maanche questa religione non deve più confondersi con quella preesistente; essa non è nè il fondamento, nè l'intento supremo, a cui la città intende, come sembra sostenere il Fustel de Coulanges ; ma è soltanto una consacrazione dello scopo, che viene a proporsi la nuova comunanza, politica e militare ad un tempo, e quindi anche la sua religione, i suoi sacerdozii, i suoi auspizii hanno un carattere pubblico, e come tali si contrappongono alla religione, ai sacerdozii, e agli auspicii delle singole genti. $ 2. Il populus e le sue ripartizioni (tribus, curiae, decuriae). 189. Anche le divisioni, che compariscono nella città, a prima giunta appariscono come un riverbero di quelle, che esistevano nel periodo precedente e quanto alla loro conformazione esteriore, sono veramente tali; ma se si riguardano più da vicino, si presentano con un contenuto, che già comincia ad essere diverso e che tende a diventarlo sempre più. Così è certamente vero, che la città viene ad essere divisa in tribu; ma è evidente, che questa divisione in tribů, trasportata nell'interno di una stessa comunanza, non può più considerarsi come una distinzione del populus, ma tende di necessità a cam biarsi in una ripartizione del suo territorio. Le tre tribù primitive, ancorchè serbino per qualche tempo la denominazione antica, ten dono necessariamente a trasformarsi in altrettante divisioni territo riali; poichè col mescolarsi degli elementi riuniti in una stessa co munanza, la distinzione delle stirpi primitive finisce per non più corrispondere alla realtà dei fatti. Come si potrà ancora parlare di una tribù di Ramnenses, di Titienses e di Luceres, quando, per la comunanza di connubio e di diritto, le varie genti si vengono me scolando insieme e nulla pud impedire, che le persone di una stirpe possano anche trasportare la propria sede nel territorio dell'altra? Si FUSTEL DE COUlanges, La cité antique, liv. III, chap. 5, 6, 7. 232 comprende pertanto, che fin dapprincipio i re tentassero di togliere di mezzo questa distinzione, che solo ebbe a mantenersi ancora per qualche tempo in conseguenza di quello spirito conservatore, che dimostrasi tenace sopratutto fra le genti di stirpe Sabina, alle quali appunto apparteneva l'augure Atto Nevio. La sua opposizione tut tavia non mutasi che in una dilazione, e la soppressione delle an tiche tribù, se non di diritto, verrà ad essere operata di fatto da Servio Tullio, che alla tribù fondata sulla discendenza sostituirà la tribù di carattere territoriale, e sarà cosi conservato il nome antico per indicare una istituzione compiutamente nuova. In questo modo infatti si sostituisce il vincolo territoriale, a quello della discendenza, che prima era il solo ad essere riconosciuto. 190. La distinzione invece, che è veramente fondamentale per il populus, è quella per cui il medesimo viene ad essere ripartito in curiae. Un tempo si è dubitato circa il carattere originario delle curiae, e sull'autorità del Niebhur si è soventi sostenuto, che esse non fossero, che aggregazioni di gentes, e che si ripartissero anzi in gentes . Ora però comincia ad essere universalmente ammesso, che la curia può essere una istituzione, la cui origine è forse an teriore alla comunanza romana, e che poteva già essere conosciuta alle genti latine ed etrusche; ma che essa deve ad ognimodo essere considerata come la base di tutte le divisioni politiche e militari della città, finchè questa si mantenne esclusivamente patrizia. Essa, al pari del populus, di cui è una suddivisione, costituisce una cor porazione religiosa, politica e militare ad un tempo; ha un proprio capo (curio); un proprio sacerdote (flamen curialis ); un proprio culto, che fa parte dei sacra publica; un proprio santuario (sacel um ); e tutte insieme riunite hanno proprie assemblee, che pren dono il nome di comitia curiata. L'esattezza stessa del loro nu mero già dimostra come questa divisione abbia un carattere del tutto artificiale, e miri a uno scopo preordinato, che è quello di dare Del resto anche VARRONE, De ling. lat., IX, 9, parla della divisione primitiva in tribù, come di una divisione piuttosto dell'ager che del populus. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., I, 31, il quale anzi nota che la distinzione in tribus, secondo Livio I, 13, si applicherebbe di preferenza agli equites. Niebhur, Histoire Romaine. Trad. Golbery. Paris, 1830, II, 19. Vedi in proposito ciò, che si è detto parlando delle gentes nel lib. I, cap. III, al nº. 28. e nelle note relative. 233 - ai quiriti, posti sotto la protezione della religione, un ordinamento politico e militare ad un tempo, per modo che essi sotto un aspetto possano costituire un'assemblea di quiriti, e sotto un altro un eser cito di Romani. Quello viene ad essere il loro nome nei rapporti interni (domi), e questo è quello, con cui sono designati nei rapporti esterni (foris, militiae). Nulla vieta, che imembri di una medesima curia siano anche stretti da vincoli gentilizi fra di loro, e che essi, come attesta Aulo Gellio, siano anche tratti ex generibus homi num ; ma le curie sono già composte di uomini scelti, di viri, diguerrieri armati di lancia (quiris), di persone comprese in certi limiti di età, e quindi non possono più avere colle gentes altro rapporto, salvo quello che da esse ricavasi il contingente, che entra a costituirle. È quindi incomprensibile, che le curiae possano ripartirsi in gentes, le quali comprendono indistintamente tutti coloro, che derivano dal medesimo antenato, senza riguardo nè all'età, né al sesso. Solo può dirsi, che i membri della curia possono essere considerati sotto un doppio aspetto: o in rapporto colle famiglie, colle genti, colle tribù, da cui ebbero a staccarsi, e sotto quest'aspetto essi continuano ad essere dei gentiles; o rimpetto al populus ed alla civitas, di cui entrano a far parte, e sotto questo aspetto sono dei viri, dei quirites, degli uomini di arme e di consiglio, che non debbono avere altro pensiero, che quello della res publica. 191. Quanto alla suddivisione in decuriae, che è solo accennata da Dionisio, essa non può certamente essere confusa colla riparti zione in gentes, come avrebbe voluto il Niebhur; ma può essere facilmente compresa, quando si ritenga, che dalle curie usciva poi quel contingente, scelto e nominato dal re, che doveva poi entrare a costituire le centurie dei cavalieri e le decurie dei senatori. I [Aulo Gellio, Noctes Atticae, lib. XV, 27, ci conservò in succinto tutta una teoria intorno ai comizii, che egli dice di aver ricavata dal libro di Laelius Foelix, ad Quintum Mucium, e sarebbero parole testuali di quest'ultimo le seguenti: cum ex generibus hominum suffragium feratur, curiata comitia; cum ex censu et aetate, centuriata; cum ex regionibus et locis, tributa . Fu anche fondandosi su questo passo, che si è sostenuto per lungo tempo, che le curiae si dividessero in gentes; ma parmi evidente, che, anche ammettendo che genus in questo caso suoni gens, il medesimo non potrà mai condurre ad altro risultato salvo a quello, che il contingente delle curie era ricavato dalle genti e in base alla discendenza, mentre quello delle cen turie era ripartito in base al censo, e quello dei comizii tributi in base alle località o alle tribù, a cui erano ascritti i cittadini. 234 senatori (patres) ed i cavalieri (celeres, equites) nella città primi tiva appariscono come due corpi scelti nel seno stesso delle curie, e corrispondono in certo modo alla divisione dei iuniores e dei se niores. I primi sono l'elemento giovine, splendido nell'armi, che costituisce il corteggio del re e l'ornamento della città (civitatis or namentum ), sotto il comando di un tribunus celerum, o di un magister equitum; mentre il senato, nella concezione estetica ed armonica della città primitiva, rappresenta l'elemento più maturo negli anni, più saggio nel consiglio, e costituisce veramente il con siglio, da cui il re è circondato (regium consilium ). Non vi ha poi dubbio, che l'uno o l'altro elemento viene ad essere ricavato dal seno delle curie, e quindi è assai probabile, che, nell'ordinamento simmetrico della città primitiva, ogni curia potesse anche sommini strare un numero eguale di cavalieri e di senatori, numero che dovette appunto essere quello di dieci per ogni curia; donde il con cetto, che anche le curiae si dividessero in decuriae. Del resto non avrebbe nulla di ripugnante, che questa suddivisione esistesse vera mente nel seno delle curie: mentre sarebbe in ogni caso incom prensibile, che le curie si potessero suddividere in gentes . 192. Conchiudendo si può dire: che la ripartizione in tribù, qualunque potesse esserne la significazione primitiva, tende a cam biarsi in una divisione territoriale, ossia in una ripartizione del l'ager; che il populus, ricavato per selezione dalle genti e dalle tribù, dividesi in curiae, che sono corporazioni religiose, politiche e militari ad un tempo, i cui quadri sono regolari, come quelli diun esercito, cosicchè riunite possono costituire sotto un certo aspetto un esercito e sotto un altro aspetto un'assemblea politica, e sotto altro assumono eziandio un carattere sacerdotale, che fu quello Che le decuriae non debbano confondersi colle gentes, ma debbano invece ri cercarsi piuttosto negli equites e senz'alcun dubbio anche fra i patres del senato, è provato anzitutto da ciò, che il senato fin dai primi tempi si divideva senz'alcun dubbio in decuriae, il che dovette pure essere degli equites, il cui corpo, secondo OVIDIO, Fast., III, 130 dividevasi appunto in dieci squadroni o turme, così chia mate quasi turimae, quod ter deni equites, ex tribus tribubus Titiensium, Ramnium, Lucerum fiebant (V. Festo, vº Turmam ). Del resto la divisione del senato in de curiae fu ancora mantenuta nelle coloniae e nei municipia, dei quali si sa, che erano organizzati sul modello stesso della metropoli. Cfr. in proposito Belot, His toire des chevaliers romains, I, 151, 152; e il Bloy, Les origines du Sénat romain. Paris, 1883, 102-105. 235 - che serbarono più a lungo, allorchè già avevano perduto le altre funzioni politiche e militari; che da ultimo il corpo scelto degli equites e dei patres dividesi in decuriae. Questo è certo ad ogni modo, che nel populus non deve più essere cercata la riparti zione in gentes, delle quali solo si può dire ciò, che Cicerone disse più tardi della famiglia, che esse cioè erano il seminarium reipublicae, perchè da esse ricavavasi il contingente, che entrava a costituire le curie. Il pubblico potere e gli aspetti essenziali del medesimo (regis imperium, patrum auctoritas, populipotestas). 193. Intanto questo esame del populus e della sua composizione può facilmente condurci a spiegare in qual modo abbia potuto sboc ciare nel seno del medesimo il concetto del pubblico potere, ed in quali forme esso siasi venuto manifestando. I vocaboli sono qui una guida incerta, poichè il potere in genere viene ad essere indicato, ora col vocabolo di potestas, ed ora con quello di imperium; ma l'in certezza, che è nei vocaboli, può essere tolta di mezzo, se si riesca a ricostruire il processo logico, che in questa parte seguirono i Romani. Anche a questo riguardo esistevano degli elementi, che già erano preparati nell'organizzazione preesistente. Per unificare la città, presentavasi acconcia la figura del padre; per consultarsi nei momenti più difficili, eravi il consiglio degli anziani; e in fine per deliberare intorno alle cose, che riguardavano il comune interesse, già si conosceva l'assemblea della tribù. Erano così in pronto l'elemento monarchico, l'aristocratico e il democratico; nė ai fondatori della città patrizia poteva ripugnare, che queste con figurazioni dell'organizzazione gentilizia fossero trasportate nella nuova comunanza. L'imitazione dell'antico avrebbe conciliato rive renze alle istituzioni novelle, e quindi tutte queste estrinsecazioni del potere, preesistenti nell'organizzazione anteriore, ricompariscono nella città; ma intanto il concetto ispiratore viene ad essere com piutamente diverso. Il re infatti non è più tale per nascita, ma è creato dall'elezione; il che deve pur dirsi del senato, e fino anche dei comizii del popolo, i quali non sono una moltitudine, ne una folla, in qualsiasi modo congregata, ma costituiscono un esercito di uomini di arme, ed un'assemblea, debitamente organizzata, di uomini di senno e di consiglio. Il re, il senato ed il popolo, adunato nei comizii, vengono così ad essere i tre organi essenziali, in cui si estrinseca il pubblico potere nella costituzione primitiva di Roma. 194. Quanto al vocabolo adoperato per significare questo supremo potere, la cosa è dubbia, poichè occorrono in significazione generica ora quello di potestas, ed ora quello di imperium. Dei due vocaboli tuttavia quello, che a mio avviso appare più largo e comprensivo, è certamente il vocabolo di potestas, il quale, per la propria ge neralità, può facilmente adattarsi ad indicare qualsiasi gradazione del pubblico potere. Esso quindi si applica talora per significare il potere del magistrato (potestas regia, consularis, censoria ); quello del popolo (populi potestas) e talvolta eziandio quello del senato, al modo stesso che può anche adoperarsi per significare il potere domestico e privato. Potestas insomma, nella sua significa zione più larga, indica il potere, riguardato in tutte le sue mol teplici manifestazioni; il che però non toglie, che, contrapponen dosi talvolta lo stesso vocabolo a quello di imperium, possa anche assumere una significazione più circoscritta. L'espressione quindi Questa incertezza di significazione fra potestas ed imperium è notata, fra gli altri, dal KARLOWA, Röm. R. G., il quale trova eziandio, che il voca bolo di potestas ha una significazione più generica. Così pure la pensa il MOMMSEN, secondo il quale il vocabolo di potestas esprime l'idea più larga, e quello di impe rium la più ristretta; sebbene ciò non tolga, che nel linguaggio corrente il vocabolo di imperium siasi poscia riservato alle magistrature maggiori,mentre si adoperò quello di potestas per i magistrati, che non avevano imperium. Ciò risulta dal passo di Festo ivi citato: Cum imperio dicebatur apud antiquos, cui nominatim a populo dabatur imperium; cum potestate est, dicebatur de eo, qui negotio alicui praeficiebatur . Le droit public romain, I, 24. Lo stesso autore poi osserva, che quel vocabolo di imperium, che in un senso tecnico indicava in genere il potere del magistrato, in un senso ugualmente tecnico e più frequente indicava il comando militare. Op. cit., I, 135. Parmi tuttavia, che queste apparenti incoerenze nella significazione di questi vocaboli vengano a dileguarsi, quando si ritenga, che il vocabolo di potestas indicava il potere pubblico in genere, mentre quello di imperium usavasi di prefe renza per il potere del magistrato, e più specialmente ancora per l'imperium militiae. Anche nell'indicazione del potere privato del capo di famiglia accadde alcun che di analogo. Questo potere infatti in origine era indicato col vocabolo generico dimanus o di potestas; ma ciò non tolse, che questi vocaboli abbiano poi designato i singoli aspetti di questo potere, cioè la manus il potere del marito sulla moglie, e la po testas quello del padre sui figli. Ciò significa, che i vocaboli presentansi dapprima con una significazione più larga, che corrisponde al vigore sintetico di quei concetti primitivi, di cui sono l'espressione; ma quando poi questi concetti si vengono diffe renziando nei varii loro aspetti, il vocabolo primitivo suol sempre essere mantenuto per significare in modo più specifico uno di tali aspetti. 237 - più generale del potere viene ad essere quella di publica potestas; ma siccome poi esso può atteggiarsi sotto aspetti diversi, così ben presto nella indeterminazione primitiva, compariscono i vocaboli, che esprimono gli atteggiamenti diversi, che il medesimo viene ad assumere. Tali sono i vocaboli di imperium, che applicasi di prefe renza al potere del magistrato; quello di auctoritas, che sopratutto si accomoda al senato; e quello infine di potestas, che, applicato al popolo, indica il potere di esso, in quanto iubet atque constituit , Tutti questi concetti sono ancora vaghi ed indeterminati: ma intanto sono concepiti in una sintesi potente, che renderà possibile a cia scuno di ricevere uno svolgimento pressochè indefinito. 195. Ciò può scorgersi anzitutto quanto al concetto di imperium, che indica di preferenza il potere del magistrato. Il medesimo, nel concetto romano, non esce dalla nascita, nè dalla investitura divina; ma esce dall'accordo delle volontà, che concentrano ed unificano in esso il potere, che prima era disperso fra i singoli capi di fa miglia, alla cui potestà trovasi talvolta applicato il vocabolo stesso di imperium. Per esprimere un tal concetto non poteva esservi im magine più efficace, che quella di raccogliere e di riunire quelle aste, che sono l'emblema del potere spettante ai singoli quiriti . Che il potere del re e degli altri magistrati maggiori, che a lui sottentrarono più tardi, sia di regola indicato col vocabolo di imperium, è cosa che appare da tutti gli antichi scrittori. È poi sopratutto CICERONE, che accenna a queste varie distin zioni, allorchè afferma che potestas in populo, auctoritas in senatu est . De le gibus III, 12, 28; distinzioni, che egli fa rimontare fino agli inizii di Roma, in quanto che, parlando di Romolo, scrive: vidit singulari imperio et potestate regia tum melius gubernari et regi civitates, esset optimi cuiusque ad illam vim do minationis adiuncta auctoritas , nel qual passo il potere regio viene efficacemente chiamato vim dominationis, mentre quello del senato è indicato con quello di au ctoritas. De rep., JI, 8. [Magistratus, scrive a questo proposito il Mommsen, è l'individuo investito di una magistratura politica regolare, in quanto essa emana dall'elezione del popolo (Le droit public romain, I, 8 ); e aggiunge poi a 10, che il magistrato, quanto alle forme esteriori, è appunto colui, che ha diritto di portare i fasci dentro la città. Ora se il magistrato è l'eletto del popolo, e se i fasci, che simboleggiano i poteri riuniti dei quiriti, sono l'emblema del suo potere, non so veramente com prendere, come siasi potuto sostenere, in parte dallo stesso Mommsen, che il re non riceva il proprio potere dal popolo: tanto più, che gli scrittori antichi parlando del popolo usano le espressioni di imperium dare, magistratum creare, iubere, sibi ad scire e simili. 238 Per tal guisa, dal fascio delle armi usci il fascio dei littori, e si frapposero in esso anche le scuri, che simboleggiano quel ius vitae et necis, il quale apparteneva al capo di famiglia, e non poteva perciò essere negato al capo della città. È tuttavia degno di nota, che questo imperium, formatosi mediante la riunione dei poteri spettanti a ciascuno, appena costituito apparisce pauroso per coloro stessi, che ebbero a conferirlo, in quanto che le sue stesse insegne esteriori (fasces) indicano, come al disopra del potere dei singoli siasi formato un potere collettivo, a cui tutti debbono inchinarsi. È questa la causa, per cui, davanti ai fasci dei littori, si apre la molti tudine e la folla per lasciare il passo a quel magistrato, il quale, mentre è il frutto dell'elezione di tutti, viene ad essere imponente e pauroso per ciascuno; e che se il magistrato ordini al littore col liga manus , il cittadino non osa sottrarsi al comando. 196. Intanto in questa prima concezione del potere del magi strato, non si potrebbe certamente aspettare, che siano determinati i confini, in cui il medesimo debba essere contenuto. La necessità di un elemento unificatore è universalmente sentita, trattandosi di una città, che fin dalle proprie origini era il frutto della con federazione di elementi eterogenei e diversi; né si può aspettare, che un popolo, il quale non pose dapprima alcun limite al potere giuridico del capo di famiglia, possa cercare di mettere dei confini alpubblico potere del magistrato. Il medesimo percid compare senza limitazione di sorta; è potere religioso, militare, politico e civile ad un tempo; ed è concepito in una sintesi cosi potente, che, secondo il Mommsen, per ricostruire il potere primitivo del re, con viene in certo modo ricomporre quei poteri, che si vennero poi di stribuendo fra tutte le magistrature più elevate di Roma, quali sono il console, il pretore, il dittatore ed il censore. Fu solo l'esperienza, che venne dopo, che fece conoscere come del potere possa abusare anche un eletto dal popolo, e in allora si assiste ad una singolare scomposizione del potere primitivo del re, per cui ogni sua particolare funzione finisce per dare origine ad una ma gistratura speciale. Tuttavia, anche allora, cercherebbesi indarno una circoscrizione netta di qualsiasi potere, cosicchè il magistrato ro mano, che può talvolta essere reso impotente per un atto di minima Mommsen, Op. cit., 5 e 6. 239 importanza, viene ad avere un potere pressochè senza confini, al lorchè trovasi appoggiato e sorretto dalla pubblica opinione. Lo stesso è a dirsi della patrum auctoritas. Anche qui occorre un vocabolo, che come quello di potestas, presentasi con significazione alquanto vaga ed indeterminata, e che trovasi applicato eziandio, cosi in tema di diritto pubblico che di diritto privato. Chi ben riguardi tuttavia non potrà a meno di notare, che il vocabolo auctoritas, nella varietà delle significazioni, che sogliono essergli attribuite, significa costantemente l'appoggio, l'approvazione, la ga ranzia, che si arreca o si assume per un determinato atto. Tale è la significazione fondamentale di questo vocabolo, sia quando parlasi di iuris auctoritas, di usus auctoritas, sia anche quando è questione di tutoris auctoritas, o del venditore, il quale, dovendo garentire l'evizione al compratore, auctor fit dirimpetto al medesimo. Or bene anche questa è la significazione del vocabolo di patrum auctoritas. Da una parte havvi il re, che agisce ed esercita l'imperium, dal. l'altra il popolo, il quale iubet atque constituit; mentre il senato trovasi nel mezzo, e cosi da una parte dà i suoi consilia almagi strato, dall'altra auctor fit, cioè accorda la propria approvazione alle deliberazioni del popolo. Esso componesi di persone, alle quali, per la loro età e per il loro grado, si appartiene non tanto l'agere, quanto il consulere, e quindi, senza avere propria iniziativa, completa in certo modo l'opera dell'uno e dell'altro; poichè per mezzo del senato le misure prese dal re vengono ad avere l'autorità e l'appoggio del suo consiglio, e le delibera zioni del popolo ricevono consistenza ed autorità, mediante la sua approvazione. Finchè dura il periodo regio, il concetto si man tiene ancora vago ed indeterminato; ma durante il periodo repub blicano quest'autorità, essenzialmente consultiva, riceverà una lar ghissima esplicazione, e finirà per penetrare in qualsiasi argomento; e quindi può affermarsi a ragione, che la grandezza di Roma non fu L'ufficio consultivo, che il senato compie rispetto al re, è bellamente espresso da CICERONE, allorchè dice di Romolo: Itaque hoc consilio et quasi senatu fultus . De rep., II, 8. Quanto poi all'auctoritas, che il senato esercita rimpetto al populus, essa non può certamente pareggiarsi coll' auctoritas tutoris dirimpetto al pupillo, perchè non trattasi qui di integrare una personalità incompleta; ma bensì di recare il sussidio e l'autorità, che viene dall'età e dall'esperienza, ai provvedimenti, che ri guardano il pubblico interesse. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., I, 47. 240 solo opera della fortezza del suo popolo, nè dell'energia del suo ma gistrato, ma benanco della sapienza del suo senato. Per i Romani ebbe importanza l'agere e il iubere; ma l'uno e l'altro dovettero essere temperati dal consulere. 198. Intanto, dacchè sono in quest'argomento, importa qui di accen nare alla questione tanto controversa, fra gli autori, circa la signifi cazione da attribuirsi al vocabolo di patrum auctoritas: col qual vocabolo alcuni intendono l'approvazione del senato; altri invece l'approvazione, che, durante i primi secoli della repubblica, i pa trizii delle curie dovevano dare alle deliberazioni prese negli altri comizi; mentre altri infine ritengono, che con esso intendasi l'ap provazione dei senatori esclusivamente patrizii . Sembra a me, che la questione possa essere risolta in modo assai più naturale e più verosimile, quando si abbia presente che, in una lunga evoluzione storica, quale è quella della costituzione politica di Roma, una stessa espressione può in varii periodi di tempo anche assumere significazioni compiutamente diverse. Durante il periodo regio, il vocabolo di patrum auctoritas significò senz'alcun dubbio l'approvazione del senato; perchè nella città esclusivamente patrizia erano chiamati col nome di patres i senatori, mentre gli altri capi di famiglia costituivano il populus e l'assemblea delle curie. Più tardi invece, allorchè, accanto ai comizii curiati, si vennero for mando anche i comizii centuriati, ed anche i comizii tributi, il vo cabolo di patres o patricii potè naturalmente comprendere tutto l'ordine patrizio, il quale costituiva veramente l'ordine dei patres e dei patricii di fronte al rimanente del popolo, ed aveva ancora una propria assemblea, che era quella appunto delle curie. Di qui Questa è una delle questioni più controverse, che presenti la storia politica di Roma, e credo veramente, che la causa del dissenso provenga dalla supposizione, che un medesimo vocabolo in una lunga evoluzione storica debba sempre avere una medesima significazione. Le opinioni diverse sostenute dagli autori possono vedersi riassunte dal WILLEMS, Le droit public romain, 5me éd., Paris 1883, 208 e dal Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris 1886, 16, nota 1. Di recente la questione ebbe ad essere trattata con grande chiarezza ed eradizione dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Roma nelle sue diverse forme (Rivista di filologia, Così pure ebbe nuovamente a trattarla il KARLOWA, op. cit., 42 a 48; il quale finisce per associarsi all'opinione già soste nuta dal Rubino, che l'auctoritas patrum debba ritenersi per l'approvazione dei se natori patrizii. 241 la conseguenza, che d'allora in poi, per indicare l'approvazione del senato si usd di preferenza il vocabolo di senatus auctoritas, in quanto, che il senato aveva già cessato di essere composto esclusi vamente di veri patres, e cominciava a raccogliersi fra gli equites e più tardi fra i magistrati uscenti di uffizio (patres et conscripti); mentre il vocabolo di patrum auctoritas potè servire acconciamente per indicare la ratifica, che i comizii curiati, composti ancora dell'ele mento patrizio, dovevano dare alle leggi ed alle altre deliberazioni, che fossero state votate nelle altre riunioni comiziali; il che è dimo strato da ciò, che si usano promiscuamente le espressioni patres o patricii auctores fiunt . Siccome però in questo periodo, il senato è ancora essenzialmente l'organo del patriziato, così si comprende come posteriormente, allorchè la necessità della patrum auctoritas era stata abolita, l'espressione siasi talvolta adoperata per significare l'una o l'altra approvazione. Nella gravissima questione, che è tuttora aperta, gli unici argomenti, vera mente saldi, di cui possiamo valerci, sono i seguenti: 1° Che l' auctoritas patrum, durante il periodo regio esclusivamente patrizio, non potè significare che l'approva zione del senato, come risulta dal racconto di Livio, relativo all'elezione di Numa, ove i patres, qui auctores fiunt, non possono essere che i senatori. Hist. I, 17, ed anche da Cicerone, il quale, comesopra si è visto, attribuisce l'auctoritas al senatus; 2° Che colla Repubblica il senato continuò senz'alcun dubbio ad approvare le deli berazioni curiate e centuriate, ed anche tribute, in quanto che parlasi più volte di senatus auctoritas, come risulta da Livio, XXXII, 6; IV, 46, ove i colleghi di Sestio di chiarano: nullum plebiscitum nisi ex auctoritate senatus passuros se perferri; 3º Che oltre a questa approvazione del senato si parla sovente di patres o di patricii auctores sopratutto da Livio, ogni qualvolta trattasi di proposta di un interrex, o di qualche provvedimento voluto dalla plebe. Hist. III, 40, 55, 59; IV, 7, 17, 42, 43 ecc. Ora quest'ultime parole non possono più riferirsi al senato, e quindi l'unica conclusione probabile viene ad essere, che, siccome l'assemblea delle curie, composta di patricii, era in certo modo stata esclusa dalla formazione delle leggi, la quale era passata invece ai comizii centuriati, che erano la vera riunione del populus, così essa, accid ritenesse sempre una parte nella formazione delle leggi, è stata chiamata a dare la patrum o patriciorum auctoritas, che venne così ad essere distinta dalla senatus au ctoritas. Cid fu una conseguenza della modificazione introdottasi nella costituzione colla introduzione dei comizii centuriati, e del principio ispiratore della costituzione primitiva, secondo cui, per la formazionedella legge, richiedevasi il concorso di tutti gli organi politici dello stato. Ciò che è accaduto dell'auctoritas patrum, si è pure verificato della lex curiata de imperio, ed anche della proposta dell' interrex, che pure appartengono all'assemblea esclusivamente patrizia, quale fu per qualche tempo ancora quella delle curie; mentre il Senato, avendo anch'esso accolto in parte l'ele mento plebeo, aveva seguito lo svolgersi della costituzione, e aveva così cessato di C., Le origini del diritto di Roma. 16 - 212 199. Viene infine la potestas populi, e a questo riguardo io non dubito di affermare, che essa nel concetto della costituzione pri mitiva di Roma, debbe essere considerata come la sorgente di ogni altro potere. Alcuni autori trovano ripugnante, che Roma sia sen z'altro pervenuta al concetto della sovranità popolare, e quindi cercano di dare, come fondamento all'imperium del magistrato, il concetto degli auspicia, che essi considerano come una specie di investitura divina. Parmi invece, che la genesi dello Stato romano essere esclusivamente patrizio. Insomma, coll'accoglimento della plebe nel populus quiritium, il vero potere legislativo viene a portarsi nei comizii centuriati; ma in tanto l'assemblea delle curie conserva l'auctoritas patrum, la lex curiata de imperio, e la proposta dell'interrex. Certo è una congettura anche questa, ma mentre essa non contraddice ai passi degli antichi autori, corrisponde allo spirito della costitu zione primitiva, in cui ogni organo politico deve aver parte nella formazione delle leggi e nell'elezione del magistrato, ed al sistema romano, che, pur introducendo un nuovo organo politico, suole ancora mantenere per riverenza e per culto quelli, che esistevano precedentemente. Il vero intanto si è, che queste varie funzioni dell'as semblea delle curie non avevano più una vera ed effettiva influenza, poichè la lex curiata de imperio divenne una semplice formalità, la proposta dell'interrex era una reliquia del principio, che auspicia ad patres redeunt, e la patrum auctoritas soleva solo essere negata, quando trattavasi di opposizione d'interessi fra patriziato e plebe. Dovrò ritornare sull'argomento nel Capitolo III, al 1° e 2°, discorrendo dello svol gimento storico del concetto di lex, e di quello dell'interregnum. Del resto delle opinioni poste innanzi dagli autori quella, che parmi la meno probabile, è quella adottata dal KARLOWA, che intende per patrum auctoritas l'approvazione dei soli senatori patrizii, perchè essa non si concilia coll'espressione dei patricii auctores fiunt, patricü coeunt, interregem produnt e simili, e perchè crea una divisione nel senato, che è incompatibile col carattere di unità coerente, che ebbe sempre questo corpo. Mentre l'assemblea delle curie diventava una soprav vivenza dell'antica' costituzione, il senato invece si mantenne sempre vigoroso e vi tale, e subì modificazioni analoghe a quelle del populus, senza mai portare le traccie di dissidii che fossero nel suo seno, poichè la nobiltà plebea, che entrava in esso, aveva già le stesse tendenze dell'antico patriziato. Che poi il vocabolo di patres, in questo periodo, fosse venuto a significare in genere l'ordine patrizio, è dimostrato in modo incontrastabile da quella disposizione della legge decemvirale: connubium patribus cum plebe ne esto , dove il vocabolo patres non comprende certo soltanto i senatori, ma tutti i patrizü; come pure dal fatto, che gli storici parlano soventi dei iuniores patrum, la cui intransigenza è condannata dal senato. Parmi, che questa proposizione sia abbastanza provata dalle espressioni ado. perate dagli autori per significare il potere del popolo. CICERONE, ad esempio, parla di questo potere, dicendo che il populus regem sibi adscivit, creavit, iussit, constituit; espressioni, che indicano abbastanza, che la potestà suprema, a suo avviso, risiedeva presso il popolo. Lo stesso è da lui confermato, allorchè nel discorso de lege agraria 2, 7, 17 dice: omnes potestates, imperia, curationes ab universo populo romano 243 dovesse logicamente condurre al risultato di riporre la sorgente del pubblico potere nella sovranità popolare, circondandola però di quel l'aureola religiosa, che occorre in tutte le primitive istituzioni di Roma. Lo Stato romano esce dalla confederazione e dal contratto, e quindi al modo stesso, che la patria riceve la sua denominazione dai patres; così il potere pubblico si forma mediante la riunione del potere, che appartiene ai singoli quiriti, e che è rappresentato dalla lancia, di cui essi sono armati. Quanto agli auspicia, che appar tengono al magistrato, essi non mirano, che a dare una consacra zione religiosa al potere stesso, e a metterlo in condizione di sapere giudicare, se questo o quel provvedimento, da prendersi nel pubblico interesse, possa essere o non accetto agli dei. Che anzi gli auspicia publica del magistrato debbono considerarsi essi stessi come una trasmessione, che i padri fanno al magistrato di quegli auspicia, che appartengono a ciascuno di essi. Cid è dimostrato dal fatto che, du rante l'interregno, gli auspicia ritornano ai padri (ad patres re deunt auspicia ); il che significa, che in origine dovevano appartenere ai padri stessi, i quali, nell'interesse delle loro genti e famiglie, as sumevano quegli auspicii, che il magistrato romano doveva invece consultare, quando si trattasse di qualche deliberazione importante per il popolo stesso. Tuttavia se ai patres tornano gli auspicia, è però sempre al populus, che spetta di creare il magistrato, che debba succedere nell'imperium, come lo dimostra la tradizione, per venuta fino a noi, della elezione diNuma. Si aggiunge, che è solo dopo il conferimento dell'imperium, fatto mediante la lex curiata de imperio, che il re dapprima e le magistrature, che gli sottentrarono più tardi, possono entrare nell'adempimento del proprio uffizio. Ri tengo pertanto, che a questo proposito non possa essere accolta l'opi nione del Mommsen, la quale riesce pure inammessibile per il Kar proficisci convenit . Lo stesso è indicato da Festo, allorchè parlando del magi stratus cum imperio, dice, che esso è quello al quale a populo dabatur imperium . Malgrado di ciò convien dire, che l'opinione contraria, come si vedrà in seguito, ha la prevalenza presso gli autori anche recenti, che si occuparono dell'argomento. Si accostano però al concetto da me sostenuto il Mainz, Introd. au cours de droit romain. Bruxelles, ed il GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, il quale fino dapprincipio afferma molto chiaramente e giusta mente, a parer mio, che i pastori della leggenda riconoscono Romolo per capo supremo; ma, pur conferendogli la somma autorità, riguardano ancor sempre se stessi quali depositarii, e quasi natural sorgente della sovranità . 244 - lowa, secondo la quale la lex curiata de imperio non conferirebbe l'impero, ma soltanto vincolerebbe il popolo verso il re. Se cosi fosse infatti, il magistrato dovrebbe poter esercitare il proprio ufficio, anche prima di aver ricevuto questa specie di giuramento di fedeltà, che servirebbe ad obbligare il popolo, ma nulla aggiungerebbe al suo potere. Il vero invece si è, che anche in questa appare il carattere eminentemente contrattuale della costituzione primitiva di Roma, per cui anche il conferimento del potere supremo si opera colla forma propria della stipulazione, in quanto che havvi il magistrato, che prima di entrare in ufficio rogat imperium, ed havvi il popolo, che con una legge glie lo conferisce: e intanto l'uno e l'altro co noscono i diritti e le obbligazioni, che una legge di questa natura può loro conferire. Una prova poi di questo riconoscimento della sovranità popolare l'abbiamo per parte del patriziato, in quel fatto di Valerio Pubblicola, che in tempo di pace e dentro la città ordinava ai littori di abbassare i fasci, e di togliere daimedesimi le scuri, come pure nel fatto, che gli imperatori, quando già si erano fatti onnipotenti, sentirono il bisogno, per rispettare un tradizionale concetto, di essere investiti dell'imperium dal popolo. Intanto però il concetto, che il potere supremo risiedesse nel popolo, non poteva in nessun modo affievolire l'imperium: poichè al modo stesso che il popolo doveva ubbidire alle leggi, che si erano Che il magistrato non possa entrare in ufficio, e tanto meno esercitare l'im perium, prima della lex curiata de imperio, è provato da due passi di CICERONE, nei quali si dice: consuli, si legem curiatam non habet, rem militarem attingere non licet (De lege agraria, II, 12, 30 ) e più genericamente ancora: sine lege cu riata nihil agi per decemviros posse (Ibidem, II, 11, 28). Dal momento quindi, che il concetto dell'imperium dei consoli è in tutto identico a quello del regis im perium, non si comprende come il Mommsen, Staatsrecht, I, 588 s. possa ridurre la lex curiata ad un semplice giuramento di fedeltà, che vincola i soli sudditi, e meno an cora, che il Karlowa, op. cit., I, 52 e 82 possa sostenere, che la lex curiata de imperio non sarebbe entrata in azione, che colla costituzione Serviana, ossia colla in troduzione dei comizii centuriati, i quali avrebbero conferita la potestas, mentre i comizii curiati avrebbero poi conferito l'imperium. Ciò è contraddetto ripetutamente da CICERONE, de Rep. II, 10, 17, 18, 20, che parla appunto della lex curiata de imperio a proposito dei primi re. Non solo deve negarsi, che questa lex entrò in azione solo colla costituzione Serviana; ma deve dirsi piuttosto, che essa da quel momento perde della propria importanza e riducesi ad una semplice sopravvi venza dell'antico ordine di cose, in cui erano i patres, che investivano il re del. l'imperium, e a cui ritornavano gli auspicia. - 245 da lui votate nei comizi, così esso doveva eziandio inchinarsi al potere, che aveva conferito al magistrato per mezzo di una pro pria legge. Che anzi questo potere riusciva tanto più efficace ed imponente, in quanto si fondava sopra una volontà collettiva, che ve niva a sovrapporsi alla volontà dei singoli. Ed è anche questo il mo tivo, per cui il potere del magistrato romano veniva in certo modo ad essere senza confini, finchè aveva l'appoggio della pubblica opinione. Fermo cosi il concetto della costituzione primitiva di Roma, quale esce dalla logica delle istituzioni (logica, che nel fatto dovette anche essere più rigorosa e coerente di quella, che a noi possa esser riu scito di ricostruire ), riescirà più facile di ricomporre insieme i cenni, che gli autori ci conservarono di questa primitiva costituzione e di comprendere il vero ed intimo significato della medesima. 4. Il re ed il regis imperium. 201. Dei concetti politici del periodo regio, quello che presentasi modellato in modo più vigoroso e potente è certamente il potere del rex. Tutti i poteri infatti, che nel periodo anteriore, presso le genti latine, erano indicati coi vocaboli di magister populi, di magister pagi, di dictator, di praetor, di iudex appariscono fusi e concentrati nella concezione sintetica del regis imperium. Per tal modo il con cetto del rex da una parte inchiude la sintesi di tutte le manifestazioni del potere, che eransi avverate nel periodo gentilizio, e dall'altra è il punto di partenza,da cui prendono le mosse tutti i poteri, che, durante il periodo repubblicano, saranno poi affidati alle diverse magistrature maggiori. Il rex nel concetto romano è l'unificazione potente del populus; accoglie in sè la somma dei poteri, che possono essere necessarii nell'interesse della cosa pubblica; nė vi ha costituzione scritta, che gli prescriva alcun limite nell'esercizio dei medesimi. Cid però non toglie, che questi limiti esistano di fatto nel costume pubblico e privato; nel bisogno incessante, che il re ha dell'appoggio della pubblica opinione; ed anche negli imbarazzi, che gli possono creare i padri, ogni qualvolta egli volesse spingere troppo oltre la propria azione. Capo del populus, egli è custode eziandio della città spiega la vita pubblica (custos urbis), e deve avere la propria casa nel cuore stesso della città, accanto al sito, ove deve bru 246 ciare perenne il focolare della vita pubblica, che si conserva nel tempio di Vesta. Che se, per provvedere al pubblico interesse, debba abbandonare la città, dovrà lasciare nella medesima un proprio delegato, che prenderà il nome di praefectus urbis. È quindi anche il re, che provvede al lustro esteriore della città, che progetta e costruisce quelle opere grandiose, che già rimon tano all'epoca regia, e che non furono le meno durature fra quelle costruite nell'eterna città. È nella successione dei re parimenti, che può scorgersi una continuità nel grandioso intento di ampliarne le mura e le fortificazioni; lavori tutti, le cui reliquie dimostrano abbastanza, come trattisi di un concepimento, che già presentatosi ai primi re, ebbe poi ad essere continuato da quelli, che vi suc cedettero, non eccettuato quello, che aspird alla tirannide. 202. Cid quanto alla custodia materiale dell'urbs. Che se si con sidera dirimpetto al populus, il re, condottiero di un popolo, che è ripartito in curie, le quali hanno un carattere religioso, militare e politico ad un tempo, riunisce in sè tutti questi caratteri. Finché dura il periodo regio, il magistrato non è solo il capo dell'esercito (impe rator) od il magister populi, o il giudice cosi in tempo di pace che in tempo di guerra, ma è anche il sommo sacerdote del popolo romano. Esso è augure sommo, e tale appare Romolo stesso; è pontefice massimo, come lo dimostra il fatto, che questa ' magistratura sacer dotale del popolo romano compare soltanto colla repubblica, allorchè sentivasi già il bisogno di limitare in qualche modo il sovrano po tere, disgiungendone la parte che si riferiva alla religione, la quale ebbe ad essere ripartita fra il pontifex maximus ed il rex sa crorum; e fino a un certo punto esso è ancora il pater patratus del popolo romano, come lo dimostra il fatto, che nelle descrizioni dei più antichi trattati sono i capi dei due popoli, che vengono alla stipu lazione del foedus e al compimento solenne delle cerimonie del ius foederale o foeciale, mentre gli eserciti si limitano a salutarsi re ciprocamente, e così approvano tacimente l'opera dei proprii capi. Verò è, che già fin dal periodo regio noi troviamo l'istituzione dei collegii sacerdotali, ma questa creazione è opera del re stesso, nè essi hanno, anche nella città patrizia, alcuna partecipazione diretta all'e Ciò appare dal seguente passo di Livio, I, 1, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri: inde foedus ictum inter duces, inter exercitus salutationem factam.] sercizio del pubblico potere; ma sono soltanto, come si dimostrerà a suo tempo, depositarii e custodi delle tradizioni giuridiche, politiche, internazionali delle genti e delle tribù, da cui essi sono tolti, e aiu tano così il re nella opera di unificazione legislativa, che dovette essere urgente cosa e difficile negli inizii di Roma, per trattarsi di città, che risultava dalle confederazioni di genti, che appartenevano a stirpi diverse. Vero è parimenti, che durante il periodo regio già appariscono altre cariche, quali sono quelle del tribunus celerum, dei quaestores parricidii, e deiduumviri perduellionis; ma anche questi non sono che ufficiali dipendenti dal re, e da lui nominati. Di qui la conseguenza, che è solo il re o qualche suo delegato, che può essere preceduto dai fasci dei littori e dalle scuri, simbolo del pubblico potere. È esso parimenti, che solo può convocare il popolo e il senato, salvo che egli deleghi questo potere al tribunus celerum o al praefectus urbis. È quindi vero, che colla creazione del regis imperium si rias sumono in una sintesi potente tutte le manifestazioni del magi stratus nel periodo gentilizio, e si inizia lo svolgimento di tutti i poteri, che possono convenire ad una comunanza civile e politica. Nel rex insomma, per usare una espressione dello Spencer, termina l'integrazione del potere preparatasi nel periodo gentilizio, e da esso incomincia quella differenziazione del potere pubblico, che dovrà poi operarsi nella città. 203. Per quello poi, che si riferisce ai poteri che sono inchiusi nell'imperium regis, indarno si cercherebbero quelle decise ripar tizioni, che compariranno più tardi. L'imperium regis è una con cezione logica, più che l'opera di una costituzione scritta, e quindi egli può compiere tutto ciò, che può essere indicato coi vocaboli di agere, di ius dicere, di rogare, di imperare. Egli deve pren dere norma più dalla funzione, che è chiamato a compiere nella città, che non da una precisa e particolareggiata determinazione del Quanto al compito dei collegi sacerdotali in Roma primitiva, mi rimetto a quanto avrò a dirne in questo stesso libro, capitolo IV, 2º. Secondo il LANGE, Histoire intérieure de Rome, 115, sarebbe, valendosi di questo potere, che Giunio Bruto, come tribunus celerum o Spurio Lucrezio Trici pitino, quale praefectus urbis, avrebbero convocato il popolo, dopo la cacciata dei Tarquinii: quantunque sia probabile, che in circostanze del tutto eccezionali non siasi forse pensato all'adempimento di tutte le formalità. 248 proprio uffizio. Tuttavia già fin da quest'epoca nel potere regio si possono distinguere atteggiamenti diversi, che cominciano a diffe renziarsi mediante i vocaboli di auspicia, di imperium domi, e di imperium militiae. A lui quindi si appartiene di assumere gli au spicii, allorchè trattasi di qualche deliberazione, che si riferisca al pubblico interesse, cosicchè, già fin da questo periodo, gli auspicia publica si vengono a distinguere dagli auspicia privata. Nell' as sumere tali auspicii potrà valersi dell'opera degli auguri, ma a questi solo si appartiene la custodia dei riti e il compimento delle cerimonie tradizionali; mentre è al re stesso, che si appartiene di giudicare se essi siano favorevoli o non lo siano. Così pure ha l'imperium domimilitiaeque, col quale incomincia una distinzione, le cui traccie si perpetuano per tutta la storia politica e militare di Roma. Per verità, se i Romani credettero di porre dei confini al l'imperium nei confini della città, e vollero che i consoli, entrando nella medesima, facessero togliere le scuri dai fasci, e facessero abbassare anche questi, allorchè concionavano il popolo, compresero però la necessità, che le scuri fossero rimesse nei fasci, e che la provocatio ad populum fosse tolta di mezzo, allorchè si trattava di mantenere la disciplina dell'esercito; quasi si potrebbe dire, che a Roma il re o il magistrato rogat in tempo di pace, e imperat in tempo di guerra. In virtù dell'imperium militiae, egli fa la leva (delectus) ed è capitano supremo in tempo di guerra : nè può ammettersi l'opi nione, secondo cui il re sarebbe il duce della fanteria, mentre il tribunus celerum sarebbe quello della cavalleria, in quanto che quest'ultimo non è che un ufficiale da lui stesso nominato, e quindi, sebbene guidi il proprio drappello, che forma il corteggio militare del re, deve però sempre dipendere dagli ordini del capo supremo. In virtù poi dell'imperium domi, il re convoca i comizi: ra duna il senato; amministra giustizia, non nella propria casa, ma all'aperto, in cospetto della cittadinanza; propone le leggi; e Cfr. Mommsen, Le droit public romain, I 119, ove discorre della proce dura seguìta nel prendere gli auspicia, e del compito affidato agli auguri. Sulla distinzione fra l'imperium domi e l'imperium militiae è da vedersi la trattazione magistrale del Mommsen, op. cit., I, 68 e 69 e sui poteri compresi nell'imperium militiae, ivi, 135 e 157. Non occorre però di notare, che tutti questi poteri nell' epoca regia sono, per dir così, allo stato embrionale, e solo più tardi ricevono tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. 249 infine nomina i cavalieri e i senatori. Al qual proposito mi fo lecita la congettura, già accennata più sopra, che nella costituzione primitiva di Roma i senatori ed i cavalieri, i quali finirono poi per mutarsi in due classi o ordini sociali, indicati coi vocaboli di ordo senatorius e di ordo equestris, furono due corpi scelti, in base a un numero determinato, dall'assemblea delle curie. I primi scelti fra i giovani, splendidi nella propria armatura, formano la corte militare del re; mentre i secondi, scelti fra gli anziani, ne costitui scono il consiglio; donde la naturale distinzione, in cui vennero ad essere posti l'uno e l'altro ordine, e le lotte perfino di prevalenza, che poterono esservi fra i medesimi, allorchè l'uno e l'altro già eransi profondamente trasformati. Un indizio di cið l'abbiamo in questo, che negli inizii di Roma sembra esservi una correlazione fra il numero degli equites e quello dei patres, col numero delle curie; correlazione, che non tardd a scomparire, in quanto che il numero degli equites si accrebbe coll'aumentare delle legioni, mentre il numero dei patres si arrestò a trecento, fino agli ultimi anni della Repubblica. Di più il senato costituisce un organo politico dello Stato, il che non può dirsi degli equites, i quali hanno solo il pri vilegio di essere i primi chiamati a dare il proprio voto (sex suf fragia ) nei comizii centuriati, al modo stesso, che anche più tardi hanno, al pari dei senatori, un posto distinto nel circo per assi stere ai pubblici spettacoli. 204. Questo è certo ad ognimodo, che nella costituzione primitiva di Roma il re appare come l'elemento più operoso ed intraprendente, per modo che la tradizione finisce per attribuire tutto all'opera personale del re. Egli impone tasse, distribuisce terre, costruisce Parmi di scorgere un accenno all'idea qui svolta nel PANTALEONI, Storia ci vile e costituzionale di Roma, I, nel IV ed ultimo appendice, ove discorre dell'isti tuzione dei cavalieri a Roma e dell'ordine equestre. È poi Livio, I, 35, che parla dei loca divisa patribus equitibusque nel circo; altra prova questa, che essi formavano fin dagli inizii due ordini distinti dal resto del popolo delle curie. È poi degna di considerazione l'idea dello stesso Pantaleoni, secondo cui gli equites costituiscono non solo un militaris ordo, ma anche un ordo civilis, in quanto che ciò serve a spiegare, come essi abbiano poi potuto trasformarsi nel l'ordo equestris. Del resto questo carattere militare e civile ad un tempo è inerente a tutto il popolo delle curie, e a tutte le istituzioni primitive di Roma, eccettuato il senato; sebbene siavi chi attribuisce anche al senato un'origine militare. LATTES, Della composizione del senato (Mem. Istituto Lombardo, 1870 ). 250 - edifizii. Può darsi, che la tradizione colla sua tendenza a semplifi care e a sintetizzare i processi seguiti, e a concentrare in un solo l'opera dei molti, abbia in questa parte esagerata l'opera personale del re; ma ad ogni modo, quando si consideri che il primo periodo di Roma fu essenzialmente un periodo di unificazione dei varii ele menti, che concorrevano alla formazione della città, si dovrà sempre riconoscere, che la parte più operosa nel compito comune doveva appartenere a quell'elemento, che era chiamata ad unificarle. Allorchè trattasi della formazione di una città (e si potrebbe anche dire di uno Stato e di una nazione), importa sopratutto l'agere; soltanto si potrà fare una parte maggiore al consulere, allorchè si tratterà di provvedere all'amministrazione interna, o a quella delle provincie; sarà infine soltanto, allorchè saranno ferme le basi della grandezza dello Stato, che potranno svolgersi largamente il iubere e il constituere. Cid intanto prova ad evidenza che il potere del re in Roma pri mitiva aveva già assunto un carattere essenzialmente politico e mi litare, come quello, che conteneva in germe tutti quei poteri essen zialmente politici, che furono poscia affidati a magistrature diverse. Nelle forme esteriori può ancora assomigliarsi ad un padre: ma nella sostanza è già un principe, ossia il primo del popolo (prin ceps), è il duce dell'esercito, e il magistrato della città. Un carattere analogo può riscontrarsi eziandio nel senato, quale appare nella costituzione primitiva di Roma. Può darsi benis simo, che il nome stesso di senatus sia una sopravvivenza dell'or ganizzazione gentilizia, come lo è certamente quello di patres, che fu dato ai senatori, e che essi conservarono anche più tardi, allorchè certamente avevano cessato di esser tali. Può darsi eziandio, che il primo concetto del senatus potesse essere suggerito da quel consi glio domestico, che temperava talvolta il potere del primitivo capo di famiglia, od anche dal consiglio degli anziani, che provvedeva all'interesse comune della gente. Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il senato romano assume fin dai proprii inizii un ca rattere eminentemente politico, e che presentasi come l'applicazione di un concetto, che i Romani avevano profondamente radicato, il quale consisteva in ciò, che tanto il regis imperium, quanto il iussus populi abbisognassero di un ritegno in quell'autorità, che viene ad essere attribuita dall'esperienza e dall’età. Di qui conseguita, che la patrum auctoritas, allorchè comparenella costituzione primitiva di Roma, non è un'autorità, i cui limiti siano stabiliti e determinati; ma è anch'essa una costruzione logica, che potrà col tempo rice vere tutto quello svolgimento, di cui può essere capace il concetto ispiratore della medesima. Di essa, come dell'imperium regis, non potrebbe dirsi quale sia l'influenza, che verrà ad esercitare sulle sorti di Roma; solo si conosce la funzione che, in base al proprio concetto informatore, è chiamata ad esercitare nella costituzione politica della città. Saranno poi gli eventi, che additeranno al senatus la via che dovrà seguire, i limiti in cui dovrà contenersi, e i casi eziandio, in cui dovrà forzare il proprio ufficio e spingerlo perfino oltre i confini, in cui la logica dell'istituzione dovrebbe contenerlo. 206. Siccome perd la funzione del consulere, per essere una fun zione intermedia, ha per sua natura una indeterminatezza molto maggiore, che non quella dell'agere e del iubere; così ne viene, che i poteri del senato presentano negli inizii ed anche nello svolgi mento posteriore un carattere vago ed indeterminato, che dipenderà dall'influenza effettiva e reale, che i membri, che lo compongono, saranno in condizione di esercitare sull'andamento della cosa pubblica. Possono esservi dei consigli che, per le persone da cui vengono, si cambiano in ordini ed in comandi, per quanto siano accompagnati dalla formola si eis videbitur ; al modo stesso, che possono esservi dei responsi e degli avvisi, che, per l'autorità della persona, da cui partono, possono anche valere come sentenza, contro cui non sia consentito di appellare. Queste esplicazioni sono frequenti nella lo gica romana, e sono esse, che possono spiegare in qual modo il se nato, pressochè lasciato in disparte dallo spirito intraprendente dei re, che dovevano preferire l'appoggio dell'elemento popolare e quello anche della plebe, abbia potuto, senza romperla affatto col concetto ispiratore della propria istituzione, cambiarsi colla Repubblica nel l'organo più potente della costituzione politica di Roma, per guisa da attribuire ai proprii avvisi (consulta ) l'autorità di vere leggi; Parmi di trovar espresso questo concetto, a proposito di Romolo, in CICERONE, de Rep. II, 8. 252 mentre invece coll'Impero viene ad essere ridotto a concedere la propria autorità ai decreti di un principe, al cui arbitrio non era più in caso di poter resistere. 207. Del resto questo carattere non è proprio solo del senato, ma di tutti gli organi della costituzione politica di Roma, nella quale, ad esempio, occorre un magistrato, come quello del censore, che in caricato dapprima di una funzione, che sembrava non adatta alla di gnità di un console, quale si era quella della compilazione del censo, cambiasi poi in censore del pubblico e del privato costume, in elet tore supremo del senato, e per la dignità finisce in certo modo per essere considerato come superiore allo stesso console. Nè altrimenti accade anche delle magistrature plebee, e sopratutto dei tribuni della plebe, i quali negli inizii non hanno che il ius auxilii, e non mirano che a difendere i debitori dai maltrattamenti dei creditori, e i plebei dai maltrattamenti del console; ma poi da ausiliatori si mutano in organizzatori della plebe, in accusatori del patriziato, e nell'organo certamente più efficace del pareggiamento giuridico e politico della plebe; finchè da ultimo il potere tribunizio, che continua pur sempre ad essere circondato dal favor popolare, mutasi ancor esso nella base più salda, sovra cui poggi ildispotismo imperiale. È quindi sopratutto in Roma, che qualsiasi aspetto del potere sovrano tanto vale quanta è la tempra della persona, che trovasi investito di esso, e quanto è l'appoggio, che esso trova nella pubblica opinione, con quest'unica limitazione, che esso deve trattenersi nei limiti del concetto, a cui si informa dai proprii inizii. Questo concetto da una significazione materiale potrà passare ad una significazione morale e politica, sic come accadde del censore, che da compilatore del cengo si cambiò in censore del costume, dalla difesa potrà anche passare all'accusa, in uno scopo di difesa, siccome fecero i tribuni della plebe;ma intanto nel proprio sviluppo sarà costantemente percorso da una logica interna, a cui i Romani seppero mantenersi fedeli, non solo nelle istituzioni giuridiche, ma anche in quelle politiche. Questo carattere perd so pratutto si appalesa nell'istituzione del senato. Potere consultivo nelle proprie origini trovò opposizione nel partito popolare, allorchè cerco di cambiare i proprii senatusconsulti in leggi; ma anche in quei senatusconsulti, che ebbero autorità di vere leggi, esso si propose costantemente di esercitare sulla comunanza un ' autorità di carat tere consultivo e pressochè di protezione e di tutela: come lo pro 253 vano il senatusconsulto intorno ai Baccanali, ed i senatusconsulti Macedoniano e Velleiano. Intanto per tornare all'argomento, questo è certo che tutti gli autori sono concordi nel descrivere il senato come elettivo fin dagli inizii di Roma. Festo anzi ci attesta, che la nomina attribuita al re era più libera di quella, che più tardi appartenne al censore, in quanto che l'essere lasciati in disparte dal re (praeteriti sena tores) non era riputato ignominia; il che fu invece di quei ma gistrati, uscenti d'uffizio, che, avendo le condizioni per entrare nel senato, non vi fossero chiamati dal censore, o fossero rimossi dal medesimo, se già ne facevano parte. 208. L'incertezza invece è grande, quanto alle funzioni, che da esso furono effettivamente esercitate; il che provenne probabilmente da ciò, che, trattandosi di un potere di carattere vago ed indeterminato, gli autori, e fra gli altri Dionisio, non potendo attribuirgli dei poteri determinati da una costituzione scritta, dovettero sforzarsi ad asse gnargli quei poteri, che sembravano convenire alla funzione, che esso era chiamato ad esercitare. Questo è certo ad ogni modo, che le sue funzioni, anche durante il periodo regio, furono essenzialmente con sultive. Esse anzi sembrano ancora tenere del patriarcale, come quando i senatori son chiamati a fare ripartizioni di terre fra le popolazioni di classe inferiore, e quando ad essi viene affidata, almeno secondo Dionisio, la punizione dei delitti meno importanti, mentre il re sarebbesi riservata la giurisdizione sui più gravi. Non può invece ammettersi, perchè ripugna al carattere dell'istituzione, che il re, dopo aver chiesto l'avviso del senato, fosse obbligato ad attenervisi: inquantochè, se questo fosse stato il carattere degli avvisi dati al re, che da solo aveva per tutta la vita quei poteri, che poscia furono non solo suddivisi fra magistrati diversi, ma anche attenuati e limitati quanto alla propria durata, per maggior ragione i senatusconsulti avrebbero conservato e spinto anche più oltre questo carattere, allor chè, durante il periodo repubblicano, il senato venne ad essere pres sochè onnipotente. Sembra invece, per quello che risulta dagli avveni menti,cheil senato, durante il periodo regio, non abbia potuto esercitare tutta quella influenza, che spiego più tardi; cosicchè, quando volle Festo, V ° Praeteriti senatores (Bruns, Fontes, 355). Dion. 2, 12, 14, il cui testo è riportato in greco ed in latino dal Bruns, Fontes, 4 e 5. 254 - contrastare alla intraprendente operosità del re ed alle innovazioni dal medesimo tentate, dovette ricorrere all'intermezzo degli auguri e dei sacerdoti, come lo dimostra la tradizione relativa all'augure sabino Atto Nevio, all'epoca di Tarquinio Prisco. Il suo potere con sultivo trovavasi inefficace di fronte ad un re a vita, che aveva per sè l'appoggio del popolo non solo,ma anche della plebe, la quale già cominciava ad esercitare un'influenza, se non di diritto, almeno di fatto. Quindi fu solo colla cacciata dei re, che il senato, consesso permanente fra magistrati, che mutavano ogni anno, e che usciti dalla magistratura entravano a farne parte, divenuto così custode della politica tradizionale diRoma, sopratutto nei rapporti esteriori, potè dare al concetto ispiratore dell'istituzione tutta la portata logica, di cui poteva essere capace, e forse spingerla anche oltre i confini, che dalla logica erano consentiti. 209. Sopratutto sono gravi i dubbii e le incertezze intorno alla composizione ed al numero dei senatori, durante il periodo esclusi vamente patrizio; al qual riguardo parmi impossibile di ricomporre e coordinare i pochi e non concordanti accenni, che pervennero fino a noi, senza ricostrurre il processo logico, che segui la politica dei re nel formare e nell'accrescere il senato primitivo di Roma. In proposito tutti gli autori sembrano essere concordi nell'atte stare, che Roma, nella sua primitiva formazione, non fece che imi tare, quanto al senato, l'organizzazione delle altre città latine; quindi il suo senato appare dapprima limitato al numero di cento, che sembra appunto essere il numero adottato per le altre città latine, e per gli stessi municipii, che ebbero poi ad essere organizzati sul modello ro mano. Tuttavia la politica di Roma, che nel periodo regio non pensa ancora a chiudersi in sè stessa,mapiuttosto ad aggregarsi nuovi ele menti, condusse in questa parte a modificare il modello latino. Al lorchè trattavasi di associare nuove popolazioni alle sorti di Roma, il processo a seguirsi non poteva offrire difficoltà, finchè trattavasi soltanto di famiglie o di individui, che appartenessero alla plebe. Questa non era ancora organizzata o almeno lo era in guisa tale, che poteva accogliere, senza difficoltà, qualsiasi nuovo elemento. Di più Liv. I, 8; Dion., II, 12; Cic., De Rep., II, 12. Che il senato o meglio l'ordo decurionum delle colonie e dei municipii si componesse solitamente di cento, appare da ciò, che essi talvolta erano perfino chiamati centumviri. Cfr. Willems, Le droit public romain, 535. 255 l'Aventino, che sembra essere il colle, sovra cui accentrasi di prefo renza la comunanza plebea, è ancora spopolato, e fu anche più tardi lasciato fuori della cinta Serviana, in modo da poter offrire territorio e spazio, ove le nuove famiglie si possano stabilire. Tutto al più oc correrà di far loro concessioni di terre, che sotto la tutela del ius mancipii porgano loro un mezzo sicuro di provvedere al proprio sostentamento. Cosi invece non accade, allorchè trattasi di famiglie, che già abbiano ottenuta posizione elevata nella comunanza, a cui esse appartengono, e tanto più se trattasi di quelle, che,mediante l'orga nizzazione gentilizia e le numerose clientele, siano in condizione tale da offrire un contingente poderoso alla crescente popolazione romana. Allora anche Roma deve venire a patti, in quanto che genti nume rose e potenti difficilmente si disporrebbero ad abbandonare la pro pria sede gentilizia, quando non fossero accolte nell'ordine patrizio, mediante la cooptatio, e quando non potessero ottenere, che i loro capi entrassero nel senato, e i gentili, che entrano a costituirle, non fossero ammessi a far parte delle curie. Quanto a quest'ul time, non occorre dimutare l'ordinamento primitivo della costituzione romana, nè di aumentarne il numero, poichè, non essendo determinato il numero dei componenti ciascuna curia, le curie costituiscono dei quadri, che possono anche accogliere gli elementi, che si vengono aggiungendo. Cosi non è invece del senato; la consuetudine latina vorrebbe che il medesimo fosse limitato al numero di cento, e tale esso fu veramente nelle origini, secondo la tradizione, e lo fu anche più tardi nei municipii e nelle colonie: ma, una volta completato questo numero, sarebbe stato necessario arrestarsi, salvo di appigliarsi al partito di aggiungere un determinato numero disenatori, ogniqual volta si avverasse in una sola volta una considerevole aggregazione di genti patrizie. Tuttavia non è nel costume dei romani di abbandonare senz'altro il numero prefisso, poichè tutto ciò, che viene daimaggiori, è sacro per essi. Quindi, siccome Roma risulta in certo modo dalla confederazione di un triplice elemento: così il senato potè essere portato fino a trecento, il qual numero aveva anche il vantaggio di essere in esatta correlazione con quello delle curie, e di non contrastare cosi colla composizione simmetrica della città. Come e quando siasi fatta quest'aggiunta, non è bene atte stato. Alcuni, ritenendo che Roma avesse successivamente incorpo rato nelle sue curie le tre tribù primitive, direbbero, che i primi cento senatori furono tolti dalle tribù dei Ramnenses, gli altri, che 256 vengono dopo, dai Titienses, e gli altri infine dai Luceres: la cui aggregazione sarebbe accaduta sotto Tarquinio Prisco, al quale ap punto si attribuisce di aver portato a trecento il numero dei sena tori. Questa spiegazione sarebbe abbastanza verosimile, allorchè non fosse contraddetta dalla tradizione, che fa rimontare fino al regno di Romolo la federazione delle tre primitive tribù. Di più se veramente quest'aumento si fosse fatto, allorchè una nuova tribù veniva aggregata, non si comprenderebbe come potesse parlarsi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi; la quale distin zione appare essere stata introdotta nelle centurie dei cavalieri, il cui aumento sembra, quanto alle epoche, in cui è seguito, corrispondere all'aumento nel numero dei senatori. Di qui deriva la conseguenza, che la spiegazione più verosimile del processo, che è stato seguito in questo argomento, sia quella stessa, che ci viene additata dalla tradi zione. Le tre piccole tribù, che costituirono Roma primitiva, non potevano essere tali da offrire il numero di trecento senatori, e Livio ci dice appunto, che il numero del senato primitivo fu di cento, per chè Romolo non ne trovò un numero maggiore che fosse degno di sedere nel senato. Ma intanto, dopo la primitiva costituzione romulea, che sarebbesi avverata in seguito alla federazione delle tribù dei Titienses, sono due sopratutto gli avvenimenti, che, du rante il periodo della città esclusivamente patrizia, contribuirono ad un forte aumento del patriziato romano. 