. Ora quasi tutti i filosofi son d’ac- cordo che
gli esseri e la loro sostanza risultano da contrari; per lo meno,
affermano che i principii loro sono contrari: essi sono per alcuni il
dispari e il pari, per altri il caldo e il freddo, per altri il limite e
l’illimitato, per altri l'amicizia e la discordia (*). Queste e tutte le
altre contrarietà si ridu- cono, manifestamente, a quella dell'uno e del
molteplice (ci si conceda dimostrata questa riduzione), sì che sotto essi,
come sotto due generi, cadono tutti i principii: quelli dei filosofi su
detti vi si riducono completamente. Non c’è dubbio, dunque, anche per
queste ragioni, che còmpito di una sola scienza è lo studio dell’essere
in quanto essere. Chè tutti gli esseri o son contrari o vengono da
con- trari, e principii dei contrari sono l’uno e il molteplice, e
questi appartengono a un’unica scienza, sia poi che si deb- bano prendere in un
senso solo, o in più sensi, come forse (*) la realtà e la verità esige.
Ciò non ostante, pur dicendosi l’uno in molti sensi, questi verranno
riferiti tutti a quello che è prima di tutti; e per i contrari sì dica
similmente. E però, seppure l’essere o l’uno non è qualcosa d’uni-
versale e d’identico in tutte le cose, nè da esse separato (1) Non
ispirata dall'amore della verità, ma dall'ambizione o dal guada- gno, Per
la differenza tra rpodittica, dialettica ed eristica, cfr. Anal. Pr., IL 1.
24 a, 22, 6 Top., I. 1. 1004, 27: l’apodittica pone una sola delle due parti
della contraddizione, invece la dialettica pone l'una e l'altra parte; ma
l’una parte da ciò ch'è primo e vero, l'altra si aggira tra opinioni
soltanto, più o meno ben fondate; l’eristica non cura la fondatezza di
queste opinioni. (3) Pitagorici, Parmenide (?), Platonici, Empedocle.
(3) forse, e poco dopo certo («come certo non è in realtà »): lowg (in
entrambi i casì), na: 106 MBTAFISICA — come
certo non è in realtà, — tuttavia esse tutte si riguar- dano o in
rapporto a ciò che hanno d’identico o per i signi- gnificati derivati
dall’essere. Non può dunque esser còmpito, ad es., del geometra lo
speculare che cosa è il contrario o il perfetto o l’essere o l’uno o
l’identico o il diverso, tranne che in quanto se ne serve come d’ipotesi
('). Resta così chiarito che a un’unica scienza spetta la con-
siderazione dell’ente in quanto ente, e di ciò che a esso ap- partiene in
quanto ente, e che essa è la stessa che deve studiare non soltanto le
sostanze, ma anche tutto ciò che appartiene a loro; e, oltre i concetti
accennati dianzi, anche, che è quel che precede e quel che segue, e il
genere e la specie, e il tutto e la parte, e tutto ciò che altre tali
questioni riguarda. CapirtoLo III. Si deve ora accennare se
la scienza di quelli che i mate- matici chiamano « assiomi » sia tutt’una
con quella che tratta della sostanza, oppure diversa. Evidentemente,
anche l’in- dagine intorno ad essi appartiene a una scienza che è la
stessa di quella del filosofo, poichè essi valgono per tutti gli
esseri, e non sono una proprietà di qualche loro genere, ad esclu-
sione degli altri. Tutti gli scienziati se ne servono, infatti, perchè
appartengono all’essere in quanto essere, e ciascun genere di cose è
essere; e se ne servono fin dove fà al loro proposito, cioè fin dove si
ends il genere di cose, intorno . — alate .
studio di essi sarà di pertinenza di chi fa o -del suo
-_ 18 19 sapere l'essere in quanto
essere. Perciò, appunto, nessuno di 2° Se
(1) Ipotesi: non in senso moderno (8° intende !), ima come assunzione di
concetti non dimostrati, che il geometra (e ogni scienziato, in fine)
adopera senza discu- tere: «Il geometra fa uso (yefjta) di essi, non
mostra (oò Bdeltac) che cosa sia ciascuno di essi» (Alesa, 264, 9). Il
termine ritorna in VI. 1. 1025 b, 11 ($ 2). LIBRO QUARTO 107
coloro che-attendono-allo studio delle cose nella loro parti-
colarità, s’azzarda di dir nulla di essi, se_gono. Veri o. Do. Non ne
dice “nulla il geometra nè l’aritmetico, e se alcuni fisici (') si
permisero di parlarne, essi fecero ciò con qualche ragione, perchè
credevano di esser i soli che facessero oggetto d’investigazione la
natura nella sua totalità e l’essere. Ma c’è uno che sta ancora più su
del fisico (chè la natura è uno soltanto dei generi dell’essere), sì che
anche lo studio di tali assiomi spetta a chi medita in universale e
intorno alla’ s0- stanza prima. Certo, anche la Fisica è una sorta di
sapienza, ma non è la prima(?). E tutto ciò che alcuni(?) si sono
affaticati a dire della verità degli assiomi e in qual senso bisogna
ammetterli, prova appunto che non hanno studiato gli Analitici. Chi si
applica allo studio delle scienze deve conoscerli già questi assiomi, e
non chiederne la dimostra- zione nel corso dello studio (‘). Non
e’ è dubbio, dunque, che anche la considerazione dei principii
sillogistici spetta al filosofo e a chi specula intorno alla natura delle
sostanze tutte. In ogni genere di cose, con- vien dire che possiede
principii più saldi del suo oggetto colui che ne ha maggior conoscenza:
vien di conseguenza che colui che ha la conoscenza degli enti in quanto
enti, deve possedere i principii più saldi di tutti. Questi è il
filo- sofo.° E il principio più saldo di tutti è quello intorno al
quale è impossibile trovarsi in errore, poichè è necessario che tale
principio sia il più: noto di tutti (tutti errano, infatti, intorno a
quelle cose che non conoscono); e non deve aver (1)
«Forse pensatori che svolsero elementi scettici di Eraclito, Empedocle,
Anassagora, Democrito » (Ro88). (2) Così anche in VI. 1. 1026 a, 24 e 30
($ 7): la Metafisica è qriccogpia xq@rn, la Fisica deutéga. (3)
Sono i fisici ric. dianzi ? O, come sembra più probabile, Antistene? Cfr.
qui Cap. 4, 2; 5-2, ecc.; il nome è fatto in V. 29. 1024 b, 32 (S$ 2), e
in VIII. 3. 1049b, 24 ($ 6). Ma mi par che non debba neppur escludersi
un’interpolazione del passo. (4) La dimostrazione differisce dal
sillogismo in quanto muove da principii immediatamente certi e veri (dul
punto di vista della scienza particolare): « Vero © primo è quel che non
per altro, ma per se stesso ha certezza: invero, dei prin- cipii scientifici
non bisogna richieder la ragione, ma ognuno di essi deve esser certo per
Be stesso »: Top., I. 1. 1000, 30, 1005 b 108
METAFISICA nulla d’ipotetico (‘): chè non può essere ipotetico
quel prin- cipio senza del quale è impossibile che uno possa
compren- dere una qual si voglia delle cose che sono. La conoscenza
di esso è indispensabile a chiunque vuol conoscere una cosa qualsiasi, ed
è necessario che ne sia provvisto già chi viene per imparare. Che dunque
un principio tale'sia il più saldo di tutti, non è chi non vegga. Quale
poi esso sia, passiamo a dirlo. i È impossibile che la stessa cosa
convenga e insieme non convenga a una stessa cosa e per il medesimo
rispetto (e quante altre determinazioni potremmo aggiungere, si
tengano fatte a scanso delle difficoltà discorsive) (?). Questo è di
tutti i principii il più saldo: esso, infatti, ha i caratteri che
dianzi determinammo, poichè è impossibile che uno stesso pensi la
stessa cosa essere e non essere, secondo che alcuni credono dicesse
Eraclito (*). Vero è che non è necessario che tutto quello che uno dice,
lo pensi anche (‘). Ma non potendo i (1) Qui la parola ha un
valore diverso dal precedente (per quanto resti in comune il concetto di
assunzione dogmatica, caratterizzata qui dalla particola- rità
dell'oggetto, piuttosto che dall'uso pratico), e agli effetti del pensiero
può esser inteso nel senso moderno che l’'oppone al «categorico » (a ciò
che non pre- suppone nulla, perchè è incondizionatamente vero).
(2) A scanso delle difficoltà discorsive, così come le consuete riserve più
giù, accennano ad argomentazioni che tendessero a metter in dubbio o ad
impugnare il principio così com'è formulato: per es., per il concetto del
divenire, che av- viene tra contrari, ecc. Più in là A. chiarisce, ad
es., che i contrari sono insieme in potenza, non in atto. i (3) A.
attribuisce, dunque, l'opinione agli interpreti di E. più che ad I.
stesso: cfr. XI. 5, 7. (4) Qui il discorso è considerato
verbalisticamente, non come pensiero. Del celebre « principio di non
contraddizione », chi ben consideri, s'avvedrà che son date qui tre
formule corrispondenti ai tre punti di vista dianzi accennati: 1) «non è
possibile a uno di avere, o pensare, a un tempo, opinioni contrarie »:
ch'è questione soggettiva; 2) «una stessa cosa non si può insieme affermare
o negare »: ch'è questione logico-dialettica, della realtà veduta
nell’atto del giu- dizio, che o pone il rapporto di convenienza del
predicato al soggetto, o esclude quel rapporto; 3) «i contrari non
possono trovarsi insieme nella stessa cosa » (in atto): ch'è questione
dell'essere, i. e. dei principii reali, delle cose. La giustificazione
della prima formula è data dalla terza (non potendo è contrari trovarsi
insieme) e dalla seconda (e dacché un'opinione è contraria al- l'opinione
contradittoria); quella della seconda, dalla terza (un'opinione è con-
traria all'opinione contradittoria) e dalla prima (poiché è impossibile che
uno LIBRO QUARTO 109 contrari trovarsi insieme nella
stessa cosa (aggiungiamo anche a questa proposizione le consuete
riserve), e dacchè una opi- nione è contraria all'opinione
contradittoria, è chiaro non esser possibile che lo stesso uomo pensi che
la stessa cosa sia e insieme non sia: chi fosse in questo errore,
avrebbe a un tempo le opinioni contrarie. E però tutti i
dimostranti a questa riducono l’ultima opinione: essa, per la natura
stessa delle cose, è il principio anche di tutti gli altri assiomi.
CapitoLo IV ('). Pure, ci sono alcuni, come s’è accennato,
i quali affermano potersi dare che la stessa cosa sia e non sia, e
poterla ap- punto pensare così. Fanno uso di questo modo di
ragionare molti anche dei fisici (°). Ma noi abbiamo stabilito che è
im- stesso pensi la stessa cosa essere e non essere); quella della
terza, al cap. 6 (8 12), dalla seconda,la quale riacquista rispetto a
essa l'indipendenza posta qui preli- minarmente al s 6. Questa ha in A.
il significato semplicemente di una condizione necessaria per il conoscere
e il sapere, ossia per il pensiero che pensa la realtà itelle cose,
perchà per l'intelligibilità, reale e logica, di queste è un presupposto
indispensabile la distinzione fra un concetto e l’altro, e in primo luogo fra
con- cetti opposti, e, prima ancora, tra l'affermare e il negare. Il
principio del mezzo, o terzo, escluso integra, qui, il principio di non
contraddizione, e lo sottrae, anche per questa via, alla dipendenza
immediata da quello di contrarietà, dove, invece, quel mezzo esiste.
Quando, in seguito, fu aggiunto il principio d’identità, non soltanto si
gua- daguò in compiutezza formale, ma si vide meglio e il rapporto fra i
tre principii e il carattere puramente logico che ha questa parte della
Metafisica aristotelica. Naturalmente, nel formulismo scolastico si
perdette, poi, gran parte dell'interesse cho aveva la questione in A. per
le conseguenze, a cui la negazione del principio di non contraddizione
portava rispetto al conoscere e al sapere, anzi rispetto alla concezione
e realtà dell'universo intero. - (1) Comincia di qui la difesa del
principio di non contraddizione contro coloro che lo negano. Questi,
sebbene la trattazione li mescoli di frequente, son tuttavia abbastanza
distinti in tre gruppi corrispondenti alla triplice formulazione del
principio: a) di coloro che l'impugnano per mera esercitazione eristica; bd) di
co- loro che, come i Protagorei più seri, si fondano su la natura propria
della dora; e) di coloro che, eraclitizzando, pongono l’unione degli
opposti nella realtà stessa delle cose. (2) Son nominati, nel
capitolo seguente, Eraclito e i suoi seguaci, Empedocle, Anassagora,
Democrito. 1006 a 110 METAFISICA
possibile essere e non essere insieme, e però dichiarammo che quello è il
più saldo di tutti i principii. Ed è effetto d’ignoranza (‘) se alcuni
reputano che anche quel principio si debba dimostrare: chè no n altro che
ignoranza è non sa- pere di quali cose bisogna chiedere la dimostrazione,
e di quali no. Che di tutto, assolutamente, ci sia dimostrazione, è
impossibile: si andrebbe all’infinito, sì che per tal modo non ci sarebbe
dimostrazione di nulla. Che se di alcune cose non si deve esigere la
dimostrazione, non riuscirà loro di dire quale altro principio meglio di
quello, a loro avviso, è tale. Certo, anche di esso si può dimostrare,
in via di con- futazione (*), che è impossibile negarlo, solo che, chi lo
mette in dubbio, dica qualcosa. Che se non dicesse nulla, sarebbe
ridicolo andare in cerca di ragioni contro chi, in quanto non ragiona
(*), non ha ragioni di nulla. Un tale, in quanto tale, sarebbe già simile
a un tronco. Il dimostrare poi in via di confutazione, io dico che
differisce dal dimostrare vero e proprio, perchè chi si accingesse a
dimostrare lui quel prin- cipio mostrerebbe di presupporre ciò che deve
dimostrare; ma, qualora la colpa (‘) fosse di un altro, si tratterebbe
di una confutazione, e non di una dimostrazione. In tutti i casi
simili, la norma è di non pretendere che l'avversario dica che una cosa è
o non è (perchè egli obicet- terebbe subito che si presuppone ciò che è
da dimostrare); ma che dia un significato a quel che dice, per sè e per
gli altri: e questo è pur necessario, se egli vuol dir qualcosa.
Altrimenti, costui non direbbe nulla, nè per suo proprio conto, nè per
gli altri. Che se, invece, lo concede, la dimostrazione allora è
possibile. Già, infatti, s'è per tal modo determinato qualcosa. La colpa
non è del dimostrante, sì di chi è co- stretto ad accettare la
dimostrazione, perchè, mentre vuol (1) Cfr. dianzi (3, 3) per
quelli che non hanno studiato gli Analitici. (2) La confutazione (é
EXeyyxog) è una dimostrazione negativa o indiretta, che si limita a
portare all’assurdo la sentenza dell'avversario, o a purificarla dai
frain- tendimenti e sofismi ch'egli vi ha intrusi. (9) Ho tentato
di giustificare così le parole che il Christ vorrebbe espunte. (4) La
colpa del circolo vizioso, che alcuno gli volesse addebitare.
9 10 Il 12 LIBRO QUARTO
111 distruggere il ragionamento, è costretto a ragionare.
Oltre di che, chi ha fatta quella concessione, ha già concesso che
ci sia qualcosa che è vera senza dimostrazione, e che perciò non ogni cosa
è possibile che sia così e non così ('). Anzitutto è chiaro che questo
alieno è vero: che le pa- role « essere e non-essere » hanno un
significato ben deter- minato, per cui non ogni cosa è possibile che sia
e non sia così. Parimenti, se la parola « uomo » ha un significato
solo: sia esso quello di « animale bipede ». Dicendo che ha un solo
significato, intendo che, se uomo vuol dir questo, ove ci sia un essere
che è uomo, esso sarà ciò che per uomo 8’è definito. E non importa nulla
se si obietta che di significati ne ha parecchi, pur che vengano
definiti; chè si può a ciascun 1006 b concetto assegnare un nome
diverso. Facciamo il caso che si obiettasse che uomo non ha un solo, ma
parecchi signifi- cati, e che la definizione animale-bipede vale per uno
soltanto di essi, laddove ce ne sono parecchi altri, ma in numero
determinato : ebbene, si dia un nome appropriato a ciascuno di essi. Che
se, per non far questo, si adducesse che i signi- ficati di quel nome
sono infiniti, è manifesto che esso non avrebbe più nessun senso, perchè,
se non significa una cosa determinata, è come se non significhi nulla; e
quando le parole non hanno senso, è tolta la possibilità di
discorrere con altri, anzi, propriamente, anche seco stesso: giacchè
non può neanche pensare chi non pensa una cosa determinata: e se
egli è in grado di pensare, dovrà anche dare un nome unico alla cosa cui
pensa. Stabiliamo, quindi, che, come s'è detto da principio, ogni
parola significa qualcosa, anzi qualcosa di unico. Ora, es- ser-uomo non
potrà significare lo stesso che non-esser-uomo, se la parola uomo ha un
significato non soltanto come pre- dicato di un unico oggetto, ma in
quanto significa essa stessa un oggetto unico. Per noi, infatti, una
parola ha un unico significato, non in quanto si predica di un unico
oggetto: (1) C'è sospetto d’interpolazione nel testo:
le ultime parole del periodetto, ad es., son ripetute poche linee
dopo. 1007 a 112 METAFISICA chè, a tal
patto, musico e bianco e uomo significherebbero la stessa cosa, e in
conchiusione, designando con nomi di- versi la stessa cosa, sarebbero
tutti una cosa sola. Una stessa cosa potrebbe essere e non essere
soltanto nel caso di un equivoco, qualora, ad es., quel che noi chiamiamo
uomo, altri lo chiamassero non-uomo. Quel che è in questione non è già
se lo stesso possa insieme essere e non essere uomo di nome, ma di fatto.
Se poi uomo significa lo stesso che non-uomo ('), è chiaro che anche
esser-uomo sarà lo stesso che non-esser-uomo, per cui tra essere e non
esser uomo, essendo l’identica cosa, non ci sarebbe nessuna
differenza. Questo appunto vuol dire esser l’identica cosa; come
chi dicesse abito e vestito : chè il concetto è unico. Se fosse
unico, esser-uomo e non-esser-uomo significherebbero lo stesso. Ma
8’era mostrato che il loro significato è diverso. Se, dunque, si deve
poter dire qualcosa di vero, bisogna necessariamente che, chi dice di uno
che è uomo, intenda dire che è un ani- male bipede: questo era, infatti,
ciò che la parola uomo si- gnificava. E se questo è necessario, non è
possibile che quello stesso non sia un animale bipede: chè questo appunto
vuol dire che una cosa è di necessi tà: esser impossibile che non
sia. Non si può dare, quindi, il caso che sia vero insieme dire che uno
stesso è uomo e non è uomo. Il discorso vale anche per il
non-esser-uomo. L’esser-uomo esprime un’altra cosa dal non-esser-uomo,
come del resto an- che l’esser-bianco è diverso dall’esser-uomo: anzi, la
oppo- sizione tra i primi termini è anche maggiore, esprimendo essi
una cosa del tutto diversa. E se qualcuno ci volesse sostenere che bianco
e uomo significano una stessa e mede- (1) Chiarisce il par.
precedente, dove aminette che una cosa può essere e non essere la stessa
soltanto per un equivoco (il testo ha omonimia, usato qui, come la
sinonimia della 1. precedente, in senso alquanto diverso da quello stabilito
in nota a lib. I. 6, 5: qui si bada se uno intende con la stessa parola
indicare con- cetti opposti, oppure lo stesso concetto con parole
diverse). Se l'avversario vuol dare alla parola «uomo » lo stesso senso
di « non-uomo », deve anche identificare il fatto e il concetto di «esser
uomo » con quello opposto di « non-esser-uomo »: e venir meno, quindi, al
patto (cfr. 11) di non dare a una stessa parola significati diversi in
confronto alle cose, 13 14 15
16 17 18 19 20
LIBRO QUARTO 113 sima ‘cosa, noi ripeteremo quel che abbiam
detto prima: che allora tutte le cose, e non soltanto gli opposti, fanno
una cosa sola ('). E se questo non può essere, pur che l’avver-
sario risponda alle nostre domande, dovrà convenire in quel che s’è
detto. Ma, se egli a una semplice interrogazione rispondesse ag-
giungendo anche delle negazioni, non risponderebbe propria- mente a quel
che si chiede (*). Niente impedisce che uno stesso sia, oltre che uomo,
bianco e innumerevoli altre cose; ma, in- terrogato se si può con verità
dire che quello è un uomo o no, egli deve rispondere soltanto ciò che la
parola significa, e non aggiungere che è anche bianco e grande; poichè,
essendo infiniti gli accidenti, è impossibile percorrerli tutti, si che
o li citi tutti o non ne citi nessuno. Se anche lo stesso è uomo e
diecimil’altre cose diverse da uomo, egli non deve rispon- dere, a chi
gli domanda se uno è uomo, che è uomo, sì, ma insieme anche non-uomo: a
meno che non intenda di aggiun- gerli tutti gli accidenti: quante altre
cose, cioè, l’uomo è o non è. Che se si mettesse per questa via, non c’è
più modo di discutere, In somma, quei che si mettono per questa
via, vengono a sopprimere la sostanza e la pura essenza di ogni
cosa, perchè son costretti ad affermare tutto esser accidentale, e
che non esiste un concetto tale, quale quello di uomo o di animale. Se ci
fosse, infatti, un concetto tale, quale quello di uomo, esso non potrebbe
essere quello di non-uomo, 0 quello di non esser uomo: e questi sono pure
negazione di PI (1) Se non si concede che nomo=
bianco, tanto meno si può concedere che momo = non-uomo. Se si concede,
non soltanto gli opposti, ma tutto è la stessa cosa, e non c'è modo di
parlar più di nulla, (2) «Sarebbe assurdo che. interrogato sè Socrate è
uomo, rispondesse che è anche .non-cavallo e non-cane »: Alessandro (284,
32). Ovvero, riferisse la negazione agli accidenti: « est enìm v. g.
albus, musicus, etc.; quae omnia in ambitu no- tionis non-homo
continentur»: Bonitz, p, 199. Ma anche le prime negazioni si possono
riguardare come accidentali, se sì bada, non alla sostanza propriamente,
ma alla definizione di uomo. — L’avversario deve rispondere con un sì, o con
un no (ovvero ripetendo semplicemente il nome, o premettendogli la negazione:
uomo, non-uomo). ARISTOTELE, Metafisica. 8 1007
b 114 METAFISICA quello ('). Non s’era d’intesa che
esso aveva un solo signi- ficato, e che questo era la sostanza della
cosa? Ma esprimere la sostanza di una cosa vuol dire che questa, e non
altra, è la sua essenza. E se c’è qualcosa che ha l’essenza di
uomo, essa non potrà coincidere con quella che non ha tale essenza,
o con quella che ha l’essenza di non-uomo. Costoro son costretti a dire
che tale concetto non è con- cetto di nulla, ma che tutto è accidentale
(*). Poichè in questo si distingue la sostanza dall’accidente: l’esser
bianco è accidentale per l’uomo, perchè egli è, sì, bianco, ma non
è bianco per l’essenza. Ma se tutto si affermasse in via acci- dentale,
non ci sarebbe più niente di primo a far da soggetto: eppure l’accidente
esprime sempre la categoria di un qualche sostrato. Si andrebbe,
necessariamente, all'infinito: il che è impossibile. Anche perchè ogni
connessione è soltanto tra due termini (*). L’accidente, infatti, non può
essere accidente di un accidente, salvo in quanto entrambi sono accidenti
di uno stesso soggetto. Voglio dire, per es.: il bianco è musico, e
il musico è bianco, in quanto entrambi sono accidenti di uomo. Ma Socrate
non è musico a questa maniera, come entrambi i termini fossero accidenti
di un terzo. Questi acci- denti, dunque, sono predicati in due maniere
diverse. Quelli che si predicano così, come il bianco di Socrate, non
possono formare una serie che proceda all’infinito: ad es., di
Socrate, che è bianco, predicare un qualche altro accidente, e così
via via: chè, dall'unione di questi accidenti, non verrebbe fuori
un’unità ('). E neppure del bianco si può dire che ci (1) Il che
non avverrebbe se, come l’avversario sostiene, la negazione fosse vera
quanto l’affermazione. — Sul valore della negazione, talvolta riguardata
nella c. d. copula, tal’altra nel predicato del giudizio, e sul rapporto
tra la forma affermativa e quella negativa in A., v. G. Catocero. în
Giorn. critico della fil. ital., VII (1926), fasc. 5. (2) Se non è
concetto (esseuza) di nulla, ma si può attribuire, insieme al contrario,
a qualcosa (x è uomo € non-uomo, nello stesso modo che l’uomo può esser
bianco e non bianco), sarà, dunque, non sostanza, ma accidente. (3) Il
soggetto e il predicato. (4) Dall’unione degli accidenti non vien fuori
l'unità del reale, se questa non è raggiunta già con la posizione del
primo accidente, col quale la sostanza forma 21
24 20 LIBRO QUARTO 115 sia un‘altro
accidente da predicare, per es., musico, perchè questo non è un accidente
di quello più che quello di questo. Resti con ciò determinato che di
accidentalità si può par- lare in due maniere: o come in quest’ultimo
esempio, o come musico si predica di Socrate, nel qual caso l’accidente
non è predicato accidentalmente di un altro accidente, come era
l’altro caso. In conchiusione, non tutto potrà essere affermato come
accidente, e deve quindi esserci anche qualcosa che si riguardi come
sostanza. Se così è, riman chiarito che è im- possibile predicarne
insieme concetti contradittorii. Inoltre, se i contradittorii si
potessero predicare sempre insieme, con verità, dello stesso, — chi non
vede che tutte le cose diventerebbero una sola? Sarebbe, infatti, lo
stesso e una trireme e un muro e un uomo, una volta che una cosa si
può tanto affermare che negare di ogni cosa. Che è una conseguenza
inevitabile per coloro che ripetono il ragiona- mento di Protagora:
poichè, se ad alcuno pare che l’uomo non sia una trireme, è chiaro che
non è una trireme; ma, se la contradittoria è vera, ne consegue che egli
è anche una trireme. Si va alla sentenza di Anassagora: tutte le cose
sono tutto insieme. Per cui, niente si può predicare con verità di
nulla. Si ha l'impressione che essi parlino dell’indeterminato; e pur
credendo di parlare dell’essere, parlano, invece, del non essere: chè
l’indeterminato è l’essere in potenza ('), non quello in atto. E in vero,
costoro si trovano nella necessità di dire che di ogni cosa si può
affermare o negare ogni altra. Sa- rebbe infatti assurdo che, mentre a
ogni cosa deve convenire la sua negazione, non le dovesse poi convenire
quella di un’altra che già non conviene a essa. Voglio dire che, se
è vero dir dell’uomo che è anche non-uomo, è chiaro che deve
«un che determinato ». In altri termini: non dall’enumerazione degli
accidenti, a volta a volta incorporati al soggetto, si ha da attendere
l'unità di esso. — L'altro modo di predicazione è quello in cui la serie
non gira attorno al sog- getto, ma fa une catena da accidente ad
accidente. (1) L'indeterminato è l’essere in potenza, nel quale i
contrari sono insieme; non quello in atto, nel quale la potenza
(ch’è un non-essere-ancora) vien de- terminata. 1008 a
116 MBTAFISICA esser vero anche dire tanto che è trireme,
quanto che è non- trireme. Intanto, se l’affermativa (che è trireme)
fosse con- cessa, di necessità sarebbe concessa anche la negativa.
Ma poniamo che l’affermativa non sia concessa; tuttavia Ja nega-
tiva di questa gli dovrebbe convenire meglio di quella sua. Ora, dacchè
quest’ultima gli conviene, gli converrà anche quella di trireme; e
convenendogli questa, gli conviene anche l’affermativa di essa (').
A queste conseguenze arrivano coloro che sostengono tale dottrina.
E a quest’altra, anche: che nulla è necessario o affermare o negare.
Infatti, se è vero che l’uomo è uomo e non-uomo, è chiaro che sarà vero
anche che egli non è nè uomo nè non-uomo: poichè alla doppia affermativa
corrisponde la doppia negativa, e se là delle due affermazioni se ne
fa una sola, una sola sarà anche questa opposta. Proseguiamo: o,
quel ch’essi dicono, vale per tutte le cose, o no: nel primo caso, ogni
cosa bianca è anche non bianca, quel che è anche non è, e similmente per
le altre affermazioni e negazioni; nel secondo caso, se esso non vale per
tutte, ma per alcune sì e per altre no, per queste ultime anch'essi
son d’accordo che il loro principio non vale. Se, invece, vale per tutte,
da capo: o di tutte quelle di cui si afferma qualcosa, questo si può
anche negare, e viceversa; ovvero, di quelle di cui si afferma qualcosa,
questo si può unche negare, ma non di tutte quelle di cui si nega
qualcosa, que- sto si può anche affermare. In quest’ultimo caso, si
avrebbe un punto fermo, un non-essere, e questa sarebbe già una
(1) Accogliendo (1007 b, 33) la lezione del cod. fiorentino Ab (come il
Ross propone), e riordinando un po'il testo, il ragionamento risulta
così: A. sostiene che se, poniamo, di Socrate si può predicare insieme
uomo e non-uomo, allora di lui si può affermare o negare ogni altra cosa
indifferentemente: per es., ch'è trireme e non-trireme, Se, dunque,
l'avversario concedesse ch'è trireme, dovrebbe concedere (secondo il suo
principio onde si può affermare anche la contradittoria) ch’è anche
non-trireme. Ma poniamo, dice A., che «l'affermativa non sia con- cessa».
Egli dovrà, almeno, concedere la negativa, perchè «sarebbe assurdo che,
mentre a uomo conviene la negazione di uomo, non gli convenisse quella di
trireme: anzi, gli deve convenire anche meglio, perchò è la negazione di
qual- cosa che già si pone non convenire a esso ». Ma, concessa questa,
deve poi con- cedere anche l’affermativa: che è trireme.
27 28 29 30 31
32 33 LIBRO QUARTO 117 salda opinione;
ma, se il non-essere è qualcosa di saldo e conosciuto, tanto più sarà
tale l’affermazione (‘) opposta. Ma poniamo, invece, che di tutte quelle
di cui si nega qualcosa, questo si possa anche affermare: allora, di
necessità, o è nel vero chi tiene separate le due parti, e dice, ad es.,
che una cosa è bianca, e poi che non è bianca; ovveroè nel falso.
Se per essere nel vero le deve tener unite, costui disdice ciò che dice,
ed è come non esistesse niente. O come poi par- lerebbe e camminerebbe
ciò che neppure esiste? (?). E tutte le cose sarebbero una sola, come
anche prima s’è detto, e sarebbe lo stesso e uomo e Dio e trireme e i
loro contra- dittorii. Chè, se di ciascuna cosa si può ripeter questo,
l’una non differirà dall’altra: se differisse, essa avrebbe già
qual- cosa di proprio, e questa sarebbe la sua verità. Alla stessa
conchiusione si perviene dicendo che è nel vero chi tiene separate le
parti contradittorie (9). Ne deriva, anzi, anche questo: che tutti dicono
vero e tutti dicono falso, e però con- cede che dice falso anche lui.
Evidentemente, con costui non si può discuter di nulla, perchè non
dice nulla: non dice mai che è così, o non così, ma sempre che è così e
non così (‘); e poi, negando ambedue queste cose, che non è nè così nè
non così. Se parlasse altri- menti, ci sarebbe già qualcosa di
determinato. Che se, poi, ci si facesse concedere che, quando
l’affermativa è vera, la negazione è falsa, e che, quando è vera questa,
l’altra è falsa, non sarebbe più vero che si può nello stesso tempo
affermare e negare la stessa cosa. Ma, senza dubbio, tutti
direbbero che questa è una petizione di principio. In fine, diremo
che sono in errore quelli che pensano che una cosa sta, oppure non sta,
in un certo modo, e che invece è nel vero chi le pensa tutte due quelle
opinioni? Che se costui non dice neppure di esser nel vero, o che cosa
vor- (1) «Per mezzo dell’atfermazione la negazione è più
conoscibile; chè l'affer- mazione è prima, come l’essere è prima del non
essere »: Anal. Post., I. 25. 86 b, 34. (2) Qui, l’uomo di cui si parla
(e colui stesso che parla). (9) Come se fossero due persone diverse a
sostenerle. (4) Similmente in Teeteto, 189 a. 1008 b
118 METAFISICA rebbe dire la sua asserzione che la natura
delle cose è pro- prio così fatta? ('). E se non pretende di dir giusto,
ma di dire più giusto di chi la pensa in quell’altro modo, ecco che
le cose starebbero già in un certo modo, e questa sarebbe la verità, e
non già vero e falso insieme. E se ribatte che tutti sono nel falso e nel
vero ugualmente, a costui non è più lecito aprir bocca a parlare: perchè
dice nello stesso tempo Sì e no. E se non ha nessuna opinione, ma crede e
non crede del pari, quale differenza c’è tra lui e le piante? Da
ciò si vede benissimo che nessuno, non solo gli altri, ma neppure chi fa
questi discorsi, è persuaso che così stiano le cose. O perchè mai va egli
a Megara, e non se ne sta tran- quillo a casa pensando di camminare? (?).
E perchè un bel mattino non va diritto a gettarsi in un pozzo o, se gli
cà- pita, giù da un precipizio, anzi si vede bene che se ne guarda,
proprio come se pensasse che non sia tanto buono quanto non buono il
caderci? È dunque chiaro che crede l’una cosa migliore e l’altra
peggiore. Ma se è così, deve conve- nire anche che una cosa è uomo e
un’altra non-uomo, una cosa è il dolce e un’altra il non-dolce. Egli non
mette tutto alla pari quando pensa ad avere qualcosa che cerca; ma,
avendo pensato che per lui è meglio ber dell’acqua o vedere qual-
cuno, va in cerca proprio di quello. Eppure doveva mettere tutto alla
pari, se uomo e non-uomo fosse la stessa cosa. In- vece, come abbiamo
detto, non c’è nessuno che non si vegga guardarsi da alcune cose e da
altre no. Non pare, dunque, (1) Intendo: Chi dice che la verità è
nella contraddizione, riconosca almeno che c'è questo che diciamo la
verità. O non vorrà neppur riconoscer questo? Ma, allora, che cosa
intende quando asserisce che la natura delle cose è così fatta, che in
essa (secondo la sentenza di Eraclito) i contrari son sempre uniti? ecc.
— Tralasciando il pi della 1. 9, come consiglia il Ross, il senso verrebbe
trasfor- mato così: Se egli ritiene di esser nel vero, che vuol dire che
la natura è così fatta? In essa non si dovrebbe parlare di «essere», nè
di esser essa l’una cosa piuttosto che l’altra (chè tutto è e non è, ed
ogni cosa è ogni altra). (3) Non è lo stesso per lut camminare e non
camminare. Ovvero, se col Ross si aggiunge il deiv (da Ab e Aless.): non
è lo stesso per lui dover, 0 no, andar a Megara. Quest'argomentazione,
presa dal meglio e dal peggio, è già in Teeteto, 1716. 34
35 36 LIBRO QUARTO 119 che ci possa
esser dubbio: tutti credono che le cose stanno assolutamente in un modo,
se non tutte, almeno quelle che riguardano il meglio e il peggio. E se lo
credono(‘), non per scienza, ma per opinione, tanto più dovrebbero
esser solleciti della verità, così come deve curar la salute più
chi è malato del sano: e infatti, chi opina, al paragone di chi sa,
è in una disposizione non sana in rispetto alla verità. Finalmente, sia
pure che tutte le cose stiano così e anche non così. Ma in natura c’è il
più e il meno in ogni cosa: noi non diremmo che il tre è pari nella
stessa misura del due, e credere che il quattro valga cinque non è un
errore uguale a quello di chi crede che valga mille. Ora, se
l’errore non è uguale, manifestamente uno dei due erra di meno, e
però è nel vero più dell’altro. Ma se è più nel vero, al vero è più
vicino, e ci sarà quindi una verità a cui è più vicino chi è più nel
vero. E anche se tale verità non c’è, — ma, insomma, c'è almeno qualcosa
che ha maggiore o minore fondamento e certezza, e questo basta a
liberarci (?) da un discorso che non si lascia ridurre in termini di
pensiero e impedisce di determinar nulla. CapiTOLO V.
Il ragionamento di Protagora deriva anch’esso da questa opinione,
e però la sorte dell'uno è necessariamente legata a quella dell’altra.
Poichè, se tutto quello che si crede e ap- pare, è vero, ogni cosa di
necessità è vera e falsa insieme. Di fatto, gli uomini hanno, per lo più,
opinioni contrarie le une alle altre, e tuttavia stimano che sia in
errore chi non la pensa come loro: per cui è necessario che la stessa
cosa sia e non sia. Viceversa, se si concede questo, vien di con-
(1) Se lo credono, il meglio e il peggio. (2) Come nella
precedente invocazione della testimonianza dell'azione, così nelle ultime
parole si può notare un senso della verità come di un bisogno che il
soggetto ha di essa per se stesso. 1009 a 120
METAFISICA seguenza che tutte le opinioni sono vere. Poichè le
opinioni di chi è in errore e quelle di chi è nel vero, sono tra
loro opposte; ma se tale è l'essere delle cose, tutti saranno nel
vero. È chiaro, dunque, che i due ragionamenti svolgono. lo stesso
pensiero (‘). Tuttavia, a combatterli, non si ha da prendere la stessa
strada per tutti: con alcuni ci vuole la; persuasione, con altri la
sopraffazione (*). Non è difficile curare l’ignoranza di co- loro che
s’indussero a credere così in sèguito a dubbi e diffi- coltà, giacchè per
essi si ha che fare, non con parole, ma col pensiero. Invece, a curar
quelli che giuocano di parole non c’è altra via che confutarne il
discorso letteralmente, in quanto è di parole espresse con suoni.
Coloro che in sèguito a dubbi e difficoltà vennero nell’opi- nione che le
asserzioni contradittorie e i contrari possono stare insieme, mossero
dalla osservazione delle cose sensibili, dove una stessa causa produce
effetti contrari. Ora, se quello che non è non può generarsi, il fatto
preesistente era già am- bedue i contrari insieme. Anche Anassagora dice
similmente che tutto si trova mescolato in tutto, e Democrito,
anche lui, insegna che il vuoto e il pieno si trovano in ogni par-
ticella alla pari, sebbene l’uno di essi sia un ente, e l’altro un
non-ente. A coloro, dunque, che fondano su queste ragioni la loro
sentenza, noi diremo che in un senso parlano giusto, ma in un altro
ignorano come stanno le cose. In realtà, dicendosi l'essere in due sensi,
in uno di questi qualcosa può generarsi dal non-ente, ma rell’altro non
può (*); ed è possibile che (1) Partendo, l'uno, dall'oggetto;
l'altro, dal soggetto (dall’opinione). (2) Sopraffazione: col
ragionamento, Cfr. Top., I. 12. 105 a, 16: « L’induzione è più
persuasiva... — ma il sillogismo stringe di più, ed ha maggior forza
contro quei che contraddicono », (3) Poichè l'essere si dice o in
atto o in potenza, così c'è un modo di essere (in potenza) ch'è anche un
modo di non essere (in atto). (Il puro non-essere non ha realtà: il non
essere è un momento di sviluppo dell'essere, che, come pura essenza, è
già, nel concetto, almeno, se non nella realtà temporale). E come per la
sostanza, così per le sue determinazioni secondarie: «sic, enim, tepidum
est in potentia calidum et frigidum, neutrum tamen actu»: S. Tom. ($
667). (Qui, LIBRO QUARTO 121 una stessa cosa si trovi
ad essere e a non essere insieme, ma non per lo stesso rispetto: poichè
in potenza i contrari possono essere insieme, ma non in atto.
Inoltre, li inviteremo a persuadersi che c’è anche un’al- tra sostanza
degli esseri, la quale non è per nulla affatto s0g- getta a movimento, nè
a nascita o corruzione. Dalle sensazioni muove parimenti l’opinione di
alcuni che la verità sia di ciò che appare ('). Essi stimano che a
giu- dicare del vero non convenga rimettersene alla maggioranza o
alla minoranza. La stessa cosa, essi dicono, al gusto di aleuni pare
dolce, ad altri amara: sì che, se tutti ammalas- sero o impazzissero, e
soltanto due o tre rimanessero sani e in cervello, costoro sembrerebbero
malati e pazzi, e non gli altri. Inoltre, a molti altri animali le stesse
cose appaiono al contrario che a noi; anzi a ciascuno di noi
singolarmente, stando alla sensazione, le cose non sembrano sempre le
stesse. Quali, quindi, di esse siano vere o false, ci è nascosto:
queste non hanno maggior diritto di quelle alla verità, ma uguale.
Perciò, appunto, Democrito afferma che o non c’è nulla di vero, o,
almeno, ci è nascosto. In somma, se essi insegnano che quel che appare al
senso è necessariamente vero, ciò avviene perchè ritengono per ammesso
che l’intelligenza si riduca alla sensazione, e questa a un’alterazione
(?). Se ed Empedocle e Democrito e, in breve, ciascuno degli altri
si trovarono prigionieri di tali dottrine, ciò non avvenne per
altro motivo. Dice, infatti, Empedocle che chi cambia abito, cambia
intelligenza: Quali le sue condizioni, tale cresce l’uomo per
senno; veramente, si tratta non di un non-essere-ancora, in
opposizione a un essere-giù; ma di un modo dell’essere che è già, del
sostrato, che può ricevere ambedue le determinazioni contrarie, ed è,
quindi, per se stesso potenza di contrari), (1) tà parvépeva: non si dia
un senso troppo soggettivo all'espressione (non esatto il Bonitz, p. 201:
«quidquid cuique videatur »). (2) Alterazione (mutamento qualitativo),
che subisce l'organo del senso da parte dell'oggetto. 1009
b 1010 a 122 METAFISICA e altrove:
Tanto essi si mutano, e tanto si rinnovano sempre anche i loro
pensieri. E Parmenide si esprime nello stesso modo,
Quale in ciascun uomo è la temperie delle membra flessibili, tale è la
sua mente. Essa è appunto quel che pensa negli uomini, in tutti e in
ognuno: la natura de’ loro organi: quel che in essa prevale è il
pensiero (1). E si suole ricordare anche un detto di Anassagora ad
al- cuni suoi scolari: che le cose sarebbero per essi tali, quali
piacesse loro di crederle (?). Dicono che anche Omero sembra di questa
opinione, perchè imaginò che Ettore, quando per la ferita uscì di sè,
giacesse «altro pensando»: quasi che anche coloro che sono fuori di senno
pensassero, sebbene non alle stesse cose: è chiaro, dunque, dicono, che
se pensiero c’è in un caso e nell’altro, anche le cose sono insieme
così e non così. Il pericolo maggiore è nelle conseguenze: se
coloro che hanno guardato più a fondo quel che può essere il vero
(e tali sono quelli che più di tutti lo cercano e lo amano), proprio
essi, hanno opinioni di questo genere, e in questo modo si esprimono su
la verità, — con quale animo i prin- cipianti sì metteranno a filosofare?
Il cercare la verità sa- rebbe un correr dietro alle nuvole! A
tale opinione essi arrivarono perchè cercavano bensì la verità nella
realtà, ma reali reputavano soltanto le cose sensibili: ora, in queste ha
gran parte l’indeterminato, e an- che l’essere, ma nel significato che
dicemmo (*). Perciò il loro (1) Cfr. Diela, pp. 124 (n. 16), 202-3
(106, 108). Sembra ad alcuni che A. forzi troppo il pensiero di costoro
col farne dei sensisti. Ma è anche vero ch'essi non distinguono il
sensibile dall’intelligibile, 0, se distinguono, fanno del pensiero quasi
un senso superiore: come dimostrano i versi citati. (2) Buone o cattive,
a seconda della disposizione d'animo. (8) Cioè, potenziale. Per
Epicarmo, non si conosce a quale giudizio di lui contro Senofane, A. qui
alluda. 10 11 12 13
14 15 16 LIBRO QUARTO 123
discorso ha somiglianza col vero, ma non è vero. E c’è mag- gior
proprietà a parlar di loro così, che non come Epicarmo contro Senofane.
Un altro motivo della loro opinione era questo: vedendo che tutto
in questo mondo si muove, e ritenendo che del mute- vole non ci sia nulla
da dire di vero, conchiusero che neppure è possibile parlare con verità
di un mondo che sempre e in tutti i modi si muta. Da questa constatazione
germogliò l’opi- nione più estrema in questo argomento, quella di coloro
che professano di « eraclitizzare », quale aveva anche Cratilo (‘):
questi finì col credere che non si debba parlare, e moveva il dito
solamente, e biasimava Eraclito per aver detto che non è possibile
immergersi due volte nello stesso fiume: £ suo avviso, neppure una volta
è possibile. Ma noi anche con- tro questo ragionamento risponderemo che
certamente quel che muta, mentre muta, dà loro qualche ragionevole
motivo di credere al suo non essere. Eppure c’è da discuterne; poi-
chè, l’oggetto che perde una proprietà, conserva ancora qual- cosa di ciò
che perde, ed è già necessariamente qualcosa di ciò che diviene. E in
generale: se qualcosa si corrompe, deve continuare a essere qualcosa; e
se qualcosa si genera, di necessità dev’esserci ciò da cui si genera, e
che lo genera; e questo processo non può andare all’infinito. E anche
la- sciando questo da parte, noi diciamo che non è la stessa cosa
il mutare nella quantità e il mutare nella qualità: per la quantità, sia
pure che non ci sia al mondo nulla di perma- nente; ma noi conosciamo
tutte le cose per la forma (?). À quelli che la pensano a quel modo, noi
non possiamo fare a meno di rimproverare che, limitandosi a un
piccolo numero di osservazioni, pur nella cerchia stessa delle cose
sensibili, i lor pronunziati estesero all'universo intero. Se la
(1) Cratilo, ricordato già in I. 6, 1 come maestro di Platone. (2) Il
passaggio è, dunque, sempre dall’essere all'essere: poichè per A. è
l'essere che spiega il divenire, non viceversa. La pura essenza non diviene,
e questa è forma che spiega il mutare delle cose (qualitativamente:
qualità, qui, è il punto di viste formale, della sostanza e delle sue
determinazioni conoscitive, opposto a quello meramente materiale della
quantità). 124 METAFISICA regione del sensibile, che
ci circonda, è in perpetuo nascere e perire, tale, tuttavia, è essa soltanto,
e rispetto al tutto è una piccola parte, che conta, si può dire, niente:
sì che sa- rebbe molto più giusto in grazia del tutto assolvere
questa parte dalle sue mancanze, piuttosto che a cagion di questa
condannare il tutto. Inoltre, potremo evidentemente indiriz- zare anche a
costoro le stesse considerazioni fatte addietro. Bisogna mostrare anche a
costoro, € persuaderli, che esiste una natura immobile (‘). In fine,
costoro che dicono ogni cosa essere e non essere insieme, se fossero
conseguenti, do- vrebbero affermare che tutto è quieto, piuttosto che in
mo- vimento: chè, se tutto è in tutto, non c’è più niente in cui
qualcosa possa mutarsi. (1) I cieli sono incorruttibili, e al di
sopra di essi Dio e le Intelligenze motrici son fuori di ogni specie di
movimento. «His igitur rationibus A. remo- visse sibi videtur eas causas,
quae quosdam ad recusandum principium contra- dietionis impellerent: quae
quam non sufficiant in prompt u est intelligere. Ac primo quidem
argumento quod mutationem ad essentiam redigere studet, facile est videre
eum, dissecta in partes quasdam mutatione, ea spectare, in quibus vel
coepta nondum sit vel iam absoluta inutatio, nec vero ipsum illud, quod
mutatur, quatenus mutatur. Altero argumento, quod speciem ac formam rerum
ac per eam certum cognitionis fundamentum manere contendit, confidendum
quidem est in nullo mutationis genere ex Aristotelis decretis ipsam
formam
vel fieri vel mu- tari; sed ita, non sublata est, verum translata in
alium locum dubitatio de muta- tione. Reliquie argumentis quod in
angustiores fines ‘mutationis ambitum studet includere, nihil videtur ad
refutandos adversarios efficere: sive, enim, latius patet mutatio sive
minus late, quatenus invenitur, eatenus principium contradictionis
tamquam universale principium tollit: propositio enim universalis unius
propo- sitionis singularis instantia tollitur. His scopulis hoc loco, ubi
mutationis mentio necessaria non erat, propterea illidit A.,
quiaprinelpium contradictionis non de notionibus, sed de rebus valere
posuit »: Bonlitz, pp. 204-5. Ma lo spirito dell’argomentazione
aristotelica non è colto, così. Qui A. difende il suo principio contro
l’indebita ipostatizzazione della negazione assoluta, pro- pria del
pensiero discorsivo, insieme e al pari dell'affermazione, nella realtà e
intelligibilità delle cose, le quali verrebbero, così, negate non soltanto nel
loro essere determinato, ma anche nel loro divenire: come il par.
seguente (18) mostra chiaramente. (Di vero, tuttavia, della critica,
resta questo: che quella realtà e intelligibilità è affermata, nel suo
essere e divenire, con procedimento analitico, prima o dopo del suo
attuarsi, non nel suo attuarsi, in cui l’opposizione passa dalla forma
astratta a quella concreta dell'essere che diviene in quanto assorbe in
sè la propria negazione. Quel procedimento, quindi, porta A. a vedere lo
svi- luppo dell'essere come già attuato e irrigidito nelle forme
dell'essere universale, dal mondo sensibile soggetto a corruzione a
quello pur sensibile ma incorruttibile, e da questo a quello sottratto a
ogni forma del divenire). 17 18 LIBRO
QUARTO 125 19 In quanto, poi, alla verità di ciò che appare, che,
cioè, 1010 b non tutto ciò che appare è vero, noi osserviamo
anzitutto che l’atto del sentire non è per nulla falso quando è
dell’og- getto suo proprio, ma la fantasia non è la stessa cosa della
20 sensazione ('). C'è, quindi, proprio da stupire al sentirli di-
scutere se le grandezze e i colori siano realmente quali ap- paiono da
lontano o quali appaiono da vicino, e se le cose siano quali appaiono ai
malati o quali appaiono ai sani, e se siano più o meno pesanti secondo
che uno è robusto o è fiacco, e se la verità sia di quelli che dormono o
di quei che son desti. Che in realtà non abbiano questi dubbi, è
palese: nessuno, per lo meno, se, di notte, imagina di essere in
Atene, mentre è in Libia, s'incammina verso l’Odeone. Ag- 21 giungi,
quel che già Platone osservava, che intorno all’avve- nire, se, ad es.,
un malato guarirà o no, non è davvero ugualmente autorevole l'opinione di
un medico e quella di un (1) «Quod Protagorei contendunt verum
esse quod cuique de qualibet re videatur, hoc placitum in fines longe
artiores est restringendum: illud, enim, vere contendi licet sensum
quemlibet non falli in percipiendis rebus ipsi proprie subiectis; at
phantasia, quam Protagorei, quum tò parvépevov dicunt verum esse, veritatia
faciunt indicem ac testem, differt a sensu »: Bonitz, p. 205. Il Ross
suggerisce un’altra interpretazione, onde il passo verrebbe trasfor- mato
così: Quanto alla verità di ciò che appare, noi osserviamo che non tutto
ciò che appare è vero: anzitutto, se anche, come essi dicono, la sensazione
non è falsa, quando però sia di un oggetto appropriato a un senso, ecc. —
Migliore, sembra, l’interpretazione del B., che non rischia dl prestare
all'avversario la tlottrina di A. intorno aî sensibili propri. Per
questa, cfr. De An., II. 6. 418 a, 8: « Sì dice sensibile in tre sensi:
in due dei quali si parla del sentire per sè, nell’altro per accidente.
Dei due primi modi di sentire, uno è proprio di ciascun senso, l’altro è
comune a tutti. Dico proprio ciò che non può esser sentito per altro
senso, è intorno al quale non è possibile cadere in errore: così il
colore rispetto alla vista, e il suono rispetto all’udito, il sapore
rispetto al gusto. Cia- scun senso discerne intorno a essi, e non può
ingannarsi in quanto colori 0 suoni, ma solo intorno alla cosa colorata o
al luogo, ecc. ». In questo, ch’ è piuttosto un inferire che un percepire
(e così se un senso pretende di giudicare dell'oggetto di un altro
senso), il senso può ingannare. — La fantasia era stata da Platone
trattata come la stessa cosa della sensazione (Teeteto, 152 c). A. la distingue
dal senso e dal pensiero discorsivo, benchè non sorga senza la
sensazione, e senza di essa non ci sia l’opinione. Essa tramezza, dunque,
tra l’una e l’altra: appar- tiene alla parte sensibile dell'anima, ma è
attiva e indipendente dall'oggetto attuale come il pensiero. Cfr. De An.,
III. 3. 427 b, 14. 126 METAFISICA ignorante ('). E
anche per le sensazioni, non è ugualmente autorevole la sensazione di un
oggetto che è proprio di un senso e quella di un oggetto estraneo, la
sensazione dell’og- getto attuale e quella di un oggetto vicino (*).
