Powered By Blogger

Welcome to Villa Speranza.

Welcome to Villa Speranza.

Search This Blog

Translate

Wednesday, January 8, 2025

GRICE E CARLINI

 

Grice e Carlini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia fascista – scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I love Carlini, and Speranza loves him even more,  but then he is Italian! My favourite is his “A brief history of philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto, con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una collana edita da Laterza che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo nella Laterza è GENTILE, conosciuto qualche anno prima, e CROCE, all'epoca ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre al C., anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due saggi su Aristotele (in realtà raccolte aristoteliche da lui curate, commentate e tradotte) cui fa seguito uno studio su BOVIO che desta l'interesse di non pochi studiosi e l'approvazione di GENTILE, considerato da C. suo tutore indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.  In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero immanentista gentiliano (GENTILE è, fino alla propria scomparsa, suo amico, oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia. Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani, raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist. Naz. di Cultura); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo spirito” (Roma, Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura); Il problema di Cartesio, Bari, Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni); “La Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le ragioni della fede, Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” (Bologna, Nicola Zanichelli). Dizionario biografico degli italiani. l'architrave 4  ala I ai Mi L. LL   SIRIA]   PST   IR del   (5   FILOSOFI ANTICHI E MEDIEVALI b)  A CURA DI G. GENTILE    ARISTOTELE    LA METAFISICA    TRADUZIONE E COMMENTO    AKA  E  EL Ò.  SX  QAR  RAT  (07 Ds)    A CURA D  ARMANDO CARLINI    gt    (O    )    53  Jy   i,  SK    NT    rx  SD    SR  AS,    di  CL n 4 ù TA  d    la  INS    a  SO    i Dya. | VAZAZA  pu SV  lea A PAGA NN  Ì rezza MI 7 / p) NIN N % té  dEILR Li CE. SENI È       FILOSOFI ANTICHI E MEDIEVALI    A CURA DI G. GENTILE       ARISTOTELE    LA METAFISICA    ARISTOTELE    LA METAFISICA    TRADUZIONE E COMMENTO  A CURA DI    ARMANDO CARLINI                  =       STA  4 ar y A) ù  (NRE (2 CN  SES  ei rrA i N /2.,  (STRU: DEA  ISIN NZIIA SIA  SNA RNIMEN  ENI | Nin KI  ILA AVIS  & N , MS x Na  w ELE  VIRZIONI    BARI  GIUS. LATERZA & FIGLI  TIPOGRAFI-EDITORI-L]BRAI    1928    PROPRIETÀ LETTBRARIA    APRILE MCMXXVIII - 79105    A  GIOVANNI GENTILE  AMICO E MAESTRO    AMATISSIMO    NOTA INTRODUTTIVA    1. — Dubbi su l’autenticità di alcuni libri della Metafisica  aristotelica, e su la sua composizione, furono sollevati sin dai  tempi antichi. Il testo, quale noi oggi abbiamo, corrispon-  dente, salvo lievi differenze, a quello del commento che va  sotto il nome di Alessandro d’Afrodisia, mostra sconnessioni  tali da far nascere sùbito i sospetti. L'occasione è offerta già  dal piccolo libro II (I minore, nell’enumerazione greca).  Asclepio (4, 9) notò che l’opera lascia molto a desiderare per  l'ordine della trattazione, e che vi sono passi ripetuti e parti  prese da altri scritti aristotelici; e aggiunse che, secondo al-  cuni, Aristotele aveva affidato ad Eudemo il manoscritto per  la pubblicazione, ma Eudemo non reputò opportuno pubbli-  carlo così come si trovava: il manoscritto subì molti danni  col tempo, onde, quando più tardi alcuni della Scuola ne  impresero la pubblicazione, non osando colmar le lacune di  loro testa, attinsero ad altre opere aristoteliche e armonizza-  rono il tutto meglio che poterono. L’autorità di Asclepio non  conta molto, ma quel che dice basta a provare che dubbi  si sollevarono ben presto. Questi non mancano del tutto negli  Scolastici, e risorgono più che mai con gli studi aristotelici  nel Rinascimento.   Nell’età moderna, dopo un tentativo, riuscito vano, di di-  mostrare che la Metafisica è un complesso risultante da libri  aristotelici ricordati nell’indice di Diogene Laerzio (nel quale  non si trova menzione della Metafisica), la questione è stata  ripresa, da un secolo in qua, più criticamente; ma, come    VUuI MBTAFISICA    spesso avviene, a un indirizzo rivoluzionario, che ha rifiutati  come spuri alcuni libri o parti di libri e tentato di dar al  resto un ordinamento del tutto arbitrario, si è opposto l’altro,  più cauto, di mantenere e giustificare, per quanto era possì-  bile, il testo nell’ordinamento attuale. A dar conto di tutto  ciò, ci vorrebbe un volume a parte, con dubbio vantaggio  per quel ch’è lo scopo principale della presente traduzione:  l'intelligenza dell’opera: la quale è senza dubbio di Aristo-  tele, anche se redatta in qualche parte su suoi appunti e  ordinata nell’insieme da suoi scolari.   Ma non possiamo prescindere da un critico recente, dallo  Jaeger, il quale, dopo di avere, negli Studien zur Entstehungs-  geschichte der Metaphysik des A. (Berlin, 1912), tentato di  sciogliere il testo nelle parti originarie, liberandole da quelle  via via aggiunte in sèguito, ha voluto, nel volume Aristoteles:  Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung (Berlin,  1923), collegare la storia della costituzione del testo a quella  più generale dello sviluppo del pensiero aristotelico in tutte  le sue opere. A noi conviene, tuttavia, non allontanarci dal  nostro scopo, e però vagliare i risultati, a cui giunge lo Jaeger  per la Metafisica in particolare, soltanto dopo di avere fissata  la linea di pensiero che si svolge in ciascun libro o gruppo  di libri.    2. — Cominciamo dal libro primo (').    Questo primo libro della Metafisica ha une linea di svolgimento  interno e un'unità di concetto benwisibile. Pone dapprima il concetto  del sapere come fondato su l'esperienza e ascendente per gradi dalla  conoscenza sensibile a quella logico-scientifica; poi, distingue in seno  a questa la forma più elevate del sapere, quella filosofica, ch'è cono-  scenza dei principii e cause prime. °   Si presenta, allora, il problema della causalità come dottrina dei  principii di ogni realtà nel mondo. Dai primi pensamenti della causa-  lità come ricerca dell'elemento o degli elementi primordiali, si passa,     Un'esposizione del contenuto (per questo come per gli altri libri) è data  nel Sommario. Qui si dà rilievo alle critica delle Idee, ch'è la parte più im-  portante.    NOTA INTRODUTTIVA r—x    sebbene vagamente, al concetto della causalità come principio efficiente  e finale, e alla scoperta della causa logico-formale, posta, quest'ultima,  chiaramente da Platone. L'interesse della trattazione si concentra  naturalmente, ora, su questo punto, ch'è decisivo, non soltanto per il  problema particolare delle varie specie di causa, ma, ben più, per tutta  le concezione aristotelica della realtà.   Della filosofia platonica A. espone prima (nel cap. 6) le origini sto-  riche, la concezione centrale delle idee, la dottrina ultima delle idee-  numeri: e accenna già al punto fondamentale di divergenza dal suo  maestro nel concetto del rapporto tra materia e forma. La critica si  svolge con certa ampiezza nel cap. 9, seguendo nell'insieme quest'or-  dine: a) contro la dottrina generale delle idee; è) contro le idee-numeri  in generale; c) contro la derivazione del geometrico dell’ari tmetico;  d) contro il concetto innatistico dei principii della conoscenza.   a) Per combattere la dottrina delle idee in generale, si parte dal  concetto rimasto nel platonismo delle idee come realtà trascendenti il  mondo sensibile. Le idee, infatti, non sono ancora l’intelligibile ari-  stotelico, e per quanto la dialettica platonica abbia sempre più accen-  nato a considerarle dentro il processo del pensiero pensante il reale,  esse non perdettero mai il carattere di reali posti accanto, e però fuori,  del sensibile. Questa trascendenza restò in seno all'idea stessa, quando  Platone distinse in essa il principio puramente formale (e però vera-  mente ideale) da quello del molteplice, ch'è suo contenuto. Quindi  A. può dire che Platone, per spiegare il mondo sensibile, lo raddoppia  e moltiplica; e che quella spiegazione, in ogni modo, è puramente  formale (detinitoria), non reale, perchè l’idea non è causalità, attività,  principio interno alle cose (reale della stessa realtà di queste). E anche  nella sua formalità non può riuscire a dar ragione delle cose, perché  così il principio dell'unità come quello della molteplicità, presi nella  loro assoluta indeterminazione, non possono produrre concetti di nulla  che valga a intendere il reale nella sua costituzione effettiva. Col cri-  terio dell'unità del molteplice, ad es., si dovrebbero ammettere idee  di proprietà, di relazioni, ecc., laddove l’idea vuol essere ragione di  ciò che nelle cose è fondamentale, ossia della sostanza. Ma come per-  venirvi senza la distinzione dell'essere reale in ciò che ha di costitu-  tivo ed essenziale da ciò ch'è suo modo di essere secondario o acci-  dentale?   b) Contro le idee-numeri A. fa valere il suo concetto dell'astrat-  tezza del numero, e la sua ripugnanza a identificare il pensare col  numerare. Le idee non si possono trattare aritmeticamente, nè pos-  sono esprimere la sostanza delle cose. Questa è data, invece, nel pro-  cesso logico-reale dei generi e delle specie, con le determinazioni  peculiari che l’esperienza ci scopre nel mondo della natura.   c) Dal grande-piccolo, poi, cercano invano, i Platonici, di dedurre  le determinazioni delle figure geometriche. Non soltanto passano in-    X METAFISICA    debitamente da ciò ch'è inesteso (il numero) all’esteso (figura), ma  anche, in questo, tentano invano di spiegare il passaggio dal concetto  di punto a quello di linea, da questo a quello di superficie, da questo  a quello di solido. Considerandoli come divisioni del concetto (con  metodo definitorio), dovrebbero ridursi l'uno all’altro, predicarsi l'uno  dell’altro: la geometria verrebbe annullata. Invece, le figure geome-  triche si costituiscono nel processo di determinazione del concetto  di spazio, come svolgimento logico di esso ch'è insieme la sua gene-  razione reale.   d) Tutte queste idee e idee-numeri, poi, in quanto son altra cosa  dalle sensazioni, l'anima le dovrebbe portar in sè, come una scienze  innata, e dimenticata. Ma come, allora, distinguerle e applicarle nei  casi* particolari? E se, avendole dimenticate, non ne possediamo in  principio attualmente nessuna, come dar origine al sapere? Ci vuole,  invece, un principio attuale in noi, l'intelligenza, dal quale scaturiscano  i principii, immediatamente, di ogni sapere; e ci vuole la sensazione  come punto di partenza di ogni conoscenza fondata su l’esperienza.   Così si ritorna al concetto posto nella prima parte del libro, e si  chiude il cerchio del pensiero intorno al fondamento del sapere. Nello  stesso tempo vien conchiusa l'illustrazione, proposta con la seconda  parte, della definizione della filosofia come scienza dei principii e delle  cause prime. L’indagine storica, che ha servito a quella illustrazione,  ha dato questo risultato: i Fisiologi trascurano l’incorporeo, non  vedon chiaro il processo causale efficiente-teleologico, ignorano la  forma; i Pitagorici confondono il fisico col matematico, ignorano la  causa del movimento, identificando le cose con la loro definizione si  lasciano sfuggire il concetto della forma; Platone mette in rilievo la  forma, ma cerca invano di assorbire in essa le altre specie di causa-  lità. Conchiusione ultime è che nessuno dei filosofi precedenti vide  chiaro nel concetto della causalità; e tuttavia, pur attraverso le de-  ficienze e i barlumi, tutti mirarono a esso e nessuno accennò ad altre  specie di cause da quelle poste. Si che si può dire che il concetto posto  della causalità, nella sua distinzione e precisa formulazione, risulta  storicamente confermato.    Su la data probabile (') della composizione di questo li-  bro, v. nota al cap. 9, $ 2; e per il suo rapporto al lib. XIII,  dove è ripetuta quasi letteralmente la parte riguardante la    (1) Poco dopo la morte di Platone, secondo lo Jaeger (Arist., p. 178), a poco  distante dalla composizione del dialogo regi priogoqplas, nel quale erano tre parti:  una storica, una contenente già la critica delle idee, una terza teologica, corri-  spondenti al contenuto dei libri I e XII della Metafisica. I primi due capitoli,  invece, di questo libro riproducono un motivo del giovanile Protreptico. La critica  delle idee in questo libro forse presuppone anche il magl l8e6v (v. nota a 9, 2).    NOTA INTRODUTTIVA XI    critica delle idee, v. nota, ivi, al cap. 4, $ 4. Anche l’ag-  giunta del $ 11 a questo capitolo del lib. XIII prova che  quella parte fu trasportata dal lib. I nel XIII, e non vice-  versa, come pensa il Christ (v. nota al testo greco, nella sua  edizione, in fine al cap. 7).   Più difficile da risolvere è la questione per il cap. 10:  v. nota, ivi, al $ 1. L’ipotesi dello Jaeger è ravvalorata dal  fatto che la fine di questo capitolo distingue due ordini di  aporie: le prime, intorno allo stesso argomento del lib. I,  debbono spianare la via alle seconde, e queste ultime sem-  brano dover essere quelle del lib. III. Sì che parrebbe che  la clausola finale del cap. 10 stesse più a posto alla fine del  cap. 7. È vero che il Ross obietta potersi riferire anche le  prime aporie al lib. III, adducendo le parole iniziali del $ 3°  del III. 1; ma, da un lato, resterebbero indeterminati «i pro-  blemi ulteriori », a cui A. accenna; dall’altro, par poco vero-  simile che un libro così rieco e ben ordinato, come questo I,  dovesse conchiudersi con l’attuale cap. 10.   Ma c’è un’ipotesi ulteriore dello Jaeger: che, trasportata  la critica delle idee al lib. XIII, A. stesso pensasse più tardi  di far terminare il lib. I col cap. 7. Togliendo, infatti, la  clausola finale ($ 8), si avrebbe un risultato della tratta-  zione che par definitivo ($ 7: questo potrebbe esser stato  aggiunto dopo, proprio a questo scopo). Qui sorge una que-  stione che involge quella dell’origine storica e dell’ordina-  mento delle parti di tutto il libro. I lavori dello Jaeger,  a mio avviso, mettono fuori discussione un punto di ca-  pitale importanza: che la Metatisica non segue il piano di  svolgimento di un’opera propriamente detta: essa non è  un «libro », come siam soliti d'intendere, ma una « serie »  di libri, o di parti, delle quali ognuna ha originariamente  una sua propria significazione. Certo, non è una serie  « episodica »: c’è un ordine generale tra le varie parti, anzi  un nesso interiore che fa della Metafisica un’opera organica.  Ma quest’organismo risulta dal movimento complessivo del  pensiero, indipendentemente dall'ordine che vi hanno le va-  rie parti, e quest'ordine, in quanto mira a un disegno o    XII ’ MBTAFISICA    piano costitutivo dell’opera intera, è dubbio che si possa  attribuire (come pur lo Jaeger sostiene, non ostante la sua  tesi accennata) ad A. stesso. Prendiamo questo libro I: ci sa-  rebbe di questo la prima redazione, ch’ è l’attuale con l’esclu-  sione dell’ultimo capitolo; una seconda redazione, rielabo-  rando il cap. 7 come dianzi s’è detto, avrebbe mirato a unire  il lib. I al III; in una terza redazione A. avrebbe pensato di  far terminare il libro al cap. 7. Ora, a me pare che la prima  ipotesi abbia molta probabilità, minore la seconda, presso che  nessuna la terza. Perchè sopprimere tutto il cap. 8 e la parte  del 9 non compresa nel XIII? E, soprattutto, perchè guastare  un libro che, integrando l’esposizione storica con la parte po-  lemica, si presenta di così unitaria fattura come poche altre  parti della Metafisica? E con la terza redazione non si sarebbe  perduto il vantaggio della seconda ? Quanto a questa seconda,  poi, non va trascurato che, in ogni modo, il nesso tra il libro I  e il III resta più esterno che interno: non si può dire che que-  sto rappresenti uno sviluppo di quello stesso, o, insomma, che  l’uno presupponga l’altro necessariamente.   Lasciando, dunque, in disparte le questioni d’incerta so-  luzione, possiamo tener fermo questo: che il libro I racco-  glie un corso a sè (A6yoc, péd0osoc) di lezioni (conversazioni e  discussioni), tenuto da A. intorno al concetto della causalità  nella formulazione già data in precedenti scritti di Fisica  (cfr. 3, 6), allo scopo di dimostrare ch’essa va concepita se-  condo la quadruplice distinzione immanente a quel concetto,  di cui il valore è insieme ontologico e gnoseologico (episte-  mologico). Quest’immanenza, che tuttavia non accenna an-  cora a risolvere le distinzioni in un principio unitario, è ciò  che dà il tono più aristotelico alla trattazione: chè la di-  stinzione, per sè, delle quattro specie di causa egli la derivava  dalla scuola di Platone. :    3. — Lo sviluppo del pensiero nel libro II è il seguente.    Il capitolo primo pone il concetto della filosofia come scienza della  verità, ed illustra poi la definizione a parte subiecti e a parte obiecti.  La difficoltà di vedere con chiarezza la verità dipende dalla debolezza    NOTA INTRODUTTIVA XIILT    del nostro occhio mentale: di qui }a necessità di esercitare ed edu-  care la nostra facoltà intellettiva. A questo può giovare molto il con-  tributo de’ pensieri altrui intorno alle verità. (In questo modo, vien  disperso il germe di misticismo, o di scetticismo, e di aguosticismo,  ch’era nel pensiero precedente: la difficoltà non è insuperabile, come,  invece, è quella dei pipistrelli di fissare la luce del giorno).   . La verità, oggettivamente, è l'essere stesso delle cose. Per cui  l'essere ch'è più essere, è anche il più vero: è causa prima dell’essere  e della verità di tutto il resto. Tale è l’essere eterno, e i suoi prin-  cipii Son principii di tutto.   Dopo ciò, si attenderebbe di passare alla ricerca dei principii del-  l'essere eterno, di ciò che non appartiene al mondo corruttibile. In-  vece, il pensiero si abbassa nel capitolo secondo al mon do del divenire  in generale per affermare la necessità di porre un principio, ansi dei  principii o cause prime del suo essere e del nostro conoscerlo.   Non ostante la oscurità e incertezza di singoli punti, la tesi svolta  in questo secondo capitolo, dell'’impossibilità di un processo all’ infi-  nito, risulta abbastanza chiara. Ci ha de essere, anzitutto, un punto  di partenza e un punto di arrivo: un processo chiuso, in somma, da  entrambi i lati. Chi pone, infatti, una questione di causa-effetto, co-  mincia di necessità de un punto, de un fatto, ch'è il primo, poniamo  l'attuale, dal quale procederà, rimontando indietro, alle cause che  l'hanno prodotto. Se, poi, vien concesso un punto di partenza, l'acqua  o l'aria, ad es., per spiegar l'origine causale delle cose, ci vorrà ne-  cessariamente un punto d’arrivo: bisognerà pur arrivare al mondo  attuale delle cose. L'oggetto (il mondo, la cosa, la realtà attuale) è,  così, determinato ne' suoi limiti estremi.   Qui, allora, si pone un problema più interno a esso: il concetto  del suo divenire in quanto processo immanente. A. presenta il suo  concetto del divenire come svolgimento graduale, irriversibile. E passa,  quindi, alla considerazione della necessità di un principio finale e di  un principio formale. (La dimostrazione precedente dava rilievo spe-  cialmente alle causa materiale e a quella efficiente, in riguardo alle  quali si esercita in primo luogo l’aporia del processo all'infinito).   In fine: son queste tutte le possibili specie di cause? Le domanda  in A. suona così: possono esser infinite le specie di causalità? Egli  non affronta veramente il problema, e si limita a constatare che, se  fossero infinite, noi non arriveremmo mai a conoscer veramente una  cose. Il concetto di tempo, qui introdotto, non aveva che vedere. Se  mei, un altro: che le molte cause debbeno formare una causalità to-  tale, affinchè possiamo affermere di conoscere una cosa.   L'ultimo capitolo comprove l'indole proemiale del libro. In esso  si chiarisce il metodo di trattazione ed esposizione proprio delle scienze  in riguardo al modo di pensare comune, e la differenza tra il proce-  dere matematico e quello delle scienze fisiche. Di quello filosofico non    X1V MBTAFISICA    si parla. Ma, mentre nel cap. 1 la metafisica par aver in comune con  la fisica lo studio della realtà delle cose, qui il suo oggetto (e però  anche il suo metodo) par più vicino a quello della matematica.    Per l’autenticità, v. nota (1) al libro: ne sarebbe redat-  tore Pasicle, di Rodi; per la sua tardiva inserzione in que-  sto punto, v. nota a IlI. 1, 3. Ma anche il tono generale è  ancora quello del libro precedente: cfr. il cap. 1 col 2 del],  e la susseguente trattazione della causalità in entrambi. La  sconnessione tra il cap. 1 e il 2 (cfr. nota a 2, 1) si può  spiegare con l'interruzione degli appunti presi da Pasicle.    4. — La serie di questioni, di cui risulta composto il li-  bro III, comunque si vogliano dividere e numerare, ha un  ordine interno di pensiero, e comprende veramente i pro-  blemi capitali della metafisica aristotelica ?    Poichè la filosofia è la scienza delle cause prime, è giusto cominciare  dall’aporia prima: se, infatti, le cause son di più specie, l’esistenza  di quella scienza par compromessa. Quando A. avrà definito come  oggetto della metafisica l’essere in quanto essere (IV. 1 e VI. 1), serà  chiaro che quelle cause debbono esser studiate da essa in quanto cau-  selità dell'essere stesso. Questo concetto porta a una superiorità della  metafisic a su le altre scienze: a una scienza dei principii di tutte le  scienze. Questi son di tre specie: principii logici, o assiomi; il genere  delle sostanze o cose prese in considerazione; e le proprietà, accidenti  o attributi che vengon dimostrati di esse. Bisognerà che la metafisica  sia scienza di questi principii. Di qui le aporie 2-4, nelle quali A. tace:  a) che c’è un altro tipo di scienza oltre quello apodittico; è) che dei  principii logici, o assiomi, la metafisica deve considerare il principio  primo, quello ch’ è il fondamento degli altri di ciascuna scienza; c) che  la sostanza studiata dalla metafisica è, diciam così, l'a priori o tra-  scendentale delle sostanze particolari, sì che una scienza di essa non  è, per questo, una scienza (unica) delle sostanze (tutte); d) e che gli  accidenti, di cui tratta la metafisica, son quelli soltanto che apper-  tengono al concetto dell'essere in quanto tale.   Il predetto modo di considerare la scienza e i suoi principii riceve  in concreto il suo significato, per A., dall'opposizione in cui si pone  al concetto platonico del sapere. Per Platone e per i Platonici la  scienza non è della realtà sensibile, ma delle sdee e degli intermedi:  essi, staccando l’oggetto del sapere dal sapere stesso, lo ipostatizzano  e moltiplicano in entità ideali o matematiche. Non vedono che la realtà  studiata dalle scienze è la stessa, la realtà naturale: solo che è con-    NOTA INTRODUTTIVA xv    siderata da punti di vista diversi. Soltanto su la base di questa di-  versità di punti di vista è lecito porre una diversità anche dei loro  oggetti: dell'oggetto della fisica da quello della matematica, e di  quello proprio della metafisica. — La forma aporematica in questa  questione (ò3) è più tenue: prevale l'opinione contraria all’esistenza  delle idee e degl’intermedi.   Ma è pur vero che l'oggetto della scienza fisica solo in generale  si può dire ch'è la medesima realtà naturale: in concreto ci sono  tante scienze quanti sono i generi di essa. Sì che, pare, i suoi principii  (che la metafisica deve studiare) debbono essere questi generi resli,  non quelli dell'essere nella generalità del concetto. La tesi vien ri-  badita nella questione 6a con la considerazione delle superiorità del  principio definitorio su quello meramente materiale delle cose. Ma il  vero sviluppo della tesi è nelle questioni che seguono. In primo luogo,  nélla 7a: se si prendono come principii i generi, come determinarne  il numero? Si ricorrerà all'’Uno e all'Essere come principio di tutti?  Ma l'Uno e l'Essere non son genere, e per la loro indeterminatezza  non possono in concreto spiegarne nessuno. Senza dire che entro  l’imbito dello sviluppo di ciascun genere, questo genere stesso si mol-  tiplica indefinitamente passando attraverso le sue varie specie, sì che,  da una parte, non si tratta, in realtà, di un genere unico nel senso  dell'identità, anzi di molti generi; dall'altra, esso non esiste fuori  delle specie in cui si realizza: sì che principii, se mai, sono le specie  o concetti specifici piuttosto che quelli generici,   Qui sorge, allora, une difficoltà: noi, anche ponendo come principii  le specie, riconosciamo che i principii son tali in quanto universali.  Ln specie, anche quella più vicina alla concretezza dell'individuo, è  pur sempre un'universelità. Questo pensiero, mentre chiude la que-  stione 7* con un’argomentazione in favore dei generi che hanno un’uni-  versalità maggiore delle specie, apre la via alla questione 8*. La quale ha  una parte poco o nulla aporematica: quella in cui A. si pone lui stesso  il problema d'intendere come un principio possa essere universale, e  tuttavia non esistere fuori dell'individuo. Egli lo risolve facendo della  specie la forma che si realizza nell’individuo, nel sinolo, e tuttavia  non si esaurisce nella particolarità di questo. Ma c'è una parte, anche,  veramente aporematice: la forma in niun caso è separata? (Dio è se-  parato). E anche dove non è separata (nella natura), ma immanente  agl'individui, diremo ch'essa è unica (identica) in tutti, o differente  in ognuno? Nè l'una nè l’altra affermazione è sostenibile: nel primo  caso si ha una identità materiale, numerica, una sostanza uguale in  tutti gl'individui, che sarebbero, così, tutti, una cosa sola; nel secondo,  la differenze sarebbero tante de sopprimere ogni realtà, unità e iden-  tità, della specie entro la quale soltanto, poi, si realizzano quelle  differenze.   La questione ®, infatti, fa vedere che nè il primo punto di vista,    XVI METAFISICA    nè il secondo, sono soddisfacenti. — A. qui tace la sua soluzione: del-  l’unità che si realizza attraverso le differenze, onde il punto di vista  ch'egli chiama numerico non è guardato fuori di quello specifico, e  viceversa.   .+ Questa soluzione, sottintesa, presenta, tuttavia, una difficoltà al  pensiero di A.:il concetto di svolgimento, in cui l'identità si concilia  con le differenze, vale, propriamente, per il mondo della generazione-  corruzione. Come estenderlo al mondo di ciò ch'è eternamente lo  stesso? La soluzione di questa difficoltà (questione 10*) parrebbe data  nel pensiero aristotelico dalla considerazione della realtà naturale nel  complesso del sistema, dove i cieli rappresentano anch'essi un grado  di svolgimento in perfezione.   Ma, qui, allora, torna più incalzante la questione (11°) già accen-  nata a proposito dei generi: se, cioè, considerando la realtà nella  sua totalità, e non nelle divisioni in cui si offre dei generi diversi,  si debba dire che essa è quell’Essere e Uno che Parmenide, Pitagorici  e Platonici, per diverse vie, ponevano come principio primo e asso-  luto. Il pensiero prevalente in questa aporia è che porre l’Essere e  Uno come reale porta necessariamente a negare il molteplice e il nu-  mero. A questo punto s'insinuerebbe una difficoltà, quale un oppo-  sitore potrebbe addurre: se non è reale l'Essere-uno, come è reale il  molteplice-numero? Come, senza quello, spiegar questo? A., che alla  difficoltà ha tacitamente risposto dianzi per quanto riguarda la realtà  della forma e della natura nel loro svolgimento, attenua la questione  riducendola alla parte riguardante l'uno-molteplice matematico, cioè  alla realtà del numero e degli enti matematici in generale. E passa, così,  ‘alla questione 12*. Spezza una lancia in loro favore, me per dovere  dialettico più che per convinzione: questa si vede bene nella parte  opposta, la quale conferma definitivamente l’astrattezza del punto di  vista matematico, impotente a spiegare la realtà sostanziale e il pro-  cesso di generazione delle cose. °   Quella realtà sostanziale i numeri, mera determinazione quantita-  tiva, non possono darla. Ci vuole una determinazione qualitativa,  un'unità formale, non materiale. A questo, infine, mirò Platone quando,  prima di complicare la sua dottrina con quella pitagorica, pose per,  principio l’Idea. Nella questione 13*, infatti, A. par così pensare.   Il passaggio alla 14° questione è oscuro: l'occasione può esser of-  ferta del pensiero che l'Idea platonica, pur in certo modo lodata dianzi,  é mera possibilità, non attività.   Le questione 15* non sembra introdurre un problema nuovo ed è,  come la precedente, appena accennata.    ‘Integrando, dunque, il pensiero espresso con quello sot-  tinteso, si vede svolgersi, attraverso l’apparente molteplicità,  una questione unica: qual"è la natura del principio o dei    NOTA INTRODUTTIVA XVII    principii, di cui la metafisica è scienza. Le prime quattro  questioni sono introduttive, e son quelle che hanno una più  immediata soluzione nei primi tre capitoli del libro IV e  nel 1 del VI. Questi tre libri (ITI, IV, VI) vengono perciò  considerati come formanti un gruppo idealmente e storica-  mente Compatto, e la prova maggiore di ciò è attinta dal  fatto che il loro contenuto si presenta unito anche nell’ab-  bozzo del lib. XI. 1-3. Ma la forma in cui queste prime quat-  tro questioni vengon riprese, discusse e risolte, mostra, con  la diversità d’impostazione nel IV e nel VI, con gli sviluppi  ed i pensieri ivi aggiunti, che il III ha, anche, una propria  autonomia. Tanto più questo diventa evidente per il resto  della trattazione: le undici questioni, che vengon dopo quelle,  trovano una risposta nei libri VII, IX, X, XII-XIV, ma in  forma generalmente indipendente da quella che hanno nel  lib. III ('). Sì che soltanto approssimativamente, e badando  più ai germi speculativi racchiusi in esso che alla loro po-  steriore trasformazione, si può riguardare questo libro come  un programma svolto nei libri seguenti. Per se stesso, esso  è una ripresa del motivo dominante già nel I: i principii  del reale non si possono più concepire platonicamente, come  idee e intermedi, e tuttavia essi debbono, come Platone pur  vide, trascendere la realtà considerata al modo dei Preso-  eratici. Per questo rispetto la questione 13° è da considerare  come conchiusiva (*). Il « noi », ch’è in principio (6, 1: cfr.  anche 2, 17), mostra che A. si considera ancora dell’Acca-  demia come nel lib. I. :    5. — Anche il lib. IV ha un’unità di pensiero, che ne fa  una trattazione indipendente, non ostante la connessione  col III.    (1) Vegga, chi desidera, i raffronti fatti dal Ross, nell’Introduzione (vol. I  della sua ediz. della Met. con comm.: Oxford, 1934), pp. XxIM-xxIv, © pp. 298-233;  e i richiami da noi posti nelle note al libro,   (9) Lo Jaeger (Arist., p. 322) ha avanzata l’ipotesi, abbastanza persuasiva,  che la questione 14° sia stata aggiunta più tardi, dopo l’inserzione dei libri VII-IX:  e888 MANCA, infatti, nei capitoli corrispondenti dell'XI. Si può pensare che anche  la questione 16 sia stata rielaborata e posta in fine a questo scopo.    ARISTOTELE, Metafisica. “n    XVIII MRTAFISICA    La Parte prima espone concetti generali su l’oggetto della filosofia  e sul suo rapporto alle altre scienze; e, propriamente, nel cap. 1 si  accenna all’universalità e necessità dell'oggetto della metafisica in  opposizione alla particolarità e contingenza di quello delle altre  scienze in generale; nel 2, la metafisica (non ostante alcune riprese  dell'argomento del cap. prec.) si presenta piuttosto come «filosofia »  nel senso platonico più generale, e la questione del rapporto non è  più ‘alle scienze, ma alla dialettica. Meglio: alle specificazioni o appli-  cazioni della dialettica, nella Sofistica (eristica), nella Dialettica propria-  mente detta-(esercitazione logica), nell’Apodittica. Questa tripartizione  corrisponde a quella da noi notata (a 2, 1) dei tre aspetti del pensiero  per A.: soggettivo-verbalistico, logico-discorsivo, logico-oggettivo: tre  aspetti che abbiamo trovato espressi anche nella formulazione del prin-  cipio di non-contraddizione, e nella conseguente difesa che ne fa A.  nella Parte seconda. In conchiusione, quanta è la distanza tra la Sofi-  stica e la Dialettica, tanta e più è tra la Dialettica e l'Apodittica: la di-  stanza, qui, è misurata dall'amore della verità, e qui la Filosofia sta  vicino all’Apodittica. Se ne allontana, invece, per l'oggetto e per il  metodo: l’oggetto dell'Apodittica è quello della scienza propriamente  detta, sempre empirica in fine; mentre la filosofia studia la realtà in sé  e per sè, nel suo significato e valore assoluto. Il metodo scientifico è,  perciò, dogmatico, quello della filosofia critico: essa soltanto esamina  e discute i principii primi nel senso dei fondamenti stessi di ogni  conoscere e sapere. E si rifà, quindi, al principio primo di quei prin-  cipii, che è il pensiero in sè e per sè. — È da notare, tuttavia, che  A. mantiene questo concetto dentro l'ambito della dialettice platonica,  per cui i principii dell’apodittica vengon limitati a certe verità logiche  o nozioni comuni del pensiero discorsivo, chiamate assiomi, e conse-  guentemente anche il principio primo resta limitato nell’ambito di essi,  come un assioma, per quanto supremo e più saldo.   La difesa di questo principio logico si svolge in tre parti: la prime  (cap. 4) mire prevalentemente all'eristica; la seconda (capp. 6-6), ai  dialettici seguaci di Protagora; la terza (capp. 7-8), a confermare,  contro i precedenti avversari, il principio di non-contraddizione me-  diante l’altro, implicito in esso, del terzo o mezzo escluso. A quali  avversari A. abbia l'occhio, nella loro precisa determinazione sto-  rica, non è sempre facile stabilire. Oltre gli Eraclitei e i Protagorei,  è molto probabile ch'egli abbia in viste i Megarici ei seguaci di An-  tistene (v. lib. V. 29, 2): è il gruppo stesso contro il quale è diretto  il Teeteto di Platone, ma allargato e fatto più petulante per pretese  di ragioni logiche.   La prima parte della difese ha carattere negativo (la seconda, ca-  rattere positivo), e, trattando con gente che fa questione meramente  discorsiva, non rifugge dall'uso del metodo sofistico (così come negli  Elenchi Sofistici). Quel che più importa è di costringere l'avversario &    NOTA INTRODUTTIVA XIX    der un significato preciso alle parole ch'egli adopera (cfr. Sommario,  a). L'essere e il non-essere (0, uomo e non-uomo) sono presi come  casi estremi: se non si riesce a fargli distinguere questi, non c'è da  sperar più nulla. Un secondo ordine di considerazioni riguarda le  conseguenze in rispetto al reale (chè, in fine, non si vuol far questione  di parole, dice A., ma di fatto): non c'è più modo di distinguere la  sostanza dall’accidente, un accidente de un altro, una cosa da un'altra  cosa (è, c). Vien fuori il caos! (A., con la maggiore serietà, dà all’av-  versario un fondamento scientifico e avvicina questo caos alla dottrina  anassagorea, o alla propria della potenza indeterminata). Un terzo  ordine di considerazioni riguarda le conseguenze in rispetto al giu-  dizio (d, e): non c’è più opposizione tra l'affermare e il negare, e co-  storo o non dicon nulla o contraddicono se stessi. Ma, poichè neanche  questa considerazione può spaventer l'avversario, che fe proprio di  questa contraddizione il suo principio inespugnabile, A., stanco del-  l'assedio ($ 32), invoca contro di Jui il buon senso e la testimonianza  del giudizio pratico, onde nella vita nessuno è scettico, perchè della  verità noi abbiamo bisogno per inoppugnabile necessità.   La difesa è ripresa da ccapo determinatamente ai Protagorei (distinti  in seri e non seri, ma questi sono ancora quelli della parte precedente,  e non si aggiunge per essi nulla di nuovo). Anche questa è divisa in  tre ordini di considerazioni, le quali, per maggiore chiarezza, chia-  meremo oggettive, soggettive, oggettivo-soggettive. Quelle oggettive  si rifanno alla dottrina eraclitea e le sostituiscono le concezione che  A. he del rapporto dei contrari nel divenire reale (a). In conchiusione,  il divenire presuppone l'essere: l'essere del sostrato e delle sue forme  (non solo intelligibili, me anche sensibili!); e oltre quest'essere che  passa da una forma all'altra, c'è l'essere che non passa, ma è eterna-  mente lo stesso. — Le considerazioni soggettive prendono in esame  il criterio della verità posto da Protagora nella sensazione (d, c).  L'errore dei Protagorei è di ridurre l'intelligenza alle sensazione,  questa o all'immaginazione o all'impressione corporea (si scopre la  tendenza materialistica, l'affinità alla dottrina democritea, di questa  dottrina). Con felice ardire A. prende l’avversario nel suo stesso prin-  cipio: l’atto del sentire è vero, di una verità non contradittoria, se  guardato nella sua piena attualità. Le differenze di quell'atto si spie-  geno dal di dentro di esso stesso, come capacità dell'anima di sentire  l'un contrario e l'altro. Ma A. non ve più in là di quanto gli basta  contro i suoi avversari: quest'atto si determina nell’attualità come la  potenza dei contrari nelle cose, e il suo determinarsi in un modo o  nel modo opposto dipende da circostanze esteriori. Per questo, il pen-  siero arietotelico trova aperta lo via a ripassare dalla legge di non-  contraddizione a quelle dei contrari (6, 12), come s'è notato a suo  luogo (nota alla fine del. cap. 3). — Il terzo ordine di considerazioni  riguerda, più propriamente, il concetto protagoreo della correlatività,    XX METAFISICA    dell’esistenza del soggetto e dell'oggetto nell'atto o incontro istantaneo  che produce il conoscere. In quell’atto soltanto esiste per Protagora  il soggetto e l'oggetto, almeno per noi. Ad A. sembra che questo sia un  vanificare la realtà (5, 26-28; 6, 8-10), la realtà dell'oggetto e quella del  soggetto, le quali esistono come potenze per se stesse, e sono il sostrato  nelle cose e l’anima in noi. Egli ha, bene, il suo principio dell’atto,  ma questo, a differenza di quello protagoreo, è realtà ch'è insieme  esistenza e verità positiva dell'oggetto e del soggetto, perchè ripete  il suo principio primo da quell’atto puro ch'è la ragion prima di tutto  il reale.   La parte terza illustra il principio del terzo escluso mostrando  come la negazione di esso porta alle conseguenze esaminate prece-  dentemente: si confonde tutto, e non si dà più un significato alle  parole; si sopprime il giudizio, il quale non può non essere o affer-  mativo o negativo; non s'intende più la realtà nel suo divenire de-  terminato dalla legge (aristotelica)dei contrari. Sono ancora i tre aspetti  della questione, come noi l'abbiamo distinta. E questi si avvicendano  paragrafo per paragrafo nel cap. 7. La dottrina eraclitea sembra fa-  vorire il mezzo nel senso positivo (e-e), e negare più immediatamente  il giudizio nella sua disgiuntività e la stericità del negativo nel dive-  nire reale; la dottrina anassagorea sembra favorire il terzo nel senso  negativo (né-nè), e l’eristica. Ma poichè la forma positiva e la negativa  si equivalgono in fine, le due dottrine vengon ridotte l’une all'altra  (7, 10; 8, 2). — L'ultimo capitolo ha carattere conchiusivo: il principio di  non-contraddizione esige per ogni giudizio l'affermazione del vero come  opposto al falso, sì che l’uno non s'intenda senza l’altro: nasce nel-  l'opposizione all’altro. Posti uno fuori dell’altro (come due che si  contraddicono), il vero si converte in falso, il falso in vero, immedia-  tamente, Il giudizio presuppone questa disgiuntività, ch'è opposizione  assoluta del vero al falso, e mediazione dell'uno per mezzo dell'altro.  Ma, come per l'atto del sentire, così qui per quello del pensare logico  A. non dialettizza, poi, in sè l’atto del giudizio ne’ suoi momenti delle  negazione e dell’affermazione: queste, così come il vero e il falso, pur  opposti e uniti nella sintesi che li media, gli divengono due giudizi  corrispondenti a quelli che nella realtà delle cose sono i contrari. Il  capitolo, infatti, termina passando bruscamente ell’esempio di coloro  che o affermano esistere soltanto il movimento (eraclitismo), o soltanto  la quiete (eleatismo): i quali sono due stati contrari, ognuno in fine  esistente positivamente in atto senza l’altro, anche se idealmente l'uno  nasca dall’opposizione all’altro: onde sono insieme in potenza. Anche  realmente, in quafito si guardi ell’essere nella sua universalità:  nell'universo, infatti, il movimento, ch'è anche cangiamento, digrada  sempre più verso la quiete e l'’immutabilità assoluta. L’e-e di Eraclito,  così come il nè-nè anassegoreo risorge, ma in altro senso, dentro la  dottrine aristotelica dei contrari, come un divenire ch'è intermedio    NOTA INTRODUTTIVA XXI    tra i due stati opposti dell'essere, attraverso i quali passa l’essere  svolgendosi nella fenomenia della natura: quell’essere che, in quanto  è, spiega il divenire (Eraclito), mea è anche al di là del divenire (Par-  menide). E come l'essere, così il pensiero nello svolgimento umano  dall’errore alla verità, de una verità a una verità superiore. La scienza  di questo essere ch'è pensiero, perchè il pensiero è l'essere stesso  delle cose, è la filosofia, nel senso ancora della dialettica platonica,  diversa dalla Sofistica per l’amore della verità, dalla dialettica delle  opinioni per la verità, dall’apodittica per la consapevolezza della ve-  rità che possiede e cerca (i).    6. — Il lib. V, citato più volte nella Metafisica e altrove  con la frase tà megi toù smocayic, o altra simile, e ricordato  con proprio titolo nel catalogo di Diogene Laerzio, è sem-  brato a molti una mescolanza di pensieri troppo disordinati  e di vario genere per poterne ricavare, come pure altri ten-  tarono, un disegno o una qualsiasi linea di trattazione. Qual-  cuno lo riguarda quasi un piccolo dizionario dei termini  più usati in filosotla; ma questa non può esser stata, di Si-  curo, l'intenzione dell’autore: chè troppi sono i termini  mancanti, e de’ più importanti; nè l'indole della trattazione  è quella di un’esposizione in tal senso. Pare piuttosto che  si tratti di un primo tentativo (questo libro è probabile che  sia stato composto prima degli altri della Metafisica) di chia-  rimento di alcuni concetti, dai quali moverà la riflessione  aristotelica per l'ulteriore elaborazione. Gran parte di essi,  infatti, vengon ripresi, chiariti e sistemati in altri libri e  scritti. Guardando bene, si scorge facilmente che un ordine,  o meglio una serie di problemi organizzati intorno a, un nu-  cleo di carattere strettamente conforme al resto della Meta-  fisica, c'è; ma è un ordine piuttosto interiore che esterno,    (1) Un’esposizione di questo libro sì trova nel volume di Guino CaLoczro,  I fondamenti della logica aristotelica (Firenze, Le Monnier, 1927), di cui un saggio  fu citato in nota al 8 20 del cap. 4. La tesi del C. è che la logica dianoetica  di A., che concepiace l'attività del pensiero come sdoppiamento predicativo (e  quindi come giudizio, sillogismo ed apodissi) sl riduce interamente alla posizione  noetica, laquale fonda ogni determinazione del contenuto logico su l'atto uni-  tarlo dell’appercezione intellettuale (noetico). La dimostrazione è condotta con  vigore e penetrazione. La mia esposizione, qui come altrove, vuol essere più  aderente ai termini in cui si presentava ad A. storicamente il problema.    XIII MBTAFIBICA    risultante piuttosto dal complesso che dalle parti così come  son disposte in questo libro.    I primi capitoli su principio, causa ed elemento mostrano subito l’in-  teresse predominante per l'oggetto della scienza prima, e preludiano  alla ricerca propria del lib. I; il cap. su la natura è strettamente le-  gato allo stesso argomento: la distinzione di materia e forma, e i  principii aristotelici intorno al divenire naturale ci sono già tutti  chiaramente. Aggiungerei a questi, come complementari, i capitoli su  ctò per cui e per se stesso, da qualcosa, genere, perfetto e limite o termine. —  Un altro gruppo ben definito di pensieri è intorno.alla sostanza e alle  sue determinazioni: quantità, qualità, disposizione, abito, affezione, pri-  vazione, avere, e intorno al relativo. — L'essere già si pone nelle distin-  zioni dell’accidentale e dell’essenziale, del vero e del falso, e (per il  processo reale) della potenza e dell’atto. Le indagini su la potenza, sul  necessario e su l’accîdente, sul falso, approfondiscono l’uno o l’altro  aspetto di quelle distinzioni. Meglio ancora si profilano le distinzioni  dialettiche dell'unità, dell’identico, dell’opposto, che verranno elaborate  nel lib. X. Con il concetto di unità stanno quelli di parte, intero e tutto,  e anche il capitolo su mutilato ha relazione con questi; mentre il ca-  pitolo su anteriore e posteriore si lega variamente alle riflessioni su la  natura in sè o in rapporto alla nostra conoscenza. — Sono, come si  vede, i problemi dei primi libri della Metafisica, sebbene non ancora  distinti e ordinati come, poniamo, nel lib. III. Onde il raggruppamento  da noi fatto non è rigoroso: nel capitolo, ad es., su ciò per cui e per  se stesso ci sono considerazioni che toccano di più la questione della  sostanza e dell'essenza; e il capitolo su relativo ha pensieri che stanno  bene con quelli delle distinzioni dialettiche.   Si può notare, inoltre, in questo libro, una più rilevante mesco-  lanza del punto di vista naturale e oggettivo con quello umano e sog-  gettivo: già nel cap. 1 si vedono, per es., al paragrafo conchiusivo,  messi insieme la natura e gli elementi col pensiero e la deliberazione;  così nel cap. 5 per il necessario, nel 28 per i) genere, e nel capitolo  seguente per il falso ($ 3: un «uomo falso »). E spesso anche altrove.  La mescolanza su detta deriva in parte dell'altra, molto lamentata dai  commentatori, del modo comune di parlare messo insieme con quello  filosofico, e, in generale, dal minor rigore (ch’ è spesso anche minore  chiarezza), o nel pensiero o nell'esposizione, predominante in questo  libro in confronto con gli altri della Metafisica.    Niun dubbio che questo libro è stato aggiunto in epoca  posteriore: messo qui forse perchè citato in VI. 2, 1 e in  VII. 1, 1. Ma, evidentemente, esso interrompe la continuità  del gruppo che dopo il IV vuole il VI.    NOTA INTRODUTTIVA XXIII    7.— Il lib. VI è breve, quasi quanto il II, ma supera  questo di assai per importanza, in sè e in rapporto agli  altri libri.    Anch'esso si compone di tre parti, tra le quali non è visibile im-  mediatamente il legame, se si bada, non al-risultato comune dichia-  rato, ma alla sostanza di ognuna di esse. Il risultato comune è che  l’oggetto della metafisica è l'essere in quanto essere, non l’accidentale,  o ciò che ha una realtà soltanto soggettiva: è il vero essere, di cui  la realtà è eternamente, universalmente e necessariamente, tale. Ma,  poi, la prima parte svolge, con punti di mirabile chiarezza, il rap-  porto tra la metafisica e le altre scienze, come un problema a s'; la  seconda tratta la questione dell’accidente senza coordinarla a quanto  precede o segue; e così la terza, per il vero e falso. Nè si può dire  che A. nelle parte prima non faccia un posto conveniente anche alle  altre scienze; e nella seconda oltre « ciò ch'è sempre » si pone come oggetto di scienza anche «il per lo più»; e nella terza è un accenno  che oltre al vero nel senso soggettivo c'è pure una verità che serve  di fondamento a quello, e non è perciò da relegare fuori della meta-  fisica, insieme all’accidente e quasi al non-essere. Tuttavia, nel com-  plesso, il movimento principale del pensiero in questo libro si può  dire lineare, e in senso inverso a quello del lib. IV. Là dal concetto  dell’essere in quanto essere si passa ai presupposti della pensabilità  e conoscibilità del reale in generale; qui dal rapporto tra l'oggetto  della « filosofia prima» e quello delle altre scienze si procede elimi-  nando ciò che non ha vera e stabile realtà; e per assicurarne que-  sti attributi, si arriva persino a identificare il pensiero con l’acci-  dentale. Cfr. note a IV. 1, 1 e 2, 1 su questo doppio movimento del  pensiero in A.    Lo Jaeger (Arist., pp. 209-212) pensa che, mentre il ca-  pitolo 1 rappresenta una ripresa del cap. 1 del IV rielabo-  rato sin da principio nella forma attuale, come prova il  corrispondente cap. 7 del lib. XI, il cap. 2 e il 4 abbiano,  invece, subìto un ritocco che alterò la fisonomia generale  del libro. Confrontando, infatti, i capitoli 2-4 con il corri-  spondente cap. 8 dell’ XI si trova che in questo mancano  i $$ 2 e 3 del cap. 2, e che il contenuto del cap. 4 è ivi  ridotto alla pura e semplice esclusione del pensiero sogget-  tivo dall'essere in sè e per sè, ch’è l'oggetto della metafisica.  Si può aggiungere che anche la trattazione dell’accidente  nel cap. 3 mostra l’influsso di pensieri posteriori (cfr. $ 1 e    XXIV . MBTAFISICA    le citazioni in fine della mia nota al $ 4). Secondo lo Jae-  ger il pensiero originario di questo libro (e del gruppo III,  IV, VI, tutt’intero) era schiettamente platonico: la vera  realtà è quella dell’essere divino, immoto e separato, trascen-  dente. A questi libri, i quali, a cominciare dal I, costitui-  scono, con le loro ricche indagini intorno all’oggetto della  metafisica, una parte di carattere essenzialmente introduttivo,  doveva seguire oramai la parte costruttiva di carattere emi-  nentemente teologico. Invece, segue il gruppo VII-IX che  ha un carattere del tutto opposto! Questi libri, infatti, come  ora vedremo, appartengono con ogni probabilità a un pe-  riodo posteriore dell’attività filosofica di A., e si possono  considerare come espressione della piena maturità della sua  riflessione critica. In essi non è quasi più nessuna traccia  del precedente suo platonismo. Ora, secondo lo Jaeger,  quando A. decise di introdurre questi libri nel corpus meta-  physicum, rielaborò i capp. 2-4 del VI in modo che si sta-  bilisse un passaggio dai libri introduttivi I, III, IV, VI  (cap. 1) ai libri VII-IX. Al cap. 2 aggiunse i $3 2-3, affin-  chè, oltre i modi dell’essere come accidente e come vero,  venissero anticipati quelli delle categorie e della potenza-  atto (‘). Il cap. 4, poi, fu rielaborato in modo da costituire  un precedente al cap. 10 del lib. IX: accanto al principio  dianoetico fu accolto quello noetico (*), non senza un visi-    (1) Il lib. VII, infatti, prende per punto di partenza la categoria della so-  stanza e in questa approfondisce l'indagine logico-ontologica sino alla fine del  lib. VIII. Ed è notevole che al principio del cap. 1 (del VII) si richiama per i  vari sensi dell'essere nelle categorie al megl toù a0cay®g, anzichè al 8 2 del cap. 3  del VI: non c’era, dunque, ancora in A. il proposito di unire questa trattazione  a quella dei libri precedenti della Metafisica.    Anche il cap, 10 del lib. IX è un'aggiunta posteriore, che mal s'intona ai  capitoli precedenti del lib. IX: cfr. nota, ivi. Il principio noetico, dice lo Jaeger,  ò l'ultimo avanzo della platonica intuizione delle idee (in A., le essenze sem-  plict) rimasto nella metafisica aristotelica. L'osservazione è esatta, se s'intende  quel principio nel senso del cap. 10 del IX. Ma nei libri VII-I1X c'è anche uno  sforzo potente di calare quel principio dentro il pensiero dianoetico stesso e farne  motivo dell’unità del molteplice nell'oggetto e nella nostra conoscenza di esso.  In questo senso, esso è un principio ben lontano dall’intuizione platonica, pura-  mente intellettuale, del trascendente.    NOTA INTRODUTTIVA xxv    bile turbamento della chiarezza del ragionamento e della re-  golarità della costruzione sintattica di questa parte del  capitolo (‘).   Le congetture dello Jaeger sono a primo aspetto del tutto  persuasive, e soltanto in un secondo tempo, scoprendosi il  loro fondamento meramente ipotetico, perdono alquanto della  loro persuasione. Intanto, le aggiunte o modificazioni appor-  tate ai capitoli 2 e 4 non introducono pensieri nuovi per A.:  cfr. V. 6, 9-10 e 7, 4-7 (qui l’essere nel senso delle categorie  e quello nel senso della potenza-atto è parimenti unito a  quello nel senso del vero-falso). Sì che aggiunte e modifica-  zioni si potrebbero spiegare anche fuori dello scopo attribuito  ad A. dallo Jaeger. Poi, quel deciso atteggiamento platonico  ch’egli vede nei libri introduttivi va, a mio avviso, attenuato  nel senso dato dianzi nell'esame sintetico di essi. C'è un  concetto fondamentale nel IV e nel VI, e che, essendo pre-  sente già nell’ XI anteriore a questi secondo lo stesso Jaeger,  si può ben sottintendere nel III e anche nel I(*): quello  dell’oggetto della metafisica come l’essere in quanto essere,  il quale basta a bilanciare la tendenza platonica della con-  cezione teologizzante con una tendenza opposta, in cui vien  sorpassato il criterio della distinzione della « filosofia prima »  dalle altre scienze su la base della diversità e dignità del  genere de’ loro oggetti. Come, poi, avvenga che A. passi  d’un tratto da un concetto all’altro, sebbene non inconsa-  pevole della differenza (la quale non era per lui tanto grande  da costituire, come per noi, un’irriducibile opposizione) (?),  sì cercò di chiarire nella nota in fine al cap. 1 del lib. VI.  In fine: che A. stesso adattasse con un mero accomodamento    (1) V. JaEGER, Fntst., pp. 29 88.    L’essere in quanto essere è ancora il concetto della causalità come im-  manenza a uno stesso principio della quadruplice distinzione colà posta.   (9) L'essera in quanto essere è l'essere che il pensiero scopre nel fondo di tutto  ciò ch'esiste (nel mondo seneibile e in quello intelligibile), in quanto ragione  della realtà e conoscibilità di esso: p. d. v. critico e immanentistico, dunque,  che A. non poteva scambiare con quello dogmatico e trascendente dello schietto  platonismo (dell’essere eterno e immobile).    XIVÌ METAFISICA    esteriore una sua precedente trattazione a un intendimento  addirittura opposto a quello ch’essa realmente aveva, è, per  lo meno, una congettura che lascia molto perplessi.    8. — Il lib. VII è de’ più ampi, e prosegue nell'VIII.  Il IX, invece, è una trattazione ben distinta, e tuttavia forma  con i due precedenti un sol gruppo, che qui si esaminerà  insieme. Nel VII specialmente, ch'è il più aspro a interpre-  tare, le singole parti paiono talora seguirsi come serie d’in-  @agini che mirano, sì, a uno stesso scopo, ma per vie diverse.  Il Natorp lo ha scisso in due parti, e in ciascuna ha rior-  dinati a modo suo i capitoli del libro. Il Ross pensa che i  capp. 7-9 formassero originariamente una trattazione sepa-  rata. Lo Jaeger divide i libri VII-VIII in tre parti originarie,  delle quali le prime due son costituite dai capp. 1-11 e 13-17  del VII, la terza dai capp. 1-5 dell’ VIII; e poichè l’11 par  conchiudere la prima parte, e il 13 cominciarne un’altra, il  12 si trova isolato. L’annuncio, infatti, verso la fine dell’11  (cfr. ivi, nota al $ 11), non può riferirsi al 12 che segue  subito dopo, e questo (pensa lo Jaeger) è una rielaborazione,  rimasta incompiuta, del cap. 6 del lib. VIII: i due capitoli  sono stati aggiunti dopo, questo come un’ulteriore illustra-  zione del precedente cap. 3, quello perchè c’era forse spazio  disponibile nel rotolo (cfr. Entst., pp. 53 ss.). Ma a noi preme  di più individuare il problema intorno al quale gira il pen-  siero di questi libri.    L'essere in quanto essere è qui la pura essenza, il ti fiv slva: che  vuol essere il principio trascendentale del x65 » 11°  (IV) a» fs (XIV) —= » 18  (Vv) = » 4* (XV) —> » i4s  (VI) cx (manca) (XVI) = (manca)  (VII) = Questione Ga (XVII) = Questione 12%  (VIII) —> » 7 — » 136  (IX 6e.X)= » gs    Quest'ultima (13%) non è enunciata a parte nel presente capitolo, ma è pur  compresa nella IV (5) e T1X-X (8). Nella (III) c'è una parte non trattata nella 8*:  86, cioè, qualora delle sostanzo siano più le scienze, queste sian tutte « filosofie ».  Ma essa è risolta insieme alla parte precedente nel lib. IV, capp. :-2, e nel VI,  cap. 1. Anche la (VI) è ripresa in connessione con In (V) nel lib. IV, cap. 2.  E Siriano, infatti, la riduce alla (V), perchè, secondo lui, le contrarietà dialetticho  Appartengono agli «accidenti essenziali » delle sostanze (p. 59, 17 88.) — Per lu  (XVI), similmente, si può diro ch'è inclusa, in certo modo, nolla 14* (fin dove la  questione della potenza coincide con quella del movimento: per la differenza  v. lib, IX, cap. 6).   Per il rapporto tra i problemi posti in questo libro quasi come un programma  da eseguire in seguito, o gli altri libri della Metafisica, v. Introduzione.   (2) Il riferimento è al lib. I, come notò già Alessandro, uon al II, che fu  interpolato forse per il suo carattere proemiale.       A*r    6    9    i, LIBRO TERZO 67    eneri, ovvero alcune si debbano chiamare filosofie, altre  generi, ovVero alcune    altrimenti (‘).  E anche questo è necessario investigare: se soltanto le  sostanze sensibili si deve concedere che esistono, ovvero,    oltre esse, anche altre; e se delle sostanze c'è un genere    soltanto, o più, come vogliono quei che pongono le specie  Ro. intermedie tra queste e i sensibili, le entità matematiche.   “Questi problemi, dunque, a nostro avviso, sono necessari  a considerare. Poi, se la speculazione versi intorno alle so-  stanze soltanto, o anche intorno agli accidenti essenziali (*)  delle sostanze.   Anche, il medesimo e il diverso, il simile e il dissimile,  l'identità e la contrarietà, il prima e il poi, e tutte le altre  determinazioni di questa specie, in cui i dialettici si eserci-  tano con un’indagine che non sorpassa il modo comune di  vedere, di quale scienza formano tutte l’oggetto di studio?  E anche le proprietà di queste stesse determinazioni. E non  solo ciò che sia ciascuna di loro, ma anche se a ogni con-  trario si opponga un solo contrario (*).   Inoltre, se principii elementari siano i generi, ovvero le    10 parti costitutive in cui ciascun essere si divide ('). Qualora    11    poi siano i generi, è a vedere quali di quelli che si predi-  "cano ‘degl’ individui: se i più prossimi, o i generi sommi;  ‘voglio dire, se sia principio ed abbia maggiore realtà, dopo  quella del singolare, uomo o essere vivente.   Di somma importanza sarà la ricerca, con adeguata trat-  tazione, se oltre la materia esiste, o no, una causa per sè;  e questa, se sia separata. C) no, una di numero ‘o più.    tr nni    (1) Nel lib. VI, cap. 1, si distinguono le scienze pratiche o poietiche da quelle  puramente teoretiche.   ‘2) Che la somma degli angoli di un triangolo sia uguale a due retti è un  accidente essenziale (ovpfefaxòds xad’avté) del triangolo; che questo ala grande  LI piccolo, mM un colore o di un altro, è uu_accidonte secondario,   ‘ (8) Le coppie qui enunciate di contrari vengon ridotte a quella dell'uno e del  molteplice nel lib. IV, a 2; è riprese in esame nel lib, X.    L'uno è un punto di vista «logico», l’altro « reale»; ma, poi, iu quanto  _i generi sono reali, l'uno è un punto di vista, come appunto si dice, « generale »    . l’altro ‘semplicemente «materiale », Asi       IG a    68 METAFISICA    E se c’è qualcosa oltre il « sinolo » (‘) (dico sinolo quando  la materia è in qualche modo determinata), o nulla; ovvero,  Se per certe cose sì, per altre no, e quali sono esse.   Di più: se i principii sono determinati di numero o di  specie, sia quelli riguardanti i concetti delle cose, e sia quelli  riguardanti il sostrato (”).   E se delle cose corruttibili e delle incorruttibili i principii  sono gli stessi o diversi; e se son tutti incorruttibili, o cor-  ruttibili quelli delle cose corruttibili.   Ancora (e qui è il problema più difficile e più degli altri  pieno di dubbi): se l’uno e l’ente, come i Pitagorici e Platone  dicevano, non è altra cosa dalla sostanza degli enti; o se è  diversa (*), e però il sostrato sia qualcosa di diverso, per es.  l’amicizia , come dice Empedocle, o il fuoco, o l’acqua,  o l’aria, come dicono altri.   Poi, se i principii sono universali o al modo delle cose  singolari; e se in potenza o in atto. E se si debbano congsi-  derare anche da un altro punto di vista che per rispetto al  movimento. ;   Tutte questioni, queste, che possono offrire grandì diffi-  coltà. E oltre queste, se i numeri e le lunghezze e le figure  e i punti sono sostanze, o no; e qualora fossero sostanze, se  separate dai sensibili, o in essi esistenti.   In tutti questi problemi, non soltanto è difficile proce-  dere speditamente alla verità, ma neppure è facile discorrerne  i dubbi acconciamente.    (1) «Tutto-insieme », il reale nella «totalità e unità» delle sue determina-  zioni. Ho preferito conservare il termine molto espressivo di A. Si potrebbe, sì,  tradurre «concreto », ma questo ha un significato troppo ristretto alla sua oppo-  sizione all’« astratto ».   (8) Principii logico-formali e principii materiali. L'enunciazione è generica.  ma è ovvio che A. ha in vista, qui e altrove, le concezioni più determinate che  di questi principii avevano avuto i filosofi di cui ha parlato nel lib. I.   (9) Cfr. lib. I, cap. 5, 8 22.    Cfr. qui 4, 93: chè, altrimenti, è un po' difficile interidere l’Amicizia  empedoclea come sostrato.    12    13    14    15    16    17    18    1    LN)    LIBRO TARZO 69    CapitoLo II.    Cominciamo di dove si prese le mosse: se appartenga a  una sola scienza, o a più, studiare tutti i generi delle cause.   Ora, come mai apparterrebbe ad una sola scienza di co-  noscere principii che non sono contrari? E poi, tra gli enti  ce ne sono molti, ai quali non tutti i principii convengono (').  Infatti, come potrebbero il principio del movimento e la na-  tura del bene riguardare gli esseri immobili, se tutto quel  che è buono per sè e per propria natura, è fine, e però causa,  sì che per cagion sua le altre cose e si generano ed esistono?  Il fine e lo scopo sono termine di qualche azione, c le azioni  sono tutte con movimento; laonde negli esseri immobili non  può darsi questo principio del movimento; nè quello di un  bene per sè. Appunto per ciò nelle matematiche non si di-  mostra nulla mediante questa causa, nè c’è nessuna dimostra-  zione finchè s’adduce che così è meglio o peggio: anzi addi-  rittura nessuno fa menzione di simili cose. Tanto che alcuni  Sofisti, per es. Aristippo (2), le coprivano di disprezzo, perchè,  dicevano, mentre nelle altre arti, anche volgari, come quella  del falegname e del calzolaio, di ogni cosa si discorre in ra-  gione del meglio o del peggio, nelle matematiche invece nes-  suno fa parola del bene e del male.   D'altra parte, se sono parecchie le scienze delle cause e  diverse quelle di principii diversi: quale di esse si dovrà       998 b    (1) (Questione 18) — Ossia: a) ogni scienza è di contrari (vero-falso, bene-.  male, sano-malato, ecc.); ma le quattro specie di causalità non costituiscono con-'    trarietà (i contrari, propriamente, per A., son quelli che implicano un sostfato  che li comprende entranbi), La materia, ad es., non è un contrario della forma  (efr. XII, 10, 6). ») I generi delle cose sono, per A., diversi, e però di essi non  e’ è un’unica scienza (il genere della fisica è diverso da quello della matema-  tica). E tuttavia in tutti si può considerare, come fa la metafisica, l'essere  semplicemente, in quanto essere. Questo solo è un oggetto universale assoluta-  mente. Ma, non essendo ancora stata spiegata questa universalità, vien sottinteso  un conc etto affine: che i generi di causalità studiati da quell’unica scienza do-  vrebbero valere per ogni essere.   (2) Aristippo seguì Protagora nella dottrina della conoscenza. Molti dei so-  cratici minori proseguono ancora il movimento dei Sofisti.    70 METAFISICA    dire che è quella di cui noi andiamo in cerca? e chi, tra  coloro che le posseggono, si dovrà dire che conosce meglio  l'oggetto delle nostre ricerche? Poichè può ben avvenire che  nella considerazione di una stessa cosa trovino luogo tutti i  modi della causalità: per una casa, ad es., l’arte e l’archi-  tetto sono principio del movimento, l’utilità è lo scopo, la  terra e le pietre sono la materia, la nozione è la forma (').  Ora, stando a quanto fu da noi precedentemente determinato (?)  intorno a quale tra le scienze si dovesse chiamare sapienza,  si avrebbe ragione di chiamar tale ciascuna di quelle (*).   Infatti, in quanto è principalissima e la più alta signora  delle altre scienze, le quali, quasi serve sue, non hanno di-  ritto neppure di far obiezioni, tale è quella del fine e del  bene (chè per questo si fa tutto il resto). Invece, in quanto  fu stabilito che fosse la scienza delle cause prime e di ciò  che è massimamente conoscibile, tale sarà quella della so-  stanza (*). Poichè, quando una stessa cosa è nota in molteplici  modi, noi diciamo che ne sa più chi la conosce per quello  che è, piuttosto che per quello che non è; e di quelli stessi  che ne conoscono l’essere, diciamo che uno ne sa più di un  altro, e più di tutti chi sa l’essenza, non chi ne sa la quan-  tità o la qualità (*), o quel che naturalmente può fare o pa-  tire. E come nelle altre cose, così anche in quelle di cui c’è  dimostrazione, allora noi reputiamo di sapere, quando cono-  sciamo l’essenza. Per es.: che cosa è ridurre a quadrato?  La scoperta d’una media (°). E similmente negli altri casi.    (1) Traduco elBos con « forma» quando la specie è contrapposta alla materia.   (2) Nel lib. I. 2.    Ciascuna di quelle scienze che riguardano una delle quattro cause.    Sostanza è la categoria principale dell'essere, l'essenza concreta (non  fuori della materia). Paiono, così, ricordate qui soltanto tre delle quattro specie  di cause, perché la materia, osservano giustamente i commentatori, non è oggetto  di conoscenza: salvo, si può aggiungere, in quanto è compresa nel concetto della  sostanza.   (5) A. dice qui, o spesso, «il quanto », «Il quale» (nel senso del nostro plu-  ale: «le qualità » di una cosa).   (6) La media proporzionale ai lati di un’altra figura. Pare che con «le cose  di cui c'è dimostrazione » si vogliano distinguere i due tipi di conoscenza: l’uno,  immediato, l’altro mediato. Nel qual caso sarebbe meglio tradurre: « E nelle    6    LIBRO TERZO 71    Invece, le generazioni e le azioni, ed ogni mutazione, ci  pare di conoscerle quando ne sappiamo il principio del mo-  vimento. Ma questo è diverso dal fine, anzi opposto. Di ma-  niecra che parrebbe appartenere ad una scienza diversa lo  studio di ciascuna di queste cause (').   Anche per i principii delle dimostrazioni c’è da star in  dubbio se appartengono a una scienza sola o a più. E chiamo  principii delle dimostrazioni quelle comuni sentenze (°), da  cui tutti muovono a dimostrare, per es., che ogni cosa è  necessità affermarla o negarla, e che è impossibile insieme  essere e non essere, e quante altre proposizioni sono simili  a queste. Si chiede se la scienza di essi e quella dell'essenza  è una stessa, o se son diverse; e se diverse, quale bisugna  riconoscere per quella che si cerca qui.   Intanto, che appartengano a una scienza soltanto, non  pare ragionevole. Perchè mai sarebbe proprio, poniamo, della  geometria piuttosto che di qualunque altra scienza intendersi  di essi? Se, dunque, spetta del pari a ciascuna, e d'altronde  a tutte quante non può spettare (*), non è più proprio della  scienza che conosce le sostanze, che di qualunque altra,  averne cognizione.    altre cose, in quelle di cui c'è dimostrazione », c considerare, così, come cpeso-  getico il secondo «at della 1, 19. Ma forse la distinzione non è voluta, e il senso  è che l’ossenza ci fn conoscer le cose meglio dello loro qualità accidentali, così  come si vele anche nella conoscenza propriamente sclentifica di esse.   (1) Alesa. inserisce un otx innanzi a &XXmg, € il ragionamento, allora, sarebbe:  «Ne si pongono scienze diverse per ognuna delle apecie di causalità, non s! saprà  più qualo chiamare Rapionza; quindi di ciascuna di esso non c’è una scienza di-  versa ». Ma non pare necessario alterare il testo: A. non pretende In questo libro  a una trattazione rigorosa delle questioni, por tesi e antitesi ben definite; ma  pone innanzi dubbi e pensieri discordanti. Qui,ad es., dice che se la causa effi-  ciente e la finale sono diverse, anzi opposte (cfr. I. 3, 6), auche le scienze di esse  dovrebbero esser diverse, La questione è ripresa, sebbene non in questa forma,  e risolta in lib, IV. 1-2.   (2) (Quertione 2*)— xotval Béear, ma «opinioni comuni» ben fondate, ge-  neralmente ammesse (cfr. tò EvBofov, il probabile da cui muovo la dialettica delle  opinioni). A. le chiama anche « principii comuni », « principii apodittici» (&gxal  Uroberntixal), «assioni comuni», o semplicemente « assiomi» (&Ebpara) o «co-  muni » (tà xotvd),   (3) « Quia sic sequeretur quod idem tractaretur in diversis scientiis, quod  esset superfluum »: 8. Tom. (8 388).    007 a    72 METAFISICA    E insieme, come s'avrà mai una scienza di essi? Quel  che sia ciascuno, lo sappiamo sin d’ora: tanto è vero, che  anche le scienze pratiche (') se ne servono come di principii  noti. Ma se ci fosse una scienza che li dimostrasse, hisogne-  rebbe che avesse per soggetto un qualche genere; e che di  quelli alcuni fossero sue affezioni; altri, assiomi (poichè è  impossibile che ci sia dimostrazione di tutto): infatti, la dimo-  strazione, di necessità, è da qualcosa, intorno a qualcosa, e  di qualcosa (?); sì che accadrebbe che, servendosi di assiomi  ogni scienza dimostrativa, tutte le cose che si d imostrano  apparterrebbero a un unico genere.   Dall’altra parte, se la scienza dell’essenza è diversa da  quella di codesti principii, quale delle due deve precedere    (1) Il testo dico le altre arti: intendo le scienze non apodittiche, quelle che  nel lib. I. 1, son considerate anche come téyvat.   (2) In ogni dimostrazione o scienza apodittica sono tre cose: seo 5 te Belxvuor  sal & Seixvuor xaì E &v (Anal. Post., I. 10. 76b, 21). Ossia: l'oggetto, il genere  di enti, «intorno a cui» versa (per es. il numero, per l’aritmetica); l’assioma, o  gli assiomi « da cui» trae forza l’argomentazione (per es., che tutti i numeri deri-  vano dall'unità; ovvero, che le unità non cambiano comunque si raggruppino;ecc.);  le affezioni o proprietà « di cuì » si dimostra o sì mostra che l’osgetto è inve-  stito, e qui propriamente consiste il lavoro scientifico (per es., cho ogni numero  è o dispari o pari; che cambiando posto agli addendi, il totale non muta; ecc.).   Per l’argomentazione complessiva, più chiaro di tutti il Ross. Se gli assiomi  sono dimostrabili, di questi alcuni debbono esser provati, altri accettati come  assiomi non provati (per cul la supposizione che gli assiomi siano dimostrabili,  va corretta in questa: che alcuni di essi sono dimostrabili per mezzo di altri  îndimostrabili). Ora, tutte le scienze dimostrative usano gli assiomi come loro  premesse, e le loro conchiusioni appartengono allo stesso genore delle premesse  (questo non è detto, ma evidentemente sottinteso). Quindi, se gli assiomi sono  dimostrabili, tutto ciò che si può dimostrare appartiene a un unico genere, e tutte  le scienze diventano un’unica scienza: ch'è per A. una reductio ad absurdum.   Si noti che A. trascura qui due punti: 1. Che c'è una terza via in cui può  esserci una scienza degli assiomi: quella iudicata nel lib. IV, per cui essi non  vengono nè definiti nè dimostrati, ma raccomandati al senso comune col mostrare  le conseguenze assurde a cui conduce la loro negazione; 2. A. qui non distingue  tra i principii propri e quelli comuni: ogni scienze deve avere principii riguar-  danti lo stesso genere di cui trattano le sue conchiusioni, ma essa ha unche prin-  cipii comuni a tutte le sclenze, (Questi stanno a quelli come l’essere in generale  ai generi reali delle cose, i quali non possono esser, per A., assorbiti in quello  senza disperdere la distinzione necessaria alle scienze: ne verrebbe fuori un'unica  scienza, quella dell'essere nella sua indistinzione, ch'è un concutto contro il quale  A. combatte ripetutamente).    