211. Il primo di questi avvenimenti consiste nella sconfitta di Alba, in seguito al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, il quale, come ho già notato altrove, più che una vera e propria scon fitta, deve piuttosto essere considerato comeuna specie diduello giu diziario, a cui si rimisero i due popoli fratelli per sapere quale delle due città dovesse essere centro della vita pubblica per le po polazioni, che ne dipendevano. In quella circostanza infatti la Tale è l'opinione sostenuta dal WILLEMS, Le Sénat de la république romaine, Paris, 1878, I, 21 e segg.; dal Bloch, Les origines du Sénat romain, Paris, 1883, 43 e 55; i quali pure accennano alle diverse opinioni professate in proposito. Liv., I, 8. È però a notarsi, che Livio farebbe rimontare la composizione del senato per opera di Romolo, ad un'epoca anteriore all'aggregazione coi Sabini, mentre parla invece della formazione delle trenta curie, come avvenuta posteriormente. In ciò è però contraddetto da CICERONE, che accenna alla formazione del senato, dopo la federazione coi Sabini. De Rep., II, 8. (3 ) V. sopra, lib. I, Cap. VIII, nº 144. 257 tradizione narra, che la parte povera della popolazione latina entrò a far parte della plebe, ed ottenne delle concessioni di terre. Quanto alle genti patrizie, noi sappiamo, che uno dei patti era quello, che esse dovessero venir accolte nel patriziato romano, e noi sappiamo in effetto, che così accadde. Ora l'effetto naturale di questa coo ptatio era, che i capi di queste genti dovessero essere ammessi nel senato, il che non avrebbe potuto essere fatto, senza aumentare il numero dei senatori. Se quindi ci mancassero anche le testimo nianze di un tale aumento in questa occasione, non sarebbe invero simile il supporlo; sonvi invece degli storici, i quali, senza accennare espressamente alle proporzioni di tale aumento, attestano però che esso dovette aver luogo. Così, ad esempio, Livio attribuisce a Tullo Ostilio di aver duplicato il numero dei cittadini; di aver accolto nei patres i principali cittadini d'Alba; di aver costrutto in quell'occa sione la curia Ostilia; e di aver aggiunto dieci torme di cavalieri, acciò a ciascun ordine si recasse un contributo dal nuovo popolo. Così pure Dionisio parla di un aumento fatto nel patriziato e nel senato all'epoca di Tullo, in occasione della distruzione di Alba, seb bene poi non accenni le proporzioni dell'aumento. Il numero tut tavia si può argomentare da ciò, che entrambi affermano più tardi, che Tarquinio Prisco elesse altri cento senatori, e ne portò così il numero a trecento, il qual numero non avrebbe potuto essere raggiunto, se nel frattempo e precisamente all'epoca di Tullo Ostilio non si fossero aggiunti gli altri cento. Alcuni, e fra gli altri il Pantaleoni, vor rebbero, che il secondo centinaio si fosse aggiunto coll'aggregarsi della tribù Tiziense; ma ciò non può essere ammesso, in quanto che l'ordinamento politico della città, per opera di Romolo, era già se guito dopo l'aggregazione di questa tribù, come lo dimostra la tra dizione, che le trenta curie avrebbero perfino ricevuto il loro nome dalle donne sabine; inoltre, cid ammettendo, rimarrebbe inesplicato quell'aumento, che certo ebbe a verificarsi sotto Tullo Ostilio (3 ). 212. Quanto all'ultimo aumento, la tradizione e concorde nell'attri LIV., I, 30; Dion., III, 29. Liv., I, 35 dice di Tarquinio Prisco centum in patres legit ; e Dion., III, 62: Et tunc primum populus tercentos senatores habuit, qui ducentos tantum ad eam usque diem fuerant . PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice III, 645 a 672. G. C., Le origini dil diritto di Roma. 17 258 buirlo a Tarquinio Prisco; ma vi ha divergenza nel modo, in cui sa rebbesi operato. Cicerone dice, che egli avrebbe duplicato il numero dei senatori, e portatolo cosi a trecento, il che farebbe supporre, che anteriormente fossero soli cento cinquanta, il qual numero non può essere ammesso, perchè non risponde ai numeri comunemente seguiti dai Romani, e dai quali non solevano scostarsi. Resta quindi la testi monianza concorde di Dionisio e di Livio, che l'aumento da lui fatto sia stato di cento senatori. Questi nuovi senatori, alcuni vogliono che fos sero delle genti Albane: ma è ovvio l'osservare, che non può essere probabile, che genti, entrate nella comunanza fin dall'epoca di Tullo Ostilio, siano rimaste tutto questo tempo senza rappresentanti nel se nato. Altri invece, come il Pantaleoni, sostengono che i nuovi senatori aggiunti fossero tratti dalla tribù dei Luceres, i quali, a suo avviso, deriverebbero il proprio nome da Lucer, che in Etrusco corrisponde rebbe a Lucius ; ma contro quest'opinione vi ha sempre la consi derazione, che se questi entravano per la prima volta nella comunanza romana, non poteva esservi motivo, perchè le nuove centurie di equi tes, ricarate da essi, si chiamassero Luceres posteriores o secundi. Ciò indica, che dovevano esservi i Luceres primi, i quali erano en trati prima nella comunanza; il qual fatto potrebbe forse essere spie gato colla tradizione, serbataci da Varrone, secondo cui Romolo in guerra coi Sabini avrebbe avuto soccorso dai Lucumoni Etruschi, uno dei quali (forse Celes Vibenna, che dette nome al Celio, già compreso nell'antico Septimontium ) avrebbe anche preso parte alla confede razione, che segui allora fra i due popoli, sebbene le sue genti siano state forse collocate in condizione inferiore. Bensi è probabile, che le genti, da cui si trassero i nuovi senatori, potessero essere altre genti, pure di origine Etrusca, come i Luceres primi, le quali fossero venute a Roma al seguito di Tarquinio e della sua gente: il che spiega molto meglio, che non la leggenda di Tanaquilla, comemaiTarquinio, appena giunto a Roma, abbia potuto avere un seguito e un appoggio così forte nella popolazione romana, da aspirare e da ottenere colle PANTALEONI, op. cit., 660. L'opinione di VARRONE a questo proposito è ricordata da SERvio, in Aen., V, ove scrive: nam constat tres fuisse partes populi Romani. Varro tamen dicit, Romulum dimicantem contra Titum Tatium, a Lucumonibus, id est Tuscis, auxilia postulasse; unde quidam venit cum exercitu; cui, recepto iam Tatio, pars urbis data est . Del resto anche Livio, I, 13, fa rimontare a Romolo l'aggregazione dei Lu ceres primi, solo mettendo in dubbio la loro origine. 259 forme tradizionali la dignità regia. Egli tuttavia non potè passar sopra almetodo essenzialmente romano, che è quello di porre come primi quelli, che veramente sono tali, e quindi dovette collocare i nuovi senatori nel novero dei patres minorum gentium; quest'appellazione tuttavia non sembra tanto indicare la minor dignità delle medesime, quanto il loro essere entrati più tardi a far parte della comunanza. È questo il motivo, per cui dovevano essere chiamati gli ultimi a dare il proprio avviso; al modo stesso, che anche più tardi nei co mizii centuriati erano chiamati primi a dare il loro suffragio i se niores, ossia i maiores natu, e soltanto dopo venivano i iuniores, che erano i minores natu. Cid dimostra, che, trattandosi di un processo costantemente seguito, non può ricavarsene indizio di minor dignità di questi senatori, ma solo della costanza romana in appli care il principio: prior in tempore, potior in iure . 213. Le genti insomma, che, a nostro avviso, si vennero ag giungendo, escono da quelle stirpi, a cui appartenevano le tribù, la cui confederazione primitiva aveva dato origine alla città dei quiriti, e per tal modo si spiega come esse abbiano potuto esservi attirate dalle aderenze e parentele, che già potevano avere in Roma, e come, offrendosi ad entrare nella nuova città, abbiano po tuto esservi accolte. A misura però, che esse erano conglobate, do vevano pure avere una rappresentanza nel senato, e così il numero di questo venne ad essere portato a trecento; il quale, essendo in correlazione con quello delle curie, non ebbe ad essere più superato fino all'epoca dei dittatori, che prepararono l'Impero. D'altronde le occasioni di aumento vennero mancando dappoi: perché quando la città patrizia ha riempiuto il vuoto dei suoi quadri, essa comincia a rinchiudersi in sè stessa, e a vece di farsi grande, mediante le federazioni e le cooptazioni, si propone invece di affermare la pro pria superiorità sugli altri popoli, e di associare la comunanza ple bea, di cui trovasi circondata, all'avvenire della sua città. Bene è vero, che si verifica ancora più tardi la cooptazione della gente Claudia: ma essa avverasi, quando erano troppi i vuoti nel senato, perchè bisognasse aumentarne il numero, e poi trattavasi di una gente soltanto, la quale, per quanto numerosa, non poteva occupare tanti seggi nel senato, da richiedere un aumento nel numero. La spiegazione, che mi son fatto lecito di proporre, quanto ai suc cessivi incrementi nel numero dei senatori, parmi, fra le moltissime che si posero innanzi, che si concilii più facilmente colla tradi 260 zione e col processo eminentemente romano di far procedere di pari passo gli aumenti, chesi introducono nel senato, con quelli dell'or dine dei cavalieri e di tutti gli ordini della popolazione; non poten dosi negare, che nel concetto primitivo della città tutte le parti di essa debbono essere simmetriche, proporzionate e coerenti fra di loro. La medesima intanto ci prepara anche la via a risolvere la questione, intorno alla composizione del senato nel periodo regio. 214. Gli storici, al modo stesso che parlano talvolta dei comizii curiati, come se essi abbracciassero l'intiero popolo, il quale all'e poca, in cui essi scrivevano, comprendeva anche la plebe, così sem brano talvolta accennare a nomine, che i re avrebbero fatte di se natori, che non sarebbero stati tolti dalle genti patrizie; e cid fra gli altri attribuiscono allo stesso Tarquinio Prisco. Un tale fatto sembra anzitutto essere smentito dalla circostanza, che anche questi nuovi senatori sono chiamati patres minorum gentium, denomina zione, che poteva solo accomodarsi all'ordine patrizio, il quale consi derava come un suo privilegio la gentilità. A ciò si aggiunge, che in quest'epoca la distanza era ancora troppo grande fra i due ordini, perchè deimembridella plebe potessero essere ammessi nell'ordine più elevato della cittadinanza romana, tanto più se i plebei, come dimo strerò a suo tempo, non erano ancora ammessi a far parte delle curie. Ritengo quindi in proposito, che l'opinione più probabile e più conforme al processo solitamente seguito nello svolgimento politico di Roma, ove i cambiamenti, più che da arbitrio di uomini, sogliono derivare dal processo naturale delle cose, sia quella, che l'ammessione della plebe al senato dovette essere una naturale conseguenza del l'ammessione di essa a far parte del populus delle classi e delle centurie; poichè, modificandosi la composizione di uno degli organi essenziali della costituzione, che erano i comizii, anche il senato dovette subire un'analoga trasformazione . Più tardi poi, allorchè Il WILLEMS, nella sua opera: Le Sénat de la République romaine, I, 19, 28 e poi anche nel Droit public romain, 46, sostiene invece che i plebei non sareb bero stati ammessi nel senato, che a misura che furono ammessi alle magistrature ed agli onori. Tale opinione trovasi in contraddizione col fatto, che gli storici attri buiscono a Giunio Bruto od a P. Valerio di aver colmato i vuoti lasciati nel senato da Tarquinio il Superbo, mediante persone tolte dalla plebe più ricca ed agiata (ex primoribus equestris gradus); la qual tradizione ha nulla di ripugnante, perchè il cambiamento nella composizione del popolo richiedeva una modificazione correlativa - - 261 - i senatori cessarono in realtà di essere nominati esclusivamente fra i patres delle antiche gentes, ma furono scelti fra i magistrati, uscenti di ufficio: ne consegui per una naturale evoluzione di cose, che anche i plebei, che un tempo non avrebbero potuto esservi am messi per nascita, poterono esservi ammessi per la dignità, che avevano coperto. Probabilmente fu poi in questo secondo periodo, e in conse guenza di questa trasformazione, per cui la dignità e gli onori con seguiti cominciano a tener luogo della nascita, che i capi delle grandi famiglie plebee, che erano già pervenute al ius imaginum, e ave vano così imitata l'organizzazione gentilizia, poterono perfino entrare a far parte delle curie; le quali, se avevano perduta ogni loro im portanza politica, continuavano però sempre ad avere una impor tanza grande sotto l'aspetto religioso e sacerdotale, sopratutto per coloro, che già eguali in influenza e in ricchezza al patriziato pri mitivo, potevano desiderare di apparire loro eguali, anche nella no biltà di origine. 6. – I comizii curiati e la populi potestas. 215. Anche i comizii curiati, che furono l'unica assemblea del popolo romano, finchè durò la città esclusivamente patrizia, appa riscono vigorosamente tratteggiati nella costituzione primitiva di Roma. Per quanto i medesimi abbiano poscia perduto della propria importanza e siansi ridotti ad un'assemblea di carattere gentilizio e sacerdotale, che può quasi considerarsi come una sopravvivenza dell'antico ordine di cose; ciò però non toglie, che essi siano stati il modello, sovra cui più tardi si vennero foggiando tutte le altre assemblee del popolo romano. Fu quindi solo più tardi, allorchè si videro privati di ogni importanza politica e militare, che essi si circo scrissero a funzioni meramente gentilizie e sacerdotali: manel loro comparire essi hanno un carattere religioso, militare e politico ad anche nel senato; ed anche perchè in tal modo il patriziato sottraeva alla plebe i capi delle più potenti ed agiate famiglie. La questione della composizione del senato all'epoca regia fu dottamente trattata dal Lattes nelle Memorie dell'Istituto Lom bardo di scienze e lettere, vol. XI, Milano, 1870, il quale inclina a credere che il numero primitivo fosse quello di 300, come quello, che corrispondeva già al numero delle 30 curie. È poi degno di nota, che egli attribuirebbe anche al senato primitivo un carattere militare. 262 un tempo. Essi, nella costituzione politica della città, corrispondono all'assemblea patriarcale della tribù, che accorre al cenno del proprio capo, per accordarsi con esso intorno alle cose, che possono interes sare la comunanza. In questo però le curie già differiscono da quella, che non comprendono tutta la popolazione delle varie tribù, ma solo la parte eletta della medesima, ossia coloro, che col braccio o col consiglio possono giovare alla cosa pubblica. Esse quindi hanno per iscopo di far partecipare, sopra un piede di uguaglianza, alla vita pubblica le varie tribù, la cui confederazione è concorsa a formare le città . 216. I membri delle curie, come tali, chiamansi quirites, e sono noti i dubbii intorno all'origine di questa denominazione. Sonvi coloro, che fanno discendere il vocabolo da quiris, asta, che sa rebbe stata l'arma del quirite, il simbolo del potere al medesimo spettante; nè l'etimologia può dirsi inverosimile, quando si consideri, che nei carmi saliari il popolo ramnense è chiamato populus pi lumnus, ossia il popolo del pilo, e viene così ad essere qualificato anch'esso dall'arma, che lo contraddistingue. Altri invece, fra i Il carattere non solo politico, ma anche essenzialmente militare dei comitia curiata, è stato posto in evidenza sopratutto dal IHERING, L'esprit du droit romain, $ 20. Esso è poi provato dal seguente passo di Livo, V, 32: comitia curiata, qui rem militarem continent , e da un altro di Cicerone, De lege agraria, II, 12, 30, ove è detto, che il console, finchè non abbia ottenuta la legge curiata, non può as sumere il comando militare (rem militarem attingere non licet). È però notabile, che il carattere militare di quest'assemblea, che dapprima fu il più accentuato, come lo indica il nome stesso di quirites, e l'asta di cui erano armati, fu anche il primo ad essere perduto coll' introduzione dei comizii centuriati, che assunsero di preferenza questo carattere militare: poscia i comizii curiati vennero perdendo anche il carattere politico, allorchè la lex curiata de imperio fu ridotta ad una semplice formalità e la patrum auctoritas fu tolta di mezzo dalla lex Hortensia o dalla lex Moenia. Il carat tere invece, che sopravvisse più a lungo nelle curie, fu il carattere religioso e sacer dotale, in quanto che fu in esse, che si mantennero gli auspicia, come lo dimostra la nomina dell'interrex, la quale viene ad essere loro affidata, in quanto i patres o pa tricii delle curie sono i soli depositarii dei primitivi auspicia, e sono le curie, che presiedute dal pontefice, continuano ad avere la custodia dei culti gentilizii e fa migliari. Ciò spiega, come anche nell'età moderna, il vocabolo curia sia sopravissuto con una significazione pressochè sacerdotale. Cfr. il Bouché-LECLERCQ, Manueldes institutions romaines, Paris, 1886, 6 e 7, e il BourgeaUD, Le plébiscite en Grèce et en Rome, Paris, 1887, 39. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice II, 617. 263 quali, il Niebhur, vogliono che fossero così chiamati da Curium o da Quirium, città sabina, e che avessero ricevuto un tal nome, allorchè ai Ramnenses si unirono per confederazione i Titienses (populus romanus et quiritium ) ; la quale opinione non pare si possa ac cogliere per il modo diverso, con cui sarebbero indicati idue popoli insieme uniti, ed anche perchè il vocabolo di quirites, più che l'origine, sembra indicare l'ufficio, il compito, a cui essi sono chia mati di fronte alla città, poichè il nome loro nei rapporti esteriori continua sempre ad essere quello di Romani. Altri infine, come il Lange, fanno provenire il vocabolo da ciò, che essi facevano parte delle curiae, cosicchè quiriti significherebbe per essi gli uomini delle curie. È perd facile il vedere, che il vocabolo quirite, derivi da quiris o da curia, esprime pur sempre il medesimo concetto, poichè è la lancia, che è il simbolo del potere di chi appartiene alle curie, e sono i portatori di lancia, che sono i membri delle curie. I quiriti quindi in ogni caso son chiamati tali, in quanto hanno partecipazione effettiva al governo della cosa pubblica, mentre nei rapporti esterni continuano ad essere Romani; cosicchè anche questa distinzione sembra corrispondere, sotto un certo aspetto, a quella indicata coi vocaboli domi, militiaeque. 217. I comisii poi sono la riunione solenne dei quiriti, allorchè sono chiamati ad esercitare il loro sovrano potere. Finchè trattasi di semplici notificazioni, che il re o i suoi delegati debbono fare al popolo, o di discussioni intorno a qualche proposta di legge ba stano le semplici contiones. In queste possono anche sentirsi gli oratori in pro e in contro; intervenire i patres, quali moderatori del populus; e tenersi anche orazioni (conciones), le quali, senza essere precisamente quelle da Dionisio e Livio attribuite ai personaggi della loro storia, dovettero però essere ispirate alle circostanze, in NIEBAUR, Histoire romaine, I, 407. Questa opinione fu poi seguita dal WALTER e da molti altri autori. Nella inedesima però vi ha questo di vero, che il vocabolo di Quirites fu assunto dopo la confederazione coi Sabini, il che ci è attestato espres samente da Festo. Vº Quirites: Quirites autem, dicti post foedus a Romulo et Tatio percussum, comunionem et societatem populi factam indicant . LANGE, Histoire intérieure de Rome, 29. Inering, L'esprit du droit ro main, 1, $ 20, 20. Secondo il Lange, il vocabolo quirites non è però da con fondersi con quello di curialis; poichè quelli sono gli uoniini delle curie in genere, mentre questo è colui, che appartiene ad una determinata curia. 264 cui venivano pronunziate. Allorchè invece sono convocati i comizii, tutti questi preliminari già sono compiuti, e il popolo, ordinato a guisa di un esercito, si avvia unito al luogo della riunione, donde il vocabolo di comitium . Quasi si direbbe, che nelle pubbliche de liberazioni il popolo romano primitivo osservi un processo analogo a quello da lui seguito nelle sue transazioni private. Finché trattasi di mettersi di accordo, è lecito discutere e può anche adoperarsi quel dolus bonus, che mira a porre sotto l'aspetto più favorevole la transazione proposta; ma allorchè il periodo delle trattative è finito, più non occorre che una interrogazione ed una risposta, so lenni, ed allora: quod lingua nuncupassit, ita ius esto . È in questo senso soltanto, che deve essere inteso, ciò che attestano gli storici, che nei comizii, il popolo non poteva nè discutere, nè di videre o modificare le proposte fattegli, ma solo accettare o respin gere il candidato propostogli o la legge, oppure condannare od as solvere. Già nelle adunanze anteriori erano seguite le discussioni, e queste ripetute nei comizii avrebbero impedito quella solennità e quel silenzio, che ritenevansi indispensabili nelle deliberazioni, che ri guardavano l'interesse pubblico, e che avevano per i Romani primitivi alcunché di religioso e di sacro . 218. I comizii pertanto erano preceduti dagli auspizii, per cono scere se la volontà divina si palesasse favorevole, o non alla delibera zione, che si stava per prendere; si radunavano in un luogo con sacrato, che chiamavasi templum; e si tenevano in certi giorni, che i riti ritenevano adatti alle pubbliche deliberazioni, i quali perciò chiamavansi dies comitiales. Quanto alla distinzione fra comitium e contio, vedi il KARLOWA, Röm. R. G. I, 49. È però a notarsi, che anche la contio non è una riunione qualsiasi del popolo, ma suppone anch'essa una convocazione del magistrato, il che appare dal seguente passo di Paolo Diacono: Contio significat conventum; non tamen alium, quam eum, qui a magistratu vel a sacerdote publico per praeconem convocatur . Ciò pur conferma Liv., 39, 15. Combatto qui l'opinione universalmente seguìta dagli autori, specialmente ger manici (v. fra i recenti Karlowa, Röm. R.G.), che riduce i c omizii ad una funzione puramente passiva nella formazione delle leggi, in quanto che la medesima, a mio avviso, altera il carattere del populus primitivo; il quale, composto di capi di famiglia e di persone esperte negli auspicii e ricchedi tradizioni, poteva benissimo anche prender parte viva alla discussione delle leggi, come dimostrerò più larga mente nel capitolo III, 2º, discorrendo della lex, e nel capitolo IV, 1º, parlando delle leges regiae. - 265 Il modo poi, in cui doveva essere proposta la deliberazione, di mostra fino all'evidenza, come il magistrato fosse consapevole del potere, che apparteneva al popolo, e come questo conoscesse l'impor tanza del proprio uffizio. Da una parte eravi il re o magistrato, che, dopo aver premessa la formola: quod bonum felis, etc., invitava il popolo (rogabat) ad esprimere il proprio volere (iussus populi ) sulla proposta fattagli colla formola: velitis, iubeatis, quirites; e dall'altra vi erano i membri delle curie, che rispondevano affermando (uti rogas), o negando (antiquo). Quanto al processo, che seguivasi nella votazione, già appare nelle assemblee curiate quel sistema, che ebbe poi ad essere mantenuto negli altri comizii. I singoli quiriti votano viritim nella propria curia, e in questa prevale il voto della maggioranza, ma intanto la decisione definitiva dipende dal voto complessivo delle curie; nel che abbiamo un indizio del vincolo potente, che stringeva l'indi viduo alla corporazione, di cui faceva parte, in quanto che non era il voto degli individui, che prevaleva, ma quello dei gruppi, a cui appartenevano. Cid da una parte è un concetto trapiantato dalla stessa organizzazione gentilizia, in cui non si può comprendere l'in dividuo, che aggregandolo ad un gruppo; ma dall'altra dovette anche condurre alla disciplina del voto. I membri delle curie non atomi vaganti, ma parti vive di un organismo, senza del quale sa rebbero ridotti all'impotenza; disciplina questa, che ebbe pure ad essere mantenuta più tardinei comizii centuriati, ed anche nei tri buti, salvo che alla curia si sostituirono la centuria, e la tribů. Intanto anche nella votazione appare il carattere religioso e per fino superstizioso del romano primitivo, che da qualsiasi avvenimento suole trarre un pronostico, in quanto che il voto della prima curia si ritiene come un augurio (omen ); donde la denominazione di curia principium, che viene ad essere imitata anche negli altri comizii, e che è conservata nell'intitolazione stessa delle delibera zioni comiziali. sono 219. Sopratutto poi importa determinare, quali fossero le funzioni affidate ai comizii curiati; il che riesce assai difficile, in quanto che anche il potere dell'assemblea popolare presentasi dapprima piuttosto abbozzato, che non compiutamente formato. Secondo Dio nisio, il quale talora si sforza a precisare i contornidelle istituzioni primitive di Roma, sarebbe già l'assemblea delle curie, che, me diante una lex de bello indicendo, avrebbe deciso della pace o della 266 guerra; sarebbe essa, che conferirebbe la cittadinanza non ad indi vidui, ma ad intiere popolazioni o gentes, mediante la cooptatio; sarebbe essa parimenti, che voterebbe le leggi, e nominerebbe il magistrato supremo. Che se invece si tiene conto dei fatti, dei quali ci pervenne notizia, ben poche sarebbero state le occasioni, in cui l'assemblea delle curie avrebbe esercitato queste funzioni. Cid vuol dire, che anche il potere dei comizii curiati non dovette dap prima essere determinato da una costituzione scritta; ma deve ri guardarsi come un potere in via di formazione, che poi si svolgerà, a seconda delle occasioni e degli avvenimenti, mantenendosi perd sempre fedele al proprio concetto informatore. Esso tuttavia, come si vedrà più sotto , già contiene in germe tutti quei poteri, che l'assemblea del popolo acquisterà colle altre forme di comizii. È esso infatti, che nomina il Re e si ha così il germe del potere elettorale; è esso che, secondo la tradizione, sanziona le leges re giae, e si ha così l'inizio del suo potere legislativo; è esso infine, che già avrebbe avuto l'occasione di esercitare una specie di giu risdizione criminale, come lo dimostra la provocatio ad populum, che si fa rimontare all'epoca dei primi re, e si sarebbe dispiegata, secondo la tradizione, nel fatto dell'Orazio, uccisore della propria sorella. 220. Sopratutto poi è notabile nei comizii coriati uno speciale ca rattere, che, a parer mio, è la prova più evidente del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica, e che non parmi siasi tenuto in conto sufficiente dagli autori. Questo ca rattere consiste nella doppia competenza della assemblea delle curie; la quale, sotto un certo aspetto, è ancora sempre una riunione di ca rattere gentilizio, e coll'intervento dei pontefici provvede alla con servazione delle genti e delle famiglie, e del loro culto, e sotto un altro aspetto è una riunione di carattere eminentemente politico. Quasi si direbbe, che il quirite, al pari di Giano, protettore della città, deve avere lo sguardo rivolto in due opposte direzioni: da una parte egli è ancora un rappresentante della gente e della tribù, DION., 2, 14, scrive in proposito: populo vero haec tria concessit,magistratus creare, leges sancire, et de bello decernere, quando rex rogationem ad eum tulisset . Rimando la prova di ciò al capitolo seguente, ove si considera la costituzione primitiva di Roma nelle sue principali funzioni. 267 da cui discende, e come tale è ancora strettamente vincolato al l'organizzazione gentilizia, e deve curare che il culto di essa non venga ad interrompersi, e che il suo patrimonio non sia disperso; dall'altra invece è membro del populus, e come tale deve obbe dire ai cenni del magistrato, e deve aver presente sopratutto il pubblico interesse, in quanto che salus populi suprema lex esto . Questa doppia qualità del quirite si appalesa nell'indole diversa delle riunioni, di cui esso è chiamato a far parte. Accanto ai veri comizii, convocati dal magistrato, per mezzo dei littori, e in cui si votano le cose attinenti al pubblico interesse, sonvi i comitia ca lata, convocati dal pontifex maximus, per mezzo dei suoi calatores, nei quali si compiono quegli atti, che possono toccare in qualche modo l'organizzazione gentilizia. Nei primi si votano le leggi; si deliberano le guerre e le paci; si nomina il magistrato; si assolvono o condannano coloro, che appellarono al popolo. Nei secondi invece, che rivestono di preferenza un carattere religioso, i quiriti si ra dunano, in quanto hanno un culto, a cui debbono provvedere. È quindi in essi, che compiesi l'inauguratio regis, ed anche quella dei flamines; come pure è in essi, che si compiono quegli atti, che possono alterare in qualche modo l'organizzazione gentilizia, e com promettere l'avvenire del culto. È perciò in questa specie di co mizii, che deve essere approvata l'adrogatio di una persona sui iuris, come quella che ha per effetto di fare entrare un capo di famiglia sotto la podestà di un altro; il che significa sopprimere una famiglia e il suo culto, per continuare invece un'altra famiglia e il culto della medesima. È in essi parimenti, che ha luogo la detestatio sacrorum, che è la rinuncia al proprio culto gentilizio, per causa di adrogatio o di transitio ad plebem; come pure è ivi, che segue la cooptatio di una gens nell'ordine patrizio: cooptativ, che si opera per l'intiero gruppo, e non per i singoli individui, che entrano a costituirla. È in essi infine, che deve seguire quel testamen tum, che vien detto appunto in calatis comitiis; il quale, secondo il concetto delle genti patrizie, costituiva materia di diritto pubblico, come quello, che alterava le norme relative alla successione genti lizia, e quelle riferentisi alla trasmessione dei sacra. Cid è provato dal fatto, attestatoci da Cicerone, che il ius pontificium, nell'intento d'impedire l'interruzione dei sacra, fini per porre i medesimi a ca rico di coloro, che avevano gli utili dell'eredità; donde l'espressione popolare, che occorre soventi nei comici latini, di haereditas sine - 268 sacris, per significare un vantaggio conseguito senza i pesi inerenti al medesimo. 221. Intanto questo speciale punto di vista, sotto cui debbono, a parer mio, essere considerati i comitia calata, ci spiega quel carattere singolare e pressochè contraddittorio del diritto primitivo di Roma, il quale, mentre da una parte dà al quirite il più illi mitato arbitrio di disporre delle proprie cose per testamento; dal l'altra vuole, che i testamenti, le adrogationes e simili atti, che pur riguardano interessi privati, siano compiuti in cospetto dell'intiero popolo, e li ritiene come relativi ad argomenti di diritto pubblico. Gli autori vollero spiegare la cosa con dire, che in Roma primitiva tutti questi atti costituivano altrettante leges publicae, e che, come tali, dovevano essere fatti in cospetto e coll'approvazione del po polo. Riterrei invece, che in questa istituzione dei comitia calata si debba ravvisare, se mi si consenta l'espressione, il rudere meglio conservato, che dall'organizzazione gentilizia sia stato trasportato nella costituzione primitiva di Roma. Si è veduto a suo tempo, che il grande intento dell'organizzazione gentilizia era quello di perpe tuare le famiglie e il loro culto, e di impedire la dispersione dei patrimoni; donde la conseguenza, che il testamentum e l'adrogatio dovevano farsi coll'approvazione dell'assemblea della gente o della tribù . Or bene così continuò ancora ad essere, finchè la città fu esclusivamente patrizia: quindi questi atti continuarono ad essere fatti coll'approvazione delle curie, e di quei collegi sacerdotali, che erano incaricati di serbare integri non solo i sacra publica, ma ancora i sacra privata. Quindi conviene ammettere, che le curie non prestassero soltanto la loro testimonianza a questi atti, ma fossero chiamate a darvi la loro approvazione, dopo aver sentito l'avviso dei pontefici; il che viene ad essere provato dalla formola, conserva taci da Aulo Gellio, relativamente all'adrogatio (3 ). Una volta poi, La teoria dei comitia calata ci fu conservata sopratutto da Aulo Gellio, Noc. Att.. XV, 28 e 3, il quale dice di averla ricavata da un'opera di Laelius Felix. Quanto alla ripartizione dei sacra, in proporzione della sostanza ricevuta dagli eredi, è attestata da CICERONE, De legibus, II, 19, SS 47, 49. Vedi libro I, cap. IV, $ 4, nº. 61 a 65. (3 ) Aulo Gellio, Noc. Att., V, 19. Ivi si dice che a adrogatio per rogationem populi fit , ed è riportata la formola, che è quella della vera e propria legge, in quanto che comincia colle parole velitis, iubeatis, quirites e termina coll'espres. sione Haec ita, uti dixi, ita vos, quirites, rogo . 269 che una istituzione di questa natura sia penetrata nella primitiva costituzione romana, noi oramai conosciamo abbastanza il tempera mento del popolo romano per poter affermare, che esso non l'abban donerà così presto. Si comprende pertanto, che quando si introdussero i comizii centuriati, anche questi, secondo la testimonianza di Gellio, abbiano avuti i proprii comizii calati, salvo che nei medesimiil po polo, radunato due volte all'anno, più non dovette approvare il te stamento, ma solo prestare la propria testimonianza. Ciò è dimostrato dal fatto, che il testamento in calatis comitiis potè poi essere surro gato da quello per aes et libram, in cui i quiriti sono chiamati non per approvare, ma solo per testimoniare (testimonium mihi perhi bitote). Intanto però, anche quando l'adrogatio e il testamentum furono atti di carattere intieramente privato, rimane però sempre la traccia dell'antico stato di cose nel concetto, ricordatoci da Papiniano, secondo cui la testamenti factio pubblici iuris est. A questo riguardo poi, è ancora degno di nota, che quando l'as semblea delle curie fini per perdere ogni importanza politica e mi litare, e si ridusse ad essere una riunione di trenta littori, presie duta dai pontefici, serbò però ancora sempre e forse esagero perfino questa competenza, per ciò che si riferisce agli atti, che riguardano l'organizzazione gentilizia, e sopratutto, quanto all'adrogatio. Questa fu praticata ancora, davanti alle curie, dagli imperatori Augusto e Claudio, i quali, non avendo dimenticata la loro antica origine dalle genti patrizie, seguirono le forme tradizionali nella arrogazione di Tiberio e di Nerone. Cosi le primitive istituzioni vengono anche esse perdendosi a poco a poco in Roma,ma ne rimane ancora sempre un'eco lontana. Resterebbe qui ad esaminarsi la questione fondamentale se la plebe sia stata ammessa a far parte della assemblea delle curie; ma Papin., L. 4, Dig. (28, 1). La conclusione sarebbe questa, che il carattere di lex del testamento primitivo è una reliquia dell'antica organizzazione gentilizia. Tale carattere poi in parte avrebbe cominciato a dileguarsi, allorchè accanto ai comizië curiati calati, si introdussero anche i comiziï centuriati calati, la cui esistenza ci.è attestata da Aulo Gellio, XV, 27, 2, e che probabilmente dovettero essere quelli, i quali, secondo Gaio, Comm., II, 101, si radunavano due volte l'anno,acciò in essi po tessero farsi i testamenti. Il fatto stesso della loro riunione periodica dimostra, che molti testamenti si potevano presentare ad un tempo, e che perciò in essi il popolo doveva limitarsi a prestare la propria testimonianza. Fu questo il motivo, per cui il testamento in calatis comitiis potè poi essere sostituito dal testamento per aes et libram, ove i quiriti si riducono ad essere dei classici testes. Gaio, Comm., II, 103. 270 credo opportuno rimandarne l'esame ad un capitolo speciale, in cui cercherò di determinare la posizione dei clienti e della plebe, cosi sotto l'aspetto del diritto pubblico, che sotto quello del diritto pri vato; premettendo però fin d'ora, che seguo l'opinione, secondo cui la plebe non potè, durante il periodo regio e nei primisecoli della Repubblica, essere ammessa all'assemblea delle curie . $ 7. Sguardo sintetico allo svolgimento storico dei comizi in Roma. 222. Le cose premesse sarebbero sufficienti per formarsi un con cetto del carattere speciale della primitiva assemblea curiata: ma intanto per scoprire certe relazioni, che difficilmente potrebbero es sere afferrate, quando non fossero sorprese alle origini, ed anche per rendere intelligibili gli svolgimenti, che verranno dopo, e dimo strarne la continuità, ritengo opportuno, a costo anche di precor rere gli avvenimenti, di dare uno sguardo sintetico allo svolgimento che ebbero i comizii in Roma. Roma antica, simile in cið alla moderna Inghilterra, ci presenta bene spesso l'esempio di congegni della costituzione politica ed am ministrativa, la cui creazione rimonta ad epoche compiutamente di verse, ma che intanto funzionano contemporaneamente. Ciò è vero sopratutto per quello, che si riferisce ai comizii. Roma patrizia, e forse anche Roma, durante tutto il periodo regio, non conosce altra assemblea del popolo, che quella delle curie. Essa è un'assemblea, di carattere religioso e sacerdotale, politico e militare ad un tempo: è la riunione del primo populus romanus quiritium, di quello cioè, che era ristretto al populus, che usciva esclusivamente dalle genti patrizie. In base alla costituzione Serviana, che ammette la plebe a far parte delle classi e centurie, sulla base del censo, intro ducesi un' altra assemblea del populus romanus quiritium, già inteso in senso più largo, che è la centuriata. Anch'essa è mo dellata sulla prima, e secondo Gellio, imita perfino i comizii calati, come pure è anche preceduta dagli auspicii;ma intanto, accogliendo già un elemento, che non partecipava al culto gentilizio, che era quello della plebe, perde ogni carattere religioso e sacerdotale, e La questione qui accennata sarà presa in esame in questo stesso libro, cap. V. 271 assume un carattere essenzialmente militare, e poscia anche poli tico. Da questo momento l'assemblea per curie più non può rap presentare l'intiero populus, perchè una parte di questo, cioè la plebe, non entra a farne parte. L'assemblea curiata quindi diventa, dirimpetto alla centuriata, un' assemblea di patres, perchè com prende coloro, che discendono sempre dalle antiche genti patrizie. La vera rappresentanza dell'intiero populus (comitiatus maximus) viene quindi ad essere l'assemblea per centurie; perchè essa soltanto comprende tutto il popolo, organizzato sulla base del censo. Siccome però i patres o patricii, cioè i discendenti delle antiche genti pa trizie, continuano ancora sempre a formare un nucleo separato del populus, cosi essi sono ancora chiamati a dare alle deliberazioni dei comizii centuriati la patrum auctoritas, la quale viene, come sopra si è veduto, a distinguersi dalla senatus auctoritas. Così pure l'antico populus, composto appunto dai patres, continua ancora sempre a con ferire l'imperium colla lex curiata de imperio, sebbene l'una e l'altra funzione tendano naturalmente a perdere della loro im portanza, e l'assemblea curiata si limiti sempre più a funzioni di carattere puramente gentilizio e sacerdotale. 223. Fin qui lo svolgimento della costituzione primitiva procede ancora regolarmente: ma la cosa si fa più malagevole, quando, fra i congegni della costituzione politica di Roma, compare un nuovo elemento, che è quello delle assemblee proprie della plebe (concilia plebis). La plebs forma già parte del populus e partecipa alla civitas; ma la sua civitas è ancora minuto iure, in quanto che essa non ha ancora nè il ius connubii col patriziato, nè il ius honorum. È quindi naturale in essa l'aspirazione al pareggiamento, e sorge una opposizione di interessi fra il patriziato e la plebe. Quest'ultima, che, uguale sotto un aspetto, aspira a diventarlo anche sotto gli altri, viene naturalmente a costituire sotto un certo riguardo una fazione nello Stato, poichè i suoi interessi si contrappongono a quelli del patriziato, il quale continua ad essere il vero reggitore dello Stato, essendo il solo ammesso alle magistrature e agli onori. La plebe però ha già un proprio magistrato, sotto cui si organizza, che è il tribuno della plebe, il quale, in base alla costituzione, può È da vedersi, quanto all'auctoritas patrum, questo stesso capitolo, 3º, n° 198, 240. colle note relative. 272 convocarla per prendere deliberazioni nel proprio interesse. Sorge cosi spontaneamente l'istituto dei concilia plebis, i quali dapprima hanno più un'esistenza di fatto, che non di diritto: ma che intanto, fatti forti dal numero e dalla intraprendenza dei tribuni, tendono naturalmente a prendere dei provvedimenti, che mirano a prepa rare l'uguaglianza giuridica e politica fra la plebe e il patriziato. Essi perciò mettono in accusa patrizii avversi alla plebe e gli stessi consoli, allorchè escono di ufficio. Proibirli è impossibile, perchè è principio riconosciuto dalle XII Tavole, che ogni sodalizio, che abbia un capo (magister ), possa dettarsi una propria legge, e perchè in ogni caso sarebbe impossibile vietare le riunioni di un elemento, che ha per sè il numero e la forza, e che, ricorrendo ad una secessio, potrebbe mettere a repentaglio l'avvenire della città. L'unico partito pertanto, che rimanga al patriziato ed al senato, che lo rap presenta, è quello di riconoscere queste riunioni e di farle entrare, per quanto sia possibile, nei quadri legali della costituzione politica di Roma, trasformando a poco a poco i concilia plebis in comitia tributa: in comizii, cioè, che comprendano eziandio tutto il popolo, ma non più in base al censo, come l'assemblea delle centurie, ma in base alle tribù locali, in cui è raccolta tutta la cittadinanza ro mana. È questa la trasformazione, che incomincia col tribuno Pu blilio Volerone, il quale, nel 283 U. C., dopo lunghe lotte, ottiene che la plebe possa nominarsi i suoi tribuni nei proprii comizii; ma con ciò questi non possono ancora prendere che provvedimenti riguar danti la sola plebe, e che possono soltanto essere obbligatorii per essa. Quindi incomincia da parte di questa uno sforzo inteso a pareggiare i comizi tributi agli altri comizii, e a fare si che i plebisciti obbli ghino anche il patriziato, il che si opera per mezzo delle leggi Va leria -Orazia, Publilia e Ortensia; le quali, sebbene, per il poco che a noi ne pervenne, mirino tutte allo scopo di rendere obbligatorii i plebisciti per tutto il popolo, segnano però, come si vedrà più sotto, 728, La proibizione dei concilia plebis sarebbe stata contraria a quelle disposizioni della legge decemvirale, secondo cui Sodalibus potestas esto, pacionem, quam volent, sibi ferre, dum ne quid ex publica lege corrumpant. V. Voigt, die Tafeln, I, che attribuisce tal legge alla Tavola VIII, n. 12. Qualcosa di analogo ci è pure accennato da Livio, 39, 15: ubicumque multitudo esset, ibi et legitimum rectorem multitudinis, censebant maiores debere esse ; ed è questo forse il motivo, per cui i concilia plebis cominciano a diventare potenti, quando la plebs ha trovato un proprio rector o magister nel tribunus plebis. - 273 discorrendo del concetto romano di lex, i varii stadii, per cui passò la risoluzione del gravissimo problema. 224. Giungesi cosi ad un periodo della costituzione politica di Roma, in cui nei quadri di essa trovansi tre specie di comizii. I primi e i più antichi sono i comizii curiati,ma essi vengono ad essere sempre più ridotti a funzioni puramente gentilizie e sacerdotali, e anzichè essere in effetto ancora le riunioni delle curie, si riducono ad essere la riunione dei trenta littori, che le rappresentano, e diven tano così una sopravvivenza dell'antico ordine di cose. Accanto ad essi sonvi i comizii centuriati, che sono sempre la vera assemblea del popolo romano, e continuano a conservare in qualche parte il pri mitivo carattere militare: ma anch'essi si fanno più democratici, come lo dimostrano le riforme, che sappiamo essere state introdotte, senza saperne precisare il come ed il quando, e debbono dividere in parte le proprie funzioni colla nuova assemblea tributa, più fa cile a convocarsi e più intraprendente nella propria iniziativa. Certo si richiedeva il genio pratico dei Romani per far procedere di pari passo assemblee, che rappresentavano un principio diverso, cioè la nascita, il censo, ed il numero. Dapprima ciascuna di queste istituzioni potè serbare intatto il proprio carattere primitivo; ma poscia la fusione sempre maggiore dei due ordini condusse al ri sultato, che poterono esservi plebei di grandi famiglie, che furono accolti nelle curie, e che vi ottennero anche la dignità sacerdotale di curio maximus; al modo stesso, che i pochi discendenti delle an tiche genti patrizie poterono anche intervenire ai comizi tributi, i quali ricevettero cosi anche la consacrazione religiosa, e poterono essere presieduti da magistrati, che un tempo erano esclusivamente patrizii. Quando le cose pervennero a questo punto, il vero populus trovasi raccolto nei comizii centuriati, e nei comizii tributi. Quelli sono organizzati in base al censo, e questi in base alle tribù lo cali, a cui i cittadini trovansi ascritti; quelli serbano ancora un carattere specialmente militare e radunansi al campo Marzio, fuori delle mura Serviane, e questi invece hanno un carattere civile e Rimetto la discussione gravissima relativa a queste tre leggi al capitolo se guente 2º, n ° 232dove si discorre del concetto romano di lex. Quanto alla proposta di Publilio Volerone e alla portata della medesima è da vedersi il Bonghi, Storia di Roma, 439 a 451, come pure a 593, ove parla dell'elezione dei tribuni nei comizii tributi. G. C., Le origini del diritto di Roma. 18 274 radunansi nel fôro, cosicchè il vero movimento della costituzione politica di Roma ondeggia fra l'una e l'altra assemblea. Tuttavia, a ricordare l'antico dualismo, sopravvivono ancora sempre i comizii curiati ridotti ad essere la riunione di trenta littori, presieduti dal pontefice, e circoscritti a funzioni di carattere essenzialmente reli gioso, e i concilia plebis, che ricordano ancora quel tempo, in cui la plebe costituiva un dualismo col patriziato, e nei quali continuano a nominarsi le magistrature esclusivamente plebee. Intanto è ancora degno di nota, che la trasformazione, che si opera nei comisii tri buti, accade anche nei tribuni della plebe, i quali, sebbene debbano sempre essere trattidalla plebe, diventano però a poco a poco magi strati urbanidel popolo romano; comepure accade nei plebisciti, i quali a poco a poco vengono ad essere pareggiati alle leggi propriamente dette, il che sarà meglio dimostrato nel capitolo seguente. Questo è il solito processo, seguito dai Romani, nello svolgimento delle proprie istituzioni, ed è la logica che lo governa, che per mette di poterlo ricostruire, malgrado le lacune, che possono esservi nel racconto storico, che a noi pervenne. Questa logica è, per così esprimersi, intensiva ed estensiva ad un tempo, e quindi si può es sere certi, che se un concetto entri nella compagine romana non scomparirà, se prima non siasi ricavato da esso in profondità ed estensione tutto ciò, che contenga di vigoroso e di vitale. Studiata cosi la costituzione primitiva di Roma negli organi, che entrano a costituirla, importa ora di considerarla nell'esercizio delle sue principali funzioni. È questo, a parer mio, il solo modo per risolvere la questione così contro versa relativa alle analogie ed alle differenze, che possono intercedere fra i comitia tributa ed i concilia plebis. È noto in proposito, come il Niebhur non ammettesse che un'unica assemblea tributa (Histoire romaine, III, 283), la quale, esclusivamente plebea dapprima (concilium plebis), avrebbe più tardi compreso anche il patriziato, e sarebbesi così cambiata in comitium tributum. Il Mommsen invece (Römische For schungen, Berlin, 1864, I, 151 a 155) sostenne, dai decemviri in poi, l'esistenza di due assemblee tribute: l’una patrizio-plebea (comitia tributa ); l'altra esclusivamente plebea (concilium plebis). Ritengo che quest'ultima opinione possa essere accolta, ma limitando le funzioni dei concilia plebis a cose di interesse esclusivamente plebeo, quali erano la nomina dei tribuni e degli edili plebei, mentre il vero potere legisla tivo, elettorale e giudiziario appartiene ai comitia tributa, i quali soli possono con siderarsi come un vero organo della costituzione romana. Cfr. BOURGEAUD, Le plébi scite dans l'antiquité, Paris, 1887, 57 a 76; Karlowa, Röm. R. G.; MORLot, Précis des instit. polit. de Rome. Paris. La primitiva costituzione di Roma nelle sue principali funzioni. $ Carattere generale della medesima. e 225. La costituzione primitiva di Roma, finchè si mantenne esclusivamente patrizia, si presenta con un carattere di unità e di coerenza, che indarno si cercherebbe più tardi nelle istituzioni po litiche di Roma. Vero è che la plebe, entrando a far parte della comunanza politica, recò nella medesima il movimento e la vita, rese possibile per Roma un avvenire, che non avrebbe mai conse guito la città esclusivamente patrizia, la quale da sola tendeva più a chiudersi in se stessa, che ad estendersi; ma è vero eziandio, che colla plebe penetrò il dualismo in ogni aspetto della costituzione primitiva di Roma. Dirimpetto ai comizii disciplinati del popolo rac colto nelle curie, si svolsero i concilii talvolta tumultuosi della plebe; ai magistrati del popolo si contrapposero quelli della plebe; ed alle leggi votate nella solennità e nel silenzio dalle curie si so vrapposero i plebisciti. Fu in tal guisa, che la costituzione primitiva di Roma venne in certo modo ad essere forzata a spingersi oltre il concetto ispiratore della medesima, e fini per assumere un ca rattere del tutto peculiare, in quanto che dovette stringere insieme due popoli, che politicamente erano associati, ma che non erano intimamente uniti fra di loro, di cui uno pretendeva di avere per sè la priorità ed il diritto, mentre l'altro aveva per sè il numero e la forza. Nè conseguita che, per comprendere lo spirito della primitiva costituzione di Roma, conviene in certo modo isolarla dagli elementi, che sopravvennero coll' ammessione della plebe alla cittadinanza, e quando ciò si faccia non si può a meno di rima nere ammirati di fronte all'unità ed alla coerenza, che presenta la costituzione esclusivamente patrizia. Essa è un vero organismo, che componesi di varie parti, delle quali ciascunaè chiamata ad adempiere la propria funzione: ma che tutte intanto si suppongono e si completano a vicenda. La potestas in largo senso si ritiene bensi appartenere al popolo, ma questo non potrebbe esercitarla, se 276 non fosse posto in azione dall'imperium del magistrato; e intanto fra di loro si interpone l'auctoritas del senato, il quale da una parte modera col suo consiglio il regis imperium, e dall'altra da la consistenza e l'appoggio della propria autorità ai iussa populi. 226. Questa coerenza poi appare anche più evidente, allorchè i congegni della costituzione siano considerati nel loro movimento; poichè mentre ciascun aspetto del pubblico potere non ha altra norma e altro confine, che il proprio concetto ispiratore, niuno di essi però può compromettere l'interesse comune, senza che vi concorrano tutti gli altri. Questo carattere della costituzione politica di Roma ha fatto dire a Polibio, che essa appariva mo narchica, aristocratica e democratica ad un tempo, secondo che altri la considerava rimpetto a questo o a quell'aspetto del pubblico potere ; ma se altri poi la consideri in movimento ed in azione, essa si presenta con tutti questi caratteri ad un tempo. L'imperium regis, la senatus auctoritas, la populi potestas sono altrettante concezioni logiche, destinate col tempo a ricevere tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci; ma intanto son disposte per modo, che si contengono e si limitano a vicenda, non già perchè esista fra di essi una ripartizione o circoscrizione di poteri, ma perchè nessuno di questi elementi puo compromettere la pubblica salute senza la cooperazione di tutti gli altri. Onnipotente ciascuno coll'appoggio degli altri, viene ad essere impotente, quando trovi opposizione o contrasto in alcuno fra essi; donde l'importanza, che ebbe nella costituzione romana l'istituto dell'intercessio, la quale viene atteg giandosi in guise molteplici e diverse, in quanto che tale intercessio, o può esercitarsi a nome della religione, o frapponendo la par ma iorve potestas, o contrapponendo anche quelli, che esercitano la medesima magistratura . Questo è, a parer mio, il carattere fon Polibio, Histor., lib. VI. È mirabile il partito, che Roma seppe trarre dal concetto dell'intercessio nello svolgimento storico della sua costituzione, come appare dalla magistrale trattazione dell'argomento nel Mommsen, Le droit public romain, 230 a 329. Non potrei tuttavia accettare la sua affermazione recisa, che l'intercessio non esistesse nel periodo regio. Certo essa non ebbe occasione di svolgersi, perchè i tre elementi od organi della costituzione erano potentemente unificati; ma intanto la cost ituzione primitiva inchiudeva già allo stato latente il germe di tutta la teoria dell'intercessio, in quanto che in essa niun provvedimento, che possa compromettere il pubblico interesse, pud damentale della costituzione primitiva di Roma, per cui essa ora apparisce conservatrice fino allo scrupolo, ed ora invece diventa operosa ed intraprendente fino all'audacia, secondo che essa abbia o non l'appoggio dell'opinione generale. Intanto quando trattasi della res publica, ossia di cosa, che possa interessare l'intiera comunanza, tutti questi elementi sono chia mati ad arrecare il proprio contributo. È infatti almagistrato (rex, interrex, tribunus celerum, praefectus urbis) che si appartiene l'agere, quando trattasi di convocare il popolo o il senato; il ro gare, quando importa di ottenere l'approvazione di qualche proposta; l'imperare, allorchè nei pericoli di una guerra il suo imperium si spinge fino alla maggiore estensione, di cui possa essere capace. E invece al senato, che si appartiene il consulere, quando trattasi di dare il proprio avviso al magistrato, o di richiamare l'attenzione di lui su qualche imminente pericolo, ne res publica detrimenti capiat ; e l'auctor fieri, se è questione invece di appoggiare le de liberazioni del popolo. È infine al popolo, che spetta il iubere e lo statuere, quando trattasi di una lex, sotto la qual forma si manifesta di regola la volontà collettiva del quando trattasi della elezione dei magistrati. Intanto però, siccome queste gradazioni dell'azione collettiva debbono tutte concorrere in sieme per costituire un atto compiuto, cosi niun elemento pud da solo prendere un provvedimento, che possa compromettere l'interesse comune . Ciò sopratutto appare nel compimento di quegli atti, che, per propria natura, interessano l'intiera comunanza, quali sarebbero: la formazione di una legge, l'elezione del magistrato, e l'amministra zione della giustizia; dai quali poi discendono le tre manifestazioni essere preso senza il concorso di tutti. L'intercessio nel periodo repubblicano non fu che uno svolgimento di questo concetto, e toccò il suo massimo sviluppo per opera dei tribuni, stante il carattere negativo del potere spettante aimedesimi. È poi notabile, come essa si applichi al decretum, alla rogatio, ed al senatus consultum, il quale, se colpito dall'intercessio, non può più essere posto in esecuzione: ma tuttavia deve essere perscriptum, perchè è sempre una espressione dell'auctoritas senatus, col quale vocabolo viene appunto ad essere indicato. Cfr. MOMMSEN, op. cit., Ho già insistito su questo concetto, che può essere considerato comela chiave di volta della primitiva costituzione di Roma, in una prolusione al corso di Storia del diritto romanu col titolo: L'evoluzione storica del diritto pubblico e privato di Roma, Torino, 1886, 13. 317. 278 del potere sovrano nella città antica, che sono il potere legislativo, il potere elettorale, ed il potere giudiziario. È quindi sopratutto a proposito di questi atti, che vuolsi cercare in qual modo entri in movimento ed in azione la primitiva costituzione di Roma, dando al tempo stesso un popolo, o ilo sguardo allo svolgimento storico, che dovrà poi ricevere ciascuno di questi poteri. $ 2. Il concetto romano di lex nei suoi rapporti colla patrum auctoritas e col plebiscitum. 228. Nel considerare il concetto primitivo della lex in Roma si riman magistratum creare,e anzitutto colpiti dalla larghissima significazione, colla quale si presenta questo vocabolo. Esso significa dapprima qualsiasi ac cordo di più individui in una stessa volontà, e viene così, fin dagli esordii, a distinguersi in lex privata, che significa una convenzione od una norma, che altri si impone relativamente ad interessi privati (lex contractus, lex mancipii, lex testamenti), ed in les publica, che significa la volontà collettiva e comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui. Quando poi il concetto di lex privata viene ad essere assorbito da quello di convenzione o di contratto, quello di lex publica continua ancora ad avere una estesissima si gnificazione; poichè esso comprende in certo modo qualsiasi delibera zione solenne del popolo. Parlasi infatti di una lex belli indicendi, foederis ineundi, coloniae deducendae, agri adsignandi e simili; e fino a un certo punto la nomina stessa del magistrato, o almeno il conferimento dell'imperium, spettante al medesimo, viene ad essere argomento di una legge. Gli è solo più tardi, che il vocabolo di legge viene a significare un generale iussum populi, che si rife risce alla generalità dei cittadini, e si distingue così da qualsiasi de liberazione, relativa ad una persona o ad un fatto particolare. Ciò Insomma il concetto dominante è sempre quello, che la lex è il risultato di un accordo. Quindi la lex publica, essendo il risultato dell'accordo di tutti gli organi dello Stato, viene ad essere una communis reipublicae sponsio, e deve da tutti essere rispettata; donde la conseguenza, che il ius publicum privatorum pactis mutari non potest. La lex privata invece è l'accordo di due o più individui in tema di loro interessi privati: non è quindi la legge pubblica, che deve occuparsene, secondo il principio della stessa legge decemvirale, privilegia ne inroganto: donde conseguita, che la legge cambiasi a poco a poco in un generale iussum. È in questa guisa, che vuol dire, che anche la nozione di lex subisce in Roma una lunga evoluzione: ma intanto il concetto, che la pervade in ogni tempo, è quello di un accordo di più volontà in un medesimo intento. Tale significazione sembra pure essere indicata dall'etimologia del vocabolo di lex a legendo od a colligendo, la quale perciò non indica tanto la forma scritta, assunta dalla legge, come vorrebbe il Bréal, quanto piuttosto il collegarsi delle volontà in un medesimo intento . 229. Un altro carattere della lex, secondo il primitivo concetto romano, si è quello di un'aureola religiosa, che la circonda, come lo dimostrano le cerimonie solenni, da cui son precedute le deliberazioni comiziali, e la reverenza e il culto, di cui la legge viene ad essere l'oggetto in Roma primitiva, dopo che essa fu solennemente votata dal popolo. Di qui alcuni autori ebbero a ricavare la conseguenza, che la forza obbligatoria della legge, anche per Roma, non deri vasse tanto dal suffragio del popolo, quanto piuttosto da questo carat tere religioso, da cui essa appare circondata. Se con ciò si vuol dire, che la legge solennemente votata dal popolo, dopo aver assunto gli auspicii, doveva in certo modo considerarsi come una interpreta zione della stessa volontà divina, questo concetto pud essere facil mente ammesso, essendo il medesimo una conseguenza di ciò, che il ius, come si è dimostrato a suo tempo, aveva nei suoi primordii un carattere religioso, e impotente a sostenersi da solo cercava di mettersi sotto la protezione del fas. Ma se con ciò si intende in la legge e il contratto, uniti nell'origine, più tardi si vennero separando, e quasi si contrapposero fra di loro, lasciando perd sempre una traccia nel concetto, che il contratto costituisce legge per i contraenti . L'etimologia di lex a legendo nel senso di leggere, suole appoggiarsi al testo di Varrone, De ling. lat., VI, 66: leges, quae lectae et ad populum latae, quas ob servet; ma egli è evidente, che qui Varrone, non sempre felice nelle sue etimologie, non ha punto l'intenzione di proporne una. Se quindi è vero, come del resto insegna lo stesso BRÉAL, Dict. étym. latin, vº lego, che il vocabolo di legere ebbe anche la antica significazione di raccogliere, di scegliere, di riunire, parmi sia molto più acconcio di dare questa etimologia al vocabolo di lex. Così si potrà anche compren dere la lex privata, la quale certo non pud essere derivata da ciò, che i contratti fossero scritti; ma da cid, che le volontà si accordavano e si riunivano. Cfr. BRÉAL et BAILLY, Dict. étym., vº lex. Un passo, in cui il vocabolo legere prende questa an tica e larga significazione, è il seguente di Virgilio: Iura, magistratusque legunt, sanctumque senatum. (Aen., I, v. 431). - 280 vece, che la sua efficacia obbligatoria provenga direttamente dalla volontà divina, se questo può forse ancora ammettersi per il vóuos de' Greci, più non può ritenersi vero per la lex romana. Questa non potrà essere votata senza che prima si assumano gli auspicii; ma intanto, fin dal periodo esclusivamente patrizio, essa è già l'espres sione della volontà collettiva del popolo, come lo dimostra il fatto, che assume la forma di una vera e propria stipulazione fra il ma gistrato che propone (rogat), e il popolo che vota (iubet atque con stituit); come pure il concorso nella formazione di essa di tutti gli organi della costituzione politica di Roma, per cui essa, fin dagli esordii della città, deve essere considerata come una communis rei publicae sponsio . Essa sarà ancora riguardata come una volontà divina; ma il popolo già si attribuisce facoltà d'interpretare questa volontà, ogni qualvolta trattisi, non di cosa relativa al culto, ma di provvedimenti, che riguardano l'interesse generale della comu nanza. Anche la definizione dei Giureconsulti classici: lex est, quod populus, senatorio magistratu rogante, iubet atque con stituit , può già essere applicata alla legge, durante il periodo regio; salvo che in questa definizione più non compare l'elemento della patrum auctoritas, che nella città patrizia era ancor ritenuto indispensabile, e che era poi stato tolto di mezzo dalla legge Ortensia. Vero è, che più tardi il patriziato cercò di dare sopratutto prevalenza all'elemento religioso, che accompagnava la legge; ma ciò accade unicamente, allorchè l'assemblea patrizia delle curie perdette ogni importanza politica; poichè in allora la religione e gli auspicii diven tano pressochè il solo titolo di superiorità del patriziato sopra la plebe, e fu naturale che si cercasse di accrescerne la importanza. 230. Intanto questo carattere, eminentemente contrattuale della legge, che corrisponde all'origine federale della città, ed anche la necessità, secondo il concetto primitivo delle genti patrizie, che, a formare la legge, dovessero concorrere tutti gli organi dello Stato, servono a spiegare naturalmente certe singolarità del diritto primitivo V. in senso contrario il FUSTEL DE COULANGES, La cité antique, liv. III, chap. XI, 221 e segg., e fra i recentiilBourgeaud, Leplébiscite dans l'antiquité, Paris, 1887, 91.Quest'ultimo nega il carattere contrattuale alla legge, anche per la considerazione, che essa non potrebbe obbligare quelli, che non vi hanno consentito; ma egli è evidente, che l'accordo in una pubblica votazione non può aversi, che dando prevalenza al maggior numero. 281 di Roma, che ebbero a verificarsi, allorchè la plebe entrò a far parte della comunanza politica. Allora infatti venne ad essere necessità, che il potere legislativo si portasse ai comizii centuriati, in quanto che questi soltanto erano l'assemblea plenaria del populus romanus (comitiatus maximus). Siccome però, accanto ai comizii centuriati, si manteneva pur sempre l'assemblea curiata dei patres o dei patricii: così, per ubbidire al principio che tutti gli organi politici dello Stato dovevano concorrere alla formazione della legge, fu necessario che vi contribuisse eziandio l'assemblea dei patres; donde la conseguenza, che la legge centuriata dovette dapprima essere proposta dal magistrato, votata dal popolo, e poscia ancora approvata non solo dal senato, ma anche dall'assemblea delle curie. Di qui dovette provenire la distinzione della patrum o patriciorum auctoritas dalla senatus auctoritas, ancorchè le due approvazioni si riducessero in sostanza ad una medesima cosa, perchè in questo periodo il senato può riguardarsi sopratutto come l'organo del patriziato; il che spiega appunto la confusione, che gli storici vengono facendo fra l'una e l'altra auctoritas, in un'epoca, in cui erano già scomparse e l'una e l'altra. 231. Se non che il mantenersi fedeli a questo principio diventò assai più difficile, allorchè alle altre fonti legislative venne ad ag giungersi eziandio il plebiscitum, che costituiva in certo modo una lex inauspicata. Questo dapprima non può obbligare tutto il popolo, perchè è l'opera soltanto di una parte di esso; e quindi, al pari dei concilia plebis, in cui viene ad essere votato, ha più un'esistenza di fatto, che non di diritto. Intanto però la plebe ha per sè il nu mero e la forza, e valendosi di essi cerca talora di forzare la mano al senato. In questa condizione di cose viene ad essere nell'interesse stesso del patriziato di fare rientrare nell'ordine legale tanto i concilia plebis, trasformandoli in comitia tributa, allorchè trattisi di provvedimenti, che possano interessare tutto il populus, quanto eziandio di riconoscere l'autorità dei plebisciti, con che essi subi scano le condizioni richieste per obbligare tutto il popolo. È in questa occasione, che nella storia politica di Roma compa riscono successivamente tre leggi ad epoca diversa, il cui contenuto, conservatoci dagli scrittori, sembra essere identico (ut plebiscita V. sopra capitolo II, 3, n ° 198, 240.e le note relative. 282 omnem populum tenerent); ma che intanto sembrano indicare tre successivi stadii di una importantissima trasformazione. La difficoltà di conciliarle, che formò oggetto di lunghe discussioni e che anche oggi suole essere considerata come una delle più gravi questioni, che presenti la storia politica di Roma , pud, a parer mio, essere supe rata, quando abbiasi presente il concetto della primitiva costituzione di Roma, secondo cui qualsiasi vera legge suppone il concorso di tutti gli organi politici dello Stato. 232. Occorre anzitutto la legge Valeria Orazia, dell'anno 304 di Roma; la quale è la prima a dichiarare, che i plebisciti obblighino tutto il popolo (ut quod tributim plebs iussisset omnem populum te neret) ; ma ancorchè la legge nol dica, questo è certo che, secondo il concetto informatore della costituzione politica di Roma, ciò poteva solo accadere, allorchè i provvedimenti, che erano di iniziativa della plebe, avessero subite tutte le prove, a cui erano sottoposte le stesse Così si esprime il Soltau, die Gültigkeit der Plebiscite, Berlin. La bibliografia sulla questione pud vedersi nel BOURGEAUD, Le plébiscite dans l'anti quité, Paris, 1887, 121, il quale sosterrebbe, che il plebiscito sia stato in ogni tempo una deliberazione presa dalla sola plebe, esclusi i patrizii. Non potrei divi dere tale opinione, poichè vi fu un tempo, in cui la differenza fra plebiscito e legge si ridusse unicamente alla persona diversa, che ne prendeva l'iniziativa, secondo che essa fosse un tribuno, od un altro magistrato. Vero è che il vocabolo di plebs signi fica il populus, esclusi i senatori ed i patrizii;ma il motivo, per cui i patrizii non si tenevano legati dai plebisciti non consisteva già in ciò, che essi non potessero inter venire ai comizii tributi, essendo anch'essi iscritti alle tribù, ma in ciò, che essi soste nevano plebiscitis se non teneri, quia sine auctoritate eorum facta essent ,Gaio, Comm. I, 3. Tolta poi la necessità della patrum vel patriciorum auctoritas, i plebisciti divennero obbligatorii per tutto il popolo, e anche i patrizii poterono certo intervenire ai comizii tributi. Difatti dopo la legge Ortensia le due espressioni di leo e di plebi scitum diventano fra di loro equipollenti, e occorrono perfino le espressioni populum plebemve iussisse, come nella lex tabulae Bantinae (Bruns, Fontes, 51). Secondo il Mommsen, è da questa legge, che parte l'istituzione dei comizii curiati, e quindi egli riterrebbe, che nei termini conservatici da Livio, III, 55, come proprii della legge Valeria Orazia, si dovrebbe sostituire il vocabolo di populus a quello ivi adoperato di plebs, e leggere quindi: quod tributim populus iussisset, omnem populum teneret (Römische Forschungen, I, 164-5 ). Non parmi, che questa opinione possa essere accolta, sia perchè tutti i giuristi fanno partire il pareggiamento del plebiscitum colla lex dalla legge Ortensia, e non dalla legge Valeria Orazia, ed anche perchè poste riormente la denominazione di lex o di plebiscitum non sembra più dipendere dalla composizione dei comizii, ma piuttosto dal magistrato, da cui sono convocati, il quale come dava il suo nome alla legge, così poteva anche attribuirvi il carattere di lex o di plebiscitum: tanto più che la sua efficacia veniva ad essere uguale. 