Invece: del colore giudica la vista, non il gusto; del sapore, il
gusto, non la vista. E ogni sensazione, nel tempo stesso e intorno
allo stesso oggetto, non dice mai che una cosa sta così e non così (3); e
anche in tempi diversi, la questione non cade propriamente su la qualità,
ma su l’oggetto a cui essa con- viene: dico, ad es., che lo stesso vino
può bene parere una volta dolce e un’altra no, o perchè s’è mutato esso,
o perchè s’è mutato il nostro organo; ma la qualità del dolce,
quale essa è, quando è, non muta mai: il senso ne dice sempre il
vero, e quel che dovrà esser dolce, sarà sempre dolce in questo modo (‘).
A dir vero, proprio questo vogliono distrug- gere i sostenitori di tutte
queste dottrine, e in quel modo che negano la realtà di ogni sostanza,
così per essi non c’è nulla al mondo di necessario: poichè necessario è
ciò che non può essere ora in un modo, ora in un altro, sì che se
qualcosa esiste di necessità, non potrà essere così e non così (°).
E in somma, se solo ciò ch’è sensibile può esistere, qua- lora non
ci fossero animali, non esisterebbe nulla: chè non ci sarebbe sensazione.
Ebbene, dire che nè le qualità sensibili, (1) Per questi due
paragrafi, cfr. Teeteto, 157 e 8.; 1710, 178c s, Ma giusto, per queste e
altre concordanze, lo Schwegler (p. 180): A. attinge direttamente dalla
protagorea ’AAntea, indipendentemente dai giudizi di Platone. (2)
Intenderei così le parole invano, mi sembra, tormentate anche da altri:
toù rimolov xal toù ati; (Aless.: la sensazione di un oggetto vicino è più
sicura che quella di un oggetto distante; Bullinger e Goebel, cit. in
Ross: la sensazione dell'oggetto proprio è più sicura che quella di un
oggetto di un senso affine; ecc.). (3) La sensazione (l’atto del
percepire) è già conoscenza per A., come si notò a I, 1, 4, e però
soggetta alla stessa legge di non-contraddizione del pensiero. (4)
L'attributo o qualità, per sè, non muta e non passa nel suo contrario: il
dolce (la dolcezza) non diventa amaro: quel che muta è il sostrato, che può
pas- sare da un contrario all’altro (o agli intermedi). Nota, anche qui,
l’irrigidimento del reale in forme definitorie (come in Platone).
(5) La ragione del predetto irrigidimento è nella preoccupazione, che A.
hu qui in comune col suo maestro, di combattere le dottrine protagoree
portanti alla negazione di ogni realtà su cui il pensiero possa posare
con la certezza della propria validità. 22
23 25 26 ro I
28 LIBRO QUARTO 127 nè le sensazioni (‘') esistono,
forse è anche giusto, in quanto queste altro non sono che affezioni del
senziente; ma è impossi- bile che, anche senza la sensazione, non
esistano tuttavia i so- strati che la producono. Infatti, Ja sensazione
non è sensazione di se stessa (*), ma c’è, oltre di essa, anche
qualcos'altro, che, necessariamente, è prima di essa: ciò che muove è per
natura anteriore a ciò ch’è mosso. E se anche si obietta che essi
sono in relazione di reciprocità, la cosa non è men vera (*).
CapitoLo VI (*). Ci sono alcuni — e tra quelli che son persuasi di
ciò che di- cono, e tra gli altri che fan questione di parole soltanto
— i quali muovono una difficoltà: essi voglion sapere chi sarà poi
a decidere se uno sia sano e, in generale, se uno intorno (1) Mi
par giusto tornare alla volgata: uite và aloîntà (le qualità sensibili,
qui: non le cose stesse) pinTe tà alcèf pate. Poichè non è conforme alla
dottrina più chiara di A. porre come esistente il sensibile fuori della
sensazione (in atto o in potenza): cfr. De An., III. 2. 425 Db, 26: «
L’atto del sensibile e della sensa- zione è identico, ma l’esser loro non
è il medesimo: dico, per es., del suono in atto e dell'udito in atto.
Poichè è possibile posseder l'udito e non udire, e ciò ch'è sonoro non
sempre rende suono. Ma quando ciò che ha potenza di udire, è in atto, e
ciò che ha potenza sonora rende suono, allora ha ÎInogo insieme l'atto
dell'udire e l’atto del suono ». Ciò non toglie, naturalmente, l’esistenza di
un mondo sensibile esteriore all'anima: poichò il sentire, diversamente
dall’inten- dere, non passa all’atto senza un oggetto esteriore materiale:
« Perciò dipende da noi l’intendere, quando lo vogliamo, ma non così il
sentire »: De An., II. 5. 417 Db, 24. ° (2) La sensazione non è
sensazione di se stessa, nel senso che l’occhio, ad. es., non vede se
stesso. Ma A. accenna anche a una alognows ch'è aùti avtis (De An., III.
2. 425 b, 15, 0 Cfr. De sensu, 7. 448 a, 26): autocoscienza sensibile, noi
diremmo, corrispondente a quella intellettiva (del tutto spiegata in Dio,
com'è noto). Per cui anche la sensazione, così come il pensiero per l’intelligibile,
non ha fuori di sè il sentito (in quanto tale). (3) Posta anche la
correlatività protagoree, onde il sentire risulti dall'in- contro
dell’agente col paziente (della cosa visibile, ad es., con la vista: cfr.
Teeteto, 156 d), vale quanto si è detto: debbono esistere,
indipendentemente dalla sensa- zione, i due sostrati, la cosa che ha la
potenza di esser vista e l’anima che ha la .\otenza di vedere. (4\
Questo capitolo prosegue il precedente, e s'aggira ancora intorno alla
verità, di ciò che appare. Vien ripetuta la distinzione tra coloro che
seguono o meno, la dottrina protagorea in buona fede e con
qualche ragione degna di esser presa 1011 a 128
METAFISICA a ogni cosa giudichi rettamente. Dubbi di questo genere
sono simili a quello di sapere se in questo momento dormiamo o
siamo desti. Simili difficoltà valgono tutte lo stesso. Costoro
pretendono che si dia ragione di tutto: cercano un principio, e lo vogliono
ottenere per via dimostrativa: sebbene dalle loro azioni si veda chiaro
che di tale necessità, di dimostrar tutto, non sono persuasi. L’errore in
cui cadono, come si disse, è questo: cercano un ragionamento per cose in
cui il ragionamento non esiste, perchè il principio de lla
dimostra- zione non è una dimostrazione. Essi stessi possono
facilmente persuadersi di ciò: chè non è difficile a comprendere.
Coloro, invece, che esigono che uno li confauti per forza di ragio-
namento soltanto, esigono l’impossibile: poichè pretendono che si dica il
contrario di loro, e cominciano intanto col dirlo essi ('). Se le
cose non tutte sono relative, ma alcune soltanto, e altre sono in sè e
per sè, allora non potrà tutto ciò che ap- pare, esser vero. Poichè, ciò
che appare, appare a qualcuno: di modo che, chi dice che tutto ciò che
appare è vero, fa tutte le cose relative. Perciò quelli che chiedono di
essere confutati per forza discorsiva — se tuttavia acconsentono di
discutere ragionevolmente —, bisogna che facciano bene at- tenzione che
non c’è ciò che appare semplicemente, ma c’è ciò che appare a chi appare,
e quando appare, e in quanto e come appare. Se vogliono discutere, ma non
in questi ter- mini, accadrà loro ben presto di dire cose tra loro
contra- rie (*). Può, infatti, alla stessa persona una cosa parer
miele alla vista, e al gusto no; e non parer identica una stessa
in considerazione, e coloro che ne cavan :notivo per nera esercitazione
discor- siva. I trapassi, tuttavia, dalla considerazione di un gruppo o
dell'altro, o di ciò che essi hanno in comune, non sono abbastanza netti.
Può darsi che il testo sia atato in qualche parte disordinato. (1)
Intendo: pretendono che altrî dimostri il contrario di ciò che dicono:
ma, com’ è possibile ciò, se già essi lo affermano? V. nel Ross gli altri
tentativi: d'interpretazione. (2) Cose tra loro contrarie essi
possono dirle soltanto se escono «indll’atto. omnimode determinatus del
conoscere. Ma, se accettano la determinazjfone, non: riuscirà a ]Joro
più. 2 (uh) | 6 de)
10 LIBRO QUARTO 129 cosa alla vista di
ciascuno dei due occhi, se sono disuguali. Coloro che, per le ragioni già
dette, van dicendo esser vero ciò che appare, e però tutto ugualmente
vero e falso, per- chè non a tutti le cose appaiono le stesse, e neppure
a uno stesso sempre, e spesso appaiono contrarie anche nello stesso
tempo (il tatto, per es., se s'intrecciano le dita, dice che son due gli
oggetti, la dove la vista ne dà un solo), — quei tali, dunque, badino che
in realtà, qui, le sensazioni non riguardano lo stesso senso, e per lo
stesso rispetto, e nella stessa maniera, e nello stesso tempo: per cui
vero’ sarà ciò che appare solo se è così determinato (‘). Ma,
appunto per ciò, quei che parlano non perchè dubi- tino, ma per parlare,
si troveranno forse costretti a dire, non «questo è vero >», ma «è
vero a questo »; e quindi, anche, come si disse dianzi, dovranno far
tutto relativo, all'opinione e al senso, sì che se non si presupponesse
l’opinione di qual- cuno, in realtà non ci sarebbe stato e non ci sarà
mai niente (*). Che se, invece, qualcosa fu o sarà, è chiaro che non
tutto è questione di opinione. Inoltre, se l’oggetto è uno solo,
bisogna che sia in rela- zione a uno solo o ad altri in numero
determinato: che se una stessa cosa si trova insieme ad essere metà e
uguale, non è relativamente al suo doppio ch’essa è uguale (?). E
quanto a colui che opina, se la realtà dell’uomo è an- ch’essa oggetto di
opinione, non sarà uomo chi opina, ma (1) Così determinato l'atto,
esso spiega le differenze, non solo tra individui diversi, ma anche nello
stesso individuo, dipendendo queste o dalla cosa che ha potenza di
produrre sensazioni diverse o contrarie, ovvero dalle condizioni e dal-
l’uso degli organi, ovvero dal giudizio (talvolta errato) che l’anima trae dal
con- fronto delle sensazioni o di queste con precedenti immagini (v.
dianzi la possibilità «dlell'errore nei sensibili per accidente, e la
distinzione tra sensazione e fantasia; e cfr. anche De An.,, III. 3,
428a, 11: «Le sensazioni sogo' sempre vere, invece le fantasie nascono il
più delle volte false »: di qui, gt possibilità del vero e del
falso nella déta). (2) Come dianzi per la sensazione, così qui per
l'opinione: il soggettivismo è assurdo per A. (9) Si riannoda al
pensiero precedente al $ 8: anche fatto tutto relativo, se la
relazione vien determinata ne’ suoì termini esattamente, essa non è mai
con- tradittoria. ARISTOTELE, Metafisica, 9
130 METAFISICA l'oggetto opinato. Ma, siccome ogni cosa è
quale è chi l’opina, costui sarà infinite specie di cose (‘). Che,
dunque, l’opinione più salda di tutte è questa, che le affermazioni
opposte non possono esser vere insieme; e a quali conseguenze vadan
incontro coloro che la impugnano, e quali ragioni li muovano a ciò, — si
è detto quanto basta. Ora, posto che è impossibile che si verifichi la
contradi- zione nello stesso tempo e per il medesimo rispetto, è
mani- festo altresì che neppure i contrari possono trovarsi insieme
nello stesso soggetto. Poichè uno dei contrari non esprime altro che la
privazione: la privazione della sostanza. Ma la privazione è la negazione
d’un certo genere determinato. Se, dunque, è i mpossibile che
l’affermazione e la negazione siano vere nello stesso tempo, dovrà anche
essere impossibile che i contrari si trovino insieme (?), a meno che
entrambi non si trovino in una certa maniera soltanto, ovvero }’uno in
una certa maniera soltanto, e l’altro semplicemente. CapitoLo
VII. Delle due parti della contradizione non si dà mezzo, ma
è necessario che o si affermi o si neghi, e che, quel che si afferma o
nega, sia una sola cosa di una sola. Questo diventa chiaro appena ci si
faccia a definire che cosa è il vero e il falso. Falso è dire che l’essere
non è, o che il non-essere è; (1) Ripiglia il
pensiero del $ 8: se tutto è relativo all’uomo (Protagora), l’uomo stesso
che cos'è? Da una parte, non esistendo altro che l'oggetto di opi- nione,
l’uomo non è più il soggetto pensante, ma quello ch'è pensato; dall'altra,
anche in quanto soggetto pensante, per la reciprocità protagorea (di cui alla
fine del capitolo precedente), egli esisterà come è nella relazione a ciò
che pensa, e sarà un opinante d'infinite specie: tante, quante sono le
specie degli oggetti opinati, in rispetto ai quali egli è un opinante
sempre diverso (data la varietà continua delle cose opinate). In
conchiusione, neppur l’uomo esiste. Ho tradotto come se il xgòds della
1. 12 non ci fosse (così il cod. E). Mante- nendolo: «costui sarà (tale)
in relazione a un numero infinito di specie di cose» (e quindi sempre
diverso). (2) Salvo che in potenza, o l’uno in atto e l’altro in
potenza; o l’uno sotto un aspetto, e l’altro sotto un altro, ecc.
11 12 ro (ce i LIBRO
QUARTO 131 vero è dire che l’essere è, e il non-essere non è. Per
cui, anche, chi dice che una cosa è, o non è(‘), o dice il vero o
dice il falso; invece, se si desse il mezzo, nè dell’essere sì direbbe
che è o non è, nè del non-essere. In secondo luogo, quel mezzo della
contradizione do- vrebbe essere o a quel modo che il grigio è in mezzo
tra il nero e il bianco, ovvero tra uomo e cavallo un terzo ente
che non sia nessuno dei due. Se fosse in quest’ultimo modo; non ci
sarebbe mutamento (perchè mutamento si ha quando dal non-buono si passi
al buono, o da questo a quello): invece lo si vede ognora, ed è tra
contrari e inter- medi, e non altrimenti. Se poi il mezzo fosse come
un intermedio, si avrebbe anche così una generazione del bianco che
non verrebbe dal non-bianco: ora, nessuno l’ha mai vista (*). In
terzo luogo, tutto ciò che pensa e intende (°), il pen- siero o lo
afferma o lo nega: questo è chiaro dalla defini- zione stessa del vero e
del falso (‘). Vero è il pensiero quando, affermando o negando, unisce le
nozioni in un certo modo; quando, invece, in un certo altro, è falso.
In quarto luogo, quel mezzo, se uno non fa questione di parole,
dovrebbe essere al di lA di tutte le contradizioni, per cui uno neanche
direbbe nè il vero nè il non vero. E sa- (1) Non «chi dice che
questo (toùto 0 èxgsivo, che altri aggiungono inten- dendo del mezzo) è 0
non è»: perchè del mezzo non si dice che è o non è. Per quel che segue:
«Ille quì ponit medium inter contradictionem, non dicit quod necesse sit
dicere de ente esse vel non esse, neque quod necesse sit de non ente»: S.
Tom. ($ 720). (2) O quel terzo (il mezzo) è negativo (né uomo — né
cavallo), e il divenire non ha luogo perchè ci vuole un termine positivo
e una realtà comune ai due termini tra cui avviene (il «non buono », ad
es., se diviene, passa in un termine positivo, e questo, d'altronde, non
può essere, poniamo, il « bello »); ovvero è positivo (e bianco e nero),
e il divenire non avviene neppure in questo caso, perchè il termine nega-
tivo è indispensabile e la realtà da realizzare non può esser quella già
realizzata (nell'esempio, considera il grigio come già, insieme, bianco e
nero, attualmente). (3) L'attività logica (della Su&vora) porta
all'intuizione della verità (propria del vote). (4) Posta al $
2.I1 giudizio è sintesi di nozioni, rapporto (affermativo o nega- tivo)
tra soggetto e predicato. 1012 a 132 METAFISICA
rebbe al di là (') dell'essere e del non-essere, per cui do-
vrebbe esserci anche un mutamento diverso (2) da quello che consiste nel
nascere e perire. In quinto luogo, quel medio dovrebbe esserci anche
per quei generi di cose, in cui la negazione importa immedia- tamente
il contrario (*): nei numeri, ad es., dovrebbe es- serci un numero che
non fosse nè dispari nè non-dispari. È impossibile: basta la definizione
a vederlo (‘). In sesto luogo, si andrebbe, in tal modo, all’ infinito:
le cose sarebbero non soltanto accresciute di metà, ma più an-
cora, perchè si potrà sempre daccapo negare quel terzo, e costituire tra
l’affermazione e la negazione sempre qualcosa di nuovo, di natura diversa
(°). In fine, quando uno, richiesto se una cosa è bianca, ri-
sponde di no, che altro ha egli negato se non l’essere? E la negazione di
esso è il non-essere (°). Questa opinione è sorta in alcuni per la
stessa via di altre non meno strane: non riuscendo a cavarsi fuori da
ar- gomentazioni eristiche, si arrendono e acconsentono che sia
vero quel che se n’è conchiuso. Questi, dunque, parlano per
(1) mao. Gli altri interpretano come un «per». Tenterei di differenziare
un po’ di più questo argomento dai precedenti. Nota, per la 2» parte del
paragrafo (che passa dalla considerazione logica a quella reale), che il
discorso è pur sempre intorno al mondo del divenire, dove soltanto ha
luogo l’antitesi di essere e non- essere e dei contradittorii. (2)
Intendi: un mutamento sosta:ziale diverso. Chè è in quello che ha luogo
più propriamente l’antitesi essere-non essere. (3) In questi contrari
mancano intermedi, e come non c’è processo di gene- razione, così
l'affermazione di uno importa immediatamente l’esclusione dell’altro. È
un caso di contrarietà in rerum natura equivalente alla contraddizione logica
(l’unica differenza è che alla negazione non-dispari corrisponde la realtà
positiva del pari). (4) La definizione divisoria del pumero in
pari e dispari. (5) Più semplice l’interpretazione di Alessandro, così
schematizzata dal Ross: Se tra A e non-A c'è B [che sarebbe un terzo modo
di essere di A, nè affermato nè negato soltanto, e però accresciuto di
una metà), ci sarà anche C tra B e non-B, e D tra Ce non-C, e così di
seguito. (6) « Argomento cavato dalla natura del discorso. Il sì e il no
esprimono il primo un'affermazione e non insieme una negazione, e il
secondo una negazione e non insieme un’affermazione. E l’affernazione e
la negazione non indicano se non che o sia © non sia quella tal cosa di
cui si parla»: Bonghi (p. 201). 10 LIBRO QUARTO
133 motivi di questo genere; altri, perchè vogliono che si
dia ragione di tutto. Con tutti costoro bisogna cominciar dalla
definizione, e la definizione vien fuori obbligandoli a dar un
significato a quel che dicono: il concetto, di cui la parola è segno,
diventa definizione ('). La sentenza di Eraclito, che tutto è e non è,
par che auto- rizzi a far vera ogni cosa; quella di Anassagora, invece,
a porre un mezzo della contradizione, sì che ogni cosa sarebbe
falsa; chè, quando tutto è mescolato, il miscuglio non è nè buono nè
non-buono, onde non se ne può dir nulla di vero. CapiTtoLO
VIII. Ciò determinato, è facile vedere che ciò che si dice
delle cose in generale non si può ridurre ad affermazioni di una
sola specie, così come fanno alcuni, i quali o van dicendo che niente è
vero (niente impedisce, secondo essi, che tutto stia come il rapporto
della diagonale al lato) (?); ovvero van dicendo che tutto è vero. Son
discorsi, questi, in fondo, uguali a quello di Eraclito: poichè, chi
asserisce che tutto è vero e tutto è falso(*), asserisce anche ciascuna
di queste (1) (Per questo paragrafo e s.). Non riuscendo a vedere
l’errore dei ragionamenti eristici, aleuni ne accettano le conchiusioni,
e tolgon valore, così, al principio di non contraddizione, e a quello
connesso «del terzo escluso. Altri muovono da ra- gionamenti non
eristici. In entrambi i casì, si cominci con esigere un significato
determinato di ciascun termine, Questo fu raccomandato già (4, 5 ss.) per
la difesa del principio di non-contraddizione, e ora vien raccomandato
anche per la difesa del principio del terzo escluso, perchè, in effetto,
chi, come il supposto seguace di Anassagora, pone quel terzo (che non è
nè l’una nè l’altra parte della contradittoria), fa che delle cose non si
possa mai dir nulla di determi- nato: cfr. 4, 25. (2) Lett.:
«l’essere il diametro commensurabile». Ossia: ogni cosa è in sè
contradittoria (come chi dicesse: « diametro commensurabile »). (3)
Intendo: chi asserisce che si può dire che tutto è vero e tutto falso în-
differentemente (se, secondo Eraclito, tutto è e non è), costui vien a dire che
son giuste anche le due enunciazioni separatamente prese: che tutto è
vero (tanto l’essere quanto il non-essere), o tutto falso. Comunemente
vien inteso, invece, che «chi dice che tutto è vero e tutto falso
insieme, dice anche le due cose separa- 134 METAFISICA
1013 b cose separatamente, sì che, se la prima asserzione è
insoste- nibile, insostenibili sono anche queste separate. Ed è evidente
3 anche che sono contradittorie quelle che non possono esser vere
insieme. E neppure possono entrambe esser false: quan- tunque questo
secondo caso, per le ragioni dette, possa sem- brare meno improbabile
(‘). Con tutti coloro che fan discorsi di questa specie bisogna 4
comportarsi come s’è consigliato anche addietro (?): non esi- gere che
dicano se una cosa è, o non è, ma che diano un significato a quel che
dicono: di modo che dalla definizione si possa passare alla discussione,
quando siasi stabilito quel che significhi il falso o il vero. Se
enunciar il vero non è 5 altro che negare ciò ch’è falso(?), è
impossibile che tutto sia falso, poichè è necessario che una delle due
parti della contradizione sia vera. Poi, se ogni cosa si deve o affermare
6 o negare, non si può essere nel falso in entrambi i casi, perchè
una sola delle due parti della contradizione è falsa. A questi e simili
ragionamenti succede, poi, quel che 7 tutti sanno: essi si distruggono da
se stessi. Chi dice, infatti, che tutto è vero, ta vero anche il
ragionamento contrario al suo, e però dichiara non vero il suo (tale,
infatti, lo di- chiara l’avversario). E chi dice che tutto è falso, si
dichiara nel falso da sè (‘). Che se si ammettono eccezioni, e il primo
8 tamente », Il che, evidentemente, è falso. Così, per quel che
segue, che sarebbe da tradurre: «se sono impossibili prese separatamente,
anche la loro unione è impossibile». Alessandro (397) dà entrambe le
interpretazioni. (1) Se le contradittorie sono semplicemente contratie
(ossia, se si considera la negazione positivamente). Le «ragioni dette »
potrebber'essere, in questo caso, quelle del 8 3 del capitolo precedente,
in cui si accenna alla possibilità che uno intenda la contraddizione nel
senso della contrarietà. Alessandro, invece, ricorre alle dottrine di
Eraclito e di Anassagora, le quali favoriscono piuttosto l'opinione che
non si possa affermar nulla di vero, come anche A. dice alla fine del
capitolo precedente (la dottrina eraclitea è stata, nel paragrafo
precedente, avvicinata a quella anassagorea). (2) Cfr. 4, 5. Quel
che significhi il falso o il vero: nel Singolo caso. Cfr. cap. prec., 9.
(8) Il testo è guasto: ho seguito la correzione proposta dal Ross (el 8è
unttèv diio tò &Ainttès pévat fi (5) drogpdvar yeidée totv).
(4) Così anche in Teeteto, 1712 58. 10 11
LIBRO QUARTO 135 dice che soltanto quello dell'avversario
non è vero, e il se- condo che soltanto il suo non è falso, — allora,
essi si tro- veranno a postulare sempre altri ragionamenti, veri e
falsi, a sostegno di quanto affermano: poichè vero sarà riconoscere
per vero il ragionamento che è vero, e così si andrà all'in- finito (‘).
Evidentemente, il vero non lo dicono nè quei che affer- mano che
tutto sta fermo, nè quei che affermano che tutto si muove (?). Se tutto
stesse fermo, vero e falso sarebbero eternamente gli stessi, invece si
vede bene come tutto muta quaggiù. Colui che parla, lui stesso un tempo
non era, e un tempo non sarà. Ma se tutto si muove, non ci sarà nulla
di vero, e però tutto sarà falso: noi abbiamo mostrato che questo
non è ammissibile. Inoltre, il mutare presuppone l'essere, poichè il
mutamento è da qualcosa a qualcosa. E neppure si può dire di ogni cosa
che talora soltanto, non x (1) Nel 1° caso: È falso
che tutte le affermazioni sono vere. — È falso ch'è falso che tutte le
affermazioni sono vere, ecc.; nel 2° caso: È vero che tutte le
affermazioni sono false. — È vero che ò vero che tutte le affermazioni sono
false, ecc. Nel 1° caso son tutte affermazioni false che, chi sostiene
che tutto è vero, deve attribuire al contradittore; nel 2° tutte
affermazioni vere che, chi sostiene la tesi che tutte le affermazioni
sono fulse, deve riconoscere come proprie. Così vero e falso, presi uno
fuori dell’altro, trapassano immediatamente l’uno nell’altro: chi dice
cho tutte le affermazioni sono vere, è costretto a riconoscerne infinite
false; chi dice che tutte sono false, deve riconoscerne infinite vere.
Vero e falso, invece, sono uniti, per A., nella sintesi contradittoria,
dove, soltanto, l'uno dà senso all’altro. Si può notare in questa
concezione la tendenza già a dialettizzare il pensiero in sè e per sè.
L’astrattismo platonizzante e le asigenze discorsive prendono, tuttavia,
il sopravvento: vero e falso si escludono senza mediarsì, in fine; e il
principio di non contraddizione resta un presupposto (l'assioma supremo),
una pregiudiziale, puramente negativa, della pensabilità del reale in
generale (la prima condizione logica del pensiero empirico). Anche il
principio del mezzo escluso, anzichè fondare il valore assoluto della
sintesi contradittoria per l'atti- vità pensante (ch'è îl medio concreto
in cul l’antitesi si risolve senza residuo), vien aggiunto semplicemente
come corollario: chi lo nega, nega il principio di non contraddizione, e
cade, infine, così come chi nega questo, nell'inileterminato. Il pensiero
empirico, infatti, per la determinatezza del reale vuole l’immedia- tezza
della distinzione e opposizione del vero al falso. (2) Ricorda che
quiete e moto già al $ 15 del cap. 2 furono citati come una contrarietà
riducibile a quella dell’uno 6 del molteplice, dell’essere e del
non-essere. 136 METAFISICA eternamente, sia in quiete
o in movimento. C’è qualcosa che sempre muove ciò ch’è mosso, e il primo
motore, esso, è immobile ('). (1) «Posset aliquis credere
quod, quia non omnia moventur nec omnia quie- scunt, quod ideo omnia
quandoque moventur et quandoque quiescunt»: S. Tom. (748). Invece, il
cielo (delle stelle fisse) muove sempre, mosso esso stesso, e Dio muove
questo sempre, immobile in se stesso. Un pensiero analogo trovammo nel
cap. 5, 5 è 16-17. La questione qui accennata è discussa in Plys., VIII. 3.
1 LIBRO QUINTO CapiTOLO TI. Dicesi
principio (') di una cosa quello da cui si può co- minciare il movimento:
della linea, per es., e della via c’è un principio da questa parte, e un
altro dalla parte opposta. Ovvero, quello da cui una cosa riesce meglio:
per es., nello studio si deve cominciare talvolta, non dal principio
primo di una cosa, ma da quello che s'impara più facilmente. Ov-
vero, la parte di una cosa da cui questa ha origine: per es., la chiglia
di una nave, le fondamenta di una casa; negli animali, alcuni credono che
tale parte sia il cuore (?), altri il cervello, altri qualcos'altro.
Ovvero, ciò che dà origine a una cosa senza farne parte, e da cui
primieramente potò aver (1) ’Aexî: se ne dànno i significati
principali (1-6), nel comune modo di par- lare. È difficile metter un
ordine rigoroso in questi qui enumerati, e far corri- spondere n essi
esattamente quanto riassumendo enumera e distingue nel $ 8. Nè c’è
rapporto qui con la discussione fatta nel lib. I intorno all’àgyf in
senso metafisico e con la distinzione delle quattro specie di esso:
benchè di queste sia facile trovar l'equivalente anche nell’enumerazione
presente (2, causa finale; 3, c. materiale-formalo; 4, c. efficiente; 5,
c. efficiente-finale; 6, c. formale). C'è, in più, la distinzione tra
l’esser il principio intrinseco o estrinseco alla cosa (così nel $ 8:
natura ed elementi son principii intrinseci; pensiero e deliberazione,
estrinseci). Qui, dunque, è. si potrebbe tradurre con «cominciamento », «
inizio » o «punto di partenza »(1), « fondamento » (3), «causa » od
«occasione » (4); prin- cipii sono anche i «primati» della città (5);
anche oggi si parla di principii nel senso di «rudimenti » (2), o di
«principii logici »(6); e via dicendo. (2) Il cuore è la parte
principale per A., come per Empedocle e Democrito; il cervello, per
Alemeone, Ippone, Platone. 1013 a 138
METAFISICA inizio il movimento o mutamento: per es., il figlio dal
padre e dalla madre, la contesa da un’ingiuria ('). Ovvero ciò
dalla cui deliberazione dipende se qualcosa si muove o si muta: per
es., i magistrati nelle città, gli oligarchi, i re, i tiranni; e
principii diconsi in questo senso anche le arti, specialmente quelle che
sovrastano alle altre (*). Inoltre, ciò da cui primie- ramente una cosa è
fatta conoscibile, anch’esso dicesi suo principio: per es., ciò che vien
premesso nelle dimostrazioni (*). In altrettanti modi si parla di cause,
poichè tutte le cause son principii (*). Ciò ch’è, dunque, comune
a tutti i principii è di esser ciò da cui primieramente una cosa è, o
diviene, o è cono- sciuta; e di essi alcuni sono insiti nella cosa, altri
esterni. Son principii, quindi, la natura, gli elementi, il pensiero,
la deliberazione, la sostanza e il fine (*): poichè per molte cose
ciò ch’è buono e bello è principio insieme di conoscenza e di
movimento. CapitoLO II (°). Causa dicesi, in un
senso, ciò di cui una cosa è fatta: per es., il bronzo di una statua,
l’argento di una coppa, e (1) La contesa da un'ingiuria: son
parole prese da un verso di Epicarmo, come risulta da De Gen. An., I. 18.
7242, 29. (2) Le arti qui chiamate « architettoniche » sono soprattutto
quelle che mirano alla pratica: così in Ethica Nic., I. 1. 1094 a, 14, Ma
anche la filosofia è considerata così, in rispetto alle altre scienze, in
Afet., I. 2, 5 e 12. (3) al irmodéoev sono certamente anche «le premesse
» (Bonitz, Waitz, ece.), come appare dal passo che vien poco dopo in b,
20 (2, 8). Ma non mi sembrano da escludere qui i principii (propri e
comuni) delle dimostrazioni. (4) Cfr. IV. 2, 5 (come per erte e uno).
Principio e causa sono spesso sino- nimi in A., che unisce anche î due
concetti (specialmente per la scienza dei « principii e cause prime »).
Qui principio nel senso del $ 1 non si potrebbe con- siderare come cause;
ma neppure tutte le cause son principii in senso metafîsico. Causa
accenna meramente a un rapporto tra due fatti, laddove «principium or-
dinem quemdam importat » (S. Tom., 761), e accenna piuttosto alla ragion
d'essere di tutta la serie delle cause. (5) La sostanza e il fine:
la frase raccoglie oscuramente le quattro specie di causalità. (6)
Questo capitolo ripete quasi letteralmente il 8° del libro II della
Phys., LIBRO QUINTO 139 2 i loro generi (‘); in un
altro, la specie o esemplare (?), cioè il concetto della pura essenza, ed
i suoi generi (nell’ottava, per es., il rapporto di due a uno, e in
generale il numero), 3 così come le parti di esso concetto. Inoltre, ciò
da cui ha principio immediatamente il mutamento o il suo contrario:
per es., il deliberare è causa dell’agire; il padre, del figlio; e in
generale, chi fa è causa del fatto, ciò che produce un mutamento, di ciò
che muta. d Causa dicesi anche rispetto al fine, ossia ciò per cui si
fa qualcosa: per es., si passeggia per la salute. Diciamo: per- chè
passeggia? per acquistar salute; e riteniamo, così rispon- dendo, di aver
enunciato la causa. Ma così anche per le cose intermedie tra ciò che
muove e il fine: per es., per la salute il dimagrare, il purgarsi, le
medicine o i ferri del medico: le quali cose sono tutte per il fine, e
differiscono tra loro in quanto alcune sono strumenti, altre sono azioni.
5 Si può dire che questi son tutti i sensi in cui si parla di
cause; e poichè i sensi son diversi, ne segue che di una stessa cosa ci
son cause molteplici, non accidentalmente (?): per es., di una statua lo
scultore e il bronzo son cause non per altro rispetto che in quanto è
statua: sebbene non nello stesso modo, ma l’uno come materia, l’altro
come principio del movimento. 6 E ci sono cause reciproche: così,
il lavorare è causa di buona salute, la buona salute del lavorare: ma non
nello dal quale sembra esser stato preso (o posto qui da A. stesso
?). È degno di nota che l’ordine, col quale vengono enumerate le quattro
specie di causalità, non è sempre lo stesso in A., ma varia con la natura
della ricerca. Nel lib. I, cap. 3° della Met. vedemmo enumerata per prima
ìa causa formale, poi la materiale, poi quella motrice e finale. Quì,
ossia nella Fisica, è invertito l'ordine delle prime due. In De Gen. An.
(I. 1. 715 a, 4) precedono la finale e la formale. Negli Ana/. Post. (II.
11. 94 a, 20) comincia dalla formale, e per causa materiale, subito dopo,
dà quel che nella logica ne tiene il luogo, le premesse di un sillogismo
(queste, infatti, son citate qui, al $ 8, tra gli esempi di causa
materiale). In De Somm., (2. 465 b, 16) son prima la finale e la motrice.
(1) I loro generi: v.$ 9 88. (2) Esemplare: termine platonico,
adoperato qui, con allusione all’arte, per der rilievo a quello di
specie, 0 forma, nel senso della pura essenza. (3) Bon cause proprie:
cfr. S 10. 1018 db 140° METAFISICA y stesso
modo, perchè l’una è come fine, l’altra come principio del movimento.
Inoltre, una stessa cosa è causa, talvolta, dei contrari: ciò che,
presente, è causa di certa cosa, talvolta l’accagio- niamo, assente, del
contrario: per es., del capovolgimento della nave incolpiamo l’assenza
del nocchiero, la cui pre- senza era causa di sicurezza: entrambe, la
presenza e la privazione, sono cause rispetto al movimento. Tutte
le cause ora menzionate riguardano i quattro signi- ficati più evidenti.
Le lettere dell’alfabeto, la materia delle cose artificiali, il fuoco, la
terra e gli altri elementi dei corpi, le parti del tutto, le premesse
della conchiusione, son cause in quanto sono ciò da cui risulta
costituita una cosa; ma alcune come sostrato (per es., le parti), altre
come pura es- senza (l’intero (‘'), la sintesi e la specie). Il seme, il
medico, il consigliere, in generale ciò che produce qualche
effetto, son tutte cause nel senso che da esse ha principio il
muta- mento o la quiete. Altre sono cause in quanto sono il bene e
il fine delle altre cose, poichè, ciò per cui queste sono, vuol esser
l’ottimo e il loro fine. E non si faccia differenza qui tra il bene reale
e quello apparente (?). Tali e tante, dunque, son le specie delle cause;
e anche i loro modi(*), per quanto numerosi, si riducono a pochi
capi. Parlandosi, infatti, delle cause in molti modi, anche di quelle
d’una stessa specie, alcune son tali in grado pri- mario, altre
secondariamente: causa della salute, ad es., è (1) «Non la somma
delle parti, ma ciò che s'aggiunge a queste: l’interezza e perfezione »
(Aless. 351, 27). Così, per la sintesî. E però ciò da cui risulta costi-
tuita una cosa è da intendere, non semplicemente come «ciò di cui una cosa
è fatta » ($ 1), ma nel senso del sinolo. Materia e forma son due
principiì imma- nenti in ogni caso alla natura di una cosa (diversamente
dalla causa efficiente e finale). (2) Il bene reale e quello
apparente muovono ugualmente: «non è necessario che una cosa sia
realmente buona e piacevole perchò si desideri, ma basta che paia »
(Top., VI. 8. 146b, 36). ui (3) Per ciascuna specie di causalità A.
distingue vari modi, dei quali alcuni sono cause più immediatamente,
altri meno. 10 11 12
13 14 LIBRO QUINTO 141 il medico, e
anche il pratico (‘); e dell’ottava è causa il rap- porto di due a uno, e
anche il numero; e così sempre ciò che comprende ciascun particolare.
Ci sono, inoltre, cause accidentali (?), e generi di. esse: per es.,
lo scultore è causa della statua in un senso; in un altro, la causa è
Policleto, perchè lo scultore, per avventura, è Policleto; e così dicasi
dei generi comprendenti l’accidente: per es., causa della statua è
l’uomo, o, più in generale, l’ani- male, perchè Policleto è uomo, e
l’uomo è animale. Inoltre, degli accidenti, alcuni son cause più remote,
altre più vicine: come se uno dicesse che causa dellu statua è, non
soltanto Policleto o l’uomo, ma l’esser bianco o musico. E tutte,
poi, o che tali siano propriamente, o per accidente, si dicono cause o
perchè hanno la potenza di agire, o perchè agiscono: per es., della casa
che si costruisce la causa è chi sa costruire, ovvero colui che la
costruisce. Similmente per gli effetti delle cause: ad es., si dirà
che una cosa è causa di questa statua qui, o di una statua, o di
un’immagine in generale, e di questo bronzo qui, o del bronzo o materia
in generale (*); e nello stesso modo per le cause accidentali. E queste
si potranno anche unire a quelle proprie, dicendo, adesempio, non
Policleto, nè lo scultore, ma Po- licleto lo scultore. E tuttavia
tutti questi modi si riducono a sei di numero, e di ognuno si parla in
due sensi. Cause sono o quanto al (1) Il pratico: 6 teyviuns
(termine più generale). — Ciascun particolare (xaî'éxaota): qui
«individuo» e «particolare» (e così i concetti opposti corri- spondenti
di universale e generico) non sono distinti: cfr. I. 1, 9, nota. (2) Le
precedenti son cause proprie. Della statua la causa propria è lo scul-
tore, non Policleto in quanto è semplicemente un individuo umano: tanto
meno l’uomo, e tanto meno ancora l'esser bianco (ch'è un attributo di
Pol. in quanto meramente uomo). Per quest’« accidentalità » generica di
uomo rispetto all’ indi- viduo, cfr. $ 8 del I. 1, ora cit., e nota, Noto
qui che ho tradotto letteralmente sempre povorxés con musico, per
comodità di espressione: è noto che il termine greco vuol indicare anche
«chi è educato nelle arti e nelle scienze», l'uomo «colto », «istruito »,
ecc. (3) Il bronzo è causa (materiale), « ma qui può esser preso, non
come causa, ma come effetto: ci può essere una causa metallica che
produce il bronzo » (Aless. 353, 17). O, come suggerisce il Ross, chi lo
prepara per lo scultore. 1014 a 142 METAFISICA
particolare, o al genere di esso; ovvero quanto all’accidente, o
al genere dell’accidente; ed entrambi i modi o vengono congiunti insieme,
o si considerano separatamente. E tutte, poi, o son riguardate in atto, o
in potenza('). Con questa differenza: che le cause in atto e quelle
particolari sono e vengon meno insieme alle cose di cui son cause: per
es., questo medico curante insieme a costui che sta risanando,
questo costruttore (?) insieme alla casa che si sta costruendo; invece,
non è sempre così per le cause in potenza, perchè insieme con la casa non
perisce il costruttore. CaPITOLO III. Elemento dicesi
quel primo (*) di cui risulta composta una cosa, e la cui specie non è
riducibile ad altra: come, ad es., gli elementi della voce, dei quali
risulta composta la voce, e in cui questa si risolve alla fine; sì che
essi a lor volta (1) Parrebbe che le sei classi
dovessero essere: proprie 0 accidentali, parti- colari o generali, attuali
0 potenziali. Ma, poichè A, considera le particolari equi- valenti alle
proprie, si ha in 9-11: proprie e i loro generi, accidentali e i loro
generi, attuali e potenziali. Qui ha luogo un altro spostamento: 1)
particolari (== proprie), e 2) generalità di esse; 3) accidentali, e 4)
generalità di esse; 5) par- ticolari prese insieme con gli accidenti (lo
scultore Policleto), e 6) generali prese insieme (l’uomo pratico).
Aggiungendo il criterio dell'attualità o potenzialità a tutte sei,
diventerebbero 12. Ma: a) l'unione dei primi quattro modi non è data come
necessaria; b) l'attualità non può spettare alle generalità, e in effetto
A. parla qui di cause particolari. Si che, in conchiusione, il criterio
più chiaro della classificazione è quel primo. (2) Sott. «che sta
costruendo». Nell’esempio bisognerebbe, propriamente, considerare
l’effetto nel processo del diyenire: se no, non c'è bisogno che l’in-
dividuo risanato muoia o la casa costruita rovini, per che îl medico e il
costrut- tore restino come potenze (di altri effetti). (Ric., a proposito
di ‘quest'ultimo, l'istanza del tessitore e dell'abito nel Fedone).
(3) Nel greco è aggiunto «insito» (8vurdgyovtosìi, che indica il
carattere distintivo di elemento (principii e cause possono non esser
insiti). Perciò in XII. 4. 1070b, 22 si chiamano elementi la specie, la
privazione e la materia. Cfr. nota a lib. I. 8, 10. Un altro carattere è
dato dall'essere specificamente indivisibile, sì che la materia si trova
negli elementi già in parte attuata e determinata: così nei c. d. corpi
semplici (divisibili quantitativamente, non qualitativamente: una
sillaba, invece, si divide in lettere qualitativamente diverse).
15 ut LIBRO QUINTO 143 non possono più
risolversi in altri di specie diversa dalla loro, ma, quand’anche vengano
divisi, danno luogo a parti della stessa specie, così come dividendo
l’acqua si ha acqua (non così per la sillaba). Similmente, coloro che
parlano degli elementi dei corpi, intendono ciò in cui si risolvono i
corpi alla fine, e che non è riducibile più ad altro di specie dif-
ferente: e, o ne ammettano uno solo o più, questi essi chia- mano
elementi. Parimenti dicasi degli elementi delle figure geometriche (') e
delle dimostrazioni in generale: le dimo- strazioni prime ed implicite in
molte altre, quelle appunto si chiamano elementi delle dimostrazioni: di
tal futta sono i primi sillogismi (*) risultanti di tre termini, di cui
uno è il medio. ° Di qui viene che per metafora si chiami elemento
ciò che, essendo uno e piccolo, può servire a molte cose, sì che
anche ciò ch’è piccolo, semplice e indivisibile si chiama elemento.
E di qui viene che si considerano come elementi le cose più universali,
perchè ciascuna di esse, essendo una e semplice, si trova in molte cose,
o in tutte o nel maggior numero (*): donde, anche, l’unità e il punto
sembrano ad alcuni che sian principii. Ora, poichè i così detti generi
sono universali e indivisibili (chè di essi non si dà definizione),
alcuni chiamano elementi i generi, e più questi che le differenze, perchè
il ge- nere è più universale: infatti, dove c’è la differenza, il
genere non manca mai, ma non sempre dove c’è il genere, c’è anche
la differenza. Tutti questi significati hanno questo in comune: che
ele- mento di ogni cosa è quel primo che la costituisce. (1)
O «proposizioni », « teoremi », « dimostrazioni », ecc,: efr. III. 3, 2.
(2) Forse «sillogismo» qui vale ragionamento in generale, e «primi sillo-
gismi» son le figure del sillogismo propriamente detto. Per il Ross sono «i
sil- logiemi primari (opposti ai soriti), aventi soltanto tre termini e
un unico medio ». (3) Questi sono universali che hanno ancora qualche
contenuto; quelli son generi sommi, indefinibili (mediante il genere e la
differenza specifica): tali vo- levan essere l'Uno e l'Ente dei
Pitagorici e dei Platonici (cfr. III. 3). 1014 b 144
METAFISICA CaritoLo IV. Natura (') si dice, in un
senso, la genesi delle cose che hanno un lor crescimento (come se uno
pronunziasse lungo l’u di quos). In up altro, ciò ch’è primitivo
in una cosa, e da cui questa si svolge (?). In un altro, ciò che
dà il primo movimento a ognuna delle cose naturali, ed è immanente ad
esse in quanto sono quel che sono (°). E diconsi avere un lor
crescimento quante cose aumentano di qualcos’altro per un contatto sì che
le parti siano unite, o aderenti, come negli embrioni, organicamente (*).
Tale unione differisce dal contatto, perchè in questo basta che le
parti si tocchino, mentre in quella c’ è qualcosa d’uno e iden- tico tra
l’una e l’altra parte, che le fa crescere insieme, in- vece che toccarsi
semplicemente, e ne fa una cosa sola in rispetto alla continuità e
quantità, ancorchè non qualitati- vamente (5). (1)
L'argomento è trattato, similmente in Phkys., II, 1. A. vuol cavare
l’eti- mologia di quo da puo, che nella maggior parte dei tempi ha lv
lungo. È dubbio che quos avesse in origine questo significato di yévsau,
oltre quello che anche noi intendiamo per « natura» di una cosa.
(2) Forse, come pensa il Bonitz, il seme. (3) Non estrinseco, dunque, nè
appartenente alla cosa per altra considera- zione che l’esser suo proprio
(non così, per es., se uno cade), (4) (Difficile a tradursi il
cuprepuxévar e il mooorepuxévar = aver una natura in comune, 0 una natura
in rapporto con altra, intendendo di esseri viventi). Il contatto non
basta: chò questo può essere, come in un mucchio «di pietre, un aumento
materiale, non un queota: (un crescere nel senso di svolgimento). Le
parti debbono formare un'unità organica; o, se si tratta di due cose
diverse il feto, per es., nel seno della madre), esser unite vitalmente
tra loro. (5) Sembra riferirsi alla diversità delle parti di un
organismo (se non anche all’altro caso accennato, della simbiosi vera e propria).
— Un altro punto un po’ oscuro è quel «qualcos'altro » in principio del
paragrafo, che par accennare al nutrimento: per questo non basta il
contatto, certamente; ina il discorso che segue non sembra più a
proposito, perchè, più che la trasformazione e l’'assorbi- mento del
‘cibo, riguarda, evidentemente, le parti di uno stesso organismo o
l'unione di due organismi (dove, poi, il processo di nutrizione, in quanto
diffe- risce dal semplice contatto, è lo stesso). 5
LIBRO QUINTO 145 Inoltre, natura dicesi ciò da cui
originariamente son costi- tuite o generate alcune cose naturali,
quand’esso sia informe e immutabile nella potenza che gli è propria: così
il bronzo dicesi natura di una statua o degli utensili di bronzo, il
legno di quelli di legno, e via dicendo: chè da essi vien prodotto
ciascuno di questi oggetti, in cui resta intatta la materia prima ('). E
nello stesso modo alcuni chiamano natura gli elementi delle cose
naturali, chi dicendola fuoco, chi terra, chi aria, chi acqua, chi
qualcos'altro simile, chi più d’una di queste cose, chi tutte insieme.
Inoltre, natura vien chiamata, in altro senso, la sostanza (*)
degli esseri naturali, per es., da coloro che dicono la natura esser la
composizione originaria delle cose, ovvero come Empedocle dice:
Niente, di ciò che è, ha una natura, ma soltanto la mescolanza e
separazione delle cose mescolate, e natura è il nome dato a esse dagli
uomini. Perciò, anche, delle cose che sono o si generano per
natura, quand’anche sia presente ciò da cui naturalmente deriva il
loro essere o generarsi, diciamo che non anc ora hanno la
loro natura, finchè non posseggono la specie e la forma. (1)
(AMa 1. 27, con la volgata, ho omesso il pù: «alcune cose [non] natu-
rali»). Resta intatta la materia prima, nel senso che il bronzo resta
bronzo, anche se con una forma che prima non aveva (onde, in certo modo,
era informe). A. con l’esempio di cose artificiali vuol dar un’idea della
materia in quanto volgarmente è considerata reale indipendentemente dalla
forma: ch’è l’idea da cui mossero i Fisiologi, studiati nel lib, I. «
Dispositiones formae non salvantur in generatione; una, enim, forma
introducitur altera abiecta. Et propter hoc
formae videbantur esse quibusdam accidentia, et sola materia substantia et
na- tura, ut dicitur in 2° Physicorum » (S. Tom., 817). A.
distinguerà, poi, tra materia prima (qui non è in questo senso) e materia
seconda. (2) Sostanza, qui, è l'essere sostanziale, intimo, delle cose,
riguardato dap- prima come un cornposto originario, non quello attuale e
immediato: già accen- nante, così, secondo A., al concetto di essenza.
Cfr. per Anassagora il lib. I. 8, 10-14. Per Empedocle, cfr. Diels, fr.
8, dove il passo è riferito integralmente. A. interpreta la puoars di
questi versi empedoclei come « natura permanente ». Altri, più comunemente,
pensano che E. voglia dire che non c'è, in senso assoluto, ge- nerazione
o morte di nulla, ma solo mescolarsi e separarsi dei quattro elementi.
ARISTOTELE, Metafisica. 10 1015 a 146
MBTAFISICA Per natura, dunque, ogni cosa risulta di queste due,
ma- teria e forma: per es., gli esseri viventi e le loro parti. E
na- tura è tanto la materia originaria (e questa di due maniere: o
quella ch’è tale in rispetto a una cosa particolare, o in generale: per
es., delle opere in bronzo è materia originaria (') rispetto a esse il
bronzo, ma in generale è forse l’acqua, se tutto quel che si può
liquefare è acqua), quanto la specie e la sostanza, che è il fine della
generazione. E di qui, per estensione di significato, si dà il nome di
natura ad ogni sostanza in generale, perchè anche la natura è una
specie di sostanza (?). Segue dalle cose dette (*) che natura, nel
suo senso pri- mario e proprio, è la sostanza di quegli esseri che hanno
in Se stessi, in quanto tali, il principio del movimento: poichè la
materia si dice natura per la capacità di ricevere questo principio, e
così il generarsi e il crescere perchè son movi- menti che partono di lì.
E natura è in questo senso il prin- cipio del movimento degli esseri naturali
immanente a essi’ in qualche modo; o in potenza, o attualmente.
CapiToLO V. Necessario dicesi quello senza del quale, come
concausa (‘), non si può vivere: ad es., il respirare e il cibo sono una
cosa necessaria per l’animale: non se ne può far senza. (1)
Materia originaria (se@tn), in senso generale, qui, è quella del genere
ultimo (primo) di più cose. — Tutto quel che si può fondere o Hanerare è
acqua, si dice anche nel Timeo, 58 d, (2) Quella ch'è unita alla
materia, nel processo del divenire: di qui l’esten- sione del termine
natura alla sostanza in generale (anche a quelle che son fuori di quel
processo e, come le sostanze puramente intelligibili, prive di materia).
(3) Riassume e conchiude con l’approfondimento del 3° significato, ch'è
il fondamentale. — Alessandro (960, 11): « In potenza, come l’anima nel
seme; in atto, quando sia divenuto già un animale: la forma immanente
nella materia (tè Evudoy elbos) è per tutti gli esseri naturali il
principio di quel movimento ch'è la ge- nerazione ». (4)
cuvattuov: noi diremmo «condizione » (necessaria, non sufficiente). È una
necessità designata altrove come « ipotetica » (Phys., II. 9. 199 b, 34): tale
è anche, per A., la realtà della materia rispetto alla forma.
10 LIBRO QUINTO 147 2 E quello senza del quale
non può esserci o prodursi il bene, nè si può respingere o evitare il
male: il bere la medi- cina, ad es., per risanare, e il navigare ad Egina
per esigere il danaro ('). 3 Inoltre, ciò ch'è effetto di violenza
e la violenza (?): cioè, quello che impedisce o contrasta l'inclinazione
e il proposito. Di fatto, ciò ch’è per violenza si dice necessario, e
perciò anche doloroso, come anche Eveno dice: « Poichè ogni cosa
necessaria è molesta di sua natura». E la violenza è una specie di
necessità, come anche Sofocle dice: « Ma la violenza mi fa
necessariamente far ciò ». E la necessità sembra cosa contro cui non val
la persuasione, e giustamente, chè essa è contraria al movimento che si
fa secondo un proposito ragionato. 4 Inoltre, ciò che non può
essere altrimenti diciamo neces- ‘ sario che sia così. Anzi, da questo
significato del « neces- sario» derivano in certo modo tutti gli altri:
poichè allora si dice che uno è forzato a fare o patire di necessità,
quando 1016 b non può seguire la sua inclinazione perchè gli è fatta
vio- lenza: chè quella è una necessità per la quale non si può
altro. E dicasi lo stesso per le concause del vivere e del bene: quando
non sia possibile nè il bene, nè il vivere ed esistere senza alcune di.
esse, queste sono necessarie, e la ragione di ciò è, appunto, una specie
di necessità. 5 Aggiungi, tra le cose necessarie, la dimostrazione,
perchè, se qualcosa è stato dimostrato assolutamente, non può esser
altrimenti; e causa di ciò son le premesse, dalle quali si fa il
sillogismo, se son tali che non possano esser altrimenti. 6 Delle cose
alcune hanno del lor esser necessarie una causa altra da esse; altre, no:
anzi, esse son causa per cui altre (1) Può darsi che accenni, come
il Christ suppone, a un fatto ricordato in una lettera di Platone (13*).