10    11    12    13    14    LIBRO TERZO 13    ed è superiore per natura? Gli assiomi, di certo, sono gli  universali supremi e i principii di tutto. E se non spetta al  filosofo, a chi mai altro spetterà di studiarne il vero e il falso?   Poi, per le sostanze, c’è una sola scienza di tutte in ge-  nerale, o più? E se non è una sola, di quale sostanza si  deve stabilire che è scienza, questa nostra? Che ce ne sia  una sola di tutte, non pare ragionevole, perchè, allora, ci  sarebbe anche una sola scienza dimostrativa di tutti gli acci-  denti, una volta che ogni scienza dimostrativa, versando in-  torno a un sostrato, ne studia gli accidenti essenziali mo-  vendo dalle opinioni comuni. In quanto, dunque, spetta a  una stessa scienza studiare gli accidenti per sè di uno stesso  genere e dalle stesse opinioni, — e poichè sarebbe una sola  la scienza del sostrato, e una sola quella degli assiomi (siano  poi la stessa o diverse), — anche gli accidenti li studieranno  o quelle due scienze, o una che le comprenda entrambe (‘).   Ancora, lo studio verserà soltanto intorno alle sostanze,  o anche intorno ai loro accidenti? Voglio dire: se il solido  e le linee e le superfici sono sostanze (*), spetterà a una  stessa scienza conoscere queste cose e insieme gli accidenti  di ciascun genere di cui trattano le dimostrazioni matemati-  che, — ovvero a un’altra? Se a una stessa, ci sarebbe una  scienza dimostrativa anche della sostanza: ma non pare che    (1) (Questione 3*)— Nella questione presente, e in quella che segue, ven-  gon prospettnte tre ipotesi: che ci sia una scienza unica degli assiomi, una scienza  unica delle sostanze, e una sclenza unica degli accidenti (i tre termini intorno  al quali versa ‘ogni scienza apodittica). Viene, naturalmente, lasciato in sospeso  non soltanto l’esistonza di queste tre presunte scienze, ma anche Il loro rapporto:  sé sarebbero, In realtà, tre scienze distinte, due, o una soltanto. — Le ultime pa-  role, èx tovtwy pla, è dubbio come si debbano tradurre. Il Bonitz (a q. 1.) inter-  preta: «sive haoc sclentia suspensa nb illis eademque ab illis diversa, at una  tamen est». Il Ross: «one compounded out of these ». Il pensiero sottinteso è  che, per tali ipotesi, tra gli accidenti non sì può far distinzione, quanto alla  scienza che li deve studiare: onde si distruggerebbe, da capo, ogni criterio di  distinzione delle scienze particolari. Per le questioni 3* e 42, v. lib. IV. 2 (per la  9», anche VI. 1).   (2) (Questione 4*)— Quelle della matematica sono «sostanze intelligibili ».  Ma qui (come spesso) « sostanze » vale semplicemente « esseri reali », 0 « realmente  esistenti ».    997 b    74 METAFISICA    dell'essenza ci sia dimostrazione('). Se a una scienza di-  versa, quale sarà quella che studia gli accidenti che riguar-  dano la sostanza? Dar conto di ciò è ben difficile.   Un’altra questione è questa: si deve dire che esistono le  sole sostanze sensibili, o anche altre oltre di esse?.e di ge-  neri di sostanze ce n’è uno solo;  o più, come dicono quei  che pongono le specie e gl’intermedi, di cui, secondo essi,  trattano le matematiche?   In qual senso noi diciamo (*) che le specie sono causa e  sostanze per sè, s'è discorso precedentemente, Tra le diffi-  coltà e gl’inconvenienti molteplici, non è minore degli altri  quello di affermare, da un lato, che ci sono certe nature al  di là di questo mondo; e dall’altro, che esse sono le stesse  delle sensibili, tranne che quelle sono eterne, e queste cor-  ruttibili. Essi dicono che esiste l’uomo in sè, il cavallo in sè,  la salute in sè, sì che par non ci sia altra differenza (*). Essi  fanno press’a poco come quelli che van dicendo che ci sono,  sì, gli dei, ma simili agli uomini : come costoro non rie-  scono ad altro che a far degli uomini eterni, così quelli non  fanno delle specie altro che sensibili eterni.   Parimenti, se alcuno oltre la specie e oltre i sensibili  vorrà porre degl’intermedi, si avranno molte difficoltà. Poi-  chè è chiaro che, come ci saranno delle linee oltre le linee  in sè e le linee sensibili, così per ciascuna cosa degli altri  generi: di maniera che, essendo l’astronomia una scienza  pure matematica, ci sarà un cielo oltre quello sensibile, con  un sole e una luna, e così di tutto il resto che al cielo ap-    (1) L'essenza del triangolo non si dimostra. Si dofinisce. SI dimostra, invece,  che la somma degli angoli suoi è di due retti.   (2) (Questione 5%)— Noi della scuola di Platone. Cfr. lib. LT. 9, 2.   (3) Non che le Idee fossero sensibili, ma la natura loro, per quanto univer-  ralizzata e sottratta al flusso del diveniro, era quella stessa delle cose sensibili :  donde quel raddoppiamento della realtà, di cui si parlò in I. 9, 1. (In A. la forma  non riproduce, immediatamento, il contenuto, ma Jo media in un processo, sì che  esso diventa un momento, quello potenziale, della forma stessa).   (4) Nella seconda parte del lib. XII A. espone il suo concetto della divinità    ‘come puro pensiero (Dio e le Intelligenze motrici: queste sono «sostanze» non    sensibili od esistenti separatamente).    15    16    17    18    19    20    21    LIBRO TERZO 15    partiene. Eppure, come crederci? Poichè esso non si do-  vrebbe dire che è immobile; d’altronde, non è affatto possi-  bile che si muova ('). Parimenti per le cose di cui. tratta  l'ottica e l’armonica matematica: è impossibile che di esse  ce ne siano altre oltre quelle sensibili, per gli stessi motivi.  Che se gl’intermedi fossero sensibili, e di essi ci fosse sen-  sazione, è evidente che dovrebbero esserci anche degli ani-  mali intermedi tra quelli in sè e quelli che periscono (?).   Ci sarebbe anche imbarazzo a stabilire di quali enti si  danno questi intermedi intorno (*) ai quali converrebbe cer-  care queste scienze. Poichè, se la geometria differisse dalla  geodesia soltanto perchè questa è di cose sensibili e quella  no, è evidente che dovrà esserci una scienza intermedia tra  la medicina in sè e la medicina attuale; e come per la me-  dicina, così per ogni altra scienza. Ma, come questo è pos-  sibile? Ci dovrebbero essere anche delle cose salubri oltre  quelle sensibili e ciò che è salubre in sè.   E bada che nonè neppur vero che la geodesia sia scienza  di grandezze sensibili e corruttibili: chè, perendo queste,  anch’essa perirebbe.    (1) Come «cielo», parimenti a quello che si vede, dovrebbe muoversi; ma,  essendo matematico, dovrebbe, così come gli oggetti della geometria, esser im-  mobile. —l'Armonica come scienza di rapporti quantitativi dei suoni, non come  musica, era considerata come matematica anch'essa. Ricorda le speculazioni pita-  goriche, che «nei numeri vedevano le proprietà e ragioni dell'armonia » e del-  l'ordinamento dei cieli: I. 5, 3-5.   (2) «Si (ista) sensibilia sint intermedia, sc. soni et visibilia, sequetur etiam  quod sensus sunt intermedii. Et cum sensus non sint nisì in animali, sequetur  quod etiam animalia sint intermedia inter species et corruptibilia, quod est omnino  absurdumn »: S. Tom. ($ 419). Così anche Aless, (198, -28).   (3) Leggo xegt, non ragd: v. giusta osservazione del BonuHI [Metafisica di A.,  l'orino, 1854}, p. 139 F. Per il senso, tieni presente che per A. anche le matema-  tiche, come le scienze fisiche, riguardano il mondo sensibile; e la differenza è  che quelle nstraggono dalla materia e dallo qualità, per considerare la sola  quantità e i rapporti quantitativi delle cose; le scienze fisiche, invece, pur  astraendo dalle particolarità delle cose singole, considerano la forma o le forme  in quanto sono unite alla materia. I Platonici non partivano da questo doppio  modo di considerare la stessa realtà, matematicamente o fisicamente; e però A.  dice che, come per spiegare il carattere scientifico delle matematiche ricorre-  vano a questi enti intermedi tra le idee e i sensibili, così essi avrebbero dovuto,  coerentemente, porre tali intermedi anche per le altre scienze.    998 a    76 METAFISICA    D'altra parte, l'astronomia non può essere scienza di gran-  dezze sensibili e del cielo che si vede: poichè, nè le linee  sensibili sono tali, quali dice il geometra (') (non c’è nessuna  cosa sensibile retta o rotonda a quella maniera: chè, come  già Protagora obiettava ai geometri, il cerchio non tocca la  riga in un punto solo), nè i movimenti e le spirali sono simili  a quelli del cielo, dei quali discorre l’astronomia, nè i punti  hanno la stessa natura degli astri.   Ci sono, infine, alcuni (?), i quali dicono che ci sono, sì,  questi intermedi tra le specie e i sensibili, ma pon separati  da questi, anzi ad essi immanenti. A scorrere tutte le con-  chiusioni assurde che vengon fuori a costoro, ci vorrebbe un  lungo discorso. Contentiamoci di queste considerazioni: le  cose non è ragionevole che stiano così per quegl’intermedi  soltanto, ma anche le specie, evidentemente, dovrebbero esser  immanenti ai sensibili: chè le stesse ragioni sono qui e là.  Aggiungi che ci sarebbero in questo modo, di necessità, due  solidi nello stesso luogo; e che gl’intermedi non potrebbero  esser immobili, essendo dentro ai sensibili che sono in moto.  E insomma, a che scopo si dovrebbero porre queste entità,  quando poi si debbono porre dentro ai sensibili? Si cadrà  negli stessi assurdi di cui già si discorse: ci sarà un cielo  oltre al cielo, salvo che non separato, bensì nello stesso luogo:  la qual cosa, se così si può dire, è ancora più impossibile.    t    (1) Alessandro (200, 11): « A. disso il geometra invece dell’astronomo »: in-  tende, cioè, della geometria di cui fa uso l'astronomia. Protagora moveva, nella  obiezione che segue, dalla sua dottrina sensistica. Pare ch’egli scrivesse un  libro segì tov pa&nuicov (Diog. Laert., IX, 55).   (2) Platonici anch'essi: v. XIII. 1, 7 e 2, 1 ss. (MA in XIV. 3, 3-4 quest’opi-  nione par attribuita ai Pitagorici). Cfr. Zeller, II4, 1009-4. Lo Schwegler suppone  che si tratti di E1dosso, e cita il lib. I. 9, 11: ma ivi si dice che Eudosso poneva  le Idee immanenti alle cose. La presente questione è discussa ampiamente nei  due ultimi libri.    22    24    25    26    1    LIBRO TERZO 71    CapitoLo III.    Intorno a queste cose, dunque, ci sono molti dubbi, come  dobbiamo giudicarne per cogliere la verità. Così pure intorno  ai principii: dobbiamo ritenere che i principii elementari  siano i generi, o piuttosto i componenti primi da cui risulta  costituita ciascuna cosa? Elementi, per es., e principii della  voce sembrano essere quelli da cui tutte le voci son com-  poste per natura: non quel ch'è comune a tutte, l’esser voce.  Anche delle proposizioni geometriche diciamo elementari  quelle le cui dimostrazioni entrano nelle dimostrazioni o di  tutte le proposizioni o della maggior parte ('). E nei corpi,  tanto coloro che dicono che gli elementi di essi sono più,  quanto coloro che ne pongono uno solo, chiamano principii  ciò di cui essi si compongono e da cui son costituiti: Empe-  docle, per citarne uno, dice che il fuoco l’acqua e i loro  intermedi (*) sono gli elementi da cui risultano le cose in-  trinsecamente, e non ne parla già come di generi degli enti.  Oltre di che, se qualcuno vuole indagare la natura di una  cosa qualsiasi, di un letto, per esempio, allora è pago di    conoscere, quando sa di che parti consti e come composte.    Per queste ragioni, dunque, non dovrebbero esser i generi  i principii degli enti.   Eppure, in quanto noi conosciamo ciascuna cosa per mezzo  delle definizioni, e poichè principii delle definizioni sono i  generi, di necessità anche dei definiti saranno principii i ge-       (1) (Questione 6*)— Cfr. gli Elementi di geometria di Euclide (fiorito  circa 300); 6 anche prima, al tempo di A., si chiamavano così . Il termine, tut-  tavia, è usato da A. per « proposizioni elementari» anche fuori della geometria:  v. Index Arist., 702 b, 59 88. — Proposizioni: &eyoGppara, prop. « figure », ma, come  notano Asclepio (174, 9) e Bonitz, vale qui «proposizioni », « teoremi ».   (2) tà usetatò tovtov; leggendo, invece, t. petà t.: «e seguenti», Il Ross  osserva in proposito: « Empedocle non sembra aver trattato l’aria e la terra  come intermedi tra il fuoco e l’acqua: anzi egli oppose il fuoco a tutti gli altri  elementi (cfr. lib. I. 4, 9). Ma A., per il quale il fuoco è caldo e asciutto, l’acqua  fredda e umida, può naturalmente aver trattato l’aria (calda e umida) e la terra  (fredda e asciutta) come fornite di differenze intermedie (sebbene si possa dire  altrettanto del fuoco e dell’acqua in rispetto all'aria e alla terra)»,    998 b    18 METAFISICA    neri. E se acquistare la scienza degli enti è acquistare quella  delle specie alle quali ci riferiamo quando parliamo degli  enti, i generi, di certo, sono i principii delle specie. Sembra  che anche alcuni (‘') di coloro che pongono quali elementi  Uno e l’Ente, o il grande e il piccolo, se ne servano come  di generi.   D'altronde, dire che i principii sono in entrambi i modi,  non è possibile: perchè il concetto della sostanza è unico:  invece, la definizione per mezzo dei generi sarebbe diversa  da quella che ne dicesse gli elementi costitutivi.   Inoltre, se anche spetta soprattutto ai generi di esser  principii, bisogna poi ritenere per principii i generi sommi,  o quelli infimi che si predicano degl’individui (*)? Anche  questo è da discutere.   Se, difatti, gli universali sono sempre a maggior diritto  principii, è evidente che tali saranno i generi che stanno più  in su: chè questi si dicono di tutti. Tanti, allora, saranno i  principii degli esseri, quanti i primi generi. Vien di conse-  guenza che principii sostanziali sarebbero l’Ente e l’Uno,  perchè essi, più che alcun altro genere, si dicono di tutti  gli esseri. Invece, non è possibile che l’Uno e l’Ente siano  generi degli esseri: poichè è necessario che le differenze di  ciascun genere e siano e siano una ciascuna; ora non può    (1) Pitagorici e Platonici. Le questioni 6° e 72 vengon riprese vel lib. VII.  10-13, da un altro punto di vista (del rapporto concreto di materia e forma): se,  cioò, gli elementi materiali entrino nella detinizione di una cosa, e se gli univer-  sali (generic! o specifici) costituiscano la sostanza.   (2) (Questione 7%)—Si bndi che con tà Aropa A, designa tanto « gl'indi-  vidui », le cose singolari; quanto «le specie indivisibili », le specie propr. dette,  in quanto « generi prossimi all'individuo ». Un terzo significato è quello puramente  fisico-matematico, riguardante ad es. l'atomo propr. detto o il punto. V. Znder  Arist. Prescindendo da questo terzo, puramente materiale, si potrebbe dire che il  primo è piuttosto logico-reale; il secondo reale-logico: nel senso del determinarsi  tlel pensiero, nel giudizio, come pensamento dell'individuo concreto, ovvero come  sua universalizzazione. Per A., infatti, il processo del pensiero deve corrispondere  a quello del reale. Vi corrisponde, in effetto? Si sa che A. non riesco nd assorbire  interamente la materia nel processo accennato, sì ch’essa resta come un « caput  mortuum », che fa ostacolo alla piena intelligibilità delle cose. Di qui la verata  quasestio del « principium individuationis », e le controversie medievali su la realtà  dell'universale, dei generi e delle specie.    c.    L}BRO TERZO 79    concedersi che delle proprie differenze si predichino o le  specie ‘del genere o il genere senza le sue specie: così che,  se l’Uno e l'Ente fossero generi, nessuna differenza dovrebbe  essere nè ente nè una. E se d’altra parte non sono generi,  non saranno neppur principii, una volta che principii sono  i generi (*).   Di più, anche ciò che tramezza fra i sommi e gl’infimi  generi, preso insieme con le differenze, formerebbe una serie  di generi, fino al punto che è possibile dividere (*): ora, per       (1) Più breve e chiara In nota del RoLFES (A.' Metaphysil, 2 ediz. 1931, presso  il Meiner di Lipsia) a q. l.: « Prendinmo un esempio, Il genere nnimale sl divide  in duo specie: uomo e bruto. La differenza specifica è ragionevole e irragionevole.  Ora, io non posso dire: il ragionevole è uomo: perchè ragionevole ha un’'esten-  sione maggiore di uomo. Ma neppure: il ragionevolo è animale: perchò il concetto  di ragionevole non ha che vedere con quello di animale. Invece, io posso e debbo  dire: Il ragionevole è ente, è uno. Quindi ente e uno non possono esser un genere,  al quale ragionevole è irragionevole si riferiscano come difl'erenze specifiche ».   Una dimostrazione dal punto di vista logico-ustratto sl può avere dai Topic/.  VI. 6. 144 a, 36-Db, 11. Ma più interessante a notare è che qui si considernuo le diffo-  renze specifiche come forme o concetti che, mentre rendono intelligibile la realtà  al pensiero, la «determinano, ingieme, come un processo di generi-specie, Sì che  non questi generi-specie renli si predicano (si pensano come predicati determi-  nanti) delle difforenze, ma queste di quelli (nel processo dol peuslero, onde la  razionalità si predica dell'animale come niteriore determinazione di questo nel-  l’uomo). Le differenze, qui, sono come i concetti puri che noi moderni distinguiamo  da quelli empirici. O, meglio, come le idee platoniche, fatte tuttavia immanenti  nl reale e organizzate nel suo svolgimento. S' intende, orn, che l’essere e l’unità  indifferenziata, non facendo pensar nulla di determinato, non possano esser prin-  cipiî, nè nol senso delle ditforenzo, nè in quello dei goneri-spocie reali. IL tut-  tavia, se si va cal criteria «dell’universalità, esst dovrebbero esser principi  più che mai.   (2) héxet TtOv dtépov: alcuni intendono «sino nile specie ultime », altri « sino  agli individui »: in entrambi i casi non senza inconvenienti, perchè nel primo caso  l'individuo vien escluso dal processo del reale; nel secondo, vien trattato come  punto finale di una serie di generi. Meglio, in ogni modo, la prima interprota-  zione in questo Inogo, e però ad essa ho intonato la traduzione, nllargando un  po’ il testo. Il quale, letteralmente, dice: « Inoltre nnche gl’intermedi, presi con  le differenze, saranno generi sino agl'indivisibili: ora, alcuni par di sì, altri no ».  Cfr. la buona nota del Bonghi a q. I., conforme del rosto nd Alessandro (207, 17) e n  Siriano (33, 8), i quali fauno osservare che, seguendo il metodo platonico dotla di-  visione contradittorin, i concetti negativi (auimali-senza piedi) e quelli indicanti  qualità accidentali (animali con i piedi) non fondano generi reali. lL’argomenta-  zione, in questo modo, sembrerebbe «diretta contro il metodo platonico della divi-  sione. Ma, in realtà, il pensiero prevalente è che, piuttosto che porre l’Uno è  l'Ente come principio, si dovrebbero porre infiniti principii, se priucipii sono i  generi, e generi son tutti quelli superiori all'individuo. Questo pensiero, a sua    80 METAFISICA    alcune divisioni partebbe doversi concedere, per altre no.  Aggiurigi che le differenze sarebbero principii ancora più  che non i generi: ma, se anch’esse sono principii, i prin-  cipii diventano, per così dire, infiniti, soprattutto se uno  ponga per principio il primo genere (').   D’altra parte, si ponga pure che l’Uno ha maggiormente  carattere di principio. Ma l’Uno è indivisibile, e ogni indi-  visibile è tale 0 secondo la quantità o secondo la specie:  quello secondo specie è anteriore; ora i generi sono divisi-  bili in specie; dunque maggiormente uno dovrebbe essere  l’ultimo predicato: di fatto l’ «uomo» non è genere degli  uomini singoli (?).   Di più, nelle cose in cui c’è priorità e posteriorità, non  è possibile che quel che han di comune sia qualcosa fuori  di esse. Per es., se tra i numeri vien prima la dualità, non  può esserci un numero oltre la specie dei numeri. E simil-  mente, non si dà figura oltre le specie delle figure. E se per  queste cose, di cui par ci siano generi più che mai, non ci  son generi fuori delle specie, tanto meno per le altre: nelle       volta, non sembra diretto immediatamente alla questione se principii son piut-  tosto i generi sommi o gl’infimi. Il pensiero nascosto sembra, invece, che i generi  non sono affatto principii.   (1) Il primo genere è l’essere (o l’ Uno), che, per A., non è genero (in «rerum  natura» ci 6ono i generi, in cui si divide l'unità astratta dell’essere, come di un  mero xovw6v). Per il senso, meglio di tutti, mi pare, S. Tom. (8 485): «Si prima  genera sunt principia, quia sunt principia cognitionis epecierum, multo magis  differentiae sunt principia formalia specierum. Forma autem et actus est maxime  priocipium cognoscendi. Sed differentias esse principia rerum est inconveniens:  quia, secundum hoc, erunt quasi infinita principia. Sunt, enim, ut ita dicatur,  infinitae rerum differentiae, non quidem infinitae secundum rerum naturam, sed  quoad nos. Et quod sint infinitae patet dupliciter, uno modo si quis consideret  multitudinem ipsarum differentiarum secundum se, alio modo si quis accipiat  primum genus quasi primum principium. Manifestum, enim, est quod sub eo con-  tinentur innumerabiles differentiae ». i   (3: L'uomo, specie ultima, non è ulteriormente divisibile, perchè i singoli  momini (criterio quantitativo) non rappresentano una divisione de! concetto. L'an-  teriorità del criterio qualitativo, qui, è superiorità dal punto di vista concettuale.  Il che non toglie che altrove A., contro l’unità meramente generica del concetto,  non faccia valere come superiore all’Ev tò elber l'Ev td dortuò, in quanto sintesi  del qualitativo e del quantitativo, nell'individuo che realizza la specie. Cfr. lib. V.  6, 15; e VII. 6. (In Dio, ch'è puro atto di pensiero, la coincidenza dei due punti di  vista, dell'essenza e dell’esistenza, è perfetta). V. note segg. a 4, 16, ed a 6, 1-5.    10    11    12    LIBRO TERZO 81    indivisibili specie, poi, non c’è «questo vien prima » e «que-  sto vien dopo ». Anche: dovunque c'è un «questo è meglio »  e «questo è peggio », il meglio ha sempre la priorità: così  che neanche di queste cose ci sarà un genere (‘).   Per queste ragioni, dunque, pare che le specie che si  predicano degli individui siano principii a maggior diritto  che non i generi. Eppure, da capo, non è facile dire come  si debbano ammettere queste per principii. Il principio e la  causa bisogna che siano al di là delle cose di cui son prin-  cipii, e ne possano star separati (*). Ora, una simil cosa al  di là del singolare, perchè mai uno la penserebbe, se non  perchè si predica in universale e di tutti? Ma, se per questo,  i più universali più si debbono reputare principii: di ma-  niera che sarebbero principii i primi generi.    (1) Passo controverso: cfr. Zeller, pp. 568 ss. del vol. cit. (Platone) e com-  mentatori posteriori che in parte concordano, in parte discordano da lui. Rifa-  cendomi alla concezione intera di A., intendo così: dove c'è un processo di  svolgimento, il principio appare in tutta la sua evidenza nell’ultimo termine, o  in ogni punto del processo dove esso mette capo a una realtà «determinata.  Il genere, che è un comune astratto o un indeterminato, non può valere, quindi,  come principio. Si prenda, ad es., la serie dei numeri o delle figure geometriche,  pensandola come sviluppo concettuale: numero e figura che non siano un deter-  minato numero o figura sono astratti. E il numero e In figura che vengon dopo,  in quanto implicano il numoro o la figura precedente, rivelano ancor meglio il  concetto (îl tre meglio del due, il quadrato meglio del triangolo). E nei numeri  e nelle figure il processo dei generi è infinito? Che se consideriamo le altre cose,  dove pare lo svolgimento non aver luogo (le specie indivisibili), perchè di generi  diversi (uomo, albero, ecc.), o coordinati in uno stesso genere (uomo, bruto, ecc.),  tanto più per esse è chiaro che il genere non esiste fuori delle specie concrete.  Che se anche in queste si vuo! guardare al processo teleologico, come svolgimento  in perfezione dell’essere (il bene), e si dirà che il bruto vale più dell’albero,  l’uomo più del bruto (il meglio o il peggio), varrà anche per esse ‘la conside-  razione precedente. Cfr. Eth. Eud., I. 8. 1318 a, 2: «In tutte quelle cose in cui ha  luogo il prima e il dopo, non esiste qualcosa di comune oltre di esse, e che sia  da esse separabile. Infatti, se esistesse, sarebbe qualcosa di anteriore al primo  termine: e sarebbe anteriore, il comune e separabile, per questo, che, tolto esso,  verrebbe tolto il primo termine. Per es.: se l'esser doppio è il primo termine dei  molteplici, non può darsi che esista separatamente l'essere molteplice, che è ciò  che di essi si predica in comune: poichè sarebbe, allora, prima del doppio. E così  dovrebbe accadere, se il comune gi vuol porre come idea, ovvero se del comune  si vuol far qualcosa di separato »,   Con la interpretazione proposta circa le «specie indivisibili » si evita la con-  traddizione che il Ross rimprovera ad A. di ammettere un universale ragù calura.   (2) Come il Motore Immoto e le Intelligenze motrici di A.    ARISTOTELE, Metafisica. 6    y09 b    82 METAFISICA    CapriroLo IV.    Una questione affine a queste ('), la più difficile di tutte  e pure la più necessaria a meditare, è quella di cui è venuto  il momento ora di ragionare.   Se non c’è niente fuori dei singoli esseri, e questi sono  infiniti, come mai di esseri infiniti si può acquistare scienza?  Di fatto, intanto conosciamo ogni cosa, in quanto c’è qual-  cosa di unico e identico, in quanto c’è qualcosa d’universale.  Ma, allora, se ciò è necessario, e se bisogna che ci sia qual-  cosa oltre gli esseri singoli, bisognerà che i generi, o gli  ultimi o i primi, siano fuori dei singoli: il che s’è questio-  nato dianzi che è impossibile.   Di più, dato che esista qualcosa oltre il sinolo, quando  qualcosa vien predicato della materia (*°), — si domanda se,  dato che esista, esso debba esser fuori di tutte le cose, o di  alcune sì e di alcune no, o di nessuna.   Che se non ci fosse niente fuori dei singolari, niente sa-  rebbe intelligibile, ma sarebbe meramente sensibile ogni cosa  e non ci sarebbe scienza di nulla: a meno che uno non dica  che scienza è la sensazione (*). E neanche ci sarà nulla di  eterno e immobile: poichè le cose sensibili tutte s! corrom-  pono e sono in movimento (‘). Ma, allora, se niente c’è di  eterno, neppure è possibile che ciì sia il divenire, perchè quel  che diviene ha da essere qualcosa, e così anche quel da cui  viene, e l’ultimo di questi termini più non deve essere ge-  nerato: chè una fermata ci vuole, ed è impossibile che il  divenire venga dal non-essere. Così, essendoci generazione e    (1) (Questione 8*)— Ripresa, infatti, in lib, VII. 93. 7-9. 17; VIIL A. 6.   (2) La forma sostanziale, l’anima, ad es., la quale, appunto, è principio deter-  minante, o categorico, del corpo vivente.   (3) Così Protagora nel Teeteto. Qui la questione s'incontra con la 5*, la quale,  tuttavia, fu trattata piuttosto storicamente e criticgmente, che in via teoretica e    . costruttiva.    (4) I cieli sono sensibili, ma ‘eterni, sebbene in movimento. A., tuttavia, qui  parla degl'individui soggetti al processo di generazione-corruzione,    (da |    e.    1    10    11    14    LIBRO TERZO 83    movimento, c'è di necessità anche’ un limite; poichè nè c’è  movimento che non abbia fine, ma ognuno ha un termine (');  nè è possibile che divenga quel che non perviene mai ad  essere: di necessità, tosto che il suo divenire si compie, ogni  cosa, divenuta, è. E se la materia deve esistere, appunto per-  chè non soggetta al divenire, sarà molto più ancora ragio-  nevole che ci debba essere la sostanza, che è ciò che la  materia diviene. Altrimenti, se nè quella nè questa ci fossero,  non ci sarebbe proprio niente del tutto. Questo non è am-  missibile; deve, dunque, esistere qualcosa oltre il sinolo: la  forma e la specie.   Ma, di nuovo, se si ammetterà. questo, sorgerà il dubbio  per quali cose si debba ammettere, e per quali no. Di tutte  è evidente che non si può: di certo, non ammetteremo che  ci sia una qualche casa (*) fuori delle cose particolari.   Inoltre, la sostanza sarà unica per tutti: ad es. per tutti  gli uomini? È assurdo: chè gli esseri di cui la sostanza è  unica per tutti, sono una cosa sola. Diremo, invece, che sono  molti e differenti? Ma anche questo è assurdo (*). E intanto,  come la materia diviene ciascuna delle cose particolari, e come  il sinolo è materia e forma insieme?   Si potrebbe su i principii sollevare anche questo dubbio.  Se la loro unità è specifica, niente sarà uno numericamente,  neppure lo stesso Uno e l'Ente (‘).    (1) In conchiusione, come ha dimostrato nel lib, II. 3, ci ha da essere per il  divenire, nella serie delle cause, un principio materiale, da cui vengono le cose;  un termine finale (ch'è anche principio motore), e una causa formale (per cui ciò  che diviene diviene qualcosa).   (2) La casa è un prodotto artificiale, non naturale, onde la sua forma non è  organizzata nel sistema delle specie dell'essere. Non c’è, quindi, la casa-specie,  come forma pura che si svolga attraverso le case particolari.   (3) Nè un'unica forma sostanziale, nè una molteplicità di forme sostanziali,  ma un'unica forma che, diversamente sostanziandosi con la materia, produce la  molteplicità degl’individui. In questo senso soltanto par doversi concedere l’esi-  stenza di un principio puramente formale oltre la materia e il sinolo, per la realtà  e intelligibilità delle cose della natura.   (4) (Questione 9£)— Principii della stessa specie possono esser meramente  simili. non esser forme di un unico principio.    84 MRTAFISICA    E come potrà esserci il sapere, se non ci sarà qualcosa 15  di unico che si predica di tutti?   Invece, se la loro unità è numerica, ciascuno dei principii 16  sarà uno e identico; e non, come nelle cose sensibili, sempre  diverso, secondo la diversità delle cose ('). Ad es.: se questa  sillaba è tale perchè ha una determinata qualità, anche i suoi  principii, o elemen  ti, sono da considerare specificamente gli  stessi: ma, se li ripeto, non son più gli stessi quanto al nu-  mero. Se, dunque, non è così, ma l’unità dei principii dei  reali è soltanto numerica, non esisterà nient'altro fuori degli  elementi: infatti, dire «uno di numero» e dir «singolare »   1000 a è lo stesso. Noi diciamo, appunto, singolo quel che è uno  numericamente, universale quel che riguarda tutti. Sarebbe  come se gli elementi fonici delle parole fossero determinati  quanto al numero: necessariamente, l’alfabeto non potrebbe  contenere un numero di lettere maggiore di quegli elementi:  e non ce ne sarebbero due, nè più, della stessa specie.   Di non minore importanza delle altre è una questione 17  trascurata dai moderni non meno che dagli antichi: se i  principii delle cose corruttibili (*) e delle incorruttibili siano  gli stessi, o diversi. Se sono g li stessi, come accade che le 18    (1) Un principio unico senza differenze non può spiegare la diversità delle  cose. Separando, per la discussione, nel concetto dell’unità, il lato fomnale dal  materiale, questo assume un significato aritmetico, semplicemente quantitativo,  con esclusione del qualitativo 0 specifico; quello, a sua volta, acquista il senso  di un'universalità astratta, indifferente al contenuto. (Il rapporto dei due punti di  vista nel giudizio concreto è dato da quello del soggetto individuale al predicato  universale: sì che s'intende come ognuno dei due può giustamente aver pretesa  di superiorità su l’altro).   Le lettere dell’alfabeto, le sillabe, ecc. (noì diremmo le parole) son sempre  diverse nelle parole (e queste nel discorso), pur essendo numericamente e speci-  ficamente le stesse (è pur sempre quel certo significato che si svolge nella diversità  della parola). Se dovessero esser le stesse soltanto numericamente, sarebbero come  tessere che, per quanto diversamente configurabili, resterebbero identiche: così  erano gli elementi (terra, acqua, ecc.) immaginati come dati, una volta per sempre,  per la costruzione del mondo. Questo, non ostante le apparenze, sarebbe immobile,  senza generazione nè svolgimento. Così il linguaggio sì ridurrebbe a parole, la  parola a lettere alfabetiche corrispondenti al numero degli elementi fonici di essa.  La questione è ripresa, ma in polemica contro le Idee, nel lib. XIII. 10.   (2) (Questione 104)— Corruttibili e incorruttibili: noi diremmo transitorie  ed eterne.    21    LIBRO TERZO 85    une siano corruttibili e le altre incorruttibili, e per quale  motivo?   Quei del tempo di Esiodo, e tutti quanti teologizzarono,  pensarono soltanto a dir cose conformi alle loro credenze,  e delle difficoltà che travagliano noi non si curarono. Essi  dei principii facevano Dei e dagli Dei facevano venir tutto,  e dicevano che gli esseri i quali non hanno gustato il nettare  e l'ambrosia nascono mortali. Certamente, parlavano così  sapendo, essi, quel che dicevano. Ma le ragioni che appor-  tano, sorpassano la nostra intelligenza. Poichè, se è per  cagion del piacere che quegli esseri l’assaggiano, non è il  nettare o l'ambrosia la causa del loro essere; e se fosse la  causa del loro essere, come sarebbero eterni avendo bisogno  di nutrimento? Ma non vale la pena di fermarsi a indagare  intorno a queste escogitazioni mitologiche. Bisogna appren-  dere da quelli che parlano dimostrando, e chieder loro come  mai degli enti che vengon dagli stessi principii, alcuni sono  eterni per natura, e altri periscono. Non dicendo costoro la  ragione di questo fatto, e non sembrando neppur ragionevole  che stia così, si potrebbe conchiudere che non sono gli stessi  i principii degli enti, nè le loro cause. A Empedocle, del quale  si potrebbe pensare che più degli altri sia d’accordo con se  stesso, anche a lui è accaduto lo stesso. Egli pone, è vero,  un principio causa della corruzione, la discordia; ma parrebbe  che questa fosse causa non più della corruzione che della  generazione d’ogni cosa, ad eccezione dell’ Uno ('), perchè le  altre cose tutte vengono da essa, tranne Dio. Dice, infatti:    Dei quali sono tutti gli esseri, quanti ce ne furono,   e quanti ce ne saranno di nuovo; {quanti ce ne sono,  e le piante germogliarono, e gli uomini e le donne,   e le belve e gli uccelli e i pesci che nutre l'onda,   e i numi longevi.    E anche senza questi versi, è evidente: chè, se non ci  fosse la discordia nelle cose, queste sarebbero tutte una sola,       (1) L' Uno, Dio, è lo Sfero (quando questo era governato dall’Amore soltanto).    1000 b    86 METAFISICA    come egli stesso dice: infatti, quando si trovavano riunite,  allora «la Contesa se ne stava all’estremo confine ». D’onde  gli avviene anche di fare il felicissimo Dio meno intelligente  degli altri: di fatto, non possedendo la discordia, non ha  cognizione di tutti gli elementi, chè la cognizione è del simile  col simile. Egli dice:    terra con terra, acqua con acqua scorgiamo,  con l’etere l’etere divino, e il fuoco distruttore col fuoco,  con l’Amore l'Amore, con la Discordia funesta la Discordia.    Ma, per tornare al nostro discorso, è manifesto che per  lui la discordia bisogna che sia non meno cagione dell’essere  che della corruzione. E neppure l’amicizia è causa soltanto  dell'essere: rimenando tutto all’unità, fa perire ogni altra  cosa. Intanto non ci dice niente su la causa di questa mu-  tazione, ma solo che così è per natura:    ma quando la Discordia fu cresciuta grande nelle membra  e sali al comando, compiendosi il tempo   che ad entrambe è prefisso,   in alterna vicenda, da un inviolabile giuramento ('),    come se la mutazione fosse necessaria; ma non ci palesa nes-  suna cagione di questa necessità. Pur tuttavia egli è il solo  che parli coerentemente, in quanto non fa già degli enti gli  uni corruttibili, e gli altri no; ma tutti corruttibili, eccetto  gli elementi. Invece la questione, di cui qui trattiamo, è perchè  aleuni sono corruttibili ed altri incorruttibili, una volta che  vengono da gli stessi principii.   Che, dunque, i principii non possano esser gli stessi, basti  quanto s’è detto.   Ma se i principii son diversi, uno dei dubbi sarà se quelli  delle cose corruttibili siano ineorruttibili, o corruttibili an-  ch’essi (*). Se corruttibili, è chiaro che anch’essi debbono       (1) Per frammenti Empedoclei, cfr. Diels, op. cit., I, 180 88. (nn. 21, 30, 96, 109).  V. anche E. BicnonE, E., pp. 417 88.   (9) Così anche il Lasson (trad. della Met. di A., Jena, 1* ediz. 1907, p. 51).  Letteralmente sarebbe: «uno dei dubbi sarà se essi stessi sono incorruttibili o    22    24    25    26    27    28  29    30    31    LIBRO TERZO 87    necessariamente venire da altri principii, perchè ogni cosa  si corrompe in ciò da cui deriva: onde risulterebbe che ci  sono altri principii anteriori ai principii. Ma questo non è  accettabile, sia che ci si voglia fermare, sia che si proceda  all’ infinito (‘). E poi, quando i principii loro saranno stati  distrutti, come possono esserci più i corruttibili? — Se, in-  vece, sono incorruttibili: perchè mai da alcuni di essi verran  fuori gli enti incorruttibili, mentre da altri, incorruttibili  anche essi, verran fuori enti corruttibili? Non par davvero  ragionevole: anzi, o è impossibile, o c’è bisogno di molte  spiegazioni.   In fine, nessuno mai ha preso a dire che i principii degli  enti fossero diversi, anzi dicono che son gli Stessi per tutti.  Nella questione, tuttavia, che agitammo dianzi, non s’adden-  trano, quasi reputandola di poco conto.   La questione più di tutte difficile a meditare e la più ne-  cessaria alla conoscenza della verità, è se l’Ente e l’Uno  sono sostanze degli enti, sì che ciascuno di essi, quello in  quanto ente, questo in quanto uno, non siano predicato di  altro; ovvero se bisogni cercare che cosa sia l’Ente, e che  cosa sia l’ Uno, in quanto un’altra natura sta loro a sostrato.  Alcuni la pensano nella prima maniera, altri nella seconda.  Platone e i Pitagorici ritennero che l’ Ente e 1’ Uno non siano  null’altro se non quello che è la loro natura, di essere cioè  la sostanza loro l’essenza dell’ Ente, appunto, e dell’ Uno (?).    I    corruttibili ». Ma mì par chiaro, da quel che segue, che la questione riguarda 801-  tanto i principii dello cose corruttibili. Delle incorruttibili come può sorgere il  dubbio? Nò ia questione è diversa dalla precedente: l’incorruttibilità dì quei  privcipii, infatti, è dimostrata per la medesimezza, laddove la corruttibilità de’  loro effetti è adotta in prova della loro diversità,   (1) Se ci sì ferma, ci son principii anteriori, e son essi principii, non gli altri.  Se si volesse procedere (o regredire) all'infinito, non ci sarebbero principii addi-  rittura, In entrambi i casi quei principii supposti corruttibili verrebbero distrutti  come principii, logicamente e, in quanto abbassati a cose corruttibili, anche real-  mente. La presente questione si può considerare risolta nel lib. XII (spec. nei  primi capitoli).   (2) (Questione 11)— L'essere in sò e per Sè, e così l'Uno, sono sostanza  «lelle cose, come vogliono Pitagorici e Platonici; ovvero la sostanza delle cose  consiste nel sostrato determinato (materia e forma nell’unità del BIinolo), del quale  si possono predicare l’essere e l'uno?    1001 a    88 METAFISICA    I Fisiologi la pensarono altrimenti. Empedocle, ad es., per    dire che cosa è l’Uno cerca di ridurlo a qualcosa di più    facile a sapersi, e parrebbe che questo fosse per lui l’ami-  cizia: per lo meno, essa è la causa dell’unità di tutte le cose.  Altri dicono il fuoco, altri l’aria: questa è, per essi, la na-  tura dell’ Uno e dell'Ente, da cui sono e si generano le cose.  E del pari, coloro che pongono più elementi: anch'essi son  costretti a dire che l’Uno e l’Ente è tante cose quanti per  l'appunto sono i principii (‘).   Se non si volesse concedere che l’Uno e l’Ente sia una  sostanza, neppure quindi può esser tale nessuno degli altri  universali: chè quelli sono universali a maggior titolo degli  altri. Se per ciò non è qualcosa (?) l’Uno per sè e l’Ente per  sè, molto meno si può dire degli altri che siano qualcosa  oltre le cose singolari.   In secondo luogo, se l’Uno non fosse sostanza, è chiaro  che neppur il numero sarebbe una natura separata (*) dalle  altre: poichè il numero è fatto di unità, e l’unità è l’essenza,  per l'appunto, d’ogni cosa ch'è una.   Ma se l’Uno e l’Ente sono qualcosa che è in sè e per sè,  necessariamente la loro sostanza è l’Uno e l'Ente, perchè non  c’è in essi qualche altro sostrato di cui essi si predichino  universalmente, ma sono essi questo sostrato.   Ma, allora, se l’Ente e l’Uno sono qualcosa in sè e per  sè, la difficoltà grande è come ci potrà essere qualche altra  cosa oltre di essi: in altri termini come gli enti potranno  essere più di uno. Poichè l’altro dall’ente non è: per cui si  è costretti a ragionare come Parmenide (‘), che tutte le cose    (1) I Fisiologi posero per principio, non l' Uno in sò e per sè, ma una materia  primordlale, unica o molteplice, come sostrato del divenire,   (2) Qualcosa di esistente in sè e per sè: i. e. una sostanza.   (3) I. e., come prima, una sostanza: ciò che ha un'esistenza indipendente  (in sè e per sò),   (4) I Platonici intendono l'essere come essenza (l'essere intelligibile) dolle  cose, e in questo il loro principio è ben altro da quello parmenideo. Ma essi,  dice A., debbono pure, come Parmenide, escludere ogni molteplicità dal prin-  cipio posto come assolutamente Uno. (Ricorda che, pur riconoscendo l'esistenza  del molteplice, Platone, come si vide nel lib. I. 6, 9, pose questo come contenuto    33    34    36    37    LIBRO TERZO 89    38 sono Uno, e questo è l’Ente. Non c’è da star contenti nè in 1001 b  un caso nè nell’altro: o che l’Uno non sia sostanza, o che  l’Uno sia qualcosa in sè e per sè, il numero non può essere  sostanza. Se l’Uno non è sostanza, quest’impossibilità s'è  dimostrata prima. Se invece è sostanza, vale per esso la  stessa difficoltà che intorno all’Ente: donde verrà un altro  uno oltre l’Uno in sè e per sè? Necessariamente, esso non  potrà esser uno. Ora, tutto ciò che è, o è uno, o molti, dei  quali ciascuno è uno.   39 In secondo luogo, se l’Uno è in sè indivisibile, stando  alla sentenza di Zenone esso sarebbe nulla; poichè, ciò che  o aggiunto o sottratto non fa esser perciò una cosa nè più  grande nè più piccola, non è secondo lui da annoverare tra  gli enti; come se fosse evidente che l’essere sia una gran-  dezza, e, se grandezza, sia perciò corporeo: chè questo sa-  rebbe ente da ogni lato. Le altre grandezze ('), invece, ag-  giunte in un certo modo (*), dice, fanno più grande ciò a  cui si aggiungono, e in un altro, no: per es. una superficie,   40 una linea. Il punto e l’unità, in nessun caso, mai. Costui è  rozzo nelle sue speculazioni; e poichè qualcosa indivisibile  esiste, se ne potrebbe far la difesa contro di lui anche così:  esso è di tal natura che, aggiunto, non farà più grande ciò   41 a cui si aggiunge, ma, con esso, farà più nel numero. Rimar-  rebbe, ciò non ostante, la questione (*): come da un tale uno,       soltanto: laddove il principio formale dell'idea era l’unità pura). In termini filoso-  fico-religlos!, la dottrina platonica conduceva ad un misticismo pantelstico (salvo  il motivo, teistico, della trascendenza formale, svolto da A.).   (1) L'Uno, contro il quale Zenone combatte, non è (come giustamente fa  osservare il Ross) il principio parmenideo, ma quello pitagorico, o l'uno come  prinelpio di spiegazione del molteplice fisico (sensibile, corporeo). Esso era pen-  sato, infatti, come una grandezza indivisibile (cfr. l'atomo democriteo). E però  Zenone accetta questo modo di vedere, e considera il corpo (il solido, la gran-  dezza a tre dlmensloni) come ente a maggior ragione delle altre grandezze. Egli  può, così, dimostrare che il mondo e ogni cosa, in quanto risultante da quelle  unità elementari, sarebbero insieme infinitamente grandi e infinitamente piccoli,  ossia contradittorli.   (2) Secondo che si agglungono l’una di seguito all'altra, oppure vengon so0-  vrapposte;   (3) A. non condivide il modo dl vedere pitagorico-platonico che identifica  l'arltmetico col geometrico, e però trova rozza l’argomentazione di Zenone.    1002 a    90 MBTAFISICA    o da molti come esso, si avrà la grandezza? Poichè è come  dire che la linea risulti di punti. E se anche si vuol ammet-  tere quel che dicono alcuni, che il numero provenga dal-  l’Uno in sè e da qualcos’altro non uno ('), resta sempre a    sapersi perchè e come l’effetto è talora un numero, talora’    una grandezza, una volta che il non-uno è la disuguaglianza  e la sua natura è sempre la stessa (?). Non si vede nè come  da l’Uno più questa, nè come da un numero più questa,  potrebbero venir fuori le grandezze.    CapPITOLO V.    A queste fa seguito la questione, se i numeri e i corpi (*) e  le superfici e i punti siano da porre tra le sostanze, o no.   Se non sono sostanze, ci sfugge che cosa sia l’essere, e  quali cose siano sostanze. Le affezioni, i movimenti, le rela-  zioni, gli ordinamenti e rapporti diversi delle cose, non pare  davvero che esprimano la sostanza di nulla: essi vengono  tutti riferiti a un sostrato, e nessuno è un essere concreto.  Si prendano pure, come esprimenti la sostanza meglio di  ogni altra cosa, l’acqua e la terra e il fuoco e l’aria, di cui  constano i corpi composti; ma il loro riscaldarsi o raffred-  darsi, e simili altre affezioni, non sono sostanze: solo il corpo  che li riceve, rimane come qualcosa di concreto e come una  sostanza reale. E tuttavia, il corpo è ancor meno sostanza  della superficie, e la superficie della linea, e la linea del-    ‘Tuttavia dà ragione a costui quanto all’impossibilità di dedurre l’esteso dal-  l’ inesteso. Ricorda, infatti, l'imbarazzo di Platone per il concetto di punto:  lib, I. 9, 25.   (1) La diade indefinita (il grande-piccolo).   (2) Onde, o è ineste sa, e dall'unione con l'Uno verranno i numeri, non le  grandezze; o è estesa, e dall'unione con l’Uno verranno le grandezze, non i  numeri. Nè, se uno dicesse che, prima, dall’Uno e dalla diade si genera il nu-  mero, poi da questo con la diade le grandezze, — neanche così resterebbe spiegato  il passaggio dall'inesteso all’esteso. La questione 11° è ripresa in VII. 16, 3-4 e X. 2  (oltre gli accenni sparsi nei libri XIII-XIV).   (8) (Questione 12*)—I solidi (corpi matematici).    42    LIBRO TERZO 91    ‘unità e del punto. Infatti, da questi vien determinato il  corpo: e se questi parrebbe che possano esistere senza il  5 corpo, il corpo senza di essi non può('). Avvenne per ciò  che i più antichi filosofi, pur reputando, conforme all’opi-  nione dei più, che il corporeo fosse la sostanza reale delle  cose, considerarono il resto sue affezioni, così che i principii  dei corpi erano, anche per essi, i principii delle cose. Ma  i filosofi posteriori (*) e più raffinati di quelli reputarono che  principii siano i numeri.  6 Dunque, come s’è detto, se questi non Sono sostanza,  non c’è punto nessuna sostanza, nè alcun essere reale: chè  i loro accidenti non meritano davvero di esser chiamati enti.  7 D’altra parte, se si concede questo, che le linee e i punti  sono sostanza più dei corpi, non vedendo noi di quali corpi  possano esser sostanza (di quelli sensibili non è possibile),  8 non ci sarebbe sostanza nessuna (*). Inoltre, pare che tutte  queste cose siano divisioni del corpo, l’una in larghezza,  9 l’altra in profondità, e l’altra in lunghezza (*). Aggiungi che  nel solido o c’è del pari ogni sorta di figure, o non ce n'è  nessuna: per cui, se, poniamo, non c’è un Ermete nella pie-  tra, neppure c’è la metà del cubo nel cubo(°): s’intende    (1) Tanto poco si deve ritenere per sostanza ciò che a unu veduta grossolana  pare più corporeo, che anzi gli elementi primi e i principii generatori del reale  si trovano per ultimo con l’anallsl della riflessione: la superficie come principio  generatore del solido, lu linea della superficie, il punto della linea. — Parrebbe  che il semplice possa esistere prima e indipendentemente dal più complesso  (v. lib. I. 8, 9 88.), 6 però esser sostanza n maggior diritto.   (2) I più antichi filosofi: i Fisiologi. I filosofi posteriori: Pitagorici e Platonici.   (3) Cfr. VII. 10, 19: «La materia intelligibile, quale quella delle matematiche,  è nei sensibili, ma non in quanto sensibili ». E già in I. 8, 1 aveva detto che con  i principii matematici non si può dar conto delle proprietà e qualità delle cose  oggetto della Fisica.   (4) Non sostanze, ma divisioni che noi operiamo nei corpi.   (5) Come nota S. Tom. (8 509): «haec in continuo non sunt in actu, nisi solum  quantum ad illa quae terminant continuum, quae manifestum est non esse sub-  stantiam corporis. Aliae vero superficies vel lineae non possunt esse corporis  substantiae, quia non sunt actu in ipso: substantia autem actu est in eo cuius  est substantie ». In potenza ci son tutte: così come la figura di Mercurio è nel  blocco di marmo, e la superficie che divide 11 cubo a metà è nel cubo. In atto  ci sono soltanto se le realizziamo: se no, rimangono, come idee soltanto, nel    1002 b    92 METAFISICA    come figura determinata. E così per le superfici: se, infatti,  ci fosse ogni sorta di superfici, ci sarebbe anche quella che  determina la metà del cubo. Lo stesso ragionamento vale  anche per la linea, per il punto e l’unità. Sì che, se il corpo  principalmente è sostanza, ma queste cose, che pur han di-  ritto di esser sostanza più di esso, non sono poi per nulla  determinate sostanze, — ci sfuggirà quel che è il reale, e  quale sia la sostanza degli enti.   Altri assurdi vengon fuori considerando la generazione e  la corruzione. Sembra, infatti, che la sostanza, se prima non  era ed ora è, oppure prima era ed ora non è, subisca queste  vicende perchè si genera e si corrompe. Ma i punti e le linee  e le superfici, pur talora essendo e talora no, non possono nè  generarsi nè corrompersi, per la ragione che è nell’atto in cui  i corpi si toccano e si dividono che, in un caso, di quel che  viene in contatto (') si fa unità, nell’altro, quel che vien di-  viso diventa due: quei che si compongono, c’erano, ma, es-  sendo stati distrutti nella composizione, non sono più; quando  invece vengono divisi, ci sono, mentre prima non c’erano. Di  sicuro, non si è già diviso in due l’indivisibile punto (?).  Eppure, se si generano e corrompono, ciò avviene da qualcosa.   Press’a poco lo stesso vale, in riguardo al tempo, per  l'istante: neppur di esso si dà generazione e corruzione, e  tuttavia sembra che sia sempre diverso pur non essendo una  sostanza. È chiaro che lo stesso vale anche per i punti, per le  linee e per le superfici: perchè il discorso è lo stesso: tutti  sono similmente o limiti o divisioni (*).    pensiero e virtualmente (ricorda Leibniz!) nelle cose. L'« argumentationis fraus »  (Bonitz, p. 167), per cui A. estenderebbe la conchiusione «ad eam figuram quae  actu corpus circumsceribit », non mi par che ci sia.   (1) I. e. punti, linee, superfici (propriamente, superfici, so si compongono 0  dividono due corpi; linee, se due superfici; punti, se due linee).    (2) «Neque enim illud quisque statuitur, ita in dirimendis corporibus fieri -    planum vel lineam, ut ipsum punctum dissecetur»: Bonitz (p. 168). A ciò, infatti,  ci vorrebbe un passaggio, dalla potenza all'atto. Laddove l’atto è istantaneo, e  nell'istante non c'è generazione (che implica un processo temporale).   (3) V. il passo di S. Ton. cit. dianzi. Degli enti matematici trattano ampia-  mente i libri XIII-XIV; ivi è ripresa anche la questione delle idee, alla quale  si ritorna nella 13% (efr. la questione 5* e 9°).    10    11    LIBRO TERZO 93    CapiToLo VI.    1 Si potrebbe anche in generale far questione, perchè mai  bisogna cercare altre entità oltre le sensibili e le intermedie,  2 e quali siano: per es., le specie, che noi poniamo. Si può  rispondere che gli enti matematici differiscono bensì per un  verso dalle cose di quaggiù, ma non ne differiscono punto  in quanto ce ne sono molti della stessa specie ('): per cui i  principii delle cose non si possono determinare con il numero;  così come l'alfabeto non è determinato dal numero delle let-  tere, ma dalla loro specie (a meno che uno non prenda le  lettere di una sillaba o parola attualmente determinata: chè  3 lì anche il loro numero è determinato). Ma lo stesso vale per  gli intermedi: anche-là, infiniti sono quelli della stessa specie.  Così che, se oltre le cose sensibili e gli enti matematici non  ci fossero altri enti, quali sono le specie secondo alcuni, — nè  ci sarebbe una sostanza unica per numero, oltre che per spe-  cie (°), nè i principii degli enti sarebbero tanti, e non più,  di numero, ma di specie soltanto. Che se questo è necessa-  riamente conchiuso, bisogna conchiudere anche che le specie  4 esistono. E se pure non si spiegano bene i loro sostenitori,  bene è questo quel che vogliono, ed è necessario che questo  essi intendano dire: che delle specie ciascuna è una sostanza    (1) (Questione 18%) — Molti (infiniti) triangoli sensibili, e molti (infiniti)  triangoli geometrici (sebbene questi siano eterni e immobili). Questa molteplicità  ha bisogno di un principio di unificazione, che non può esser altro che ideale  (in questo caso, il concetto stesso dij triangolo). Così, come l'alfabeto è tale per  In «specificità» delle lettere in cui i suoni fonici ri determinano, non per il  numero dei suoni che fan capo a esso.   (2) Oppure, secondo la variante difesa dlal Bonitz e dallo Schwegler (e già  in Aless.): «ma soltanto di specie ». Il senso, tuttavia, è giusto anche tenendo  il testo com'è. Nota che nell'argomentazione i termini s'inerociano: il molte-  plice sensibile e matematico è veduto deutro la specie, ed è perciò « della stessa  specie »; esigere, poi, che anche per questo molteplice ci sia una specie unica,  che ne dia la ragione logica e insieme reale, è esigere un’unità numerica, oltre  che specifica: laddove, se quel molteplice è veduto fuori della specie, questa rap-  presenta di esso un’unità specifica, non numerica.    1003 a    94 MMTAFISICA    determinata, sì che non si tratta .di determinazioni acciden-  tali dell’essere.   D'altra parte, se noi porremo che le specie esistono ('),  e che i principii abbiano unità per il numero, non per la  specie, — s'è detto innanzi (*) a quali conchiusioni inaccet-  tabili si arrivi.   Affine a questa è la questione se gli elementi sono in po-  tenza o in qualche altro modo (*). Se fossero in qualche altro  modo, ci sarebbe qualcos’altro, anteriore ai principii, poichè  la potenza sarebbe anteriore a una tal causa, non essendo  necessario che tutto ciò che è possibile sia a quel modo (*).   Se, invece, gli elementi sono in potenza, potrebbe non  esister nulla attualmente, poichè è possibile anche ciò che  ancora non è. Diviene, infatti, ciò che non è ancora. Invece,  nulla diviene di quel che è impossibile che sia.   Queste, dunque, sono le questioni da discutere intorno ai  principii; e anche se siano universali, o al modo che diciamo  dei singolari. Se universali, non saranno sostanze, perchè  nessun termine comune esprime un essere concretamente de-  terminato, bensì una certa natura dell’essere; invece, la so-  stanza è un essere concretamente determinato. Se ciò che si  predica in comune (*) fosse un essere concretamente deter-    (1) A sè, come sostanze, enti separati o indipendenti.   (2) V. nel Sommario quest. 54, a); quest. 9, b). L'unità per il numero, soltanto,  fa dei principii elementi materiali, incapaci di dar ragione delle cose. Cfr. S. Tom.  (8 518): « Principia rerum efficientia et moventia sunt quidem determinata nuniero;  sed principia rerum formalia, quorum sunt multa individua unius speciei, non sunt  determinata numero, sed solum specie ».   (3) (Questione 148) — In atto. La questione è a/fne alla procedente, per-  chò l’unità numerica, oltre che specifica, è Atto e individualità; quella soltanto  specifica corrisponde alla mera possibilità,   (4) L'attuale (empiricamente inteso) presuppone il possibile (come sua propria  pensabilità, diremmo noi), non viceversa. Nota che altro è il « possibile », altro ciò  ch’ è «in potenza » (sebbene di solito indicati con lo stesso termine: tò Buvaréy):  in questo è già il principio del processo determinato del divenire, che si svolge  da una forma già realizzata in una materia; il possibile, invece, non ha altra  determinazione che di non esser contradittorio. La questione è ripresa e trat-  tata in lib. IX. 1-9.   (5) (Questione 15%) — xatnyogovpeva, universali astratti. La questione è  implicata già nella 72, 8, 93, 115,    10    11    12    LIBRO TERZO 95    minato, e si potesse staccare dai particolari, Socrate sarebbe  molti esseri viventi: cioè, lui stesso, l'uomo, l’animale: dato  che ognuno di questi sia un essere concreto e qualcosa che sta  da solo. Questo, dunque, accade se i principii sono universali.   Se, poi, non sono universali, ma al- modo dei singolari,  non saranno più oggetto di scienza, perchè la scienza in ogni  cosa è dell'universale. Sicchè, se la scienza deve esserci, ci  saranno altri principii anteriori ai principii: quelli che si pre-  dicano in universale.    LIBRO QUARTO    CapPiTOLO I.    C'è una scienza che studia l'essere in quanto essere (')  e le sue proprietà essenziali. Essa è diversa da ognuna delle    scienze particolari: poichè nessuna delle altre scienze studia  in universale l'essere in quanto essere, re, ma, dopo averne re-  cisa qualche parte, di questa considera gl: gli accidenti. Così,  le matematiche.    (1) Td Bv fi Bv: l’essere, il reale, in Sè e per sò. Questa è "la definizione  fondamentale della Metafisica, alla quale si riducono le altre due vedute finora:  quella del lib. I, di scienza dei principii e cause prime, e quella del lib. II, di  scienza della verità. Salvo che l’una determina il senso della definizione fonda-  mentale piuttosto in riguardo alla realtà delle cose, l’altra piuttosto in riguardo  al pensiero che le pensa. Ma, sì può chiedere, i principil e le cause prime delle  cose non le studinno anche le altre scienze, e in primo logo le fisiche? Qual'è,  allora, la differenza tra la Metafisica e le altre scienze? La questione è trattata  più ampiamente nel cap. 1 del lib. VI, Qui si.ascenna soltanto-che-le-Matafisica  considera 1’ essere nella sua universalità e necessità. Le altre scienze, il infatti, si  restringono t) “considerare un genere di enti (gli unimalt, Te piante, ece.; i ‘’auoni,  i colori, ecc.; i numeri, lo figure reometriche, ecc.), € però son tutte particolari.  Non solo: ma nel genere particolare di cose, che studiano, non riguardano no alla  loro pura essenza, a ciò che sono per una necessità intima dell'essere stesso, ma  considerano le loro qualità e proprietà, astraendole (quasi recidendole) dalla  sostanza ed essenza loro, data nel concetto e nella definizione. Ne cgnsiderano  gli accidenti: le fisiche, gli accidenti sensibili; le matematiche (che astraggono  dal resto per considerare le sole proprietà quantitative), gli accidenti che possiam  chiamare intelligibili. Invece, l’essere vien studiato dalla Metafisica come prin-  cipio da cui necessariamente dipendono gli altri principi, in quanto questi non  son altro che parti o elementi dell’intelligibilità e realtà dell'essere per se stesso.    ARISTOTELE, Metafisica, "i    98 METAFISICA    Ora, volendo noi conoscere i principii e le cause supreme,  è chiaro che li dobbiamo cercare come proprietà di una natura  considerata per se stessa. Se, dunque, coloro che cercavano  gli elementi degli enti ('), cercavano anch'essi questi prin-  cipii, di necessità anche gli elementi erano dell’essere non  accidentalmente considerato, ma in quanto essere. Per ciò  anche a noi convien prendere le prime cause dell’essere in  quanto essere.    CaPiToLO II.    Dell’ente si parla in molti modi (*), ma sempre per un  solo rispetto e determinatamente alla natura di una cosa, non  per omonimia semplicemente, ma nello stesso modo che di-    (1) I Fisiologi, i quali facevano anch'essi, inconsapevolmente, della metafisica.   (2) L'essere in quanto oggetto del pensiero è l'essere che viene affermata nel  conoscere e nel sapere: l'essere delle cose di cui il metafisico indaga le categorie  supremo. Le altre scienze adoperano queste categorie; il metafisico le studia  come puri concetti in cuì si distingue o determina il concetto in sè e per sè  dell'essere. Dell'essere reale, s'intende: di quello ch'è predicato delle cose.  Questo viene quindi distinto in sostanza e accidenti, gli accidenti in essenziali  e non essenziali, e vla dicendo. E di ognuno di questi aspetti, che il pensiero  coglie nelle cose, si chiarisce il significato e il rapporto che hauno tra loro.   Il conoscore e il sapere, inoltre, procedono ponendo rapporti tra le cose dentro  ciascuna delle categorie sostanziali o accidentali: rapporti, cioè, di identità, di  uguaglianza, di somiglianza, ecc., e de’ loro contrari, Il metafisico studia il signi-  ficato e il rapporto anche di queste categorie che potremo chiamare dialettiche,  pur che sai badi che qui A. intende del pensiero che si muove nella realtà delle  cose: non per mera esercitazione.   Non basta. Questo pensiero che peusa le cose e i loro rapporti, già nel cono-  scere comune; ma molto più visibilmente in quello scientifico, procede affermando  o negando, con giudizi, ragionamenti, dimostrazioni. Ma affermare o negare, giu-  dicare, ragionare e dimostrare, è impossibile se non si pongono a fondamento  principii di pensabilità delle cose: ci sono certe verità evidenti, sopprimendo le  quali diventa impossibile pur cominciare, non che a pensare, n parlare.   Parlare non è lo stesso che pensare e ragionare: uno può parlare per espri-  mere un sentimento o per comunicarlo ad altri. Ma anche il pensare discorsiva-  mente può essere riguardato e studiato in sè e per sè, come mero movimento 0  processo dialettico del pensiero attraverso i concetti e i loro rapporti. Di questo  trattano specialmente i Primi Analitici. Data questa indipendenza del pensiero  in quanto discorso, è possibile abusarne come fanno i Sofisti. La Metafisica lo  sottrae a questo pericolo soggettivo, perchè essa considera il pensiero in quanto  pensa l'essere reale delle cose; e però spetta ad essa lo studio di quelle verltà    9    LIBRO QUARTO 99    ciamo salubre tutto ciò che riguarda la salute: o perchè la  conserva, o perchè la produce, o perchè indizio di salute, o  perchè ci rende capaci di essa. Così, dicesi «medico » ciò 1008 b  che riguarda la medicina: chiamiamo medico chi possiede  l’arte della medicina, e anche ciò che ha natura buona a  medicare, oppure quel che è effetto di essa. E nella stessa  maniera di queste si avranno da intendere altre espressioni.  L'ente si dice per l'appunto così, in molti sensi, ma tutti in  riguardo a un solo principio: enti noi diciamo le sostanze,    e anche le affezioni della sostanza, e tutto ciò che alla sostanza    conduce : corruzioni, privazioni, qualità, quel che produce o  genera una sostanza, cose che si riferiscono. alla. sostanza,  ovvero sono o negazioni ( di i qualcuna di ‘queste v della sostanza  stessa: per cui del non-ente diciamo pure che «è» non-ente(!).    supreme o assiomi, o principii di pensabilità, che scaturiscono immediatamente  dall’intelletto nell'atto del conoscere e di costruire il sapere. Di questi principii  il fondamentale è quello di non-contraddizione.   La Metafisica di Aristotele, veduta da questo lato, è una scienza della scienza,  fin dove, alineno, questo concetto moderno può essere, senza anacronismo, attri-  buito a lui. Manca, naturalmente, il senso dì soggettività in cui si pone questo  concetto dopo Kant, C'è soltanto quel senso di essa che poteva esserci dopo la  Sofistica e in opposizione all’idealismo oggettivo di Platone. Di qui un primo  spunto di criticismo. La Metafisica di A. è più critica che costruttiva. E poichè  la critica è fondamentalmente concettuale, si può definire una scienza che mira  a chiarire, nella molteplicità del reale, il concetto puro di esso. La dipendenza,  in cui il pensiero è ancora dalle cose, dà, tuttavia, anche a questa definizione un  significato lontano da quello che oggi ci sì potrebbe aspettare: molte volte, più  che elaborare i concetti, A. si limnita ad esporne il significato, o a distinguerne  i vari significati. Dono, più che risolva, spesso, i problemi: mostrandosi, anche  in questo, scolaro di Platone.   (1) In questo capitolo il peusiero procede un po' a sbalzi, e sembra infatti che  il testo vada in qualche punto riordinato.   Esso si compone di tre parti: due pongono il concetto che c' è un'unica scienza  dell'essere in quanto essere, sia in riguardo alla sostanza e ai suoi attributi, sia  in riguardo alle opposizioni dialetticheia terza differenzia questa forma di scienza  dalle altre. Riassumiaino brevemente, per mostrare l’ordine delle idee:   I) Ogni scienza ha un suo oggetto (un certo genere di cose), del quale con-  sidera i vari aspetti. Ma questi si posson ridurre tutti a quello fondamentale  della sostanza e de’ suoi attributi. Questa distinzione riguarda l'essere di ogni  cosa: sarà, dunque, oggetto della scienza che studia l'essere in sè e per sè. La  quale sarà unica, così come resta unica ogni scienza non ostante la varietà delle  specie del genere che studia: il che non impedisce che abbia parti, e saranno,  queste, organizzate in essa, così come lo sono in ogni altra scienza [1-4, 7].    100 METAFISICA    In quel modo, dunque, che di tutte le cose salubri c’è 2  una scienza sola, così anche delle altre. Compito, infatti, di  un’unica scienza è lo studio, non soltanto di quel che si dice  per uno stesso rispetto (‘), ma anche di quel che si dice con-  siderando una stessa natura: chè anche questo, in certo modo,  si dice per uno Stesso rispetto. È dunque chiaro altresì che 3  unica è la scienza che dovrà studiare gli enti tutti in quanto  enti. Ma, dappertutto, scienza è principalmente quella del-  l'essere che è primo, e da cui tutto il resto dipende, e per  cui di tutte le cose sì parla. Se dunque questo primo è la  sostanza, dovrà il filosofo possedere i principii e le cause  delle sostanze (?).   In ogni genere di cose, come uno è il senso (*), se i sen- 4  sibili appartengono a uno stesso genere, così è della scienza:  la grammatica, ad es., sola, basta alla considerazione di tutte  le voci. Per ciò ad una scienza unica di genere spetta di  studiare quante ci sono specie dell’ente come ente: alle specie  di quella, poi, le specie di questo (*).       II) Parlar dell'Uno e parlar dell’ Essere è lo stesso. Le opposizioni dialet-  ‘tiche sono opposizioni dell'essere, perchè il non-essere in realtà è, non mera  negazione, ma privazione, contrarietà. Ora, l'opposizione unità-molteplicità è op-  posizione di contrari, e questi, a lor volta, si riducono sempre all'opposizione  upo-molteplice. E poichè ognuno concede che dei contrari la scienza è unica,  unica sarà la scienza della contrarietà in generale. Questa avrà significati diversi.  che tale scienza dovrà studiare, chiarire e organizzare logicamente [5-6, 8-11, 15-16).   III) E per il primo e per il secondo rispetto si conchiude che unica è la  scienza dell'essere în quanto essere, la quale studierà l’essere in quanto sostanza  e attributi, e in quanto alle contrarietà o opposizioni dialettiche [12]; vien ng-  giunto il concetto di svolgimento e di definizione (19; così mi par si possano  intendere le ultime parole « genere e specie», «tutto e parte»: questi concetti  non si riducono, infatti, immediatamente salle opposizioni precedenti).   Questa scienza è diversa da quella sofistica, che guarda gli accidenti e le  «opposizioni, e non li coglie come determinazioni essenziali dell’essere in se  ‘stesso [13-14]. Ma è diversa anche da quella degli scienziati, perchè, sebbene  l'essere nella sua universalità astratta non sia nulla di reale, pure, considerato  come dianzi s'è detto, è quella realtà che fa roali tutto le cose: intorno a queste  versano le scienze, intorno a quella la Metafisica [17-18]. /   (1) xa@” Ev, distinto da reds plav qpuow, l'uno come poni di vista logico, l’altro  reale (e logico insieme),   (2) Enti, sostanze: questi plurali vanno intesi nel senso del singolare.   (8) Uno è il senso per i colori, ad es., per i suoni, ecc.   (4) L’organizzazione del sapere coincide, così, in ogni scienza, con quella  dell’essere nelle cose.    LIBRO QUARTO 101    5. -L’ente. poi, e l’uno sonola stessa cosa, ed esprimono una  medesima natura,.in quanto s’implicano l’up l'altro così. come  principio e causa, sebbene i loro. concetti, a volerli illustrare,  non siano identici (') (e non fa nulla se noi ora Ii conside-  riamo tali, che anzi, ci gioverà meglio allo scopo). Non è,  infatti, la stessa cosa « uno-uomo » e «un uomo», «ente-uomo»  e «l’uomo » (?)? E che altro è se non una ripetizione verbale  il dire: «l’uomo è», «l’uomo è uno»? E se l’uomo nasce e  muore, è chiaro che non per questo esso si separa dal suo  essere; e similmente dicasi anche per la sua unità (*). Per cui  è evidente che l’aggiunta nelle frasi su dette non muta il  senso, e che l’uno non è nulia di diverso dall’ente. La sostanza  di ciascun essere è un’unità,-enon--per-aeeidente, ma pro-   6 prio come ogni cosa che sia un essere determinato. Così che  tante saranno le specie dell’uno(‘*), e tante saranno anche  quelle dell’essere; e la scienza che studia l'essenza delle une  é Ia stessa, in fondo,. di. quella che studia }essenza . delle  altre. Voglio dire, ad es., lo studio dell’identità, dell’ugua-  glianza e delle altre simili, e delle loro opposte: chè, si può  dire, tutti i contrari si riducono-a questo principio dell’uno 1004 a    (1) L'Uno si adopera in sensi più particolari, esposti in V.6 e X. 1: esprime,  soprattutto, l’indivisibilità, la misura, il principio del numero. Per principio e  causa, v, llb, V.162.   (2) Ho accettata nel testo la giusta modificazione proposta dal Ross. Il greco  non ba l'articolo indeterminato, nò quello determinativo, ch’io ho aggiunti innanzi  all'« uomo » del secondo membro dei due incisi. Questi mirano a porre le due  uguaglianze, poi l'uguaglianza loro, in fine quella dei due termini uno e ente.   (3) Questo periodetto (che il Christ mette tutto tra parentesi, e io ho così  interpretato, perchè mi par giusto intendere la seconda parte, «e similmente  dicasi, ecc.», in rapporto a quel che precede, anzichè a quel che segue, come  intendono invece il Bonitz e il Ross) vuole semplicemente dire che il divenire  non muta la questione. Cfr. S. Tom, (552): « Et sicut elictum est quod ens et homo  non separantur in generatione et corruptione, similiter apparet de uno. Nam cum  generatur homo, generatur unus homo; et cum corrumpitur, similiter corrumpitur.  Unde manifestum est quod appositio in Istis ostendit idem; et per hoc quod additur  vel unum vel ens, non intelligitur addi alique natura supra hominem. Ex quo  manifeste apparet quod unum non est praeter ens: quia quaecumque uni et eidem  sunt eademi, sibi invicem sunt eadem ». ,   (4) Qui specie vale, evidentemente, nozioni, concetti: chè 1’ Uno e l'Ente non  sono generi (v. III. 3, 7; VIII. 6, 8; X. 9, 2).    102 MBTAFISICA    e del molteplice (‘). Si vegga in proposito la nostra tratta-  zione: La scelta dei contrari (?).   Ci sono, in conchiusione, tante parti della filosofia, quante  appunto sono le sostanze delle cose, onde, di necessità, ci  deve essere tra esse quella che vien prima e quella che vien  dopo. Poichè l’essere e l’uno si trovano sin da principio di-  visi in generi (*), e anche le scienze si partiscono in conse-  guenza. Il filosofo è come colui che diciamo matematico: la  matematica anch'essa ha parti, e delle scienze matematiche  ce n’è una che vien prima, un’altra viene in secondo luogo,  e ordinatamente le altre.   