283 - leggicenturiate. Questa legge pertanto significo solamente, che anche i tribuni della plebe potevano prendere l'iniziativa di un provvedi mento, che potesse obbligare tutto il popolo; ma che il medesimo, per avere un tale effetto, doveva poi essere approvato dal Senato, ed ottenere anche la patrum auctoritas, come lo dimostrano gli sforzi, che in questo periodo si fanno dai tribuni per ottenere l'ap provazione del senato a plebisciti, come quelli di Canuleio, di Icilio e altri ancora. Quasi si direbbe, che questo è il periodo delle seces sioni, a cui ricorre appunto la plebe, quando non può ottenere dal senato l'approvazione di un provvedimento da essa desiderato. Suc cede quindi una seconda legge, che è la legge Publilia del 415 di Roma, la quale, mentre in un capo statuisce, che la patrum auctoritas doveva precedere le leggi centuriate, ripete in un altro l'ingiunzione già fatta che plebiscita omnes quirites tene rent. È però evidente, che la portata di questa legge verrà ad essere diversa, perchè in virtù di essa i plebisciti, al pari delle leggi centuriate, non dovevano più essere susseguiti, ma preceduti dalla patrum auctoritas, che comprende probabilmente anche la senatus auctoritas. Noi abbiamo quindi un secondo periodo, in cui tutte le proposte di provvedimenti, per parte dei tribuni della plebe, sogliono esser precedute da trattative ed accordi fra il senato e i tribuni della plebe, per guisa che il senato si vale talvolta di questi per ottenere, che essi prendano la iniziativa di una determinata proposta 233. Da ultimo infine apparve, che anche questa previa approva È lo stesso Livio, che ci conservò i termini di questa legge. Secondo il WILLEMS, Le Sénat, II, chap. I, l'espressione di patrum auctoritas sarebbe equipollente a quella di senatus auctoritas. Tale opinione è divisa dal Bour GEAUD, op. cit., 135, ed è combattuta invece dal Soltau, die Gültigkeit der Ple. biscite, 135, come pure dal Pantaleoni nella 3a parte della sua dissertazione: Dell'auctoritas patrum nell'antica Roma (< Rivista di Filologia , Torino, 1884, 350 a 395). Di fronte ad una quantità di passi di scrittori antichi, citati da quest'ultimo, in cui si usano le espressioni di patricii auctores, mentre altre volte si parla invece della senatus auctoritas, fra cui è notabile il passo di Livio, III, 63, parmiche l'opinione del WILLEMS non possa essere accolta. Ritengo tuttavia, che gli storici, mossi forse dall'identico interesse, che potevano spingere le curie dei patrizii e il senato a fare opposizione ad un provvedimento di iniziativa della plebe, possano talvolta aver comprese le due cose col vocabolo alquanto incerto di patrum aucto ritas. V. in proposito ciò, che si è detto nel capitolo precedente 83, n ° 198, 240 e note relative. 284 zione dei padri, senza sempre riuscire nell'intento, finiva per essere causa di dissidii e di secessioni. Fu quindi, in seguito ad una di queste secessioni, che sulla proposta del dittatore Ortensio, uscito dalla no biltà di origine plebea, sopravviene una legge Ortensia, nel 467 della città, che ripete pur sempre la stessa formola; ma intanto toglie di mezzo la necessità della previa approvazione dei padri e produce, se condo Pomponio, l'effetto, che inter plebiscita et legem species con stituendi interessent, potestas autem eadem esset . Fu neces saria una secessione e ci volle un dittatore per vincere questa legge; ma ve ne era ben donde, poichè, a mio avviso, non vi ha forse nella storia della costituzione primitiva di Roma una rivoluzione più ra dicale di questa. Con essa infatti l'antico concetto di lex, quale era stato concepito da Roma patrizia, viene ad essere sovvertito; in quanto che potrà esservi una legge, alla cui formazione non coope rino tutti gli organi politici dello Stato; poichè d'allora in poi anche un solo elemento, la plebe, può dettare leggi, che sono obbligatorie per tutto il popolo. Strappo più grave non poteva essere arrecato alla costituzione patrizia: ma tentasi ancora di rimarginarlo nel senso, che fu da questo tempo probabilmente, che la nobiltà plebea co minciò a penetrare nelle curie, e che il patriziato antico si valse * della sua iscrizione alle tribù per intervenire anche ai comizii tri buti, i quali poterono anche esser presieduti da magistrati patrizii, e furono anche essi preceduti dagli auspizii. Per tal modo i concilii un tempo della plebe diventarono anch'essi comizii del popolo, e solo cambiò il criterio, che doveva essere di base alla riunione, in quanto che i comisii centuriati si adunavano in base al censo, e i comisii tributi in base alle tribù. Da questo momento il senato trovossi Che il pareggiamento fra la lex e il plebiscitum parta veramente dalla legge Ortensia, la quale deve aver tolta dimezzo la patrum auctoritas, risulta dai seguenti passi di scrittori e giureconsulti, che erano meglio in caso di apprezzare il valore tecnico delle parole. Pomponio L. 2, 8, Dig. (1, 2 ), oltre l'espressione già riportata nel testo, scrive: pro legibus placuit et ea plebiscita observari , e aggiunge al $ 12: plebiscitum, quod sine auctoritate patrum est constitutum , con che accen nerebbe all'abolizione della patrum auctoritas per i plebisciti. Così pure Gaio, Comm., I, 3: lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita omnem populum tene rent, itaque eo modo legibus exaequata sunt; Giustin., Instit., I, 2: sed et plebi scita, lege Hortensia lata, non minus valere, quam leges, coeperunt . Lo stesso confermano Aulo Gellio, Noc. Att., X, 20 e XV, 27; come pure Plinio, Hist. nat., XVI, 15, 10. — Cfr. ORTOLAN, Histoire de la législation romaine, 161, n. 178 et suiv. e il Madvig, L'État romain, trad. Morel, Paris, 1882, I, 260. 285 costretto ad invitare frequentemente i tribuni a presentare dei pro getti di riforme o di misure amministrative alla plebe (agebat cum tribunis, ut ferrent ad plebem ), e quindi il tribunato viene a for mare l'elemento riformatore, ed attivo nell'organizzazione dello Stato. Che anzi i comizii tributi possono anche essere presieduti da magi strati patrizii, trattandosi di leges praetoriae, o di elezioni dimagi strati minori. Accanto ai medesimi, si mantengono perd ancora i concilia plebis: ma si limitano a provvedimenti, che riguardano la sola plebe, e alla nomina di magistrati esclusivamente plebei. 234. Intanto però eravi sempre l'organo politico più potente in questo periodo, che era il senato, il quale veniva ad essere lasciato in disparte nella formazione della legge, in quanto che non era più richiesta la sua approvazione. È in allora che il senato, non avendo più in questo argomento una parte proporzionata alla effettiva sua influenza, non potendo sempre bastargli di far dichiarare gli au spicia vitiata e di rifiutare l'esecuzione dichiarando ea lege non videri populum teneri viene ad essere condotto a forzare la propria funzione consultiva. È quindi da quell'epoca, che cominciano a compa rire dei senatusconsulti con autorità di leggi . Indarno i seguaci del partito popolare protestano contro questa violazione della logica inerente all'istituzione del senato, poichè questo ha influenza suffi ciente per far valere la propria pretesa. Si capisce quindi come più tardi i giureconsulti finiscano per esclamare non ambigitur senatum ius facere posse ; indicando così colla stessa loro affermazione, che il dubbio era veramente esistito . Siccome però le trasgressioni alla logica di una costituzione non si fanno impunemente: cosi in questa stessa epoca, anche gli editti dei magistrati e sopratutto quelli del pretore,avendo l'appoggio dalla pubblica opinione, finiscono ancor essi per costituire un ius non scriptum, che viene poi a conver tirsi in un ius scriptum e in una copiosa fonte legislativa. A questo punto lo Stato romano è ormai un organismo troppo Cfr. Madvig, L'État romain, I, 260; WILLEMS, Le Sénat, II, chap. III. Però è sopratutto il PUCATA, che hamesso in evidenza l'importante rivoluzione introdotta della legge Ortensia (Cursus der Institutionen). Solo mi pare di dover ag giungere, che la rivoluzione stessa sta nell'aver cambiato il primitivo concetto di lex, e di aver così iniziato l'esercizio di una specie di potere legislativo per parte dei singoli organi politici dello Stato. ULP., L. 8, Dig. (1, 3 ). 286 grande, perché possa mantenersi ancora il rigoroso principio del l'antica costituzione patrizia, che a formare le leggi debbono con correre tutti gli elementi costitutivi dello Stato; conviene di ne cessità lasciare, che ciascuno di questi elementi possa dal suo canto prendere l'iniziativa. È per questo motivo, che i comizii tributi di ventano la sorgente legislativa più copiosa, durante gli ultimi secoli della repubblica, e che i pretori, di magistrati preposti all'ammini strazione della giustizia, si mutano in certo modo in legislatori (ius honorarium ): al modo stesso che più tardi anche i giureconsulti sa ranno autorizzati a dare dei responsi, che avranno autorità di leggi (responsa prudentum ). Tuttavia siccome tụtti questi fattori con tinuano pur sempre a procedere sulle traccie antiche; così l'edificio non solo potrà mantenersi saldo, ma per qualche tempo si innal zerà tanto più rapido e grandioso, quanti più sono gli artefici, che cooperano alla costruzione. Sarà invece quando mancherà il senso del pubblico bene, e quando scomparirà la distinzione antica fra l'interesse pubblico e il privato, che, per salvare un edifizio, il quale tende a scompaginarsi, sarà necessario di rimettere ogni cosa nelle mani di un solo, la cui volontà, in base ad una apparente investi tura del popolo, legis habet vigorem. Questo sguardo allo svolgimento storico del concetto di legge, pro lungato oltre i confini, che misarebbero prefissi, deve essermi per donato; perchè era soltanto sorprendendo il concetto alle origini, che poteva comprendersene l'incerto ed irregolare sviluppo, come lo dimostrano le divergenze di opinioni, che ancora oggi dominano l'ar gomento. Ulp., L. 1, Dig. Quod principi placuit, legis habet vigorem; utpote quum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium ac potestatem conferat . Per tal modo la lex, che era un tempo il frutto dell'accordo di tutti gli organi politici, diventa ormai l'opera di un solo; ma intanto si mantiene sempre il concetto, che la sorgente di ogni potere sia il popolo; altra conferma dell'opinione, fin qui sostenuta, relativamente alla populi potestas. Questo svolgimento storico della legge in Roma sembra essere compendiato da POMPONIO, allorchè, dopo aver discorso delle lotte fra la plebe, il patriziato ed il senato, con chiude dicendo: Ita in civitate nostra aut iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentum interpretatione consistit; aut sunt legis actiones, quae continent formam agendi; aut plebiscitum, quod sine auctoritate patrum est constitutum; aut est magistratuum edictum, unde ius hono rarium nascitur; aut senatus consultum, quod solum senatu constituente inducitur sine lege; aut est principalis constitutio, id est, ut quod ipse princeps constituit, pro lege servetur , L. 2, 12, Dig.- L'elezione del rex, l'interregnum, e la lex curiata de imperio. 235. Per quello che si riferisce al magistrato supremo del popolo romano, il concetto, a cui si informa la primitiva costituzione pa trizia, consiste nel ritenere che, come è immortale il popolo, cosi non debbano mai essere interrotti nè gli auspicia, nè l'imperium, indispensabili entrambi per la prosperità della repubblica. È questo concetto, che spiega, come, morto il re, auspicia ad patres re deant; è questo parimenti, che condurrà più tardi a fissare il co stume per cui i magistrati annui succeduti al re, debbono, prima di uscire di ufficio e finchè ritengono ancora gli auspicia, proporre il proprio successore; è questo infine, che può somministrare il mezzo per comprendere quella singolare istituzione dell'interregnum, non che la procedura solenne per l'elezione del re, che, introdotte fin dagli inizii di Roma, si perpetuano ancora col medesimo nome e colle stesse formalità sotto la repubblica, allorchè i re sono aboliti, e che in questi ultimitempi ebbero ad essere argomento di tante e cosi erudite elucubrazioni. 236. Un recente autore, il Bouchè Leclercq, ebbe a scorgere nel l'interregnum e nella procedura per l'elezione del re, un capo lavoro di casuistica, in cui appare lo spirito sottile e formalista degli antichi romani . Ciò darebbe a credere, che le due pro cedure siano una creazione architettata dai pontefici, i quali in que st'argomento avrebbero dato prova del loro acume teologico e giuridico. Parmi invece assai più semplice e più verosimile il ri tenere, che i romani, in questo, come in altri casi, non si compiac ciano nella creazione di formalità, come tali, ma intendano piuttosto a conservare le tradizioni del passato. Le formalità infatti, che accompagnano l'interregno e la elezione del re, non dimostrano l'investitura divina del re, come alcuni vorrebbero: ma provano sol tanto, che i romani avevano altissimo il concetto della continuità ideale dello Stato, alla guisa stessa, che prima avevano avuto quello della perennità della famiglia e della gente. Esse provano parimenti, Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris, 1886, 15. 288 che, secondo il concetto primitivo della costituzione romana, al l'elezione del magistrato, per trattarsi dell'atto forse più importante per la comunanza, dovevano prendere parte tutti gli elementi costi tutivi dello Stato. Ciò stante, anche in quest'elezione riscontrasi quel carattere contrattuale, che abbiamo trovato nella legge, in quanto che il re, già nominato e consacrato, deve ancora sottoporre all'assemblea della curia la lex curiata de imperio, e solo dopo la medesima può compiere gli uffici a lui affidati, come capo civile e militare della comunanza. Infine queste formalità possono anche considerarsi come un indizio, che in un anteriore periodo di orga nizzazione sociale gli auspicia risiedevano nei patres, ai quali perciò dovevano ritornare, allorchè il re veniva a mancare. 237. Per conchiudere, questa istituzione dell' interregnum, ar gomento di tante discussioni, deve essere considerata anche essa come un naturale processo, che dovette spontaneamente formarsi in una comunanza primitiva, uscita allora dal seno dell'organizzazione gentilizia: processo, che è perd rivestito di quel carattere religioso e solenne, che i romani attribuivano ad ogni loro atto, e sopratutto a quelli, che riguardavano il pubblico interesse. In una comunanza infatti di carattere gentilizio, formatasi mediante una confederazione, riverente verso l'età e memore delle tradizioni del passato, era na turale, che, mancando il capo comune, il suo potere religioso, civile e militare dovesse passare al padre più anziano della più antica decuria del senato, e da questa trasmettersi successivamente ai principes delle altre decurie, che venivano dopo, in base all'an zianità, accið non venisse ad essere offeso il senso geloso, che i capi di famiglia avevano della propria uguaglianza, e non potesse neppur nascere il timore, che uno di essi regni occupandi consilium iniret . Era naturale parimenti, che la proposta del successore dovesse partire da uno dei padri, ed anzi dal più anziano fra essi, sebbene sia pur consentaneo all'indole di questa comunanza, che la sua proposta potesse essere anche comunicata agli altri padri, e che fosse anche sentito in famigliari concioni l'avviso del popolo, ancora composto esclusivamente di membri delle genti patrizie. Maturata così la proposta, è l'interrè, che deve farla; le curie, che debbono approvarla; la presa degli auspicii, che deve inaugurarla; e infine fra l'eletto e la comunanza deve intervenire quella specie di con venzione e di accordo, che avverasi mediante la lex curiata de imperio; la quale, sotto un aspetto, costituisce l'investitura del ma 289 gistrato per parte del popolo, e dall'altro vincola quest'ultimo alla obbedienza verso di quello. Infine questo processo naturale di cose viene come al solito gittato e fuso in certe forme solenni, che si trasmettono ad epoche, le quali mal sanno apprezzare i motivi, che le fecero adottare; cosicchè viene ad apparire artificiosa ed architettata in modo casuistico e sottile quella procedura, che dovette un tempo essere la naturale conseguenza del modo di pensare e di agire di coloro, che concorrevano alla formazione di essa. 238. Ad ogni modo il caso, di cui ci fu serbata memoria parti colareggiata, e in cui appare in tut a la sua solennità questa pro cedura solenne, è la elezione di Numa, il quale fra i re primitivi si presenta ancora con un carattere pressochè patriarcale. Sparito Romolo e collocato fra gli dei col nome di Quirino, gli auspicia e l'imperium erano passati ai capi delle decurie del senato, che se ne trasmettevano di cinque in cinque giorni le insegne (decem imperitabant, unus cum insignibus imperii et lictoribus erat). I padri, che non parevano troppo soddisfatti del regis imperium, agitano il partito se non fosse il caso di non più nominare il re: ma di lasciare, che il potere si venga cosi avvicendando, senza che alcuno possa essere re per tutta la vita. Il partito non prevale fra il popolo, il quale non ama di avere cento capi, a vece di un solo, e quindi a re si sceglie Numa di stirpe sabina. È l'interrè, che è chiamato a proporlo (rogat), ed è il popolo che è chiamato a crearlo, mentre sono i padri, che approvano l'elezione (quirites, regem create: deinde, si dignum crearitis, patres auctores fient). Segue poscia l'inauguratio, che è descritta in modo particolare da Livio; e viene ultima la proposta della lex curiata de imperio, la quale, non ri cordata da Livio, è invece ricordata e ripetuta da Cicerone ad ogni elezione di re, quasi ad indicare l'importanza, che la medesima doveva avere. Ci attesta poi Livio, che questta procedura, che egli descrive come introdotta per quel caso determinato, ma che Dionisio farebbe già rimontare allo stesso Romolo, non è stata abbandonata più tardi: hodieque in legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta , cioè esclusa la violenza, a cui dovette dal popolo ricorrersi in quel caso, accid i patres procedessero alla proposta del nuovo re Livio, I, XVII; Cic. De Rep., II, 13, 17, 18, 20; Dion., II, 57; PLUTARCO, Numa, 2. Di fronte a queste testimonianze concordi, non può esservi dubbio, che du G. C., Le origini del diritto di Roma. 19 290 239. Il concetto informatore dell'elezione del magistrato non po trebbe qui essere più chiaro; essa deve essere l'opera di tutti gli organi dello Stato, ed assume un carattere pressochè contrattuale fra magistrato e popolo, al pari di qualsiasi altra legge. Cacciati i re, il concetto si mantiene, poichè anche con magistrati annui la con tinuità degli auspicia e dell'imperium non deve essere interrotta; quindi è l'antecessore, che è chiamato a proporre il successore, e se egli per qualche motivo non possa farlo, si ricorre alla nomina di un interré, anche quando i re già sono aboliti. Tuttavia, anche in questa parte, l'accoglimento della plebe nel populus delle classi e delle centurie produce una modificazione nella primitiva costituzione; modificazione, che in questi tempi diede argomento a gravissime discussioni, e che, in coerenza alle cose sovra esposte, pud a mio avviso essere spiegata nel modo seguente. Non può esservi dubbio che, durante il periodo regio, l'interres era uno dei patres del senato, ai quali redibant auspicia. Colla repubblica invece, al modo stesso che nel populus delle classi e delle centurie fu compresa anche la plebe, così anche il senato venne ad essere non più composto esclusivamente di patrizii, ma anche di nobili plebei; del che alcuni scorgono un indizio nella de nominazione data ai senatori di patres et conscripti. Comunque stia la cosa, questo è certo, che il senato, divenuto patrizio -plebeo, non poteva più rappresentare gli antichi patres o patricii, che erano stati i fondatori della città, e ai quali redibant auspicia. Erano le curiae invece, le quali continuarono ancora per lungo tempo ad essere esclusivamente patrizie, e di cui potevano fare parte anche i senatori di origine patrizia, che di fronte al rimanente del popolo rappresentavano l'antico ordine dei patres o dei patricii, e alle quali perciò dovevano ritornare gli auspicia. Di qui la conseguenza, che furono i patricii, o in altri termini le curiae, a cui venne a devolversi la proposta dell'interrex, come lo dimostrano le espres sioni patricii coeunt ad interregem prodendum , patricii rante il periodo regio l'interrea era tolto, secondo certe regole tradizionali, dal se nato, e che dallo stesso senato partiva la patrum auctoritas. Anche quanto alla lex curiata de imperio, ancorchè solo ricordata da CICERONE, di fronte alla sua atte stazione ripetuta, manca ogni motivo di ragionevole dabbio. Non potrei quindi, come sopra già si è accennato, nº 199, 244, in nota, consentire col Karlowa, Röm. R.G., 52 e 82 e segg., il quale ritiene che la lex curiata de imperio sia entrata in azione soltanto colla costituzione di Servio Tullio. 291 interregem produnt e simili, e ciò perchè l'interrex, facendo in certa guisa ancora rivivere la figura del rex primitivo, ed essendo depositario e custode degli auspicia, durante il periodo della va canza del magistrato, non poteva esser nominato che da patrizii e fra i patrizii, come espressamente ci attesta Cicerone allorchè af ferma: cum interrex nullus sit, quod et ipsum patricium et a patriciis prodi necesse est . Come sia accaduto questo cambiamento, se cioè per legge o per il logico sviluppo delle isti tuzioni, il che è più probabile, non si può affermare con certezza; ma certo dovette essere questo il processo logico, che governo tale modificazione. In questo modo infatti si vengono a rannodare insieme tre istituzioni, che furono argomento di lunghe discussioni, e di cui tutti riconoscono la strettissima attinenza, che sono la patru patriciorum auctoritas per le leggi, la lex curiata de imperio per la elezione dei magistrati, e la proposta dell'interrex, accið l'im perium e gli auspicia non siano interrotti, durante la vacanza del magistrato. Tutte queste istituzioni non sono che conseguenze ed ap plicazioni dell'antico principio, che auspicia penes patres sunt; dal qual concetto conseguiva, che nè una legge, nè un magistrato, nè un interrex potevano ritenersi bene auspicati per lo Stato, senza l'intervento dell'ordine patrizio, il quale, di fronte al nuovo popolo, corrispondeva ai patres del periodo regio. In questo senso viene ad essere spiegato quanto ci afferma Cicerone che curiata comitia, tantum auspiciorum causa, remanserunt , come pure si com prende, che col tempo i medesimi si siano ridotti ad una imitazione od adombramento dell'antico per mezzo dei trenta littori, che rap presentavano le trenta curie (ad speciem atque ad usurpationem vetustatis per XXX lictores) . Intanto però, anche coll' introduzione dei comizii centuriati, la nomina dei veri magistrati cum imperio continua ancora sempre ad essere l'opera di tutti gli organi politici dello Stato, in quanto che vi ha sempre il magistrato o interrè, che lo propone (rogat); il popolo delle classi o centurie, che lo elegge (creat); il senato, che continua a dare la propria auctoritas alla elezione (auctor fit); e da ultimo l'assemblea delle curie, che lo investe degli auspicia e dell'imperium mediante la lex curiata de imperio, per modo CICERO, Pro domo sua, 14. CICERO, De lege agraria, II, 11, 27 e 28. 292 che il magistrato non può entrare in ufficio, e compiere sopratutto atti di carattere militare, prima di aver ottenuta la legge stessa. 240. Se non che anchequi lo svolgimento armonico e coerente della primitiva costituzione romana comincia a dar luogo ad un dualismo, allorehè compariscono i magistrati plebei, e sopratutto il tribunato della plebe, il quale, pur essendo la magistratura urbana più operosa del periodo repubblicano, non riesce però mai ad inquadrarsi per fettamente nella costituzione politica di Roma. Dapprima infatti i tribuni della plebe non sono ancora veri magistrati, ma piuttosto ausiliatori della plebe, e non si pud neppure affermare con certezza dove fossero nominati, in quanto che gli storici parlano di una no mina fatta dalla plebe per curie, di cui non si comprende il signifi Ho cercato qui di riunire e di risolvere, mediante i concetti informatori della primitiva costituzione di Roma, e dei cambiamenti, che in essa si vennero operando, alcune questioni, che furono oggetto di gravi e lunghe discussioni. La patrum au ctoritas, la lex curiata de imperio, la proposta dell'interrex furono spiegate in varia guisa. Havvi l'opinione del Niebhur, seguìta anche dal Becker, Röm. Alterth., vol. II, 314-332, che pareggia fra di loro la patrum auctoritas e la lex curiata de imperio, e quindiattribuisce l'una e l'altra alle curie fin dal periodo regio; vi ha quella del WILLEMS, Le droit public romain, 208 a 212, che invece attribuisce al vocabolo di patrum auctoritas la significazione costante di senatus auctoritas, affi dando al senato anche la proposta dell' interrex; sonvi il Rubino, e fra i recenti il Karlowa, Röm. R.G., I, p. 44 e seg., i quali sotto le espressioni di patrum aucto ritas e di patricii interregem produnt scorgono i senatori patrizii, e quindi affidano ad essi così la patrum auctoritas, come la proposta dell'interrex. Vi banno infine quelli, i quali sostengono, che la primitiva costituzione dovette certo subire qualche modi ficazione, allorchè la formazione delle leggi e la elezione dei magistrati dal popolodelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamedelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamente pa trizio. Tale è l'opinione sostenuta con molta dottrina dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Romu (Rivista di Filologia, Torino, 1884, 297 a 395). Se guendo un processo diverso, sono riuscito ad una conclusione analoga a quella soste nuta dal Pantaleoni, e intanto ho cercato di richiamare ad un unico concetto i varii aspetti, sotto cui presentasi la questione. Ritengo poi, che tanto il pareggiamento della patrum auctoritas e della lex curiata de imperio (BECKER), quanto quello della patrum auctoritas e della senatus auctoritas (WILLEMS), quanto infine il con cetto di un senato patrizio, diviso dal plebeo, che darebbe l'auctoritas e proporrebbe l'interrex (KARLOWA), per quanto sostenute con ingegno e con erudizione, siano in contrasto coi passi degli antichiautori, e collo svolgimento storico della costituzione romana. 293 cato . Più tardi nel 283 U. C. da Publilio Volerone si ottiene, che la plebe possa nominare i suoi tribuni nei proprii concilii, i quali cosi vengono ad essere legalmente riconosciuti. Come quindi con tinua ad esservi sempre un magistrato esclusivamente patrio, il qualedeve essere nominato dai patrizii delle curie, che è l'interrex; così vengono ad esservi deimagistrati, esclusivamente plebei, quali sono appunto i tribuni e gli edili della plebe, che debbono esser sempre nominati nei concilia plebis. Per quello poi, che si rife risce ai magistrati veri del popolo romano, e comuni ai due ordini, si viene ad operare una specie di divisione del potere elettorale fra i comizii centuriati, che continuano sempre a nominare i magi strati maggiori, ei comizii tributi, che finiscono per attirare a sè la nomina dei magistrati minori; di quei magistrati cioè, che un tempo erano nominati direttamente dal magistrato maggiore. Per talmodo anche qui sonvi i poteri, in cui i due ordini si confondono e si ripartono gli uffizii, ma rimangono ancor sempre le traccie del l'opposizione, che un tempo esisteva fra patriziato e plebe . Infine è ancora degno di nota in quest'argomento il processo, che i romani seguirono nella creazione dei pro-magistrati nelle pro vincie, secondo cui i magistrati di Roma, allorchè avevano terminato il proprio ufficio nella città, diventavano pro-magistrati nelle pro vincie. Per noi la cosa può sembrare singolare: ma pei romani era un processo regolare e costante, in quanto che essi, al modo stesso che avevano prese le istituzioni gentilizie e le avevano tra piantate nella città, così presero i magistrati di Roma, e li tras portarono nelle provincie, prorogandone l'imperio e chiamandoli pro-magistrati, poichè i veri magistrati dovevano essere quelli di È Dionisio, IX, 41, il quale dice, che i tribuni furono dapprima eletti nelle curie, ma in verità non si riesce a comprendere come i difensori della plebe potes sero essere eletti coll'intervento del patriziato; salvo che con ciò si voglia dire, che la plebe, per la nomina dei suoi primi tribuni, siasi raccolta nel luogo stesso, ove si riunivano le curiae. La proposta di Volerone ebbe poi grandissima importanza in quanto che è con essa, che incomincia il riconoscimento legale dei concilia plebis. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, 593.Non parmi tuttavia, che si possa far rimontare a quest'epoca l'esistenza dei comitia tributa, poichè i tribuni della plebe, anche più tardi, furono sempre nominati nei concilia plebis. Questa è una prova, che in questo periodo della costituzione politica di Roma i veri comizii del popolo romano erano i comiziï centuriati e i comizii tributi; mentre i comizii curiati erano solo più conservati auspiciorum causa, ed i concilia plebis per provvedimenti di interesse esclusivo alla plebe. 294 Roma . Veniamo ora all'esercizio del potere giudiziario nel periodo regio. 4. – L'amministrazione della giustizia, la distinzione fra ius e iudicium, e la provocatio ad populum nel periodo regio. 241. Per quello che si attiene all'amministrazione della giustizia durante il periodo regio, la questione fondamentale, intorno a cui vi ha grande divergenza fra gli autori, è quella che sta in vedere se l'esercizio della giurisdizione, cosi civile come penale, apparte nesse esclusivamente al re, oppure vi avessero anche partecipazione il senato ed il popolo. Questo è però fuori di ogni dubbio, che in questo periodo si cercherebbe indarno una delimitazione precisa fra la giurisdizione civile e la criminale, sebbeue già sianvi dei reati, che sono pubblicamente proseguiti, come si vedrà più tardi, discor. rendo del parricidium e della perduellio, e delle autorità incari cate della prosecuzione e punizione di essi (quaestores parricidii e duumviri perduellionis ). Senza pretendere di volere risolvere le gravissime questioni, che si agitano in proposito, mi limito unicamente ad osservare, che anche in questa parte la costituzione primitiva di Roma contiene il germe di tutte quelle istituzioni, che son chiamate a determinare lo svolgimento ulteriore del potere giudiziario in Roma. Queste isti tuzioni primordiali, che gli antichi fanno già rimontare al periodo regio, sono: la potestà di giudicare, che appartiene al re; la distin zione fra il ius e il iudicium, per cui, accanto al magistrato qui ius dicit, già compariscono i iudices, gli arbitri, i recuperatores in materia civile, ed i duumviri, ed i quaestores in materia crimi nale; e da ultimo l'istituto della provocatio, che col tempo sarà quello, che finirà per trasportare la giurisdizione penale dal magi strato ai comizii. Questi istituti sono in certo modo altrettanti abbozzi, che svolgendosi a poco a poco finiranno per determinare l'evoluzione del potere giudiziario, durante il periodo repubblicano. 242. Che la potestà del ius dicere sia compresa nella concezione Non occorre di notare, che qui si parla dei pro-magistrati, che dopo essere stati consoli o pretori in Roma, diventavano proconsoli o propretori nelle provincie. Cfr. in proposito MOMMSEN, Le droit public romain. Cfr. Muirhead, Histor. introd., Sect. 15, 59. 295 - sintetica del regis imperium, sebbene non esista ancora la sepa razione recisa fra la iurisdictio e l'imperium, è cosa a parer mio chenon può essere posta in dubbio. Non può quindi essere accolta l'opinione del Maynz, che quasi vorrebbe fin dal periodo regio attribuire la giurisdizione criminale al popolo . Tuttavia in pro posito occorre di rettificare un concetto, che sembra essere general mente adottato, secondo cui si vorrebbe in certo modo riconoscere nel re il potere di giudicare di qualsiasi controversia e di qualsiasi misfatto. Questo concetto ripugna col processo seguito nella forma zione della città, e dell'imperium regis. Almodo stesso, che la ci vitas non assorbi tutta la vita delle genti e delle famiglie, ma è dovuta ad una specie di selezione, che si viene operando di quelle funzioni civili, politiche e militari, che prima erano esercitate dalle singole comunanze patriarcali; così anche il potere regio venne for mandosi, mediante lente e graduate sottrazioni, che si vennero ope rando da quei poteri, che prima appartenevano ai capi di famiglia e delle genti. Di qui la conseguenza, che negli esordii dovette per lungo tempo mantenersi vigorosa, accanto al potere del re, la giu risdizione propria dei capi di famiglia e delle genti, e che per lungo tempo ancora i capi di famiglia curarono essi la prosecuzione delle proprie offese e continuarono ad essere i vindici della disciplina, che doveva essere mantenuta nelle famiglie; come lo dimostra il fatto stesso dell'Orazio, quale ci viene narrato da Livio. Tut tavia in questa progressiva formazione del potere del magistrato fu la stessa realtà dei fatti e l'intento della comunanza civile e po litica, che somministrò il concetto direttivo, che ebbe a determi narla. Questo concetto consiste in cid, che il re primitivo non si impone ai membri delle genti e delle famiglie come tali, ma bensi ai medesimi, in quanto sono quiriti, cioè in quanto partecipano alla stessa convivenza civile e politica. Quindi il re dapprima non è il custode dell'ordine delle famiglie, nè il vindice delle offese tutte, che possono patire i membri di esse; ma è il custos urbis, ed è incaricato sopratutto di provvedere al mantenimento di quelle leges publicae, che sono in certo modo la base della confederazione ci vile e politica, a cui addivennero le varie comunanze. Nel resto continuano ad essere competenti i singoli padri e capi di famiglia, V. Maynz, Introd. au cours de droit romain, n. 20, 60, ove sostiene, che anche in tema di giurisdizione criminale la sovranità appartenesse alla nazione. 296 ed anche i capi di tutti gli altri sodalizii di carattere religioso o civile (magistri): i quali, secondo il concetto primitivo, hanno giuris dizione sui membri tutti del sodalizio, come lo dimostra, fra le altre, la giurisdizione del pontefice sui sacerdozii, che da esso dipendono . Sarà quindi solo più tardi, ed a misura che nella cerchia delle mura cittadine saranno anche comprese le abitazioni private, che la giu risdizione del magistrato perderà questo suo carattere, e si potrà esten dere anche a fatti, che, quantunque compiuti fra le pareti domestiche e da persone dipendenti dall'autorità del capo di famiglia, potranno tuttavia produrre una pubblica perturbazione. 243. Di questo carattere speciale della giurisdizione, spettante al magistrato primitivo di Roma, abbiamo una prova eloquente in quella distinzione fondamentale per l'antica amministrazione della giustizia, così civile come penale, fra il ius ed il iudicium. Sono note le discussioni, che seguirono in proposito, e non mancarono anche coloro, che attribuirono la divisione stessa alla separazione, che l'ingegno sottile dei romani avrebbe tentato di fare, fin d'allora, fra il diritto ed il fatto: cosicchè il magistrato avrebbe decisa la que stione di diritto, mentre il giudice avrebbe poi applicato il diritto al fatto. Una simile distinzione non si cercò mai dai Romani, perché essi professarono sempre, che ex facto oritur ius;ma furono invece i fatti stessi e le condizioni reali, fra cui vennesi formando la città, che condussero naturalmente a questa distinzione. Pongasi infatti un centro di vita pubblica, che stia formandosi fra varie comunanze patriarcali. L'effetto, che dovrà risultare da questo stato di cose, sarà quello di produrre, fra le giurisdizioni, che con tinuano ad appartenere ai capi delle famiglie e delle genti, una giurisdizione di carattere pubblico, che appartenga al capo ed al Cfr. Maynz, op. cit., n. 20, 60, e MOMMSEN, Le droit public romain, I, 187: Magistri (scrive Festo, po magisterare), non solum doctores artium, sed etiam pagoram, societatum, vicorum, collegiorum, equitum dicuntur, unde et magi stratus (Bruns, Fontes, 341). È da vedersi a questo proposito quanto ebbi ad esporre nel lib. I, Capo V, n ° 88, 109 e nota relativa. Fra gli autori, che in questa distinzione videro in certo modo una separazione fra il diritto ed il fatto havvi il Bonjean, Traité des actions chez les Romains, Paris, 1845, vol. I, 29. Cfr. C., De exceptionibus in iure romano, 1873, 11. Di tale distinzione tratta il BuonAMICI, Storia della procedura civile romana, Pisa, 1866, I, $ 5. 297 custode della città. Di qui la conseguenza, che la questione pre liminare, che questo magistrato sarà chiamato a risolvere, ogni qual volta gli sia sottoposta un'accusa od una controversia, consisterà nel decidere, se il fatto, del quale si tratta, sia uno di quelli, che debbono essere lasciati alla giurisdizione domestica, od invece attribuiti alla giurisdizione di carattere pubblico, che a lui appartiene; come pure dovrà cercare, se al fatto, del quale si tratta, siavi qualche lex pu blica, che debba essere applicata. Se quindi, ad esempio, l'Ora zio avrà uccisa la sorella, e sarà trascinato innanzi al re in ius, la questione, che questi è chiamato a decidere, sta in vedere, se il fatto in questione debba essere lasciato alla giurisdizione del padre, che afferma che la sua figlia è stata iure caesam, o se trattisi invece di tal fatto, alla cui repressione provveda una lex publica. Ed è questa appunto la questione, che risolve Tullo Ostilio, il quale, secondo Livio: concilio populi advocato: duumviros, inquit, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem fació . Che se in vece di un misfatto si fosse trattato di una controversia di carattere civile, la questione a risolversi sarà pur sempre quella di vedere, se trattisi di un caso contemplato da una legge pubblica, e se perciò si dovrà accordare diritto di agire secondo la legge. Solo allora il magistrato gli dirà di agire secundum legem publicam: oppure più tardi, allorchè vi sarà una speciale magistratura per l'amministrazione della giustizia, questa pubblicherà nel proprio editto quali siano i casi particolari, in cui actionem dabit. Non è perciò da ammettersi il concetto per tanto tempo ricevuto, che, secondo il diritto civile romano, vi fossero dei diritti, che erano senz'azione; ma soltanto si deve dire, che il diritto in Roma si venne lentamente e gradatamente formando, e che toccava al ma gistrato di esaminare e di risolvere la questione, se in quel caso determinato dovesse, o non, essere accordata l'azione. Spettava quindi al magistrato (in iure) di decidere in ogni caso particolare, se il caso stesso fosse stato tale da richiedere, in base alle leggi, l'intervento e l'appoggio del pubblico potere: ma, una volta decisa affermativamente una tale questione, il magistrato aveva compiuto Liv., I, 26. Dalle espressioni, che Livio attribuisce a Tullo Ostilio, si ricava, che la questione, che egli si propose di risolvere, consisteva nel decidere, se vi era una legge, e quale fosse la legge, che colpiva il delitto del quale si trattava. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma, I, 317. 298 il proprio ufficio, e quindi poteva rimettere il giudizio o ai quae stores parricidii, o ai duumviri perduellionis, se trattavasi di ac cusa penale, od anche ad un iudex e perfino ai recuperatores, se trattavasi di una controversia civile, intorno a cui le parti non si fossero poste d'accordo innanzi al magistrato. Questo è certo, che già nel periodo regio vi furono queste varie maniere di giudici; ed è anzi probabile, che già esistessero i iudices selecti, il cui albo do veva probabilmente ricavarsi dal novero dei padri o senatori; come lo dimostra la testimonianza di Dionisio, ed anche il fatto, che fu così anche dopo, e che in una comunanza, che aveva ancora del patriarcale, era ovvio, che i padri fossero i naturali giudici delle controversie. È certo parimenti, che quando trattavasi di delitti ca pitali, il re doveva essere circondato da un consilium; come ap pare dal fatto, che, secondo Livio, a Tarquinio il Superbo fu mossa l'accusa che cognitiones capitalium rerum sine consiliis per se ipsum exercebat . Era poi naturale, che anche questo consilium fosse tratto dall'albo dei patres o senatori, e per tal modo abbiamo anche qui un ricordo del re patriarcale, che, circondato dagli an ziani, amministra la rozza patriarcale giustizia. Per quello poi, che si riferisce all'intervento dell'elemento popo lare nell'amministrazione della giustizia civile, sembra che il mede simo debb a attribuirsi soltanto all'epoca serviana, alla quale puo con molta verisimiglianza farsi rimontare l'istituzione del Tribunale dei centumuiri, come si vedrà a suo tempo. 244. Intanto è sempre dal modo, in cui la città si venne formando, e dall'essere essa l'organo e il centroella vita pubblica, che ven gono ad essere determinati i caratteri della procedura, che dovette essere seguita negli esordiidella città, così nei giudizii civili come nei giudizii penali. È infatti nel foro, ossia nella piazza, che deve essere amministrata giustizia, come lo dimostra il fatto, che una delle ac cuse, mossa contro Tarquinio il Superbo, fu quella appunto di essere venuto meno al tradizionale costume, amministrando giustizia nell'in terno della propria casa . Così pure si comprende come questa Il testo è citato da Livio, I, 49. Abbiamo poi Dionisio, II, 14, che dice parlando del re: de gravioribus delictis ipse cognosceret; leviora senatoribus committeret; donde si può inferire, che anche il consilium regis dovesse, trattandosi di delitti ca pitali, ricavarsi dal senato. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., 54. Liv., I, 49. 299 procedura dovesse essere orale, ed ispirarsi al concetto di una assoluta parità di condizione fra i contendenti, come quella che doveva imi tare, cosi nei giudizii civili come nei penali, quella specie di lotta e di certame, che un tempo dovette seguire fra i contendenti. Se si trat terà di un misfatto, sarà il cittadino che accuserà il cittadino e cer cherà egli stesso le prove, sovra cui si appoggia la propria accusa, e se si tratterà invece diazione civile, sarà seguita la procedura solenne dell'actio sacramento, od anche quella della iudicis postulatio. Di queste si è veduto come la prima già si era formata nella stessa tribù patriarcale: mentre un tempo essa era il modo di pro cedere del capo di famiglia contro il capo di famiglia nel seno della tribù, venne poi ad essere trapiantata nella città, unitamente alle formalità, che ricordano l'antica procedura patriarcale, e cominciò cosi ad usarsi dal quirite contro ' il quirite . La seconda poi, ossia la iudicis postulatio, fu l'effetto necessario di quella separazione del ius dal iudicium, che, come si è dimostrato più sopra, era una con seguenza del formarsi di una giurisdizione pubblica, accanto alle giurisdizioni di carattere domestico e patriarcale, in quanto che, toc cando al magistrato di risolvere la questione se in quel caso dovesse o non ammettersi un cittadino ad agire secundum legem publicam, conveniva di necessità ricorrere a lui, accid delegasse un iudex o un arbiter per la risoluzione della controversia; donde l'antica de nominazione della iudicis arbitrive postulatio . Questa conget tura ha la sua base in ciò, che all'epoca decemvirale già si trovano stabilite queste due maniere di procedura, senza che si possa deter minare, quando le medesime siano state introdotte. Cotali procedure tuttavia, passando dai rapporti fra capi di famiglia, pressochè indi pendenti e sovrani, ai rapporti fra i cittadini di una medesima città, hanno già cessato di essere semplici actiones, e sono diventate legis actiones, in quanto che sono altrettanti modi riconosciuti dalla legge pubblica per far valere in giudizio le proprie ragioni. 245. Soltanto più ci resta a discorrere di una istituzione, che era Quanto all'origine gentilizia e alla naturale formazione dell'actio sacramento vedasi sopra lib. I, n. 104. La iudicis arbitrive postulatio è ricordata da Gaio, come una delle più antiche legis actiones, Comm. IV, 12, sebbene poi il manoscritto di Verona sia stato il. leggibile nella parte, che vi si riferisce. V. quanto alla medesima il Murhead, Hist. introd., Sect. 35, 197, e il BuonamiCI, Storia della procedura civile romana. I, Cap. VII, 43 a 57. 300 poi chiamata a ricevere una larga applicazione, durante il periodo repubblicano, e che è indicata colla denominazione di provocatio ad populum. Si dubita dagli scrittori, se questa istituzione già potesse esistere fin dal periodo regio, ed alcuni lo negano, perchè ritengono, che in questo periodo le funzioni del popolo si riducessero esclusivamente a quelle, che il re credeva di dovergli affidare. Per parte nostra, di fronte alla testimonianza di Cicerone, che, augure egli stesso, ebbe a dire, che della provocatio ad populum parlavano i libri pontificii e gli augurali, il dubbio non dovrebbe più presentarsi . Quanto alle considerazioni desunte dagli stretti confini della populi potestas, durante il periodo regio, ed anche dalla narrazione di Livio, che nel caso dell'Orazio parla di una provocatio ad populum, accordata da Tullo clemente legis interprete , parmi che esse non possano condurre ad escludere un diritto di provocatio ad populum, che in effetto sarebbe stato invocato e fu fatto valere dallo stesso Orazio. Pud darsi, che in quel caso particolare potessero esservi dei motivi per dubitare, se dovesse o non essere ammessa. Ma se l'Orazio vi ricorre, egli lo fa in base ad una consuetudine, le cui origini dovevano rimon tare ad un'epoca anteriore. Si aggiunge, come appare dalle cose premesse, che la costituzione primitiva di Roma dovette essere più liberale negli inizii, quando vi era un populus, tutto composto di padri uguali fra di loro e consapevoli del proprio diritto, che non posteriormente, allorchè il populus cominciò ad essere composto di due classi disuguali fra di loro, cioè del patriziato, che era il populus primitivo, e della plebe; di una classe dirigente e di una classe, che trovavasi in posizione inferiore. In base ad una tale costituzione primitiva, secondo cui la populi potestas era la sorgente di tutti i pubblici poteri ed anche del regis imperium, veniva ad essere naturale e logico, che se il ius dicere apparteneva al re, il con dannato dovesse poter ricorrere in appello al potere supremo che era il popolo, mediante la provocatio. Per verità di questo diritto alla provocatio fa cenno la stessa lex horrendi criminis, i cui termini ci furono conservati da Livio duumviri perduellionem iudicent: si a duumviris provocarit, provocatione certato . Era poi naturale, che questa provocatio, al pari dell'azione e del giudizio, venisse a canıbiarsi in quella specie di certame o di combattimento Cic., De Rep., II, 35: Provocationem etiam a regibus fuisse, declarant pon tificii libri, significant nostri etiam augurales , 301 legale, che viene appunto ad essere descritto da Livio, a proposito del giudizio dell'Orazio, in quanto che ogni procedura patriarcale prende naturalmente questo carattere. I duumviri, che avevano pronunziata la condanna, dovevano essi sostenere l'accusa davanti all'assemblea del populus. Eravi cosi una specie di certamen fra essi e l'accusato, che simboleggiava quel combattimento vivo e reale, che un tempo aveva dovuto effettivamente seguire. Che anzi, già fin d'al lora, il populus, trattandosi di reato di carattere politico, quale era la perduellio, poteva anche passare sopra alla questione puramente giuridica, per giudicare invece ex animi sententia, e assolvere, come avrebbe fatto nel caso speciale dell'Orazio, admirationemagis virtutis, quam iure causae . Vero è, che posteriormente nel primo anno della repubblica tro viamo una legge Valeria Orazia de provocatione, che riconobbe solennemente al popolo questo suo diritto, il quale fu anzi conside rato come il palladio della libertà del cittadino romano (unicum praesidium libertatis); ma allora le circostanze erano cambiate, perchè il populus non comprendeva solo più i patres e i patricii, ma anche la plebs, e quindi volevasi una legge, che accomunasse e consacrasse una istituzione, forse solo consuetudinaria, a tutto il nuovo populus quiritium, comprendendo in esso anche la plebe. 246. Intanto è evidente la influenza, che questa istituzione della provocatio ad populum, solennemente consacrata, doveva esercitare sul futuro svolgimento della giurisdizione criminale, in quanto che essa doveva condurre al risultato di trattenere il magistrato dal pronunziare una condanna, da cui poteva esservi appello al popolo, e trasportare cosi in definitiva la giurisdizione criminale dal magistrato al popolo. Tuttavia anche qui lo svolgimento regolare e graduato ebbe ad essere per qualche tempo interrotto, allorchè i tribuni della plebe presero a portare accuse contro i patrizii avversi alla plebe, e contro i consoli uscenti di ufficio davanti ai concilia plebis. Fu Liv., I, 26. Non potrei quindi ammettere l'opinione del KarlowA, Röm. R. G., 53 e segg., il quale, argomentando da ciò, che le leggi Valeriae Horatiae avrebbero introdotta la provocatio ad populum, vorrebbe inferirne, che questa sotto i re non esistesse che per la perduellio. CICERONE parla di provocatio in genere, e quindi non vi ha motivo di restringerla, ma vuolsi ammetterla in genere per i reati a quella epoca puniti di pena capitale, cioè tanto per la perduellio, quanto per il parricidium. 302 allora, che la legislazione decemvirale ebbe a stabilire il principio che soltanto i comizii centuriati potessero pronunziare una condanna capitale. Ciò però non impedisce, che i tribuni della plebe conti nuino ancora ad eserc itare il proprio diritto di accusa, sopratutto per i delitti di carattere politico, e per quelli che sono puniti di sole pene pecuniarie. Di qui deriva la conseguenza, che anche quanto alla giurisdizione criminale viene a ripartirsi il compito fra i comizii centuriati, che giudicano dei delitti capitali, e dd i comizii tributi, che giudicano dei delitti, che debbono essere puniti con pene pecuniarie, finchè l'incremento della città ed anche dei delitti perseguiti per legge non renderà necessario di ricorrere alla istituzione delle quaestiones perpetuae, ossia di tribunali speciali per giudicare delle diverse categorie di delitti . Parmi con ciò di aver abbastanza dimostrato non solo l'unità e la coerenza della primitiva costituzione patrizia; ma di aver provato eziandio, come essa debba essere considerata come il modello e l'esem plare, sovra cui si foggiò tuttoil posteriore svolgimento delle istituzioni politiche diRoma. Essa fu tale dameritarsi il grande elogio diCicerone, allorchè scriveva, che la costituzione politica di Roma formatasi non unius ingenio, sed multorum, nec una hominis vita, sed aliquot saeculis et aetatibus , era tuttavia riuscita superiore in eccellenza alle costituzioni greche, che erano l'opera meditata dei filosofi e dei sapienti. L'opera collettiva di un popolo, proseguita con logica tenace e coerente, e accomodata ai tempi, riusciva per talmodo superiore all'opera individuale dei più grandi ingegni del l'umanità: nam, dice lo stesso Cicerone, facendo intervenire Sci pione, neque ullum ingenium tantum exstitisse dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam aliquando fuisset; neque cuncta in genia, conlata in unum, tantum posse uno tempore providere, ut omnia complecterentur, sine rerum usu ac vetustate. Veniamo ora alle leges regiae. Cic., De leg. 3, 4: De capite civis nisi per maximum comitiatum ne fe runto , disposizione questa, attribuita alla legislazionedecemvirale, la quale mirava con ciò ad impedire, che le cause capitali contro i patrizii e contro i consoli fossero dai tribuni della plebe recate innanzi ai concilia plebis. Cfr. Esmein, Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia, de adulteriis, nei Mélanges d'histoire du droit, Paris, 1886, 71 et suiv. Cic., De Rep., II, 1. La legislazione regia durante il periodo esclusivamente patrizio. $ Del contributo delle varie stirpi italiche alla primitiva legislazione di Roma. 247. Dal momento che a costituire la città patrizia concorsero comunanze, le quali erano di origine diversa, era naturale, che, anche esistendo una certa analogia fra le loro istituzioni, non potesse perd esservi una identità perfetta fra le medesime. È quindi evidente, che col partecipare di diverse stirpi alla medesima città dovette ope rarsi fra di loro una assimilazione lenta e graduata delle loro isti tuzioni giuridiche. Che anzi, a questo proposito, un recente autore, a cui deve assai la ricostruzione del diritto primitivo di Roma, il Muirhead, andrebbe fino a dire, che le varie stirpi, come recarono un diverso contributo alla costituzione politica di Roma, cosi deb bono pure aver portato un contributo diverso alla formazione del diritto privato di Roma; contributo, che egli cercherebbe di riassu mere nei seguenti termini: La patria potestas spinta fino al ius vitae et necis sulla figliuolanza; la manus ed il potere del marito sulla moglie; il concetto per cui maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi il diritto, sarebbe dovuto all'influenza latina: Le cerimonie religiose invece, che accom pagnano il matrimonio, il riconoscimento della moglie, quale padrona della casa e partecipe delle cure religiose e domestiche; il consiglio di famiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii necessarii per il riposo delle loro anime, sarebbero evidentemente uscite da un diverso ordine di idee, e sarebbero perciò a ritenersi di provenienza sabina. - Quanto all'influenza etrusca non si sarebbe sentita che ad una data più recente;ma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata . Non può certam ma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata . Non può certamma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata . Non può certamente negarsi, che la ricostruzione dell'in signe giureconsulto appare come una verosimile congettura, quale del resto è annunciata dallo stesso autore. Alla sua mente acutanon poteva sfuggire la stretta attinenza, che dovette esservi fra il diritto pubblico e il privato nello svolgimento delle primitive istitu zioni: e ciò lo condusse a questa ripartizione di parti, che pure si appoggia al carattere e alle opere, che la tradizione attribuisce ai re, che provengono dalle varie stirpi. Tuttavia, con tutta la reverenza all'opinione di un insigne, crederei che questa ricostruzione del diritto primitivo di Roma non possa essere accettata, neppure come ipotesi e congettura, perchè è in contraddizione col modo, in cui Roma e il suo diritto si vennero formando, e colle tradizioni, che a noi pervennero. 248. Non credo anzitutto, che la costituzione, anche politica di Roma, possa considerarsi in certo modo come una composizione di elementi diversi recati da questa o da quella stirpe. In proposito ho cercato di dimostrare che l'ossatura della città primitiva fu essen zialmente latina, e che, al pari delle altre città latine, Roma usci da un foedus, ossia dall'accordo di varie tribù per partecipare ad una stessa comunanza civile e politica. Quindi è che gli elementi, che sopravvennero, entrarono tutti nei quadri della città latina, la quale fu anzi concepita sopra un'unità cosi organica e coerente, che non può essere riguardata, come il frutto del contemperamento di ele menti diversi . Re, senato e popolo esistono fin dagli esordii di Roma, e a misura che nuovi elementi si aggiungono, il re potrà sce MUIRHEAD, Historical introduction to the private law of Rome, Edinburgh. 1886, 4. In questa parte divido perfettamente l'idea del MOMMSEN, che condanna l'opi nione di coloro che han voluto trasformare il popolo, che ha dimostrato nella sua lingua, nella sua politica e nella sua religione uno sviluppo così semplice e naturale, in uno amalgamarsi confuso di orde etrusche, sabine, elleniche e perfino pelasgiche . A suo avviso sono i Ramnenses, di origine latina, che non solo fondarono e diedero il proprio nome alle città, ma che posero eziandio quelle linee primitive, in cui entra rono poi tutte le istituzioni, che furono assimilate più tardi Histoire Romaine, I, liv. I, Chap. 4, 54. Questa opinione, fra gli autori recenti, è pur sostenuta dal Pelham, Encyclopedia Britannica, XX, vº Rome (ancient), ove rinviene in Roma tutti i caratteri di una città latina. 305 gliersi da un'altra stirpe, il numero dei senatori e dei cavalieri potrà essere aumentato, e potranno anche accrescersi i coll egi sacerdotali, ma l'ossatura primitiva sarà sempre conservata. Vero è che un re sabino, cioè Numa, secondo la tradizione, fu organizzatore del culto e del collegio dei pontefici, ma auspicii e cerimonie religiose ed au gurali sono già attribuite allo stesso Romolo; nè tutto ciò, che si riferisce all'organizzazione domestica, può ritenersi di origine sabina, dal momento che già una legge, attribuita a Romolo, riguarda il matrimonio per confarreationem. Lo stesso è a dirsi del tribunale domestico e della tendenza delle famiglie a perpetuarsi, che il Mui rhead vorrebbe pur ritenere di origine sabina, mentre ne troviamo le traccie in tutti i popoli di origine Aria, e in tutti quelli parimenti, che hanno attraversato lo stadio dell'organizzazione patriarcale. Cid pure deve dirsi del cerimoniale esteriore e dell'uso di parole so lenni nei contratti e negli atti, che il Muirhead attribuirebbe alla in fluenza etrusca, poichè, se stiamo alla tradizione, questo cerimoniale esteriore rimonta alla fondazione stessa della città, e quindi sarebbe anteriore all'epoca, in cui, secondo il Muirhead, si sarebbe comin ciata a sentire l'influenza etrusca. Si aggiunge, che le solennità di parole, di atti e di gesti non sono anch'esse un privilegio di questa o di quella stirpe; ma sono comuni a tutti i popoli, che attraver sarono l'organizzazione gentilizia, e trovano anzi, come si è dimo strato, una causa naturale in ciò, che in questa condizione di cose, gli atti ed i contratti, seguendo in certo modo, non fra individui, ma fra capi di gruppo, acquistano una solennità, che ora direbbesi internazionale, la quale si conserva poi eziandio negli inizii della co munanza civile e politica. Infine non pud neppure affermarsi, che quella serie di istituzioni, che mette capo al concetto, che il diritto scaturisce dalla forza, debba considerarsi come di provenienza latina, in quanto che questo concetto deriva piuttosto dall'attitudine emi nentemente guerriera, che prende il populus romanus quiritium Dion. II, 25 (BRUNS, Fontes, 6 ). Che questo sia un carattere comune a tutti i popoli, che trovansi nell'orga nizzazione patriarcale, o che escono dalla medesima, è stato dimostrato dal SUMNER MAINe, nelle varie opere sue, e di recente dal Leist, Graeco-italische Rechtsge schichte. Jena, 1885. Io stesso credo di averne data la prova nell'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, lib. I e II, seguendo le migrazioni delle genti Arie, e dimostrando come esse abbiano trapiantato nell'Occidente quelle istituzioni, che avevano preparato nell'Oriente) nelle sue origini, attitudine che è comune a tutte le stirpi, che lo costituiscono; come lo dimostra il fatto, che vi hanno genti di origine sabina (come, ad es., la Claudia ), ed altre di origine etrusca (come la Tarquinia), le quali appariscono non meno amiche della forza, e fino anche della prepotenza, di quelle di origine veramente latina, alle quali appartengono di regola le genti, che come la Valeria, appariscono nelle tradizioni più favorevoli alla plebe, e più disposte ad equi e a miti consigli. 249. Del resto non è un esame delle singole affermazioni del Muirhead, che io qui intendo di fare; ma piuttosto dalle cose pre messe intendo inferire, che, trattandosi di genti, che probabilmente erano tutte di origine Aria, e si trovavano pressochè nel medesimo stadio di organizzazione sociale, le istituzioni fondamentali del di ritto privato, salvo le divergenze nei particolari minuti, dovevano essere essenzialmente comuni alle varie stirpi. Tutte avevano isti tuzioni, in cui prevaleva il carattere religioso; tutte compievano i loro atti con solennità e cerimonie esteriori, che richiamavano un precedente periodo di organizzazione sociale; e tutte possedevano l'organizzazione patriarcale della famiglia, e gli istituti della gente, della clientela e della tribù. Cið tutto si può affermare con certezza, dal momento, che questi caratteri sono comuni al diritto primitivo, quale ebbe a modellarsi nell'Oriente, durante il periodo, chepotrebbe chiamarsi della comunanza del villaggio. La stirpe tuttavia, che diede il primo modello, in cui furono poi fuse le istituzioni analoghe, che erano già possedute dalle varie genti, fu anche, quanto al diritto privato, la stirpe latina, la quale appare come fondatrice della città; il che punto non tolse, che, stante il comporsi dei varii elementi, si allargasse poi il concetto della divinità, patrona comune della città, e si ammettessero man mano anche istituzioniproprie di altre stirpi, ma sempre foggiandole, come Roma fece anche più tardi, sul l'impronta latina. Che anzi credo perfino di dover affermare, che quella potenza di assimilazione, che contraddistingue Roma, appena compare, deve sopratutto ritenersi propria alla stirpe latina, da cui Roma ebbe la sua prima origine. Per verità, anche prima della fondazione di Roma, le popolazioni latine erano quelle, che avevano già mag giormente svolto il concetto di federazione, e che perciò si di mostravano anche meno esclusive, e perfino anche più favorevoli alle plebi, e più disposte a ricevere altri elementi nel proprio seno, - 307 e ad apprendere in conseguenza anche dalle istituzioni degli altri popoli. Ciò è tanto vero, che nella storia primitiva di Roma l'ele mento etrusco fu dapprima tenuto in più basso stato, e più tardi, quando diventò potente ed aspird alla tirannide, ne fu cacciato ed espulso; l'elemento sabino fu quello, che, essendo ancora più tena cemente vincolato nell'organizzazione gentilizia, si dimostrò il più esclusivo e il meno favorevole alle plebi; mentre invece l'elemento latino fu quello che, dopo essere stato il primo a modellare la città, entrò anche dopo in copia maggiore a riempire tanto i quadri della città patrizia, quanto le file di quella plebe operosa e battagliera, che ebbe tanta parte nella grandezza di Roma. Una prova di ciò pud ravvisarsi nel fatto, che Roma, elevandosi gigante fra le altre co munanze italiche, combattè ad oltranza cogli Etruschi, coi Sabellici e coi Sanniti, e non si arrestd finchè ebbe quasi cancellata ogni traccia di loro civiltà; mentre quanto ad Alba, la considerò come sua madre patria, e anzichè estinguerla e soffocarla, dopo averla vinta, pre feri di accoglierne il patriziato e la plebe, e di essere erede della medesima, continuando quel processo nell'organizzazione sociale, che da essa erasi iniziato. Fra Roma da una parte e l'Etruria e la Sabina dall'altra, vi fu pressochè una guerra di sterminio, sopratutto fra le due prime, mentre fra Roma e il Lazio vi fu soltanto una lotta di precedenza; perchè due città foggiate sullo stesso modello, come Roma ed Alba, non potevano coesistere l'una in prossimità dell'altra. La questione dell'origine di Roma e dell'organizzazione, da cui essa prese le mosse, forma tuttora argomento di discussioni fra gli eruditi. Fra gli altri il PAN TALEONI, Storia civ. e costituz. di Roma, I, nei primiquattro capitoli, e nella 1a appen dice aggiunta in fondo del volume, avrebbe sostenuta l'origine sabellica di Roma e di quella organizzazione patriarcale, di cui essa ritiene ancora le traccie, cosicchè per esso anche i Ramnenses sarebbero Sabellici, mentre la plebe sarebbe da lui ritenuta di ori gine latina, poichè, a suo avviso, le popolazioni latine già erano maggiormente use alla vita della città. Credo di aver abbastanza dimostrato, che Roma primitiva si formò sul modello latino, e che nelle stesse città latine già eravi la distinzione fra patriziato e plebe, e quindi non sembrami che la dottrina certo grande dell'autore possa far preva lere un'opinione,che contraddice a tutte le testimonianze degli storici e alle tradizioni stesse del popolo romano circa le proprie origini. Di recente poi il Casati in una nota letta alla Académie des inscriptions et de belles lettres di Parigi, nell'ottobre del 1886, sostenne che la gens fosse di origine Etrusca. Anche questi nuovi studii mi confermano nella conclusione: che l'organizzazione gentilizia sia stata un tempo comune a queste varie stirpi, e che, all'epoca della formazione di Roma, la stirpe - 308 250. Del resto la causa di questa divergenza col Muirhead ed il motivo, per cui ritenni di dover qui combattere la sua teoria, devono essere cercati in un'altra divergenza ben più grave, che sta nel modo diverso di comprendere e di spiegare la primitiva formazione di Roma. Per il Muirhead (ancorchè, a mio avviso, egli sia fra gli autori re centi uno di quelli, che ha posto meglio in vista il contributo diverso recato alla formazione del diritto Romano, dal patriziato e dalla plebe), la città di Roma continua ancor sempre ad essere il frutto dell'unione di genti appartenenti alle stirpi latina, sabina ed etrusca, ed è ancora questo il concetto, che egli pone a fondamento della sua ricostruzione del diritto primitivo di Roma. Era naturale quindi che, fondendosi ed incorporandosi le varie stirpi, ciascuna dovesse recare il proprio contributo, anche alla formazione di un comune diritto, e che egli cercasse di discernere in questa composizione la parte, che a ciascuna stirpe dovesse essere attribuita. Ben è vero, che alcune volte egli si trova imbarazzato del fatto, che il diritto quiritario primitivo si presenta del tutto insufficiente a governare tutti i rapporti di una comunanza anche primitiva, e lascia senza norma una quantità di relazioni, che dovevano già certamente esi stere: ma intanto il punto suo di partenza gli impedisce pur sempre di spiegare come ciò abbia potutoaccadere. Che se invece si ammetta, come ho cercato di dimostrare, che Roma è una città formata sul modello della città latina, e che essa, uscita dalla federazione e dall'accordo, costituisce dapprima un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze di villaggio, in allora Sabellica non avesse ancora superata tale organizzazione, ma le avesse dato il mag. giore svolgimento, di cui era capace, come lo dimostrano le genti Claudia e Fabia: che la stirpe Latina fosse invece già p ervenuta al concetto della città federale; e che da ultimo l'Etrusca fosse già pervenuta alla città, che potrebbe chiamarsi corpora tiva. Roma partì dal tipo latino e quindisi costitui fin dapprincipio in un centro di federazione: poi sotto l'influenza etrusca diventò anche una città unificata; ma serbò tuttavia anche in seguito il carattere latino, per guisa che cambiossi in certo modo in un centro di vita pnbblica del mondo allora conosciuto. Tale difficoltà occorre al MUIRHEAD, per esempio, allorchè a 50 parla del. l'opinione di coloro, che sostengono che Roma non conoscesse dapprima che la pro prietà degli immobili, ed anche a 54, ove, parlando dei delitti e delle pene, trova non parlarsi di delitti, che non potevanomancare anche in una città primitiva. Questi fatti invece sono facilmente spiegati, se si ammette la formazione progressiva e gra duata, così della città, come del suo diritto civile e criminale, non che della giuri sdizione spettante ai suoi magistrati. sarà facile il comprendere come, nella formazione del suo diritto pub blico e privato, Roma, dopo aver preso lemosse da quelle istituzioni di origine latina, che potevano già confarsi colla comunanza civile e politica, sia poi venuta lentamente assimilando tutte le istituzioni, che già si erano formate nel periodo gentilizio, anche presso le altre stirpi, quando le medesime potessero conciliarsi coll'impronta primi. tiva, che essa aveva data al suo diritto. Questo è stato certo il me todo, che Roma seguì anche più tardi nella trasformazione del suo diritto privato; nè, conoscendo ormai per prova la sua costanza nei processi seguiti, possiamo averemotivo di dubitare, che essa abbia dovuto esordire nella stessa guisa. 