V. Ross. (3) Per la fila v. Età. Nic., lib. III. 1, dove il concetto è
approfondito: « forzato (Plavov: l’effetto della violenza) è ciò il cui
principio è di fuori, e tale che, chi opera o chi sopporta, in nulla vi
conferisca » (Cfr. DANTE, Par., IV, 73). E per la xgoal- geo, cap. 26 8:
l'impulso, nell'azione, dev’esser guidato dalla ragione che deli- bera
sul da farsi: donde il proponimento. — Eveno: sofista e poeta, di Paro,
ric. più volte da Piatone. — Sofocle: v. Elettra, 256. 148
MBTAFISICA sono necessarie. Laonde necessario, nel senso primo e
pro- prio, è il semplice, perchè questo non può essere in più modi,
sì che non può esser ora in un modo ora in un altro: chè sarebbe, allora,
già in molti modi ('). Se ci sono, dunque, esseri eterni e immobili (?),
nulla c’è per essi di forzato e contro natura. CAPITOLO
VI. Uno si dice sia per accidente, sia per se stesso (*).
Per accidente, come « Corisco e musico», e « Corisco mu- sico » : poichè
è lo stesso dire « Corisco e musico » e « Corisco musico». Ovvero: «
musico e giusto »; 0: « Corisco musico e Corisco giusto ». Di tutte
queste cose, infatti, l’uno si dice per accidente: «giusto e musico »
perchè accidenti d’una sola sostanza, « musico e Corisco» perchè il primo
è un acci- dente del secondo. Similmente, in certo modo, anche «
Corisco musico » unito a « Corisco » fa una cosa sola, perchè in
questo discorso c’è una parte ch'è accidente dell’altra: ossia «
mu- sico» di « Corisco ». E così dicasi di « Corisco musico » unito
a «Corisco giusto », perchè entrambi hanno una parte ch’ è accidente
d’una stessa altra (*). (1) Nota qui (come altrove, 6pesso) l'improvviso
passaggio dal pensiero {dove solo ha un senso la necessità) alle cose.
L'impossibilità (la negazione) del con- trario diventa semplicità
dell'essere (l’essere in un modo solo), propria di ciò ch'è eterno (non
ora in un modo, ora in un altro). Ma, poi, tra queste cose rientrano,
come qui,tà gta, i principii delle dimostrazioni, e le pure essenze
indivisibili. (2) Se a immobili si sostituisce immutabili, tra questi
esseri (o cose) eterni ci sono anche i cieli, oltre Dio e le Intelligenze
motrici. Anche in VI. 2. 1026 b, 28 la fila vien messa da parte
(riguarda, infatti, l’ Etica) e la necessità posta in opposizione
all'accidente. (3) L'uno è qui considerato nelle cose, e insieme come
predicato delle cose ossia riguarda la questione: quando è che le cose
(in sè e nel discorso) hanno unità, o accidentale (1-3), o essenziale
(4-12). La distinzione deriva dal conside- rarle unite o dalla parte
degli accidenti, o dell'essenza. — Poi, si farà questione dlel concetto
in sè e per sè (19-15). (4) Il giudizio qui è coneiderato
analiticamente, anzi verbalisticamente, come accoppiamento di due
termini: a) di una sostanza con un accidente; b) di due accidenti d’una
stessa sostanza, sottintesa; c) di questa sostanza con i due acci- denti
separatamente considerati; d) di questa sostanza unita all’accidente con
la sostanza senz'altro. Il caso fondamentale è il primo. 3
LIBRO QUINTO 149 Ugualmente se l’accidente si predichi del
genere o di qualche nome universale (‘): si dica, poniamo, che «uomo
> e «uomo musico » è lo stesso: infatti, o si dice così perchè
«musico » è accidente dell’« uomo », ch’è un’unica sostanza; ovvero,
perchè entrambi sono accidenti di qualche individuo, poniamo, di Corisco
(salvo che non gli appartengono entrambi allo stesso modo, ma l'uno,
senza dubbio, come genere e nella sostanza; l’altro, come proprietà o
affezione della sostanza). Questi sono, dunque, i modi in cui l’uno si
dice delle cose per accidente. Invece, di quelle di cui si dice
per se stesse, alcune si dicon così perchè sono continue: poniamo, a un
fascio dà continuità la corda, ai pezzi di legno la colla; e una
linea, se, ancorchè spezzata, sia continua, si dice ch’è una; e
così, anche, ciascuna parte dell’organismo, una gamba o un braccio.
A queste stesse, tuttavia, l’uno si applica meglio se sono con- tinue
naturalmente che se son tali artificialmente. Continuo, poi, si dice ciò
di cui per se stesso il movimento è unico (?), e non può esser diverso;
ed è unico il movimento di ciò in cui esso è indivisibile, e indivisibile
nel tempo. E continuo per sè è ciò che non è uno per contatto
soltanto: che se tu ponessi dei legni l’uno accosto all’altro, non
diresti che facciano nè un legno solo, nè un sol corpo, nè un solo
continuo di altra specie. Ciò che, comunque, è continuo, si dice uno
anche se abbia una piegatura: meglio, tuttavia, se non l’ha: la tibia o
il fe- more, per es.; più della gamba, perchè il movimento della
(1) Il termine che fa da soggetto nel giudizio può essere, non un
individuo (come nel par. prec.), ma un genere, o un universale (questo
può anche non essere un genere reale, ma un mero xowvév, come l'uno e
l'essere, o un termine negativo, o di rapporto: cfr. nota a I. 9, 30;
VII. 2, 1) — Salvo che, ecc.: dei due acci- denti uno è essenziale: cfr.
nota a I. 1, 8. — Proprietà e affezione (Eku e xhdog): cfr. nota a I.
5,8. (2) Cfr. Phys.,V.3-4,in cui si parla più ampiamente del continuo e
dell’unità del movimento. Il passaggio tra i due concetti (che alcuni a
torto rimproverano ad A, di unire insieme) è dato dalla concezione della
natura, dianzi definita come «la sostanza degli esseri che hanno in sè il
principio del movimento », anzîi come «il principio del movimento
immanente a essi » (4, 10). 1016 a 150 METAFISICA
gamba può non esser uno. E la retta è più una di quella piegata:
anzi quella piegata e che fa angolo, la diciamo e non la diciamo una,
perchè il movimento delle sue parti può essere, ma anche non essere,
simultaneo; laddove quello della retta è sempre simultaneo, e nessuna
parte di essa, che abbia grandezza (‘), sta ferma mentre un’altra si
muove, come av- viene in' quella piegata. Inoltre, si dice uno, in
altro senso, ciò di cui il sostrato non ha differenze specifiche. E non
l’ha in quelle cose la cui specie sia indivisibile alla sensazione. Tale
sostrato è o quello che si presenta per primo, o l’ultimo rispetto allo
stato finale: poichè e si dice uno il vino e una l’acqua in quanto
indivi- sibili nella specie; e si dice uno di tutti i liquidi, come
del- l’olio, del vino, e di ogni cosa che possa liquefarsi, perchè
il sostrato ultimo di essi è lo stesso, essendo essi tutti acqua o
aria. E l’unità si dice anche per quelle cose di cui unico è il
genere pur differenziato dalle opposte differenze: e tutte queste si dice
che sono una cosa sola, perchè unico è il genere che fa da sostrato alle
differenze (per es., cavallo, uomo, cane hanno qualcosa d’uno, perchè
tutti sono animali), e quasi allo stesso modo come una è la materia (*).
Talora, dunque, l’uno si dice così di queste cose; tal’altra, quando sono
le specie infime del loro genere, si dice che sono una stessa cosa
rispetto al genere superiore: al genere, cioè, ch’è più su del loro: così
l’isoscele e l’equilatero sono la stessa e (1) La linea retta può
roteare soltanto intorno a un punto, che resti immo- bile; della
spezzata, uscendo dal piano, anche una parte vera e propria (estesa) può
restar ferma. (2) V. par. prec. — Le linee 29-30 hanno un testo incerto,
molto tormentato. E da escludere che A. non conoscesse le regole
elementari della logica ch'egli ha insegnata alla scuola (alcuni
commentatori moderni perdono, talora, questo criterio elementare). Un
senso corretto, dato il testo com'è, sembra questo: quando si tratta
delle specie infime (o generi prossimi all’individuo: cfr. III, 3, 5), la
loro unità (identità) vien riposta, nel comune modo di parlare, talora
nel genere imme- diatamente superiore (uomo e cavallo hanno in comune
l’animalità), talora in quello ch'è più su (uomo, cavallo, cane, ecc. son
tutti ugualmente esseri viventi): così, dell'isoscele e dello scaleno
diciamo che sono ugualmente figure, anzichò triangoli.
10 11 LIBRO QUINTO 151 unica figura,
perchè triangoli ambedue, ma non gli stessi in quanto triangoli.
Inoltre, uno si dice tutto ciò di cui il concetto che n’esprime la pura
essenza sia indivisibile rispetto (') a un altro espri- mente del pari la
pura essenza d’una cosa (chè per se stesso ogni concetto è divisibile).
Così, appunto, una cosa che au- menta o decresce è una, perchè uno è il
suo concetto: come uno è il concetto della specie per le superfici.
In generale, uno è soprattutto ciò la cui intellezione è
indivisibile, e la cui pura essenza si apprende con un atto che non può
esser separato nè quanto al tempo, nè quanto al luogo, nè quanto al
discorso (°): tali, soprattutto, sono le sostanze. Ma, universalmente
parlando, diconsi esser una sola le cose che non ammettono divisione, in
quanto non l’ammettono: poniamo, uno è l’uomo, per le cose che non
ammettono divisione in quanto a uomo; uno l’animale, se non l’ammettono
in quanto ad animale; una la grandezza, se in quanto a grandezza.
Dunque, la maggior parte delle cose si dicono une perchè producono o
hanno o patiscono o riguardano qualcos'altro ch’è uno (*). Ma tali in
senso primario diconsi quelle di cui (1) Il reds
della |. 33 è generalmente inteso come « da »: si tratta, allora, di due
nozioni che o sono identiche perchè si riferiscono alla stessa cosa, o
sono specie dello stesso genere (quest’ultimo caso ripeterebbe quello
«del par. prec.). Credo giusta anche la mia interpretazione: diciamo uno
un concetto (sebbene in sè divisibile) per distinguerlo da un altro: e
però, sia che la cosa aumenti o dimi- nuisca, sia che il concetto ammetta
diversità intrinseche (come le varie specie di superfici), diciamo sempre
ch'è lo stesso, (2) L'atto del voùg unifica il molteplice nell'unità
della sostanza, la quale è, così, indivisibile per il luogo (individui
diversi), per il tempo (in cui differisce uno stesso individuo);
indefinibile, nel senso dell’analisi logico-discorsiva. — Se alla I. 4 si
conserva il ydg (ch’io ho sostituito col 8é del cod. E), allora il pen-
siero vien unito più strettamente al precedente, dove, infatti, io ho usato il
singolare invece del plurale per non indebolire il germe speculativo
profondo ch'è in esso. Ma qui si vede bene che A. guarda, oltre che alla
cosa in sè, alle cose nella loro molteplicità: due o più cose, per quanto
diverse per altri rispetti, possono coinci- dere in un concetto specifico
o generico, o per la figura. Se anche la 2» parte del par. si volesse
intendere nel senso della 1°, della cosa in sè, allora grandezza potrebbe
accennare, anzichè alla figura, al continuo: conforme alla distinzione nel par.
seg. (3) « Plurima sunt, quae dicuntur unum, ex eo quod faciunt unum:
sicut plures homines dicuntur unum, ex hoc quod trahunt navem. Et etiam
dicuntur aliquaà 1016 b 152 MBTAFISIOA
‘una è la sostanza: e questa è una o per continuità, o per specie, o per
il concetto. Infatti, noi contiamo come più di una le cose che o non sono
continue, o di cui non è unica la specie, o non è unico il concetto.
Inoltre, per un rispetto diciamo una ogni cosa che sia
continua per quantità, ma per un altro rispetto non la di- ciamo
tale se non formi qualcosa d’intero: non abbia, cioè, un’unica specie.
Così, vedendo le parti di una calzatura, comunque accozzate insieme, noi
non diremmo che sono una cosa sola, in ogni caso (se non sia per la
continuità); sì bene quando siano così disposte da essere una calzatura
ed avere giàuna qualche forma ('). Per ciò, anche, di tutte le
linee la più una è quella circolare, poichè intera e perfetta.
L'essenza dell’uno(*) è quella d’esser un principio del numero. Poichè la
prima misura è un principio: e ciò per cui noi cominciamo a conoscere
ciascun genere di cose, quello è la misura prima di esso. L’uno è,
dunque, prin- cipio del conoscibile per ogni genere di cose. Ma esso
non è lo stesso per tutti i generi: qui è il diesis(*), ll la
vocale o la consonante; e altra è l’unità per il peso, altra per il
movimento. unum, ex eo quod unum patiuntur: sicut multi homines
sunt unus populus, ex e0 quod ab uno rege reguntur. Quaedam vero dicuntur
unum ex eo quod habent aliquid unum, sicut multi possessores unius agri
sunt unum in dominio eius. Quaedam etiam dicuntur unum ex hoc quod sunt
aliquid unum: sicut multi homines albi dicuntur unum, quia quilibet eorum
albus est» (S. Tom., 868). — Queste cose si dicon une riferendosi 24
altro ch'è uno. Invece, la distinzione, che segue, riguarda direttamente
le cose per la continuità (4-6), per la specie (8), per il concetto lo-
gicamente considerato 0 nell'atto del vovs (9-10). Manca l'unità per la materia
(7). E il concetto è staccato dalla specie, con cui pure altre volte
coincide (ma specie, qui, equivale a genere reale, è però il concetto si
avvicina più all’universale). (1) Nel concreto è, così, l’unità reale
dei due punti di vista dell'unità: ma- teriale (il continuo) e formale
(il concetto). (2) Si passa alla pura essenza dell'uno: alla definizione
del concetto puro (diremmo noi). Cfr. lib. X. 1, 8 8 8., dove quanto
segue, e gran parte di questo ca- pitolo, è rielaborato con maggiore
chiarezza. (9) Il diesis è l'intervallo minimo in musica: cfr. X. 1,
11-12. Non si scordi che, sebbene qui con qualche inconveniente, ho
tradotto povés con unità, ch'è per noi il termine aritmetico corrente. Il
punto ha una @&éaw, si può localiz- zare ($ 14).
12 13 14 15 16
LIBRO QUINTO 153 Ma in ogni caso l’uno è indivisibile o per la
quantità o per la specie. Ora, l’indivisibile nella quantità (e come
quan- tità) si chiama unità, se è indivisibile in ogni verso e non
ha posto; ma se è indivisibile per ogni verso, e tuttavia ha.
un posto, si chiama punto; se divisibile in una sola dimen- sione,
linea; se in due, superficie; se in tutte e tre, corpo
(quantitativamerite considerato). E all’inverso, ciò ch’è divi- sibile in
due dimensioni, è superficie; in una sola, linea; ciò che
quantitativamente non è divisibile per nessun verso, punto e unità:
questa non ha posto, quello sì. Inoltre, l’unità delle cose può essere o
per il numero, o per la specie, o per il genere, o per analogia: c’è
unità numerica dove la materia è unica, specifica quando unico è il
concetto, generica quando lo schema categorico è lo stesso, analogica
quando due cose stanno tra loro come una cosa a un’altra. E i modi
precedenti implicano sempre quelli che vengon dopo: così, dove l’unità è
numerica, è anche specifica, ma dov’è specifica non sempre è numerica; e
se è specifica, è anche generica, ma, se è generica, non però è
anche specifica, sì analogica; ma se analogica, non è generica sempre
('). È poi evidente che le cose si diranno molte in sensi Op-
posti a quelli dell’uno: o perchè non hanno continuità; o perchè hanno
una materia (sia la prima o l’ultima) che si può dividere in varie
specie; o perchè sono parecchi i con- cetti che ne esprimono la pura
essenza (?). (1) Come bene osserva il Ross, questo paragrafo
corrisponde ai $$ 7-10, così come i precedenti 13-14 a 4-6. Prima,
infatti, A. ha distinti quelli che si possono chia- mare i vari gradi di
concretezza dell'unità dal punto di vista quantitativo; qui egli
distingue i vari gradi di concretezza dell'unità dal punto di vista
qualitativo. L'unità numerica, infatti, è qui quella dell’ individuo del
tutto determinato, il quale implica in sè tutte le altre specie di unità.
La più astratta di queste è l’analogica, la quale non è sempre generica,
perchè può essere tra generi diversi. — Lo schema categorico: nota qui il
termine categoria usato come equivalente a genere (le cate- gorle,
infatti, sono come i generi sommi dei predicati). (2) La distinzione è
in corrispondenza è quella dell’unità essenziale delle cose (88
4-12). 1017 a 164 METAFISICA CapitoLo
VII. Essere (') si dice di una cosa o per accidente, o in
sè. 1 Per accidente (*): se diciamo, per es., che «il
giusto è 2 musico », 0 che « l’uomo è musico», oche « îl musico è
uomo »; in senso simile a quello in cui si direbbe che il musico
co- struisce una casa, perchè a chi la costruisce accade d’esser
musico, o al musico di esser un costruttore. Dire, infatti, », «l’intera
acqua», salvo che per traslato. E per il plurale di tutto (*), quando
delle cose con- 6 siderate come unità si dice tutto, di esse si dice
tutte con- siderandole come divise: « tutto questo numero », «tutte
queste unità ». LI CapitoLo XXVII.
Mutilato (*) non si dice in tutti i casi d’una cosa fornita 1 di
quantità: dev'essere e divisibile e un intero. Infatti, non diciamo
d’aver mutilato il due, se gli togliamo una delle due unità (la parte
mutilata nom può esser mai uguale alla ri- manente), nè diciamo così in
generale per nessun numero. Bisogna che la sostanza rimanga: se si tratta
di una coppa, dev’essere ancora coppa. Invece, il numero non è più
lo Stesso. E non hasta neppure che una cosa sia composta di parti
dissimili, poichè il numero può avere anch’esso parti dissimili: il due e
il tre, per es. (‘). Anzi, in generale, delle cose per le quali la
situazione delle parti è indifferente, come per l’acqua o il fuoco,
nessuna può esser mutilata: per esser tali, bisogna che le parti abbiano
una situazione sostanziale. Inoltre, che sian continue: chè l’armonia
consta, bensì, di parti dissimili, le quali hanno una ior situazione, ma
non perciò può venir mutilata. E neppur tutte le cose intere di- 2
(1) La figura in cera. (2) aévra. Qui
l'unità è totalità come somma. (9) xo4ofiév: il concetto, qui, è quello
che noi opponiamo all’#Xov inteso come «integrità », specialmente di un
organismo. (4) Il due e il tre, nel cinque (== 2-|--3, oppure
3-+-2). LS) VI LIBRO QUINTO 183
ventan mutilate col privarle di una qualunque parte. Bisogna che
questa parte non sia la principale per la sostanza ('); nè è indifferente
chesi prenda di qua o di Jà: per es., se la coppa ha un buco, non perciò
si dice mutilata, ma se si asporta il manico o un pezzetto dell’orlo. Nè
si dice mutilato un uomo se gli si levi un po’ di carne o la milza, ma
un’estre- mità; e neppure una qualunque, bensì una che asportata
per intero non cresce più: perciò i calvi non si chiamano mutilati.
CapitoLo XXVIII. Genere si dice, in un senso, se sia
continua la generazione di esseri aventi la stessa specie: diciamo, ad
es., « finchè duri il genere umano », per dire «finchè continui la
gene- razione degli uomini». In un altro, è quello di una gente
venuta all'essere da un lor primo genitore: e così si parla del genere
degli Elleni e degli Ioni, perchè quelli vengono dal progenitore Elleno,
questi da Ione. E i discendenti pren- don nome piuttosto dal genitore,
che dalla materia (?): benchè prendan nome anche dalla femmina, per es.
quei di Pirra. Genere, inoltre, è come il piano per le figure piane, il
solido per le solide: poichè ogni figura è un piano di questa
specie, un solido di questa specie. Genere è qui il sostrato delle
dif- ferenze. Inoltre, genere è il primo elemento costitutivo del
concetto, che si enuncia nell’essenza (*), di cui chiamansi differenze le
qualità. Genere, dunque, è usato in tutti questi sensi: per la
generazione continua di esseri della stessa specie; per il principio
generatore di esseri somiglianti; in un senso affine alla materia (‘):
poichè ciò di cui son proprie la dif- (1) Come la
testa per un animale. (2) Dalla materia (cfr. VIII. 4, 4), la quale è
fornita, nella generazione, dalla femmina. (3) Nella definizione.
(4) In un senso affine alla materia è il genere inteso come sostrato
delle qualità specifiche differenziali (reale e concettuale: solito
passaggio dall'oggetto al pensiero, e viceversa: di qui l’unificazione
dei sensi dati in 3 e 4: cfr. VII.7, 12; VIII. 2, 8). 1024
b 184 METAFISICA ferenza e la qualità, è appunto quel
sostrato che chiamiamo materia. Diverse di genere sidicono quelle
cose di cui diverso è il sostrato primo ('), e l'una non si risolve
nell’altra, nè tutte due nello stesso (la forma, ad es., e la materia
sono diverse per il genere); e quelle di cui si parla secondo una
diversa figura delle categorie dell’essere (le une significano l'essenza
delle cose, altre una qualità, altre come s’è di- stinto dianzi): chè
neanche queste si risolvono le une nelle altre, nè in qualcosa di
unico. CapitoLo XXIX. Il «falso » dicesi, in un modo,
come cosa che è falsa (*); e questo o perchè la cosa non risulta così
composta, o perchè è impossibile che si componga così: per es., se si
dica che (1) Sostrato primo è quello immediato, se si pensa, ad
cs., a ciò che può liquefarsi (acqua), e a ciò che ha un sostrato solido
(terra). Ma l’interpretazione non è sicura. — Nello stesso: può esser
inteso come «cosa» o come «concetto »: nel 1° senso riguarda i! sostrato,
e chiarisce quel che precede; nel 2° chiarisce la parentesi, e quel che
segue ‘i diversi significati, o concetti, dell'essere nelle categorie). —
S'è distinto dianzi: cap. 7, 4. ; (2) Per A., altrove, vero e falso son
nel pensiero, non nelle cose; e il pensiero è che unisce e divide
(distingue) i concetti giudicando (affermando o negando la convenienza
del predicato al soggetto): cfr. VI. 4, 3-4: IX. 10, 1 s8. — L'ordine de'
pensieri in proposito sembra dover esser questo. A. parte da un realismo
ingenuo, ch'è anche un ingenuo idealismo: realtà e pensiero si condizionano
reciprocamente, identificandosi e distinguendosi insieme, come segue: ca)
Si comincia col porre il pensiero nelle cose, e si parla di cose vere e
di cose false. Una prima riflessione avverte che il vero e falso è nel
pensiero, non nelle cose, e distingue perciò il pensiero dalle cose.
Queste, allora, al sicuro da quel pensiero che può esser falso oltre che
vero, restano con una loro realtà ch'è insieme la loro verità (eterna e
immutabile nella pura essenza, contingente per quel che di questa si traduce
nella realtà in movimento). b) Il pensiero è vero 0 falso secondo che
riflette in sè la realtà, o meno, delle cose. Ma nna prima rifles- sione
avverte che non sono le cose a determinare la verità o falsità del
pensiero: poichè tanto dell’essere quanto del non-essere si può pensare
il vero e il falso (IV. 7, 2). Vero e falso sono, allora, caratteri del
pensiero in sè e per sè: vero è il pensiero ch'è coerente con se stesso,
falso il pensiero incoerente. Un cerchio è cerchio, nel mio pensiero che lo
definisce, in quanto lo distinguo dal triangolo: confonder questo con
quello è contraddire a quanto e’è definito.Ma, poichè il \i
LIBRO QUINTO 185 la diagonale è commensurabile, o che tu
stai seduto: di queste due, l’una è sempre falsa, l’altra talvolta. Dette
così, queste cose non esistono. In altri casi, esistono bensi le
cose, ma di tal natura da apparire o quali non sono, o quali non
esistono: la prospettiva dipinta, ad es., e i sogni: cose, queste, che
hanno bensì una loro realtà, ma non quella di cui pro- ducono in noi
l’immagine. Le cose, dunque, si dicono false, in questo modo: o perchè
non esistono, o perchè l’immagine che producono è di cosa che non esiste.
‘ Un concetto falso è quello che, in quanto falso, è di cose che
non sono. Perchè ogni concetto è falso se riferito a cosa diversa da
quella di cui è vero: per es., il concetto del cer- chio è falso del
triangolo. In un senso, c’è un concetto unico di ogni cosa, quello della
pura essenza; in un altro i concetti sono molti, poichè la cosa da sè e
la cosa con un’affezione è in certo modo la stessa cosa: per es., Socrate
e Socrate musico ('). Il concetto falso, assolutamente parlando, è
con- cetto di nulla. Perciò era abbastanza sciocca l’opinione di
Antistene che di nulla si possa parlare salvo che col suo proprio
concetto, unico per un’unica cosa: donde seguiva che non è possibile
contraddire, e quasi neppure dir il falso. pensiero è per se
stesso coerenza e logicità, esso, in Sè e per sè, è sempre vero: d’una
verità eterna, immutabile, come quella della pura essenza (indivisibile),
e insieme discorsiva, per quel che di essa si traduce nel processo del
conoscere e del sapere (nella logica dei concetti). Questo è il rapporto
tra il n0vs (sempre vero) e la dianoia (vera o falsa): tra il concetto
nella sun pura unità e intrin- seca intelligibilità, e il concetto che si
esplica nella molteplicità dei concetti e delle opinioni. c) Il pensiero
falso è un non-pensiero in rapporto a quel pen- siero ch'è sempre vero. E
tuttavia esso ha, e deve avere, una sua realtà, in quel pensiero che in
tanto può affermare il vero in quanto c'è il falso da negare. Donde,
allora, la realtà di questo pensiero-falso ? Donde questa decadenza del
pensiero nel falso? Pare che la soluzione debba trovarsi in qualcosa di
estraneo e tuttavia legato al pensiero: nella volontà dell’:como. Il
Sofista rappresenta questo difetto del pensiero ch'è anche un difetto
morale (l'ambizione, il guadagno, ece.: efr. «il tenore di vita» in IV.
2, 14). — La vicinanza al pensiero platonico è evi- dente: specialmente
con le indagini del Teeteto e del Sofista. (1) La cosa nell’unità colta
dal nous, e la cosa nella molteplicità delle sue categorie (dianoia). —
L'opinione di Antistene, con quell’unità-identità del con- cetto-nome,
era ben lontana dalla dottrine su esposta di A.: essa rendeva impos- ‘
sibile la logica dianoetica, e riduceva quella noetica a mero
nominalismo. 1025 a 186 METAFISICA
Invece, di ciascuna cosa si può parlare non soltanto col con- ceito di
essa, ma anche con quello di altra: anche del tutto falsamente, senza
dubbio, ma anche in modo conforme a verità: l’otto, poniamo, dico ch’è
doppio perchè ho il concetto del due. Queste cose, dunque, si
dicono false così. Falso, poi, si dice un uomo che abbia abilità e
predilezione per simili di- scorsi per nessun'altra ragione che per
discorrere così; e chi è capace di produrli in altri, a quel modo che
diciamo false anche le cose che producono in noi immagini false. Perciò
nell’ Ippia (') quel ragionamento, che vuol] provare come uno stesso uomo
è falso e vero, conduce fuori di strada: perchè dà come falso chi ha la
capacità di dir il falso, ch’è, poi, colui che sa ed è sapiente; e
aggiunge ch’è migliore chi è cattivo volontariamente. Questa è la
conseguenza di una falsa induzione: chi zoppica volontariamente è
migliore di chi zoppica per forza: intendendo per zoppicare l’imitare lo
zoppo; ma se uno fosse zoppo volontariamente, egli sarebbe forse
peggiore, qui, come in cose riguardanti il costume. CapitoLo
XXX. Accidente (?) significa ciò che appartiene a qualcosa e
può esser detto con verità, ma non necessariamente, nè per lo più: come
se uno scavando un fosso per una pianta trovasse un tesoro. Questo, di
trovare un tesoro, è davvero un acci- dente per chi scava un fosso: non è
una cosa che consegua necessariamente dall’altra o dopo l’altra, nè chi
pianta un albero trova per lo più un tesoro. E chi ha l’abilità di
suo- nare può esser bianco, ma poichè ciò non avviene di neces-
sità, nè per lo più, diciamo ch’è un accidente. Di maniera (1)
Ippia minore, 365 ss. Platone erra, dunque: @) non distinguendo la po-
tenza dall'atto di mentire; è) reputando migliore chi erra volontariamente.
Per quest'ultimo punto, cfr. Eth. Nic., III 5. (2) Cfr. VI,
2-9. LIBRO QUINTO 187 che, poichè si danno tali
appartenenze, e appartengono a qualcosa, e alcune di esse solo in certi
luoghi e tempi, sarà un accidente ciò che appartiene, bensì, a qualcosa,
ma non perchè è questa tal cosa, ed è qui e ora('). Dell’accidente
non c’è nessuna causa determinata, ma è a caso, e questo è indeterminato.
È accaduto a qualcuno di arrivare ad Egina, il quale non era partito per
arrivare colà, ma cacciato dalla tempesta o preso dai corsari. L’accidente
avvenne, di certo, e realmente, ma non per causa di se stesso, bensì in
causa di altro: perchè la tempesta fu causa che quegli arrivasse
dove non era diretto, cioè ad Egina. Accidente, poi, dicesi anche in
altro modo: di tutte quelle proprietà, ad es., che sono di una cosa per
se stessa con- siderata, ma non appartengono alla sua sostanza (*):
per esempio, appartiene al triangolo di avere gli angoli uguali a
due retti. Questi accidenti posson essere eterni; di quegli altri,
invece, nessuno: abbiam parlato di ciò altrove. (1) Ed è qui e
ora: come l’appartenere a qualcosa non individua la sostanza di questa
tal cosa, così l’appartenere in certi luoghi e tempi non dà ragione del-
l'attualità di essa. (2) Alla sua sostanza, o definizione: per es., del
triangolo: sebbene ne de- rivino. È compito della scienza, infatti,
dimostrare, poi, le proprietà (acci- dentali, ma in entrambi i sensi: tà
aédn xal tà xa” autà cvpfefinxéta) del proprio oggetto di studio: cfr.
Anal. Post., I. 1. 75b, 1. — Abbiam parlato di ciò altrove: pare
riferirsi ad Anal. Post., I. 6. 754, 18, 0 7. 75b, 11. 1
LIBRO SESTO CAPITOLO I. Quel che qui si cerca
sono i principii e le cause degli esseri: s'intende, in quanto sono.
Poichè c’è pure una causa della salute e del benessere, e anche le entità
matematiche hanno principii, elementi e cause: in generale, anzi,
ogni scienza di ragionamento, o che del ragionamento si serva almeno
in parte('), versa intorno alle cause e ai principii, pur con più o meno
di esattezza e semplicità (?). Ma tutte queste scienze son circoscritte a
un ente e genere partico- lare, e di esso soltanto trattano, nè fan
nessuna parola di ciò che è l’essere semplicemente: nè di ciò che è
l’ente in quanto tale, nè dell'essenza. Invece, le une dichiarando
il loro oggetto per mezzo del senso, e le altre (*) stabilendone
per mezzo di ipotesi la definizione, dimostrano, più o meno debolmente,
più o meno rigorosamente, le proprietà del ge- nere preso in
considerazione. È dunque evidente che da un (1) « Videtur A.
ambitum scientiae latius extendere voluisse, ut ne eae quidem doctrinae
excludantur, quae ab usu et experientia magis quam a cognitione et
notione suspensae sint»: Bonitz (p. 280). (2) Esattezza e semplicità
corrispondono al «rigorosamente » e « debolmente » del paragrafo
seguente. «Semplicità», qui, vale « mancanza di approfondimento e di
distinzione » (le cose così come si presentano immediatamente): cfr. I. 5, 22.
Poco dopo, « semplicemente » vale, invece, « assolutamente ». (9)
Le une... le altre: le fisiche e le matematiche. 1028 b
190 METAFISICA tal metodo induttivo (') non si può aver
dimostrazione nè della sostanza nè dell’essenza, ma per esse ha da esserci
un’altra specie di conoscenza che le chiarisca. Per la stessa ragione non
dicon nulla se il genere preso a trattare esiste o non esiste: poichè
appartiene alla stessa facoltà del pen- siero il mettere in chiaro tanto
l’essenza quanto l’esistenza (°). Ma in quanto anche la scienza fisica (°)
versa intorno a un genere dell’essere (la sostanza ch’essa studia è
quella che ha in sè il principio del movimento e dell’inerzia), è
chiaro ch’essa non riguarda nè l’agire nè il produrre (‘). (1) La
frase pare interpolata al Christ. Il riferimento par che sia Alle scienze
fisiche, come quelle che trattano della sostanza ed essenza reale,
assumendola nella materia sensibile. Di essa non posson dare
dimostrazione, appunto perchè agegunta per principio (dàuno dimostrazione
delle qualità e proprietà dell’og- getto). Il Metafisico, neanche lui,
dimostra nel senso della dimostrazione, che parte da principii per
arrivare a certe conchiusioni. Essa, infatti, è la scienza dei principii
stessi, 6 però anapodittica: non nel senso dogmatico, ma in quanto si
serve «di un'altra specie di conoscenza », che « chiarisce » speculativamente
quei principii riconducendoli ai principii primi, anzi al principio
primo, ch’è l’essere în quanto essere. Principii primi sono le
quattro cause, discusse nel lib. I; ovvero, materia e forma, potenza e
atto, che verranno studiati nei libri VII-IX, e ricondotti a quello della
forma, o dell’atto (in sè e per sè: all’atto puro, come principio
trascendente, nel lib. XII). Ovvero, le categorie e gli altri concetti
fondamentali întorno all’es- sere, esposti nel lib. V., Principii primi
sono anche, per il pensiero discorsivo, gli assiomi, di cui il primo è
quello di non-contraddizione, come si vide nel lib, IV. Dal punto di
vista gnoseologico, principii primi sono il singolare e gli universali, e
la loro fonte è il voùs (come principio anche dell’ato&mors: cfr.
note al. 1,409, 34) (2) Nell'’ordine della scienza empirica A.
distingue la conoscenza dell'&, da quella del &uéti, facendo poi
coincidere con quest’ultima quella del tL èotw: efr. Anal. Post., II. 1.
89Db, 24; 2. 90 a, 14 (e qui stesso al lib. I. 1, 11). Non si dia,
tuttavia, un senso troppo moderno alla distinzione (di un contrasto tra
pensiero ed esistenza reale delle cose): l’esistenza implica già l'essenza,
come il singolare l’universale, nell'atto della percezione (immediata); e
l’essenza, se non vuol esser un xowév, si traduce nell'esistenza
(immediatamente): la pura 6ssenzea è sempre un tébde tr. Nell’8v fi 6v,
poi, essenza ed esistenza s’identificano (perchè la sua universalità è
anche necessità). (3) Anche di qui si vede l'interesse maggiore che A.
ha per la fisica, più che per la matematica: il confine, in fatti, tra
alcune sue trattazioni di fisica e altre di metafisica non è sempre
chiaro. (4) L'agire... il produrre: v. la differenza in Eth. Nic., VI.
4; e nota a I.1,16. In entrambi, tuttavia, il principio è in noi (per la
produzione: o l'intelligenza, il pensiero razionale, o questo unito a un
certo abito o potenza naturale; per l’azione è l’Seskw, che congiunta con
la ragione si fa agoalpsois: cfr. Eth. Nic., LIBRO SESTO 191
Poichè il principio della produzione è in chi produce: o l’in-
telligenza, o l’arte, o altra potenza; il principio dell’azione è in chi
agisce, ed è il proponimento (potendosi tradurre in azione soltanto ciò
che ci si può proporre). Per cui, se ogni ragionamento è fatto o per
l’agire o per il produrre, ovvero riguarda la pura speculazione, la
Fisica sarà una scienza speculativa, ma speculativa di un essere tale che
ha la po- tenza di muoversi, e della sostanza tratta soltanto
secondo nozioni che valgono per lo più, non separata dalla materia
(')., Si badi di non ignorare il modo di essere della pura essenza
e del concetto, perchè, senza di ciò, è tempo perso ogni ri- cerca. Delle
definizioni e delle essenze alcune sono come quella di « camuso » (?),
altre come quella di « curvo », i quali differiscono in questo, che in
camuso è compresa sempre la materia (camuso diciamo un naso che ha una
certa curva), la curvità, invece, è compresa senza materia sensibile.
Se, quindi, tutti gli oggetti della fisica s'intendono similmente a
camuso (ad es., naso occhio fisionomia carne osso, animale in somma;
ovvero, foglia radice scorza, pianta in somma: tutte cose in cui non si
può prescindere dal movimento, anzi neppure sono mai senza materia) — è
già con ciò chiarito il modo in cui il fisico deve ricercare e definire
l’essenza delle cose; e perchè sia ufficio suo lo speculare anche intorno
a un ge- nere di anima, a quello che non esiste senza la materia (*).
Che dunque la fisica sia una scienza speculativa, è evi- dente. Ma
scienza speculativa è anche la matematica: se i III.
3); laddove il principio del movimento studiato dalla fisica è nella sostanza
naturale delle cose. — Alle Il. 22 e 23 è opportuna la correzione proposta
dal Bonitz, attuata dal Ross, di rountov e rgaxtov invece di romtimov e
reaxtiNbv. (1) Il «per lo più» è proprio delle cose fornite di materia,
come si dirà fra poco; e «ogni scienza è o di ciò ch'è sempre o di ciò
ch'è per lo più» (2, 12). Mapotengo, dunque, la mia interpretazione
(Bonitz, seguendo Aless.: « tratta della sostanza per lo più come forma
piuttosto che come materia, solo che non come forma che possa esistere
separata dalla materia»; Ross: «tratta della sostanza nel senso della
forma per lo più unicamente come inseparabile dalla materia»). (2)
Camuso: v. VII. 5. — Senza materia sensibile: i. e. con materia soltanto
intelligibile (6. vonti: qui, l'estensione pura). (3) Non esiste senza
materia l’anima, salvo il vovs, che non ha nessun organo corporeo (De
An., I. 1. 409 a, 16; III. 4. 4292, 24). 1026 a 192
METAFISICA suoi oggetti siano immobili ed abbiano esistenza
separata, non abbiamo tuttavia ancora chiarito ('). Per ora si può
am- mettere come chiaro questo, che alcune delle scienze mate-
matiche considerano i loro oggetti in quanto immobili e se- parabili. Ma
se qualcosa esiste di eterno immobile e separato, non è dubbio che la
conoscenza di esso appartiene a una scienza speculativa, la quale non
sarà certamente la fisica (che riguarda soltanto alcune cose mobili), e
neppure la ma- tematica, ma una scienza superiore ad entrambe. Infatti
la fisica studia ciò che esiste separatamente (2), ma non è im-
mobile; delle matematiche alcune studiano, invece, ciò che è immobile, ma
non separato in fine perchè esiste nella ma- teria. Soltanto la scienza
che è prima studia ciò che è se- parato e immobile. E se tutte le cause
sono necessariamente eterne (*), queste lo saranno soprattutto, perchè
esse sono causa di quelli tra gli enti divini che risplendono nel cielo.
Le scienze filosofico-speculative son dunque tre: la ma- tematica,
la fisica, la teologia (‘). Non è dubbio che, se il divino esiste, esso
si trova in una natura quale s’è detta dianzi, e la scienza
onorevolissima deve esser questa che ha (1) V.libri XIII e XIV, e
per quel che segue, quanto alla matematica, XIII. 2-4. Le matematiche
pure studiano oggetti immobili: ricorda in III. 2, 18, dove tra le
scienze matematiche vengon citate l'astronomia, l'ottica e l’armonica (che
son più vicine alla fisica); e per la distinzione e gerarchia delle varie
scienze mate- matiche, v. IV. 2, 7 (la metafisica sta alla fisica come la
matematica pura a quella applicata). (2) La fisica studia ciò che
esiste separatamente, odolar, delle quali mostra (dimostra) le qualità e
proprietà (queste, invece, non esistono separatamente: i. @., non hanno
una propria esistenza). Alla |. 14 i codici dànno aybguota (e allora: la
fisica studia «ciò che non esiste separato », i. e. la forma nella materia,
ece.); la correzione, in ywguotd, proposta dallo Schwegler e accettata
dal Christ, dù maggior simmetria al rapporto tra fisica matematica e
teologia. — Non si scordi che yxwguotév è una forma comune a due concetti
per noi molto diversi: il sepa- rabile e il separato. (3) Intendi,
le cause prime, i principii in generale, reali o ideali: queste (Dio e le
Intelligenze motrici) sono cause reali, e però eterne a muggior diritto
an- cora dei cieli (che son cause seconde) pur eterni. (4) Su le
ragioni del nome (già in Platone, Rep., II, 379 a) e su la superiorità
della filosofia, cfr. anche I. 2.— Se il divino esiste: il tono è, ovviamente,
tut- t'altro che dubitativo. LIBRO SESTO 193
l’oggetto più onorevole. E come le scienze speculative son da preferire
alle altre scienze, così questa tra le speculative. Qualcuno potrebbe
domandare se la « filosofia prima» è universale, ovvero se versa intorno
a un genere determinato e a un’unica natura di esseri (‘).
(1) Dicemmo (in nota a IV. 1, 1) che dell’essere in quanto essere,
oggetto della metafisica, si danno in A. due significati principali:
l’uno in riguardo piut- tosto alla realtà delle coso che sono oggetto del
pensiéro, l’altro in riguardo piuttosto al pensiero che le pensa.
Per il primo rispetto, studiare l'essere in quanto essere, è studiare i
principii e cause prime ci tutto ciò ch’esiste, e in primo luogo quell’
Essere primo ch'è indipendente dalla natura e sottratto a ogni forma del
divenire. Onde la meta- fisica vien qui definita @e0%40yuxf) (6 6, e nel
passo corrispondente del lib. XI. 7, 7); e già nel lib, I. 2, 20 vedemmo
dare a questa scienza il titolo di «divina», nel duplice senso, ch'è iù
degna di Dio, e ch’è del divino nel mondo. Di qui, anche, veniva
accennata la superiorità di essa alle altre scienze e conobcenze in
generale, le quali non arrivano a porsi in quella purezza, dignità e autonomia,
ch’ è propria del sapere filosofico. In questo capitolo viene introdotta
per la prima volta una distinzione netta tra le scienze poietiche come le
arti, quelle pratiche come l'etica, e quelle che sono puramente
teoretiche. La distinzione, mentre eleva le matematiche e fisiche al
novero delle scienze teoretiche, determina la differenza tra esse e la
metafisica più chiaramente in riguardo al genero de' loro oggetti. Dio è
separato, esiste indipendentemente dalla quos; e così anche le
Intelligenze motrici: il divino (si vedrà nel lib, XII) forma come
un'altra « natura» o « usia ». La fisica studia esseri che hanno
un'esistenza propria, ma non sottratti al movimento; la mate- matica
studia esseri immobili, considerati separatamente, ma per astrazione, in
realtà non esistenti separatamente. Soltanto la teologia studia esseri separati
e immobili: e la perfezione di questi è ciò che dà la superiorità della
metafisica su le altre scienze teoretiche. Una riflessione, non
più teologica e oggettiva nel senso or detto, sul principio primo di
tutti i principii, ma conforme al secondo modo di considerare l'oggetto
della metafisica, mira piuttosto al lato formale delle cose. Dio è pura
forma; ma anche le cose sono in se stesse quel che sono per la forma
pura, indipenden- temente dalla materia a cui questa è unita nel sinolo.
Questa non è «separata », ma è bene «separabile», nel senso che, pur non
esistendo separatamente (contro' il platonismo, a cui la precedente
affermazione può condurre), tuttavia il suo essere, in sè e per sè, non
dipende dalla materia (è la pura essenza, o intelligi-. bilità pura,
delle cose). Qui, la differenza tra la metafisica e le altre scienze gi
presenta in altro aspetto. La fisica studia, bensì, anch'essa, ciò ch'è
separabile (la forma), ma non fuori della materia, onde le sue nozioni
non hanno vera uni- versalità, perchè la materia, com'è causa della
divisione dei generi nelle cose, così impedisce che l’universale si
realizzi nella sua assolutezza. La matematica, poi, studia bensì le cose
da un punto di vista formale; ma questo è il risultato di un'astrazione
posteriore alla realtà delle cose (XIII. 3), mentre l'astrazione del
metafisico vuol cogliere il medtegov concreto di esse (XIII. 2, 12), il loro a
priori puro (VII. 1, 4; 3, 10; 17, 8-10; VIII. 3, 3-4). Di qui, anche:
soltanto la metafisica studia l’essere &xA@g ($$ 1-2). Le fisiche-
ARISTOTELE, Metafisica. 13 194 METAFISICA
Anche nelle scienze matematiche, infatti, c’ è diversità: la geometria e
l’astronomia studiano oggetti di una partico- lare natura, e c’ è una
scienza matematica universale comune a tutte. Se, dunque, non ci fosse
nessun’altra sostanza fuori di quelle formate dalla natura, la fisica
sarebbe la prima di tutte le scienze. Ma se c’è una sostanza immobile,
essa sarà superiore alle altre, e la scienza di essa sarà la prima
filo- sofia, la quale, essendo la prima, è universale, in questo
senso. Essa avrà il compito di speculare intorno all'essere in quanto
essere: la sua essenza, cioè, e le determinazioni che, in quanto essere,
gli appartengono. matematiche non hanno quest'assolutezza, perchò
non considerano le cose per la pura ossenza, ma quel che sono per la
conoscenza sensibile (le fisiche), o per In quantità soltanto (le
matematiche), della quale formano concetti e definizioni che hanno
soltanto tale esistenza ipotetica: in entrambi i casi non trattano di
quel ch’ò il principio primo dell'esistenza di tutto ciò che dè. In
conchiusione, s01- tanto l'oggetto della metafisica ha veramente i
caratteri dell’universalità e ne- cessità: chò le altre scienze son
circoscritte a un genere particolare di cose (IV. 1), e di esso studiano
gli accitlenti qualitativi o quantitativi, con quell'esat- tezza e
profondità, maggiore o minore, ch'è possibile secondo i vari genori di
cose e de’ loro accidenti: assoluta, non mai. Il teologismo della prima
concezione è d'ispirazione schiettamente platonica: la seconda è
orientata verso un concetto dell'essere analogo a quello del trascen-
dentale moderno, e, comunque, criticamente definito. Una terza concezione
risulta dall’ interferenza delle prime due: il principio formale della
seconda si abbassa al realismo della prima, e nello stesso tempo il
realismo «i questa scopre nel fondo stesso delle cose un principio ideale
come in quella (ch'è ancora uno sviluppo dell’ultimo Platone). La realtà
più vera e profonda delle cose non è quella corporea, di cui trattano le
scienze fisiche e matematiche (0 come i Pre- socratici considerarono la
natura); ma è la forma che si realizza nell'universo in una molteplicità
e gradualità di forme, o pure essenze. E sarà dell'oggetto della
metafisica come di quello delle altre scienze, per es. delle matematiche:
esso avrà parti, ordinate gerarchicamente in ragione della purezza, maggiore
o minore, che ha la forma ne’ vari gradi del suo svolgimento attraverso
le cose (efr. anche IV. 2, 4 e 7). Così è anche delle parti dell'anima,
il cui sviluppo va da quella più legata al corpo sino a quel Nous, ch'è principio
e fine dell'essere nella sua pura immaterialità e perfetta
intelligibilità. In quest'ultimo paragrafo A. sembra avvertire le
difficoltà di tale interferenza: l'oggetto della metafisica differisce da
quello delle altre scienze perchò di un genere diverso? Come, allora, la
metafisica è una scienza universale? E il prin- cipio formate è unico 0
molteplice? Glì esseri non hanno un'unica natura. Ma, Be è molteplice,
non rischia, l'essere in quanto essere, di ridursi a un xowévy, 2 una
mera astrazione? Per la soluzione di queste difficoltà, v. nota a VII. 11,
11. ro DI 4 LIBRO SESTO
195 CapiToLO II. Dell’essere semplicemente detto si
parla in molti sensi. Di questi uno si disse (') che era quello di
accidente, un altro quello di vero (e di falso, per il non-essere). Oltre
di questi, ci sono le forme o figure dell’essere come categoria:
ciò che è una cosa, quale, quanto, dove, quando, e se altri significati
ci sono, dell’essere in. questo modo. Non basta: l'essere si dice anche o
in potenza o in atto. Dicendosi, dunque, in molti sensi, cominciamo da
quello di accidente, per mostrare che di esso non ci può essere
scienza. Già un indizio di ciò si ha nel fatto che nessuna scienza, nè
pratica nè poietica nè teoretica, si cura di esso. Chi fabbrica una casa,
non fa insieme nulla di ciò che alla casa può accadere poi: gli accidenti
sono infiniti: nulla vieta che la casa fatta sia piacevole agli uni,
incomoda per altri, ad altri invece sia utile, ed abbia, insomma, quelle
differenze che ha ogni cosa nel mondo: ma niente di tutto ciò
riguarda l’arte di fabbricare. Parimenti, neanche il geometra
studia simili accidenti delle figure, nè se un triangolo è diverso
dall'altro, pur che la somma degli angoli sia di due retti (?). Ed è
giusto che così avvenga, perchè l’accidente è poco più che un nome
soltanto. Per ciò Platone (*) in certo modo non a torto assegnò alla
Sofistica per oggetto il non-essere: chè i discorsi dei Sofisti quasi
sempre, si può dire, versano in- torno all’accidente. Ad es.: se sia la
stessa cosa o diversa (1) Cfr. V. 7. (2) Due
interpretazioni sono state date: 1) quella di Alessandro (alla quale si
avvicina la mia): il geometra non cura se il triangolo da lui definito,
come quella tal figura geometrica che ha gli angoli uguali a due retti, è
lo stesso di un triangolo di legno, di pietra, ecc.; 2) quella avanzata
dallo Schwegler e difesa dal Ross: il geometra non cura questioni, come
quelle che fanno i Sofisti, per es., se dir triangolo e dir triangolo di
cui la somma degli angoli è uguale a due retti sia lo stesso, o no (il
Sofista, infatti, se si risponde di sì, sostituisce alla prima parola la
dicitura seguente, e così sempre, all'infinito). Questa seconda è più
fedele alla lettera del testo, la prima è più conforme al pensiero svolto
nel paragrafo. (3) Sofista, 237 ss. 1 026 b
196 METAFISICA l'esser musico e grammatico; se Corisco e
Corisco musico siano lo stesso o no; ovvero sostengono che, dato che
tutto ciò che è, ma non è eterno, divenne, se uno essendo musico
divenne grammatico, si può dir anche che essendo gramma- tico divenne
musico ('); e tutti gli altri discorsi di questo genere, dai quali si
vede bene che l’accidente è qualcosa di molto vicino al non-essere.
E anche da considerazioni di questo generè: che delle cose che
sono in altro senso c’è il processo del nascere e ‘ perire (7), ma di
quelle che sono per accidente non c’è. Tut- tavia convien parlarne
ancora, fin dove si può, per mostrare qual*è la natura sua, e quale la
sua causa. Forse chiariremo con questo anche perchè di esso non c’è
scienza. Degli esseri ce ne sono di quelli che sono sempre a un
modo e di necessità (non intendo della necessità per vio- lenza (*), ma
di quella che consiste nel non poter essere altrimenti), «altri non sono
di necessità, nè sempre a un modo, ma soltanto per lo più. Di qui il
principio, di qui la causa dell’esistenza dell’accidente (*). Noi,
infatti, chiamiamo ac- cidente ciò che non è nè sempre nè per lo più: per
es., se al tempo della canicola faccia un freddo invernale, noi di-
(1) Il primo sofisma vuol porre l'identità insieme alla diversità dei
due ter- mini (in quanto uno è, o no, l’una e l’altra cosa insieme). Col
secondo si tenta il processo all’infinito (come per il triangolo, in nota
prec.). Col terzo, facendo prima sostantivo l’uno dei due termini e
l’altro aggettivo, e viceversa; poi, con- frontando, si trova che uno era
già primayciò che doveva diventare (il musico è grammatico, perchè lo
divenne: il grammatico ora è musico, e lo è perchè di- venne tale. ecc.).
(2) La generazione, come processo del nascere e perire, riguarda la
sostanza propriamente, e l’accidente solo in quanto sia considerato
tutt'uno con la so- stanza (non per sè soltanto: considerato per sè, esso
è come ciò ch’è casuale, e A. infatti, unisce qui i due sigpificati come
già in V. 30, 1-3). Ricorda Eth. Nic,, II. 1: suonando si diventa
suonatori, esercitandosi nel leggere e scrivere si diventa «grammatici ».