E poichè a una sola scienza appartiene lo studio degli  opposti, e all'uno si oppone il molteplice, apparterrà a una  sola scienza lo studio della negazione e della privazione, per-  chè in ambedue i rispetti si considera pur sempre quell’uuo  a cui la negazione e Ja privazione si riferiscono. O infatti  noi diciamo semplicemente che esso non ha luogo, ovvero  che non ha luogo in un certo genere di cose: quivi, dunque,    (1) Non è, questa specificazione, nel testo. Cfr. S. Tom. (561-562): « Et ad hoc  principium, sc. unum, reducuntur omnia contraria fere [si può dire]. Et hoo addit  quia in quibusdam non est ita manifestum. Et tamen hoc esse necesse est: quia  cum in omnibus contrariis alterum habeat privationem inclusam, oportet fieri  reductionem nd privativa prima, inter quae praecipue est unwn. Et iterum mul-  titudo, quae ex uno cansatur, causa est diversitatis differentiae et contrarietatis,  ut infra dicetur». L'uno è il sostrato in cui il molteplice è allo stato potenziale,  di privazione (positiva), non di mera negazione (astratta),   (2) ‘’ExAZoyd t6v èvavilov sembra il titolo di un'opera di A. perduta (intorno  a essa, v. Fragmenta, ed. Rose, 118-124),   (3) L'essere è un xovvév, astratto; iu realtà si presenta eù@vs, immediatamente,  diviso neì generi del reale, oggetti delle particolari scienze. Qui si tornerebbe  alla prima definizione della Metafisica, anzi al primo significato di essa: ci sono  i generi della sostanza materiale e immateriale, mobile e immobile, sensibile e  intelligibile, ecc. (cfr. XII. 1). Ma generi può esser inteso anche come equivalente  n specie, di dianzi, cloè a concetti sostanziali, 1 quali possono esser organizzati  logicamente, così come le parti della matematica, nell'esempio che segue, col  criterio della semplicità o complessità maggiore (noi diremmo: astrattezza è  concretezza graduale): aritmetica (11 numero), geometria (la figura), astronomin  (il movimento celeste), armonica (rapporti matematici di suoni), ecc. In questa  seconda veduta viene implicato il concetto di una gradualità logica dell'essere,  che nella prima (molto più frequente in A.) può mancare. Per A. tra i generi  non c'è passaggio.    10    li    LIBRO QUARTO 103    oltre a ciò che è nella negazione, viene aggiunta all’uno la  differenza ('): poichè la negazione di esso indica soltanto l’as-  senza, mentre nella privazione viene in chiaro anche una deter-  minata natura come sostrato di cui si predica la privazione.   All’unità si oppone la molteplicità, così che anche gli op-  posti dei concetti citati dianzi, il diverso e il dissimile e il  disuguale, e quanti altri si dicono o secondo quelli, o in gene-  rale secondo il molteplice e l’uno, vanno imparati a conoscere  dalla scienza in discorso. Tra essi è anche la contrarietà,  poichè la contrarietà è una differenza, e la differenza è di-  versità (?). Di modo che, dicendosi l’uno in molti modi,  anche quelli si diranno in molti modi; tuttavia appartiene  a una sola scienza di conoscerli tutti. Questa molteplicità di  modi non richicde scienze diverse, le quali ci vogliono quando  questa molteplicità non sì lascia ridurre logicamente nè sotto  un unico rispetto nè sotto un’unica relazione. Ma, poichè  tutto sì può ridurre a un principio supremo, ad es., tutto  ciò di cui si predica l’unità a un’unità suprema, lo stesso si  deve ripetere anche dell’identico e del diverso e dei contrari.  Cosicchè, dopo di aver distinto in quanti modi ciascuno di  essi si dice, bisogna render ragione, per ciascuna categoria (*),  in qual rapporto esso stia con il modo principale e come  a esso venga attribuito: di alcuni, ad es., si troverà che esso    (1) Alessandro, Schwegler, Bonitz intendono che si parli non dello privazione,  mn della negazione, e non riescono a dar un senso alla frase. Vedo che anche  il Ross propone di riferliria alla privazione; l'esitazione, che ancora lo trattiene,  ò per l’inciso «nll’uno », ch'egli vorrebbe soppresso: i mo pare che il passo citato  dianzi di S. Tom, lo chiarisca a sufficienza, In ogni modo, è nota In dottrina  aristotelica cho non-bianco è negazione soltanto (astratta), nero è privazione  (concreta, positiva): nell'una non sì deterinina altro, e potrebbe predicarsi, ad es.,  anche di un suono; nell'altra viene aggiunta «la differenza» di colore, in rife-  rimento nl sostrato ra cui nppartiene (diremmo, l'inchiostro). Così, non-veggente  e cieco, non-dotto e ignorante, ecc.   (2) La diversità è, propriamente, una cifferenza di genere; la differenza  (propr. detta) è una diversità nello stesso genere (le specie), la quale, quando è  massima, è contrarietà: X. 8, 8; ivi, 4, 1-2.   (8) Categoria, qui, vale (come avverte il Bonit2, p. 180) predicato, nozione, ecc.:  ossia, per la nozione d'identità, diversità, ecc., si deve far lo stesso lavoro d'analisi  che per l’essero in generale: distinguere i diversi significati e determinare la  relazione tra i significati secondari o derivati e quello fondamentale originario.    104 METAFISICA    li comprende, di altri che li produce, di altri esso sarà pre-  dicato in altri modi siffatti.   È dunque palese quel che già si accennò nella esposizione  dei problemi: che spetta a un’unica scienza ragionare di tutte  queste determinazioni e della sostanza. Questa era una delle  questioni colà agitate. Ed è dovere del filosofo di esser in   1004 » grado di speculare intorno 4 tutte queste cose. Che se tale  non è il compito del filosofo, chi sarà allora che indagherà  se Socrate e Socrate seduto sono lo stesso (*); ovvero, se  ogni contrario ha un solo contrario, e che cosa è il con-  trario, e in quanti modi si dice? E così di altre tali questioni.  Orbene, essendo queste per se stesse affezioni dell’uno in  quanto uno e dell’ente in quanto ente, e non in quanto nu-  meri o linee o fuoco, è chiaro che quella scienza dovrà cono-  scere e che cosa sono e le loro proprietà. E coloro che intorno  a esse indagano, non sbagliano già perchè non sia da filosofi  l’indagarne, ma perchè par che non s’accorgano neppure  della sostanza; e sì che questa è prima di tutto il resto! Che  se il numero in quanto numero ha le sue proprie affezioni,  come parità e disparità, commensurabilità e uguaglianza, ec-  cesso e difetto (qualità che appartengono ai numeri o per se  stessi considerati o in relazione gli uni con gli altri); e se  altre ne ha di proprie parimenti il solido, quel che è immo-  bile e quel che è mobile, quel che ha peso e quello che ne  manca; bene ne avrà di sue proprie anche l’ente in quanto  ente, e queste costituiranno appunto ciò di cui sarà compito  del filosofo l’indagare il vero.   Ne è un indizio questo: dialettici e sofisti, volendo fare  la stessa figura del filosofo, sebbene la loro sapienza sia solo  apparente, ragionano di tutte le cose e dell’essere che è  comune a tutte, evidentemente perchè questo è l’oggetto  proprio della filosofia. Infatti, la dialettica e la sofistica s’ag-  girano intorno alla stessa sfera di oggetti della filosofia, ma    (1) La sostanza per sè o congiunta con alcun accidente (ricorda discussioni  sofistiche, soprattutto dei Megarici, in proposito). — Ovvero, se riascun contrario, ece.:  per queste questioni v. lib. X. 4    13    14    15    16    17    LIBRO QUARTO 105    questa differisce dall’una per il modo d’impiegare la facoltà  conoscitiva, dall’altra per il tenore di vita (‘) da quella pre-  scelto. La dialettica si esercita saggiando intorno a quelle  cose di cui la filosofia si sforza di aver conoscenza; la s0-  fistica si contenta di un sapere apparente, non reale.   Si noti anche che una delle due serie di contrari indica  la privazione, e che entrambe si riducono all’essere e al non  essere, all’uno e al molteplice: ad es., la quiete all’uno, il  movimento al molteplice. Ora quasi tutti i filosofi son d’ac-  cordo che gli esseri e la loro sostanza risultano da contrari;  per lo meno, affermano che i principii loro sono contrari:  essi sono per alcuni il dispari e il pari, per altri il caldo e  il freddo, per altri il limite e l’illimitato, per altri l'amicizia  e la discordia (*). Queste e tutte le altre contrarietà si ridu-  cono, manifestamente, a quella dell'uno e del molteplice (ci  si conceda dimostrata questa riduzione), sì che sotto essi,  come sotto due generi, cadono tutti i principii: quelli dei  filosofi su detti vi si riducono completamente.   Non c’è dubbio, dunque, anche per queste ragioni, che  còmpito di una sola scienza è lo studio dell’essere in quanto  essere. Chè tutti gli esseri o son contrari o vengono da con-  trari, e principii dei contrari sono l’uno e il molteplice, e  questi appartengono a un’unica scienza, sia poi che si deb-  bano prendere  in un senso solo, o in più sensi, come forse (*)  la realtà e la verità esige. Ciò non ostante, pur dicendosi  l’uno in molti sensi, questi verranno riferiti tutti a quello  che è prima di tutti; e per i contrari sì dica similmente.   E però, seppure l’essere o l’uno non è qualcosa d’uni-  versale e d’identico in tutte le cose, nè da esse separato    (1) Non ispirata dall'amore della verità, ma dall'ambizione o dal guada-  gno, Per la differenza tra rpodittica, dialettica ed eristica, cfr. Anal. Pr., IL 1.  24 a, 22, 6 Top., I. 1. 1004, 27: l’apodittica pone una sola delle due parti della  contraddizione, invece la dialettica pone l'una e l'altra parte; ma l’una parte da  ciò ch'è primo e vero, l'altra si aggira tra opinioni soltanto, più o meno ben  fondate; l’eristica non cura la fondatezza di queste opinioni.   (3) Pitagorici, Parmenide (?), Platonici, Empedocle.   (3) forse, e poco dopo certo («come certo non è in realtà »): lowg (in entrambi  i casì), na:    106 MBTAFISICA    — come certo non è in realtà, — tuttavia esse tutte si riguar-  dano o in rapporto a ciò che hanno d’identico o per i signi-  gnificati derivati dall’essere. Non può dunque esser còmpito,  ad es., del geometra lo speculare che cosa è il contrario o  il perfetto o l’essere o l’uno o l’identico o il diverso, tranne  che in quanto se ne serve come d’ipotesi (').   Resta così chiarito che a un’unica scienza spetta la con-  siderazione dell’ente in quanto ente, e di ciò che a esso ap-  partiene in quanto ente, e che essa è la stessa che deve studiare  non soltanto le sostanze, ma anche tutto ciò che appartiene  a loro; e, oltre i concetti accennati dianzi, anche, che è quel  che precede e quel che segue, e il genere e la specie, e il  tutto e la parte, e tutto ciò che altre tali questioni riguarda.    CapirtoLo III.   Si deve ora accennare se la scienza di quelli che i mate-  matici chiamano « assiomi » sia tutt’una con quella che tratta  della sostanza, oppure diversa. Evidentemente, anche l’in-  dagine intorno ad essi appartiene a una scienza che è la stessa  di quella del filosofo, poichè essi valgono per tutti gli esseri,  e non sono una proprietà di qualche loro genere, ad esclu-  sione degli altri. Tutti gli scienziati se ne servono, infatti,  perchè appartengono all’essere in quanto essere, e ciascun  genere di cose è essere; e se ne servono fin dove fà al loro  proposito, cioè fin dove si ends il genere di cose, intorno    . —    alate .    studio di essi sarà di pertinenza di chi fa o -del suo    -_    18    19    sapere l'essere in quanto essere. Perciò, appunto, nessuno di 2°       Se    (1) Ipotesi: non in senso moderno (8° intende !), ima come assunzione di concetti  non dimostrati, che il geometra (e ogni scienziato, in fine) adopera senza discu-  tere: «Il geometra fa uso (yefjta) di essi, non mostra (oò Bdeltac) che cosa sia  ciascuno di essi» (Alesa, 264, 9). Il termine ritorna in VI. 1. 1025 b, 11 ($ 2).    LIBRO QUARTO 107    coloro che-attendono-allo studio delle cose nella loro parti-  colarità, s’azzarda di dir nulla di essi, se_gono. Veri o. Do.  Non ne dice “nulla il geometra nè l’aritmetico, e se alcuni  fisici (') si permisero di parlarne, essi fecero ciò con qualche  ragione, perchè credevano di esser i soli che facessero oggetto  d’investigazione la natura nella sua totalità e l’essere. Ma  c’è uno che sta ancora più su del fisico (chè la natura è uno  soltanto dei generi dell’essere), sì che anche lo studio di tali  assiomi spetta a chi medita in universale e intorno alla’ s0-  stanza prima. Certo, anche la Fisica è una sorta di sapienza,  ma non è la prima(?). E tutto ciò che alcuni(?) si sono  affaticati a dire della verità degli assiomi e in qual senso  bisogna ammetterli, prova appunto che non hanno studiato  gli Analitici. Chi si applica allo studio delle scienze deve  conoscerli già questi assiomi, e non chiederne la dimostra-  zione nel corso dello studio (‘).   Non e’ è dubbio, dunque, che anche la considerazione dei  principii sillogistici spetta al filosofo e a chi specula intorno  alla natura delle sostanze tutte. In ogni genere di cose, con-  vien dire che possiede principii più saldi del suo oggetto  colui che ne ha maggior conoscenza: vien di conseguenza  che colui che ha la conoscenza degli enti in quanto enti,  deve possedere i principii più saldi di tutti. Questi è il filo-  sofo.° E il principio più saldo di tutti è quello intorno al  quale è impossibile trovarsi in errore, poichè è necessario che  tale principio sia il più: noto di tutti (tutti errano, infatti,  intorno a quelle cose che non conoscono); e non deve aver       (1) «Forse pensatori che svolsero elementi scettici di Eraclito, Empedocle,  Anassagora, Democrito » (Ro88).   (2) Così anche in VI. 1. 1026 a, 24 e 30 ($ 7): la Metafisica è qriccogpia xq@rn,  la Fisica deutéga.   (3) Sono i fisici ric. dianzi ? O, come sembra più probabile, Antistene? Cfr. qui  Cap. 4, 2; 5-2, ecc.; il nome è fatto in V. 29. 1024 b, 32 (S$ 2), e in VIII. 3. 1049b, 24  ($ 6). Ma mi par che non debba neppur escludersi un’interpolazione del passo.   (4) La dimostrazione differisce dal sillogismo in quanto muove da principii  immediatamente certi e veri (dul punto di vista della scienza particolare): « Vero  © primo è quel che non per altro, ma per se stesso ha certezza: invero, dei prin-  cipii scientifici non bisogna richieder la ragione, ma ognuno di essi deve esser  certo per Be stesso »: Top., I. 1. 1000, 30,    1005 b    108 METAFISICA    nulla d’ipotetico (‘): chè non può essere ipotetico quel prin-  cipio senza del quale è impossibile che uno possa compren-  dere una qual si voglia delle cose che sono. La conoscenza  di esso è indispensabile a chiunque vuol conoscere una cosa  qualsiasi, ed è necessario che ne sia provvisto già chi viene  per imparare. Che dunque un principio tale'sia il più saldo  di tutti, non è chi non vegga. Quale poi esso sia, passiamo  a dirlo. i   È impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non  convenga a una stessa cosa e per il medesimo rispetto (e  quante altre determinazioni potremmo aggiungere, si tengano  fatte a scanso delle difficoltà discorsive) (?). Questo è di tutti  i principii il più saldo: esso, infatti, ha i caratteri che dianzi  determinammo, poichè è impossibile che uno stesso pensi la  stessa cosa essere e non essere, secondo che alcuni credono  dicesse Eraclito (*). Vero è che non è necessario che tutto  quello che uno dice, lo pensi anche (‘). Ma non potendo i    (1) Qui la parola ha un valore diverso dal precedente (per quanto resti in  comune il concetto di assunzione dogmatica, caratterizzata qui dalla particola-  rità dell'oggetto, piuttosto che dall'uso pratico), e agli effetti del pensiero può  esser inteso nel senso moderno che l’'oppone al «categorico » (a ciò che non pre-  suppone nulla, perchè è incondizionatamente vero).   (2) A scanso delle difficoltà discorsive, così come le consuete riserve più giù,  accennano ad argomentazioni che tendessero a metter in dubbio o ad impugnare  il principio così com'è formulato: per es., per il concetto del divenire, che av-  viene tra contrari, ecc. Più in là A. chiarisce, ad es., che i contrari sono insieme  in potenza, non in atto. i   (3) A. attribuisce, dunque, l'opinione agli interpreti di E. più che ad I. stesso:  cfr. XI. 5, 7.   (4) Qui il discorso è considerato verbalisticamente, non come pensiero.   Del celebre « principio di non contraddizione », chi ben consideri, s'avvedrà  che son date qui tre formule corrispondenti ai tre punti di vista dianzi accennati:  1) «non è possibile a uno di avere, o pensare, a un tempo, opinioni contrarie »:  ch'è questione soggettiva; 2) «una stessa cosa non si può insieme affermare o  negare »: ch'è questione logico-dialettica, della realtà veduta nell’atto del giu-  dizio, che o pone il rapporto di convenienza del predicato al soggetto, o esclude  quel rapporto; 3) «i contrari non possono trovarsi insieme nella stessa cosa » (in  atto): ch'è questione dell'essere, i. e. dei principii reali, delle cose.   La giustificazione della prima formula è data dalla terza (non potendo è  contrari trovarsi insieme) e dalla seconda (e dacché un'opinione è contraria al-  l'opinione contradittoria); quella della seconda, dalla terza (un'opinione è con-  traria all'opinione contradittoria) e dalla prima (poiché è impossibile che uno    LIBRO QUARTO 109    contrari trovarsi insieme nella stessa cosa (aggiungiamo anche  a questa proposizione le consuete riserve), e dacchè una opi-  nione è contraria all'opinione contradittoria, è chiaro non  esser possibile che lo stesso uomo pensi che la stessa cosa  sia e insieme non sia: chi fosse in questo errore, avrebbe  a un tempo le opinioni contrarie. E però tutti i dimostranti  a questa riducono l’ultima opinione: essa, per la natura stessa  delle cose, è il principio anche di tutti gli altri assiomi.    CapitoLo IV (').    Pure, ci sono alcuni, come s’è accennato, i quali affermano  potersi dare che la stessa cosa sia e non sia, e poterla ap-  punto pensare così. Fanno uso di questo modo di ragionare  molti anche dei fisici (°). Ma noi abbiamo stabilito che è im-    stesso pensi la stessa cosa essere e non essere); quella della terza, al cap. 6 (8 12),  dalla seconda,la quale riacquista rispetto a essa l'indipendenza posta qui preli-  minarmente al s 6. Questa ha in A. il significato semplicemente di una condizione  necessaria per il conoscere e il sapere, ossia per il pensiero che pensa la realtà  itelle cose, perchà per l'intelligibilità, reale e logica, di queste è un presupposto  indispensabile la distinzione fra un concetto e l’altro, e in primo luogo fra con-  cetti opposti, e, prima ancora, tra l'affermare e il negare. Il principio del mezzo,  o terzo, escluso integra, qui, il principio di non contraddizione, e lo sottrae,  anche per questa via, alla dipendenza immediata da quello di contrarietà, dove,  invece, quel mezzo esiste.   Quando, in seguito, fu aggiunto il principio d’identità, non soltanto si gua-  daguò in compiutezza formale, ma si vide meglio e il rapporto fra i tre principii  e il carattere puramente logico che ha questa parte della Metafisica aristotelica.  Naturalmente, nel formulismo scolastico si perdette, poi, gran parte dell'interesse  cho aveva la questione in A. per le conseguenze, a cui la negazione del principio  di non contraddizione portava rispetto al conoscere e al sapere, anzi rispetto alla  concezione e realtà dell'universo intero. -   (1) Comincia di qui la difesa del principio di non contraddizione contro coloro  che lo negano. Questi, sebbene la trattazione li mescoli di frequente, son tuttavia  abbastanza distinti in tre gruppi corrispondenti alla triplice formulazione del  principio: a) di coloro che l'impugnano per mera esercitazione eristica; bd) di co-  loro che, come i Protagorei più seri, si fondano su la natura propria della dora;  e) di coloro che, eraclitizzando, pongono l’unione degli opposti nella realtà stessa  delle cose.   (2) Son nominati, nel capitolo seguente, Eraclito e i suoi seguaci, Empedocle,  Anassagora, Democrito.    1006 a    110 METAFISICA    possibile essere e non essere insieme, e però dichiarammo  che quello è il più saldo di tutti i principii. Ed è effetto  d’ignoranza (‘) se alcuni reputano che anche quel principio  si debba dimostrare: chè no n altro che ignoranza è non sa-  pere di quali cose bisogna chiedere la dimostrazione, e di  quali no. Che di tutto, assolutamente, ci sia dimostrazione,  è impossibile: si andrebbe all’infinito, sì che per tal modo  non ci sarebbe dimostrazione di nulla. Che se di alcune cose  non si deve esigere la dimostrazione, non riuscirà loro di  dire quale altro principio meglio di quello, a loro avviso, è tale.   Certo, anche di esso si può dimostrare, in via di con-  futazione (*), che è impossibile negarlo, solo che, chi lo mette  in dubbio, dica qualcosa. Che se non dicesse nulla, sarebbe  ridicolo andare in cerca di ragioni contro chi, in quanto non  ragiona (*), non ha ragioni di nulla. Un tale, in quanto tale,  sarebbe già simile a un tronco. Il dimostrare poi in via di  confutazione, io dico che differisce dal dimostrare vero e  proprio, perchè chi si accingesse a dimostrare lui quel prin-  cipio mostrerebbe di presupporre ciò che deve dimostrare;  ma, qualora la colpa (‘) fosse di un altro, si tratterebbe di  una confutazione, e non di una dimostrazione.   In tutti i casi simili, la norma è di non pretendere che  l'avversario dica che una cosa è o non è (perchè egli obicet-  terebbe subito che si presuppone ciò che è da dimostrare);  ma che dia un significato a quel che dice, per sè e per gli  altri: e questo è pur necessario, se egli vuol dir qualcosa.  Altrimenti, costui non direbbe nulla, nè per suo proprio conto,  nè per gli altri. Che se, invece, lo concede, la dimostrazione  allora è possibile. Già, infatti, s'è per tal modo determinato  qualcosa. La colpa non è del dimostrante, sì di chi è co-  stretto ad accettare la dimostrazione, perchè, mentre vuol    (1) Cfr. dianzi (3, 3) per quelli che non hanno studiato gli Analitici.   (2) La confutazione (é EXeyyxog) è una dimostrazione negativa o indiretta, che  si limita a portare all’assurdo la sentenza dell'avversario, o a purificarla dai frain-  tendimenti e sofismi ch'egli vi ha intrusi.   (9) Ho tentato di giustificare così le parole che il Christ vorrebbe espunte.   (4) La colpa del circolo vizioso, che alcuno gli volesse addebitare.    9    10    Il    12    LIBRO QUARTO 111    distruggere il ragionamento, è costretto a ragionare. Oltre  di che, chi ha fatta quella concessione, ha già concesso che  ci sia qualcosa che è vera senza dimostrazione, e che perciò  non ogni cosa è possibile che sia così e non così (').  Anzitutto è chiaro che questo alieno è vero: che le pa-  role « essere e non-essere » hanno un significato ben deter-  minato, per cui non ogni cosa è possibile che sia e non sia  così. Parimenti, se la parola « uomo » ha un significato solo:  sia esso quello di « animale bipede ». Dicendo che ha un solo  significato, intendo che, se uomo vuol dir questo, ove ci  sia un essere che è uomo, esso sarà ciò che per uomo 8’è  definito. E non importa nulla se si obietta che di significati    ne ha parecchi, pur che vengano definiti; chè si può a ciascun 1006 b    concetto assegnare un nome diverso. Facciamo il caso che  si obiettasse che uomo non ha un solo, ma parecchi signifi-  cati, e che la definizione animale-bipede vale per uno soltanto  di essi, laddove ce ne sono parecchi altri, ma in numero  determinato : ebbene, si dia un nome appropriato a ciascuno  di essi. Che se, per non far questo, si adducesse che i signi-  ficati di quel nome sono infiniti, è manifesto che esso non  avrebbe più nessun senso, perchè, se non significa una cosa  determinata, è come se non significhi nulla; e quando le  parole non hanno senso, è tolta la possibilità di discorrere  con altri, anzi, propriamente, anche seco stesso: giacchè non  può neanche pensare chi non pensa una cosa determinata:  e se egli è in grado di pensare, dovrà anche dare un nome  unico alla cosa cui pensa.   Stabiliamo, quindi, che, come s'è detto da principio, ogni  parola significa qualcosa, anzi qualcosa di unico. Ora, es-  ser-uomo non potrà significare lo stesso che non-esser-uomo,  se la parola uomo ha un significato non soltanto come pre-  dicato di un unico oggetto, ma in quanto significa essa stessa  un oggetto unico. Per noi, infatti, una parola ha un unico  significato, non in quanto si predica di un unico oggetto:       (1) C'è sospetto d’interpolazione nel testo: le ultime parole del periodetto,  ad es., son ripetute poche linee dopo.    1007 a    112 METAFISICA    chè, a tal patto, musico e bianco e uomo significherebbero  la stessa cosa, e in conchiusione, designando con nomi di-  versi la stessa cosa, sarebbero tutti una cosa sola. Una stessa  cosa potrebbe essere e non essere soltanto nel caso di un  equivoco, qualora, ad es., quel che noi chiamiamo uomo,  altri lo chiamassero non-uomo. Quel che è in questione non  è già se lo stesso possa insieme essere e non essere uomo  di nome, ma di fatto. Se poi uomo significa lo stesso che  non-uomo ('), è chiaro che anche esser-uomo sarà lo stesso  che non-esser-uomo, per cui tra essere e non esser uomo,  essendo l’identica cosa, non ci sarebbe nessuna differenza.  Questo appunto vuol dire esser l’identica cosa; come chi  dicesse abito e vestito : chè il concetto è unico. Se fosse unico,  esser-uomo e non-esser-uomo significherebbero lo stesso. Ma  8’era mostrato che il loro significato è diverso. Se, dunque,  si deve poter dire qualcosa di vero, bisogna necessariamente  che, chi dice di uno che è uomo, intenda dire che è un ani-  male bipede: questo era, infatti, ciò che la parola uomo si-  gnificava. E se questo è necessario, non è possibile che quello  stesso non sia un animale bipede: chè questo appunto vuol  dire che una cosa è di necessi tà: esser impossibile che non  sia. Non si può dare, quindi, il caso che sia vero insieme  dire che uno stesso è uomo e non è uomo.   Il discorso vale anche per il non-esser-uomo. L’esser-uomo  esprime un’altra cosa dal non-esser-uomo, come del resto an-  che l’esser-bianco è diverso dall’esser-uomo: anzi, la oppo-  sizione tra i primi termini è anche maggiore, esprimendo  essi una cosa del tutto diversa. E se qualcuno ci volesse  sostenere che bianco e uomo significano una stessa e mede-    (1) Chiarisce il par. precedente, dove aminette che una cosa può essere e non  essere la stessa soltanto per un equivoco (il testo ha omonimia, usato qui, come  la sinonimia della 1. precedente, in senso alquanto diverso da quello stabilito in  nota a lib. I. 6, 5: qui si bada se uno intende con la stessa parola indicare con-  cetti opposti, oppure lo stesso concetto con parole diverse). Se l'avversario vuol  dare alla parola «uomo » lo stesso senso di « non-uomo », deve anche identificare  il fatto e il concetto di «esser uomo » con quello opposto di « non-esser-uomo »:  e venir meno, quindi, al patto (cfr. 11) di non dare a una stessa parola significati  diversi in confronto alle cose,    13    14    15    16    17    18    19    20    LIBRO QUARTO 113    sima ‘cosa, noi ripeteremo quel che abbiam detto prima: che  allora tutte le cose, e non soltanto gli opposti, fanno una  cosa sola ('). E se questo non può essere, pur che l’avver-  sario risponda alle nostre domande, dovrà convenire in quel  che s’è detto.   Ma, se egli a una semplice interrogazione rispondesse ag-  giungendo anche delle negazioni, non risponderebbe propria-  mente a quel che si chiede (*). Niente impedisce che uno stesso  sia, oltre che uomo, bianco e innumerevoli altre cose; ma, in-  terrogato se si può con verità dire che quello è un uomo o no,  egli deve rispondere soltanto ciò che la parola significa, e  non aggiungere che è anche bianco e grande; poichè, essendo  infiniti gli accidenti, è impossibile percorrerli tutti, si che o  li citi tutti o non ne citi nessuno. Se anche lo stesso è uomo  e diecimil’altre cose diverse da uomo, egli non deve rispon-  dere, a chi gli domanda se uno è uomo, che è uomo, sì, ma  insieme anche non-uomo: a meno che non intenda di aggiun-  gerli tutti gli accidenti: quante altre cose, cioè, l’uomo è o  non è. Che se si mettesse per questa via, non c’è più modo  di discutere,   In somma, quei che si mettono per questa via, vengono  a sopprimere la sostanza e la pura essenza di ogni cosa,  perchè son costretti ad affermare tutto esser accidentale, e  che non esiste un concetto tale, quale quello di uomo o di  animale. Se ci fosse, infatti, un concetto tale, quale quello  di uomo, esso non potrebbe essere quello di non-uomo, 0  quello di non esser uomo: e questi sono pure negazione di    PI    (1) Se non si concede che nomo= bianco, tanto meno si può concedere che  momo = non-uomo. Se si concede, non soltanto gli opposti, ma tutto è la stessa  cosa, e non c'è modo di parlar più di nulla,   (2) «Sarebbe assurdo che. interrogato sè Socrate è uomo, rispondesse che è  anche .non-cavallo e non-cane »: Alessandro (284, 32). Ovvero, riferisse la negazione  agli accidenti: « est enìm v. g. albus, musicus, etc.; quae omnia in ambitu no-  tionis non-homo continentur»: Bonitz, p, 199. Ma anche le prime negazioni si  possono riguardare come accidentali, se sì bada, non alla sostanza propriamente,  ma alla definizione di uomo. — L’avversario deve rispondere con un sì, o con un  no (ovvero ripetendo semplicemente il nome, o premettendogli la negazione:  uomo, non-uomo).    ARISTOTELE, Metafisica. 8    1007 b    114 METAFISICA    quello ('). Non s’era d’intesa che esso aveva un solo signi-  ficato, e che questo era la sostanza della cosa? Ma esprimere  la sostanza di una cosa vuol dire che questa, e non altra, è la  sua essenza. E se c’è qualcosa che ha l’essenza di uomo,  essa non potrà coincidere con quella che non ha tale essenza,  o con quella che ha l’essenza di non-uomo.   Costoro son costretti a dire che tale concetto non è con-  cetto di nulla, ma che tutto è accidentale (*). Poichè in  questo si distingue la sostanza dall’accidente: l’esser bianco  è accidentale per l’uomo, perchè egli è, sì, bianco, ma non  è bianco per l’essenza. Ma se tutto si affermasse in via acci-  dentale, non ci sarebbe più niente di primo a far da soggetto:  eppure l’accidente esprime sempre la categoria di un qualche  sostrato. Si andrebbe, necessariamente, all'infinito: il che è  impossibile. Anche perchè ogni connessione è soltanto tra  due termini (*). L’accidente, infatti, non può essere accidente  di un accidente, salvo in quanto entrambi sono accidenti di  uno stesso soggetto. Voglio dire, per es.: il bianco è musico,  e il musico è bianco, in quanto entrambi sono accidenti di  uomo. Ma Socrate non è musico a questa maniera, come  entrambi i termini fossero accidenti di un terzo. Questi acci-  denti, dunque, sono predicati in due maniere diverse. Quelli  che si predicano così, come il bianco di Socrate, non possono  formare una serie che proceda all’infinito: ad es., di Socrate,  che è bianco, predicare un qualche altro accidente, e così  via via: chè, dall'unione di questi accidenti, non verrebbe  fuori un’unità ('). E neppure del bianco si può dire che ci    (1) Il che non avverrebbe se, come l’avversario sostiene, la negazione fosse  vera quanto l’affermazione. — Sul valore della negazione, talvolta riguardata nella  c. d. copula, tal’altra nel predicato del giudizio, e sul rapporto tra la forma  affermativa e quella negativa in A., v. G. Catocero. în Giorn. critico della fil.  ital., VII (1926), fasc. 5.   (2) Se non è concetto (esseuza) di nulla, ma si può attribuire, insieme al  contrario, a qualcosa (x è uomo € non-uomo, nello stesso modo che l’uomo può  esser bianco e non bianco), sarà, dunque, non sostanza, ma accidente.   (3) Il soggetto e il predicato.   (4) Dall’unione degli accidenti non vien fuori l'unità del reale, se questa non  è raggiunta già con la posizione del primo accidente, col quale la sostanza forma    21    24    20    LIBRO QUARTO 115    sia un‘altro accidente da predicare, per es., musico, perchè  questo non è un accidente di quello più che quello di questo.   Resti con ciò determinato che di accidentalità si può par-  lare in due maniere: o come in quest’ultimo esempio, o come  musico si predica di Socrate, nel qual caso l’accidente non  è predicato accidentalmente di un altro accidente, come era  l’altro caso. In conchiusione, non tutto potrà essere affermato  come accidente, e deve quindi esserci anche qualcosa che si  riguardi come sostanza. Se così è, riman chiarito che è im-  possibile predicarne insieme concetti contradittorii.   Inoltre, se i contradittorii si potessero predicare sempre  insieme, con verità, dello stesso, — chi non vede che tutte  le cose diventerebbero una sola? Sarebbe, infatti, lo stesso  e una trireme e un muro e un uomo, una volta che una cosa  si può tanto affermare che negare di ogni cosa. Che è una  conseguenza inevitabile per coloro che ripetono il ragiona-  mento di Protagora: poichè, se ad alcuno pare che l’uomo  non sia una trireme, è chiaro che non è una trireme; ma,  se la contradittoria è vera, ne consegue che egli è anche una  trireme. Si va alla sentenza di Anassagora: tutte le cose sono  tutto insieme. Per cui, niente si può predicare con verità di  nulla. Si ha l'impressione che essi parlino dell’indeterminato;  e pur credendo di parlare dell’essere, parlano, invece, del  non essere: chè l’indeterminato è l’essere in potenza ('), non  quello in atto. E in vero, costoro si trovano nella necessità di  dire che di ogni cosa si può affermare o negare ogni altra. Sa-  rebbe infatti assurdo che, mentre a ogni cosa deve convenire  la sua negazione, non le dovesse poi convenire quella di  un’altra che già non conviene a essa. Voglio dire che, se è  vero dir dell’uomo che è anche non-uomo, è chiaro che deve    «un che determinato ». In altri termini: non dall’enumerazione degli accidenti,  a volta a volta incorporati al soggetto, si ha da attendere l'unità di esso. —  L'altro modo di predicazione è quello in cui la serie non gira attorno al sog-  getto, ma fa une catena da accidente ad accidente.   (1) L'indeterminato è l’essere in potenza, nel quale i contrari sono insieme;    non quello in atto, nel quale la potenza (ch’è un non-essere-ancora) vien de-  terminata.    1008 a    116 MBTAFISICA    esser vero anche dire tanto che è trireme, quanto che è non-  trireme. Intanto, se l’affermativa (che è trireme) fosse con-  cessa, di necessità sarebbe concessa anche la negativa. Ma  poniamo che l’affermativa non sia concessa; tuttavia Ja nega-  tiva di questa gli dovrebbe convenire meglio di quella sua.  Ora, dacchè quest’ultima gli conviene, gli converrà anche  quella di trireme; e convenendogli questa, gli conviene anche  l’affermativa di essa (').   A queste conseguenze arrivano coloro che sostengono tale  dottrina. E a quest’altra, anche: che nulla è necessario o  affermare o negare. Infatti, se è vero che l’uomo è uomo e  non-uomo, è chiaro che sarà vero anche che egli non è nè  uomo nè non-uomo: poichè alla doppia affermativa corrisponde  la doppia negativa, e se là delle due affermazioni se ne fa  una sola, una sola sarà anche questa opposta.   Proseguiamo: o, quel ch’essi dicono, vale per tutte le cose,  o no: nel primo caso, ogni cosa bianca è anche non bianca,  quel che è anche non è, e similmente per le altre affermazioni  e negazioni; nel secondo caso, se esso non vale per tutte,  ma per alcune sì e per altre no, per queste ultime anch'essi  son d’accordo che il loro principio non vale. Se, invece,  vale per tutte, da capo: o di tutte quelle di cui si afferma  qualcosa, questo si può anche negare, e viceversa; ovvero,  di quelle di cui si afferma qualcosa, questo si può unche  negare, ma non di tutte quelle di cui si nega qualcosa, que-  sto si può anche affermare. In quest’ultimo caso, si avrebbe  un punto fermo, un non-essere, e questa sarebbe già una    (1) Accogliendo (1007 b, 33) la lezione del cod. fiorentino Ab (come il Ross  propone), e riordinando un po'il testo, il ragionamento risulta così: A. sostiene  che se, poniamo, di Socrate si può predicare insieme uomo e non-uomo, allora  di lui si può affermare o negare ogni altra cosa indifferentemente: per es., ch'è  trireme e non-trireme, Se, dunque, l'avversario concedesse ch'è trireme, dovrebbe  concedere (secondo il suo principio onde si può affermare anche la contradittoria)  ch’è anche non-trireme. Ma poniamo, dice A., che «l'affermativa non sia con-  cessa». Egli dovrà, almeno, concedere la negativa, perchè «sarebbe assurdo che,  mentre a uomo conviene la negazione di uomo, non gli convenisse quella di  trireme: anzi, gli deve convenire anche meglio, perchò è la negazione di qual-  cosa che già si pone non convenire a esso ». Ma, concessa questa, deve poi con-  cedere anche l’affermativa: che è trireme.    27    28    29    30    31    32    33    LIBRO QUARTO 117    salda opinione; ma, se il non-essere è qualcosa di saldo e  conosciuto, tanto più sarà tale l’affermazione (‘) opposta. Ma  poniamo, invece, che di tutte quelle di cui si nega qualcosa,  questo si possa anche affermare: allora, di necessità, o è nel  vero chi tiene separate le due parti, e dice, ad es., che una  cosa è bianca, e poi che non è bianca; ovveroè nel falso.  Se per essere nel vero le deve tener unite, costui disdice ciò  che dice, ed è come non esistesse niente. O come poi par-  lerebbe e camminerebbe ciò che neppure esiste? (?). E tutte  le cose sarebbero una sola, come anche prima s’è detto, e  sarebbe lo stesso e uomo e Dio e trireme e i loro contra-  dittorii. Chè, se di ciascuna cosa si può ripeter questo, l’una  non differirà dall’altra: se differisse, essa avrebbe già qual-  cosa di proprio, e questa sarebbe la sua verità. Alla stessa  conchiusione si perviene dicendo che è nel vero chi tiene  separate le parti contradittorie (9). Ne deriva, anzi, anche  questo: che tutti dicono vero e tutti dicono falso, e però con-  cede che dice falso anche lui.   Evidentemente, con costui non si può discuter di nulla,  perchè non dice nulla: non dice mai che è così, o non così,  ma sempre che è così e non così (‘); e poi, negando ambedue  queste cose, che non è nè così nè non così. Se parlasse altri-  menti, ci sarebbe già qualcosa di determinato. Che se, poi,  ci si facesse concedere che, quando l’affermativa è vera, la  negazione è falsa, e che, quando è vera questa, l’altra è falsa,  non sarebbe più vero che si può nello stesso tempo affermare  e negare la stessa cosa. Ma, senza dubbio, tutti direbbero  che questa è una petizione di principio.   In fine, diremo che sono in errore quelli che pensano che  una cosa sta, oppure non sta, in un certo modo, e che invece  è nel vero chi le pensa tutte due quelle opinioni? Che se  costui non dice neppure di esser nel vero, o che cosa vor-    (1) «Per mezzo dell’atfermazione la negazione è più conoscibile; chè l'affer-  mazione è prima, come l’essere è prima del non essere »: Anal. Post., I. 25. 86 b, 34.   (2) Qui, l’uomo di cui si parla (e colui stesso che parla).   (9) Come se fossero due persone diverse a sostenerle.   (4) Similmente in Teeteto, 189 a.    1008 b    118 METAFISICA    rebbe dire la sua asserzione che la natura delle cose è pro-  prio così fatta? ('). E se non pretende di dir giusto, ma di  dire più giusto di chi la pensa in quell’altro modo, ecco che  le cose starebbero già in un certo modo, e questa sarebbe la  verità, e non già vero e falso insieme. E se ribatte che tutti  sono nel falso e nel vero ugualmente, a costui non è più lecito  aprir bocca a parlare: perchè dice nello stesso tempo Sì e no.  E se non ha nessuna opinione, ma crede e non crede del  pari, quale differenza c’è tra lui e le piante?   Da ciò si vede benissimo che nessuno, non solo gli altri,  ma neppure chi fa questi discorsi, è persuaso che così stiano  le cose. O perchè mai va egli a Megara, e non se ne sta tran-  quillo a casa pensando di camminare? (?). E perchè un bel  mattino non va diritto a gettarsi in un pozzo o, se gli cà-  pita, giù da un precipizio, anzi si vede bene che se ne guarda,  proprio come se pensasse che non sia tanto buono quanto  non buono il caderci? È dunque chiaro che crede l’una  cosa migliore e l’altra peggiore. Ma se è così, deve conve-  nire anche che una cosa è uomo e un’altra non-uomo, una  cosa è il dolce e un’altra il non-dolce. Egli non mette tutto alla  pari quando pensa ad avere qualcosa che cerca; ma, avendo  pensato che per lui è meglio ber dell’acqua o vedere qual-  cuno, va in cerca proprio di quello. Eppure doveva mettere  tutto alla pari, se uomo e non-uomo fosse la stessa cosa. In-  vece, come abbiamo detto, non c’è nessuno che non si vegga  guardarsi da alcune cose e da altre no. Non pare, dunque,    (1) Intendo: Chi dice che la verità è nella contraddizione, riconosca almeno  che c'è questo che diciamo la verità. O non vorrà neppur riconoscer questo? Ma,  allora, che cosa intende quando asserisce che la natura delle cose è così fatta,  che in essa (secondo la sentenza di Eraclito) i contrari son sempre uniti? ecc. —  Tralasciando il pi della 1. 9, come consiglia il Ross, il senso verrebbe trasfor-  mato così: Se egli ritiene di esser nel vero, che vuol dire che la natura è così  fatta? In essa non si dovrebbe parlare di «essere», nè di esser essa l’una cosa  piuttosto che l’altra (chè tutto è e non è, ed ogni cosa è ogni altra).   (3) Non è lo stesso per lut camminare e non camminare. Ovvero, se col  Ross si aggiunge il deiv (da Ab e Aless.): non è lo stesso per lui dover, 0 no,  andar a Megara. Quest'argomentazione, presa dal meglio e dal peggio, è già  in Teeteto, 1716.    34    35    36    LIBRO QUARTO 119    che ci possa esser dubbio: tutti credono che le cose stanno  assolutamente in un modo, se non tutte, almeno quelle che  riguardano il meglio e il peggio. E se lo credono(‘), non  per scienza, ma per opinione, tanto più dovrebbero esser  solleciti della verità, così come deve curar la salute più chi  è malato del sano: e infatti, chi opina, al paragone di chi  sa, è in una disposizione non sana in rispetto alla verità.   Finalmente, sia pure che tutte le cose stiano così e anche  non così. Ma in natura c’è il più e il meno in ogni cosa:  noi non diremmo che il tre è pari nella stessa misura del  due, e credere che il quattro valga cinque non è un errore  uguale a quello di chi crede che valga mille. Ora, se l’errore  non è uguale, manifestamente uno dei due erra di meno, e  però è nel vero più dell’altro. Ma se è più nel vero, al vero  è più vicino, e ci sarà quindi una verità a cui è più vicino  chi è più nel vero. E anche se tale verità non c’è, — ma,  insomma, c'è almeno qualcosa che ha maggiore o minore  fondamento e certezza, e questo basta a liberarci (?) da un  discorso che non si lascia ridurre in termini di pensiero e  impedisce di determinar nulla.    CapiTOLO V.    Il ragionamento di Protagora deriva anch’esso da questa  opinione, e però la sorte dell'uno è necessariamente legata  a quella dell’altra. Poichè, se tutto quello che si crede e ap-  pare, è vero, ogni cosa di necessità è vera e falsa insieme.  Di fatto, gli uomini hanno, per lo più, opinioni contrarie le  une alle altre, e tuttavia stimano che sia in errore chi non  la pensa come loro: per cui è necessario che la stessa cosa  sia e non sia. Viceversa, se si concede questo, vien di con-    (1) Se lo credono, il meglio e il peggio.   (2) Come nella precedente invocazione della testimonianza dell'azione, così  nelle ultime parole si può notare un senso della verità come di un bisogno che  il soggetto ha di essa per se stesso.    1009 a    120 METAFISICA    seguenza che tutte le opinioni sono vere. Poichè le opinioni  di chi è in errore e quelle di chi è nel vero, sono tra loro  opposte; ma se tale è l'essere delle cose, tutti saranno nel  vero. È chiaro, dunque, che i due ragionamenti svolgono.  lo stesso pensiero (‘).   Tuttavia, a combatterli, non si ha da prendere la stessa  strada per tutti: con alcuni ci vuole la; persuasione, con altri  la sopraffazione (*). Non è difficile curare l’ignoranza di co-  loro che s’indussero a credere così in sèguito a dubbi e diffi-  coltà, giacchè per essi si ha che fare, non con parole, ma  col pensiero. Invece, a curar quelli che giuocano di parole  non c’è altra via che confutarne il discorso letteralmente, in  quanto è di parole espresse con suoni.   Coloro che in sèguito a dubbi e difficoltà vennero nell’opi-  nione che le asserzioni contradittorie e i contrari possono  stare insieme, mossero dalla osservazione delle cose sensibili,  dove una stessa causa produce effetti contrari. Ora, se quello  che non è non può generarsi, il fatto preesistente era già am-  bedue i contrari insieme. Anche Anassagora dice similmente  che tutto si trova mescolato in tutto, e Democrito, anche  lui, insegna che il vuoto e il pieno si trovano in ogni par-  ticella alla pari, sebbene l’uno di essi sia un ente, e l’altro  un non-ente.   A coloro, dunque, che fondano su queste ragioni la loro  sentenza, noi diremo che in un senso parlano giusto, ma in  un altro ignorano come stanno le cose. In realtà, dicendosi  l'essere in due sensi, in uno di questi qualcosa può generarsi  dal non-ente, ma rell’altro non può (*); ed è possibile che    (1) Partendo, l'uno, dall'oggetto; l'altro, dal soggetto (dall’opinione).   (2) Sopraffazione: col ragionamento, Cfr. Top., I. 12. 105 a, 16: « L’induzione  è più persuasiva... — ma il sillogismo stringe di più, ed ha maggior forza contro  quei che contraddicono »,   (3) Poichè l'essere si dice o in atto o in potenza, così c'è un modo di essere  (in potenza) ch'è anche un modo di non essere (in atto). (Il puro non-essere non  ha realtà: il non essere è un momento di sviluppo dell'essere, che, come pura  essenza, è già, nel concetto, almeno, se non nella realtà temporale). E come per  la sostanza, così per le sue determinazioni secondarie: «sic, enim, tepidum est  in potentia calidum et frigidum, neutrum tamen actu»: S. Tom. ($ 667). (Qui,    LIBRO QUARTO 121    una stessa cosa si trovi ad essere e a non essere insieme,  ma non per lo stesso rispetto: poichè in potenza i contrari  possono essere insieme, ma non in atto.   Inoltre, li inviteremo a persuadersi che c’è anche un’al-  tra sostanza degli esseri, la quale non è per nulla affatto s0g-  getta a movimento, nè a nascita o corruzione.   Dalle sensazioni muove parimenti l’opinione di alcuni che  la verità sia di ciò che appare ('). Essi stimano che a giu-  dicare del vero non convenga rimettersene alla maggioranza  o alla minoranza. La stessa cosa, essi dicono, al gusto di  aleuni pare dolce, ad altri amara: sì che, se tutti ammalas-  sero o impazzissero, e soltanto due o tre rimanessero sani  e in cervello, costoro sembrerebbero malati e pazzi, e non gli  altri. Inoltre, a molti altri animali le stesse cose appaiono al  contrario che a noi; anzi a ciascuno di noi singolarmente,  stando alla sensazione, le cose non sembrano sempre le stesse.  Quali, quindi, di esse siano vere o false, ci è nascosto: queste  non hanno maggior diritto di quelle alla verità, ma uguale.  Perciò, appunto, Democrito afferma che o non c’è nulla di  vero, o, almeno, ci è nascosto. In somma, se essi insegnano  che quel che appare al senso è necessariamente vero, ciò  avviene perchè ritengono per ammesso che l’intelligenza si  riduca alla sensazione, e questa a un’alterazione (?). Se ed  Empedocle e Democrito e, in breve, ciascuno degli altri si  trovarono prigionieri di tali dottrine, ciò non avvenne per  altro motivo. Dice, infatti, Empedocle che chi cambia abito,  cambia intelligenza:    Quali le sue condizioni, tale cresce l’uomo per senno;    veramente, si tratta non di un non-essere-ancora, in opposizione a un essere-giù;  ma di un modo dell’essere che è già, del sostrato, che può ricevere ambedue le  determinazioni contrarie, ed è, quindi, per se stesso potenza di contrari),   (1) tà parvépeva: non si dia un senso troppo soggettivo all'espressione (non  esatto il Bonitz, p. 201: «quidquid cuique videatur »).   (2) Alterazione (mutamento qualitativo), che subisce l'organo del senso da  parte dell'oggetto.    1009 b    1010 a    122 METAFISICA    e altrove:    Tanto essi si mutano, e tanto si rinnovano  sempre anche i loro pensieri.    E Parmenide si esprime nello stesso modo,    Quale in ciascun uomo è la temperie delle membra flessibili,  tale è la sua mente. Essa è appunto   quel che pensa negli uomini, in tutti e in ognuno:   la natura de’ loro organi: quel che in essa prevale è il pensiero (1).    E si suole ricordare anche un detto di Anassagora ad al-  cuni suoi scolari: che le cose sarebbero per essi tali, quali  piacesse loro di crederle (?). Dicono che anche Omero sembra  di questa opinione, perchè imaginò che Ettore, quando per  la ferita uscì di sè, giacesse «altro pensando»: quasi che  anche coloro che sono fuori di senno pensassero, sebbene non  alle stesse cose: è chiaro, dunque, dicono, che se pensiero  c’è in un caso e nell’altro, anche le cose sono insieme così  e non così.   Il pericolo maggiore è nelle conseguenze: se coloro che  hanno guardato più a fondo quel che può essere il vero  (e tali sono quelli che più di tutti lo cercano e lo amano),  proprio essi, hanno opinioni di questo genere, e in questo  modo si esprimono su la verità, — con quale animo i prin-  cipianti sì metteranno a filosofare? Il cercare la verità sa-  rebbe un correr dietro alle nuvole!   A tale opinione essi arrivarono perchè cercavano bensì  la verità nella realtà, ma reali reputavano soltanto le cose  sensibili: ora, in queste ha gran parte l’indeterminato, e an-  che l’essere, ma nel significato che dicemmo (*). Perciò il loro    (1) Cfr. Diela, pp. 124 (n. 16), 202-3 (106, 108). Sembra ad alcuni che A. forzi  troppo il pensiero di costoro col farne dei sensisti. Ma è anche vero ch'essi non  distinguono il sensibile dall’intelligibile, 0, se distinguono, fanno del pensiero  quasi un senso superiore: come dimostrano i versi citati.   (2) Buone o cattive, a seconda della disposizione d'animo.   (8) Cioè, potenziale. Per Epicarmo, non si conosce a quale giudizio di lui  contro Senofane, A. qui alluda.    10    11    12    13    14    15    16    LIBRO QUARTO 123    discorso ha somiglianza col vero, ma non è vero. E c’è mag-  gior proprietà a parlar di loro così, che non come Epicarmo  contro Senofane.   Un altro motivo della loro opinione era questo: vedendo  che tutto in questo mondo si muove, e ritenendo che del mute-  vole non ci sia nulla da dire di vero, conchiusero che neppure  è possibile parlare con verità di un mondo che sempre e in  tutti i modi si muta. Da questa constatazione germogliò l’opi-  nione più estrema in questo argomento, quella di coloro che  professano di « eraclitizzare », quale aveva anche Cratilo (‘):  questi finì col credere che non si debba parlare, e moveva  il dito solamente, e biasimava Eraclito per aver detto che  non è possibile immergersi due volte nello stesso fiume: £  suo avviso, neppure una volta è possibile. Ma noi anche con-  tro questo ragionamento risponderemo che certamente quel  che muta, mentre muta, dà loro qualche ragionevole motivo  di credere al suo non essere. Eppure c’è da discuterne; poi-  chè, l’oggetto che perde una proprietà, conserva ancora qual-  cosa di ciò che perde, ed è già necessariamente qualcosa di  ciò che diviene. E in generale: se qualcosa si corrompe, deve  continuare a essere qualcosa; e se qualcosa si genera, di  necessità dev’esserci ciò da cui si genera, e che lo genera;  e questo processo non può andare all’infinito. E anche la-  sciando questo da parte, noi diciamo che non è la stessa cosa  il mutare nella quantità e il mutare nella qualità: per la  quantità, sia pure che non ci sia al mondo nulla di perma-  nente; ma noi conosciamo tutte le cose per la forma (?).   À quelli che la pensano a quel modo, noi non possiamo  fare a meno di rimproverare che, limitandosi a un piccolo  numero di osservazioni, pur nella cerchia stessa delle cose  sensibili, i lor pronunziati estesero all'universo intero. Se la    (1) Cratilo, ricordato già in I. 6, 1 come maestro di Platone.   (2) Il passaggio è, dunque, sempre dall’essere all'essere: poichè per A. è  l'essere che spiega il divenire, non viceversa. La pura essenza non diviene, e  questa è forma che spiega il mutare delle cose (qualitativamente: qualità, qui,  è il punto di viste formale, della sostanza e delle sue determinazioni conoscitive,  opposto a quello meramente materiale della quantità).    124 METAFISICA    regione del sensibile, che ci circonda, è in perpetuo nascere  e perire, tale, tuttavia, è essa soltanto, e rispetto al tutto è  una piccola parte, che conta, si può dire, niente: sì che sa-  rebbe molto più giusto in grazia del tutto assolvere questa  parte dalle sue mancanze, piuttosto che a cagion di questa  condannare il tutto. Inoltre, potremo evidentemente indiriz-  zare anche a costoro le stesse considerazioni fatte addietro.  Bisogna mostrare anche a costoro, € persuaderli, che esiste  una natura immobile (‘). In fine, costoro che dicono ogni  cosa essere e non essere insieme, se fossero conseguenti, do-  vrebbero affermare che tutto è quieto, piuttosto che in mo-  vimento: chè, se tutto è in tutto, non c’è più niente in cui  qualcosa possa mutarsi.    (1) I cieli sono incorruttibili, e al di sopra di essi Dio e le Intelligenze  motrici son fuori di ogni specie di movimento. «His igitur rationibus A. remo-  visse sibi videtur eas causas, quae quosdam ad recusandum principium contra-  dietionis impellerent: quae quam non sufficiant in prompt u est intelligere. Ac  primo quidem argumento quod mutationem ad essentiam redigere studet, facile  est videre eum, dissecta in partes quasdam mutatione, ea spectare, in quibus vel  coepta nondum sit vel iam absoluta inutatio, nec vero ipsum illud, quod mutatur,  quatenus mutatur. Altero argumento, quod speciem ac formam rerum ac per eam  certum cognitionis fundamentum manere contendit, confidendum quidem est in  nullo mutationis genere ex Aristotelis decretis ipsam formam 
vel fieri vel mu-  tari; sed ita, non sublata est, verum translata in alium locum dubitatio de muta-  tione. Reliquie argumentis quod in angustiores fines ‘mutationis ambitum studet  includere, nihil videtur ad refutandos adversarios efficere: sive, enim, latius patet  mutatio sive minus late, quatenus invenitur, eatenus principium contradictionis  tamquam universale principium tollit: propositio enim universalis unius propo-  sitionis singularis instantia tollitur. His scopulis hoc loco, ubi mutationis mentio  necessaria non erat, propterea illidit A., quiaprinelpium contradictionis non de  notionibus, sed de rebus valere posuit »: Bonlitz, pp. 204-5.   Ma lo spirito dell’argomentazione aristotelica non è colto, così. Qui A. difende  il suo principio contro l’indebita ipostatizzazione della negazione assoluta, pro-  pria del pensiero discorsivo, insieme e al pari dell'affermazione, nella realtà e  intelligibilità delle cose, le quali verrebbero, così, negate non soltanto nel loro  essere determinato, ma anche nel loro divenire: come il par. seguente (18) mostra  chiaramente. (Di vero, tuttavia, della critica, resta questo: che quella realtà e  intelligibilità è affermata, nel suo essere e divenire, con procedimento analitico,  prima o dopo del suo attuarsi, non nel suo attuarsi, in cui l’opposizione passa  dalla forma astratta a quella concreta dell'essere che diviene in quanto assorbe  in sè la propria negazione. Quel procedimento, quindi, porta A. a vedere lo svi-  luppo dell'essere come già attuato e irrigidito nelle forme dell'essere universale,  dal mondo sensibile soggetto a corruzione a quello pur sensibile ma incorruttibile,  e da questo a quello sottratto a ogni forma del divenire).    17    18    LIBRO QUARTO 125    19 In quanto, poi, alla verità di ciò che appare, che, cioè, 1010 b  non tutto ciò che appare è vero, noi osserviamo anzitutto  che l’atto del sentire non è per nulla falso quando è dell’og-  getto suo proprio, ma la fantasia non è la stessa cosa della   20 sensazione ('). C'è, quindi, proprio da stupire al sentirli di-  scutere se le grandezze e i colori siano realmente quali ap-  paiono da lontano o quali appaiono da vicino, e se le cose  siano quali appaiono ai malati o quali appaiono ai sani, e  se siano più o meno pesanti secondo che uno è robusto o è  fiacco, e se la verità sia di quelli che dormono o di quei che  son desti. Che in realtà non abbiano questi dubbi, è palese:  nessuno, per lo meno, se, di notte, imagina di essere in  Atene, mentre è in Libia, s'incammina verso l’Odeone. Ag-   21 giungi, quel che già Platone osservava, che intorno all’avve-  nire, se, ad es., un malato guarirà o no, non è davvero  ugualmente autorevole l'opinione di un medico e quella di un    (1) «Quod Protagorei contendunt verum esse quod cuique de qualibet re  videatur, hoc placitum in fines longe artiores est restringendum: illud, enim,  vere contendi licet sensum quemlibet non falli in percipiendis rebus ipsi proprie  subiectis; at phantasia, quam Protagorei, quum tò parvépevov dicunt verum esse,  veritatia faciunt indicem ac testem, differt a sensu »: Bonitz, p. 205.   Il Ross suggerisce un’altra interpretazione, onde il passo verrebbe trasfor-  mato così: Quanto alla verità di ciò che appare, noi osserviamo che non tutto  ciò che appare è vero: anzitutto, se anche, come essi dicono, la sensazione non  è falsa, quando però sia di un oggetto appropriato a un senso, ecc. — Migliore,  sembra, l’interpretazione del B., che non rischia dl prestare all'avversario la  tlottrina di A. intorno aî sensibili propri. Per questa, cfr. De An., II. 6. 418 a, 8:  « Sì dice sensibile in tre sensi: in due dei quali si parla del sentire per sè,  nell’altro per accidente. Dei due primi modi di sentire, uno è proprio di ciascun  senso, l’altro è comune a tutti. Dico proprio ciò che non può esser sentito per  altro senso, è intorno al quale non è possibile cadere in errore: così il colore  rispetto alla vista, e il suono rispetto all’udito, il sapore rispetto al gusto. Cia-  scun senso discerne intorno a essi, e non può ingannarsi in quanto colori 0 suoni,  ma solo intorno alla cosa colorata o al luogo, ecc. ». In questo, ch’ è piuttosto un  inferire che un percepire (e così se un senso pretende di giudicare dell'oggetto  di un altro senso), il senso può ingannare. — La fantasia era stata da Platone  trattata come la stessa cosa della sensazione (Teeteto, 152 c). A. la distingue dal  senso e dal pensiero discorsivo, benchè non sorga senza la sensazione, e senza  di essa non ci sia l’opinione. Essa tramezza, dunque, tra l’una e l’altra: appar-  tiene alla parte sensibile dell'anima, ma è attiva e indipendente dall'oggetto  attuale come il pensiero. Cfr. De An., III. 3. 427 b, 14.    126 METAFISICA    ignorante ('). E anche per le sensazioni, non è ugualmente  autorevole la sensazione di un oggetto che è proprio di un  senso e quella di un oggetto estraneo, la sensazione dell’og-  getto attuale e quella di un oggetto vicino (*). Invece: del  colore giudica la vista, non il gusto; del sapore, il gusto,  non la vista. E ogni sensazione, nel tempo stesso e intorno  allo stesso oggetto, non dice mai che una cosa sta così e non  così (3); e anche in tempi diversi, la questione non cade  propriamente su la qualità, ma su l’oggetto a cui essa con-  viene: dico, ad es., che lo stesso vino può bene parere una  volta dolce e un’altra no, o perchè s’è mutato esso, o perchè  s’è mutato il nostro organo; ma la qualità del dolce, quale  essa è, quando è, non muta mai: il senso ne dice sempre  il vero, e quel che dovrà esser dolce, sarà sempre dolce in  questo modo (‘). A dir vero, proprio questo vogliono distrug-  gere i sostenitori di tutte queste dottrine, e in quel modo che  negano la realtà di ogni sostanza, così per essi non c’è nulla  al mondo di necessario: poichè necessario è ciò che non può  essere ora in un modo, ora in un altro, sì che se qualcosa  esiste di necessità, non potrà essere così e non così (°).   E in somma, se solo ciò ch’è sensibile può esistere, qua-  lora non ci fossero animali, non esisterebbe nulla: chè non  ci sarebbe sensazione. Ebbene, dire che nè le qualità sensibili,    (1) Per questi due paragrafi, cfr. Teeteto, 157 e 8.; 1710, 178c s, Ma giusto, per  queste e altre concordanze, lo Schwegler (p. 180): A. attinge direttamente dalla  protagorea ’AAntea, indipendentemente dai giudizi di Platone.   (2) Intenderei così le parole invano, mi sembra, tormentate anche da altri:  toù rimolov xal toù ati; (Aless.: la sensazione di un oggetto vicino è più sicura  che quella di un oggetto distante; Bullinger e Goebel, cit. in Ross: la sensazione  dell'oggetto proprio è più sicura che quella di un oggetto di un senso affine; ecc.).   (3) La sensazione (l’atto del percepire) è già conoscenza per A., come si notò  a I, 1, 4, e però soggetta alla stessa legge di non-contraddizione del pensiero.   (4) L'attributo o qualità, per sè, non muta e non passa nel suo contrario: il  dolce (la dolcezza) non diventa amaro: quel che muta è il sostrato, che può pas-  sare da un contrario all’altro (o agli intermedi). Nota, anche qui, l’irrigidimento  del reale in forme definitorie (come in Platone).   (5) La ragione del predetto irrigidimento è nella preoccupazione, che A. hu  qui in comune col suo maestro, di combattere le dottrine protagoree portanti alla  negazione di ogni realtà su cui il pensiero possa posare con la certezza della  propria validità.    22    23    25    26    ro  I    28    LIBRO QUARTO 127    nè le sensazioni (‘') esistono, forse è anche giusto, in quanto  queste altro non sono che affezioni del senziente; ma è impossi-  bile che, anche senza la sensazione, non esistano tuttavia i so-  strati che la producono. Infatti, Ja sensazione non è sensazione  di se stessa (*), ma c’è, oltre di essa, anche qualcos'altro, che,  necessariamente, è prima di essa: ciò che muove è per natura  anteriore a ciò ch’è mosso. E se anche si obietta che essi  sono in relazione di reciprocità, la cosa non è men vera (*).    CapitoLo VI (*).    Ci sono alcuni — e tra quelli che son persuasi di ciò che di-  cono, e tra gli altri che fan questione di parole soltanto —  i quali muovono una difficoltà: essi voglion sapere chi sarà  poi a decidere se uno sia sano e, in generale, se uno intorno    (1) Mi par giusto tornare alla volgata: uite và aloîntà (le qualità sensibili,  qui: non le cose stesse) pinTe tà alcèf pate. Poichè non è conforme alla dottrina  più chiara di A. porre come esistente il sensibile fuori della sensazione (in atto  o in potenza): cfr. De An., III. 2. 425 Db, 26: « L’atto del sensibile e della sensa-  zione è identico, ma l’esser loro non è il medesimo: dico, per es., del suono in  atto e dell'udito in atto. Poichè è possibile posseder l'udito e non udire, e ciò  ch'è sonoro non sempre rende suono. Ma quando ciò che ha potenza di udire, è  in atto, e ciò che ha potenza sonora rende suono, allora ha ÎInogo insieme l'atto  dell'udire e l’atto del suono ». Ciò non toglie, naturalmente, l’esistenza di un  mondo sensibile esteriore all'anima: poichò il sentire, diversamente dall’inten-  dere, non passa all’atto senza un oggetto esteriore materiale: « Perciò dipende  da noi l’intendere, quando lo vogliamo, ma non così il sentire »: De An., II. 5.  417 Db, 24. °   (2) La sensazione non è sensazione di se stessa, nel senso che l’occhio, ad. es.,  non vede se stesso. Ma A. accenna anche a una alognows ch'è aùti avtis (De An.,  III. 2. 425 b, 15, 0 Cfr. De sensu, 7. 448 a, 26): autocoscienza sensibile, noi diremmo,  corrispondente a quella intellettiva (del tutto spiegata in Dio, com'è noto). Per  cui anche la sensazione, così come il pensiero per l’intelligibile, non ha fuori  di sè il sentito (in quanto tale).   (3) Posta anche la correlatività protagoree, onde il sentire risulti dall'in-  contro dell’agente col paziente (della cosa visibile, ad es., con la vista: cfr. Teeteto,  156 d), vale quanto si è detto: debbono esistere, indipendentemente dalla sensa-  zione, i due sostrati, la cosa che ha la potenza di esser vista e l’anima che ha  la .\otenza di vedere.   (4\ Questo capitolo prosegue il precedente, e s'aggira ancora intorno alla verità,  di ciò che appare. Vien ripetuta la distinzione tra coloro che seguono    o meno,  la dottrina protagorea in buona fede e con qualche ragione degna di esser presa    1011 a    128 METAFISICA    a ogni cosa giudichi rettamente. Dubbi di questo genere sono  simili a quello di sapere se in questo momento dormiamo o  siamo desti. Simili difficoltà valgono tutte lo stesso. Costoro  pretendono che si dia ragione di tutto: cercano un principio,  e lo vogliono ottenere per via dimostrativa: sebbene dalle  loro azioni si veda chiaro che di tale necessità, di dimostrar  tutto, non sono persuasi. L’errore in cui cadono, come si  disse, è questo: cercano un ragionamento per cose in cui il  ragionamento non esiste, perchè il principio de lla dimostra-  zione non è una dimostrazione. Essi stessi possono facilmente  persuadersi di ciò: chè non è difficile a comprendere. Coloro,  invece, che esigono che uno li confauti per forza di ragio-  namento soltanto, esigono l’impossibile: poichè pretendono  che si dica il contrario di loro, e cominciano intanto col  dirlo essi (').   Se le cose non tutte sono relative, ma alcune soltanto, e  altre sono in sè e per sè, allora non potrà tutto ciò che ap-  pare, esser vero. Poichè, ciò che appare, appare a qualcuno:  di modo che, chi dice che tutto ciò che appare è vero, fa  tutte le cose relative. Perciò quelli che chiedono di essere  confutati per forza discorsiva — se tuttavia acconsentono di  discutere ragionevolmente —, bisogna che facciano bene at-  tenzione che non c’è ciò che appare semplicemente, ma c’è  ciò che appare a chi appare, e quando appare, e in quanto  e come appare. Se vogliono discutere, ma non in questi ter-  mini, accadrà loro ben presto di dire cose tra loro contra-  rie (*). Può, infatti, alla stessa persona una cosa parer miele  alla vista, e al gusto no; e non parer identica una stessa    in considerazione, e coloro che ne cavan :notivo per nera esercitazione discor-  siva. I trapassi, tuttavia, dalla considerazione di un gruppo o dell'altro, o di ciò  che essi hanno in comune, non sono abbastanza netti. Può darsi che il testo sia  atato in qualche parte disordinato.   (1) Intendo: pretendono che altrî dimostri il contrario di ciò che dicono:  ma, com’ è possibile ciò, se già essi lo affermano? V. nel Ross gli altri tentativi:  d'interpretazione.   (2) Cose tra loro contrarie essi possono dirle soltanto se escono «indll’atto.  omnimode determinatus del conoscere. Ma, se accettano la determinazjfone, non:  riuscirà a ]Joro più.    2    (uh) |    6    de)    10    LIBRO QUARTO 129    cosa alla vista di ciascuno dei due occhi, se sono disuguali.  Coloro che, per le ragioni già dette, van dicendo esser vero  ciò che appare, e però tutto ugualmente vero e falso, per-  chè non a tutti le cose appaiono le stesse, e neppure a uno  stesso sempre, e spesso appaiono contrarie anche nello stesso  tempo (il tatto, per es., se s'intrecciano le dita, dice che  son due gli oggetti, la dove la vista ne dà un solo), — quei  tali, dunque, badino che in realtà, qui, le sensazioni non  riguardano lo stesso senso, e per lo stesso rispetto, e nella  stessa maniera, e nello stesso tempo: per cui vero’ sarà ciò  che appare solo se è così determinato (‘).   Ma, appunto per ciò, quei che parlano non perchè dubi-  tino, ma per parlare, si troveranno forse costretti a dire, non  «questo è vero >», ma «è vero a questo »; e quindi, anche,  come si disse dianzi, dovranno far tutto relativo, all'opinione  e al senso, sì che se non si presupponesse l’opinione di qual-  cuno, in realtà non ci sarebbe stato e non ci sarà mai niente (*).  Che se, invece, qualcosa fu o sarà, è chiaro che non tutto  è questione di opinione.   Inoltre, se l’oggetto è uno solo, bisogna che sia in rela-  zione a uno solo o ad altri in numero determinato: che se  una stessa cosa si trova insieme ad essere metà e uguale,  non è relativamente al suo doppio ch’essa è uguale (?).   E quanto a colui che opina, se la realtà dell’uomo è an-  ch’essa oggetto di opinione, non sarà uomo chi opina, ma    (1) Così determinato l'atto, esso spiega le differenze, non solo tra individui  diversi, ma anche nello stesso individuo, dipendendo queste o dalla cosa che ha  potenza di produrre sensazioni diverse o contrarie, ovvero dalle condizioni e dal-  l’uso degli organi, ovvero dal giudizio (talvolta errato) che l’anima trae dal con-  fronto delle sensazioni o di queste con precedenti immagini (v. dianzi la possibilità  «dlell'errore nei sensibili per accidente, e la distinzione tra sensazione e fantasia;  e cfr. anche De An.,, III. 3, 428a, 11: «Le sensazioni sogo' sempre vere, invece  le fantasie nascono il più delle volte false »: di qui, gt possibilità del vero    e del falso nella déta).    (2) Come dianzi per la sensazione, così qui per l'opinione: il soggettivismo  è assurdo per A.  (9) Si riannoda al pensiero precedente al $ 8: anche fatto tutto relativo, se    la relazione vien determinata ne’ suoì termini esattamente, essa non è mai con-    tradittoria.    ARISTOTELE, Metafisica, 9    130 METAFISICA    l'oggetto opinato. Ma, siccome ogni cosa è quale è chi l’opina,  costui sarà infinite specie di cose (‘).   Che, dunque, l’opinione più salda di tutte è questa, che  le affermazioni opposte non possono esser vere insieme; e a  quali conseguenze vadan incontro coloro che la impugnano, e  quali ragioni li muovano a ciò, — si è detto quanto basta.   Ora, posto che è impossibile che si verifichi la contradi-  zione nello stesso tempo e per il medesimo rispetto, è mani-  festo altresì che neppure i contrari possono trovarsi insieme  nello stesso soggetto. Poichè uno dei contrari non esprime  altro che la privazione: la privazione della sostanza. Ma la  privazione è la negazione d’un certo genere determinato. Se,  dunque, è i mpossibile che l’affermazione e la negazione siano  vere nello stesso tempo, dovrà anche essere impossibile che  i contrari si trovino insieme (?), a meno che entrambi non  si trovino in una certa maniera soltanto, ovvero }’uno in una  certa maniera soltanto, e l’altro semplicemente.    CapitoLo VII.    Delle due parti della contradizione non si dà mezzo, ma  è necessario che o si affermi o si neghi, e che, quel che si  afferma o nega, sia una sola cosa di una sola. Questo diventa  chiaro appena ci si faccia a definire che cosa è il vero e il  falso. Falso è dire che l’essere non è, o che il non-essere è;       (1) Ripiglia il pensiero del $ 8: se tutto è relativo all’uomo (Protagora),  l’uomo stesso che cos'è? Da una parte, non esistendo altro che l'oggetto di opi-  nione, l’uomo non è più il soggetto pensante, ma quello ch'è pensato; dall'altra,  anche in quanto soggetto pensante, per la reciprocità protagorea (di cui alla fine  del capitolo precedente), egli esisterà come è nella relazione a ciò che pensa, e sarà  un opinante d'infinite specie: tante, quante sono le specie degli oggetti opinati,  in rispetto ai quali egli è un opinante sempre diverso (data la varietà continua  delle cose opinate). In conchiusione, neppur l’uomo esiste.   Ho tradotto come se il xgòds della 1. 12 non ci fosse (così il cod. E). Mante-  nendolo: «costui sarà (tale) in relazione a un numero infinito di specie di cose»  (e quindi sempre diverso).   (2) Salvo che in potenza, o l’uno in atto e l’altro in potenza; o l’uno sotto  un aspetto, e l’altro sotto un altro, ecc.    11    12    ro    (ce i    LIBRO QUARTO 131    vero è dire che l’essere è, e il non-essere non è. Per cui,  anche, chi dice che una cosa è, o non è(‘), o dice il vero  o dice il falso; invece, se si desse il mezzo, nè dell’essere  sì direbbe che è o non è, nè del non-essere.   In secondo luogo, quel mezzo della contradizione do-  vrebbe essere o a quel modo che il grigio è in mezzo tra  il nero e il bianco, ovvero tra uomo e cavallo un terzo  ente che non sia nessuno dei due. Se fosse in quest’ultimo  modo; non ci sarebbe mutamento (perchè mutamento si  ha quando dal non-buono si passi al buono, o da questo a  quello): invece lo si vede ognora, ed è tra contrari e inter-  medi, e non altrimenti. Se poi il mezzo fosse come un  intermedio, si avrebbe anche così una generazione del bianco  che non verrebbe dal non-bianco: ora, nessuno l’ha mai  vista (*).   