2. Della esistenza di vere e proprie leggi (leges rogatae) durante il periodo regio.Intanto questo modo di considerare la formazione di Roma e del suo diritto mi conduce ad apprezzare la legislazione primitiva di Roma in guisa diversa da quella, che suole essere generalmente adot tata dalla critica, e ad accostarsi invece a quella, che, ci verrebbe ad essere indicata dalla tradizione. Mentre la critica infatti, dopo aver resi leggendari i re, nega pressochè ogni fede alla legislazione, che suol essere indicata col nome di regia, e la riduce esclusiva mente ad essere opera dei collegi sacerdotali, o a semplice raccolta di consuetudini e di tradizioni anteriori, la tradizione invece ci dipinge il periodo regio, anteriore anche a Servio Tullio, come un periodo di grande attività legislatrice. Or bene, a mio avviso, si deve andare a rilento nel respingere in questa parte il racconto della tradizione. Se la città latina in genere, e Roma sopra tutte le altre, fu dapprima un organo di vita pubblica fra comunanze, in cui continuavasi la vita domestica e patriarcale, viene ad essere evidente, che come la città fu il frutto di una specie di selezione, cosi dovette pur essere del diritto, che governo i primi rapporti fra i membri della mede sima. Le esigenze della vita civile e politica sono diverse da quelle di una vita di carattere patriarcale: quindi se questa poteva som ministrare i concetti religiosi, morali ed anche giuridici, già prima elaborati, questi però non potevano essere trasportati tali e quali, ma dovevano subire un lavoro di scelta e di coordinamento, ed è questo appunto, che dovette compiersi durante il periodo regio. Ne ripugna il credere, che ciò siasi potuto fare, dal momento, che si è 310 abbastanza dimostrato, come le genti, che fondavano la città, erano lungi dall'essere del tutto primitive, ma avevano una suppellettile copiosa di concetti e di tradizioni, che già si erano prima formati. Esse non erano più nello stadio della primitiva formazione del di ritto: ma erano già in quello della elaborazione e dell'adattamento di un diritto già formato alle esigenze della vita cittadina. Ammet tasi, che in parte siano leggendarie le figure dei primi re; ma questo è certo che, leggendarii o no, essi dovettero sottostare alla neces sità di quella convivenza, di cui erano i capi, e quindi dare opera vigorosa a quella selezione ed unificazione legislativa, che era il più urgente bisogno per una città, che risultava di elementi diversi. Conviene aver presente, che la città in genere e sopratutto Roma, (che fra le genti italiche fu forse la prima ad iniziare il processo di accogliere persone di discendenza diversa a partecipare alla stessa vita pubblica ), si presentava come una istituzione novella, destinata ad un grande avvenire. Era mediante la città, che l'uomo o meglio il capo di famiglia cominciava ad essere qualche cosa, anche fuori della propria famiglia o gente, e quindi non è punto a maravigliare, se un senso pubblico energico e potente abbia potuto penetrare re, senato, sacerdoti e popolo. Quelsenso di devozione e di abnegazione, di cui diedero prova più tardi le grandi famiglie plebee, allorchè giunsero finalmente ad essere ammesse come eguali nella città, do vette dapprima essere provato dagli uomini, usciti dalle genti patrizie, allorchè sentirono di costituire un populus, malgrado la loro ori gine diversa: e quindi non è punto probabile, che essi abbiano dovuto mantenersi del tutto estranei alla elaborazione di quel diritto, che doveva governarli, e che tutto lasciassero ai collegi sacerdotali ed al re loro capo. Se essi eleggevano il re e per tale elezione si ra dunavano nei comizii, non si comprende veramente come essi abbiano potuto essere affatto esclusi dall'opera legislativa, che era una con seguenza inevitabile della formazione della città. L'opinione, qui combattuta, posta innanzi dal DIRKSEN, Die Quellen des röm misches Rechts, Leipzig, 1823, 234 e segg., in un'epoca, in cui tutta la storia primitiva di Roma erasi convertita in una specie di leggenda, trova ancora oggidi molti seguaci. Basti annoverare, tra i recenti, il PANTALEONI, op. cit., 309; il KARLOWA, Röm. R. G., 52,ed anche il Murrhead, Hist. Introd., 20. L'ar gomento da questi due ultimi invocato consiste sopratutto nella nota espressione di Livio: vocata ad concilium multitudine, quae coalescere in populi unius corpus, nulla re, praeterquam legibus, poterat, iura dedit . Essi argomentano dal iura 311 252. A ciò si aggiunge che in una piccola comunanza, formata da persone, che poco prima ancora vivevano patriarcalmente, do vette essere frequente e quotidiano il contatto fra elementi, che ora a noi appariscono grandiosi per l'età remota e per il grande avve nire, che ebbero di poi. È quindi assai probabile, che i rapporti fra re, padri, pontefici, auguri e popolo fossero continui, e che perciò potesse anche formarsi una specie di pubblica opinione in torno a ciò, che potesse esservi di comune interesse per una città, che era uscita dalla volontà comune, e che era la creazione di tutti. Senza voler sostenere che le concioni, da Livio e Dionisio attribuite ai personaggi della loro storia, siano state veramente quelle, non è però inverosimile, che concioni siansi veramente fatte, e che in tutti i casi, in cui trattavasi di qualche pubblico interesse, potesse vera mente accadere, che i padri intervenissero fra il popolo ed anche fra la plebe, e interponessero nei rapporti quotidiani un'autorità di persuasione, non dissimile da quella, che entrò a far parte sostan ziale della costituzione primitiva di Roma, sotto il nome appunto di patrum auctoritas. Se il rispetto, che quegli uomini avevano per l'età, e la loro disciplina domestica spiegano la solennità, con cui essi votavano nei comizii, e il loro limitarsi a rispondere, appro vando o negando; non possono però escludere, che quelle discussioni, che erano inopportune al momento della votazione, potessero anche essere indispensabili e frequenti in seno ad un popolo, che senti con tanta energia la vita pubblica, e l'influenza della medesima. Il popolo romano, fin dalle proprie origini, non fu un popolo nè di asceti, nè di anacoreti, che seguissero una regola conventuale: ma fu un popolo, i cui membri appresero ben presto a dire la verità nella vita pub blica, quantunque i suoi membri continuassero ad essere ligii ed ossequenti all'autorità del padre nella vita domestica. dedit, adoperato invece di iura tulit; ma è facile il notare, che le espressioni di iura dare et accipere sono talvolta sinonime di quelle di iura ferre, come lo dimostra fra gli altri Aulo GELLIO, XV, 28, 4, che deffinisce i plebiscita quae, tribunis plebis ferentibus, accepta sunt. Si aggiunge che Livio in quello stesso passo insiste sulla necessità di vere leggi per incorporare elementi eterogenei e diversi, e usa quel vo cabolo di legge, che pei Romani significò sempre un provvedimento proposto dal magistrato e accettato dal popolo. Ad ogni modo questa proposizione si riferisce an cora all'epoca anteriore alla confederazione coi Sabini, e quindi, trattandosi ancora del capo patriarcale di una tribu militare, si comprende che egli potesse iura dare; mentre si dovettero richiedere vere leges rogatae, allorchè le varie tribù entrarono a partecipare alla medesima città. La loro caratteristica prevalente non è nè la religiosità, né l'indole guerriera, ma piuttosto quell'equilibrio e contemperamento di facoltà umane, in cui consiste il senso giuridico e politico. La qualità, che prepondera in essi fra le facoltà affettive, è la volontà pertinace, costante, e fra le facoltà intellettuali è una logica, che analizza con un acume senza pari i varii elementi dell'atto umano, e che quando ha afferrato un concetto non lo abbandona, finchè non abbia dato tutto cid, che da esso può ricavarsi; due qualità queste, l'una pratica e l'altra teorica, che si corrispondono perfettamente fra di loro, e che spiegano come la storia giuridica e politica di Roma si riduca all'applicazione costante delmedesimo processo, che inizia tosi con essa, non fu più abbandonato fino alla completa formazione del diritto pubblico e privato di Roma. Di qui la conseguenza, che tanto nella politica, quanto nel diritto,Romanon procedette maiper semplice agglomerazione ed incorporazione, ma per selezione, cosicchè apprese da tutte le genti, ma accettò solo queimateriali, che potevano entrare nei quadri del proprio edificio. Roma nella storia dell'umanità rap presenta, per cosi esprimersi, un crogiuolo, in cui sono gettate tutte le istituzioni anteriori del periodo gentilizio, e quelle che fu rono poi da essa rinvenute presso gli altri popoli conquistati, nel l'intento di isolare dagli altri elementi della vita sociale l'elemento giuridico e politico, e questa selezione e questo isolamento essa cominciò ad operare fin dai proprii esordii. Credo quindi che per comprendere Roma primitiva convenga guardarsi dall'esagerare quella, che suole essere chiamata, la reli giosità del popolo romano. Non è già che possa negarsi ai Romani un sentimento profondamente religioso; ma essi non si trovano punto sotto il dominio di quel terrore superstizioso della divinità, che soffoca l'operosità umana; ma scorgono in essa una potenza, la quale invocata e resa benevola con determinati riti, doveva condurre il popolo romano ad insperata grandezza. Si aggiunge, che questa carattere religioso, finchè Roma fu esclusivamente patrizia, era co mune a tutti i membri del populus, i quali tuttiavevano un culto da perpetuare e tradizioni da conservare. Non era quindi possibile fra essi la formazione di una classe esclusivamente sacerdotale, che con ducesse al risultato, a cui si giunse in Oriente, di fare preponderare per modo l'elemento religioso da soffocare affatto l'elemento politico e il giuridico. Quanto alla differenza, sotto il punto di vista religioso, fra le razze Arie del 313 A questo proposito pertanto è opportuno di tener distinti eziandio due periodi in Roma primitiva: quello cioè di Roma esclusivamente patrizia, in cui ci troviamo di fronte ad un popolo, i cui membri, uscendo dalle genti patrizie, conoscono tutti i riti, gli auspizii e le cerimonie religiose, e se ne servono nell'interesse comune; e quello invece, in cui fu ammessa anche la plebe alla cittadinanza. In questo secondo periodo infatti il populus viene a comprendere due classi: l'una, poco numerosa, ricca di tradizioni, dotta nelle cose reli giose, esperta nelle civili e politiche; e l'altra, che ha per sè il nu mero e la forza, ma che è nuova alla vita civile, priva di tradizioni, e si trova nella necessità di ricevere modellato e formato il proprio diritto dall'ordine patrizio. È solo in questo secondo periodo, che la conoscenza degli auspicia e delius viene a cambiarsi in un ti tolo e in un mezzo di superiorità per il patriziato, il quale se ne vale per tenere in rispetto e in riverenza le masse. È solo allora che il diritto, le cui origini erano già celate nell'oscurità dei tempi, e le cui formalità erano già divenute inesplicabili per la generalità dei cittadini, viene ad essere chiuso negli archivii dei pontefici, che sono in certo modo incaricati della custodia e della elaborazione di esso; mentre quest'arcano e questa segretezza non poterono certo esi stere negli esordii della città, allorchè la conoscenza del diritto e degli auspizii era ancora comune a tutti i capi di famiglia. Cid mi induce a credere, che la parte da attribuirsi al populus, nella formazione del diritto primitivo di Roma, sia maggiore di quella, che suole generalmente essergli assegnata; ma per riuscire in qualche modo a determinarla, importa ricercare anzitutto la funzione, a cui furono chiamati i collegii sacerdotali in Roma primitiva, quanto alla formazione del diritto. l'India e quelle trasportatesi nell'Occidente, mirimetto ai concetti svolti nell'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale , 92, n ° 33, e agli autori, che ivi sono citati. Vedasi a questo proposito il MACHIAVELLI, Discorsi sulle deche di Tito Livio, Libro I, Cap. XI, XII, XIII e XIV, e il MONTESQUIEU, Dissertation sur la politique des Romains dans la religion. 314 $ 3. – I collegii sacerdotali in Roma e la loro influenza sulla formazione del diritto primitivo. La caratteristica di Roma è una mirabile coerenza nel pro cesso, che essa ebbe a seguire nei diversi aspetti della propria for mazione. Si può quindi essere certi che come la città fu il frutto di una selezione della cosa pubblica dalla privata, cosi anche la re ligione pubblica di Roma non potè essere il frutto dell'agglomera zione dei culti e delle credenze proprie delle varie genti; ma fu an ch'essa il risultato di una selezione, per cui, mentre le singole genti e tribù continuarono nel proprio culto gentilizio, vennesi formando nella città un culto pubblico, il quale alla sua volta assunse poi una doppia forma, quella cioè di culto pubblico ed ufficiale (sacra pu blica ), e di culto popolare (sacra popularia ). Ciò è dimostrato dal fatto, che fra la quantità degli Dei riconosciuti dai Romani, quelli al cui culto intendono i flamini maggiori sono Marte, Quirino e Giove, di cui il primo, secondo la tradizione, è il padre del fondatore, l'altro il fondatore stesso della città, e l'ultimo infine sembra talvolta con fondersi coll'antica divinità italica di Giano, rivestita alla Greca. Intanto una pubblica religione richiedeva pure un pubblico sacerdozio. Questo concentrasi dapprima nello stesso re, il quale è augure sommo e pontefice massimo; ma poscia il re stesso, pur conservando gli auspicia del magistrato supremo, costituisce intorno a sè dei collegii sacerdotali, i quali hanno un carattere del tutto peculiare, in quanto che essi non hanno un compito esclusivamente religioso,ma anche una vera importanza civile e politica. Cotali sono sopratutto gli auguri, i feziali e i pontefici, i quali,mentre hanno un carattere sacerdotale, che dà un'aureola religiosa al loro ufficio, compiono ad un tempo una funzione importantissima per le genti patrizie, che è quella di essere i custodi e gli interpreti delle tra La triade di Giove, Marte e Quirino si fa dalla tradizione rimontare a Numa, il quale avrebbe già istituiti i tre flamini maggiori, dando però la prevalenza al fila mine di Giove (Liv., I, 20). Fu più tardi però, che la religione si rivestà alla Greca e ciò sopratutto sotto l'influenza etrusca, ossia sotto gli ultimi tre re, in quanto che fu allora che venne costituendosi la triade Capitolina di Giove, Minerva e Giunone. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Manuel des instit. romaines, 456 a 562. 315 dizioni,non solo religiose, ma anche giuridiche e politiche, e sopra tutto di quella parte di esse, che era indicata col vocabolo di fas, ed era considerata come l'espressione della volontà divina. Quelle tradizioni, che in Grecia furono lasciate ai poeti, i quali in antico avevano ancor essi un carattere sacerdotale, in Roma invece sono affidate a collegi sacerdotali, i cui membri sono scelti nel novero stesso dei padri, memori dei riti e degli auspicii religiosi, i quali, malgrado il loro carattere sacerdotale, continuano pur sempre a prendere parte alla vita civile e politica, e sono i custodi fedeli del patrimonio tradizionale delle genti patrizie. Cid spiega come le varie tribù primitive, a quella guisa che erano concorse in parti eguali sotto l'aspetto politico e militare, così sembrano pure avere na propria rappresentanza nei varii collegii sacerdotali, come lo dimostrano il numero di tre, poscia di sei, e quindi di nove auguri e pontefici, ed anche il numero di venti, che sembra essere stato quello dei feziali. Intanto se un posto facevasi vacante, il vuoto veniva a riempirsi con quella stessa cooptatio, mediante cui una nuova gente doveva essere accolta nell'ordine patrizio. Cosi es sendo composti i collegii sacerdotali, essi erano in condizione di contemperare e coordinare le tradizioni proprie delle varie tribù, che erano concorse alla formazione della città; e potevano col re, che era il loro capo, contribuire potentemente all'unificazione e al coordinamento legislativo. Quindi è che il culto, di cui essi sono i sacerdoti, non è un culto speciale di questa o di quella tribù, ma un culto ufficiale del popolo romano, come lo dimostrano le appel lazioni di augures publici populi romani quiritium, di fetiales populi romani, non che la qualificazione data ai pontifices di sacerdotes publici populi romani. Per quello poi, che si riferisce alle tradizioni, della cui custodia essi sono incaricati, senza voler pretendere, che in cið potesse esservi uno scopo preordinato, questo è però certo, che si effettud fra essi una ripartizione, la quale corri sponde ai varii aspetti, sotto cui il diritto può essere considerato. Non ho creduto qui di dovermi occapare specialmente dei quindecim viri sa cris faciundis, poichè questo collegio, iniziato da Tarquinio Prisco colla nomina di due sacerdoti per la custodia dei libri sibillini, si cambid col tempo nel custode dei culti, che erano di provenienza straniera. Esso quindi non esercitò alcuna diretta influenza sul diritto specialmente privato; sebbene sia una prova evidente del con tinuo studio dei Romani per assimilarsi le istituzioni anche religiose degli altri po poli. È a vedersi, quanto al medesimo, il Bouché- LECLERCQ, op. cit.,pag. 555 a 560, e il Villems, Le droit public romain, 323-24. 316 257. Vengono primi gli auguri, i quali, secondo la tradizione, sem brano costituire il più antico di questi collegii, in quanto che Roma stessa sarebbe stata fondata coll'osservanza delle cerimonie prescritte dall'arte augurale. Essi sono i custodi dei riti, che debbono prece dere e accompagnare tutte le deliberazioni, che possono riferirsi al pubblico interesse, e costituiscono cosi nella religione pubblica della città una imitazione degli stessi augurii privati: come lo dimostra l'at testazione di Cicerone, che l'abitudine di consultare la volontà divina era universale, e che i capi delle famiglie e delle genti non tenevano meno dello Stato ai loro auspizii privati. È indubitabile, che essi ebbero dei libri augurales, in cui serbavano le proprie tradizioni e la propria giurisprudenza, e senza voler penetrare nei concetti, a cui poteva ispirarsi l'arte loro, egli è certo, che essa fu una crea zione originale, propria sopratutto alle stirpi latina e sabellica, che dimostra lo spirito religioso e giuridico ad un tempo del primitivo popolo romano. È al collegio degli auguri, che devesi la teoria sot. tile e complicata degli auspicii, che dovevano essere osservati, la distinzione fra quelli, che potevano essere favorevoli o sfavorevoli, e la precedenza che certi segni dovevano avere sopra altri. È ad essi parimenti, che devesi l'orientamento del templum, ossia la delimi tazione di un sito senza ostacoli e in cui potesse spaziare la vista, per modo che gli auspizii potessero essere osservati; delimitazione, che do vette probabilmente anche esercitare influenza sulla scelta e sull'o rientamento dei luoghi, in cui le città dovevano essere edificate . 258. È però notabile, che se gli auguri sono incaricati dell'osser vanza dei riti e della custodia delle tradizioni e decisioni augurali, è pur sempre il magistrato, che è investito dei publica auspicia, il quale deve giudicare se i medesimi siano o non favorevoli, e può così eser citare una influenza decisiva sulle deliberazioni relative al pubblico interesse.Era poinaturale, che gliauguri, i quali, nella città esclu Ciò è attestato da Cicer., De div., I, 16, 28. Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, 100 e 101. Il vocabolo di arte augurale prendesi talvolta in senso così largo, da com. prendere non solo l'avium inspectio (donde l'auspicium ),ma eziandio l'ispezione delle viscere degli animali, donde l'aruspicium. Questo però è da avere presente, che l'ar spicium era di origine latina, mentre l'aruspicium era di origine etrusca. È da ve dersi in proposito il PANTALEONI, Storia civ. e cost., appendice III, relativa ai Luceres. Cfr. MOMMSEN, Op. cit., I, 119. 317 sivamente patrizia, erano i custodi di riti e di tradizioni, che erano noti a tutto il populus, posteriormente, allorchè nel populus entro anche la plebe, finissero per acquistare una grande autorità nelle lotte fra patriziato e plebe, e per recare al primo un potentissimo sussidio mediante riti, la cui significazione era ormai divenuta inesplicabile, anche per persone che uscivano dalle stesse genti patrizie. La loro po tenza ed autorità ci è sopratutto attestata da Cicerone, il quale scrive: maximum autem et praestantissimum in re publica ius est au gurum cum auctoritate coniunctum , e lo prova dicendo, che essi potevano disciogliere i comizii, rimandarli ad altro giorno, dichiararli viziati, anche dopo che eransi tenuti, mentre intanto niuna delibera zione di pubblico carattere poteva essere presa senza il loro inter vento. Però questa loro apparente onnipotenza, di fronte allo Stato, scompare, quando si consideri, che il giudizio relativo agli auspizii favorevoli o non appartiene al magistrato, e che gli auguri emettono il loro avviso sulla osservanza del rito, con cui siansi tenuti i co mizi, solamente quando siano interrogati dal senato o richiesti dal magistrato stesso. 259. Quanto al collegio dei feziali, esso è il custode e il deposi tario del ius foeciale; ma non è certo il creatore del medesimo, come lo dimostra il fatto, che questo erasi già formato durante il periodo gentilizio, ed era comune ad altri popoli, pure di origine la tina e sabellica . L'istituzione del collegio è dagli antichi attribuita ora a Tullo Ostilio, ed ora ad Anco Marzio, ma tutti fanno rimon tare il ius foeciale ad epoca anteriore, poiché Tullo Ostilio vi sa rebbe ricorso, anche prima che il collegio fosse da lui istituito. Narra. infatti la tradizione, che il fatto di rimettere le sorti della guerra fra Roma ed Alba ad un singolare combattimento fu solennemente sti pulato coi riti proprii del ius foeciale. I due cittadini eletti a cid, cosi riferisce il Bonghi la tradizione, facendo le veci dei padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno di essi. L'uno e l'altro giurarono, invocando Giove, che l'uno e l'altro popolo l'a vrebbe osservato. Quello dei due popoli, che primo vi fosse ve Cic., De legibus, II, 12. Il processo di naturale formazione, durante il periodo gentilizio, di quel ius belli ac pacis, che costituì poi il ius foeciale dei Romani, fu esposto nel Lib. I, Cap. VII, 139 a 166. 318 nuto meno, Giove lo ferisse, come l'uno e l'altro ferivano il porco, che sacrificavano; anzi con tanta più forza, quanto era la forza di lui . Ciò significa che il collegio dei feziali non è stato mai il giudice della giustizia intrinseca della guerra o della opportunità della pace; l'una e l'altra son trattate dal senato e sono deliberate dal popolo; mentre i feziali sono incaricati dell'osservanza dei riti o custodiscono le tradizioni relative al ius pacis ac belli. Anche essi sono messi in azione dagli organi del potere civile e politico, e potranno talora essere chiamati a decidere delle questioni, ma queste non si riferiscono alla giustizia intrinseca, nè almerito delle cause di guerra, ma sono di preferenzaquestioni di rito e di procedura. I feziali sono in numero di venti; riempiono i posti vacanti, mediante la cooptatio; non hanno un capo permanente, ma scelgono caso per un pater patratus nel proprio seno; il che è un altro indizio come veramente il pater patratus fosse un cittadino eletto a fare le veci del popolo, e che ricordasse così l'antico patriarca della gente e della tribù. Il ius foeciale pertanto è in ogni sua parte una sopravvivenza del periodo gentilizio; indica lo stadio più pro gredito, a cui erano pervenuti i rapporti anteriori fra le genti e le tribù; dimostra come già allora vi fossero degli esperimenti di amichevole componimento, prima di addivenire alla guerra; ed è una prova di più, che i fondatori della città non erano popolazioni primitive nello stretto senso della parola, ma avevano anche in questa parte un tesoro di antiche tradizioni, le quali, serbate dallo spi rito conservatore dei Romani, furono mantenute fino a che non di ventarono pienamente disadatte e incompatibili colla convivenza civile e politica (3 ). 260. È poi probabile, e l'ho dimostrato a suo tempo, che la distinzione fra foedus e sponsio fu una conseguenza del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla costituzione politica della città, il Bonghi, Storia di Roma, I, 79. Tale è pure l'opinione sostenuta dal FusiNATO, Dei Feziali e del diritto fe. ziale, Cap. III. (3 ) Il numero dei venti feziali, che non corrisponde a quello degli auguri e dei pontefici, può forse essere un indizio, che il diritto feziale, comune ancora ai Latini e ai Sabini, che erano più vicini ancora all'organizzazione gentilizia, non apparteneva invece agli Etruschi, che, più avanzati nella vita cittadina, già si erano maggior mente discostati da pratiche di carattere eminentemente patriarcale. - - 319 – che rendeva tale distinzione incomprensibile per popoli, che non erano ancora pervenuti a questo punto di svolgimento. Così pure è un effetto di tale passaggio la distinzione netta, che viene operandosi fra l'amicitia, l'hospitium,i quali si dividono in pubblici e in privati; ancorchè sia facile di scorgere, che nel primo periodo le amicizie sono ancora curate specialmente dallo stesso re; il qual sistema fu seguito sopratutto dalla politica dei Tarquinii, che intrattenevano relazioni coi capi delle comunanze vicine, e macchinavano proba bilmente un cambiamento nella forma di governo, che doveva es sere generale . Era poi una conseguenza logica della politica seguita da Roma nella propria formazione, che essa in questo primo periodo non si chiudesse ancora in se medesima, ma venisse in certo modo at traendo a sè le popolazioni vicine. Roma continua in questa parte la politica dell'asilo, dalla tradizione attribuita a Romolo, e in ciò presenta un carattere del tutto opposto alla formazione delle città greche, e a quella della stessa Atene. Giovano a questo intento l'isti tuto dell'hospitium publicum, la concessione della civitas sine suf fragio, l'istituzione del municipium, singolare istituzione, per cui altri, pur restando nella propria terra, e partecipando alle cose amministrative di essa, pud tuttavia prendere parte viva alla gran dezza della patria communis, e recarsi a darvi il prorio voto, allorchè trattisi di quelle deliberazioni, che possono interessare direttamente anche gli abitanti dei municipia. È poi notabile il profitto, che Roma seppe ricavare dall'istituzione, graduando e differenziando le con cessionida essa fatte ai municipii, e svolgendone il concetto in guisa da cominciare colla concessione di una civitas sine suffragio per giungere sino alla concessione di una cittadinanza compiuta, il che pure a dirsi dell'istituto della colonia (3 ). Intanto però anche qui è V., quanto al foedus e alla sponsio, il Lib. I, Cap. VII, nº 118. Cid è attestato da Livio, I, 49, allorchè scrive di Tarquinio il Superbo: La tinorum maxime sibi gentem conciliabat, ui peregrinis quoque opibus tutior inter cives esset; neque hospitia modo cum primoribus eorum, sed adfinitates quoque iungebat . Inteso in questa guisa, il sistema municipale per Roma non è che l'applica zione del sistema stesso, che essa aveva seguito nella propria formazione, quello cioè di interessare alle sorti della patria comune tutti i popoli, che da essa dipendevano, facendo sempre più larghe concessioni a quelli, che le erano più vicini, e di cui quindi poteva avere maggiore bisogno. V. sopra, Lib. I, Cap. VII, nº 127. 320 appare, che la politica estera di Roma non appartiene punto ad un collegio di sacerdoti,ma che nel periodo regio appartenne al re, e nel repubblicano al senato, il quale, essendo un consesso permanente ed accogliendo nel proprio se noi magistrati uscenti di ufficio, poteva mantenere quella continuità tradizionale non interrotta, di cui porge un mirabile esempio la storia politica di Roma. Infine si comprende eziandio, come il collegio dei feziali, custode di tradizioni, che si riferivano ai rapporti colle altre genti, non abbia avuta l'influenza effettiva, che appartenne agli auguri e ai pontefici, perchè il nucleo delle tradizionida esso serbate non poteva trovare applicazione nelle lotte fra patriziato e plebe. Tuttavia allorchè i due ordini erano ancora distinti, vi furono patti fra essi, stipulati coi riti del diritto feziale, e accompagnati, a richiesta della plebe, dalla capitis sacratio di colui, che li avesse violati (leges sacratae). Non vi ha poi dubbio, che il collegio sacerdotale più importante nell'organizzazionedella città patrizia è, senza alcun contrasto, quello dei pontefici. È questo collegio che riverbera nel proprio seno le istituzioni primitive di Roma. Esso infatti, a differenza degli altri collegi, ha una costituzione monarchica, ed ancorchè composto di più membri, è presieduto nel periodo regio dal re, e poscia dal pontifex maximus, il quale raffigura il capo religioso del popolo romano, in quanto costituisce una famiglia religiosa. Cid appare da questo, che il pontefice massimo, durante la repubblica, e quindi anche il re,nel periodo anteriore, ha una vera patria potestà sui sa cerdoti e sulle vestali, che da esso dipendono, le quali ultime sono da lui captae in quella stessa guisa, in cui lo sarebbe una figlia dal proprio padre o marito. Il collegio dei pontefici poi, al pari del popolo dei quiriti, di cui esso ha la direzione religiosa, ha un potere, che spiegasi in doppia direzione. Da una parte esso costituisce il vero sacerdozio del po polo romano, e quindi prima il re e poscia il pontifex maximus, da cui dipende lo stesso rex sacrorum, compiono i sacrifizii proprii della religione pubblica ed ufficiale del popolo romano. Da un altro Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, 134, e la sua dissertazione: De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura. Lipsiae, 1883. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome. Paris, 1871; Ma nuel des Instit. romaines, 510 a 533. 321 - canto invece il collegio dei ponteficideve eziandio curare, che i culti delle genti e delle famiglie non siano interrotti (sacra privata ): e sotto quest'aspetto raduna le curie in quanto costituiscono una religiosa famiglia nei comitia calata, per mezzo dei proprii cala tores. Quindi è pure col suo intervento, che compiesi la cerimonia solenne della confarreatio, la quale dà origine alle iustae nuptiae delle genti patrizie, e consiste in una cerimonia religiosa, che si compie avanti ai pontefici coll'intervento di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie delle tribù, a cui appartiene quegli, che addiviene alle medesime. È esso parimenti, che presiede a quei co mitia calata delle curie, in cui i membri del popolo primitivo addiven gono all'adrogatio e al testamentum, i quali, durante il periodo della città patrizia, dovettero ottenere un ' approvazione analoga a quella, a cui erano sottoposte le leggi, come lo dimostra la formola conservataci da Aulo Gellio, relativa all'adrogatio, la quale senza dubbio doveva essere analoga a quella del testamentum. Per verità ho già cercato di dimostrare a suo tempo come per le genti patrizie tanto l'uno che l'altro atto dovevano subire la pubblica approvazione, in quanto che i medesimi potevano alterare quell'organizzazione gentilizia, che aveva costituita la forza e la superiorità del patriziato, e che in Roma primitiva volevasi conservare ad ogni costo. Intanto ne veniva, che i Pontefici sotto quest'aspetto potevano anche eser citare un'influenza sulla successione per quella parte, che si rife risce alla trasmissione dell'obbligazione relativa ai sacra. 262. Tuttavia l'importanza maggiore del collegio dei pontefici provenne sopratutto da che questo collegio ebbe l'altissimo ufficio di serbare le tradizioni relative al mos, al fas ed al ius, e proba bilmente dovette anche compiere quella prima elaborazione, me diante cui il diritto, che, erasi formato fra le genti e i loro capi, potè poi essere applicato fra i quiriti, ossia fra i membri che par tecipavano alla medesima comunanza civile e politica. Essi dovet Questa funzione, essenzialmente conservatrice degli antichi riti e tradizioni, che sarebbe stata affidata ai pontefici, parmi provata dal seguente passo di Livio, I, 20: Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit: ne quid divini iuris, negligendo patrios ritus, peregrinosque adsciscendo, turbaretur . Per quello poi, che si riferisce all'adrogatio ed al testamentum, è da vedersi ciò, che si disse per l'epoca gentilizia nel Lib. I, Cap. IV, n ° 65, e per il periodo dei primi re in questo stesso libro, Cap. II, nº. 220. G. Caeli, Le origini del diritto di Roma. 21 322 tero essere in questo periodo i trasformatori dei iura gentium nel pri mitivo ius quiritium, e furono in condizione di poterlo fare, come quelli, che erano probabilmente ricavati dalle varie tribù, ed erano cosi in condizione di coordinare e di richiamare ad unità le istitu zioni, che in qualche particolare potevano essere diverse. Durante il periodo regio non può quindi essere dubbio, che il collegio dei pontefici, presieduto appunto dal re, dovette essere un cooperatore potente di quell'unificazione legislativa, di cui sentivasi urgente bi. sogno, e dovette anche essere il custode e depositario della primitiva legislazione, come lo dimostra la tradizione con attribuire a un pon tefice Papirio la prima collezione della medesima (ius Papirianum ). Ad ogni modo era naturale, trattandosi della legislazione di un popolo, i cui componenti prima quasi non conoscevano altra autorità, che quella del fas, che anche questo primitivo diritto dovesse essere ri vestito di quell'aureola religiosa, che è propria di tutte le istituzioni, durante il periodo gentilizio. Intanto però in questo periodo i pontefici, uscendo ancor essi dal novero delle genti, non avrebbero potuto attri buire al diritto quel carattere di segretezza e di arcano, che potè as sumere più tardi, in quanto che le tradizioni, di cui essi erano i custodi, vivevano ancora fra i capi di famiglia, da cui era costituito il populus primitivo, distribuito per curiae, corporazioni religiose e politiche ad un tempo. 263. Era invece naturale, che col passare dal periodo regio ad una repubblica, il cui populus non era più composto di uomini, ri cavati esclusivamente dalle genti di origine patrizia, le funzioni del collegio dei pontefici dovessero subire una trasformazione profonda. Essi sono sempre i sacerdoti del popolo Romano: ma intanto non escono che da una parte di questo populus, e sono anzi i depositari e i custodi delle tradizioni proprie di questa parte eletta del populus, la quale continua da sola ad avere gli auspicia e ad essere la reggi trice della città. Si aggiunge, che il potere religioso del pontifex ma ximus, che prima apparteneva al re, viene poscia attribuito ad una specie di magistratura sacerdotale, la quale finisce per dar sempre più al diritto un'aureola religiosa; sebbene sia vero che questa se parazione del potere civile dal religioso cooperò a preparare la distin zione del ius sacrum dal ius civile. Intanto però, cosi l'uno come l'altro sono conservati dapprima negli archivii dei pontefici (in pene tralibus pontificum ), sopratutto in quel periodo, che corre fra la cac ciata dei re e la legislazione decemvirale, durante il quale sono i pontefici, che compiono quell'elaborazione giuridica, che sarebbe stata impossibile permagistrati annui, i quali ad un tempo erano chiamati a cure compiutamente diverse. Sipud quindi affermare con certezza, che i primi elaboratori di un ius, comune al patriziato ed alla plebe, fu rono i pontefici; cosa del resto, che è concordemente attestata da Pomponio, da Valerio Massimo, da Cicerone e da altri, e che era una naturale conseguenza dello stato delle cose e dei rapporti, che in tercedevano fra i due ordini, allora in lotta fra di loro. Di qui la conseguenza, che la divulgazione del diritto venne in certa guisa a procedere di pari passo col pareggiamento politico delle due classi; ma intanto la prima scuola dei giureconsulti fu certamente il ius pontificium; nè è a credersi, che tutta l'opera loro potesse solo ri ferirsi al diritto sacro; poichè i pontefici di Roma, come si è ve duto, essendo una magistratura sacerdotale, erano i veri rappresen tanti delle genti patrizie, la cui religiosità non escludeva il senso giuridico e politico, e neppure lo spirito militare. Intanto ne de rivava eziandio, che, per essere resi partecipi di questa scienza del diritto, conveniva anche ottenere l'ammessione nel collegio dei pontefici, i cui libri e commentarii contenevano un tesoro di con cetti, molti dei quali passarono certamente nei primi giureconsulti, che furono essi stessi pontefici massimi. Vero è, che i frammenti, che a noi pervennero del diritto pontificale, sembrano riferirsi esclu sivamente a prescrizioni di diritto sacro; ma ciò proviene da che la parte relativa al ius civile passò nei giureconsulti, ed entrò nel l'organismo vivo della giurisprudenza, mentre quella, che aveva un carattere sacro, fini per ridursi a concetti, che poscia più non furono compresi, e venne cosi ad essere argomento di curiosità per gli ar cheologi e per i grammatici. Un'altra causa di questo fatto deve pur Questa influenza dei Pontefici sul diritto, sopratutto nei primi periodi della Repubblica, è attestata da VALERIO Massimo, II, 5; Livio, IX, 46; Cic., pro Mu rena, 11; De legibus, II, 8, 9; De oratore, III, 33. I passi relativi sono raccolti dal Rivier, Introd. histor., 121. Basta perciò il considerare, che i primi giureconsulti, di cui sia a noi perve nuto il nome, come Papirio (donde il ius Papirianum ), Appio Claudio (il cui segretario Gneo Flavio avrebbe propalato il ius Flavianum ) e Tiberio Coruncanio, che appare come il primo giureconsulto di origine plebea, furono pontefici massimi, o quanto meno aggregati al collegio dei pontefici. Quelli poi, che più non erano tali, presero pur sempre le mosse dal ius pontificium, come appare ad evidenza dalle reliquie degli antichi giureconsulti raccolte dall ' HUSCHKE, Jurisp. anteiustin. quae supersunt. Lipsiae, 1879. 324 - riporsi in questo, che a misura che la scienza del diritto venne a concentrarsi nelle mani dei giureconsulti e del pretore, il diritto pon tificale venne naturalmente restringendosi al ius sacrum, e fu in questa guisa che alla separazione, che già erasi operata nella città patrizia fra il pubblico ed il privato, venne poscia aggiungendosi la distinzione fra il diritto sacro e il diritto civile strettamente inteso. Intanto perd vuolsi avere per fermo, che questo ritirarsi del diritto negli archivi dei pontefici, durante il primo periodo della repubblica, venne ad essere l'effetto dell'ammessione nel populus di un nuovo ele mento, che non possedeva queste tradizioni giuridiche, e che sotto questo aspetto doveva dipendere da un'altra classe: il qual concetto ci conduce a combattere l'opinione, pressochè universalmente accolta, circa quella legislazione, che suol essere compresa col vocabolo di leges regiae . 4. Delle leges regiae e della fede da attribuirsi alle medesime. 264. È abbastanza noto come qualsiasi demolizione ne provochi un'altra; tanto più se trattisi di un edifizio armonico e coerente. Ciò videsi sopratutto della storia primitiva di Roma. Dopo aver resi leg gendarii i re, per guisa che si riuscì a fare la storia, senza pur nominarli; anche la legislazione, che era aimedesimi attribuita dalla tradizione, dovette essere considerata come una invenzione di tempi posteriori. Parve che un popolo, il quale era solo chiamato ad ap provare o a respingere le proposte fattegli, non potesse avere una parte effettiva nella formazione di leggi, di cui alcune avevano un carattere essenzialmente religioso, e che la collezione di leggi regie, accennate dagli scrittori, e attribuite ad un pontefice Papirio, dell'e poca regia, dovesse ritenersi come opera di tempi posteriori. Questa opinione, che prevalse col DIRKSEN: Die Quellen des römisches Rechts, Leipzig, 1823, trovò uno strenuo oppositorenel Voigt: Über die leges regiae. Leipzig, 1876, la cui opera è divisa in due parti, nella prima delle quali egli investiga la sostanza e il contenuto delle leges regiae, mentre nella seconda si occupa dell'au tenticità e delle fonti delle medesime. Secondo il FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano. Milano, 1885, 3, nota 2, l'opinione del Voigt, se in qualche parte deve temperare le esagerazioni della scuola del NIEBHUR, dall'altra per ade rire troppo alla tradizione, non potrà forse piacere a molti. Cid si capisce, trattan. dosi di persone educate a tutt'altra scuola; ma intanto abbiamo un altro contri buto allo studio veramente positivo della storia primitiva di Roma. 325 Sembrami che in questa parte la critica siasi spinta troppo oltre, in quanto che il processo seguito da Romanella propria formazione ac cadde invece in guisa tale, che se una legislazione regia non fosse ram mentata dagli scrittori, dovrebbe essere pur supposta, perchè era una necessità dei tempi. Il populus primitivo di Roma era composto di persone appartenenti a genti patrizie, memori delle antiche tradi. zioni, e quindi non è punto ripugnante, che il medesimo, alla guisa stessa che eleggeva il re e conferiva l' imperium con una lex cu riata de imperio, cosi fosse pur chiamato a dare approvazione alle leggi, che rappresentavano i patti e gli accordi, in base a cui le varie tribù entravano a formar parte della stessa comunanza civile e politica. Ciò non potè accadere, come narra Pomponio, finchè Romolo fu solo capo della tribù Ramnense, stabilita nella Roma pa latina; ma dovette divenire indispensabile, allorchè la città, la no mina del suo re, la sua religione, il suo diritto cominciarono ad essere il frutto della confederazione e degl'accordi seguiti fra diverse comunanze. La stessa varietà degli elementi, che concorrevano a costituirle, rendeva opportuno, quanto ai provvedimenti, che riguar. davano il comune interesse, di adottare la forma della legge, la quale, elaborata e coordinata dal collegio dei pontefici, proposta dal re, appoggiata dai padri del senato, approvata dalle curie, poteva veramente ritenersi come l'espressione della volontà comune. In questa parte ha tutte le ragioni Livio, allorchè ci dice, che il popolo romano era cosi composto, che nulla re, nisi legibus, in unius populi corpus coalescere potuisset . Era solo a questa condizione, che capi di tribù e di genti, fino allora indipendenti e sovrani, potevano sottoporsi all'impero di uno stesso magistrato e di un medesimo diritto. Lo stesso carattere religioso della le gislazione regia non può costituire un argomento in contrario; perchè il primitivo populus diRoma era composto di persone esperte anche nei riti e nelle cerimonie religiose, che ciascun capo di fa miglia compieva nel seno della propria famiglia. Del resto a voler anche ammettere, che quella parte della legislazione regia, la quale ha un carattere esclusivamente sacro, potesse, fin da quella prima epoca, essere lasciata intieramente alla elaborazione del collegio dei pontefici; egli è però certo, che l'altra parte invece, la quale ha un carattere civile, giuridico e politico ad un tempo, dovette essere il frutto del concorso dei varii organi della costituzione primitiva di Roma, e deve perciò aver presa la forma di vere e proprie leges rogatae. Certo possono darsi dei casi, in cui questa procedura regolare 326 non sarà stata effettivamente adempiuta in tutte le sue parti, al modo stesso, che, secondo gli storici, non fu sempre osservata in ogni sua parte la procedura relativa alla nomina dei re: ma in man canza di prove in contrario, di fronte all'attestazione concorde degli autori, che non avevano alcun motivo di alterare le cose, e cono scendo il carattere del popolo, osservatore costante della legalità e facile a commuoversi, quando questa non fosse osservata, non si può essere in diritto di negare l'esistenza di vere e proprie leggi, anche in questo periodo, in quella parte, che si riferisce a cose di pubblico e di privato interesse. 265. Pur ammettendo che in questa primitiva condizione di cose, la maggior parte dei rapporti giuridici abbia continuato ad essere lasciata all'impero della consuetudine e del costume, dovevano perd anche esservi quelle parti, in cui le divergenze, esistenti fra le varie comunanze, presupponevano una unificazione ed un coordina mento, che doveva di necessità operarsi, mediante quelle leges, che a ragione si chiamavano publicae, perchè erano la base della comune convivenza civile e politica. Che anzi dovettero esser queste leges, che costituirono il nueleo primitivo di quel ius quiritium, che cominciava a sceverarsi dal fas e dai bonimores. Siccome perd questo ius venne formandosi rebus ipsis dictan tibus et necessitate exigente ; cosi esso non potè formarsi di un tratto, nè essere fin dapprincipio un organismo coerente, che provvedesse a tutti i rapporti; ma dovette lasciare la maggior parte di questi rap porti alla consuetudine, limitando l'opera sua a concretare quei prov vedimenti, la cui necessità facevasi urgente e palese, a misura che la convivenza civile venivasi svolgendo. Niun dubbio parimenti, che anche i concetti e sopratutto le forme di questa primitiva legislazione dovessero essere tolti dal periodo anteriore: ma il fatto stesso, per cui essi erano trapiantati in terreno diverso, dovette far sì, che essi mutassero carattere. 266. Se intanto potesse essere lecito anche solo tentare di rico struire il processo, con cui dovette formarsi il primo nucleo delle istituzioni e dei concetti quiritarii, in base alla formazione progres siva della città, crederei di poter rich iamarlo alle seguenti leggi fondamentali: Liv., I, 8. - 327 l• Un primo effetto di questa grande trasformazione, per cui i capi e membri delle varie genti venivano ad essere cittadini della medesima città, dovette esser quello di far trasportare nella città e nei rapporti fra i quiriti quelle istituzioni e quei concetti giuridici, che si erano formati nei rapporti fra le varie genti e specialmente fra i capi delle medesime. Tutti i concetti pertanto, che apparte nevano ai iura gentium, diventarono proprii del ius quiritium; cosicchè il commercium, il connubium, l'actio, da rapporti fra le varie genti e i loro capi, diventarono rapporti fra i quiriti; donde la spiegazione di quelle solennità di carattere gentilizio, che ancora si mantengono nel diritto primitivo di Roma. Processo più naturale di questo non sarebbesi potuto seguire, poichè colla formazione della città i capi di famiglia e delle genti, che prima erano indi pendenti, vennero a cambiarsi in quiriti, e quindi il loro diritto di internazionale ed esterno, quale era prima, doveva cambiarsi in di ritto quiritario ed interno. 2º Una seconda conseguenza poi dovette essere eziandio che questi concetti, così trapiantati dai rapporti fra le genti, nei rapporti fra i quiriti o membri della stessa civitas, i quali prima avevano solo avuto uno svolgimento estensivo, poterono ricevere uno svolgimento inten sido, e cambiarsi in altrettante propaggini, da cui scaturirono le varie forme del ius quiritium. Dal connubium potè uscire il ius connubii con tutte le conseguenze delle iustae nuptiae, che consistono nella manus, nella potestas, nel mancipium, nella successione e nella tutela legittima: le quali naturalmente non poterono in questo periodo ispi rarsi, che ai concetti dell'organizzazione gentilizia. Il commercium parimenti si esplico nel ius commercii, con tutte le sue varie gra dazioni del comprare e del vendere (mancipium ), dell'obbligarsi (nexum ) e del poter ricevere o disporre per testamento (testamenti factio). Così pure l'actio sacramento, che era una procedura fra i capi di famiglia indipendenti, nel seno delle tribù, potè conver tirsi in una procedura fra quiriti, e siccome eravi un magistrato, a cui si apparteneva di pronunziare circa il ius, che si manteneva distinto dall'iudicium, così fu naturale, che accanto all'actio sacra mento si svolgesse eziandio la iudicis postulatio. 3º Infine una terza conseguenza di questa trasformazione dovette È da vedersi in proposito quanto si disse nel capitolo precedente nº. 244, 298.328 consistere in ciò, che le istituzioni, cosi trapiantate nella città, es sendo staccate dall'ambiente, in cui si erano formate, si trovarono libere dai vincoli, in cui prima erano trattenute, e poterono cosi ricevere tutto lo svolgimento, a cui le portava il proprio concetto informatore. Ciascuna di esse si ridusse in certo modo ad essere una concezione astratta; e potè così essere sottoposta a quegli speciali processi e a quelle analisi, che sono proprii della logica giuridica (iuris ratio ). Per tal guisa venne ad essere un'astrazione il quirite, perchè esso non è più tutto l'uomo, ma è l'uomo considerato sotto l'aspetto speciale dei diritti e delle obbligazioni, che gli incombono come cit tadino; fu un ' astrazione il potere giuridico (manus) attribuito al medesimo, in quanto che esso è concepito senza le limitazioni esi stenti nel costume. Di qui la conseguenza, che egli come capo di famiglia (pater familias) giuridicamente la riassume in sè stesso, e ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sugli schiavi; come proprietario può disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose; come creditore può appropriarsi e perfino dividere il corpo del debitore. Per tal guisa tutto il diritto primitivo di Roma è già il frutto di un'astrazione, cioè di una specie di isolamento dell'elemento giuridico dagli altri elementi della vita sociale, per cui ogni istituzione può ricevere quello svolgimento logico e dialettico, che costituisce la ca ratteristica del diritto romano, e ne costituisce la superiorità sopra tutte le altre legislazioni. Il diritto romano infatti, fin dai proprii esordii, è uscito bensi dalla realtà dei fatti, ma fece ben presto astrazione da essi e diede uno svolgimento logico alle proprie istitu zioni, le quali perciò diventarono istituzioni tipiche, e poterono essere portate dapertutto, perchè la logica è di tutti i popoli e di tutti i tempi. Fu mediante questo processo; che i Romani poterono essere per il diritto ciò, che i Greci furono per l'arte, e questo segreto essi già lo possedevano fin dalla prima formazione della propria città, e continuarono sempre ad applicarlo, senza curarsi di darne nelle opere loro una spiegazione, che sarebbe stata inutile, perchè trattasi di un genio originario e nativo, che può essere intuito, ma non insegnato. Tutte queste conseguenze del nuovo stato di cose poterono rica - varsi senza bisogno di apposita legislazione, per opera di una logica istintiva e naturale, sentita universalmente da un popolo, che mi rava diritto al proprio scopo, e che, poste le premesse, sapeva deri varne le conseguenze. 329 267. Intanto però eranvi altri argomenti, intorno a cui potevano esistervi divergenze nelle istituzioni particolari delle varie tribù, ed in questi argomenti appunto, secondo la tradizione, verrebbero ad ap parire le traccie di una legislazione regia, la quale potrà forse non esserci pervenuta nelle sue fattezze genuine: ma che intanto non merita punto di essere senz'altro respinta, come una creazione di tempi posteriori. Essa porta in sè un'impronta efficace di verità, in quanto che si presenta con un carattere del tutto consentaneo ad un populus, che esce dall'organizzazione gentilizia, e le cui isti tuzioni sono ancora tutte circondate di un ' aureola religiosa; del che sarà assai facile persuadersi, ricostruendo e componendo insieme i rottami, che ci pervennero di questa legislazione, per la parte, che si riferisce al diritto privato e al diritto penale primitivo di Roma. 5. – La famiglia e la proprietà secondo la leges regiae. 268. Quanto al diritto privato l'istituzione, che presentasi più ri gorosamente delineata nelle reliquie delle leges regiae, è l'orga nizzazione della famiglia. È evidente, che essa riducesi in sostanza ad un rudere della stessa organizzazione gentilizia, che viene ad essere portato nel seno della città. Ma intanto separata dall'orga nizzazione gentilizia, in cui erasi formata, e dalla quale era tempe rata in qualche parte, presentasi con linee così rigide e precise, da riuscire a noi pressochè incomprensibile, se non riportisi nell'ambiente, in cui dovette formarsi. Dei varii modi, in cui questa famiglia potrà essere fondata, le leggi regie non ne ricordano che un solo, e questo è la cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale già conosciuta probabilmente alle genti delle varie tribù può benissimo essere stata adottatta come la forma solenne e riconosciuta per il matrimonio quiritario. Dio nisio infatti dice, che Romolo avrebbe condotto all'onestà le donne con un'unica legge, con cui avrebbe stabilito: uxorem, quae nuptiis La vera causa di questa critica, che tutto nega, relativamente alla storia pri mitiva di Roma, sta nel presupposto, che il popolo fondatore della città fosse un popolo del tutto primitivo. Ho cercato di dimostrare il contrario, e quindi non trovo nulla di improbabile, che un popolo, che si presenta con una quantità di tradizioni e di concetti già elaborati, fosse in condizione tale da prendere una parte effettiva, anche nella formazione delle leggi. 330 sacratis (confarreatione ) in manum mariti convenisset, commu nionem cum eo habere omnium bonorum ac sacrorum . Noi ab biamo qui il matrimonio primitivo, esclusivamente patrizio, accom pagnato da una cerimonia religiosa; esso compiesi coll'intervento dei pontefici e colla testimonianza di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie, in cui è ripartita ciascuna tribù primitiva; produce la comunione delle cose divine ed umane; e intanto riduce in certo modo la moglie in posizione di figlia, rimpetto al marito; il che però non toglie, che essa gli sia compagna nel culto domestico. È al marito, che appartiene la giurisdizione sulla moglie pei delitti, che essa compie; anzi due fra essi, l'adulterio ed il bere vino (per causa che proba bilmente può riferirsi a qualche rito religioso ) possono essere puniti di morte: ma egli deve perciò essere circondato dal tribunale dome stico, il quale è ancora una istituzione eminentemente gentilizia. Il vincolo matrimoniale, stretto coll'intervento della religione, è per per sua natura indissolubile, in quanto che non potrebbe compren dersi, che una moglie, che è figlia al marito, possa far divorzio da esso. Di qui una legge, che Dionisio chiama dura, la quale nega alla moglie difar divorzio dal marito;ma intanto questi può ripudiarla,ma solo per cause determinate, quali sarebbero il venefizio commesso a danno della prole, la sottrazione delle chiavi e l'adulterio. Che se il marito abbandoni la moglie per altre cause, dei suoi beni si faranno due parti, di cui una andrà alla moglie, l'altra sarà sacra a Cerere: che se egli la venda, dovrà essere immolato agli dei infernali . Qui pertanto il potere del marito sulla moglie ha ancora tutti i caratteri del periodo gentilizio; ma le cerimonie religiose, che forse potevano essere diverse presso le varie tribù, già vengono ad essere unificate e son tutte ridotte alla confarreatio; son fissati i casi per il ripudio; e sono anche posti certi confini ai poteri del marito sulla Le disposizioni attribuite alle leges regiae, che sono qui riprodotte, ci furono conservate da Dionisio, II, 25; il loro testo può vedersi nel Bruns, Fontes, 6. Questa legge, attribuita a Romolo relativamente al ripudium, è ricordata da PLUTARCO, Romulus, 22. Gli autori, che studiarono di recente l'argomento, già co minciano ad ammettere la probabilità, che nell'antico matrimonio per confarreatio nem non potesse essere consentito il divortium, nel senso vero della parola; il quale dovette avere origine dal divertere della moglie dalla casa del marito nel matri monio sine manu, e poi si concretò in una istituzione giuridica, che si estese allo stesso matrimonio cum manu. Cfr. Esmein, La manus, la paternité et le divorce, nei Mélanges d'histoire du droit, 3 a 37. 331 moglie. A queste leggi se ne aggiunge una di Numa, che assume un carattere più sacro, la quale è cosi concepita: paelex aram Iunonis ne tangito; si tanget, Iunoni, crinibus demissis, agnum foeminam caedito : la qual legge (se si accetta la significazione attribuita al vocabolo di paelex da Festo, secondo cui suonerebbe la donna quae uxorem habenti nubebat ), significherebbe, che il matrimonio doveva essere monogamo, e che altra donna non poteva entrare nella casa, ed accostarsi all'altare di Giunone, protettrice appunto delle giuste nozze; in caso contrario doveva sacrificarsi una piacularis hostia (agnum foeminam caedito). 269. Lo stesso è a dirsi della patria potestas, la quale, secondo una legge attribuita a Romolo, duráva tutta la vita e importava il potere di vita e di morte sul figlio, e la facoltà di venderlo fino a tre volte per trarne profitto; alla qual legge se ne aggiunge un'altra di Numa, secondo cui il padre, che abbia consentito alle nozze confar reate del figlio, le quali importano la comunione delle cose divine ed umane, più non è in facoltà di venderlo. Devono poi i padri educare tutta la prole maschile e le figlie primogenite, e non possono mettere a morte niun feto minore di tre anni, se non sia mostruoso o mutilato, nel qual caso deve prima essere mostrato ai vicini, e questi deb bono approvare il suo operato; disposizione questa, che richiama ancora le consuetudini proprie della vita patriarcale del vicus e del pagus, ove i vicini mutansi talvolta in giudici ed in consi glieri. Alle leggi relative a quest'ordine di idee può eziandio ri chiamarsi quella, attribuita a Numa, secondo cui se una donna fosse morta in istato di gravidanza, non doveva essere seppellita, se prima non se fosse estratto il feto: alla quale disposizione il Voigt rannode rebbe, con molta verisomiglianza, quel passo di lex regia, conserva toci da Paolo Diacono, secondo cui: Si quisquam aliuta (aliter ) faxit, lovi sacer esto. Festo, v ° Paelices (Bruns, Fontes, 350). Tutti i passi relativi possono vedersi raccolti dal Voigt, über die leges regiae. Leipzig, 1876, 2º, 8. Tutte queste leggi regie, relative alla patria potestà, sono ricordate da Dio NISIO, II, 26, 27: II, 15; II, 27. Quella attribuita a Numa è pur ricordata da Plu TARCO, Numa, 17. Il testo delle medesime trovasi nel Bruns, Fontes, 7 e 9. A questa legge accenna il giureconsulto MARCELLO, L. 2, Dig. (11, 8): mentre l'altra parte sarebbe ricavata da Festo, pº aliuta. Il Voigt ritiene doversi combinare i due frammenti in una sola legge, Über die leges regiae, 8 13, 75. 332 Iatanto però tutto quest'ordinamento religioso e politico della fa miglia primitiva è ancora sempre sotto la protezione del fas, in quanto che i figli, i quali maltrattino i genitori, e la nuora, che venga a cattivi trattamenti verso la suocera, mettendo cosi in non cale il rispetto dovuto all'età, incorrono nella capitis sacratio; la quale è pure la pena, in cui incorre il patrono, che faccia frode al proprio cliente, e ogni altro, che venga meno alle disposizioni re lative all'ordinamento della famiglia. 270. Per quello poi, che si riferisce alla proprietà, nulla ci fu con servato circa il carattere intimo della medesima; ma dalle disposi zioni, che Dionisio attribuisce a Romolo relativamente alla clientela, e dall'incarico, che secondo Festo sarebbesi da Romolo affidato ai patres o senatori, di fare assegni di terre agli uomini di bassa condizione (tenuioribus), è lecito di inferire, che la proprietà con tinua in parte ad avere un carattere gentilizio, e che in questo periodo ancora si mantengono quelle proprietà o possessioni collet tive, sulle quali si possono fare degli assegni ai clienti. Tuttavia nell'interno della città vediamo già comparire netta e decisa l' isti tuzione della proprietà privata. In virtù di una legge attribuita a Numa, quel dio Termine, che un tempo separava i confini fra i ter ritori delle varie genti e delle varie tribù, viene a ripartire e a consacrare la proprietà fra i quiriti, i quali hanno già una proprietà individuale e privata, rappresentata dal proprio heredium. Per tal modo la terminazione, che prima esisteva fra i territorii gentilizii, come lo dimostra l'accenno, che si fa nel ius foeciale alle divinità patrone dei confin., viene a cambiarsi anch'essa in una istituzione quiritaria, e si introduce così la terminazione fra le proprietà private. Tutti quindi son tenuti a porre dei termini al proprio campo, e questi sono consacrati a Giove Termine; colui, pertanto che li ri. muova o li trasporti da un sito all'altro, sarà soggetto alla capitis sacratio. Così, ad esempio, secondo il Mommsen in Bruns, Fontes, 7, nota 6, una legge, attribuita a Tullo Ostilio, sarebbe così concepita < si parentem puer verberit, ast olle (ille) plorasset, puer divis parentum, sacer estod; si nurus, sacra divis pa rentum estod. Per i divi parentum si intendono poi i diï manes, Cfr. Voigt, Op. cit., 7, 41. Dion., II, 9; Cic., De rep., II, 9; Festo, vº Patres (Bruns, 372). Dion., II, 74; Festo, pº Termino. Cfr. Voiat, Op. cit., $ 9, 48. 333 Certo queste son tutte disposizioni di legge, che consacrano isti tuzioni, che vivevano nella consuetudine e nelle tradizioni; ma punto non ripugna, che, trattandosi di genti, le cui istituzioni nei partico lari potevano essere diverse, le medesime abbiano anche potuto fare argomento di disposizioni legislative, elaborate dai pontefici, pro poste dal re, appoggiate dal senato, ed approvate dalle curie. Quanto alla sanzione religiosa, che accompagna ciascuna legge, essa si spiega facilmente, se si tiene conto del carattere religioso del popolo delle curiae, il quale esce allora allora dall'organizzazione gentilizia, in cui tutte le istituzioni erano rivestite di un ' aureola religiosa e sacra. Solo ci resta a vedere quali siano le traccie, che ci pervennero della legislazione penale primitiva di Roma patrizia, alla quale occorre una trattazione speciale per il peculiare svolgimento, che ebbe a ri cevere, e per le molte discussioni, a cui diede occasione. 6. – Le origini della legislazione criminale in Roma e specialmente del parricidium e della perduellio. 271. Per quanto la legislazione criminale primitiva di Roma sia quella parte del suo diritto, dicui giunsero a noi più scarse reliquie, tuttavia anche queste poche sono tali, che ricomposte possono ad ditarci, come anche in essa siasi effettuato un lento e graduato pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla convivenza civile e politica. Anche il delitto nel periodo regio ritiene ancora quel carattere, che aveva assunto presso le genti patrizie; esso è un'offesa contro gli uomini e contro l'aggregazione gentilizia, a cui essi appartengono, ma è poi sopratutto un'offesa contro la divinità. Chi l'abbia com messo di proposito (dolo sciens), di regola è punito colla capitis sacratio ed anche colla consecratio bonorum; mentre se altri l'abbia compiuto per imprudenza (imprudens) egli e la famiglia di lui sono tenuti ad offerire una piacularis hostia alla famiglia dell'of feso. Ciò vuol dire, che il concetto gentilizio del delitto e della La più notabile distinzione fra il reato doloso e colposo, che occorra nella legislazione regia, è quella che si desume dalle due leggi attribuite a Numa, rela tive all'omicidio volontario (parricidium ), e quella relativa all'omicidio involontario, che è ricordata da Servio nei seguenti termini: In Numae legibus cautum est, 334 pena viene ad essere trapiantato di peso nel seno della città. Sono tuttavia ancora in piccol numero i misfatti, a cui accennano le leges regiae; in quanto che non parlasi nè del furto,nè dell'ingiuria, nè di quegli altri misfatti, che sono più tardi minutamente preveduti dalle XII Tavole. Ciò non significa certamente, che questi misfatti fossero ignoti, nè che i medesimi fossero impuniti: ma soltanto, che le leges publicae (quelle almeno che giunsero fino a noi) non avevano ancora richiamato alla pubblica giurisdizione la repressione di essi; ma avevano continuato a lasciarli alla prosecuzione dell'offeso, che doveva perciò seguire le pratiche tradizionali, formatesi nelle tribù, le quali già avevano ricevuta una consacrazione religiosa. 272. Tuttavia fra i fatti criminosi, accennati nelle leges regiae, già può introdursi una distinzione; sonovi dei delitti, che possono essere ritenuti contro l'ordine delle famiglie, comprendendo anche fra questi quello contro la proprietà, consistente nella rimozione dei termini; altri, che sono contro la religione, quale sarebbe l'incesto della Vestale e l'abbandono dei sacra '; e altri infine, che già possono ricevere il nomedi crimina publica, in quanto che, fin dagli inizii della città, sonovi autorità incaricate dalla pubblica pro secuzione di essi. Quanto ai primi mantiensi ancora nella propria integrità l'auto rità e la giurisdizione del capo di famiglia, il quale in certi casi è tenuto a circondarsi del tribunale domestico; come pure sono san cite contro di essi pene di carattere sacro e religioso, comela capitis sacratio e la consecratio bonorum. Quanto ai reati contro la religione, appare invece la giurisdizione dei pontefici; giurisdizione, che alcuni autori, fondandosi sul carattere sa crale del delitto e della pena in questo periodo, avrebbero creduto, che dovesse essere prima estesa in più larghi confini. Il carattere, che ab biamo trovato nella istituzione del collegio dei pontefici, per cui esso appare come depositario e custode delle tradizioni gentilizie, ci impe disce di seguire una tale opinione, in quanto che il carattere sacrale del delitto e della pena in questo periodo non è creazione dei pon ut si quis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi, agnatis eius in contione offerret arietem . Bruns, Fontes, 10. Cfr., per ciò che si riferisce all'omicidio involontario, il Voigt, Op. cit., 11, 64 a 72. Cfr. MUIRIEAD, Histor. Introd., 54 a 55. 335 - tefici, ma è un carattere proprio di tutte le istituzioni gentilizie, che si mantiene ancora nel la città esclusivamente patrizia. Del resto la sola giurisdizione criminale, che gli antichi scrittori attribuiscono ai pontefici, è quella relativa alle Vestali, la quale per giunta sembra essere una conseguenza della patria potestà, di cui essi sono rive stiti riguardo alle medesime. Sono quindi i pontefici, che secondo una legge, che la tradizione attribuisce a Tullo Ostilio, giudicano dell'in costo delle Vestali, il quale è considerato come un delitto, che da una parte contamina i sacra publica, e dall'altra provoca la ven detta di Vesta sopra il popolo. Quindi da una parte sacrificavansi alla dea la Vestale, nei tempi più antichi col gettarla nel fiume e più tardi seppellendola viva, e l'amante, flagellandolo fino alla morte, e dall'altra si facevano sacrifizii di purificazione per la città. Da questo caso in fuori non trovasi traccia di giurisdizione criminale più ampia, che sia mai spettata ai pontefici; nè vi ha motivo di credere, che po tesse essere più estesa, dal momento che presso i romani pareva già enorme questo potere accordato a una magistratura sacerdotale. 273. A noi però importa sopratutto di cercare come siasi venuto svolgendo il concetto del pubblico delitto; perchè è con esso, che incomincia l'esercizio del magistero punitivo, per parte dell'autorità sociale. Già ho accennato altrove, che la giurisdizione del magistrato in Roma quanto ai misfatti non presentasi svolta fin dai propri inizii; ma viene invece estendendosi, a misura che la potestà pubblica si viene rafforzando di fronte alla giurisdizione domestica del capo di famiglia. Qualche cosa di analogo accade eziandio nello svolgersi della nozione del pubblico delitto. I due primi misfatti, perseguiti dalla pubblica autorità, compariscono coi nomi di parricidium e di perduellio; e per perseguirli fin dal periodo regio sarebbero istituiti due speciali magistrati, coi nomi di questores parricidii e di duum viri perduellionis; fra i quali intercede perd questa differenza, che mentre i primiappariscono quali magistrati permanenti, i secondi invece sembrano essere nominati, caso per caso. Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, 187. Ciò è dimostrato dal racconto di Livio, I, 26, relativo al fatto dell'Orazio, in cui i duumviri perduellionis son nominati per quel caso dal re, mentre dei quae stores parricidii abbiamo una definizione di Festo, pº Quaestores, che parla di essi, come di autorità permanenti, create ut de delictis capitalibus quaererent . 