(3) Cfr. V. 5. (4) Quel che manca al per lo più per esser sempre
a un modo è quel SuAetppa, come dice Alessandro (451, 13), ch'è il
casuale. Ovvero si dica che il fortuito sparisce a misura che si scoprono
tracce di ragione nelle cose, onde all'ugua- glianza (logica, in
astratto) di tutti i casi possibili si sostituisce, nel mondo
dell’esperienza, la probabilità, maggiore o minore, del per lo più.
1 9 10 11 LIBRO
SESTO 197 ciamo sì che questo può accadere, ma non lo diciamo
già se fa un caldo soffocante: chè, questo, avviene sempre o per lo
più, quello no. E che un uomo sia bianco può ben accadere (chè tale non è
sempre, nè per lo più), ma non intendiamo che sia animale per accidente.
E può anche accadere che un architetto guarisca qualcuno, per accidente:
chè questo non è affare di architetto, ma di medico; eppure una
volta accadde che l’architetto fosse medico. Così, un cuoco,
sebbene il fine dell’arte sua sia il piacere, potrebbe scoprire
qualcosa che giovasse alla salute, ma non in virtù della culinaria.
Noi diciamo allora: accadde; per indicare che, in quanto ci fu chi
la fece, la cosa è possibile, ma non che dipendesse assolutamente da lui
('). Di tutte le altre cose si riesce a trovare, di quando in quando, la
potenza di produrle, ma dell’accidente non c’è arte o potenza determinata,
perchè di ciò che è o avviene accidentalmente, anche la causa è ac-
cidentale. Poichè, dunque,non tutte le cose sono o divengono di necessità
e sempre allo stesso modo, ma la maggior parte avviene per lo più, ecco
la necessità dell’accidente: ad es., nè sempre, nè per lo più, chi è
bianco è anche musico, ma, siccome talora accade, sarà per accidente. Se
l’accidente non ci fosse (?), tutto al mondo avverrebbe necessariamente.
Sarà dunque causa dell’accidente la materia, la quale è quella che
può essere altrimenti da come è per lo più (3). E di qua bisogna
cominciare: — non c’è forse qualcosa che non è nè sempre, nè per lo più?
Ovvero, ciò è impossi- bile? C'è, quindi, qualcosa oltre quel che è
sempre o per lo più, ed è ciò che capita purchessia e per accidente. Si
po- trebbe anche chiedere: forse, ciò che è per lo più esiste, ma
non l’eterno? Ovvero, esistono anche alcuni esseri eterni? Di ciò si
vedrà in sèguito; ma sin d’ora è chiaro che del- (1) In quanto
cuoco. (2) Se l'accidente non ci fosse, il «per lo più» diventerebbe un
«sempre», e tutto sarebbe necessario. Ma, poichè ciò non è, ecco la
necessità (di ammettere l’esistenza) dell'accidente: come vuol provare,
contro chi lo neghi, con l’interro- gazione al $ 10. (3) La
materia è principio e causa di tutto ciò ch’è indeterminato. 1027
a 198 METAFISICA l’accidente non c’è scienza (‘').
Ogni scienza è o di ciò che è sempre, o di ciò che è per lo più (°). Se
no, come si po- trebbe impararla o insegnarla? Bisogna bene, per
definire qualcosa, poter dire ciò che è o sempre o per lo più: po-
niamo, che l’ idromele giova, per lo più, a chi è febbricitante. Ciò che
è contro questa regola, neppure si avrà bisogno di dirlo: se una volta —
poniamo, al tempo della luna nuova — quel medicamento non ha giovato:
poichè, per dirla (*), an- che quella eccezione dovrebbe valere o sempre
o per lo più. L’accidente, invece, è contro tutte le regole. S'è
detto, dunque, che cosa è l’accidente, e per qual causa, e che di esso
non può esserci scienza. » CapiToLO III. Che ci siano
fatti, di cui i principii e le cause appaiono e scompaiono, sebbene non
si possa dire che nascono e pe- riscono (‘), è evidente. Se così non
fosse, dovendo esserci una causa non accidentale del nascere e del
perire, tutto avver- rebbe di necessità. Se si chiedesse, infatti:
Avverrà o non (1) Il pensiero procede in questi paragrafi un po’ a
sbalzi. Posto che non tutto è sempre o per lo più, si dimostra cho c’è
l'accidente (10). D'altronde, se si con- ceda che c’è l’accidente ce il
per lo più, come negare l’esistenza di ciò ch'è eterno, ch'è il vero
oggetto della scienza? — Si vedrà in. séguito: efr. XII, 6-8. (2) Che ci
sia scienza del per lo più, conferma anche in And/. Pr., I. 13. 32 D, 18,
e in Anal, Post., I. 30. 87 b, 20; benchè la vera e propria scienza sia
dell’uni- versale e necessario (Anal, Post., I. 1. 71b, 15, e spesso
altrove). — Idromele: bevanda di miele e latte. (3) L'eccezione,
dicendola, acquista la stessa regola di ciò ch'è sempre 0 per lo più.
Così ho tentato di sciogliere la difficoltà del passo, che letteralmente
suona: « poichè o sempre o per lo più anche #/ [il dire? o il fatto che
avviene?) al tempo della luna nuova », Altra interpretazione: Se una
volta non giovò, poco conta: sta il fatto che in generale conta, anche al
tempo della luna nuova (così Bonitz, che sopprime il té). Il Ross dà un
senso affine al mio: l’accidente an- ch'esso, veduto più profondamente,
ha la sua legge (in fondo esso è un difetto della nostra conoscenza, ma
nella realtà, veramente, nulla è accidentale). Il Ross unisce
all'articolo l’idea del fatto, io quella del dire (questa mi par più
semplice, data la modestia dell'esempio). (4) Non si può dire che
nascono o periscono, nel senso, veduto dianzi, di un processo, di un
passare graduale (dalla potenza all’atto, o dall’attività all’abito).
12 13 LI LIBRO SESTO 199
avverrà un tal fatto? — si risponderebbe: Sì, se ne avviene un
altro; se no, no. E quest’altro, poi, avverrà, se altro ancora avviene. E
così è chiaro che, sottraendo sempre del tempo da un tempo limitato, si
arriverà al momento attuale. Ad esempio, costui, se esce di casa, morrà
di malattia, o di morte violenta; ed uscirà di casa, se avrà sete; e avra
sete, se altro gli avviene; e così si arriverà a ciò che avviene
at- tualmente, ovvero a qualcosa che è avvenuto in passato. Po-
niamo: egli uscirà, se avrà sete; e avrà sete, se mangia di salato:
questo, o avviene o non avviene; e costui, quindi, morrà, o non morrà,
necessariamente. Il discorso è lo stesso se, con un salto nel passato, si
comincia da un fatto avve- nuto, perchè questo esiste già in un fatto
presente. Per cui tutte le cose future avverranno di necessità. Ad
esempio: chi vive, dovrà morire, perchè è già avvenuto questo, che
3 elementi contrari si trovano nello stesso corpo ('). — Ma se
(1) Bonghi (p. 367): «Il ragionamento di A. è molto semplice. Ogni
processo di atti, legati in qualità di causa ed effetto gli uni con gli
altri, è necessario: perciò, se non ci fossero atti tali che compariscono
0 scompariscono, senza che la ragione del loro comparire e scomparire sia
in un atto precedente, non ci sarebbero ettetti casuali, o altrimenti,
non ci sarebbero effetti se non necessari. Adunque, perchè ci siano
effetti casuali, bisogna che le cause che gli producono, siano, operino,
vengano meno senza processo «i sorta: non si generino però nè si
corrompano — cose le quali richiedono una serie di atti legati fra loro e
indi- rizzati alla generazione o alla corruzione, — ma sorgavo e cessino
in un attimo ed indipendentemente dagli atti precedenti, successivi e
contemporanei, tra’ quali s’intramette l'opera loro. Tutti gli esempi che
cita, servono a mostrare appunto ‘ che, finchè si sta in un processo,
un atto ha ragione nell'altro, e non s'esce dal giro del
necessario. Bisogna spezzarlo, per avere un principio d’un atto non ne-
cessario: ora, questo è appunto il principio del casuale. Il primo esempio è
d’un fatto avvenire rispetto al presente: col quale dimostra che, se dal
fatto avvenire si potesse di mano in mano e via via passare agli atti che
lo precedono fino 4 un atto o fatto attuale, quel fatto avvenire non sarà
nò men certo nè men neces- sario dell’attuale. Col secondo esempio applica
il primo al passato, mostrando che, come s'è ammesso che dall’avvenire si
arriva al presente, così da questo si risalirebbe al passato con
altrettanta certezza e necessità: di maniera che in un primo fatto già
stato ci sarebbe il principio d'un’intera catena necessaria di fatti
avvenire. Ora, come per esperienza si vede che questo non è vero, codesta
catena non esiste: e la è interrotta di tratto in tratto da atti, i quali
determi- nano quello che ci ha «li ancora indeterminato in un fatto, e
fanno che se ne origini piuttosto una tale che una tal’altra serie di
fatti successivi». Questo è, infatti, il senso più giusto di questo e
del paragrafo seguente. — Elementi contrari: caldo-freddo,
secco-umido. 1027 b 200 METAFISICA egli
morrà di malattia o di morte violenta, questo ancora non è prestabilito,
finchè non avvenga quel fatto determi- nato ('). È dunque chiaro che qui
si va sino a un certo principio, e da questo non si può rimontare ad
altro. Ora, questo appunto sarà il principio che spiega come un
fatto avvenne in un modo piuttosto che in un altro, e della causa
del suo accadere non c’è altra causa. Quel che più impor- tante
resterebbe a indagare è di quale specie sia la causa ini- ziale, a cui
l’analisi del contingente ci ha ricondotto: se, cioè, essa sia del tipo
della causa materiale, o di quella finale, o di quella efficiente
(?). (1) Finchò non avvenga quel fatto determinato, ch'è un
cominciamento asso- luto, non riducibile a una serie di atti precedenti.
(2) La materia, ha detto dianzi, è causa dell'accidente. Qui sì aggiunge
che la causa dell’accidente può esser considerata anche come attività
motrice (causa efficiente), e però in qualche modo anche finale (non
formale: la forma è prin- cipio di determinazione). Non decide altro
(Alessandro e Asclepio notano giusta- mente che la decisione
dovrebb'essere in favore della causa efficiente). Da vedere F. ‘Tocco,
Il concetto del caso în A. (in Giorn. napoletano di filos. e lett., 1877,
vol. V). Pare al T. che la materia non basti a spiegare l’accidente. © in
vero, nelle rivoluzioni celesti, ad es., l’accidente non ha luogo. Intesa
come principio assolutamente indeterminato, la forma dovrebbe dominarla.
Ma A. passa, în questo concetto, dal punto di vista meramente logico a
quello empirico, in cui la materia è soltanto relativamente
indeterminata, anzi essa è causa del determi- narsi della forma: per es.,
ne’ vari generi del reale. Di qui la dottrina degli attributi propri di
ogni genere diyose, essenziali se riguardano la sostanza nella sua
formalità, veramente accidentali se la riguardano per la materia. A.
tratta, poi, l’accidente anche come il caso (cfr. nota a 2, 6). Dontle, per
lui, il caso? In lui predomina il concetto della causalità di tipo
logico. Cfr. L. Ropin, Sur la conception aristotélicienne
de la causalité (in Archiv f. Gesch. d. Philos., XXIII, 1910, pp. 1
8gg.). Meglio:
come un determinismo logico-teleologico (pla- tonicumente): èv yào ti)
GAy tò dvayzatov, vò d’od Evexa tv tO X6y0 (Phys., II 9, in princ.; e v,
per l'argomento i capitoli molto importanti 4-6 di questo libro), Qui, tò
avayxatov è il contrario di quel determinismo. Il Greco tende alla per-
fetta razionalità della natura, ma è costretto a riconoscere un fondo
irrazionale dappertutto in essa, analogo al fato per lo vicende umane.
Anche in queste ha luogo il caso, e si chiama fortuna (von): « La fortuna
è la causa per accidente di fatti suscettibili d'esser fini, quando
questi riguardano la volontà » (Phys., II. 5. 197 a 5). Prescindendo
dall’u)ltima clansola, la definizione vale per ogni avve- nimento
accidentale: casuale è un fatto che può rientrare nel determinismo
logico-teleologico, ma non vien prodotto secondo questo. Cfr. VII. 7, 5; XI. 8,
8-9, D'altra parte, il suo empirismo lo porta a un concetto della
causalità di tipo materiale-efficiente, che esige la contingenza dei
fatti, l'accadere come origina- lità del particolare. Perciò, dopo aver
detto che l’accidente è poco più di un 1 LIBRO SESTO
201 CapitoLo IV. Si lasci ora da parte l’essere per
accidente: ne abbiamo discorso abbastanza. Quanto all’essere nel senso
del vero e al non-essere nel senso del falso, essi riguardano la
connes- sione e la divisione delle nozioni, e l'unione di entrambi
con- siste nel rapporto delle parti della contradizione ('). Vero è
l’affermare ciò che è realmente unito, e negare ciò ch’ è real- mente
diviso; falso, invece, è affermare o negare la parte contradittoria. Come
poi avvenga che s’intenda unito o di- viso, è un’altra questione: voglio
dire, come avvenga che nell’ intendere le nozioni non si seguono, unite o
separate, come in serie, ma formano un’unità. Vero e falso,
infatti, non esistono nelle cose (come se il bene fosse vero, il
male fosse senz’altro falso), ma nel pensiero: anzi, neppure in
questo, per quel che riguarda le unità semplici e le es- senze (?).
nome, quasi un non-essere, si aftretta a difendere la necessità di
ammetterlo. (Non è nel carattere di questa filosofia addebitare il caso
alla nostra ignoranza). La natura, infatti, ha per A. una sua spontaneità
(tò adtéparov), analoga all'6petwy nelle azioni umanc. Di qui il
cominciamento assoluto di certe serie di avveni- menti. Credo meglio
rifarsi di qui, che dall’interferire di processi causali diversi, como fa
il Bonghi nel passo cit. (v. anche a p. 371). Come, infatti, A. accenna
anche al principio del 'cap. 3, ci sono in natura cause che appaiono e
scom- paiono senza processo, (Ricorda che neanche dei punti, piani, ecc.,
nò degli istanti nel tempo, c'è generazione: III 5, 10-11; nè delle
sensazioni, secondo il De sensu, 446 b, 4; o che ancbe le anime degli
animali possono esistere o non esistere senza processo di
nascita-corruzione, come si dice in Phys., VIII. 6. 258 Db, 17; ma così
anche per l’esistenza delle forme o pure essenze in generale: v. VII. 8, 3
nota; VIII. 5, 1). (1) Cfr. IV. 7, 1-2 e 4. Vero e falso
riguardano entrambi l’essere e il non- essere; ma qui l’essere e il
non-essere si prendono nel senso del vero e del falso (dell'esser-vero e
del non-esser-vero). A lor volta, vero e falso son presi come
affermazione e negazione nell’unità del giudizio disgiuntivo che pone la
contrad- dizione, sì che, se una parte di essa è vera, l’altra è falsa, e
viceversa (non si di mezzo). (2) De interpr., 1. 16a. 12: « Nella
composizione e nella divisione consiste il falso e il vero. Invece, i nomi
per se stessi e i verbi valgono la nozione senza composizione e
divisione: come dicendo l’uomo o il bianco, quando non vi si ag- giunga
altro: chè non è vero o falso in nessun modo. E prova ne è questo: che
202 METAFISICA Tutto ciò, dunque, che intorno all'essere e
al non-essere, 4 intesi come vero e falso, si può considerare, sarà da
vedere più innanzi ('). Poichè, consistendo la connessione o la di-
visione nel pensiero e non nelle cose, v’ha differenza tra l'essere così
pensato e l’essere fondamentale delle cose (?). (Il pensiero infatti
annoda o divide l’essenza, la qualità, la quantità, o altro modo
dell’essere). Mettiamo, dunque, da parte l’essere nel senso di accidente
e l’essere nel senso del vero: la causa di quello è indeterminabile, e la
causa di que- 1028 a Sto è nella costituzione peculiare del pensiero, ed
entrambi riguardano l’essere nell’altro senso da quello che più
importa, i anche l'ircocervo significa pur qualcosa,
ma non punto nò vera nò falsa, se non vi sì uggiunge che esiste o non
esiste, o semplicemente o in un tempo ». Le nozioni (vofpata), 0
concetti considerati soltanto nel pensiero, riguardano una o l’altra
catezoria dell'essere. Nel giudizio, il soggetto è il nome (il sostan-
tivo), l'attributo affermato o negato è il predicato (il verbo). Anche
l’esistenza è una nozione che fa da prodicato (esiste). Ma, poi, A.
considera l'è ancho come copula semplicemente, che sta a indicare
soltanto la composizione delle nozioni fatta dal pensiero: «l'essere, per
sè, non è niente: significa una qualche sintesi, la quale non si può
intendere souza i componenti» (De interpr., 3. 16 Db, 24). La
composizione (ouvdeois, 0 cvuurdioxi, connessione) può, infatti, aver luogo
senza che il discorso affermi o neghi, propriamente: « Tutti i discorsi
sono significativi, ma assertivi non tutti, sì quelli in cui ha luogo
l’esser nel vero o nel falso. Non in tutti ha luogo: la preghiera, ad
es., è un discorso sì, ma non dice nè vero uè falso. La loro
considerazione è più propria della retorica e della poetica» (De ia-
terpr.,4.17 a, 1). L'asserzione (&népavors) si distingue, poi, in xetdpaas
e àrdpaars, affermazione e negazione. Essa riguarda l’attività del
pansiero discorsivo (dfvora), che può esser vero o falso; laddove l’atto
del vovg (l’intendere, il voeîv pr. d.) coglie (intuisce) sempre la
verità, la pura essenza delle cose, la quale è anche l'unità del loro
essere, che il pensiero (discorsivo) distinguo e separa nelle varie forine
categoriche: « L’intelleziono degl’indivisibili è di cose riguardo alle
quali non c'è errore, Dove, invece, ha luogo il vero e il falso, c'è già
una certa con- posizione di nozioni. La falsità, infatti, nasca sempre
nella composizione. Ma ciò che fa l’unità di ciascuna cosa è l’intelletto
» (De An., III. 6. 430 a, 26). E l'atto del percepire è come quello
dell’intendere: «Come il vedere è vero rispetto al suo oggetto proprio
(mentre il vedere se il bianco sia un uomo, o meno, non è sempre vero),
così pure accade per le cose senza materia [come le pure essenze)» (ivi,
430 b, 28). Cfr. quanto citammo per l'atto del percepire a IV. 5, 19 68.
(1) Cfr. IX. 10, dove la questione è ripresa più ampiamente. (2) [td] 6v
tOv xvolog: l'essere in quanto essere, in sè e per sè, ch'è l’og- getto
proprio della inetafisica. L’esser-vero e l’esser-falso riguarda, invece,
la logica (a questa, quindi, nou appartiene, propriamente, l’atto del
voùsg, l’intel- lezione «dei principii, della pura essenza e dell’esistenza:
cfr. dianzi 1, 2; 6 però neanche «dei principii logici, come si disse in
IV. 3). Cfr. su la questione della verità nelle cose e nel pensiero
quanto osservammo in nota a V. 29, 1. LIBRO SESTO 203
e però non mettono in chiaro quale sia la natura sua pro- pria (‘). E
però si lascino da parte. Vogliamo ora considerare le cause e i
principii dell’ essere stesso in quanto essere. Ma già, quando trattammo
di quanti significati può avere ogni cosa che si dice, si notò che l’es-
sere ha molti sensi (?). = (1) Mi permetto di tradur
così questo passo: Gupétega megl tò Aounòv yévos TOoÙ Bvtos, xal oùx Em
Bniovarv oloav (va [invece di otokv tiva) puo où bvtos. Gli altri
intendono: «Entrambi riguardano (o presuppongono, si fondano gu] l’altro
genere dell'essere [detto in proprio senso, i. e. secondo le categorie),
e non mettono in mostra nessuna natura che sia fuori dell'essere
[propriamente detto] ». MFxori: accanto, come un altro genere
dell'essere, coordinato a quello della sostanza. Manterrei all’
&&® il significato di «oggettivamente» voluto dal Ross, ma come
epesegetico qui, (2) L’accenno è al lib. V (cap. 7). Le ultime parole
paiono aggiunte per col- legare questo libro al seguente.
1 Lo LIBRO SETTIMO CapiTtoLO I.
Dell’essere, come accennammo dianzi (!) dove distin- guemmo i vari
significati di questo e di altri termini, si parla in molti sensi: da una
parte, significa l’essenza e un «che determinato »; dall’altra, quale è,
o quanto, e ciascuna delle altre cose che così si predicano. Ma, sebbene
se ne parli in tanti modi, è chiaro che l’essere principale è l’es-
senza, come quella che significa la sostanza. Quando, infatti, (1)
Lib. V. 7. Per la terminologia che segue, si ricordi che traduco general-
mente il x gotiv con essenza, e così anche tòd-elvar col dativo interno (alcuni
tra- ducono con concetto: ch'è anche giusto; ma preferisco mantenere il
tono ogget- tivo: rendo, invece, con concetto il A6yos, quando questo non
esiga altro termine più opportuno, come discorso, ragionamento, ecc.). E
con pura essenza rendo il ti fiv elvar (cfr. nota a I. 3,2). La
distinzione dei due concetti non è sempre facile: ma, per principio, la
pura essenza indica, come vuole la frase aristote- lica, un punto di
vista del tutto universale, e puro, noi diremmo, da ogni rife- rimento
empirico (sebbene, per A., esso esista, poi, soltanto in quanto è un téde
t., un «che determinato »). E per rispetto alla tradizione, ma anche per
lasciar al testo la sua precisa formulazione, seguitiamo a tradurre
l’otola con sostanza: realtà è termine troppo moderno e accenna a quella
contrapposizione a «pen- siero» che in A, c’è e non c’è; essenza, come
altri traduce, è pur giusta, in quanto l'oùcia è l'essenza reale,
concreta, la forma realizzata nella materia (nel sinolo): ma, appunto per
dar rilievo a questa concretezza, preferiamo tener di- stinti i due
termini. — Intanto non sfugga che, avendo A. determinato come oggetto
della metafisica l'essere în quanto essere (VI. 1, 1), la realtà in
quanto tale, il problema dell’odota veniva a porsi come fondamentale:
chòù in essa si accentrano tutti i principii d’intelligibilità del reale.
Ed A. comincia col distin- guere in essa ciò ch'è essenziale per la sua
comprensione da ciò ch'è acciden- tale, mutevole e transitorio, ovvero è
una determinazione meramente negativa. 206 METAFISICA
parliamo della qualità di una certa cosa, diciamo, ad esempio, non ch’è
di tre cubiti o un uomo, ma ch’è buona o cattiva; quando, invece,
parliamo dell’essenza, non diciamo ch'è bianca o calda o di tre cubiti,
ma che è uomo o dio. Tutti gli altri esseri si dice che sono, solo in
quanto, di ciò ch’è in quel senso, alcuni sono quantità, altri
qualità, altri affezioni, altri qualche altra cosa simile. Poniamo che
uno faccia questione se il camminare, l’esser sano, lo star seduto, e
similmente qualunque altra cosa di tal fatta, sia ciascuno un essere o un
non-essere. Nessuno di essi esiste per natura da solo, nè può esser
separato dalla sostanza. Se, dunque, quelli diciamo che sono, a maggior
ragione sarà un essere ciò che cammina, ciò che sta seduto, ciò ch’è
sano. Questi, infatti, ci si mostrano tanto più reali perchè c’è un
essere determinato che fa loro da sostrato: questo è la so- stanza, e
l’individuo, il quale per l’appunto si presenta in tale categoria. Se
così non fosse, nessuno direbbe: è buono, è seduto. Ora è chiaro che
soltanto in grazia di questa ca- tegoria (') esiste ciascuno degli altri
esseri. Così che l’essere primo, non questo o quel modo di essere, ma ciò
che è sem- plicemente, sarà la sostanza. Si dice in molti sensi
che una cosa è prima, ma la so- stanza è prima in tutti i sensi: pel
concetto, per la conoscenza, per il tempo (*). Nessuna categoria,
infatti, tranne la sola sostanza, ha senso separatamente dalle altre. Ed
essa è prima quanto al concetto, perchè non c’è concetto di cosa
alcuna, che non comprenda in sè necessariamente il concetto di
(1) tavenv: si potrebbe riferire alla «sostanza» che vien prima di
«cate- goria»; ma che A. consideri qui }a oùdia come categoria è chiaro
anche da quel che segue. È vero che più spesso A. parla di categorie in
riferimento ai predi- cati della sostanza (la quale, perciò, ne è il
soggetto). Ma in opposizione alla cosa nella sua materialità anche la
«sostanza» è categoria, come si dirà tra poco (3, 7), ce il suo concetto
coincide con quello di « essenza ». (2) Facendo corrispondere questa
distinzione a quella di pura essenza, es- senza, sostanza concreta, si
può accogliere l'opinione di Alessandro (461, 1) che le parole seguenti
(Nessuna categoria... altre) riguardino la priorità nel tempo (la
sostanza non è mai senza attributi, ma esiste e e’ intende prima,
indipendente- mente da quelli che ha oggi o domani). LIBRO SETTIMO
207 sostanza. E quanto alla conoscenza, noi allora reputiamo
di sapere benissimo ciascuna cosa, quando conosciamo quel che è: ad
es., quel che è l’uomo, o il fuoco; molto meglio, per lo meno, di
quando sappiamo soltanto o quale è o quanta 0 dove: anzi, ognuna
di queste stesse determinazioni noi la ve- niamo a sapere allorquando
impariamo a conoscere che cosa è che ha quella qualità o quantità (').
In fine, quel che si è cercato fino ad ora, e che ora e sempre si
cerca, e di cui si fa questione sempre, cioè che cos’è l’essere, vale
appunto questo: che cos’è la sostanza? Qui, alcuni rispondono ch’essa è
unica, altri che ce n’è più d’una: ‘e di questi, alcuni vogliono che le
sostanze siano in numero finito, altri in numero intinito (?). Poniamoci
dunque anche noi a questo problema, ch’è il più importante, il
primo, l’unico si può dire: vediamo quel ch’è l’essere così inteso.
CapiroLo II Pare (*) che il modo più evidente di esistere
della so- stanza sia quello dei corpi. E però si suol dire che
sostanze sono gli animali e le piante, e le loro parti; nonchè i
corpi fisici, quali il fuoco, l’acqua, la terra, e gli altri corpi di
tal fatta; e quelli che o sono parti di essi, ovvero da essi (presi
complessivamente o parzialmente) risultano, come l’universo e le sue
parti, gli astri, la luna, il sole. (1) Lett.: «che cos'è il
quanto o il quale »; ossia, anche per queste deter- minazioni, la
conoscenza è data dall'essenza. Ma per chiarezza ho preferito tra- durre
tò mooév e tò motév come equivalente a mooév e smorsv: così auche Aless.
(461, 23) li intende due linee prima (dove il testo ha le stesse forme, con
l’articolo). La differenza è, al solito, nello scambio de’ diue concetti,
affini per A., di 80- stanza ed essenza. (2) Nella questione della
sostanza una o molteplice A. trova impegnate tutte le scuole precedenti,
da quella ionica all’eleate (una), dai Pitagorici ed Empe- docle
(molteplice finita) ad Anassagora ed atomisti (molteplice infinita). (3)
Volgarmente. Qui si fa questione, dunque, non soltanto del numero, ma
anche della natura della sostanza, o delle sostanze. Da quella prima
intuizione volgare prende lc mosse la scuola ionica. 1028
b 208 METAFISICA Ma bisogna esaminare se queste sono
le sole sostanze che ci siano, 0 se ce ne sono anche altre (o sian tali
soltanto alcune di queste, o alcune, anche, delle altre) ('), ovvero
se di esse nessuna è sostanza, ma sostanze siano certe altre
d’altra natura. Ad alcuni (?), per es., pare che sostanze siano i limiti
determinanti ogni cosa corporea, come superficie, linea, punto, unità: a
maggior titolo, per lo meno, di ciò ch'è corporeo e solido. Inoltre, c’è
chi reputa che di sostanze non ce ne sia nessuna fuori delle cose
sensibili; e altri, in- vece, che ce ne siano parecchie (3), e a maggior
titolo, come quelle che sono eterne. Platone, ad es., fa delle specie e
degli enti matematici due sostanze, e pone come terza la sostanza
dei corpi sensibili. Speusippo, pur cominciando dall’unità, pone un numero
maggiore di sostanze, perchè ad ognuna di esseassegna principii diversi:
uno per i numeri, ad es., e uno per le grandezze; inoltre, un principio
per la sostanza dell'anima: ed è così che viene ad aumentarne il
numero. Alcuni, a lor volta, dicono che le specie e i numeri hanno
la stessa natura, e che da essi dipendono le altre cose: linee e
superfici, sino alla sostanza del cielo e alle cose sensibili (*).
(1) Con l'h prima del xaî (E e Ascl.) alla 1. 15, i casi son, dunque, questi:
a) le sostanze son quelle dette; d) quelle e altre; c) alcune di quelle:
d) alcune di quelle e anche alcune delle altre; e) altre. (2) I
Pitagorici. Cfr. III. 5, 4. Seguono i Fisiologi in generale, poi Platone
e i Platonici. (3) Di genere. Altri intendono aàgiw per il numero: cfr.
I. 9, 1; e XIII. 4, 4. (4) Per Platone, non si dimentichi ch’ egli, pur
avvicinando le idee alla na- tura del numero, non le identificò mai con i
numeri nel senso dei Pitagorici (senza distinzione di sensibile e
intelligibile), nè le trattò meramente come i ma- tematici trattano i
loro oggetti. — Dei Platonici si parla lungamente nei libri XIII-XIV, ma
non si fauno i nomi: sì che l'attribuzione delle particolari dot- trine è
mal sicura. Sembra che Speusippo tendesse con ulteriori distinzioni a di-
sperdere l'unità iniziale e il rapporto sistematico dei principii (per il primo
ri- spetto. cfr. XII. 7, 11, e XIV. 4.3 e 5, 1: per l'altro, la fine
dello stesso XII: « co- storo della sostanza dell'universo fanno un
complesso di episodi e riescono a una molteplicità di principii»).
Secondo il Frank (cit. nel Ross), egli avrebbe distinto dieci principii:
l’unità assoluta (1), l'assoluta pluralità (2), il numero (3), la gran-
dezza spaziale (4), i corpi sensibili (5), l'anima (6), la ragione (7), il
desiderio (8), il movimento (9), il bene (10). Speusippo è ricordato
anche in Etk. .Vic., 4. 1096 b, 5. — Altri accentuarono, sembra, la
tendenza opposta, dell’unificazione dei principii, non soltanto contro
Speusippo, ma più in là dello stesso Platone. Asclepio (379, 17) fa
IL (bai 6 ni 8
LIBRO SETTIMO 209 Dobbiamo, dunque, trattenerci su queste
opinioni per ve- dere se sono giuste, o no, e quali sostanze esistono: se
ce ne siano, o no, altre (') fuori di quelle sensibili; e, se ce ne
sono, come sono; e se esiste qualche sostanza separata, perchè e come
esiste, ovvero, se fuori di quelle sensibili non ce ne sia nessuna. Ma,
prima, diciamo in abbozzo della sostanza quel che è.
CapirtoLo III. La sostanza vien intesa, se non in più, per lo meno
in quattro modi principali, che paiono costituire l’essere di ogni
cosa: come pura essenza, come universale, come genere, e in fine come
sostrato (?). qui il nome di Senocrate, successore di Speusippo; e
Teofrasto (fr. XII, 12) dice che egli «abbraccia in certo modo tutte le
cose dell'universo: così le sensibili come le intelligibili, e quelle
matematiche, e persino le divine ». Ad A. questa iden- tificazione sembra
la soluzione peggiore del problema lasciato in eredità dal maestro: XIII.
8, 10. (1) Altre ce ne sono, per A., ma non separate in quanto forme
delle sostanze sensibili stesse. (2) L'universale, anzi, meglio,
gli univ ersali,
astrattamente considerati, sono le idee platoniche, le quali A. nega che
siano sostanza (capp. 13-14): non così, na- turalmente, quando
l'universalità è carattere o valore dell’essenza. Del genere non si parla
più, e al principio del cap. 13 è del tutto dimenticato. In quanto è un
xotvév, esso equivale al xaté6Xiov, quando questo sia inteso come una
gene- ralità, e il genere, a sua volta, sia preso fuori del processo che
lo realizza nelle differenze. Così i quattro termini si riducono a tre,
anzi, per la trattazione ne- gativa dell’universale, a due: la pura
essenza e il sostrato. Del sostrato si parla .nel capitolo
presente, e si dice ch'esso è materia (CAm), forma (puoogf, qui, poco
dopo esemplificato con tò oxMpua 175 ldéas, e però con significato più
vicino alla forma sensibile; ma equivalente, in fine, a eldoc, a Adyos
fivev GAng, a ff xatà tòv A6yov odola, e però anche a tò 1 Kv elvari,
sinolo (tò 84 tobtov 0 BE èippolv, tò ocvverinupévov, tò otvterov 25
elbous xal GAns). Molto frequenta è Uroxzipevov nel primo e terzo
significato, raro nel secondo (cfr. VIII. 1, 6) e da intendere come
equivalente, qui, al terzo, ch'è il significato più comune dell'oùota.
Questa è, infatti, la sostanza concreta, piena realtà del x6de , (in
Cat., 5 distinta come prima dalla sostanza seconda, ch'è la forma o
specie). Di contro a essa sta la pura essenza nella sua universalità, che
vuol essere il suo principio intel- ligibile e insieme reale. Per
l’intelligibilità, è chiaro; la difficoltà sorge per la realtà, essendo
necessaria la materia per la sua realizzazione come individuo. Di qui
l’aporia del materialismo in questo capitolo, risolta da A., per ora,
sol- tanto negativamente, risolvendo la materia nel concetto dell’indeterminato,
© però inferiore al sinolo in realtà, e tanto più alla forma ch'è, per
l’intelligi- bilità, il principio del sinolo stesso.
ARISTOTELE, Metafisica. 4 210 METAFISICA Il sostrato
è ciò di cui si predica ogni altra cosa, ma 2 1029 1 esso non è predicato
più di alcun’altra. Noi dobbiamo, quindi, cominciare la nostra
trattazione da esso, perchè la sostanza par che sia, in primo luogo, il
primo sostrato di ogni cosa. E però per un lato esso è la materia, per un
altro è la forma, 3 per ultimo il loro insieme. La materia è, per es., il
bronzo; la forma, la figura ideata; il loro insieme, l’intero, la
statua. Per conseguenza, se la forma è prima della materia e reale
4 a maggior titolo, anche l’insieme d’entrambe (') sarà prima della
materia per la stessa ragione. Noi abbiamo dato, ora, un’idea di quel
ch’è la sostanza, 5 dicendo ch’essa è ciò che non viene riferito ad altro
come a sostrato, anzi ad essa vien riferito tutto. Ma non bisogna
fermarsi qui: chè non basta. Non soltanto, questo, manca ancora di
chiarezza; ma la sostanza diventa, in questo modo, la materia. Se,
infatti, non è essa la sostanza di ogni cosa, non è facile dire che altro
questa sia: togliendo tutte le de- terminazioni (*), pare che non rimanga
altro. Quelle deter- minazioni sono soltanto affezioni dei corpi,
produzioni e po- tenze loro; e neppure lunghezza, larghezza e profondità
sono altro che certe determinazioni quantitative, e non sostanze.
Sostanza non è la quantità, ma, piuttosto, ciò a cui origi- nariamente le
determinazioni quantitative appartengono. Se non che, tolta la lunghezza,
la larghezza, e la profondità, non si vede che resti nulla, tranne che si
ammetta ch’è pur qualcosa ciò che da quelle vien determinato. Sì che, a
chi consideri le cose in questo modo, deve necessariamente ap-
parire la materia come la sola sostanza. (1) Se si legge voò
(invece di 16), allora va tradotto: «anche dell’insieme d' entrambe sarà
prima la forma per la stessa ragione ». Ho preferito il vé perchò la
questione, in questo punto, mi pare sia quella della materia (l’usia nella
sua realtà), piuttosto che quella della forma (l’usia nella sua
intelligibilità), benchè anche questa sia giusta: come si vede dal $ 10.
(2) Ricorda il procedimento cartesiano: togliendo tutte le determinazioni
empiriche (prima le qualitative, poi le quantitative) si dovrebbe arrivare al
con- cetto puro di materia. Qui, naturalmente, si tratta della materia,
non del suo concetto, e A. non può far valere contro il materialismo altro
che il suo prin- cipio dell'esistenza determinata. 6
10 LIBRO SETTIMO | 211 Chiamo materia quella
che in sè non è una cosa deter- minata, nè una quantità, nè niun’altra
delle determinazioni dell'essere. Ci ha da essere, infatti, un qualcosa
di cui cia- scuna di esse si predica. E la sua guisa di essere sarà
di- versa da quella di ciascuna delle categorie: queste si pre-
dicano della sostanza; la sostanza, poi, della materia ('). Per cui il
termine ultimo, per sè stante, in ogni cosa, non è qualcosa di
determinato, nè una quantità, nè altro; e nep- pure la negazione di
queste determinazioni, poichè anche la negazione non esprime dell'essere
altro che l’accidente. Così, quelli che ragionano da questo punto di vista,
si tro- vano a conchiudere che sostanza è la materia. Eppure, ciò è
impossibile: perchè ognuno vede che sostanza convien che sia, anzitutto,
ciò che può esistere separatamente, ed è qual- cosa di determinato.
Parrebbe quindi che, a maggior diritto della materia, debbano dirsi
sostanza la specie, e quel che dall’unione di materia e forma deriva.
Ma lasciamo da parte, per ora, quest’ultima, cioè la so- stanza in
quanto risulta di materia e forma insieme: che è cosa posteriore e
manifesta a tutti. Anche la materia, in certo modo, non offre incertezze.
Dobbiamo trattenerci su la terza, su la specie (*°), perchè è essa che
presenta le maggiori difficoltà. (1) Le altre categorie son
determinazioni (secondarie o accidentali) della s0- stanza, la sostanza esprime
la determinazione (essenziale) della materia; invece, a materia non si
predica di nulla. — Tutto il passo mescola le ragioni dei ma- terialisti
con quelle di A., il quale non nega l'esistenza della materia, ma che
essa sia la sostanza. L’indeterminazione di essa non è mera negazione o
priva- zione (l'una non ha realtà affatto; l'altra non per sè, ma in
quanto è in altro: e d’altra parte, se fosse privazione, la materia
avrebbe già una determinazione, o un'indeterminazione soltanto relativa
al momento ulteriore del processo for- male: cfr. VIII. 1, 6 e 6, 11; XL.
9, 2). (2) Come avvertimmo in nota a III 2,5 traduciamo eldog con specie
quando non è in opposizione diretta al termine materiale. Il Rolfes,
seguendo S. Tom,, in- siste molto (nel suo commento alla trad. cit.) nel
distinguere in A. la forma in quanto indissolubile dalla materia, a cui è
unita, dalla forma sostanziale, che può avere un'esistenza indipendente
da essa. Negli Scolastici, infatti, è viva la preoccupazione per le
conseguenze dogmatiche. Questa preoccupazione manca in A., assorto, qui,
a polemizzare contro l'idealismo astratto del maestro, da una parte, e
contro il rozzo materialismo dall'altra. (Un’ esistenza in sè e per sè
della 212 MBTAFISICA E poichè tutti concordano in
questo, che alcune di quelle 11 sensibili sono sostanze, noi dobbiamo
cominciare la ricerca 1029 v in questo campo: chè è sempre utile passare
per gradi a ciò ch’è più conoscibile ('). La cultura, infatti, si
acquista così: 12 attraverso le cose che sono meno conoscibili per natura
si procede verso quelle che sono per natura più conoscibili. E la
fatica è proprio in questo: come nel campo delle azioni si deve far in
modo che, partendo dal bene dell’ individuo,. il bene generale (°)
divenga il bene dell’individuo stesso; così, qui, dalle cose che a
ciascuno sono più facili a conoscere, si deve andare a quelle che,
conoscibili per natura, divengano tali per lui stesso. Certo, quel che
l'individuo conosce in prin- cipio è spesso proprio ciò che meno è
conoscibile, e che ha poco o nulla della realtà dell’essere. Pure,
conviene prender le mosse da quelle deboli conoscenze, le quali tuttavia
co- stituiscono ciò ch’egli conosce; e sforzarsi, passando, come si
è detto, attraverso di esse, di fargli conoscere ciò ch’è cono- scibile
assolutamente. pura forma è affermata, senz'altro, di Dio nel lib.
XII; ma per l’individualità di essa come anima umana è nota l'oscurità di
A. e del pensiero greco in ge- nerale). Qui si dice che la difficoltà
maggiore non è intorno alla materia e al sinolo: questo è chiaro che è
prime, come si disse dianzi, della materia, e ha esistenza per sè e
individualità (è qualcosa di determinato); la difficoltà grande è intorno
al principio ideale-reale del sinolo. La specie ha esistenza e individualità in
sè e per sè? In termini moderni si direbbe che la questione passa dal
punto di vista empirico a quello trascendentale. Ma il senso di questo
passaggio è limitato in A. dai termini già accennati del suo pensiero.
(1) Il testo (le prime due linee di 1029b appaiono al principio del cap.
s0g.) è stato riordinato dal Bonitz. Lo Jaeger (Arîst., pp. 204 e :s8.)
per primo ha avanzata l'importante ipotesi che questi libri VII-IX siano
stati scritti dopo il XII; e che perciò questo passo, sino alla fine del
capitolo, sia un'aggiunta po- Steriore per collegare questa trattazione,
intorno alla sostanza sensibile, a quella puramente intelligibile. Ma
cfr. note a 11, 11; 16, 7. (2) tà &40g dyodd: il bene in sè, ciò
ch'è bene assolutamente (così, invece, ho tradotto, in fine al capitolo,
l'84ws), sarebbe espressione molto platonica: il plurale dissuade. Così
anche in Eth. Nic., V. 2. 1129D, 5. 1 2
u LIBRO SHTTIMO 213 CaritoLOo IV. Quando
noi da principio distinguemmo in quanti modi Si definisce la sostanza,
vedemmo che uno di essi era quello della pura essenza: di esso vogliamo
ora trattare. E comiu- ciamo a dirne qualcosa dal punto di vista
discorsivo: la pura essenza è ciò che di una cosa si dice in se stessa
conside- rata. Mi spiego: l’esser musico non è l’esser tuo, perchè
non per te stesso sei tu musico: quel che sei per te stesso, dunque,
quella è la tua essenza. Ma con questo non 8°è detto tutto. Anche una
superficie noi diciamo che per se stessa considerata (') ha un colore,
poniamo, bianco: ma non così è l’in sè della pura essenza: poichè
l’essere della super- ficie non è l’essere del color bianco. E neppur l’
essere suo vien fuori dall'unione dei due termini, dicendo ch’è una
superficie bianca. Perchè? perchè c’ è già compreso. Bisogna, perchè si
abbia la definizione della pura essenza di una cosa, che, chi la
definisce, non ne includa la nozione nella defi-{ nizione. Ne verrebbe
questo: che, se all’essenza della super- ficie appartenesse d’esser bianca,
ed essa è la stessa ch’è levigata, l’esser bianco e l’esser levigato
sarebbero una sola e medesima cosa (?). (1) Distinguendo
l’«in se stesso» dal «per se stesso», dove il greco usa la medesima
espressione (xad’ aùrté: v. V. 18, 4-6, in cui pure si accenna a questa
distinzione), si dà un po' più di luce all’argomentazione. Non tutto ciò che
una cosa è per sè, ne costituisce per questo l’essenza. Noi sappiamo,
infatti, che ci sono accidenti essenziali, per es. l'uguaglianza degli
angoli di nn triangolo a due retti; ma l'essenza del triangolo, poi, è
data puramente dalla sua definizione. La cosa in sò è il presupposto
d'ogni predicazione o qualificazione (la superficie è bianca — superficie
bianca). (2) Passo oscuro: ho seguito l’interpretazione di 8. Tom.
(1314), perchè mi eembra più intonata alla presente argomentazione
(sebbene riconosca che il testo» vien così un po’ forzato): A. direbbe
che, se bianchezza e levigatezza, e così gli altri attributi, siano pure
essenziali, costituissero la pura essenza della superficie, essi
dovrebbero tutti identificarsi tra loro. Il passo va forse, come nota il
Christ, due rigbe prima (dopo «già compreso »). — Altri (e già Aless.)
intendono: « Per cui, Be poi si aggiungesse che l’esser proprio della
superficie bianca consiste nell’esser essa levigata, non si verrebbe ad
altro che ad identificare l’essere del 214 METAFISICA
E poichè c’è pure una composizione (') della sostanza 6 con le altre
categorie (un qualche sostrato ci vuole sempre per ognuna: per la
qualità, per la quantità, per il tempo, per il luogo, per il movimento),
è bene s’indaghi se per ognuno di tali composti si possa far questione
della pura essenza: cioè, se anche di essi si dia una pura essenza: per
es., dell’uomo bianco, la pura essenza di uomo-bianco. A designare il
com- 7 posto, diamogli un nome: per’ es., vestimento (°). In che
con- sisterà, dunque, l’essenza del vestimento? Certamente, essa
non potrà esser nessuna di quelle cose che si dicono consi- derandole in
se stesse (*). bianco con l’essere del levigato»: si darebbe,
cioè, l'essenza del bianco come consistente nella levigatezza. Così,
infatti, pare che la pensasse Democrito (De Sensu, 4. 442 b, 11; De Gen.
et Cor., I. 2. 316, 1). (1) La sostanza, in quanto sìnolo di materia e
forma, è già un cuvdetov da so stessa. La questione, ora, è: si può
parlare di pura essenza quando il ovv@etov è della sostanza con le altre
categorie? La prima risposta è negativa: si può parlare della pura
essenza dell’« uomo », non dell’«uomo-bianco ». Ma, poi, si concede (14
s8.) che in largo senso (logico-discorsivo) si può dire che c’è una
definizione, e però una pura essenza, anche di questi composti (quando se
ne spiega il significato). (2) Oggi diremmo: indichiamo con «x il
composto. L'opportunità di ciò è chiarita bene da S. Tom. (1317): «Et
quia forte aliquis posset dicere quod albus homo sunt duae res et non
una, ideo subjungit quod hoc ipsum quod dico albus homo, habeat unum
nomen, quod causa exempli sit vestis. Tune enim,
sicut hoc nomen homo significat aliquid compositum, scilicet animal
rationale, ita et vestis significat aliquid compositum, scilicet hominem
album ». (3)
Intendo che la sintesi designata con «vestimeuto » non può esser scam-
biata con quella in cui consiste Ja sostanza, o pura essenza, in sò
(nell'esempio, l’uomo in quanto animale ragionevole, non in quanto uomo
bianco). Segue (8) l'obbiezione, la quale, badando più all'espressione
discorsiva, porterebbe a con- chiudere che definendo « vestimento » come
«uomo-bianco » non si cade in nes- suno dei due errori (ivi notati) peri
quali una definizione si può dire mancante, sì che in questo senso si
deve ammettere che la cosa è considerata per se stessa (benchè
secondaria, qui, la distinzione tra l'in sé e il per sé, non si scordi
che nel testo c'è anche quest'ambiguità). All'obbiezione A. risponde (9),
che, anche ammessa buona la predetta definizione in quel senso
(discorsivo), non per questo si tratta di una pura essenza, propriamente,
la quale dà sempre l’&ree di un téde ti (Ja determinazione della
natura costitutiva di un’individualità: di qui la s04 stituzione
frequente, nel pensiero aristotelico, della «sostanza seconda », 0 spe-
cie, alla sostanza prima, o téde tr). Altri intendono che l’obbiezione
venga fatta qui (alla fine del $ 7), e che A. risponda a essa nel 6 8. Il
testo permette, sembra, tutte due le interpretazioni (per il senso
generale la differenza, in fine, è di poco conto). 8
10 Il LIBRO SETTIMO 215 Si può obiettare
che una cosa non è considerata per se stessa in due casi: o per via di
apposizione, o al contrario. Nel primo caso, ciò che si vuol definire lo
si aggiunge ad altra cosa: per es., volendo definire che cos'è la
bianchezza, si dice che è un uomo bianco. Nell’altro caso, c'è
un’altra cosa aggiunta a ciò che si vuol definire: per es., se
vesti- mento vuol dire uomo bianco, vestimento si definisce color
bianco. Certamente, chi è uomo bianco è un che di bianco, 1030 a
ma la bianchezza non è davvero la sua essenza. Ma con questo si è
detto che l’essere del vestimento sia la determinazione di una pura
essenza veramente? (') Non pare. Solo ciò ch'è un «che determinato » è
una pura essenza, Quando, invece, una cosa si predica di un’altra (*),
non ab- biamo più un «che determinato »: l’uomo bianco, ad es., non
è la determinazione di un «alcunchè», una volta che tale determinazione
riguarda soltanto le sostanze. In conchiu- sione, la pura essenza ha
luogo soltanto in quelle cose di cu} il concetto è una definizione.
E definizione non c’è finchè si adoperano parole a signi!! ficare
una cosa invece del concetto: poichè, in tal caso, tutti i discorsi
sarebbero detinizioni, e si potrebbe adoperare una parola sola invece di
un qualsiasi discorso, sì che anche l’Iliade sarebbe una definizione (*).
Invece la definizione c’è soltanto qualora sia di ciò ch’è primo: e
questo ha luogo soltanto dove non c’è bisogno, per ragionarne, di
riferire una cosa a un’altra. (1) Alla 1. 3: 8206; f) où.
(2) « Uomo » e « bianco » son due concetti, che restan due anche se
uniti nella sintesi «uomo bianco »; « animale » e «ragionevole », invece,
esplicano il concetto unico di uomo (equivalente per A. al t6de tu). —
Aless. (467, 7 88.) nota acuta- mente che il tne mira all'essenza nella
sun unità, laddove la definizione esplica le parti in cui quella è
organizzata. Di qui la coincidenza e insieme la differenza tra i concetti
di essenza (che, in quanto sintesi empirica, o concreta, è sostanza; © in
quanto concetto può limitarsi a una designazione generica: altrimenti,
equi- vale al tne), pura essenza, definizione. Ctr. TRENDELENBURG, Gesch. der Hategorien- lehre, pp. 34 s8;
BoxiTz, pp. 311 88. (3) I. e., della parola «Iliade ». Non si
scordi che a concetto e discorso corri- sponde lo stesso termine
X6yos. 216 i MBDTA FISICA Non potrà, quindi, la pura
essenza trovarsi nelle specie che non appartengano a un genere, anzi si
troverà soltanto in quelle che v’appartengono, perchè di quelle soltanto,
evi- dentemente, si può parlare senza riferirle ad altro come par-
tecipazione o affezione di esso, o come suo accidente (‘). Delle altre, così
come di ogni cosa, ben si può ragionare, o con un semplice discorso o in
modo più esatto, per dirne, po- niamo, se ha un nome, che cosa questo
significa, e che questo conviene a quello. Ma non è questione, con ciò,
della defi- nizione e della pura essenza (°). Ma forse anche per
la definizione, come per l’essenza, è bene osservare che si dice in molti
modi. L’essenza, in un primo modo, significa la sostanza e la
determinazione di qualcosa; e in altro modo, significa quale è, quanto è,
e ognuna delle altre cose che si predicano così. E in quella guisa
che l’«è» si trova in tutte le categorie, ma non ugual- mente, perchè in
una di esse ci sta in senso proprio, e nelle altre per derivazione; così
anche l’essenza, assolutamente, appartiene alla sostanza, e al resto
delle categorie soltanto in certo modo. Noi potremmo, infatti, chiederci
che cos’è la qualità, facendo, così, anche della qualità
un’essenza: non tuttavia assolutamente, ma in quel modo come alcuni
del non-essere affermano, discorsivamente, che il non-essere è: non
assolutamente, ma in quanto è non-essere. Si dica similmente della
qualità. Senza dubbio, è giusto che si badi anche come convien
parlare in ogni cosa, ma quel che più importa è come essa è realmente.