In terzo luogo, tutto ciò che pensa e intende (°), il pen-  siero o lo afferma o lo nega: questo è chiaro dalla defini-  zione stessa del vero e del falso (‘). Vero è il pensiero quando,  affermando o negando, unisce le nozioni in un certo modo;  quando, invece, in un certo altro, è falso.   In quarto luogo, quel mezzo, se uno non fa questione di  parole, dovrebbe essere al di lA di tutte le contradizioni, per  cui uno neanche direbbe nè il vero nè il non vero. E sa-    (1) Non «chi dice che questo (toùto 0 èxgsivo, che altri aggiungono inten-  dendo del mezzo) è 0 non è»: perchè del mezzo non si dice che è o non è. Per  quel che segue: «Ille quì ponit medium inter contradictionem, non dicit quod  necesse sit dicere de ente esse vel non esse, neque quod necesse sit de non ente»:  S. Tom. ($ 720).   (2) O quel terzo (il mezzo) è negativo (né uomo — né cavallo), e il divenire non  ha luogo perchè ci vuole un termine positivo e una realtà comune ai due termini  tra cui avviene (il «non buono », ad es., se diviene, passa in un termine positivo,  e questo, d'altronde, non può essere, poniamo, il « bello »); ovvero è positivo (e bianco  e nero), e il divenire non avviene neppure in questo caso, perchè il termine nega-  tivo è indispensabile e la realtà da realizzare non può esser quella già realizzata  (nell'esempio, considera il grigio come già, insieme, bianco e nero, attualmente).   (3) L'attività logica (della Su&vora) porta all'intuizione della verità (propria  del vote).   (4) Posta al $ 2.I1 giudizio è sintesi di nozioni, rapporto (affermativo o nega-  tivo) tra soggetto e predicato.    1012 a    132 METAFISICA    rebbe al di là (') dell'essere e del non-essere, per cui do-  vrebbe esserci anche un mutamento diverso (2) da quello  che consiste nel nascere e perire.   In quinto luogo, quel medio dovrebbe esserci anche per  quei generi di cose, in cui la negazione importa immedia-  tamente il contrario (*): nei numeri, ad es., dovrebbe es-  serci un numero che non fosse nè dispari nè non-dispari.  È impossibile: basta la definizione a vederlo (‘).   In sesto luogo, si andrebbe, in tal modo, all’ infinito: le  cose sarebbero non soltanto accresciute di metà, ma più an-  cora, perchè si potrà sempre daccapo negare quel terzo, e  costituire tra l’affermazione e la negazione sempre qualcosa  di nuovo, di natura diversa (°).   In fine, quando uno, richiesto se una cosa è bianca, ri-  sponde di no, che altro ha egli negato se non l’essere? E la  negazione di esso è il non-essere (°).   Questa opinione è sorta in alcuni per la stessa via di  altre non meno strane: non riuscendo a cavarsi fuori da ar-  gomentazioni eristiche, si arrendono e acconsentono che sia  vero quel che se n’è conchiuso. Questi, dunque, parlano per       (1) mao. Gli altri interpretano come un «per». Tenterei di differenziare un  po’ di più questo argomento dai precedenti. Nota, per la 2» parte del paragrafo  (che passa dalla considerazione logica a quella reale), che il discorso è pur sempre  intorno al mondo del divenire, dove soltanto ha luogo l’antitesi di essere e non-  essere e dei contradittorii.   (2) Intendi: un mutamento sosta:ziale diverso. Chè è in quello che ha luogo  più propriamente l’antitesi essere-non essere.   (3) In questi contrari mancano intermedi, e come non c’è processo di gene-  razione, così l'affermazione di uno importa immediatamente l’esclusione dell’altro.  È un caso di contrarietà in rerum natura equivalente alla contraddizione logica  (l’unica differenza è che alla negazione non-dispari corrisponde la realtà positiva  del pari).   (4) La definizione divisoria del pumero in pari e dispari.   (5) Più semplice l’interpretazione di Alessandro, così schematizzata dal Ross:  Se tra A e non-A c'è B [che sarebbe un terzo modo di essere di A, nè affermato  nè negato soltanto, e però accresciuto di una metà), ci sarà anche C tra B e  non-B, e D tra Ce non-C, e così di seguito.   (6) « Argomento cavato dalla natura del discorso. Il sì e il no esprimono il  primo un'affermazione e non insieme una negazione, e il secondo una negazione  e non insieme un’affermazione. E l’affernazione e la negazione non indicano se  non che o sia © non sia quella tal cosa di cui si parla»: Bonghi (p. 201).    10    LIBRO QUARTO 133    motivi di questo genere; altri, perchè vogliono che si dia  ragione di tutto. Con tutti costoro bisogna cominciar dalla  definizione, e la definizione vien fuori obbligandoli a dar un  significato a quel che dicono: il concetto, di cui la parola  è segno, diventa definizione (').   La sentenza di Eraclito, che tutto è e non è, par che auto-  rizzi a far vera ogni cosa; quella di Anassagora, invece, a  porre un mezzo della contradizione, sì che ogni cosa sarebbe  falsa; chè, quando tutto è mescolato, il miscuglio non è nè  buono nè non-buono, onde non se ne può dir nulla di vero.    CapiTtoLO VIII.    Ciò determinato, è facile vedere che ciò che si dice delle  cose in generale non si può ridurre ad affermazioni di una  sola specie, così come fanno alcuni, i quali o van dicendo  che niente è vero (niente impedisce, secondo essi, che tutto  stia come il rapporto della diagonale al lato) (?); ovvero van  dicendo che tutto è vero. Son discorsi, questi, in fondo,  uguali a quello di Eraclito: poichè, chi asserisce che tutto  è vero e tutto è falso(*), asserisce anche ciascuna di queste    (1) (Per questo paragrafo e s.). Non riuscendo a vedere l’errore dei ragionamenti  eristici, aleuni ne accettano le conchiusioni, e tolgon valore, così, al principio di  non contraddizione, e a quello connesso «del terzo escluso. Altri muovono da ra-  gionamenti non eristici. In entrambi i casì, si cominci con esigere un significato  determinato di ciascun termine, Questo fu raccomandato già (4, 5 ss.) per la  difesa del principio di non-contraddizione, e ora vien raccomandato anche per  la difesa del principio del terzo escluso, perchè, in effetto, chi, come il supposto  seguace di Anassagora, pone quel terzo (che non è nè l’una nè l’altra parte  della contradittoria), fa che delle cose non si possa mai dir nulla di determi-  nato: cfr. 4, 25.   (2) Lett.: «l’essere il diametro commensurabile». Ossia: ogni cosa è in sè  contradittoria (come chi dicesse: « diametro commensurabile »).   (3) Intendo: chi asserisce che si può dire che tutto è vero e tutto falso în-  differentemente (se, secondo Eraclito, tutto è e non è), costui vien a dire che son  giuste anche le due enunciazioni separatamente prese: che tutto è vero (tanto  l’essere quanto il non-essere), o tutto falso. Comunemente vien inteso, invece, che  «chi dice che tutto è vero e tutto falso insieme, dice anche le due cose separa-    134 METAFISICA    1013 b cose separatamente, sì che, se la prima asserzione è insoste-  nibile, insostenibili sono anche queste separate. Ed è evidente 3  anche che sono contradittorie quelle che non possono esser  vere insieme. E neppure possono entrambe esser false: quan-  tunque questo secondo caso, per le ragioni dette, possa sem-  brare meno improbabile (‘).   Con tutti coloro che fan discorsi di questa specie bisogna 4  comportarsi come s’è consigliato anche addietro (?): non esi-  gere che dicano se una cosa è, o non è, ma che diano un  significato a quel che dicono: di modo che dalla definizione  si possa passare alla discussione, quando siasi stabilito quel  che significhi il falso o il vero. Se enunciar il vero non è 5  altro che negare ciò ch’è falso(?), è impossibile che tutto  sia falso, poichè è necessario che una delle due parti della  contradizione sia vera. Poi, se ogni cosa si deve o affermare 6  o negare, non si può essere nel falso in entrambi i casi,  perchè una sola delle due parti della contradizione è falsa.   A questi e simili ragionamenti succede, poi, quel che 7  tutti sanno: essi si distruggono da se stessi. Chi dice, infatti,  che tutto è vero, ta vero anche il ragionamento contrario  al suo, e però dichiara non vero il suo (tale, infatti, lo di-  chiara l’avversario). E chi dice che tutto è falso, si dichiara  nel falso da sè (‘). Che se si ammettono eccezioni, e il primo 8    tamente », Il che, evidentemente, è falso. Così, per quel che segue, che sarebbe  da tradurre: «se sono impossibili prese separatamente, anche la loro unione è  impossibile». Alessandro (397) dà entrambe le interpretazioni.   (1) Se le contradittorie sono semplicemente contratie (ossia, se si considera  la negazione positivamente). Le «ragioni dette » potrebber'essere, in questo caso,  quelle del 8 3 del capitolo precedente, in cui si accenna alla possibilità che uno  intenda la contraddizione nel senso della contrarietà. Alessandro, invece, ricorre  alle dottrine di Eraclito e di Anassagora, le quali favoriscono piuttosto l'opinione  che non si possa affermar nulla di vero, come anche A. dice alla fine del capitolo  precedente (la dottrina eraclitea è stata, nel paragrafo precedente, avvicinata a  quella anassagorea).   (2) Cfr. 4, 5. Quel che significhi il falso o il vero: nel Singolo caso. Cfr. cap.  prec., 9.   (8) Il testo è guasto: ho seguito la correzione proposta dal Ross (el 8è unttèv  diio tò &Ainttès pévat fi (5) drogpdvar yeidée totv).   (4) Così anche in Teeteto, 1712 58.    10    11    LIBRO QUARTO 135    dice che soltanto quello dell'avversario non è vero, e il se-  condo che soltanto il suo non è falso, — allora, essi si tro-  veranno a postulare sempre altri ragionamenti, veri e falsi,  a sostegno di quanto affermano: poichè vero sarà riconoscere  per vero il ragionamento che è vero, e così si andrà all'in-  finito (‘).   Evidentemente, il vero non lo dicono nè quei che affer-  mano che tutto sta fermo, nè quei che affermano che tutto  si muove (?). Se tutto stesse fermo, vero e falso sarebbero  eternamente gli stessi, invece si vede bene come tutto muta  quaggiù. Colui che parla, lui stesso un tempo non era, e un  tempo non sarà. Ma se tutto si muove, non ci sarà nulla di  vero, e però tutto sarà falso: noi abbiamo mostrato che  questo non è ammissibile. Inoltre, il mutare presuppone  l'essere, poichè il mutamento è da qualcosa a qualcosa. E  neppure si può dire di ogni cosa che talora soltanto, non    x    (1) Nel 1° caso: È falso che tutte le affermazioni sono vere. — È falso ch'è  falso che tutte le affermazioni sono vere, ecc.; nel 2° caso: È vero che tutte le  affermazioni sono false. — È vero che ò vero che tutte le affermazioni sono false, ecc.  Nel 1° caso son tutte affermazioni false che, chi sostiene che tutto è vero, deve  attribuire al contradittore; nel 2° tutte affermazioni vere che, chi sostiene la tesi  che tutte le affermazioni sono fulse, deve riconoscere come proprie. Così vero e  falso, presi uno fuori dell’altro, trapassano immediatamente l’uno nell’altro: chi  dice cho tutte le affermazioni sono vere, è costretto a riconoscerne infinite false;  chi dice che tutte sono false, deve riconoscerne infinite vere. Vero e falso, invece,  sono uniti, per A., nella sintesi contradittoria, dove, soltanto, l'uno dà senso  all’altro.   Si può notare in questa concezione la tendenza già a dialettizzare il pensiero  in sè e per sè. L’astrattismo platonizzante e le asigenze discorsive prendono,  tuttavia, il sopravvento: vero e falso si escludono senza mediarsì, in fine; e il  principio di non contraddizione resta un presupposto (l'assioma supremo), una  pregiudiziale, puramente negativa, della pensabilità del reale in generale (la  prima condizione logica del pensiero empirico). Anche il principio del mezzo  escluso, anzichè fondare il valore assoluto della sintesi contradittoria per l'atti-  vità pensante (ch'è îl medio concreto in cul l’antitesi si risolve senza residuo),  vien aggiunto semplicemente come corollario: chi lo nega, nega il principio di  non contraddizione, e cade, infine, così come chi nega questo, nell'inileterminato.  Il pensiero empirico, infatti, per la determinatezza del reale vuole l’immedia-  tezza della distinzione e opposizione del vero al falso.   (2) Ricorda che quiete e moto già al $ 15 del cap. 2 furono citati come una  contrarietà riducibile a quella dell’uno 6 del molteplice, dell’essere e del non-essere.    136 METAFISICA    eternamente, sia in quiete o in movimento. C’è qualcosa  che sempre muove ciò ch’è mosso, e il primo motore, esso,  è immobile (').    (1) «Posset aliquis credere quod, quia non omnia moventur nec omnia quie-  scunt, quod ideo omnia quandoque moventur et quandoque quiescunt»: S. Tom.  (748). Invece, il cielo (delle stelle fisse) muove sempre, mosso esso stesso, e Dio  muove questo sempre, immobile in se stesso. Un pensiero analogo trovammo nel  cap. 5, 5 è 16-17. La questione qui accennata è discussa in Plys., VIII. 3.    1    LIBRO QUINTO    CapiTOLO TI.    Dicesi principio (') di una cosa quello da cui si può co-  minciare il movimento: della linea, per es., e della via c’è  un principio da questa parte, e un altro dalla parte opposta.  Ovvero, quello da cui una cosa riesce meglio: per es., nello  studio si deve cominciare talvolta, non dal principio primo  di una cosa, ma da quello che s'impara più facilmente. Ov-  vero, la parte di una cosa da cui questa ha origine: per es.,  la chiglia di una nave, le fondamenta di una casa; negli  animali, alcuni credono che tale parte sia il cuore (?), altri  il cervello, altri qualcos'altro. Ovvero, ciò che dà origine a  una cosa senza farne parte, e da cui primieramente potò aver    (1) ’Aexî: se ne dànno i significati principali (1-6), nel comune modo di par-  lare. È difficile metter un ordine rigoroso in questi qui enumerati, e far corri-  spondere n essi esattamente quanto riassumendo enumera e distingue nel $ 8.  Nè c’è rapporto qui con la discussione fatta nel lib. I intorno all’àgyf in senso  metafisico e con la distinzione delle quattro specie di esso: benchè di queste sia  facile trovar l'equivalente anche nell’enumerazione presente (2, causa finale; 3,  c. materiale-formalo; 4, c. efficiente; 5, c. efficiente-finale; 6, c. formale). C'è, in  più, la distinzione tra l’esser il principio intrinseco o estrinseco alla cosa (così  nel $ 8: natura ed elementi son principii intrinseci; pensiero e deliberazione,  estrinseci). Qui, dunque, è. si potrebbe tradurre con «cominciamento », « inizio »  o «punto di partenza »(1), « fondamento » (3), «causa » od «occasione » (4); prin-  cipii sono anche i «primati» della città (5); anche oggi si parla di principii nel  senso di «rudimenti » (2), o di «principii logici »(6); e via dicendo.   (2) Il cuore è la parte principale per A., come per Empedocle e Democrito;  il cervello, per Alemeone, Ippone, Platone.    1013 a    138 METAFISICA    inizio il movimento o mutamento: per es., il figlio dal padre  e dalla madre, la contesa da un’ingiuria ('). Ovvero ciò dalla  cui deliberazione dipende se qualcosa si muove o si muta:  per es., i magistrati nelle città, gli oligarchi, i re, i tiranni;  e principii diconsi in questo senso anche le arti, specialmente  quelle che sovrastano alle altre (*). Inoltre, ciò da cui primie-  ramente una cosa è fatta conoscibile, anch’esso dicesi suo  principio: per es., ciò che vien premesso nelle dimostrazioni (*).   In altrettanti modi si parla di cause, poichè tutte le cause  son principii (*).   Ciò ch’è, dunque, comune a tutti i principii è di esser  ciò da cui primieramente una cosa è, o diviene, o è cono-  sciuta; e di essi alcuni sono insiti nella cosa, altri esterni.  Son principii, quindi, la natura, gli elementi, il pensiero, la  deliberazione, la sostanza e il fine (*): poichè per molte cose  ciò ch’è buono e bello è principio insieme di conoscenza e  di movimento.    CapitoLO II (°).    Causa dicesi, in un senso, ciò di cui una cosa è fatta:  per es., il bronzo di una statua, l’argento di una coppa, e    (1) La contesa da un'ingiuria: son parole prese da un verso di Epicarmo,  come risulta da De Gen. An., I. 18. 7242, 29.   (2) Le arti qui chiamate « architettoniche » sono soprattutto quelle che mirano  alla pratica: così in Ethica Nic., I. 1. 1094 a, 14, Ma anche la filosofia è considerata  così, in rispetto alle altre scienze, in Afet., I. 2, 5 e 12.   (3) al irmodéoev sono certamente anche «le premesse » (Bonitz, Waitz, ece.),  come appare dal passo che vien poco dopo in b, 20 (2, 8). Ma non mi sembrano  da escludere qui i principii (propri e comuni) delle dimostrazioni.   (4) Cfr. IV. 2, 5 (come per erte e uno). Principio e causa sono spesso sino-  nimi in A., che unisce anche î due concetti (specialmente per la scienza dei  « principii e cause prime »). Qui principio nel senso del $ 1 non si potrebbe con-  siderare come cause; ma neppure tutte le cause son principii in senso metafîsico.  Causa accenna meramente a un rapporto tra due fatti, laddove «principium or-  dinem quemdam importat » (S. Tom., 761), e accenna piuttosto alla ragion d'essere  di tutta la serie delle cause.   (5) La sostanza e il fine: la frase raccoglie oscuramente le quattro specie di  causalità.   (6) Questo capitolo ripete quasi letteralmente il 8° del libro II della Phys.,    LIBRO QUINTO 139    2 i loro generi (‘); in un altro, la specie o esemplare (?), cioè  il concetto della pura essenza, ed i suoi generi (nell’ottava,  per es., il rapporto di due a uno, e in generale il numero),   3 così come le parti di esso concetto. Inoltre, ciò da cui ha  principio immediatamente il mutamento o il suo contrario:  per es., il deliberare è causa dell’agire; il padre, del figlio;  e in generale, chi fa è causa del fatto, ciò che produce un  mutamento, di ciò che muta.   d Causa dicesi anche rispetto al fine, ossia ciò per cui si fa  qualcosa: per es., si passeggia per la salute. Diciamo: per-  chè passeggia? per acquistar salute; e riteniamo, così rispon-  dendo, di aver enunciato la causa. Ma così anche per le cose  intermedie tra ciò che muove e il fine: per es., per la salute  il dimagrare, il purgarsi, le medicine o i ferri del medico:  le quali cose sono tutte per il fine, e differiscono tra loro in  quanto alcune sono strumenti, altre sono azioni.   5 Si può dire che questi son tutti i sensi in cui si parla di  cause; e poichè i sensi son diversi, ne segue che di una  stessa cosa ci son cause molteplici, non accidentalmente (?):  per es., di una statua lo scultore e il bronzo son cause non  per altro rispetto che in quanto è statua: sebbene non nello  stesso modo, ma l’uno come materia, l’altro come principio  del movimento.   6 E ci sono cause reciproche: così, il lavorare è causa di  buona salute, la buona salute del lavorare: ma non nello    dal quale sembra esser stato preso (o posto qui da A. stesso ?). È degno di nota  che l’ordine, col quale vengono enumerate le quattro specie di causalità, non è  sempre lo stesso in A., ma varia con la natura della ricerca. Nel lib. I, cap. 3°  della Met. vedemmo enumerata per prima ìa causa formale, poi la materiale, poi  quella motrice e finale. Quì, ossia nella Fisica, è invertito l'ordine delle prime  due. In De Gen. An. (I. 1. 715 a, 4) precedono la finale e la formale. Negli Ana/. Post.  (II. 11. 94 a, 20) comincia dalla formale, e per causa materiale, subito dopo, dà  quel che nella logica ne tiene il luogo, le premesse di un sillogismo (queste,  infatti, son citate qui, al $ 8, tra gli esempi di causa materiale). In De Somm.,  (2. 465 b, 16) son prima la finale e la motrice.   (1) I loro generi: v.$ 9 88.   (2) Esemplare: termine platonico, adoperato qui, con allusione all’arte, per  der rilievo a quello di specie, 0 forma, nel senso della pura essenza.   (3) Bon cause proprie: cfr. S 10.    1018 db    140° METAFISICA y  stesso modo, perchè l’una è come fine, l’altra come principio  del movimento.   Inoltre, una stessa cosa è causa, talvolta, dei contrari:  ciò che, presente, è causa di certa cosa, talvolta l’accagio-  niamo, assente, del contrario: per es., del capovolgimento  della nave incolpiamo l’assenza del nocchiero, la cui pre-  senza era causa di sicurezza: entrambe, la presenza e la  privazione, sono cause rispetto al movimento.   Tutte le cause ora menzionate riguardano i quattro signi-  ficati più evidenti. Le lettere dell’alfabeto, la materia delle  cose artificiali, il fuoco, la terra e gli altri elementi dei corpi,  le parti del tutto, le premesse della conchiusione, son cause  in quanto sono ciò da cui risulta costituita una cosa; ma  alcune come sostrato (per es., le parti), altre come pura es-  senza (l’intero (‘'), la sintesi e la specie). Il seme, il medico,  il consigliere, in generale ciò che produce qualche effetto,  son tutte cause nel senso che da esse ha principio il muta-  mento o la quiete. Altre sono cause in quanto sono il bene  e il fine delle altre cose, poichè, ciò per cui queste sono,  vuol esser l’ottimo e il loro fine. E non si faccia differenza  qui tra il bene reale e quello apparente (?).   Tali e tante, dunque, son le specie delle cause; e anche  i loro modi(*), per quanto numerosi, si riducono a pochi  capi. Parlandosi, infatti, delle cause in molti modi, anche  di quelle d’una stessa specie, alcune son tali in grado pri-  mario, altre secondariamente: causa della salute, ad es., è    (1) «Non la somma delle parti, ma ciò che s'aggiunge a queste: l’interezza  e perfezione » (Aless. 351, 27). Così, per la sintesî. E però ciò da cui risulta costi-  tuita una cosa è da intendere, non semplicemente come «ciò di cui una cosa è  fatta » ($ 1), ma nel senso del sinolo. Materia e forma son due principiì imma-  nenti in ogni caso alla natura di una cosa (diversamente dalla causa efficiente  e finale).   (2) Il bene reale e quello apparente muovono ugualmente: «non è necessario  che una cosa sia realmente buona e piacevole perchò si desideri, ma basta che  paia » (Top., VI. 8. 146b, 36). ui   (3) Per ciascuna specie di causalità A. distingue vari modi, dei quali alcuni  sono cause più immediatamente, altri meno.    10    11    12    13    14    LIBRO QUINTO 141    il medico, e anche il pratico (‘); e dell’ottava è causa il rap-  porto di due a uno, e anche il numero; e così sempre ciò  che comprende ciascun particolare.   Ci sono, inoltre, cause accidentali (?), e generi di. esse:  per es., lo scultore è causa della statua in un senso; in un  altro, la causa è Policleto, perchè lo scultore, per avventura,  è Policleto; e così dicasi dei generi comprendenti l’accidente:  per es., causa della statua è l’uomo, o, più in generale, l’ani-  male, perchè Policleto è uomo, e l’uomo è animale. Inoltre,  degli accidenti, alcuni son cause più remote, altre più vicine:  come se uno dicesse che causa dellu statua è, non soltanto  Policleto o l’uomo, ma l’esser bianco o musico.   E tutte, poi, o che tali siano propriamente, o per accidente,  si dicono cause o perchè hanno la potenza di agire, o perchè  agiscono: per es., della casa che si costruisce la causa è chi  sa costruire, ovvero colui che la costruisce.   Similmente per gli effetti delle cause: ad es., si dirà che  una cosa è causa di questa statua qui, o di una statua, o di  un’immagine in generale, e di questo bronzo qui, o del bronzo  o materia in generale (*); e nello stesso modo per le cause  accidentali. E queste si potranno anche unire a quelle proprie,  dicendo, adesempio, non Policleto, nè lo scultore, ma Po-  licleto lo scultore.   E tuttavia tutti questi modi si riducono a sei di numero,  e di ognuno si parla in due sensi. Cause sono o quanto al    (1) Il pratico: 6 teyviuns (termine più generale). — Ciascun particolare  (xaî'éxaota): qui «individuo» e «particolare» (e così i concetti opposti corri-  spondenti di universale e generico) non sono distinti: cfr. I. 1, 9, nota.   (2) Le precedenti son cause proprie. Della statua la causa propria è lo scul-  tore, non Policleto in quanto è semplicemente un individuo umano: tanto meno  l’uomo, e tanto meno ancora l'esser bianco (ch'è un attributo di Pol. in quanto  meramente uomo). Per quest’« accidentalità » generica di uomo rispetto all’ indi-  viduo, cfr. $ 8 del I. 1, ora cit., e nota, Noto qui che ho tradotto letteralmente  sempre povorxés con musico, per comodità di espressione: è noto che il termine  greco vuol indicare anche «chi è educato nelle arti e nelle scienze», l'uomo  «colto », «istruito », ecc.   (3) Il bronzo è causa (materiale), « ma qui può esser preso, non come causa,  ma come effetto: ci può essere una causa metallica che produce il bronzo »  (Aless. 353, 17). O, come suggerisce il Ross, chi lo prepara per lo scultore.    1014 a    142 METAFISICA    particolare, o al genere di esso; ovvero quanto all’accidente,  o al genere dell’accidente; ed entrambi i modi o vengono  congiunti insieme, o si considerano separatamente. E tutte,  poi, o son riguardate in atto, o in potenza('). Con questa  differenza: che le cause in atto e quelle particolari sono e  vengon meno insieme alle cose di cui son cause: per es.,  questo medico curante insieme a costui che sta risanando,  questo costruttore (?) insieme alla casa che si sta costruendo;  invece, non è sempre così per le cause in potenza, perchè  insieme con la casa non perisce il costruttore.    CaPITOLO III.    Elemento dicesi quel primo (*) di cui risulta composta una  cosa, e la cui specie non è riducibile ad altra: come, ad  es., gli elementi della voce, dei quali risulta composta la voce,  e in cui questa si risolve alla fine; sì che essi a lor volta       (1) Parrebbe che le sei classi dovessero essere: proprie 0 accidentali, parti-  colari o generali, attuali 0 potenziali. Ma, poichè A, considera le particolari equi-  valenti alle proprie, si ha in 9-11: proprie e i loro generi, accidentali e i loro  generi, attuali e potenziali. Qui ha luogo un altro spostamento: 1) particolari  (== proprie), e 2) generalità di esse; 3) accidentali, e 4) generalità di esse; 5) par-  ticolari prese insieme con gli accidenti (lo scultore Policleto), e 6) generali prese  insieme (l’uomo pratico). Aggiungendo il criterio dell'attualità o potenzialità a  tutte sei, diventerebbero 12. Ma: a) l'unione dei primi quattro modi non è data  come necessaria; b) l'attualità non può spettare alle generalità, e in effetto A.  parla qui di cause particolari. Si che, in conchiusione, il criterio più chiaro  della classificazione è quel primo.   (2) Sott. «che sta costruendo». Nell’esempio bisognerebbe, propriamente,  considerare l’effetto nel processo del diyenire: se no, non c'è bisogno che l’in-  dividuo risanato muoia o la casa costruita rovini, per che îl medico e il costrut-  tore restino come potenze (di altri effetti). (Ric., a proposito di ‘quest'ultimo,  l'istanza del tessitore e dell'abito nel Fedone).   (3) Nel greco è aggiunto «insito» (8vurdgyovtosìi, che indica il carattere  distintivo di elemento (principii e cause possono non esser insiti). Perciò in XII.  4. 1070b, 22 si chiamano elementi la specie, la privazione e la materia. Cfr. nota  a lib. I. 8, 10. Un altro carattere è dato dall'essere specificamente indivisibile,  sì che la materia si trova negli elementi già in parte attuata e determinata:  così nei c. d. corpi semplici (divisibili quantitativamente, non qualitativamente:  una sillaba, invece, si divide in lettere qualitativamente diverse).    15    ut    LIBRO QUINTO 143    non possono più risolversi in altri di specie diversa dalla  loro, ma, quand’anche vengano divisi, danno luogo a parti  della stessa specie, così come dividendo l’acqua si ha acqua  (non così per la sillaba). Similmente, coloro che parlano degli  elementi dei corpi, intendono ciò in cui si risolvono i corpi  alla fine, e che non è riducibile più ad altro di specie dif-  ferente: e, o ne ammettano uno solo o più, questi essi chia-  mano elementi. Parimenti dicasi degli elementi delle figure  geometriche (') e delle dimostrazioni in generale: le dimo-  strazioni prime ed implicite in molte altre, quelle appunto  si chiamano elementi delle dimostrazioni: di tal futta sono i  primi sillogismi (*) risultanti di tre termini, di cui uno è il  medio. °   Di qui viene che per metafora si chiami elemento ciò che,  essendo uno e piccolo, può servire a molte cose, sì che anche  ciò ch’è piccolo, semplice e indivisibile si chiama elemento.  E di qui viene che si considerano come elementi le cose più  universali, perchè ciascuna di esse, essendo una e semplice,  si trova in molte cose, o in tutte o nel maggior numero (*):  donde, anche, l’unità e il punto sembrano ad alcuni che sian  principii. Ora, poichè i così detti generi sono universali e  indivisibili (chè di essi non si dà definizione), alcuni chiamano  elementi i generi, e più questi che le differenze, perchè il ge-  nere è più universale: infatti, dove c’è la differenza, il genere  non manca mai, ma non sempre dove c’è il genere, c’è anche  la differenza.   Tutti questi significati hanno questo in comune: che ele-  mento di ogni cosa è quel primo che la costituisce.    (1) O «proposizioni », « teoremi », « dimostrazioni », ecc,: efr. III. 3, 2.   (2) Forse «sillogismo» qui vale ragionamento in generale, e «primi sillo-  gismi» son le figure del sillogismo propriamente detto. Per il Ross sono «i sil-  logiemi primari (opposti ai soriti), aventi soltanto tre termini e un unico medio ».   (3) Questi sono universali che hanno ancora qualche contenuto; quelli son  generi sommi, indefinibili (mediante il genere e la differenza specifica): tali vo-  levan essere l'Uno e l'Ente dei Pitagorici e dei Platonici (cfr. III. 3).    1014 b    144 METAFISICA    CaritoLo IV.    Natura (') si dice, in un senso, la genesi delle cose che  hanno un lor crescimento (come se uno pronunziasse lungo  l’u di quos).   In up altro, ciò ch’è primitivo in una cosa, e da cui questa  si svolge (?).   In un altro, ciò che dà il primo movimento a ognuna  delle cose naturali, ed è immanente ad esse in quanto sono  quel che sono (°).   E diconsi avere un lor crescimento quante cose aumentano  di qualcos’altro per un contatto sì che le parti siano unite,  o aderenti, come negli embrioni, organicamente (*). Tale  unione differisce dal contatto, perchè in questo basta che le  parti si tocchino, mentre in quella c’ è qualcosa d’uno e iden-  tico tra l’una e l’altra parte, che le fa crescere insieme, in-  vece che toccarsi semplicemente, e ne fa una cosa sola in  rispetto alla continuità e quantità, ancorchè non qualitati-  vamente (5).    (1) L'argomento è trattato, similmente in Phkys., II, 1. A. vuol cavare l’eti-  mologia di quo da puo, che nella maggior parte dei tempi ha lv lungo. È  dubbio che quos avesse in origine questo significato di yévsau, oltre quello che  anche noi intendiamo per « natura» di una cosa.   (2) Forse, come pensa il Bonitz, il seme.   (3) Non estrinseco, dunque, nè appartenente alla cosa per altra considera-  zione che l’esser suo proprio (non così, per es., se uno cade),   (4) (Difficile a tradursi il cuprepuxévar e il mooorepuxévar = aver una natura  in comune, 0 una natura in rapporto con altra, intendendo di esseri viventi). Il  contatto non basta: chò questo può essere, come in un mucchio «di pietre, un  aumento materiale, non un queota: (un crescere nel senso di svolgimento). Le  parti debbono formare un'unità organica; o, se si tratta di due cose diverse  il feto, per es., nel seno della madre), esser unite vitalmente tra loro.   (5) Sembra riferirsi alla diversità delle parti di un organismo (se non anche  all’altro caso accennato, della simbiosi vera e propria). — Un altro punto un po’  oscuro è quel «qualcos'altro » in principio del paragrafo, che par accennare al  nutrimento: per questo non basta il contatto, certamente; ina il discorso che  segue non sembra più a proposito, perchè, più che la trasformazione e l’'assorbi-  mento del ‘cibo, riguarda, evidentemente, le parti di uno stesso organismo o  l'unione di due organismi (dove, poi, il processo di nutrizione, in quanto diffe-  risce dal semplice contatto, è lo stesso).    5    LIBRO QUINTO 145    Inoltre, natura dicesi ciò da cui originariamente son costi-  tuite o generate alcune cose naturali, quand’esso sia informe  e immutabile nella potenza che gli è propria: così il bronzo  dicesi natura di una statua o degli utensili di bronzo, il legno  di quelli di legno, e via dicendo: chè da essi vien prodotto  ciascuno di questi oggetti, in cui resta intatta la materia  prima ('). E nello stesso modo alcuni chiamano natura gli  elementi delle cose naturali, chi dicendola fuoco, chi terra,  chi aria, chi acqua, chi qualcos'altro simile, chi più d’una  di queste cose, chi tutte insieme.   Inoltre, natura vien chiamata, in altro senso, la sostanza (*)  degli esseri naturali, per es., da coloro che dicono la natura  esser la composizione originaria delle cose, ovvero come  Empedocle dice:    Niente, di ciò che è, ha una natura,  ma soltanto la mescolanza e separazione delle cose mescolate,  e natura è il nome dato a esse dagli uomini.    Perciò, anche, delle cose che sono o si generano per natura,  quand’anche sia presente ciò da cui naturalmente deriva il  loro essere o generarsi, diciamo che non anc
ora hanno la loro  natura, finchè non posseggono la specie e la forma.    (1) (AMa 1. 27, con la volgata, ho omesso il pù: «alcune cose [non] natu-  rali»). Resta intatta la materia prima, nel senso che il bronzo resta bronzo,  anche se con una forma che prima non aveva (onde, in certo modo, era informe).  A. con l’esempio di cose artificiali vuol dar un’idea della materia in quanto  volgarmente è considerata reale indipendentemente dalla forma: ch’è l’idea da  cui mossero i Fisiologi, studiati nel lib, I. « Dispositiones formae non salvantur  in generatione; una, enim, forma introducitur altera abiecta. Et propter hoc  formae videbantur esse quibusdam accidentia, et sola materia substantia et na-  tura, ut dicitur in 2° Physicorum » (S. Tom., 817). A. distinguerà, poi, tra materia  prima (qui non è in questo senso) e materia seconda.   (2) Sostanza, qui, è l'essere sostanziale, intimo, delle cose, riguardato dap-  prima come un cornposto originario, non quello attuale e immediato: già accen-  nante, così, secondo A., al concetto di essenza. Cfr. per Anassagora il lib. I. 8,  10-14. Per Empedocle, cfr. Diels, fr. 8, dove il passo è riferito integralmente.  A. interpreta la puoars di questi versi empedoclei come « natura permanente ». Altri,  più comunemente, pensano che E. voglia dire che non c'è, in senso assoluto, ge-  nerazione o morte di nulla, ma solo mescolarsi e separarsi dei quattro elementi.    ARISTOTELE, Metafisica. 10    1015 a    146 MBTAFISICA    Per natura, dunque, ogni cosa risulta di queste due, ma-  teria e forma: per es., gli esseri viventi e le loro parti. E na-  tura è tanto la materia originaria (e questa di due maniere:  o quella ch’è tale in rispetto a una cosa particolare, o in  generale: per es., delle opere in bronzo è materia originaria (')  rispetto a esse il bronzo, ma in generale è forse l’acqua, se  tutto quel che si può liquefare è acqua), quanto la specie e  la sostanza, che è il fine della generazione. E di qui, per  estensione di significato, si dà il nome di natura ad ogni  sostanza in generale, perchè anche la natura è una specie  di sostanza (?).   Segue dalle cose dette (*) che natura, nel suo senso pri-  mario e proprio, è la sostanza di quegli esseri che hanno in  Se stessi, in quanto tali, il principio del movimento: poichè  la materia si dice natura per la capacità di ricevere questo  principio, e così il generarsi e il crescere perchè son movi-  menti che partono di lì. E natura è in questo senso il prin-  cipio del movimento degli esseri naturali immanente a essi’  in qualche modo; o in potenza, o attualmente.    CapiToLO V.    Necessario dicesi quello senza del quale, come concausa (‘),  non si può vivere: ad es., il respirare e il cibo sono una cosa  necessaria per l’animale: non se ne può far senza.    (1) Materia originaria (se@tn), in senso generale, qui, è quella del genere  ultimo (primo) di più cose. — Tutto quel che si può fondere o Hanerare è acqua,  si dice anche nel Timeo, 58 d,   (2) Quella ch'è unita alla materia, nel processo del divenire: di qui l’esten-  sione del termine natura alla sostanza in generale (anche a quelle che son fuori  di quel processo e, come le sostanze puramente intelligibili, prive di materia).   (3) Riassume e conchiude con l’approfondimento del 3° significato, ch'è il  fondamentale. — Alessandro (960, 11): « In potenza, come l’anima nel seme; in atto,  quando sia divenuto già un animale: la forma immanente nella materia (tè Evudoy  elbos) è per tutti gli esseri naturali il principio di quel movimento ch'è la ge-  nerazione ».   (4) cuvattuov: noi diremmo «condizione » (necessaria, non sufficiente). È una  necessità designata altrove come « ipotetica » (Phys., II. 9. 199 b, 34): tale è anche,  per A., la realtà della materia rispetto alla forma.    10    LIBRO QUINTO 147    2 E quello senza del quale non può esserci o prodursi il  bene, nè si può respingere o evitare il male: il bere la medi-  cina, ad es., per risanare, e il navigare ad Egina per esigere  il danaro (').   3 Inoltre, ciò ch'è effetto di violenza e la violenza (?): cioè,  quello che impedisce o contrasta l'inclinazione e il proposito.  Di fatto, ciò ch’è per violenza si dice necessario, e perciò  anche doloroso, come anche Eveno dice: « Poichè ogni cosa  necessaria è molesta di sua natura». E la violenza è una  specie di necessità, come anche Sofocle dice: « Ma la violenza  mi fa necessariamente far ciò ». E la necessità sembra cosa  contro cui non val la persuasione, e giustamente, chè essa  è contraria al movimento che si fa secondo un proposito  ragionato.   4 Inoltre, ciò che non può essere altrimenti diciamo neces-   ‘ sario che sia così. Anzi, da questo significato del « neces-  sario» derivano in certo modo tutti gli altri: poichè allora   si dice che uno è forzato a fare o patire di necessità, quando 1016 b  non può seguire la sua inclinazione perchè gli è fatta vio-  lenza: chè quella è una necessità per la quale non si può  altro. E dicasi lo stesso per le concause del vivere e del bene:  quando non sia possibile nè il bene, nè il vivere ed esistere  senza alcune di. esse, queste sono necessarie, e la ragione di   ciò è, appunto, una specie di necessità.   5 Aggiungi, tra le cose necessarie, la dimostrazione, perchè,  se qualcosa è stato dimostrato assolutamente, non può esser  altrimenti; e causa di ciò son le premesse, dalle quali si fa  il sillogismo, se son tali che non possano esser altrimenti.   6 Delle cose alcune hanno del lor esser necessarie una causa  altra da esse; altre, no: anzi, esse son causa per cui altre    (1) Può darsi che accenni, come il Christ suppone, a un fatto ricordato in  una lettera di Platone (13*). V. Ross.   (3) Per la fila v. Età. Nic., lib. III. 1, dove il concetto è approfondito: « forzato  (Plavov: l’effetto della violenza) è ciò il cui principio è di fuori, e tale che, chi opera  o chi sopporta, in nulla vi conferisca » (Cfr. DANTE, Par., IV, 73). E per la xgoal-  geo, cap. 26 8: l'impulso, nell'azione, dev’esser guidato dalla ragione che deli-  bera sul da farsi: donde il proponimento. — Eveno: sofista e poeta, di Paro, ric.  più volte da Piatone. — Sofocle: v. Elettra, 256.    148 MBTAFISICA    sono necessarie. Laonde necessario, nel senso primo e pro-  prio, è il semplice, perchè questo non può essere in più modi,  sì che non può esser ora in un modo ora in un altro: chè  sarebbe, allora, già in molti modi ('). Se ci sono, dunque,  esseri eterni e immobili (?), nulla c’è per essi di forzato e  contro natura.    CAPITOLO VI.    Uno si dice sia per accidente, sia per se stesso (*).   Per accidente, come « Corisco e musico», e « Corisco mu-  sico » : poichè è lo stesso dire « Corisco e musico » e « Corisco  musico». Ovvero: « musico e giusto »; 0: « Corisco musico e  Corisco giusto ». Di tutte queste cose, infatti, l’uno si dice  per accidente: «giusto e musico » perchè accidenti d’una  sola sostanza, « musico e Corisco» perchè il primo è un acci-  dente del secondo. Similmente, in certo modo, anche « Corisco  musico » unito a « Corisco » fa una cosa sola, perchè in questo  discorso c’è una parte ch'è accidente dell’altra: ossia « mu-  sico» di « Corisco ». E così dicasi di « Corisco musico » unito  a «Corisco giusto », perchè entrambi hanno una parte ch’ è  accidente d’una stessa altra (*).    (1) Nota qui (come altrove, 6pesso) l'improvviso passaggio dal pensiero {dove  solo ha un senso la necessità) alle cose. L'impossibilità (la negazione) del con-  trario diventa semplicità dell'essere (l’essere in un modo solo), propria di ciò ch'è  eterno (non ora in un modo, ora in un altro). Ma, poi, tra queste cose rientrano,  come qui,tà gta, i principii delle dimostrazioni, e le pure essenze indivisibili.   (2) Se a immobili si sostituisce immutabili, tra questi esseri (o cose) eterni  ci sono anche i cieli, oltre Dio e le Intelligenze motrici. Anche in VI. 2. 1026 b,  28 la fila vien messa da parte (riguarda, infatti, l’ Etica) e la necessità posta in  opposizione all'accidente.   (3) L'uno è qui considerato nelle cose, e insieme come predicato delle cose  ossia riguarda la questione: quando è che le cose (in sè e nel discorso) hanno  unità, o accidentale (1-3), o essenziale (4-12). La distinzione deriva dal conside-  rarle unite o dalla parte degli accidenti, o dell'essenza. — Poi, si farà questione  dlel concetto in sè e per sè (19-15).   (4) Il giudizio qui è coneiderato analiticamente, anzi verbalisticamente, come  accoppiamento di due termini: a) di una sostanza con un accidente; b) di due  accidenti d’una stessa sostanza, sottintesa; c) di questa sostanza con i due acci-  denti separatamente considerati; d) di questa sostanza unita all’accidente con  la sostanza senz'altro. Il caso fondamentale è il primo.    3    LIBRO QUINTO 149    Ugualmente se l’accidente si predichi del genere o di  qualche nome universale (‘): si dica, poniamo, che «uomo >  e «uomo musico » è lo stesso: infatti, o si dice così perchè  «musico » è accidente dell’« uomo », ch’è un’unica sostanza;  ovvero, perchè entrambi sono accidenti di qualche individuo,  poniamo, di Corisco (salvo che non gli appartengono entrambi  allo stesso modo, ma l'uno, senza dubbio, come genere e nella  sostanza; l’altro, come proprietà o affezione della sostanza).  Questi sono, dunque, i modi in cui l’uno si dice delle cose  per accidente.   Invece, di quelle di cui si dice per se stesse, alcune si  dicon così perchè sono continue: poniamo, a un fascio dà  continuità la corda, ai pezzi di legno la colla; e una linea,  se, ancorchè spezzata, sia continua, si dice ch’è una; e così,  anche, ciascuna parte dell’organismo, una gamba o un braccio.  A queste stesse, tuttavia, l’uno si applica meglio se sono con-  tinue naturalmente che se son tali artificialmente.   Continuo, poi, si dice ciò di cui per se stesso il movimento  è unico (?), e non può esser diverso; ed è unico il movimento  di ciò in cui esso è indivisibile, e indivisibile nel tempo.  E continuo per sè è ciò che non è uno per contatto soltanto:  che se tu ponessi dei legni l’uno accosto all’altro, non diresti  che facciano nè un legno solo, nè un sol corpo, nè un solo  continuo di altra specie.   Ciò che, comunque, è continuo, si dice uno anche se abbia  una piegatura: meglio, tuttavia, se non l’ha: la tibia o il fe-  more, per es.; più della gamba, perchè il movimento della    (1) Il termine che fa da soggetto nel giudizio può essere, non un individuo  (come nel par. prec.), ma un genere, o un universale (questo può anche non essere  un genere reale, ma un mero xowvév, come l'uno e l'essere, o un termine negativo,  o di rapporto: cfr. nota a I. 9, 30; VII. 2, 1) — Salvo che, ecc.: dei due acci-  denti uno è essenziale: cfr. nota a I. 1, 8. — Proprietà e affezione (Eku e xhdog):  cfr. nota a I. 5,8.   (2) Cfr. Phys.,V.3-4,in cui si parla più ampiamente del continuo e dell’unità  del movimento. Il passaggio tra i due concetti (che alcuni a torto rimproverano  ad A, di unire insieme) è dato dalla concezione della natura, dianzi definita come  «la sostanza degli esseri che hanno in sè il principio del movimento », anzîi come  «il principio del movimento immanente a essi » (4, 10).    1016 a    150 METAFISICA    gamba può non esser uno. E la retta è più una di quella  piegata: anzi quella piegata e che fa angolo, la diciamo e  non la diciamo una, perchè il movimento delle sue parti può  essere, ma anche non essere, simultaneo; laddove quello della  retta è sempre simultaneo, e nessuna parte di essa, che abbia  grandezza (‘), sta ferma mentre un’altra si muove, come av-  viene in' quella piegata.   Inoltre, si dice uno, in altro senso, ciò di cui il sostrato  non ha differenze specifiche. E non l’ha in quelle cose la cui  specie sia indivisibile alla sensazione. Tale sostrato è o quello  che si presenta per primo, o l’ultimo rispetto allo stato finale:  poichè e si dice uno il vino e una l’acqua in quanto indivi-  sibili nella specie; e si dice uno di tutti i liquidi, come del-  l’olio, del vino, e di ogni cosa che possa liquefarsi, perchè il  sostrato ultimo di essi è lo stesso, essendo essi tutti acqua  o aria.   E l’unità si dice anche per quelle cose di cui unico è il  genere pur differenziato dalle opposte differenze: e tutte queste  si dice che sono una cosa sola, perchè unico è il genere che  fa da sostrato alle differenze (per es., cavallo, uomo, cane  hanno qualcosa d’uno, perchè tutti sono animali), e quasi  allo stesso modo come una è la materia (*). Talora, dunque,  l’uno si dice così di queste cose; tal’altra, quando sono le  specie infime del loro genere, si dice che sono una stessa  cosa rispetto al genere superiore: al genere, cioè, ch’è più  su del loro: così l’isoscele e l’equilatero sono la stessa e    (1) La linea retta può roteare soltanto intorno a un punto, che resti immo-   bile; della spezzata, uscendo dal piano, anche una parte vera e propria (estesa)  può restar ferma.  (2) V. par. prec. — Le linee 29-30 hanno un testo incerto, molto tormentato.  E da escludere che A. non conoscesse le regole elementari della logica ch'egli  ha insegnata alla scuola (alcuni commentatori moderni perdono, talora, questo  criterio elementare). Un senso corretto, dato il testo com'è, sembra questo: quando  si tratta delle specie infime (o generi prossimi all’individuo: cfr. III, 3, 5), la loro  unità (identità) vien riposta, nel comune modo di parlare, talora nel genere imme-  diatamente superiore (uomo e cavallo hanno in comune l’animalità), talora in  quello ch'è più su (uomo, cavallo, cane, ecc. son tutti ugualmente esseri viventi):  così, dell'isoscele e dello scaleno diciamo che sono ugualmente figure, anzichò  triangoli.    10    11    LIBRO QUINTO 151    unica figura, perchè triangoli ambedue, ma non gli stessi in  quanto triangoli.   Inoltre, uno si dice tutto ciò di cui il concetto che n’esprime  la pura essenza sia indivisibile rispetto (') a un altro espri-  mente del pari la pura essenza d’una cosa (chè per se stesso  ogni concetto è divisibile). Così, appunto, una cosa che au-  menta o decresce è una, perchè uno è il suo concetto: come  uno è il concetto della specie per le superfici.   In generale, uno è soprattutto ciò la cui intellezione è  indivisibile, e la cui pura essenza si apprende con un atto  che non può esser separato nè quanto al tempo, nè quanto  al luogo, nè quanto al discorso (°): tali, soprattutto, sono  le sostanze. Ma, universalmente parlando, diconsi esser una  sola le cose che non ammettono divisione, in quanto non  l’ammettono: poniamo, uno è l’uomo, per le cose che non  ammettono divisione in quanto a uomo; uno l’animale, se non  l’ammettono in quanto ad animale; una la grandezza, se in  quanto a grandezza.   Dunque, la maggior parte delle cose si dicono une perchè  producono o hanno o patiscono o riguardano qualcos'altro  ch’è uno (*). Ma tali in senso primario diconsi quelle di cui       (1) Il reds della |. 33 è generalmente inteso come « da »: si tratta, allora, di  due nozioni che o sono identiche perchè si riferiscono alla stessa cosa, o sono  specie dello stesso genere (quest’ultimo caso ripeterebbe quello «del par. prec.).  Credo giusta anche la mia interpretazione: diciamo uno un concetto (sebbene in  sè divisibile) per distinguerlo da un altro: e però, sia che la cosa aumenti o dimi-  nuisca, sia che il concetto ammetta diversità intrinseche (come le varie specie  di superfici), diciamo sempre ch'è lo stesso,   (2) L'atto del voùg unifica il molteplice nell'unità della sostanza, la quale  è, così, indivisibile per il luogo (individui diversi), per il tempo (in cui differisce  uno stesso individuo); indefinibile, nel senso dell’analisi logico-discorsiva. — Se  alla I. 4 si conserva il ydg (ch’io ho sostituito col 8é del cod. E), allora il pen-  siero vien unito più strettamente al precedente, dove, infatti, io ho usato il singolare  invece del plurale per non indebolire il germe speculativo profondo ch'è in esso.  Ma qui si vede bene che A. guarda, oltre che alla cosa in sè, alle cose nella loro  molteplicità: due o più cose, per quanto diverse per altri rispetti, possono coinci-  dere in un concetto specifico o generico, o per la figura. Se anche la 2» parte del par.  si volesse intendere nel senso della 1°, della cosa in sè, allora grandezza potrebbe  accennare, anzichè alla figura, al continuo: conforme alla distinzione nel par. seg.   (3) « Plurima sunt, quae dicuntur unum, ex eo quod faciunt unum: sicut plures  homines dicuntur unum, ex hoc quod trahunt navem. Et etiam dicuntur aliquaà    1016 b    152 MBTAFISIOA    ‘una è la sostanza: e questa è una o per continuità, o per  specie, o per il concetto. Infatti, noi contiamo come più di  una le cose che o non sono continue, o di cui non è unica  la specie, o non è unico il concetto.   Inoltre, per un rispetto diciamo una ogni cosa che sia    continua per quantità, ma per un altro rispetto non la di-    ciamo tale se non formi qualcosa d’intero: non abbia, cioè,  un’unica specie. Così, vedendo le parti di una calzatura,  comunque accozzate insieme, noi non diremmo che sono una  cosa sola, in ogni caso (se non sia per la continuità); sì bene  quando siano così disposte da essere una calzatura ed avere  giàuna qualche forma ('). Per ciò, anche, di tutte le linee  la più una è quella circolare, poichè intera e perfetta.   L'essenza dell’uno(*) è quella d’esser un principio del  numero. Poichè la prima misura è un principio: e ciò per  cui noi cominciamo a conoscere ciascun genere di cose,  quello è la misura prima di esso. L’uno è, dunque, prin-  cipio del conoscibile per ogni genere di cose. Ma esso non  è lo stesso per tutti i generi: qui è il diesis(*), ll la vocale  o la consonante; e altra è l’unità per il peso, altra per il  movimento.    unum, ex eo quod unum patiuntur: sicut multi homines sunt unus populus, ex e0  quod ab uno rege reguntur. Quaedam vero dicuntur unum ex eo quod habent aliquid  unum, sicut multi possessores unius agri sunt unum in dominio eius. Quaedam  etiam dicuntur unum ex hoc quod sunt aliquid unum: sicut multi homines albi  dicuntur unum, quia quilibet eorum albus est» (S. Tom., 868). — Queste cose si  dicon une riferendosi 24 altro ch'è uno. Invece, la distinzione, che segue, riguarda  direttamente le cose per la continuità (4-6), per la specie (8), per il concetto lo-  gicamente considerato 0 nell'atto del vovs (9-10). Manca l'unità per la materia (7).  E il concetto è staccato dalla specie, con cui pure altre volte coincide (ma specie,  qui, equivale a genere reale, è però il concetto si avvicina più all’universale).   (1) Nel concreto è, così, l’unità reale dei due punti di vista dell'unità: ma-  teriale (il continuo) e formale (il concetto).   (2) Si passa alla pura essenza dell'uno: alla definizione del concetto puro  (diremmo noi). Cfr. lib. X. 1, 8 8 8., dove quanto segue, e gran parte di questo ca-  pitolo, è rielaborato con maggiore chiarezza.   (9) Il diesis è l'intervallo minimo in musica: cfr. X. 1, 11-12. Non si scordi  che, sebbene qui con qualche inconveniente, ho tradotto povés con unità, ch'è  per noi il termine aritmetico corrente. Il punto ha una @&éaw, si può localiz-  zare ($ 14).    12    13    14    15    16    LIBRO QUINTO 153    Ma in ogni caso l’uno è indivisibile o per la quantità o  per la specie. Ora, l’indivisibile nella quantità (e come quan-  tità) si chiama unità, se è indivisibile in ogni verso e non    ha posto; ma se è indivisibile per ogni verso, e tuttavia ha.    un posto, si chiama punto; se divisibile in una sola dimen-  sione, linea; se in due, superficie; se in tutte e tre, corpo  (quantitativamerite considerato). E all’inverso, ciò ch’è divi-  sibile in due dimensioni, è superficie; in una sola, linea; ciò  che quantitativamente non è divisibile per nessun verso, punto  e unità: questa non ha posto, quello sì.   Inoltre, l’unità delle cose può essere o per il numero,  o per la specie, o per il genere, o per analogia: c’è unità  numerica dove la materia è unica, specifica quando unico è  il concetto, generica quando lo schema categorico è lo  stesso, analogica quando due cose stanno tra loro come  una cosa a un’altra. E i modi precedenti implicano sempre  quelli che vengon dopo: così, dove l’unità è numerica, è anche  specifica, ma dov’è specifica non sempre è numerica; e se è  specifica, è anche generica, ma, se è generica, non però è  anche specifica, sì analogica; ma se analogica, non è generica  sempre (').   È poi evidente che le cose si diranno molte in sensi Op-  posti a quelli dell’uno: o perchè non hanno continuità; o  perchè hanno una materia (sia la prima o l’ultima) che si  può dividere in varie specie; o perchè sono parecchi i con-  cetti che ne esprimono la pura essenza (?).    (1) Come bene osserva il Ross, questo paragrafo corrisponde ai $$ 7-10, così come  i precedenti 13-14 a 4-6. Prima, infatti, A. ha distinti quelli che si possono chia-  mare i vari gradi di concretezza dell'unità dal punto di vista quantitativo; qui  egli distingue i vari gradi di concretezza dell'unità dal punto di vista qualitativo.  L'unità numerica, infatti, è qui quella dell’ individuo del tutto determinato, il quale  implica in sè tutte le altre specie di unità. La più astratta di queste è l’analogica,  la quale non è sempre generica, perchè può essere tra generi diversi. — Lo schema  categorico: nota qui il termine categoria usato come equivalente a genere (le cate-  gorle, infatti, sono come i generi sommi dei predicati).   (2) La distinzione è in corrispondenza è quella dell’unità essenziale delle  cose (88 4-12).    1017 a    164 METAFISICA    CapitoLo VII.    Essere (') si dice di una cosa o per accidente, o in sè.    1    Per accidente (*): se diciamo, per es., che «il giusto è 2    musico », 0 che « l’uomo è musico», oche « îl musico è uomo »;  in senso simile a quello in cui si direbbe che il musico co-  struisce una casa, perchè a chi la costruisce accade d’esser  musico, o al musico di esser un costruttore. Dire, infatti,  », «l’intera acqua», salvo che per  traslato. E per il plurale di tutto (*), quando delle cose con- 6  siderate come unità si dice tutto, di esse si dice tutte con-  siderandole come divise: « tutto questo numero », «tutte  queste unità ».    LI    CapitoLo XXVII.    Mutilato (*) non si dice in tutti i casi d’una cosa fornita 1  di quantità: dev'essere e divisibile e un intero. Infatti, non  diciamo d’aver mutilato il due, se gli togliamo una delle due  unità (la parte mutilata nom può esser mai uguale alla ri-  manente), nè diciamo così in generale per nessun numero.  Bisogna che la sostanza rimanga: se si tratta di una coppa,  dev’essere ancora coppa. Invece, il numero non è più lo  Stesso. E non hasta neppure che una cosa sia composta di  parti dissimili, poichè il numero può avere anch’esso parti  dissimili: il due e il tre, per es. (‘). Anzi, in generale, delle  cose per le quali la situazione delle parti è indifferente, come  per l’acqua o il fuoco, nessuna può esser mutilata: per esser  tali, bisogna che le parti abbiano una situazione sostanziale.  Inoltre, che sian continue: chè l’armonia consta, bensì, di  parti dissimili, le quali hanno una ior situazione, ma non  perciò può venir mutilata. E neppur tutte le cose intere di- 2          (1) La figura in cera.   (2) aévra. Qui l'unità è totalità come somma.   (9) xo4ofiév: il concetto, qui, è quello che noi opponiamo all’#Xov inteso  come «integrità », specialmente di un organismo.   (4) Il due e il tre, nel cinque (== 2-|--3, oppure 3-+-2).    LS)    VI    LIBRO QUINTO 183    ventan mutilate col privarle di una qualunque parte. Bisogna  che questa parte non sia la principale per la sostanza (');  nè è indifferente chesi prenda di qua o di Jà: per es., se  la coppa ha un buco, non perciò si dice mutilata, ma se si  asporta il manico o un pezzetto dell’orlo. Nè si dice mutilato  un uomo se gli si levi un po’ di carne o la milza, ma un’estre-  mità; e neppure una qualunque, bensì una che asportata per  intero non cresce più: perciò i calvi non si chiamano mutilati.    CapitoLo XXVIII.    Genere si dice, in un senso, se sia continua la generazione  di esseri aventi la stessa specie: diciamo, ad es., « finchè  duri il genere umano », per dire «finchè continui la gene-  razione degli uomini». In un altro, è quello di una gente  venuta all'essere da un lor primo genitore: e così si parla  del genere degli Elleni e degli Ioni, perchè quelli vengono  dal progenitore Elleno, questi da Ione. E i discendenti pren-  don nome piuttosto dal genitore, che dalla materia (?): benchè  prendan nome anche dalla femmina, per es. quei di Pirra.  Genere, inoltre, è come il piano per le figure piane, il solido  per le solide: poichè ogni figura è un piano di questa specie,  un solido di questa specie. Genere è qui il sostrato delle dif-  ferenze. Inoltre, genere è il primo elemento costitutivo del  concetto, che si enuncia nell’essenza (*), di cui chiamansi  differenze le qualità. Genere, dunque, è usato in tutti questi  sensi: per la generazione continua di esseri della stessa specie;  per il principio generatore di esseri somiglianti; in un senso  affine alla materia (‘): poichè ciò di cui son proprie la dif-       (1) Come la testa per un animale.   (2) Dalla materia (cfr. VIII. 4, 4), la quale è fornita, nella generazione,  dalla femmina.   (3) Nella definizione.   (4) In un senso affine alla materia è il genere inteso come sostrato delle  qualità specifiche differenziali (reale e concettuale: solito passaggio dall'oggetto  al pensiero, e viceversa: di qui l’unificazione dei sensi dati in 3 e 4: cfr. VII.7,  12; VIII. 2, 8).    1024 b    184 METAFISICA    ferenza e la qualità, è appunto quel sostrato che chiamiamo  materia.   Diverse di genere sidicono quelle cose di cui diverso è  il sostrato primo ('), e l'una non si risolve nell’altra, nè  tutte due nello stesso (la forma, ad es., e la materia sono  diverse per il genere); e quelle di cui si parla secondo una  diversa figura delle categorie dell’essere (le une significano  l'essenza delle cose, altre una qualità, altre come s’è di-  stinto dianzi): chè neanche queste si risolvono le une nelle  altre, nè in qualcosa di unico.    CapitoLo XXIX.    Il «falso » dicesi, in un modo, come cosa che è falsa (*);  e questo o perchè la cosa non risulta così composta, o perchè  è impossibile che si componga così: per es., se si dica che    (1) Sostrato primo è quello immediato, se si pensa, ad cs., a ciò che può  liquefarsi (acqua), e a ciò che ha un sostrato solido (terra). Ma l’interpretazione  non è sicura. — Nello stesso: può esser inteso come «cosa» o come «concetto »:  nel 1° senso riguarda i! sostrato, e chiarisce quel che precede; nel 2° chiarisce  la parentesi, e quel che segue ‘i diversi significati, o concetti, dell'essere nelle  categorie). — S'è distinto dianzi: cap. 7, 4. ;   (2) Per A., altrove, vero e falso son nel pensiero, non nelle cose; e il pensiero  è che unisce e divide (distingue) i concetti giudicando (affermando o negando la  convenienza del predicato al soggetto): cfr. VI. 4, 3-4: IX. 10, 1 s8. — L'ordine  de' pensieri in proposito sembra dover esser questo. A. parte da un realismo  ingenuo, ch'è anche un ingenuo idealismo: realtà e pensiero si condizionano  reciprocamente, identificandosi e distinguendosi insieme, come segue: ca) Si  comincia col porre il pensiero nelle cose, e si parla di cose vere e di cose  false. Una prima riflessione avverte che il vero e falso è nel pensiero, non nelle  cose, e distingue perciò il pensiero dalle cose. Queste, allora, al sicuro da quel  pensiero che può esser falso oltre che vero, restano con una loro realtà ch'è  insieme la loro verità (eterna e immutabile nella pura essenza, contingente per  quel che di questa si traduce nella realtà in movimento). b) Il pensiero è vero 0  falso secondo che riflette in sè la realtà, o meno, delle cose. Ma nna prima rifles-  sione avverte che non sono le cose a determinare la verità o falsità del pensiero:  poichè tanto dell’essere quanto del non-essere si può pensare il vero e il falso  (IV. 7, 2). Vero e falso sono, allora, caratteri del pensiero in sè e per sè: vero è  il pensiero ch'è coerente con se stesso, falso il pensiero incoerente. Un cerchio è  cerchio, nel mio pensiero che lo definisce, in quanto lo distinguo dal triangolo:  confonder questo con quello è contraddire a quanto e’è definito.Ma, poichè il    \i    LIBRO QUINTO 185    la diagonale è commensurabile, o che tu stai seduto: di  queste due, l’una è sempre falsa, l’altra talvolta. Dette così,  queste cose non esistono. In altri casi, esistono bensi le cose,  ma di tal natura da apparire o quali non sono, o quali non  esistono: la prospettiva dipinta, ad es., e i sogni: cose, queste,  che hanno bensì una loro realtà, ma non quella di cui pro-  ducono in noi l’immagine. Le cose, dunque, si dicono false,  in questo modo: o perchè non esistono, o perchè l’immagine  che producono è di cosa che non esiste. ‘  Un concetto falso è quello che, in quanto falso, è di cose  che non sono. Perchè ogni concetto è falso se riferito a cosa  diversa da quella di cui è vero: per es., il concetto del cer-  chio è falso del triangolo. In un senso, c’è un concetto unico  di ogni cosa, quello della pura essenza; in un altro i concetti  sono molti, poichè la cosa da sè e la cosa con un’affezione  è in certo modo la stessa cosa: per es., Socrate e Socrate  musico ('). Il concetto falso, assolutamente parlando, è con-  cetto di nulla. Perciò era abbastanza sciocca l’opinione di  Antistene che di nulla si possa parlare salvo che col suo  proprio concetto, unico per un’unica cosa: donde seguiva  che non è possibile contraddire, e quasi neppure dir il falso.    pensiero è per se stesso coerenza e logicità, esso, in Sè e per sè, è sempre vero:  d’una verità eterna, immutabile, come quella della pura essenza (indivisibile), e  insieme discorsiva, per quel che di essa si traduce nel processo del conoscere  e del sapere (nella logica dei concetti). Questo è il rapporto tra il n0vs (sempre  vero) e la dianoia (vera o falsa): tra il concetto nella sun pura unità e intrin-  seca intelligibilità, e il concetto che si esplica nella molteplicità dei concetti  e delle opinioni. c) Il pensiero falso è un non-pensiero in rapporto a quel pen-  siero ch'è sempre vero. E tuttavia esso ha, e deve avere, una sua realtà, in  quel pensiero che in tanto può affermare il vero in quanto c'è il falso da negare.  Donde, allora, la realtà di questo pensiero-falso ? Donde questa decadenza del  pensiero nel falso? Pare che la soluzione debba trovarsi in qualcosa di estraneo  e tuttavia legato al pensiero: nella volontà dell’:como. Il Sofista rappresenta questo  difetto del pensiero ch'è anche un difetto morale (l'ambizione, il guadagno, ece.:  efr. «il tenore di vita» in IV. 2, 14). — La vicinanza al pensiero platonico è evi-  dente: specialmente con le indagini del Teeteto e del Sofista.   (1) La cosa nell’unità colta dal nous, e la cosa nella molteplicità delle sue  categorie (dianoia). — L'opinione di Antistene, con quell’unità-identità del con-  cetto-nome, era ben lontana dalla dottrine su esposta di A.: essa rendeva impos-  ‘ sibile la logica dianoetica, e riduceva quella noetica a mero nominalismo.    1025 a    186 METAFISICA    Invece, di ciascuna cosa si può parlare non soltanto col con-  ceito di essa, ma anche con quello di altra: anche del tutto  falsamente, senza dubbio, ma anche in modo conforme a  verità: l’otto, poniamo, dico ch’è doppio perchè ho il concetto  del due.   Queste cose, dunque, si dicono false così. Falso, poi, si  dice un uomo che abbia abilità e predilezione per simili di-  scorsi per nessun'altra ragione che per discorrere così; e chi  è capace di produrli in altri, a quel modo che diciamo false  anche le cose che producono in noi immagini false. Perciò  nell’ Ippia (') quel ragionamento, che vuol] provare come uno  stesso uomo è falso e vero, conduce fuori di strada: perchè  dà come falso chi ha la capacità di dir il falso, ch’è, poi,  colui che sa ed è sapiente; e aggiunge ch’è migliore chi è  cattivo volontariamente. Questa è la conseguenza di una falsa  induzione: chi zoppica volontariamente è migliore di chi  zoppica per forza: intendendo per zoppicare l’imitare lo zoppo;  ma se uno fosse zoppo volontariamente, egli sarebbe forse  peggiore, qui, come in cose riguardanti il costume.    CapitoLo XXX.    Accidente (?) significa ciò che appartiene a qualcosa e  può esser detto con verità, ma non necessariamente, nè per lo  più: come se uno scavando un fosso per una pianta trovasse  un tesoro. Questo, di trovare un tesoro, è davvero un acci-  dente per chi scava un fosso: non è una cosa che consegua  necessariamente dall’altra o dopo l’altra, nè chi pianta un  albero trova per lo più un tesoro. E chi ha l’abilità di suo-  nare può esser bianco, ma poichè ciò non avviene di neces-  sità, nè per lo più, diciamo ch’è un accidente. Di maniera    (1) Ippia minore, 365 ss. Platone erra, dunque: @) non distinguendo la po-  tenza dall'atto di mentire; è) reputando migliore chi erra volontariamente. Per  quest'ultimo punto, cfr. Eth. Nic., III 5.   (2) Cfr. VI, 2-9.    LIBRO QUINTO 187    che, poichè si danno tali appartenenze, e appartengono a  qualcosa, e alcune di esse solo in certi luoghi e tempi, sarà  un accidente ciò che appartiene, bensì, a qualcosa, ma non  perchè è questa tal cosa, ed è qui e ora('). Dell’accidente  non c’è nessuna causa determinata, ma è a caso, e questo  è indeterminato. È accaduto a qualcuno di arrivare ad Egina,  il quale non era partito per arrivare colà, ma cacciato dalla  tempesta o preso dai corsari. L’accidente avvenne, di certo,  e realmente, ma non per causa di se stesso, bensì in causa  di altro: perchè la tempesta fu causa che quegli arrivasse  dove non era diretto, cioè ad Egina.   Accidente, poi, dicesi anche in altro modo: di tutte quelle  proprietà, ad es., che sono di una cosa per se stessa con-  siderata, ma non appartengono alla sua sostanza (*): per  esempio, appartiene al triangolo di avere gli angoli uguali a  due retti. Questi accidenti posson essere eterni; di quegli  altri, invece, nessuno: abbiam parlato di ciò altrove.    (1) Ed è qui e ora: come l’appartenere a qualcosa non individua la sostanza  di questa tal cosa, così l’appartenere in certi luoghi e tempi non dà ragione del-  l'attualità di essa.   (2) Alla sua sostanza, o definizione: per es., del triangolo: sebbene ne de-  rivino. È compito della scienza, infatti, dimostrare, poi, le proprietà (acci-  dentali, ma in entrambi i sensi: tà aédn xal tà xa” autà cvpfefinxéta) del proprio  oggetto di studio: cfr. Anal. Post., I. 1. 75b, 1. — Abbiam parlato di ciò altrove:  pare riferirsi ad Anal. Post., I. 6. 754, 18, 0 7. 75b, 11.    1    LIBRO SESTO    CAPITOLO I.    Quel che qui si cerca sono i principii e le cause degli  esseri: s'intende, in quanto sono. Poichè c’è pure una causa  della salute e del benessere, e anche le entità matematiche  hanno principii, elementi e cause: in generale, anzi, ogni  scienza di ragionamento, o che del ragionamento si serva  almeno in parte('), versa intorno alle cause e ai principii,  pur con più o meno di esattezza e semplicità (?). Ma tutte  queste scienze son circoscritte a un ente e genere partico-  lare, e di esso soltanto trattano, nè fan nessuna parola di  ciò che è l’essere semplicemente: nè di ciò che è l’ente in  quanto tale, nè dell'essenza. Invece, le une dichiarando il  loro oggetto per mezzo del senso, e le altre (*) stabilendone  per mezzo di ipotesi la definizione, dimostrano, più o meno  debolmente, più o meno rigorosamente, le proprietà del ge-  nere preso in considerazione. È dunque evidente che da un    (1) « Videtur A. ambitum scientiae latius extendere voluisse, ut ne eae quidem  doctrinae excludantur, quae ab usu et experientia magis quam a cognitione et  notione suspensae sint»: Bonitz (p. 280).   (2) Esattezza e semplicità corrispondono al «rigorosamente » e « debolmente »  del paragrafo seguente. «Semplicità», qui, vale « mancanza di approfondimento e di  distinzione » (le cose così come si presentano immediatamente): cfr. I. 5, 22. Poco  dopo, « semplicemente » vale, invece, « assolutamente ».   (9) Le une... le altre: le fisiche e le matematiche.    1028 b    190 METAFISICA    tal metodo induttivo (') non si può aver dimostrazione nè  della sostanza nè dell’essenza, ma per esse ha da esserci  un’altra specie di conoscenza che le chiarisca. Per la stessa  ragione non dicon nulla se il genere preso a trattare esiste  o non esiste: poichè appartiene alla stessa facoltà del pen-  siero il mettere in chiaro tanto l’essenza quanto l’esistenza (°).   Ma in quanto anche la scienza fisica (°) versa intorno a  un genere dell’essere (la sostanza ch’essa studia è quella  che ha in sè il principio del movimento e dell’inerzia), è  chiaro ch’essa non riguarda nè l’agire nè il produrre (‘).    (1) La frase pare interpolata al Christ. Il riferimento par che sia Alle scienze  fisiche, come quelle che trattano della sostanza ed essenza reale, assumendola  nella materia sensibile. Di essa non posson dare dimostrazione, appunto perchè  agegunta per principio (dàuno dimostrazione delle qualità e proprietà dell’og-  getto). Il Metafisico, neanche lui, dimostra nel senso della dimostrazione, che  parte da principii per arrivare a certe conchiusioni. Essa, infatti, è la scienza dei  principii stessi, 6 però anapodittica: non nel senso dogmatico, ma in quanto si  serve «di un'altra specie di conoscenza », che « chiarisce » speculativamente quei  principii riconducendoli ai principii primi, anzi al principio primo, ch’è l’essere  în quanto essere.   Principii primi sono le quattro cause, discusse nel lib. I; ovvero, materia e  forma, potenza e atto, che verranno studiati nei libri VII-IX, e ricondotti a quello  della forma, o dell’atto (in sè e per sè: all’atto puro, come principio trascendente,  nel lib. XII). Ovvero, le categorie e gli altri concetti fondamentali întorno all’es-  sere, esposti nel lib. V., Principii primi sono anche, per il pensiero discorsivo,  gli assiomi, di cui il primo è quello di non-contraddizione, come si vide nel  lib, IV. Dal punto di vista gnoseologico, principii primi sono il singolare e gli  universali, e la loro fonte è il voùs (come principio anche dell’ato&mors: cfr. note  al. 1,409, 34)   (2) Nell'’ordine della scienza empirica A. distingue la conoscenza dell'&, da  quella del &uéti, facendo poi coincidere con quest’ultima quella del tL èotw:  efr. Anal. Post., II. 1. 89Db, 24; 2. 90 a, 14 (e qui stesso al lib. I. 1, 11). Non si dia,  tuttavia, un senso troppo moderno alla distinzione (di un contrasto tra pensiero  ed esistenza reale delle cose): l’esistenza implica già l'essenza, come il singolare  l’universale, nell'atto della percezione (immediata); e l’essenza, se non vuol esser  un xowév, si traduce nell'esistenza (immediatamente): la pura 6ssenzea è sempre  un tébde tr. Nell’8v fi 6v, poi, essenza ed esistenza s’identificano (perchè la sua  universalità è anche necessità).   (3) Anche di qui si vede l'interesse maggiore che A. ha per la fisica, più che  per la matematica: il confine, in fatti, tra alcune sue trattazioni di fisica e altre  di metafisica non è sempre chiaro.   (4) L'agire... il produrre: v. la differenza in Eth. Nic., VI. 4; e nota a I.1,16.  In entrambi, tuttavia, il principio è in noi (per la produzione: o l'intelligenza,  il pensiero razionale, o questo unito a un certo abito o potenza naturale; per  l’azione è l’Seskw, che congiunta con la ragione si fa agoalpsois: cfr. Eth. Nic.,    LIBRO SESTO 191    Poichè il principio della produzione è in chi produce: o l’in-  telligenza, o l’arte, o altra potenza; il principio dell’azione  è in chi agisce, ed è il proponimento (potendosi tradurre in  azione soltanto ciò che ci si può proporre). Per cui, se ogni  ragionamento è fatto o per l’agire o per il produrre, ovvero  riguarda la pura speculazione, la Fisica sarà una scienza  speculativa, ma speculativa di un essere tale che ha la po-  tenza di muoversi, e della sostanza tratta soltanto secondo  nozioni che valgono per lo più, non separata dalla materia (').,  Si badi di non ignorare il modo di essere della pura essenza  e del concetto, perchè, senza di ciò, è tempo perso ogni ri-  cerca. Delle definizioni e delle essenze alcune sono come  quella di « camuso » (?), altre come quella di « curvo », i quali  differiscono in questo, che in camuso è compresa sempre la  materia (camuso diciamo un naso che ha una certa curva),  la curvità, invece, è compresa senza materia sensibile. Se,  quindi, tutti gli oggetti della fisica s'intendono similmente  a camuso (ad es., naso occhio fisionomia carne osso, animale  in somma; ovvero, foglia radice scorza, pianta in somma: tutte  cose in cui non si può prescindere dal movimento, anzi neppure  sono mai senza materia) — è già con ciò chiarito il modo in  cui il fisico deve ricercare e definire l’essenza delle cose; e  perchè sia ufficio suo lo speculare anche intorno a un ge-  nere di anima, a quello che non esiste senza la materia (*).   Che dunque la fisica sia una scienza speculativa, è evi-  dente. Ma scienza speculativa è anche la matematica: se i       III. 3); laddove il principio del movimento studiato dalla fisica è nella sostanza  naturale delle cose. — Alle Il. 22 e 23 è opportuna la correzione proposta dal  Bonitz, attuata dal Ross, di rountov e rgaxtov invece di romtimov e reaxtiNbv.   (1) Il «per lo più» è proprio delle cose fornite di materia, come si dirà fra  poco; e «ogni scienza è o di ciò ch'è sempre o di ciò ch'è per lo più» (2, 12).  Mapotengo, dunque, la mia interpretazione (Bonitz, seguendo Aless.: « tratta della  sostanza per lo più come forma piuttosto che come materia, solo che non come  forma che possa esistere separata dalla materia»; Ross: «tratta della sostanza  nel senso della forma per lo più unicamente come inseparabile dalla materia»).   (2) Camuso: v. VII. 5. — Senza materia sensibile: i. e. con materia soltanto  intelligibile (6. vonti: qui, l'estensione pura).   (3) Non esiste senza materia l’anima, salvo il vovs, che non ha nessun organo  corporeo (De An., I. 1. 409 a, 16; III. 4. 4292, 24).    1026 a    192 METAFISICA    suoi oggetti siano immobili ed abbiano esistenza separata,  non abbiamo tuttavia ancora chiarito ('). Per ora si può am-  mettere come chiaro questo, che alcune delle scienze mate-  matiche considerano i loro oggetti in quanto immobili e se-  parabili. Ma se qualcosa esiste di eterno immobile e separato,  non è dubbio che la conoscenza di esso appartiene a una  scienza speculativa, la quale non sarà certamente la fisica  (che riguarda soltanto alcune cose mobili), e neppure la ma-  tematica, ma una scienza superiore ad entrambe. Infatti la  fisica studia ciò che esiste separatamente (2), ma non è im-  mobile; delle matematiche alcune studiano, invece, ciò che è  immobile, ma non separato in fine perchè esiste nella ma-  teria. Soltanto la scienza che è prima studia ciò che è se-  parato e immobile. E se tutte le cause sono necessariamente  eterne (*), queste lo saranno soprattutto, perchè esse sono  causa di quelli tra gli enti divini che risplendono nel cielo.   Le scienze filosofico-speculative son dunque tre: la ma-  tematica, la fisica, la teologia (‘). Non è dubbio che, se il  divino esiste, esso si trova in una natura quale s’è detta  dianzi, e la scienza onorevolissima deve esser questa che ha    (1) V.libri XIII e XIV, e per quel che segue, quanto alla matematica, XIII. 2-4.  Le matematiche pure studiano oggetti immobili: ricorda in III. 2, 18, dove tra  le scienze matematiche vengon citate l'astronomia, l'ottica e l’armonica (che son  più vicine alla fisica); e per la distinzione e gerarchia delle varie scienze mate-  matiche, v. IV. 2, 7 (la metafisica sta alla fisica come la matematica pura a  quella applicata).   (2) La fisica studia ciò che esiste separatamente, odolar, delle quali mostra  (dimostra) le qualità e proprietà (queste, invece, non esistono separatamente: i. @.,  non hanno una propria esistenza). Alla |. 14 i codici dànno aybguota (e allora:  la fisica studia «ciò che non esiste separato », i. e. la forma nella materia, ece.);  la correzione, in ywguotd, proposta dallo Schwegler e accettata dal Christ, dù  maggior simmetria al rapporto tra fisica matematica e teologia. — Non si scordi  che yxwguotév è una forma comune a due concetti per noi molto diversi: il sepa-  rabile e il separato.   (3) Intendi, le cause prime, i principii in generale, reali o ideali: queste (Dio  e le Intelligenze motrici) sono cause reali, e però eterne a muggior diritto an-  cora dei cieli (che son cause seconde) pur eterni.   (4) Su le ragioni del nome (già in Platone, Rep., II, 379 a) e su la superiorità  della filosofia, cfr. anche I. 2.— Se il divino esiste: il tono è, ovviamente, tut-  t'altro che dubitativo.    LIBRO SESTO 193    l’oggetto più onorevole. E come le scienze speculative son  da preferire alle altre scienze, così questa tra le speculative.   Qualcuno potrebbe domandare se la « filosofia prima» è  universale, ovvero se versa intorno a un genere determinato  e a un’unica natura di esseri (‘).       (1) Dicemmo (in nota a IV. 1, 1) che dell’essere in quanto essere, oggetto  della metafisica, si danno in A. due significati principali: l’uno in riguardo piut-  tosto alla realtà delle coso che sono oggetto del pensiéro, l’altro in riguardo  piuttosto al pensiero che le pensa.   Per il primo rispetto, studiare l'essere in quanto essere, è studiare i principii  e cause prime ci tutto ciò ch’esiste, e in primo luogo quell’ Essere primo ch'è  indipendente dalla natura e sottratto a ogni forma del divenire. Onde la meta-  fisica vien qui definita @e0%40yuxf) (6 6, e nel passo corrispondente del lib. XI. 7, 7);  e già nel lib, I. 2, 20 vedemmo dare a questa scienza il titolo di «divina», nel  duplice senso, ch'è iù degna di Dio, e ch’è del divino nel mondo. Di qui,  anche, veniva accennata la superiorità di essa alle altre scienze e conobcenze in  generale, le quali non arrivano a porsi in quella purezza, dignità e autonomia,  ch’ è propria del sapere filosofico.   In questo capitolo viene introdotta per la prima volta una distinzione netta tra  le scienze poietiche come le arti, quelle pratiche come l'etica, e quelle che sono  puramente teoretiche. La distinzione, mentre eleva le matematiche e fisiche al  novero delle scienze teoretiche, determina la differenza tra esse e la metafisica  più chiaramente in riguardo al genero de' loro oggetti. Dio è separato, esiste  indipendentemente dalla quos; e così anche le Intelligenze motrici: il divino  (si vedrà nel lib, XII) forma come un'altra « natura» o « usia ». La fisica studia  esseri che hanno un'esistenza propria, ma non sottratti al movimento; la mate-  matica studia esseri immobili, considerati separatamente, ma per astrazione, in  realtà non esistenti separatamente. Soltanto la teologia studia esseri separati e  immobili: e la perfezione di questi è ciò che dà la superiorità della metafisica su  le altre scienze teoretiche.   Una riflessione, non più teologica e oggettiva nel senso or detto, sul principio  primo di tutti i principii, ma conforme al secondo modo di considerare l'oggetto  della metafisica, mira piuttosto al lato formale delle cose. Dio è pura forma;  ma anche le cose sono in se stesse quel che sono per la forma pura, indipenden-  temente dalla materia a cui questa è unita nel sinolo. Questa non è «separata »,  ma è bene «separabile», nel senso che, pur non esistendo separatamente (contro'  il platonismo, a cui la precedente affermazione può condurre), tuttavia il suo  essere, in sè e per sè, non dipende dalla materia (è la pura essenza, o intelligi-.  bilità pura, delle cose). Qui, la differenza tra la metafisica e le altre scienze gi  presenta in altro aspetto. La fisica studia, bensì, anch'essa, ciò ch'è separabile  (la forma), ma non fuori della materia, onde le sue nozioni non hanno vera uni-  versalità, perchè la materia, com'è causa della divisione dei generi nelle cose,  così impedisce che l’universale si realizzi nella sua assolutezza. La matematica,  poi, studia bensì le cose da un punto di vista formale; ma questo è il risultato  di un'astrazione posteriore alla realtà delle cose (XIII. 3), mentre l'astrazione  del metafisico vuol cogliere il medtegov concreto di esse (XIII. 2, 12), il loro a  priori puro (VII. 1, 4; 3, 10; 17, 8-10; VIII. 3, 3-4).   Di qui, anche: soltanto la metafisica studia l’essere &xA@g ($$ 1-2). Le fisiche-    ARISTOTELE, Metafisica. 13    194 METAFISICA    Anche nelle scienze matematiche, infatti, c’ è diversità:  la geometria e l’astronomia studiano oggetti di una partico-  lare natura, e c’ è una scienza matematica universale comune  a tutte. Se, dunque, non ci fosse nessun’altra sostanza fuori  di quelle formate dalla natura, la fisica sarebbe la prima di  tutte le scienze. Ma se c’è una sostanza immobile, essa sarà  superiore alle altre, e la scienza di essa sarà la prima filo-  sofia, la quale, essendo la prima, è universale, in questo  senso. Essa avrà il compito di speculare intorno all'essere  in quanto essere: la sua essenza, cioè, e le determinazioni  che, in quanto essere, gli appartengono.    matematiche non hanno quest'assolutezza, perchò non considerano le cose per la  pura ossenza, ma quel che sono per la conoscenza sensibile (le fisiche), o per In  quantità soltanto (le matematiche), della quale formano concetti e definizioni  che hanno soltanto tale esistenza ipotetica: in entrambi i casi non trattano di  quel ch’ò il principio primo dell'esistenza di tutto ciò che dè. In conchiusione, s01-  tanto l'oggetto della metafisica ha veramente i caratteri dell’universalità e ne-  cessità: chò le altre scienze son circoscritte a un genere particolare di cose  (IV. 1), e di esso studiano gli accitlenti qualitativi o quantitativi, con quell'esat-  tezza e profondità, maggiore o minore, ch'è possibile secondo i vari genori di  cose e de’ loro accidenti: assoluta, non mai.   Il teologismo della prima concezione è d'ispirazione schiettamente platonica:  la seconda è orientata verso un concetto dell'essere analogo a quello del trascen-  dentale moderno, e, comunque, criticamente definito. Una terza concezione risulta  dall’ interferenza delle prime due: il principio formale della seconda si abbassa  al realismo della prima, e nello stesso tempo il realismo «i questa scopre nel  fondo stesso delle cose un principio ideale come in quella (ch'è ancora uno  sviluppo dell’ultimo Platone). La realtà più vera e profonda delle cose non è  quella corporea, di cui trattano le scienze fisiche e matematiche (0 come i Pre-  socratici considerarono la natura); ma è la forma che si realizza nell'universo  in una molteplicità e gradualità di forme, o pure essenze. E sarà dell'oggetto  della metafisica come di quello delle altre scienze, per es. delle matematiche:  esso avrà parti, ordinate gerarchicamente in ragione della purezza, maggiore o  minore, che ha la forma ne’ vari gradi del suo svolgimento attraverso le cose  (efr. anche IV. 2, 4 e 7). Così è anche delle parti dell'anima, il cui sviluppo va  da quella più legata al corpo sino a quel Nous, ch'è principio e fine dell'essere  nella sua pura immaterialità e perfetta intelligibilità.   In quest'ultimo paragrafo A. sembra avvertire le difficoltà di tale interferenza:  l'oggetto della metafisica differisce da quello delle altre scienze perchò di un  genere diverso? Come, allora, la metafisica è una scienza universale? E il prin-  cipio formate è unico 0 molteplice? Glì esseri non hanno un'unica natura. Ma,  Be è molteplice, non rischia, l'essere in quanto essere, di ridursi a un xowévy, 2  una mera astrazione? Per la soluzione di queste difficoltà, v. nota a VII. 11, 11.    ro    DI    4    LIBRO SESTO 195    CapiToLO II.    Dell’essere semplicemente detto si parla in molti sensi.  Di questi uno si disse (') che era quello di accidente, un  altro quello di vero (e di falso, per il non-essere). Oltre di  questi, ci sono le forme o figure dell’essere come categoria:  ciò che è una cosa, quale, quanto, dove, quando, e se altri  significati ci sono, dell’essere in. questo modo. Non basta:  l'essere si dice anche o in potenza o in atto.   Dicendosi, dunque, in molti sensi, cominciamo da quello  di accidente, per mostrare che di esso non ci può essere  scienza. Già un indizio di ciò si ha nel fatto che nessuna  scienza, nè pratica nè poietica nè teoretica, si cura di esso.  Chi fabbrica una casa, non fa insieme nulla di ciò che alla  casa può accadere poi: gli accidenti sono infiniti: nulla vieta  che la casa fatta sia piacevole agli uni, incomoda per altri,  ad altri invece sia utile, ed abbia, insomma, quelle differenze  che ha ogni cosa nel mondo: ma niente di tutto ciò riguarda  l’arte di fabbricare. Parimenti, neanche il geometra studia  simili accidenti delle figure, nè se un triangolo è diverso  dall'altro, pur che la somma degli angoli sia di due retti (?).  Ed è giusto che così avvenga, perchè l’accidente è poco più  che un nome soltanto. Per ciò Platone (*) in certo modo non  a torto assegnò alla Sofistica per oggetto il non-essere: chè  i discorsi dei Sofisti quasi sempre, si può dire, versano in-  torno all’accidente. Ad es.: se sia la stessa cosa o diversa       (1) Cfr. V. 7.   (2) Due interpretazioni sono state date: 1) quella di Alessandro (alla quale  si avvicina la mia): il geometra non cura se il triangolo da lui definito, come  quella tal figura geometrica che ha gli angoli uguali a due retti, è lo stesso di  un triangolo di legno, di pietra, ecc.; 2) quella avanzata dallo Schwegler e  difesa dal Ross: il geometra non cura questioni, come quelle che fanno i Sofisti,  per es., se dir triangolo e dir triangolo di cui la somma degli angoli è uguale a  due retti sia lo stesso, o no (il Sofista, infatti, se si risponde di sì, sostituisce alla  prima parola la dicitura seguente, e così sempre, all'infinito). Questa seconda è  più fedele alla lettera del testo, la prima è più conforme al pensiero svolto nel  paragrafo.   (3) Sofista, 237 ss.    1 026 b    196 METAFISICA    l'esser musico e grammatico; se Corisco e Corisco musico  siano lo stesso o no; ovvero sostengono che, dato che tutto  ciò che è, ma non è eterno, divenne, se uno essendo musico  divenne grammatico, si può dir anche che essendo gramma-  tico divenne musico ('); e tutti gli altri discorsi di questo  genere, dai quali si vede bene che l’accidente è qualcosa di  molto vicino al non-essere.   E anche da considerazioni di questo generè: che delle  cose che sono in altro senso c’è il processo del nascere e  ‘ perire (7), ma di quelle che sono per accidente non c’è. Tut-  tavia convien parlarne ancora, fin dove si può, per mostrare  qual*è la natura sua, e quale la sua causa. Forse chiariremo  con questo anche perchè di esso non c’è scienza.   Degli esseri ce ne sono di quelli che sono sempre a un  modo e di necessità (non intendo della necessità per vio-  lenza (*), ma di quella che consiste nel non poter essere  altrimenti), «altri non sono di necessità, nè sempre a un modo,  ma soltanto per lo più. Di qui il principio, di qui la causa  dell’esistenza dell’accidente (*). Noi, infatti, chiamiamo ac-  cidente ciò che non è nè sempre nè per lo più: per es., se  al tempo della canicola faccia un freddo invernale, noi di-    (1) Il primo sofisma vuol porre l'identità insieme alla diversità dei due ter-  mini (in quanto uno è, o no, l’una e l’altra cosa insieme). Col secondo si tenta  il processo all’infinito (come per il triangolo, in nota prec.). Col terzo, facendo  prima sostantivo l’uno dei due termini e l’altro aggettivo, e viceversa; poi, con-  frontando, si trova che uno era già primayciò che doveva diventare (il musico è  grammatico, perchè lo divenne: il grammatico ora è musico, e lo è perchè di-  venne tale. ecc.).   (2) La generazione, come processo del nascere e perire, riguarda la sostanza  propriamente, e l’accidente solo in quanto sia considerato tutt'uno con la so-  stanza (non per sè soltanto: considerato per sè, esso è come ciò ch’è casuale, e  A. infatti, unisce qui i due sigpificati come già in V. 30, 1-3). Ricorda Eth. Nic,,  II. 1: suonando si diventa suonatori, esercitandosi nel leggere e scrivere si diventa  «grammatici ».   (3) Cfr. V. 5.   (4) Quel che manca al per lo più per esser sempre a un modo è quel SuAetppa,  come dice Alessandro (451, 13), ch'è il casuale. Ovvero si dica che il fortuito  sparisce a misura che si scoprono tracce di ragione nelle cose, onde all'ugua-  glianza (logica, in astratto) di tutti i casi possibili si sostituisce, nel mondo  dell’esperienza, la probabilità, maggiore o minore, del per lo più.    1    9    10    11    LIBRO SESTO 197    ciamo sì che questo può accadere, ma non lo diciamo già  se fa un caldo soffocante: chè, questo, avviene sempre o per  lo più, quello no. E che un uomo sia bianco può ben accadere  (chè tale non è sempre, nè per lo più), ma non intendiamo  che sia animale per accidente. E può anche accadere che  un architetto guarisca qualcuno, per accidente: chè questo  non è affare di architetto, ma di medico; eppure una volta  accadde che l’architetto fosse medico. Così, un cuoco, sebbene  il fine dell’arte sua sia il piacere, potrebbe scoprire qualcosa  che giovasse alla salute, ma non in virtù della culinaria. Noi  diciamo allora: accadde; per indicare che, in quanto ci fu  chi la fece, la cosa è possibile, ma non che dipendesse  assolutamente da lui ('). Di tutte le altre cose si riesce a  trovare, di quando in quando, la potenza di produrle, ma  dell’accidente non c’è arte o potenza determinata, perchè  di ciò che è o avviene accidentalmente, anche la causa è ac-  cidentale. Poichè, dunque,non tutte le cose sono o divengono  di necessità e sempre allo stesso modo, ma la maggior parte  avviene per lo più, ecco la necessità dell’accidente: ad es.,  nè sempre, nè per lo più, chi è bianco è anche musico, ma,  siccome talora accade, sarà per accidente. Se l’accidente  non ci fosse (?), tutto al mondo avverrebbe necessariamente.   Sarà dunque causa dell’accidente la materia, la quale è  quella che può essere altrimenti da come è per lo più (3).   E di qua bisogna cominciare: — non c’è forse qualcosa  che non è nè sempre, nè per lo più? Ovvero, ciò è impossi-  bile? C'è, quindi, qualcosa oltre quel che è sempre o per lo  più, ed è ciò che capita purchessia e per accidente. Si po-  trebbe anche chiedere: forse, ciò che è per lo più esiste,  ma non l’eterno? Ovvero, esistono anche alcuni esseri eterni?  Di ciò si vedrà in sèguito; ma sin d’ora è chiaro che del-    (1) In quanto cuoco.   (2) Se l'accidente non ci fosse, il «per lo più» diventerebbe un «sempre»,  e tutto sarebbe necessario. Ma, poichè ciò non è, ecco la necessità (di ammettere  l’esistenza) dell'accidente: come vuol provare, contro chi lo neghi, con l’interro-  gazione al $ 10.   (3) La materia è principio e causa di tutto ciò ch’è indeterminato.    1027 a    198 METAFISICA    l’accidente non c’è scienza (‘'). Ogni scienza è o di ciò che  è sempre, o di ciò che è per lo più (°). Se no, come si po-  trebbe impararla o insegnarla? Bisogna bene, per definire  qualcosa, poter dire ciò che è o sempre o per lo più: po-  niamo, che l’ idromele giova, per lo più, a chi è febbricitante.  Ciò che è contro questa regola, neppure si avrà bisogno di  dirlo: se una volta — poniamo, al tempo della luna nuova —  quel medicamento non ha giovato: poichè, per dirla (*), an-  che quella eccezione dovrebbe valere o sempre o per lo più.  L’accidente, invece, è contro tutte le regole.   S'è detto, dunque, che cosa è l’accidente, e per qual  causa, e che di esso non può esserci scienza.    » CapiToLO III.    Che ci siano fatti, di cui i principii e le cause appaiono  e scompaiono, sebbene non si possa dire che nascono e pe-  riscono (‘), è evidente. Se così non fosse, dovendo esserci una  causa non accidentale del nascere e del perire, tutto avver-  rebbe di necessità. Se si chiedesse, infatti: Avverrà o non    (1) Il pensiero procede in questi paragrafi un po’ a sbalzi. Posto che non tutto è  sempre o per lo più, si dimostra cho c’è l'accidente (10). D'altronde, se si con-  ceda che c’è l’accidente ce il per lo più, come negare l’esistenza di ciò ch'è  eterno, ch'è il vero oggetto della scienza? — Si vedrà in. séguito: efr. XII, 6-8.   (2) Che ci sia scienza del per lo più, conferma anche in And/. Pr., I. 13. 32 D,  18, e in Anal, Post., I. 30. 87 b, 20; benchè la vera e propria scienza sia dell’uni-  versale e necessario (Anal, Post., I. 1. 71b, 15, e spesso altrove). — Idromele:  bevanda di miele e latte.   (3) L'eccezione, dicendola, acquista la stessa regola di ciò ch'è sempre 0  per lo più. Così ho tentato di sciogliere la difficoltà del passo, che letteralmente  suona: « poichè o sempre o per lo più anche #/ [il dire? o il fatto che avviene?)  al tempo della luna nuova », Altra interpretazione: Se una volta non giovò, poco  conta: sta il fatto che in generale conta, anche al tempo della luna nuova (così  Bonitz, che sopprime il té). Il Ross dà un senso affine al mio: l’accidente an-  ch'esso, veduto più profondamente, ha la sua legge (in fondo esso è un difetto  della nostra conoscenza, ma nella realtà, veramente, nulla è accidentale). Il Ross  unisce all'articolo l’idea del fatto, io quella del dire (questa mi par più semplice,  data la modestia dell'esempio).   (4) Non si può dire che nascono o periscono, nel senso, veduto dianzi, di un  processo, di un passare graduale (dalla potenza all’atto, o dall’attività all’abito).    12    13    LI    LIBRO SESTO 199    avverrà un tal fatto? — si risponderebbe: Sì, se ne avviene un  altro; se no, no. E quest’altro, poi, avverrà, se altro ancora  avviene. E così è chiaro che, sottraendo sempre del tempo  da un tempo limitato, si arriverà al momento attuale. Ad  esempio, costui, se esce di casa, morrà di malattia, o di  morte violenta; ed uscirà di casa, se avrà sete; e avra sete,  se altro gli avviene; e così si arriverà a ciò che avviene at-  tualmente, ovvero a qualcosa che è avvenuto in passato. Po-  niamo: egli uscirà, se avrà sete; e avrà sete, se mangia di  salato: questo, o avviene o non avviene; e costui, quindi,  morrà, o non morrà, necessariamente. Il discorso è lo stesso  se, con un salto nel passato, si comincia da un fatto avve-  nuto, perchè questo esiste già in un fatto presente. Per cui  tutte le cose future avverranno di necessità. Ad esempio:  chi vive, dovrà morire, perchè è già avvenuto questo, che    3 elementi contrari si trovano nello stesso corpo ('). — Ma se    (1) Bonghi (p. 367): «Il ragionamento di A. è molto semplice. Ogni processo  di atti, legati in qualità di causa ed effetto gli uni con gli altri, è necessario:  perciò, se non ci fossero atti tali che compariscono 0 scompariscono, senza che  la ragione del loro comparire e scomparire sia in un atto precedente, non ci  sarebbero ettetti casuali, o altrimenti, non ci sarebbero effetti se non necessari.  Adunque, perchè ci siano effetti casuali, bisogna che le cause che gli producono,  siano, operino, vengano meno senza processo «i sorta: non si generino però nè  si corrompano — cose le quali richiedono una serie di atti legati fra loro e indi-  rizzati alla generazione o alla corruzione, — ma sorgavo e cessino in un attimo  ed indipendentemente dagli atti precedenti, successivi e contemporanei, tra’ quali  s’intramette l'opera loro. Tutti gli esempi che cita, servono a mostrare appunto    ‘ che, finchè si sta in un processo, un atto ha ragione nell'altro, e non s'esce dal    giro del necessario. Bisogna spezzarlo, per avere un principio d’un atto non ne-  cessario: ora, questo è appunto il principio del casuale. Il primo esempio è d’un  fatto avvenire rispetto al presente: col quale dimostra che, se dal fatto avvenire  si potesse di mano in mano e via via passare agli atti che lo precedono fino 4  un atto o fatto attuale, quel fatto avvenire non sarà nò men certo nè men neces-  sario dell’attuale. Col secondo esempio applica il primo al passato, mostrando  che, come s'è ammesso che dall’avvenire si arriva al presente, così da questo  si risalirebbe al passato con altrettanta certezza e necessità: di maniera che in  un primo fatto già stato ci sarebbe il principio d'un’intera catena necessaria di  fatti avvenire. Ora, come per esperienza si vede che questo non è vero, codesta  catena non esiste: e la è interrotta di tratto in tratto da atti, i quali determi-  nano quello che ci ha «li ancora indeterminato in un fatto, e fanno che se ne  origini piuttosto una tale che una tal’altra serie di fatti successivi».   Questo è, infatti, il senso più giusto di questo e del paragrafo seguente. —  Elementi contrari: caldo-freddo, secco-umido.    1027 b    200 METAFISICA    egli morrà di malattia o di morte violenta, questo ancora  non è prestabilito, finchè non avvenga quel fatto determi-  nato ('). È dunque chiaro che qui si va sino a un certo  principio, e da questo non si può rimontare ad altro. Ora,  questo appunto sarà il principio che spiega come un fatto  avvenne in un modo piuttosto che in un altro, e della causa  del suo accadere non c’è altra causa. Quel che più impor-  tante resterebbe a indagare è di quale specie sia la causa ini-  ziale, a cui l’analisi del contingente ci ha ricondotto: se,  cioè, essa sia del tipo della causa materiale, o di quella finale,  o di quella efficiente (?).    (1) Finchò non avvenga quel fatto determinato, ch'è un cominciamento asso-  luto, non riducibile a una serie di atti precedenti.   (2) La materia, ha detto dianzi, è causa dell'accidente. Qui sì aggiunge che  la causa dell’accidente può esser considerata anche come attività motrice (causa  efficiente), e però in qualche modo anche finale (non formale: la forma è prin-  cipio di determinazione). Non decide altro (Alessandro e Asclepio notano giusta-  mente che la decisione dovrebb'essere in favore della causa efficiente).   Da vedere F. ‘Tocco, Il concetto del caso în A. (in Giorn. napoletano di filos.  e lett., 1877, vol. V). Pare al T. che la materia non basti a spiegare l’accidente.  © in vero, nelle rivoluzioni celesti, ad es., l’accidente non ha luogo. Intesa come  principio assolutamente indeterminato, la forma dovrebbe dominarla. Ma A. passa,  în questo concetto, dal punto di vista meramente logico a quello empirico, in cui  la materia è soltanto relativamente indeterminata, anzi essa è causa del determi-  narsi della forma: per es., ne’ vari generi del reale. Di qui la dottrina degli  attributi propri di ogni genere diyose, essenziali se riguardano la sostanza nella  sua formalità, veramente accidentali se la riguardano per la materia.   A. tratta, poi, l’accidente anche come il caso (cfr. nota a 2, 6). Dontle, per lui,  il caso? In lui predomina il concetto della causalità di tipo logico. Cfr. L. Ropin,  Sur la conception aristotélicienne de la causalité (in Archiv f. Gesch. d. Philos.,  XXIII, 1910, pp. 1 8gg.). Meglio: come un determinismo logico-teleologico (pla-  tonicumente): èv yào ti) GAy tò dvayzatov, vò d’od Evexa tv tO X6y0 (Phys., II  9, in princ.; e v, per l'argomento i capitoli molto importanti 4-6 di questo libro),  Qui, tò avayxatov è il contrario di quel determinismo. Il Greco tende alla per-  fetta razionalità della natura, ma è costretto a riconoscere un fondo irrazionale  dappertutto in essa, analogo al fato per lo vicende umane. Anche in queste ha  luogo il caso, e si chiama fortuna (von): « La fortuna è la causa per accidente  di fatti suscettibili d'esser fini, quando questi riguardano la volontà » (Phys., II.  5. 197 a 5). Prescindendo dall’u)ltima clansola, la definizione vale per ogni avve-  nimento accidentale: casuale è un fatto che può rientrare nel determinismo  logico-teleologico, ma non vien prodotto secondo questo. Cfr. VII. 7, 5; XI. 8, 8-9,   D'altra parte, il suo empirismo lo porta a un concetto della causalità di tipo  materiale-efficiente, che esige la contingenza dei fatti, l'accadere come origina-  lità del particolare. Perciò, dopo aver detto che l’accidente è poco più di un    1    LIBRO SESTO 201    CapitoLo IV.    Si lasci ora da parte l’essere per accidente: ne abbiamo  discorso abbastanza. Quanto all’essere nel senso del vero e  al non-essere nel senso del falso, essi riguardano la connes-  sione e la divisione delle nozioni, e l'unione di entrambi con-  siste nel rapporto delle parti della contradizione ('). Vero è  l’affermare ciò che è realmente unito, e negare ciò ch’ è real-  mente diviso; falso, invece, è affermare o negare la parte  contradittoria. Come poi avvenga che s’intenda unito o di-  viso, è un’altra questione: voglio dire, come avvenga che  nell’ intendere le nozioni non si seguono, unite o separate,  come in serie, ma formano un’unità. Vero e falso, infatti,  non esistono nelle cose (come se il bene fosse vero, il male  fosse senz’altro falso), ma nel pensiero: anzi, neppure in  questo, per quel che riguarda le unità semplici e le es-  senze (?).    nome, quasi un non-essere, si aftretta a difendere la necessità di ammetterlo.  (Non è nel carattere di questa filosofia addebitare il caso alla nostra ignoranza).  La natura, infatti, ha per A. una sua spontaneità (tò adtéparov), analoga all'6petwy  nelle azioni umanc. Di qui il cominciamento assoluto di certe serie di avveni-  menti. Credo meglio rifarsi di qui, che dall’interferire di processi causali diversi,  como fa il Bonghi nel passo cit. (v. anche a p. 371). Come, infatti, A. accenna  anche al principio del 'cap. 3, ci sono in natura cause che appaiono e scom-  paiono senza processo, (Ricorda che neanche dei punti, piani, ecc., nò degli istanti  nel tempo, c'è generazione: III 5, 10-11; nè delle sensazioni, secondo il De sensu,  446 b, 4; o che ancbe le anime degli animali possono esistere o non esistere senza  processo di nascita-corruzione, come si dice in Phys., VIII. 6. 258 Db, 17; ma così  anche per l’esistenza delle forme o pure essenze in generale: v. VII. 8, 3 nota;  VIII. 5, 1).   (1) Cfr. IV. 7, 1-2 e 4. Vero e falso riguardano entrambi l’essere e il non-  essere; ma qui l’essere e il non-essere si prendono nel senso del vero e del falso  (dell'esser-vero e del non-esser-vero). A lor volta, vero e falso son presi come  affermazione e negazione nell’unità del giudizio disgiuntivo che pone la contrad-  dizione, sì che, se una parte di essa è vera, l’altra è falsa, e viceversa (non si  di mezzo).   (2) De interpr., 1. 16a. 12: « Nella composizione e nella divisione consiste il  falso e il vero. Invece, i nomi per se stessi e i verbi valgono la nozione senza  composizione e divisione: come dicendo l’uomo o il bianco, quando non vi si ag-  giunga altro: chè non è vero o falso in nessun modo. E prova ne è questo: che    202 METAFISICA    Tutto ciò, dunque, che intorno all'essere e al non-essere, 4  intesi come vero e falso, si può considerare, sarà da vedere  più innanzi ('). Poichè, consistendo la connessione o la di-  visione nel pensiero e non nelle cose, v’ha differenza tra  l'essere così pensato e l’essere fondamentale delle cose (?).  (Il pensiero infatti annoda o divide l’essenza, la qualità, la  quantità, o altro modo dell’essere). Mettiamo, dunque, da  parte l’essere nel senso di accidente e l’essere nel senso del  vero: la causa di quello è indeterminabile, e la causa di que-   1028 a Sto è nella costituzione peculiare del pensiero, ed entrambi  riguardano l’essere nell’altro senso da quello che più importa,    i    anche l'ircocervo significa pur qualcosa, ma non punto nò vera nò falsa, se non  vi sì uggiunge che esiste o non esiste, o semplicemente o in un tempo ».   Le nozioni (vofpata), 0 concetti considerati soltanto nel pensiero, riguardano  una o l’altra catezoria dell'essere. Nel giudizio, il soggetto è il nome (il sostan-  tivo), l'attributo affermato o negato è il predicato (il verbo). Anche l’esistenza  è una nozione che fa da prodicato (esiste). Ma, poi, A. considera l'è ancho come  copula semplicemente, che sta a indicare soltanto la composizione delle nozioni  fatta dal pensiero: «l'essere, per sè, non è niente: significa una qualche sintesi,  la quale non si può intendere souza i componenti» (De interpr., 3. 16 Db, 24). La  composizione (ouvdeois, 0 cvuurdioxi, connessione) può, infatti, aver luogo senza  che il discorso affermi o neghi, propriamente: « Tutti i discorsi sono significativi,  ma assertivi non tutti, sì quelli in cui ha luogo l’esser nel vero o nel falso. Non  in tutti ha luogo: la preghiera, ad es., è un discorso sì, ma non dice nè vero uè  falso. La loro considerazione è più propria della retorica e della poetica» (De ia-  terpr.,4.17 a, 1). L'asserzione (&népavors) si distingue, poi, in xetdpaas e àrdpaars,  affermazione e negazione. Essa riguarda l’attività del pansiero discorsivo (dfvora),  che può esser vero o falso; laddove l’atto del vovg (l’intendere, il voeîv pr. d.)  coglie (intuisce) sempre la verità, la pura essenza delle cose, la quale è anche  l'unità del loro essere, che il pensiero (discorsivo) distinguo e separa nelle varie  forine categoriche: « L’intelleziono degl’indivisibili è di cose riguardo alle quali  non c'è errore, Dove, invece, ha luogo il vero e il falso, c'è già una certa con-  posizione di nozioni. La falsità, infatti, nasca sempre nella composizione. Ma ciò  che fa l’unità di ciascuna cosa è l’intelletto » (De An., III. 6. 430 a, 26). E l'atto  del percepire è come quello dell’intendere: «Come il vedere è vero rispetto al  suo oggetto proprio (mentre il vedere se il bianco sia un uomo, o meno, non è  sempre vero), così pure accade per le cose senza materia [come le pure essenze)»  (ivi, 430 b, 28). Cfr. quanto citammo per l'atto del percepire a IV. 5, 19 68.   (1) Cfr. IX. 10, dove la questione è ripresa più ampiamente.   (2) [td] 6v tOv xvolog: l'essere in quanto essere, in sè e per sè, ch'è l’og-  getto proprio della inetafisica. L’esser-vero e l’esser-falso riguarda, invece, la  logica (a questa, quindi, nou appartiene, propriamente, l’atto del voùsg, l’intel-  lezione «dei principii, della pura essenza e dell’esistenza: cfr. dianzi 1, 2; 6 però  neanche «dei principii logici, come si disse in IV. 3). Cfr. su la questione della  verità nelle cose e nel pensiero quanto osservammo in nota a V. 29, 1.    LIBRO SESTO 203    e però non mettono in chiaro quale sia la natura sua pro-  pria (‘). E però si lascino da parte.   Vogliamo ora considerare le cause e i principii dell’ essere  stesso in quanto essere. Ma già, quando trattammo di quanti  significati può avere ogni cosa che si dice, si notò che l’es-  sere ha molti sensi (?).    =    (1) Mi permetto di tradur così questo passo: Gupétega megl tò Aounòv yévos  TOoÙ Bvtos, xal oùx Em Bniovarv oloav (va [invece di otokv tiva) puo où bvtos.  Gli altri intendono: «Entrambi riguardano (o presuppongono, si fondano gu]  l’altro genere dell'essere [detto in proprio senso, i. e. secondo le categorie), e  non mettono in mostra nessuna natura che sia fuori dell'essere [propriamente  detto] ». MFxori: accanto, come un altro genere dell'essere, coordinato a quello  della sostanza. Manterrei all’ &&® il significato di «oggettivamente» voluto dal  Ross, ma come epesegetico qui,   (2) L’accenno è al lib. V (cap. 7). Le ultime parole paiono aggiunte per col-  legare questo libro al seguente.    1    Lo    LIBRO SETTIMO    CapiTtoLO I.    Dell’essere, come accennammo dianzi (!) dove distin-  guemmo i vari significati di questo e di altri termini, si  parla in molti sensi: da una parte, significa l’essenza e un  «che determinato »; dall’altra, quale è, o quanto, e ciascuna  delle altre cose che così si predicano. Ma, sebbene se ne  parli in tanti modi, è chiaro che l’essere principale è l’es-  senza, come quella che significa la sostanza. Quando, infatti,    (1) Lib. V. 7. Per la terminologia che segue, si ricordi che traduco general-  mente il x gotiv con essenza, e così anche tòd-elvar col dativo interno (alcuni tra-  ducono con concetto: ch'è anche giusto; ma preferisco mantenere il tono ogget-  tivo: rendo, invece, con concetto il A6yos, quando questo non esiga altro termine  più opportuno, come discorso, ragionamento, ecc.). E con pura essenza rendo il  ti fiv elvar (cfr. nota a I. 3,2). La distinzione dei due concetti non è sempre  facile: ma, per principio, la pura essenza indica, come vuole la frase aristote-  lica, un punto di vista del tutto universale, e puro, noi diremmo, da ogni rife-  rimento empirico (sebbene, per A., esso esista, poi, soltanto in quanto è un téde  t., un «che determinato »). E per rispetto alla tradizione, ma anche per lasciar  al testo la sua precisa formulazione, seguitiamo a tradurre l’otola con sostanza:  realtà è termine troppo moderno e accenna a quella contrapposizione a «pen-  siero» che in A, c’è e non c’è; essenza, come altri traduce, è pur giusta, in  quanto l'oùcia è l'essenza reale, concreta, la forma realizzata nella materia (nel  sinolo): ma, appunto per dar rilievo a questa concretezza, preferiamo tener di-  stinti i due termini. — Intanto non sfugga che, avendo A. determinato come  oggetto della metafisica l'essere în quanto essere (VI. 1, 1), la realtà in quanto  tale, il problema dell’odota veniva a porsi come fondamentale: chòù in essa si  accentrano tutti i principii d’intelligibilità del reale. Ed A. comincia col distin-  guere in essa ciò ch'è essenziale per la sua comprensione da ciò ch'è acciden-  tale, mutevole e transitorio, ovvero è una determinazione meramente negativa.    206 METAFISICA    parliamo della qualità di una certa cosa, diciamo, ad esempio,  non ch’è di tre cubiti o un uomo, ma ch’è buona o cattiva;  quando, invece, parliamo dell’essenza, non diciamo ch'è  bianca o calda o di tre cubiti, ma che è uomo o dio.   Tutti gli altri esseri si dice che sono, solo in quanto, di  ciò ch’è in quel senso, alcuni sono quantità, altri qualità,  altri affezioni, altri qualche altra cosa simile. Poniamo che  uno faccia questione se il camminare, l’esser sano, lo star  seduto, e similmente qualunque altra cosa di tal fatta, sia  ciascuno un essere o un non-essere. Nessuno di essi esiste  per natura da solo, nè può esser separato dalla sostanza.  Se, dunque, quelli diciamo che sono, a maggior ragione sarà  un essere ciò che cammina, ciò che sta seduto, ciò ch’è sano.  Questi, infatti, ci si mostrano tanto più reali perchè c’è un  essere determinato che fa loro da sostrato: questo è la so-  stanza, e l’individuo, il quale per l’appunto si presenta in  tale categoria. Se così non fosse, nessuno direbbe: è buono,  è seduto. Ora è chiaro che soltanto in grazia di questa ca-  tegoria (') esiste ciascuno degli altri esseri. Così che l’essere  primo, non questo o quel modo di essere, ma ciò che è sem-  plicemente, sarà la sostanza.   Si dice in molti sensi che una cosa è prima, ma la so-  stanza è prima in tutti i sensi: pel concetto, per la conoscenza,  per il tempo (*). Nessuna categoria, infatti, tranne la sola  sostanza, ha senso separatamente dalle altre. Ed essa è prima  quanto al concetto, perchè non c’è concetto di cosa alcuna,  che non comprenda in sè necessariamente il concetto di    (1) tavenv: si potrebbe riferire alla «sostanza» che vien prima di «cate-  goria»; ma che A. consideri qui }a oùdia come categoria è chiaro anche da quel  che segue. È vero che più spesso A. parla di categorie in riferimento ai predi-  cati della sostanza (la quale, perciò, ne è il soggetto). Ma in opposizione alla  cosa nella sua materialità anche la «sostanza» è categoria, come si dirà tra  poco (3, 7), ce il suo concetto coincide con quello di « essenza ».   (2) Facendo corrispondere questa distinzione a quella di pura essenza, es-  senza, sostanza concreta, si può accogliere l'opinione di Alessandro (461, 1) che le  parole seguenti (Nessuna categoria... altre) riguardino la priorità nel tempo (la  sostanza non è mai senza attributi, ma esiste e e’ intende prima, indipendente-  mente da quelli che ha oggi o domani).    LIBRO SETTIMO 207    sostanza. E quanto alla conoscenza, noi allora reputiamo di  sapere benissimo ciascuna cosa, quando conosciamo quel che  è: ad es., quel che è l’uomo, o il fuoco; molto meglio, per    lo meno, di quando sappiamo soltanto o quale è o quanta 0    dove: anzi, ognuna di queste stesse determinazioni noi la ve-  niamo a sapere allorquando impariamo a conoscere che cosa  è che ha quella qualità o quantità (').   In fine, quel che si è cercato fino ad ora, e che ora e  sempre si cerca, e di cui si fa questione sempre, cioè che  cos’è l’essere, vale appunto questo: che cos’è la sostanza?  Qui, alcuni rispondono ch’essa è unica, altri che ce n’è più  d’una: ‘e di questi, alcuni vogliono che le sostanze siano in  numero finito, altri in numero intinito (?). Poniamoci dunque  anche noi a questo problema, ch’è il più importante, il primo,  l’unico si può dire: vediamo quel ch’è l’essere così inteso.    CapiroLo II    Pare (*) che il modo più evidente di esistere della so-  stanza sia quello dei corpi. E però si suol dire che sostanze  sono gli animali e le piante, e le loro parti; nonchè i corpi  fisici, quali il fuoco, l’acqua, la terra, e gli altri corpi di tal  fatta; e quelli che o sono parti di essi, ovvero da essi (presi  complessivamente o parzialmente) risultano, come l’universo  e le sue parti, gli astri, la luna, il sole.    (1) Lett.: «che cos'è il quanto o il quale »; ossia, anche per queste deter-  minazioni, la conoscenza è data dall'essenza. Ma per chiarezza ho preferito tra-  durre tò mooév e tò motév come equivalente a mooév e smorsv: così auche Aless.  (461, 23) li intende due linee prima (dove il testo ha le stesse forme, con l’articolo).  La differenza è, al solito, nello scambio de’ diue concetti, affini per A., di 80-  stanza ed essenza.   (2) Nella questione della sostanza una o molteplice A. trova impegnate tutte  le scuole precedenti, da quella ionica all’eleate (una), dai Pitagorici ed Empe-  docle (molteplice finita) ad Anassagora ed atomisti (molteplice infinita).   (3) Volgarmente. Qui si fa questione, dunque, non soltanto del numero, ma  anche della natura della sostanza, o delle sostanze. Da quella prima intuizione  volgare prende lc mosse la scuola ionica.    1028 b    208 METAFISICA    Ma bisogna esaminare se queste sono le sole sostanze che  ci siano, 0 se ce ne sono anche altre (o sian tali soltanto  alcune di queste, o alcune, anche, delle altre) ('), ovvero se  di esse nessuna è sostanza, ma sostanze siano certe altre  d’altra natura. Ad alcuni (?), per es., pare che sostanze siano  i limiti determinanti ogni cosa corporea, come superficie,  linea, punto, unità: a maggior titolo, per lo meno, di ciò  ch'è corporeo e solido. Inoltre, c’è chi reputa che di sostanze  non ce ne sia nessuna fuori delle cose sensibili; e altri, in-  vece, che ce ne siano parecchie (3), e a maggior titolo, come  quelle che sono eterne. Platone, ad es., fa delle specie e degli  enti matematici due sostanze, e pone come terza la sostanza  dei corpi sensibili. Speusippo, pur cominciando dall’unità,  pone un numero maggiore di sostanze, perchè ad ognuna di  esseassegna principii diversi: uno per i numeri, ad es., e  uno per le grandezze; inoltre, un principio per la sostanza  dell'anima: ed è così che viene ad aumentarne il numero.  Alcuni, a lor volta, dicono che le specie e i numeri hanno  la stessa natura, e che da essi dipendono le altre cose: linee  e superfici, sino alla sostanza del cielo e alle cose sensibili (*).    (1) Con l'h prima del xaî (E e Ascl.) alla 1. 15, i casi son, dunque, questi: a) le  sostanze son quelle dette; d) quelle e altre; c) alcune di quelle: d) alcune di  quelle e anche alcune delle altre; e) altre.   (2) I Pitagorici. Cfr. III. 5, 4. Seguono i Fisiologi in generale, poi Platone  e i Platonici.   (3) Di genere. Altri intendono aàgiw per il numero: cfr. I. 9, 1; e XIII. 4, 4.   (4) Per Platone, non si dimentichi ch’ egli, pur avvicinando le idee alla na-  tura del numero, non le identificò mai con i numeri nel senso dei Pitagorici  (senza distinzione di sensibile e intelligibile), nè le trattò meramente come i ma-  tematici trattano i loro oggetti. — Dei Platonici si parla lungamente nei libri  XIII-XIV, ma non si fauno i nomi: sì che l'attribuzione delle particolari dot-  trine è mal sicura. Sembra che Speusippo tendesse con ulteriori distinzioni a di-  sperdere l'unità iniziale e il rapporto sistematico dei principii (per il primo ri-  spetto. cfr. XII. 7, 11, e XIV. 4.3 e 5, 1: per l'altro, la fine dello stesso XII: « co-  storo della sostanza dell'universo fanno un complesso di episodi e riescono a una  molteplicità di principii»). Secondo il Frank (cit. nel Ross), egli avrebbe distinto  dieci principii: l’unità assoluta (1), l'assoluta pluralità (2), il numero (3), la gran-  dezza spaziale (4), i corpi sensibili (5), l'anima (6), la ragione (7), il desiderio (8), il  movimento (9), il bene (10). Speusippo è ricordato anche in Etk. .Vic., 4. 1096 b, 5. —  Altri accentuarono, sembra, la tendenza opposta, dell’unificazione dei principii, non  soltanto contro Speusippo, ma più in là dello stesso Platone. Asclepio (379, 17) fa    IL    (bai    6    ni    8    LIBRO SETTIMO 209    Dobbiamo, dunque, trattenerci su queste opinioni per ve-  dere se sono giuste, o no, e quali sostanze esistono: se ce  ne siano, o no, altre (') fuori di quelle sensibili; e, se ce ne  sono, come sono; e se esiste qualche sostanza separata, perchè  e come esiste, ovvero, se fuori di quelle sensibili non ce ne  sia nessuna. Ma, prima, diciamo in abbozzo della sostanza  quel che è.    CapirtoLo III.    La sostanza vien intesa, se non in più, per lo meno in  quattro modi principali, che paiono costituire l’essere di ogni  cosa: come pura essenza, come universale, come genere, e  in fine come sostrato (?).    qui il nome di Senocrate, successore di Speusippo; e Teofrasto (fr. XII, 12) dice che  egli «abbraccia in certo modo tutte le cose dell'universo: così le sensibili come  le intelligibili, e quelle matematiche, e persino le divine ». Ad A. questa iden-  tificazione sembra la soluzione peggiore del problema lasciato in eredità dal  maestro: XIII. 8, 10.   (1) Altre ce ne sono, per A., ma non separate in quanto forme delle sostanze  sensibili stesse.   (2) L'universale, anzi, meglio, gli univ  ersali, astrattamente considerati, sono le  idee platoniche, le quali A. nega che siano sostanza (capp. 13-14): non così, na-  turalmente, quando l'universalità è carattere o valore dell’essenza. Del genere  non si parla più, e al principio del cap. 13 è del tutto dimenticato. In quanto  è un xotvév, esso equivale al xaté6Xiov, quando questo sia inteso come una gene-  ralità, e il genere, a sua volta, sia preso fuori del processo che lo realizza nelle   differenze. Così i quattro termini si riducono a tre, anzi, per la trattazione ne-  gativa dell’universale, a due: la pura essenza e il sostrato. Del sostrato si parla    .nel capitolo presente, e si dice ch'esso è materia (CAm), forma (puoogf, qui, poco    dopo esemplificato con tò oxMpua 175 ldéas, e però con significato più vicino alla  forma sensibile; ma equivalente, in fine, a eldoc, a Adyos fivev GAng, a ff xatà  tòv A6yov odola, e però anche a tò 1 Kv elvari, sinolo (tò 84 tobtov 0 BE èippolv,  tò ocvverinupévov, tò otvterov 25 elbous xal GAns). Molto frequenta è Uroxzipevov  nel primo e terzo significato, raro nel secondo (cfr. VIII. 1, 6) e da intendere  come equivalente, qui, al terzo, ch'è il significato più comune dell'oùota. Questa  è, infatti, la sostanza concreta, piena realtà del x6de , (in Cat., 5 distinta  come prima dalla sostanza seconda, ch'è la forma o specie). Di contro a essa  sta la pura essenza nella sua universalità, che vuol essere il suo principio intel-  ligibile e insieme reale. Per l’intelligibilità, è chiaro; la difficoltà sorge per  la realtà, essendo necessaria la materia per la sua realizzazione come individuo.  Di qui l’aporia del materialismo in questo capitolo, risolta da A., per ora, sol-  tanto negativamente, risolvendo la materia nel concetto dell’indeterminato, ©  però inferiore al sinolo in realtà, e tanto più alla forma ch'è, per l’intelligi-  bilità, il principio del sinolo stesso.    ARISTOTELE, Metafisica. 4    210 METAFISICA    Il sostrato è ciò di cui si predica ogni altra cosa, ma 2  1029 1 esso non è predicato più di alcun’altra. Noi dobbiamo, quindi,  cominciare la nostra trattazione da esso, perchè la sostanza  par che sia, in primo luogo, il primo sostrato di ogni cosa.  E però per un lato esso è la materia, per un altro è la forma, 3  per ultimo il loro insieme. La materia è, per es., il bronzo;  la forma, la figura ideata; il loro insieme, l’intero, la statua.  Per conseguenza, se la forma è prima della materia e reale 4  a maggior titolo, anche l’insieme d’entrambe (') sarà prima  della materia per la stessa ragione.   Noi abbiamo dato, ora, un’idea di quel ch’è la sostanza, 5  dicendo ch’essa è ciò che non viene riferito ad altro come  a sostrato, anzi ad essa vien riferito tutto. Ma non bisogna  fermarsi qui: chè non basta. Non soltanto, questo, manca  ancora di chiarezza; ma la sostanza diventa, in questo modo,  la materia. Se, infatti, non è essa la sostanza di ogni cosa,  non è facile dire che altro questa sia: togliendo tutte le de-  terminazioni (*), pare che non rimanga altro. Quelle deter-  minazioni sono soltanto affezioni dei corpi, produzioni e po-  tenze loro; e neppure lunghezza, larghezza e profondità sono  altro che certe determinazioni quantitative, e non sostanze.  Sostanza non è la quantità, ma, piuttosto, ciò a cui origi-  nariamente le determinazioni quantitative appartengono. Se  non che, tolta la lunghezza, la larghezza, e la profondità,  non si vede che resti nulla, tranne che si ammetta ch’è pur  qualcosa ciò che da quelle vien determinato. Sì che, a chi  consideri le cose in questo modo, deve necessariamente ap-  parire la materia come la sola sostanza.    (1) Se si legge voò (invece di 16), allora va tradotto: «anche dell’insieme  d' entrambe sarà prima la forma per la stessa ragione ». Ho preferito il vé perchò  la questione, in questo punto, mi pare sia quella della materia (l’usia nella sua  realtà), piuttosto che quella della forma (l’usia nella sua intelligibilità), benchè  anche questa sia giusta: come si vede dal $ 10.   (2) Ricorda il procedimento cartesiano: togliendo tutte le determinazioni  empiriche (prima le qualitative, poi le quantitative) si dovrebbe arrivare al con-  cetto puro di materia. Qui, naturalmente, si tratta della materia, non del suo  concetto, e A. non può far valere contro il materialismo altro che il suo prin-  cipio dell'esistenza determinata.    6    10    LIBRO SETTIMO | 211    Chiamo materia quella che in sè non è una cosa deter-  minata, nè una quantità, nè niun’altra delle determinazioni  dell'essere. Ci ha da essere, infatti, un qualcosa di cui cia-  scuna di esse si predica. E la sua guisa di essere sarà di-  versa da quella di ciascuna delle categorie: queste si pre-  dicano della sostanza; la sostanza, poi, della materia (').  Per cui il termine ultimo, per sè stante, in ogni cosa, non  è qualcosa di determinato, nè una quantità, nè altro; e nep-  pure la negazione di queste determinazioni, poichè anche  la negazione non esprime dell'essere altro che l’accidente.  Così, quelli che ragionano da questo punto di vista, si tro-  vano a conchiudere che sostanza è la materia. Eppure, ciò  è impossibile: perchè ognuno vede che sostanza convien che  sia, anzitutto, ciò che può esistere separatamente, ed è qual-  cosa di determinato. Parrebbe quindi che, a maggior diritto  della materia, debbano dirsi sostanza la specie, e quel che  dall’unione di materia e forma deriva.   Ma lasciamo da parte, per ora, quest’ultima, cioè la so-  stanza in quanto risulta di materia e forma insieme: che è  cosa posteriore e manifesta a tutti. Anche la materia, in  certo modo, non offre incertezze. Dobbiamo trattenerci su la  terza, su la specie (*°), perchè è essa che presenta le maggiori  difficoltà.    (1) Le altre categorie son determinazioni (secondarie o accidentali) della s0-  stanza, la sostanza esprime la determinazione (essenziale) della materia; invece,  a materia non si predica di nulla. — Tutto il passo mescola le ragioni dei ma-  terialisti con quelle di A., il quale non nega l'esistenza della materia, ma che  essa sia la sostanza. L’indeterminazione di essa non è mera negazione o priva-  zione (l'una non ha realtà affatto; l'altra non per sè, ma in quanto è in altro:  e d’altra parte, se fosse privazione, la materia avrebbe già una determinazione,  o un'indeterminazione soltanto relativa al momento ulteriore del processo for-  male: cfr. VIII. 1, 6 e 6, 11; XL. 9, 2).  (2) Come avvertimmo in nota a III 2,5 traduciamo eldog con specie quando non  è in opposizione diretta al termine materiale. Il Rolfes, seguendo S. Tom,, in-  siste molto (nel suo commento alla trad. cit.) nel distinguere in A. la forma in  quanto indissolubile dalla materia, a cui è unita, dalla forma sostanziale, che  può avere un'esistenza indipendente da essa. Negli Scolastici, infatti, è viva la  preoccupazione per le conseguenze dogmatiche. Questa preoccupazione manca  in A., assorto, qui, a polemizzare contro l'idealismo astratto del maestro, da una  parte, e contro il rozzo materialismo dall'altra. (Un’ esistenza in sè e per sè della    212 MBTAFISICA    E poichè tutti concordano in questo, che alcune di quelle 11  sensibili sono sostanze, noi dobbiamo cominciare la ricerca  1029 v in questo campo: chè è sempre utile passare per gradi a ciò  ch’è più conoscibile ('). La cultura, infatti, si acquista così: 12  attraverso le cose che sono meno conoscibili per natura si  procede verso quelle che sono per natura più conoscibili. E la  fatica è proprio in questo: come nel campo delle azioni si  deve far in modo che, partendo dal bene dell’ individuo,. il  bene generale (°) divenga il bene dell’individuo stesso; così,  qui, dalle cose che a ciascuno sono più facili a conoscere, si  deve andare a quelle che, conoscibili per natura, divengano  tali per lui stesso. Certo, quel che l'individuo conosce in prin-  cipio è spesso proprio ciò che meno è conoscibile, e che ha  poco o nulla della realtà dell’essere. Pure, conviene prender  le mosse da quelle deboli conoscenze, le quali tuttavia co-  stituiscono ciò ch’egli conosce; e sforzarsi, passando, come si  è detto, attraverso di esse, di fargli conoscere ciò ch’è cono-  scibile assolutamente.    pura forma è affermata, senz'altro, di Dio nel lib. XII; ma per l’individualità  di essa come anima umana è nota l'oscurità di A. e del pensiero greco in ge-  nerale).   Qui si dice che la difficoltà maggiore non è intorno alla materia e al sinolo:  questo è chiaro che è prime, come si disse dianzi, della materia, e ha esistenza  per sè e individualità (è qualcosa di determinato); la difficoltà grande è intorno  al principio ideale-reale del sinolo. La specie ha esistenza e individualità in sè  e per sè? In termini moderni si direbbe che la questione passa dal punto di vista  empirico a quello trascendentale. Ma il senso di questo passaggio è limitato in  A. dai termini già accennati del suo pensiero.   (1) Il testo (le prime due linee di 1029b appaiono al principio del cap. s0g.)  è stato riordinato dal Bonitz. Lo Jaeger (Arîst., pp. 204 e :s8.) per primo ha  avanzata l'importante ipotesi che questi libri VII-IX siano stati scritti dopo il  XII; e che perciò questo passo, sino alla fine del capitolo, sia un'aggiunta po-  Steriore per collegare questa trattazione, intorno alla sostanza sensibile, a quella  puramente intelligibile. Ma cfr. note a 11, 11; 16, 7.   (2) tà &40g dyodd: il bene in sè, ciò ch'è bene assolutamente (così, invece,  ho tradotto, in fine al capitolo, l'84ws), sarebbe espressione molto platonica: il  plurale dissuade. Così anche in Eth. Nic., V. 2. 1129D, 5.    1    2    u    LIBRO SHTTIMO 213    CaritoLOo IV.    Quando noi da principio distinguemmo in quanti modi Si  definisce la sostanza, vedemmo che uno di essi era quello  della pura essenza: di esso vogliamo ora trattare. E comiu-  ciamo a dirne qualcosa dal punto di vista discorsivo: la pura  essenza è ciò che di una cosa si dice in se stessa conside-  rata. Mi spiego: l’esser musico non è l’esser tuo, perchè  non per te stesso sei tu musico: quel che sei per te stesso,  dunque, quella è la tua essenza. Ma con questo non 8°è  detto tutto. Anche una superficie noi diciamo che per se  stessa considerata (') ha un colore, poniamo, bianco: ma non  così è l’in sè della pura essenza: poichè l’essere della super-  ficie non è l’essere del color bianco. E neppur l’ essere suo  vien fuori dall'unione dei due termini, dicendo ch’è una  superficie bianca. Perchè? perchè c’ è già compreso. Bisogna,  perchè si abbia la definizione della pura essenza di una cosa,  che, chi la definisce, non ne includa la nozione nella defi-{  nizione. Ne verrebbe questo: che, se all’essenza della super-  ficie appartenesse d’esser bianca, ed essa è la stessa ch’è  levigata, l’esser bianco e l’esser levigato sarebbero una sola  e medesima cosa (?).    (1) Distinguendo l’«in se stesso» dal «per se stesso», dove il greco usa la  medesima espressione (xad’ aùrté: v. V. 18, 4-6, in cui pure si accenna a questa  distinzione), si dà un po' più di luce all’argomentazione. Non tutto ciò che una  cosa è per sè, ne costituisce per questo l’essenza. Noi sappiamo, infatti, che ci  sono accidenti essenziali, per es. l'uguaglianza degli angoli di nn triangolo a due  retti; ma l'essenza del triangolo, poi, è data puramente dalla sua definizione.  La cosa in sò è il presupposto d'ogni predicazione o qualificazione (la superficie  è bianca — superficie bianca).   (2) Passo oscuro: ho seguito l’interpretazione di 8. Tom. (1314), perchè mi  eembra più intonata alla presente argomentazione (sebbene riconosca che il testo»  vien così un po’ forzato): A. direbbe che, se bianchezza e levigatezza, e così gli  altri attributi, siano pure essenziali, costituissero la pura essenza della superficie,  essi dovrebbero tutti identificarsi tra loro. Il passo va forse, come nota il Christ,  due rigbe prima (dopo «già compreso »). — Altri (e già Aless.) intendono: « Per  cui, Be poi si aggiungesse che l’esser proprio della superficie bianca consiste  nell’esser essa levigata, non si verrebbe ad altro che ad identificare l’essere del    214 METAFISICA    E poichè c’è pure una composizione (') della sostanza 6  con le altre categorie (un qualche sostrato ci vuole sempre  per ognuna: per la qualità, per la quantità, per il tempo, per  il luogo, per il movimento), è bene s’indaghi se per ognuno  di tali composti si possa far questione della pura essenza: cioè,  se anche di essi si dia una pura essenza: per es., dell’uomo  bianco, la pura essenza di uomo-bianco. A designare il com- 7  posto, diamogli un nome: per’ es., vestimento (°). In che con-  sisterà, dunque, l’essenza del vestimento? Certamente, essa  non potrà esser nessuna di quelle cose che si dicono consi-  derandole in se stesse (*).    bianco con l’essere del levigato»: si darebbe, cioè, l'essenza del bianco come  consistente nella levigatezza. Così, infatti, pare che la pensasse Democrito (De  Sensu, 4. 442 b, 11; De Gen. et Cor., I. 2. 316, 1).   (1) La sostanza, in quanto sìnolo di materia e forma, è già un cuvdetov da so  stessa. La questione, ora, è: si può parlare di pura essenza quando il ovv@etov  è della sostanza con le altre categorie? La prima risposta è negativa: si può  parlare della pura essenza dell’« uomo », non dell’«uomo-bianco ». Ma, poi, si  concede (14 s8.) che in largo senso (logico-discorsivo) si può dire che c’è una  definizione, e però una pura essenza, anche di questi composti (quando se ne  spiega il significato).   (2) Oggi diremmo: indichiamo con «x il composto. L'opportunità di ciò è  chiarita bene da S. Tom. (1317): «Et quia forte aliquis posset dicere quod albus  homo sunt duae res et non una, ideo subjungit quod hoc ipsum quod dico albus  homo, habeat unum nomen, quod causa exempli sit vestis. Tune enim, sicut hoc  nomen homo significat aliquid compositum, scilicet animal rationale, ita et vestis  significat aliquid compositum, scilicet hominem album ».   (3) Intendo che la sintesi designata con «vestimeuto » non può esser scam-  biata con quella in cui consiste Ja sostanza, o pura essenza, in sò (nell'esempio,  l’uomo in quanto animale ragionevole, non in quanto uomo bianco). Segue (8)  l'obbiezione, la quale, badando più all'espressione discorsiva, porterebbe a con-  chiudere che definendo « vestimento » come «uomo-bianco » non si cade in nes-  suno dei due errori (ivi notati) peri quali una definizione si può dire mancante,  sì che in questo senso si deve ammettere che la cosa è considerata per se stessa  (benchè secondaria, qui, la distinzione tra l'in sé e il per sé, non si scordi che  nel testo c'è anche quest'ambiguità). All'obbiezione A. risponde (9), che, anche  ammessa buona la predetta definizione in quel senso (discorsivo), non per questo  si tratta di una pura essenza, propriamente, la quale dà sempre l’&ree di un téde  ti (Ja determinazione della natura costitutiva di un’individualità: di qui la s04  stituzione frequente, nel pensiero aristotelico, della «sostanza seconda », 0 spe-  cie, alla sostanza prima, o téde tr).   Altri intendono che l’obbiezione venga fatta qui (alla fine del $ 7), e che A.  risponda a essa nel 6 8. Il testo permette, sembra, tutte due le interpretazioni  (per il senso generale la differenza, in fine, è di poco conto).    8    10    Il    LIBRO SETTIMO 215    Si può obiettare che una cosa non è considerata per se  stessa in due casi: o per via di apposizione, o al contrario.  Nel primo caso, ciò che si vuol definire lo si aggiunge ad  altra cosa: per es., volendo definire che cos'è la bianchezza,  si dice che è un uomo bianco. Nell’altro caso, c'è un’altra  cosa aggiunta a ciò che si vuol definire: per es., se vesti-  mento vuol dire uomo bianco, vestimento si definisce color    bianco. Certamente, chi è uomo bianco è un che di bianco, 1030 a    ma la bianchezza non è davvero la sua essenza.   Ma con questo si è detto che l’essere del vestimento sia la  determinazione di una pura essenza veramente? (') Non pare.  Solo ciò ch'è un «che determinato » è una pura essenza,  Quando, invece, una cosa si predica di un’altra (*), non ab-  biamo più un «che determinato »: l’uomo bianco, ad es., non  è la determinazione di un «alcunchè», una volta che tale  determinazione riguarda soltanto le sostanze. In conchiu-  sione, la pura essenza ha luogo soltanto in quelle cose di cu}  il concetto è una definizione.   E definizione non c’è finchè si adoperano parole a signi!!  ficare una cosa invece del concetto: poichè, in tal caso, tutti  i discorsi sarebbero detinizioni, e si potrebbe adoperare una  parola sola invece di un qualsiasi discorso, sì che anche  l’Iliade sarebbe una definizione (*). Invece la definizione c’è  soltanto qualora sia di ciò ch’è primo: e questo ha luogo  soltanto dove non c’è bisogno, per ragionarne, di riferire  una cosa a un’altra.    (1) Alla 1. 3: 8206; f) où.   (2) « Uomo » e « bianco » son due concetti, che restan due anche se uniti nella  sintesi «uomo bianco »; « animale » e «ragionevole », invece, esplicano il concetto  unico di uomo (equivalente per A. al t6de tu). — Aless. (467, 7 88.) nota acuta-  mente che il tne mira all'essenza nella sun unità, laddove la definizione esplica  le parti in cui quella è organizzata. Di qui la coincidenza e insieme la differenza  tra i concetti di essenza (che, in quanto sintesi empirica, o concreta, è sostanza;  © in quanto concetto può limitarsi a una designazione generica: altrimenti, equi-  vale al tne), pura essenza, definizione. Ctr. TRENDELENBURG, Gesch. der Hategorien-  lehre, pp. 34 s8; BoxiTz, pp. 311 88.   (3) I. e., della parola «Iliade ». Non si scordi che a concetto e discorso corri-  sponde lo stesso termine X6yos.    216 i MBDTA FISICA    Non potrà, quindi, la pura essenza trovarsi nelle specie  che non appartengano a un genere, anzi si troverà soltanto  in quelle che v’appartengono, perchè di quelle soltanto, evi-  dentemente, si può parlare senza riferirle ad altro come par-  tecipazione o affezione di esso, o come suo accidente (‘).  Delle altre, così come di ogni cosa, ben si può ragionare, o  con un semplice discorso o in modo più esatto, per dirne, po-  niamo, se ha un nome, che cosa questo significa, e che questo  conviene a quello. Ma non è questione, con ciò, della defi-  nizione e della pura essenza (°).   Ma forse anche per la definizione, come per l’essenza, è  bene osservare che si dice in molti modi. L’essenza, in un  primo modo, significa la sostanza e la determinazione di  qualcosa; e in altro modo, significa quale è, quanto è, e  ognuna delle altre cose che si predicano così. E in quella  guisa che l’«è» si trova in tutte le categorie, ma non ugual-  mente, perchè in una di esse ci sta in senso proprio, e nelle  altre per derivazione; così anche l’essenza, assolutamente,  appartiene alla sostanza, e al resto delle categorie soltanto  in certo modo. Noi potremmo, infatti, chiederci che cos’è  la qualità, facendo, così, anche della qualità un’essenza:  non tuttavia assolutamente, ma in quel modo come alcuni  del non-essere affermano, discorsivamente, che il non-essere  è: non assolutamente, ma in quanto è non-essere. Si dica  similmente della qualità.   Senza dubbio, è giusto che si badi anche come convien  parlare in ogni cosa, ma quel che più importa è come essa  è realmente. Oramai, dopo quel che s’è detto, dev’esser  chiaro che la pura essenza apparterrà primieramente e as-  solutamente alla sostanza; e poi anche alle altre categorie,    (1) Genere-specie (yévovs elbn) dev’ essere un processo unitario di realizzazione  della pura essenza: la qual cosa non avviene se le specie son considerate plato-  npicamente come idee di cuî il genere dovrebbe partecipare (cfr. III 3, 7); ov-  vero, secondo la dialettica sofistica, si unisca la sostanza (ciò ch'è primo: tè  xQ6tov 6v) con una qualità o un accidente di essa.   (2) Così il X6yos passa dal suo officio meramente semantico a quello apofan-  tico (De interpr., 4. 17 a, 1), e da questo a quello più logico-metafisico.    12    13    14    15    16    17    18    19    20    LIBRO SETTIMO 217    nello stesso modo dell’ essenza, non assolutamente, in quanto  è la pura essenza, ma in quanto è pura essenza della qua-  lità, o della quantità, ecc. Poichè bisogna bene che uno ci  dica se in queste categorie l’essere ci sta soltanto per omo-  nimia; ovvero se si tratta soltanto di aggiungere e togliere  (come quando si dice che anche l’ignoto fa parte del noto) (').  In verità, la risposta giusta è di negare sia la diversità, sia  l'identità del significato; e dire che la cosa sta come per  quel che diciamo « medicale », tiferendoci, sì, a qualcosa ch’ è    pur sempre una e medesima, ma non ha un unico e sempre 1030 b    lo stesso significato, senza che perciò si tratti di mera omo-  nimia: diciamo «medicale» un corpo, un’operazione, uno  stramento, non per omonimia, nè per lo stesso rispetto, ep-  pure ci riferiamo a una cosa stessa (*). (Qui non importa nulla  se uno preferisce un modo o l’altro di vedere). Quel ch'è evi-  dente, è che la definizione e la pura essenza riguardano pri-  mieramente e assolutamente soltanto le sostanze, e che, s’ esse  valgono parimenti anche per le altre categorie, ciò non è  in vero e proprio senso. Posto questo, non è detto però che’  si abbia definizione di un oggetto tutte le volte che c’è un  discorso intorno a esso, ma soltanto se ci si esprime in certo  modo, cioè se si riguarda l'oggetto come uno: non per mera  continuità discorsiva (come sarebbe ]l’ Iliade) (*), o perchè si    (1) Passo molto oscuro. Omonime son le cose che hanno lo stesso nome, ma  natura diversa (Callia, per es., e il suo ritratto); sinonime, quando la realtà o  il concetto è lo stesso (abito, per es., e vestito). Per A., qui, non si tratta nè di  mera omonimia, nò di sinonimia: poichè l'essere nella prima categoria e nelle  altre nè è identico, nè è del tutto diverso. Si tratta, invece, di aggiungere e to-  gliere: i. e. (così parrebbe che voglia dire) qualificare con un « primieramente »  e un «secondariamente » l'essere nei due casi, si che di esso si dia un più e  un meno di realtà. Così anche il non-essere delle categorie secondarie diventa  un essere: come l'ignoto è, in quanto lo ei sa tale, anch’esso noto (questo sembra  dire ciò ch’è in parentesi).   (2) V. per lo stesso concetto ed esempio, IV. 2, 1-2. Le parole che seguono  (messe da me in parentesi) paiono riferirsi alla distinzione tra il xaè° Ev e il rodc  Ev (Ross).   (3) L'esempio (giù veduto dianzi) dell'Iliade, come di ciò ch'è soltanto ouv-  deop® Ev, torna in VIII. 6, 2. Così in Anal. Post., II. 10. 93 b, 96: « Un discorso  può essere uno in due modi: o per collegamento, come l’Iliade; o perchè chia-  risce un'unica cosa da un unico punto di vista, non per accidente », E così anche  in Poet., 20. 1457 a, 29.    218 METAFISICA    adoperano congiunzioni, ma in tutto il vero e proprio senso  del termine « unità ». Questa si dice come l’essere; e l’essere  significa un che determinato, o quanta, o quale è una cosa.  Per cui, anche, ben si può parlare e dare una definizione  di  assume altrettanti signi-  ficati diversi: la soglia è tale perchè situata così, e l’esser  suo significa l’esser situata così; così come l’esser ghiaccio  vuol dire aver una certa densità. Ci sono cose di cui l’essere  potrà venir determinato anche con tutte queste differenze,  in quanto possono esser o mescolate, o combinate, o insieme  collegate, o condensate; ovvero esigono, per esser definite,  anche le altre differenze, come, ad es., una mano o un piede.  È bene, dunque, comprendere i generi delle differenze, una  volta che queste debbon essere i principii dell’esser delle  cose: queste, infatti, si distinguono per il più o per il meno,  per il denso e per il raro, e per altre qualità sì fatte: le  quali tutte, poi, sono o in eccesso o in difetto. Quando una  cosa differisce per figura, o per levigatezza o ruvidezza, tutte  queste differenze si riducono a quella del dritto e curvo.  E quando l’esser loro consiste nella mescolanza, il non essere  consisterà nella condizione opposta.   Risulta chiaro, dunque, che, se la sostanza è la causa  dell’essere di ciascuna cosa, bisognerà cercare in queste  differenze la cagione per cui ciascuna è quella che è. La  sostanza, a dir vero, non consiste in nessuna di queste dif-  ferenze, neppure se accoppiate alla materia; tuttavia esse  costituiscono in ogni oggetto quel ch’è analogo alla so-  stanza ('). E come nelle sostanze quel che si predica della    (1) Queste differenze riguardano la materia e l’accidentale più che la natura  intima delle cose, e però non ne dànno l’usia nel vero senso. — Ciò che tien le    10    LIBRO OTTAVO 265    materia è l’atto stesso, così’ anche nelle definizioni delle  altre cose è ciò che meglio ne tien le veci. Per es., se si  debba definire la soglia, diremo ch’è legno o pietra si-  tuata in -certo modo: e la casa è mattoni e legni situati  così e così (se pure in certi casi non si accenna anche allo  scopo); e se si tratta del ghiaccio, diremo ch’è acqua soli-  dificata o condensata in tal modo; e la melodia è una me-  scolanza così fatta di suoni acuti e gravi. E nello stesso  modo per gli altri casi.   