336 Son pochi i passi, che si riferiscono all'uno e all'altro misfatto, donde la conseguenza, che non solo gli autori moderni, ma anche gli storici antichi attribuiscono significazione diversa ai due vocaboli. È noto infatti, che mentre Dionisio e Festo ritengono colpevole di parricidium l'Orazio, uccisore della propria sorella, Tito Livio parla invece di perduellio. In questa condizione di cose occorre ripren dere in esami e passi di antichi autori, che sono a noi pervenuti; esa minare le opinioni principali emesse dagli autori in una questione, che ha una copiosissima letteratura; e poi cercare di ricomporre i testi che si riferiscono all'argomento per ricavarne il processo logico e storico, che dovette essere seguito nella configurazione di questi primitivi misfatti. 274. Quanto al parricidium, i pochi passi a noi pervenuti indicano in sostanza una certa quale meraviglia, per parte degli au tori, che Romolo, mentre aveva lasciato senza pena e neppur rite nuto possibile il parricidium, nello stretto senso della parola, avesse poi chiamato ogni omicidio col vocabolo di parricidium, il che sa rebbesi pur fatto da Numa, al quale si attribuisce una legge, secondo cui: si quis hominem liberum,dolo sciens,morti duit, parricidas esto . Quanto poi alla perduellio si sa con certezza, che questo vocabolo deriva certamente da perduellis, che in antico significava il nemico, con cui erasi in guerra, e che il medesimo comprendeva, tanto il tradimento verso la patria, mediante pratiche tenute col ne mico esterno di essa, tradimento, che suole essere indicato special mente col vocabolo di proditio; quanto eziandio le perturbazioni ed i sovvertimenti contro la cosa pubblica, tentati all'interno, per i quali era specialmente adoperato il vocabolo di perduellio. Circa quest'ultima però abbiamo una descrizione abbastanza completa di un primitivo processo per causa di perduellio in Tito Livio, il quale in questa parte, come ben nota il Bonghi, sembra dare al proprio racconto un colorito particolare e diverso dal rimanente, in quanto che cerca di mostrarsi espositore preciso delle forme antiche e solenni, con cui sarebbe seguito questo primitivo giu dizio . Furono questa scarsità di passi e questa incertezza negli antichi au tori, che provocarono molte indagini per spiegare il fatto, per cui negli Dion., III, 22; Festo, vº Sororium tigillum; Livio, I, 26. Liv., 1, 26; Bongai, Storia di Roma, I, 102 e 129.337 inizii col vocabolo ili parricidium sarebbesi indicato ogni omicidio, ed anche le cause, per cui gli antichi autori in un medesimo fatto poterono ora ravvisare il carattere di parricidium, ed ora quello di perduellio. Fra le molte congetture fattesi in proposito sono degne di nota sopratutto le seguenti: quella messa prima innanzi del Gebauer, ed ora anche seguita dal Voigt, e pressochè dalla universalità degli au tori tedeschi, secondo la quale a vece di leggere parricidium si dovrebbe leggere paricidium, cosicchè il vocabolo verrebbe a signi ficare l'uccisione di un pari o di un eguale ; quella messa in nanzi dal Rubino e dal Rein, secondo cui il vocabolo parricidium significherebbe fin dagli inizii l'uccisione di un congiunto, ossia un parentis excidium (3 ); quella sostenuta con molta dottrina dal Brüner e poi seguita damolti altri, in base a cui parricidium avrebbe dapprima da molti altri significato soltanto l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e sarebbe poi stato esteso a designare l'uccisione di qualsiasi uomo libero (4 ); e da ultimo quella sostenuta, fra gli altri,dalWalter e dal Maynz, secondo cui idue termini di parricidium La questione non è recente, ma fu già trattata dagli antichi criminalisti, e fra gli altri dal Sigoxio, De iudiciis, Cap. XXX, dal Mattei, dall'UBERO e da altri, che possono vedersi citati dal CARRARA, Programma di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, 137, $ 1138. Il primo, che sostenne paricidam esse, qui parem occidit fu il GEBAUER, Dissertationes academicae, vol. I, 64, XI, il quale si fondava sul detto di Ulpiano, che giunse veramente molto più tardi, omnes homines esse aequales. L'opinione era nuova, e fu accolta come osserva il CARRARA, op. e loc. cit., pressochè universalmente in Germania. Di recente poi il Voigt aggiunse a questa opinione anche il peso della sua autorità: Über die leges regiae, 11 a 64, e sopratutto a pag.57, nota 130. L'opinione stessa fu seguita fra noi anche dall'ARABIA, Princ. di diritto penale, III, 258. Quanto al CARRARA, egli sostiene, che in questo caso l'espressione paricidas esto significasse capital esto , cioè condannabile a morte; ma tale opinione non trovò seguito (Op. cit., 1139). Tale fu l'opinione messa innanzi dal Rubino: Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte. Casellae, 1839, 433-466; e dal Rein, Das Crimi nalrecht der Römer. Lipsiae, 1844, 401.(4 ) L'autore, che a mio avviso sostenne con grande erudizione, e con un senso vero di romanità, quest'opinione è il BRÜNER in una dissertazione col titolo De parricidii crimine et quaestoribux parricidii , letta il 2 marzo 1857 e riportata negli Acta societatis scientiarum Fennicae, Helsingforsiae, 1858, 519 a 569. Quest'o pinione è anche seguìta dal GORRIUS, in una dissertazione di laurea: De parricidii notione apud antiquissimos romanos , Bonnae, 1869, notevole per la rassegna, che fa delle opinioni professate daglialtri autori. G. C., Le origini del diritto di Roma. 22 338 e di perduellio sarebbero fra loro pareggiati, e significherebbero qualsiasi delitto, che per sua natura sia tale da chiamare la pub blica vendetta, e da eccitare una ripulsione universale. 275. Or bene con tutta la riverenza, che deve certo aversi per un autore cosi benemerito degli studii sul diritto primitivo, quale è il Voigt, non ritengo, che possa adottarsi l'opinione da lui seguita, secondo cui parricidium significherebbe il paris excidium. Anzi. tutto è malagevole di trovare negli esordii di Roma l'idea di questa parità e di questa uguaglianza giuridica, in quanto che, se si tol gano i capi di famiglia, non vi sono altre persone, che abbiano un'assoluta parità di diritto. Vi ha di più, ed è che, mettendo il concetto della parità a fondamento della figura criminosa del pa ricidium, ne verrebbe come conseguenza, che allora soltanto vi sa rebbe paricidium, quando un pari uccidesse un altro pari, cioè quando cosi l'uccisore che l'ucciso fossero in condizioni uguali fra di loro; il che certo non può richiedersi. Infine male si comprende, come questa figura primitiva di reato si venga foggiando sopra un con cetto puramente astratto, come è quello della uguaglianza, mentre vediamo, che tutte le altre distinzioni di reati, ed anche le confi gurazioni giuridiche di altra natura, che compariscono nell'antico diritto, vengono piuttosto ad essere determinate da circostanze este riori di fatto, come accade dal furtum manifestum, nec manife stum, conceptum, ed oblatum, ed anche della distinzione della res mancipii e nec mancipii, come pure delle mancipationes, vindi cationes, e simili. Cið anche per il motivo, che nel linguaggio pri mitivo si passa di preferenza da una significazione fisica ad una mo rale, o da una concreta ad un astratta, di quello che non accada il contrario. Quanto al fatto, che il vocabolo parricidium e parricidas in certi antichi codici trovisi scritto paricidium e paricidas, non può avere importanza, quando si consideri, che nelle leggi arcaiche trovansi soventi le lettere semplici, a vece delle doppie, come lo di mostra l'antico Senatusconsulto de bacchanalibus in cui occor rono le parole esent, velent, bacanal per essent, vellent, baccanal; quest'argomento del resto è anche distrutto da ciò, che son vi pure Questa opinione enunziata prima dal WALTER, Storia del diritto romano. Trad. BOLLATI, 8 766, vol. II, 450, fu di recente anche sostenuta dal Maynz, Introd., $ 18, 1, 55. Essa però fu vigorosamente confutata dal Koestlin: Die perduellio unter der römischen Königen. Tubing, 1841, 10-14. 339 dei codici, in cui occorrono le parole patricidium e patricidas, le quali attestano cosi anche la materiale derivazione dei due vocaboli da patris excidium. Vero è, che anche, fra gli antichi autori, se ne trovano di quelli, che sembrano accennare a questa origine del vocabolo; ma non è punto improbabile, che, allorquando la figura del parricidium aveva già presa altra significazione nella lex Pom peia de parricidiis, siasi anche allora cercato di spiegare nello stesso modo, cioè col ricorrere all'analogia delle parole, il vocabolo primitivo, con cui erasi indicato l'homicidium. 276. Non può del pari ammettersi, che il vocabolo parricidium abbia significato dapprima un parentis excidium, ossia l'uccisione di un congiunto in certi limiti di parentela, e che poscia siasi esteso a significare l'uccisione di qualsiasi concittadino, anche per quella specie di parentela, che viene ad esservi fra i cittadini di una me desima città. Per verità, quando così fosse, il vocabolo di parrici dium avrebbe avuto fin dapprincipio una significazione, che non cor risponde alla parola, in quanto che, come nota il Voigt stesso, nella precisione primitiva del linguaggio, per indicare l'uccisione di un congiunto, si sarebbe adoperata piuttosto l'espressione di parentici dium, che non quella di parricidium, in cui compare evidente l'idea dell'uccisione di un padre . Lo stesso è a dirsi dell'opinione, secondo cui parricidium avrebbe, nelle origini della città, significato l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e solo più tardi sarebbesi estesa all'uccisione di ogni uomo libero. Questa opinione, sostenuta con logica ed erudizione dal Brüner, sarebbe di tutte la più probabile, e quella che meglio spiega i passi a noi pervenuti, quando non contrastasse colla testi monianza di Plutarco: singulare est, quod Romulus, cum nullam in parricidas statuerit poenam, omne homicidium appellavit parricidium. Qui infatti si direbbe, che Romolo fin dagli inizii Lo scrittore latino, che sembra far derivare l'antico parricidium dalla parità fra uccisore ed ucciso, sarebbe ISIDORO, De orig., X, 225, il quale scrisse: parri cidium et homicidium, quocumque modo intelligi possunt, cum sint homines homi. nibus pares ; ma qui è evidente, che l'autore non cerca di dare la vera origine del vocabolo, ma solo di dare una spiegazione, che poteva apparire probabile all'epoca sua. Del resto quest'opinione fu già combattuta dall'OSENBRUEGGEN, Das altrömische parricidium. Kiel, 1841, 59. Cfr. Voigt. Op. cit., 10, 57, nota 130, in fine. 340 - della città avrebbe chiamato parricidium ogni omicidio, e che quindi non vi sarebbe stato periodo di tempo, in cui, dopo la for mazione della città, la parola fosse stata ristretta a significare l'uccisione di un padre delle genti patrizie. Resta ancora l'opinione sostenuta fra gli altri dal Walter e dal Maynz, secondo cui parricidium e perduellio sarebbero due espres sioni, usate promiscuamente, ad indicare i più gravi misfatti, che si potessero commettere nella comunanza. Vero è, che soventi nel lin guaggio primitivo presentansi di questi vocaboli sintetici, e comprensivi, che più tardi vengono in certo modo suddividendosi in guisa da espri mere solo più uno degli atteggiamenti, sotto cui presentasi il concetto primitivo; ma qui la cosa non ha potuto accadere, poichè i due concetti si svolgono in certo modo paralleli l'uno all'altro, ei due crimini sono perseguiti da ufficiali diversi. Se si guarda poi all'ori gine dei due vocaboli, anche questa viene ad essere completamente diversa; poichè, per formare la figura del parricidium, si riguarda alla persona dell'offeso, mentre, per formare invece quella della per duellio, si parte invece da quella dell'offensore, ossia dal vocabolo di perduellis, che nelle origini significava nemico. Nel parricidium si ha un'offesa contro un privato, che è sottratta alla privata per secuzione, ed attribuita alla pubblica autorità; mentre nella per duellio compare già personificata la stessa comunanza collettiva, la quale, trovando nel proprio seno chi cerca di comprometterne la sicu. rezza, scorge in esso una somiglianza coi nemici esterni della città, e perciò lo qualifica col nome stesso, che darebbe al nemico, con cui trovisi in aperta ostilità. 278. Ritengo invece, che anche queste due figure di crimini, che compariscono in Roma primitiva, possano essere spiegate in modo assai più verosimile, quando si tenga conto, che la città risulto dalla confederazione delle tribù, e che percid, colla sua formazione, i con cetti, che già esistevano nelle tribù, vennero a trapiantarsi nella città, colla differenza, che quei concetti, che prima erano intergen tilizii, per cosi esprimersi, diventarono invece concetti interqui ritarii, e ricevettero cosi una significazione diversa, per il diverso punto di vista, sotto cui vennero ad essere considerati. Cid è provato PLUTARCO, Romulus da questo che, appena Roma è fondata, già presentansi formati così il concetto del parricidium, che quello della perduellio; poichè il primo è già attribuito a Romolo, e l'altro a Tullo Ostilio, ma durante il regno di questo già esiste formata la lex horrendi criminis, rela tiva alla perduellio. Ciò significa, che queste due figure di reati eransi già delineate nella stessa organizzazione gentilizia, e che il parricidium significava l'uccisione di un padre, ossia del capo di una famiglia o di una gente: la quale uccisione costituiva l'unico misfatto, che non dipendesse dalla giurisdizione domestica, e che dovette per il primo essere punito, perchè era origine diguerre private nelseno stesso della tribù e di guerra fra le genti; e che la perduellio significava la nemicizia e l'ostilità fra gente e gente. Fu quindi naturale dal momento, che i capi di famiglia entrarono per confederazione nella medesima città, che il vocabolo parricidium si trovasse natural mente portato a significare l'uccisione di chiunque partecipasso alla comunanza, tanto più che i partecipi di essa dapprima erano veri padri, e che la perduellio, mentre prima significava le ostilità fra le genti, venisse ad indicare l'ostilità, che sorgeva nel seno stesso della città, poichè i capi delle varie genti e famiglie ne erano di ventati i cittadini. Allorchè poi fra i cittadininon furonvi solo più i capi di famiglia, ma anche altri uomini liberi fu naturale e lo gico, che l'uccisione volontaria di qualsiasi uomo libero rientrasse nella figura primitiva del parricidas. Viene cosi ad essere natural mente spiegato ciò, che ci attesta Plutarco: che Romolo, senza indurre pene contro i parricidiin senso stretto, abbia tuttavia chia mato ogni omicidio parricidium: in quanto che quello, che era parri cidio nei rapporti fra le varie famiglie e genti, venne ad essere uccisione di un quirite, allorchè questi padri furono cittadini della medesima città; al modo stesso, che il perduellis fra le varie genti venne ad essere il nemico dell'intiera comunanza, nel seno della città. Solo potrebbe notarsi, che non si deve ammettere una siffatta trasposizione di vocabolo da una significazione ad un'altra: ma è facile il rispondere, che la trasposizione dapprima fu pressochè in sensibile, perchè i primi quiriti erano veramente padri, e che simili trasposizioni sono frequentissime presso i Romani, i quali, ogni qual volta hanno formata una figura giuridica, non temono di traspor tarla da un caso ad un altro; come lo dimostra il ius Latii, che V. Festo, vº Hostis (Bruns, Fontes). trovato pei latini fu poi dai Romani applicato a popoli ed a genti, che non avevano più nulla a fare con essi. Era poi naturale, che quell'estendersi, che aveva luogo nella significazione del parricidium, a misura che la figura del cittadino e quella dell'uomo libero si ve nivano sostituendo a quella del padre, dovesse pure avverarsi quanto ai quaestores parricidii, il cui compito si viene così allargando, finchè più tardi il vocabolo apparisce disadatto, ed in allora sembra siansi sostituiti ai medesimi i tres viri capitales. 279. Intanto però nulla potè impedire, che, accanto alparricidium pubblicamente perseguito e che mutasi a poco a poco in homicidium, potesse ancora sussistere la configurazione tradizionale del massimo dei misfatti, che consiste nell'uccisione di un genitore, operata per mano di un figlio o di una figlia. La sua stessa enormità ed infre quenza spiega come negli esordii Romolo, al pari di Solone, non l'abbia contemplato: ma intanto, se per avventura accadeva, veniva ad essere punito con pene tradizionali, che cogli accessorii stessi, da cui erano accompagnate, cercavano di simboleggiare l'enormezza del delitto. Fu soltanto allorchè questo triste misfatto diventò ab bastanza frequente per la corruzione dei costumi, che la punizione di esso, prima conservata nella tradizione e nel costume, penetro anche nella legge, che dovette anche punire il parricidium in senso stretto, dandogli tuttavia una significazione più larga, comprenden dovi cioè qualsiasi uccisione di un parente o di un congiunto in certi confini di parentela, e a tal uopo far rivivere l'antica pena tradizionale. Fu allora, che il vocabolo di parricidium abban donò il semplice omicidio per venire ad indicare l'uccisione di un parente e di un congiunto, il che appunto si fece colla legge Pom Questa trasformazione non è ammessa dal BRÜNER, Dissert. cit., 8 7. Parmi tuttavia, che essa fosse una naturale conseguenza dell'estendersi della competenza dei quaestores parricidië, e del processo seguito dai Romani nello svolgimento delle proprie istituzioni. Essa poi sembrami anche una conseguenza della diffinizione da taci da Festo: quaestores parricidii, appellantur, qui solebant creari causa rerum capitalium quaerendarum . Non sarebbe poi qui il caso di entrare nella questione, se i quaestores parricidii del periodo regio, ed i questores aerarii della Repubblica possano avere la medesima origine: ma ritengo, che questa identità di origine non abbia nulla di improbabile, allorchè si tenga conto della primitiva indistinzione delle funzioni, che erano talora affidate allo stesso magistrato. Cfr. al riguardo il Villems, Le droit public romain, 303, nota 3. - 343 peia de parricidiis. Tuttavia, per il vocabolo di parricidium, alla significazione più ristretta, che esso viene ad assumere, sopravvive ancora un'altra significazione, non compiutamente giuridica, ma piut tosto oratoria, per cui parricidas viene ad essere chiamato il tradi tore della patria, l'oltraggiatore dei templi, quegli insomma, che col proprio delitto abbia violato uno di quei doveri, che hanno un ca rattere sacro per l'umanità. 280. Solo più resta a spiegare il fatto, per cui un medesimo de litto, quello cioè dell'Orazio, uccisore della propria sorella, abbia po tuto essere qualificato come perduellio da Livio, e invece sia riguar dato qual parricidium da Festo e da Dionisio. A questo propo sito è certo, che il fatto dell'Orazio, quale ci è narrato dalla tradi zione, presentava un carattere molto dubbioso. Da una parte eravi per certo l'uccisione di una persona libera, e quindi occorrevano gli estremi della legge attribuita a Numa; ma dall'altra l'uccisione era stata commessa, allorchè il popolo seguiva in massa l'Orazio vinci tore, e l'uccisione, sempre secondo la tradizione, sarebbe stata da lui inflitta, come pena contro coloro, che piangevano la morte di un nemico della patria. L'Orazio in certo modo, fra gli applausi della vittoria, aveva usurpato un ufficio, che al re, ed al popolo sarebbe spettato, e in quel momento aveva operato, come un perduellis, come una persona, che si era posta al disopra delle patrie leggi. È questo il motivo, per cui il popolo, che plaude il vincitore, trascina tuttavia il ribelle davanti al re, ed è questi, che, in base a quella distin zione fondamentale della primitiva procedura nel ius e nel iudicium, viene ad essere chiamato a giudicare di qual misfatto si tratti. In darno il padre dell'Orazio cerca di richiamare a sè la giurisdizione per trattarsi di un misfatto, che erasi compiuto da un suo figlio contro una sua figlia; qui il re ravvisa prevalere il carattere pubblico del misfatto, e quindi ritiene trattarsi di perduellio e conchiude: duum viros, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem facio . Dura era la legge relativa al perduelle, in quanto che, se condo i termini di essa, il condannato doveva avere avvolto il capo, essere sospeso arbori infelici, e poi essere ucciso a colpi di verghe, Cfr. BRÜNER, Dissert. cit., $ 526. È poi CICERONE, che parla di parricidium patriae, civium, e scrive: sacrum, sacrove commendatum, qui clepserit rapsitve parricida esto . Cfr. CARRARA,Op. cit., 1139. 344 intra pomoerium vel extra pomoerium . Il tenore della legge era quindi tale, che i duumviri dovettero condannarlo, e uno di essi già ordinava al littore colliga manus quando l'Orazio propone appello al popolo, il quale l'assolve in memoria del fatto compiuto, e sotto l'e sortazione del padre stesso, che viene esclamando fra la folla, che la propria figlia era stata iure caesam. Tuttavia l'Orazio, anche assolto, fu costretto a passare sotto il giogo, donde l'erezione del tigillum sororium, e la sua gente, secondo Dionisio, dovette anche offrire una piacularis hostia in base alla legge di Numa, che prevedeva il caso di un omicidio commesso per imprudenza. Anche in ciò abbiamo un indizio del dubbio, che si era presentato intorno al carattere del misfatto, poichè il passare sotto il giogo era certo la pena, a cui era sottoposto il nemico vinto, e il sacrifizio dell'ariete era imposto alla gente per causa dell'omicidio involontario. 281. Tuttavia, a mio avviso, la ragione che rende più verosimile la spiegazione premessa intorno alle origini del diritto criminale in Roma, sta sopratutto in ciò, che in questa parte sarebbesi seguito quel medesimo processo, che abbiamo potuto constatare in tutto il rimanente. I concetti già elaborati nella tribù sono trapiantati dalla città, al modo stesso che più tardi dalla città saranno portati ed estesi a tutto il mondo conquistato, e per tal modo di concetti intergentilizii, diventano concetti quiritarii, al modo stesso che più tardi i concetti quiritarii, ricevendo un nuovo contenuto, di venteranno poi di nuovo universali e comuni a tutte le genti. A questo proposito tolgo dal Bongai, Storia di Roma. I, 132, nota 1, una citazione dello SCHOEMANN, che sembra confermare l'opinione qui sostenuta: Horatium, quum supplicium de sorore indemnata sumpsisset, eaque caede et ius regis ac populi imminuisset, visum esse adversus ipsam rempublicam adeo deliquisse, ut perduellionis, non modo parricidii, teneretur . Osserverò poi per mio conto la singolarità del fatto, per cui il perduelle, considerato come nemico interno, viene ad essere assoggettato alla pena stessa del nemico esterno, cioè fatto passare sotto il giogo, quasi in segno di sottomissione forzata alle leggidella patria; altra prova, che non solo si tolse dall'ostilità esterna la figura della perduellio, ma in parte anche la pena, con cui essa era punita. Insomma perduellis significava il nemico nei rap porti fra le varie genti; ma quando i membri delle genti diventarono cittadini della stessa comunanza, diventò il nemico interno della medesima, e il nemico esterno si chiamò hostis. 345 Intanto anche in questa parte il parricidium e la perduellio sono due nozioni, il cui contenuto non è ancora ben determinato, ma al pari di tutti i primitivi concetti quiritarii appariscono come due co struzioni logiche, che si verranno svolgendo col tempo. Di qui con seguita, che il parricidium finirà per allargarsi per modo da com prendere tutte le offese contro il libero cittadino, che giungono a produrre la morte di lui: mentre la perduellio finirà per compren dere tutti i reati contro lo Stato, e quando questo si concentrerà nella persona dell'imperatore si cambierà nel crimen lesae maie statis. È quindi fino da quest'epoca, che comincia ad apparire la di stinzione fra il reato comune e il reato politico; ed è fin d'allora, che si sente l'opportunità di lasciare una parte al popolo nel giu dizio dei reati politici propriamente detti. L'uno e l'altro nel loro comparire sono come la sintesi dei reati pubblici, dopo i quali verranno poi anche ad essere repressi i delitti privati: la qual distin zione, iniziata da Servio Tullio, diventerà poi fondamentale nella legislazione decemvirale. Intanto le cose premesse bastano per dimostrare in qual modo siasi effettuata la formazione di una giurisdizione e di un diritto criminale in Roma primitiva. La giurisdizione criminale fu il risul tato di una sottrazione lenta e graduata, che l'autorità pubblica venne facendo alla giurisdizione domestica e patriarcale; e i primi pubblici delitti furono due figure di misfatti, che già preesistevano nell'organizzazione gentilizia, le quali, sebbene continuino ad essere indicate cogli stessi vocaboli, assumono però una significazione di versa. Di più anche nella primitiva concezione del delitto in Roma occorre quella potenza sintetica, che già abbiamo riscontrata nei concetti fondamentali della costituzione politica, e che apparirà anche più evidente nei concetti primitivi del diritto quiritario. Ciò indica che tanto il diritto pubblico e privato che il diritto penale, allorchè appariscono in Roma, sono già il frutto di una potente selezione ed elaborazione, fatta sui materiali somministrati dall'anteriore orga uizzazione gentilizia. I concetti del diritto primitivo di Roma sono altrettante sintesi potenti, in cui i fondatori della città cercano di scegliere e di con densare ciò, che hanno appreso nel periodo precedente. Ora più non ci resta che ad esaminare le condizioni della plebe cosi in tema di diritto pubblico, che di diritto privato. La condizione dei clienti e della plebe in Roma prima della costituzione Serviana. 282. Le cose premesse dimostrano ad evidenza, che tutta la primitiva costituzione politica di Roma, e quella legislazione, che dalla tradizione è attribuita ai primi cinque re, debbono ritenersi di origine esclusivamente patrizia, in quanto che si riducono in so stanza a concetti già elaborati nel periodo gentilizio, i quali, trapian tati nella città, vengono a ricevere un nuovo atteggiamento, ed a prendere una nuova significazione nella medesima. Solo più rimane a determinarsi quale potesse essere in questo periodo la condizione giuridica delle classi inferiori, al qual pro posito importa di tenere assolutamente distinti i clienti dalla plebe propriamente detta. 283. Per quello, che si riferisce ai clienti, la loro posizione giu ridica, in questo primitivo stadio della città, non viene ancora ad essere modificata, in quanto che essi continuano sempre ad apparte nere più alla gente, che alla città: perciò essi, per quanto si può ricavare da quella enumerazione dei diritti e degli obblighi fra patrono e cliente, che ci fu trasmessa da Dionisio, continuano ad avere gli stessi diritti e le medesime obbligazioni, che loro appar tenevano, durante il periodo gentilizio. Essi quindi non hanno ancora una vera proprietà, ma continuano a ricevere dalle genti degli assegni a titolo di precario sugli agri gentilizii; ne pos sono parimenti far valere direttamente le proprie ragioni davanti al magistrato della città, ma perciò debbono valersi della protezione e degli uffici del patrono. Per maggior ragione non può ammettersi, che in questo primo stadio essi possano intervenire nell'assemblea delle curie, comesostiene un gran numero di autori . Le curie sono Dion., II, 10. Cfr. quanto si espose intorno alla clientela, nel Lib. I, Cap. III, 3º, 46 a 52. Tale è l'opinione del Willems, Le droit public romain, 46e del PADELLETTI, Storia del diritto romano, 48 e seg., nota 2. Il prof. COGLIOLO nella sua nota nº d, 50, non approva intieramente l'opinione del Padelletti. 347 il sito di riunione pei quirites, per i gentiles, per i viri, il cui potere è simboleggiato dalla lancia, e non possono in nessun modo essere state aperte a quelli, che nell'organizzazione gentilizia trovinsi in condizione subordinata, anche per il semplice motivo, che, quando così fosse stato, il numero dei clienti, i quali avrebbero pur essi avuta parità di voto, avrebbe di gran lunga soverchiato quello dei patroni. Pud darsi che in occasione di guerra anche i gentilicii seguano il loro patrono, ma i medesimi dipendono ancora più dal cenno di esso, di quello che dipendano direttamente dallo Stato. Sarebbe in fatti strano ed incomprensibile, che quelli, che non possono ancora stare in giudizio, potessero concorrere direttamente alla elezione del re ed alla votazione delle leggi, e giudicare di coloro, che abbiano interposto appello al popolo. Sarà soltanto la costituzione Serviana, che, ponendo il censo a base della partecipazione ai ca richi civili e militari, obbligherà i padri delle genti a fare conces sioni di terre in proprietà ai propri clienti, per avere cosi un ap poggio nelle votazioni dei comizii centuriati, ed è da quest'epoca che cominciano a sentirsi le lagnanze dei plebei, perchè i padri appoggiati dai loro clienti riescono a dominare le votazioni nei co mizii centuriati. In questo senso la costituzione Serviana fu quella, che diede il gran colpo alla clientela, e con essa alla organizzazione gentilizia, perchè da quel momento anche i padri furono tenuti a fare concessioni di terre in proprietà ai proprii clienti, i quali acqui starono così una indipendenza economica dai patroni, che fu anche il principio della loro indipendenza politica; donde la conseguenza chemolti fra essi sono poi venuti ad allargare anche le file della plebe e ad appoggiare le pretensioni di essa. 284. Intanto peró la questione, la cui risoluzione è assolutamente indispensabile per comprendere la storia politica e giuridica di Roma primitiva, è quella relativa alla condizione giuridica della plebe sotto i primi re, così sotto l'aspetto del diritto pubblico, che sotto quello del diritto privato. Il grande avvenire della plebe romana rese per gli storici di Roma assai difficile il comprendere, come quell'elemento, che ai tempi Che le lagnanze dei plebei contro i clienti, per la preponderanza, che essi re cavano al patriziato, si riferiscano ai comizii centuriati, appare dal seguente passo di LIVIO (si veda). Irata plebs inesse consularibus comitiis noluit; per patres, clien tesque patrum consules creati sunt Titus Quintius et P. Servilius . 348 - loro era ormai divenuto il dominatore della piazza e del foro, po tesse, nelle origini, essere affatto escluso dal suffragio. Ond'è che essi, trovando ai loro tempi la plebe ammessa in parte agli stessi comizii curiati, e compresa nel populus, e una parte di essa anche pervenuta alla nobiltà potevano difficilmente riuscire colla mente loro a ricostruire quella primitiva distinzione fra populus e plebes, che ormai era scomparsa. Essi quindi parlarono nel loro racconto deglian tichi comizii curiati, come se essi avessero compreso tutto il populus, quale allora era costituito, cioè inchiudendovi anche la plebs. Tuttavia, malgrado quest'attestazione concorde, dubitarono i critici moderni, e quelli sopratutto, che al pari del Vico e del Niebhur, ave vano penetrato più profondamente l'indole e il carattere primitivo della città patrizia. La loro opinione trovò favorevole accoglimento; ma in questi ultimi tempi, essendosi dal Mommsen trovato, che vi fu un tempo, in cui dei plebei furono elevati alla dignità di curiones maximi, sorse nuovamente il dubbio, che la plebe abbia potuto essere am messa anche alle curie. Che anzi, siccome mancava notizia di una legge, che avesse proclamata quest'ammessione, vi furono anche degli autori, i quali, come il Paddelletti, giunsero a sostenere, che questa ammessione dovesse risalire fino agli inizii della città. Conviene però aggiungere, che gli autori, i quali direcente investigarono sulle fonti le origini della città, come il Voigt, il Karlowa, il Bernöft, il Pantaleoni, il Muirhead, il Gentile, ritornarono di nuovo al concetto di una città esclusivamente patrizia, ed alla esclusione della plebe primitiva dal far parte dell'assemblea delle curie. 285. Non è qui il caso di entrare in discussioni erudite sull'argo L'opinione sostenuta dal PADELLETTI è anche seguita dal WILLEMS, Op. cit., 47 e segg.; dal LANDUCCI, Storia del diritto romano, 357, nota nº 2; dal Peluam, Encyclop. Britann., vol. XX, pº Rome (ancient), i quali però non entrano nella discussione degli argomenti in pro e in contro. Quanto al PADELLETTI debbo far notare, che se la sua autorità è grande quanto al periodo storico, non può dirsi altrettanto quanto al periodo delle origini, e ciò perchè l'autore, fin dagli inizii dell'opera, col suo solito fare reciso ed alieno dalle dubbiezze, afferma e che lo studio delle origini può essere interessantissimo ed utile al mitologo ed allo storico, ma è molto sterile per il giurisprudente (pag. 4 ). Ciò spiega come l'autore, essendosi accinto all'opera sua con un tale concetto dello studio delle origini, sia caduto in gravi equivoci, ogniqualvolta toccò quell'argomento, come può scorgersi quanto alle origini della famiglia, della proprietà, dei delitti e delle pene, ed al sistema delle azioni. Nell'o pera sua il diritto romano compare bello e formato, senza che si sappia, donde pro ceda. Ciò comprese il suo annotatore Cogliolo, che intese a supplirvi colle proprie note. 349 mento; mibasterà il dire, che se si tenga conto del processo, che do minò la formazione della comunanza romana, è del tutto improbabile, che la plebs abbia potuto essere ammessa, fin dagli inizii, alla civitas e quindi anche alle curiae, le quali erano una ripartizione della me desima. I cambiamenti sono troppo lenti nelle organizzazioni primitive, perchè un elemento, che trovavasi in una condizione del tutto infe riore, potesse di un tratto, e fin dal tempo, in cui era ancora debole e privo di qualsiasi organizzazione, essere ammesso a far parte di una nuova consociazione, sovra un piede di uguaglianza, in guisa da entrare a far parte della civitas e della curiae, le quali, oltre al l'essere corporazioni politiche, erano anche corporazioni strette dal vincolo di una religione, chenon era ancora accomunata alla plebe. È affatto improbabile, che quel gentile o patrizio, che è sopratutto altero di poter indicare i suoi antenati, senza che alcuno fra essi fosse mai stato servo nè cliente, potesse diun tratto accettare un voto del tutto eguale con un plebeo, che poteva forse essere stato prima suo cliente o suo servo, e che ad ognimodo era di un'origine diversa dalla sua, e non poteva indicare i propri antenati. Ciò ripugna al modo di pen sare delle genti primitive, che non conoscendo altro vincolo, che quello del sangue, dånno sopratutto importanza alle discendenza ed alla nascita. Sarebbe strano, che quei patrizii, i quali, allorchè più tardi accoglievano nuove genti, le collocavano fra le gentes mi nores, potessero concepire un pareggiamento completo del loro ordine colla moltitudine o folla, da cui si trovavano circondati. Questa pa rità, secondo il modo di pensare dell'epoca, nè poteva essere am messa dal patriziato, nè poteva essere chiesta dalla plebe, la quale trovavasi ancora in condizione troppo umile per potervi aspirare; nè è a credersi, che il patriziato primitivo, fondatore della città, volesse per generosità accordare spontaneamente cid, che era ancora in condizione di negare, e che non concesse, che quando vi fu compiutamente forzato. Ciò è tanto più improbabile, in quanto che la curia, come abbiamo dimostrato a suo tempo, era chiamata eziandio a deliberare sopra una quantità di affari, che si riferivano direttamente all'organizzazione domestica e gentilizia loro esclusivamente propria; poichè il quirite in questo periodo da una parte guarda ancora alla gente, da cui esce, e dall'altra alla città, di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie, esso può essere facilmente spie gato. La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica, eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie. Quindi al modo stesso, che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potcui esce, e dall'altra alla città, di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie, esso può essere facilmente spie gato. La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica, eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie. Quindi al modo stesso, che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potuto essere am messa anche alle curie, la cui importanza non era più che religiosa. Un tal fatto venne certo ad essere possibile più tardi; ma l'ammet terlo fin dagli inizii, è uno sconvolgere ed invertire ilmodo di pensare dell'epoca e l'ordine degli avvenimenti. Sarebbe infatti un fare co minciare l'unione del patriziato e della plebe dal partecipare ad una stessa corporazione religiosa; mentre i fatti dimostrano, che questa fu l'ultima parte delle loro tradizioni, che si decisero ad accomunare alla plebe. Se quindi la plebe riuscì a penetrare nella civitas ciò non dovette essere mediante le curiae, che avevano ancora un ca rattere religioso, ed erano formate ex hominum generibus; ma bensi per mezzo delle classi e delle centurie, che avevano piuttosto un carattere militare, e si fondavano sulla proprietà e sul censo. Le cause, che cooperarono più tardi a ravvicinare i due ordini, furono sopratutto i comuni pericoli, che obbligarono la città patrizia ad arruolare nell'esercito i plebei, al modo stesso che dovette arruolare più tardi anche i liberti; come pure vi cooperarono la proprietà, che fu pure acquistata dalla plebe ed i conseguenti commerci, che ne deri varono fra essa e il patriziato; ed è forse questo il motivo, per cui la costituzione Serviana assunse dapprima un carattere militare ed eco nomico ad un tempo. Quanto al fatto allegato dai sostenitori del l'opinione contraria, che il vocabolo populus romanus quiritium abbia più tardi compresa eziandio la plebe, esso può essere facilmente spiegato, in quanto non è questo il solo caso, in cui i Romani, man tenendo la parola, ne mutassero il significato. Del resto il vocabolo populus per Roma era una concezione e forma logica, al pari di tutte le altre concezioni giuridiche e politiche; esso comprendeva l'uni versalità dei cittadini, e quindi, come era naturale, che non com prendesse la plebe, finchè questa non faceva parte della città, cosi doveva comprenderla, allorchè essa, in base al censo, entrò a far parte delle classi e delle centurie Serviane. 351 287. Ferma così la risoluzione delmaggior problema della storia primitiva di Roma, solo resta a ricercare brevemente, quale potesse in questo periodo essere la posizione della plebe in tema di diritto privato; il qual compito ci è reso facile da ciò, che si venne fin qui ragionando. È noto, come il ius quiritium, allorchè giunse al suo completo sviluppo, mentre in tema di diritto pubblico comprendeva il ius suf fragii e il ius honorum, che entrambi, a nostro avviso, furono dapprima negati alla plebe, in tema invece di diritto privato si rias sumeva nel ius connubii e nel ius commercii. Quanto al primo di questi diritti, abbiamo troppi argomenti nella storia per affermare con certezza, che solo più tardi i plebei furono ammessi al ius connubii col patriziato; il che però non significa, che essi non potessero contrarre fra loro delle unionimatrimoniali, ma soltanto che queste unioni non potevano, di fronte al patriziato, produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta, è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii. Così avrei ritenuto ancioni non potevano, di fronte al patriziato, produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta, è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii. Così avrei ritenuto anch'io nell'inizio di questo studio, e può darsi che nel corso del libro cid apparisca in qualche parte; ma ora il processo logico, che domind la formazione del diritto romano, in mancanza di ogni informazione diretta, mi conduce ad affermare, che non dovette essere il ius commercii, che la città patrizia riconobbe alla plebe circostante, ma bensì il ius neximancipiique, il quale, come si è veduto più sopra, è quello stesso diritto, che Roma, dopo es sersi incorporata la primitiva plebe, ebbe ad accordare alle altre popolazioni circostanti, che vengono sotto il nome di forcti ac sa crates. Anche il concetto di commercium, nella larga significazione che ebbe pei Romani, in guisa da comprendere il diritto di comprare e di vendere, di obbligarsi e di fare testamento ex iure quiritium, suppone una certa parità di condizione fra le persone, fra cui in tercede. Siccome quindi le genti patrizie erano per modo organizzate da provedere compiutamente ai loro bisogni: così non poteva dap prima essere il caso, che riconoscessero ad una classe inferiore un ius commercii, sopra un piede di eguaglianza, ma loro dovettero riconoscere soltanto il diritto del mancipium, ossia quello di avere una proprietà, che poteva essere alienata, e il ius nexi, ossia il di Tale è, ad esempio, l'opinione del LANGE, Histoir. intér. de Rome, I, 61. 352 ritto di potersi obbligare, mediante il nexum. Le conseguenze pra: tiche nella sostanza potevano essere le stesse; ma intanto la supe riorità delle genti e il vassallaggio della plebe venivano ad essere riconosciute. Ed è questo il motivo, che allorquando la plebe fu ammessa nella città, il nexum ed il mancipium, come accadde anche in tutto il resto, cessarono di significare dei rapporti fra le genti patrizie e la plebe, che le circondava, per diventare rapporti interni, e costituirono cosi i primi concetti quiritarii, comuni alle due classi. Più tardi però, anche questi vocaboli, che ricordavano una disugua glianza di condizione fra le due classi, apparvero disadatti, e nella successiva elaborazione del diritto quiritario furono sostituiti da altri. Non può dirsi pertanto, che in questo periodo siasi già cominciata l'elaborazione di un vero ius civile, ispirato ad un concetto di ugua glianza fra patriziato e plebe, ma continua sempre ad esistere un diritto proprio delle genti patrizie, che parteciparono alla formazione della città, e che costituisce il primitivo ius quiritium; ed un di ritto che governa i rapporti fra la città patrizia e la plebe, che la circonda, il quale si risente ancora delle condizioni disuguali, in cui essi si trovano. È questo il motivo, per cui la plebe nelle proprie tradizioni fece sempre rimontare la sua esistenza giuridica alla costi tuzione Serviana; colla quale lo sviluppo del diritto pubblico e privato di Roma prende un indirizzo del tutto peculiare, che influi potente mente su tutto lo svolgimento, che ebbe ad avverarsi più tardi, e merita perciò di essere particolarmente e profondamente studiato. Non mi trattengo più a lungo su questo punto, perchè ho già dovuto accen narvi nel Lib. I, Cap. X, nº 160, 193 e seg., e perchè la prova delle cose qui enunziate apparirà anche più evidente, quando si tratterà della costituzione Ser viana e della sua influenza sul diritto privato di Roma. Colla venuta dei Tarquinii a Roma, si inizia nella medesima una trasformazione profonda, la quale potè in parte essere travisata dalle tradizioni e dalle leggende, ed anche dissimulata dall'amor patrio degli storici latini, ma i cui principali tratti si possono di scernere nelle serie degli avvenimenti e dei fatti, di cui ci fu con servata memoria. Fino a quell'epoca, delle varie stirpi, che erano concorse a co stituire la città, avevano sempre avuta una incontrastabile prevalenza le latine e le sabine, fra le quali erasi venuto alternando il ma gistrato supremo; mentre i Luceres non avevano somministrato alcun re, nè forse avevano avuto nella formazione dei primitivi sacerdozii. Or bene, regnando Anco Marzio, di origine latina, la gente Tarquinia, di origine etrusca, ricca di capitali e numerosa per clientele, viene a porre la propria sede in Roma, per conseguirvi quello stato, che le era conteso nel luogo nativo (Tarquinia ). Il capo di essa è uomo abile ed intraprendente, e dopo aver consi gliato in vita Anco Marzio, ne guadagna per modo la fiducia, da diventare dopo la sua morte tutore dei figli di lui, o ottiene in breve colle sue ricchezze e collo splendore della propria vita tale un seguito, da essere assunto al trono, mediante il suffragio del G. C., Le origini del diritto di Roma. 23 354 popolo e coll'autorità dei padri: eum, scrive Livio, ingenti con sensu populus romanus regnare iussit . Nè sembra essere il caso di supporre col dottissimo OldofredoMüller, che questa immigrazione di genti etrusche corrisponda alla supre mazia, che la città di Tarquinia avrebbe conquistata su Roma, su premazia, che gli storici latini avrebbero cercato di dissimulare : poichè le nuove genti appariscono in concordia con tutti gli ordini della città, e il capo di esse, chiamato con tutte le formalità al trono, raccoglie in effetto tutte le sue cure sulla patria novella, e l'arricchisce di pubblici edifizii, che allo splendore delle costruzioni greche ed etrusche sembrano associare quel carattere di grandiosità e di forza, che è proprio delle costruzioni latine. Sembra quindi più verosimile, che alcune fra le città etrusche in quell'epoca fossero pervenute a quel periodo di crisi, che occorre eziandio nelle città greche, durante il quale, sorgendo lotta di superiorità e di predo minio fra i capi delle grandi famiglie, vengono ad esservene di quelle, che sono forzate a cercare altrove miglior sorte e fortuna. Per un tale intento offerivasi opportuna la città di Roma, la quale in quel periodo di tempo era ancora disposta ad accogliere nuove genti nei proprii quadri, e mentre da una parte, per la fortezza già sperimentata dei proprii abitanti, poteva aspirare ad un grande avvenire, dall'altra aveva ancora molto ad apprendere, sia quanto allo splendore dei pubblici edifizii, sia quanto all'ordinamento mi litare e civile. Di più essa già conteneva nel proprio seno delle genti di origine etrusca, cosicchè la nuova immigrazione poteva avervi parentele ed aderenze, che spiegano l'appoggio e il seguito, che vi trovarono in breve la gente Tarquinia e il proprio capo. 289. Questo è certo ad ogni modo, che in Roma si manifestano ben tosto i segni di una trasformazione potente. - Infatti, secondo la tradizione, la sua popolazione viene ad essere come raddoppiata, ed il nuovo elemento sembra dare alla città un indirizzo mercantile, come lo dimostra il fatto, che dopo la dominazione dei Tarquinii Liv., 1, 34; Dion., IV, 2. Müller O., Die Etrusker. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituz.di Roma, 134, ove si impugna appunto l'opinione del Müller. L'opinione qui accettata è conforme a quella, che ho cercato didimostrare più sopra, relativamente agli aumenti nel numero dei senatori. Lib. II, cap. II, 5, nn. 212 e 213, 258.355 Roma è già in condizione di conchiudere, anche come rappresen tante del Lazio, un trattato di navigazione con Cartagine. Mentre poi fino a quell'epoca Roma aveva ancor sempre conser vato il suo carattere primitivo di federazione fra diverse comunanze, con Tarquinio invece sembra iniziarsi il periodo, che potrebbe chia marsi di incorporazione. Narra infatti Livio, che Tarquinio avrebbe distribuito spazi intorno al foro, accið i privati vi potessero costruire le proprie abitazioni, e che in lui era già sorto il pensiero di cin gere la città di mura, adottando così il tipo delle città etrusche, le quali, essendo dedite ai commerci, solevano chiudersi e fortificarsi nelle proprie mura . A compir l'opera sarebbesi richiesto, che i quadri della città pri mitiva fossero modificati, e che alle divisioni di carattere gentilizio se ne sostituissero altre di carattere territoriale e locale. Cid secondo la tradizione avrebbe pur tentato Tarquinio, quando non si fosse op posto il patriziato per mezzo dell'augure sabino Atto Nevio, osser vando che la primitiva città erasi fondata mediante gli auspicii, e che perciò i quadri di essa consacrati dalla religione dovevano essere mantenuti. Non vi fu quindi altro mezzo che di fare entrare il nuovo elemento nei quadri antichi, il che Tarquinio avrebbe cercato di conseguire: lº aggiungendo alle centurie dei cavalieri, altre centurie, che serbarono il nome antico, ma presero la deno minazione di Ramnenses, Titienses, e Luceres secundi; 2º ac crescendo il senato di cento nuovi senatori, che si chiamarono patres minorum gentium; 3º raddoppiando il numero dei pontefici e degli auguri, e destinando anche alla custodia ed alla interpretazione dei libri sibillini i duoviri sacris faciundis, i quali, portati poscia a dieci e più tardi a quindici, finirono per cambiarsi in un collegio sacerdotale, che sovraintendeva și culti di provenienza straniera (4 ). La memoria di questo trattato di navigazione, conchiuso nel primo anno della Repubblica, ci fu serbata da POLIBIO, III, 22, 24, il quale l'avrebbe tradotto da un latino arcaico, che ai suoi tempi era già diventato difficile a comprendersi. Liv., I, 35, 36, 38. Egli anzi attribuisce a Tarquinio di aver già intrapresa la cinta, che prese poi il nome di Serviana. (3 ) Liv., I, 36; Dion., III, 70, 72. (4 ) Dron., III, 67; IV, 62. L'istituzione dei duoviri sacris faciundis ora è attri buita a Tarquinio Prisco ed ora a Tarquinio il Superbo. Quanto allo svolgimento storico di questo collegio sacerdotale è da vedersi il Bouché-LECLERCQ, Histoire de la divination, Paris, 1882, IV, pagg. 286-317, come pure il Manuel des institu tions romaines, Paris, 1886, 545.356 Intanto anche la religione subì l'influenza del nuovo elemento, ma in proposito fu giustamente osservato, che la religione, importata da questa immigrazione etrusca, non ha quel carattere misterioso ed arcano, che vuole essere attribuito ai riti etruschi, ma si risente invece dell'influenza greca, come lo prova la triade capitolina di Giove, Minerva e Giunone ; il che sembrerebbe confermare, che i Tarquinii, pur venendo da una città etrusca, potessero remotamente provenire da una città greca, che secondo la tradizione sarebbe stata Corinto . Della plebe quasi non si occupa la tradizione; ma si può affer mare con certezza che come le immigrazioni latine avevano ac cresciuta la plebe rurale, dedita alla coltura delle terre, così quella etrusca dovette trascinare con sè un grande numero di artieri, di commercianti, di uomini esperti nell'arte della costruzione, che con corse ad accrescere la plebe urbana. Intanto si accrebbero i mo tivi di ravvicinamento fra patriziato e plebe, poichè la plebe del con tado era divenuta un elemento indispensabile per rafforzare l'esercito, e la cooperazione della plebe urbana era anch'essa necessaria per compiere quelle opere pubbliche grandiose, che sono la caratteri stica di questo periodo della storia di Roma, e che erano natural mente richieste dall'ingrandirsi della città e dal nuovo indirizzo preso dalla medesima. 290. Le cose quindi erano venute a tale, che coll'ampliarsi della città, anche i quadri del populus dovevano essere allargati in guisa da potervi comprendere quella parte della plebe, che ormai per venuta a qualche agiatezza, ed affezionata al suolo da esso col tivato, poteva avere interesse all'incremento e alla difesa della città. Fu questa l'opera, che la tradizione ha attribuito a Servio Tullio; altro re, che appare come trasfigurato dalla leggenda, la quale probabilmente ha finito anche qui per attribuire all'opera di un solo ciò che ha dovuto essere l'effetto del concorso di varii elementi, e delle nuove energie e forze operose, che vennero a Questa osservazione è del PANTALEONI, op. cit., p. 149. È noto che, secondo Livio I, 34, Tarquinio Prisco, pur provenendo diretta mente da Tarquinia, sarebbe tuttavia figlio di un Demarato Corinzio. (3 ) Quanto all'incremento della plebe sotto il regno del primo Tarquinio, è da ve dersi Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung. Leipzig, 1884, I, 32.357 scaturire dal nuovo stato di cose e dal nuovo indirizzo, che veniva prendendo la città di Roma. È dubbia la origine di Servio Tullio: mentre la tradizione latina, unitamente al carattere della sua riforma, che appare più una evoluzione che una rivoluzione, lo la scierebbero credere di origine latina, una tradizione invece, che vigeva presso gli Etruschi, e che ci fu conservata dall'imperatore Claudio nel preambolo ad un senatusconsulto, lo direbbe di origine etrusca, e gli attribuirebbe il nome di Mastarna. Tutta l'antichità ad ognimodo è concorde nel riconoscere l'impor tanza della sua costituzione, poichè è certo che, debbasi ciò attribuire alla sapienza del principe autore di essa, o alla tenacità del popolo che ebbe a svolgerla, essa corrisponde a un graduato sviluppo e segna comeun nuovo stadio nella formazione della città. Essa chiude il pe riodo esclusivamente patrizio, in cui domina ancora la discendenza e la nascita, ed inizia quello patrizio -plebeo, in cui i due ordini, dopo essere entrati a far parte del medesimo popolo, sulla base del censo, finiscono per avviarsi fra le lotte ed i dissidii al pareggia mento giuridico e politico. Può darsi, che anche altre città abbiano avuta una costituzione analoga, come, ad esempio, Atene per opera di Solone ; ma non ve ne ha certamente un'altra, che per la tenacità e la perseveranza degli ordini, che si trovarono di fronte, abbia saputo ricavarne un più sicuro e graduato sviluppo. Ben è vero, che anche per Roma vi fu un periodo, in cui l'evo luzione è stata interrotta da un tentativo di tirannide; ma nel resi stervi tutti gli ordini furono concordi, e il rimedio fu estremo, quello cioè di cacciare dalla città l'elemento, che ne aveva poste a repen L'oratio, che precede il senatusconsulto Claudiano dell'anno 48 dell'êra vol gare de iure honorum Gallis dando può vedersi nel Bkuns, Fontes, ed. V, p. 177. Ivi l'erudito imperatore, volendo accogliere nel senato anche dei Galli, fa la storia degli elementi, che Roma avrebbe assorbito nei suoi varii stadii, e trova così occa sione di accennare alle due tradizioni relative a Servio Tullio, di cui una lo farebbe nascere da una prigioniera di nome Ocresia, mentre l'altra lo direbbe di origine etrusca. Le diverse opinioni degli eruditi sulla fede, che merita il racconto di Claudio, e la conferma indiretta, che esso avrebbe ricevuto da alcune recenti scoperte archeologiche, sono riportate dal Bonghs, Storia di Roma, I, 201, nota 14. Quanto alle analogie fra la costituzione di Solone e quella Serviana e fra le condizioni storiche, che poterono determinare l'una e l'altra, è sempre a consultarsi il GROTE, Histoire de la Grèce. Trad. De Sadous, Paris, 1865, tome IV, chap. 4me, 137 a 216, come pure l'appendice allo stesso capitolo, in cui discorre della con dizione dei nexi e degli addicti in Roma antica. - 358 al taglio le libere istituzioni, malgrado le difficoltà gravissime, in cui venne allora a trovarsi la città. L'interruzione però non impedì che, superata la crisi, lo svolgimento storico fosse ripreso punto stesso, a cui erasi arrestato, cosicchè lo spirito della costituzione serviana pervade non solo l'elaborazione del diritto pubblico, ma ancora quella del privato. Fu il non averne tenuto conto sufficiente che, a mio avviso, ha impedito di dare una spiegazione plausibile dei più singolari caratteri del diritto primitivo di Roma. 2. – Il concetto ispiratore della riforma Serviana eimezzi che servirono ad attuarla. 291. Fu abbastanza dimostrato, che la formazione della città pri mitiva non è un'opera di semplice agglomerazione, che piglia i ma teriali quali si presentano e li amalgama confusamente insieme; ma un'opera di selezione, che solo li accetta in quanto entrano nel suo ordinamento simmetrico e coerente; donde la conseguenza, che se un mutamento si introduce in una parte essenziale di essa, questo deve pur riflettersi e riverberarsi nelle altre parti. Ciò apparve nella città patrizia, e appare ugualmente nella costituzione serviana. Il problema era quello di unire due popolazioni, che si trovavano, come si è veduto, in condizioni sociali compiutamente diverse, e di farle entrare a far parte della stessa comunanza civile, politica e militare. Il fonderle insieme era per il momento impossibile, perchè la distanza fra di loro. era ancora troppo grande, e certi istituti, come la religione e i connubii, erano ancora troppo gelosamente custoditi per poter essere accomunati. Le sole istituzioni, comuni ai due ordini, erano la proprietà e la famiglia, e il solo inte resse, che li aveva condotti ad avvicinarsi, era quello di prov vedere insieme alla difesa di sè e delle proprie terre. Queste sol tanto potevano essere le basi della loro partecipazione alla medesima città: quindi è che la costituzione serviana, sebbene allarghi le file del populus, comprendendovi un elemento, che era escluso dalla città patrizia, finisce però per dare una base più ristretta alla par tecipazione dei due ordini alla stessa comunanza civile e politica. Mentre il popolo delle curie aveva comune l'elemento religioso, l'organizzazione gentilizia, e il culto per le antiche tradizioni; il popolo invece, che esce dalla costituzione di Servio, viene ad essere composto di capi di famiglia e di proprietari di terre, che entrano 359 a far parte del medesimo esercito, e più tardi anche della medesima assemblea, in base alla sola considerazione del censo, e nell'intento esclusivo di provvedere alla difesa di quegli interessi, che loro potevano essere comuni. La nuova comunanza pud in certo modo essere paragonata ad una società, in cui ciascuno viene ad aver diritti ed obbligazioni proporzionate al proprio censo, il quale viene così ad essere considerato come una garanzia dell'interesse, che altri può avere all'avvenire e alla grandezza della città. Il nuovo popolo pertanto non ha nulla a fare colle curie dei patrizii, ai quali continuano ad essere riservati gli auspizii, i sacerdozii, le magistrature e gli onori; ma viene ad assumere negli inizii una organizzazione di carattere essenzialmente militare, in cui la parte cipazione ai diritti e alle obbligazioni della cittadinanza sotto l'aspetto militare, politico e tributario viene ad essere determinata esclusiva mente dal censo. In apparenza quindi l'organizzazione per curie delle genti patrizie è lasciata integra ed intatta; ma intanto a lato della medesima sorge un nucleo novello, che per essere più numeroso e più forte finirà per richiamare in sè ogni energia civile, politica e militare, lasciando col tempo alle curie la sola custodia delle tradi zioni e dei culti gentilizii. 292. È questo il motivo, per cui la costituzione serviana potè essere apprezzata in guisa compiutamente diversa, anche dagli an tichi scrittori, i quali la descrivono, ora come favorevole al patri ziato o almeno alle classi più elevate, ed ora invece come favorevole alla plebe. Essa era tale, che da una parte doveva essere accetta al patriziato, il quale, mentre riteneva ciò, che era esclusivamente suo proprio, trovava poi più forte il proprio esercito, più ricco il proprio erario, più ampia la città, di cui continuava ad avere le magistrature e gli onori; dall'altra doveva anche essere gradita alla plebe, perchè essa, ancorchè sulla base esclusiva del censo, veniva Che questo fosse il concetto informatore della costituzione serviana appare da Aulo Gellio, XVI, cap. 10, n ° 11, il quale dice espressamente che res pecuniaque familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque in patriam fides quaedam in ea, firmamentumque erat . Il paragone poi della comunanza quiritaria, in base alla costituzione serviana, ad una società di azionisti già occorre nel NIEBHUR, Histoire romaine, II, p. 193. Il diverso apprezzamento,che gli antichi fecero della riforma serviana, apparisce da Cic., De rep., II, 22; Liv., 1, 42, 43; Dion., IV, 20. Cfr. in proposito il Bonghi, op. cit., I, 548.360 ad acquistare una posizione giuridica, che prima non aveva, ed è abbastanza noto, che quando trattasi di un'aggregazione sociale, il passo più difficile è quello di potervi penetrare, poichè dopo la forza stessa delle cose condurrà ad avervi una posizione adeguata al pro prio valore. Questo è certo, per quanto appare dalla tradizione, che i due ordini sembrano essere concordi nell'accettare la costituzione di Servio Tullio, per guisa che ad opera compiuta gli riconoscono re golarmente quel potere, che prima aveva esercitato più di fatto, che non di diritto; tantoque consensu, quanto haud quisquam alius ante, rex est declaratus. Intanto la nuova costituzione appare informata anche essa ad un unico concetto, che è quello di dare a ciascuno nella città una parte proporzionata all'interesse, che egli può avere per l'incremento della medesima: interesse, che si ritiene dover essere misurato dal censo. Quest' unico concetto poi viene incarnandosi nel fatto con mezzi e con istituzioni diverse, fra i quali sono sopratutto importanti e degni di nota l'ampliamento delle mura, la ripartizione del territorio in tribù o regioni locali, l'istituzione del censo e l'organizzazione del nuovo popolo in classi ed in centurie; istituti questi, che abbozzati negli inizii da mano maestra, dovranno poi ricevere dalla logica tenace del popolo romano tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. Coll’ampliamento delle mura la città, che prima riducevasi ad un complesso di edifizii, aventi pubblica destinazione e riuniti in un piccolo spazio, a cui mettevano capo le varie comunanze, viene a comprendere nella propria cerchia buona parte di tali comunanze, le loro rispettive fortezze, ed una quantità grande di abitazioni pri vate. Cresce così il nucleo della popolazione urbana di fronte a quella del contado; il contatto fra il patriziato e la plebe diviene più intimo e frequente, e la vita della città concorre così a dissol vere quell'ordinamento per genti e per clientele, che forse sarebbesi mantenuto stazionario o almeno più duraturo in seno alle comunanze di villaggio. La città intanto, chiusa e fortificata nelle proprie mura, difesa da un esercito, il cui contingente viene ad essere più volte moltiplicato, abitata da un popolo pressochè militarmente organizzato, assume anch'essa un carattere più decisamente militare e apparisce Liv., I, 46. 361 paurosa ed imponente alle popolazioni vicine. Così pure è da questo momento, che la vita fra le stesse mura conduce a mescolare e a confondere il sangue delle varie stirpi, fino a che per mezzo di re ciproci adattamenti finiranno tutte per concorrere a formare un or ganismo unico e coerente. Quasi poi si direbbe, che i fondatori della nuova città abbiano una certa consapevolezza dell'avvenire di essa; poichè il nuovo circuito comprende non solo il Palatino, il Capitolino, il Quirinale, il Celio, il Gianicolo, ma anche l'Esquilino e il Viminale, alcuni fra i quali sono ancora spopolati (3 ); cosicchè il pomoerium della città non dovette più essere ampliato, durante il periodo repubblicano, malgrado gli incrementi, che si verificarono nella popolazione. A questo riguardo vuolsi però osservare, che sebbene la città dal tipo latino sembri far passaggio al tipo etrusco, tuttavia essa au menta bensi il suo nucleo centrale, ma serba ancor sempre i ca ratteri primitivi della città latina. Infatti non tutta la sua popola zione viene ad essere accolta nelle sue mura, ma buona parte di essa continua ad essere dispersa per le campagne e fuori delle mura; cosicchè la città continua sempre ad essere un centro di vita pub blica per popolazioni, che possono avere altrove la propria resi denza. Cosi pure in tutta questa trasformazione punto non parlasi di nuove ripartizioni di terre, se si eccettuano i soliti assegni, che per consuetudine invalsa i re sogliono fare alla plebe; il che si gnifica che le famiglie, le genti e le tribù dovettero continuare a ritenere le proprie terre (4 ). 294. Intanto è evidente, che in una città cosi concepita diveniva necessario, che all'antica distinzione fondata sull'origine e sulla discen L'intento eminentemente militare della cinta serviana è dimostrato anche dal fatto, che gli intelligenti delle cose militari ritengono che dall'orientamento di essa si possa perfino argomentare alla situazione delle porte in essa esistenti. V. BARAT TIERI, Sulle fortificazioni di Roma antica, Nuova Antologia , 1887, fascic. 10. Questo concetto trovasi efficacemente espresso da Floro nel passo citato al lib. I, cap. I, nº 10, 10, nota 1. MIDDLETON, Ancient Rome, 59. L'ampliamento delle mura, scrive NIEBIUR, fu il pensiero di un genio, che confidava nella eternità e negli alti destini della città, e che aperse la via ai suoi futuri progressi o. Op. cit., II, 123. (4 ) Questi assegni fatti da Servio Tullio alla plebe sono attestati da Livio, I, 46, più chiaramente ancora da Dionisio, IV, 9, allorchè scrive: agrum publicum di visit civibus romanis, qui ob rei domesticae difficultates aliis, mercedis causa, ser viebant . e 362 denza si aggiungesse una nuova ripartizione di carattere locale e ter ritoriale, la quale potesse anche essere di base per constatare la po polazione, che vi avesse la propria residenza, e per fissare il tributo, a cui dovesse essere soggetta (tributum ex censu ). Cid si ottenne col ri partire il territorio in tribù o regioni locali, le quali si suddivisero poi in rustiche ed urbane. Le urbane sono quattro e prendono senz'altro il nome dalle località, e chiamansi così Suburana, Esquilina, Collina e Palatina: mentre le rustiche continuano per la maggior parte a prendere il nome dalle genti patrizie, quali sarebbero l'Emilia, la Cornelia, la Fabia, la Galeria, l'Orazia, la Menenia, Papiria, Pollia, Sergia, Romilia, Voturia, Voltinia, ed altre; solo eccettuata la tribù Crustumina, che sarebbe stata la prima ad essere denominata dalla località. Cid indica che nel contado continud la prevalenza delle genti, che vi tenevano le loro possessioni. Il numero origi nario delle tribù rustiche non è ben noto, ed anzi, secondo alcuni storici, fra i quali Livio, le tribù rustiche comparirebbero solo più tardi. Questo è certo pero, che la ripartizione, anche del ter ritorio rustico, era una conseguenza del concetto informatore della costituzione serviana, e che il numero delle tribù, dopo le guerre a cui diede occasione la cacciata dei Tarquinii, e forse per la diminuzione del territorio, che ne fu la conseguenza, appare ri dotto a quello di venti. La cooptazione della gente Claudia porto le tribù a vent'una, e da quel punto la storia ricorda tutte le date, in cui la conquista di un nuovo territorio conduce alla for mazione di nuove tribù, fino al numero di trentacinque, che poi si mantenne immutabile. Non è già con ciò, che Roma non abbia fatte nuove concessioni di cittadinanza, ma i nuovi cittadini si fecero rientrare nelle antiche tribù, le quali, dopo aver avuto una base locale, si mutarono cosi in altrettanti quadri, a cui poterono essere Mentre Livio, I, 43 attribuisce a Servio Tullio soltanto la ripartizione della città nelle quattro tribù urbane, Dionisio, IV, 15, invocando la testimonianza di Fabio, gli attribuisce eziandio la divisione dell'agro in 26 tribù, cosicchè il numero complessivo delle tribù sarebbe stato di 30. Di qui la difficoltà di spiegare comemai queste tribù negli inizii della Repubblica fossero ridotte al numero di 20 soltanto. Anche oggidi la spiegazione più probabile sembra essere quella data dal Niebhur, secondo cui l'ager romanus avrebbe sofferto la diminuzione di varii pagi o tribus, in seguito alla guerra cogli Etruschi guidati da Porsena. Op. cit., II, 154. Quanto all'epoca, in cui si vennero aggiungendo le altre tribù fino al numero, che poi si mantenne, di 35, sono a vedersi il Willems, Le droit public romain, 34.e il Morlot, Institutions politiques de Rome, Paris, 1886, p. 71.363 ascritti tutti i cittadini romani, senza tener conto della effettiva residenza dei medesimi. 