Oramai, dopo quel che s’è detto, dev’esser chiaro che la pura essenza
apparterrà primieramente e as- solutamente alla sostanza; e poi anche
alle altre categorie, (1) Genere-specie (yévovs elbn) dev’ essere
un processo unitario di realizzazione della pura essenza: la qual cosa
non avviene se le specie son considerate plato- npicamente come idee di
cuî il genere dovrebbe partecipare (cfr. III 3, 7); ov- vero, secondo la
dialettica sofistica, si unisca la sostanza (ciò ch'è primo: tè xQ6tov
6v) con una qualità o un accidente di essa. (2) Così il X6yos passa dal
suo officio meramente semantico a quello apofan- tico (De interpr., 4. 17
a, 1), e da questo a quello più logico-metafisico. 12
13 14 15 16 17
18 19 20 LIBRO SETTIMO 217
nello stesso modo dell’ essenza, non assolutamente, in quanto è la pura
essenza, ma in quanto è pura essenza della qua- lità, o della quantità,
ecc. Poichè bisogna bene che uno ci dica se in queste categorie l’essere
ci sta soltanto per omo- nimia; ovvero se si tratta soltanto di aggiungere
e togliere (come quando si dice che anche l’ignoto fa parte del noto)
('). In verità, la risposta giusta è di negare sia la diversità,
sia l'identità del significato; e dire che la cosa sta come per
quel che diciamo « medicale », tiferendoci, sì, a qualcosa ch’ è pur
sempre una e medesima, ma non ha un unico e sempre 1030 b lo
stesso significato, senza che perciò si tratti di mera omo- nimia:
diciamo «medicale» un corpo, un’operazione, uno stramento, non per
omonimia, nè per lo stesso rispetto, ep- pure ci riferiamo a una cosa
stessa (*). (Qui non importa nulla se uno preferisce un modo o l’altro di
vedere). Quel ch'è evi- dente, è che la definizione e la pura essenza
riguardano pri- mieramente e assolutamente soltanto le sostanze, e che,
s’ esse valgono parimenti anche per le altre categorie, ciò non è
in vero e proprio senso. Posto questo, non è detto però che’ si abbia
definizione di un oggetto tutte le volte che c’è un discorso intorno a
esso, ma soltanto se ci si esprime in certo modo, cioè se si riguarda
l'oggetto come uno: non per mera continuità discorsiva (come sarebbe ]l’
Iliade) (*), o perchè si (1) Passo molto oscuro. Omonime son le
cose che hanno lo stesso nome, ma natura diversa (Callia, per es., e il
suo ritratto); sinonime, quando la realtà o il concetto è lo stesso
(abito, per es., e vestito). Per A., qui, non si tratta nè di mera
omonimia, nò di sinonimia: poichè l'essere nella prima categoria e nelle
altre nè è identico, nè è del tutto diverso. Si tratta, invece, di aggiungere e
to- gliere: i. e. (così parrebbe che voglia dire) qualificare con un «
primieramente » e un «secondariamente » l'essere nei due casi, si che di
esso si dia un più e un meno di realtà. Così anche il non-essere delle
categorie secondarie diventa un essere: come l'ignoto è, in quanto lo ei
sa tale, anch’esso noto (questo sembra dire ciò ch’è in parentesi).
(2) V. per lo stesso concetto ed esempio, IV. 2, 1-2. Le parole che
seguono (messe da me in parentesi) paiono riferirsi alla distinzione tra
il xaè° Ev e il rodc Ev (Ross). (3) L'esempio (giù veduto dianzi)
dell'Iliade, come di ciò ch'è soltanto ouv- deop® Ev, torna in VIII. 6,
2. Così in Anal. Post., II. 10. 93 b, 96: « Un discorso può essere uno in
due modi: o per collegamento, come l’Iliade; o perchè chia- risce
un'unica cosa da un unico punto di vista, non per accidente », E così
anche in Poet., 20. 1457 a, 29. 218 METAFISICA
adoperano congiunzioni, ma in tutto il vero e proprio senso del termine «
unità ». Questa si dice come l’essere; e l’essere significa un che
determinato, o quanta, o quale è una cosa. Per cui, anche, ben si può
parlare e dare una definizione di assume altrettanti signi-
ficati diversi: la soglia è tale perchè situata così, e l’esser suo
significa l’esser situata così; così come l’esser ghiaccio vuol dire aver
una certa densità. Ci sono cose di cui l’essere potrà venir determinato
anche con tutte queste differenze, in quanto possono esser o mescolate, o
combinate, o insieme collegate, o condensate; ovvero esigono, per esser
definite, anche le altre differenze, come, ad es., una mano o un
piede. È bene, dunque, comprendere i generi delle differenze, una
volta che queste debbon essere i principii dell’esser delle cose: queste,
infatti, si distinguono per il più o per il meno, per il denso e per il
raro, e per altre qualità sì fatte: le quali tutte, poi, sono o in
eccesso o in difetto. Quando una cosa differisce per figura, o per
levigatezza o ruvidezza, tutte queste differenze si riducono a quella del
dritto e curvo. E quando l’esser loro consiste nella mescolanza, il non
essere consisterà nella condizione opposta. Risulta chiaro,
dunque, che, se la sostanza è la causa dell’essere di ciascuna cosa,
bisognerà cercare in queste differenze la cagione per cui ciascuna è
quella che è. La sostanza, a dir vero, non consiste in nessuna di queste
dif- ferenze, neppure se accoppiate alla materia; tuttavia esse
costituiscono in ogni oggetto quel ch’è analogo alla so- stanza ('). E come
nelle sostanze quel che si predica della (1) Queste differenze
riguardano la materia e l’accidentale più che la natura intima delle
cose, e però non ne dànno l’usia nel vero senso. — Ciò che tien le
10 LIBRO OTTAVO 265 materia è l’atto stesso, così’
anche nelle definizioni delle altre cose è ciò che meglio ne tien le
veci. Per es., se si debba definire la soglia, diremo ch’è legno o pietra
si- tuata in -certo modo: e la casa è mattoni e legni situati così
e così (se pure in certi casi non si accenna anche allo scopo); e se si
tratta del ghiaccio, diremo ch’è acqua soli- dificata o condensata in tal
modo; e la melodia è una me- scolanza così fatta di suoni acuti e gravi.
E nello stesso modo per gli altri casi. Di qui si vede che l’atto
è diverso e diverso il concetto, quando la materia è diversa: chè in
alcune cose ha luogo composizione, in altre mescolanza, in altre qualche
altra delle differenze ricordate. Per cui, se uno, per definire
quel che sia una casa, dicesse che è pietre mattoni legname, di-
rebbe quel che la casa è in potenza, perchè pietre mattoni legname sono
la materia; se invece dicesse ch’è uno spazio chiuso per riparo delle
cose e delle persone, o aggiungesse altra cosa simigliante, direbbe quel
ch’è l’atto della casa. E se uno riunisse entrambe queste determinazioni,
direbbe la sostanza nel terzo significato, quella che risulta
dall’atto e dalla materia. Par chiaro, infatti, che il concetto che
si ottiene per mezzo delle differenze, è quello della forma e
dell’atto, quello invece degl’ingredienti della cosa riguarda piuttosto
la materia. Tali erano anche le definizioni che Ar- chita (‘) approvava,
poichè esse si riferivano al composto. Per es.: che cos’è il tempo buono?
La quiete in grande estensione di aria: qui l’aria è materia, l’atto e la
sostanza è la quiete. Che cos'è la bonaccia? È l'uguaglianza della
superficie del mare: qui il sostrato, in quanto materia, è il mare, e
l’uguaglianza della superficie è l’atto e la forma. Con le cose discorse
resta così spiegato quel ch’è la —__& veci
dell'atto (della vera © propria forma), in queste cose considerate
sensibil- mente, sono le su dette differenze. Qui non si possono avere
definizioni (delle sostanze sensibili particolari non c'è dimostrazione,
nò definizione: VII. 15, 2), altro che in largo senso (VII. 4, 12-13).
(1) Di Taranto, famoso pitagorico, coutemporaneo di Platone. (Alla 1.
18: èvegysiav). 1043 b 266 MHTAFISICA
sostanza sensibile e in qual modo sia: essa è tale come materia,
come forma e atto: in un terzo senso, come il loro insieme.
CapiToLo III. Ma si badi che talora non è chiaro se il nome della
cosa esprime la sostanza come composto, o l’atto e la forma sua:
per es., se casa significhi l'insieme, un riparo fatto di mat- toni e
pietre situate in un certo modo, ovvero semplicemente un riparo, cioè
l’atto e la forma della casa; e se linea signi- fichi dualità in
lunghezza, o semplicemente dualità ('); e animale, anima in un corpo, o
semplicemente anima. L'anima è la sostanza e l’atto di un certo corpo, e
chi dice animale può riferirsi all’uno e all’altro significato, non
perchè coin- cidano nel copcetto, ma in quanto entrambi riguardano
la stessa realtà. Ciò per qualche rispetto non è senza impor-
tanza, ma per la nostra questione su la sostanza sensibile non ne ha
alcuna, poichè la pura essenza consiste nella forma e nell’atto. Anima,
infatti, ed essenza dell'anima son la stessa cosa, ma non così uomo ed
essenza dell’uomo, salvo che per anima non s’intenda l’uomo: chè, allora,
in un senso, l’uomo e la sua essenza coincidono; in un altro, no.
La sillaba non si mostra nell’esser suo se uno la cerca nelle lettere e
nella loro somma; e così la casa, se uno guarda ai mattoni e alla loro
somma. Ed è giusto che sia così, perchè la somma o la mescolanza non
deriva soltanto dalle cose sommate o mescolate (°). Similmente, in tutti
gli (1) Cfr. VII. 11, 5; e per l'identità (nel par. seg.)
dell'anima e della sua es- senza, VII. 10, 16, e 6, 14. — Ciò, si
aggiunge, può avere qualche importanza, Der es. per il fisico; non per
noi (per il rispetto metafisico), ora: chò la forma è il priocipio del
sinolo ed equivalente a esso (in quanto, tuttavia, esso venga considerato
nell'unità attuale del téde n). (2) Cfr. VII. 17, $ s8s,: qui
l’apriorità della: forma (ch’è, dunque, magà tà Gtoyela, non in senso
trascendente, ma affine al nostro trascendentale) viene estesa alle forme
sensibili. « Compositio et mixtio, quae sunt formalia principia, non
constituuntur ex his quae componuntur aut miscentur, sicut nec aliquod
aliud formale constituitur ex sua materia, sed e converso »: S. Tom:
(1713). 1 2 3 LIBRO OTTAVO
2ET altri casi. Ad es., se qualcosa è una soglia per la
posizione, non la posizione si spiega con la soglia, ma piuttosto
questa con quella. E l’uomo non è semplicemente l’essere vivente
più bipede, ma deve esserci qualcosa oltre di ciò, se ciò è preso
soltanto come materia: qualcosa che non è elemento nè un derivato da un
elemento, ma è sostanza, prescindendo dalla quale non rimane se non la
materia. Se, dunque, questo «qualcosa » è la causa dell’esser suo e della
sostanza, Si dovrà indicare in esso la sostanza stessa ('). Ora,
questa o è eterna, ovvero è corruttibile senza perciò perire, e diviene
senza che perciò si possa dir prodotta. Noi abbiamo altrove mostrato e
spiegato come la specie nes- suno la produce o genera, ma quel che si fa
è un qualcosa di determinato, e quel che si genera è l’insieme. Se poi
le sostanze delle cose corruttibili siano separabili, non abbiamo
ancora chiarito, salvo che nei casi in cui è evidente ch’è im- possibile,
e son tutti quelli in cui non può esistere la sostanza fuori dei
particolari, ad es., una casa o una suppellettile (*). Ma forse queste
non sono da riguardare come sostanze, e insieme a esse nessuna di quante
altre cose non sono pro- dotte dalla natura: chè la natura, essa sola, si
può chiamare sostanza nelle cose corruttibili. Perciò non è fuor
di proposito la questione agitata dai seguaci di Antistene e da altri
rozzi come loro; i quali (1) Seguendo la volgata e
l’interpretazione di Alessandro (553, 7) l'accento polemico sarebbe, non
contro il materialismo, ma contro l’idealismo astratto dei Platonici, e
si tradurrebbe così: «.,... ma è sostanza: quella sostanza, a cui si
riferiscono quanti prescindono dalla materia, Se, dunque, questo qualcosa è
la causa dell'essere, e questa è la sua sostanza, essi si riferiranno
(col loro prescin- dere dalla materia) per l’appunto alla sostanza». Ma
par evidente che non è questo il senso del discorso qui. Meglio,
piuttosto, mantenere, con la volgata, anche l’oò dato da E (1. 14): « Se,
dunque, questo qualcosa è la causa dell’esser Suo, e questa è la sua
sostanza, essi [prescindendo da essa) si troveranno a non dire quel che è
la sostanza stessa dell’uomo [la sua vera realtà)». Così anche il Ross.
(2) Cfr. VII. 8, e nota a 7,3. Per A., non ostante il suo frequente
esemplifi- care con immagini prese dalla produzione dell’arte, vere e
proprie sostanze sono quelle naturali. L'uomo, infatti, può indurre forme
accidentali soltanto, non es- senziali in ciò che già esiste ed ha,
quindi, una propria natura già. 1044 a 268
MBTAFISICA dicevano ch’è impossibile definire quel che una cosa
è('), perchè definire, per essi, è un tirare il discorso in lungo,
ma si può dire e insegnare soltanto qualche qualità della cosa:
dell’argento, ad es., non ciò che è, ma che è simi- gliante al piombo.
C'è, allora, una sostanza; e di essa si dà una definizione e un concetto:
di quella cioè composta, sia essa sensibile o intelligibile; ma non degli
elementi da cui essa risulta composta, una volta che il discorso
definitorio ‘significa che qualcosa conviene a qualche altra,
delle quali l'una dev’esser presa nel senso di materia, l’altra di
forma. Questo ci fa vedere anche che, se si vuol sostenere da un
certo punto di vista che le sostanze sono numeri, si dovrà intendere come
s’è detto, e non, come alcuni pretendono (?), che sian collezioni di
unità. Si dica pure che la definizione è un numero, poichè infatti è
divisibile e si risolve in ele- menti indivisibili (chè i concetti non
sono infiniti): proprio come il numero. E come il numero, se tu vi
sottrai o ag- giungi qualcuno degli elementi suoi — e sia pure il
più piccolo —, non è più lo stesso numero, ma un altro; così,
——_ —_——— (1) Se la sua essenza è semplice (v. VII. 10,
17), anche per A. è oggetto di vénows, non di 6propdc. Ma qui il discorso
va ripreso dal $ 4, come una prova ‘che il principio di una cosa non è
dato da una sonma di elementi. Benchè gli Antistenici (per i quali, v.
Teeteto, 201 e; e lib. V. 29, 2) intendessero ben altro (la definizione
è, per essi, una évopétov cvurioxi, che allunga in un A6y0g paxeés quella
parola unica che sola è propria della cosa: nota, per un confronto, il
caso aristotelico di una definizione meramente verbale, come di «Iliade
»). Anzi, A. ne trae argomento (nel par. seg.) per confermare la validità
della definizione, la quale non è somma (animale + bipede), ma rapporto
formale di genere (materia) a specie (forma). Ovvero, s’intenda la
definizione nel senso di VII, 4, 13. (2) Platone e Platonici
pitagorizzanti, identificando le idee con i numeri, e considerandole
insieme come usie e universali, davano anche del processo dofi- nitorio
una ragione matematica. A. oppone alla concezione di un molteplice come
aggregato (e tale è l'idea in quanto usia composta di usie: cfr. n. a VII. 15,
6) la sua concezione di un molteplice organico, e a quella dell’unità
astratta (0 tale è l’idea in quanto universale) la sua concezione
dell'unità concreta. Questi para- grafi, duuque, sono strettamente legati
a quanto precede e il capitolo non è, come sembra (v. Ross, p. 231), una
collezione di pensieri sconnessi (lo stesso $ 5, che sembra interrompere
la continuità del ragionamento, è suggerito da quanto precede circa
l'apriorità della forma, che per A. è legata alla questione della sua
eternità, o meno; e introduce il concetto dell’unità viva, naturale,
della sostanza). 10 11 12
x LIBRO OTTAVO 269 neppure la definizione e la pura essenza
è più la stessa, se vi togli o aggiungi qualcosa. E anche pel numero ci
ha da esser qualcosa che gli dà unità; ma quel ch’esso sia, per cui
il numero, se possiede unità, è uno, non trovano modo di dire.
Poichè o il numero non ha unità, ed è come un mucchio; ovvero, se è uno,
debbono dirci che cos’ è quel che del mol- teplice fa un’unità. E poichè
la definizione similmente pos- siede unità, neppure di es sa sanno
rendersi conto. Ed è natu- rale che avvenga così, perchè la ragione è la
stessa: la sostanza è una nello stesso senso, non, come intendono
alcuni, quasi fosse una specie di unità o di punto, ma perchè cia-
scuna è atto in atto compiuto e una natura determinata. E come il numero
non ammette un più e un meno nell’esser suo, così neppure la sostanza in
quanto forma; ma, se mai, in quanto è unita alla materia (*).
Bastino queste considerazioni intorno alla generazione e corruzione delle
sostanze suddette, in qual senso è possibile e in quale no, e intorno
alla riduzione di esse al numero. CariToLO IV. Per
quanto riguarda la sostanza materialmente conside- rata, non si deve
trascurare che, se anche tutto viene da uno stesso elemento primitivo o
dagli stessi elementi primi- tivi, e una medesima materia serve da
principio alla gene- razione delle cose; pure, c’è una materia propria di
ciascuna di esse. Per es., materia, immediatamente, della flemma
sono elementi dolci e grassi, della bile elementi amari o altri che
siano: anche se hanno la stessa origine. Per uno stesso og- getto ci
possono esser più materie, quando una sia materia dell’altra: poniamo, la
filemma si può dire che vien tanto (1) La sostanza è esattamente
(puntualmente, quasi matematicamente) quel che è. Ci può esser un più o
un meno nel suo essere, se mai, considerandola dal lato materiale (in
quanto, poniamo, non ha ancora realizzata pienamente ia sua forma).
10414 b 270 METAFISICA \ dal grasso quanto dal
dolce, se il grasso deriva dal dolce; e si può anche dire che vien dalla
bile, se si risolve questa sino alla sua materia prima. Poichè una cosa
si dice che viene da un’altra in due sensi: o nel senso che l’una è
uno svolgimento dell'altra, o perchè segue all’altra risolta ne’
suoi elementi ('). Può darsi poi, che la materia sia la stessa,
eppure, mercè la causa motrice, divenga cose diverse, per es., il legno
può diventare tanto un armadio che un letto. Per alcune cose affatto
diverse ci vuole di necessità una materia diversa: ad es., un’ascia non
si potrebbe fare di legno, e non è questione qui della causa motrice,
perchè nessuno potrebbe fare un’ascia con lana o legno. Se, quindi,
c’è modo di fare uno stesso oggetto di materia diversa, è chiaro che
l’arte e il principio motore è lo stesso. Che se così la materia come il
motore son diversi, anche il prodotto è diverso. Quando si domandi
quale è la causa di una cosa, po- tendo di causa parlarsi in molti sensi,
bisogna enumerare tutte quelle che possono far al caso. Per es.: qual’è
la causa dell’uomo in quanto materia? Certamente, il menstruo. Che
cosa fa da motore? Lo sperma, per l’appunto. Quale, da forma? La pura
essenza. Quale, da scopo? Il fine dell’uomo. Si può dire che queste due
ultime cause coincidano. Bisogna, poi, delle cause addurre quelle più
vicine, e se si chiede la materia, non rimontare al fuoco e alla terra,
ma a quella ch’è propria. Per le sostanze naturali, dunque, e
soggette a generazione è necessario procedere così, se si vuole procedere
dirittamente, dato che tali e tante sono le cause, e che noi dobbiamo
co- noscere le cose per le loro cause. Ma per le sostanze che,
sebbene naturali, sono eterne, la questione è diversa. Alcune probabilmente,
non hanno materia, o almeno non l’hanno come quella ricordata, ma una
materia mutabile soltanto spazialmente. E neppure per quante cose
avvengano natu- ralmente, ma non sono sostanze, non si può far
questione —T— (1) Cfr. II. 2, 6; V. 4,2.
LIBRO OTTAVO 271 di materia: in esse è la sostanza soggetta al
fenomeno che fa da sostrato. Poniamo che si cerchi la causa
dell’eclissi. Qual’è la materia? Non c’è la materia, ma c’è la luna
che subisce l’eclissi. Quale la causa motrice dell’eclissi, e che sottrae
la luce? La terra. Quanto allo scopo, non pare che sia da parlarne('). La
causa formale è il concetto, ma esso resta oscuro, se non è accompagnato
dalla causa. Per es., che cos’è l’eclissi? Privazione di luce. Se si
ag- giunge che ciò avviene perchè la terra s’interpone nel mezzo
tra il sole e la luna, allora questo è un concetto accompa- gnato dalla
causa (?). Quanto al sonno, non è chiaro quale sia il suo primo sostrato.
Che altro — si può dire — se non l’animale? Certo, ma da qual punto di
vista considerato? e qual è l’organo ch’è propriamente affetto? Il cuore,
o un altr’organo. Poi: da che cosa è prodotto? Anche: qual’è
l’affezione propria, non dell'organismo intero, ma di quel- l'organo? Si
dirà ch’è una specie d’immobilità? Sì, ma per quale affezione propria e
primitiva di un organo ha luogo quell’ immobilità?
CapPiTtoLO V. Poichè alcune cose esistono senz’esser generate, o
non esistono senza che perciò siano perite, ad es., il punto (*)
(dato che si possa parlare della sua esistenza) e, in gene- rale, le
specie e le forme; e poichè non la bianchezza di- viene, ma il legno
bianco — se ogni cosa che si genera, si genera da qualcosa e diviene
qualcosa —; non basta, dunque, che ci siano due contrari perchè si
generino l’uno dall’altro: un uomo nero diventa bianco, ma non si può dir
nello stesso (1) «Il movimento
del sole è, senza dubbio, Evexé tov, e così quello della luna; ma i due,
agendo insieme, possono produrre un risultato che non è Évexé tou» (Ross,
a q. l.): l'eclissi è, dunque, un esempio di quel taùrépatov, di cui si
parlò in VI. 2-4 e VII. 7. (2) Efficiente: che, in questi casi, si
accompagna alla formale in sostituzione della finale (Ilnddove, nelle
cose che si generano secondo natura, la causa for- male è insieme finale,
$ 4, anzi efficiente-finale). (3) Cfr. III. 5,10. 3045
a 272 METAFISICA modo che il nero diventi bianco.
Aggiungi che non in ogni cosa c’è materia, ma in quelle soltanto che si
generano e passano le une nelle altre: tutte quelle che ci sono o
non ci sono, senza quel passaggio, non hanno materia. Sorge qui la
questione: come si comporta la materia di ogni cosa rispetto ai contrari?
Per es., se il corpo ha in potenza la salute, e alla salute è contraria
la malattia, ha, dunque, in potenza tutte due? E l’acqua è in potenza
vino e aceto? Ovvero essa è materia del primo secondo la sua natura
e per rispetto alla forma, e del secondo per privazione e per una
degenerazione contro natura? Si può domandare anche perchè, sebbene
l’aceto venga dal vino, il vino non è ma- teria dell’aceto e aceto in
potenza. E l’essere vivente, simil- mente, è forse un cadavere in
potenza? Non pare: la dege- nerazione non è mai sostanziale; ma è la
materia dell’essere vivente quella che nella degenerazione è materia e
potenza del cadavere, così come l’acqua dell’aceto. L'una cosa,
qui, vien dall’altra nello stesso modo, che la notte dal giorno
(!). Quando il passaggio tra gli opposti è in questo modo, bi-
sogna rimontare sino alla materia d’entrambi: per es., affinchè dal morto
si generi il vivo, bisogna che quello ri- torni prima alla materia, e da
questa poi si avrà il vivo; e l’aceto ridivenga acqua, per poi diventar
così vino. CaPITOLO VI. Ripigliamo la questione
sollevata intorno alla definizione e al numero: qual’è la causa della
loro unità? Poichè tutte le volte che le cose hanno parti molteplici e il
tutto non è (1) Cfr. XII. 4, 5: l'aria è la loro materia comune.
Questa, dunque, può avere un processo di evo!zimento (l’acqua diventa
vino), o di degenerazione (aceto); onde soltanto per accidens si può dire
che il vino diventa aceto. Così il vivo non è il morto in potenza (quasi
che questo fosse l’atto di quella potenza: l'atto è sempre una realtà
superiore): scomparendo la forma, con la morte, resta la materia, e
questa è che si corrompe (e ridotta alla materia originaria può
riprendere di qui il processo ascensivo verso la vita). Ricorda, per la
generazione dei contrari, il Fedone, 70d 88. (ho)
LIBRO OTTAVO 213 come un mucchio, ma è qualcosa di totale
oltre le sue parti, dev’esserci qualcosa che sia la causa della loro
unità (‘). Lo vediamo anche nei corpi: talora è un’esterna adesione la
causa della loro unità, talora una coesione interna, o altra condi-
zione del genere. La definizione è una serie di parole che ha unità, non
per un collegamento di parti similmente al- l’ Iliade, ma perchè di
un’unica cosa. Che cos'è, per es., che fa l’unità dell’uomo, e perchè è
uno e non molti, animale e bipede? Alcuni dicono, per l'appunto, che
esiste un animale in sè e un bipede in sè. E perchè, allora, l’uomo
non potrebb’essere quelle due cose, ed esser uomo per parteci-
pazione, non del concetto di uomo e di un’unica essenza, ma di due,
animale e bipede? In breve: l’uomo non sarebbe, così, una cosa sola, ma
più: animale e bipede. È chiaro che per questa via, abituale a quei che
in tal modo definiscono e parlano, non si riesce a dar conto e a
sciogliere la que- stione. Se, invece, come noi dieemmo, l’una cosa è
materia e l’altra è forma, l’una è in potenza e l’altra in atto,
quel che si cercava non apparirà più dubbio (’). La difficoltà
sarebbe la stessa come se la definizione di « vestimento » (5) fosse «
bronzo sferico »: poichè quel nome sarebbe il segno del concetto, e
rimarrebbe quindi a sapere la causa per cui la sfericità e il bronzo
fanno una cosa sola. Ma la difficoltà scompare, se si fa osservare che
l’uno è materia e (1) Nota in questo concetto il deciso superamento
dell’empirismo, come già in VII. 17, 8 88. (2) Cfr. VII. 12. Ma in
questo capitolo il pensiero è portato a un punto più chiaro e decisivo
per il concetto dell’atto che in questo libro accompagna o sostituisce
quello della forma. Qui il dualismo è superato: materia e forma non 8’
intendono, e non esistono, l'uno fuori del rapporto all’altro (e così
essenza ed esistenza, individuo e universale): è la forma stessa che dà
ragione del sinolo nel processo di determinazione di questo dalla
potenzialità all’attualità. Per il $ 1 osserva lo Schwegler (che ha
spesso acute considerazioni per il lato filosofico): « Ci sono due specie
di unità: quella dell'aggregato e quella organica. Nelle produzioni
organiche della natura, ad es., il tutto non è un prodotto, ma, invece, il
prius e la ragione del prodursi delle parti. Soltanto ciò che ha unità
formale, ha una ragione del suo esser uno; tuttavia anche i corpi
inorganici, 6e fanno un insieme, hanno un principio, esteriore, per la
loro unità » {p. 151). (3) Cfr. VII. 4, 7: per accentuare, con l’unità
del nome, l’unità della definizione. ARISTOTELE, Metafisica,
18 Q74 METAFISICA l’altra è forma. E qual’è la causa
per cui l’essere potenziale 5 diviene attuale? Non ce ne può esser altra,
nelle cose sog- gette al divenire, fuori di quella efficiente. Nè può
esserci causa diversa, per cui l’essere ch’era sfera in potenza è
ora sfera in atto, se non la pura essenza, ch'è la ragion d’essere
di ciascuno dei due. ' La materia poi può essere o sensibile o
intelligibile (*). 6 E il concetto si compone sempre di una parte ch’è la
ma- teria e di una ch’è l’attualità sua: per es., cerchio è una
certa figura piana. Le cose, invece, che — come individua- 7 lità,
qualità, quantità — non hanno materia nè sensibile nè 1046 b
intelligibile, sono immediatamente ciascuna qualcosa che ha unità e
realtà per se stessa (?). Questa è anche la ragione 8 per cui nelle
detinizioni non han luogo nè l’essere nè l’uno: chè la pura essenza è
immediatamente, per se stessa, qual- cosa che ha essere e unità, onde
nella definizione e nella pura essenza non c’è bisogno di chiedere altra
causa, fuori di loro stesse, della loro unità e realtà: poichè ciascuna
quel certo essere e quell’unità determinata, che le competono, li
(1) La distinzione, qui, ha altro senso che in VII. 10, 18 (dove
riguarda le cose). Nella definizione il genere è materia intelligibile.
(Anche materia sensi- bile, se la definizione è, in più largo senso, del
composto e della cosa sensi- bile: cfr. VII. 7, 12; VIII. 2, 6-7).
(2) Tali sono le categorie. « Ch'esse non abbiano materia intelligibile, è
chiaro: materia intelligibile noi diciamo i generi, e delle categorie non
c'è un genere, chè sono esse i generi somml e non è possibile che ci sia
una natura che li sor- passi in generalità. Ma neppure hanno materia
sensibile, perchè questa è delle cose composte e sensibili, non già delle
cose semplici e intelligibili: ora, l’indi- vidualità e la quantità e le
altre categorie sono realtà semplici e intelligibili »: Alessandro (562,
32). Noi le diremmo concetti puri: efr. VII. 9, 8-9. — Per l'ente” e
l'uno, cfr. III. 4,31 ss. Il tne può esser inteso per le pure essenze in
generale (cfr. IX. 10,7; X. 1,4), 0 per quella delle categorie (così il
Ross). Nel primo caso l’immediatezza e molteplicità dovrebbero esser
risolte ($ 5) nell'unità mediata del pensiero definitorio, quando questo
fosse considerato, non più in una logica discorsivo-soggettiva, ma
nell'attività del nous che in essa si esplica. Questo punto è molto
oscuro in A., per il quale il nous è il primo principio logico-gno-
eeologico, e però principio e fine anche della verità del pensiero dianoetico;
ma l’atto della vénaws non perciò si risolve nel processo di esso: chè
nell'uomo, come fn Dio, esso è, por se stesso, immobile (e il suo proprio
oggetto è semplice, senza composizione). Cfr. IX. 10, 6-9; XII. 9,8. Nel
secondo caso si dovrebbe inten- dere la definizione (delle categorie) in
senso molto largo. 10 11 12
13 LIBRO OTTAVO 215 ha immediatamente, per se stessa,
e non come se li ricavasse dall’ Ente e dall’Uno considerati come suoi
generi, ovvero come se questi esistessero separatamente oltre ciascuna di
esse. Intanto, questa difficoltà ha dato occasione ad alcuni di
parlare di partecipazione, senza che poi abbiano saputo dire quale sia la
causa della partecipazione, e in che consista questo partecipare. Altri
parlano di associazione psichica, e, per es., Licofrone (') dice che la
scienza è un’associazione del sapere con l’anima; e c’è chi dice che la
vita è una composizione o collegamento di anima e corpo. Ma, così, si può
ripeter sempre lo stesso discorso: e l’esser sano sarà
un’associazione o composizione o collegamento, che dir si voglia,
dell'anima con la salute; e il triangolo di bronzo sarà una
composizione di bronzo con triangolo, e il bianco una composizione di
una superficie con la bianchezza. La ragione per cui parlano così è
ch’essi cercano un concetto unificatore e insieme la diffe- renza della
potenza e dell’attualità. Ma, come noi abbiamo esposto, la materia ultima
e la forma sono una e medesima cosa (°), l’una in potenza, l’altra in
atto. Sarebbe come se uno cercasse la causa dell’unità e dell’esser uno
un oggetto: chè uno è qualsiasi oggetto, e l’essere in potenza e
l’essere in atto sono in certo modo una cosa sola. Sicchè non c’è
qui altra causa dell’unità tranne quella motrice, che fa pas- sare
l’essere dalla potenza all’atto. Ciò, invece, ch'è imma- teriale, è
sempre e assolutamente un’unità per se stesso (?). (1) Sofista
seguace di Gorgia: cfr. Zeller, IS, 1323 (n. 3). (2) f toyxktn Gin xal #
poegà taòrò xal Év (come gradi di un processo unico, ma cfr. nota a IX.
8, 1). Questo non hanno inteso coloro (Platonici e altri) che, dopo aver
separate le due cose, cercano «un concetto unificatore ». (3) Qui par
chiaro che (in contrasto con le cose soggette al divenire) si parla del
tne in generale, e delle specie esistenti come puro atto (di cui alla nota
a VII. 8, 3). Così vien conchiusa la polemica contro l’ Uno e l'Ente dei
Platonici, risolvendo l’astrattezza di questi principii nella
determinatezza del tne (che ha unità e realtà immediatamente per se
stessa: $ 7), o del xéde x (in cui l'unità e realtà del tne si media nel
processo della potenza-atto: per quanto ricompaia quì l'immediatezza del
tne nell’identità dei due termini materia-forma, o si ri- mandi il
principio unificatore della loro dualità a una causa motrice o efficiente,
$ 5, la quale può essere esteriore all’attualità del c68e t.: l’uomo che
genera l'uomo. o lo scultore che produce la statua). LIBRO
NONO CapPiTOLO I. 1 Noi abbiam parlato dell'essere
fondamentale, cioè della sostanza, ch’è ciò a cui tutte le altre
categorie dell’ essere si riferiscono: chè in grazia del concetto di
sostanza consi- deriamo come reale tutto il resto: la quantità, la
qualità, e quant'altro si predica di essa in questo modo: tutte
impli- cano il concetto della sostanza, come dicemmo nei ragio- 2
namenti precedenti. Ma, poichè dell’essere si parla, per un rispetto,
come qualcosa di determinato, o come quantità o qualità; per un altro,
come potenza e come atto finale, e come il realizzarsi di questo (4), —
dobbiamo adesso passare 3 a dir della potenza e dell’atto finale. E
cominceremo dalla potenza nella sua principale e più propria
significazione, ancorchè non sia quella che più c’interessa qui (*):
poichè 1046 a (1) Eoyov è tanto l’azione o funzione che realizza
il fine (tò téAi0g), quanto la cosa in cui questo si è realizzato. Più
difficile ancora è tradurre èvreAéyera [forse, da vò tvredèg Egov, 0
Evreiws Exov: Ross]: atto finale, sia nel senso che ha il fine in 8è, e
sia nel senso che esso è il fine a cui tutto il resto tende come alla
pro- pria perfezione. In questo secondo significato easo vuol essere atto
puro, atto in atto, onde ogni potenzialità sia risolta nell’attualità
piena e perfetta del t6be tu (che ha realizzato, così, il tne). Nel primo
significato èvr. è, più generalmente, l’attività (#véoyea) o principio
efficiente del processo che porta la potenza a risolversi nell’attualità,
la materia nella forma o pura essenza del reale. Cfr. nota a VII. 13, 1.
(2) In Metafisica (chè il movimento è oggetto, più propriamente, della
Fisica). Alla l. 36: yenarpotamn (Ab, Aless.). 278
METAFISICA potenza ed atto si estendono molto al di là delle cose
con- siderate meramente in rapporto al movimento. Dopo di aver
accennato alla potenza in quella significazione, illustreremo, nella determinazione:
dei concetti riguardanti l'attualità, anche gli altri suoi significati.
Altrove (‘') abbiamo spiegato già come le parole Potenza e Potere
si possono adoperare in molti sensi. Lasceremo qui da parte tutti quelli
in cui si parla di potenza per semplice omonimia: chè alcune si chiamano
potenze soltanto per una certa somiglianza: ad es., in geometria
possibile o impossi- bile dicesi quel che è o non è in certo modo.
Ma quelle che appartengono alla stessa specie, tutte hanno carattere di
principii, e vengono riferite ad un unico concetto originario della
potenza, ch’è quello di esser principio di mutamento in altro o in sè in
quanto altro. C'è, infatti, la potenza di patire, che nel paziente stesso
è il principio di mutamento passivo per opera di altro o di sè in quanto
altro; così come c’è l’abito per cui una cosa non può patire peg-
gioramento o distruzione da un principio di mutamento che sia in altro o
in sè in quanto altro. Tutte queste definizioni contengono il concetto di
potenza nel suo senso originario. E potenze poi chiamansi medesimamente
sia quelle del fare o patire in generale, sia quelle del fare o patire in
maniera conveniente: sì che anche nel concetto di esse è immanente
in certo modo il concetto delle potenze dette dianzi. È dunque evidente
che la potenza del fare e quella del patire esistono, per un rispetto,
come una sola e medesima potenza, e per (1) Vedi V.12
(e note per la traduzione dei termini). In generale, potenza è iu primo
luogo la facoltà o capacità di dar principio a un processo di mutamento
in altro, o in 8è in quanto altro (come se un medico curi se stesso: egli cura
sè, paziente, in quanto altro da sè, agente); o di ricevere questo
processo. La po- tenza è, quindi, o attiva o passiva: quest'ultima è o di
patire in generale, o di ricevere un mutamento in meglio (o in peggio):
potenza attiva e potenza pas- siva, quindi, possono esser ristrette al
senso dell’agiro o patire bene (in modo conveniente rispetto a un fine).
Come nota il Bonitz (p. 379), questa distinzione si complica con l'altro
significato del Buvarév e dduivarov, di ciò ch'è « possibile » o
«impossibile ». Nè A. tiene abbastanza distinti questi due punti di vista:
l'uno reale; l’altro logico-reale, in assoluto, o in senso empirico (di
ciò che può acca- dere, o no): ch'è un senso affine a quello dell’
èvSeyxbpevov. 10 11 LIBRO NONO 279
altro rispetto come cose diverse: poichè fornito di potenza è un
oggetto tanto se ha la capacità di patire esso stesso per opera di altro,
quanto se ha quella di far patire un altro per opera sua. Per un
rispetto, infatti, la potenza è in quel che patisce, perchè esso patisce
ciò che patisce, ed è altro dall’agente, in quanto ha in sè un certo
principio a essere [e a non-essere], ed è là materia un tal principio:
così, il grasso è infiammabile, e ciò ch’è fragile si può far in
pezzi, e via dicendo similmente per gli altri casi. Per altro
rispetto, la potenza è nell’agente, per es. il caldo o l’arte di
costruire è l’uno nel calorifero, l’altra nel costruttore. Per cui, se
in un essere i due aspetti non sono distinti, non può patir nulla
da sè: esso è uno e identico con sè, e non diverso da sè. La mancanza di
potenza, poi, o impotenza, è la priva- zione ch'è il contrario di tale
potenza: onde ogni potenza si oppone a un’impotenza, dello stesso oggetto
e per lo stesso rapporto. Ma di privazione si parla in molti sensi ('):
priva- zione c’è se l'oggetto non ha certe qualità, semplicemente;
o non le ha mentre naturalmente dovrebbe averle, o sempre, o quando
dovrebbe averle: e in quest’ultimo caso se ne manca in un modo
determinato, per es. perfettamente, o ne manca in ogni modo. E in certi
casi parliamo di privazione anche per quelle cose a cui la violenza ha
tolto ciò che avrebbe naturalmente. CaPITOLO II.
Poichè principii siffatti trovansi e negli esseri inanimati e in
quelli animati, nell'anima e in quella parte di essa provvista della
ragione, è chiaro che anche delle potenze alcune sono irrazionali, altre
s'accompagnano alla ragione. Tutte le arti e scienze poietiche sono
potenze: principii, cioè, di mutamento in altro o nell’agente in quanto
altro. Tutte quelle dotate di ragione sono, ognuna, potenza in-
sieme di contrari; di quelle irrazionali ognuna è potenza di (1)
Così anche in V. 22. 1046 b 280 METAFISICA
un solo contrario: ad es., il caldo ha la potenza di scaldare
soltanto, mentre la scienza medica riguarda tanto la malattia quanto la
salute. E la ragione è che la scienza è concetto, e 3 uno stesso concetto
fa vedere insieme il fatto e la sua pri- vazione, ma non nella stessa
misura, perchè, pur essendo il concetto di entrambi, fa vedere piuttosto
il lato positivo. Sì che anche ognuna di dette scienze sarà, insieme, dei
con- trari: dell’uno, tuttavia, per se stessa, dell'altro non per
se stessa: poichè il concetto riguarda l’uno per se stesso, l’altro
in certo modo per accidente (‘). Esso fa vedere, infatti, il contrario
negativamente e per rimozione: chè il contrario del fatto consiste nella
privazione originaria, e questa si ot- tiene con la rimozione del
contrario positivo. E poichè i con- 4 trari non possono esser insieme
nello stesso oggetto, e la scienza invece per la sua razionalità è una
potenza quale 8’è detta; e poichè l’anima ha in sè il principio del
movi- mento, — avviene che, mentre ciò ch’è salubre produce sol-
tanto la salute, e il calorifero soltanto calore, e il frigorifero
soltanto freddo, l’uomo che sa produce amendue i contrari. Poichè il
concetto abbraccia ambedue, sebbene non nella 5 stessa maniera, e ha sede
nell’anima, la quale, possedendo in sè il principio del movimento, e
unendo col pensiero i contrari nello stesso oggetto, li può muovere (?)
entrambi in virtù del medesimo principio. Ecco perchè le potenze
agenti razionalmente, abbracciando i contrari con un unico prin-
cipio, la ragione, operano contrariamente a quelle che della ragione sono
sfornite. (1) Così come il non-essere è un essere per accidente,
non in sè e per sè. Nel pensiero, tuttavia, il rapporto è più profondo: i
due concetti sono uniti; anzi uno è la negazione (&rmégpaars), la
rimozione (&ropopd) 0 privazione originaria (reotm, radicale),
dell'altro (del positivo): dal quale soltanto ricava il proprio
significato. C'è un accenno, rilevato dallo Schwegler (p. 160), al
concetto della mediazione. Infatti, il principio di entrambi è il
medesimo ($ 5). (2) Produrre (i concetti contrari dell'oggetto, i. e.
l’oggetto stesso della con- trarietà). If principio del movimento è
l’appetito, comune agli animali. Ma l'uomo soltanto è potenza attiva
capace di produrre effetti contrari, perchè presenti in- sieme nel guo
pensiero, e questo solo fa dell'appetito una volontà consapevole (Si può
trovare, così, un accenno al libero arbitrio). L'animale non sa, ed è,
per ciò, come le cose, che non hanno possibilità di scelta.
LIBRO NONO 281 6 È evidente anche che alla potenza di operare o
patire in modo conveniente si accompagna sempre la potenza difope-
rare o patire semplicemente, laddove a questa non si accom- pagna sempre
quella: per la ragione che, se si opera bene, . necessariamente,
anzitutto, si opera; ma non per il fatto di operare, semplicemente, segue
di necessità che anche si operi bene. CapiToLO III.
1 Ci sono alcuni, ad es. i Megarici, i quali dicono che il potere
c’è soltanto quando c’è l’azione, e che quando l’azione non c’è, neppure
c’è il potere: per cui, poniamo, se uno non costruisce, non ha il potere
di costruire, ma l’ha chi è costruttore quando costruisce; e negli altri
casi, similmente. Non è difficile vedere in quali assurdità vanno a
conchiu- 2 dere. Poichè è chiaro che nessnno sarebbe più
costruttore se non costruisce, laddove esser costruttore è esser in grado
di costruire; e così dicasi per le altre arti. Se, dunque, è impossibile
che possegga tali arti chi non le ha una volta imparate e apprese, ed è
impossibile che uno non le pos- segga più se non le perde (o per
dimenticanza, o per qualche 1047 a malattia, o perchè è passato molto
tempo: non certamente perchè intanto sia andata distrutta l’arte (‘): chè
essa c'è sempre): come il costruttore perderebbe l’arte quando
cessa di costruire, e come poi di nuovo l’acquisterebbe appena si
3 mette di nuovo a costruire? E dicasi lo stesso per le cose inanimate:
nè il freddo, nè il caldo, nè il dolce, nè in gene- rale nessuna cosa
sensibile esisterà più se noi non la sentiamo: sì che ad essi accadrà di
ripetere il ragionamento di Prota- gora (*). E neppure possederà la sensibilità
chi noh si trovi (1) Lett.: l'oggetto (me&iypa) dell’arte, il
concetto. Questo capitolo e il se- guente si attaccano meglio al cap. I.
(2) Cfr. IV. 5-6. Costoro, dunque, accentuano della dottrina protagorea
il mo- mento attualistico (nel senso puntualistico, dell'istante
temporale). Per quanto riguarda il concetto della possibilità, che
costoro fan coincidere con quello della realtà (dell'essere,
riannodandosi, così, all'affermazione parmenidea, che esclude 282
MBTAFISICA a sentire effettivamente, in atto. Se, quindi, cieco è
chi, pur fornito da natura della vista, non vede quando sarebbe in
condizione di vedere, accadrà che uno stesso, perdurando ad essere,
diventerà molte volte al giorno cieco e sordo. Inoltre, se impotente (')
si-deve dire ciò ch’è privato della potenza, ciò che non è già in
divenire sarà impotente a divenire, e mentisce quindi chi afferma che ciò
ch’è impotente a divenire è o sarà: poichè questo appunto si vuol dire con
«impo- tente ». Ma, allora, con questi ragionamenti si sopprimono
il movimento e il divenire: ciò che si trova in uno stato, sempre starà
in quello, e chi è seduto starà seduto sempre, e chi si siede non potrà
alzarsi più: poichè, chi non ha la po- tenza di alzarsi, è impotente ad
alzarsi. Se, dunque, questi son discorsi che non reggono, è manifesto che
potenza e atto non sono la stessa cosa, e poichè, invece, quei discorsi
fanno della potenza e dell’atto una sola cosa, bisogna dire ch’
essi cercano di sopprimere una differenza che non è trascurabile.
Invece, noi diciamo che ben può darsi che qualcosa abbia la potenza di
essere, e intanto non sia, e abbia la potenza di non essere, e intanto
sia; e che la cosa sta similmente per tutte le categorie, onde, ad es.,
chi ha la potenza di camminare può anche non camminare, e chi ha ia
potenza di non camminare può anche camminare (?). Un essere ba una
certa potenza se non c’è nessuna impossibilità ch'egli il
nou-essere e il divenire), e intorno al significato della testimonianza di Dio-
doro Crono in proposito (sul quale v. Zeller, II4, 1, 269), v. MEIER, in Archiv
f. Gesch. da. Philos., XIII. 31, e le considerazioni del Ross (a q. l.).
(1) O «impossibile » (&8yvatov): qui sono conglobati i due
significati, della potenza reale e della possibilità logica; e la tesi
vien presentata da A., così: Se impotente (impossibile) è ciò che non può
(non ha la potenza di) essere, di questo non si può dire nè che è, nè che
sarà: può essere soltanto ciò che attual- mente è anche quello che sarà o
non sarà. — Ciù che già non è in divenire, ciò che non sta accadendo,
attuandosi (yiyvépevov, meglio di yevépevov). (2) LI. 23-24: fadlterv e
6v, invece di fadltov e eivar (così anche il Ross). Per accentuare di più
il concetto di possibilità bisognerebbe tradur quel che segue, così: «
Possibile è una cosa se non c'è nessuna impossibilità (nessun as- surdo)
che abbia luogo l'atto di ciò di cui quella dicesi aver la potenza». Una
contaminazione dei due concetti è necessaria ad evitare l'apparenza, almeno
verbale, di un circolo vizioso. LIBRO NONO 283
traduca in atto ciò di cui dicesi aver la potenza. Voglio dire, ad es.,
che se uno ha la potenza di sedere e si trovi a dover sedere, non c’è
nessuna impossibilità, per lui, di passar al- l’atto. E similmente se si
tratta d’esser mosso o di muovere, di situarsi o di situare, di essere o
divenire, di non essere o non divenire. La parola «attività»,
implicante un rapporto all’ entele- ‘chia o atto perfetto, sebbene estesa
ad altri significati, trae origine principalmente dalla considerazione
dei movimenti, poichè sembra che il movimento soprattutto sia attività.
Ecco perchè alle cose che non esistono nessuno attribuisce movi-
mento, bensì alcuni altri predicati: si dice, per es., che sono pensabili
o desiderabili cose che non esistono; ma non che siano in movimento: e
questo perchè, altrimenti, cose che attualmente non esistono dovrebbero
già esser in atto. 1047 b Ben è vero che, delle cose che non esistono,
aleune hanno la possibilità di esistere; ma non esistono, in quanto
non ancora è cominciato il processo finale che le realizza (!).
CapPitoLo IV. Ora, se « fornito di potenza» è quel che s'è
detto (in quanto ne è una conseguenza) (*), è manifesto che non si
può esser nel vero dicendo: questo è possibile, ma non si realizzerà mai:
giacchè, in questo modo, ci sfuggirebbe che ci son cose che non posson
essere. Prendiamo un esempio: se uno dicesse che la diagonale è possibile
misurarla, ma non (1) L'èvéeyera sembra, qui (6-9), distinta dalla
xivnois, in quanto questa ri- guarda il principio di mutamento in altro
(I, 5), quella, equivalendo all’evreréyera (nel primo significato, di cui
alla nota 1, 2), è attività che realizza se stessa (come Sè o come altra?
cfr. XII. 9, 5-6). Il pensabile non esiste fisicamente, e però non gli si
attribuisce movimento; pure può esistere nel processo di realizzazione
del- l'attività del pensiero, se questo si pone a pensarlo. (2)
dvvatév è quando non c'è nessuna impossibilità ecc., come al $ 7 del ca-
pitolo precedente. — Costoro, attualizzando l’eusere parmenideo, sopprimono
la distinzione tra ciò che ha e ciò che non ha la potenza di realizzarsi
(tra « possi- bile » e «impossibile »: tutto è possibile, anche se non
avverrà mai). 284 MBTAFISICA sarà misurata mai,
perchè niente vieta che una cosa che può essere o divenire, non sia ora
nè in seguito, — costui ragionerebbe come se non ci fossero casi
d’impossibilità. Invece, da quel che s’è stabilito dianzi deriva
di necessità che, affinchè sia lecito anche solo supporre l’essere o il
di- venire di una cosa che non esiste ancora, ma è possibile,
bisogna ch’essa non racchiuda nulla d’impossibile. Ma nel caso accennato
si avrebbe qualcosa d’impossibile: chè la diagonale e il lato non sonò
commisurabili. Si badi che il falso e l'impossibile non sono la stessa
cosa: che tu stia in piedi ora, è falso, ma non è impossibile (').
E chiaro è, insieme, che se, A essendo, è necessaria- mente 8, allora, se
A è possibile, dev’ essere possibile anche B: poichè, se questa
possibilità non seguisse di necessità, niente impedirebbe la possibilità
ch’esso non sia neppure. Poniamo, ora, che A sia possibile. Allora, una
volta che 4 è possibile, se si pone che 4 sia realmente, nulla d’
impos- sibile dovrà risultarne. Allora, anche B dev’essere reale.
Invece, si voleva sostenere ch’è impossibile. Poniamo, allora, (1)
Vero e falso possono riguardare soltanto la logica discorsiva (10, 4; VI. 4,
3), ma anche la verità o falsità reale: nel qual ultimo caso,
l'impossibile, coinci- dendo col contradditorio, è anche il falso (cfr.
V. 12, 8-9 e 29, 1). L'impossibile, invece, qui, non è il contradditorio,
semplicemente, ma «ciò che non ha la potenza di realizzarsi ». Il
ragionamento mira dunque ad affermare la necessità che la potenza, 6e è
reale, passi (o abbia l’effettiva capacità di passare) all’atto: si rea-
lizzi, cioè, quandochessia, poichè non presenta nessuna difficoltà, reale e
logica, interna. Così mi par da intendere anche quel che segue, in cui il
rapporto tra A e 8 non dovrebb'esser pensato come rapporto tra due
realtà, ma come rap- porto tra due concetti e momenti del processo
(potenza e atto) della stessa realtà. (In Anal. Pr., I. 15. 34 a, 5, dove
è lo stesso ragionamento, il rapporto è tra pre- messa e conseguenza nel
sillogismo ipotetico). Non si scordi, infatti, che A. qui polemizza
contro l’affermazione megarica Buvatrdv pèv toòl, oùx Eorar dé: ch'è
inaccettabile, dice A., perchè, dato che A e B sian due concetti di cui l’uno
ri- chiama l’altro, non si può affermare la possibilità o realtà dell'uno
senza affer- mare la possibilità o realtà dell'altro. Il passaggio dalla
potenza all'atto è, quindi, logicamente necessario, e ancho realmente, data
la concezione determi- nistica universale di A., per il quale ogni
processo, essendo in qualche modo sempre già iniziato, deve pervenire al
suo compimento; ma, poichò la questione è qui realistica anche in senso
empirico, il passaggio o compimento può non esser determinato nel quando
e nel come. Cfr. nota a VI. 3, 4 per il concetto dell’accidente e del
caso. 2 3 LIBRO NONO 285
che B sia impossibile. Se B è impossibile, impossibile ne- cessariamente
è anche A. Ma s'era posto che A fosse pos- sibile: allora, anche B è
possibile. Se, dunque, A, è possi- bile, anche B sarà possibile, dato che
A e B siano in tale relazione che la realtà dell’uno porti di necessità
la realtà dell'altro. Se, trovandosi A B in quella relazione, la
possi- bilità di B non stesse a questo modo, allora neppure 4 B
avranno tra loro la relazione che s'era posta. Se, invece, quando A è
possibile, di necessità anche 2 è possibile, dato che A sia reale, sarà
necessariamente reale anche B: poichè, che l’esser possibile di B
consegua di necessità se l’essere di A è possibile, vuol dire appunto
questo: che, dato che A sia possibile, quando e come è possibile, anche
la possi- bilità di B e il quando e il come di essa son dati.
CaPiToLO V. Di tutte le potenze che possediamo, parte sono
congenite, come quelle dei sensi; parte si acquistano con
l’abitudine, come quella di suonar il flauto; ovvero con
l’insegnamento, come quella delle arti ('). Quelle che si acquistano con
l’abi- tudine e col ragionamento, esigono di necessità un prece-
dente esercizio dell’attività. Quelle invece che non s’acqui- stano così,
e le potenze passive, di quel precedente esercizio non han bisogno.