Di qui si vede che l’atto è diverso e diverso il concetto,  quando la materia è diversa: chè in alcune cose ha luogo  composizione, in altre mescolanza, in altre qualche altra  delle differenze ricordate. Per cui, se uno, per definire quel  che sia una casa, dicesse che è pietre mattoni legname, di-  rebbe quel che la casa è in potenza, perchè pietre mattoni  legname sono la materia; se invece dicesse ch’è uno spazio  chiuso per riparo delle cose e delle persone, o aggiungesse  altra cosa simigliante, direbbe quel ch’è l’atto della casa.  E se uno riunisse entrambe queste determinazioni, direbbe  la sostanza nel terzo significato, quella che risulta dall’atto  e dalla materia. Par chiaro, infatti, che il concetto che si  ottiene per mezzo delle differenze, è quello della forma e  dell’atto, quello invece degl’ingredienti della cosa riguarda  piuttosto la materia. Tali erano anche le definizioni che Ar-  chita (‘) approvava, poichè esse si riferivano al composto.  Per es.: che cos’è il tempo buono? La quiete in grande  estensione di aria: qui l’aria è materia, l’atto e la sostanza  è la quiete. Che cos'è la bonaccia? È l'uguaglianza della  superficie del mare: qui il sostrato, in quanto materia, è il  mare, e l’uguaglianza della superficie è l’atto e la forma.   Con le cose discorse resta così spiegato quel ch’è la    —__&    veci dell'atto (della vera © propria forma), in queste cose considerate sensibil-  mente, sono le su dette differenze. Qui non si possono avere definizioni (delle  sostanze sensibili particolari non c'è dimostrazione, nò definizione: VII. 15, 2),  altro che in largo senso (VII. 4, 12-13).   (1) Di Taranto, famoso pitagorico, coutemporaneo di Platone. (Alla 1. 18:  èvegysiav).    1043 b    266 MHTAFISICA    sostanza sensibile e in qual modo sia: essa è tale come  materia, come forma e atto: in un terzo senso, come il loro  insieme.    CapiToLo III.    Ma si badi che talora non è chiaro se il nome della cosa  esprime la sostanza come composto, o l’atto e la forma sua:  per es., se casa significhi l'insieme, un riparo fatto di mat-  toni e pietre situate in un certo modo, ovvero semplicemente  un riparo, cioè l’atto e la forma della casa; e se linea signi-  fichi dualità in lunghezza, o semplicemente dualità ('); e  animale, anima in un corpo, o semplicemente anima. L'anima  è la sostanza e l’atto di un certo corpo, e chi dice animale  può riferirsi all’uno e all’altro significato, non perchè coin-  cidano nel copcetto, ma in quanto entrambi riguardano la  stessa realtà. Ciò per qualche rispetto non è senza impor-  tanza, ma per la nostra questione su la sostanza sensibile  non ne ha alcuna, poichè la pura essenza consiste nella  forma e nell’atto. Anima, infatti, ed essenza dell'anima son  la stessa cosa, ma non così uomo ed essenza dell’uomo, salvo  che per anima non s’intenda l’uomo: chè, allora, in un senso,  l’uomo e la sua essenza coincidono; in un altro, no.   La sillaba non si mostra nell’esser suo se uno la cerca  nelle lettere e nella loro somma; e così la casa, se uno  guarda ai mattoni e alla loro somma. Ed è giusto che sia  così, perchè la somma o la mescolanza non deriva soltanto  dalle cose sommate o mescolate (°). Similmente, in tutti gli    (1) Cfr. VII. 11, 5; e per l'identità (nel par. seg.) dell'anima e della sua es-  senza, VII. 10, 16, e 6, 14. — Ciò, si aggiunge, può avere qualche importanza,  Der es. per il fisico; non per noi (per il rispetto metafisico), ora: chò la forma è  il priocipio del sinolo ed equivalente a esso (in quanto, tuttavia, esso venga  considerato nell'unità attuale del téde n).   (2) Cfr. VII. 17, $ s8s,: qui l’apriorità della: forma (ch’è, dunque, magà tà  Gtoyela, non in senso trascendente, ma affine al nostro trascendentale) viene  estesa alle forme sensibili. « Compositio et mixtio, quae sunt formalia principia,  non constituuntur ex his quae componuntur aut miscentur, sicut nec aliquod aliud  formale constituitur ex sua materia, sed e converso »: S. Tom: (1713).    1    2    3    LIBRO OTTAVO 2ET    altri casi. Ad es., se qualcosa è una soglia per la posizione,  non la posizione si spiega con la soglia, ma piuttosto questa  con quella. E l’uomo non è semplicemente l’essere vivente  più bipede, ma deve esserci qualcosa oltre di ciò, se ciò è  preso soltanto come materia: qualcosa che non è elemento  nè un derivato da un elemento, ma è sostanza, prescindendo  dalla quale non rimane se non la materia. Se, dunque, questo  «qualcosa » è la causa dell’esser suo e della sostanza, Si  dovrà indicare in esso la sostanza stessa (').   Ora, questa o è eterna, ovvero è corruttibile senza perciò  perire, e diviene senza che perciò si possa dir prodotta.  Noi abbiamo altrove mostrato e spiegato come la specie nes-  suno la produce o genera, ma quel che si fa è un qualcosa  di determinato, e quel che si genera è l’insieme. Se poi le  sostanze delle cose corruttibili siano separabili, non abbiamo  ancora chiarito, salvo che nei casi in cui è evidente ch’è im-  possibile, e son tutti quelli in cui non può esistere la sostanza  fuori dei particolari, ad es., una casa o una suppellettile (*).  Ma forse queste non sono da riguardare come sostanze, e  insieme a esse nessuna di quante altre cose non sono pro-  dotte dalla natura: chè la natura, essa sola, si può chiamare  sostanza nelle cose corruttibili.   Perciò non è fuor di proposito la questione agitata dai  seguaci di Antistene e da altri rozzi come loro; i quali    (1) Seguendo la volgata e l’interpretazione di Alessandro (553, 7) l'accento  polemico sarebbe, non contro il materialismo, ma contro l’idealismo astratto dei  Platonici, e si tradurrebbe così: «.,... ma è sostanza: quella sostanza, a cui si  riferiscono quanti prescindono dalla materia, Se, dunque, questo qualcosa è la  causa dell'essere, e questa è la sua sostanza, essi si riferiranno (col loro prescin-  dere dalla materia) per l’appunto alla sostanza». Ma par evidente che non è  questo il senso del discorso qui. Meglio, piuttosto, mantenere, con la volgata,  anche l’oò dato da E (1. 14): « Se, dunque, questo qualcosa è la causa dell’esser  Suo, e questa è la sua sostanza, essi [prescindendo da essa) si troveranno a non  dire quel che è la sostanza stessa dell’uomo [la sua vera realtà)». Così anche  il Ross.   (2) Cfr. VII. 8, e nota a 7,3. Per A., non ostante il suo frequente esemplifi-  care con immagini prese dalla produzione dell’arte, vere e proprie sostanze sono  quelle naturali. L'uomo, infatti, può indurre forme accidentali soltanto, non es-  senziali in ciò che già esiste ed ha, quindi, una propria natura già.    1044 a    268 MBTAFISICA    dicevano ch’è impossibile definire quel che una cosa è('),  perchè definire, per essi, è un tirare il discorso in lungo,  ma si può dire e insegnare soltanto qualche qualità della  cosa: dell’argento, ad es., non ciò che è, ma che è simi-  gliante al piombo. C'è, allora, una sostanza; e di essa si dà  una definizione e un concetto: di quella cioè composta, sia  essa sensibile o intelligibile; ma non degli elementi da cui  essa risulta composta, una volta che il discorso definitorio    ‘significa che qualcosa conviene a qualche altra, delle quali    l'una dev’esser presa nel senso di materia, l’altra di forma.   Questo ci fa vedere anche che, se si vuol sostenere da  un certo punto di vista che le sostanze sono numeri, si dovrà  intendere come s’è detto, e non, come alcuni pretendono (?),  che sian collezioni di unità. Si dica pure che la definizione  è un numero, poichè infatti è divisibile e si risolve in ele-  menti indivisibili (chè i concetti non sono infiniti): proprio  come il numero. E come il numero, se tu vi sottrai o ag-  giungi qualcuno degli elementi suoi — e sia pure il più  piccolo —, non è più lo stesso numero, ma un altro; così,    ——_ —_———    (1) Se la sua essenza è semplice (v. VII. 10, 17), anche per A. è oggetto di  vénows, non di 6propdc. Ma qui il discorso va ripreso dal $ 4, come una prova  ‘che il principio di una cosa non è dato da una sonma di elementi. Benchè gli  Antistenici (per i quali, v. Teeteto, 201 e; e lib. V. 29, 2) intendessero ben altro  (la definizione è, per essi, una évopétov cvurioxi, che allunga in un A6y0g paxeés  quella parola unica che sola è propria della cosa: nota, per un confronto, il caso  aristotelico di una definizione meramente verbale, come di «Iliade »). Anzi, A. ne  trae argomento (nel par. seg.) per confermare la validità della definizione, la  quale non è somma (animale + bipede), ma rapporto formale di genere (materia)  a specie (forma). Ovvero, s’intenda la definizione nel senso di VII, 4, 13.   (2) Platone e Platonici pitagorizzanti, identificando le idee con i numeri, e  considerandole insieme come usie e universali, davano anche del processo dofi-  nitorio una ragione matematica. A. oppone alla concezione di un molteplice come  aggregato (e tale è l'idea in quanto usia composta di usie: cfr. n. a VII. 15, 6) la  sua concezione di un molteplice organico, e a quella dell’unità astratta (0 tale è  l’idea in quanto universale) la sua concezione dell'unità concreta. Questi para-  grafi, duuque, sono strettamente legati a quanto precede e il capitolo non è,  come sembra (v. Ross, p. 231), una collezione di pensieri sconnessi (lo stesso $ 5,  che sembra interrompere la continuità del ragionamento, è suggerito da quanto  precede circa l'apriorità della forma, che per A. è legata alla questione della  sua eternità, o meno; e introduce il concetto dell’unità viva, naturale, della  sostanza).    10    11    12    x LIBRO OTTAVO 269    neppure la definizione e la pura essenza è più la stessa, se vi  togli o aggiungi qualcosa. E anche pel numero ci ha da esser  qualcosa che gli dà unità; ma quel ch’esso sia, per cui il  numero, se possiede unità, è uno, non trovano modo di dire.  Poichè o il numero non ha unità, ed è come un mucchio;  ovvero, se è uno, debbono dirci che cos’ è quel che del mol-  teplice fa un’unità. E poichè la definizione similmente pos-  siede unità, neppure di es sa sanno rendersi conto. Ed è natu-  rale che avvenga così, perchè la ragione è la stessa: la  sostanza è una nello stesso senso, non, come intendono alcuni,  quasi fosse una specie di unità o di punto, ma perchè cia-  scuna è atto in atto compiuto e una natura determinata.  E come il numero non ammette un più e un meno nell’esser  suo, così neppure la sostanza in quanto forma; ma, se mai,  in quanto è unita alla materia (*).   Bastino queste considerazioni intorno alla generazione e  corruzione delle sostanze suddette, in qual senso è possibile  e in quale no, e intorno alla riduzione di esse al numero.    CariToLO IV.    Per quanto riguarda la sostanza materialmente conside-  rata, non si deve trascurare che, se anche tutto viene da  uno stesso elemento primitivo o dagli stessi elementi primi-  tivi, e una medesima materia serve da principio alla gene-  razione delle cose; pure, c’è una materia propria di ciascuna  di esse. Per es., materia, immediatamente, della flemma sono  elementi dolci e grassi, della bile elementi amari o altri che  siano: anche se hanno la stessa origine. Per uno stesso og-  getto ci possono esser più materie, quando una sia materia  dell’altra: poniamo, la filemma si può dire che vien tanto    (1) La sostanza è esattamente (puntualmente, quasi matematicamente) quel  che è. Ci può esser un più o un meno nel suo essere, se mai, considerandola dal  lato materiale (in quanto, poniamo, non ha ancora realizzata pienamente ia sua  forma).    10414 b    270 METAFISICA  \   dal grasso quanto dal dolce, se il grasso deriva dal dolce;  e si può anche dire che vien dalla bile, se si risolve questa  sino alla sua materia prima. Poichè una cosa si dice che  viene da un’altra in due sensi: o nel senso che l’una è uno  svolgimento dell'altra, o perchè segue all’altra risolta ne’ suoi  elementi ('). Può darsi poi, che la materia sia la stessa,  eppure, mercè la causa motrice, divenga cose diverse, per  es., il legno può diventare tanto un armadio che un letto.  Per alcune cose affatto diverse ci vuole di necessità una  materia diversa: ad es., un’ascia non si potrebbe fare di  legno, e non è questione qui della causa motrice, perchè  nessuno potrebbe fare un’ascia con lana o legno. Se, quindi,  c’è modo di fare uno stesso oggetto di materia diversa, è  chiaro che l’arte e il principio motore è lo stesso. Che se  così la materia come il motore son diversi, anche il prodotto  è diverso.   Quando si domandi quale è la causa di una cosa, po-  tendo di causa parlarsi in molti sensi, bisogna enumerare  tutte quelle che possono far al caso. Per es.: qual’è la causa  dell’uomo in quanto materia? Certamente, il menstruo. Che  cosa fa da motore? Lo sperma, per l’appunto. Quale, da  forma? La pura essenza. Quale, da scopo? Il fine dell’uomo.  Si può dire che queste due ultime cause coincidano. Bisogna,  poi, delle cause addurre quelle più vicine, e se si chiede la  materia, non rimontare al fuoco e alla terra, ma a quella  ch’è propria.   Per le sostanze naturali, dunque, e soggette a generazione  è necessario procedere così, se si vuole procedere dirittamente,  dato che tali e tante sono le cause, e che noi dobbiamo co-  noscere le cose per le loro cause. Ma per le sostanze che,  sebbene naturali, sono eterne, la questione è diversa. Alcune  probabilmente, non hanno materia, o almeno non l’hanno  come quella ricordata, ma una materia mutabile soltanto  spazialmente. E neppure per quante cose avvengano natu-  ralmente, ma non sono sostanze, non si può far questione    —T—    (1) Cfr. II. 2, 6; V. 4,2.    LIBRO OTTAVO 271    di materia: in esse è la sostanza soggetta al fenomeno che  fa da sostrato. Poniamo che si cerchi la causa dell’eclissi.  Qual’è la materia? Non c’è la materia, ma c’è la luna  che subisce l’eclissi. Quale la causa motrice dell’eclissi, e  che sottrae la luce? La terra. Quanto allo scopo, non pare  che sia da parlarne('). La causa formale è il concetto, ma  esso resta oscuro, se non è accompagnato dalla causa.  Per es., che cos’è l’eclissi? Privazione di luce. Se si ag-  giunge che ciò avviene perchè la terra s’interpone nel mezzo  tra il sole e la luna, allora questo è un concetto accompa-  gnato dalla causa (?). Quanto al sonno, non è chiaro quale  sia il suo primo sostrato. Che altro — si può dire — se non  l’animale? Certo, ma da qual punto di vista considerato?  e qual è l’organo ch’è propriamente affetto? Il cuore, o un  altr’organo. Poi: da che cosa è prodotto? Anche: qual’è  l’affezione propria, non dell'organismo intero, ma di quel-  l'organo? Si dirà ch’è una specie d’immobilità? Sì, ma per  quale affezione propria e primitiva di un organo ha luogo  quell’ immobilità?    CapPiTtoLO V.    Poichè alcune cose esistono senz’esser generate, o non  esistono senza che perciò siano perite, ad es., il punto (*)  (dato che si possa parlare della sua esistenza) e, in gene-  rale, le specie e le forme; e poichè non la bianchezza di-  viene, ma il legno bianco — se ogni cosa che si genera, si  genera da qualcosa e diviene qualcosa —; non basta, dunque,  che ci siano due contrari perchè si generino l’uno dall’altro:  un uomo nero diventa bianco, ma non si può dir nello stesso             (1) «Il movimento del sole è, senza dubbio, Evexé tov, e così quello della luna;  ma i due, agendo insieme, possono produrre un risultato che non è Évexé tou»  (Ross, a q. l.): l'eclissi è, dunque, un esempio di quel taùrépatov, di cui si parlò  in VI. 2-4 e VII. 7.   (2) Efficiente: che, in questi casi, si accompagna alla formale in sostituzione  della finale (Ilnddove, nelle cose che si generano secondo natura, la causa for-  male è insieme finale, $ 4, anzi efficiente-finale).   (3) Cfr. III. 5,10.    3045 a    272 METAFISICA    modo che il nero diventi bianco. Aggiungi che non in ogni  cosa c’è materia, ma in quelle soltanto che si generano e  passano le une nelle altre: tutte quelle che ci sono o non  ci sono, senza quel passaggio, non hanno materia. Sorge  qui la questione: come si comporta la materia di ogni cosa  rispetto ai contrari? Per es., se il corpo ha in potenza la  salute, e alla salute è contraria la malattia, ha, dunque, in  potenza tutte due? E l’acqua è in potenza vino e aceto?  Ovvero essa è materia del primo secondo la sua natura e  per rispetto alla forma, e del secondo per privazione e per  una degenerazione contro natura? Si può domandare anche  perchè, sebbene l’aceto venga dal vino, il vino non è ma-  teria dell’aceto e aceto in potenza. E l’essere vivente, simil-  mente, è forse un cadavere in potenza? Non pare: la dege-  nerazione non è mai sostanziale; ma è la materia dell’essere  vivente quella che nella degenerazione è materia e potenza  del cadavere, così come l’acqua dell’aceto. L'una cosa, qui,  vien dall’altra nello stesso modo, che la notte dal giorno (!).  Quando il passaggio tra gli opposti è in questo modo, bi-  sogna rimontare sino alla materia d’entrambi: per es.,  affinchè dal morto si generi il vivo, bisogna che quello ri-  torni prima alla materia, e da questa poi si avrà il vivo;  e l’aceto ridivenga acqua, per poi diventar così vino.    CaPITOLO VI.    Ripigliamo la questione sollevata intorno alla definizione  e al numero: qual’è la causa della loro unità? Poichè tutte  le volte che le cose hanno parti molteplici e il tutto non è    (1) Cfr. XII. 4, 5: l'aria è la loro materia comune. Questa, dunque, può  avere un processo di evo!zimento (l’acqua diventa vino), o di degenerazione  (aceto); onde soltanto per accidens si può dire che il vino diventa aceto. Così il  vivo non è il morto in potenza (quasi che questo fosse l’atto di quella potenza:  l'atto è sempre una realtà superiore): scomparendo la forma, con la morte, resta  la materia, e questa è che si corrompe (e ridotta alla materia originaria può  riprendere di qui il processo ascensivo verso la vita). Ricorda, per la generazione  dei contrari, il Fedone, 70d 88.    (ho)    LIBRO OTTAVO 213    come un mucchio, ma è qualcosa di totale oltre le sue parti,  dev’esserci qualcosa che sia la causa della loro unità (‘). Lo  vediamo anche nei corpi: talora è un’esterna adesione la causa  della loro unità, talora una coesione interna, o altra condi-  zione del genere. La definizione è una serie di parole che  ha unità, non per un collegamento di parti similmente al-  l’ Iliade, ma perchè di un’unica cosa. Che cos'è, per es., che  fa l’unità dell’uomo, e perchè è uno e non molti, animale e  bipede? Alcuni dicono, per l'appunto, che esiste un animale  in sè e un bipede in sè. E perchè, allora, l’uomo non  potrebb’essere quelle due cose, ed esser uomo per parteci-  pazione, non del concetto di uomo e di un’unica essenza,  ma di due, animale e bipede? In breve: l’uomo non sarebbe,  così, una cosa sola, ma più: animale e bipede. È chiaro che  per questa via, abituale a quei che in tal modo definiscono  e parlano, non si riesce a dar conto e a sciogliere la que-  stione. Se, invece, come noi dieemmo, l’una cosa è materia  e l’altra è forma, l’una è in potenza e l’altra in atto, quel  che si cercava non apparirà più dubbio (’). La difficoltà  sarebbe la stessa come se la definizione di « vestimento » (5)  fosse « bronzo sferico »: poichè quel nome sarebbe il segno  del concetto, e rimarrebbe quindi a sapere la causa per  cui la sfericità e il bronzo fanno una cosa sola. Ma la  difficoltà scompare, se si fa osservare che l’uno è materia e    (1) Nota in questo concetto il deciso superamento dell’empirismo, come già  in VII. 17, 8 88.   (2) Cfr. VII. 12. Ma in questo capitolo il pensiero è portato a un punto più chiaro  e decisivo per il concetto dell’atto che in questo libro accompagna o sostituisce  quello della forma. Qui il dualismo è superato: materia e forma non 8’ intendono,  e non esistono, l'uno fuori del rapporto all’altro (e così essenza ed esistenza,  individuo e universale): è la forma stessa che dà ragione del sinolo nel processo  di determinazione di questo dalla potenzialità all’attualità. Per il $ 1 osserva lo  Schwegler (che ha spesso acute considerazioni per il lato filosofico): « Ci sono  due specie di unità: quella dell'aggregato e quella organica. Nelle produzioni  organiche della natura, ad es., il tutto non è un prodotto, ma, invece, il prius e  la ragione del prodursi delle parti. Soltanto ciò che ha unità formale, ha una  ragione del suo esser uno; tuttavia anche i corpi inorganici, 6e fanno un insieme,  hanno un principio, esteriore, per la loro unità » {p. 151).   (3) Cfr. VII. 4, 7: per accentuare, con l’unità del nome, l’unità della definizione.    ARISTOTELE, Metafisica, 18    Q74 METAFISICA    l’altra è forma. E qual’è la causa per cui l’essere potenziale 5  diviene attuale? Non ce ne può esser altra, nelle cose sog-  gette al divenire, fuori di quella efficiente. Nè può esserci  causa diversa, per cui l’essere ch’era sfera in potenza è ora  sfera in atto, se non la pura essenza, ch'è la ragion d’essere  di ciascuno dei due. '  La materia poi può essere o sensibile o intelligibile (*). 6  E il concetto si compone sempre di una parte ch’è la ma-  teria e di una ch’è l’attualità sua: per es., cerchio è una  certa figura piana. Le cose, invece, che — come individua- 7  lità, qualità, quantità — non hanno materia nè sensibile nè  1046 b intelligibile, sono immediatamente ciascuna qualcosa che ha  unità e realtà per se stessa (?). Questa è anche la ragione 8  per cui nelle detinizioni non han luogo nè l’essere nè l’uno:  chè la pura essenza è immediatamente, per se stessa, qual-  cosa che ha essere e unità, onde nella definizione e nella  pura essenza non c’è bisogno di chiedere altra causa, fuori  di loro stesse, della loro unità e realtà: poichè ciascuna quel  certo essere e quell’unità determinata, che le competono, li    (1) La distinzione, qui, ha altro senso che in VII. 10, 18 (dove riguarda le  cose). Nella definizione il genere è materia intelligibile. (Anche materia sensi-  bile, se la definizione è, in più largo senso, del composto e della cosa sensi-  bile: cfr. VII. 7, 12; VIII. 2, 6-7).   (2) Tali sono le categorie. « Ch'esse non abbiano materia intelligibile, è chiaro:  materia intelligibile noi diciamo i generi, e delle categorie non c'è un genere,  chè sono esse i generi somml e non è possibile che ci sia una natura che li sor-  passi in generalità. Ma neppure hanno materia sensibile, perchè questa è delle  cose composte e sensibili, non già delle cose semplici e intelligibili: ora, l’indi-  vidualità e la quantità e le altre categorie sono realtà semplici e intelligibili »:  Alessandro (562, 32). Noi le diremmo concetti puri: efr. VII. 9, 8-9. — Per l'ente”  e l'uno, cfr. III. 4,31 ss. Il tne può esser inteso per le pure essenze in generale  (cfr. IX. 10,7; X. 1,4), 0 per quella delle categorie (così il Ross). Nel primo caso  l’immediatezza e molteplicità dovrebbero esser risolte ($ 5) nell'unità mediata  del pensiero definitorio, quando questo fosse considerato, non più in una logica  discorsivo-soggettiva, ma nell'attività del nous che in essa si esplica. Questo  punto è molto oscuro in A., per il quale il nous è il primo principio logico-gno-  eeologico, e però principio e fine anche della verità del pensiero dianoetico; ma  l’atto della vénaws non perciò si risolve nel processo di esso: chè nell'uomo, come  fn Dio, esso è, por se stesso, immobile (e il suo proprio oggetto è semplice, senza  composizione). Cfr. IX. 10, 6-9; XII. 9,8. Nel secondo caso si dovrebbe inten-  dere la definizione (delle categorie) in senso molto largo.    10    11    12    13    LIBRO OTTAVO 215    ha immediatamente, per se stessa, e non come se li ricavasse  dall’ Ente e dall’Uno considerati come suoi generi, ovvero  come se questi esistessero separatamente oltre ciascuna di esse.   Intanto, questa difficoltà ha dato occasione ad alcuni di  parlare di partecipazione, senza che poi abbiano saputo dire  quale sia la causa della partecipazione, e in che consista questo  partecipare. Altri parlano di associazione psichica, e, per es.,  Licofrone (') dice che la scienza è un’associazione del sapere  con l’anima; e c’è chi dice che la vita è una composizione  o collegamento di anima e corpo. Ma, così, si può ripeter  sempre lo stesso discorso: e l’esser sano sarà un’associazione  o composizione o collegamento, che dir si voglia, dell'anima  con la salute; e il triangolo di bronzo sarà una composizione  di bronzo con triangolo, e il bianco una composizione di una  superficie con la bianchezza. La ragione per cui parlano così  è ch’essi cercano un concetto unificatore e insieme la diffe-  renza della potenza e dell’attualità. Ma, come noi abbiamo  esposto, la materia ultima e la forma sono una e medesima  cosa (°), l’una in potenza, l’altra in atto. Sarebbe come se  uno cercasse la causa dell’unità e dell’esser uno un oggetto:  chè uno è qualsiasi oggetto, e l’essere in potenza e l’essere  in atto sono in certo modo una cosa sola. Sicchè non c’è  qui altra causa dell’unità tranne quella motrice, che fa pas-  sare l’essere dalla potenza all’atto. Ciò, invece, ch'è imma-  teriale, è sempre e assolutamente un’unità per se stesso (?).    (1) Sofista seguace di Gorgia: cfr. Zeller, IS, 1323 (n. 3).   (2) f toyxktn Gin xal # poegà taòrò xal Év (come gradi di un processo unico,  ma cfr. nota a IX. 8, 1). Questo non hanno inteso coloro (Platonici e altri) che,  dopo aver separate le due cose, cercano «un concetto unificatore ».   (3) Qui par chiaro che (in contrasto con le cose soggette al divenire) si parla  del tne in generale, e delle specie esistenti come puro atto (di cui alla nota a  VII. 8, 3). Così vien conchiusa la polemica contro l’ Uno e l'Ente dei Platonici,  risolvendo l’astrattezza di questi principii nella determinatezza del tne (che ha  unità e realtà immediatamente per se stessa: $ 7), o del xéde x (in cui l'unità e  realtà del tne si media nel processo della potenza-atto: per quanto ricompaia  quì l'immediatezza del tne nell’identità dei due termini materia-forma, o si ri-  mandi il principio unificatore della loro dualità a una causa motrice o efficiente,  $ 5, la quale può essere esteriore all’attualità del c68e t.: l’uomo che genera  l'uomo. o lo scultore che produce la statua).    LIBRO NONO    CapPiTOLO I.    1 Noi abbiam parlato dell'essere fondamentale, cioè della  sostanza, ch’è ciò a cui tutte le altre categorie dell’ essere  si riferiscono: chè in grazia del concetto di sostanza consi-  deriamo come reale tutto il resto: la quantità, la qualità, e  quant'altro si predica di essa in questo modo: tutte impli-  cano il concetto della sostanza, come dicemmo nei ragio-   2 namenti precedenti. Ma, poichè dell’essere si parla, per un  rispetto, come qualcosa di determinato, o come quantità o  qualità; per un altro, come potenza e come atto finale, e  come il realizzarsi di questo (4), — dobbiamo adesso passare   3 a dir della potenza e dell’atto finale. E cominceremo dalla  potenza nella sua principale e più propria significazione,  ancorchè non sia quella che più c’interessa qui (*): poichè 1046 a    (1) Eoyov è tanto l’azione o funzione che realizza il fine (tò téAi0g), quanto la  cosa in cui questo si è realizzato. Più difficile ancora è tradurre èvreAéyera [forse,  da vò tvredèg Egov, 0 Evreiws Exov: Ross]: atto finale, sia nel senso che ha il fine  in 8è, e sia nel senso che esso è il fine a cui tutto il resto tende come alla pro-  pria perfezione. In questo secondo significato easo vuol essere atto puro, atto in  atto, onde ogni potenzialità sia risolta nell’attualità piena e perfetta del t6be tu  (che ha realizzato, così, il tne). Nel primo significato èvr. è, più generalmente,  l’attività (#véoyea) o principio efficiente del processo che porta la potenza  a risolversi nell’attualità, la materia nella forma o pura essenza del reale.  Cfr. nota a VII. 13, 1.   (2) In Metafisica (chè il movimento è oggetto, più propriamente, della Fisica).  Alla l. 36: yenarpotamn (Ab, Aless.).    278 METAFISICA    potenza ed atto si estendono molto al di là delle cose con-  siderate meramente in rapporto al movimento. Dopo di aver  accennato alla potenza in quella significazione, illustreremo,  nella determinazione: dei concetti riguardanti l'attualità,  anche gli altri suoi significati.   Altrove (‘') abbiamo spiegato già come le parole Potenza  e Potere si possono adoperare in molti sensi. Lasceremo qui  da parte tutti quelli in cui si parla di potenza per semplice  omonimia: chè alcune si chiamano potenze soltanto per una  certa somiglianza: ad es., in geometria possibile o impossi-  bile dicesi quel che è o non è in certo modo.   Ma quelle che appartengono alla stessa specie, tutte hanno  carattere di principii, e vengono riferite ad un unico concetto  originario della potenza, ch’è quello di esser principio di  mutamento in altro o in sè in quanto altro. C'è, infatti, la  potenza di patire, che nel paziente stesso è il principio di  mutamento passivo per opera di altro o di sè in quanto altro;  così come c’è l’abito per cui una cosa non può patire peg-  gioramento o distruzione da un principio di mutamento che  sia in altro o in sè in quanto altro. Tutte queste definizioni  contengono il concetto di potenza nel suo senso originario.  E potenze poi chiamansi medesimamente sia quelle del fare  o patire in generale, sia quelle del fare o patire in maniera  conveniente: sì che anche nel concetto di esse è immanente  in certo modo il concetto delle potenze dette dianzi. È dunque  evidente che la potenza del fare e quella del patire esistono,  per un rispetto, come una sola e medesima potenza, e per       (1) Vedi V.12 (e note per la traduzione dei termini). In generale, potenza è iu  primo luogo la facoltà o capacità di dar principio a un processo di mutamento  in altro, o in 8è in quanto altro (come se un medico curi se stesso: egli cura sè,  paziente, in quanto altro da sè, agente); o di ricevere questo processo. La po-  tenza è, quindi, o attiva o passiva: quest'ultima è o di patire in generale, o di  ricevere un mutamento in meglio (o in peggio): potenza attiva e potenza pas-  siva, quindi, possono esser ristrette al senso dell’agiro o patire bene (in modo  conveniente rispetto a un fine). Come nota il Bonitz (p. 379), questa distinzione  si complica con l'altro significato del Buvarév e dduivarov, di ciò ch'è « possibile »  o «impossibile ». Nè A. tiene abbastanza distinti questi due punti di vista: l'uno  reale; l’altro logico-reale, in assoluto, o in senso empirico (di ciò che può acca-  dere, o no): ch'è un senso affine a quello dell’ èvSeyxbpevov.    10    11    LIBRO NONO 279    altro rispetto come cose diverse: poichè fornito di potenza è  un oggetto tanto se ha la capacità di patire esso stesso per  opera di altro, quanto se ha quella di far patire un altro  per opera sua. Per un rispetto, infatti, la potenza è in quel  che patisce, perchè esso patisce ciò che patisce, ed è altro  dall’agente, in quanto ha in sè un certo principio a essere  [e a non-essere], ed è là materia un tal principio: così, il  grasso è infiammabile, e ciò ch’è fragile si può far in pezzi,  e via dicendo similmente per gli altri casi. Per altro rispetto,  la potenza è nell’agente, per es. il caldo o l’arte di costruire  è l’uno nel calorifero, l’altra nel costruttore. Per cui, se in  un essere i due aspetti non sono distinti, non può patir nulla  da sè: esso è uno e identico con sè, e non diverso da sè.   La mancanza di potenza, poi, o impotenza, è la priva-  zione ch'è il contrario di tale potenza: onde ogni potenza  si oppone a un’impotenza, dello stesso oggetto e per lo stesso  rapporto. Ma di privazione si parla in molti sensi ('): priva-  zione c’è se l'oggetto non ha certe qualità, semplicemente;  o non le ha mentre naturalmente dovrebbe averle, o sempre,  o quando dovrebbe averle: e in quest’ultimo caso se ne manca  in un modo determinato, per es. perfettamente, o ne manca  in ogni modo. E in certi casi parliamo di privazione anche  per quelle cose a cui la violenza ha tolto ciò che avrebbe  naturalmente.    CaPITOLO II.    Poichè principii siffatti trovansi e negli esseri inanimati  e in quelli animati, nell'anima e in quella parte di essa  provvista della ragione, è chiaro che anche delle potenze  alcune sono irrazionali, altre s'accompagnano alla ragione.  Tutte le arti e scienze poietiche sono potenze: principii,  cioè, di mutamento in altro o nell’agente in quanto altro.  Tutte quelle dotate di ragione sono, ognuna, potenza in-  sieme di contrari; di quelle irrazionali ognuna è potenza di    (1) Così anche in V. 22.    1046 b    280 METAFISICA    un solo contrario: ad es., il caldo ha la potenza di scaldare  soltanto, mentre la scienza medica riguarda tanto la malattia  quanto la salute. E la ragione è che la scienza è concetto, e 3  uno stesso concetto fa vedere insieme il fatto e la sua pri-  vazione, ma non nella stessa misura, perchè, pur essendo il  concetto di entrambi, fa vedere piuttosto il lato positivo. Sì  che anche ognuna di dette scienze sarà, insieme, dei con-  trari: dell’uno, tuttavia, per se stessa, dell'altro non per se  stessa: poichè il concetto riguarda l’uno per se stesso, l’altro  in certo modo per accidente (‘). Esso fa vedere, infatti, il  contrario negativamente e per rimozione: chè il contrario  del fatto consiste nella privazione originaria, e questa si ot-  tiene con la rimozione del contrario positivo. E poichè i con- 4  trari non possono esser insieme nello stesso oggetto, e la  scienza invece per la sua razionalità è una potenza quale  8’è detta; e poichè l’anima ha in sè il principio del movi-  mento, — avviene che, mentre ciò ch’è salubre produce sol-  tanto la salute, e il calorifero soltanto calore, e il frigorifero  soltanto freddo, l’uomo che sa produce amendue i contrari.  Poichè il concetto abbraccia ambedue, sebbene non nella 5  stessa maniera, e ha sede nell’anima, la quale, possedendo  in sè il principio del movimento, e unendo col pensiero i  contrari nello stesso oggetto, li può muovere (?) entrambi in  virtù del medesimo principio. Ecco perchè le potenze agenti  razionalmente, abbracciando i contrari con un unico prin-  cipio, la ragione, operano contrariamente a quelle che della  ragione sono sfornite.    (1) Così come il non-essere è un essere per accidente, non in sè e per sè. Nel  pensiero, tuttavia, il rapporto è più profondo: i due concetti sono uniti; anzi uno  è la negazione (&rmégpaars), la rimozione (&ropopd) 0 privazione originaria (reotm,  radicale), dell'altro (del positivo): dal quale soltanto ricava il proprio significato.  C'è un accenno, rilevato dallo Schwegler (p. 160), al concetto della mediazione.  Infatti, il principio di entrambi è il medesimo ($ 5).   (2) Produrre (i concetti contrari dell'oggetto, i. e. l’oggetto stesso della con-  trarietà). If principio del movimento è l’appetito, comune agli animali. Ma l'uomo  soltanto è potenza attiva capace di produrre effetti contrari, perchè presenti in-  sieme nel guo pensiero, e questo solo fa dell'appetito una volontà consapevole  (Si può trovare, così, un accenno al libero arbitrio). L'animale non sa, ed è, per  ciò, come le cose, che non hanno possibilità di scelta.    LIBRO NONO 281    6 È evidente anche che alla potenza di operare o patire in  modo conveniente si accompagna sempre la potenza difope-  rare o patire semplicemente, laddove a questa non si accom-  pagna sempre quella: per la ragione che, se si opera bene,   . necessariamente, anzitutto, si opera; ma non per il fatto di  operare, semplicemente, segue di necessità che anche si  operi bene.    CapiToLO III.    1 Ci sono alcuni, ad es. i Megarici, i quali dicono che il  potere c’è soltanto quando c’è l’azione, e che quando l’azione  non c’è, neppure c’è il potere: per cui, poniamo, se uno  non costruisce, non ha il potere di costruire, ma l’ha chi è  costruttore quando costruisce; e negli altri casi, similmente.  Non è difficile vedere in quali assurdità vanno a conchiu-   2 dere. Poichè è chiaro che nessnno sarebbe più costruttore  se non costruisce, laddove esser costruttore è esser in grado  di costruire; e così dicasi per le altre arti. Se, dunque, è  impossibile che possegga tali arti chi non le ha una volta  imparate e apprese, ed è impossibile che uno non le pos-  segga più se non le perde (o per dimenticanza, o per qualche 1047 a  malattia, o perchè è passato molto tempo: non certamente  perchè intanto sia andata distrutta l’arte (‘): chè essa c'è  sempre): come il costruttore perderebbe l’arte quando cessa  di costruire, e come poi di nuovo l’acquisterebbe appena si   3 mette di nuovo a costruire? E dicasi lo stesso per le cose  inanimate: nè il freddo, nè il caldo, nè il dolce, nè in gene-  rale nessuna cosa sensibile esisterà più se noi non la sentiamo:  sì che ad essi accadrà di ripetere il ragionamento di Prota-  gora (*). E neppure possederà la sensibilità chi noh si trovi    (1) Lett.: l'oggetto (me&iypa) dell’arte, il concetto. Questo capitolo e il se-  guente si attaccano meglio al cap. I.   (2) Cfr. IV. 5-6. Costoro, dunque, accentuano della dottrina protagorea il mo-  mento attualistico (nel senso puntualistico, dell'istante temporale). Per quanto  riguarda il concetto della possibilità, che costoro fan coincidere con quello della  realtà (dell'essere, riannodandosi, così, all'affermazione parmenidea, che esclude    282 MBTAFISICA    a sentire effettivamente, in atto. Se, quindi, cieco è chi, pur  fornito da natura della vista, non vede quando sarebbe in  condizione di vedere, accadrà che uno stesso, perdurando ad  essere, diventerà molte volte al giorno cieco e sordo. Inoltre,  se impotente (') si-deve dire ciò ch’è privato della potenza,  ciò che non è già in divenire sarà impotente a divenire, e  mentisce quindi chi afferma che ciò ch’è impotente a divenire  è o sarà: poichè questo appunto si vuol dire con «impo-  tente ». Ma, allora, con questi ragionamenti si sopprimono  il movimento e il divenire: ciò che si trova in uno stato,  sempre starà in quello, e chi è seduto starà seduto sempre,  e chi si siede non potrà alzarsi più: poichè, chi non ha la po-  tenza di alzarsi, è impotente ad alzarsi. Se, dunque, questi  son discorsi che non reggono, è manifesto che potenza e atto  non sono la stessa cosa, e poichè, invece, quei discorsi fanno  della potenza e dell’atto una sola cosa, bisogna dire ch’ essi  cercano di sopprimere una differenza che non è trascurabile.  Invece, noi diciamo che ben può darsi che qualcosa abbia  la potenza di essere, e intanto non sia, e abbia la potenza  di non essere, e intanto sia; e che la cosa sta similmente  per tutte le categorie, onde, ad es., chi ha la potenza di  camminare può anche non camminare, e chi ha ia potenza  di non camminare può anche camminare (?). Un essere ba  una certa potenza se non c’è nessuna impossibilità ch'egli    il nou-essere e il divenire), e intorno al significato della testimonianza di Dio-  doro Crono in proposito (sul quale v. Zeller, II4, 1, 269), v. MEIER, in Archiv f.  Gesch. da. Philos., XIII. 31, e le considerazioni del Ross (a q. l.).   (1) O «impossibile » (&8yvatov): qui sono conglobati i due significati, della  potenza reale e della possibilità logica; e la tesi vien presentata da A., così:  Se impotente (impossibile) è ciò che non può (non ha la potenza di) essere, di  questo non si può dire nè che è, nè che sarà: può essere soltanto ciò che attual-  mente è anche quello che sarà o non sarà. — Ciù che già non è in divenire, ciò  che non sta accadendo, attuandosi (yiyvépevov, meglio di yevépevov).   (2) LI. 23-24: fadlterv e 6v, invece di fadltov e eivar (così anche il Ross).  Per accentuare di più il concetto di possibilità bisognerebbe tradur quel che  segue, così: « Possibile è una cosa se non c'è nessuna impossibilità (nessun as-  surdo) che abbia luogo l'atto di ciò di cui quella dicesi aver la potenza». Una  contaminazione dei due concetti è necessaria ad evitare l'apparenza, almeno  verbale, di un circolo vizioso.    LIBRO NONO 283    traduca in atto ciò di cui dicesi aver la potenza. Voglio dire,  ad es., che se uno ha la potenza di sedere e si trovi a dover  sedere, non c’è nessuna impossibilità, per lui, di passar al-  l’atto. E similmente se si tratta d’esser mosso o di muovere,  di situarsi o di situare, di essere o divenire, di non essere  o non divenire.   La parola «attività», implicante un rapporto all’ entele-  ‘chia o atto perfetto, sebbene estesa ad altri significati, trae  origine principalmente dalla considerazione dei movimenti,  poichè sembra che il movimento soprattutto sia attività. Ecco  perchè alle cose che non esistono nessuno attribuisce movi-  mento, bensì alcuni altri predicati: si dice, per es., che  sono pensabili o desiderabili cose che non esistono; ma non  che siano in movimento: e questo perchè, altrimenti, cose  che attualmente non esistono dovrebbero già esser in atto. 1047 b  Ben è vero che, delle cose che non esistono, aleune hanno  la possibilità di esistere; ma non esistono, in quanto non  ancora è cominciato il processo finale che le realizza (!).    CapPitoLo IV.    Ora, se « fornito di potenza» è quel che s'è detto (in  quanto ne è una conseguenza) (*), è manifesto che non si  può esser nel vero dicendo: questo è possibile, ma non si  realizzerà mai: giacchè, in questo modo, ci sfuggirebbe che ci  son cose che non posson essere. Prendiamo un esempio: se  uno dicesse che la diagonale è possibile misurarla, ma non    (1) L'èvéeyera sembra, qui (6-9), distinta dalla xivnois, in quanto questa ri-  guarda il principio di mutamento in altro (I, 5), quella, equivalendo all’evreréyera  (nel primo significato, di cui alla nota 1, 2), è attività che realizza se stessa (come  Sè o come altra? cfr. XII. 9, 5-6). Il pensabile non esiste fisicamente, e però non  gli si attribuisce movimento; pure può esistere nel processo di realizzazione del-  l'attività del pensiero, se questo si pone a pensarlo.   (2) dvvatév è quando non c'è nessuna impossibilità ecc., come al $ 7 del ca-  pitolo precedente. — Costoro, attualizzando l’eusere parmenideo, sopprimono la  distinzione tra ciò che ha e ciò che non ha la potenza di realizzarsi (tra « possi-  bile » e «impossibile »: tutto è possibile, anche se non avverrà mai).    284 MBTAFISICA    sarà misurata mai, perchè niente vieta che una cosa che  può essere o divenire, non sia ora nè in seguito, — costui    ragionerebbe come se non ci fossero casi d’impossibilità.    Invece, da quel che s’è stabilito dianzi deriva di necessità  che, affinchè sia lecito anche solo supporre l’essere o il di-  venire di una cosa che non esiste ancora, ma è possibile,  bisogna ch’essa non racchiuda nulla d’impossibile. Ma nel  caso accennato si avrebbe qualcosa d’impossibile: chè la  diagonale e il lato non sonò commisurabili. Si badi che il  falso e l'impossibile non sono la stessa cosa: che tu stia in  piedi ora, è falso, ma non è impossibile (').   E chiaro è, insieme, che se, A essendo, è necessaria-  mente 8, allora, se A è possibile, dev’ essere possibile anche  B: poichè, se questa possibilità non seguisse di necessità,  niente impedirebbe la possibilità ch’esso non sia neppure.  Poniamo, ora, che A sia possibile. Allora, una volta che 4  è possibile, se si pone che 4 sia realmente, nulla d’ impos-  sibile dovrà risultarne. Allora, anche B dev’essere reale.  Invece, si voleva sostenere ch’è impossibile. Poniamo, allora,    (1) Vero e falso possono riguardare soltanto la logica discorsiva (10, 4; VI. 4, 3),  ma anche la verità o falsità reale: nel qual ultimo caso, l'impossibile, coinci-  dendo col contradditorio, è anche il falso (cfr. V. 12, 8-9 e 29, 1). L'impossibile,  invece, qui, non è il contradditorio, semplicemente, ma «ciò che non ha la potenza  di realizzarsi ». Il ragionamento mira dunque ad affermare la necessità che la  potenza, 6e è reale, passi (o abbia l’effettiva capacità di passare) all’atto: si rea-  lizzi, cioè, quandochessia, poichè non presenta nessuna difficoltà, reale e logica,  interna. Così mi par da intendere anche quel che segue, in cui il rapporto tra  A e 8 non dovrebb'esser pensato come rapporto tra due realtà, ma come rap-  porto tra due concetti e momenti del processo (potenza e atto) della stessa realtà.  (In Anal. Pr., I. 15. 34 a, 5, dove è lo stesso ragionamento, il rapporto è tra pre-  messa e conseguenza nel sillogismo ipotetico). Non si scordi, infatti, che A. qui  polemizza contro l’affermazione megarica Buvatrdv pèv toòl, oùx Eorar dé: ch'è  inaccettabile, dice A., perchè, dato che A e B sian due concetti di cui l’uno ri-  chiama l’altro, non si può affermare la possibilità o realtà dell'uno senza affer-  mare la possibilità o realtà dell'altro. Il passaggio dalla potenza all'atto è,  quindi, logicamente necessario, e ancho realmente, data la concezione determi-  nistica universale di A., per il quale ogni processo, essendo in qualche modo  sempre già iniziato, deve pervenire al suo compimento; ma, poichò la questione  è qui realistica anche in senso empirico, il passaggio o compimento può non  esser determinato nel quando e nel come. Cfr. nota a VI. 3, 4 per il concetto  dell’accidente e del caso.    2    3    LIBRO NONO 285    che B sia impossibile. Se B è impossibile, impossibile ne-  cessariamente è anche A. Ma s'era posto che A fosse pos-  sibile: allora, anche B è possibile. Se, dunque, A, è possi-  bile, anche B sarà possibile, dato che A e B siano in tale  relazione che la realtà dell’uno porti di necessità la realtà  dell'altro. Se, trovandosi A B in quella relazione, la possi-  bilità di B non stesse a questo modo, allora neppure 4 B  avranno tra loro la relazione che s'era posta. Se, invece,  quando A è possibile, di necessità anche 2 è possibile, dato  che A sia reale, sarà necessariamente reale anche B: poichè,  che l’esser possibile di B consegua di necessità se l’essere  di A è possibile, vuol dire appunto questo: che, dato che  A sia possibile, quando e come è possibile, anche la possi-  bilità di B e il quando e il come di essa son dati.    CaPiToLO V.    Di tutte le potenze che possediamo, parte sono congenite,  come quelle dei sensi; parte si acquistano con l’abitudine,  come quella di suonar il flauto; ovvero con l’insegnamento,  come quella delle arti ('). Quelle che si acquistano con l’abi-  tudine e col ragionamento, esigono di necessità un prece-  dente esercizio dell’attività. Quelle invece che non s’acqui-  stano così, e le potenze passive, di quel precedente esercizio  non han bisogno.   Una potenza è sempre una potenza determinata a qual-  cosa, e in certo tempo, e in certo modo, e con tutte le altre  condizioni che debbono far parte della definizione. E ci sono  esseri che han potenza di muovere secondo ragione, e di  cui le potenze s’accompagnano perciò alla ragione; altri  sono sprovvisti di ragione, e le loro potenze sono irrazionali.  Le prime necessariamente esistono in esseri animati, le se-    (1) Per es., l’arte del medico. Questo capitolo prosegue l’argomento del cap. 2.  E si richiama alla nota dottrina aristotelica dell'atto che precede l’'Egts tin cui  consiste la virtù: etica e dianoetica): v. Eth, Nic., II, 1-5; VI. 1-4.    1048 a    286 MBTAFISIOA    conde possono esistere negli animati e in quelli inanimati.  Queste ultime potenze son sì fatte che, quando l’agente e il  paziente s’incontrano in modo conforme alla loro potenza, di  necessità l’uno agisce e l’altro patisce; per le potenze razio-  nali, invece, tale necessità non c’è. Quelle, infatti, son tutte  tali che una di esse può produrre uno solo dei contrari;  queste, invece, entrambi; sì che, se tale necessità valesse  anche per loro, produrrebbero insieme i contrari: il che è  impossibile. Bisogna, allora, che sia qualch’altra cosa quel  che decide (‘). Voglio dire il desiderio o la scelta razio-  nale: quello dei due contrari che l’animale ragionevole ap-  petisce definitivamente, quello farà, quand’ egli si trovi con-  formemente alla sua potenza e in contatto con ciò che può  ricevere la sua azione. Per cui, necessariamente, l’essere  che ha potenza conforme a ragione, fa, quando lo desidera,  tutto ciò di cui ha la potenza, e nel modo che l’ha. Egli  ha, tuttavia, tale potenza se il paziente è presente e nelle  condizioni determinate: altrimenti, non potrà operare. Nò  c’è bisogno di aggiungere nella determinazione che niente  di fuori faccia impedimento: perchè ognuno ha la potenza  nel modo in cui questa è potenza effettivamente, e questa  non è potenza di operare in qualsiasi modo, ma in condi-  zioni determinate; e in ciò è implicita anche l'esclusione  degl’ impedimenti esteriori, in quanto questi sopprimono al-  cune delle condizioni essenziali alla determinazione. E così  pure, se uno volesse o desiderasse far nello stesso tempo due  cose diverse o anche opposte, non potrà furle: poichè non  è così ch’egli ha la potenza di fare quelle cose, e non esiste  potenza di farle insieme; egli farà soltanto ciò di cui ha, e  come ha, la potenza (*).    _——    (1) Un principio interno, non esterno: la volontà, ossia l'appetito illuminato  dalla ragione (principio delle virtù etiche), ovvero la ragione mossa dall'appetito  (principio delle virtà dianoetiche): per l’5peew e la xooalgeow v. Eth. Nic., VI. 2.   (2) Nota il riflesso della legge dei contrari (IV. 5,4) nella potenza dell'agire  umano, e la determinazione storico-empirica dell'atto volontario, in cui l'antitesi  libertà-necessità è risolta nel senso del secondo termine.    un    7    9    1    LIBRO NONO 287    CapitoLo VI.    Dopo aver parlato della potenza considerata in rapporto  al movimento, passiamo a trattare dell’atto per determinare  quel ch’esso è, e i suoi caratteri. Con questo anche la po-  tenza verrà chiarita, pur che si ponga mente alla distinzione  per cui noi diciamo dotato di potenza non soltanto ciò che  muove naturalmente altro o da altro è mosso, senplicemente  o in modo più determinato, ma anche in un significato di-  verso: che è quello pel quale abbiam condotta anche la ri-  cerca su i precedenti significati.   L’atto è l’esistenza stessa dell’oggetto, non nel senso in  cui diciamo ch’è in potenza (noi diciamo ch’è in potenza,  ad es., un Ermete nel legno, o la metà di una linea nella  linea intera, in quanto si può cavarla da questa; e diciamo  che uno è un pensatore anche se non sta speculando, perchè  è in grado di speculare): intendiamo, invece, che sia in atto.  Ciò che vogliam dire diventa chiaro ricorrendo a casi par-  ticolari, induttivamente: non bisogna esigere definizione di  tutto, ma bisogna talora contentarsi d’intuire il significato  dei termini nel loro rapporto (‘). L’atto, dunque, sta alla po-  tenza come il costruire al saper costruire, l’esser desto al  dormire, il guardare al tener chiusi gli occhi pur avendo la  vista, come l’oggetto cavato dalla materia ed elaborato com-  piutamente sta alla materia grezza e all'oggetto non ancora  finito. Con il primo dei membri di questa differenza inten-  diamo che venga determinato l'atto, con il secondo la po-    (1) tò dv&hoyov ovvogiv (ho svolto il concetto di proporzione; ma qui è com-  preso anche quello di analogia nel senso più comune). Per il pensiero, cfr. 8. Tom.  (1826): «Nam prima simplicia definiti non possunt, cum non sit in definitionibus  abire in infinitum: actus autem est de primis simplicibus, unde definiri non po-  test». Vedemmo già (VIII. 6, 7 n.) un equivalente in A. del moderno «concetto  puro ». In questo senso, anche, è anapodittica la filosofia prima (ma, poi, per lui  gi tratta di principi primi nel senso di ciò ch'è dato immediatamente all'origine  del conoseere: cfr. i passi di Anal. Post. cit. in nota a I. 9, 91). Pure, per la parte  di verità ch'è in tale intuizione, non è giustificata l'accusa ch'egli, per definire  certi concetti, ne adoperi altri che già li presuppongono.    1048 b    288 MBTAFISIOA    tenza. Ma non tutte le cose si dicono in atto nel medesimo 6  significato, salvo che non s’intenda analogicamente, come  quando si dice: questo sta in questo o a questo nello stesso  modo che quello sta in quello o a quello. Esse, invece, sono  in atto, parte, come il movimento in rapporto alia potenza;  parte, come la sostanza in rapporto a una certa materia (').  Per l’ infinito (*), tuttavia, e pel vuoto, e per tutte le cose 7  di questa specie, si parla di potenza e atto in significato -  diverso da quello, più usuale, di quando diciamo, ad es., che  uno guarda, o cammina, o che un oggetto è veduto. Queste  affermazioni possono talora corrispondere a una realtà vera  e propria: noi diciamo che una cosa si vede, o perchè è  veduta effettivamente, o perchè è in condizione d’esser ve-  duta. L’infinito, invece, non è mai in potenza nel senso che  possa poi diventare in atto una realtà esistente per se stessa:  esso è infinito in potenza per il pensiero. Poichè dal fatto    (1) Nel primo caso l'atto (attività) è definito dal rapporto tra due momenti  del procosso che realizza la forma (questo a questo: per es. il materiale grezzo  in rapporto alla costruzione della casa, o chi è seduto all'alzarsìî e camminare);  nel secondo, come attualità della forma determinata (questo in questo: la casa  esistente, Socrate che cammina). L’eévéoyera è qui distinta dalla x(vnaws, non nel  primo significato dell’EvreAéyewa (v. nota a 3, 9), ma nel secondo.   (2) Il Ross (II, 252) riassume brevemente, dalla Phys. (III. 4-8), la dottrina  di A. su l’infinito. L’estensione è infinita, per A., soltanto nel senso della divi-  sibilità: xatà dualgeswy, non xatà nedodeav (delle sue parti). Il numero, invece,  infinito (&irergov, indefinito) xatà snodateaw, nel senso della possibilità di pen-  sarne sempre uno maggiore; non xetà Bdialgearv (chè dividendo si perviene  all'ultimo limite, all'unità). E la sua infinità non è reale fuori del suo processo.  Il tempo soltanto è infinito xatà Sualpeaw e x. rododeorv : infinitamente divisibile  e realmente infinito; ma la sua infinità è, come quella del numero, in continuo  divenire. — Quanto al vuoto, similmente (P/ys., IV. 6-9): per quanto una materia  si pensi più rarefatta di un’altra, non esiste spazio senza qualche materia.   Si può aggiungere che, proprio per questo rapporto tra spazio e materia,.  A. concepisce l'estensione come finita; e che il tempo è per lui infinito nel senso  in cui è eterno il movimento (cfr. XII. 6, 2), ossia il divenire stesso. E che l'in-  finità del numero, così come quella dello spazio, è veduta nell’attività del pen-  eiero che si esercita su l'oggetto, per sè, sempre finito. Così pel vuoto: solo col  pensiero si può vuotare lo spazio di ogni contenuto. Probabilmente A. polemizza  qui contro la dottrina democritea, oltre che contro i presupposti delle argomen-  tazioni zenoniane e le conseguenti applicazioni della scuola megarica. — Un’espo-  sizione della dottrina, tratta spec. dai libri di fisica, è in A. CovotTiI, Le teorie  dello spazio e del tempo nella filosofia greca fin aà A. (Pisa, 1897).    10    LIBRO NONO 289    che non si trova mai la fine a dividere, si deduce che questo  è un atto che ha una realtà puramente potenziale, non che  l'infinito abbia una propria attuale esistenza (').   Delle azioni che hanno termine (*), nessuna ha valore di  fine, ma soltanto di mezzi al fine: per es., il termine del  dimagrare è la magrezza, e se quel che d
 imagra si riguarda  così, quando è in questo movimento che non ha raggiunto  ancora lo scopo per cui il movimento avviene, non si può  dire che ciò costituisca un’azione, o, per lo meno, un’azione  perfetta: perchè non è questo il fine. Ma quando nel movi-  mento si trova il fine, allora esso è anche azione. Per es.,  l’atto del vedere è quello stesso di aver veduto, quello di  pensare e intendere è quello stesso dell’aver pensato e in-  teso; invece, quello di chi impara non è lo stesso di chi ha  imparato, nè quello di chi guarisce è lo stesso di chi è gua-  rito. L’atto del ben vivere è quello stesso dell’aver vissuto  bene, e quello dell’esser felice è lo stesso in chi fu felice.  Altrimenti, bisognerebbe una volta arrivare al termine del  movimento, come quando si fa la cura di dimagrare. Qui,  invece, no: chè si seguita a vivere, sebbene si sia vissuto    —__    f1) Non ostante l’incertezza (l’infinito, in quanto indefinito, ha pure una sua  esistenza), è chiaro ad A. che il concetto d'un infinito attuato è contraddittorio  (onde sì fa strada il sospetto che la vera infinità è soltanto del pensiero).  Cfr. XI. 10. Il Bonitz accusa A. perchè, mentre prima aveva definita la potenza,  contro i Megarici, come capacità di attuarsi, l'attribuisce qui, mira levitate, a  un oggetto che tale capacità non ha. Ma l’infinito non è un oggetto nel senso  delle cose, intorno alle quali verte la disputa precedente. E in ogni modo era da  notare con meraviglia anche il lato profondo, messo allo scoperto da A., in tale  contraddizione.   (2) Il brano seguente, sebbene il pensiero dominante sia abbastanza traspa-  rente, è nel testo tra i più guasti di tutta la Metafisica. Esso manca nel codice  parigino E (sec. X), nel commento di Alessandro e in quello di 8. Tommaso, e  nella traduzione del Bessarione. C'è nel codice laurenziano Ab (sec. XII). Acco-  Gliendo alcune congetture del Bonitz (p. 397) sul testo, si può intendere cosi: il  dimagrare ha per fine la salute, non il fatto della magrezza a cui pon capo il  movimento del dimagrare; e se azione o attività è aver il fine ultimo in sè, 80l-  tanto l’atto che non si esaurisce in un termine o fine particolare, ma rimane  essenzialmente identico a sè attraverso i momenti del procéèsso, è perfetto, ed è  vera e propria attività formale: tale è l’atto del vedere, del pensare, del vivere,  della felicità. Così la perfezione dell’ &vreAéyera (nel secondo significato) abbassa  a x{wnow ogni altra forma di attività (anche quella dell’apprendere).    ARISTOTELE, Metafisica. 19    290 MBTAFIBICA    già. Di questi processi, dunque, gli uni son da dire movi- 11  menti, gli altri attività; poichè ogni movimento è imperfetto:   il dimagrare, l’apprendere, il camminare, il costruire: i quali  sono, appunto, movimenti, e però incompiuti. Infatti non è 12  possibile che coincida il passeggiare con l’aver passeggiato,   il costruire con l’aver costruito, il divenire con l’esser di-  venuto, o il muoversi e l’essersi mosso, e il muovere e l’aver  mosso: chè son cose diverse. Invece, l’atto del vedere e  quello d’aver visto, del pensare e dell’aver pensato, coinci-  dono. Ora, un processo di quest’ultima specie io lo chiamo  attività; l’altro, movimento.    CapiTtoLO VII.    Da queste e altre simili considerazioni crediamo chiarito 1  quel ch’è l’essere in atto e i suoi caratteri. Ora vogliamo  determinare quando ciascuna cosa è in potenza, e quando  non è: poichè non in qualsivoglia tempo è tale. Per es.,   1049 a la terra è in potenza già un uomo, o non ancora, ma piut-  tosto quando già è divenuta sperma? E forse neppur allora.  Avviene qui come per la salute: non ogni cosa può esser  guarita o dalla medicina o da sè spontaneamente, ma ci vuol  qualcosa che abbia tale potenza, e cioè abbia già la salute  in potenza. Per le cose che dipendono dal pensiero si può 2  definir la questione così: esse passano dall’essere in potenza  all’atto, quando siano volute e niente faccia impedimento  dal di fuori; e dall'altra parte, in chi ha da guarire, niente  faccia impedimento di quel ch’è in lui ('). Dicasi similmente 3  di ciò che deve diventare una casa: esso è una casa in po-    (1) Alessandro (583, 12): « Per es., il medico conduce il malato dalla potenza  alla salute, quando se lo sia proposto e non ci siano impedimenti esteriori: il  luogo, il tempo, ece.: così dunque si dovrà definire l’atto dell'agenterazionale;  quello del paziente, invece, dal non esserci impedimenti interiori: perchè un  malato guarisca, si richiede, infatti, che tutte le sue membra siano in condi-  zione idonea a ricevere la salute ».    LIBRO NONO , 291    tenza se niente faccia impedimento di quel ch'è in esso, sl  che alla materia che deve diventar casa, non ci sia nulla  da aggiungere, nè da togliere o mutare. E altrettanto dicasi  per tutte le altre cose di cui il principio generatore è fuori.  Per quelle, invece, di cui il principio generatore è in loro,  esse hanno tale potenza allorquando, nessun ostacolo inter-  venendo di fuori, si realizzeranno da sè. Lo sperma, ad es.,  non ancora ha tale potenza, abbisognando di passare in altro  e trasformarsi. Solo quando una cosa sia in grado di realiz-  zarsi per un principio suo proprio, si può dire ch’è già in  potenza: lo sperma, invece, ha bisogno d’un altro princi-  pio ('): così come la terra non ancora è statua in potenza,  ma deve trasformarsi e divenir bronzo.   Come ognuno può notare, dell’oggetto non diciamo ch'è  questo (in cui è in potenza), ma ch’è fatto di questo: l’ar-  madio, poniamo, non è legno, ma di legno; e il legno non  è terra, ma di terra; e la terra, a sua volta, se deriva da  altro, non è quest’altro, ma è fatta di quest'altro. E que-  st’altro è sempre, propriamente, la potenza di quel che vien  subito dopo: per cui, ad es., l'armadio non è terra, nè di  terra, ma di legno: chè questo è armadio in potenza, e questa  è propriamente la materia dell’armadio (dell’armadio in ge-  nerale, il legno in generale; di questo armadio particolare,  questo legno particolare). Che se s'incontra qualcosa di pri-  mitivo, che non venga più denominato da altro come fatto  di esso, allora quello è la materia prima: se, per es., la terra  è di aria, e l’aria è di fuoco, e il fuoco non venisse denomi-  nato da altro, allora il fuoco sarebbe la materia prima (?).  Questa, poi, soltanto se diviene qualcosa di determinato, è  sostanza. Infatti, in questo differisce il sostrato o soggetto:    (1) Il risultato dell'unione è, poi, propriamente, la materia come potenza con-  creta dell'essere umano (come principio già del processo generatore).   (2) La quale ha, quindi, sempre qualche determinazione: soltanto in rapporto  a ciò che diventerà (poniamo, l’aria), è materia priva di forma. Ho seguito nel    testo l'emendamento proposto dal Christ (conforme ad Aless., 589, 24). Per 5-6,  efr. VII. 7, 19-16.    1049 b    292 MBTAFISICA    secondo ch'è, o no, un «che determinato » (‘). Il sostrato 8    delle affezioni è, ad es., un uomo, un corpo, un’anima; e affe-  zioni sono l’ esser musico o bianco. E quando la musica diviene  nell’uomo, noi non diciamo che egli è la musica, ma musico,  così come non diciamo ch'egli è la bianchezza, ma bianco,  non è la passeggiata o il movimento, ma passeggia o si  muove: così come dianzi dicevamo di un oggetto ch’esso è  fatto di questo o quello. In tutti i casi di questo genere il  sostrato ultimo è la sostanza. In quelli, invece, in cui non  sì tratta di un’affezione, ma quel che vien predicato è una  forma e alcunchè determinato, allora l’ultimo sostrato è la  materia o sostanza materialmente considerata. In ogni caso,  si conchiude che drittamente l’oggetto, che diciamo fatto così  o così, prende questa denominazione dalla materia e dalle  affezioni: perchè quella e queste sono indeterminate (?).   Quando, dunque, si deve dire che un oggetto è in po-  tenza, e quando no, — s’è detto.    CapirtoLo VIII.    Dopo quanto fu determinato dei vari significati in cui si  parla di priorità (*), risulta chiaro che l’atto è prima della,  potenza. È intendo non soltanto della potenza che fu da noi  definita come principio di mutamento in altro o in sè in  quanto altro; ma, in generale, di ogni principio di movimento    (1) Alla 1. 28: xa@'ob (invece di xa#6Aov): proposto dall’Apelt, accolto dal  Ross. Il sostrato, o soggetto, o è un téde ti, sostanza ch'è il soggetto delle de-  terminazioni secondarie; ovvero è la materia, di cuî si predica la determinazione  essenziale, la forma. Cfr. VII. 3, 7 e 13, 1.   (2) «Il bianco », o la bianchezza, è un indeterminato, se non venga aggiunto  {(aggettivamente, come per la materia) a «uomo», o a «Socrate ».   (3) Lib. V. 11. Per quel che segue, cfr. De Caelo, III. 2. 301b, 17: « La natura  è principio del movimento immanente alla cosa stessa; potenza, invece, è prin-  cipio di movimentò in altro in quanto altro» (o in sè in quanto altro). Sarà,  dunque, immanente alla cosa in quanto sè? Ma, da un lato, l’alterità è necessaria  al movimento; dall’altro, come parlare di un sé della cosa? A. si limita a porre,  qui come altrove, entrambe le esigenze: la dualità dei termini, e l’unità del  processo (equivalente, per A., all'identità dei termini: cfr. anche 1, 7-10).    10    Il    LIBRO NONO 298    o d’inerzia. La natura, infatti, appartiene allo stesso genere  della potenza, come quella ch'è principio di movimento, seb-  bene non in altro, ma nella cosa in quanto è essa stessa.  Di ogni potenza, dunque, così intesa, l’atto è prima, e  pel concetto e per la sostanza; per il tempo, in un senso sì,  in un senso no.   Che sia prima quanto al concetto, è evidente, poichè for-  nito di potenza, nel senso originario del termine, è ciò che  ha la possibilità di passare all’atto: per es., chiamiamo co-  struttore chi ha la potenza di costruire, veggente chi è in  grado di vedere, e visibile ciò che si può vedere: così dicasi  per gli altri casi. Sì che necessariamente il concetto di atto  precede quello di potenza, e la conoscenza dell’uno quella  dell’altro.   Esso, poi, è prima quanto al tempo in questo senso: l’in-  dividuo attivo è prima di quello in potenza in quanto è lo  stesso per la specie; invece, considerato nella sua identità  numerica, è prima in potenza, e poi in atto. Mi spiego: di  quest'uomo qui ch’è già in atto, o di questo frumento o di  quest’occhio che vede, c’è prima, in tempo, la materia, il  seme, la facoltà visiva, i quali sono uomo, frumento, occhio  che vede, in potenza, non ancora in atto. Tuttavia li prece-  dettero altri esseri in atto, dai quali essi furono generati.  Poichè sempre dall’ente in potenza si passa all’ente in atto  in virtù di un ente in atto: ad es., l’uomo vien dall'uomo,  il musico vien dal musico, Sempre deve precedere un mo-  tore, e questo è già in atto. Abbiamo già visto ne’ ragiona-  menti intorno alla sostanza (!) che ogni cosa che diviene,  diviene qualcosa, da qualcosa, e per opera di qualcosa ch'è  della stessa specie di essa.   Per cui si vede anche l’impossibilità che uno divenga  costruttore se non ha mai costruito nulla, o citaredo senza  aver mai suonato la cetra: poichè chi vuol imparare a suonar  la cetra, suonandola, impara a suonarla. E similmente per  ogni arte. Di qui prese nascimento l’argomentazione sofistica    ———    (1) Lib. VII. 7-8.    294 METAFISICA    che non c’è bisogno di possedere la scienza per fare ciò di  cui questa tratta ('), perchè, finchè uno impara la scienza,  non la possiede. Se non che, come di ciò che diviene qual-  cosa già dev’essere divenuta, e in generale di ciò che si  muove qualcosa deve già essersi mossa (questo punto fu illu-    1950 a strato nei libri intorno al movimento) (*); così, chi “apprende    una cosa, deve necessariamente conoscerla già in parte.  Anche per questa via, dunque, risulta chiaro che l’atto, pur  da questo lato, del processo generativo e del tempo, è prima  della potenza.   Ma anche in riguardo alla sostanza l’atto è prima della  potenza: prima di tutto, perchè quel che pel divenire è ul-  timo, per la forma sostanziale è prima: per es., l’adulto è  anteriore al fanciullo, e l’uomo allo sperma: l’uno ha già  realizzata la specie che l’altro non ha ancora. In secondo  luogo, ogni cosa che diviene muove verso un principio e  un fine: lo scopo di una cosa ha valore di principio, e il  divenire è per il fine: questo fine è l’atto, ed è in grazia  di esso che si pone la potenza: chè l’animale non vede a  fin d’aver la vista, ma ha la vista per vedere. Similmente,  anche l’arte del costruire c’è per il costruire, e l’abito spe-  culativo per lo speculare: e non è già che gli uomini spe-  culino per aver l’abito speculativo: salvo il caso di coloro    (1) Lett.: «cho chi non possiede la scienza può far ciò di cui questa tratta »:  per es., sonare la cetra. Cfr. EthA. Nic., II. 1 e 3. La scienza è in atto nel maestro  (col quale, in certo modo, fa tutt'uno lo scolaro). Nota il solito avvicinamento  della produzione naturale a quella umana (consapevole).   (2) Phys., VI. 6. Anche nell’individuo, dunque, se si guarda al processo in  sò dell’attività (superando il dualismo tra l'esterno e l’interno), l’atto precede  la potenza (questa è già attività). Chè, come il sapere vien dal sapere (cfr. I.  9, 94; Anal. Post., I. 1. 71 a, 1), così l’attività non può venir che dall’attività stessa.  Inavvertitamente A. sorpassa la distinzione posta al $ 4 tra l'individuo e la spocie  empiricamente intesi (termini da lui stesso riconosciuti astratti altrove) e il Ssi-  gnificato meramente cronologico del tempo (in cui l’argomentazione, come ognun  sa, non può esser conchiudente): questo gli si fa equivalente al divenire sostan-  ziale dell'individuo come suo svolgimento interno (conforme al concetto di quo  al 6 1). Cfr. note a 6, 7 e VII. 1, 4. — Le considerazioni che seguono, riguar-  dano l'atto come principio finale e formale del processo stesso di svolgimento,  secondo il canone fondamentale di A., onde ciò che in esso è posteriore spiega  quel che vien prima.    10    ll    12    13    14    15    16    17    LIBRO NONO 295    che lo fanno per esercitarsi, dei quali si può dire ch’ essi  non speculino veramente, tranne che in certo senso, 0 che  di speculare non sentono ancora veramente il bisogno (4).  Inoltre, la materia è in potenza perchè può pervenire alla  forma; ma quando sia in atto, allora è già formata. E così di-  casi delle altre cose, anche di quelle di cui il fine è il movi-  mento (?): onde, in quel modo che gl’ insegnanti pensano d’aver  raggiunto lo scopo quando han potuto mostrare lo scolaro  in azione, così fa anche la natura. Se così non avvenisse, sa-  rebbe il caso dell’ Ermete di Pausone: anche la scienza, come  quella statua, non si saprebbe se è fuori o dentro (*). Poi-  chè l’azione è fine, e l’atto è azione: per cui il nome stesso  di atto (4) si dice in rapporto all’azione, ed esprime la ten-  denza alla realizzazione finale. In alcuni casi, poi, il fine  ultimo è nell’uso stesso della potenza, per es., della vista è  il vedere, e niun’altra opera si attende dalla vista fuori di  questa. In altri casi, si realizza qualcos’altro oltre l’atto:  per es., per l’arte del costruire c’è la casa oltre l'atto del  costruire. Tuttavia non si può dire che l’atto sia meno il  fine della potenza in questo caso, e più in quello (*): poichè  l’atto del costruire si esercita nell’oggetto che vien costruito,  e il suo processo si realizza insieme con la casa. In quelle    (1) Queste parole «quomodo sint interpretanda, equidem me non intelligere  confiteor ». Bonitz (p. 403); anche per il Ross (II, 262) sono « excessively difficult ».  Mi sono avvicinato al Lasson (p. 154).   (2) ... Stesso: com'è il caso dell’apprendere (in coi non c’è una materia che  attende di passare nella forma, come per la casa); o del vedere (in cui il fine  ultimo è l’uso stesso della potenza).   (3) « Questo Pausone, statuario, fece un'immagine di Ermete in una certa  pietra, e chi guardava vedeva nella pietra Ermete; ma non era chiaro se fosso  fuori della pietra o dentro di essa»: Aless. (588, 29). Ma Pausone era un pittore  (avrà Aless. pensato a III. 6, 9; V. 7, 7, ecc?). Secondo il Ross, si trattava di  un'illusione pittorica, — Se è (soltanto) fuori (il sapere: come un’abilità verbale);  oppure: se è (soltanto) dentro (come mera potenza).   (4) azione: Eeyov; atto: evéoyera; realizzazione finale: èvtedéyera.   (5) Nel secondo caso pare che i! fine della potenza non sia l’atto (il co-  struire), ma il fatto (la casa). Ma non è così, dico A.: «quia ipsa actio est in  facto, ut aedificatio in eo quod aedificatur.