295. Sopratutto poi il concetto informatore di tutta la costitu zione serviana fu l'istituzione del censo; poichè è in proporzione del censo, che vengono ad essere determinati i diritti e gli obblighi dei cittadini. Vuolsi però aver presente, che nel censo di Servio Tullio non intervengono tutti gli individui, ma solo i capi di fa miglia, quelli cioè, che per non essere soggetti a potestà altrui possono giuridicamente essere considerati come padri di famiglia, ancorchè in realtà non siano tali. La dichiarazione poi del capo di famiglia deve essere duplice, cioè comprendere tanto le persone quanto le cose, che da lui dipendono; donde provenne la conse guenza, che in questo periodo le persone e le cose, dipendenti dalla stessa potestà, si presentarono come un tutto indistinto, che suol essere indicato coi vocaboli di familia o di mancipium. Il padre di famiglia pertanto, o meglio colui, il quale, per non essere sog getto a potestà altrui, ha diritto di contare per uno nel censo, deve dichiarare anzitutto, ex animi sententia, il suo stato civile, cioè il suo nome, il prenome, il nome del padre o del patrono, la tribù a cui trovasi ascritto, l'età, il nome della moglie, il nome e l'età dei figli. Esso deve dichiarare eziandio il patrimonio, che a lui ap partiene in proprio; non quello cioè, che appartenga alla sua gente, ma quello che è collocato in suo capo, che gli appartiene ex iure quiritium, che fa parte del suo mancipium, il quale in significa zione più ristretta comprende appunto il complesso dei beni, che deb È solo in questo modo, che a parer mio si può risolvere la questione tanto agitata fra gli autori se le tribù di Servio fossero divisioni di territorio, oppure di visioni di persone. Non parmi poi che possa ammettersi l'opinione del NIEBHUR, secondo cui le tribù dapprima non avrebbero compreso che i plebei, e solo dopo il decemvirato avrebbero compreso anche i patrizii (Op. cit., IV, 16 ); poichè il loro stesso nome derivato da quello di genti patrizie ed anche lo scopo della ripartizione del territorio in tribù o sezioni dimostrano ad evidenza il contrario. Che anzi, in base alla narrazione di Dionisio, IV, 15, il re Servio non solo avrebbe diviso il ter ritorio in tribù, ma nei siti montani avrebbe costrutto dei pagi, che dovevano ser vire come luogo di rifugio, e avrebbe obbligato tutti quanti gli abitatori (omnes romanos) a consegnarsi nel censo addito et urbis tribu et agri pago, ubi singuli habitarent ; il che fa credere, che le tribù rustiche serviane fossero un rimaneggia mento dei pagi, che già prima esistevano nel territorio circostante a Roma. Cfr. il Morlot, op. cit., 57 e seg., ove espone le varie opinioni degli autori intorno al carattere locale o personale delle tribù. 364 bono essere valutati nel censo. Sarà poi in base a questo censo, che sarà designata la classe del popolo, a cui deve appartenere, tanto per sè che per i figli, che abbiano raggiunta l'età di diciasette anni, e verranno cosi ad essere determinati i suoi diritti e le sue obbliga zioni sotto l'aspetto politico, militare e tributario ad un tempo . 296. Basta questa semplice indicazione per comprendere l'im mensa importanza, che dovette, sopratutto negli esordii, esercitare una istituzione di questa natura sopra il popolo forse più tenace che presenti la storia in quella che il Jhering chiamerebbe la lotta per il diritto. Per la città serviana la formazione del censo ha quella stessa importanza, che ha per una società di carattere mercantile la determinazione del contributo, che altri deve arrecare alla for mazione del capitale sociale, il quale contributo dovrà poi servire di base per la ripartizione dei profitti e delle perdite. Essa costrinse a considerare ogni individuo come un caput, il quale tanto vale quanto è il numero dei figli e l'ammontare delle sostanze, in base a cui egli contribuisce alla comunanza. In essa l'uomo non è solo contato, ma in certo modo è anche pesato, e viene ad essere isolato da ogni altro suo rapporto, per essere considerato esclusivamente sotto il punto di vista delle persone e delle sostanze, che in lui vengono ad unificarsi. Vi ha di più, ed è che la proprietà, che conta nel censo serviano, non è la proprietà gentilizia, che apparteneva al solo pa triziato, ma è la proprietà famigliare e privata, che era la sola, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Di qui la conseguenza, che tutte le altre forme di proprietà vengono di un tratto ad essere lasciate in disparte, cosicchè se le genti patrizie vorranno 284 ' e seg Quanto alle operazioni relative al censo cfr. WILLEMS, op. cit., Per me è sopratutto notabile la circostanza, che il capo di famiglia doveva denun ziare persone e cose, che da lui dipendevano, poichè essa serve a spiegare come i due vocaboli di familia e di mancipium potessero talvolta scambiarsi fra di loro, e as sumessero una significazione così larga da comprendere le persone le cose ad un tempo. Cid non accadeva già, perchè si confondessero persone e cose, ma perchè le une e le altre apparivano nel censo come dipendenti dalla stessa persona. Tale doppia consegna è attestata espressamente da Dion.,. IV, 15, verso il fine. Parmi che in questo modo si possano conciliare le due opinioni contrarie del MARQUARDT, Das privat leben der Römer, 2 e quella del Voigt, Die XII Tafeln, II, pagg. 6 e 83-84, quanto alla significazione primitiva dei vocaboli manus, di mancipium e di familia. Cfr. in proposito il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, 5, nota 8, ed il BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, 100, nota 1. 365 avere nelle classi l'appoggio dei proprii clienti, dovranno dividere fra essi i proprii agri gentilizii, e fare a ciascuno un'assegno di terra in proprietà quiritaria, che valga a farli ammettere in una delle classi. Da questo momento viene solo più ad essere questione di mancipium o di nec mancipium, perchè è solo il primo, che conta nel censo di Servio Tullio, e se il medesimo non giunga ad una certa misura, altri non potrà essere censito, che per il proprio capo (capite census ), o verrà ad essere confinato nei proletarii, senza poter far parte delle classi e delle centurie, in cui si raccoglie l'eletta del popolo romano, ossia coloro (adsidui, locupletes) i quali avendo una terra di loro proprietà esclusiva, si possono ritenere aver interesse alla difesa della patria comune. Si comprende quindi l'affezione tenace, con cui il plebeo, ammesso a questa condizione nella città, si attacca al proprio tugurio e al campicello, che lo circonda, perchè è questo, che gli assicura una posizione giuridica, militare, economica per sè e per i proprii figli, quando siano perve nuti ai diciasette anni; il che spiega eziandio come il plebeo ami meglio di vincolare se stesso e la propria figliuolanza col nexum, che di privarsi della sua piccola terra. 297. Noi stentiamo naturalmente a ricostruire col pensiero tutte le conseguenze, che una istituzione di questa natura può avere pro dotto sovra un popolo, come il romano, in un momento storico, in cui la grande opera, a cui si intendeva, era la formazione della ' città. Quando si pensi tuttavia, che trattavasi di un popolo, il quale una volta ammesso un principio sapeva trarne tutte le conseguenze di cui poteva essere capace, che possedeva una mirabile potenza, che chiamerei di astrazione giuridica, la quale consiste nell'isolare l'ele mento giuridico da tutti gli altri con cui trovasi intrecciato, e che questo popolo fu costretto per secoli a misurare la propria posizione politica, militare e tributaria attraverso il crogiuolo del censo, si pud in qualche modo giungere a comprendere il punto di vista rigido ed esclusivo, a cui esso fu costretto di collocarsi e le con seguenze, che possono esserne derivate nella elaborazione del suo diritto. Ciò spiega intanto l'importanza immensa, che si diede per tutto il periodo dalla repubblica alla istituzione del censo; le cerimonie religiose, da cui esso era preceduto ed accompagnato; le cure, che pose nel medesimo lo stesso Servio, il quale, secondo la tradizione, ebbe a farlo per ben quattro volte; le pene gravissime, cioè la vendita al di là del Tevere, da lui stabilite contro coloro, 366 che non si fossero fatti iscrivere nel censo (incensi); l'opportunità, che si senti più tardi di creare talvolta un dittatore per la sola for mazione del censo, e di affidare poscia la formazione del censo ad una speciale magistratura (censura), a cui potevano esservene delle altre superiori in imperio, manessuna che fosse superiore in dignità. Ciò spiega infine la singolare evoluzione, che venne ad avere in Roma il concetto del censo, il quale negli inizii comincia dall'essere una valutazione, che potrebbe chiamarsi puramente economica dei singoli capi di famiglia, e poi finisce per cambiarsi in una specie di valutazione politica e morale di tutti i cittadini. Cid infatti è comprovato dalla trasformazione, che accade nel censore, che isti tuito dapprima per la materiale formazione del censo, reputata in degna delle cure dei consoli, finisce per acquistare tale un potere, da eleggere senatori, fare la ricognizione dei cavalieri, imprimere note di ignominia su chi venga meno al pubblico o al privato co stume, prendere le persone da una classe per confinarle in un altra, e trasportare a suo beneplacito tutta una classe di popola zione dalle tribù rustiche alle urbane o viceversa, e ad essere cosi l'arbitro sovrano della cooperazione effettiva, che i varii individui e le varie classi recano al benessere delle città. 298. Infine è anche il censo, che serve di base alla classificazione del populus nelle classi e nelle centurie. Non è già, come alcuni credettero, che coloro, i quali non avevano un certo censo, non fossero contati ed iscritti a questa o a quella tribù; ina essi vi erano iscritti solo nel capo (capite censi), oppure nella classe dei proletarii, la quale secondo Aulo Gellio, honestior aliquanto et re et nomine quam capite censorum fuit . Gli uni e gli altri non facevano di regola parte dell'esercito, perché né la repubblica avrebbe avuto garanzia dell'interesse, che essi avevano a combattere per essa, nè essi avrebbero avuti i mezzi per far fronte alle spese per il proprio equipaggio. Quelli invece, che giungevano ad un certo censo appartenevano agli adsidui, per l'assiduità appunto a compiere il loro ufficio civile e politico (munus), sia pagando le imposte (ab asse dando), sia ubbidendo alla leva, sia per la sede fissa, ove po tevano essere cercati e dove avevano i loro possessi (locupletes). Il criterio, che servì a distinguere i varii ordini di persone indicati coi voca boli di capite censi, proletarii, adsilui e locupletes, si può ricavare sopratutto da Aulo GELLIO, XVI, 10. È pure lo stesso Gellio, il quale ci attesta che la proprietà 367 I vocaboli di classi e di centurie, ed anche il luogo, ove si riu nirono i comizii centuriati (Campo Marzio ), il modo di convocazione di essi (per cornicinem ), e il vessillo rosso inalberato sul Gianicolo o in arce durante le riunioni di questi comizii, rendono verosimile il concetto stato svolto sopratutto dal Mommsen, che questa riparti zione siasi presentata dapprima con un carattere principalmente militare. Cið poteva anche essere opportuno per ovviare a quella opposizione del patriziato e degli auguri, che aveva incontrato l'an tecessore di Servio; e sembra anche corrispondere all'intento, che si propone la comunanza serviana, che è quella di provvedere so pratutto alla comune difesa. Egli è però certo, che se la costituzione per classi e per centurie è negli inizii organizzata per guisa da presentare l'aspetto di un esercito, essa è però in condizioni tali da cambiarsi facilmente nell'assemblea di un popolo; perchè i suoi quadri possono essere allargati in guisa da non comprendere solo un esercito, ma tutta la popolazione di una città. 299. Ad ogni modo nel loro primo presentarsi le classi e le centurie di Servio costituiscono un vero esercito, di cui venne ad allargarsi la base, in quanto che nella sua composizione più non si ha riguardo all'origine ed alla discendenza, ma unicamente al censo. Nelle sue file possono essere compresi tutti i liberi abitanti del ter ritorio di Roma, distribuito per quartieri o regioni, senza riguar tenuta in conto nel censo era quella famigliare e privata, poichè egli parla di res, pecuniaque familiaris, e dice che i proletarii si arrolavano nell'esercito solo in caso di necessità, e che i capite censi vi furono solo arrolati da Mario nella guerra contro i Cimbri o in quella contro 'Giugurta. Tutte queste distinzioni poi fondate sul censo spiegano le espressioni di Livio, I, 42, che dice il censo rem saluberrimam tanto futuro imperio, e chiama Servio a conditorem omnis in civitatem discriminis ordinumque, quibus inter gradus dignitatis fortunaeque aliquid interlacet. Pur ammettendo col Mommsen, Hist. rom., I, cap. VI, e col Peluam, v° Rome, Encych. Britann.., XX, 731 che lo ha seguito, che l'ordinamento per classi e centurie, tanto più se posto a raffronto con quello delle curie, avesse un carattere eminentemente militare, non parmituttavia, che anche nei suoi inizii si possa escludere affatto la sua attitudine alle funzioni civili. Ciò ripugna al carattere delle istitu zioni primitive, le quali di regola hanno del civile e del militare ad un tempo, ed alla circostanza, che mal si saprebbe comprendere comemaiuna base, come quella del censo, non dovesse servire ad altro, che ad indicare il modo con cui le varie classi aves sero ad equipaggiarsi. Del resto questo carattere esclusivamente militare mal potrebbe conciliarsi con ciò che scrive Livio, I, 42: tum classes centuriasque, et hunc ordinem ex censu descripsit, vel paci decorum, vel bello . 368 dare se essi entrino o non nelle antiche divisioni, e senza più tenere conto delle formalità e delle cerimonie religiose proprie delle riunioni esclusivamente patrizie. La sua unità è la centuria, che nominalmente dovrebbe comprendere cento uomini; le centurie poi vengono ad essere aggruppate in classi, che sono in numero di cinque, e che alcuni vorrebbero collocate nell'ordine stesso della falange. Le centurie, che vengono prime, sono composte dei più ricchi cittadini, che possono procacciarsi un completo equipaggio indispen sabile per coloro, che primi debbono sostenere l'urto del nemico. Esse in numero di 80 costituiscono la prima classe. Dopo vengono le centurie della seconda e terza classe, in numero di 20 per ogni classe, le quali sono già meno completamente armate, ma costituiscono con quelle della prima classe la fanteria pesante. Ultime vengono le centurie della quarta e della quinta classe, di cui quella composta di 30 e questa di 20 centurie, reclutate fra i cittadini meno ab bienti, e che serviranno come fanteria leggiera. L'intiero corpo degli uomini liberi è poi diviso in due parti eguali, cioè in un numero eguale di centurie di seniores (da 47 ai 60 anni), che costituivano l'esercito di riserva, ed un uguale numero di centurie di iuniores (dai 17 ai 46 anni) per il servizio attivo. Ciascuno di questi corpi viene cosi ad essere composto di 85 centurie (8500 uomini) ossia di due legioni di circa 4200 per ciascuna, che costituiva appunto la forza normale della legione consolare durante la repubblica. In sieme colle legioni, ma non inchiuse con esse, vi erano 2 centurie di fabbri e di legnaiuoli (fabri, tignuarii) e 2 di suonatori di tromba e di corno (tibicines et cornicines ), circa le quali non vi è accordo quanto alle classi a cui erano assegnate. Per quello poi che si riferisce al censo richiesto per ciascuna classe, il medesimo ci pervenne calcolato in assi, ma è probabile che nelle origini dovesse essere valutato in iugeri. È abbastanza noto, che il censo per la prima classe era di 100 mila assi, per la seconda di 75 mila, per la terza di 50 mila, e per la quinta classe di 11,000 secondo Livio e di 12,500 secondo Dionisio; ma il difficile sta in determinare, se negli inizii la fortuna dei cittadini non fosse piuttosto valutata in iugera, e in de terminare qual fosse il valore dell'asse. Il MOMMSEN afferma come fuori di ogni dubbio, che l'iscrizione alle varie classi era dapprima determinata dal possesso delle terre, argomentando anche dalle denominazioni di adsidui e locupletes. Hist. rom., chap. VI. Di recente poi il Karlowa ha pur seguìta la stessa opinione e ha rite nuto che il iugerum debba ritenersi rispondere a cinque mila assi, cosicchè il patri monio della prima classe corrisponderebbe a 20 iugeri, quello della seconda a 15, 369 Intanto però in questa organizzazione militare del populus con tinuano a tenere un posto distinto le centurie degli equites. Di queste 6 ritengono ancora i vecchi nomi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi, e sono ancora composte esclusivamente di patrizii. Esse quindi stanno a parte, son determinate dalla na scita, e costituiscono i sex suffragia; poichè è da esse che si trae a sorte la centuria principium, quella cioè, che sarà chiamata a votare per la prima nei comizii centuriati. Ad esse poi furono ag giunte da Servio altre 12 centurie, le quali sono reclutate dai più ricchi ordini di cittadini, sia patrizii che plebei . Da questi brevi cenni appare che, pur ammettendo il carattere essenzialmente militare di questa organizzazione, basterà però sop primere nella centuria il limite di 100, per togliere alla medesima tutta la sua rigidezza militare, e per fare entrare nei suoi quadri tutta la popolazione della città; trapasso, che non offrirà gravi diffi coltà quando si consideri la facilità, che è propria delle organizzazioni primitive di passare dalle funzioni militari alle civili, e il nessun scrupolo, che si fecero i Romani di mantenere costantemente il vo cabolo antico, facendo anche entrare in esso un contenuto diverso da quello, che sarebbe indicato dal medesimo. Queste sono le istituzioni fondamentali di Servio; ora importa di vedere lo svolgimento storico, che esse ebbero a ricevere e la con seguente influenza che esercitarono sul diritto pubblico e privato di Roma. quello della terza a 10, della quarta a 5 iugeri, e quello della quinta a 2 iugeri incirca, ritenendo con Livio, che il censo della medesima ammontasse a soli 11,000 assi. Röm. R.G., I, 69-70. Sono a vedersi, quanto al valore dell'asse, il WILLEMS, op. cit., 58 e segg., dove son riassunte le diverse opinioni al riguardo, e il Voigt, Die XII Tafeln, I, 16 a 23. Quanto agli equites e ai loro rapporti coi primitivi celeres, richiamo volentieri i due recenti lavori del BERTOLINI, I celeres e i7 tribunus celerum, Roma, 1888, e del TAMAssia, I Celeres, Bologna, 1888. - Par ammettendo col primo che gli equites non siano che uno svolgimento dei primitiviceleres (p. 31) e col secondo che i celeres possano anche essere un ricordo di qualche istituzione, che occorre presso tutti i popoli di origine Aria (p. 19), continuo però a ritenere, che nell'ordinamento simmetrico della primitiva città patrizia vi fosse una rispondenza fra i celeres, che costituivano la corte militare del Re primitivo e il senato, che ne costituiva il consiglio, donde quella correlazione, che per qualche tempo si mantenne fra gli aumenti nel senato e quello degli equites, e la distinzione così del senato come degli equites in decuriae. V. sopra, nº 191, 233 e 234. G. C., Le origini del diritto di Roma. 24 - 370 - CAPITOLO II. Influenza della costituzione Serviana sul diritto pubblico di Roma. 300. L'influenza della costituzione Serviana sullo svolgimento, che ebbero le istituzioni politiche di Roma, durante l'epoca repubbli cana, non può essere posta in dubbio, e non mancano i lavori ché la posero in evidenza. Ne ebbero consapevolezza anche i Romani, come lo provano le tradizioni, che attribuirono a Servio Tullio di aver voluto abdicare per istituire due consoli annui, e che fanno ricorrere i due primi consoli della repubblica ai commentarii di Servio Tullio, per ricavarne le norme secondo cui dovevano adu narsi i comizii per centurie. Le due tradizioni possono anche essere non vere: ma dimostrano ad ogni modo in coloro, che le trovarono e le custodirono, la persuasione, che la costituzione repubblicana metteva capo alle istituzioni serviane, e che, appena superato il peri colo della tirannide, si dovette riprenderne lo svolgimento al punto stesso, a cui era stato interrotto. Ad ogni modo se si tenga dietro alla evoluzione storica, quale si rivela negli avvenimenti, si può affermare con certezza, che le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo repubblicano implicano uno svolgimento continuo e non mai interrotto dei concetti informatori della costituzione patrizia, combinati perd e modificati dalle istituzioni fondamentali della co stituzione serviana. 301. Fra queste modificazioni è fondamentale e determina tutte le altre trasformazioni, che derivarono dalla costituzione serviana, quella, in virtù della quale venne a mutarsi nella sua stessa base il concetto del populus romanus quiritium. Questa espressione NIEBHUR, Histoire romaine, II, 91 a 255; Huscke, Die Verfassung der Königs Servius Tullius, Heidelberg, 1838; Maury, Des événements qui portèrent Servius Tullius au trône. Mém. de l'Acad. des Inscript. et belles lettres , année 1866, vol. 25, 107 a 223: Herzog, Geschichte und System der römischen Staats verfassung, Leipzig; KarlowA, Röm. Rechtsgeschichte, I, SS 11, 12, 13, 64 a 85. Liv., Hist., I, 48; I, 60. È però a notarsi, che queste tradizioni non sono con fermate da Dionisio. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, 242. - 371 infatti, che un tempo aveva indicato esclusivamente il popolo delle curie, venne secondo il metodo romano ad essere trasportata al popolo delle classi e delle centurie, come lo dimostrano la denomi nazione di quirites, che d'allora in poi è applicata appunto a tutti i membri del popolo delle centurie, non che ai testimonii ricavati dal medesimo per gli atti di carattere quiritario (classici testes ), ed è anche adoperata nelle formole di convocazione dei comizii centuriati, stateci conservate da Varrone. Quanto ai membri delle curie pri mitive essi, in quanto entrano nelle classi e nelle centurie, sono anche compresinel vocabolo generico di quirites, ma in quanto hanno delle proprie assemblee, in quanto ritengono per sè le magistrature, gli onori, gli auspizii, i sacerdozii, in quanto insomma formano ancora un nucleo separato del populus romanus quiritium, prendono il nome di patres o di patricii, come già si è veduto discorrendo della patrum au ctoritas, della lex curiata de imperio e dell'interrex . Mentre quindi prima i termini non erano che due, quelli cioè di populus e di plebes; dopo Servio i termini vengono ad essere tre, cioè quello di patres o patricii, che indicano i primitivi fondatori della città, i ritentori degli auspicia e dell'imperium; quello di plebes, che designa l'elemento, stato di recente ammesso nella medesima; e quello infine di populus, che comprende l'uno e l'altro elemento, sopratutto in quanto entra a far parte delle classi e delle cen turie (3 ). In questo senso vuolsi ammettere col Mommsen, che uno dei significati di populus sia stato quello di leva plebeo-patrizia; ma certo non può dirsi, che questa sia stata la significazione primi tiva del vocabolo; poichè nulla vi è di ripugnante al processo ro mano, che la stessa parola abbia indicato prima la riunione degli Le formole di convocazione delle classi, conservateci da VARRONE, De ling. lat., VI, 86 a 95, sono riportate dal Bruns, Fontes, 383.I classici testes sono poi ricordati da Festo, pº classici, come testimoni adoperati nei testa menti; ma è probabile che questo nome si estendesse a tutti i testimonii dell'atto per aes et libram, di cui il testamento non era che un'applicazione, come si vedrà a suo tempo al cap. IV, 4 di questo libro. V. sopra, lib. II, nº 198, 240e le note relative. È questo appunto il concetto di populus, quale appare più tardi anche nei grammatici e nei giureconsulti. Aulo Gellio infatti, Noct. Att., X, 20, attribuisce al giureconsulto Ateio Capitone di aver distinto il popolo dalla plebe, quoniam in populo omnis pars civitatis, omnesque eius ordines contineantur: plebes vera, ea < dicitur, in qua gentes civium patriciae non insunt , il qual concetto poi ricompare in GaJo, Comm., I, 3 e ancora nelle stesse Institut. di GIUSTINIANO, I, 2. 372 uomini validi ed armati della tribù gentilizia, poi il populus confe derato della città patrizia, e da ultimo il popolo patrizio - plebeo della città serviana. Questo populus intanto perde in gran parte quel carattere reli gioso e patriarcale del popolo delle curie, e assume invece il ca rattere, che è proprio di coloro, che entrano a costituirlo; viene cioè ad essere un popolo di capi di famiglia e di proprietarii di terre, che da una parte sono uomini di arme e dall'altra sono de diti alla coltura delle terre, e i quali si considerano come isolati da tutti quei rapporti gentilizii, in cui possono trovarsi vincolati. I quiriti dell'epoca serviana vengono ad essere considerati come indivi dualità indipendenti e sovrane; hanno l'asta come simbolo del pro prio diritto; ritengono come proprie le cose sopratutto che riescono a togliere al nemico, ed il loro potere appare senza confine cosi rispetto alle persone, che alle cose, che da essi dipendono; donde le caratteristiche peculiari del ius quiritium, che viene formandosi in questo periodo, come cercherò di dimostrare a suo tempo. 302. Modificato così il concetto del populus, cioè l'elemento es senziale della costituzione primitiva, da cui escono tutti gli altri, era naturale, che anche questi dovessero lentamente e gradatamente trasformarsi in correlazione col medesimo. E così accade appunto del senato, il quale accompagnando lo svolgimento lento e graduato della costituzione romana, comincia ad accogliere fin dagli inizii della repubblica i principali dell'ordine equestre, i quali per tal modo vengono ad essere conscripti coi patres, donde la formola patres et conscripti, finchè più tardi esso viene a ricevere tutto l'elemento, che siasi reso benemerito della repubblica, sostenendone degnamente le magistrature e gli uffizii, o che abbia così quell'età e quell'esperienza, che valgono ad assicurare la repubblica della au torità del suo consiglio (3 ). Cosi invece non accadde del magistrato, poichè questo continud MOMMSEN, Rötnische Forschungen. V. il cap. seg. in cui si discorre dell'influenza della costituzione serviana sul diritto privato. (3 ) Le trasformazioni introdotte nella composizione del Senato in base alla les Ovinia che deferì ai censori la senatus lectio sono brevemente riassunte dal Lan DUCCI, nel suo scritto sui Senatori Pedarië, Padova 1888, pagg. 7-8, colle note re lative. - 373 ancora per qualche tempo ad essere ricavato esclusivamente dalla classe dei patrizii; donde la conseguenza, che è sopratutto contro l'imperio dei consoli, che spiegansi le prime sedizioni della plebe, le quali più non si arrestano fino a che la plebe non abbia ottenuta, anche nelle magistrature e nei sacerdozii, quella parte, che già aveva conseguita negli altri aspetti della costituzione politica. Cið era na turale, perchè non vi sarebbe stata coerenza in un organismo, in cui il popolo e il senato già potevano essere tolti dai due ordini, che concorrevano a formarlo; mentre il magistrato poteva essere scelto in un ordine soltanto e quindi veniva ad apparire piuttosto come un custode dei privilegii del patriziato, che come un rappresentante imparziale del popolo. Di qui la conseguenza, che anche le lotte, che vennero ad esservi fra patriziato e plebe, possono in gran parte ritenersi determinate dalla costituzione serviana, come meglio sarà dimostrato a suo tempo . 303. Mentre si avverano queste modificazioni negli organi essen ziali della costituzione politica, e quindi si trasformano a poco a poco le loro principali funzioni, che, come si è veduto, consistono nella formazione delle leggi, nella elezione del magistrato e nella amministrazione della giustizia, tutte le istituzioni serviane, che negli inizii erano soltanto abbozzate, vengono prendendo tutto quello svol gimento, di cui potevano essere capaci. Cid appare quanto al censo, il quale, come già si è accennato, incomincia dal presentarsi come una valutazione economica dei cit tadini, e poi cambiasi a poco a poco in una valutazione politica e morale dei medesimi. Il punto di partenza viene ad essere quello di dare a ciascun cittadino una parte di diritti e di obblighi, che sia proporzionata al suo censo, mentre lo svolgimento posteriore conduce a dare ai singoli individui e ai varii elementi del popolo una parte, che vorrebbe essere proporzionata alla cooperazione, che essi recano al pubblico bene. Abbiamo quindi i magistrati uscenti di ufficio, che somministrano il contingente per la formazione del senato e poscia dell'ordo senatorius; abbiamo gli equites, che perdono il carat tere essenzialmente militare, che avevano nelle proprie origini, e finiscono per formare un ordine distinto di cittadini, che chiamasi ordo equestris, e costituiscono una specie di aristocrazia del censo, V. il cap. IV del presente libro, in cui si tratta appunto delle lotte fra il patriziato e la plebe. 374 da cui esce poi la nuova nobiltà, la quale, dopo aver lottato coll'an tica, finisce per confondersi con essa. Di qui la conseguenza, che col tempo quel populus, che erasi formato, mediante la riunione del patriziato e della plebe, finirà un'altra volta per subire un nuovo dualismo, che è quello del partito popolare e del partito degli otti mati. Queste però sono conseguenze remote dell'ordinamento ser viaño, fondato sul censo, mentre è assai più facile tener dietro alle trasformazioni, che subirono le centurie e le tribù introdotte col medesimo. 304. Le centurie infatti, allorchè perdettero il loro carattere es senzialmente militare, finirono per cambiarsi in altrettanti quadri, in cui potè essere compreso tutto il popolo romano, che avesse rag. giunto certi limiti nel censo, il quale, fissato dapprima in iugeri di terra, sembra essersi più tardi calcolato in una somma di denaro. Si formarono così quei comisii centuriati, che ebbero tanta impor tanza sopratutto nei primi secoli della repubblica, e che furono per certo una delle assemblee meglio organizzate, che offra la storia politica dei popoli civili. È tuttavia notabile, che anche in questa parte si conserva sempre mai l'antico modello, per guisa che i con cetti informatori dell'assemblea delle centurie sembrano essere tolti e trasportati da quella più antica delle curie. Anch'essi quindideb bono essere preceduti da cerimonie religiose, ed il magistrato, che li convoca in giorni prestabiliti (dies comitiales), essendo investito degli auspicia, debbe prima investigare se gli dei si dimostrino fa vorevoli alle deliberazioni, che debbono essere prese dai comizii. Anche la precedenza nella votazione deve seguire l'antico costume, e quindi precedono le sei centurie di cavalieri, le uniche cioè che rappresentino ancora il patriziato primitivo, fondatore della città; quindi è fra esse, che chiamansi i sex suffragia, che viene tratta a sorte quella che dovrà essere la centuria principium, il cui voto continua ad essere considerato come un augurio (omen). Dopo aver così attribuita la debita parte alla nascita e ai primi fondatori della città, viene il riguardo all'età, in quanto che i seniores (dai 47 ai 60 anni) hanno in ogni classe un numero di centurie eguale a quello dei iuniores (dai 17 ai 46 ), malgrado il numero certo maggiore di questi ultimi, e le loro centurie negli inizii erano probabilmente le Queste trasformazioni sono accuratamente seguìte dal Madvig, L'État romain, trad. Morel, Paris 1882, tome 1er, 135.375 prime chiamate a dare il proprio voto. Viene poscia la considera zione del censo, in quanto che le centurie, che votano per le prime sono, dopo le diciotto centurie degli equites, quelle della prima classe e queste sono in numero tale, che se siano concordi, possono da sole avere la maggioranza, senza che più occorra di passare alla chia mata delle altre classi. Intanto perd nel seno di ogni centuria ogni individuo ha il proprio voto, e tutti contano egualmente; ma, come già accadeva nelle assemblee curiate, l'esito definitivo dipende dalla maggioranza delle centurie. Qui parimenti si presentano le distinzioni fra comitia e contiones; come pure dovette introdursi eziandio la distinzione fra comizii propriamente detti e i comizii calati, in cui si compievano pei quiriti i testamenti e le arroga sioni, ma questi non sembrano essere durati lungamente, perchè erano una semplice imitazione dell'antico, senza che avessero lo scopo dei comizii calati delle curie, che era quello di mantenere salda ed integra anche nella città la primitiva organizzazione delle genti patrizie. Così pure sopra i nuovi comizii, i padri, antichi fondatori della città, continuano ad esercitare una specie di prote zione e di tutela, sotto il nome di patrum auctoritas, dalla quale i comizii centuriati riescono ad emanciparsi soltanto molto più tardi (3 ). 305. Nella realtà però questa imitazione dell'antico non impe disce che tutte le principali funzioni vengano a concentrarsi nei co mizii centuriati. Sono essi infatti che votano le leggi fondamentali dello stato, come le leggi Valerie-Orazie, la legislazione decemvirale, le leggi Licinie Sestie, e da ultimo la legge Ortensia; sono essi parimenti, che nominano i magistrati maggiori, come i consoli, i pretori, i censori, quei magistrati insomma, il cui potere può essere considerato come una suddivisione di quell'imperium, che trovavasi un tempo con centrato nel re. Da ultimo fu davanti alle centurie, che dovette essere interposta quella provocatio ad populum, che un tempo pro ponevasi dinanzi al popolo delle curie; il che spiega comeun ma Sono queste gradazioni e distinzioni che fecero dire a CICERONE, De leg., III, 19, 44: < descriptus enim populus censu, ordinibus, aetatibus plus adhibet ad suf fragium consilii, quam populus fuse in tribus convocatus ; concetto che ripete con altre parole nel De rep., II, 22. L'esistenza di comizii calati, proprii delle centurie, è attestata espressamente da Aulo Gellio, XV, 27, 1. V. quanto alla patrum auctoritas ciò che si è detto al nº 198, 240.376 gistrato annuo, come il console, abbia finito per rinunziare a poco a poco a pronunziare condanne, da cui poteva esservi appellazione al popolo, il quale venne cosi ad essere direttamente investito della giurisdizione criminale. Intanto si comprende eziandio come la lotta fra i due ordini, finchè non furono ancora del tutto pareggiati, abbia dovuto concentrarsi so pratutto nei comizii centuriati, e come quindi il patriziato per assi curarsi una prevalenza nel seno delle centurie, abbia dovuto dividere i proprii agri gentilizii fra i clienti, acciò i medesimi potessero essere collocati nelle classi e possibilmente nella prima di esse, la quale aveva una prevalenza sopra tutte le altre. Per talmodo la disorganizzazione delle genti, che erasi già iniziata colla costituzione di Servio, con tinud necessariamente collo svolgersi delle istituzioni da lui intro dotte; poichè quei clienti, che sotto l'impressione immediata del benefizio ricevuto stavano ancora agli ordini dell'antico patrono, se ne emanciparono ben presto, allorchè il censo loro assicurò una indipendenza, mediante cui poterono talvolta aggregarsi alla stessa plebe. Conviene tuttavia riconoscere, che la plebe negli inizii del l'organizzazione per centurie male poteva riuscire nella lotta contro un patriziato reso forte e numeroso mediante l'appoggio dei proprii clienti. Di qui la conseguenza, che la plebe resa impotente alla lotta nei comizii per centurie, dovette appigliarsi a riunioni che non avessero più la loro base nel censo, ma bensì nel luogo di residenza e nel numero. A tal uopo la plebe, guidata ed organizzata dai proprii tribuni, seppe trarre profitto di un'altra istituzione ser viana, che è quella della tribù locale, ricavando da essa uno svolgi mento, che probabilmente non doveva essere nella intenzione di quegli, che l'aveva istituita. 306. La tribù nella costituzione serviana non era che una ripar tizione locale, fatta in uno scopo essenzialmente amministrativo, cioè per fare il censo, per fare la leva militare e per ripartire i tributi. Essa però aveva il vantaggio su tutte le altre ripartizioni, che mentre le curie non comprendevano dapprima che i patrizii, e le centurie e le classi non accoglievano che i locupletes od adsidui, le tribù invece comprendevano anche i proletari, i capite censi, gli aerarii; quindi in essa esisteva un germeessenzialmente democratico, Cfr. ciò che si è detto più sopra intorno alla provocatio ad populum nel pe riodo regio, n ° 245 e 246, 299.377 che non poteva mancare di svolgersi col tempo. Era infatti naturale, che i tribuni della plebe, per radunare la medesima, non potessero indirizzarle il proprio appello, che per tribù (tributim ), e che quindi si facessero già in questa guisa quelle prime riunioni, che appellavansi concilia plebis. Intanto le tribù, che avevano dapprima un carattere essenzialmente locale e comprendevano realmente le persone, che dimoravano in quel determinato quartiere, si cambiarono in effetto in altrettanti quadri, in cui poterono essere compresi tutti i cittadini romani, senza tener conto del sito effettivo, in cuiavessero la propria residenza. Si avverò anche in questo, ciò che è accaduto in molte altre istituzioni di Roma, che cominciano dall'avere una base reale nei fatti, ma col tempo si cambiano in concezioni teoriche ed astratte, e in forme tipiche, in cui può farsi entrare un contenuto, che nella realtà loro non potrebbe appartenere. Per tal guisa la ripartizione delle tribù diventò la più comprensiva di tutte; cesso quasi di essere locale per diventare personale; la indicazione della tribù entrò a far parte della denominazione stessa del cittadino romano, e fu in tal modo, che essa potè riuscire di base alla più democratica delle riunioni, che siasi conosciuta in Roma, che fu quella appunto dei comizii tributi. Questi non hanno più il carattere militare dei co mizii centuriati, ma hanno un'impronta essenzialmente cittadinesca; si tengono perciò nel foro e nei primitempi si riuniscono nei giorni di mercato, in cui la plebe del contado ha occasione di convenire nella città . 307. Tuttavia anche i comizii per tribù, allorchè entrarono nei quadri regolari della costituzione politica, finirono per modellarsi sulle assemblee precedenti. Essi infatti, quando sono giunti al pieno loro sviluppo, sono anche preceduti dagli auspizii, quando siano convocati da un magistrato, a cui questi appartengano, e sono convocati solennemente dal medesimo, per mezzo degli araldi, in giorni, che non saranno più chiamati comitiales, ma che debbono però essere nel novero dei dies fasti. È analoga parimenti la pro cedura per la votazione, salvo che il voto si dà per tribù, la prima delle quali viene ad essere tratta a sorte, e prende anche il È degno di nota a questo proposito il {passo diMACROBIO, Saturnales, I, 16, $ 34, in cui, riferendosi ad uno scritto del giureconsulto P. Rutilio Rufo, parla dei giorni dimercato, in cui rustici, intermisso rure, ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent . Husche, Jurisp. antijustin., 11. 378 nome di tribus principium. Nel seno poi di ogni tribù il voto è dato viritim, e l'esito definitivo viene ad essere determinato dalla maggioranza delle tribù. Questi comizii hanno però il vantaggio della più facile convocazione, in quanto che possono essere convocati da magistrati patrizii e da magistrati plebei, come i tribuni, al modo stesso che i provvedimenti, che essi prendono, possono essere o vere leggi o semplici plebisciti, secondo l'autorità che li propone ; il che spiega come i comizii tributi si siano gradatamente cambiati nell'organo legislativo più operoso nell'ultimo periodo della repub blica. Mentre essi infatti richiamano a sè la sola elezione dei magi strati minori, e la giurisdizione per i reati punibili con sole pene Per lo svolgimento pressochè parallelo dei comizii centuriati e dei comizii tri buti mi rimetto a ciò che ho scritto più sopra al n ° 224, 273.e per il pareggiamento che venne facendosi fra le leggi ed i plebisciti ai numeri 231, 232 e 233, 281Solo mi limito ad aggiungere che negli ultimi tempi dagli stessi comizii tributi potevano emanare vere leggi, allorchè erano convocati da veri magistrati, come consoli e pretori, oppure plebisciti, allorchè erano convocati da tri buni della plebe. Trovo una prova di ciò paragonando le intestazioni di due leggi riportate dal Bruns. L'una è la lex agraria del 643 dalla fondazione di Roma, la cui intestazione è così concepita: tribuni plebei plebem ioure rogarunt, plebesque ioure scivit , sebbene in tale occasione abbiano preso parte alla votazione anche i patrizii come lo dimostra il fatto, che ivi si aggiunge: Tribus principium fuit, pro tribu Q. Fabius, Q. filius, primus scivit , il quale Fabio dovette probabilmente essere un patrizio della gens Fabia (Bruns, Fontes, pag., 72). L'altra legge invece è la les Quinctia, de aqueductibus, dell'anno 745 di Roma, che è così intestata: T. Quinctius Crispinus populum iure rogavit, populusque iure scivit, in foro pro rostris Aedis divi Iulii pridie K. Iulias. Tribus Sergia principium fuit; pro tribut Sex... L. F. Virro primus scivit . Bruns, Fontes, 112. — Diqui infatti appare ad evidenza, che quando la convocazione parte dal tribuno della plebe parlasi di plebes e di plebiscitum, ancorchè la riunione comprenda anche i patrizii: mentre quando trat tasi di convocazione fatta dal console esso chiama ai comizii tributi il populus e il provvedimento emanato viene così ad essere un populiscitum, ossia una lex nel senso primitivo dato a questo vocabolo. La cosa è pur confermata da quella parte, che ci pervenne della intestazione alla lex Antonia, de Tarmessibus, dell'anno 683 di Roma, in cui la riunione dei comizii tributi, essendo provocata dai tribuni della plebe, ancorchè in base ad un parere dato dal senato (de senatus sententia) parlasi perciò di convocazione della plebes e quindi di plebiscitum (Bruns, Fontes, p. 91). In questo periodo quindi tanto le leges quanto i plebiscita emanano da comizii tributi e la loro differenza deriva dall'essere l'iniziativa presa da un vero magistrato (console, pretore) che convoca il popolo, o da un tribuno della plebe, che convoca invece la plebe, sebbene anche in queste ultime riunioni intervengano anche i patrizii. Viene così ad essere vero ciò che dice Pomponio, che inter plebiscita et leges species constituendi interesset, potestas autem eadem esset . L. 2, 8, Dig. 1, 21. pecuniarie, finiscono invece per assorbire tutto il potere legislativo. È a notarsi tuttavia, che mentre la legislazione dei comizii centu riati aveva avuto un carattere specialmente politico e costituzionale, perchè è con essa che si vennero pareggiando gli ordini, quella in vece, che usci dai comizii tributi, ha un carattere eminentemente sociale, e in parte già si riferisce ad argomenti di diritto privato. 308. Si può quindi conchiudere, che la costituzione serviana per vade le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo repubblicano. I concetti della medesima cominciano dall'avere una base nella realtà, ma finiscono per cambiarsi in altrettante costruzioni logiche, a cui si dà tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. In questa guisa il censo di economico divien morale, le centurie di militari si con vertono in politiche, le tribù di ripartizioni locali mutansi in quadri, in cui tutta la cittadinanza può essere compresa, per quanto la me desima dimori eziandio fuori della città. Per tal modo la costitu zione di Servio Tullio, al pari delle mura che ne portano il nome, poté bastare a tutti gli incrementi e a tutte le trasformazioni, che Roma ebbe a subire per parecchi secoli, e per tutto quel tempo, in cui essa tenne ancora in pregio le antiche virtù ed istituzioni. Vero è, che le forme esteriori sembrano sempre essere foggiate su quelle, che erano prima adoperate; ma conviene dire che spiritus intus alit , e che questo nuovo alito spira per modo entro le forme an tiche, da far loro capire un contenuto ben diverso dal primitivo, e da spezzarle anche, quando siano diventate disadatte, nel qual caso però se ne foggiano delle nuove, ma sempre sul modello delle an tiche. Questo è il magistero, che Roma seguì costantemente nello svol gimento delle proprie istituzioni politiche. Un analogo processo ap pare anche più evidente nella elaborazione più lenta e graduata, che ebbe a ricevere il diritto privato di Roma, sovra il quale la costituzione serviana ha certamente esercitata una influenza di gran lunga maggiore di quella che soglia essergli attribuita, come spero di poter dimostrare nel seguente capitolo. Quanto alla legislazione comiziale e ai caratteridella medesima, cfr. FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano, Milano. La costituzione serviana e la sua influenza sull'elaborazione del ius Quiritium. 309. Se fu agevole il mettere in rilievo gli effetti della costitu zione serviana sul diritto pubblico di Roma, non può dirsi altrettanto della influenza tacita, ma non meno importante, che essa esercito sulla elaborazione del diritto privato. A questo proposito poco o nulla ci dicono gli storici, come quelli che naturalmente si arrestarono alle mutazioni più appariscenti, che si erano avverate nelle istituzioni politiche. Solo Dionisio si limita a dire di Servio, che egli pubblico ben cinquanta leggi sui delitti e sui contratti; che egli distinse i giudizii pubblici dai privati; e che prese anche dei provvedimenti a favore dei debitori, senza però ricordare il contenuto preciso dei medesimi. La probabilità ed anche la necessità di una legislazione all'epoca serviana non può certo essere negata, non potendo essersi avverata una trasformazione cosi profonda nell'organizzazione civile e politica, senza che si riflettesse eziandio nel diritto privato. Tut tavia è certo, che le mutazioni nel diritto privato non dovettero tanto operarsi per mezzo di leggi, quanto piuttosto mediante quella tacita elaborazione di un diritto comune alle due classi, che era la naturale conseguenza dei nuovi rapporti, in cui esse venivano a trovarsi. È quindi negli scritti dei giureconsulti, che si devono cer care le reliquie delle istituzioni scomparse, e in essi sono sopratutto a cercarsi quelle distinzioni, quei concetti, quegli atti simbolici, che sopravvissero ancora in epoche, in cui più non se ne comprendeva il significato, e che possono in qualche modo rannodarsi al concetto informatore della costituzione serviana. Sono le hastae, le vindictae, i procedimenti simbolici, gli atti per aes et libram, i concetti primi tivi del caput, della manus, del mancipium, la distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, tutti quei concetti insomma, Dron., IV, 10, 13, 25. Quanto ai debitori Dionisio, IV, 9, 11, attribuisce a Servio di aver perfino pagato del proprio i creditori, e di aver voluto che i beni e non la persona del debitore fossero vincolati al creditore; ma ciò forse non è che un effetto di quella tendenza, che fa riportare a Servio tutti i provvedimenti, che potevano apparire favorevoli alla classe servile ed alla plebe. 381 di cui ignorasi la vera origine e che sono sopravvivenze di un'e poca anteriore, che possono servire come materiali per la ricostru zione del primitivo diritto. Gli è soltanto col ricomporre insieme tutti questi rottami, che spargono talvolta dei vivi sprazzi di luce, quando siansi collocati nel sito, ove debbono trovarsi, e coll'avere presente il carattere del popolo, le sue istituzioni politiche, il suo metodo di serbare i vocaboli, cambiandone anche il contenuto, ed il criterio informatore della riforma serviana, che si pud riuscire a ricostituire il diritto privato, che dovette iniziarsi in questo periodo, se non nei particolari minuti, almeno nelle sue linee generali e nella logica fondamentale, da cui dovette essere percorso. 310. Fu questo paziente lavoro di ricomposizione, che mi mette in condizione di porre innanzi a questo proposito una congettura, la quale a prima giunta potrà apparire ardita, ma che risulterà sempre meglio comprovata, a misura che, procedendo innanzi, tutte le reli quie, che ci pervennero, dell'antico diritto, finiranno per prendere senza sforzo quel posto, che loro compete, e ci porgeranno cosi una spiegazione naturale, logica e verosimile dei caratteri primitivi del medesimo. La congettura sta nell'affermare, che almodo stesso che con Servio Tullio si posero le basi della Roma storica, e si formd quel populus romanus quiritium, che riempi poi la storia del racconto delle proprie gesta, così fu eziandio da quel punto, che dovette iniziarsi la vera e propria elaborazione di quel ius quiritium, che fu ilnucleo primitivo di tutto il diritto privato di Roma, e che quest'ultimo, malgrado il posteriore suo svolgimento, non perdette più mai quella speciale impronta, che ebbe ad assumere sotto l'influenza della costi tuzione serviana. Non si vuole già dire con ciò, che prima non vi fossero i quirites ed un ius quiritium; ma quelli non comprendevano che i membri delle curie, e questo indicava il complesso delle istituzioni di carattere gen tilizio, che erano proprie del popolo delle curie, e che perciò avevano ancora un carattere pressochè feudale e patriarcale. Con Servio Cid parmi abbastanza dimostrato dall'analisi, che ho fatta della legislazione attribuita ai Re nel periodo della città esclusivamente patrizia, dalla quale risulta che la famiglia, la proprietà, il delitto e le pede continuavano ancora in parte a conservare quei caratteri, che avevano nel periodo gentilizio. V. sopra lib. II, cap. IV, 88 5 e 6, 329.382 Tullio invece incomincia l'elaborazione di un diritto comune ai due ordini, e siccome i medesimi, riuniti nelle classi e nelle centurie, prendono il nome di quirites, così incomincia la formazione di un vero e proprio ius quiritium, in cui i vocaboli e le forme proprie del diritto formatosi nei rapporti fra le genti patrizie e la popo lazione di condizione inferiore, da cui esse erano circondate, ven gono a ricevere una nuova significazione, e ad essere applicati ai rapporti, che erano l'effetto della nuova condizione di cose. Si conservano pertanto ancora i vocaboli di manus per indicare nel loro complesso i poteri, che appartengono al quirite, quale capo di famiglia e come proprietario di terre; quello di nexum per indicare l'obbligazione di carattere quiritario; quello di mancipium per in dicare il complesso delle cose e delle persone, che dipendono dal quirite: ma intanto questi vocaboli, che dapprima designavano il diritto proprio della classe superiore di fronte alle popolazioni vas salle, da cui era circondata, vengono a significare i concetti pri mordiali del vero ius quiritium, comune alle due classi, e si mutano in altrettante concezioni logiche ed astratte, in cui può farsi entrare un nuovo contenuto. A quel modo insomma che colla formazione della città patrizia quei concetti di connubium, di commercium e di actio, che prima si erano spiegati nei rapporti fra le varie genti, vennero invece a governare dei rapporti fra quiriti, e cambiandosi così in concetti quiritarii furono il punto di partenza di altret tante istituzioni proprie dei quiriti (ex iure quiritium ) ; così quel ius nexi mancipiique, che prima governava i rapporti fra i padri della gente patrizia e la plebe circostante, per l'accoglimento di quest'ultima nel populus romanus quiritium, venne a cam biarsi eziandio in una istituzione di carattere quiritario. Fu in questa guisa, che accanto a quella parte del diritto quiritario, che si ispira ad un'assoluta uguaglianza fra i capi di famiglia, fra i quali intercede, se ne presenta un'altra, che tradisce l'inferiorità di con dizione di una delle classi, che entró a costituire il populus, alla qual parte appartengono appunto i concetti del nexum, del manci pium, della manus iniectio. 311. Si aggiunge che il contenuto di questi concetti viene anche Questo è ciò che ho cercato di dimostrare più sopra al nº 266, p. 326. Cfr. a questo proposito ciò, che si è detto intorno alla condizione giuridica della plebe, anteriormente alla sua ammessione nella città, al n ° 287, 351383 a risentirsi delle circostanze sociali, in cui essi vennero a consolidarsi. Siccome quindi il concetto ispiratore di tutta la riforma ser viana consisteva nel censo, quale misura e stregua dei diritti, che appartengono ai quiriti, cosi il censo venne in certo modo ad essere un crogiuolo, che servi ad isolare l'elemento giuridico e politico di questi varii istituti dagli elementi di carattere diverso con cui trovasi confuso. Il diritto perdette cosi alquanto del suo carat tere religioso e venne invece ad esseremodellato in modo rozzo o sintetico sul concetto del mio e del tuo; esso inoltre assunse un'im pronta di rigidezza pressochè militare, quale poteva convenire ad un popolo, che presentavasi nell'atteggiamento di un esercito, i cui membri riguardavano l'asta come simbolo del proprio diritto, e ma xime sua esse credebant, quae ab hostibus caepissent . Il censo viene in certo modo a misurare il contributo, che ciascuno reca in questa specie di società, e quindi, mentre esso è la stregua per giudicare dell'interesse, che ciascuno ha nella medesima, serve anche per determinare la parte, per cui ciascuno deve contribuire alla co mune difesa. Il popolo romano venne così a compiere collettivamente quel lavoro, che dovrebbe fare anche oggi il giureconsulto per con siderare le persone sotto il punto di vista esclusivamente giuridico, facendo astrazione da tutti gli altri aspetti, sotto cui esse potreb bero essere considerate. Per tal modo il quirite, come tale, non è più nè patrizio nè plebeo, ma viene ad essere isolato da tutti i suoi rapporti gentilizii; si considera come un caput; conta come uno nel censo, e compare nel medesimo, in quanto unifica in sè le per sone e le cose, che da esso dipendono. Di qui l'immedesimarsi dei diritti di famiglia e di proprietà, che è il carattere più saliente del primitivo ius quiritium, e la significazione comprensiva e sintetica dei vocaboli in esso adoperati, che lo indicano ad un tempo come capo di famiglia e quale proprietario di terre, ed hanno in certo modo l'apparenza di altrettante rubriche, che esprimono disgiuntamente i varii atteggiamenti sotto cui il quirite può essere considerato. Ritengo che questo sia il solo modo per spiegare in modo plausibile quel ca rattere peculiare al diritto primitivo di Roma, per cui persone e cose, proprietà e famiglia sembrano confondersi ed immedesimarsi insieme. Non è sostenibile infatti, che i Romani a quest'epoca confondessero il diritto del marito sulla moglie e del padre sui figli con quello del proprietario sopra una cosa; ma siccome persone e cose figuravano nel censo, come dipendenti dal medesimo caput, così esse al punto di vista giuridico comparvero dapprima come se entrassero a far parte del medesimo mancipium o della stessa familia. 384 - 312. Sarebbe naturalmente difficile trovare un autore, che accenni a questa tacita elaborazione, ma la medesima risulta da diverse circostanze, le quali insieme riunite provano che tale ha dovuto essere il processo logico, che domino la formazione del ius quiri tium all'epoca serviana. Così, ad esempio, noi sappiamo dal Momm sen, che una delle significazioni più certe dell'espressione populus romanus quiritium è stata quella di indicare la leva patrizio plebea , leva che ha cominciato appunto ad effettuarsi in quest'e poca. Noi sappiamo parimenti, che da quest'epoca cominciarono ad essere lasciate in disparte le espressioni di iura gentium, di iura gentilitatis, di ius gentilicium, che dovevano essere ancora frequenti durante l'epoca patrizia, e che presero invece il sopravvento le espressioni di ius quiritium, e di potestà spettante al cittadino ro mano ex iure quiritium. Cosi pure non vi ha dubbio, che le altre forme di proprietà non vengono più tenute in calcolo, ma si tien conto invece del solo mancipium, che vedremo a suo tempo essere stata il primo nucleo della proprietà ex iure quiritium, quello cioè che doveva essere valutata nel censo per commisurarvi la posizione del cittadino. Intanto la espressione di quirites entra nell'uso co mune: come serve per le formole di convocazione delle classi e delle centurie, così serve per indicare i testimonii, che si adoperano negli atti di carattere quiritario (classici testes). È da questo punto pa rimenti, che l'asta viene ad essere l'emblema del diritto quiritario, che il populus assunse un carattere essenzialmente militare, nè può ritenersi inverosimile la congettura, che a quest'epoca rimonti il centumvirale iudicium, tribunale essenzialmente quiritario, la cui competenza era appunto indicata dall'asta, che si infiggeva davanti al medesimo. Infine fu certamente una conseguenza di questo MOMMSEN, Röm. Forschungen, I, 168. Quanto allo svolgimento del concetto di mancipium, e alla conseguente distin zione delle res mancipii e nec mancipii mi rimetto al seguente lib. IV, cap. II, S $ 1°, 4º, 5º. L'origine del centumvirale iudicium è una delle questioni più controverse nella storia del diritto primitivo di Roma, nè io pretendo qui di risolverla. Per ora mi limito a notare, che per me ha molta significazione quel passo di Gajo: festuca autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii, quod maxime sua esse credebant, quae ab hostibus caepissent; unde in centumviralibus iudiciüs hasta praeponitur . Parmi infatti di scorgervi un nesso, se non storico, almeno logico, fra l'epoca in cui il quirite appare come un uomo di guerra, armato di asta,disposto a chiamar suo ciò, che conquisterà sul nemico, e l'istituzione del centumvirale iudi 385 speciale punto di vista, sotto cui i quiriti vennero ad essere con siderati, che fra i diversi negozii giuridici, che potevano essere in uso, venne facendosi la scelta di quelli, che si riferissero direttamente al diritto quiritario. Di qui le espressioni di legis actiones, di actus legitimi, di iudicia imperio continentia, di negozii, che si com pievano secundum legem publicam, espressioni tutte, che noi tro viamo anche più tardi, ma la cui origine dovette rimontare a quel momento storico, in cui il diritto quiritario cominciò a consolidarsi, come diritto comune al patriziato ed alla plebe. Che anzi fu anche in quest'occasione, che dovette modellarsi quell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram, il quale serve in certo modo per attribuire autenticità a tutti gli atti, che possono modifi care in qualche modo la posizione giuridica del cittadino nella comunanza quiritaria. 313. Per verità basta porre l'istituzione del censo, come base di partecipazione alla vita giuridica, e politica e militare di una comu nanza, per comprendere come per l'attuazione di un tale concetto fosse indispensabile: lº di determinare quali fossero le persone, che dovevano contare nel censo (caput); 2° di isolare la parte del pa trimonio, che è tenuta in calcolo nel censo (mancipium ) da tutte le altre (nec mancipium ); 3º di determinare le forme pubbliche cium. Ora se vi ha epoca in cui il quirite assuma decisamente questo carattere di uomo di guerra, questa è certamente l'epoca serviana; e quindi è a quest'epoca che deve rimontare il concetto informatore dell'hasta, della festuca, dell'actio sacra mento, in cui questa si adopera, e del centumvirale iudicium, che deve essere appunto preceduto dall'actio sacramento, e avanti cui trovasi infissa l'asta simbolo del giusto dominio. La grave questione fu di recente presa in esame dal MUIRHEAD, Histor. Introd., 74, il quale sembra rannodarsi all'opinione del Niebhur, II, 168, seguita poi dal KELLER e da molti altri, che riporta all'epoca serviana l'istituzione dei centumviri. Questa opinione invece è ora vigorosamente combattuta dal WLASSAK, Römische Processgessetze, Leipzig, 1888, 131 a 139, il quale verrebbe alla conclusione, che l'istituzione dei centumviri non abbia preceduto di molto la lex Ae butia, la quale secondo lui deve essere assegnata al principio del sesto secolo di Roma. Se con ciò egli intende di sostenere, che non abbiamo una prova diretta, che l'esistenza dei centumviri rimonti ad epoca anteriore, egli è certamente nel vero; ma ciò non basta per escludere, che l'istituzione potesse già esistere prima, senza che a noi ne sia pervenuta notizia. È poi incontrastabile, che essa porta in sè un carattere di antichità remota, e che i simboli, da cui è circondata e la procedura da cui è proceduta, ci riportano a quella concezione essenzialmente militare del popolo romano, che rimonta appunto all'epoca serviana. G. C., Le origini del diritto di Roma. 25 386 - e solenni, mediante cui questa proprietà potesse essere trasmessa, e che servissero ad attestare qualsiasi modificazione potesse soprav venire nella condizione giuridica del caput (atto per aes et libram ); 4º di richiedere, che questi atti, i quali influissero sulla posizione del quirite, fossero compiuti coll'intervento di un pubblico ufficiale (libri pens) e colla testimonianza di persone, che appartengano alla stessa comunanza (classici testes); 5 ° E infine di introdurre eziandio una procedura, che debba essere di preferenza seguita nelle controversie di diritto quiritario (actio sacramento ), ed anche un tribunale per manente, composto esso pure di persone tolte dalle classi e dalle centurie, per risolvere le questioni relative al diritto stesso (cen tumvirale iudicium ). Non può certamente sostenersi, che tutte queste istituzioni, che poi si incontrano effettivamente nell'antico diritto romano, possano tutte rimontare alla stessa costituzione serviana; ma si può almeno affermare con certezza, che esse erano una conseguenza logica del concetto informatore della medesima. Spiegasi in questo modo come mainel diritto di Roma trovinsi sen z'altro costituita e formata una quantità di istituzioni, in cui si ac centua il carattere quiritario, e come queste acquistino un carattere prevalente e preponderante, mentre le istituzioni di carattere genti lizio sembrano per il momento essere lasciate in disparte. Spiegasi parimenti come il mancipium siasi distinto dal nec mancipium; come l'espressione pressochè militare di mancipium sia sottentrata a quella gentilizia di heredium; come diversi siano i modi per la trasmissione delle res mancipii, e di quelle che non sono tali; come i diritti del quirite compariscano in certo modo come illimitati e senza confine, poichè egli, essendo isolato dall'ambiente, in cui prima si trovava, viene ad essere riguardato come un'individualità sovrana ed indipendente. Intanto si comprende eziandio come pochi siano i concetti e le istituzioni del diritto quiritario, e come esso non governi dapprima tutti i rapporti giuridici, anche fra i cittadini ro mani; poichè intorno ad esso perdurano sempre le istituzioni gentilizie del patriziato ed anche le consuetudini della plebe. Questo ius quiri tium insomma rappresenta quella parte di quel ricco materiale giu ridico, che era posseduto dalle genti patrizie, fluttuante sotto forma consuetudinaria, che primo riusci a precipitarsi ed a cristallizzarsi, e a diventare comune al patriziato ed alla plebe, in quanto facevano parte del populus romanus quiritium. Siccome poi esso venne a consolidarsi fra due classi, che prima erano in condizioni compiuta 387 > mente diverse, così in questo periodo della sua formazione dovette maggiormente irrigidirsi e prendere le mosse da certi concetti, come quelli del nexum, del mancipium, della manus iniectio, che eransi prima formati nei rapporti della classe superiore con quella inferiore. Le cause intanto, che a parer mio possono aver determinata questa singolare formazione del ius quiritium, che doveva poi eser citare tanta influenza sull'avvenire della giurisprudenza romana, debbono essere cercate nel carattere peculiare della costituzione serviana, e nello svolgimento che seppe dare alla medesima il genio eminentemente giuridico del popolo romano. Prima fra esse è la costituzione serviana, in virtù della quale all'organizzazione essenzialmente patrizia di Roma primitiva sottentra un'organizzazione novella, in cui entrano cosi i patrizii come i plebei nella doppia qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre. Siccome infatti la famiglia e la proprietà privata erano l'uniche istituzioni, che erano comuni alle due classi, così esse solo potevano essere di base alla partecipazione nella stessa comunanza. Quindi un primo effetto logico ed inevitabile di questa speciale condi zione, in cui si trovò collocato il popolo dei quiriti, venne ad es sere questo, che al punto di vista giuridico si fece astrazione da quelle istituzioni intermedie, che si frapponevano fra la famiglia ed il popolo, quali erano le genti e le tribù primitive. Sia pure che queste istituzioni continuino ad esistere nel patriziato; ma in tanto l'elemento gentilizio viene ad essere escluso dal ius quiritium nello stretto senso della parola, in quanto che di fronte al censo più non vi sono che capi di famiglia, riguardati come liberi disposi tori delle proprie cose. Quasi si direbbe, che la vita giuridica si ri tira dalle istituzioni intermedie, e viene invece a riunirsi più potente e concentrata nelle due istituzioni estreme, le quali vengono cosi ad irrigidirsi, come il diritto da esse rappresentato, per guisa che la famiglia e il suo patrimonio si cambia nel mancipium del proprio capo, ed il populus assume un carattere essenzialmente militare. Quella distinzione pertanto fra res publica e res familiaris, che già aveva cominciato a delinearsi fin dapprincipio, ora viene ad accentuarsi in modo più vigoroso e potente; poichè tutti i gruppi intermedii vengono in certa guisa ad essere soppressi al punto di vista della costituzione serviana. Parimenti siccome l'intento di questo associarsi di elementi, fra cui intercedevano così gravi differenze, era quello della comune difesa, e forse anche quello dell'offesa e della conquista dei terri 388 torii vicini, così il nuovo popolo non poteva a meno di assumere un carattere essenzialmente militare, che doveva riflettersi eziandio nel suo diritto privato. Infine tutto ciò che riferivasi al connu bium, al culto gentilizio, agli auspizii, continuava anche dopo la costituzione serviana ad essere esclusivamente proprio del patriziato: quindi i soli atti, che potessero essere comuni ai due ordini, dove vano essere atti di carattere mercantile, quale era appunto l'atto per aes et libram, il quale viene così a ricevere molteplici e sva riate applicazioni, e ad essere la forma fondamentale, intorno a cui si aggirano tutti i negozii di carattere quiritario. A queste considerazioni deve aggiungersi quella del genio emi nentemente giuridico del popolo romano, il quale nella elaborazione del proprio diritto seppe spingere fino alle sue ultime conseguenze lo speciale punto di vista, a cui si era collocata la costituzione serviana. Questo è certo, che per l'elaborazione giuridica presen tavasi mirabilmente atto questo considerare i capi di famiglia come altrettanti capita, ed il complesso dei loro diritti come un manci pium, ossia come una questione di mio e di tuo. Era soltanto in questa guisa, che ai rapporti fra i diversi membri della comunanza poteva essere applicata quella iuris ratio, elaborazione propria del genio romano, mediante cui l'elemento giuridico viene ad isolarsi da tutti gli elementi affini. Fu questo il processo, mediante cui il diritto potè essere sottoposto a quella logica astratta, per cui le per sone perdono in certa guisa ogni personalità concreta e diventano dei capita; le fattispecie si riducono ad una selezione di tutto cid che possa esservi di strettamente giuridico nei fatti umani; e le isti tuzioni giuridiche appariscono come altrettante costruzioni geome triche, i cui elementi possono essere scomposti, e ricevere cosi un proprio svolgimento. Il momento appunto, in cui questa logica si presenta più rigida, più esclusiva, fu certamente l'epoca serviana, perchè in essa i membri della comunanza non potevano considerarsi, che sotto l'aspetto del mio e del tuo, e quindi dovevasi in ogni argomento procedere numero, pondere acmensura e attribuire ad ogni diritto le forme accentuate e prominenti del diritto di proprietà. 