Una potenza è sempre una potenza determinata a qual- cosa, e in
certo tempo, e in certo modo, e con tutte le altre condizioni che debbono
far parte della definizione. E ci sono esseri che han potenza di muovere
secondo ragione, e di cui le potenze s’accompagnano perciò alla ragione;
altri sono sprovvisti di ragione, e le loro potenze sono
irrazionali. Le prime necessariamente esistono in esseri animati, le
se- (1) Per es., l’arte del medico. Questo capitolo prosegue
l’argomento del cap. 2. E si richiama alla nota dottrina aristotelica
dell'atto che precede l’'Egts tin cui consiste la virtù: etica e
dianoetica): v. Eth, Nic., II, 1-5; VI. 1-4. 1048 a
286 MBTAFISIOA conde possono esistere negli animati e in quelli
inanimati. Queste ultime potenze son sì fatte che, quando l’agente e
il paziente s’incontrano in modo conforme alla loro potenza, di
necessità l’uno agisce e l’altro patisce; per le potenze razio- nali,
invece, tale necessità non c’è. Quelle, infatti, son tutte tali che una
di esse può produrre uno solo dei contrari; queste, invece, entrambi; sì
che, se tale necessità valesse anche per loro, produrrebbero insieme i
contrari: il che è impossibile. Bisogna, allora, che sia qualch’altra
cosa quel che decide (‘). Voglio dire il desiderio o la scelta
razio- nale: quello dei due contrari che l’animale ragionevole ap-
petisce definitivamente, quello farà, quand’ egli si trovi con-
formemente alla sua potenza e in contatto con ciò che può ricevere la sua
azione. Per cui, necessariamente, l’essere che ha potenza conforme a
ragione, fa, quando lo desidera, tutto ciò di cui ha la potenza, e nel
modo che l’ha. Egli ha, tuttavia, tale potenza se il paziente è presente
e nelle condizioni determinate: altrimenti, non potrà operare. Nò
c’è bisogno di aggiungere nella determinazione che niente di fuori faccia
impedimento: perchè ognuno ha la potenza nel modo in cui questa è potenza
effettivamente, e questa non è potenza di operare in qualsiasi modo, ma
in condi- zioni determinate; e in ciò è implicita anche
l'esclusione degl’ impedimenti esteriori, in quanto questi sopprimono
al- cune delle condizioni essenziali alla determinazione. E così
pure, se uno volesse o desiderasse far nello stesso tempo due cose
diverse o anche opposte, non potrà furle: poichè non è così ch’egli ha la
potenza di fare quelle cose, e non esiste potenza di farle insieme; egli
farà soltanto ciò di cui ha, e come ha, la potenza (*).
_—— (1) Un principio interno, non esterno: la volontà, ossia
l'appetito illuminato dalla ragione (principio delle virtù etiche),
ovvero la ragione mossa dall'appetito (principio delle virtà
dianoetiche): per l’5peew e la xooalgeow v. Eth. Nic., VI. 2. (2) Nota
il riflesso della legge dei contrari (IV. 5,4) nella potenza dell'agire
umano, e la determinazione storico-empirica dell'atto volontario, in cui
l'antitesi libertà-necessità è risolta nel senso del secondo
termine. un 7 9 1
LIBRO NONO 287 CapitoLo VI. Dopo aver parlato
della potenza considerata in rapporto al movimento, passiamo a trattare
dell’atto per determinare quel ch’esso è, e i suoi caratteri. Con questo
anche la po- tenza verrà chiarita, pur che si ponga mente alla
distinzione per cui noi diciamo dotato di potenza non soltanto ciò
che muove naturalmente altro o da altro è mosso, senplicemente o in
modo più determinato, ma anche in un significato di- verso: che è quello
pel quale abbiam condotta anche la ri- cerca su i precedenti significati.
L’atto è l’esistenza stessa dell’oggetto, non nel senso in cui
diciamo ch’è in potenza (noi diciamo ch’è in potenza, ad es., un Ermete
nel legno, o la metà di una linea nella linea intera, in quanto si può
cavarla da questa; e diciamo che uno è un pensatore anche se non sta
speculando, perchè è in grado di speculare): intendiamo, invece, che sia
in atto. Ciò che vogliam dire diventa chiaro ricorrendo a casi par-
ticolari, induttivamente: non bisogna esigere definizione di tutto, ma
bisogna talora contentarsi d’intuire il significato dei termini nel loro
rapporto (‘). L’atto, dunque, sta alla po- tenza come il costruire al saper
costruire, l’esser desto al dormire, il guardare al tener chiusi gli
occhi pur avendo la vista, come l’oggetto cavato dalla materia ed
elaborato com- piutamente sta alla materia grezza e all'oggetto non
ancora finito. Con il primo dei membri di questa differenza inten-
diamo che venga determinato l'atto, con il secondo la po- (1) tò
dv&hoyov ovvogiv (ho svolto il concetto di proporzione; ma qui è com-
preso anche quello di analogia nel senso più comune). Per il pensiero, cfr. 8.
Tom. (1826): «Nam prima simplicia definiti non possunt, cum non sit in
definitionibus abire in infinitum: actus autem est de primis simplicibus,
unde definiri non po- test». Vedemmo già (VIII. 6, 7 n.) un equivalente
in A. del moderno «concetto puro ». In questo senso, anche, è
anapodittica la filosofia prima (ma, poi, per lui gi tratta di principi
primi nel senso di ciò ch'è dato immediatamente all'origine del
conoseere: cfr. i passi di Anal. Post. cit. in nota a I. 9, 91). Pure, per la
parte di verità ch'è in tale intuizione, non è giustificata l'accusa
ch'egli, per definire certi concetti, ne adoperi altri che già li
presuppongono. 1048 b 288 MBTAFISIOA
tenza. Ma non tutte le cose si dicono in atto nel medesimo 6 significato,
salvo che non s’intenda analogicamente, come quando si dice: questo sta
in questo o a questo nello stesso modo che quello sta in quello o a
quello. Esse, invece, sono in atto, parte, come il movimento in rapporto
alia potenza; parte, come la sostanza in rapporto a una certa materia
('). Per l’ infinito (*), tuttavia, e pel vuoto, e per tutte le cose
7 di questa specie, si parla di potenza e atto in significato -
diverso da quello, più usuale, di quando diciamo, ad es., che uno guarda,
o cammina, o che un oggetto è veduto. Queste affermazioni possono talora
corrispondere a una realtà vera e propria: noi diciamo che una cosa si
vede, o perchè è veduta effettivamente, o perchè è in condizione d’esser
ve- duta. L’infinito, invece, non è mai in potenza nel senso che
possa poi diventare in atto una realtà esistente per se stessa: esso è
infinito in potenza per il pensiero. Poichè dal fatto (1) Nel
primo caso l'atto (attività) è definito dal rapporto tra due momenti del
procosso che realizza la forma (questo a questo: per es. il materiale
grezzo in rapporto alla costruzione della casa, o chi è seduto
all'alzarsìî e camminare); nel secondo, come attualità della forma
determinata (questo in questo: la casa esistente, Socrate che cammina).
L’eévéoyera è qui distinta dalla x(vnaws, non nel primo significato
dell’EvreAéyewa (v. nota a 3, 9), ma nel secondo. (2) Il Ross (II, 252)
riassume brevemente, dalla Phys. (III. 4-8), la dottrina di A. su
l’infinito. L’estensione è infinita, per A., soltanto nel senso della
divi- sibilità: xatà dualgeswy, non xatà nedodeav (delle sue parti). Il
numero, invece, infinito (&irergov, indefinito) xatà snodateaw, nel
senso della possibilità di pen- sarne sempre uno maggiore; non xetà
Bdialgearv (chè dividendo si perviene all'ultimo limite, all'unità). E la
sua infinità non è reale fuori del suo processo. Il tempo soltanto è
infinito xatà Sualpeaw e x. rododeorv : infinitamente divisibile e
realmente infinito; ma la sua infinità è, come quella del numero, in
continuo divenire. — Quanto al vuoto, similmente (P/ys., IV. 6-9): per
quanto una materia si pensi più rarefatta di un’altra, non esiste spazio
senza qualche materia. Si può aggiungere che, proprio per questo
rapporto tra spazio e materia,. A. concepisce l'estensione come finita; e
che il tempo è per lui infinito nel senso in cui è eterno il movimento
(cfr. XII. 6, 2), ossia il divenire stesso. E che l'in- finità del
numero, così come quella dello spazio, è veduta nell’attività del pen-
eiero che si esercita su l'oggetto, per sè, sempre finito. Così pel vuoto: solo
col pensiero si può vuotare lo spazio di ogni contenuto. Probabilmente A.
polemizza qui contro la dottrina democritea, oltre che contro i
presupposti delle argomen- tazioni zenoniane e le conseguenti
applicazioni della scuola megarica. — Un’espo- sizione della dottrina,
tratta spec. dai libri di fisica, è in A. CovotTiI, Le teorie dello
spazio e del tempo nella filosofia greca fin aà A. (Pisa, 1897).
10 LIBRO NONO 289 che non si trova mai la fine a
dividere, si deduce che questo è un atto che ha una realtà puramente
potenziale, non che l'infinito abbia una propria attuale esistenza (').
Delle azioni che hanno termine (*), nessuna ha valore di fine, ma
soltanto di mezzi al fine: per es., il termine del dimagrare è la
magrezza, e se quel che d
imagra si riguarda così, quando è in questo movimento che non ha
raggiunto ancora lo scopo per cui il movimento avviene, non si può
dire che ciò costituisca un’azione, o, per lo meno, un’azione perfetta:
perchè non è questo il fine. Ma quando nel movi- mento si trova il fine,
allora esso è anche azione. Per es., l’atto del vedere è quello stesso di
aver veduto, quello di pensare e intendere è quello stesso dell’aver
pensato e in- teso; invece, quello di chi impara non è lo stesso di chi
ha imparato, nè quello di chi guarisce è lo stesso di chi è gua-
rito. L’atto del ben vivere è quello stesso dell’aver vissuto bene, e
quello dell’esser felice è lo stesso in chi fu felice. Altrimenti,
bisognerebbe una volta arrivare al termine del movimento, come quando si
fa la cura di dimagrare. Qui, invece, no: chè si seguita a vivere,
sebbene si sia vissuto —__ f1) Non ostante
l’incertezza (l’infinito, in quanto indefinito, ha pure una sua esistenza),
è chiaro ad A. che il concetto d'un infinito attuato è contraddittorio
(onde sì fa strada il sospetto che la vera infinità è soltanto del
pensiero). Cfr. XI. 10. Il Bonitz accusa A. perchè, mentre prima aveva
definita la potenza, contro i Megarici, come capacità di attuarsi,
l'attribuisce qui, mira levitate, a un oggetto che tale capacità non ha.
Ma l’infinito non è un oggetto nel senso delle cose, intorno alle quali
verte la disputa precedente. E in ogni modo era da notare con meraviglia
anche il lato profondo, messo allo scoperto da A., in tale contraddizione.
(2) Il brano seguente, sebbene il pensiero dominante sia abbastanza
traspa- rente, è nel testo tra i più guasti di tutta la Metafisica. Esso
manca nel codice parigino E (sec. X), nel commento di Alessandro e in
quello di 8. Tommaso, e nella traduzione del Bessarione. C'è nel codice
laurenziano Ab (sec. XII). Acco- Gliendo alcune congetture del Bonitz (p.
397) sul testo, si può intendere cosi: il dimagrare ha per fine la
salute, non il fatto della magrezza a cui pon capo il movimento del
dimagrare; e se azione o attività è aver il fine ultimo in sè, 80l- tanto
l’atto che non si esaurisce in un termine o fine particolare, ma rimane
essenzialmente identico a sè attraverso i momenti del procéèsso, è perfetto, ed
è vera e propria attività formale: tale è l’atto del vedere, del pensare,
del vivere, della felicità. Così la perfezione dell’ &vreAéyera (nel
secondo significato) abbassa a x{wnow ogni altra forma di attività (anche
quella dell’apprendere). ARISTOTELE, Metafisica. 19
290 MBTAFIBICA già. Di questi processi, dunque, gli uni son da
dire movi- 11 menti, gli altri attività; poichè ogni movimento è
imperfetto: il dimagrare, l’apprendere, il camminare, il costruire: i
quali sono, appunto, movimenti, e però incompiuti. Infatti non è 12
possibile che coincida il passeggiare con l’aver passeggiato, il
costruire con l’aver costruito, il divenire con l’esser di- venuto, o il
muoversi e l’essersi mosso, e il muovere e l’aver mosso: chè son cose
diverse. Invece, l’atto del vedere e quello d’aver visto, del pensare e
dell’aver pensato, coinci- dono. Ora, un processo di quest’ultima specie
io lo chiamo attività; l’altro, movimento. CapiTtoLO
VII. Da queste e altre simili considerazioni crediamo chiarito
1 quel ch’è l’essere in atto e i suoi caratteri. Ora vogliamo
determinare quando ciascuna cosa è in potenza, e quando non è: poichè non
in qualsivoglia tempo è tale. Per es., 1049 a la terra è in potenza già
un uomo, o non ancora, ma piut- tosto quando già è divenuta sperma? E
forse neppur allora. Avviene qui come per la salute: non ogni cosa può
esser guarita o dalla medicina o da sè spontaneamente, ma ci vuol
qualcosa che abbia tale potenza, e cioè abbia già la salute in potenza.
Per le cose che dipendono dal pensiero si può 2 definir la questione
così: esse passano dall’essere in potenza all’atto, quando siano volute e
niente faccia impedimento dal di fuori; e dall'altra parte, in chi ha da
guarire, niente faccia impedimento di quel ch’è in lui ('). Dicasi
similmente 3 di ciò che deve diventare una casa: esso è una casa in
po- (1) Alessandro (583, 12): « Per es., il medico conduce il
malato dalla potenza alla salute, quando se lo sia proposto e non ci
siano impedimenti esteriori: il luogo, il tempo, ece.: così dunque si
dovrà definire l’atto dell'agenterazionale; quello del paziente, invece,
dal non esserci impedimenti interiori: perchè un malato guarisca, si
richiede, infatti, che tutte le sue membra siano in condi- zione idonea a
ricevere la salute ». LIBRO NONO , 291 tenza se
niente faccia impedimento di quel ch'è in esso, sl che alla materia che
deve diventar casa, non ci sia nulla da aggiungere, nè da togliere o
mutare. E altrettanto dicasi per tutte le altre cose di cui il principio
generatore è fuori. Per quelle, invece, di cui il principio generatore è
in loro, esse hanno tale potenza allorquando, nessun ostacolo
inter- venendo di fuori, si realizzeranno da sè. Lo sperma, ad es.,
non ancora ha tale potenza, abbisognando di passare in altro e
trasformarsi. Solo quando una cosa sia in grado di realiz- zarsi per un
principio suo proprio, si può dire ch’è già in potenza: lo sperma,
invece, ha bisogno d’un altro princi- pio ('): così come la terra non
ancora è statua in potenza, ma deve trasformarsi e divenir bronzo.
Come ognuno può notare, dell’oggetto non diciamo ch'è questo (in cui è in
potenza), ma ch’è fatto di questo: l’ar- madio, poniamo, non è legno, ma
di legno; e il legno non è terra, ma di terra; e la terra, a sua volta,
se deriva da altro, non è quest’altro, ma è fatta di quest'altro. E
que- st’altro è sempre, propriamente, la potenza di quel che vien
subito dopo: per cui, ad es., l'armadio non è terra, nè di terra, ma di
legno: chè questo è armadio in potenza, e questa è propriamente la
materia dell’armadio (dell’armadio in ge- nerale, il legno in generale;
di questo armadio particolare, questo legno particolare). Che se
s'incontra qualcosa di pri- mitivo, che non venga più denominato da altro
come fatto di esso, allora quello è la materia prima: se, per es., la
terra è di aria, e l’aria è di fuoco, e il fuoco non venisse
denomi- nato da altro, allora il fuoco sarebbe la materia prima
(?). Questa, poi, soltanto se diviene qualcosa di determinato, è
sostanza. Infatti, in questo differisce il sostrato o soggetto:
(1) Il risultato dell'unione è, poi, propriamente, la materia come potenza
con- creta dell'essere umano (come principio già del processo
generatore). (2) La quale ha, quindi, sempre qualche determinazione:
soltanto in rapporto a ciò che diventerà (poniamo, l’aria), è materia
priva di forma. Ho seguito nel testo l'emendamento proposto dal
Christ (conforme ad Aless., 589, 24). Per 5-6, efr. VII. 7, 19-16.
1049 b 292 MBTAFISICA secondo ch'è, o no, un
«che determinato » (‘). Il sostrato 8 delle affezioni è, ad es.,
un uomo, un corpo, un’anima; e affe- zioni sono l’ esser musico o bianco.
E quando la musica diviene nell’uomo, noi non diciamo che egli è la
musica, ma musico, così come non diciamo ch'egli è la bianchezza, ma
bianco, non è la passeggiata o il movimento, ma passeggia o si
muove: così come dianzi dicevamo di un oggetto ch’esso è fatto di questo
o quello. In tutti i casi di questo genere il sostrato ultimo è la
sostanza. In quelli, invece, in cui non sì tratta di un’affezione, ma
quel che vien predicato è una forma e alcunchè determinato, allora
l’ultimo sostrato è la materia o sostanza materialmente considerata. In
ogni caso, si conchiude che drittamente l’oggetto, che diciamo fatto
così o così, prende questa denominazione dalla materia e dalle
affezioni: perchè quella e queste sono indeterminate (?). Quando,
dunque, si deve dire che un oggetto è in po- tenza, e quando no, — s’è
detto. CapirtoLo VIII. Dopo quanto fu determinato dei
vari significati in cui si parla di priorità (*), risulta chiaro che
l’atto è prima della, potenza. È intendo non soltanto della potenza che
fu da noi definita come principio di mutamento in altro o in sè in
quanto altro; ma, in generale, di ogni principio di movimento (1)
Alla 1. 28: xa@'ob (invece di xa#6Aov): proposto dall’Apelt, accolto dal
Ross. Il sostrato, o soggetto, o è un téde ti, sostanza ch'è il soggetto delle
de- terminazioni secondarie; ovvero è la materia, di cuî si predica la
determinazione essenziale, la forma. Cfr. VII. 3, 7 e 13, 1. (2)
«Il bianco », o la bianchezza, è un indeterminato, se non venga aggiunto
{(aggettivamente, come per la materia) a «uomo», o a «Socrate ». (3)
Lib. V. 11. Per quel che segue, cfr. De Caelo, III. 2. 301b, 17: « La
natura è principio del movimento immanente alla cosa stessa; potenza,
invece, è prin- cipio di movimentò in altro in quanto altro» (o in sè in
quanto altro). Sarà, dunque, immanente alla cosa in quanto sè? Ma, da un
lato, l’alterità è necessaria al movimento; dall’altro, come parlare di
un sé della cosa? A. si limita a porre, qui come altrove, entrambe le
esigenze: la dualità dei termini, e l’unità del processo (equivalente,
per A., all'identità dei termini: cfr. anche 1, 7-10). 10
Il LIBRO NONO 298 o d’inerzia. La natura,
infatti, appartiene allo stesso genere della potenza, come quella ch'è
principio di movimento, seb- bene non in altro, ma nella cosa in quanto è
essa stessa. Di ogni potenza, dunque, così intesa, l’atto è prima,
e pel concetto e per la sostanza; per il tempo, in un senso sì, in
un senso no. Che sia prima quanto al concetto, è evidente, poichè
for- nito di potenza, nel senso originario del termine, è ciò che
ha la possibilità di passare all’atto: per es., chiamiamo co- struttore
chi ha la potenza di costruire, veggente chi è in grado di vedere, e
visibile ciò che si può vedere: così dicasi per gli altri casi. Sì che
necessariamente il concetto di atto precede quello di potenza, e la
conoscenza dell’uno quella dell’altro. Esso, poi, è prima quanto
al tempo in questo senso: l’in- dividuo attivo è prima di quello in
potenza in quanto è lo stesso per la specie; invece, considerato nella
sua identità numerica, è prima in potenza, e poi in atto. Mi spiego:
di quest'uomo qui ch’è già in atto, o di questo frumento o di
quest’occhio che vede, c’è prima, in tempo, la materia, il seme, la
facoltà visiva, i quali sono uomo, frumento, occhio che vede, in potenza,
non ancora in atto. Tuttavia li prece- dettero altri esseri in atto, dai
quali essi furono generati. Poichè sempre dall’ente in potenza si passa
all’ente in atto in virtù di un ente in atto: ad es., l’uomo vien dall'uomo,
il musico vien dal musico, Sempre deve precedere un mo- tore, e questo è
già in atto. Abbiamo già visto ne’ ragiona- menti intorno alla sostanza
(!) che ogni cosa che diviene, diviene qualcosa, da qualcosa, e per opera
di qualcosa ch'è della stessa specie di essa. Per cui si vede
anche l’impossibilità che uno divenga costruttore se non ha mai costruito
nulla, o citaredo senza aver mai suonato la cetra: poichè chi vuol
imparare a suonar la cetra, suonandola, impara a suonarla. E similmente
per ogni arte. Di qui prese nascimento l’argomentazione sofistica
——— (1) Lib. VII. 7-8. 294 METAFISICA
che non c’è bisogno di possedere la scienza per fare ciò di cui
questa tratta ('), perchè, finchè uno impara la scienza, non la possiede.
Se non che, come di ciò che diviene qual- cosa già dev’essere divenuta, e
in generale di ciò che si muove qualcosa deve già essersi mossa (questo
punto fu illu- 1950 a strato nei libri intorno al movimento) (*);
così, chi “apprende una cosa, deve necessariamente conoscerla già
in parte. Anche per questa via, dunque, risulta chiaro che l’atto,
pur da questo lato, del processo generativo e del tempo, è prima
della potenza. Ma anche in riguardo alla sostanza l’atto è prima
della potenza: prima di tutto, perchè quel che pel divenire è ul-
timo, per la forma sostanziale è prima: per es., l’adulto è anteriore al
fanciullo, e l’uomo allo sperma: l’uno ha già realizzata la specie che
l’altro non ha ancora. In secondo luogo, ogni cosa che diviene muove
verso un principio e un fine: lo scopo di una cosa ha valore di
principio, e il divenire è per il fine: questo fine è l’atto, ed è in
grazia di esso che si pone la potenza: chè l’animale non vede a fin
d’aver la vista, ma ha la vista per vedere. Similmente, anche l’arte del
costruire c’è per il costruire, e l’abito spe- culativo per lo speculare:
e non è già che gli uomini spe- culino per aver l’abito speculativo:
salvo il caso di coloro (1) Lett.: «cho chi non possiede la
scienza può far ciò di cui questa tratta »: per es., sonare la cetra.
Cfr. EthA. Nic., II. 1 e 3. La scienza è in atto nel maestro (col quale,
in certo modo, fa tutt'uno lo scolaro). Nota il solito avvicinamento
della produzione naturale a quella umana (consapevole). (2) Phys., VI.
6. Anche nell’individuo, dunque, se si guarda al processo in sò
dell’attività (superando il dualismo tra l'esterno e l’interno), l’atto
precede la potenza (questa è già attività). Chè, come il sapere vien dal
sapere (cfr. I. 9, 94; Anal. Post., I. 1. 71 a, 1), così l’attività non può
venir che dall’attività stessa. Inavvertitamente A. sorpassa la
distinzione posta al $ 4 tra l'individuo e la spocie empiricamente intesi
(termini da lui stesso riconosciuti astratti altrove) e il Ssi- gnificato
meramente cronologico del tempo (in cui l’argomentazione, come ognun sa,
non può esser conchiudente): questo gli si fa equivalente al divenire
sostan- ziale dell'individuo come suo svolgimento interno (conforme al
concetto di quo al 6 1). Cfr. note a 6, 7 e VII. 1, 4. — Le
considerazioni che seguono, riguar- dano l'atto come principio finale e
formale del processo stesso di svolgimento, secondo il canone
fondamentale di A., onde ciò che in esso è posteriore spiega quel che
vien prima. 10 ll 12
13 14 15 16 17
LIBRO NONO 295 che lo fanno per esercitarsi, dei quali si può dire
ch’ essi non speculino veramente, tranne che in certo senso, 0 che
di speculare non sentono ancora veramente il bisogno (4). Inoltre, la
materia è in potenza perchè può pervenire alla forma; ma quando sia in
atto, allora è già formata. E così di- casi delle altre cose, anche di
quelle di cui il fine è il movi- mento (?): onde, in quel modo che gl’
insegnanti pensano d’aver raggiunto lo scopo quando han potuto mostrare
lo scolaro in azione, così fa anche la natura. Se così non avvenisse,
sa- rebbe il caso dell’ Ermete di Pausone: anche la scienza, come
quella statua, non si saprebbe se è fuori o dentro (*). Poi- chè l’azione
è fine, e l’atto è azione: per cui il nome stesso di atto (4) si dice in
rapporto all’azione, ed esprime la ten- denza alla realizzazione finale.
In alcuni casi, poi, il fine ultimo è nell’uso stesso della potenza, per
es., della vista è il vedere, e niun’altra opera si attende dalla vista fuori
di questa. In altri casi, si realizza qualcos’altro oltre l’atto:
per es., per l’arte del costruire c’è la casa oltre l'atto del costruire.
Tuttavia non si può dire che l’atto sia meno il fine della potenza in
questo caso, e più in quello (*): poichè l’atto del costruire si esercita
nell’oggetto che vien costruito, e il suo processo si realizza insieme
con la casa. In quelle (1) Queste parole «quomodo sint
interpretanda, equidem me non intelligere confiteor ». Bonitz (p. 403);
anche per il Ross (II, 262) sono « excessively difficult ». Mi sono
avvicinato al Lasson (p. 154). (2) ... Stesso: com'è il caso
dell’apprendere (in coi non c’è una materia che attende di passare nella
forma, come per la casa); o del vedere (in cui il fine ultimo è l’uso
stesso della potenza). (3) « Questo Pausone, statuario, fece un'immagine
di Ermete in una certa pietra, e chi guardava vedeva nella pietra Ermete;
ma non era chiaro se fosso fuori della pietra o dentro di essa»: Aless.
(588, 29). Ma Pausone era un pittore (avrà Aless. pensato a III. 6, 9; V.
7, 7, ecc?). Secondo il Ross, si trattava di un'illusione pittorica, — Se
è (soltanto) fuori (il sapere: come un’abilità verbale); oppure: se è
(soltanto) dentro (come mera potenza). (4) azione: Eeyov; atto:
evéoyera; realizzazione finale: èvtedéyera. (5) Nel secondo caso pare
che i! fine della potenza non sia l’atto (il co- struire), ma il fatto
(la casa). Ma non è così, dico A.: «quia ipsa actio est in facto, ut
aedificatio in eo quod aedificatur. Et aedificatio simul
fit et habet esse cum domo »: $. Tom. (1863). Gli altri (meno
bene) intendono: Nel primo caso (del vedere) l’atto è fine; nel secondo
(del costruire) è fine più della mera potenza. 296
METAFISICA cose, quindi, in cui vien prodotto qualcos'altro oltre
l’uso della potenza, in esse l’atto si mostra in ciò che vien
fatto: per es., il costruire nel costruito, il tessere nel tessuto,
e similmente per altre cose; e, in generale, l’atto del movi- mento
è in ciò che vien mosso. Quando, invece, non c’è qualche altra opera
oltre l’atto, questo è tutto nel soggetto stesso dell’attività: per es.,
il vedere nel veggente, il pen- 1650 b sare nel pensante, la vita
nell'anima, e però anche la feli- cità: la quale, infatti, è una
vita d’una certa specie. Con- chiudendo, è evidente che la sostanza e la
specie sono atto. E, secondo lo stesso discorso, è evidente che, per la
sostanza, l’atto è anteriore alla potenza; per il tempo poi, come
ab- biam detto, si concepisce sempre un atto avanti l’altro, fino a
quello del Motore primo ed eterno. Ma l’atto è primo anche in un più
alto senso: perchè l'eterno è, per la sostanza, prima di ciò ch'è
corrattibile, e nulla di ciò ch’è eterno è in potenza soltanto. La
ragione è questa: ogni potenza è potenza di entrambi insieme i con-
tradittorii, in quanto — mentre il non poter essere non può esistere come
proprietà di nulla — ogni potenza reale, invece, può anche non esser in
atto. Quindi, ciò che ha la potenza di essere può essere e anche non
essere. Ma ciò che può non essere può darsi che non sia, e ciò che può
darsi che non sia è corruttibile, o in senso assoluto, o per quel
che di esso dicesi che può non essere: relativamente al luogo, ad
es., o alla quantità, o alle qualità. Corruttibile, in senso a ssoluto, è
una cosa, se corruttibile è la sua sostanza. Ora, niuna delle cose
assolutamente incorruttibili è, in quel senso, un essere in potenza,
sebbene nulla impedisca che tale sia per qualche rispetto ('): per una
qualità, ad cs., o per il luogo. Le cose incorruttibili, dunque, sono
attuali. E neppure le cose necessarie posson esser in potenza, e
nondimeno esse sono originariamente (*) esistenti: chè, se queste non
esistes- (1) Gris pBPagrév = p#. xatà ovolav (nascere e perire);
in senso relativo (xatà 0), ciò che muta di quantità, di qualità o di
luogo. Ofr. VIII. 1, 8 (e nota). (2) ne@bta: è probabile che queste cose
necessarie siano i principii primi in senso logico e insieme réale.
18 19 20 21 22
23 24 LIBRO NONO i 297 sero,
nulla esisterebbe. E se c’è un movimento che sia eterno, neppur esso è in
potenza; e se esiste un essere eternamente * mosso, non è
possibile che sia mosso in potenza, salvo che 25
26 27 non ci si riferisca a un punto di partenza o di
arrivo ('): chè per questa specie di movimento può bene ammettersi
che sia provvisto d’una materia. Per questa ragione è sempre in attività
il Sole, e gli Astri, e il Cielo tutto quanto, e non c’è da temere che
mai si fermino, come han paura i Fi- sici (*): chè il loro operare non li
stanca. E non li stanca perchè il loro movimento non riguarda, come
quello delle cose corruttibili, la possibilità dell’una o dell’altra
parte della contradizione (*), che renderebbe faticosa la continuità del
movimento. Causa di tal fatica negli esseri corruttibili è l'essere
materiale, e potenziale, non attuale, della sostanza. Pure, anche le cose
mutevoli, come la terra e il fuoco, si sforzano d’imitare quelle
incorruttibili: anch’esse, infatti, hanno in sè e per sè il movimento
(‘), onde sono in continua attività. Ma le altre potenze, di cui s’è
ragionato, son ca- paci di contradizione in quanto, quel che ha potenza
di muover così, può muovere anche non così: quelle, s'intende che
agi- scono secondo ragione. Le potenze irrazionali, invece, son
capaci di contradizione solo in quanto possono esser presenti o assenti
(°). (1) « Quia licet non sit in potentia ad moveri simpliciter,
est tamen in po- tentia ad hoc vel ad illud ubi»: S. Tom. (1876). Per la
materia meramente tori, v. n. cit. dianzi a VIII. 1, 8. (2) Sembra
alluda specialmente ad Empedocle: cfr. De Caelo, II. 1, 2842, 24. (3)
L'essere e il non-essere, tra i quali ha luogo il nascere-perire
(mutamento i sostanziale). (4) «Il movimento è una
specie di vita in tutti gli esseri costituiti natural- mente » (Plys.,
VIII. 1.250 b, 14). Ein De Gen. et Corr., II. 10. 337 a, 2: « Anche le
altre cose, quante si mutano le une nelle altre, per es. i corpi semplici,
imitano il movimento di traslazione ;circolare ». Ovvero, si accenna alla
continuità del movi- mento (spaziale) degli elementi in generale (Aless.,
593, 12); 0 a quello in giù della texra, in su del fuoco (v. Ross, a q.
l.). (5) Ciò ch'è salubre produce sempre e soltanto la salute, ma può
esserci, e anche non esserci (e in questo caso non produrla). Cfr. cap.
2,4 e 5, 4-5. La pos- sibilità logica (contraddizione) e quella reale
(contrarietà) si alternano in questo paragrafo, come nel 21. Per entrambi
i p. d. v. si distinguono queste altre po- «onze dalle precedenti
(eterne). 298 METAFISICA Sia pure, dunque, che
esistano certe nature o sostanze 28 del genere di quelle che sostengono
coloro che dei concetti fanno altrettante Idee; ma chi fa della scienza
esisterà con 1061 » maggior ragione della scienza in sè, e ciò che si
muove molto più che l’idea del movimento: poichè questi esseri sono
a maggior titolo attività, e quelle idee, invece, sono meramente loro
potenze. Che, dunque, l’atto è prima della potenza e di ogni prin-
29 cipio di mutamento, è manifesto. CapiToLo IX.
Che poi, in confronto alla potenza del bene l’atto sia mi- 1
gliore e più degno di onore, si vedrà da quanto segue. Tutto ciò che noi
diciamo esser in potenza, ha il potere di realiz- zare l’uno e l’altro
contrario ugualmente: quel che diciamo, ad es., poter esser sano, è lo
stesso che può anche esser ma- lato, ed ha la potenza delle due cose
insieme: poichè la po- tenza di esser sano è la stessa di quella di esser
malato, così come quella di esser in riposo o in movimento, di co-
struire o di abbattere, di esser costruito o abbattuto. Ma se il potere
dei contrari si trova ad esser insieme, è impos- sibile, poi, che questi
esistano insieme, ed è impossibile che sì trovi insieme la loro
attualità, per es., che uno sia sano e malato insieme. Di qui vien la
necessità che soltanto uno dei contrari realizzi il bene, laddove la
potenza è di entrambi similmente, o di nessuno dei due. L’atto è, dunque,
mi- gliore. Che se si tratta del male, la compiutezza dell’atto 2
dovrà, necessariamente, esser peggiore della potenza: chè questa è tanto
al bene quanto al male, medesimamente (*). (1) L'atto, per sè, è
perfezione, sempre, anche se di cose cattive: cfr. V. 16. 2. Qui, del
resto, si parla di perfezione naturale, non morale. Cfr. l’&getà quow
in Eth. Nic., II. 6. 1106 a, 15: «Ogni virtù perfeziona il ben condursi
di ciò di cul è virtù e rende pregevole la sua operazione: per es., la
virtù del- l’occhio fa l'occhio valente e valente l'operazione sua;
parimenti la virtù del 3 LIBRO NONO 299
È evidente, quindi, che il male non esiste fuori delle cose quaggiù,
poichè esso esiste, per natura, posteriormente alla potenza. Ed anche
questo è evidente: che ne’ principii primi e negli esseri eterni non han
luogo nè il male, nè manca- mento, nè corruzione (anche la corruzione è
una specie di male). Anche i teoremi geometrici si trovano per
mezzo dell’at- tività, poichè si trovano facendo delle divisioni (‘). Se
queste fossero già eseguite, quelli sarebbero evidenti. Così, sono
soltanto in potenza. Ad es.: perchè gli angoli del triangolo fan due
retti? Si sa che gli angoli in ogni punto d’una linea sono uguali a due
retti: se, dunque, fosse già tirata la paral- lela a un lato (?), la cosa
sarebbe chiara al primo colpo d’oc- chio. Perchè l’angolo nel semicerchio
è sempre retto? Per questo che, quando dei tre segmenti uguali, di cui
due for- mano la base, si è elevato il terzo perpendicolare dal centro
al vertice, chi già sa che la somma degli angoli è di due retti, vede
subito chiaro (5). cavallo fa il cavallo valente e buono al corso
e a portare il cavaliere e a so- stenere l’impeto dei nemici ». Non
opportuno, quindi, il rilievo del Bonitz (p. 407): «iudicium morale de
bono et mali immisceri falso iis rebus, a quibus illud est alienum ». Nò
è erroneo il ragionamento che segue, come pensano il B. e il Ross (II,
268), se si tien presente il passaggio, abituale in A., alla posizione
0g- gettivistica, onde gli atti risultan graduati in corrispondenza delle
cose stesse e delle loro potenze (assolutamente buone, come quelle
incorruttibili; capaci di esser buone o cattive, o sempre cattive, come
quelle corruttibili). E tà redypata (ch'io ho tradotto: «le cose di quaggiù
») non oppongono le cose cattive in ge- nerale all'Idea del male (come
Aless. e i moderni intendono): chè il discorso varrebbe anche per l’Idea
del Bene; ma le cose corruttibili alle incorruttibili. (1) Srargovvteg:
ch'è operazione affine all'&varterv (benchè qui prevalga il senso
costruttivo), in cui consiste l’attività della è.&vora. V. passo di Erk.
Nie., citata in nota a VII. 7, 7. E ric. il metodo dieretico di Platone.
(2) Dall'estremo della base, e prolungando questa (come nella nota dimo-
strazione di Euclide). (3) Vede subito chiaro che i due triangoli
uguali, in cui è stato scomposto quello inscritto nel semicerchio, sono
rettangoli isosceli, sì che l’angolo intero alla circonferenza risulta di
due metà di un retto. A. sceglie il caso più evidente (perchè gl’isosceli
son qui rettangoli); ma, com'è noto, il metodo di dimostra- zione è lo
stesso anche per gli altri casi (congiungendo il centro del cerchio col
vertice del triangolo si ottengono pur sempre due isosceli, con due retti al
centro, e due coppie di angoli uguali). — Dei tre segmenti uguali due
formano il diametro, il terzo è il raggio perpendicolare alzato dal
centro. 300 3 MBTAFISICA In conchiusione, è
manifesto, che ciò ch’è in potenza noi 6 veniamo a scoprirlo riportandolo
(') all’atto. E la ragione di ciò è che intendere è attualizzare. Onde
dall’atto vien la potenza. E perciò, anche, le cose le conosce chi le fa.
L’atto è posteriore alla potenza nel divenire soltanto dell’
individuo numericamente considerato. CapitoLO X (?).
Dell’ essere e non-essere si parla o riferendosi alle figure 1
1051 b delle categorie, ovvero alla distinzione di potenza e atto per
ogni cosa che in esse si predica, e pel suo contrario (*); 0, anche, in
quanto vero e falso nel lor più proprio significato. In quest’ultimo
senso l’essere è considerato nelle cose in 2 quanto può essere composto o
diviso. Per la qual cosa è nel vero colui che pensa esser diviso ciò ch’è
diviso, e composto ciò ch’è composto; è nel falso, invece, chi pensa
altrimenti di come le cose stanno. Ora, si chiede: Esiste o non esiste,
3 (1) O portandolo? Il Ross preferisce ky6peva ad
àvaysueva. Ma, comunque si preferisca, il problema è lo stesso, e involge
tutto il pensiero aristotelico in un nodo che può, giustamente, sembrare
insolubile. La verità del teorema, come ogni verità, vien da noi
«scoperta » in quanto già c’è. Ed è in atto, in sè, seb- bene soltanto in
potenza per noi in quanto la dobbiamo ancora scoprire; e la scopriamo
riconducendola 8a quell’atto in cui il nostro intenderla coincide con
l'esser suo stesso: si che la dualità, in questo punto, cessa, e noi possiamo
anche dire che l’abbiamo conosciuta perchò l'abbiamo prodotta (sa chi
fa). — Intendere è attualizzare: vénow tveoyera (meglio, col Ross:
Î vénars èvée.: altrimenti, bisognerebbe forse intendere che l’atto
dell'oggetto è un atto del vos stesso: il che è troppo vero per esser
asserito, così semplicemente, da A. qui). — Per l'individuo numericamente
considerato, v. capitolo precedente, 4. (2) È dubbio che questo capitolo
sia stato scritto originariamente per esser posto a questo punto. I
richiami a V. 7, 4-7e a VI. 2, 1-3 e 4,4 non sono decisivi su ciò. Cfr.
JAEGER (Entst., 49; Arist., 211). Invero, il rapporto tra il pensiero
discorsivo e la verità reale, tra l'unità del ne e l'atto di apprenderlo,
non è questione estranea all'argomento dei libri VII (cfr. Sommario per
capp. 4 e 10), VIII (capp. 3 e 6), IX (4, 3 e capp. 8 e 9). Dianzi s'è
pur trattato di quelle sostanze semplici ed eterne delle quali si
ripiglia qui a parlare. Ma è il tono che, soprat- tutto, non si accorda
con quello. complessivo della ricerca precedente. (8) Il non-essere di
ogni cosa in ogni categoria. — Nel lor più proprio signi- ficato: il
testo vuole forse « nel suo più proprio 8. », riferito all'essere. Ma cfr.
VI. 4, 4; nè sarebbe conforme al modo di pensare di A., sembra.
LIBRO NONO 301 quel che noi intendiamo per vero o per falso?
Bisogna bene che sappiamo quel che diciamo. Considera, infatti,
che, non perchè noi ti reputiamo bianco, tu sei bianco davvero; ma,
all'incontro, perchè tu sei bianco, pensiamo il vero noi che ti diciamo
bianco. Orbene, l'essere di alcune cose è sempre unito e non può mai
venir diviso, in altre invece è sempre diviso e non può mai
congiungersi, in altre infine può trovarsi ne’ due modi opposti (‘). Se,
dun- que, l’essere di una cosa consiste nella composizione sì da
formare un’unità, e il suo non-essere nella divisione sì da formare una molteplicità,
nelle cose che possono trovarsi in entrambi i modi la medesima
affermazione può esser vera e falsa, potendo ben avvenire che una volta
si sia nel vero, e un’altra nel falso. Invece, nelle cose che non
possono esser altrimenti di quel che sono, non avviene che una
volta si sia nel vero e un’altra nel falso, ma si è sempre o nel
vero o nel falso. Ma quando l’essere di una cosa è semplice (?), in
che consiste il suo essere o non essere, e come di essa si può
‘dire il vero o il falso? Chè non è già componibile o scom- ponibile, sì
che esista quando c’è la composizione e non esista quando c’è la
divisione (come è il caso del legno di color bianco, o della diagonale
che non è commepnsurabile). Qui il vero e il falso non può aver luogo
nello stesso modo che nelle cose dette prima (*), e, come il vero, così
anche (1) Es: il triangolo e l’uguaglianza della somma degli
angoli a due retti; la diagonale e la sua commensurabilità al lato del
quadrato; Socrate e il suo camminare. V. per quel che segue, note a V. 29
e VI. 4: in questo secondo venne accentuata sul primo la soggettività
della sintesi-dieresi, in cui consiste il giu- dizio affermativo o
negativo, e il vero o falso; qui si ricerca, invece, con un passo ulteriore
sul secondo, la corrispondenza oggettiva a quel principio logico-
soggettivo. (2) Si potrebbe intendere delle pure essenze in generale, in
sè e per sè, 6 delle categorie (cfr. VIII. 6, 7-8), e dei principii primi
nel senso gnoseologico (IX. 8, 23); ma anche, e forse meglio, in senso
esietenziale, degli esseri immate- riali (cfr. VII. 16, 7). (3)
Comprese (come l'esempio della diagonale dimostra) quelle che sono sempre
vere o false nel giudizio. Qui vero == intendere (e il suo oggetto); falso
= non intendere, ignorare. 1052 a 302
METAFISICA l'essere non può avere qui lo stesso significato che
là. In queste cose è possibile la verità e l'errore soltanto nel
senso che coglierle (') è già enunciarne la verità (enunciare non è
lo stesso che affermare), non coglierle vuol dire ignorarle. Sbagliarsi
sull'essenza di una cosa non è possibile tranne che per accidente, e così
pure non ci si può sbagliare per quelle sostanze che non sono composte,
perchè sono tutte in atto, e non in potenza: chè, altrimenti, si
genererebbero e perirebbero, laddove l’essere che è in sè e per sè, non
ri- cevendo il suo essere da altro, non nasce e non muore. In
conchiusione, quando l’essere delle cose è ciò che è, in atto, su esso
non è possibile ingannarsi: si può soltanto intendere o non intendere.
Tuttavia, si può chiedere ciò che esse sono, se l’essenza loro è tale, o
no. Per l’essere nel senso del vero e il non essere in quello del
falso, si ha, dunque, nell’un caso, il vero se c’è una composizione, il
falso se questa non c’è; nell’altro caso, se il suo essere è il suo
stesso esser vero, e se non è così, nep- pure è (*). Chè la verità sua
consiste nell’intenderla, e il falso o l’inganno non ha luogo. Ci può
essere ignoranza, ma non come una cecità, chè, allora, vorrebbe dire che
uno non ha addirittura la facoltà d’intendere. (1)
&yeîv, toccare. Cfr. XII. 7. 1072 b, 21 ($ 7). È l’apprensione immediata
del vero e reale: così anche l'atto dell’alo&nors (cfr. IV. 5, 19). E
cfr. anche De An., ITI. 6. 430 b, 26-30: dove pure si accenna alla pdow
come distinta dalla xatapagws; cfr. De interpr., 6. 17a, 25: « Affermare
è enunciare qualcosa di qualcosa ». In- fatti, nel paragrafo seguente, si
concede di chiedere ciò che esse sono (cfr. VII. 4, 13). La distinzione
dei termini (del discorso in generale e di quello che ha valore pro-
priamente logico) non è mantenuta altrove. — Chi chiede, non sa nel senso
che non gi rende conto ancora, e però può sbagliare per accidente.
(2) Passo molto tormentato dagl'interpreti. Mi sono ispirato a S. Tom.
(1915): «Alio vero modo in rebus simplicibus verum est, si id quod est
vere eng, i. e. quod est ipsum quod quid est, i. e. substantia rei
simplex, sic est sicut intelli- gitur; si vero non est ita sicut
intelligitur, non est verum (in intellectu)». To- glierei queste ultime
parole. In A., inoltre, l'equivalenza della verità del pen- siero
all'essere dell’oggetto è posta più immediatamente, anzi sottintesa più
che espressa (di qui una causa dell'oscurità del passo, il quale, in
sostanza, sembra voler affermare che per gli esseri semplici, così come
per la véno, esiste la verità, non l’errore: vero e falso, riguardo a
essi, equivale ad esistere o non esistere). 7
10 11 LIBRO NONO 303 Anche in riguardo
agli enti immobili, finchè uno li con- sidera tali, non è possibile,
evidentemente, cadere in errore quanto al tempo. Mi spiego: a meno che
uno non pensi che la natura del triangolo possa mutare, non potrà
pen- sare che una volta la somma de’ suoi angoli è uguale a due
retti, e un’altra no (altrimenti, la sua natura mauterebbe). Invece, può
darsi che nello stesso genere reputi che un og- getto sia in un modo e un
altro in un altro: ad es., che dei numeri pari nessuno sia primo, ovvero
qualcuno sì e altri no (‘). Ma quando si tratta di un unico oggetto,
questo non è mai possibile, perchè non si potrà già credere che sia
ora in un modo e ora in un altro; ma, riguardo a esso, si sarà
nella verità o nell’errore nel senso che esso rimane eterna- mente
uguale. (1) Ovvero, che il due sia primo, gli altri no
(giustamente, se dei pari; non cosi, se dei numeri in generale). Se
l’oggetto è unico, per es. un tal numero, non il numero in generale,
neppure tale errore è possibile: il giudizio nostro (vero o falso)
implica ch'esso è sempre così. Dell’errore intorno al numero parla anche
il Teeteto, 196 88. 1 LIBRO DECIMO
CaPiITOLO I. Che dell’Uno si parla in molti modi, si disse già (')
di- scorrendo dei molteplici significati di alcuni termini. Ma, pur
dicendosi in vari modi, questi si riducono — per le cose che si dicono
une, non per accidente, ma primariamente e per Se stesse — a quattro
capitali. Uno dicesi, infatti, il continuo, o in generale, o score
tutto quel ch’è tale per natura, e non per contatto o per legame
esteriore; e questo tanto più e più propriamente è uno, se sia di cose il
cui movimento è meno divisibile e più semplice (?). Inoltre, uno,
e a maggior diritto, è l’intiero (?), e ciò che ha qualche figura e
forma: specialmente se qualcosa sia tale (1) V. lib. V. 6: qui si
tralasciano i modi accidentali; e quelli essenziali vengon divisi in
quattro corrispondenti, nell’ insieme, a quelli del lib. V d’indi- viduo
e l’universale sono una distinzione dell'unità dell'atto anche colà
affermata, nel $ 10, ma qui posta a fondamento, oltre che per il
pensiero, anche per le cose). — Invece, prende il priino posto qui la
trattazione colà brevemente accennata (13-15) del concetto dell’unità in
sè e per sò. (2) Per il rapporto tra i due concetti, di continuità
sostanziale e unità del movimento, cfr. nota a V. 6, 5. (3)
All'interezza si accennò anche in V. 6, 12: qui ha maggior rilievo, e de-
termina l'unità del movimento non soltanto in rapporto al tempo, ma anche
allo spazio (tale è, si direbbe, l’atto vitale: f 82 toù èveoyera xs
toriv: Eth. Niec., X. 4. 1175 a, 12, e cfr. ivi, cap. 4, per il piacere,
che nell’atto è sempre intero e perfetto, e in questo senso non è della
specie di movimento che si produce attraverso le varie parti dello spazio
e del tempo). ARISTOTELE, Metafisica. 20 306
MBTAFISICA per natura, e non per forza (come quel ch'è unito con
la colla, con chiodi o corda), ma abbia in se stessa la causa della
sua continuità. E tale è in quanto il suo movimento è unico e
indivisibile nello spazio e nel tempo: così che è evidente che, se una
cosa ha per natura il principio più eccel- lente di quel movimento ch’è
primo (voglio dire, dei movi- menti spaziali, quello circolare) ('), essa
è, tra le cose estese, una per eccellenza. Queste cose, dunque,
sono une così, o per continuità o per interezza. Altre, quando uno sia il
concetto. Tali sono quelle di cui unica è l’intellezione; e tali, quelle
che s’in- tendono con un atto indivisibile. E questo è indivisibile
se sia di ciò ch’è indivisibile per la specie o pel numero. In-
divisibile numericamente è l’individuu; per la specie, ciò ch’è tale per
la conoscenza e per il sapere: sì che prima- riamente uno sarà quel ch’è
causa dell'unità delle sostanze (?). Si dice, dunque, l’uno in tutti
questi sensi: ciò ch’è con- tinuo per natura, l’intero, l'individuo e
l’universale. E l’uno vale per tutte queste cose, in quanto nelle une è
indivisibile 1058 b il movimento, nelle altre l’intellezinne o il
concetto. Ma si ponga mente di non prendere come la stessa que-
stione questa: quali sono le cose alle quali si attribuisce unità; e
l’altra: qual’è l'essenza propria dell’uno e il suo concetto. L’uno,
infatti, si dice in tutti i modi accennati, e ogni cosa, a cui convenga
qualcuno di questi modi, è una. (1) Dei movimenti spaziali quello
circolare è perfetto, per la semplicità (in- divisibilità) e continuità:
tale, quello eterno del cielo: come si dimostra nel cap. 8 del lib. VIII
della Fisica (nel cap. 7 si era dimostrata la superiorità del puro
movimento spaziale, in generale, alle altre forme di movimento proprie
delle cose che si generano e mutano di quantità e qualità: cfr. qui VIII.
1,8; IX. 8, 25; XII. 6,2 7,4). — Cose estese: lett. grandezza (peyedog:
ciò che è o ha grandezza). (2) El principio dell'unità nel sinolo
(sostanza) è la forma, la pura essenza nel pensiero discorsivo, l'atto in
sè nella realtà in generate, e la sua attualità nell'individualità
concreta. — Nota lo scindersi dell’atto della vénows, nel brusco
passaggio alle cose, nelle due categorie supreme del pensiero discorsivo: l’
indi- viduo e l’universale (anzi, in quelle della conoscenza in generale:
il dato della percezione e quello, il concetto, della divora...
L'oscillazione tra questi punti di vieta spiega anche il passaggio tra i
termini di concetto, specie, universale, che ora coincidono e ora non
coincidono nel pensiero aristotelico. LIBRO DECIMO 307
Ma l'essenza dell’uno si dirà, talora, secondo qualcuno di essi;
tal’alra, secondo altro che è anche più vicino al nome, e contiene quelli
in potenza ('). La cosa sta come per elemento o causa: altro è se
uno debba determinare a quali cose si attribuisce, altro se debba dare
la detinizione del nome. Poichè come elemento si può addurre il fuoco (e
certamente l’indefinito per se stesso, 0 altro di questa specie, può
essere un elemento) (2), ma anche non addurlo: chè non è la stessa cosa
esser fuoco ed esser elemento: il fuoco è elemento in quanto è una cosa
parti- colare, esistente in natura; mentre il nome elemento signi-
fica che questo appartiene al fuoco perchè c’è qualcosa di cui esso è la
parte costitutiva e originaria. Così dicasi anche della causa e dell’uno,
e di tutti gli altri termini somiglianti. Per ciò, anche, l’essenza
dell’uno è di esser indivisibile, come quello che è un determinato ed ha
una propria esi- stenza separata per lo spazio o per la specie o per il
pen- siero; o, anche, di esser un intero indivisibile (*); ma, so-
prattutto, di essere la prima misura di ogni genere, e in primo luogo del
genere della quantità: chè di qui si estese agli altri generi.
(1) Passo un po' oscuro. Meglio di tutti, mi sembra, S.