Et aedificatio simul fit et habet esse  cum domo »: $. Tom. (1863). Gli altri (meno bene) intendono: Nel primo caso  (del vedere) l’atto è fine; nel secondo (del costruire) è fine più della mera potenza.    296 METAFISICA    cose, quindi, in cui vien prodotto qualcos'altro oltre l’uso  della potenza, in esse l’atto si mostra in ciò che vien fatto:  per es., il costruire nel costruito, il tessere nel tessuto, e  similmente per altre cose; e, in generale, l’atto del movi-  mento è in ciò che vien mosso. Quando, invece, non c’è  qualche altra opera oltre l’atto, questo è tutto nel soggetto  stesso dell’attività: per es., il vedere nel veggente, il pen-    1650 b sare nel pensante, la vita nell'anima, e però anche la feli-    cità: la quale, infatti, è una vita d’una certa specie. Con-  chiudendo, è evidente che la sostanza e la specie sono atto.  E, secondo lo stesso discorso, è evidente che, per la sostanza,  l’atto è anteriore alla potenza; per il tempo poi, come ab-  biam detto, si concepisce sempre un atto avanti l’altro, fino  a quello del Motore primo ed eterno.   Ma l’atto è primo anche in un più alto senso: perchè  l'eterno è, per la sostanza, prima di ciò ch'è corrattibile,  e nulla di ciò ch’è eterno è in potenza soltanto. La ragione  è questa: ogni potenza è potenza di entrambi insieme i con-  tradittorii, in quanto — mentre il non poter essere non può  esistere come proprietà di nulla — ogni potenza reale, invece,  può anche non esser in atto. Quindi, ciò che ha la potenza  di essere può essere e anche non essere. Ma ciò che può  non essere può darsi che non sia, e ciò che può darsi che  non sia è corruttibile, o in senso assoluto, o per quel che  di esso dicesi che può non essere: relativamente al luogo,  ad es., o alla quantità, o alle qualità. Corruttibile, in senso  a ssoluto, è una cosa, se corruttibile è la sua sostanza. Ora,  niuna delle cose assolutamente incorruttibili è, in quel senso,  un essere in potenza, sebbene nulla impedisca che tale sia  per qualche rispetto ('): per una qualità, ad cs., o per il  luogo. Le cose incorruttibili, dunque, sono attuali. E neppure  le cose necessarie posson esser in potenza, e nondimeno esse  sono originariamente (*) esistenti: chè, se queste non esistes-    (1) Gris pBPagrév = p#. xatà ovolav (nascere e perire); in senso relativo  (xatà 0), ciò che muta di quantità, di qualità o di luogo. Ofr. VIII. 1, 8 (e nota).   (2) ne@bta: è probabile che queste cose necessarie siano i principii primi in  senso logico e insieme réale.    18    19    20    21    22    23    24    LIBRO NONO i 297    sero, nulla esisterebbe. E se c’è un movimento che sia eterno,  neppur esso è in potenza; e se esiste un essere eternamente    * mosso, non è possibile che sia mosso in potenza, salvo che    25    26    27    non ci si riferisca a un punto di partenza o di arrivo ('):  chè per questa specie di movimento può bene ammettersi  che sia provvisto d’una materia. Per questa ragione è sempre  in attività il Sole, e gli Astri, e il Cielo tutto quanto, e non  c’è da temere che mai si fermino, come han paura i Fi-  sici (*): chè il loro operare non li stanca. E non li stanca  perchè il loro movimento non riguarda, come quello delle  cose corruttibili, la possibilità dell’una o dell’altra parte della  contradizione (*), che renderebbe faticosa la continuità del  movimento. Causa di tal fatica negli esseri corruttibili è  l'essere materiale, e potenziale, non attuale, della sostanza.  Pure, anche le cose mutevoli, come la terra e il fuoco, si  sforzano d’imitare quelle incorruttibili: anch’esse, infatti,  hanno in sè e per sè il movimento (‘), onde sono in continua  attività. Ma le altre potenze, di cui s’è ragionato, son ca-  paci di contradizione in quanto, quel che ha potenza di muover  così, può muovere anche non così: quelle, s'intende che agi-  scono secondo ragione. Le potenze irrazionali, invece, son  capaci di contradizione solo in quanto possono esser presenti  o assenti (°).    (1) « Quia licet non sit in potentia ad moveri simpliciter, est tamen in po-  tentia ad hoc vel ad illud ubi»: S. Tom. (1876). Per la materia meramente  tori, v. n. cit. dianzi a VIII. 1, 8.   (2) Sembra alluda specialmente ad Empedocle: cfr. De Caelo, II. 1, 2842, 24.   (3) L'essere e il non-essere, tra i quali ha luogo il nascere-perire (mutamento    i sostanziale).    (4) «Il movimento è una specie di vita in tutti gli esseri costituiti natural-  mente » (Plys., VIII. 1.250 b, 14). Ein De Gen. et Corr., II. 10. 337 a, 2: « Anche le  altre cose, quante si mutano le une nelle altre, per es. i corpi semplici, imitano il  movimento di traslazione ;circolare ». Ovvero, si accenna alla continuità del movi-  mento (spaziale) degli elementi in generale (Aless., 593, 12); 0 a quello in giù  della texra, in su del fuoco (v. Ross, a q. l.).   (5) Ciò ch'è salubre produce sempre e soltanto la salute, ma può esserci, e  anche non esserci (e in questo caso non produrla). Cfr. cap. 2,4 e 5, 4-5. La pos-  sibilità logica (contraddizione) e quella reale (contrarietà) si alternano in questo  paragrafo, come nel 21. Per entrambi i p. d. v. si distinguono queste altre po-  «onze dalle precedenti (eterne).    298 METAFISICA    Sia pure, dunque, che esistano certe nature o sostanze 28  del genere di quelle che sostengono coloro che dei concetti  fanno altrettante Idee; ma chi fa della scienza esisterà con   1061 » maggior ragione della scienza in sè, e ciò che si muove  molto più che l’idea del movimento: poichè questi esseri  sono a maggior titolo attività, e quelle idee, invece, sono  meramente loro potenze.   Che, dunque, l’atto è prima della potenza e di ogni prin- 29  cipio di mutamento, è manifesto.    CapiToLo IX.    Che poi, in confronto alla potenza del bene l’atto sia mi- 1  gliore e più degno di onore, si vedrà da quanto segue. Tutto  ciò che noi diciamo esser in potenza, ha il potere di realiz-  zare l’uno e l’altro contrario ugualmente: quel che diciamo,  ad es., poter esser sano, è lo stesso che può anche esser ma-  lato, ed ha la potenza delle due cose insieme: poichè la po-  tenza di esser sano è la stessa di quella di esser malato,  così come quella di esser in riposo o in movimento, di co-  struire o di abbattere, di esser costruito o abbattuto. Ma  se il potere dei contrari si trova ad esser insieme, è impos-  sibile, poi, che questi esistano insieme, ed è impossibile che  sì trovi insieme la loro attualità, per es., che uno sia sano  e malato insieme. Di qui vien la necessità che soltanto uno  dei contrari realizzi il bene, laddove la potenza è di entrambi  similmente, o di nessuno dei due. L’atto è, dunque, mi-  gliore. Che se si tratta del male, la compiutezza dell’atto 2  dovrà, necessariamente, esser peggiore della potenza: chè  questa è tanto al bene quanto al male, medesimamente (*).    (1) L'atto, per sè, è perfezione, sempre, anche se di cose cattive: cfr. V.  16. 2. Qui, del resto, si parla di perfezione naturale, non morale. Cfr. l’&getà  quow in Eth. Nic., II. 6. 1106 a, 15: «Ogni virtù perfeziona il ben condursi di  ciò di cul è virtù e rende pregevole la sua operazione: per es., la virtù del-  l’occhio fa l'occhio valente e valente l'operazione sua; parimenti la virtù del    3    LIBRO NONO 299    È evidente, quindi, che il male non esiste fuori delle cose  quaggiù, poichè esso esiste, per natura, posteriormente alla  potenza. Ed anche questo è evidente: che ne’ principii primi  e negli esseri eterni non han luogo nè il male, nè manca-  mento, nè corruzione (anche la corruzione è una specie di  male).   Anche i teoremi geometrici si trovano per mezzo dell’at-  tività, poichè si trovano facendo delle divisioni (‘). Se queste  fossero già eseguite, quelli sarebbero evidenti. Così, sono  soltanto in potenza. Ad es.: perchè gli angoli del triangolo  fan due retti? Si sa che gli angoli in ogni punto d’una linea  sono uguali a due retti: se, dunque, fosse già tirata la paral-  lela a un lato (?), la cosa sarebbe chiara al primo colpo d’oc-  chio. Perchè l’angolo nel semicerchio è sempre retto? Per  questo che, quando dei tre segmenti uguali, di cui due for-  mano la base, si è elevato il terzo perpendicolare dal centro  al vertice, chi già sa che la somma degli angoli è di due  retti, vede subito chiaro (5).    cavallo fa il cavallo valente e buono al corso e a portare il cavaliere e a so-  stenere l’impeto dei nemici ». Non opportuno, quindi, il rilievo del Bonitz (p. 407):  «iudicium morale de bono et mali immisceri falso iis rebus, a quibus illud est  alienum ». Nò è erroneo il ragionamento che segue, come pensano il B. e il  Ross (II, 268), se si tien presente il passaggio, abituale in A., alla posizione 0g-  gettivistica, onde gli atti risultan graduati in corrispondenza delle cose stesse  e delle loro potenze (assolutamente buone, come quelle incorruttibili; capaci di  esser buone o cattive, o sempre cattive, come quelle corruttibili). E tà redypata  (ch'io ho tradotto: «le cose di quaggiù ») non oppongono le cose cattive in ge-  nerale all'Idea del male (come Aless. e i moderni intendono): chè il discorso  varrebbe anche per l’Idea del Bene; ma le cose corruttibili alle incorruttibili.   (1) Srargovvteg: ch'è operazione affine all'&varterv (benchè qui prevalga il  senso costruttivo), in cui consiste l’attività della è.&vora. V. passo di Erk. Nie.,  citata in nota a VII. 7, 7. E ric. il metodo dieretico di Platone.   (2) Dall'estremo della base, e prolungando questa (come nella nota dimo-  strazione di Euclide).   (3) Vede subito chiaro che i due triangoli uguali, in cui è stato scomposto  quello inscritto nel semicerchio, sono rettangoli isosceli, sì che l’angolo intero  alla circonferenza risulta di due metà di un retto. A. sceglie il caso più evidente  (perchè gl’isosceli son qui rettangoli); ma, com'è noto, il metodo di dimostra-  zione è lo stesso anche per gli altri casi (congiungendo il centro del cerchio col  vertice del triangolo si ottengono pur sempre due isosceli, con due retti al centro,  e due coppie di angoli uguali). — Dei tre segmenti uguali due formano il diametro,  il terzo è il raggio perpendicolare alzato dal centro.    300 3 MBTAFISICA    In conchiusione, è manifesto, che ciò ch’è in potenza noi 6  veniamo a scoprirlo riportandolo (') all’atto. E la ragione di  ciò è che intendere è attualizzare. Onde dall’atto vien la  potenza. E perciò, anche, le cose le conosce chi le fa. L’atto  è posteriore alla potenza nel divenire soltanto dell’ individuo  numericamente considerato.    CapitoLO X (?).    Dell’ essere e non-essere si parla o riferendosi alle figure 1  1051 b delle categorie, ovvero alla distinzione di potenza e atto per  ogni cosa che in esse si predica, e pel suo contrario (*); 0,  anche, in quanto vero e falso nel lor più proprio significato.   In quest’ultimo senso l’essere è considerato nelle cose in 2  quanto può essere composto o diviso. Per la qual cosa è nel  vero colui che pensa esser diviso ciò ch’è diviso, e composto  ciò ch’è composto; è nel falso, invece, chi pensa altrimenti   di come le cose stanno. Ora, si chiede: Esiste o non esiste, 3       (1) O portandolo? Il Ross preferisce ky6peva ad àvaysueva. Ma, comunque si  preferisca, il problema è lo stesso, e involge tutto il pensiero aristotelico in un  nodo che può, giustamente, sembrare insolubile. La verità del teorema, come  ogni verità, vien da noi «scoperta » in quanto già c’è. Ed è in atto, in sè, seb-  bene soltanto in potenza per noi in quanto la dobbiamo ancora scoprire; e la  scopriamo riconducendola 8a quell’atto in cui il nostro intenderla coincide con  l'esser suo stesso: si che la dualità, in questo punto, cessa, e noi possiamo anche  dire che l’abbiamo conosciuta perchò l'abbiamo prodotta (sa chi fa). — Intendere  è attualizzare: vénow  tveoyera (meglio, col Ross: Î vénars èvée.: altrimenti,  bisognerebbe forse intendere che l’atto dell'oggetto è un atto del vos stesso:  il che è troppo vero per esser asserito, così semplicemente, da A. qui). — Per  l'individuo numericamente considerato, v. capitolo precedente, 4.   (2) È dubbio che questo capitolo sia stato scritto originariamente per esser posto  a questo punto. I richiami a V. 7, 4-7e a VI. 2, 1-3 e 4,4 non sono decisivi su ciò.  Cfr. JAEGER (Entst., 49; Arist., 211). Invero, il rapporto tra il pensiero discorsivo  e la verità reale, tra l'unità del ne e l'atto di apprenderlo, non è questione  estranea all'argomento dei libri VII (cfr. Sommario per capp. 4 e 10), VIII  (capp. 3 e 6), IX (4, 3 e capp. 8 e 9). Dianzi s'è pur trattato di quelle sostanze  semplici ed eterne delle quali si ripiglia qui a parlare. Ma è il tono che, soprat-  tutto, non si accorda con quello. complessivo della ricerca precedente.   (8) Il non-essere di ogni cosa in ogni categoria. — Nel lor più proprio signi-  ficato: il testo vuole forse « nel suo più proprio 8. », riferito all'essere. Ma cfr. VI.  4, 4; nè sarebbe conforme al modo di pensare di A., sembra.    LIBRO NONO 301    quel che noi intendiamo per vero o per falso? Bisogna bene  che sappiamo quel che diciamo.   Considera, infatti, che, non perchè noi ti reputiamo bianco,  tu sei bianco davvero; ma, all'incontro, perchè tu sei bianco,  pensiamo il vero noi che ti diciamo bianco. Orbene, l'essere  di alcune cose è sempre unito e non può mai venir diviso,  in altre invece è sempre diviso e non può mai congiungersi,  in altre infine può trovarsi ne’ due modi opposti (‘). Se, dun-  que, l’essere di una cosa consiste nella composizione sì da  formare un’unità, e il suo non-essere nella divisione sì da  formare una molteplicità, nelle cose che possono trovarsi in  entrambi i modi la medesima affermazione può esser vera  e falsa, potendo ben avvenire che una volta si sia nel vero,  e un’altra nel falso. Invece, nelle cose che non possono  esser altrimenti di quel che sono, non avviene che una volta  si sia nel vero e un’altra nel falso, ma si è sempre o nel  vero o nel falso.   Ma quando l’essere di una cosa è semplice (?), in che  consiste il suo essere o non essere, e come di essa si può  ‘dire il vero o il falso? Chè non è già componibile o scom-  ponibile, sì che esista quando c’è la composizione e non  esista quando c’è la divisione (come è il caso del legno di  color bianco, o della diagonale che non è commepnsurabile).  Qui il vero e il falso non può aver luogo nello stesso modo  che nelle cose dette prima (*), e, come il vero, così anche    (1) Es: il triangolo e l’uguaglianza della somma degli angoli a due retti;  la diagonale e la sua commensurabilità al lato del quadrato; Socrate e il suo  camminare. V. per quel che segue, note a V. 29 e VI. 4: in questo secondo venne  accentuata sul primo la soggettività della sintesi-dieresi, in cui consiste il giu-  dizio affermativo o negativo, e il vero o falso; qui si ricerca, invece, con un  passo ulteriore sul secondo, la corrispondenza oggettiva a quel principio logico-  soggettivo.   (2) Si potrebbe intendere delle pure essenze in generale, in sè e per sè, 6  delle categorie (cfr. VIII. 6, 7-8), e dei principii primi nel senso gnoseologico  (IX. 8, 23); ma anche, e forse meglio, in senso esietenziale, degli esseri immate-  riali (cfr. VII. 16, 7).   (3) Comprese (come l'esempio della diagonale dimostra) quelle che sono sempre    vere o false nel giudizio. Qui vero == intendere (e il suo oggetto); falso = non  intendere, ignorare.    1052 a    302 METAFISICA    l'essere non può avere qui lo stesso significato che là. In  queste cose è possibile la verità e l'errore soltanto nel senso  che coglierle (') è già enunciarne la verità (enunciare non è  lo stesso che affermare), non coglierle vuol dire ignorarle.  Sbagliarsi sull'essenza di una cosa non è possibile tranne  che per accidente, e così pure non ci si può sbagliare per  quelle sostanze che non sono composte, perchè sono tutte in  atto, e non in potenza: chè, altrimenti, si genererebbero e  perirebbero, laddove l’essere che è in sè e per sè, non ri-  cevendo il suo essere da altro, non nasce e non muore. In  conchiusione, quando l’essere delle cose è ciò che è, in atto,  su esso non è possibile ingannarsi: si può soltanto intendere  o non intendere. Tuttavia, si può chiedere ciò che esse sono,  se l’essenza loro è tale, o no.   Per l’essere nel senso del vero e il non essere in quello  del falso, si ha, dunque, nell’un caso, il vero se c’è una  composizione, il falso se questa non c’è; nell’altro caso, se  il suo essere è il suo stesso esser vero, e se non è così, nep-  pure è (*). Chè la verità sua consiste nell’intenderla, e il  falso o l’inganno non ha luogo. Ci può essere ignoranza, ma  non come una cecità, chè, allora, vorrebbe dire che uno non  ha addirittura la facoltà d’intendere.    (1) &yeîv, toccare. Cfr. XII. 7. 1072 b, 21 ($ 7). È l’apprensione immediata del  vero e reale: così anche l'atto dell’alo&nors (cfr. IV. 5, 19). E cfr. anche De An.,  ITI. 6. 430 b, 26-30: dove pure si accenna alla pdow come distinta dalla xatapagws;  cfr. De interpr., 6. 17a, 25: « Affermare è enunciare qualcosa di qualcosa ». In-  fatti, nel paragrafo seguente, si concede di chiedere ciò che esse sono (cfr. VII. 4, 13).  La distinzione dei termini (del discorso in generale e di quello che ha valore pro-  priamente logico) non è mantenuta altrove. — Chi chiede, non sa nel senso che  non gi rende conto ancora, e però può sbagliare per accidente.   (2) Passo molto tormentato dagl'interpreti. Mi sono ispirato a S. Tom. (1915):  «Alio vero modo in rebus simplicibus verum est, si id quod est vere eng, i. e.  quod est ipsum quod quid est, i. e. substantia rei simplex, sic est sicut intelli-  gitur; si vero non est ita sicut intelligitur, non est verum (in intellectu)». To-  glierei queste ultime parole. In A., inoltre, l'equivalenza della verità del pen-  siero all'essere dell’oggetto è posta più immediatamente, anzi sottintesa più che  espressa (di qui una causa dell'oscurità del passo, il quale, in sostanza, sembra  voler affermare che per gli esseri semplici, così come per la véno, esiste la  verità, non l’errore: vero e falso, riguardo a essi, equivale ad esistere o non  esistere).    7    10    11    LIBRO NONO 303    Anche in riguardo agli enti immobili, finchè uno li con-  sidera tali, non è possibile, evidentemente, cadere in errore  quanto al tempo. Mi spiego: a meno che uno non pensi  che la natura del triangolo possa mutare, non potrà pen-  sare che una volta la somma de’ suoi angoli è uguale a due  retti, e un’altra no (altrimenti, la sua natura mauterebbe).  Invece, può darsi che nello stesso genere reputi che un og-  getto sia in un modo e un altro in un altro: ad es., che dei  numeri pari nessuno sia primo, ovvero qualcuno sì e altri  no (‘). Ma quando si tratta di un unico oggetto, questo non  è mai possibile, perchè non si potrà già credere che sia ora  in un modo e ora in un altro; ma, riguardo a esso, si sarà  nella verità o nell’errore nel senso che esso rimane eterna-  mente uguale.    (1) Ovvero, che il due sia primo, gli altri no (giustamente, se dei pari; non  cosi, se dei numeri in generale). Se l’oggetto è unico, per es. un tal numero,  non il numero in generale, neppure tale errore è possibile: il giudizio nostro  (vero o falso) implica ch'esso è sempre così. Dell’errore intorno al numero parla  anche il Teeteto, 196 88.    1    LIBRO DECIMO    CaPiITOLO I.    Che dell’Uno si parla in molti modi, si disse già (') di-  scorrendo dei molteplici significati di alcuni termini. Ma, pur  dicendosi in vari modi, questi si riducono — per le cose che  si dicono une, non per accidente, ma primariamente e per  Se stesse — a quattro capitali.   Uno dicesi, infatti, il continuo, o in generale, o score  tutto quel ch’è tale per natura, e non per contatto o per  legame esteriore; e questo tanto più e più propriamente è  uno, se sia di cose il cui movimento è meno divisibile e  più semplice (?).   Inoltre, uno, e a maggior diritto, è l’intiero (?), e ciò che  ha qualche figura e forma: specialmente se qualcosa sia tale    (1) V. lib. V. 6: qui si tralasciano i modi accidentali; e quelli essenziali  vengon divisi in quattro corrispondenti, nell’ insieme, a quelli del lib. V d’indi-  viduo e l’universale sono una distinzione dell'unità dell'atto anche colà affermata,  nel $ 10, ma qui posta a fondamento, oltre che per il pensiero, anche per le cose). —  Invece, prende il priino posto qui la trattazione colà brevemente accennata (13-15)  del concetto dell’unità in sè e per sò.   (2) Per il rapporto tra i due concetti, di continuità sostanziale e unità del  movimento, cfr. nota a V. 6, 5.   (3) All'interezza si accennò anche in V. 6, 12: qui ha maggior rilievo, e de-  termina l'unità del movimento non soltanto in rapporto al tempo, ma anche allo  spazio (tale è, si direbbe, l’atto vitale: f 82 toù èveoyera xs toriv: Eth. Niec.,  X. 4. 1175 a, 12, e cfr. ivi, cap. 4, per il piacere, che nell’atto è sempre intero  e perfetto, e in questo senso non è della specie di movimento che si produce  attraverso le varie parti dello spazio e del tempo).    ARISTOTELE, Metafisica. 20    306 MBTAFISICA    per natura, e non per forza (come quel ch'è unito con la  colla, con chiodi o corda), ma abbia in se stessa la causa  della sua continuità. E tale è in quanto il suo movimento  è unico e indivisibile nello spazio e nel tempo: così che è  evidente che, se una cosa ha per natura il principio più eccel-  lente di quel movimento ch’è primo (voglio dire, dei movi-  menti spaziali, quello circolare) ('), essa è, tra le cose estese,  una per eccellenza.   Queste cose, dunque, sono une così, o per continuità o  per interezza. Altre, quando uno sia il concetto. Tali sono  quelle di cui unica è l’intellezione; e tali, quelle che s’in-  tendono con un atto indivisibile. E questo è indivisibile se  sia di ciò ch’è indivisibile per la specie o pel numero. In-  divisibile numericamente è l’individuu; per la specie, ciò  ch’è tale per la conoscenza e per il sapere: sì che prima-  riamente uno sarà quel ch’è causa dell'unità delle sostanze (?).   Si dice, dunque, l’uno in tutti questi sensi: ciò ch’è con-  tinuo per natura, l’intero, l'individuo e l’universale. E l’uno  vale per tutte queste cose, in quanto nelle une è indivisibile   1058 b il movimento, nelle altre l’intellezinne o il concetto.   Ma si ponga mente di non prendere come la stessa que-  stione questa: quali sono le cose alle quali si attribuisce  unità; e l’altra: qual’è l'essenza propria dell’uno e il suo  concetto. L’uno, infatti, si dice in tutti i modi accennati, e  ogni cosa, a cui convenga qualcuno di questi modi, è una.    (1) Dei movimenti spaziali quello circolare è perfetto, per la semplicità (in-  divisibilità) e continuità: tale, quello eterno del cielo: come si dimostra nel  cap. 8 del lib. VIII della Fisica (nel cap. 7 si era dimostrata la superiorità del  puro movimento spaziale, in generale, alle altre forme di movimento proprie delle  cose che si generano e mutano di quantità e qualità: cfr. qui VIII. 1,8; IX. 8, 25;  XII. 6,2 7,4). — Cose estese: lett. grandezza (peyedog: ciò che è o ha grandezza).   (2) El principio dell'unità nel sinolo (sostanza) è la forma, la pura essenza  nel pensiero discorsivo, l'atto in sè nella realtà in generate, e la sua attualità  nell'individualità concreta. — Nota lo scindersi dell’atto della vénows, nel brusco  passaggio alle cose, nelle due categorie supreme del pensiero discorsivo: l’ indi-  viduo e l’universale (anzi, in quelle della conoscenza in generale: il dato della  percezione e quello, il concetto, della divora... L'oscillazione tra questi punti di  vieta spiega anche il passaggio tra i termini di concetto, specie, universale, che  ora coincidono e ora non coincidono nel pensiero aristotelico.    LIBRO DECIMO 307    Ma l'essenza dell’uno si dirà, talora, secondo qualcuno di  essi; tal’alra, secondo altro che è anche più vicino al nome,  e contiene quelli in potenza (').   La cosa sta come per elemento o causa: altro è se uno  debba determinare a quali cose si attribuisce, altro se debba  dare la detinizione del nome. Poichè come elemento si può  addurre il fuoco (e certamente l’indefinito per se stesso, 0  altro di questa specie, può essere un elemento) (2), ma anche  non addurlo: chè non è la stessa cosa esser fuoco ed esser  elemento: il fuoco è elemento in quanto è una cosa parti-  colare, esistente in natura; mentre il nome elemento signi-  fica che questo appartiene al fuoco perchè c’è qualcosa di  cui esso è la parte costitutiva e originaria. Così dicasi anche  della causa e dell’uno, e di tutti gli altri termini somiglianti.   Per ciò, anche, l’essenza dell’uno è di esser indivisibile,  come quello che è un determinato ed ha una propria esi-  stenza separata per lo spazio o per la specie o per il pen-  siero; o, anche, di esser un intero indivisibile (*); ma, so-  prattutto, di essere la prima misura di ogni genere, e in  primo luogo del genere della quantità: chè di qui si estese  agli altri generi.       (1) Passo un po' oscuro. Meglio di tutti, mi sembra, S. Tom. (1934): « Hoc  ipsum quod est unum, quandoque quidem accipitur secundum quod inest alicui  dietorum modorum, puta ut dicam quod unum secundum quod est continuum,  unum est. Et similiter de aliis. Quandoque autem hoc ipeum quod est unum,  attribuitur ei quod est magis propinquum naturae unius, sicut indivisibili, quod  tamen secundum se potestate continet praedictos modos: quia indivisibile se-  cundum motum, et continuum et totum; indivisibile autem secundum rationem,  est singulare et universale ».,   Qui si parla, infatti, del concetto puro dell’uno, in sè e per sè, non in rap-  porto alle cose, sebbene si dica che possa esser concepito anche secondo i modi  in cui l’uno si predica delle cose (ossia come essenza di questi: così intendo il  dativo della 1. 6, non, come il Bonitz o il Ross, quale termine di appartenenza  predicativa). — Prù vicino al nome, ossia al concetto puro (nota l'oscillazione tra  il punto di vista logico puro e quello verbale), è il concetto di misura.   (2) L'indefinito: l'&xergov di Anassimandro (non il fuoco, s'intende).   (3) Un intero indivisibile: par raccogliere l’unità formale e materiale, di-  stinta prima in indivisibilità per lo spazio, per la specie o per il pensiero, ana-  logamente al $ 11 di lib. V. 6.— Il concetto di misura, dunque, vuol essere un  principio conoscitivo per ogni genere di cose, sebbene si applichi più comune-  mente al genere della quantità.    308 METAFISICA    Poichè misura è quella per cui si conosce la quantità; e  la quantità, in quanto tale, si conosce o per mezzo del numero  o dell'uno: ma ogni numero si conosce per mezzo dell’uno.  Per cui ogni quantità, in quanto tale, si conosce con l’uno;  e ciò per cui primieramente le quantità son conosciute è l’uno  in sè e per sè. L'uno, dunque, è il principio del numero in  quanto numero. Di qui anche per gli altri casi dicesi mi.  sura ciò per cui primieramente conosciamo ciascuna cosa,  e misura di ogni cosa è l’uno per la lunghezza, per la lar-  ghezza, per la profondità, per il peso, per la velocità. (Peso  e velocità, potendo ciascuno avere due significati, si usano  in comune per i contrari: pesante dicesi ciò che ha un qual-  siasi grado di gravità e ciò che ne ha in eccesso, e veloce  ciò che ba un qualsiasi grado di movimento e ciò che ne  ha in eccesso: poichè anche ciò ch’è lento ha una certa ve-  locità, e ciò ch’è leggero una certa pesantezza).   In tutti questi, dunque, la misura principale è qualcosa  d’uno e senza parti: anche nelle linee si usa come indivisibile  quella d’un piede. In ogni caso, infatti, si cerca per misura  qualcosa d’uno e indivisibile, e questo è ciò ch’è semplice  o per qualità o per quantità. Ora, dove sembra non esserci  nulla da togliere o aggiungere, ivi la misura è esatta: perciò    1053 a quella del numero è la più esatta, perchè l’unità si pone    come indivisibile per ogni rispetto, e negli altri casi non si  fa che imitare questa specie di misura. Di uno stadio, infatti,  e di un talento, e di ciò che in generale è più grande, ci  sfugge se qualcosa vien aggiunta o tolta, più facilmente che  per una quantità minore. Laonde quella prima, a cui niente  di percepibile può esser aggiunto o tolto, quella tutti pren-  dono per misura: per i liquidi come per i solidi, per il peso  come per la grandezza. E allora pensano di conoscere la  quantità di una cosa, quando la conoscono per mezzo di  quella misura.   E anche il movimento si misura con quello semplice e  ch'è più veloce: chè questo occupa un tempo minimo. Ond’è  che in astronomia questa è l’unità che serve di principio e  misura (poichè si suppone che il movimento del cielo sia    9    10    1l    12    13    14    15    LIBRO DECIMO 309    uniforme e il più veloce, e in rapporto a questo si giudicano  gli altri). E in musica, il diesis, perchè è l'intervallo mi-  nimo; e nella parola, la lettera. E in tutti questi casi c’è,  così, un qualcosa di uno: non come se l’uno sia qualcosa di  comune (‘), ma come s'è spiegato.   Ma non in ogni caso la misura è una numericamente;  talora è più di una: i diesis, ad es., son due (non per l’orec-  chio, ma per il computo) (?); e i suoni articolati, con cui mi-  suriamo le parole, son più di uno; e due misure hanno la    ‘diagonale e il lato, e tutte le grandezze.    Così, dunque, l’uno è la misura di tutte le cose, perchè  noi conosciamo ciò di cui si compone la sostanza dividen-  dola o secondo la quantità o secondo la specie. L’uno è perciò  indivisibile, perchè in ogni cosa ciò ch’è primo è indivisibile.  Ma non nello stesso modo ogni uno è indivisibile: per es.,  il piede e l’unità, questa è indivisibile per ogni rispetto,  quello vuol esser tale rispetto alla sensazione, come 8’è  detto: chè ogni continuo è, senza dubbio, divisibile.   Sempre, poi, la misura è dello stesso genere: delle gran-  dezze, una grandezza; e in particolare: della lunghezza una  lunghezza, della larghezza una larghezza, dei suoni artico-  lati un suono articolato, del peso un peso, delle unità una  unità (così bisogna intendere qui: non che dei numeri la  misura sia un numero: si dovrebbe dir così, se il caso fosse  simile; ma che non sia simile si vede da questo, che si fa-  rebbe misura delle unità, non l’unità, ma le unità: chè il  numero è molte unità).   Anche la scienza e la sensazione diciamo che sono mi-  sura delle cose, per questo, che con esse conosciamo qual-  cosa: sebbene siano esse misurate, piuttosto che esse misu-    (1) Punta polemica contro l’Uno platonico.   (2) Il Ross riferisce la distinzione di Aristosseno, scolaro di A., del diesis come  un quarto e come un terzo di tono. — I suoni articolati: vocali e consonanti. —  Due misure hanno, ecc. Oscuro. Si può pensare alla incommensurabilità della  diagonale al lato, sì che esigano unità di misura diverse; ed alla necessità di    almeno due dati per la misura delle superfici, dei solidi, ecc. Ma il testo, questo,  non lo dice,    310 METAFISICA    rare. Accade a noi come se un altro ci misurasse e noi co-  noscessimo quanto siam grandi per aver egli applicato il  cubito su noi per tutta la nostra altezza. Protagora dice che  1023 b l’uomo è misura di tutte le cose, intendendo di chi sa e di  chi sente: e questi, perchè hanno l’uno la sensazione, l’altro  il sapere, che noi pur diciamo esser misure de’ loro oggetti.  Sembra voglia dire qualcosa di profondo: invece, non ne  dice nulla (').  Che, dunque, l’essenza dell’uno, se si deve definire il si- 16  gnificato del termine, consiste soprattutto nell’esser una de-  * terminata misura, e in primo luogo della quantità, in secondo  della qualità, — è manifesto. E tale sarà se sia indivisibile,  in un caso, per la quantità, nell’altro per la qualità; sì che  l’uno è indivisibile, o assolutamente, o in quauto uno.    CapitoLo II.    Già nella trattazione dei Problemi incontrammo la que- 1  stione, che qui convien riprendere, della natura sostanziale (?)  dell’uno: che cosa esso è, e come si deve di esso giudicare.  E cioè, come se l’unità stessa sia una determinata sostanza  (al modo dei Pitagorici prima, e di Platone poi); o se non  piuttosto abbia qualche natura a sostrato, e però si debba  parlare di esso più intelligibilmente, e piuttosto come i Fi-  siolugi, dei quali chi dice che l’uno è l’amicizia, chi Varia,  chi l’indefinito.    (1) V. nel lib. IV la polemica contro il Protagorismo: là come qui, A. respiage  decisamente il soggettivismo della conoscenza (chi 8a, chi sente: per il significato  preciso di questo soggettivismo, v. nota al passo simibe in V. 15, 8). Sensazione e  sapere sono misure per quanto contengono di realtà e verità oggettiva. È rea-  lismo? (Cfr. Rolfes, a q. 1.: « A. è realista, non idealista. Egli si oppone a JIegel,  che fa il concetto misura e principio delle cose, ecc. »). Sì, ma in senso affine  all’idealismo del suo maestro.   (9) Lett. «la natura e la sostanza». Ma quos vale talvolla la sostanza in  generale (V. 4, 9), e odola è l'essere nella categoria principale. — Trattazione det  Problemi: lib. III, 4, 31-42. Per i Pitagorici e Platone: lib. I. 6, 9-10. I Fisiologi  ricordati sono Empedocle, Anassimene, Anassimandro.    p    LIBRO DECIMO 311    Se nessuno degli universali può essere sostanza, come  8’è detto dove parlammo (!) della sostanza e dell’essere; €  se l’essere stesso non può essere sostanza nel senso di qual-  cosa che sia uno fuor del molteplice (chè esso è un termine  comune), ma è soltanto un predicato; è chiaro che neppure  l’unità è sostanza: l’essere e l’uno, infatti, sono di tutti i  predicati i più universali. Sì che neppure i generi sono de-  terminate nature e sostanze separabili dalle altre cose; nè  l’unità può esser genere (?), per le stesse ragioni per le quali  non sono genere nè l’essere nè la sostanza.   Inoltre, bisogna che si applichi a tutte le categorie ugual-  mente. L’essere e l’uno hanno gli stessi vari significati: sì  che, come per le qualità l’uno è qualcosa di determinato e  d’una certa uatura, e così pure per le quantità, — è chiaro  che bisogna anche domandarsi per tutti i casi che cosa è  l’uno (così come che cosa è l’essere), e che non basta dire  che questa è la sua natura, di esser uno. Non è dubbio:  nei colori l’unità è un colore, poniamo il bianco, e però da  questo e dal nero si veggono generarsi gli altri (*): il nero  è privazione del bianco, così come della luce l’oscurità (questa  è la privazione della luce). Talchè, se le cose fossero colori,  esse formerebbero, sì, un molteplice (4), ma determinato, e  appunto, evidentemente, di colori; e l’unità sarebbe un uno  determinato: poniamo, il bianco. E similmente, se le cose  fossero note, ci sarebbe un numero, ma di diesis, e non sa-  rebbe già numero la loro sostanza; e l’unità sarebbe qual-  cosa, di cui Ja sostanza sarebbe non di esser unità, ma diesis.  E similmente dei suoni articolati: le cose sarebbero tante  lettere, e l’uno sarebbe una lettera, una vocale. Se fossero  figure rettilinee, ci sarebbe una molteplicità di figure, e    (1) Lib. VII. 13.  | (2) Cfr. lib. IIT. 3, 7: qui, genere è g. reale; invece, nella frase precedente,  î generi sono universali.   (3) Alla 1. 30 ho accettato l’elca (invece di el) proposto dal Ross.   (4) Lett. «un numero », come dopo. Ma ho tradotto cosi per chiarire l’equi-    valenza dei termini qui. (Così come ho usato talora unità invece di uno, quando  questo equivale all'astratto).    1054 a    312 METAFISICA    l'uno sarebbe il triangolo. E il discorso è lo stesso per gli  altri generi. In conchiusione, come, allorchè si tratta di affe-  zioni (di qualità, di quantità, o di movimento) delle cose, c’è  un molteplice e un uno che è, in tutti i casi, un molteplice  determinato e un determinato uno, di cui la sostanza non è  quella di esser uno; — nello stesso modo, necessariamente,  dev’essere per le sostanze: perchè la questione è la stessa  per tutti i casi. Che, dunque, l’unità sia in ogni genere una  natura determinata, e che in niun caso la natura di una cosa  sia l’uno per se stesso, è manifesto: ma, come nei colori  l’unità da cercare è quella che è un colore, così anche nella  sostanza l’unità è quella ch’è sostanza.   Che, poi, l’uno significhi in certo modo (') la stessa cosa  che l’essere, è chiaro, in primo luogo, dal fatto che s’accom-  pagna a esso per altrettante categorie, e non è compreso in  nessuna (non, poniamo, in quella dell’essenza, nè in quella  della qualità), ma ci sta così come l’essere; in secondo luogo,  perchè con « uno-uomo » non vien predicato nulla di diverso  che con « uomo », nello stesso modo che l’essere non è nulla  fuori dell'essenza, della qualità o della quantità; in fine,  perchè esser uno vale esser individuo.    CapitoLo III    L’uno e il molteplice si oppongono in molti modi, dei  quali uno è come quello dell’indivisibile al divisibile: mol-  teplice si dice qualcosa s’è divisa o divisibile, una s’è in-  divisibile o non divisa. Ora, poichè l'opposizione è di quattro  specie, una delle quali si dice secondo privazione, qui  avremo quella di contrarietà, non quella di contraddizione  nè di termini relativi (*). E l’uno si denomina e si chiarisce    (1) Chè l’unità può indicare, più propriamente, la misura, come s’è visto  dianzi. — « Uno-uomo »: cfr. IV. 2, bd.   (2) Cfr. V. 10, 1. Intendi: una specie di opposizione è quella in cui si guarda  alla privazione: non a quella opposta all'EE, ma a quella propria della contra-    LIBRO DECIMO 313    dal suo contrario: dal divisibile, l’indivisibile; e la ragione  è che il molteplice e divisibile si percepisce meglio dell’ in-  divisibile: per cui il molteplice è prima dell’indivisibile nel  concetto, a cagione della percezione.   All’uno appartiene, come descrivemmo anche nella Di-  stinzione dei contrari ("), lo stesso, il simile, l’uguale; al mol-  teplice, il diverso, il dissimile, il disuguale. Lo stesso (?) si  dice in molti modi: in un modo si dice talora badando al  numero; in un altro, se la cosa è una e per il concetto e  per il numero: poniamo, tu sei una cosa sola con te stesso  e per la specie e per la materia; in fine, se il concetto che  riguarda la sostanza prima (?) sia unico: per es., le linee  rette uguali sono le stesse, e così i quadrilateri equivalenti  e con angoli uguali, benchè sian molti: chè in essi l’ugua-  glianza vale identità. — Simili son le cose se, non essendo  assolutamente le stesse, nè senza differenze per la sostanza  che fa loro da sostrato, siano pur le stesse per la specie:  per es., il quadrato maggiore è simile al minore, e le linee  rette disuguali sono simili: esse sono simili, non assoluta-  mente le stesse. Altre cose sono simili, se, avendo la stessa  specie, ed essendo cose in cui si dà il più e il meno, non  abbiano in questo differenza. Altre cose, se hanno la stessa  affezione, che sia la medesima per la specie, per es. la bian-  chezza, ma in grado maggiore o minore, si dicono simili  perchè identica è la loro specie. Altre si dicon tali, se di  qualità che son le stesse ne hanno in numero maggiore che  di diverse, o assolutamente, o quelle più in vista: per es. lo    rietà (ch’è privazione totale). Par come manchi qualcosa nel testo. — Il termine  negativo, qui, è l’uno (nell’esperienza ci è dato il molteplice, non il meramente uno).   (1) Vedi IV. 2, 6. All'uno appartiene lo stesso per la sostanza, il simile per la  qualità, l'uguale per la quantità.   (2) Cfr. V. 9. L'identità per il numero Aless. (615, 23) l’intende come l’unità  accidentale; ma nota che poco dopo essa è fatta equivalente a quella per la  materia (i due concetti del sinolo).   (9) Cfr. VII. 7. 1032 b, 1 ($ 6): elBog dè Abyo tò ti fiv elva: éxdatov xal Thv aQOInY    odolav. Nota, tuttavia, che l'illustrazione del concetto è presa da realtà mate-  matiche.    1054 b    314 METAFISICA    stagno è simile all’argento per il bianco (‘), l’oro al fuoco  per il colore giallo-ardente.   Per ciò è chiaro che anche il diverso e il dissimile si di-  cono in molti modi; e la diversità si oppone così all’ iden-  tità, che ogni cosa rispetto a ogni altra o è la stessa o è  diversa. Ma diverso è anche ciò di cui la materia e il con-  cetto non è identico: tu, per es., e il tuo vicino siete diversi.  E la diversità, in terzo luogo, è come negli oggetti mate-  matici (*). Diversità, dunque, e identità si dicono di ogni cosa  rispetto a ogni altra, purchè siano cose che hanno unità e  realtà: poichè il diverso non è il contradittorio dell’ identico,  onde non si dice delle cose non esistenti (delle quali la non-  identità pur si predica), ma delle cose esistenti tutte quante:  chè queste, avendo per natura unità ed esistenza, o sono  identiche o non identiche (*). Il diverso, dunque, e l’identico  si oppongono in questo modo.   Ma differenza e diversità non son lo stesso. Ciò ch'è di-  verso e ciò da cui è diverso non son di necessità diversi  per un rispetto determinato. Tutto, pur che sia reale, o è  diverso o identico. Ma quel ch’è differente da qualcosa, ne  differisce per qualche rispetto (4): quindi c’è necessaria-    (1) Alla 1. 23: fl Aeuxév, inv. di 7 xQvo@ (Ross). Per la somiglianza, cfr. V.  9, 6. La somiglianza, dunque, è o per la specie (1), o per il grado di questa (2), 0  perchè una qualità delle cose è la stessa, sebbene in grado diverso (3), o perchè di  qualità ne hanno un buon numero, o le più evidenti, in comune (4). Nel 1° caso,  la specie ha significato formale, ma non sostanziale (concreto), onde ]a differenza  resta puramente  quantitativa (la specie qui fa anche da qualità); nel 2°, è forma  sengibile, chiarita dal 3° caso: in questi © nel 4° si unisce un criterio quantita-  tivo. Forse per questo A. non tratta, dopo, dell'uguale (di questo egli si è valso  anche per l’identico: cfr. $ 4‘. Gli opposti (dissimile e disuguale) vengono, quindi,  assorbiti dalla trattazione seguente intorno alla diversità, differenza e contrarietà.   (2) Vedi $ 4. Qui la diversità, forse, è nella forma o concetto; nel caso prece-  dente, nella materia: entrambi fan capo alla prima definizione (la quale vien  determinata nel paragrafo seguente per le cose esistenti sostanzialmente). Ho  tradotto con diverso o diversità sia l’Étegov, che l'&XX0; con lo stesso o identico  (o identità), tadté, e qualche volta anche l’Év (1. 22, dove l’altro Ev è, propria-  mente, l’unità). Per la diversità e la differenza (1 Biapoodi, cfr. V. 9, 4-5.   (3) Ev e oòy Ev: ma questo bisogna pensarlo come privazione, 0 equivalente  all’Evegov: se, invece, si fa equivalente.al pù taòré della parentesi, si torna alla  negazione che vale per l'esistente e per il non-esistente.   (4) vivi: prima tradotto «per qualche rispetto determinato ». La differenza di    6    9    10    LIBRO DECIMO 315    mente qualcosa d’identico per cui differiscono. Questo ch'è  identico, è o il genere o la specie. Noi vediamo, infatti, che  tutte le cose differiscono o per il genere o per la specie:  per il genere, quelle che non hanno una materia comune,  nè si generano le une dalle altre (*): così, quelle che figu-  rano in una categoria diversa; per la specie, invece, quelle  che hanno il medesimo genere. E si chiama genere ciò che  di entrambe le cose differenti si dice, secondo la sostanza,  identicamente.   E i contrari son differenti: chè la contrarietà è una dif-  ferenza determinata. Che questo, come ora s8’è esposto, stia  bene, è manifesto per induzione: poichè essi si mostrano,  tutti, differenti e identici, non soltanto diversi (2): ma alcuni  diversi per il genere; altri, essendo nella stessa serie della  categoria, son nello stesso genere e identici per questo.  Abbiamo altrove determinato quali cose sono per il genere  identiche o diverse.    genere può ammettere un’unità soltanto analogica: efr. V. 6, 15 (dove il genere  vien già identificato con la categoria: come nel paragrafo seguente). Prima, per  le forme dell’uno, è presupposto il molteplice; qui, il molteplice implica un  p. d. v. unitario (ma A. mette ciò poco o nulla in rilievo).   (1) Nota la mescolanza del p. d. v. realistico con quello logico. Di qui le diffi-  coltà del passo, onde il Christ vorrebbe espunta la frase seguente, ch’egli, d’ac-  cordo col Bonitz, trova in contraddizione con l’altro accenno alle categorie nel  S 10. Il colore e il suono, ad es., son generi diversi, entrambi nella categoria  delia qualità, Il testo, tuttavia, dà ragione al Ross di sostenere che la serie ca-  tegorica del $ 10 non accenna a una distinzione interna a ciascuna categoria,  ma coincide con l’accenno qui alle figure categoriche. « A. senza dubbio chiama  generi molte classi che non sono categorie, ma in senso stretto le categorie sono  i soli generi, perchè sono le sole classi che non sono specie» (Ross a q. l.).  Si può aggiungere che A., quando ha in vista l'essere concreto, lo pensa, in-  sieme, come sinolo di materia e forma (dove il genere primo è la materia nella  sua maggiore indeterminazione), e come usia ch'è sostrato delle altre determi-  nazioni (donde le categorie come summa genera, reali e logici insieme).   (2) Il testo è alquanto incerto: così, com'è nel Christ, meglio sottintendere  come soggetto tà èvavila (Ross), e fare del passo un preludio al capitolo se-  guente. Certo, il discorso si complica, qui, di entrambi i concetti, della diversità  e della differenza: il diversi in questo punto non ha lo stesso valore di quello    che segue (che comprende i contrari per coppie, non l’uno in rapporto all’altro). —  Abbiamo altrove determinato: V. 28, 6.    316 MBTAFISICA    CapiroLOo ]V.    Poichè può darsi che le cose tra loro differenti differiscano 1  più o meno, ci ha da essere anche una differenza massima.  Questa io chiamo contrarietà: e che sia la massima differenza,  si vede per esperienza. Invero, tra le cose di genere diffe-  rente non c’è passaggio, anzi si tengono lontane, sì che non  vengon mai a confronto. Ma quelle che differiscono per la  specie si generano da estremi che sono i contrari. Ora, la  differenza degli estremi è la maggiore che ci sia. E tale è  anche quella dei contrari. Ma ciò che in ciascun genere vi 2  è di maggiore, è perfetto: poichè maggiore di tutto è ciò  di cui niente è superiore, e perfetto è ciò fuori del quale non  è possibile trovar altro. La differenza perfetta possiede il  fine (‘), così come anche le altre cose si dicono perfette perchè  posseggono il fine: e fuori del fine non c’è nulla, poichè esso  in ogni cosa è l’ultimo termine e abbraccia tutto. Perciò non  c’è nulla fuori del termine finale, e ciò ch’è perfetto non  ha bisogno di nulla. Da questo è, dunque, chiaro che la con-  trarietà è una differenza perfetta. Ma, poichè i contrari si  dicono in molti sensi, la perfezione che a loro compete si  dirà, di conseguenza, negli stessi modi.   Così stando le cose, è manifesto che un contrario non può 3  avere più di un contrario: poichè del termine estremo non  se ne può dar uno più estremo, nè possono esserci più di  due estremi di una sola e unica distanza. E in generale, se  la contrarietà è una differenza, e la differenza è fra due  termini, così, dunque, sarà anche di quella ch’è differenza  perfetta.   E di necessità anche le altre definizioni dei contrari trar- 4  ranno di qui la loro verità. Poichè la differenza perfetta è  quella onde le cose differiscono di più: onde non è possi-    (1) Si tengano presenti i termini greci téievov e térog, e cfr. V. 16. Vedi anche  ivi, cap. 10, per l'opposizione in generale e per la contrarietà. — La fine di questo  paragrafo è chiarita dal 8 5.    LIBRO DECIMO 317    bile trovar nulla fuori di essa, sia che le cose differiscano  di genere, o di specie. Si è mostrato, infatti, che non è pos-  sibile una differenza in rapporto a cose che sian fuori del  genere ('), ma è tra quelle dello stesso genere che la diffe-  renza può esser massima, ed i termini che qui più differi-  scono sono contrari: chè differenza massima, in questi, è  quella perfetta. E dove ciò che può ricevere quei termini  è lo stesso, son contrari quelli che più differiscono: poichè  la materia per i contrari è la stessa, e così dicasi per le  cose che, cadendo sotto la stessa facoltà (*), differiscono di  più: poichè la scienza, se unica, è intorno a un unico genere,  dove la differenza perfetta è quella maggiore.   La principale contrarietà, poi, è tra abito e privazione:  non, tuttavia, ogni privazione (chè questa si dice in molti  modi), ma quella che sia perfetta. E le altre contrarietà si  diranno secondo questa: alcune perchè la posseggono, altre  perchè la producono o sono in grado di produrla, altre perchè  rappresentano un acquisto o una perdita di questi (*) o di  altri contrari. Che se opposizione è la contraddizione, la pri-       (1) La differenza tra i generi o tra cose di genere diverso non è considerata  da A.come vera differenza, perchè manca il rapporto, identificato, da un p. d. v.  realistico-empirico, col passaggio, di cui al $ 1. Quando quel rapporto c'è, si ha  un p. d. v. logico (che vuole identità e ditterenza insieme). Ma, poi, questo 0 è  riguardato in una logica astratta (che sta tra quella del pensiero in sè e per  sè, e quella meramente discorsiva: i due terinini son racchiusi nella sintesi del  giudizio, ma il pensiero non si media ne'suoi termini, sì che questi restano uno  di fronte all'altro immediatamente), e si ha la contraddizione; ovvero il p. d. v.  logico vien concepito come coincidente con quel passaggio, e si ha la contra-  rietà. I contrari banno sempre una materia, si dice in XII. 10, 12: ossia, una  materia comune, ch'è il genere reale e logico, dentro il quale si muove il reale  e il pensiero che lo pensa. D'altra parte, poichè i limiti estremi, entro i quali  si vuol pensare ogni possibile mutazione, tendono a idealizzarsi sino al rapporto  assolutamente esclusivo (la privazione dev'essere totale, affinchè si abbia la dif-  ferenza massima), la vera contrarietà diventa la contraddizione, pur che in questa  si  concepisca il termine negativo non nell'espressione astratta, ma nell’opposi-  zione concreta (ch'è del pensiero a se stesso, non delle cose come pensa A.).   (2) La &ivauw qui è tanto potenza empirica (oggettiva), che razionale (s0g-  Gettiva), come l’esempio della scienza chiarisce (salute e malattia, ad es., in  quanto dipendono dalla scienza medica).   (3) Una stoffa possiede il bianco o il nero; l’arte medica o una medicina    produce, o può produrre, la salute o la malattia; il corpo puo perdere la salute  e riacquistarla; ecc.    318 MBTAFISICA    1056 b vazione, la contrarietà e la relazione, e di queste la prin-  cipale è la contraddizione, della quale non si dà. mezzo,  mentre si dà dei contrari, — è chiaro che contraddizione e  contrarietà non son la stessa cosa. La privazione è una con-  traddizione (') di certa natura: poichè ciò che soffre priva-  zione, o in generale o in un certo modo, vien così determi-  nato, secondo che o non abbia punto la capacità di una cosa,  o non abbia questa cosa pur essendo fatto da natura per averla.  Qui abbiamo già molti significati: secondo che altrove di-  stinguemmo. Per cui la privazione è una contraddizione di  certa natura, o un’incapacità ch’è del tutto determinata,  ovvero è presa insieme a ciò che può riceverla. Perciò,  mentre della contraddizione non si dà mezzo, della priva-  zione in qualche caso si dà: tutto, infatti, è o uguale o non  uguale; non tutto invece è uguale o disuguale, ma, se mai, ciò  vale soltanto per quel ch’è suscettibile dell’uguale. Che se  il divenire, dove c’è la materia, è tra i contrari, e avviene  o dalla forma e dal possesso della forma, o dalla privazione  determinata della forma o figura, — è chiaro che ogni con-  trarietà è una certa privazione; ma, invero, non ogni priva-    (1) Partendo dalla contraddizione, e realizzando il termine negativo nella  privazione in generale, questa si presenta come un caso della contraddizione, e  la contrarietà, a sua volta, come un caso della privazione (dove l'opposizione  steretica è la massima). Se partiamo, invece, dal mutamento reale, la contra-  rietà è una generalizzazione dell'opposizione steretica (atégeors ed Esc), e sta  tra questa e la contraddizione. Si risolve così la questione tra lo Zeller ‘che  voleva ridurre la privazione o alla contrarietà o alla contraddizione) e il Ross  (a q. 1.), che sostiene la subordinazione della privazione alla contraddizione, e  della contrarietà alla privazione. Ma A., preso nel testo, in verità, dà ragione  a tutti due; e come riconosce molti significati alla privazione, sì che c'è da  pensare che uno sia fondamentale (quello di contrarietà), così nel $ 5 ne rico-  nosce molti per la contrarietà, sì che fa pensare che fondamentale sia l’opposi-  zione steretica pura e semplice (senz’altra determinazione). L'incertezza nel  pensiero di A. si nota anche nella frase che segue, in cui la privazione vien  attribuita anche a ciò che «non ha affatto la capacità di qualcosa »: ch'è contro  il concetto fondamentale della steresi in quel che si distingue dalla negazione  astratta; e poco dopo è definita con analoga oscillazione, o per sò (« determinata  incapacità »), «o insieme a ciò che può riceverla». Per l'opposizione di relazione,  o correlazione (tà med x: ma A., in realtà, distingue i due concetti), v. 6, 5.—  Secondo che altrove distinguemmo: V. 22. '    10    LIBRO DECIMO 319    zione è una contrarietà: la ragione è che ciò ch'è passibile  di privazione può averla in molti modi, e soltanto quando  i termini del mutamento sono quelli estremi si ha la contra-  rietà. Lo si vede anche per esperienza. Ogni contrarietà  implica una privazione di uno dei due contrari, ma non  allo stesso modo sempre: la disuguaglianza è privazione del-  l'uguaglianza, la dissomiglianza della somiglianza, così come  il vizio della virtù. I casi sono differenti, secondo si è detto:  in uno, si bada semplicemente alla privazione, in un altro  al tempo o ad una parte, per es., a una certa età o alla  parte principale, oppure si tratta di una privazione totale.  Sì che in certi casi si da un mezzo (è possibile che un uomo  non sia nè buono nè cattivo), in altri non si dà (un numero  è necessariamente pari o dispari). Inoltre, alcuni contrari  hanno un sostrato determinato, altri no. È perciò manifesto  che sempre uno dei due si dice secondo privazione: basta  che questo sia manifesto per i generi fondamentali dei con-  trari, come l’uno e il molteplice: chè gli altri si riducono a  questi.    CapiToLO V.    Poichè a un contrario si oppone un solo contrario, si  potrebbe far questione come l’uno si opponga al molteplice,  e l’uguale al grande e al piccolo. La disgiuntiva noi l’ado-  periamo sempre per esprimere un’antitesi: chiediamo, ad es.:  È bianco o nero? È bianco o non bianco? Non diciamo: È  uomo o bianco? Salvo che per un presupposto: come se si  chiedesse se venne Cleone o Socrate. Qui si ha un caso che  non ha carattere di necessità per nessun genere di cose.  