315. Si potrà forse osservare, che questa specie di astrazione giu ridica mal si può comprendere in un popolo primitivo, quale sa rebbe il Romano. È però facile il rispondere, che una parte di esso non poteva chiamarsi del tutto primitiva, dal momento che aveva attraversato tutto un lungo periodo di organizzazione sociale, ed aveva 389 fatto tesoro delle tradizioni del medesimo. Ma vi ha di più, ed è che senza un'astrazione di questo genere era impossibile la formazione di una comunanza, come quella dei quiriti. Questi sono certamente uomini reali, ma in quanto entrano nella comunanza sono riguardati soltanto come capi di famiglia e come proprietarii di terre. Il quirite pertanto è esso stesso un'astrazione, come sono astrazioni e costruzioni logiche tutti i diritti, che al medesimo appartengono. Ciò fa sì, che ad esso può applicarsi quella logica geometrica e precisa, che nel suo genere non è meno meravigliosa di quella, che i Greci applica rono ai concetti del vero, del bello e del buono. I Romani procedono bensì in base alla realtà, ma hanno anch'essi una potenza specula tiva e di astrazione, per cui isolano l'elemento giuridico dagli elementi affini, e per tal modo riescono a costruire un edifizio logico e dia lettico in tutte le sue parti, le cui linee son dissimulate nelle parti colari fattispecie, ma che certo esiste nella mente dei giureconsulti. È l'ignorare questa dialettica latente, che ci rende così difficile il ricom porre le dottrine dei giureconsulti classici, e a questo proposito sono altamente persuaso, che questa dialettica non può essere sorpresa che alle origini del diritto quiritario. Posteriormente infatti il numero infinito dei particolari colla sua stessa varietà e ricchezza rende im possibile di comprendere l'ossatura primitiva dell'edifizio, mentre la sintesi primitiva del diritto quiritario, le cause che ne determina rono la formazione, e la logica, che ebbe a governarla, possono facil mente somministrarci la chiave per comprenderne il successivo svi luppo. Lo studio di questa struttura primitiva del diritto quiritario, sarà argomento del seguente libro, e conclusione del presente lavoro. Per ora intanto, onde non essere costretto ad interrompere la esposizione della struttura organica del jus quiritium col racconto degli avvenimenti storici, che contribuirono alla formazione di esso, credo opportuno di porre termine al presente libro con un capitolo, in cui cercherò di riassumere quella lotta per il diritto fra il pa triziato e la plebe, che segui nel periodo, che intercede fra la co stituzione serviana e la legislazione decemvirale. Le divergenze fra gli autori nell'apprezzare gli effetti della costituzione serviana, non impediscono, che tutti siano concordi nel riconoscere, che essa costitui il primo passo al pareggiamento dei due ordini. Con essa infatti la plebe venne ad avere un terreno giuridico e legale, sovra cui potè misurarsi col patriziato, ed una assemblea, in cui potè impegnare la lotta. Da quel momento perciò potè manifestarsi quella legge, che secondo Aristotele determina tutte le rivoluzioni politiche e sociali, secondo cui gli eguali sotto un aspetto, tendono anche a diventarlo sotto tutti gli altri aspetti. Come potevano gli eguali nell'esercito, nei comizii centuriati, nei tributi, continuare ad essere disuguali nei connubii, nelle magistra ture, nei sacerdozii, e nel diritto ? Finchè durd il regno di Servio Tullo, la lotta non ebbe occasione di spiegarsi, perchè, secondo la tradizione, lo stesso Servio si appiglid a tutti i mezzi per favorire quel pareggiamento, che era nello spi rito della costituzione da lui introdotta. Egli quindi rinnovo a più riprese il censo; introdusse nuove leggi relative ai contratti ed ai debiti; concesse la cittadinanza ai servi manomessi, comprenden doli anche nel censo; distinse i giudizii pubblici e privati; institui giudici privati per la decisione delle controversie di minore impor tanza, e probabilmente eziandio la Corte dei centumviri per stioni di diritto quiritario nello stretto senso della parola, e cerco eziandio di migliorare la condizione dei creditori. Fu in tal le que ARISTOTELES, Politica, ed. Bekker. Questo con cetto trovasi mirabilmente espresso da CICERONE, De rep., I, 49, allorchè scrive: quo iure societas civium teneri potest, cum par non sit conditio civium? Iura paria esse debent eorum inter se, qui sunt cives in eadem republica . Di qui egli sembra dedurre, che se fosse continuata la dominazione esclusiva dei padri, la città non avrebbe mai potuto avere uno stabile assetto; itaque cum patres rerum poti rentur, nunquam constitisse civitatis statum putant . Questi sono i provvedimenti attribuiti a Servio Tullio sopratutto da Dionisio, il cui racconto in questa parte ebbe ad essere accettato dal Niebhur, dal Lange e da altri nella loro ricostruzione della storia primitiva di Roma. È tuttavia da notarsi che Dionisio non parla punto dei centumviri, ma solo dei iudices privati. V. Dion., IV, 22, 4, 10, 13. 391 modo che mentre egli si cattivo l'affetto e la riconoscenza delle plebi, che continuarono sempre a venerarne la memoria e a con siderarlo come l'iniziatore di tutte le riforme ad esse favorevoli, si procurò invece una sorda opposizione nel patriziato, come lo dimostra il fatto, che egli avrebbe dovuto confinarlo ad abitare nel vicus patricius. Dopo Servio così il patriziato che la plebe si trovarono di fronte ad un pericolo comune, che fu il tentativo di tirannide di Tar quinio il Superbo, il quale avrebbe tolto di mezzo le leggi ser viane, e mentre da una parte cercò di occupare la plebe con la vori edilizii, si studið dall'altra di comprimere il patriziato, non curandosi di convocare il senato, nè di riempirne i seggi, che re stavano vacanti. – Ne consegui una sosta nello svolgimento dei concetti ispiratori della costituzione serviana: sosta forse più appa rente, che reale, poichè se il governo di un tiranno comprime la libertà di tutti, può sotto un certo aspetto esser favorevole allo svolgersi dell'uguaglianza fra le varie classi, rendendo tutti eguali di fronte al dispotismo di un solo. Il tentativo ad ogni modo non potè riuscire, e quando i due or dini dimenticarono le loro gare di fronte al nemico comune, venne ad essere naturale, che l'evoluzione si ripigliasse, ritornando a quelle istituzioni serviane, che per il momento erano ancora le sole, che potessero essere di base ad un accordo del patriziato e della plebe. 317. Narra infatti Livio, che i primi consoli furono nominati in base ai commentarii di Servio Tullo, e Dionisio aggiunge, che essi avrebbero richiamate in vigore le leggi di Servio sui contratti, abrogate da Tarquinio ed accette alla plebe, riattivata l'istituzione del censo, e ristaurati i comizii per l'elezione dei magistrati e per le deliberazioni popolari. Tutti gli autori poi, che ricordano il passaggio dal governo regio al repubblicano, sono concordi in rico noscere, che il cambiamento essenziale si ridusse a sostituire al re, magistrato unico ed a vita, il consolato, magistrato duplice ed Patricius vicus, scrive Festo, dictus eo, quod ibi patricii habitaverunt, iu a bente Servio Tullio, ut, si quid molirentur adversus ipsum, ex locis superioribus opprimerentur . Bruns, Fontes, ed. V, 351. Dion., IV, 25; Liv., I, 49. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, 209, ove riassume le tradizioni diverse a noi pervenute intorno a Tarquinio il Superbo. LIVIO (si veda); Dion., V, 2. 392 annuo. Il potere pertanto dei consoli fu una continuazione del potere regio, colla sola differenza che il potere religioso si venne già in parte separando dal civile, in quanto che i poteri, che appar tenevano al re qual sommo sacerdote del popolo romano, furono per imitazione dell'antico affidati a un rex sacrorum, o rex sa crificulus, ma in realtà si vennero concentrando nel pontifex maximus, chiamato a presiedere il collegio dei fpontefici . Da cid in fuori il potere sovrano non è dapprima ripartito fra i due consoli, ma persiste intero in ciascuno di essi, salvo la reciproca intercessione, che l'uno può opporre agli atti compiuti dall'altro. Che anzi, ad impedire che la continuità dell'imperium possa essere interrotta col passare da un console ad un altro, tocca al magi strato che esce di proporre ai comizii il proprio successore, e nel caso in cui egli non lo faccia, si continua sempre a provvedere coll'istituzione dell'interregnum, conservando il concetto ed il vo cabolo, che erano già in vigore durante il periodo regio (3 ). È poi solo in seguito alle lotte fra patriziato e plebe, e in causa anche dell'accrescersi della dominazione romana, che quell'unico potere (imperium ) che accentravasi dapprima nel re e poscia nei consoli, si viene lentamente e gradatamente suddividendo fra le mol. teplici magistrature del periodo repubblicano; per guisa che le ma gistrature maggiori (consoli, pretori, censori) si dividono in certo modo le funzioni, che un tempo erano comprese nell'imperium regis, Questo concetto, che nel passaggio alla repubblica non siasi sostanzialmente mutato il carattere del potere spettante al magistrato, occorre in Dion., IV, 72-75; in CiceR., De rep., II, 30 e in Livio, II, 1, 17. V. il raffronto che ne fa il Bongai, op. cit., pagg. 562-69. Che la dignità del pontifex maximus dati soltanto dalla repubblica, mentre prima era il re stesso, che era il sommo sacerdote del popolo romano, è cosa da tutti ammessa. V. fra gli altri, Bouché-LECLERQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, p. 8 e 9; e il Willems, Le droit public romain, 51 e 318. A parer mio la causa storica del fatto sta in questo, che colla costituzione serviana il populus ro manus quiritium, comprendendo anche la plebe, perdette in parte quel carattere re ligioso, che aveva finchè era ristretto alle genti patrizie, e quindi il magistrato del popolo romano assume un carattere essenzialmente civile e militare, mentre i pon tefici, pur rappresentando il popolo come famiglia religiosa, continuarono ad essere i custodi delle tradizioni religiose e giuridiche di quel patriziato, da cui erano tolti. (3 ) V. quanto all' interrex e alla nomina di esso per parte dei patres o patricii ciò che si è detto ai numeri 237-39, 288 e segg., ove ho cercato di dimostrare che la nomina dell'interrex, la patrum auctoritas e la lex curiata debbono riguar darsi come sopravvivenze della costituzione esclusivamente patrizia. 393 mentre le magistrature minori (questori, edili) sono uno svolgimento di quegli ufficiali subalterni, che dapprima erano nominati dal re e dal console, e che finiscono col tempo per essere anche essi nomi nati direttamente dal popolo. È in questo modo che si spiega come mai siasi potuto avverare una trasformazione cosi grande nella forma di governo, senza che si alterassero le basi fondamentali della costi tuzione primitiva di Roma. 318. Intanto finchè durarono i pericoli esterni delle guerre susci tate dagli esuli Tarquinii, si mantenne fra i due ordini un' appa rente concordia , come lo dimostra il fatto, che i consoli sogliono essere tolti da famiglie ritenute di tendenze favorevoli alla plebe, e che sono i consoli stessi, che propongono di togliere le scuri dai fasci, allorchè rientrano nelle città, e consacrano con leggi spe ciali il ius provocationis ad populum. Ma appena colla morte di Tarquinio si attutiscono i pericoli esterni, si accentuano invece i dissidii interni, ed è allora che si inizia una lotta, che direbbesi un modello nel suo genere, tanta è la tenacità del patriziato nel conservare i suoi privilegii e la perseveranza della plebe nell'ap profittarsi di tutte le opportunità per ottenere concessioni novelle. Egli è durante questa lotta, che già si pud scorgere come nella massa plebea venga distinguendosi la plebe ricca ed agiata, la quale essendo pari in ricchezze aspira alla comunanza dei connubii e degli La specializzazione dell'imperium del magistrato è uno dei processi più degni di nota, che presenti lo svolgimento delle istituzioni repubblicane, poichè l'imperium regis, al pari del potere giuridico del capo di famiglia, parte da un'unità e sintesi potente, a cui succede durante la repubblica una differenzazione, la quale,mentre è determinata dall'incremento della città e dalle lotte fra patriziato e plebe, obbe. disce però sempre alla logica fondamentale del concetto primitivo di imperium. Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, 5; Herzog, Op. cit., I, 32, 580 e segg., e ciò che si disse in proposito al nn. 201-204, 245. La diversità di trattamento, usata dal patriziato alla plebe, nell'epoca che seguì immediatamente la cacciata dei re e in quella posteriore alla morte di Tarquinio il Superbo è accennata da Liv., II, 21, 6 e da Sallustio, Hist. fragm., I, 9. Nota però giustamente il Bonghi, che i dissidii esistevano già prima, e che quindi venne soltanto meno l'indulgenza, che prima era adoperata. Op. cit., 302. La provocatio ad populum, che Livio chiama unicum libertatis praesidium ebbe ad essere consacrata negli inizii della repubblica colla lex Valeria, proposta dal console Valerio Pubblicola. La provocatio doveva già preesistere nel periodo regio, ma fu necessaria una espressa consacrazione di essa per il nuovo elemento, che era entrato a far parte del populus. Cfr. ciò che si disse al n ° 245, 300 e 301. >> 394 onori, e la plebe povera e minuta, che sopratutto teme il carcere privato dei creditori patrizii, e aspira a quella ripartizione dell'ager pubblicus, mediante cui può entrare a fare parte della vera ed ef fettiva cittadinanza, accolta nelle classi e nelle centurie. Di qui i caratteri peculiari di questa lotta, che ha del pubblico e del pri vato ad un tempo, cosicchè una sommossa provocata dalla legge inumana sulla condizione dei debitori, può condurre alla istituzione del tribunato della plebe, al modo stesso che una mozione per restringere l'arbitrio del magistrato, finisce per riuscire ad una proposta di generale codificazione. Cosi pure è un carattere di questo conflitto, che le proposte dei tribuni sogliono comprendere più provvedimenti ad un tempo, anche di natura diversa, e cid perchè essi mirano a tenere unite la plebe ricca ed agiata e quella povera e minuta . Di più anche in questa lotta si mantiene quel carattere pressochè contrattuale, che ha governato la formazione della città; poichè i due ceti vengono fra di loro a transazioni e ad accordi, stipulano dei foedera, e cercano persino di dare aime desimi quella consacrazione religiosa, che è propria dei trattati fra i popolidiversi (leges sacratae). Così pure la plebe, quando trova incomportabile la propria coesistenza nella città, minaccia di abban donare la comunanza e di fermare altrove la propria sede, o quanto meno si ricusa alla leva, che è il primo obbligo e diritto del citta dino. Dappertutto infine si palesa il carattere essenzialmente pra tico del popolo romano, in quanto che il conflitto non appare do minato da questo o da quel concetto teorico, ma sembra essere determinato dalle opportunità ed occasioni, che si presentano nella realtà dei fatti. La questione infatti che si agita viene nella so stanza ad essere una sola, cioè quella del pareggiamento giuridico e politico dei due ordini; ma essa prende occasione ora dai mal trattamenti inflitti ai debitori, ora dall'arbitrio del magistrato, ora Questa distinzione della plebe in due parti è acutamente notata da leinio GENTILE, Le elezioni e il broglio nella Rep. Rom., 24. Di qui l'espressione di lex satura o per saturam, la quale secondo Festo si gnificherebbe a lex multis aliis legibus confecta . Siccome però essa cambiavasi in un mezzo per ottenere favore a provvedimenti, che altrimenti non sarebbero stati approvati, accoppiandoli con altri che erano popolari, così si cercd diporvi riparo colla lex Cecilia Didia del 655 di Roma. Cic., De domo, 20, 53. Festo, vº Satura. Cfr. WILLEMS, op. cit., 184. (3 ) V. quanto alle leges sacratae la dissertazione del LANGE, De sacrosancta tri buniciæ potestatis natura eiusque origine. Leipzig, 1883. 395 dalla ripartizione dell'agro pubblico, ora dall'incertezza del diritto, ed ora infine dal divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, e dall' esclusione di quest'ultima dalle magistrature e dai sacer dozii. Per tal modo quella plebe, che memore dapprima della condizione pressochè servile da cui era uscita, si contenta di chie. dere l'istituzione di un magistrato, il quale non abbia altra potestá che quella di venirle di aiuto, finisce col tempo, guidata ed orga nizzata da questo istesso magistrato, per ottenere non solo il pareg giamento giuridico e politico, ma per far entrare nei quadri della costituzione politica di Roma i suoi magistrati (tribuni della plebe), i suoi plebisciti, ed i suoi comizii tributi . 319. Qui però non può essere il caso di tener dietro alle vicis. situdini diverse dei varii aspetti della questione politica e sociale, che si agito fra il patriziato e la plebe, ma piuttosto di cercare quali fossero le condizioni rispettive dei due ordini per ciò che si riferisce al diritto privato. È questo certamente il maggior problema che presenti questo pe riodo di transizione, poichè se la storia ha serbato qualche traccia delle lotte politiche fra il patriziato e la plebe, noi sappiamo quasi nulla di quello che accadde fra di loro nell'attrito dei quotidiani in teressi. Si aggiunge che le testimonianze, che ci pervennero in proposito, sono del tutto contradditorie. Mentre infatti Dionisio attesta che si rimisero in vigore le leggi intorno ai contratti attri buite a Servio Tullio, Pomponio invece dice senz'altro, che tutte le leggi promulgate dai re furono abolite con una legge tribunizia, e che tutto fu lasciato alla consuetudine come era prima. Non vi è quindi altro modo di uscire dalla difficoltà, che di argomentare lo stato del diritto privato dalle condizioni rispettive, in cui si tro vavano le due classi. Un riassunto chiaro ed ordinato degli aspetti essenziali, sotto cui ebbe a svol gersi la lotta, fra patriziato e plebe, nelle parti attinenti al diritto, occorre nel Mui RHEAD, Histor. Introd., part. II, sect. 17, 83-88. Per un racconto più partico lareggiato cfr. il Lange, Histoire intérieure de Rome, livre II, 111 a 217. Già ebbi occasione di riassumere questo singolare svolgimento della costitu zione politica di Roma a proposito dei comizië tributi ai numeri 233-34, p. 271 e segg.; dei plebisciti ai numeri 231-32-33, 281 e seg.; e dei tribuni della plebe n ° 249, 292(3 ) Dion., V, 2; Pomp., Leg. 2, 3 (Dig. I, 2). Secondo quest'ultimo l'incertezza del diritto sarebbe durata circa vent'anni; ma è facile il notare, che se essa perdurò fino alle XII Tavole, l'intervallo dovette essere di circa sessant'anni. 396 Ora è certo anzitutto, che in questo periodo quell'attrito delle classi, che appare nel campo politico, dovette avverarsi eziandio nel dominio strettamente giuridico. Anche qui dovettero trovarsi di fronte le tradizioni patrizie e le consuetudini plebee, coll' avver tenza perd che la magistratura esclusivamente patrizia fini per dare una prevalenza alle prime sulle seconde; cosicchè è probabile, che sopratutto la plebe ricca ed agiata, malgrado il divieto dei connubii, cercasse già in qualche modo di imitare l'organizzazione della fa miglia patrizia. Di più siccome eravi fra il patriziato e la plebe co munanza di commercio, ma non ancora quella di connubio, cosi si dovette continuare quell'elaborazione di un jus quiritium, comune alle due classi, che già erasi iniziata colla costituzione serviana, ed il medesimo dovette continuare a modellarsi sotto quelle forme di carattere mercantile, che allora si erano introdotte, ricorrendo sopratutto all'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, ossia dell'atto per aes et libram. Che anzi, quando si voglia ammettere con alcuni autori, che il tribunale de' centumviri, composto dap prima di quiriti tolti dalle varie classi e poscia dalle varie tribù, rimonti all'epoca di Servio Tullio, converrebbe, inferirne che questo Tribunale, in quell'epoca probabilmente presieduto da un ponte fice, dovette cooperare efficacemente alla formazione del jus qui ritium, come quello che anche più tardi appare chiamato a ri solvere questioni di diritto strettamente quiritario. Nella sua opera tuttavia la corte dei centumviri dovette più tardi anche es sere aiutata dai decemviri stlitibus iudicandis, i quali pur sareb bero stati istituiti a poca distanza dalla legislazione decemvirale, e dichiarati inviolabili, al pari dei tribuni e degli edili della plebe, sarebbero stati chiamati a decidere le questioni di stato . Infine è Quanto all'istituzione dei centumviri e alle varie opinioni intorno all'epoca, a cui rimonta vedi il capitolo precedente, nº 312, 384, nota 3. È del tutto incerta anche l'origine dei decemviri stlitibus iudicandis, in quanto che l'unico accenno ai medesimi sarebbe quello, che occorre in Livio, III, 55, il quale parla di iudices decemviri, stati dichiarati inviolabili al pari dei tribuni e degli edili della plebe colla legge Valeria Horatia del 305 di Roma. Di recente poi il WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig, 1888, 139 a 151, sostiene che i decemviri stlitibus iudicandis non debbono confondersi coi iudices decemviri di Livio ma sono di istituzione posteriore. Noi però sappiamo di essi, che giudicavano delle questioni di libertà e distato. Cic., pro Caec., 33. V. per l'opinione comunemente ricevuta Keller, Il processo civile romano (Traduz. Filomusi, Napoli 1872, 17), il quale anzi li farebbe rimontare sino a Servio Tullio, come giudici per le cause 397 pur probabile, che gli edili della plebe, come ufficiali dipendenti dai tribuni, fossero fin d'allora chiamati a risolvere quelle quistioni fra i plebei, che sorgevano sui mercati e sulle fiere, e che comin ciassero cosi a dare forma e carattere giuridico alle costumanze della plebe. In ogni caso è incontrastabile, che in questo periodo il console, pressochè assorbito dalle cure militari, dovette, per quello che si riferisce alla elaborazione del diritto e all'amministrazione della giustizia, lasciare una larga parte alla influenza del collegio dei pontefici. Questo collegio infatti, che abbiamo visto, fin dal l'epoca di Numa, essere chiamato alla custodia delle tradizioni re ligiose e giuridiche, aveva serbato il proprio ufficio anche dopo la cacciata dei re, e aveva anzi acquistata una indipendenza maggiore, in quanto che era presieduto non più dal re, ma da un pontifex maximus, in cui si unificavano i poteri al medesimo spettanti. Si comprende pertanto la testimonianza pressochè unanime degli scrittori, che ci descrivono il diritto primitivo di Roma, sopratutto negli inizii della Repubblica, come riposto negli archivii de' ponte fici, e parlano di questi ultimi come dei primimaestri in giurispru denza, e del ius pontificium, come di una scuola a cui venne poi formandosi il ius civile. Intanto è naturale, che i pontefici, come depositarii delle antiche tradizioni, avessero sopratutto per iscopo di applicare le forme antiche ai rapporti giuridici, che venivano sor gendo collo svolgersi della convivenza civile, e che in questo senso venissero continuando quella elaborazione di un ius quiritium, che erasi iniziata dal tempo, in cui la plebe era entrata a far parte della cittadinanza romana. 320. Insomma la conclusione ultima viene ad essere questa, che in questo periodo dovette avverarsi un continuo attrito fra le isti tuzioni patrizie e le costumanze plebee, e che perciò dovette essere grandissima l'incertezza intorno a quel diritto, che doveva essere applicato nei rapporti fra il patriziato e la plebe. Ne conseguiva che private, il che non sembra da ammettersi, perchè il giudice di queste cause dovette essere piuttosto il iudex unus tratto dai iudices selecti. Per l'influenza dei pontefici sul diritto civile vedi sopra i numeri 262 e 263, 321colle note relative. Si occupò molto largamente di questo argomento il KARLOWA, Röm. R. G., 1, $ 43, 219Trovasi poi un esattissimo elenco dei libri, annali e commentarii dei pontefici nel TEUFFELS, Geschichte der röm. Literatur, Leipzig, 1882, SS 70-76, 114 a 119. 398 il console, chiamato ad amministrare la giustizia, finiva per non avere alcun confine al proprio arbitrio, il che doveva essere grave alla plebe, anche per trattarsi di magistrato, il quale per essere tratto esclusivamente dall'ordine patrizio, poteva ritenersi favorevole a quest'ultimo. Si comprende cid stante come Terentillo Arsa, nel 292, cominciasse dal chiedere che fosse eletta una commissione, che determinasse per iscritto quale fosse la giurisdizione dei consoli, acciò fosse posto un confine all' arbitraria ed oppressiva ammini strazione di ciò, che essi chiamavano col nome di diritto e di legge. Fu solo nell'anno dopo, che d'accordo coi colleghi, per togliere alla sua proposta il carattere di odiosità contro il potere dei consoli, egli chiese che la legge, così pubblica come privata, dovesse essere codificata, e che cosi ogni incertezza venisse per quanto si poteva ad essere rimossa. L'importanza della questione viene ad essere provata dalla lotta di dieci anni, che ebbe ad essere sostenuta in torno alla medesima; poichè solo nel 303 di Roma si ebbe completa la legislazione decemvirale. Qui non può essere il caso di entrare nell'esame minuto della medesima, nè di parlare dei tentativi di rico struzione, che se ne vennero facendo anche in questi ultimi tempi : mi basterà invece dir qualche cosa intorno al carattere generale di questo codice, da cui doveva prendere le mosse tutto lo svolgimento posteriore del diritto civile di Roma. A mio avviso la legge decemvirale e la legge Canuleia, che la segui a poca distanza (309 di Roma) ed aboli il divieto de' con nubii fra il patriziato e la plebe, debbono essere considerate, quanto al diritto privato di Roma, come l'avvenimento che chiude il periodo delle origini ed apre quello dello svolgimento storico della giuris prudenza romana. Colle leggi delle XII tavole si chiude in certo modo il periodo del ius non scriptum, di quel diritto cioè, che viveva più nelle consuetudini che nelle leggi, ed incomincia il pe riodo del ius scriptum, poichè da quel momento anche l'interpre tazione cominciò ad avere la sua base nella codificazione (3 ). Con Liv., III, 9. Cfr. MuirŅEAD, op. cit., 87 e 88. V. Ferrini, Storia delle fonti del diritto romano, 5 a 9. È poi noto, che i grandi tentativi di ricostruzione delle XII Tavole si riducono a quelli di Jacopo Gottofredo, del Dirksen e a quello recentissimo del Voigt, già più volte citato. Non voglio dire con ciò, che prima non esistessero delle leggi scritte: ho anzi dimostrato che dovettero esservene fin dal periodo regio. Tuttavia è solo colle XII Tavole, che si introdusse tutto un sistema di legislazione scritta, il quale potè servire 399 esso parimenti termina il periodo del ius non aequum, ossia di un diritto disuguale fra patriziato e plebe, e comincia il periodo del ius aequum, ossia la formazione di un diritto eguale per l'uno e per l'altro ceto, il che gli autori esprimono con dire, che le leggi delle XII Tavole erano intese ad aequandum ius e ad aequandam libertatem. Con esso infine termina il periodo della indistinzione del fas e del ius, al modo stesso che già si possono scorgere i principii del diverso indirizzo, in cui si pongono il diritto pubblico e il diritto privato; dei quali il primo continua a svolgersi nelle lotte della piazza e del foro, mentre il secondo comincia ad apparire come il frutto della tacita elaborazione prima dei pontefici e poscia dei giureconsulti. 321. Non vi ha poi dubbio che anche la legislazione decemvirale deve essere considerata come un compromesso fra i due ordini e in certo modo come una specie di patto fondamentale della loro coe sistenza nella medesima città . Di qui la conseguenza, che le XII Tavole nè comprendono un sistema compiuto di legislazione pubblica e privata, nè rinnovano tutte le disposizioni che già erano contenute nelle leggi regie: ma sembrano il più spesso limitarsi ad introdurre sotto forma imperativa quei provvedimenti, che potevano essere stati oggetto di discussione e di lotta, il che è sopratutto evidente quanto alle disposizioni, che si riferiscono al diritto pub come punto di partenza alla iuris interpretatio ed alla disputatio fori, di cui parla Pomponio, L. 2, 5, dig. 1-2. Quanto ai caratteri particolari di questa interpre tatio dei veteres iures conditores, vedi JHERING, Esprit du droit romain, III, 142. LIVIO (III, 24 ) fa dire ai decemviri se quantum decem hominum ingeniis provideri potuerit, omnibus, summis infimisque iura aequasse . Di quianche l'espres sione, che occorre in Livio ed in Tacito, che le leggi delle XII Tavole fossero il fons omnis aequi iuris, ed anche il finis aequi iuris, perchè esse, a differenza di altre leggi, non furono il frutto di una sorpresa, ma di una vera transazione ed accordo fra i due ordini. Vedi i passi relativi nel RIVIER, Introd. Histor., Bruxelles, 1881, 163 a 167, come pure nel Voigt, Die XII Tafeln, I, 7 e note relative. Questa specie di compromesso appare dalle parole che Livio, III, 31 attribuisce ai tribuni della plebe: finem tamen certaminum facerent. Si plebeiae leges displi cerent, at illi communiter legum latores et ex plebe et ex patriciis, qui utrisque utilia forent, quaeque aequandae libertatis essent, sinerent creari . Di qui rica vasi anche un argomento per inferire, che la legislazione decemvirale suppone già una specie di fusione del diritto delle genti patrizie con quello della plebe, il che sarà meglio dimostrato più oltre. 400 blico, e per quelle che riguardano l'usura e il trattamento che il creditore può usare contro il debitore. Cid spiega anche in parte la sobrietà e la concisione della legislazione decemvirale, la quale, senz'entrare nella descrizione degli istituti ed in disposizioniminute, si limita a porre dei concetti sintetici e comprensivi, pressochè enunziati in forma assiomatica, lasciando poi alla interpretazione di ricavare da essi tutte le conseguenze, di cui potevano essere ca paci. Di qui derivano eziandio la venerazione e la riverenza, in cui fu tenuto sempre questo codice primitivo del popolo romano; la differenza che i Romani ravvisarono sempre fra queste leggi fonda mentali, e quelle che si vennero gradatamente aggiungendo alle medesime; ed il fatto incontrastabile, che la legislazione decemvirale, malgrado la pochezza dei proprii dettati, ha finito per essere il punto di partenza di un sistema intiero di legislazione. Tuttavia il carattere più saliente e più importante per la storia del diritto primitivo di Roma, che a mio giudizio vuolsi ravvisare nella legislazione decemvirale, consiste in questo, che siccome le XII Tavole furono il primo codice comune ai due ordini, cosi fra tutti i documenti dell'antico diritto, esse portano le traccie più evi denti dell'origine diversa delle istituzioni, che entrarono a costituire il sistema del primitivo diritto romano. In esse infatti noi troviamo da una parte trasportate di peso certe istituzionidelle genti patrizie, il che si avverò sopratutto quanto all'organizzazione della famiglia e alla successione e tutela legittima degli eredi suoi, degli agnati e dei gentili, istituzioni che i giureconsulti ci dicono appunto essere state introdotte dalla legislazione decemvirale (3 ). In esse parimente Così, ad esempio, la legge secondo cui a de capite civis nisi maximo comi tiatu ne ferunto mira certamente ad impedire, che le accuse capitali potessero re carsi innanzi ai concilia plebis, come i tribuni della plebe avevano più volte tentato di fare, come lo dimostra, fra gli altri, il processo contro C. Marcio Coriolano. Uno scopo analogo dovette pure avere la legge: privilegia ne inroganto. Cic., de leg., 19, 44. Nota a ragione il Bruns, che nelle XII Tavole già si appalesa il genio giu ridico di Roma, sia perchè esse già comprendono ogni parte del diritto, e sia anche per il carattere obbiettivo e pratico delle singole disposizioni. Vedi HOLTZENDORF's, Rechts Encyclopedie, I, 117. A parer mio esse dimostrano eziandio, che l'elabora zione giuridica era già pervenuta molto innanzi, in quanto che già si dànno come formati i concetti del nexum, del mancipium, del testamentum, senza che occorra di indicarne il contenuto. Se prestiamo fede ai giureconsulti sarebbero state introdotte direttamente dalla legislazione decemvirale le successioni e le tutele legittime e le legis actiones, le quali sarebbero state composte dai pontefici sui termini stessi delle XII Tavole. 401 è evidente lo sforzo dei decemviri di porgere alla plebe un mezzo per uscire dalla posizione di fatto in cui si trovava, e procurarsi invece una posizione di diritto; come lo dimostra fra le altre cose la parte assai larga fatta all'usus auctoritas, che compare qual mezzo per contrarre le giuste nozze, per acquistare le cose mobili ed immobili, e qual modo di acquisto della stessa eredità. Infine nella legislazione decemvirale si rinviene eziandio una parte dovuta all'elaborazione di quel rigido ius quiritium, che ebbe a formarsi sotto l'influenza del censo e delle altre istituzioni serviane, i cui concetti fondamentali sono quelli del nexum, del mancipium, del testamentum, dell'atto per aes et libram, nei quali tutti il quirite appare con un potere senza confini, cosicchè la sua parola viene in certo modo a convertirsi in legge: uti lingua nuncupassit ita ius esto . 322. Questi varii elementi di origine diversa, che insieme ad alcune disposizioni particolari imitate dalle legislazioni greche Lo stesso è pure a dirsi del riconoscimento della fiducia, la quale non avendo forma giuridica dovette probabilmente nascere nelle consuetudini della plebe. Vedi in proposito ciò che si disse quanto al contributo della plebe nella formazione del di ritto romano ai numeri 148 a 157, 182 e segg., e sopratutto a 184. Si ritornerà poi sull'argomento nel libro seg., cap. IV, 3, trattando della mancipatio cum fiducia. V. cap. precedente, relativo all'influenza della costituzione serviana sulla for mazione del ius quiritium. V. Lattes, L'ambasciata dei Romani per le XII Tavole. Milano, 1884. Non può qui essere il caso di trattare a fondo la questione della ambasciata in viata in Grecia e ne quella dell'influenza greca sulle XII Tavole, questione che pud aver bisogno di un nuovo stadio dopo la scoperta delle leggi di Gortyna: ma credo che il seguente libro proverà fino all'evidenza, che le basi fondamentali del primitivo ius quiritium sono desunte dalle istituzioni già esistenti fra le genti italiche, e che furono eminentemente ed esclusivamente romani così il modo in cui furono foggiati gli istituti giuridici, come il processo logico e storico ad un tempo, con cui furono svolti. L'analogia pertanto di certi istituti può anche essere prove nuta o dalla comune origine ariana, o dalle condizioni analoghe, in cui si trova rono le genti italiche e le elleniche nel passaggio dall'organizzazione per genti alla vita cittadina; mentre l'imitazione diretta si limita a disposizioni di poca impor tanza, la cui origine ellenica è sempre di buon animo accennata dagli autori la tini, che non disconobbero mai la sapienza dei Greci, pur affermando la propria superiorità in tema di diritto. Cfr. Voigt, XII Tafeln, I, 10 a 16, dove pare si trovano raccolti i passi degli antichi autori, che si riferiscono all'argomento. Quanto all'influenza greca sulla giurisprudenza romana in genere mi rimetto a ciò che ho scritto nella Vita del diritto, 179 a 194. 1. C., Le origini del diritto di Roma, 26 402 formarono il substratum della legislazione decemvirale, finiscono dopo di essa per svolgersi contemporaneamente e quindi con essa può dirsi aver termine il ius quiritium propriamente detto, e cominciare. invece l'elaborazione di un ius proprium civium romanorum, in cui continuarono però a perdurare le primitive istituzioni del ius quiritium. Ciò ci è dimostrato dall'attestazione di Pomponio, se condo cui tutto quel diritto, che venne a formarsi sulla legislazione decemvirale, mediante la iuris interpretatio, la disputatio fori, e la formazione delle legis actiones, venne appunto ad essere indi cato col vocabolo di ius civile. Anche qui pertanto si fa ma nifesto quel singolare magistero, che si rivela poi in tutta la forma zione della giurisprudenza romana, per cui, accanto al diritto già formato e consolidato, havvene una parte, che continua sempre ad essere in via di formazione. Per talmodo accanto al ius quiritium, iniziatosi sopratutto colla costituzione serviana, venne formandosi il ius civile, i cui esordii partono dalla legislazione decemvirale; poi accanto a questo si esplicò il ius honorarium, elaboratosi sopratutto sull'editto del Pretore; infine molto più tardi ancora, secondo qualche autore, accanto al ius ordinarium viene formandosi il cosi detto ius extraordinarium . Parmi quindi giusto il ritenere, che colla legislazione decemvirale si chiude il periodo delle origini propriamente dette, in cui le varie istituzioni trovansi ancora allo stato embrionale, e comincia il vero svolgimento storico del diritto romano, in cui le varie parti del di ritto pubblico e privato, già procedendo separate le une dalle altre, debbono anche essere studiate separatamente nel proprio sviluppo. È a questo punto pertanto, che può essere opportuno un tentativo di ricostruzione di quel primitivo ius quiritium, che a mio giudizio costituisce l'ossatura primitiva di tutta la giurisprudenza romana, e può darci il segreto di quella dialettica potente, che strinse insieme le varie parti della medesima. Spero che la bellezza e l'im portanza grandissima del tema, e la luce, che può derivarne per la spiegazione del diritto primitivo di Roma, il quale, quanto alle proprie origini, non ha cessato ancora di essere un grandemistero, valgano a farmi perdonare l'audacia del tentativo. KUNTZE, Ius extraordinarium der römischen Kaiserzeit. Leipzig, 1886. POMP., Leg. 2, SS 5 e 6, Dig. (1-2). LIBRO IV. Ricostruzione del primitivo ius quiritium (*). CAPITOLO I. La struttura organica del ius quiritium ed il concetto del quirite. 323. E opinione pressochè universalmente adottata, che il primitivo diritto di Roma porti in sè le traccie della violenza e della forza, e debba essere considerato in ogni sua parte come il frutto di una evo luzione lenta e graduata, determinata esclusivamente dalle condizioni economiche e sociali, in cui trovossi il primitivo popolo romano. Lo studio invece della genesi e della formazione del ius quiritium, nel momento in cui per opera della costituzione serviana comincio ad essere comune alle due classi, mi conduce a conclusioni alquanto diverse. Questo ius quiritium, se nei vocaboli può ancora portare le traccie di un periodo anteriore di violenza, nella sostanza invece è già il risultato di una selezione e di un'astrazione potente, intesa da una parte a trascegliere dal periodo gentilizio quelle istituzioni, (*) Ancorchè l'intento di questo libro IV sia di isolare in certo modo quella parte del diritto privato di Roma, che prima riuscì a consolidarsi sotto il nome di ius quiritium, e a costituire così il nucleo centrale di quella elaborazione giuri dica, che doveva poi durare per 14 secoli, mi riservo tuttavia anche qui la libertà di seguire talvolta lo svolgimento logico e storico dei varii istituti giuridici, anche oltre gli stretti confini del ius quiritium. Il motivo è questo, che anche nella clas sica giurisprudenza occorrono certe singolarità, le quali, a parer mio, non potranno mai essere spiegate, quando non siano sorprese alle origini. Siccome infatti la carat teristica del tutto peculiare del diritto romano consiste nell'essere il frutto di una elaborazione, che malgrado la sua lunga durata non abbandono mai intieramente quei metodi e processi, con cui era stata iniziata; così in esso accade ben soventi, che negli ultimi sviluppi occorrano certe apparenti singolarità ed anomalie, le quali non sono che una conseguenza logica di fatti, che si avverarono nel principio della formazione, e dell'indirizzo con cui questa ebbe ad essere iniziata. 404 - che potevano accomodarsi alla vita della città, e dall'altra a sce verare l'elemento giuridico da tutti gli altri punti di vista, sotto cui i fatti sociali ed umani possono essere considerati. Il suo linguaggio rozzo ma efficace; i suoi concetti sintetici e comprensivi; le solennità tipiche, in cui esso si manifesta; la disinvoltura con cui si maneg giano tali solennità e si trasportano da uno ad un altro negozio giuridico; la coerenza organica delle sue varie parti sono già la ma nifestazione di una potente logica giuridica, di cui appare investito il popolo romano fin dai proprii esordii, mediante cui esso riesce a sceverare dalle proprie tradizioni del passato e dalle condizioni so ciali, in cui si trova, tutto ciò che in esse havvi di strettamente e di esclusivamente giuridico, modellandolo in altrettante costruzioni tipiche, che concentrano in sè l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani. Lo stesso nostro linguaggio sembra essere inadeguato ad esprimere una selezione di questo genere, cosicchè ad ogni istante viene ad essere necessario di ricorrere a vocaboli tolti dalle scienze fisiche, chimiche e naturali, perché è soltanto nelle naturali forma zioni che possono essere sorprese delle sintesi e delle analisi, ana loghe a quelle, che occorrono nel primitivo diritto di Roma. In esso dispiegasi una logica giuridica cosi rigida, cosi geometrica, precisa e coerente, che anche un giureconsulto, preparato da una lunga edu cazione giuridica, stenterebbe a giungervi, e la quale può soltanto essere spiegata con dire che ci troviamo di fronte a un popolo, giu rista per eccellenza, il quale, guidato dalle proprie attitudini natu rali, esordisce con un capolavoro di arte giuridica, che può essere considerato come un pegno della perfezione, a cui esso giungerà più tardi nel suo lavoro legislativo. 324. Il diritto quiritario infatti toglie dalla realtà il linguaggio ed i concetti primitivi, di cui esso si vale; ma intanto li isola e li scevera per modo da ogni elemento affine, che i primitivi concetti giuridici del popolo romano, al pari dei suoi concetti politici, si pre sentano come altrettante concezioni logiche, e costruzionigeometriche, che possono poi essere sottoposte a quella logica astratta, che fu del tutto propria dei giureconsulti romani. Che anzi la logica giuridica dei giureconsulti romani non si ma nifestò forse mai in modo più vigoroso e potente, che nel modellare il concetto stesso del quirite e i varii atteggiamenti, sotto cui il medesimo può essere considerato. Io non dubito infatti di affermare, che il concetto stesso del quirite, in quanto si considera come il 405 caput, da cui erompono le varie manifestazioni giuridiche, deve per sè essere considerato come una concezione giuridica nel senso vero della parola. Il quirite infatti non è l'uomo quale in effetto esiste, ma è l'uomo isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere consi derato sotto l'aspetto esclusivo di capo di famiglia e di proprietario di terre. È come tale soltanto, che egli conta nel censo serviano, ed è come tale eziandio, che esso si presenta nel primitivo ius quiritium. Esso inoltre è anche un'astrazione sotto un altro aspetto, in quanto che la logica giuridica lo isola da tutti i vincoli religiosi e morali, a cui nel fatto possa essere sottoposto, e lo concepisce come fornito di un potere illimitato e senza confini. Essa lo considera come un pater familias, ancorchè in effetto non abbia figliuolanza, e in quanto è tale, gli attribuisce i poteri più illimitati. Egli infatti quale capofa miglia ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sui servi; come proprietario pud usare ed abusare delle proprie cose; come credi tore può anche appropriarsi il proprio debitore, venderlo al di là del Tevere e dividerne il corpo, se concorra con altri creditori; come testatore pud disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose per il tempo per cui avrà cessato di vivere. Col tempo questa potestà giuridica illimitata potrà apparire eccessiva, in quanto che si verrà a riconoscere che il quirite potrà anche abusare di essa, come il magistrato del proprio imperium, ed in allora si cercherà di porre dei limiti al suo potere come padre, come proprietario, come credi tore, come testatore, come padrone; ma nel suo erompere primitivo l'uomo, a cui appartiene l'optimum ius quiritium, è una indivi dualità completa, che sotto l'aspetto giuridico non subisce limitazione di sorta. Il quirite poi, in base al censo serviano, riunisce due carat teri: quello cioè di capo di famiglia e di proprietario di terre, e i medesimi si compenetrano per modo, che i due concetti si vengono immedesimando l'uno nell'altro, cosicchè, quale padre di famiglia, esso apparisce come un proprietario, e per essere proprietario deve essere un capo famiglia; donde consegue, che anche i due vocaboli di familia e di mancipium possono sostituirsi l'uno all'altro. V. in proposito il Voigt, Die XII Tafeln, II, 10 e 11, note 5 e 6, ove son citati varii passi da cui risulta, che la familia in personas et in res deducitur. Leg. 195, Dig. (50, 15 ). Cid pure accade del mancipium, il quale talvolta è preso in significazione così larga da comprendere non solo le cose, ma anche le persone 406 Nel censo infatti non comparisce che il caput, in quanto unifica in sè medesimo persone e cose, e in quanto egli è libero, cittadino, in dipendente nel seno della famiglia. Esso conta per uno, ma intanto rappresenta molte persone ad un tempo: cosicchè anche la proprietà, che trovasi posta in suo capo, mentre nel costume appartiene alla famiglia, sotto il punto di vista giuridico viene invece ad essere considerata come una proprietà esclusivamente propria del capo di famiglia. Quasi si direbbe che l'imperium del quirite nella propria casa viene ad essere foggiato sulmodello stesso del regis imperium per quello che si riferisce alla città. Esso ha impero sulle cose e sulle persone, al modo stesso che il magistrato ha l'imperium domimi litiaeque, e l'una ed anche l'altra podestà, sotto il punto di vista giuridico e politico, non hanno confine, sebbene nella realtà siano contenute in stretti vincoli dal costume pubblico o privato. Di qui la conseguenza, che mentre questo è il momento storico, in cui ap parisce più senza confini il potere del padrone sugli schiavi, quello del marito sulla moglie, quello del padre sui figli, noi intanto ab biamo tutti gli argomenti per credere, che fu appunto questo il tempo, in cui fu migliore la condizione degli schiavi, volontariamente accettata la subordinazione dei figli e della moglie, e quello in cuiil potere del padre, cosi esorbitante nella sua configurazione giuridica, nella realtà non ebbe a dar luogo a gravi abusi. Fu sopratutto in questo primo periodo, che i figli dei servi erano allevati con quelli del padrone; che le mogli, mentre giuridicamente potevano essere ripudiate, nel fatto non conoscevano il divorzio; che i figli prova vano la severità del padre, non tanto nelle pareti domestiche, quanto piuttosto, allorchè egli investito del pubblico potere giungeva a soffo care gli affetti del sangue per far rispettare l'imperium, di cuitro vavasi insignito. dipendentidal capo di famiglia, come lo dimostra l'espressione conservataci da Gellio, secondo cui la mater familias è in manu mancipioque mariti. Ciò però non toglie, che il vocabolo familia significasse di preferenza il complesso delle per sone, e quello di mancipium il complesso delle cose, che erano soggette al potere del capo di famiglia. Cid apparirà meglio in questo stesso capitolo, $ 4, in cui si discorrerà appunto del mancipium, e delle sue varie significazioni. La causa di questo contrasto tra l'ordinamento giuridico della famiglia e le condizioni reali della medesima sarà meglio posta in evidenza al cap. 1, 1°, ove si discorre del ius connubii. Quanto alla figura del padre di famiglia patriarcale durante il periodo gentilizio, vedi sopra il nº 94, 119. 407 326. Se non che è ovvio il chiedersi, in qual modo siasi potuto modellare in modo così vigoroso ed efficace la figura del quirite. Io non dubito di rispondere che questa concezione dell'uomo sotto l'aspetto esclusivamente giuridico, se per una parte fu determinata dalle condizioni economiche e sociali, dall'altra fu anche l'effetto di una potente astrazione giuridica, compiuta da un popolo con un pro cesso mentale non diverso da quello, che seguirebbe un giureconsulto moderno. Gli elementi preesistevano nella organizzazione gentilizia e consistevano nella figura del capo di famiglia, e nel concetto della proprietà, che a lui apparteneva. Mediante un lavoro di astrazione, che è famigliare al giureconsulto, i due concetti di capofamiglia e di proprietario furono staccati dall'ambiente, in cui si erano for mati, furono isolati da tutti gli altri rapporti di carattere gentilizio, riguardati attraverso il crogiuolo del censo, in cui persone e cose dipendevano da un solo caput, e ne eruppe cosi questa figura tipica del quirite, che è soldato ed agricoltore, capo di famiglia e proprietario, individuo e capo gruppo, il quale sotto un aspetto è una realtà e sotto un altro è già una astrazione o concezione giuridica. Lo stesso è a dirsi delle due istituzioni fondamentali della famiglia e delle proprietà, quali vengono a presentarsi nel ius quiritium la cui formazione fu determinata dalla costituzione serviana, An ch'esse sono tratte dalla realtà, e sono due ruderi dell'organizzazione gentilizia, nel senso vero e proprio della parola, salvo che, traspor tate nel seno delle città e cosi isolate dall'ambiente, che le circon dava, fanno su chi le considera un effetto analogo a quello di quei ruderi delle mura serviane, che circondate da un' aiuola si incon trano nella Via Nazionale di Roma moderna. Di qui la conseguenza, che anche la proprietà e la famiglia debbono essere considerate come due costruzioni giuridiche, in quanto che esse non sono la pro prietà e la famiglia, quali effettivamente esistevano, ma sono il frutto di un'elaborazione giuridica, per cui l'una e l'altra sono iso late da quegli elementi, sopratutto religiosi e morali, che nella realtà ne moderavano la rigidezza. Siccome infatti il quirite, come tale, non è più nè il gentile, nè il cliente, né il patrizio, nè il plebeo, ma è un capo famiglia, considerato come padrone assoluto delle cose e delle persone, che da lui dipendono; cosi l'aureola del buon co stume, del consiglio domestico, del consiglio degli anziani, delle tradizioni del villaggio, della religione, di cui il padre antico era il sacerdote, viene a scomparire pressochè intieramente nel diritto 408 quiritario. In questo più non scorgesi, giuridicamente parlando, che un caput, che è proprietario e padre ad un tempo, e il cui potere (manus) sulle persone e sulle cose, che ne dipendono (mancipium o familia ), apparisce senza confini, rendendo cosi possibile l'applicazione di una logica, il cui processo sarebbe stato ad ogni istante interrotto, se si fosse dovuto tener conto degli altri vincoli e rapporti, in cui il quirite effettivamente si trovava. 327. Lo stesso deve pur dirsi di quel carattere, cosi saliente nel di ritto primitivo di Roma, per cui i poteri sulle persone e sulle cose vengono ad immedesimarsi l'uno nell'altro, e possono quindi essere in dicati coimedesimivocaboli, rivendicati nella stessa guisa, e trasmessi col medesimo atto. Anche ciò non deve ritenersi come indizio, che per i Romani la potestà del padre si confondesse colla proprietà: ma è unicamente il frutto di una elaborazione giuridica, in quanto che questi due poteri, dovendo passare per il crogiuolo del censo, venivano in sostanza a ridursi tutti al concetto del mio e del tuo. Ed a questo riguardo credo di non esagerare dicendo, che fu una grande ventura per il diritto romano, che il medesimo fosse cosi costretto a modellare ogni diritto sopra quello di proprietà, in quanto che non eravi certamente altro concetto, che potesse meglio acco modarsi a tutte le applicazioni della logica giuridica. Se questa infatti avesse dovuto applicarsi alle persone, si sarebbe ad ogni istante inceppata in considerazioni di umanità, mentre spiegandosi in certa guisa di fronte alle cose potė spingersi a tutte le deduzioni, di cui poteva essere capace, e per tal modo il diritto potè appa rire in certi casi inumano e crudele, ma la costruzione giuridica venne ad essere più logica e più coerente. Cosi deve pure attribuirsi ad una elaborazione giuridica, resa ne cessaria dalle condizioni, sotto cui patriziato e plebe entravano a far parte della comunanza, quel concetto, per cui quella proprietà, che nel costume ritenevasi appartenere alla famiglia, giuridicamente in vece venne ad essere considerata come spettante ad un individuo, che poteva disporne in qualsiasi guisa. Questo infatti era il solo modo di combinare il concetto della proprietà famigliare, che era proprio del patriziato, con quello della proprietà privata ed individuale, che era la sola, che fosse conosciuta dalla plebe. Fondendosi insieme, le due formedi proprietà diedero origine a quella singolare istituzione della proprietà quiritaria, che nel costume si ritiene della famiglia, e in diritto si considera come esclusivamente propria del padre, per 409 cui tutto ciò, che acquistano gli altri membri della famiglia, a lui solo appartiene. 328. Fermo cosi nelle sue linee generali il concetto fondamentale del quirite, quale ebbe ad uscire dal crogiuolo del censo istituito da Servio Tullio, viene ad essere facile il comprendere come i varii atteggiamenti, sotto cui esso può essere considerato, abbiano potuto essere scomposti ed analizzati, e abbiano così data origine ad al trettante concezioni giuridiche foggiate sullo stesso modello. Il quirite infatti costituisce in certo modo la configurazione giu ridica dell'umana persona, quale allora poteva essere concepita, e come tale può essere considerato: – o in quanto sta, ossia nella posizione giuridica (status), che egli tiene nella comunanza quiri tiana: - o in quanto egli si muove ed agisce, ossia in quanto egli entra in rapporti con altri quiriti. In quanto sta, ossia in quanto egli tiene uno status, questo può essere scomposto nei suoi varii elementi, e quindi il quirite viene ad avere un caput, che comprende tutta la sua capacità giuridica come quirite; una manus, che inchiude il complesso dei poteri, che gli appartengono ex iure quiritium; un mancipium, il quale implica parimenti nella sua significazione primitiva così le persone, che le cose, che da lui dipendono per diritto quiritario. È poi degno di nota, che tutti questi vocaboli, in cui viene ad essere racchiusa l'individualità giuridica del quirite, hanno una significazione mate riale e giuridica, concreta ed astratta ad un tempo. Cosi, ad esempio, il vocabolo caput, mentre da una parte indica la parte più nobile ed importante del corpo, dall'altra designa la capacità giuridica poten ziale del quirite che è come la sorgente di tutti i diritti spettanti al medesimo; quello dimanus,mentre esprime l'organo mediante cui si esplica la forza e l'energia fisica dell'uomo, è ad un tempo il sim bolo efficacissimo dell'attività giuridica che si viene estrinsecando in certi determinati poteri; e quello infine di mancipium da ma nucaptum, mentre da una parte significa una cosa, che per essere materialmente afferrata dalla manus, non può sfuggire alla mede sima, dall'altra indica eziandio lo stato di sottomissione giuridica, in cui vengono a trovarsi le persone e le cose che da essa dipendono. Questo carattere speciale della proprietà quiritaria e il modo in cui essa potè formarsi saranno meglio spiegati nel cap. seg., $ 6, ove si discorre dell'origine del dominium ex iure quiritium. 410 Questi varii elementi poi, intrecciandosi fra di loro, costituiscono un tutto organico e coerente; poichè, tanto nel significato mate riale quanto nel giuridico, la manus viene in certo modo ad esser e il termine di mezzo fra il caput che la dirige e il mancipium che dipende dalla medesima. In quanto invece si muove ed agisce, il quirite viene a contatto coi proprii simili, e quindi le sue estrinsecazioni giuridiche possono essere richiamate: al connubium, da cuideriva, si può dire, tutto il diritto, che si riferisce alle persone; al commercium, in cui si com pendiano tutte le manifestazioni giuridiche, che si riferiscono alle cose; all'actio, da cui scaturisce tutto quel complesso di proce dure, con cui egli pud far valere qualsiasi suo diritto: vocaboli anche questi, che hanno pure una significazione materiale e giuridica ad un tempo. Tutti questi elementi poi, mentre concorrono a costituire l'organismo del tutto, sono percorsi da un proprio concetto informa tore, che si viene logicamente svolgendo, e che dà cosi origine a quella dialettica latente della giurisprudenza romana, colla quale sol tanto si possono spiegare certe peculiarità del diritto romano. Intanto è da notarsi, che tutto questo bagaglio del diritto quiri tario è tolto in sostanza dal periodo gentilizio, perchè già in esso eransi formati i concetti del caput per indicare il capo del gruppo famigliare o gentilizio, della manus per indicare il complesso dei suoi poteri, e del mancipium per indicare le cose e le persone che gli erano soggette; come pure in esso, già si erano preparati i concetti di connubium, di commercium e di actio. Vi ha però questa differenza, che mentre questi un tempo indicavano dei rap porti, che intercedevano fra i membri delle varie genti, ora indi cano invece la posizione speciale, che il quirite prende nella co munanza quiritaria, ed i varii aspetti sotto cui dispiegasi l'attività giuridica del quirite nei suoi rapporti cogli altri quiriti. Quindi è, che mentre questi concetti un tempo avevano una significazione, che era determinata dall'ambiente, in cui si erano formati; ora invece, essendo staccati dall'ambiente stesso, si cambiano in altrettante forme e concezioni logiche, e come tali diventano capaci di uno svolgi mento logico e storico compiutamente diverso, la cui ricostruzione formerà oggetto dei capitoli seguenti. Il naturale processo, in base a cui venne formandosi un diritto fra le varie genti, fu spiegato più sopra ai nn. 94 e seg., 117, e quello per cui i concetti intergentilizii così formati si cambiarono in concetti quiritarii trovasi descritto al n ° 266. Il quirite nel suo status. 1. – Il censo serviano e la genesi dei concetti di caput, manus, mancipium. 329. Anche oggidi il più arduo problema, che presentino le ori gini del ius quiritium, consiste nello spiegare come mai il mede simo si trovasse di un tratto isolato da quell'ambiente religioso e gentilizio, in cui erasi formato, e come esso abbia potuto prendere le mosse da concetti così sintetici e comprensivi, quali sono quelli di caput, manus, mancipium. Come mai potè accadere, che quel ius, che presso le genti patrizie era ancora soverchiato dal fas ed ed avviluppato nel mos, sia pervenuto pressochè di un tratto ad affermare la propria esistenza e a ricevere uno svolgimento lo gico e storico del tutto distinto da quello della religione e della mo rale? In qual modo parimenti potè accadere, che un diritto, il quale, secondo l'attestazione dei giureconsulti, ebbe a formarsi necessi tate exigente et rebus ipsis dictantibus , siasi iniziato con sintesi potenti, che inchiudono in germe tutti i suoi ulteriori svolgimenti? Son note in proposito le divergenze degli autori e le congetture innumerabili, che furono poste innanzi, ed è certo assai difficile di giungere ad una risoluzione, che possa rispondere a tutte le ob biezioni. Persuaso tuttavia, che per comprendere le istituzioni di un popolo, sia sopratutto indispensabile di spogliarsi delle idee del tempo, per trasportarsi nell'ambiente e nel pensiero del popolo, fra cui quelle istituzioni giunsero a formarsi, io ritengo che il solo modo per giungere a comprendere questa singolare formazione del ius quiritium e la significazione dei concetti da cui esso parte, sia quello di ricostrurre in base alle condizioni economiche e sociali, in cui si trovavano il patriziato e la plebe, quella comunanza quiritaria, Il carattere eminentemente religioso del diritto primitivo delle genti patrizie fu dimostrato più sopra, lib. I, cap. V, 90 a 104, discorrendo dei rapporti fra il mos, il fas e il ius. Il medesimo poi si mantenne ancora durante il periodo della città esclusivamente patrizia, come lo dimostra l'analisi delle leges regiae fatta ai nn. 268 a 270, 329.412 la cui formazione ebbe ad essere determinata dalla costituzione e dal censo di Servio Tullio. 330. Credo di avere dimostrato a suo tempo come il patriziato e la plebe, anteriormente all'epoca serviana, non avessero comuni nè la religione, né i costumi, nè l'organizzazione gentilizia, nè i connubii, che sono il fondamento dell'organizzazione domestica. I soli diritti, che la città patrizia avesse accordati alle plebi circo stanti, non devono neppure essere indicati col nome di ius com mercii, ma bensi con quello di ius nesi mancipiique; il quale consisteva nel diritto dei plebei di potersi obbligare vincolando la propria persona, e di poter disporre di quelle possessioni, che essi tenevano nel territorio romano. È quindi evidente che, se era possibile una comunanza fra i due ordini, questa nelle origini non poteva avere nè un carattere religioso e neppure un carattere mo rale, ma poteva solo avere un carattere esclusivamente economico, giuridico e militare. Ne consegui pertanto, che per formare questa comunanza venne ad essere necessario di sceverare affatto il ius, nel senso stretto e rigido della parola, dal fas e dal mos, con cui prima trovavasi implicato nelle istituzioni delle genti patrizie. Questa selezione erasi già in parte iniziata col formarsi della città esclusivamente patrizia, poichè già fin d'allora erasi venuta distin guendo la vita pubblica dalla privata ed erasi già in parte affie volita l'organizzazione gentilizia ; ma la medesima dovette spin gersi ben più oltre coll'accoglimento nel populus di un elemento, a cui non erasi riconosciuto che il ius neximancipiique. Di qui la rigidezza singolare, che ebbe ad assumere il ius quiritium, allorchè cominciò ad essere comune al patriziato ed alla plebe; poichè da quel momento esso venne ad essere sottratto a quell'au reola religiosa e patriarcale, che dominava il periodo gentilizio, e fu sottoposto all'impero di una logica del tutto sua propria. Se non che, anche in tema di diritto, nel senso stretto della pa rola, non tutte le istituzioni potevano servire di base alla comu V., quanto alla condizione della plebe, il lib. I, cap. IX, 180 a 196, e quanto al ius nexi mancipiique, spettante alla medesima, il nº 160, 198 e 199, come pure il nº 287, 351 e 352. Che anche il diritto della città patrizia supponesse una specie di selezione fra le istituzioni delle varie genti, operatasi per opera dei collegi sacerdotali e sotto forma di legislazione regia, fu dimostrato nel libro II, cap. IV, SS 1º, 2º e 3º, 303 a 333. - 413 nanza quiritaria, ma soltanto quelle che in effetto erano comuni ai due ordini, o che erano tali da rendere possibile un ravvicina mento fra di loro. Quindi anche in fatto di diritto convenne fare astrazione da tutti quei rapporti, che per il momento non potevano essere comuni, per fissare lo sguardo su quei rapporti e su quegli interessi, in base a cui essi potevano partecipare alla stessa comu nanza. Siccome quindi l'interesse, che avevano il patriziato e la plebe ad entrare in una stessa comunanza, era sopratutto l'interesse della comune difesa, così la comunanza quiritaria assunse in que st'epoca un carattere più esclusivamente militare, che prima non avesse. Siccome parimenti gli unici rapporti, per cui poteva avve. rarsi un ravvicinamento fra di loro, erano quelli relativi alla fa miglia unificata sotto il proprio capo, e alla proprietà spettante alla famiglia stessa, così il ius quiritium comune ai due ordini cominciò a consolidarsi nella parte relativa alle due istituzioni fondamentali della proprietà e della famiglia. 331. Di cid è facile persuadersi quando si considerino le condi zioni rispettive dei due ordini, che dovevano partecipare alla stessa comunanza. Da una parte eran vi i membri delle gentes patriciae, i quali ancorchè fossero i fondatori della città, continuavano però sempre ad essere organizzati per gruppi, sovrapponentisi gli uni agli altri (famiglie, genti, e tribù gentilizie), come lo dimostra il fatto, che il popolo primitivo era diviso per curiae, le quali erano appunto for mate ex hominum generibus. Il patriziato pertanto non aveva in certo modo il concetto della individualità nello stretto senso della parola, ma solo il concetto dei diversi gruppi e dei capi che rap presentavano imedesimi. Di questi gruppi poi ilmeno esteso e il più strettamente unificato era quello della famiglia, fondata sulla agna zione, e riunita sotto la potestà del padre. - Dall'altra parte in vece eravi la plebe, la quale, essendo una moltitudine di individui rimasti liberi dalla clientela, o immigrati da altre città, o traspor tati da popolazioni conquistate, componevasi invece di individui anche isolati o tutto al più di famiglie, le quali non erano più strette insieme dal vincolo di agnazione, ma piuttosto da quello più naturale dell'affinità e della cognazione . V.,quanto all'organizzazione gentilizia del patriziato, il lib. I, cap. IV, e quanto alle condizioni della plebe, il lib. I, cap. IX. 414 Queste differenze poi, che esistevano fra di loro quanto alla loro organizzazione, si riflettevano eziandio nelle loro condizioni econo miche. Da una parte infatti continuava a prevalere presso le gentes patriciae la proprietà collettiva dell'ager gentilicius o dell'ager compascuus, il che però non impediva che esse già conoscessero una specie di proprietà famigliare e privata, la quale era designata col vocabolo di heredium. Questo consisteva nell'assegno, che le varie gentes facevano sull'ager gentilicius ad ogni gentile, che passando a matrimonio veniva a fondare una nuova famiglia, ed era a somi glianza di esso, che secondo la tradizione anche Romolo aveva fatto a ciascuno dei suoi seguaci un assegno, il quale pur riteneva il nome di heredium. Il medesimo quindi costituiva in certo modo il patrimonio famigliare, e come tale non poteva essere alienato senza il consenso degli altri capi di famiglia, ma doveva invece trasmettersi dai genitori ai figli, e mantenersi per quanto si poteva indiviso (ercto non cito ); ma intanto, essendo già intestato al capo di famiglia, cominciava ad avvicinarsi alla proprietà individuale e privata. Dall'altra invece la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia, non poteva neppure avere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius e dell'ager compascuus. Di qui conseguiva, che i plebei nel fatto si trovavano stabiliti sopra certi spazi di suolo, che essi avevano occupato sul territorio romano, o di cui avevano ottenuto il godimento da qualche gens patricia, o che loro erano stati as segnati dal re sullo stesso ager publicus. È quindi evidente, che questi stanziamenti della plebe, essendo una applicazione del ius mancipii alla medesima accordato, più non potevano essere chia mati col vocabolo di heredia, poichè questo conteneva ancora l'idea di un patrimonio avito da trasmettersi agli eredi, ma potevano in vece più acconciamente indicarsi col vocabolo dimancipia, poichè essi erano state effettivamente manucapti, e perchè fino a quel punto costituivano piuttosto semplici possessi, che non vere proprietà al punto di vista gentilizio. 332. In questa diversità di condizioni egli è evidente, che il Quanto al concetto dell'heredium, come forma della proprietà famigliare nel periodo gentilizio, vedi il nº 56, 70; ma devo aggiungere, che dettando quelle pagine non aveva ancora ravvisata la differenza esistente fra l'heredium ed il man cipium, nè aveva cercato di spiegare come perchè all'heredium del periodo genti lizio fosse sottentrato nel ius quiritium il concetto di mancipium. - 415 censo, dovendo comprendere i due ordini, non poteva tener conto che degli elementi, che erano loro comuni. Se il censo quindi avesse dovuto farsi di soli patrizii, si sarebbe dovuto indicare la famiglia, la gente e la tribù gentilizia a cui ap partenevano, e avrebbesi così avuto un censo fondato sulla discen denza, come quello sovra cui dovevano probabilmente essersi for mate le curiae. Se esso invece avesse dovuto comprendere i soli plebei, si sarebbe dovuto procedere per capita; poichè fra essi ve ne erano anche di quelli, che solo avevano il loro caput, e che non avrebbero potuto indicare la loro vera discendenza. Siccome invece il censo, come base della nuova comunanza quiritaria, do veva comprendere gli uni e gli altri; cosi la soluzione fu la più naturale di tutte, quella cioè di dare al censo non più una base genealogica (ex hominum generibus), che avrebbe potuto compren dere solo i patrizii ed alcune famiglie plebee, ma bensì una base territoriale e locale (ex regionibus et locis) , che poteva com prendere gli uni e gli altri, e di censire gli abitanti, non per genti e neppure per famiglie, ma per capita, attribuendo perd al voca bolo di caput la doppia significazione di individuo e di capo di quel gruppo famigliare, che era appunto il solo, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Così pure se si fosse trattato di censire le proprietà patrizie, si sarebbe dovuto prendere come base la proprietà collettiva della gens (ager gentilicius), nella quale sarebbero anche rientrati gli heredia delle singole famiglie; ma volendosi anche censire i possessi e gli stanziamenti della plebe, convenne di necessità prendere a base del censimento quella sola forma di proprietà e di possesso, che apparteneva ai patrizii sotto il nome di heredium, e ai plebei sotto quello di mancipium. Tuttavia questa proprietà individuale e famigliare ad un tempo, che era comune ad entrambi gli ordini, non potè più essere indicata acconciamente col vocabolo di here dium, il quale era pur sempre una istituzione di origine gentilizia, ma potè esserlo più acconciamente con quello di mancipium, il quale, oltre al rispondere perfettamente ai concetti di caput e di inanus, aveva anche il vantaggio di significare al tempo stesso la proprietà e il possesso, e di esprimere con potente efficacia quel carattere di proprietà esclusiva ed individuale, che veniva ad assu Gellio, XV, 28, 4. 