Tom. (1934): « Hoc ipsum quod est unum, quandoque quidem accipitur
secundum quod inest alicui dietorum modorum, puta ut dicam quod unum
secundum quod est continuum, unum est. Et similiter de aliis. Quandoque
autem hoc ipeum quod est unum, attribuitur ei quod est magis propinquum
naturae unius, sicut indivisibili, quod tamen secundum se potestate
continet praedictos modos: quia indivisibile se- cundum motum, et
continuum et totum; indivisibile autem secundum rationem, est singulare
et universale »., Qui si parla, infatti, del concetto puro dell’uno, in
sè e per sè, non in rap- porto alle cose, sebbene si dica che possa esser
concepito anche secondo i modi in cui l’uno si predica delle cose (ossia
come essenza di questi: così intendo il dativo della 1. 6, non, come il
Bonitz o il Ross, quale termine di appartenenza predicativa). — Prù
vicino al nome, ossia al concetto puro (nota l'oscillazione tra il punto
di vista logico puro e quello verbale), è il concetto di misura. (2)
L'indefinito: l'&xergov di Anassimandro (non il fuoco, s'intende).
(3) Un intero indivisibile: par raccogliere l’unità formale e materiale,
di- stinta prima in indivisibilità per lo spazio, per la specie o per il
pensiero, ana- logamente al $ 11 di lib. V. 6.— Il concetto di misura,
dunque, vuol essere un principio conoscitivo per ogni genere di cose,
sebbene si applichi più comune- mente al genere della quantità.
308 METAFISICA Poichè misura è quella per cui si conosce la
quantità; e la quantità, in quanto tale, si conosce o per mezzo del
numero o dell'uno: ma ogni numero si conosce per mezzo dell’uno.
Per cui ogni quantità, in quanto tale, si conosce con l’uno; e ciò per
cui primieramente le quantità son conosciute è l’uno in sè e per sè.
L'uno, dunque, è il principio del numero in quanto numero. Di qui anche per
gli altri casi dicesi mi. sura ciò per cui primieramente conosciamo
ciascuna cosa, e misura di ogni cosa è l’uno per la lunghezza, per la
lar- ghezza, per la profondità, per il peso, per la velocità. (Peso
e velocità, potendo ciascuno avere due significati, si usano in comune
per i contrari: pesante dicesi ciò che ha un qual- siasi grado di gravità
e ciò che ne ha in eccesso, e veloce ciò che ba un qualsiasi grado di
movimento e ciò che ne ha in eccesso: poichè anche ciò ch’è lento ha una
certa ve- locità, e ciò ch’è leggero una certa pesantezza). In
tutti questi, dunque, la misura principale è qualcosa d’uno e senza
parti: anche nelle linee si usa come indivisibile quella d’un piede. In
ogni caso, infatti, si cerca per misura qualcosa d’uno e indivisibile, e
questo è ciò ch’è semplice o per qualità o per quantità. Ora, dove sembra
non esserci nulla da togliere o aggiungere, ivi la misura è esatta:
perciò 1053 a quella del numero è la più esatta, perchè l’unità si
pone come indivisibile per ogni rispetto, e negli altri casi non
si fa che imitare questa specie di misura. Di uno stadio, infatti,
e di un talento, e di ciò che in generale è più grande, ci sfugge se
qualcosa vien aggiunta o tolta, più facilmente che per una quantità
minore. Laonde quella prima, a cui niente di percepibile può esser
aggiunto o tolto, quella tutti pren- dono per misura: per i liquidi come
per i solidi, per il peso come per la grandezza. E allora pensano di conoscere
la quantità di una cosa, quando la conoscono per mezzo di quella
misura. E anche il movimento si misura con quello semplice e ch'è
più veloce: chè questo occupa un tempo minimo. Ond’è che in astronomia
questa è l’unità che serve di principio e misura (poichè si suppone che
il movimento del cielo sia 9 10 1l
12 13 14 15 LIBRO
DECIMO 309 uniforme e il più veloce, e in rapporto a questo si
giudicano gli altri). E in musica, il diesis, perchè è l'intervallo
mi- nimo; e nella parola, la lettera. E in tutti questi casi c’è,
così, un qualcosa di uno: non come se l’uno sia qualcosa di comune (‘),
ma come s'è spiegato. Ma non in ogni caso la misura è una
numericamente; talora è più di una: i diesis, ad es., son due (non per
l’orec- chio, ma per il computo) (?); e i suoni articolati, con cui
mi- suriamo le parole, son più di uno; e due misure hanno la
‘diagonale e il lato, e tutte le grandezze. Così, dunque, l’uno è
la misura di tutte le cose, perchè noi conosciamo ciò di cui si compone
la sostanza dividen- dola o secondo la quantità o secondo la specie.
L’uno è perciò indivisibile, perchè in ogni cosa ciò ch’è primo è
indivisibile. Ma non nello stesso modo ogni uno è indivisibile: per
es., il piede e l’unità, questa è indivisibile per ogni rispetto,
quello vuol esser tale rispetto alla sensazione, come 8’è detto: chè ogni
continuo è, senza dubbio, divisibile. Sempre, poi, la misura è dello
stesso genere: delle gran- dezze, una grandezza; e in particolare: della
lunghezza una lunghezza, della larghezza una larghezza, dei suoni
artico- lati un suono articolato, del peso un peso, delle unità una
unità (così bisogna intendere qui: non che dei numeri la misura sia un
numero: si dovrebbe dir così, se il caso fosse simile; ma che non sia
simile si vede da questo, che si fa- rebbe misura delle unità, non
l’unità, ma le unità: chè il numero è molte unità). Anche la
scienza e la sensazione diciamo che sono mi- sura delle cose, per questo,
che con esse conosciamo qual- cosa: sebbene siano esse misurate,
piuttosto che esse misu- (1) Punta polemica contro l’Uno
platonico. (2) Il Ross riferisce la distinzione di Aristosseno, scolaro
di A., del diesis come un quarto e come un terzo di tono. — I suoni
articolati: vocali e consonanti. — Due misure hanno, ecc. Oscuro. Si può
pensare alla incommensurabilità della diagonale al lato, sì che esigano
unità di misura diverse; ed alla necessità di almeno due dati per
la misura delle superfici, dei solidi, ecc. Ma il testo, questo, non lo
dice, 310 METAFISICA rare. Accade a noi come se un
altro ci misurasse e noi co- noscessimo quanto siam grandi per aver egli
applicato il cubito su noi per tutta la nostra altezza. Protagora dice
che 1023 b l’uomo è misura di tutte le cose, intendendo di chi sa e
di chi sente: e questi, perchè hanno l’uno la sensazione, l’altro
il sapere, che noi pur diciamo esser misure de’ loro oggetti. Sembra
voglia dire qualcosa di profondo: invece, non ne dice nulla (').
Che, dunque, l’essenza dell’uno, se si deve definire il si- 16 gnificato
del termine, consiste soprattutto nell’esser una de- * terminata misura,
e in primo luogo della quantità, in secondo della qualità, — è manifesto.
E tale sarà se sia indivisibile, in un caso, per la quantità, nell’altro
per la qualità; sì che l’uno è indivisibile, o assolutamente, o in quauto
uno. CapitoLo II. Già nella trattazione dei Problemi
incontrammo la que- 1 stione, che qui convien riprendere, della natura
sostanziale (?) dell’uno: che cosa esso è, e come si deve di esso
giudicare. E cioè, come se l’unità stessa sia una determinata
sostanza (al modo dei Pitagorici prima, e di Platone poi); o se non
piuttosto abbia qualche natura a sostrato, e però si debba parlare di
esso più intelligibilmente, e piuttosto come i Fi- siolugi, dei quali chi
dice che l’uno è l’amicizia, chi Varia, chi l’indefinito.
(1) V. nel lib. IV la polemica contro il Protagorismo: là come qui, A.
respiage decisamente il soggettivismo della conoscenza (chi 8a, chi
sente: per il significato preciso di questo soggettivismo, v. nota al
passo simibe in V. 15, 8). Sensazione e sapere sono misure per quanto
contengono di realtà e verità oggettiva. È rea- lismo? (Cfr. Rolfes, a q.
1.: « A. è realista, non idealista. Egli si oppone a JIegel, che fa il
concetto misura e principio delle cose, ecc. »). Sì, ma in senso affine
all’idealismo del suo maestro. (9) Lett. «la natura e la sostanza». Ma
quos vale talvolla la sostanza in generale (V. 4, 9), e odola è l'essere
nella categoria principale. — Trattazione det Problemi: lib. III, 4,
31-42. Per i Pitagorici e Platone: lib. I. 6, 9-10. I Fisiologi ricordati
sono Empedocle, Anassimene, Anassimandro. p LIBRO
DECIMO 311 Se nessuno degli universali può essere sostanza,
come 8’è detto dove parlammo (!) della sostanza e dell’essere; € se
l’essere stesso non può essere sostanza nel senso di qual- cosa che sia
uno fuor del molteplice (chè esso è un termine comune), ma è soltanto un
predicato; è chiaro che neppure l’unità è sostanza: l’essere e l’uno,
infatti, sono di tutti i predicati i più universali. Sì che neppure i
generi sono de- terminate nature e sostanze separabili dalle altre cose;
nè l’unità può esser genere (?), per le stesse ragioni per le quali
non sono genere nè l’essere nè la sostanza. Inoltre, bisogna che si
applichi a tutte le categorie ugual- mente. L’essere e l’uno hanno gli
stessi vari significati: sì che, come per le qualità l’uno è qualcosa di
determinato e d’una certa uatura, e così pure per le quantità, — è
chiaro che bisogna anche domandarsi per tutti i casi che cosa è
l’uno (così come che cosa è l’essere), e che non basta dire che questa è
la sua natura, di esser uno. Non è dubbio: nei colori l’unità è un
colore, poniamo il bianco, e però da questo e dal nero si veggono
generarsi gli altri (*): il nero è privazione del bianco, così come della
luce l’oscurità (questa è la privazione della luce). Talchè, se le cose
fossero colori, esse formerebbero, sì, un molteplice (4), ma determinato,
e appunto, evidentemente, di colori; e l’unità sarebbe un uno
determinato: poniamo, il bianco. E similmente, se le cose fossero note,
ci sarebbe un numero, ma di diesis, e non sa- rebbe già numero la loro
sostanza; e l’unità sarebbe qual- cosa, di cui Ja sostanza sarebbe non di
esser unità, ma diesis. E similmente dei suoni articolati: le cose
sarebbero tante lettere, e l’uno sarebbe una lettera, una vocale. Se
fossero figure rettilinee, ci sarebbe una molteplicità di figure, e
(1) Lib. VII. 13. | (2) Cfr. lib. IIT. 3, 7: qui, genere è g.
reale; invece, nella frase precedente, î generi sono universali.
(3) Alla 1. 30 ho accettato l’elca (invece di el) proposto dal Ross. (4)
Lett. «un numero », come dopo. Ma ho tradotto cosi per chiarire l’equi-
valenza dei termini qui. (Così come ho usato talora unità invece di uno,
quando questo equivale all'astratto). 1054 a
312 METAFISICA l'uno sarebbe il triangolo. E il discorso è lo
stesso per gli altri generi. In conchiusione, come, allorchè si tratta di
affe- zioni (di qualità, di quantità, o di movimento) delle cose,
c’è un molteplice e un uno che è, in tutti i casi, un molteplice
determinato e un determinato uno, di cui la sostanza non è quella di
esser uno; — nello stesso modo, necessariamente, dev’essere per le
sostanze: perchè la questione è la stessa per tutti i casi. Che, dunque,
l’unità sia in ogni genere una natura determinata, e che in niun caso la
natura di una cosa sia l’uno per se stesso, è manifesto: ma, come nei
colori l’unità da cercare è quella che è un colore, così anche
nella sostanza l’unità è quella ch’è sostanza. Che, poi, l’uno
significhi in certo modo (') la stessa cosa che l’essere, è chiaro, in
primo luogo, dal fatto che s’accom- pagna a esso per altrettante
categorie, e non è compreso in nessuna (non, poniamo, in quella
dell’essenza, nè in quella della qualità), ma ci sta così come l’essere;
in secondo luogo, perchè con « uno-uomo » non vien predicato nulla di
diverso che con « uomo », nello stesso modo che l’essere non è
nulla fuori dell'essenza, della qualità o della quantità; in fine,
perchè esser uno vale esser individuo. CapitoLo III
L’uno e il molteplice si oppongono in molti modi, dei quali uno è come
quello dell’indivisibile al divisibile: mol- teplice si dice qualcosa s’è
divisa o divisibile, una s’è in- divisibile o non divisa. Ora, poichè
l'opposizione è di quattro specie, una delle quali si dice secondo
privazione, qui avremo quella di contrarietà, non quella di
contraddizione nè di termini relativi (*). E l’uno si denomina e si
chiarisce (1) Chè l’unità può indicare, più propriamente, la
misura, come s’è visto dianzi. — « Uno-uomo »: cfr. IV. 2, bd. (2)
Cfr. V. 10, 1. Intendi: una specie di opposizione è quella in cui si
guarda alla privazione: non a quella opposta all'EE, ma a quella propria
della contra- LIBRO DECIMO 313 dal suo contrario: dal
divisibile, l’indivisibile; e la ragione è che il molteplice e divisibile
si percepisce meglio dell’ in- divisibile: per cui il molteplice è prima
dell’indivisibile nel concetto, a cagione della percezione.
All’uno appartiene, come descrivemmo anche nella Di- stinzione dei
contrari ("), lo stesso, il simile, l’uguale; al mol- teplice, il
diverso, il dissimile, il disuguale. Lo stesso (?) si dice in molti modi:
in un modo si dice talora badando al numero; in un altro, se la cosa è
una e per il concetto e per il numero: poniamo, tu sei una cosa sola con
te stesso e per la specie e per la materia; in fine, se il concetto
che riguarda la sostanza prima (?) sia unico: per es., le linee
rette uguali sono le stesse, e così i quadrilateri equivalenti e con
angoli uguali, benchè sian molti: chè in essi l’ugua- glianza vale
identità. — Simili son le cose se, non essendo assolutamente le stesse,
nè senza differenze per la sostanza che fa loro da sostrato, siano pur le
stesse per la specie: per es., il quadrato maggiore è simile al minore, e
le linee rette disuguali sono simili: esse sono simili, non
assoluta- mente le stesse. Altre cose sono simili, se, avendo la
stessa specie, ed essendo cose in cui si dà il più e il meno, non
abbiano in questo differenza. Altre cose, se hanno la stessa affezione,
che sia la medesima per la specie, per es. la bian- chezza, ma in grado
maggiore o minore, si dicono simili perchè identica è la loro specie.
Altre si dicon tali, se di qualità che son le stesse ne hanno in numero
maggiore che di diverse, o assolutamente, o quelle più in vista: per es.
lo rietà (ch’è privazione totale). Par come manchi qualcosa nel
testo. — Il termine negativo, qui, è l’uno (nell’esperienza ci è dato il
molteplice, non il meramente uno). (1) Vedi IV. 2, 6. All'uno appartiene
lo stesso per la sostanza, il simile per la qualità, l'uguale per la
quantità. (2) Cfr. V. 9. L'identità per il numero Aless. (615, 23)
l’intende come l’unità accidentale; ma nota che poco dopo essa è fatta
equivalente a quella per la materia (i due concetti del sinolo).
(9) Cfr. VII. 7. 1032 b, 1 ($ 6): elBog dè Abyo tò ti fiv elva: éxdatov xal Thv
aQOInY odolav. Nota, tuttavia, che l'illustrazione del concetto è
presa da realtà mate- matiche. 1054 b 314
METAFISICA stagno è simile all’argento per il bianco (‘), l’oro al
fuoco per il colore giallo-ardente. Per ciò è chiaro che anche il
diverso e il dissimile si di- cono in molti modi; e la diversità si
oppone così all’ iden- tità, che ogni cosa rispetto a ogni altra o è la
stessa o è diversa. Ma diverso è anche ciò di cui la materia e il
con- cetto non è identico: tu, per es., e il tuo vicino siete
diversi. E la diversità, in terzo luogo, è come negli oggetti mate-
matici (*). Diversità, dunque, e identità si dicono di ogni cosa rispetto
a ogni altra, purchè siano cose che hanno unità e realtà: poichè il
diverso non è il contradittorio dell’ identico, onde non si dice delle
cose non esistenti (delle quali la non- identità pur si predica), ma
delle cose esistenti tutte quante: chè queste, avendo per natura unità ed
esistenza, o sono identiche o non identiche (*). Il diverso, dunque, e
l’identico si oppongono in questo modo. Ma differenza e diversità
non son lo stesso. Ciò ch'è di- verso e ciò da cui è diverso non son di
necessità diversi per un rispetto determinato. Tutto, pur che sia reale,
o è diverso o identico. Ma quel ch’è differente da qualcosa, ne
differisce per qualche rispetto (4): quindi c’è necessaria- (1)
Alla 1. 23: fl Aeuxév, inv. di 7 xQvo@ (Ross). Per la somiglianza, cfr.
V. 9, 6. La somiglianza, dunque, è o per la specie (1), o per il grado di
questa (2), 0 perchè una qualità delle cose è la stessa, sebbene in grado
diverso (3), o perchè di qualità ne hanno un buon numero, o le più
evidenti, in comune (4). Nel 1° caso, la specie ha significato formale,
ma non sostanziale (concreto), onde ]a differenza resta puramente
quantitativa (la specie qui fa anche da qualità); nel 2°, è forma
sengibile, chiarita dal 3° caso: in questi © nel 4° si unisce un criterio
quantita- tivo. Forse per questo A. non tratta, dopo, dell'uguale (di
questo egli si è valso anche per l’identico: cfr. $ 4‘. Gli opposti
(dissimile e disuguale) vengono, quindi, assorbiti dalla trattazione
seguente intorno alla diversità, differenza e contrarietà. (2) Vedi $ 4.
Qui la diversità, forse, è nella forma o concetto; nel caso prece- dente,
nella materia: entrambi fan capo alla prima definizione (la quale vien
determinata nel paragrafo seguente per le cose esistenti sostanzialmente).
Ho tradotto con diverso o diversità sia l’Étegov, che l'&XX0; con lo
stesso o identico (o identità), tadté, e qualche volta anche l’Év (1. 22,
dove l’altro Ev è, propria- mente, l’unità). Per la diversità e la
differenza (1 Biapoodi, cfr. V. 9, 4-5. (3) Ev e oòy Ev: ma questo
bisogna pensarlo come privazione, 0 equivalente all’Evegov: se, invece,
si fa equivalente.al pù taòré della parentesi, si torna alla negazione
che vale per l'esistente e per il non-esistente. (4) vivi: prima
tradotto «per qualche rispetto determinato ». La differenza di
6 9 10 LIBRO DECIMO 315
mente qualcosa d’identico per cui differiscono. Questo ch'è identico, è o
il genere o la specie. Noi vediamo, infatti, che tutte le cose
differiscono o per il genere o per la specie: per il genere, quelle che
non hanno una materia comune, nè si generano le une dalle altre (*):
così, quelle che figu- rano in una categoria diversa; per la specie,
invece, quelle che hanno il medesimo genere. E si chiama genere ciò
che di entrambe le cose differenti si dice, secondo la sostanza,
identicamente. E i contrari son differenti: chè la contrarietà è una
dif- ferenza determinata. Che questo, come ora s8’è esposto, stia
bene, è manifesto per induzione: poichè essi si mostrano, tutti,
differenti e identici, non soltanto diversi (2): ma alcuni diversi per il
genere; altri, essendo nella stessa serie della categoria, son nello
stesso genere e identici per questo. Abbiamo altrove determinato quali
cose sono per il genere identiche o diverse. genere può ammettere
un’unità soltanto analogica: efr. V. 6, 15 (dove il genere vien già
identificato con la categoria: come nel paragrafo seguente). Prima, per
le forme dell’uno, è presupposto il molteplice; qui, il molteplice implica
un p. d. v. unitario (ma A. mette ciò poco o nulla in rilievo).
(1) Nota la mescolanza del p. d. v. realistico con quello logico. Di qui le
diffi- coltà del passo, onde il Christ vorrebbe espunta la frase
seguente, ch’egli, d’ac- cordo col Bonitz, trova in contraddizione con
l’altro accenno alle categorie nel S 10. Il colore e il suono, ad es.,
son generi diversi, entrambi nella categoria delia qualità, Il testo,
tuttavia, dà ragione al Ross di sostenere che la serie ca- tegorica del $
10 non accenna a una distinzione interna a ciascuna categoria, ma
coincide con l’accenno qui alle figure categoriche. « A. senza dubbio
chiama generi molte classi che non sono categorie, ma in senso stretto le
categorie sono i soli generi, perchè sono le sole classi che non sono
specie» (Ross a q. l.). Si può aggiungere che A., quando ha in vista
l'essere concreto, lo pensa, in- sieme, come sinolo di materia e forma
(dove il genere primo è la materia nella sua maggiore indeterminazione),
e come usia ch'è sostrato delle altre determi- nazioni (donde le
categorie come summa genera, reali e logici insieme). (2) Il testo è
alquanto incerto: così, com'è nel Christ, meglio sottintendere come
soggetto tà èvavila (Ross), e fare del passo un preludio al capitolo se-
guente. Certo, il discorso si complica, qui, di entrambi i concetti, della
diversità e della differenza: il diversi in questo punto non ha lo stesso
valore di quello che segue (che comprende i contrari per coppie,
non l’uno in rapporto all’altro). — Abbiamo altrove determinato: V. 28,
6. 316 MBTAFISICA CapiroLOo ]V. Poichè
può darsi che le cose tra loro differenti differiscano 1 più o meno, ci
ha da essere anche una differenza massima. Questa io chiamo contrarietà:
e che sia la massima differenza, si vede per esperienza. Invero, tra le
cose di genere diffe- rente non c’è passaggio, anzi si tengono lontane,
sì che non vengon mai a confronto. Ma quelle che differiscono per
la specie si generano da estremi che sono i contrari. Ora, la
differenza degli estremi è la maggiore che ci sia. E tale è anche quella
dei contrari. Ma ciò che in ciascun genere vi 2 è di maggiore, è
perfetto: poichè maggiore di tutto è ciò di cui niente è superiore, e
perfetto è ciò fuori del quale non è possibile trovar altro. La
differenza perfetta possiede il fine (‘), così come anche le altre cose
si dicono perfette perchè posseggono il fine: e fuori del fine non c’è
nulla, poichè esso in ogni cosa è l’ultimo termine e abbraccia tutto.
Perciò non c’è nulla fuori del termine finale, e ciò ch’è perfetto
non ha bisogno di nulla. Da questo è, dunque, chiaro che la con-
trarietà è una differenza perfetta. Ma, poichè i contrari si dicono in
molti sensi, la perfezione che a loro compete si dirà, di conseguenza,
negli stessi modi. Così stando le cose, è manifesto che un contrario non
può 3 avere più di un contrario: poichè del termine estremo non se
ne può dar uno più estremo, nè possono esserci più di due estremi di una
sola e unica distanza. E in generale, se la contrarietà è una differenza,
e la differenza è fra due termini, così, dunque, sarà anche di quella
ch’è differenza perfetta. E di necessità anche le altre
definizioni dei contrari trar- 4 ranno di qui la loro verità. Poichè la
differenza perfetta è quella onde le cose differiscono di più: onde non è
possi- (1) Si tengano presenti i termini greci téievov e térog, e
cfr. V. 16. Vedi anche ivi, cap. 10, per l'opposizione in generale e per
la contrarietà. — La fine di questo paragrafo è chiarita dal 8 5.
LIBRO DECIMO 317 bile trovar nulla fuori di essa, sia che
le cose differiscano di genere, o di specie. Si è mostrato, infatti, che
non è pos- sibile una differenza in rapporto a cose che sian fuori
del genere ('), ma è tra quelle dello stesso genere che la diffe- renza
può esser massima, ed i termini che qui più differi- scono sono contrari:
chè differenza massima, in questi, è quella perfetta. E dove ciò che può
ricevere quei termini è lo stesso, son contrari quelli che più
differiscono: poichè la materia per i contrari è la stessa, e così dicasi
per le cose che, cadendo sotto la stessa facoltà (*), differiscono
di più: poichè la scienza, se unica, è intorno a un unico genere,
dove la differenza perfetta è quella maggiore. La principale
contrarietà, poi, è tra abito e privazione: non, tuttavia, ogni privazione
(chè questa si dice in molti modi), ma quella che sia perfetta. E le
altre contrarietà si diranno secondo questa: alcune perchè la posseggono,
altre perchè la producono o sono in grado di produrla, altre perchè
rappresentano un acquisto o una perdita di questi (*) o di altri
contrari. Che se opposizione è la contraddizione, la pri-
(1) La differenza tra i generi o tra cose di genere diverso non è
considerata da A.come vera differenza, perchè manca il rapporto,
identificato, da un p. d. v. realistico-empirico, col passaggio, di cui
al $ 1. Quando quel rapporto c'è, si ha un p. d. v. logico (che vuole
identità e ditterenza insieme). Ma, poi, questo 0 è riguardato in una
logica astratta (che sta tra quella del pensiero in sè e per sè, e quella
meramente discorsiva: i due terinini son racchiusi nella sintesi del
giudizio, ma il pensiero non si media ne'suoi termini, sì che questi restano
uno di fronte all'altro immediatamente), e si ha la contraddizione;
ovvero il p. d. v. logico vien concepito come coincidente con quel
passaggio, e si ha la contra- rietà. I contrari banno sempre una materia,
si dice in XII. 10, 12: ossia, una materia comune, ch'è il genere reale e
logico, dentro il quale si muove il reale e il pensiero che lo pensa.
D'altra parte, poichè i limiti estremi, entro i quali si vuol pensare
ogni possibile mutazione, tendono a idealizzarsi sino al rapporto
assolutamente esclusivo (la privazione dev'essere totale, affinchè si abbia la
dif- ferenza massima), la vera contrarietà diventa la contraddizione, pur
che in questa si concepisca il termine negativo non
nell'espressione astratta, ma nell’opposi- zione concreta (ch'è del
pensiero a se stesso, non delle cose come pensa A.). (2) La &ivauw
qui è tanto potenza empirica (oggettiva), che razionale (s0g- Gettiva),
come l’esempio della scienza chiarisce (salute e malattia, ad es., in
quanto dipendono dalla scienza medica). (3) Una stoffa possiede il
bianco o il nero; l’arte medica o una medicina produce, o può
produrre, la salute o la malattia; il corpo puo perdere la salute e
riacquistarla; ecc. 318 MBTAFISICA 1056 b vazione, la
contrarietà e la relazione, e di queste la prin- cipale è la
contraddizione, della quale non si dà. mezzo, mentre si dà dei contrari,
— è chiaro che contraddizione e contrarietà non son la stessa cosa. La
privazione è una con- traddizione (') di certa natura: poichè ciò che
soffre priva- zione, o in generale o in un certo modo, vien così
determi- nato, secondo che o non abbia punto la capacità di una
cosa, o non abbia questa cosa pur essendo fatto da natura per
averla. Qui abbiamo già molti significati: secondo che altrove di-
stinguemmo. Per cui la privazione è una contraddizione di certa natura, o
un’incapacità ch’è del tutto determinata, ovvero è presa insieme a ciò
che può riceverla. Perciò, mentre della contraddizione non si dà mezzo,
della priva- zione in qualche caso si dà: tutto, infatti, è o uguale o
non uguale; non tutto invece è uguale o disuguale, ma, se mai, ciò
vale soltanto per quel ch’è suscettibile dell’uguale. Che se il divenire,
dove c’è la materia, è tra i contrari, e avviene o dalla forma e dal
possesso della forma, o dalla privazione determinata della forma o
figura, — è chiaro che ogni con- trarietà è una certa privazione; ma, invero,
non ogni priva- (1) Partendo dalla contraddizione, e realizzando
il termine negativo nella privazione in generale, questa si presenta come
un caso della contraddizione, e la contrarietà, a sua volta, come un caso
della privazione (dove l'opposizione steretica è la massima). Se
partiamo, invece, dal mutamento reale, la contra- rietà è una
generalizzazione dell'opposizione steretica (atégeors ed Esc), e sta tra
questa e la contraddizione. Si risolve così la questione tra lo Zeller
‘che voleva ridurre la privazione o alla contrarietà o alla
contraddizione) e il Ross (a q. 1.), che sostiene la subordinazione della
privazione alla contraddizione, e della contrarietà alla privazione. Ma
A., preso nel testo, in verità, dà ragione a tutti due; e come riconosce
molti significati alla privazione, sì che c'è da pensare che uno sia
fondamentale (quello di contrarietà), così nel $ 5 ne rico- nosce molti
per la contrarietà, sì che fa pensare che fondamentale sia l’opposi-
zione steretica pura e semplice (senz’altra determinazione). L'incertezza
nel pensiero di A. si nota anche nella frase che segue, in cui la
privazione vien attribuita anche a ciò che «non ha affatto la capacità di
qualcosa »: ch'è contro il concetto fondamentale della steresi in quel
che si distingue dalla negazione astratta; e poco dopo è definita con
analoga oscillazione, o per sò (« determinata incapacità »), «o insieme a
ciò che può riceverla». Per l'opposizione di relazione, o correlazione
(tà med x: ma A., in realtà, distingue i due concetti), v. 6, 5.— Secondo
che altrove distinguemmo: V. 22. ' 10 LIBRO DECIMO
319 zione è una contrarietà: la ragione è che ciò ch'è
passibile di privazione può averla in molti modi, e soltanto quando
i termini del mutamento sono quelli estremi si ha la contra- rietà. Lo si
vede anche per esperienza. Ogni contrarietà implica una privazione di uno
dei due contrari, ma non allo stesso modo sempre: la disuguaglianza è
privazione del- l'uguaglianza, la dissomiglianza della somiglianza, così
come il vizio della virtù. I casi sono differenti, secondo si è
detto: in uno, si bada semplicemente alla privazione, in un altro
al tempo o ad una parte, per es., a una certa età o alla parte
principale, oppure si tratta di una privazione totale. Sì che in certi casi
si da un mezzo (è possibile che un uomo non sia nè buono nè cattivo), in
altri non si dà (un numero è necessariamente pari o dispari). Inoltre,
alcuni contrari hanno un sostrato determinato, altri no. È perciò
manifesto che sempre uno dei due si dice secondo privazione: basta
che questo sia manifesto per i generi fondamentali dei con- trari, come
l’uno e il molteplice: chè gli altri si riducono a questi.
CapiToLO V. Poichè a un contrario si oppone un solo contrario,
si potrebbe far questione come l’uno si opponga al molteplice, e
l’uguale al grande e al piccolo. La disgiuntiva noi l’ado- periamo sempre
per esprimere un’antitesi: chiediamo, ad es.: È bianco o nero? È bianco o
non bianco? Non diciamo: È uomo o bianco? Salvo che per un presupposto:
come se si chiedesse se venne Cleone o Socrate. Qui si ha un caso
che non ha carattere di necessità per nessun genere di cose. Pure,
anch'esso ha la stessa origine: poichè, non essendoci che gli opposti che
non possono trovarsi insieme, di tale incompatibilità fa uso chi domanda
quale dei due venne: chè, se poteva darsi che venissero insieme, la
domanda non avrebbe avuto senso. Pure, anche in tal caso, si può
simil- mente cadere nell’antitesi, in quella dell’uno e del molteplice,
chiedendo, ad es., se son venuti entrambi o uno solo. 1056 a
320 METAFISICA Se, dunque, negli opposti la domanda è
sempre disgiun- 2 tiva; e poichè si può chiedere: È maggiore, minore, o
uguale?: di che natura è l’antitesi dell’uguale, a questi? Chè non è
contrario a uno solo, nè ad entrambi. Perchè, infatti, sarebbe contrario
al maggiore più che al minore? Aggiungi che l’uguale è contrario al
disuguale: per cui dei contrari esso ne avrà più di uno. Che se il
disuguale significa la stessa cosa di quei due presi insieme, l’uguale si
dovrebbe opporre ad entrambi, e si finirà col dar ragione a quei che van
di- cendo che il disuguale è la diade ('). Ma, allora, uno solo
avrebbe due contrari: la qual cosa è impossibile. Poi, l’uguale appare
intermedio tra il grande e il piccolo; ma non si vede come un contrario
possa esser intermedio, nè, stando alla definizione, è possibile: chè non
sarebbe perfettamente con- trario se fosse intermedio, anzi, se mai, c’è
sempre un in- termedio tra esso e l’altro termine. Resta, allora,
che l’opposizione sia o come negazione o 4 come privazione. Di uno solo
dei due termini, non può es- sere. Perchè, infatti, si opporrebbe al
grande piuttosto che al piccolo? Sarà, dunque, una negazione privativa di
en- trambi (°). E per questo la disgiuniiva riguarda entrambi, e
non un termine solo, come farebbe chi chiedesse: È mag- giore o uguale?
oppure: È uguale o minore? Invece, i termini son sempre tre. Ma
questa privazione non ha carattere di necessità: chè 5 non tutto è uguale
ciò che non è nè maggiore nè minore; YI (1) Così i
Platonici ricordati in XIV. 1, 3. Soltanto il nome sarebbe uno solo
(disuguale): in realtà i termini son due. (2) Negazione (contradittoria),
ch'è, come viene spiegato, doppia; ed espri- mendo la possibilità reale
di entrambe le contrarietà, è chiamata privativa, e intermedia fra esse.
Il termine doppiamente negativo è, qui, l’uguale; le due contrarietà
corrispondono alle due disgiuntive, nelle quali si determina la nega-
zione, la quale è trattata come una realtà oggettiva, una potenza di contrari
0 un intermedio tra essi, La soluzione permette ad A. di mantenere cho a
un cor» trario si oppone un solo contrario (1); di risolvere la diade dei
Platonici nella dualità espressa dalla parola « disuguale » (2);
trasferendo l’intermedietà nel- l'« uguale » non più come contrario, ma
come negazione, di unificare, in certo modo, in questa (quasi come
un'attività di pensiero) le due disgiuntive (3). Cfr. con quest'ultimo
punto la discussione in IV. 7-8 intorno al terzo escluso. LIBRO
DECIMO 321 ma le cose soltanto che hanno natura di esser tali.
L’uguale è, appunto, ciò che non è nè grande nè piccolo, ma ha una-
tura di essere o grande o piccolo; e si oppone ad entrambi come una negazione
privativa: per cui è anche intermedia. Anche ciò che non è nè buono nè
cattivo si oppone a en- trambi, ma non ha un nome, perchè ciascuno dei
due si dice in molti sensi (!), e non c’è una sola cosa che di essi
sia suscettibile. Non così, piuttosto, si può pensare di ciò che non è nè
bianco nè nero: pure, neanche qui si può dire qualcosa di unico, sebbene
i colori dei quali si enuncia pri- vativamente tale negazione siano, in
certo modo, limitati: chè, necessariamente, o è grigio o è giallo, o
altro di tal na- tura. Per cui non dirittamente obiettano coloro che
stimano il caso esser lo stesso per tutte le cose, sì che, come ciò
che non è nè buono nè cattivo sta in mezzo tra il buono e il
cattivo, della scarpa e della mano ci dovrebb’essere un in- termedio che
non è nè scarpa nè mano, e così ce ne dovreb- b’essere uno per tutte le
cose. Questa non è una conseguenza necessaria: poichè in un caso è
possibile una simultanea negazione degli opposti in quanto è di cose di
cui esiste un intermedio e un intervallo naturalmente determinato;
nel- l'altro caso, invece, non esiste questa differenza, perchè le 1086
b cose delle quali si fa la negazione simultaneamente, son di
genere diverso, sì che non è identico il loro sostrato. CapitoLo
VI. Si può far questione, similmente, intorno all'uno e ai
molti: chè, se molti si oppone all’uno semplicemente, si hanno alcune
conseguenze assurde. L’uno sarebbe poco, 0 pochi: molti, infatti, si
oppone a pochi. Poi, due sarebbe (1) In ogni categoria:
cfr. Eth. Nic., I. 4. 1096 a, 19. Non c'è un termine unico che esprima
(come l’« uguale ») le due negazioni. Neanche per il bianco-nero, che
pure son nella stessa categoria. Tanto meno quell’unico termine può
esistere in cose di genere diverso, tra le quali, mancando l’identità che
accompagni la differenza, non esiste passaggio. ARISTOTELE,
Metafisica. 21 322 METAFISICA molti, una volta che
doppio è multiplo e doppio dicesi con- siderando il due; per cui l’uno
sarebbe poco. Infatti, in rapporto a che il due è molti, se non all’uno,
e però al poco? Chè non c’è nulla che sia più poco. Inoltre: come 2
nella lunghezza il lungo e il corto, così nel molteplice è il molto e il
poco, e ciò ch’è molto è anche molti, e ciò ch'è molti molto ('): sì che
(se ne togli il caso di un continuo che sia facile a limitare) il poco
sarà una specie di molte- plice, e tale quindi l’uno, se esso è anche
poco: e che questo sia, è necessario, se il due è molti. Pure, se
il molti dicesi anche in certo modo molto, una 3 differenza c’è: l’acqua,
ad es., dicesi molta, non molti. Molti, invece, dicesi per quante cose
sono divisibili: in un senso, se queste formino un molteplice che ecceda,
o asso- lutamente o relativamente (e dicesi, similmente, poco se
quel molteplice sia in difetto); in un altro, vuol dir numero, e in
questo senso soltanto si oppone all’uno. Noi, infatti, di- ciamo «uno o
molti», proprio come se si dicesse «uno e uni», 0 «cosa bianca e cose
bianche », e mettiamo in rapporto le cose misurate con la misura, e
parliamo del mi- surabile (*) così come del multiplo: poichè ogni numero
è molti in quanto risulta di uni ed è misurabile con l’uno, e ne
parliamo come di opposto all’uno(*), non al poco. E così, quindi, anche
il due è molti, non già nel senso che 4 sia un molteplice eccedente o
relativamente o assolutamente, ma nel senso ch’esso è il primo molti.
Assolutamente inteso, il due è pochi(*): chè esso è il primo molteplice
che può (1) Il molto è, dunque, equivalente al molti: è, cioè, un
molteplice. Se ne tolga il caso di ciò ch'è «facile a limitare»
(etoglotw), come i liquidi e tutto ciò che prende dal limite (per es. del
recipiente) la forma delia continuità: l'acqua, ad es., non uvendo parti
discrete, può esser un molto, non un molti. (2) Soppresso il punto
(Ross). (3) Le conseguenze assurde ($ 1) derivavano, dunque,
dall’opporre il molte- plice all’uno senza distinzione di significato
(semplicemente). V. Sommario, e con- chiusione del capitolo, (4)
Il due parrebbe, quindi, il principio del molteplice (come la dualità
pla- tonica), D'altronde, il principio di esso, nel senso di misura, è
l’uno. La soluzione sembra questa: in quanto l'uno e il molteplice sono
contrari, come l’indivislbile LIBRO DECIMO 323 esser
in difetto (perciò, anche, andò fuori strada Anassagora quando disse che
« tutte le cose erano insieme, infinite e per molteplicità e per
piccolezza »: invece di ): il quale stabiliva quale fosse il numero di
qual- cosa (questo qui, ad es., dell’uomo; questo qui, del
cavallo), imitando con sassolini le forme degli esseri viventi (?),
al modo stesso di coloro che riducono i numeri alle figure, al
triangolo e al quadrato. Ovvero è perchè l’armonia è un rapporto (‘) di
numeri, e così è anche l’uomo e ognuna delle altre cose? Ma come, poi, le
qualità, il bianco e il dolce e 9 il caldo, son numeri? Che, poi, i
numeri non siano sostanze, nè cause della forma, è evidente: è il
rapporto ch’è la so- stanza, il numero è materia (°). Per es., la
sostanza della carne o dell'osso è un numero in questo senso: che ci
vo- gliono tre parti di fuoco e due di terra. E sempre il numero,
assorbito nel prodotto, sì che fuori non ne sia restato nulla a
insidiare la vita dell'altro; cfr. VI. 3, 2: «chi vive dovrà morire,
perchè è già avvenuto questo, che elementi contrari si trovano nello
stesso corpo »): il numero, dunque, non è eterno. (1) Le
considerazioni che seguono, sino alla fine del libro, come nota il Bonitz,
« Pythagoreorum doctrinam praecipue tangunt et fortasse Platonicos
quosdam qui ad Pythagoreos proxime accedebant». (2) Scolaro di
Filolao, al principio del sec. IV: porta, come si vede, al co- mico la
dottrina dei numeri come sostanza delle cose e la loro figurazione geo-
metrica. (3) putàv, delle piante; ma è probabile, suggerisce il Ross,
che qui sia usato nel senso più antico e ampio di « essere vivente ».
(4) È sostanza o rapporto? Se sostanza (essenza), come, allora, la
qualità? Se è rapporto, invece, non è sostanza (sostrato). (5)
Numero equivale qui a molteplicità di cose (soltanto il numero monadico,
1. e. aritmetico, è di unità astratte). Cfr., per gli esempi, I. 9, 18 e 10,
2. LIBRO DECIMOQUARTO 473 sia quale si voglia, è
numero di certe cose: di particelle di fuoco o di terra, ò è un numero di
unità astratte. La s0- stanza, invece, implica che c’è tanto di questo
unito per la mescolanza a tanto di quello: e questo non è già un
numero, ma rapporto numerico della mescolanza di cose corporee, o
10 d’altra specie. Il numero, dunque, sia quello in generale e sia quello
ch’è di unità astratte, non è causa delle cose nè per il fare, nè come
materia, nè come concetto e specie. Nè, certamente, come causa finale
('). CapITOLO VI. 1 Si potrebbe anche far questione
in che consiste la perfe- zione che alle cose deriverebbe dal numero,
quando la loro mescolanza è fatta secondo un rapporto numerico perfetto
0 secondo un numero dispari. Sta di fatto che non per questo
l’idromele è più salubre se acqua e miele siano mescolati in modo da fare
tre volte tre (*); anzi, se è acquoso senza nessun determinato rapporto
può giovare di più che se, per farlo. in 2 rapporto numerico, sia troppo
forte. E si noti che i rapporti delle parti di ciò che vien mescolato si
esprimono con l’ad- dizione del loro numero, non con i numeri soltanto:
per es., «tre parti a due», non «tre volte due ». Poichè le cose
che vengono moltiplicate debbon essere dello stesso genere: per
cui, data una serie di fattori, 1. 2.3, essa dev’esser misu- rata dal
primo termine: se è 4.5. 7, dal 4. Insomma, in tutti i casì, dal termine
ch’esprime lo stesso genere. Non può essere, quindi, che il numero del
fuoco sia 2. 5. 3. 7, e quello 3 dell’acqua 2.3(*). Che se il numero
fosse una natura co- 1009 a (1) Nessuna, dunque, delle quattro
specie di causa, Nota concetto e specie: la causa formale come pensiero e
insieme come forma reale. (2) tels tela: si deve dire, invece, ammonisce
A. dopo, «tre a tre », poichè si tratta di un iniscuglio. In « tre volte
tre », e nella moltiplicazione in generale, ch'è un'addizione ripetuta
dello stesso numero, questo dev' esser sempre dello stesso genere (8 2).
(9) Chè anche il fuoco (2. 3 X 5. 7) sarebbe acqua (9. 3). Penso che
questo pa- tagrafo prosegua ancora l'argomentazione ch'è alla fine del 8
9 del cap. prec. 474 METAFISICA mune di tutte le
cose, ne verrebbe, di necessità, che molte cose sarebbero le stesse, e lo
stesso numero sarebbe proprio di questa cosa e di una cosa diversa. Ma è
questa, allora, la causa delle cose, ed è per questo che una cosa è
quello che è? O non è ciò molto oscuro? Poniamo: esiste un certo
numero per le traslazioni del sole, e così per quelle della luna, e anche
per la vita e l’età di ciascuno degli esseri viventi. Che impedisce,
allora, che alcuni di questi numeri siano quadrati, altri cubici, alcuni
uguali e altri doppi? Nulla; anzi, di necessità, tutti (') si aggirano in
questi rapporti, una volta che la natura del numero è comune a tutte le
cose, e quelle che sono differenti possono cadere sotto lo stesso
nu- mero. Per cui, se ad alcune convenisse lo stesso numero, quelle
sarebbero identiche tra loro che avessero la stessa forma del numero: il
sole e la luna, ad es., sarebbero iden- tici (?). E perchè son
cause questi numeri? Ci sono sette vocali, sette corde o note musicali,
sette son le Pleiadi; al settimo anno, almeno alcuni animali (altri, no),
perdono i denti; sette, quei che pugnarono a Tebe. È, dunque, perchè
quel numero ha quella natura lì, che quelli si trovarono in sette,
o che le Pleiadi hanno sette stelle? O non piuttosto, per quelli, perchè
sette erano le porte della città, o per qualche altra causa? E per le
Pleiadi siam noi che così le contiamo, come ne contiamo dodici per l’Orsa
(altri ne contano di più). — Essi dicono anche che E Y Z sono consonanze,
e poichè tre sono in musica le consonanze, tre, dicono, sono queste
doppie consonanti. Non si dànno nessun pensiero che di questa
specie ce ne potrebbero esser mille: basta, poniamo, porre un segno
unico per I° P. Che se opponessero che ognuna di quelle è doppia delle
altre, e che nessun’altra consonante è così, la (1) Non è chiaro
se voglia dire: a) che tutti è numeri sono risolubili in rap- porti o figure
geometriche (8v tovtotce); b) che tutte le cose, per i Pitagorici, sono
risolubili in numeri. Ma, forse, son conglobati entrambi i pensieri (nota
infatti, alla fine del paragrafo, «la stessa forma del numero »: t. aùrà
elbos do.) (2) Alcunì citano XII. 8, dove il sole e la luna hanno lo
stesso numero di sfere o movimenti di traslazioni. O si riferisce qui
alla figura? LIBRO DECIMOQUARTO 475 ragione, poi; è
che tre sono i luoghi della bocca (‘) in cui si producono le consonanti e
a ciascuna vien congiunto medesimamente il sigma: per questo sono tre
sole, e non perchè tre siano le consonanze musicali: in realtà,
queste sono più di tre, di quelle non ce ne possono esser di più.
Costoro somiglian proprio ai vecchi interpreti d’Omero, i quali vedono le
somiglianze piccole, e sfuggono a loro le grandi. Ci sono alcuni che
dicono ancora molte cose di questo ge- nere: per es., che avendo le due
corde di mezzo l’una nove l’altra otto toni, il verso epico ha
diciassette sillabe, uguale al numero di quelle, e ch’esso si scandisce a
destra (*) con nove sillabe, a sinistra con otto. E dicono che
l'intervallo tra l’alfa e l’omega nelle lettere è uguale a quello tra la
nota più bassa e la più alta del flauto, e che il numero di que-
st'ultima è uguale alla totalità dell’armonia celeste (*). Si deve notare
che nessuno troverebbe difficoltà a spiegare in questo modo le cose
eterne e a scoprirne le concordanze: chè non è difficile neanche per le
cose corruttibili. Le nature tanto lodate che sarebbero nei numeri, e
quelle a loro contrarie (‘), e in generale le proprietà degli
oggetti matematici nel senso in cui ne parlano alcuni per farne
cause della natura, sembrano svanire agli occhi di coloro che con-
siderano le cose così come noi facciamo (°): chè nessuna di esse si può
dir causa, in nessuno dei modi da noi determi- nati trattando dei
principii. Certamente, come essi fan ve- dere, la perfezione appartiene a
tali oggetti (°), manifesta- mente; e alla serie delle cose dov’ è la
bellezza appartengono il dispari, il retto, l’uguale, le potenze di certi
numeri. Chè (1) Donde la distinzione di gutturali, dentali,
labiali. (3) La prima parte; a sinistra, la seconda (Aless.). (3)
Secondo Aless., il 24 (12 segni dello zodiaco; 8 sfere, quella delle
stelle fisso e le sette dei pianeti; 4 elementi). (4) Le une
benefiche, le altre malefiche. (5) La mentalità critica allontana molto
A. da’ suoi contemporanei. (6) Lo Schwegler intende che questo sia detto
ironicamente. Pensando alla fine del $ 5 e al passo già citato di XIII.
3, 8, ho dato, invece, alla traduzione il tono come se A. faccia qualche
concessione alla dottrina combattuta così vi- vacemente. In ogni modo,
egli afferma, in fine, che si tratta di mere analogie. 1093
b 476 MATAFISICA le stagioni e un numero di certa
specie vanno insieme; e tutte le altre proprietà ch’essi raccolgono dai
teoremi mate- matici, hanno questo valore. Perciò anche si rendono
appa- riscenti le coincidenze: poichè sono, sì, meramente proprietà
di ciascuno di essi, ma tutte si corrispondono tra loro, e fanno una cosa
sola dal punto di vista dell’analogia. Poichè in ogni categoria
dell’essere c’è l'analogia: come la linea retta nella lunghezza, così è
il piano nella superficie, e senza dubbio il dispari nel numero, e il
bianco nel colore. Quanto ai numeri, in fine, che consistono nelle
specie, essi non sono la causa delle armonie e delle cose di questa
natura: poichè essi differiscono tra di loro, anche se uguali, per ia
specie, una volta che anche le unità son differenti ('). Sì che, almeno
per queste ragioni, non c’è bisogno di porre tali specie. Queste,
dunque, le conseguenze che si posson trarre, e più ancora se ne
potrebbero addurre. Il fatto stesso del loro grande travaglio a spiegarne
la genesi, e il non riuscire in niun modo a dar coerenza all'insieme, è
un indizio che gli oggetti matematici non hanno esistenza separata,
come alcuni dicono, dalle cose sensibili, e che i primi principii
non son questi. (1) I numeri ideali, essendo di unità di specie
differente (e però &ovufàintay, come si dice nel libro precedente),
sono anch’ essi differenti di specie, anche se uguali (se son triadi, ad
es., comprese nello stesso numero nove). Non con essi, dunque, ma con i
numeri matematici, se mai, ci si può render ragione di cose, le quali,
come nell’armonia le unità e i rapporti di uno stesso tono, sono della
stessa specie. INDICE DEI NOMI PROPRI E DEGLI
ARGOMENTI PIÙ NOTEVOLI (Il numero romano indica il libro; dei
numeri arabici il primo il capitolo, gli altri, quando cì siano, il
paragrafo, a cui si rimanda). Abito: v. 20; contrario della
pri- vazione x. 4, 5. Accidente: e sostanza iv. 4, 21-24; ed
universale v, 9, 2; ed essen- za vii. 6, 2-3; che cos'è v. 30, 1-2.
vi. 2, 7. x1. 8, 3; è vicino al non essere vi. 2, 5. xr. 8, 2; non
ce n’ è causa determinata v. 30, 3. vi. 4, 5. x1. 8, 5 e 7; ne è
cau- sa la materia vi. 2, 9; 3, 4. x1. 8, 5; non ce ne può essere
scien- ze vi. 2, 4e 11-12. x. 8, 164, nè arte o potenza
determinata xi. 4, 2-3; senza l’a. tutto avver- rebbe di necessità
vi. 2, 3 e 8; 3, 1 ss. xi. 8, 5-6; e caso x1. 8, 8-9; € l'errore
1x. 10, 7; alcuni contrari possono convenire ed una sostanza per
a., eltri ne- cessariamente no x. 10, 1-2; a. essenziali v. 30, 4.
1v. 2, 13-14; sono studiati dalle scienze di- mostrative ur. 1, 7;
2, 12-15. iv. 1, 1. xr. 1,5. xu. 3, 4-6; acci- dentalità
dell’universale al par- . ticolare I. 1, 8; 9, 6. v. 2, 10.
vir. 8, 1. xni. 4, 8; 10, 10; l’a. an- teriore all’ intero secondo
il con- cetto v. 11, 7. — vedi Uno (v. 6, 1-3), Essere (v. 7, 1-3)
e Iden- tità (v. 9, 1-2). Affezione: v. 21; e sostanza iu.
5, 2-3. vir. 13, 5. 1x. 7, 8-10. Alcmeone: 1. 5, 9. Altro:
opposto de lo stesso x1v. 1,6. Analitici: 1v. 3, 3. vu. 12, 1. x1.
1, 9; cfr. x1. 6, 12. Analogia: v. 6, 15; 9, 5. vu. 2, 6.
1x. 6, 3 e 6. x11. 4, 1-6; 5, 2-5. xv. 2,9; 6, 7. Anassagora: 1.
3, 20, 28, 29; 4, 7; 5, 19-20; 6, 16; 7, 2,3,5;8, 10;9, 11. iv. 4,
1e25;5,3 69; 7, 10. vu. 1, 5. x. 6, 4. xx. 6, 14. x11. 2,4; 6, 8;
10, 9. xnr. 5, 2. xiv. 4, 4. — vedi Fisici e Fisiologi.
Anassimandro: 1. 5, 13 n; 7, 2? x. 2, 1. x1. 10,9. x. 2, 4. — vedi
Fi- sici, Fisiologi e Ionici. Anassimene: 1.3, 17
623;7,2;8,1e5. mu. 1, 15; 4, 33. v. 4,5. x.2,1L.— vedi Fisici,
Fisiologi e Ionici. 478 Anima: in quanto oggetto
della Fisica vi. 1, 4j e corpo v. 8, 2. vi. 10, 13-14; 11, 10. vu.
3, 1-2; come potenza d’ambedue i con- trari ix. 2; se sia immortale
x. 3, 6. Animali: loro conoscenze 1. 1, 2-4. Anteriorità
(Priorità): v. 11; per la sostanza e per la nozione xur. 2, 12.