Pure, anch'esso ha la stessa origine: poichè, non essendoci  che gli opposti che non possono trovarsi insieme, di tale  incompatibilità fa uso chi domanda quale dei due venne: chè,  se poteva darsi che venissero insieme, la domanda non  avrebbe avuto senso. Pure, anche in tal caso, si può simil-  mente cadere nell’antitesi, in quella dell’uno e del molteplice,  chiedendo, ad es., se son venuti entrambi o uno solo.    1056 a    320 METAFISICA    Se, dunque, negli opposti la domanda è sempre disgiun- 2  tiva; e poichè si può chiedere: È maggiore, minore, o uguale?:  di che natura è l’antitesi dell’uguale, a questi? Chè non è  contrario a uno solo, nè ad entrambi. Perchè, infatti, sarebbe  contrario al maggiore più che al minore? Aggiungi che  l’uguale è contrario al disuguale: per cui dei contrari esso  ne avrà più di uno. Che se il disuguale significa la stessa  cosa di quei due presi insieme, l’uguale si dovrebbe opporre  ad entrambi, e si finirà col dar ragione a quei che van di-  cendo che il disuguale è la diade ('). Ma, allora, uno solo  avrebbe due contrari: la qual cosa è impossibile. Poi, l’uguale  appare intermedio tra il grande e il piccolo; ma non si vede  come un contrario possa esser intermedio, nè, stando alla  definizione, è possibile: chè non sarebbe perfettamente con-  trario se fosse intermedio, anzi, se mai, c’è sempre un in-  termedio tra esso e l’altro termine.   Resta, allora, che l’opposizione sia o come negazione o 4  come privazione. Di uno solo dei due termini, non può es-  sere. Perchè, infatti, si opporrebbe al grande piuttosto che  al piccolo? Sarà, dunque, una negazione privativa di en-  trambi (°). E per questo la disgiuniiva riguarda entrambi,  e non un termine solo, come farebbe chi chiedesse: È mag-  giore o uguale? oppure: È uguale o minore? Invece, i termini  son sempre tre.   Ma questa privazione non ha carattere di necessità: chè 5  non tutto è uguale ciò che non è nè maggiore nè minore;    YI    (1) Così i Platonici ricordati in XIV. 1, 3. Soltanto il nome sarebbe uno solo  (disuguale): in realtà i termini son due.   (2) Negazione (contradittoria), ch'è, come viene spiegato, doppia; ed espri-  mendo la possibilità reale di entrambe le contrarietà, è chiamata privativa, e  intermedia fra esse. Il termine doppiamente negativo è, qui, l’uguale; le due  contrarietà corrispondono alle due disgiuntive, nelle quali si determina la nega-  zione, la quale è trattata come una realtà oggettiva, una potenza di contrari 0  un intermedio tra essi, La soluzione permette ad A. di mantenere cho a un cor»  trario si oppone un solo contrario (1); di risolvere la diade dei Platonici nella  dualità espressa dalla parola « disuguale » (2); trasferendo l’intermedietà nel-  l'« uguale » non più come contrario, ma come negazione, di unificare, in certo  modo, in questa (quasi come un'attività di pensiero) le due disgiuntive (3).  Cfr. con quest'ultimo punto la discussione in IV. 7-8 intorno al terzo escluso.    LIBRO DECIMO 321    ma le cose soltanto che hanno natura di esser tali. L’uguale  è, appunto, ciò che non è nè grande nè piccolo, ma ha una-  tura di essere o grande o piccolo; e si oppone ad entrambi  come una negazione privativa: per cui è anche intermedia.  Anche ciò che non è nè buono nè cattivo si oppone a en-  trambi, ma non ha un nome, perchè ciascuno dei due si  dice in molti sensi (!), e non c’è una sola cosa che di essi  sia suscettibile. Non così, piuttosto, si può pensare di ciò  che non è nè bianco nè nero: pure, neanche qui si può dire  qualcosa di unico, sebbene i colori dei quali si enuncia pri-  vativamente tale negazione siano, in certo modo, limitati:  chè, necessariamente, o è grigio o è giallo, o altro di tal na-  tura. Per cui non dirittamente obiettano coloro che stimano  il caso esser lo stesso per tutte le cose, sì che, come ciò che  non è nè buono nè cattivo sta in mezzo tra il buono e il  cattivo, della scarpa e della mano ci dovrebb’essere un in-  termedio che non è nè scarpa nè mano, e così ce ne dovreb-  b’essere uno per tutte le cose. Questa non è una conseguenza  necessaria: poichè in un caso è possibile una simultanea  negazione degli opposti in quanto è di cose di cui esiste un  intermedio e un intervallo naturalmente determinato; nel-  l'altro caso, invece, non esiste questa differenza, perchè le 1086 b  cose delle quali si fa la negazione simultaneamente, son di  genere diverso, sì che non è identico il loro sostrato.    CapitoLo VI.    Si può far questione, similmente, intorno all'uno e ai  molti: chè, se molti si oppone all’uno semplicemente, si  hanno alcune conseguenze assurde. L’uno sarebbe poco, 0  pochi: molti, infatti, si oppone a pochi. Poi, due sarebbe       (1) In ogni categoria: cfr. Eth. Nic., I. 4. 1096 a, 19. Non c'è un termine unico  che esprima (come l’« uguale ») le due negazioni. Neanche per il bianco-nero,  che pure son nella stessa categoria. Tanto meno quell’unico termine può esistere  in cose di genere diverso, tra le quali, mancando l’identità che accompagni la  differenza, non esiste passaggio.    ARISTOTELE, Metafisica. 21    322 METAFISICA    molti, una volta che doppio è multiplo e doppio dicesi con-  siderando il due; per cui l’uno sarebbe poco. Infatti, in  rapporto a che il due è molti, se non all’uno, e però al  poco? Chè non c’è nulla che sia più poco. Inoltre: come 2  nella lunghezza il lungo e il corto, così nel molteplice è il  molto e il poco, e ciò ch’è molto è anche molti, e ciò ch'è  molti molto ('): sì che (se ne togli il caso di un continuo  che sia facile a limitare) il poco sarà una specie di molte-  plice, e tale quindi l’uno, se esso è anche poco: e che questo  sia, è necessario, se il due è molti.   Pure, se il molti dicesi anche in certo modo molto, una 3  differenza c’è: l’acqua, ad es., dicesi molta, non molti.  Molti, invece, dicesi per quante cose sono divisibili: in un  senso, se queste formino un molteplice che ecceda, o asso-  lutamente o relativamente (e dicesi, similmente, poco se quel  molteplice sia in difetto); in un altro, vuol dir numero, e  in questo senso soltanto si oppone all’uno. Noi, infatti, di-  ciamo «uno o molti», proprio come se si dicesse «uno  e uni», 0 «cosa bianca e cose bianche », e mettiamo in  rapporto le cose misurate con la misura, e parliamo del mi-  surabile (*) così come del multiplo: poichè ogni numero è  molti in quanto risulta di uni ed è misurabile con l’uno,  e ne parliamo come di opposto all’uno(*), non al poco.  E così, quindi, anche il due è molti, non già nel senso che 4  sia un molteplice eccedente o relativamente o assolutamente,  ma nel senso ch’esso è il primo molti. Assolutamente inteso,  il due è pochi(*): chè esso è il primo molteplice che può    (1) Il molto è, dunque, equivalente al molti: è, cioè, un molteplice. Se ne  tolga il caso di ciò ch'è «facile a limitare» (etoglotw), come i liquidi e tutto  ciò che prende dal limite (per es. del recipiente) la forma delia continuità:  l'acqua, ad es., non uvendo parti discrete, può esser un molto, non un molti.   (2) Soppresso il punto (Ross).   (3) Le conseguenze assurde ($ 1) derivavano, dunque, dall’opporre il molte-  plice all’uno senza distinzione di significato (semplicemente). V. Sommario, e con-  chiusione del capitolo,   (4) Il due parrebbe, quindi, il principio del molteplice (come la dualità pla-  tonica), D'altronde, il principio di esso, nel senso di misura, è l’uno. La soluzione  sembra questa: in quanto l'uno e il molteplice sono contrari, come l’indivislbile    LIBRO DECIMO 323    esser in difetto (perciò, anche, andò fuori strada Anassagora  quando disse che « tutte le cose erano insieme, infinite e  per molteplicità e per piccolezza »: invece di ): il quale stabiliva quale fosse il numero di qual-  cosa (questo qui, ad es., dell’uomo; questo qui, del cavallo),  imitando con sassolini le forme degli esseri viventi (?), al  modo stesso di coloro che riducono i numeri alle figure, al  triangolo e al quadrato. Ovvero è perchè l’armonia è un  rapporto (‘) di numeri, e così è anche l’uomo e ognuna delle  altre cose? Ma come, poi, le qualità, il bianco e il dolce e 9  il caldo, son numeri? Che, poi, i numeri non siano sostanze,  nè cause della forma, è evidente: è il rapporto ch’è la so-  stanza, il numero è materia (°). Per es., la sostanza della  carne o dell'osso è un numero in questo senso: che ci vo-  gliono tre parti di fuoco e due di terra. E sempre il numero,    assorbito nel prodotto, sì che fuori non ne sia restato nulla a insidiare la vita  dell'altro; cfr. VI. 3, 2: «chi vive dovrà morire, perchè è già avvenuto questo,  che elementi contrari si trovano nello stesso corpo »): il numero, dunque, non è  eterno.   (1) Le considerazioni che seguono, sino alla fine del libro, come nota il Bonitz,  « Pythagoreorum doctrinam praecipue tangunt et fortasse Platonicos quosdam  qui ad Pythagoreos proxime accedebant».   (2) Scolaro di Filolao, al principio del sec. IV: porta, come si vede, al co-  mico la dottrina dei numeri come sostanza delle cose e la loro figurazione geo-  metrica.   (3) putàv, delle piante; ma è probabile, suggerisce il Ross, che qui sia usato  nel senso più antico e ampio di « essere vivente ».   (4) È sostanza o rapporto? Se sostanza (essenza), come, allora, la qualità?  Se è rapporto, invece, non è sostanza (sostrato).   (5) Numero equivale qui a molteplicità di cose (soltanto il numero monadico,  1. e. aritmetico, è di unità astratte). Cfr., per gli esempi, I. 9, 18 e 10, 2.    LIBRO DECIMOQUARTO 473    sia quale si voglia, è numero di certe cose: di particelle di  fuoco o di terra, ò è un numero di unità astratte. La s0-  stanza, invece, implica che c’è tanto di questo unito per la  mescolanza a tanto di quello: e questo non è già un numero,  ma rapporto numerico della mescolanza di cose corporee, o   10 d’altra specie. Il numero, dunque, sia quello in generale e  sia quello ch’è di unità astratte, non è causa delle cose nè  per il fare, nè come materia, nè come concetto e specie. Nè,  certamente, come causa finale (').    CapITOLO VI.    1 Si potrebbe anche far questione in che consiste la perfe-  zione che alle cose deriverebbe dal numero, quando la loro  mescolanza è fatta secondo un rapporto numerico perfetto 0  secondo un numero dispari. Sta di fatto che non per questo  l’idromele è più salubre se acqua e miele siano mescolati in  modo da fare tre volte tre (*); anzi, se è acquoso senza nessun  determinato rapporto può giovare di più che se, per farlo. in   2 rapporto numerico, sia troppo forte. E si noti che i rapporti  delle parti di ciò che vien mescolato si esprimono con l’ad-  dizione del loro numero, non con i numeri soltanto: per es.,  «tre parti a due», non «tre volte due ». Poichè le cose che  vengono moltiplicate debbon essere dello stesso genere: per  cui, data una serie di fattori, 1. 2.3, essa dev’esser misu-  rata dal primo termine: se è 4.5. 7, dal 4. Insomma, in tutti  i casì, dal termine ch’esprime lo stesso genere. Non può  essere, quindi, che il numero del fuoco sia 2. 5. 3. 7, e quello   3 dell’acqua 2.3(*). Che se il numero fosse una natura co- 1009 a    (1) Nessuna, dunque, delle quattro specie di causa, Nota concetto e specie:  la causa formale come pensiero e insieme come forma reale.   (2) tels tela: si deve dire, invece, ammonisce A. dopo, «tre a tre », poichè si  tratta di un iniscuglio. In « tre volte tre », e nella moltiplicazione in generale, ch'è  un'addizione ripetuta dello stesso numero, questo dev' esser sempre dello stesso  genere (8 2).   (9) Chè anche il fuoco (2. 3 X 5. 7) sarebbe acqua (9. 3). Penso che questo pa-  tagrafo prosegua ancora l'argomentazione ch'è alla fine del 8 9 del cap. prec.    474 METAFISICA    mune di tutte le cose, ne verrebbe, di necessità, che molte  cose sarebbero le stesse, e lo stesso numero sarebbe proprio  di questa cosa e di una cosa diversa. Ma è questa, allora,  la causa delle cose, ed è per questo che una cosa è quello  che è? O non è ciò molto oscuro? Poniamo: esiste un certo  numero per le traslazioni del sole, e così per quelle della  luna, e anche per la vita e l’età di ciascuno degli esseri  viventi. Che impedisce, allora, che alcuni di questi numeri  siano quadrati, altri cubici, alcuni uguali e altri doppi? Nulla;  anzi, di necessità, tutti (') si aggirano in questi rapporti, una  volta che la natura del numero è comune a tutte le cose, e  quelle che sono differenti possono cadere sotto lo stesso nu-  mero. Per cui, se ad alcune convenisse lo stesso numero,  quelle sarebbero identiche tra loro che avessero la stessa  forma del numero: il sole e la luna, ad es., sarebbero iden-  tici (?).   E perchè son cause questi numeri? Ci sono sette vocali,  sette corde o note musicali, sette son le Pleiadi; al settimo  anno, almeno alcuni animali (altri, no), perdono i denti;  sette, quei che pugnarono a Tebe. È, dunque, perchè quel  numero ha quella natura lì, che quelli si trovarono in sette,  o che le Pleiadi hanno sette stelle? O non piuttosto, per quelli,  perchè sette erano le porte della città, o per qualche altra  causa? E per le Pleiadi siam noi che così le contiamo, come  ne contiamo dodici per l’Orsa (altri ne contano di più). —  Essi dicono anche che E Y Z sono consonanze, e poichè tre  sono in musica le consonanze, tre, dicono, sono queste doppie  consonanti. Non si dànno nessun pensiero che di questa specie  ce ne potrebbero esser mille: basta, poniamo, porre un segno  unico per I° P. Che se opponessero che ognuna di quelle è  doppia delle altre, e che nessun’altra consonante è così, la    (1) Non è chiaro se voglia dire: a) che tutti è numeri sono risolubili in rap-  porti o figure geometriche (8v tovtotce); b) che tutte le cose, per i Pitagorici, sono  risolubili in numeri. Ma, forse, son conglobati entrambi i pensieri (nota infatti,  alla fine del paragrafo, «la stessa forma del numero »: t. aùrà elbos do.)   (2) Alcunì citano XII. 8, dove il sole e la luna hanno lo stesso numero di  sfere o movimenti di traslazioni. O si riferisce qui alla figura?    LIBRO DECIMOQUARTO 475    ragione, poi; è che tre sono i luoghi della bocca (‘) in cui  si producono le consonanti e a ciascuna vien congiunto  medesimamente il sigma: per questo sono tre sole, e non  perchè tre siano le consonanze musicali: in realtà, queste  sono più di tre, di quelle non ce ne possono esser di più.  Costoro somiglian proprio ai vecchi interpreti d’Omero, i quali  vedono le somiglianze piccole, e sfuggono a loro le grandi.  Ci sono alcuni che dicono ancora molte cose di questo ge-  nere: per es., che avendo le due corde di mezzo l’una nove  l’altra otto toni, il verso epico ha diciassette sillabe, uguale  al numero di quelle, e ch’esso si scandisce a destra (*) con  nove sillabe, a sinistra con otto. E dicono che l'intervallo  tra l’alfa e l’omega nelle lettere è uguale a quello tra la nota  più bassa e la più alta del flauto, e che il numero di que-  st'ultima è uguale alla totalità dell’armonia celeste (*). Si deve  notare che nessuno troverebbe difficoltà a spiegare in questo  modo le cose eterne e a scoprirne le concordanze: chè non  è difficile neanche per le cose corruttibili.   Le nature tanto lodate che sarebbero nei numeri, e quelle  a loro contrarie (‘), e in generale le proprietà degli oggetti  matematici nel senso in cui ne parlano alcuni per farne cause  della natura, sembrano svanire agli occhi di coloro che con-  siderano le cose così come noi facciamo (°): chè nessuna di  esse si può dir causa, in nessuno dei modi da noi determi-  nati trattando dei principii. Certamente, come essi fan ve-  dere, la perfezione appartiene a tali oggetti (°), manifesta-  mente; e alla serie delle cose dov’ è la bellezza appartengono  il dispari, il retto, l’uguale, le potenze di certi numeri. Chè    (1) Donde la distinzione di gutturali, dentali, labiali.   (3) La prima parte; a sinistra, la seconda (Aless.).   (3) Secondo Aless., il 24 (12 segni dello zodiaco; 8 sfere, quella delle stelle  fisso e le sette dei pianeti; 4 elementi).   (4) Le une benefiche, le altre malefiche.   (5) La mentalità critica allontana molto A. da’ suoi contemporanei.   (6) Lo Schwegler intende che questo sia detto ironicamente. Pensando alla  fine del $ 5 e al passo già citato di XIII. 3, 8, ho dato, invece, alla traduzione  il tono come se A. faccia qualche concessione alla dottrina combattuta così vi-  vacemente. In ogni modo, egli afferma, in fine, che si tratta di mere analogie.    1093 b    476 MATAFISICA    le stagioni e un numero di certa specie vanno insieme; e  tutte le altre proprietà ch’essi raccolgono dai teoremi mate-  matici, hanno questo valore. Perciò anche si rendono appa-  riscenti le coincidenze: poichè sono, sì, meramente proprietà  di ciascuno di essi, ma tutte si corrispondono tra loro, e  fanno una cosa sola dal punto di vista dell’analogia. Poichè  in ogni categoria dell’essere c’è l'analogia: come la linea  retta nella lunghezza, così è il piano nella superficie, e senza  dubbio il dispari nel numero, e il bianco nel colore.   Quanto ai numeri, in fine, che consistono nelle specie,  essi non sono la causa delle armonie e delle cose di questa  natura: poichè essi differiscono tra di loro, anche se uguali,  per ia specie, una volta che anche le unità son differenti (').  Sì che, almeno per queste ragioni, non c’è bisogno di porre  tali specie.   Queste, dunque, le conseguenze che si posson trarre,  e più ancora se ne potrebbero addurre. Il fatto stesso del  loro grande travaglio a spiegarne la genesi, e il non riuscire  in niun modo a dar coerenza all'insieme, è un indizio che  gli oggetti matematici non hanno esistenza separata, come  alcuni dicono, dalle cose sensibili, e che i primi principii  non son questi.    (1) I numeri ideali, essendo di unità di specie differente (e però &ovufàintay,  come si dice nel libro precedente), sono anch’ essi differenti di specie, anche se  uguali (se son triadi, ad es., comprese nello stesso numero nove). Non con essi,  dunque, ma con i numeri matematici, se mai, ci si può render ragione di cose, le  quali, come nell’armonia le unità e i rapporti di uno stesso tono, sono della stessa  specie.    INDICE DEI NOMI PROPRI  E DEGLI ARGOMENTI PIÙ NOTEVOLI    (Il numero romano indica il libro; dei numeri arabici il primo il capitolo, gli  altri, quando cì siano, il paragrafo, a cui si rimanda).    Abito: v. 20; contrario della pri-  vazione x. 4, 5.   Accidente: e sostanza iv. 4, 21-24;  ed universale v, 9, 2; ed essen-  za vii. 6, 2-3; che cos'è v. 30,  1-2. vi. 2, 7. x1. 8, 3; è vicino al  non essere vi. 2, 5. xr. 8, 2; non  ce n’ è causa determinata v. 30,  3. vi. 4, 5. x1. 8, 5 e 7; ne è cau-  sa la materia vi. 2, 9; 3, 4. x1.  8, 5; non ce ne può essere scien-  ze vi. 2, 4e 11-12. x. 8, 164,  nè arte o potenza determinata  xi. 4, 2-3; senza l’a. tutto avver-  rebbe di necessità vi. 2, 3 e 8;  3, 1 ss. xi. 8, 5-6; e caso x1. 8,  8-9; € l'errore 1x. 10, 7; alcuni  contrari possono convenire ed  una sostanza per a., eltri ne-  cessariamente no x. 10, 1-2; a.  essenziali v. 30, 4. 1v. 2, 13-14;  sono studiati dalle scienze di-  mostrative ur. 1, 7; 2, 12-15.  iv. 1, 1. xr. 1,5. xu. 3, 4-6; acci-    dentalità dell’universale al par- .    ticolare I. 1, 8; 9, 6. v. 2, 10.    vir. 8, 1. xni. 4, 8; 10, 10; l’a. an-  teriore all’ intero secondo il con-  cetto v. 11, 7. — vedi Uno (v. 6,  1-3), Essere (v. 7, 1-3) e Iden-  tità (v. 9, 1-2).   Affezione: v. 21; e sostanza iu. 5,  2-3. vir. 13, 5. 1x. 7, 8-10.   Alcmeone: 1. 5, 9.   Altro: opposto de lo stesso x1v. 1,6.   Analitici: 1v. 3, 3. vu. 12, 1. x1. 1,  9; cfr. x1. 6, 12.   Analogia: v. 6, 15; 9, 5. vu. 2, 6.  1x. 6, 3 e 6. x11. 4, 1-6; 5, 2-5. xv.  2,9; 6, 7.   Anassagora: 1. 3, 20, 28, 29; 4, 7; 5,  19-20; 6, 16; 7, 2,3,5;8, 10;9, 11. iv.  4, 1e25;5,3 69; 7, 10. vu. 1, 5.  x. 6, 4. xx. 6, 14. x11. 2,4; 6, 8;  10, 9. xnr. 5, 2. xiv. 4, 4. — vedi  Fisici e Fisiologi.   Anassimandro: 1. 5, 13 n; 7, 2? x.  2, 1. x1. 10,9. x. 2, 4. — vedi Fi-  sici, Fisiologi e Ionici.   Anassimene: 1.3, 17 623;7,2;8,1e5.  mu. 1, 15; 4, 33. v. 4,5. x.2,1L.—  vedi Fisici, Fisiologi e Ionici.    478    Anima: in quanto oggetto della  Fisica vi. 1, 4j e corpo v. 8, 2.  vi. 10, 13-14; 11, 10. vu. 3, 1-2;  come potenza d’ambedue i con-  trari ix. 2; se sia immortale x.  3, 6.   Animali: loro conoscenze 1. 1, 2-4.   Anteriorità (Priorità): v. 11; per la  sostanza e per la nozione xur.  2, 12.   Antistene: 1v. 3, 3? v. 29, 2. vi.  3, 6.   Apodittica: xi. 1, 3.   Appetito: come muove l’oggetto  dell’a. x. 7, 2.   Archita: vu. 2, 9.   Aristippo: 1. 2, 4.   Aritmetica: e geometria 1. 2,9. xm.  3, 7; e astronomia x. 8, 4.   Arte: ed esperienza 1. 1, 4-9; e sa-  pienza 1. 1, 10-17; a., natura e  caso vii. 7, 1-5; 9, 1-2. ix. 7. x.  3, 2; e specie (concetto) vi. 7,  6-10. x. 3, 7; 4, 8; 10, 9; come  potenza ix. 2, 1j 3, 2; 5, L   Assiomi: lo studio di essi spetta  alla filosofia mi. 1, 4; 2, 7-10. 1v.  3. xI. 1, 3; 4, 1-2; perchè è ne-  cessario che ci siano mr. 2, 9.   Astronomia: e le altre parti della  matematica x. 8, 4.   Atomisti: vir. 1, 5. — vedi Fisici.   Attività: v. 15, 1 e 5. 1x. 3, 8-9; e  movimento 1x. 6, 11-12; ed atto  rx. 1,2 n; 9, 4. x1r. 9,4. xt. 9, 4;  a. del nous e piacere xt. 7, 6.   AUo: e materia vu. 2. x. 5, 2; e  forma xi. 5, 2; e potenza vI. 2,  3; non sono la stessa cosa Ix.  3, 1-7; 6, 1.6; come potenzialità  infinita 1x. 6, 7; differisce dal  movimento 1x. 6, 8-12; passaggio  dalla potenza all’a. vui. 6, 5. Ix.  7. xil, 2, 3; è prima della po-  tenza. ix. 8-9. xi. 6, 4-9; come    METAFISICA    fine 1x. 8, 12-13; creatore del  pensiero ix. 9, 4-6; necessità di  porre come principio un a. puro  xii. 6, 3; 7, 1; l’a. puro come so-  stanza vi; in esso consiste la  felicità x. 7, 2-6; l’a. puro co-  me autocoscienza xi. 9; è del  determinato xui. 10, 9.   Autocoscienza: xn. 9.   Avere: v. 23.   Azione: riguarda il particolare 1. 1,  8; ed atto ix. 1,2 n; 8, 15; e mo-  vimento ix. 6, 8; a. pratiche  contrapposte alla teoria iv. 4,  34-35. xI. 6, 9; a. pratica vi. 1  3. xI. 7, 83.    Ù    Bello: principio insieme di cono-  scenza e di movimento v. 1, 8;  muove non mosso zl. 7, 2; si  trova nel principio xn. 7, ll.  xiv. 4, 2 ss.; e bene xm. 3, 8.   Bene: e fine 1. 2, 12; 3, 5; se si dia di-  mostrazione del b. nelle matema-  tiche mi. 2, 4. x. 3, 8; e vero  vi. 4, 3; principio insieme di co-  noscenza e di movimento v. 1,  8; muove non mosso xt. 7, 2;  si trova nel principio x. 7, ll.  xiv. 4, 2 ss.; come causa dell’u-  niverso x. 10; e belio x. 3, 8.   Bontà: è qualità soprattutto degli  esseri viventi forniti di volontà  v. 14, 6-7.    Callippo: x, 8, 8.   Capacità: v. 12, 1-7 e 11.   Caso: c., natura ed arte vir. 7, 1-5;  9, 1-2. x. 3, 2; = causa acciden-  tale xi. 8, 8-9.   Categorie: e l’essere v. 7, 4. vi. 2,  2. vii. 1, 1. xiv. 2, 5; e la sostanza  vir, 1. rx. 1, 1. xx. 12, 1. xn. 1, 1-2.    INDICH DAI NOMI E DEGLI ARGOMENTI 479    xiv. 1, 13; hanno unità e realtà  per se stesse VIII. 6, 7. — vedi  Sostanza e sue determinazioni.   Causa: v. 2; che cosa s'intende  per c. di un fatto vir. 17. vu. 4,  5-8; e divenire vm. 7, 1; 8, 1; e  principio iv. 2, 5. v. 1, 7; ed  elemento xi. 4, 8; c. acciden-  tale vi. 2-3. xI. 8,8; c. efficiente  xu. 3, 1.   Cause: son più conoscibili di tutto  i. 2, 11; loro eternità vi. 1, 5;  loro analogia xn. 4, 1; il loro  processo non è infinito n. 2; le  quattro cause prime 1. 3-7. v. 2,  1-5 e 8. — vedi Principii.   Cieli: loro movimento ix. 8, 24-26.  x. 7-8, 12; eternità delle sostan-  ze celesti vi. 1, 5. vir. 16, 7. x1.  6, 6. xr. 8, 2-4.   Cielo: movimento ed eternità del  primo c. xu. 7, 1; 8, 2.   Concetto: e parola iv. 7, 9; e defi-  nizione Iv. 7, 9. v. 8, 4. vi. 4,9-  10; 10, 1; 12. viu. 1, 4; ed essenza  (sostanza) vir. 4, 9-10; 11, 14. vi,  1, 4 e 6; 2, 8; 4, 6; e materia  vir. 7, 12; sue parti vii. 10; 11,  14-15. vin. 1, 4; 6, 6; non c'è di-  venire del c. vi. 15, 1; e scienza  ix. 2, 3. xI. 1, 10; fa vedere in-  sieme il fatto e la sua privazione  1x, 2, 3-5; anteriorità secondo il  c, e secondo il senso v. 11, 7.   Conoscenza: suo processo 1. 1; si  ha per mezzo di definizioni III.  3, 3; riguarda l’universale mi, 4,  2, o la pura essenza vi. 6, 10. vi.  4, 5; attuale vit. 10, 17; 15, 1;  è del simile col simile 1. 4, 22;  relazione di c. e-conoscibile v.  15, 1e 8; come oggetto del pen-  siero xu. 9, 7. — vedi Concetto,  Intelligenza, Opinione, Scienza  e Sensazione.    Consecutivo: x1. 12, 10; e contiguo  xi. 12, 13.   Contatto: e unità organica v. 4, 4.  x. 1,2. xr. 10, 11; 12, 13. xt.  3, 3; e continuità x. 1, 2. x1. 12,  12; e consecutività xi. 12, 10 e  13; e contiguità xi. 12, 12.   Contiguo: x1. 12, 10; e continuo x1.  12, 12; e consecutivo xi. 12, 13.   Continuo: v. 6, 5-6 e 11 s. x. 1, 2;  e grandezza v. 183, 2. xi. 10, 14;  e pluralità v. 13, 2; e contiguo  (v. 6, 5). x1. 12, 12; e consecu-  tivo xi. 12, 13; quantità e c. og-  getto della matematica xr. 3, 6;  4, 1.   Contraddizione: x. 7, 3; e contra-  rietà Iv. 3, 7; non sono la stes-  sa cosa x. 4, 6; e opposizione  v. 10, 1; e privazione x. 4,7. —  vedi Principio di non contrad-  dizione.   Contrari: sono insieme non in at-  to ma in potenza iv. 3, 7; 5, 4;  6, 12. x1. 6, 14; tutti si riducono  al principio dell'uno e del mol-  teplice lr. 1, 8. iv. 2, 6 ss. x.  3, 3 ss. x1. 3, 3 ss.; sono oggetto  di un'unica scienza Ix. 2, 3. xI.  1, 2 e 5; 3, 5; un c. non può  avere più di un c. mr. 1, 8. x.  4, 3; 5, 1; alcuni possono con-  venire ad una sostanza per a.  altri necessariamente no x. 10,  1-2. — vedi Potenza.   Contrarietà: v. 10, 1-4. x. 3, 10;  spaziale xr. 12, 10; e contraddi-  zione iv. 3, 7; non sono la stessa  cosa x. 4, 6; e opposizione (v.  10, 1). x. 3, 1; 4, 6; e privazione  x. 4, 8-11; è differenza massima  (perfetta) x. 4, 1-5; 8, 3; prin-  cipale x. 4, 5; e intermedi x. 7;  le c. contenute nel concetto pro-  ducono differenze di specie, non    480    se siano nella cosa concreta ma-  teriale x. 9, 1-4; niente è con-  trario al principio primo xn. 10,  12, nè alla sostanza xiv. 1, 2.   Corpo: v. 6, 14; 13, 2. — vedi Enti  matematici.   Cratilo: 1. 6, 2. 1v. 5, 13.   Cultura: suo sviluppo vu. 3, 12.    Da qualcosa (essere): v. 24.   Decade: si vuole che-sia il nume-  ro perfetto e finito 1. 5, 5. x.  8, 1. xm. 8, 18-25. xIv. 1, 15.   Definizione: e dimostrazione 1. 9,  34. vi. 15, 2; e induzione 1. 9,  34. vi. 1, 2; e concetto 1v. 7,9. v.  8, 4. vii. 4, 9-10; 10, 1; 12. vin. 1, 4;  e parola vn. 4, 10. vin. 6, 2; con  la materia e senza VI. 1, 4. xI.  7,4; della pura essenza vii. 4-5.  vin. 1, 4; se debba comprendere  la, materia vi. 7, 12-16; sue parti  vu. 10-11. vii. 1, 4; 6, 6; sua uni-  tà vir. 12; della sostanza vir. 13.  6-11; non c’è delle sostanze sen-  sibili particolari vir. 10, 17; 15,  2 ss., nè delle idee vir. 15, 4 ss.; e  differenze vir. 12, 5-13. vu. 2; del-  la sostanza composta vin. 3, 7;  causa della sua unità vu. 6; non  bisogna esigere d. di tutto ix.  6, 3.   Democrito: 1. 4, 11. iv. 4, 15,83  7-9. vir. 13, 10. vin. 2, 2. xt. 2,  4. x. 4, 3. — vedi Atomisti.   Diade indefinita del grande-pic-  colo: posta da Platone come  principio 1. 6, 9-12. xr. 2, 6. x.  6, 7; 7, 3. xv. 1, 8; perchè l’ab-  bia posta xiv. 2, 4-16; se ne ven-  ga facile la produzione dei nu-  meri 1. 6, 13-14; e l’unità dei nu-  meri 1. 9, 21-22. x1, 2, 6. xin. 8,  13-15; sue determinazioni 1. 9,    METAFISICA    23-25. xnr. 9, 2-6. xiv. 2, 11; 3, 9;  è un principio troppo matema-  tico 1. 9, 28; è predicato non  sostanze 1. 9, 28. xiv. 1, 10-11;  è affezione della quantità v. 13,  4. xiv. 1, 11; se si possano deri-  vare dal g.-p. gli oggetti geo-  metrici 1. 9, 31. xnr. 9, 2-6 e 11,  le idee numeri x. 7, 4 ss., i nu-  meri (matematici) xui. 8, 5 ss.  xiv. 3, 9-10; 5, 3-7, ei numeri pari  xiv. 4, lj sua natura e qualità  xIII. 8, 2; e la natura dell’uno  xui. 8, 26-9, 1; e il male xv. 4,  10; eltri principii posti invece  del grande-piccolo xiv. 1, 4-5.   Dialettica: 1. 6, 12. mi. 1, 8. xm. 4,  3; e filosofia rv. 2, 14. x1. 3, 7;  e sofistica Iv. 2, 14.   Differenza: v. 9, 5; e contrarietà  v. 10, 2. x. 3, 10; 4, 1-48, 3; e  diversità x. 3, 8-9; riguarda solo  lo stesso gepere x. 4, 1e 4; 8,  5; e genere v. 3, 5.— vedi Di-  versità di specie.   Differenze: e metodo definitorio  vir. 12; quantitative e qualita-  tive vin. 2 (cfr. 1. 4, 12-13).   Dimostrazione: e definizione 1. 9,  34. nti. 2, 14. vir, 15, 2; e indu-  zione 1. 9, 34. vi. 1, 2. x1. 7, 2;  e confutazione Iv. 4, 3-4. x. 5,  2 e 7; non c'è d. di tutto rv. 4,  2; 6,2. xI. 6, 11, nè dell'essenza o  sostanza In. 2, 14. vi. 1,2. x1. 1, 5;  7, 2, nè delle sostanze sensibili  particolari vi. 15, 2-3; il princi-  pio della d. non è una d. iv. 6,  2; è necessaria v. 5, ‘5.   Dio: e la sapienza 1. 2, 18-20; come  principio primo xi. 7, 6; muo-  ve non mosso x. 7, 1-5; è il  Bene e il primo intelligibile ivi;  guoi attributi x. 7, 6-14; in  quanto atto puro del pensiero    INDICE DREI NOMI E DEGLI ARGOMENTI    xIr. 9; in quanto fine ultimo x.  10.   Diogene: 1. 3, 17.   Disposizione: v. 19; ed abito v. 20,  2.   Dissimile: opposto di simile, sue  privazione x. 4,9. — vedi Simile.   Disuguale: opposto dell'uguale, sua  privezione v. 22, 5. x. 4,9.—  vedi Uguale.   Diventre: due modi del d. 1. 2,  6-7. vir. 4, 2; impossibile senza  l'essere mi. 4, 7-9. 1v. 5, 14; ed  essere mt, 6,8; da essere e non  essere xI. 6,3. x11. 2, 3; sue cau-  se e suo processo VII. 7-9. vni.  6, 5; suoi due sensi vu. 1, 7-8;  suo processo tra i contrari vI.  5. x. 4, 8. xIv. 1, 1-2; 5, 6; suoi  presupposti ix. 8, 6-13. xu. 8.  xIV. 2, 1.— vedi Movimento e  Mutamento.   Diversità: v. 9, 4; 28, 6; e identità  v. 9, 4. x. 3, 6-7; e differenza x.  3, 8-9; e molteplicità x. 3, 3; per  la specie v. 10, 5. x. 8-9; 10, 3  e vedi Differenza.   Divisione: d., verità e falsità vi. 4,  1-4. 1x. 10, 2-7; nel pensiero non  nelle cose vi. 4, 4; e metodo de-  finitorio vu. 12, 5-13. vm. 3, 8;  si fa per opposti x. 8, 3.   Dubbio: sua necessità ir. 1, 1-2;    inutilità del d. sofistico Iv. 6, 2.    Eleati: 1. 3, 24; 5, 12; 8, 1. vi. 1,  “5. xu. 10, 10.  Elementi: se siano gli stessi per   tutte le sostanze sensibili xn.   4, 1-5, e per le sostanze, le rela-   zioni e le qualità x. 5, 6; se   principii delle cose siano gli ele-   menti o ì generi mn. 1, 9; 3, 1-4.   x1. 1, 10; se entrino nel concet-    ARISTOTELE, Metafisica.    481    to di una cosa vir. 10, 3-18; se  in essi si risolva una cosa VII.  17, 8-10. vu. 3, 3-4. x. 10, 1-8;  se le cose eterne si compongano  di e. xiv. 2, 1-2.   Elemento: v. 3; e principio vu. 17,  8-10. xi. 4, 6-7. x1v. 4,3, 7 e 12;  e causa XII, 4, 8.   Empedocle: 1. 3, 19 e 26; 4,34 e  8-10; 5, 19-20; 6, 16; 7, 2-3 e 5;  8,8e9; 10, 2. mn. 1, 15; 3, 2;  4, 21-24 e 83. iv. 2, 15; 4,1; 5,  9. v. 4, 5-6. vi. 1, 5. 1x. 8, 20? x.  2, 1. xn. 1, 4; 2, 4; 6, 8; 10,8.  xiv. 4, 4. — vedi Fisiologi.   Ente ed Uno iv. 2, 1-7. x1. 3, 4; se  siano principii in. 1, 10; 3, 6-12.  xI. 1, 10-11; se siano sostanze  ur. 1, 15; 4, 32-42. vir. 16, 3-4. x1.  2, 5-7; se siano pura essenza VII.  6, 8.   Epicarmo: iv. 6, 11. xu. 9, 16.   Eraclito: 1. 3, 18 e 23; 6, 2; 7, 2;  8, 1 e 4-5. un. 1, 15; 4, 33. 1v. 3,  6; 4, 1; 6, 13; 7, 10; 8,2. v. 4,5.  x1. 5, 7; 6, 14; 10, 9. x1r. 1, 4; 10,  5? x. 4, 2. — vedi Fisiologi.   Eristica: iv. 7,9.   Ermotimo: 1. 3, 29.   Errore: quando si abbia Iv. 9, 5;  dove ha luogo per le cose sem-  plici 1x. 10, 7-12.   Esiodo: 1. 4, 1; 8,6. 11. 4, 19. xIv.  4, 4   Esistenza: e suo perchè vu. 17.   Esperienza: e memoria 1. 1, 4; e.,  arte e scienza 1. 1, 4 ss.   Essenza: e sostanza iv. 4, 20. v.  8, 4. vir. 1, 1 ss.; 8, 15; 7,8; 19,  1; e determinazioni secondarie  (categorie) vir. 1, 1 ss.; e forma  vir. 10, 16. vi. 3, 2; e atto vin.  3, 2; e. pura: che cos'è vil, 4,  1-5; se si dia di altre categorie  e di sostanze composte vm. 4-5;    s1    482    se coincida con l’individuo vii.  6; 11, 16; ed esistenza vm. 6,  4 ss.; appartengono alla stessa  facoltà del pensiero vi. 1, 2; non  ce ne può essere generazione  vu. 8, 3; come causa va. 17, 4-7.  vii. 4, 4; fa passare dalla po-  tenza all'atto vin. 6, 5-15;, non  ce n'è dimostrazione m. 2, 14.  vi. 1, 2. x1. 7,2; con la materia  e senza di essa Vi. 1, 4. x1. 7,  1; come vi può essere errore  intorno alle e. vi. 4, 3. rx. 10,  7-12; principio del sillogismo vu.  9, 5. xm. 4, 3. — vedi Causa e  Definizione.   Essere: v. 7; suoi sensi molteplici  iv. 2, 1. vi. 2, 1 vu. 1, 1. 1x. 1,  1-2; 10, 1. xr. 83, 1-2. xiv. 2, 5;  in quanto essere oggetto della  filosofia iv. 1. xI. 3.   Essoterici (scritti): xmi. 1, 5.   Eudosso: 1. 9, 11. xn. 8, 7-8. x1.  d, 2.   Eurito: xiv. 5, 8.   Eveno: v. 5, 3.    Falso: v. 7, 6; 29, 1v. 7,12e4.  vi. 4. 1x. 10. x1. 8, 7. xiv. 2,  7-8; nella fantasia, non nella  sensazione iv. 5, 19; e impossi-  bile v. 12, 8. Ix. 6, 3; e possibile  v. 12, 9; non esiste nelle cose  ma nel pensiero vi. 4, 3-5; in che  senso sì abbia falsità per una es-  senza (v. 29, 2). vi. 4, 3. rx. 10,  7-12. — vedi Verità.   Fantasia: 1. 1, 4; e sensazione iv.  5, 19.   Felicità: 111. 4, 22. 1x. 6, 10; 8, 18.  xm. 7, 9.   Ferecide: xiv. 4, 4.   Figura: vedi Enti matematici e  Forma.    MHTAFISICA    Filosofia: scienza della verità n. 1,  4; suo metodo mn. 3; è scienza  unica di tutte le cause 1. 3, 4.  ur. 1, 3; 2, 1-6. x1. 1, 2; spetta ad  essa lo studio degli assiomi ni.  1, 4; 2, 7-10. 1v. 3. x1. 1, 3; 4, 1-2;  è scienza unica di tutte le so-  stanze mi. 1, 5; 2, 11-12. 1v. 2.  xi. 1, 4; 3; e degli accidenti 1.  1, 7; 2, 13-15. xr. 1, 5; ad essa  spetta lo studio delle determi-  nazioni dialettiche 1. 1, 8. rv.  2, 6-19. x. 3, 3 ss. xI. 3, 3 s8,;  suo oggetto è l’essere in quanto  essere Iv. l. x1. 3; sue parti Iv.  2, 7. vi. 1, 6-7. vir. 11, 11. x1. 7,  7.8; e dialettica Iv. 2, 14. x. 3,  7; e sofistica èvi; scienza del di-  vino vi. 1, 6. x1. 7, 7; e le scien-  ze iv. 1,1; 3, 1s. vi. 1,19.x1.  3, 6-7; 4; 7; ad essa spetta di  studiare la materia degli enti  matematici xi. 1, 9; ed astro-  nomia xi. 8, 4. — vedi Sapienza.   Fine: v. 16, 3; è l’atto anche se  mira alla produzione di un og-  getto rx. 8, 16-18. — vedi Causa.   Fisica: e sapienza (filosofia) 1v. 3,  2. vi. 1, 3-7. vin. 11, 11. xx. 1,9,  3, 7; 4, 3; 7, 3-8. x1r. 1, 7; e lo  studio degli assiomi Iv. 3, 2. x1.  4, 3.   Fisici: iv. 3, 2 e 39; 4, L. 1x. 8,25.  xi. 10, 9. xmn. 6, 5; 10, 13. x1u.  4, 3. — vedi Fisiologi.   Fisiologî: 1.5, 13 e 18; 8,1 e 17-18  9, 28. ur. 4, 33; 5,5. 1v. 1,2.v.  3, 2; 4, 5; 23, 4. vin. 2, 4.x.2,1.  x1. 6, 2-3. x11. 1,3 s. — vedi Fisici.   Forma: se esista la f. oltre le mate-  ria e il sinolo 1. 1, 11-12; 4, 1-13.  xi. 2, 1-3 e 9; e termine (limi-  te) v. 17, 2; e materia vu. 3;  8; 10. xn. 3, 1-4; e definizione  della sostanza vir. 10, 3-8; sue    INDIOB DHI NOMI DB DAGLI ARGOMENTI    parti vm. 10; 11, 1-3; indipen-  dente dalla materia vir. 11, 2-3;  sua definizione vui. 1, 6; e atto  vi. 2, 1 9s., 8 9s.; 3, 1 98.; 6,  3 e 11. xIr. 5, 2; come principio  -xn. 2, 7; 4, 5. — vedi Causa.    Generazione: x1. 11, 4} e movimento  xr. 11, 5-12, 7; nelle cose natu-  rali vir. 7, 1-5. 1x. 7. x. 3, 3;  nelle cose artificiali vit. 7, 1-5;  9, 1-2.   Genere: v. 28. x. 3, 9; 8, 1; come  materia (v. 28, 5). vir. 7, 12; 12,  7. x. 8, 1 e 5; se sia sostanza  vi. 1, 3-5. x. 2, 2; e specie v.  3, 5; 25, 2 e 4. x. 8-9; e diffe-  renze specifiche nella defini-  zione vu. 12. — vedi Universali.   Generi: se siano principii; i pros-  simi o i sommi ur. 1, 9-10; 3. x1.  1, 10.11.   Geometria: ed aritmetica 1. 2, 9.  xi. 3, 7; ed astronomia x. fì, 4.  — vedi Diade, Grandezza ed En-  ti matematici.   Grande-piccolo: vedi Diade del  grande-piccolo; e uguale x. È.  xiv. 1, 3.   Grandezza: v. 13, 2; e limite (ter-  mine) v. 17, 2; se derivi dai prin-  cipii dei numeri I. 8, 21; 9, 24.  im. 4, 41-42. xir. 10, 14. xm. 6, 10  e 16; 8, 11; 9, 2-6. xIv. 3, 7.    Idee (platoniche): 1. 6,4 89.; 9, 1-15.  Im. 2, 17; 6, 4. vir. 6, 4 88.; 8,  6 ss.; 13, 1 ss.; 14, 1 ss.; 165, 4 88.,  7 ss.; 16, 6 ss. vur. 1, 2-3. 1x. 8,  28. x. 10, 8. xr. 1,7; 2, 1 ss. xl.  1, 6; 3,7; 6,3 e 9. xur. 1, 3  e 6; 4-5; 9, 18-10. xiv. 2, 17 8.;  idee numeri: 1. 9, 16 ss. m. 2,    483    18 ss. vin. 11, 4-6. x1. 1, 7; 2, 6.  x. 1, 6; 6, 3; 8, 1; 10, 11 e 14.  xi. 1,3 e 6; 6-7; 8, 1-4, 10, 13  89.; 9, 12, 18 ss.; 10. xiv. 2, 17-38;  4,1,9e 12.   Identità: 1v. 4, 14. v. 9, 1-3; 10, 6;  15, 4. x. 3, 4 e 6; 8, 4; e unità  (v. 9, 3). v. 15, 4. x. 3, 3-4.   Imitazione: se significhi qualche  cosa 1. 6, 6-7; 9, 12-13. vu. 8, 8.  xur. b, 3.   Immanenza: e trascendenza x. 10.   Impossibile: contrario di possibile.  — vedi Possibile.   Incapacità: v. 12, 7; 15, 7.   Individuo: se coincida con l’'es-  senza vir. 6; 11, 16; e uno x. 1,  4-5; sinolo di materia e forme  xu. 3, 3.   Induzione: e definizione 1. 9, 34. vi.  1, 2. 1x. 6, 3; e dimostrazione  I. 9, 34. vi. 1, 2. x. 7, 2; pro-  cesso induttivo x. 4, 3.   Inerzia: contrario del movimento  x1. 12,9.   Infinito: n. 2, 9. x1. 10. xn1. 7, 12; in  potenza e in atto 1x. 6, 7; non si  può proseguire all'infinito con  le cause u. 2, 1 ss., né con la di-  mostrazione nr. 2, 9. 1v. 4, 2; 6,2;  7,9. x1. 6, 11, nè coni principii  mu. 3, 9; 4, 27. vi. 3, 3. x1. 2, 4.  xu. 10, 13, nè con il divenire 1.  4, 7-8. 1v. 5, 14. 1x.8, 9. x1. 12, 5.  x. 8, 1, nè coni predicati senza  un soggetto Iv. 4, 22 s., nè con  gl’ intermedi iv. 7, 7, nè con la  definizione vir. 5, 6. Ix. 6, 3, nè  con le produzioni vn. 8, 2, nè con  gli elementi vii. 17, 9, nè ecc.  iv. 4, 19; 8, 8. v. 20, 1. vu. 6, 13.  ix. 8, 19. xn1. 2, 5 ecc.   In qualcosa (essere): v. 23, 5.   Intelligenza: e sensazione 1v. 6, 8;  nell’atto del conoscere vm. 10,    484    17; messa in movimento dall’in-  telligibile xt. 7, 2; divina pen-  sante se stessa xu. 7, 7-8; umana  e divina xn. 7,669;9,9.   Intelligenze: motrici dei Cieli xu.  8, 1-4.   Intermedi: x. 7. x1. 12, 10; e con-  trari x. 7; sono nello stesso ge-  nere dvi.   Intero: v. 26; ed uno (v. 26, 2 e 5).  x. 1, 3-5; e tulto v. 26, 6-6.   Ionici: 1. 4, 12; 8, 1 vi. 1,5. —  vedi Anassimandro, Anassime-  ne, Fisici, Fisiologi e Talete.   Ipotesi: 1. 9, 25. i. 2, 22. 1v. 2, 18;  3, 5. vi. 1, 2. x1. 7, 2. xi. 3, 6;  7, 15 e 17; 8, 10; 9, 14 e 16. xiv.  2,7; 3, 8.   Ippaso Metapontino: 1. 3, 18.   Ippone: 1. 3, 16.   Italici: 1. 5, 20; 6, 1; 7, 2.— vedi  Pitagorici.    Leucippo: 1. 4, 11. xu. 6,6e6e8.—  vedi Atomisti.   Licofrone: vini. 6, 10.   Limite: v. 17; e principio v. 17, 5.   Linea: v. 6, 14; 13, 2. — vedi Enti  matematici.   Logica: 1. 6, 12. — vedi Analitici.   Luogo: vi. 2, 2. vir. 4, 6; 7, 1. xt.  12, 1; sue specie xr. 10, 14. —  vedi Categorie.    Magi: xiv. 4, 4.   Male: non esiste fuori delle cose  di quaggiù ix. 9, 3. — vedi Be-  ne.   Matematica: sua precisione mn. 3,  2-3; suo oggetto e metodo 1v. 1,  1. vi. 1, 1 ss. x1. 3, 6; 4, le  filosofia vi. 1, 5-8. x1. 4, 2-3; 7,  5-8; se riguardi il bene 11. 2, 4.    METAFISICA    xm. 3, 8. — Enti matematici: v.  13, 2; come intermedi 1. 6, 8 ss.;  9, 20 ss. mi. 1, 6; 2, 16-26; 6,2-3.  vit. 2, 5; 11, 11. vr. 1, 2; xI. 1,  7-9. xn. 1, 6; 6,3. xur. 1,8 e vedi  Idee numeri; sono senza movi-  mento 1. 8, 17. nr, 2, 18. vi. 1, 5.  x1. 7, 5. xIv. 3, 11 ecc.; loro pro-  duzione tr. 5, 10; le relazioni  aritmetiche non hanno l’attua-  lità nel senso del movimento  v. 15, 5; come esistono, se siano  sostanze mi. 1, 17; 6. vir. 2,3. xt.  1, 7-3. xiv. 6,9 e vedi Numeri;  loro materia vir. 10, 18; 11,9.   Materia: e sinolo nr. 1, 12. xi. 2,  9; e forma vu. 8; 8; 10. xl. 3,  1-4; e sostrato vir. 8, 2-4; 8, 1-2;  che cos'è vir. 3, 6-9. vir. 1, 6;  e concetto o definizione vi]. 7,  12-15; 11, 13-15; per sè incono-  scibile m. 2, 9. vii. 10, 18; sen-  sibile ‘e intelligibile vir. 10, 18;  11, 9. vm. 6, 6-7; non si può  astrarre da essa vil. 11, 7-8; pri-  ma e ultima, propria e comune  v. 4, 8; 24, 1. vir. 10, 15. vin. 4,  Ix. 7, 4-6; e potenza xit. 5, 2;  come principio x. 2, 7; 4,5. —  vedi Cause.   Megarici: 1x, 3, 1.   Melisso: 1. 5, 15-16. — vedi Eleati.   Memoria: e sensazione 1. 1, 2-3; ed  esperienza 1. 1, 4.   Mente: è immortale xI1. 8, 6.   Meraviglia: muove a filosofare 1. 2,  14-15 e 22.   Metafisica: vedi Filosofia (prima) e  Sapienza.   Metodo: dialettico-induttivo I. 2,  1 ss.; 8, 6 ss. 11. 1,2 ss.; mate-  matico e fisico 11. 3; aporematico  Im. 1, 2 ss.; opportuno per la  difesa del principio di non con-  traddizione iv. 4, 3 ss. xI. 5,    INDICE DHI NOMI HR DEGLI ARGOMENTI    3 ss.; della ricerca su argomenti  affini el proprio xl. 8,6 e 10; e  scienza ti. 3, 8. 1v.3,3e5.—  vedi Definizione, Divisione, Di-  mostrazione, Eristica, Induzio-  ne, Sofisti e Sofistica.   Misura: v. 13, 2. x. 1, 9-16. xIv. 1,  7-9.   Mito: 1. 3, 14; 4, 1. ur, 2, 17; 4, 19.  v. 23, 4. xiv. 4, 4; e filosofia 1.  2, 15; e scienza I. 8, 1; e reli-  gione x. 8, 14-15.   Molteplicità: e unità v. 6, 16.x.3,  1-3; 6; ad essa e all'unità si ri-  ducono tutti i contrari iv. 2,  6 ss. x. 83, 93 ss. x1. 3, 3 ss;  quand’è che richiede scienze  diverse Iv. 2, 10.   Mondo: è unico xu. 5, 13.   Motore: primo immobile Iv. 8, 11.  rx. 8, 19. xII. 6; unico xn. 8, 13.   Movimento: xI. 9; e potenza ivi; e  quantità v. 13, 5. xt. 10, 15; e  attività ix. 3, 8-9; 6, 11-12; eter-  no tx. 8, 24 ss. x11. 6, 2 ss.; spa-   . ziale perfetto è quello circolare  x. 1, 3. xm. 6, 237, 1e4; 8, 2;  non esiste fuori delle cose xI.  9, 2 e 10; non ci sarebbe senza  le sostanze xII. 5, 1; sue specie  xI. 9, 2; 12,168. xIv. 1, 12; non  c'è m. di m. xr. 12, 2 ss.; e mu-  tamento xr. 12, 4; suoi presup-  posti x1. 12, 7; e tempo xl. 6, 2;  dei Cieli x11. 7-8, 12. — vedi Cau-  se, Divenire, Motore e Muta-  mento.   Mutamento: x1. ll; qualitativo e  quantitativo Iv. 6, 15. vin. 1, 7-8;  presuppone l’essere iv. 8, 10; è  tra contrari iv. 7, 3. x1. 10, 9;  11, 3 e 8; 12, 11. xn. 1,8; 2, 2;  sue specie vin. 1, 7-8, xI, 9, 2;  11, 468. xII. 2, 2; e movimento  xI, 12, 4; periodico universale    485    xII. 6, 9. — vedi Divenire e Mo-    vimento.  Mutilato: v. 27.    Natura: v. 4; arte, n. e caso VII.  7, 1-65; 9, 1-2. 1x. 7. x. 3, 2; e  forza (v. 4, 4). vir. 16,2. x. 1,8.  xI. 6, 6.   Necessità: 1v. 5, 25. v. 5; e violenza   “(v. 5, 3). vi. 2, 7. x1. 8, 3. xI1. 7, 5.   Numert: loro produzione 1. 6, 12 s.;  9, 20 s. xIt1. 7,8-10 e 14; 8, 13-16;  9, 7-10. xiv. 2, 1; 5, 3-7; se si pro-  ducano per aggiunta o per divi-  sione xIII. 6, 4; 7, 8-9 e 17-18:  quale sia la causa della loro  unità 1. 9, 21. x1. 2, 6. xt. 10,  15. xii. 8, 14; se la loro serie si  limiti alla decade 1. 5,5. xII. 8,  1. xii, 8, 18-25. xiv. 1, 15; primi  1. 6, 12; loro differenza qualita-  tiva v. 14, 2 e 6. x. 6, 2; 7, 12;  8, 1-2; se le loro unità siano ad-  dizionabili o no xi. 6, 2 ss.; 7;  8, 1-4 e 8; se ne derivino gli enti  geometrici vedi Grandezza; il  primo principio non è un ele-    mento dei n. xiv. 4, 7. — vedi  Diade, Idee numeri ed Enti ma-  tematici.    Numero: se sia causa delle cose  i. 8, 22; 9, 16. x1r. 10, 14. xIn. 6-8.  xiv, 5, 8-6; se abbia esistenza  separata (sia sostanza) Irt. 1, 17;  5, 1. x1. 10, g. xI11. 1,3 e 6; 2,5;    . 6-8. xIv. 2, 7-3; 4, 1 e 12 e vedi    Enti matematici; aritmetico: co-  m'è xi. 8, 11; da chi è ammesso  xIIt. 6, 15; matematico: com'è  xuI. 6, 3; matematico e ideale  x. 1, 3; 6,8; 7,2 e 4-5; 8, 10;  9, 13-14. xiv. 2, 3; e quantità  v. 13, 2. x. 1, 9. xIv. 2, 16; e l'uno  (misura del n.) x. 1,9 e 14; 6, 8.  xII.8,26-9, 1. xiv. 1,8;4,3e7.    486    Omero: 1v. 5, 9. x11. 10, 16, xIv. 4, 4;  6, 5.   Opinione: e scienza iv. 4, 35. VII.  15, 2; e realtà Iv. 6, 8-10; se abbia  sè come oggetto xi. 9; 6.   Opposizione: e suoi modi v. 10, 1.  x. 3, 1; 4,6.   Opposti: sono oggetto di un'unica  scienza Iv. 2, 8.    Parmenide: 1. 3, 25; 4, 1; 5, 16 e 17.  in, 4, 37; 5, 9. Iv. 2, 15? xIv. 2,  4. — vedi Eleati.   Parte: v. 25. (vir. 10, 3).   Partecipazione: se significhi qual-  che cosa I. 6, 6-7; 9, 12,26. vm.  6,9. xi1. 10, 11. xt. 5, 3.   Passività: v. 12, 2-5; 15, 1 e 5. 1x.  1, 8-9.   Pausone: rx, 8, 14.   Pensiero: è del determinato lv. 4,  10; afferma o nega lv. 7, 4; e  realtà vi. 4, 3-5. xr. 8, 7; e arte  vil. 7, 9-10; attività non movi-  mento 1x. 6, 8-12; l’atto del p.  e il suo oggetto xII. 9.   Percezione: vu. 10, 17; 15, 8; 17,7.   Perfetto: v. 16. x. 4, 2.   Per qualcosa (essere): v. 18, 1-3.   Per sè: v. 18, 4-8.   Pianeti: e loro movimenti xII. 8,  2-12.   Pitagora: 1. 5,9.   Pitagorici: 1. 5, 1, 7, 9, 21; 6,1,6,  10-12; 8, 17 e 18; 9, 1 ur. 1, 15;  3, 3; 4, 32. 1v. 2, 15. v. 8,3. vir.  1, 6; 2, 3; 11,4 e 6; 13, 10. x.2,  1. xl. 9,7 s. xu. 7, 11; 8, 1; 10,  7 e 15. xi. 4, 3; 6, 7, 10, 15; 8,  11. xiv. 3, 2, 4,6,113.;5,8. — ve-  di Italici.   Platone: t. 1, 4; 2, 14 e 18;6,15,,  4, 6,8 s., 11 s., 16; 7, 2; 8, 24;  9, 14 e 25. m. 1, 15. rv. 4, 32;    MHNTAFISICA    5,21. v. 5, 29; 11,9; 29, 3. vi. 2, 5.  vu. 2, 5. x. 2, 1. x1. 8, 2. xt. 3, 4;  6, 6-7. xt. 1,3; 4,1e3; 5, 4i  6, 8; 7, 5; 8, 8; 9, 15. xiv. 2, 4,  7,123, 9.   Platonici (Platone e): 1. 7,4; 9,  4, 5. ur. 2, 16 s. e 23; 3, 3; 6,3  Iv. 2, 15. v. 8, 3. vir. 2, 4; 6, 4,  9; 8, 6; 11, 5; 13, 2; 14, 1 e 10; 15,  4; 16, 5. vin. 1,2; 3,8 e 11; 6,3  e 9. 1x. 8, 28. x. 5, 2; 10, 3. xl.  2, 69,7 s. x. 1, 6; 6, 3; 8, I;  10, 6 s., 11, 16. xin e xiv.   Possibile: v. 12, 8 s.   Posteriorità: v. 11.   Potenza: v. 12; e possibile v. 12,  11; ed atto vi. 2, 3; non sono la  stessa cosa 1x. 3, 1-7; 6, 1-6; e ma-  teria vi. 7,3. xt. 5, 2; dei contra.  ri vin. 5. Ix. 2, 2-5; 5, 5-6; 8, 21;  9, 1. x. 4, 4. XII. 2, 2; passaggio  dalla p. all'atto vir. 6, 5. 1x. 7.  XII. 2, 3; suo significato origi-  nario e derivati tx. 1, 2 ss.; po-  tenze razionali e irrazionali 1x.  2, 1 ss.; 5, 2 8s.; 8, 27; necessità  della p. 1x. 3, 1-7; sua realtà 1x.  4; come s'acquiste lx. 6, 1; sua  determinatezza ix. 5, 2 ss.; sue  attualità ix. 7; è dopo l'atto ix.  8-9. x. 6, 49.   Potere: vedi Potenza.   Principio: v. 1. x1. 1, 11; e causa (v.  1, 7). iv. 2, 5; ed elemento vu. 17,  8-10. x11. 4, 7. x1v. 4,3, 7 e 12; e  termine (limite) v. 17, 5; peti-  zione di p. Iv. 4, 32.   Principii: son più conoscibili 1, 2,  11; se lo studio dei p. logici ap-  partenga alla filosofia vedi As-  siomi; se siano p. i concetti o  gli elementi ni. 1, 9-10; 3. x1. 1,  10-11; se la loro unità sia nu-  merica o specifica I. 1, 13; 4,  14-16. x1. 2, 10. xur. 10, 1 8s.; se    1,  9    INDICH DHI NOMI E DEGLI ARGOMENTI    siano gli stessi per le cose cor-  ruttibili e quelle eterne in. 1, 14;  4, 17-30. xI. 2, 4; se siano in po-  tenza o in atto 1n. 1, 16; 6, 6-8;  se siano universali o singolari  rt. 1, 16; 6, 9-12. vit. 13, 2 ss. xI.  2, 8. xttr. 10, 1 ss.; i p. sommi  riguardano l’ente in quanto ente  Iv. 1; tutti i contrari si riducono  ai p. dell'uno e del molteplice  Iv. 2, 6 ss. x. 3,3 ss. x1. 3,9 98.;  in quanto oggetto di studio del-  le scienze in generale vi. 1, 1.  voi, 1, 1. xr. 1, 1 7, 1. xt. 1, };  principio di non contraddizione  ni. 1, 4; 2, 7.1v.3,6 ss. —6. xI.  5-6; del terzo escluso lv. 7-8.  xI. 6, 13-15; se siano generi xI. 2,  1-3; principio primo di tutti i p.  xI, 7, 6ri p. dell’essere non con-  sistono nella connessione delle  nozioni xi. 8, 7; e cause xII. 2, 7;  il principio motore xl. 3, 1; loro  numero xII. 3, 1; 4, 5; loro ana-  logia xt. 4, 1; 5; il principio in  quanto causa motrice x. 4, 6-9;  il principio primo x. 6,3 ss. —  vedi Cause.   Privazione: v. 22. tx. 1, 11-12; non  è soltanto negazione Iv. 2, 8;  è in certo modo una proprietà  v. 12, 5; che cos'è Iv. 6, 12; non  si dà come mancanza di tut-  t'intero il concetto xi. 8, 5; e  opposizione v. 10, i. x. 3. 1; 4, 6;  e abito x. 4, 5; e contraddizione  x. 4, 7; e contrarietà x. 4, 8-10;  come causa XII. 2, 7; come prin-  cipio xu. 2, 7; 4, 5; 55, 5.   Produzione: riguarda il particolare  1. 1, 8; delle cose dell’arte vir.  7, 5-12; 9, 1-6; che cosa è v11. 8,2.   Protagora: ni. 2, 22; 4, 5. Iv. 4, 25;  5, 1 e 20-21? 1x. 3, 3. x. 1, 15.  xI. 6, 1.    487    Punto: v. 6, 14; e unità v. 6, 14. xl.  12, 13. xnr. 8, 28. — vedi Enti  matematici.    Qualità: v. 14. — vedi Categorie.  Quantità: v. 13. — vedi Categorie.    Relativo: v. 15. x. 6, 5; e opposto  v. 10, 1.   Relazione: v. 15; e opposizione v.  10, 1. x. 3, 1; 4, 6.   Religione: e mitologia xi. 8, 14-16.   Riflessione: 1. 1, 5.    Sapere: è conoscere la causa 1. 3,  1. 11, 2, 10, o l'essenza n. 2,9. 111.  2, 6. vii. 1, 4; e scienza xi. 10,9.   Sapienza: sua natura I. 1, 10 ss. —  2; scienza divina I. 2, 20; e dia-  lettica iv. 2, 14; e sotistica Iv.  2, 14; e fisica Iv. 3, 2. x1. 1, 6; 4,  3; scienza dei principii (1. 2, 13).  xI. 1—2 e vedi Filosofia; e ma-  tematica xi. 4, 3; e mitologie  xi. 8, 15.   Scienza: e arte I. 1, 10-17; e sa-  pienza 1. 2. x1. 1, 1-2; scienze  divise in teoretiche (speculative,  matematiche), poietiche (produt-  tive) e pratiche I. 1, 17. vi. 1, 8;  2, 4. x1. 7,163. x11. 9, 7; scienze  esatte I. 2, 9; e metodo n. 3, 3.  iv. 3, 3 e 5; se la s. delle cau-  se sia una sola ut. 3, 4. ur. 1,3;  2, 1-6. x1. 1, 2; se lo studio dei  principii logici eppartenga a  una sola s. nr. 1, 4; 2, 7-10. iv.  8. x. 1, 3; 4, 1-2; se ci sia una  sola s. per tutte le sostanze ni.  1, 5; 2, 11-12. 1v. 2. x1. 1, 4; 3;  se le scienze che studiano le  sostanze debbano studiarne an-    488    che gli accidenti ni. 1, 7; 2,  13-15. xI. 1, 5; dell'essere in  quanto essere Iv. 1. xI. 3; è  dell’universale 1. 4, 2; 6, 12.  xuI. 10, 5 e 9; è della pura es-  senze vil. 6, 7. xt. 2, 8; non c'è  s. dell’accidente vi. 2,4 e 11-12.  xI. 8, 1 e 4; è unica degli op-  posti o contrari iv. 2, 8-10 e 16.  Ix. 2, 3. xI. 1, 2 e 5; e sensa-  zione 1. 4, 5; e opinione Iv. 4,  35. vii. 15, 2; se sia associazione  psichica vii. 6, 10; e concetto  ix. 2, 3. x1. 1, 10; misura delle  cose x. 1, 15; e scibile x. 6, 5-7;  sua relatività v. 15, 1e 8. x. 6,  5; suoi generi vI. 2, 4. xI. 7, 3.  xII. 7, 9; scienze fisiche e mate-  matiche e loro metodo vedi Fi-  sica e Matematica; se abbia sé  come oggetto xi. 9, 6.   Scopo: e tine 11. 2, 2. v. 16, 3. vi.  4, 4. — vedi Fine.   Semplicità: e unità xt. 7, 2.   Senocrate: vir. 2, 7. xt. 1, 6. xur.  1, 3; 6, I1 e 14; 8, 10; 9,2 e 14.  xiv. 2, 3; 3,89; 4,12 e2n.   Senofane: 1. 5, 15-16. Iv. 5, 11.   Sensazione: 1. 1, 1 ss.; e sapienza I.  1, 13; 2, 3; e scienza nr, 4, 5; e  intelligenza Iv. 5, 8; e fantasia  Iv. 5, 19; e apparenza iv. 5, 6 ss.,  19 ss.; 6. xr. 6,45. e 10; che cosa  sia Iv. 5, 8 s., 26; presuppone il  sensibile Iv. 5, 27 s.; sua rela-  tività Iv. 6, 4 9s.; se solo ciò ch'è  sensibile può esistere qualora  non ci fossero animali non esi-  sterebbe nulla 1v. 5, 26. x11. 2, 6;  attività non movimento 1x.6, 8-  12; misura delle cose x. 1, 15;  se abbia sè come oggetto xII. 9,  6; anteriorità secondoil concetto  e secondo il senso v, ll, 7.   Sfere: celesti e loro movimenti  xn. 8, 5-12.    MMATAFISICA    Simile: e dissimile v. 9, 6; 15, 4.  x.3,3 e 5; 4,9; e relativo v. 15,9.   Simonide: 1. 2, 18. xiv. 3, 10.   Singolo: che cos'è 11. 4, 16.   Sinolo: che cos'è in. 1, 12; 4, 13.  XI. 2, 9; se esista oltre la ma-  teria e il sinolo qualcosa che  abbia valore di principio ni. 1,  11-12; 4, 1-13. xI. 2, 1-3 e 9.   Socrate: 1. 6, 3 s. xi. 4, 3; 9, 23.   Socrate (il giovine): vir. 11, 8.   Sofisti: ir. 2, 4. 1v. 2, 14. vi. 2, 5,  vir. 6, 2 e 15. 1x. 8, 8. — vedi Li-  cofrone.   Sofistica: vi. 2, 5. x1. 8, 2; e dia-  lettica Iv. 2, 14. xi. 3, 7.   Sofocle: v. 5, 3.   Soggetto: vedi Sostrato.   Sostanza: v.8; che cos'è vir. 11, 15;  di essa non c'è dimostrazione  mi. 2, 14. vi. 1, 2.x1. 1, 5; 7, 2;  ed universale 11. 6, 10. vi. 13.  vin. 1, 5. xI. 2,8; e unità iv. 2,  9; ed essenza iv. 4, 20. vir. 1, 1  ss.; 3, 1; 4 ss.; 7, 8; 19,1; e acci-  dente Iv. 4, 21-24; soggetto, non  predicato v. 8, 1 ss, vir. 3, 5;:13,  3. xUI. 4, 8; e qualità v. 14, 1-2  e 5; e materia vil. 3, 8; termine  di conoscenza v. 17, 4; princi-  pio del sillogismo vir. 9, 5; e sue  determinazioni (categorie) vit.  1, 1 ss.; 3,7. van 1, Ltx. 1,1  XI. 1, 1 ss.; è prima delle altre  determinazioni v11. 1, 3-4. xII. 1,  1 s.; se sia unica o molteplice vit.  1, 5—2; suoi significati principali  vil. 3, 1 89.; 13, 1 ss.; 15,1. vin. 1,  6 s.; s. composta, e se di essa  si dia definizione vil. 10. 1 ss.;  11, 12 ss.; 13,4 e 11. vi. 3; 8. pri-  ma vii. 11, 16; se possa risultare  de altre sostanze vu. 13, 9 ss.;  14; 1 ss.; 16, 1 ss.; come cau-  sa vii. 17; ed elemento vi. 17,    INDICE DRI NOMI HD DARGLI ARGOMENTI    8-10; come sinolo vii. 1, 6; se  sia numero vir. 3, 8-12; come  sostrato 1x. 7, 7-9; e atto 1x. 8,  19; come atto puro xl. 6, 3; co-  me autocoscienza xil. 9, 2 8.   Sostanze: se appartengano tutte a  una sola scienza I. 1, 5; 2, 11-  12. iv. 2. xi. 1, 4 3; se ne esi-  stano oltre quelle sensibili tr.  1, 6; 2, 16-26. vir. 2. vi. 1, 3;  se la scienza delle s. debba stu-  diare anche gli accidenti 11. 1,  7; 2, 13-15. 1v. 2, 7-11. x1. 1, 5;  vere e proprie sono quelle na-  turali vir. 8, 8. vin. 3, 5; natu-  ‘rali eterne vin. 4, 5; eterne sem-  pre in atto ix. 8, 20 27; nessuna  è eterna se non è atto xiv. 2,  2; tre generi di s. x. 1, 5-7; 6,  1; la s. immobile è atto puro  xII. 6, 1 ss.; quale sia la causa  della loro molteplicità xiv. 2,  9-16.   Sostrato: vii. 8; 13, 1. vi, 1, 6. tx.  7, 7-9. x1. 11, 3; e materia vil.  7, 14. vni, 1, 6; materiale xl.  3,3. ,   Specie: che cosa sia vii. 7, 6;  suoi due sensi virr. 1, 7-8; se le s.  siano principii 1. 1, 10; 3, 5-12.  xi. 1, 11: e atto 1x. 8, 19.— vedi  Forma, Genere e Idee.   Speusippo: vii. 2, 6. x. 1, 6; 7, 11;  10, 7 e 16. xi. 1,3; 6,90 13;  8, 5-9; 9, 2, 13, 20; 10, 1. xIv. 1, 8;  2, 18; 3, 3 e 7; 4,2-3, 7,10; 5, 2?   Storia: 1. 3, 6 ss. 1, 1, 3. xl. 8,  14-15. x. 1, 2.   Superficie: v. 6, 14; 18, 2. — vedi  Enti matematici.    Talete: 1. 3, 12-15 623; 7,2; B,1e  ò. II. 1, 15. v. 4, 5. — vedi Fisici,  Fisiologi e Ionici.    489    Tempo: e quantità v. 13, 5. x1. 10,  15; sua eternità xit. 6, 2; e mo-  vimento xii. 6, 2; — vi. 2, 2. vir.  4, 6. — vedi Categorie.   Teologi: 1. 3, 14. 1. 4, 19. xl. 6, 5;  10, 13. xrv. 4, 3.   Teologia: scienza prima vi. 1, 6.  xi. 7, 7.   Termine: v. 17; e principio v. 17, 5.   Tutto: e parti v. 11, 11. vi. 17, 8-  10. vin. 3, 3. x. 9, 9; e intero  v. 26, 5-6.    Uguale: v. 15, 4. x. 3, 3-4 xm. 7,  15; e grande-piccolo x. 5. xIv. 1,  3; e relativo v. 15,9.   Unità: e molteplicità 1. 3; e sem-  plicità xII. 7, 2; e punto v. 6, 14.  xI. 12, 13. xni. 8, 28. — dei nu-  meri: se siano addizionabili o  no xtI. 7-8, 4.   Universale: e singolare in. 4, 16.  v. 11, 7; come sia intero v. 26,2 s.   Universali: se sian principii 11. 1,  16; 6, 9-12. xr. 2, 8. xt. 10; se  sian sostanza ni. 6, 10. vii. 10,  15; 13-16. vin. 1, 5. xI. 1, 8. xuI,  9, 21 ss.; 10,6 29.   Uno: v. 6. x. 1; e molti x. 3; u.,  pochi e molti x. 5, 1; 6. xnr. 1,6;  e l'Ente sono la stessa cosa Iv.  2, 5. x. 2, 6; se sian principii  vedi Ente e x. 2. xI. 3, 4. xIV.  4, 3 8s.; come continuo (v. 6,  4-6 e 11-12). x. 1, 2; come intero  (v. 6, 12). v. 15,4; 26,2 e 4. x. 1,  3; è principio (misura) del nu-  “mero (v. 6, 13). x. 1, 8-14 e 16.  xIv. 1, 7-9; è indivisibile (v. 6, 14).  x. 1,8 ss.    Verità: la conoscenze di essa è  facile e difficile Ir. 1, 1-2; pro-    490 METAFISICA    gresso nella conoscenza di essa zioni Iv. 7, 2 e 4. vi. 4. ix. 10  11. 1, 3; e l’essere 11. 1, 5-6. v. 7,6; xI. 8, 7; e possibilità v. 12,9; e  delle unità semplici ed essenze impossibilità v. 12, 8.    rx, 10, 6 s8.; e opinione Iv. 4, 95;  verità-falsità: riguarda le con-  nessione o divisione delle no- Zenone: rr. 4, 39-40. — vedi Eleati. Armando Carlini. Carlini. Keywords: filosofia fascista, Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito del realismo, la categoria dello spirito, animus e spiritus, filosofia italiana, storia della filosofia romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la antichissima sapienza degl’italici, la scuola di pitagora, sicilia e la magna grecia, geist, ghost, spirito, animo, spirito oggetivo, Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei, aristotele, il principio logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed esperienza, storia della filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi filosofi – mondatori – the great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carlini” – The Swimming-Pool Library. Carlini.

 

No comments:

Post a Comment