Antistene: 1v. 3, 3? v. 29, 2. vi. 3, 6. Apodittica: xi. 1,
3. Appetito: come muove l’oggetto dell’a. x. 7, 2. Archita:
vu. 2, 9. Aristippo: 1. 2, 4. Aritmetica: e geometria 1. 2,9.
xm. 3, 7; e astronomia x. 8, 4. Arte: ed esperienza 1. 1, 4-9; e
sa- pienza 1. 1, 10-17; a., natura e caso vii. 7, 1-5; 9, 1-2. ix.
7. x. 3, 2; e specie (concetto) vi. 7, 6-10. x. 3, 7; 4, 8; 10, 9;
come potenza ix. 2, 1j 3, 2; 5, L Assiomi: lo studio di essi
spetta alla filosofia mi. 1, 4; 2, 7-10. 1v. 3. xI. 1, 3; 4, 1-2;
perchè è ne- cessario che ci siano mr. 2, 9. Astronomia: e le
altre parti della matematica x. 8, 4. Atomisti: vir. 1, 5. — vedi
Fisici. Attività: v. 15, 1 e 5. 1x. 3, 8-9; e movimento 1x. 6,
11-12; ed atto rx. 1,2 n; 9, 4. x1r. 9,4. xt. 9, 4; a. del nous e
piacere xt. 7, 6. AUo: e materia vu. 2. x. 5, 2; e forma xi. 5, 2;
e potenza vI. 2, 3; non sono la stessa cosa Ix. 3, 1-7; 6, 1.6;
come potenzialità infinita 1x. 6, 7; differisce dal movimento 1x.
6, 8-12; passaggio dalla potenza all’a. vui. 6, 5. Ix. 7. xil, 2,
3; è prima della po- tenza. ix. 8-9. xi. 6, 4-9; come
METAFISICA fine 1x. 8, 12-13; creatore del pensiero ix. 9,
4-6; necessità di porre come principio un a. puro xii. 6, 3; 7, 1;
l’a. puro come so- stanza vi; in esso consiste la felicità x. 7,
2-6; l’a. puro co- me autocoscienza xi. 9; è del determinato xui.
10, 9. Autocoscienza: xn. 9. Avere: v. 23. Azione:
riguarda il particolare 1. 1, 8; ed atto ix. 1,2 n; 8, 15; e mo-
vimento ix. 6, 8; a. pratiche contrapposte alla teoria iv. 4,
34-35. xI. 6, 9; a. pratica vi. 1 3. xI. 7, 83. Ù
Bello: principio insieme di cono- scenza e di movimento v. 1,
8; muove non mosso zl. 7, 2; si trova nel principio xn. 7,
ll. xiv. 4, 2 ss.; e bene xm. 3, 8. Bene: e fine 1. 2, 12; 3, 5;
se si dia di- mostrazione del b. nelle matema- tiche mi. 2, 4. x.
3, 8; e vero vi. 4, 3; principio insieme di co- noscenza e di
movimento v. 1, 8; muove non mosso xt. 7, 2; si trova nel principio
x. 7, ll. xiv. 4, 2 ss.; come causa dell’u- niverso x. 10; e belio
x. 3, 8. Bontà: è qualità soprattutto degli esseri viventi forniti
di volontà v. 14, 6-7. Callippo: x, 8, 8. Capacità:
v. 12, 1-7 e 11. Caso: c., natura ed arte vir. 7, 1-5; 9, 1-2. x.
3, 2; = causa acciden- tale xi. 8, 8-9. Categorie: e l’essere v.
7, 4. vi. 2, 2. vii. 1, 1. xiv. 2, 5; e la sostanza vir, 1. rx. 1,
1. xx. 12, 1. xn. 1, 1-2. INDICH DAI NOMI E DEGLI ARGOMENTI
479 xiv. 1, 13; hanno unità e realtà per se stesse VIII. 6,
7. — vedi Sostanza e sue determinazioni. Causa: v. 2; che cosa
s'intende per c. di un fatto vir. 17. vu. 4, 5-8; e divenire vm. 7,
1; 8, 1; e principio iv. 2, 5. v. 1, 7; ed elemento xi. 4, 8; c.
acciden- tale vi. 2-3. xI. 8,8; c. efficiente xu. 3, 1.
Cause: son più conoscibili di tutto i. 2, 11; loro eternità vi. 1,
5; loro analogia xn. 4, 1; il loro processo non è infinito n. 2;
le quattro cause prime 1. 3-7. v. 2, 1-5 e 8. — vedi Principii.
Cieli: loro movimento ix. 8, 24-26. x. 7-8, 12; eternità delle
sostan- ze celesti vi. 1, 5. vir. 16, 7. x1. 6, 6. xr. 8, 2-4.
Cielo: movimento ed eternità del primo c. xu. 7, 1; 8, 2.
Concetto: e parola iv. 7, 9; e defi- nizione Iv. 7, 9. v. 8, 4. vi.
4,9- 10; 10, 1; 12. viu. 1, 4; ed essenza (sostanza) vir. 4, 9-10;
11, 14. vi, 1, 4 e 6; 2, 8; 4, 6; e materia vir. 7, 12; sue parti
vii. 10; 11, 14-15. vin. 1, 4; 6, 6; non c'è di- venire del c. vi.
15, 1; e scienza ix. 2, 3. xI. 1, 10; fa vedere in- sieme il fatto
e la sua privazione 1x, 2, 3-5; anteriorità secondo il c, e secondo
il senso v. 11, 7. Conoscenza: suo processo 1. 1; si ha per mezzo
di definizioni III. 3, 3; riguarda l’universale mi, 4, 2, o la pura
essenza vi. 6, 10. vi. 4, 5; attuale vit. 10, 17; 15, 1; è del
simile col simile 1. 4, 22; relazione di c. e-conoscibile v. 15, 1e
8; come oggetto del pen- siero xu. 9, 7. — vedi Concetto,
Intelligenza, Opinione, Scienza e Sensazione. Consecutivo:
x1. 12, 10; e contiguo xi. 12, 13. Contatto: e unità organica v.
4, 4. x. 1,2. xr. 10, 11; 12, 13. xt. 3, 3; e continuità x. 1, 2.
x1. 12, 12; e consecutività xi. 12, 10 e 13; e contiguità xi. 12,
12. Contiguo: x1. 12, 10; e continuo x1. 12, 12; e consecutivo xi.
12, 13. Continuo: v. 6, 5-6 e 11 s. x. 1, 2; e grandezza v. 183,
2. xi. 10, 14; e pluralità v. 13, 2; e contiguo (v. 6, 5). x1. 12,
12; e consecu- tivo xi. 12, 13; quantità e c. og- getto della
matematica xr. 3, 6; 4, 1. Contraddizione: x. 7, 3; e
contra- rietà Iv. 3, 7; non sono la stes- sa cosa x. 4, 6; e
opposizione v. 10, 1; e privazione x. 4,7. — vedi Principio di non
contrad- dizione. Contrari: sono insieme non in at- to ma in
potenza iv. 3, 7; 5, 4; 6, 12. x1. 6, 14; tutti si riducono al
principio dell'uno e del mol- teplice lr. 1, 8. iv. 2, 6 ss. x. 3,
3 ss. x1. 3, 3 ss.; sono oggetto di un'unica scienza Ix. 2, 3. xI.
1, 2 e 5; 3, 5; un c. non può avere più di un c. mr. 1, 8. x. 4, 3;
5, 1; alcuni possono con- venire ad una sostanza per a. altri
necessariamente no x. 10, 1-2. — vedi Potenza. Contrarietà: v. 10,
1-4. x. 3, 10; spaziale xr. 12, 10; e contraddi- zione iv. 3, 7;
non sono la stessa cosa x. 4, 6; e opposizione (v. 10, 1). x. 3, 1;
4, 6; e privazione x. 4, 8-11; è differenza massima (perfetta) x.
4, 1-5; 8, 3; prin- cipale x. 4, 5; e intermedi x. 7; le c.
contenute nel concetto pro- ducono differenze di specie, non
480 se siano nella cosa concreta ma- teriale x. 9, 1-4;
niente è con- trario al principio primo xn. 10, 12, nè alla
sostanza xiv. 1, 2. Corpo: v. 6, 14; 13, 2. — vedi Enti
matematici. Cratilo: 1. 6, 2. 1v. 5, 13. Cultura: suo sviluppo
vu. 3, 12. Da qualcosa (essere): v. 24. Decade: si vuole
che-sia il nume- ro perfetto e finito 1. 5, 5. x. 8, 1. xm. 8,
18-25. xIv. 1, 15. Definizione: e dimostrazione 1. 9, 34. vi. 15,
2; e induzione 1. 9, 34. vi. 1, 2; e concetto 1v. 7,9. v. 8, 4.
vii. 4, 9-10; 10, 1; 12. vin. 1, 4; e parola vn. 4, 10. vin. 6, 2;
con la materia e senza VI. 1, 4. xI. 7,4; della pura essenza vii.
4-5. vin. 1, 4; se debba comprendere la, materia vi. 7, 12-16; sue
parti vu. 10-11. vii. 1, 4; 6, 6; sua uni- tà vir. 12; della
sostanza vir. 13. 6-11; non c’è delle sostanze sen- sibili
particolari vir. 10, 17; 15, 2 ss., nè delle idee vir. 15, 4 ss.; e
differenze vir. 12, 5-13. vu. 2; del- la sostanza composta vin. 3,
7; causa della sua unità vu. 6; non bisogna esigere d. di tutto
ix. 6, 3. Democrito: 1. 4, 11. iv. 4, 15,83 7-9. vir. 13,
10. vin. 2, 2. xt. 2, 4. x. 4, 3. — vedi Atomisti. Diade
indefinita del grande-pic- colo: posta da Platone come principio 1.
6, 9-12. xr. 2, 6. x. 6, 7; 7, 3. xv. 1, 8; perchè l’ab- bia posta
xiv. 2, 4-16; se ne ven- ga facile la produzione dei nu- meri 1. 6,
13-14; e l’unità dei nu- meri 1. 9, 21-22. x1, 2, 6. xin. 8, 13-15;
sue determinazioni 1. 9, METAFISICA 23-25. xnr. 9,
2-6. xiv. 2, 11; 3, 9; è un principio troppo matema- tico 1. 9, 28;
è predicato non sostanze 1. 9, 28. xiv. 1, 10-11; è affezione della
quantità v. 13, 4. xiv. 1, 11; se si possano deri- vare dal g.-p.
gli oggetti geo- metrici 1. 9, 31. xnr. 9, 2-6 e 11, le idee numeri
x. 7, 4 ss., i nu- meri (matematici) xui. 8, 5 ss. xiv. 3, 9-10; 5,
3-7, ei numeri pari xiv. 4, lj sua natura e qualità xIII. 8, 2; e
la natura dell’uno xui. 8, 26-9, 1; e il male xv. 4, 10; eltri
principii posti invece del grande-piccolo xiv. 1, 4-5. Dialettica:
1. 6, 12. mi. 1, 8. xm. 4, 3; e filosofia rv. 2, 14. x1. 3, 7; e
sofistica Iv. 2, 14. Differenza: v. 9, 5; e contrarietà v. 10, 2.
x. 3, 10; 4, 1-48, 3; e diversità x. 3, 8-9; riguarda solo lo
stesso gepere x. 4, 1e 4; 8, 5; e genere v. 3, 5.— vedi Di- versità
di specie. Differenze: e metodo definitorio vir. 12; quantitative
e qualita- tive vin. 2 (cfr. 1. 4, 12-13). Dimostrazione: e
definizione 1. 9, 34. nti. 2, 14. vir, 15, 2; e indu- zione 1. 9,
34. vi. 1, 2. x1. 7, 2; e confutazione Iv. 4, 3-4. x. 5, 2 e 7; non
c'è d. di tutto rv. 4, 2; 6,2. xI. 6, 11, nè dell'essenza o
sostanza In. 2, 14. vi. 1,2. x1. 1, 5; 7, 2, nè delle sostanze
sensibili particolari vi. 15, 2-3; il princi- pio della d. non è
una d. iv. 6, 2; è necessaria v. 5, ‘5. Dio: e la sapienza 1. 2,
18-20; come principio primo xi. 7, 6; muo- ve non mosso x. 7, 1-5;
è il Bene e il primo intelligibile ivi; guoi attributi x. 7, 6-14;
in quanto atto puro del pensiero INDICE DREI NOMI E DEGLI
ARGOMENTI xIr. 9; in quanto fine ultimo x. 10.
Diogene: 1. 3, 17. Disposizione: v. 19; ed abito v. 20, 2.
Dissimile: opposto di simile, sue privazione x. 4,9. — vedi Simile.
Disuguale: opposto dell'uguale, sua privezione v. 22, 5. x.
4,9.— vedi Uguale. Diventre: due modi del d. 1. 2, 6-7. vir.
4, 2; impossibile senza l'essere mi. 4, 7-9. 1v. 5, 14; ed essere
mt, 6,8; da essere e non essere xI. 6,3. x11. 2, 3; sue cau- se e
suo processo VII. 7-9. vni. 6, 5; suoi due sensi vu. 1, 7-8; suo
processo tra i contrari vI. 5. x. 4, 8. xIv. 1, 1-2; 5, 6; suoi
presupposti ix. 8, 6-13. xu. 8. xIV. 2, 1.— vedi Movimento e
Mutamento. Diversità: v. 9, 4; 28, 6; e identità v. 9, 4. x. 3,
6-7; e differenza x. 3, 8-9; e molteplicità x. 3, 3; per la specie
v. 10, 5. x. 8-9; 10, 3 e vedi Differenza. Divisione: d., verità e
falsità vi. 4, 1-4. 1x. 10, 2-7; nel pensiero non nelle cose vi. 4,
4; e metodo de- finitorio vu. 12, 5-13. vm. 3, 8; si fa per opposti
x. 8, 3. Dubbio: sua necessità ir. 1, 1-2; inutilità del d.
sofistico Iv. 6, 2. Eleati: 1. 3, 24; 5, 12; 8, 1. vi. 1,
“5. xu. 10, 10. Elementi: se siano gli stessi per tutte le
sostanze sensibili xn. 4, 1-5, e per le sostanze, le rela- zioni
e le qualità x. 5, 6; se principii delle cose siano gli ele-
menti o ì generi mn. 1, 9; 3, 1-4. x1. 1, 10; se entrino nel
concet- ARISTOTELE, Metafisica. 481 to
di una cosa vir. 10, 3-18; se in essi si risolva una cosa VII. 17,
8-10. vu. 3, 3-4. x. 10, 1-8; se le cose eterne si compongano di e.
xiv. 2, 1-2. Elemento: v. 3; e principio vu. 17, 8-10. xi. 4, 6-7.
x1v. 4,3, 7 e 12; e causa XII, 4, 8. Empedocle: 1. 3, 19 e 26;
4,34 e 8-10; 5, 19-20; 6, 16; 7, 2-3 e 5; 8,8e9; 10, 2. mn. 1, 15;
3, 2; 4, 21-24 e 83. iv. 2, 15; 4,1; 5, 9. v. 4, 5-6. vi. 1, 5. 1x.
8, 20? x. 2, 1. xn. 1, 4; 2, 4; 6, 8; 10,8. xiv. 4, 4. — vedi
Fisiologi. Ente ed Uno iv. 2, 1-7. x1. 3, 4; se siano principii
in. 1, 10; 3, 6-12. xI. 1, 10-11; se siano sostanze ur. 1, 15; 4,
32-42. vir. 16, 3-4. x1. 2, 5-7; se siano pura essenza VII. 6, 8.
Epicarmo: iv. 6, 11. xu. 9, 16. Eraclito: 1. 3, 18 e 23; 6, 2; 7,
2; 8, 1 e 4-5. un. 1, 15; 4, 33. 1v. 3, 6; 4, 1; 6, 13; 7, 10; 8,2.
v. 4,5. x1. 5, 7; 6, 14; 10, 9. x1r. 1, 4; 10, 5? x. 4, 2. — vedi
Fisiologi. Eristica: iv. 7,9. Ermotimo: 1. 3, 29. Errore:
quando si abbia Iv. 9, 5; dove ha luogo per le cose sem- plici 1x.
10, 7-12. Esiodo: 1. 4, 1; 8,6. 11. 4, 19. xIv. 4, 4
Esistenza: e suo perchè vu. 17. Esperienza: e memoria 1. 1, 4; e.,
arte e scienza 1. 1, 4 ss. Essenza: e sostanza iv. 4, 20. v. 8, 4.
vir. 1, 1 ss.; 8, 15; 7,8; 19, 1; e determinazioni secondarie
(categorie) vir. 1, 1 ss.; e forma vir. 10, 16. vi. 3, 2; e atto
vin. 3, 2; e. pura: che cos'è vil, 4, 1-5; se si dia di altre
categorie e di sostanze composte vm. 4-5; s1
482 se coincida con l’individuo vii. 6; 11, 16; ed esistenza
vm. 6, 4 ss.; appartengono alla stessa facoltà del pensiero vi. 1,
2; non ce ne può essere generazione vu. 8, 3; come causa va. 17,
4-7. vii. 4, 4; fa passare dalla po- tenza all'atto vin. 6, 5-15;,
non ce n'è dimostrazione m. 2, 14. vi. 1, 2. x1. 7,2; con la
materia e senza di essa Vi. 1, 4. x1. 7, 1; come vi può essere
errore intorno alle e. vi. 4, 3. rx. 10, 7-12; principio del
sillogismo vu. 9, 5. xm. 4, 3. — vedi Causa e Definizione.
Essere: v. 7; suoi sensi molteplici iv. 2, 1. vi. 2, 1 vu. 1, 1. 1x.
1, 1-2; 10, 1. xr. 83, 1-2. xiv. 2, 5; in quanto essere oggetto
della filosofia iv. 1. xI. 3. Essoterici (scritti): xmi. 1, 5.
Eudosso: 1. 9, 11. xn. 8, 7-8. x1. d, 2. Eurito: xiv. 5, 8.
Eveno: v. 5, 3. Falso: v. 7, 6; 29, 1v. 7,12e4. vi.
4. 1x. 10. x1. 8, 7. xiv. 2, 7-8; nella fantasia, non nella
sensazione iv. 5, 19; e impossi- bile v. 12, 8. Ix. 6, 3; e
possibile v. 12, 9; non esiste nelle cose ma nel pensiero vi. 4,
3-5; in che senso sì abbia falsità per una es- senza (v. 29, 2).
vi. 4, 3. rx. 10, 7-12. — vedi Verità. Fantasia: 1. 1, 4; e
sensazione iv. 5, 19. Felicità: 111. 4, 22. 1x. 6, 10; 8,
18. xm. 7, 9. Ferecide: xiv. 4, 4. Figura: vedi Enti
matematici e Forma. MHTAFISICA Filosofia:
scienza della verità n. 1, 4; suo metodo mn. 3; è scienza unica di
tutte le cause 1. 3, 4. ur. 1, 3; 2, 1-6. x1. 1, 2; spetta ad essa
lo studio degli assiomi ni. 1, 4; 2, 7-10. 1v. 3. x1. 1, 3; 4, 1-2;
è scienza unica di tutte le so- stanze mi. 1, 5; 2, 11-12. 1v. 2.
xi. 1, 4; 3; e degli accidenti 1. 1, 7; 2, 13-15. xr. 1, 5; ad essa
spetta lo studio delle determi- nazioni dialettiche 1. 1, 8. rv. 2,
6-19. x. 3, 3 ss. xI. 3, 3 s8,; suo oggetto è l’essere in quanto
essere Iv. l. x1. 3; sue parti Iv. 2, 7. vi. 1, 6-7. vir. 11, 11. x1.
7, 7.8; e dialettica Iv. 2, 14. x. 3, 7; e sofistica èvi; scienza
del di- vino vi. 1, 6. x1. 7, 7; e le scien- ze iv. 1,1; 3, 1s. vi.
1,19.x1. 3, 6-7; 4; 7; ad essa spetta di studiare la materia degli
enti matematici xi. 1, 9; ed astro- nomia xi. 8, 4. — vedi
Sapienza. Fine: v. 16, 3; è l’atto anche se mira alla produzione
di un og- getto rx. 8, 16-18. — vedi Causa. Fisica: e sapienza
(filosofia) 1v. 3, 2. vi. 1, 3-7. vin. 11, 11. xx. 1,9, 3, 7; 4, 3;
7, 3-8. x1r. 1, 7; e lo studio degli assiomi Iv. 3, 2. x1. 4, 3.
Fisici: iv. 3, 2 e 39; 4, L. 1x. 8,25. xi. 10, 9. xmn. 6, 5; 10,
13. x1u. 4, 3. — vedi Fisiologi. Fisiologî: 1.5, 13 e 18; 8,1 e
17-18 9, 28. ur. 4, 33; 5,5. 1v. 1,2.v. 3, 2; 4, 5; 23, 4. vin. 2,
4.x.2,1. x1. 6, 2-3. x11. 1,3 s. — vedi Fisici. Forma: se esista
la f. oltre le mate- ria e il sinolo 1. 1, 11-12; 4, 1-13. xi. 2,
1-3 e 9; e termine (limi- te) v. 17, 2; e materia vu. 3; 8; 10. xn.
3, 1-4; e definizione della sostanza vir. 10, 3-8; sue
INDIOB DHI NOMI DB DAGLI ARGOMENTI parti vm. 10; 11, 1-3;
indipen- dente dalla materia vir. 11, 2-3; sua definizione vui. 1,
6; e atto vi. 2, 1 9s., 8 9s.; 3, 1 98.; 6, 3 e 11. xIr. 5, 2; come
principio -xn. 2, 7; 4, 5. — vedi Causa. Generazione: x1.
11, 4} e movimento xr. 11, 5-12, 7; nelle cose natu- rali vir. 7,
1-5. 1x. 7. x. 3, 3; nelle cose artificiali vit. 7, 1-5; 9, 1-2.
Genere: v. 28. x. 3, 9; 8, 1; come materia (v. 28, 5). vir. 7, 12;
12, 7. x. 8, 1 e 5; se sia sostanza vi. 1, 3-5. x. 2, 2; e specie
v. 3, 5; 25, 2 e 4. x. 8-9; e diffe- renze specifiche nella
defini- zione vu. 12. — vedi Universali. Generi: se siano
principii; i pros- simi o i sommi ur. 1, 9-10; 3. x1. 1, 10.11.
Geometria: ed aritmetica 1. 2, 9. xi. 3, 7; ed astronomia x. fì,
4. — vedi Diade, Grandezza ed En- ti matematici.
Grande-piccolo: vedi Diade del grande-piccolo; e uguale x. È. xiv.
1, 3. Grandezza: v. 13, 2; e limite (ter- mine) v. 17, 2; se
derivi dai prin- cipii dei numeri I. 8, 21; 9, 24. im. 4, 41-42.
xir. 10, 14. xm. 6, 10 e 16; 8, 11; 9, 2-6. xIv. 3, 7. Idee
(platoniche): 1. 6,4 89.; 9, 1-15. Im. 2, 17; 6, 4. vir. 6, 4 88.;
8, 6 ss.; 13, 1 ss.; 14, 1 ss.; 165, 4 88., 7 ss.; 16, 6 ss. vur.
1, 2-3. 1x. 8, 28. x. 10, 8. xr. 1,7; 2, 1 ss. xl. 1, 6; 3,7; 6,3 e
9. xur. 1, 3 e 6; 4-5; 9, 18-10. xiv. 2, 17 8.; idee numeri: 1. 9,
16 ss. m. 2, 483 18 ss. vin. 11, 4-6. x1. 1, 7; 2,
6. x. 1, 6; 6, 3; 8, 1; 10, 11 e 14. xi. 1,3 e 6; 6-7; 8, 1-4, 10,
13 89.; 9, 12, 18 ss.; 10. xiv. 2, 17-38; 4,1,9e 12.
Identità: 1v. 4, 14. v. 9, 1-3; 10, 6; 15, 4. x. 3, 4 e 6; 8, 4; e
unità (v. 9, 3). v. 15, 4. x. 3, 3-4. Imitazione: se significhi
qualche cosa 1. 6, 6-7; 9, 12-13. vu. 8, 8. xur. b, 3.
Immanenza: e trascendenza x. 10. Impossibile: contrario di
possibile. — vedi Possibile. Incapacità: v. 12, 7; 15, 7.
Individuo: se coincida con l’'es- senza vir. 6; 11, 16; e uno x. 1,
4-5; sinolo di materia e forme xu. 3, 3. Induzione: e definizione
1. 9, 34. vi. 1, 2. 1x. 6, 3; e dimostrazione I. 9, 34. vi. 1, 2.
x. 7, 2; pro- cesso induttivo x. 4, 3. Inerzia: contrario del
movimento x1. 12,9. Infinito: n. 2, 9. x1. 10. xn1. 7, 12;
in potenza e in atto 1x. 6, 7; non si può proseguire all'infinito
con le cause u. 2, 1 ss., né con la di- mostrazione nr. 2, 9. 1v.
4, 2; 6,2; 7,9. x1. 6, 11, nè coni principii mu. 3, 9; 4, 27. vi.
3, 3. x1. 2, 4. xu. 10, 13, nè con il divenire 1. 4, 7-8. 1v. 5,
14. 1x.8, 9. x1. 12, 5. x. 8, 1, nè coni predicati senza un
soggetto Iv. 4, 22 s., nè con gl’ intermedi iv. 7, 7, nè con la
definizione vir. 5, 6. Ix. 6, 3, nè con le produzioni vn. 8, 2, nè
con gli elementi vii. 17, 9, nè ecc. iv. 4, 19; 8, 8. v. 20, 1. vu.
6, 13. ix. 8, 19. xn1. 2, 5 ecc. In qualcosa (essere): v. 23, 5.
Intelligenza: e sensazione 1v. 6, 8; nell’atto del conoscere vm.
10, 484 17; messa in movimento dall’in-
telligibile xt. 7, 2; divina pen- sante se stessa xu. 7, 7-8; umana
e divina xn. 7,669;9,9. Intelligenze: motrici dei Cieli xu. 8,
1-4. Intermedi: x. 7. x1. 12, 10; e con- trari x. 7; sono nello stesso
ge- nere dvi. Intero: v. 26; ed uno (v. 26, 2 e 5). x. 1,
3-5; e tulto v. 26, 6-6. Ionici: 1. 4, 12; 8, 1 vi. 1,5. — vedi
Anassimandro, Anassime- ne, Fisici, Fisiologi e Talete. Ipotesi:
1. 9, 25. i. 2, 22. 1v. 2, 18; 3, 5. vi. 1, 2. x1. 7, 2. xi. 3, 6;
7, 15 e 17; 8, 10; 9, 14 e 16. xiv. 2,7; 3, 8. Ippaso Metapontino:
1. 3, 18. Ippone: 1. 3, 16. Italici: 1. 5, 20; 6, 1; 7, 2.—
vedi Pitagorici. Leucippo: 1. 4, 11. xu. 6,6e6e8.—
vedi Atomisti. Licofrone: vini. 6, 10. Limite: v. 17; e principio
v. 17, 5. Linea: v. 6, 14; 13, 2. — vedi Enti matematici.
Logica: 1. 6, 12. — vedi Analitici. Luogo: vi. 2, 2. vir. 4, 6; 7, 1.
xt. 12, 1; sue specie xr. 10, 14. — vedi Categorie.
Magi: xiv. 4, 4. Male: non esiste fuori delle cose di quaggiù ix.
9, 3. — vedi Be- ne. Matematica: sua precisione mn. 3, 2-3;
suo oggetto e metodo 1v. 1, 1. vi. 1, 1 ss. x1. 3, 6; 4, le
filosofia vi. 1, 5-8. x1. 4, 2-3; 7, 5-8; se riguardi il bene 11. 2,
4. METAFISICA xm. 3, 8. — Enti matematici: v.
13, 2; come intermedi 1. 6, 8 ss.; 9, 20 ss. mi. 1, 6; 2, 16-26; 6,2-3.
vit. 2, 5; 11, 11. vr. 1, 2; xI. 1, 7-9. xn. 1, 6; 6,3. xur. 1,8 e
vedi Idee numeri; sono senza movi- mento 1. 8, 17. nr, 2, 18. vi.
1, 5. x1. 7, 5. xIv. 3, 11 ecc.; loro pro- duzione tr. 5, 10; le
relazioni aritmetiche non hanno l’attua- lità nel senso del
movimento v. 15, 5; come esistono, se siano sostanze mi. 1, 17; 6.
vir. 2,3. xt. 1, 7-3. xiv. 6,9 e vedi Numeri; loro materia vir. 10,
18; 11,9. Materia: e sinolo nr. 1, 12. xi. 2, 9; e forma vu. 8; 8;
10. xl. 3, 1-4; e sostrato vir. 8, 2-4; 8, 1-2; che cos'è vir. 3,
6-9. vir. 1, 6; e concetto o definizione vi]. 7, 12-15; 11, 13-15;
per sè incono- scibile m. 2, 9. vii. 10, 18; sen- sibile ‘e
intelligibile vir. 10, 18; 11, 9. vm. 6, 6-7; non si può astrarre
da essa vil. 11, 7-8; pri- ma e ultima, propria e comune v. 4, 8;
24, 1. vir. 10, 15. vin. 4, Ix. 7, 4-6; e potenza xit. 5, 2; come
principio x. 2, 7; 4,5. — vedi Cause. Megarici: 1x, 3, 1.
Melisso: 1. 5, 15-16. — vedi Eleati. Memoria: e sensazione 1. 1, 2-3;
ed esperienza 1. 1, 4. Mente: è immortale xI1. 8, 6.
Meraviglia: muove a filosofare 1. 2, 14-15 e 22. Metafisica: vedi
Filosofia (prima) e Sapienza. Metodo: dialettico-induttivo I.
2, 1 ss.; 8, 6 ss. 11. 1,2 ss.; mate- matico e fisico 11. 3;
aporematico Im. 1, 2 ss.; opportuno per la difesa del principio di
non con- traddizione iv. 4, 3 ss. xI. 5, INDICE DHI NOMI HR
DEGLI ARGOMENTI 3 ss.; della ricerca su argomenti affini el
proprio xl. 8,6 e 10; e scienza ti. 3, 8. 1v.3,3e5.— vedi Definizione,
Divisione, Di- mostrazione, Eristica, Induzio- ne, Sofisti e
Sofistica. Misura: v. 13, 2. x. 1, 9-16. xIv. 1, 7-9. Mito:
1. 3, 14; 4, 1. ur, 2, 17; 4, 19. v. 23, 4. xiv. 4, 4; e filosofia
1. 2, 15; e scienza I. 8, 1; e reli- gione x. 8, 14-15.
Molteplicità: e unità v. 6, 16.x.3, 1-3; 6; ad essa e all'unità si
ri- ducono tutti i contrari iv. 2, 6 ss. x. 83, 93 ss. x1. 3, 3
ss; quand’è che richiede scienze diverse Iv. 2, 10. Mondo: è
unico xu. 5, 13. Motore: primo immobile Iv. 8, 11. rx. 8, 19. xII.
6; unico xn. 8, 13. Movimento: xI. 9; e potenza ivi; e quantità v.
13, 5. xt. 10, 15; e attività ix. 3, 8-9; 6, 11-12; eter- no tx. 8,
24 ss. x11. 6, 2 ss.; spa- . ziale perfetto è quello circolare x.
1, 3. xm. 6, 237, 1e4; 8, 2; non esiste fuori delle cose xI. 9, 2 e
10; non ci sarebbe senza le sostanze xII. 5, 1; sue specie xI. 9,
2; 12,168. xIv. 1, 12; non c'è m. di m. xr. 12, 2 ss.; e mu-
tamento xr. 12, 4; suoi presup- posti x1. 12, 7; e tempo xl. 6, 2;
dei Cieli x11. 7-8, 12. — vedi Cau- se, Divenire, Motore e Muta-
mento. Mutamento: x1. ll; qualitativo e quantitativo Iv. 6, 15.
vin. 1, 7-8; presuppone l’essere iv. 8, 10; è tra contrari iv. 7,
3. x1. 10, 9; 11, 3 e 8; 12, 11. xn. 1,8; 2, 2; sue specie vin. 1,
7-8, xI, 9, 2; 11, 468. xII. 2, 2; e movimento xI, 12, 4; periodico
universale 485 xII. 6, 9. — vedi Divenire e Mo-
vimento. Mutilato: v. 27. Natura: v. 4; arte, n. e
caso VII. 7, 1-65; 9, 1-2. 1x. 7. x. 3, 2; e forza (v. 4, 4). vir.
16,2. x. 1,8. xI. 6, 6. Necessità: 1v. 5, 25. v. 5; e violenza
“(v. 5, 3). vi. 2, 7. x1. 8, 3. xI1. 7, 5. Numert: loro
produzione 1. 6, 12 s.; 9, 20 s. xIt1. 7,8-10 e 14; 8, 13-16; 9,
7-10. xiv. 2, 1; 5, 3-7; se si pro- ducano per aggiunta o per divi-
sione xIII. 6, 4; 7, 8-9 e 17-18: quale sia la causa della loro
unità 1. 9, 21. x1. 2, 6. xt. 10, 15. xii. 8, 14; se la loro serie
si limiti alla decade 1. 5,5. xII. 8, 1. xii, 8, 18-25. xiv. 1, 15;
primi 1. 6, 12; loro differenza qualita- tiva v. 14, 2 e 6. x. 6,
2; 7, 12; 8, 1-2; se le loro unità siano ad- dizionabili o no xi.
6, 2 ss.; 7; 8, 1-4 e 8; se ne derivino gli enti geometrici vedi
Grandezza; il primo principio non è un ele- mento dei n. xiv.
4, 7. — vedi Diade, Idee numeri ed Enti ma- tematici.
Numero: se sia causa delle cose i. 8, 22; 9, 16. x1r. 10, 14. xIn.
6-8. xiv, 5, 8-6; se abbia esistenza separata (sia sostanza) Irt.
1, 17; 5, 1. x1. 10, g. xI11. 1,3 e 6; 2,5; . 6-8. xIv. 2,
7-3; 4, 1 e 12 e vedi Enti matematici; aritmetico: co- m'è
xi. 8, 11; da chi è ammesso xIIt. 6, 15; matematico: com'è xuI. 6,
3; matematico e ideale x. 1, 3; 6,8; 7,2 e 4-5; 8, 10; 9, 13-14.
xiv. 2, 3; e quantità v. 13, 2. x. 1, 9. xIv. 2, 16; e l'uno
(misura del n.) x. 1,9 e 14; 6, 8. xII.8,26-9, 1. xiv. 1,8;4,3e7.
486 Omero: 1v. 5, 9. x11. 10, 16, xIv. 4, 4; 6, 5.
Opinione: e scienza iv. 4, 35. VII. 15, 2; e realtà Iv. 6, 8-10;
se abbia sè come oggetto xi. 9; 6. Opposizione: e suoi modi v. 10,
1. x. 3, 1; 4,6. Opposti: sono oggetto di un'unica scienza
Iv. 2, 8. Parmenide: 1. 3, 25; 4, 1; 5, 16 e 17. in, 4, 37;
5, 9. Iv. 2, 15? xIv. 2, 4. — vedi Eleati. Parte: v. 25. (vir. 10,
3). Partecipazione: se significhi qual- che cosa I. 6, 6-7; 9,
12,26. vm. 6,9. xi1. 10, 11. xt. 5, 3. Passività: v. 12, 2-5; 15,
1 e 5. 1x. 1, 8-9. Pausone: rx, 8, 14. Pensiero: è del
determinato lv. 4, 10; afferma o nega lv. 7, 4; e realtà vi. 4,
3-5. xr. 8, 7; e arte vil. 7, 9-10; attività non movi- mento 1x. 6,
8-12; l’atto del p. e il suo oggetto xII. 9. Percezione: vu. 10,
17; 15, 8; 17,7. Perfetto: v. 16. x. 4, 2. Per qualcosa (essere):
v. 18, 1-3. Per sè: v. 18, 4-8. Pianeti: e loro movimenti xII.
8, 2-12. Pitagora: 1. 5,9. Pitagorici: 1. 5, 1, 7, 9, 21;
6,1,6, 10-12; 8, 17 e 18; 9, 1 ur. 1, 15; 3, 3; 4, 32. 1v. 2, 15.
v. 8,3. vir. 1, 6; 2, 3; 11,4 e 6; 13, 10. x.2, 1. xl. 9,7 s. xu.
7, 11; 8, 1; 10, 7 e 15. xi. 4, 3; 6, 7, 10, 15; 8, 11. xiv. 3, 2,
4,6,113.;5,8. — ve- di Italici. Platone: t. 1, 4; 2, 14 e
18;6,15,, 4, 6,8 s., 11 s., 16; 7, 2; 8, 24; 9, 14 e 25. m. 1, 15.
rv. 4, 32; MHNTAFISICA 5,21. v. 5, 29; 11,9; 29, 3.
vi. 2, 5. vu. 2, 5. x. 2, 1. x1. 8, 2. xt. 3, 4; 6, 6-7. xt. 1,3; 4,1e3;
5, 4i 6, 8; 7, 5; 8, 8; 9, 15. xiv. 2, 4, 7,123, 9.
Platonici (Platone e): 1. 7,4; 9, 4, 5. ur. 2, 16 s. e 23; 3, 3;
6,3 Iv. 2, 15. v. 8, 3. vir. 2, 4; 6, 4, 9; 8, 6; 11, 5; 13, 2; 14,
1 e 10; 15, 4; 16, 5. vin. 1,2; 3,8 e 11; 6,3 e 9. 1x. 8, 28. x. 5,
2; 10, 3. xl. 2, 69,7 s. x. 1, 6; 6, 3; 8, I; 10, 6 s., 11, 16. xin
e xiv. Possibile: v. 12, 8 s. Posteriorità: v. 11.
Potenza: v. 12; e possibile v. 12, 11; ed atto vi. 2, 3; non sono
la stessa cosa 1x. 3, 1-7; 6, 1-6; e ma- teria vi. 7,3. xt. 5, 2;
dei contra. ri vin. 5. Ix. 2, 2-5; 5, 5-6; 8, 21; 9, 1. x. 4, 4.
XII. 2, 2; passaggio dalla p. all'atto vir. 6, 5. 1x. 7. XII. 2, 3;
suo significato origi- nario e derivati tx. 1, 2 ss.; po- tenze
razionali e irrazionali 1x. 2, 1 ss.; 5, 2 8s.; 8, 27; necessità
della p. 1x. 3, 1-7; sua realtà 1x. 4; come s'acquiste lx. 6, 1;
sua determinatezza ix. 5, 2 ss.; sue attualità ix. 7; è dopo l'atto
ix. 8-9. x. 6, 49. Potere: vedi Potenza. Principio: v. 1.
x1. 1, 11; e causa (v. 1, 7). iv. 2, 5; ed elemento vu. 17, 8-10.
x11. 4, 7. x1v. 4,3, 7 e 12; e termine (limite) v. 17, 5; peti-
zione di p. Iv. 4, 32. Principii: son più conoscibili 1, 2, 11; se
lo studio dei p. logici ap- partenga alla filosofia vedi As- siomi;
se siano p. i concetti o gli elementi ni. 1, 9-10; 3. x1. 1, 10-11;
se la loro unità sia nu- merica o specifica I. 1, 13; 4, 14-16. x1.
2, 10. xur. 10, 1 8s.; se 1, 9 INDICH DHI NOMI
E DEGLI ARGOMENTI siano gli stessi per le cose cor-
ruttibili e quelle eterne in. 1, 14; 4, 17-30. xI. 2, 4; se siano in
po- tenza o in atto 1n. 1, 16; 6, 6-8; se siano universali o
singolari rt. 1, 16; 6, 9-12. vit. 13, 2 ss. xI. 2, 8. xttr. 10, 1
ss.; i p. sommi riguardano l’ente in quanto ente Iv. 1; tutti i
contrari si riducono ai p. dell'uno e del molteplice Iv. 2, 6 ss.
x. 3,3 ss. x1. 3,9 98.; in quanto oggetto di studio del- le scienze
in generale vi. 1, 1. voi, 1, 1. xr. 1, 1 7, 1. xt. 1, }; principio
di non contraddizione ni. 1, 4; 2, 7.1v.3,6 ss. —6. xI. 5-6; del
terzo escluso lv. 7-8. xI. 6, 13-15; se siano generi xI. 2, 1-3;
principio primo di tutti i p. xI, 7, 6ri p. dell’essere non con-
sistono nella connessione delle nozioni xi. 8, 7; e cause xII. 2,
7; il principio motore xl. 3, 1; loro numero xII. 3, 1; 4, 5; loro
ana- logia xt. 4, 1; 5; il principio in quanto causa motrice x. 4,
6-9; il principio primo x. 6,3 ss. — vedi Cause. Privazione:
v. 22. tx. 1, 11-12; non è soltanto negazione Iv. 2, 8; è in certo
modo una proprietà v. 12, 5; che cos'è Iv. 6, 12; non si dà come
mancanza di tut- t'intero il concetto xi. 8, 5; e opposizione v.
10, i. x. 3. 1; 4, 6; e abito x. 4, 5; e contraddizione x. 4, 7; e
contrarietà x. 4, 8-10; come causa XII. 2, 7; come prin- cipio xu.
2, 7; 4, 5; 55, 5. Produzione: riguarda il particolare 1. 1, 8;
delle cose dell’arte vir. 7, 5-12; 9, 1-6; che cosa è v11. 8,2.
Protagora: ni. 2, 22; 4, 5. Iv. 4, 25; 5, 1 e 20-21? 1x. 3, 3. x. 1,
15. xI. 6, 1. 487 Punto: v. 6, 14; e unità v.
6, 14. xl. 12, 13. xnr. 8, 28. — vedi Enti matematici.
Qualità: v. 14. — vedi Categorie. Quantità: v. 13. — vedi
Categorie. Relativo: v. 15. x. 6, 5; e opposto v. 10, 1.
Relazione: v. 15; e opposizione v. 10, 1. x. 3, 1; 4, 6.
Religione: e mitologia xi. 8, 14-16. Riflessione: 1. 1, 5.
Sapere: è conoscere la causa 1. 3, 1. 11, 2, 10, o l'essenza n. 2,9.
111. 2, 6. vii. 1, 4; e scienza xi. 10,9. Sapienza: sua natura I.
1, 10 ss. — 2; scienza divina I. 2, 20; e dia- lettica iv. 2, 14; e
sotistica Iv. 2, 14; e fisica Iv. 3, 2. x1. 1, 6; 4, 3; scienza dei
principii (1. 2, 13). xI. 1—2 e vedi Filosofia; e ma- tematica xi.
4, 3; e mitologie xi. 8, 15. Scienza: e arte I. 1, 10-17; e
sa- pienza 1. 2. x1. 1, 1-2; scienze divise in teoretiche
(speculative, matematiche), poietiche (produt- tive) e pratiche I.
1, 17. vi. 1, 8; 2, 4. x1. 7,163. x11. 9, 7; scienze esatte I. 2,
9; e metodo n. 3, 3. iv. 3, 3 e 5; se la s. delle cau- se sia una
sola ut. 3, 4. ur. 1,3; 2, 1-6. x1. 1, 2; se lo studio dei
principii logici eppartenga a una sola s. nr. 1, 4; 2, 7-10. iv. 8.
x. 1, 3; 4, 1-2; se ci sia una sola s. per tutte le sostanze ni. 1,
5; 2, 11-12. 1v. 2. x1. 1, 4; 3; se le scienze che studiano le
sostanze debbano studiarne an- 488 che gli accidenti
ni. 1, 7; 2, 13-15. xI. 1, 5; dell'essere in quanto essere Iv. 1.
xI. 3; è dell’universale 1. 4, 2; 6, 12. xuI. 10, 5 e 9; è della
pura es- senze vil. 6, 7. xt. 2, 8; non c'è s. dell’accidente vi.
2,4 e 11-12. xI. 8, 1 e 4; è unica degli op- posti o contrari iv.
2, 8-10 e 16. Ix. 2, 3. xI. 1, 2 e 5; e sensa- zione 1. 4, 5; e
opinione Iv. 4, 35. vii. 15, 2; se sia associazione psichica vii.
6, 10; e concetto ix. 2, 3. x1. 1, 10; misura delle cose x. 1, 15;
e scibile x. 6, 5-7; sua relatività v. 15, 1e 8. x. 6, 5; suoi
generi vI. 2, 4. xI. 7, 3. xII. 7, 9; scienze fisiche e mate-
matiche e loro metodo vedi Fi- sica e Matematica; se abbia sé come
oggetto xi. 9, 6. Scopo: e tine 11. 2, 2. v. 16, 3. vi. 4, 4. —
vedi Fine. Semplicità: e unità xt. 7, 2. Senocrate: vir. 2, 7.
xt. 1, 6. xur. 1, 3; 6, I1 e 14; 8, 10; 9,2 e 14. xiv. 2, 3; 3,89;
4,12 e2n. Senofane: 1. 5, 15-16. Iv. 5, 11. Sensazione: 1. 1, 1
ss.; e sapienza I. 1, 13; 2, 3; e scienza nr, 4, 5; e intelligenza
Iv. 5, 8; e fantasia Iv. 5, 19; e apparenza iv. 5, 6 ss., 19 ss.;
6. xr. 6,45. e 10; che cosa sia Iv. 5, 8 s., 26; presuppone il
sensibile Iv. 5, 27 s.; sua rela- tività Iv. 6, 4 9s.; se solo ciò
ch'è sensibile può esistere qualora non ci fossero animali non
esi- sterebbe nulla 1v. 5, 26. x11. 2, 6; attività non movimento
1x.6, 8- 12; misura delle cose x. 1, 15; se abbia sè come oggetto
xII. 9, 6; anteriorità secondoil concetto e secondo il senso v, ll,
7. Sfere: celesti e loro movimenti xn. 8, 5-12.
MMATAFISICA Simile: e dissimile v. 9, 6; 15, 4. x.3,3 e 5;
4,9; e relativo v. 15,9. Simonide: 1. 2, 18. xiv. 3, 10. Singolo:
che cos'è 11. 4, 16. Sinolo: che cos'è in. 1, 12; 4, 13. XI. 2, 9;
se esista oltre la ma- teria e il sinolo qualcosa che abbia valore
di principio ni. 1, 11-12; 4, 1-13. xI. 2, 1-3 e 9. Socrate: 1. 6,
3 s. xi. 4, 3; 9, 23. Socrate (il giovine): vir. 11, 8. Sofisti:
ir. 2, 4. 1v. 2, 14. vi. 2, 5, vir. 6, 2 e 15. 1x. 8, 8. — vedi Li-
cofrone. Sofistica: vi. 2, 5. x1. 8, 2; e dia- lettica Iv. 2, 14.
xi. 3, 7. Sofocle: v. 5, 3. Soggetto: vedi Sostrato.
Sostanza: v.8; che cos'è vir. 11, 15; di essa non c'è dimostrazione
mi. 2, 14. vi. 1, 2.x1. 1, 5; 7, 2; ed universale 11. 6, 10. vi. 13.
vin. 1, 5. xI. 2,8; e unità iv. 2, 9; ed essenza iv. 4, 20. vir. 1,
1 ss.; 3, 1; 4 ss.; 7, 8; 19,1; e acci- dente Iv. 4, 21-24;
soggetto, non predicato v. 8, 1 ss, vir. 3, 5;:13, 3. xUI. 4, 8; e
qualità v. 14, 1-2 e 5; e materia vil. 3, 8; termine di conoscenza
v. 17, 4; princi- pio del sillogismo vir. 9, 5; e sue
determinazioni (categorie) vit. 1, 1 ss.; 3,7. van 1, Ltx. 1,1 XI.
1, 1 ss.; è prima delle altre determinazioni v11. 1, 3-4. xII. 1, 1
s.; se sia unica o molteplice vit. 1, 5—2; suoi significati
principali vil. 3, 1 89.; 13, 1 ss.; 15,1. vin. 1, 6 s.; s.
composta, e se di essa si dia definizione vil. 10. 1 ss.; 11, 12
ss.; 13,4 e 11. vi. 3; 8. pri- ma vii. 11, 16; se possa risultare
de altre sostanze vu. 13, 9 ss.; 14; 1 ss.; 16, 1 ss.; come cau- sa
vii. 17; ed elemento vi. 17, INDICE DRI NOMI HD DARGLI
ARGOMENTI 8-10; come sinolo vii. 1, 6; se sia numero vir. 3,
8-12; come sostrato 1x. 7, 7-9; e atto 1x. 8, 19; come atto puro
xl. 6, 3; co- me autocoscienza xil. 9, 2 8. Sostanze: se
appartengano tutte a una sola scienza I. 1, 5; 2, 11- 12. iv. 2.
xi. 1, 4 3; se ne esi- stano oltre quelle sensibili tr. 1, 6; 2,
16-26. vir. 2. vi. 1, 3; se la scienza delle s. debba stu- diare
anche gli accidenti 11. 1, 7; 2, 13-15. 1v. 2, 7-11. x1. 1, 5; vere
e proprie sono quelle na- turali vir. 8, 8. vin. 3, 5; natu- ‘rali
eterne vin. 4, 5; eterne sem- pre in atto ix. 8, 20 27; nessuna è
eterna se non è atto xiv. 2, 2; tre generi di s. x. 1, 5-7; 6, 1;
la s. immobile è atto puro xII. 6, 1 ss.; quale sia la causa della
loro molteplicità xiv. 2, 9-16. Sostrato: vii. 8; 13, 1. vi, 1, 6.
tx. 7, 7-9. x1. 11, 3; e materia vil. 7, 14. vni, 1, 6; materiale
xl. 3,3. , Specie: che cosa sia vii. 7, 6; suoi due sensi
virr. 1, 7-8; se le s. siano principii 1. 1, 10; 3, 5-12. xi. 1,
11: e atto 1x. 8, 19.— vedi Forma, Genere e Idee. Speusippo: vii.
2, 6. x. 1, 6; 7, 11; 10, 7 e 16. xi. 1,3; 6,90 13; 8, 5-9; 9, 2,
13, 20; 10, 1. xIv. 1, 8; 2, 18; 3, 3 e 7; 4,2-3, 7,10; 5, 2?
Storia: 1. 3, 6 ss. 1, 1, 3. xl. 8, 14-15. x. 1, 2. Superficie: v.
6, 14; 18, 2. — vedi Enti matematici. Talete: 1. 3, 12-15
623; 7,2; B,1e ò. II. 1, 15. v. 4, 5. — vedi Fisici, Fisiologi e
Ionici. 489 Tempo: e quantità v. 13, 5. x1. 10,
15; sua eternità xit. 6, 2; e mo- vimento xii. 6, 2; — vi. 2, 2.
vir. 4, 6. — vedi Categorie. Teologi: 1. 3, 14. 1. 4, 19. xl. 6,
5; 10, 13. xrv. 4, 3. Teologia: scienza prima vi. 1, 6. xi.
7, 7. Termine: v. 17; e principio v. 17, 5. Tutto: e parti v. 11,
11. vi. 17, 8- 10. vin. 3, 3. x. 9, 9; e intero v. 26, 5-6.
Uguale: v. 15, 4. x. 3, 3-4 xm. 7, 15; e grande-piccolo x. 5. xIv.
1, 3; e relativo v. 15,9. Unità: e molteplicità 1. 3; e sem-
plicità xII. 7, 2; e punto v. 6, 14. xI. 12, 13. xni. 8, 28. — dei
nu- meri: se siano addizionabili o no xtI. 7-8, 4.
Universale: e singolare in. 4, 16. v. 11, 7; come sia intero v. 26,2 s.
Universali: se sian principii 11. 1, 16; 6, 9-12. xr. 2, 8. xt.
10; se sian sostanza ni. 6, 10. vii. 10, 15; 13-16. vin. 1, 5. xI.
1, 8. xuI, 9, 21 ss.; 10,6 29. Uno: v. 6. x. 1; e molti x. 3;
u., pochi e molti x. 5, 1; 6. xnr. 1,6; e l'Ente sono la stessa
cosa Iv. 2, 5. x. 2, 6; se sian principii vedi Ente e x. 2. xI. 3,
4. xIV. 4, 3 8s.; come continuo (v. 6, 4-6 e 11-12). x. 1, 2; come
intero (v. 6, 12). v. 15,4; 26,2 e 4. x. 1, 3; è principio (misura)
del nu- “mero (v. 6, 13). x. 1, 8-14 e 16. xIv. 1, 7-9; è
indivisibile (v. 6, 14). x. 1,8 ss. Verità: la conoscenze di
essa è facile e difficile Ir. 1, 1-2; pro- 490
METAFISICA gresso nella conoscenza di essa zioni Iv. 7, 2 e 4. vi.
4. ix. 10 11. 1, 3; e l’essere 11. 1, 5-6. v. 7,6; xI. 8, 7; e
possibilità v. 12,9; e delle unità semplici ed essenze impossibilità v.
12, 8. rx, 10, 6 s8.; e opinione Iv. 4, 95; verità-falsità:
riguarda le con- nessione o divisione delle no- Zenone: rr. 4, 39-40. —
vedi Eleati. Armando Carlini. Carlini. Keywords: filosofia fascista, Bovio,
Locke, senso, esperienza, il mito del realismo, la categoria dello spirito,
animus e spiritus, filosofia italiana, storia della filosofia romana,
l’ambasciata di Carneade a Roma, la antichissima sapienza degl’italici, la
scuola di pitagora, sicilia e la magna grecia, geist, ghost, spirito, animo,
spirito oggetivo, Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei, aristotele,
il principio logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed esperienza,
storia della filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi filosofi –
mondatori – the great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carlini”
– The Swimming-Pool Library. Carlini.
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