416 mere quel patrimonio, che nel censo era intestato ad una deter minata persona. La conseguenza intanto fu questa, che nella comunanza quiritaria, formatasi in base alla costituzione ed al censo serviano, mentre il patrizio fu isolato in certo modo dall'ambiente gentilizio, in cui esso prima si trovava, il plebeo ottenne invece il riconoscimento ufficiale del possesso, sovra cui esso era stabilito. L'uno e l'altro comparvero nel censo come quiriti, ossia come capi di famiglia e come proprietarii di terra; ebbero un complesso di diritti comuni, che prese appunto il nome di ius quiritium. Così pure la comunanza quiritaria, avendo una base economica, venne a considerare ogni cosa sotto l'aspetto del mio e del tuo, e assunse eziandio una impronta emi nentemente militare, che spiega quel carattere di forza e di vio lenza che è inerente al ius quiritium e si rivela nei vocaboli e nei simboli da esso adoperati. 333. Pongasi ora, che trattisi di comprendere in certe rubriche, che si adattino per la formazione del censo, l'individualità giuridica di questo quirite, e anche oggidi sarebbe forse difficile di sovrap porre a queste varie rubriche vocaboli più sintetici e compren sivi e al tempo stesso più esatti e precisi di quelli di caput, manus, mancipium. Nella categoria del caput verrà il nome del cittadino, libero e sui iuris, come individuo e come capo di famiglia, e vi saranno le indicazioni del suo nome, della sua età, della tribù locale a cui appartiene, la cui indicazione finirà anzi per formar parte delle denominazioni ufficiali del cittadino romano. Nella seconda rubrica invece saranno indicati i poteri, che a lui ap partengono sulle persone, che entrano a costituire il gruppo, di cui egli è capo, sulle persone cioè, che siano in manu, in potestate, in mancipio, e siccome questa enumerazione dovrà naturalmente par tire dalla moglie, che trovasi sotto la manus, così può spiegarsi come tutti questi poteri vengano sotto la intitolazione generica di manus. Nella terza categoria infine comparirà il mancipium, ossia il complesso delle persone e delle cose, che costituivano il vero patri monio del quirite, in quanto egli era un capo di famiglia indipen dente e sovrano. Che il nome della tribù, a cui il cittadino apparteneva, entrasse nelle deno minazioni ufficiali del medesimo, appare da una quantità grandissima di iscrizioni. V. in proposito il MICHEL, Du droit de cité romaine, Paris, 1885. 417 Questo mancipium pertanto non potrà più comprendere nè l'ager gentilicius, come quello che non appartiene al capo di famiglia, ma alla gente; né le mandrie e gli armenti, che pascolano in questo ager gentilicius; né eziandio le possessiones, che si possano avere nell'ager publicus; nè la pecunia circolante, il cui ammontare pud essere variabile e non si presta ad una constatazione esatta e pre cisa, quale è quella richiesta per un censo; ma dovrà invece com prendere soltanto quella proprietà, che costituisse in certo modo il patrimonio normale, costante, e pressochè tipico di un capo di fa miglia agricola, nelle condizioni economiche e sociali in cui trova vasi allora il popolo romano. Egli è probabile infatti, per chi tenga conto della tendenza delle genti italiche a modellare i loro istituti sul medesimo tipo, che quel mancipium, che doveva figurare nel censo, quale patrimonio asso luto ed esclusivo del quirite, tendesse nella generalità dei casi ad essere configurato nella istessa guisa. Per verità se trattavasi dell'heredium ossia dell'assegno fatto ad un capo di famiglia di gente patrizia, il medesimo probabilmente doveva consistere in uno spazio dell'ager gentilicius, che potesse bastare all'abitazione e al sostentamento di lui e della sua famiglia; ed è certo a somiglianza di questi primitivi assegni, che, salve le proporzioni, dovettero es sere configurati gli assegni, che le genti facevano ai clienti, e quelli parimenti che i re facevano alla plebe. Di qui consegui na turalmente che, facendo astrazione dalla quantità maggiore o mi nore di iugera, o dall'ampiezza maggiore o minore della domus in città o del tugurium nel contado, dovette formarsi una configura zione tipica del podere del quirite. Che anzi non è punto impro babile, che nella formazione del censo, dovendosi ridurre a categorie generali le cose essenziali, che entravano a costituire questo man cipium, anche queste fossero raccolte sotto certe denominazioni ti piche, quali sarebbero quelle di praedia, di praediorum instru menta (servi, quadrupedes quae dorso collove domantur), di praediorum servitutes (iter, via, actus, aquaeductus); le quali po terono assai naturalmente essere indicate col vocabolo complessivo di res mancipii, come quelle che effettivamente entravano a costi tuire il mancipium. Mi limito qui ad accennare in genere come possa esser nato e siasi svolto l'importantissimo concetto del mancipium, perchè le molteplici questioni al riguardo saranno prese più opportunamente in esame in questo stesso capitolo, 4º, ove si G. C., Le origini del diritto di Roma. 27 - 418 334. Intanto una conseguenza necessaria di questa specie di se lezione del patrimonio, che apparteneva ad ogni singolo capo di fa miglia, veniva ad essere questa, che le res mancipii, come quelle che servivano a determinare la posizione di esso nella comunanza quiritaria, costituissero come una specie di proprietà privilegiata, che doveva ritenersi appartenere in modo assoluto ed esclusivo al quirite, a cui trovavasi intestata. Si vengono così a comprendere le espressioni più antiche di mancipium facere, mancipio dare, mancipio accipere, le quali dapprima dovettero significare la costi tuzione di una cosa nel mancipium, e poi anche l'acquistare e il trasmettere una cosa, che fa parte del mancipium; finchè la fre quenza di questi atti non condusse a creare un vocabolo apposito, che è quello di mancipare, da cui derivò appunto quello della mancipatio, la quale venne cosi ad essere il modo proprio ed esclu sivo per l'alienazione delle res mancipii . Non conseguiva tuttavia da cid, che non esistessero altri beni, di cui il cittadino avesse l'effettivo godimento: ma questi non con tavano nel determinare la sua posizione di quirite, non entravano a costituire il suo contributo alla comunanza quiritaria, e come tali non erano dapprima oggetto di proprietà assoluta ed esclusiva, nelvero senso della parola: essi formavano piuttosto oggetto di uso e di godimento, ed erano compresi genericamente in una categoria ne gativa, che più tardi fu denominata delle res nec mancipii, le quali perciò potevano essere alienate collasemplice traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al p semplice traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al punto di vista quiritario. È poi questa se parazione, che a causa del censo si venne operando fra l'intesta zione ufficiale della proprietà di una cosa, e l'effettivo godimento di essa, che ci spiega come negli antichi autori si contrappongano tratterà ex professo del mancipium e della distinzione delle res mancipii e nec mancipii. L'idea che la distinzione delle res mancipië e nec mancipii dovesse avere qualche attinenza col censo Serviano ebbe già ad essere enunciata dal PUTTENDORF, dal LANGE, dalWANGERON, dal Kuntze, ed è anche seguìta presso di noi dal SERAFINI, Istituz., Firenze, 1881, 21. Vedi lo Squitti, Resmancipi e nec mancipi, Napoli, 1885, 51, gli autori ivi citati, e gli argomenti che egli adduce contro questa opinione, quale ebbe ad essere fino ad ora formulata. Cfr. BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, 90. 9 419 talvolta i concetti dimancipium e quelli di usus fructus , e come più tardi abbia potuto accadere, che una persona avesse sopra una cosa il nudum ius quiritium, mentre un'altra invece ne aveva l'ef fettivo godimento (in bonis ). È poi facile a comprendere come questa posizione privilegiata, in cui venne ad essere collocato il mancipium, abbia anche cooperato efficacemente a dissolvere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius, e con essa a dissolvere eziandio l'organizzazione gentilizia, la quale venne in certo modo ad essere senza base, allorchè manco del suo fondamento economico. Ogni gens patricia infatti, se volle avere una quantità di suffragii anche nelle centurie, ove fini per concentrarsi la somma del pubblico potere, dovette affrettarsi a fare degli assegni di terra ai proprii membri non solo, ma anche ai proprii clienti e per tal modo gli agri gentilicii vennero spartendosi, ed all ' ercto non cito , che indicava l'indivisione del patrimonio famigliare nel periodo gentilizio, sottentrò il principio già riconosciuto dalle XII Tavole, secondo cui altri non può essere costretto a rimanere in comunione suo malgrado: si erctum ciet, arbitros tres dato. 335. Così spiegato il censo serviano, viene a conseguirne che se vogliasi conoscere la vera posizione del quirite, non come uomo, ma come membro della comunanza quiritaria, sarà nelle tabulae censoriae, che a lui si riferiscono, che dovrà essere cercato il suo vero status. Quindi se trattisi di un cittadino, libero e sui iuris, ma senza potestà famigliare e senza patrimonio, egli sarà bensi un caput, ma, non avendo che quello, sarà un capite census, e sarà Questo contrapposto occorre più volte nelle epistole di CICERONE, e fra le altre volte in una lettera ad Curium, VII, 30, 2 ove scrive: Cuius (Attici) quando proprium te esse scribis mancipio et nexo, meum autem usu et fructu, contentus isto sum. Id enim est cuiusque proprium, quo quisque fruitur atque utitur ; il che significava in sostanza, che egli preferiva al dominio ufficiale su Curio (man. cipium et nexum ), che spettava ad Attico, il godimento effettivo (usus et fructus ) della sua conversazione. Altre volte però questo contrapposto ha una significazione diversa, come nel bel verso di LUCR., III, 969: vita mancipio nulli datur, omnibus usu , ove mancipium si contrappone ad usus, in quanto significa una cosa, che ci appartiene a discrezione, in guisa da poterne usare ed abusare, ed indica così il potere illimitato ed esclusivo, che competeva sulmancipium. Cfr. BONFANTE, op. cit., 92, nota 2, e 96, nº 2, e gli altri passi ivi citati. Secondo la ricostruzione del Voigt, op. cit., I, 712, tale sarebbe stato il tenore della legge 16, della tavola V. 420 solo molto tardi, che la repubblica si contenterà di accettarlo nella formazione del proprio esercito. Che se egli, pur non avendo il patrimonio richiesto per entrare nelle classi e centurie, abbia tut tavia qualche sostanza (1500 assi) ed una prole, che può crescere a benefizio della repubblica e che può interessarlo per essa, egli figu rerà nel censo colla prole stessa e colla manus, che gli appartiene sulla medesima, e sarà cosi nella classe dei proletarii, la quale è già in condizione meno umile, poichè in condizioni difficili potrà far parte, se non del vero esercito, almeno di una specie di milizia raccogli ticcia (militia tumultuaria ), che sarà armata a spese della repub blica. Infine se anche per ciò, che si riferisce al mancipium, egli giunga a quella misura, che è necessaria per essere ammesso nelle classi e nelle centurie, egli verrà ad essere adsiduus o locuples, e secondo il valore maggiore o minore del suo mancipium potrà essere collocato in una delle cinque classi, che formano il vero po pulus romanus quiritium. Queste diverse categorie verranno poi ad essere così distinte fra di loro, che ancora nelle XII Tavole per un adsiduus convenuto in giudizio per un debito, dovrà rispon dere un altro adsiduus, mentre per il proletario potrà rispondere chicchessia: adsiduo vindex adsiduus esto; proletario, iam civi, quis volet vindex esto ; ed è solo più tardi che, secondo l'atte stazione di Gellio, proletarii et adsidui evanuerunt, omnisque illa XII Tabularum antiquitas consopita est . Tutto ciò intanto spiega come dalle stesse tavole censuarie si po tesse desumere lo status generalis del quirite sia come individuo, che come capo di famiglia e proprietario. Siccome tuttavia, accanto alle qualificazioni generali del capo gruppo, trovavansi pure nel censo le qualificazioni speciali di pater familias, mater familias, di liberi, di servi, di sui iuris, di alieni iuris, così anche queste varie gradazioni dello stato giuridico, senza essere create dal censo, furono tuttavia nel medesimo delineate, e per tal modo esso cooperd eziandio a svolgere e a precisare, accanto al concetto generale del quirite come tale, anche il concetto degli stati speciali, che una persona rappresentava nel gruppo a cui apparteneva. Questa condizione dei capite censi e dei proletarii, riguardo al servizio mili tare, ci è attestata espressamente da GELLIO, XVI, 10, $$ 10 a 15. Egli poi, citando un passo di Sallustio, direbbe che i capite censi non furono arruolati, che da C. Mario nella guerra contro i Cimbri, o in quella contro Giugurta. Gellio, XI, 6, 10, 8. Che se alle cose premesse si aggiunga, che il censo all'epoca serviana fu il documento ufficiale dello stato del cittadino, il quale serviva a determinare la sua posizione come contribuente, come cit tadino e come soldato ad un tempo, per guisa che la sola iscrizione nel censo poteva valere per la manomissione di un servo, sarà fa cile il comprendere come esso abbia potuto in parte conferire a determinare il linguaggio sintetico ed astratto, da cui prese le mosse il ius quiritium, ed il processo con cui esso vennesi elaborando. Esso infatti fu uno dei mezzi più potenti, mediante cui l'individualità giuridica del cittadino fu isolata da tutti gli elementi estranei al diritto, ed il quirite fu sottratto all'ambiente gentilizio in cui prima si trovava, ed obbligato a fermare il suo sguardo sovra quei rapporti che comparivano nel censo. Esso parimenti fu una delle cause per cui il ius. quiritium, che venne elaborandosi su questa trama pri mitiva, perdette di un tratto quell'aureola religiosa, che circondava le istituzioni delle genti patrizie, e potè essere svolto con una rigi dezza e con una logica astratta, che sarebbero certo incomprensi bili, quando non si conoscesse la causa, da cui poterono essere de terminate. Con ciò non intendo già affermare, che i concetti, da cui prese le mosse il ius quiritium, siano stati creati dal censo, poichè ho dimostrato invece che essi già preesistevano; ma solo di provare, che il censo servi a dare loro una configurazione esatta e precisa; a separarli nettamente gli uni dagli altri; a fare in guisa che ciascuno avesse un'esistenza propria e distinta, an corchè fra tutti concorressero a costituire una sola individualità giuridica. Fu in questo modo, che al punto di vista quiritario ogni gruppo apparve in certo modo unificato sotto il proprio capo; che tanto il diritto sulle persone che quello sulle cose nel l'elaborazione giuridica si ridusse ad una questione di mio e di tuo; che ciascun gruppo, essendo per dir cosi racchiuso in una cate goria determinata, ebbe un'esistenza cosi distinta da tutti gli altri gruppi, che i membri dell'uno non potevano promettere nè stipu lare per quelli dell'altro; che infine anche le varie membra del quirite si vennero come dislogando le une dalle altre, e poterono ricevere ciascuno un proprio sviluppo, dando così occasione a quel l'automatismo di concetti e di istituti, che è uno dei caratteri più salienti del diritto romano. Intanto questo sguardo generale ai caratteri peculiari della co munanza quiritaria, quale si formò nell'epoca serviana, e al censo che servi di base alla medesima, ci preparerà la via per ricostruire 422 la storia primitiva dei concetti fondamentali di questa, che può a ragione chiamarsi la parte statica del ius quiritium, in quanto fu in parte determinata da una delle prime applicazioni della sta tistica per la constatazione del numero, della forza e della ricchezza di un popolo. 2. – Il concetto del caput e la teoria della capitis diminutio. 337. Chi volesse cercare le prime origini del concetto di caput, dovrebbe forse riportarsi col pensiero a quell'epoca, in cui i fonda tori della città contavano dai capi i proprii greggi ed armenti; nè sarebbe a farne le meraviglie dalmomento, che essi non dubitavano di chiamare ovilia quei recinti, in cui raccoglievansi le centurie e le classi per dare il proprio voto nei comizii. Parmi tuttavia più verosimile, che il vocabolo di caput dovesse, nel periodo gentilizio anteriore alla formazione della città, avere quella significazione, che tuttora conserva presso le popolazioni, che si trovano nelle stesse condizioni sociali, per cui esso indica un capo di gruppo, quella per sona cioè, che avendo preminenza su tutti quelli, che da essa di pendono e che la circondano, pud essere considerata come il rap presentante, in cui si unifica il gruppo stesso. Questo vocabolo poi, trapiantato nel censo serviano, viene ad indicare colui, che conta per uno nel censo, e conserva cosi un'analogia colla significazione anteriore, in quanto che il medesimo, pur essendo un individuo, unifica però in sè stesso le persone e le cose che ne dipendono. Se per tanto altri non abbia che il proprio caput e manchidi una sostanza valutabile nel censo stesso, verrà ad essere un capite census; se invece abbia solo una sostanza, che giunga ai 1500 assi e conti so. pratutto per la prole, che potrà produrre per la repubblica, sarà un proletarius; se infine abbia una sede fissa, e sostanze sufficienti per A scanso di ogni malinteso, devo qui dichiarare che il concetto, che qui ap pare come direttivo nella ricostruzione della parte statica del ius quiritium, non fu un presupposto, dal quale io sia partito, ma fu il risultato ultimo, a cui mi con dussero pazienti e minute elucubrazioni intorno ai singolari caratteri con cui esso si presenta. Questo paragrafo pertanto fu l'ultimo ad essere scritto, ma ho creduto di premetterlo; perchè esso, a mio avviso, agevola al lettore la comprensione di ciò che verrà dopo. Ciò valga anche a farmi perdonare, se per avventura occorra qualche ine vitabile ripetizione. 423 collocarlo nelle classi e per assicurare la città della assiduità di lui a compiere le proprie obbligazioni di cittadino e di soldato ad un tempo, verrà ad essere chiamato adsiduus o locuples. In ogni caso, per avere integro il proprio caput e per poter contare per uno nel censo, conviene essere libero, cittadino, e sui iuris nel seno della famiglia; come lo dimostra il fatto, che se altri abbia un figlio, che per aver raggiunta l'età di 17 anni debba già entrare nelle classi e nelle centurie, non sarà esso che conterà per uno, ma sarà invece il padre, che verrà ad essere un duicensus, in quanto che egli viene ad essere censito con un'altra persona, cioè col proprio figlio: duicensus dicebatur cum altero id est cum filio, census . 338. È quindi facile il comprendere comefosse facile il passaggio dalla significazione materiale del caput alla significazione giuridica di esso, chiamando col vocabolo di caput il complesso delle condi zioni richieste per figurare nel censo, ossia lo stato generale della persona. In tal modo il vocabolo di caput cessa di indicare questo o quell'individuo in particolare, per trasformarsi in una concezione logica ed astratta (persona ), la quale, ancorchè ricavata dalla realtà, può servire ad indicare il complesso delle condizioni richieste, accid altri possa avere la capacità giuridica quiritaria. Una volta poi, che il caput venne cosi ad essere cambiato in una concezione astratta, il medesimo potè essere assoggettato ad una specie di analisi o di scomposizione dei varii elementi, che entravano a costituirlo. Tali elementi erano la libertas, la civitas e la qualità di sui iuris nel seno della famiglia. Di qui la teoria della capitis diminutio, che non si ricavò esclusivamente dai fatti, ma si svolse sulla concezione logica del caput; come lo dimostra il fatto, che anche l'emancipato, anche l'arrogato, sebbene in sostanza vengano talvolta a migliorare Quanto all'etimologia di questi vocaboli vedi il $ prec., nº 335. V. Festo, vº duicensus; Bruns, Fontes, 337. V. quanto al concetto di caput, Herzog, Gesch. und Syst., I, 997; il KRÜGER, Geschichte der capitis diminutio, Breslau, 1887, $ 5 “, 49 a 67, ove prende in esame il concetto di caput nei diversi autori moderni, sopratutto germa nici. Egli poi sembra ritenere, che il concetto di caput siasi venuto formando gra datamente. Ritengo invece, che il diritto romano anche in questo prorompa da una sintesi potente, a cui solo più tardi sottentrò quell'analisi, che diede poi origine alla teoria della capitis diminutio. Il caput quindi dapprima appartenne solo all'uomo libero, cittadino, e sui iuris; e fu solo più tardi, che anche il figlio di famiglia si considerò avere un caput. 424 la propria posizione, finiscono tuttavia per subire una capitis dimi nutio . Che anzi questa logica giuridica dovrà anche applicarsi al cittadino, che sia fatto prigioniero di guerra, e piuttosto che venir meno alla medesima si cercherà di supplirvi colla finzione di postliminio Intanto sono tre gli elementi del caput, e questi vengono l'uno dopo l'altro in base alla loro importanza. Quindi la perdita della libertas costituisce la maxima capitis diminutio, la perdita della civitas la media, e la mutazione di stato nel seno della famiglia la minima. Ciascuno poi di questi elementi dà origine ad una di stinzione che vi corrisponde; donde le distinzioni fra liberi e servi, fra cives e peregrini, fra persone sui iuris e le persone alieni Gaio, Comm., I, 160-64. Secondo il Krüger, op. cit., 5 a 21, ed altri autori germanici da lui citati, la teoria della capitis diminutio avrebbe avuto uno svolgimento storico, nel senso che la prima a delinearsi sarebbe stata la mi nima capitis diminutio, sul cui modello si sarebbe poi foggiata la magna capitis diminutio, che fu poi divisa in maxima e media capitis diminutio. Ritengo anch'io, che questa istituzione dovette avere uno svolgimento storico,ma nel senso che come fu sintetico il concetto primitivo di caput, così la primitiva capitis diminutio dovette comprendere qualsiasi avvenimento, per cui altri cessasse di tare come un caput. Quindi la perdita della libertà, quella della cittadinanza e l'adrogatio per cui altri cessava di essere sui iuris, dovettero costituire la capitis diminutio, che venne poi distinguendosi nelle sue varie specie. Sarà poi sempre un problema il determinare come mai l'emancipatio potesse costituire una capitis diminutio, e si comprende come il Savigny, Traité de droit romain, trad. Guenoux, II, 66, quasi voglia esclu derla dalla vera capitis diminutio; ma questa singolarità potrà essere capita quando si ritenga, che nel censo primitivo ogni famiglia sotto il suo capo costituiva un gruppo, e quindi anche l'emancipazione, facendo uscire quell' individuo dal gruppo, costituiva, come dice Gajo, una prioris status permutatio , la quale era anche compresa nella significazione larga di capitis diminutio. Del resto l'emancipatio sotto un certo aspetto produceva anche un deterioramento nello status dell' emancipato, poichè nel diritto primitivo questi perdeva ogni diritto di successione di fronte al gruppo, da cui esso era uscito. Intanto ciò serve eziandio a spiegare quella singolarità del diritto romano, in virtù di cui la capitis diminutio fa perdere soltanto i diritti fondati sull'agnazione, e non quelli provenienti dalla cognazione, poichè quella teoria fu una creazione del ius quiritium e del ius civile, e come tale non poteva produrre effetti, che al punto di vista del diritto civile, per la ragione appunto detta da Gajo, Comm., I, 158: civilis ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest ; distinzione questa, che nell'epoche primitive non poteva esservi, ma cominciò a formarsi quando comparve il dualismo fra il ius civile ed il ius gentium, a cui sottentrò più tardi il ius naturale. È nota in proposito la finzione della legge Cornelia de iure postliminii. Cfr. Voigt, XII Tafeln, I, 299 e 300. 425 - iuris, le quali vengono ad essere fondamentali e servono di punto di partenza anche ai giureconsulti classici, come lo dimostrano le Isti tuzioni di Gaio. Che anzi, una volta adottato questo metodo, si po terono anche attuare delle posizioni giuridiche intermedie, come quella che è rappresentata dal ius latii, e queste si poterono applicare tanto ai popoli, ai quali non si voleva accordare il completo ius quiritium, quanto eziandio ai servi affrancati, i quali, invece di es sere posti senz'altro nella condizione degli altri cives, erano invece collocati nella condizione di latini iuniani. Certo tutta questa teoria non potè svilupparsi di un tratto; ma intanto è con Servio, che si pose il vocabolo ed il concetto infor matore della medesima, e si iniziò così quel processo logico, che de terminò poi l'elaborazione progressiva. Questa poi si spinse fino tale da distinguere fra lo stato generale della persona e le condizioni speciali, in cui essa può trovarsi; donde ne provennero le determina zioni giuridiche speciali del pater familias, del filius familias, della mater familias, che distinguesi dall'uxor. Che anzi ciascuno di questi stati speciali venne eziandio a convertirsi in una conce zione astratta, per modo che una persona poteva essere padre senza aver figli, essere tenuto come figlio, ancorchè effettivamente fosse padre, essere riguardata come figlia, ancorchè in effetto fosse moglie, poichè tutto dipendeva dal punto di vista giuridico, sotto cui la per sona veniva ad essere considerata . Per tal modo mentre prima non eravi che una specie di libertas se ne ven nero creando varie gradazioni, cioè quella dei libertini, che erano cives romani, quella dei latini, e quella infine dei dediticii; altra prova questa, che il concetto pri mitivo è sempre sintetico, mentre le suddistinzioni compariscono più tardi. V. GAJO, Comm., I, 10. Ciò è detto espressamente da ULPIANO, Leg., 195, 2, dig. (50, 16) ove dice del pater familias: recteque hoc nomine appellatur, quamvis filium non habeat; non enim solam personam eius, sed et ius demonstramus ; il che vuol dire, che nel qualificarlo come tale, il giureconsulto si poneva al punto di vista giuridico. Era poi nello stesso modo, che la moglie in manu si riteneva figlia del marito, e simili. Ciò mi indurrebbe alquanto a modificare la teoria accettata intorno alla fictiones nell'antico diritto. Tali fictiones dal SUMNER-MAINE, Ancien droit, 25 e dal Juering, Ésprit de droit romain, sono in certo modo ritenute come alterazioni della realtà dei fatti, a cui si ricorre per modificare il diritto già esi stente. Se ciò è vero delle finzioni, che poifurono introdotte dal diritto pretorio, non può dirsi delle fictiones del primitivo ius quiritium. Queste, come lo dice la stessa etimologia da fingere nel senso di foggiare, modellare, fanno parte dell' ars iura condendi, e sono un mezzo per completare una costruzione giuridica. 426 339. Quando poi venne ad essere cosi svolta la concezione giu ridica del caput, era naturale che la medesima potesse essere con siderata indipendentemente da colui, al quale essa si riferiva, e che fosse così riguardata come una specie di persona e quasi ma schera giuridica, che poteva essere anche sovrapposta non solo ad uomini realmente esistenti, ma eziandio a quegli enti giuridici, i quali etiam sine ullo corpore iuris intellectum habent : donde la co struzione delle persone giuridiche. Che anzi si va anche più oltre e per quell'immedesimarsi che è proprio di quest'epoca fra i diritti delle persone e quelli sulle cose, anche la proprietà quiritaria può essere considerata, o in quanto è perfetta e senza limitazione (er optimo iure quiritium ), o in quanto può subire delle diminuzioni, le quali verranno ad essere designate col vocabolo di servitutes, perchè anch'esse, al pari della servitù riguardo alle persone, scemano e di minuiscono quella perfetta posizione giuridica, in cui trovasi la proprietà del fondo, allorchè non abbia subito limitazione di sorta . Si comprende infine come spinta fino a questo punto l'elabora zione del concetto del caput, la medesima sia una costruzione giu ridica, che può anche stare da sè e svolgersi per conto proprio, secondo che esige la logica informatrice dei varii elementi, che en trano a costituirla. Che anzi questo caput e lo stato giuridico, che ne dipende, potrà anche essere trasportato da una ad un'altra per sona. Quindi è facile a spiegarsi come il caput dapprima non ap partenesse che al capo di famiglia, e poi fosse attribuito ad ogni cittadino, e per ultimo all'uomo libero; nel qual trapasso la logica giuridica non fa che rinunziare successivamente ad uno dei tre ele menti, che costituivano il primitivo stato generale della persona. Essa comincia quindi a rinunziare alla qualità di sui iuris, e viene Tale essendo il processo seguito dalla giurisprudenza romana nella formazione del concetto di persona, la famosa questione intorno all'esistenza della persona giu ridica in diritto romano può essere risolta nel senso che essa deve ritenersi come una fictio iuris, attribuendo però a questo vocabolo la significazione sopra accennata di una costruzione giuridica modellata su quella della persona fisica, ma limitata solo a quella categoria dei diritti della persona fisica, che poteva avere una base nella realtà; donde la conseguenza, che queste persone hanno il diritto ai beni, ma non possono avere i diritti di famiglia. Cfr. Savigny, Traité de droit romain, II, 234. Questo svolgimento pressochè parallelo del concetto della persona e della pro prietà libera da qualsiasi vincolo sarà posto in maggior luce in questo stesso capi tolo, 5, discorrendo del dominium ec iure quiritium. 427 ad essere capace di diritto ogni cittadino, ancorchè non sia capo di famiglia; poi rinunzia indirettamente a quella di civis, in quanto che la civitas finisce per essere estesa a tutti i sudditi dell'impero, e viene ad essere persona ogni uomo libero; ma la logica romana non potè ancora fare a meno della libertas per accordare il caput, e quindi solo l'uomo libero fu dalla medesima considerato come capace di diritti e di obbligazioni. Nè è il caso di fargliene colpa, perchè la logica romana si basava sui fatti, e la schiavitù, finchè durò il Romano Impero, fu una istituzione comune a tutte le genti. Cid perd non tolse, che il concetto del caput o della persona, quale era stato elaborato dai Romani, potesse più tardi essere trasportato anche all'uomo come tale, perchè esso era una costruzione logica, la quale, foggiata dapprima sulla realtà dei fatti, erasi poi staccata da essi, e poteva così ricevere delle nuove applicazioni. S 3. Il concetto di manus e le sue principali distinzioni. 340. Può darsi benissimo, che l'antichissimo vocabolo dimanus significasse un tempo la forza effettiva dell'uomo, in quanto sottopone a sè stesso uomini e cose, ossia la forza del vincitore, che si impone al vinto, o il potere dell'uomo, che doma e addomestica gli animali. È tuttavia più probabile, che questo vocabolo nel periodo gentilizio significasse già il potere effettivo, di cui ciascun capo poteva disporre, nei conflitti e nelle lotte coi capi delle altre famiglie e genti, della qual primitiva significazione potrebbero ancora trovarsi le traccie nel nostro vocabolo di masnada. La manus invece nelius qui ritium viene già a cambiarsi anch'essa in una concezione giuridica ed astratta, che comprende il complesso dei poteri, che appartengono ad una persona nella sua qualità di quirite. Come il vocabolo di caput indica per cosi esprimersi la capacità potenziale del quirite: cosi l'estrinsecazione effettiva di questa potenza sulle persone e cose Il Bruns, Geschichte und Quellen des röm. Rechts (in HOLTZEND., Encyclop., I, 105 ), ebbe a dire con ragione, che il più alto concepimento del diritto ro mano consiste nell'avere riconosciuto in ogni uomo libero la capacità astratta didiritto. Cid è vero; ma vuolsi aggiungere, che il diritto romano vi pervenne a gradi, e ri conobbe questa piena capacità prima al capo famiglia, poi al civis, e da ultimo all'uomo libero. Cfr. BRUGI, Le cause intrinseche della universalità del diritto ro mano, Prolus., Palermo, 1886, 8. 428 che ne dipendono viene ad essere designata col vocabolo di manus. È questo il motivo, per cui la manus viene a comparire in tutte le manifestazioni, che si riferiscono al diritto quiritario. Se essa afferra qualche cosa nell'intento di acquistarvi sopra la proprietà ex iure quiritium viene ad aversi la manu capio; se essa riven dica qualche cosa che spetta al quirite da altri che lo possegga, abbiamo la vindicatio e la manuum consertio: se essa lascia uscire qualche cosa dal proprio potere quiritario, abbiamo la manumissio e la emancipatio; se essa infine afferra il debitore condannato per trascinarlo nel carcere privato abbiamo la manus iniectio. Questa manus simbolica non è però sempre inerme, ma talvolta compare munita della lancia od asta quiritaria, che trovasi simboleggiata nella vindicta, la quale serve come modo tipico per la manomis sione dei servi; nella festuca, il cui uso si mantiene nell’actio sa cramento; nell'hasta, sotto cui si mette all'incanto il bottino fatto in guerra, e che si infigge dinanzi al centumvirale iudicium. Questo potere giuridico, sintetico e comprensivo, subisce poi anche l'influenza del censo serviano, e quindi viene negli inizii ad essere modellato sul concetto del mio e del tuo, per modo che così il potere sulla moglie, che quello sui figli, che quello sui servi e sulle persone quae sunt in causa mancipii appariscono foggiati sul modello della proprietà, sebbene non sia lecito dubitare, che essi nel costume pre La generalità degli scrittori è oggi concorde nell'ammettere, che dei varii vo caboli per significare il potere giuridico spettante al quirite il più antico sia quello di manus. Tale è l'opinione del Sumner Maine, del Voigt, del PADELLETTI, ed essa trova anche un fondamento nell'analogia fra la manus dei Romani e il mundium dei Germani. La questione sta piuttosto in vedere se il vocabolo dimanus comprenda solo i poteri sulle persone, compresi anche i servi, oppure anche il potere sulle cose. Egli è certo a questo riguardo, che i giureconsulti classici dànno al vocabolo di manus il significato di potere sulle persone e considerano questo vocabolo come un sinonimo di potestas. Tuttavia io riterrei probabile, che il vocabolo dimanus in una signifi cazione del tutto primitiva potesse anche comprendere il potere sulle cose, e ciò per il semplice motivo, che altrimenti nel diritto antico non vi sarebbe stato vocabolo per significare la proprietà e il dominio. È vero che alcuni dicono, che questo voca bolo primitivo sarebbe quello dimancipium: ma miriservo di dimostrare a suo tempo, che questo vocabolo significò piuttosto le cose soggette al potere, che non il potere una spettante sulle medesime. In ogni caso, se al vocabolo di mancipium si vuol dare etimologia è necessità di darvi quella di manu-captum, e in tal caso la manus comparirebbe ugualmente per significare l'assoggettamento di una cosa al potere della persona. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, $ 79; BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, 100, nota 1; Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, 3, nota 4. 429 sentavano delle differenze e dei temperamenti. Così pure, sotto il punto di vista giuridico, nulla hanno di proprio nè la moglie, nè i figli, né i servi, e tutto ciò che essi acquistano va al marito, al padre, al padrone, perchè è lui il vero quirite e quegli che conta nel censo. Sarà poi una conseguenza di questa logica giuridica, che se il dipendente rechi un danno, il capo di famiglia potrà addive nire alla noxae datio; che se alcuno si ribellerà al suo potere, gli spetterà un ius coercendi, che potrà giungere fino al ius vitae ac necis; e se alcuna delle persone, che da esso dipendono, verrà ad essergli sottratta, egli potrà proporre percid quella stessa actio furti od actio exhibendi, che potrebbe da lui essere proposta per una cosa, di cui sia stato derubato. 341. Dalmomento poi che la manus costituisce così una concezione giuridica, si comprende che anche ad essa siasi applicata quella scom posizione, che ebbe già a dispiegarsi quanto al caput. Si spiegano così le iniziali conservateci da Valerio Probo, secondo cui il potere giuridico del quirite verrebbe a suddividersi nella manus, che resta a significare il potere del marito sulla moglie, nella potestas, che significa il potere del padre sui figli, e nel mancipium, che qui sembra indicare il potere sulle persone quae sunt in mancipii causa. Quest'ultimo vocabolo tuttavia, più che un aspetto del potere quiri tario, sembra indicare piuttosto il complesso delle persone e delle cose, che dipendono dal potere spettante al quirite; come lo dimostra la circostanza, che il medesimo dai giureconsulti non è mai adoperato con significazione attiva, ma sempre con significazione passiva. Basta per ciò osservare, chementre nei giureconsulti si incontrano le espressioni habere manum, potestatem, dominium, non occorre però mai l'espressione habere mancipium, ma sempre quella habere in mancipio: poichè quest'espressione di man cipium, derivando da manu-captum, significa bensì la cosa soggetta, ma non può si gnificare il potere sulla medesima. Io ritengo, che questa inesatta significazione data al vocabolo mancipium sia stata una causa dei gravi dubbii ed incertezze nell' ar gomento. Così, ad esempio, non potrei accettare l'opinione, che mancipium sia stato il primo vocabolo con cui si indicò il dominium ex iure quiritium; ciò sarebbe come dire che i vocaboli di praedium, fundus significassero il diritto di proprietà, mentre invece indicano la cosa, che ne forma l'oggetto. L'unico passo, che suol essere citato per far significare a mancipium un potere, è quello di GELLIO, XVIII, 6, 9, ove si parla della mater familias in manu, mancipioque mariti, ma anche questo dimostra, che anche la moglie era talora considerata come in mancipio, e conferma così la significazione passiva del vocabolo. Se dovette quindi esservi un vocabolo primitivo, che potè indicare il potere del proprietario, esso fu quello di manus, che ha in 430 Una volta poi, che i poteri, un tempo inchiusi nel vocabolo generico di manus, sono cosi separati l'uno dall'altro, essi possono essere ca paci di una propria elaborazione e venirsi cosi differenziando fra di loro secondo il diverso concetto a cui si ispirano, per modo che cia scuno di essi finirà per ricevere un diverso svolgimento logico e storico ad un tempo, e per essere sottoposto a quelle limitazioni, che verranno ad apparire necessarie nella realtà dei fatti. Negli esordii invece della formazione del ius quiritium non presentasi ancora il dubbio, che il quirite possa in qualche modo abusare della propria manus, e quindi tutti i poteri, che a lui appartengono, giuridicamente considerati, vengono ad apparire senza alcun limite e confine. Che anzi le persone a lai soggette, sotto il punto di vista giuridico acquistano ed operano non per sè,ma per le per sone, di cui trovansi in manu, in potestate, in mancipio. Di qui la conseguenza, che mentre le persone sottoposte al potere del capo di famiglia possono rappresentarlo, questa rappresentazione invece non può essere cosi facilmente ammessa, allorchè trattasi di altre persone, come lo dimostra il principio prevalente nell'antico di ritto, secondo cui una persona non può promettere nè stipulare per un'altra. Il concetto del mancipium e la distinzione delle res mancipii e necmancipii. 342. Che se la manus viene poi ad essere considerata, in quanto abbia assoggettate al suo potere le persone e le cose che da essa dipen dono, formasi il concetto del mancipium. Mentre i concetti di caput e di manus indicano un'energia che si esplica, il vocabolo invece di mancipium indica piuttosto lo stato di soggezione, in cui si trovano sè l'idea della forza e dell'energia, ma non mai quello di mancipium, che allora e sempre significò soltanto la soggezione. Del resto gli stessi giureconsulti ci attestano, che in antico non eravi un vocabolo speciale per significare il dominio, ma dicevasi soltanto meum, tuum. Di qui credo di poter indurre, che anche quel principio del diritto primitivo, secondo cui altri non può essere rappresentato, che dalle persone che da lui dipen dono e niuno può promettere e stipulare per altri, sia una conseguenza del modo, in cui si iniziò la formazione del ius quiritium; in quanto che nell'esercito e nei comizii ciascuno doveva rispondere per sè e non poteva farsi rappresentare da altri. r 431 le persone e le cose che dipendono da essa, e presentasi con una signi ficazione eminentemente passiva. Non vi ha quindi nulla di ripu gnante, che esso nelle origini significasse il manu -captum; e designasse specialmente il vinto che, fatto prigioniero di guerra, veniva ad es sere soggetto alla potestà del vincitore. Questo è certo ad ogni modo, che nel ius quiritium il vocabolo dimancipium, al pari di quello di caput e di manus, ha già assunta una significazione eminentemente giuridica, per cui comprende quel complesso di persone e di cose, che dipendono esclusivamente dal capo di famiglia, e che a lui apparten gono ex iure quiritium, e che nel censo compariscono in certo modo comeposte in suo capo. È quindi sopratutto coll'entrare a far parte delmancipium, che i diritti spettanti al capo di famiglia ed al pro prietario ex iure quiritium assumono quel carattere così esclusivo ed individuale, che è del tutto proprio del diritto primitivo di Roma. Con esso infatti il quirite viene ad essere staccato dall'ambiente gen tilizio, di cui fa parte, a compare nel censo con un complesso di persone e di cose, che dipendono da lui in modo assoluto. È quindi in virtù di quest'astrazione, che viene a formarsi il concetto di una potestà senza confini e di una proprietà assoluta ed esclusiva spet tante al capo di famiglia . Anche nel mancipium, come negli altri Quasi tutti gli autori son concordi in ritenere, che il mancipium abbia avuta una significazione così larga da comprendere così le persone, quanto le cose, in quanto son soggette al potere del capo di famiglia. Solo combatte quest'opinione il MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, 2. Ritengo che debba essere seguita la prima opinione, la quale per me ha un appoggio incontrastabile in ciò, che le formole serbateci da Aulo Gellio e VALERIO Probo accennano a persone, che sono in manu, potestate, mancipio; la qual formola troviamo poi adoperata nelle leggi più antiche che a noi pervennero, come nella lex Cincia de donationibus, del 550 di Roma (Bruns, Fontes, 45) e nella lex Acilia repetundarum, del 631 di Roma (pag. 57). Ciò vuol dire, che anche le persone sotto un certo aspetto si considera vano come comprese nel mancipium del capo famiglia, il che poi spiega come ad esse potesse anche applicarsi la mancipatio, l'emancipatio e simili. Ciò però non toglie, che le significazioni tecniche del vocabolo mancipium fossero quelle specialmente di significare il servo, come lo prova l'editto curule de mancipiis vendundis (Bruns, 214 ), o quel complesso di beni, che doveva essere consegnato nel censo. Quanto alle altre significazioni dimancipium, è da vedersi il BONFANTE, op. cit., 79 a 105, col quale tuttavia non concordo in questo, che egli attribuisce al mancipium anche la significazione di una potestà sulla cosa (pag. 100 ), e sembra ritenere, che il mancipium non comprenda mai le persone (pag. 101, in nota). Come il mancipium, fondendosi in certo modo coll'heredium, sia venuto a de signare le cose comprese nel dominio assoluto ed esclusivo del cittadino romano è stato dimostrato più sopra al nº 331, 414. 432 concetti fin qui presi in esame, trovansi dapprima confuse le persone e le cose, che dipendono dalla stessa persona; ma poi anche qui viene operandosi una specie di differenziazione, per cui il vocabolo mancipium finisce per indicare il complesso dei beni, e quello di familia il complesso delle persone, che dipendono dal medesimo capo. Siccome però nel mancipium non si comprende tutto il pa trimonio del quirite, ma solo quella parte di esso, che è portata nel censo e che serve come stregua per determinare la classe, di cui entra a far parte; così ne deriva che il censo serviano deve eziandio essere considerato come il momento storico, in cui cominciò ad accen tuarsi quella distinzione fra il mancipium e il nec mancipium, che diede poi origine a quella importantissima distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, che deve formare oggetto di par ticolare esame per le molte discussioni, a cui diede argomento. 343. La distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, è a mio giudizio, un rottame del diritto primitivo, che indecifrabile da solo, può cambiarsi in un documento prezioso, quando si riesca a ricomporlo nell'ambiente in cui ebbe a formarsi. L'antichità del concetto, a cui si ispira la distinzione, è dimostrata dal fatto, che i giureconsulti ebbero ad accettare la medesima come già esi stente nel fatto, senza pur cercare di darsi la vera ragione di essa . La circostanza poi, che questa distinzione ebbe a perdurare per se coli, dimostra che essa non può considerarsi come una semplice biz zarria giuridica, ma deve invece rannodarsi a qualche concetto fon damentale dell'antico diritto, che i giureconsulti classici credettero di dovere accettare e rispettare. Ció del resto può in certi confini anche argomentarsi dal modo singolare, in cui è concepita questa distinzione; in quanto che essa è evidentemente fatta nell'intento L'importanza della questione per lo studio del diritto primitivo di Roma fu in questi ultimi tempi assai sentita in Italia, come lo dimostrano i lavori già ci tati dello Squitti e del BONFANTE sulle res mancipi e nec mancipi e quello del Longo sulla mancipatio. Ritengo tutta via, che questa sia una di quelle questioni, che prima debbono essere studiate nei particolari, ma difficilmente possono poi es sere comprese e spiegate, se non siano coordinate colle altre istituzioni del diritto primitivo, con cui concorrevano a costituire un tutto organico e coerente. Non può certamente ritenersi definitiva la ragione data da Gavo, Comm., II, 22, che le res mancipii siano così dette perchè suscettive di mancipatio; poichè si potrebbe sempre chiedere la ragione, per cui le sole res mancipii furono ritenute suscettive della mancipatio. 433 di mettere in una posizione speciale e privilegiata le res mancipii, che costituiscono la parte positiva della distinzione, mentre l'altra parte della distinzione ha un carattere puramente negativo, cioè comprende tutte quelle cose, che non appartengono alla prima ca tegoria. Da questo carattere infatti è lecito indurre, che nello svol gimento storico dovette precedere la formazione delle res mancipii, ossia di un complesso di cose, che erano comprese nel mancipium, e che solo più tardi quelle, che non erano comprese nelmedesimo, vennero ad essere chiamate res nec mancipii, quasi per contrap porle alla categoria già formata dalle res mancipii. Queste considerazioni aggiunte a quella pur importante, che dopo l'ultima lettura del manoscritto di Gaio da lui fatta, lo Studemund avrebbe adottata la lezione di res mancipii e res nec mancipii a vece di quella di res mancipi e nec mancipi, che prima era ge neralmente adottata, mi inducono a ritenere che il caposaldo, a cui deve rannodarsi questa antica distinzione, sia l'antichissimo concetto del mancipium, le cui origini rimontano quanto meno alla costitu zione ed al censo di Servio Tullo. 344. Per poter poi spiegare come nell'antico diritto possa essersi cominciato a distinguere il mancipium dal nec mancipium, non sarà inopportuno il notare, che fin dai tempi più antichi noi troviamo degli accenni ad una specie di distinzione, che erasi fatta nel pa trimonio spettante al capo di famiglia. Noi troviamo infatti una specie di dualismo nei vocaboli di heredium e di peculium, e in quelli eziandio di familia pecuniaque, i quali appariscono in certo modo contrapposti fra di loro. Per verità mentre i vocaboli di he Del resto la questione della i doppia o semplice nel vocabolo mancipi o man cipii non ba grande importanza dal momento, che nel latino primitivo solevasi usare l'i semplice a vece della doppia ii. Che anzi sonvi autori, i quali continuano a seguire l'antica scritturazione, appunto perchè veggono in essa un indizio ed una prova dell'antichità della distinzione, sebbene ammettano la parentela delle res man cipiä сol primitivo mancipium. Così il BONFANTE, op. cit., 21. Per parte mia, siccome mi propongo di fare la storia del concetto, anzichè della parola, così trovo più conveniente di adottare quella scritturazione, la quale, esprimendo materialmente l'attinenza fra il mancipium e le res mancipii, impedisce di dare a questa distin zione una significazione diversa da quella, che veramente ha. La grafia mancipi sarà forse la più genuina e la più antica; ma essa condusse alla distinzione fra cose man cipabili e non mancipabili, e a cercare l'origine della distinzione in cose, che non avevano a fare con essa, il che appunto deve essere evitato. G. CARLw, Le origini del diritto di Roma. 28 434 redium e di familia indicano di preferenza quella parte del patri monio, che nel proprio concetto informatore è destinata a passare negli eredi, i concetti invece di peculium e di pecunia sembrano designare di preferenza quella parte di patrimonio, che per sua na tura è destinata allo scambio, alla circolazione ed al soddisfacimento dei quotidiani bisogni. Di quisi può inferire, che una distinzione come questa, che compare indicata con vocaboli diversi, e che si mantiene con una certa costanza, dovette trovare la propria ragione d'essere nelle condizioni economiche e sociali, in cui allora trovavasi il popolo romano, e che perciò la spiegazione di essa debba ricercarsi nell'e poca, in cui vennesi formando il primitivo ius quiritium. Parmipoi a questo proposito, che anche oggi, fermando lo sguardo sopra una comunanza di carattere rurale, si possa trovare qualche vestigio di condizioni sociali ed economiche analoghe a quelle, che determinarono questa distinzione nell'antico diritto di Roma. Anche oggi nelle comunanze agricole la famiglia rurale appare in certo modo unificata nella persona del suo capo, e sotto l'aspetto econo mico costituisce come un gruppo di persone e di cose, in cui si comprende il capofamiglia, la moglie, i figli, il bestiame, la terra coltivata, e la cui importanza può essere maggiore o minore, secondo la quantità di terra da esso posseduta, e il numero di braccia, di cui può disporre per la coltura della medesima. È poi facile l'osser vare come in questo patrimonio, che si intitola al padre, ma che nel costume si considera come proprietà comune del gruppo, for misi naturalmente una distinzione congenere a quelle, le cui traccie pur compariscono fra gli antichi romani. Nel patrimonio infatti di una famiglia agricola havvi anzitutto una parte fissa, sostanziale, che comprende tutti quei beni, senza di cui l'azienda agricola non potrebbe percorrere il suo corso regolare. Essa costituisce, per cosi esprimersi, il capitale fisso della famiglia agricola; quella parte cioè della sua sostanza, che sebbene di diritto appartenga al padre, nel costume si ritiene invece come proprietà comune; quella che è dal padre custodita con speciale affetto, e di cui si spoglia a malincuore, ritenendosi come obbligato a trasmetterla intatta alla propria figliuo lanza. Se egli quindi alieni una parte della medesima, la comunanza rurale non può a meno di esserne informata e il suo credito vacilla. Quindi piuttosto di alienare questa parte fissa e trasmessibile dal Già si accenno a questa correlazione, senza tuttavia cercare di spiegarla, al nº 56, 70. 435 proprio patrimonio, il capo di famiglia suole anche oggidi, come già un tempo la plebe romana, appigliarsi al partito di contrarre dei debiti, o di ricorrere a quella vendita con patto di riscatto, che nei nostri villaggi si cambiò nella forma più perfida ed ingannatrice sotto cui si nasconde quell'usura, che chiamasi palliata. Accanto poi a questa parte fissa del patrimonio havvi eziandio la parte, che costituisce in certo modo il capitale circolante della fa miglia rurale. In essa si comprendono i raccolti dell'annata, le somme di danaro che si tengono alla mano, il bestiame minuto, che ogni anno si compra e si vende, e gli altri beni e valori, coi quali il capo famiglia può fare maggiormente a fidanza, perchè la copia o la scarsità di essi potrà rendere più o meno agiata la famiglia, senza però mettere a repentaglio l'esistenza della medesima. È naturale che una distinzione di questa natura abbia dapprima alcunché di vago e di indeterminato, in quanto che possono esservi delle cose, di cui può dubitarsi se debbano essere collocate in questa od in quella parte del patrimonio. Se tuttavia in determinate con dizioni economiche avvenga un avvenimento di carattere ammini strativo, che costringa in certo modo a distinguere le due parti del patrimonio, quale, sarebbe ad esempio, la formazione di un censo o di un catasto per fissarvi sopra una imposta, la conseguenza im mediata di questo fatto sarà, che quella distinzione, che stava for mandosi, perderà il suo carattere vago ed indeterminato e finirà per assumere un significato preciso, il quale, mentre corrisponde allo stato reale delle cose in quel determinato momento, potrà in vece riuscire inesplicabile più tardi, allorchè siansi trasformate le condizioni economiche del popolo, di cui si tratta. 345. Or bene un avvenimento di questa natura ebbe appunto ad avverarsi nella primitiva vita economica e giuridica di Roma. Esso fu il censo di Servio Tullio, il quale, essendo stato posto a base di una nuova composizione del populus romanus quiritium, non potè a meno di lasciare anche delle traccie nello svolgimento posteriore del diritto romano. Si sa infatti, che questo censo comprese non solo le persone, ma anche le sostanze, e che esso sopravvenne dopo che Servio e i re suoi antecessori avevano fatto alla plebe degli assegni di terre, che per essere tutti della stessa natura dovevano aver rice vuta una analoga configurazione. Questi assegni erano stati senza alcun dubbio fatti a somiglianza di quegli heredia, che la gens an tica faceva ai suoi membri, allorché i medesimi fondavano una fa 436 miglia, colla differenza che mentre gli heredia del patriziato erano ricavati dall'ager gentilicius, quelli invece, che si facevano alla plebe, erano fatti direttamente dallo Stato sul suo ager publicus, mediante le così dette adsignationes viritanae. Senza cercare qui se tali assegni fossero di due, di cinque od anche di sette iugeri, questo è certo che essi costituivano una specie di piccolo podere, che com ponevasi di una abitazione rurale (tugurium ), di un orto e di un campo attiguo, naturalmente fornito di quelle servitù rurali di pas saggio e di acquedotto, che erano del tutto indispensabili per la sua coltivazione. Esso quindi veniva in certo modo a costituire la pro prietà tipica del quirite, la quale, dipendendo direttamente dalla sua manus, poteva opportunamente ricevere il nome dimancipium. Che anzi è anche probabile, che questo podere prendesse il nome dal suo primitivo proprietario, come lo dimostra il fatto, che i poderi romani ancora più tardi conservano il nome derivato da quello del primitivo proprietario, che si considera in certo modo come il fon datore del podere, e lo trasmettono successivamente ai proprietarii che vengono dopo. Era quindi questo mancipium, che doveva essere consegnato e valutato nel censo, e che costituiva la base, sovra cui si determinavano i diritti e le obbligazioni del quirite; le altre cose invece non gli erano tenute in conto, o perchè non appartenevano al quirite come tale, ma piuttosto alla gente, di cui esso faceva parte, o perchè costituivano una specie di capitale cir colante, di cui non potevasi fissare l'ammontare in questo od in quel determinato momento. Di qui conseguiva, che questo mancipium Questa induzione mi fu suggerita da due notevoli articoli del FUSTEL DE COULANGES, pubblicati sulla Revue des deux mondes del 1886 col titolo Le domaine rural chez les Romains, tomo 3º dell'annata. II FUSTEL DE COULANGES non si occupa veramente delle origini del podere ru rale in Roma, stante le incertezze che ancor durano sull'argomento, ma parla piut tosto dei poderi rurali sul finire della Repubblica e durante l'Impero, allorchè i medesimi per le loro proporzioni certo non avevano più che fare col primitivo man cipium. Egli nota tuttavia, che i poderi anche in quest'epoca avevano una denomi nazione ricavata dal nome non del proprietario attuale ma del proprietario primitivo del podere, e chiamavansi così fundus Manlianus, Terentianus, Gallianus, Sempro nianus e simili, il che finiva per dare una personalità al fondo, determinata da colui, che prima l'aveva occupato e posto in coltivazione. Ora non è certo impro babile, che questa singolarità nel podere romano sia stata determinata dal fatto, che nella tabula censoria del quirite, al disotto del nome del caput, era anche descritto il podere a lui spettante, il quale veniva così ad assumere un nome, che i Romani trasmisero poi con quella costanza, che abbiamo riscontrato in molti altri esempi. 437 veniva in certo modo a costituire il vero e proprio patrimonio del quirite, cometale: quello cioè che era posto direttamente in suo capo, che in certo modo ne prendeva il nome, e di cui egli poteva disporre senza limitazione di sorta, purchè lo facesse nei modi solenni, che erano riconosciuti dalla comunanza quiritaria. Anche gli altri beni potevano essere buoni e desiderabili per il quirite; ma quelli, che entravano nel mancipium, avevano per esso una importanza del tutto peculiare, la quale spiega come i plebei preferissero alla loro alienazione l'imprigionamento nelle carceri del creditore, con tutti i mali trattamenti, che potevano conseguirne. 346. Questa spiegazione del modo, in cui si formò ilmancipium, trova poi la sua conferma nella enumerazione, che i giureconsulti Gaio ed Ulpiano ebbero a conservarci delle res mancipii. Questa enumerazione infatti serba evidentemente il carattere di una antichità remota, e richiama il pensiero agli assegni rurali aventi una configurazione tipica e determinata, che dovevano essere fatti sull'ager gentilicius ai gentili e ai clienti che entravano a co stituire la gens, e dai re ai plebei sull’ager publicus. Per verità le res mancipii, sebbene siano annoverate come cose singole, co stituiscono però ad evidenza un tutto, che corrisponde alle condi zioni economiche del tempo, ed ai bisogni di una famiglia agricola, la quale debba, per dir cosi, bastare a se stessa. Ciò è dimostrato anche dalla circostanza, che il podere, che forma il nucleo centrale del mancipium, non è già un campo nudo di qualsiasi attrezzo, ma è un praedium instructum considerato cioè cogli istrumenti e colle servitù, che sono necessarie per la sua coltivazione. Una casa in città, un tugurio in campagna, circondato da un piccolo podere, coi servi, cogli animali, e colle servitù indispensabili per la coltura del medesimo, dovettero in quell'epoca costituire come la proprietà tipica del quirite; quella proprietà cioè, che lo rendeva adsiduus, perchè ne accertava la residenza, e locuples, perchè assicurava il sostentamento suo e della famiglia. Essa era la prima porzione di Gajo, I, 120; II, 14-17; Ulp., Fragm., XIX, 1. Anche questo concetto del fundus instructus sopravvive a lungo presso i Ro mani, come appare dal Fustel De Coulanges, op. cit., 340, che lo trova in pieno vigore durante l'impero. Che anzi i giureconsulti al solito formano una con cezione giuridica dello stesso e instrumentum fundi , ossia di quel complesso di ar nesi, di bestiame e di servi, che può essere necessario per la coltura del fondo. 438 terra, che sottraevasi in certo modo dalla proprietà collettiva della gente (ager gentilicius), o da quella dello stato (ager publicus), per costituire la vera proprietà esclusiva ed individuale. Or bene è appunto un gruppo analogo di cose, che può raccogliersi. dall'enumerazione conservataci da Gaio e da Ulpiano delle res man cipii. L'uno e l'altro infatti son concordi nell'attestare, che queste comprendevano; lº i praedia, così rustici comeurbani, purchè situati nell'ager romanus od anche nel suolo italico, il quale mediante la concessione del ius italicum, poteva anche essere oggetto del do minium ex iure quiritium; 2° le servitù rustiche, che sono il naturale compimento di un podere rurale, quali le servitutes viae, itineris, actus, aquaeductus; 3° i servi, in quell'epoca strumento indispensabile per la coltura; 4º e infine i quadrupedes, quae dorso collove domantur, veluti boves, equi, muli et asini. Invece le altre cose tutte, che esorbitano da questa cerchia, comprendendovi la stessa pecunia, le pecore, i buoi ed i cavalli non domati, sono indicate senz'altro colla espressione di res nec mancipii. 347. Di fronte a questa enumerazione dei giureconsulti si osservo, che riesce difficile a comprendersi come nelmancipium, quale pro prietà tipica del cittadino, non si comprendessero nè le pecore, nè le mandre dei cavalli e dei buoi non domati, né i greggi ed ar menti, cose tutte, che certamente costituirono la parte più notevole della ricchezza dei primitivi romani. È perd anche ovvio il rispondere, che il criterio della riforma serviana non fondavasi sulla ricchezza, quale che essa fosse, ma piuttosto sulla proprietà stabile, esente da qualsiasi vincolo. Era solo questa forma di proprietà, che poteva ren dere i quiriti adsidui e locupletes, e servire così di garanzia alla co munanza dell'interesse, che essi avevano alla comune difesa. Non fu quindi la pecunia, che ebbe ad essere tenuta in conto, perchè questa, anche consistendo in greggi ed in armenti, poteva sempre essere trasportata altrove. Si aggiunga che le mandre, i greggi, e gli ar menti dovevano dapprima non appartenere ai singoli capi di famiglia, macostituire invece la ricchezza delle genti collettivamente conside rate; poichè per il loro pascolo non poteva certo bastare, nè sarebbe stato atto il piccolo podere quiritario, ma occorrevano dei grandi e vasti spazi, che solo potevano trovarsi negli agri gentilicii, o nell'ager compascuus della tribus primitiva, o nell'ager publicus, proprietà dello Stato. Quanto ai capi di piccolo bestiame, che po tevano anche appartenere al proprietario di un piccolo podere, 439 tenuto ex iure quiritium, essi costituivano quel capitale circolante, che formava argomento degli scambii e delle negoziazioni quoti diane, e che perciò non offriva una base salda per essere valutato nel censo. 348. Parmi cið stante di poter conchiudere, che il primitivo man cipium consistette in quel complesso di cose, che costituiva in certo modo la proprietà tipica del quirite, come capo di una famiglia agricola, all'epoca in cui ebbe ad essere introdotta l'istituzione del censo. La selezione di questo mancipium dal resto delle cose, il cui godimento apparteneva ai primitivi romani, erasi preparata len tamente nelle condizioni economiche e sociali ed ebbe poi ad essere determinata in modo esatto e preciso dal censo serviano, il quale per tal modo potè perfino influire nel determinare le varie categorie delle res mancipii. È infatti questo mancipium, che nel censo appare intestato ad ogni singolo quirite, e che costituisce il primo nucleo di quella proprietà ex iure quiritium, che ebbe poi a svol gersi coi caratteri di assoluta, di esclusiva e di irrevocabile. Sia Infatti non è punto improbabile, che la distinzione stessa delle res mancipii abbia potuto essere determinata dalle rubriche diverse, in cuidividevasi il mancipium, come già ebbi ad accennare al n ° 332 (in fine). Intanto colla soluzione indicata nel testo credo di aver fatto procedere di pari passo i due aspetti, sotto cui fu discussa l'origine delle res mancipië e nec mancipii. Nota giustamente il Bon FANTE, op. cit., 35, che le teorie diverse, da lui esposte, si possono dividere in razionali e storiche, secondo che cercano di spiegare razionalmente quella distinzione, oppure di rannodarla ad un fatto storico. I due punti di vista, a parer mio, deb bono esser fatti procedere di pari passo; poichè la distinzione non sarebbesi intro dotta presso un popolo pratico e logico come il romano, se non avesse avuto una ragione di essere nelle condizioni economiche e sociali del tempo, ed essa non sareb besi poi perpetuata con tanta tenacità, se non vi fosse stato un avvenimento storico importantissimo, come il censo, il quale, per essersi in certo modo immedesimato colla vita e col modo di pensare del popolo, mantenne allo stato fossile la distinzione, di cui si trattava, anche allorchè non aveva più ragione d'essere. Che anzi in questo modo vengono perfino ad offrire alcunchè di vero anche le opinioni, che vogliono rannodare il concetto di mancipium alla bellica occupatio; poichè questo carattere militare, inerente anche almancipium, è una conseguenza di quell'impronta militare, che sopratutto in quell'epoca assume il populus romanus quiritium; impronta, che rimane inerente a tutti i concetti e alle istituzioni che ebbero origine in quell'occa sione. Tuttavia, siccome trattasi qui di ricostrurre e non di far l'esame critico delle varie opinioni, mi rimetto per l'analisi di queste opinioni, delle quali alcune hanno perfino del singolare, allo Squirti, 38 a 68, al BONFANTE, 35 e 75 e agli altri autori, che di recente esaminarono la vecchia controversia. 440 pure, che più tardi, per l'accrescersi della fortuna dei cittadini ro mani, siansi aggiunte molte cose, che avrebbero pur dovuto essere tenute in conto per valutare il patrimonio del quirite; ma in questa parte, come nel resto, i giureconsulti, allorchè trovarono foggiata questa configurazione giuridica, si guardarono dall'alterarne in qual siasi modo le primitive fattezze. Di qui ne venne, che il concetto del mancipium, come molti altri concetti del primitivo diritto, dopo avere un tempo corrisposto alla realtà dei fatti e aver così com preso quelle cose, che effettivamente costituirono la prima proprietà esclusiva del quirite, fini in certo modo per fossilizzarsi e cambiarsi in una categoria giuridica, in cui si compresero tutte quelle cose, che un tempo dovevan essere consegnate nel censo. Il mancipium si mantenne cosi come un rudere dell'antichità primitiva di Roma, che malgrado l'incremento delle cose romane rimase ad attestare le condizioni economiche dei quiriti, nel tempo in cui Servio Tullio pose il censo come base di partecipazione alla comunanza quiritaria. Ciò tuttavia non impedi, che il potere rurale presso i Romani, salvo le più grandi proporzioni, abbia ancora sempre conservati i tratti del primitivo mancipium, in quanto che esso continud pur sempre a costituire un tutto organico, ad avere un proprio nome, che è quello del primitivo proprietario, e ad essere considerato come fornito delle servitù e del bestiame necessario per la coltivazione di esso (instru mentum fundi). Le cose romane di piccole si fanno grandi, ma continuano sempre ad essere foggiate sul primitivo modello. 349. Nè può essere difficile lo spiegarsi come il concetto del man cipium siasi cosi conservato allo stato fossile, malgrado l'ingrandirsi delle cose romane, quando si tenga conto dello spirito conservatore della giurisprudenza romana, e della circostanza, che i giureconsulti La miglior prova di ciò può aversi dagli articoli citati del FUSTEL DE COULANGES, sur le domaine rural chez les Romains. Da questi infatti si scorge che i Romani portarono il loro concetto del podere anche nelle provincie conquistate, e che le varie parti di esso ingrandendosi vennero ad avere talora una esistenza propria e distinta: cosicchè si ebbe il podere coltivato per mezzo di schiavi, quello fatto valere per mezzo di affittavoli, quello lasciato alla coltura dei servi e dei liberti, e quello più tardi coltivato da coloni; ma intanto le fattezze primitive non scomparvero più. Per tal modo anche il podere romano, come tutte le altre istituzioni di quel popolo, è un organismo, che si svolge e si differenzia nelle sue varie parti, ma conserva sempre quei caratteri, che già si potevano ravvisare nell'embrione, da cui è partito; em brione, che, secondo il mio avviso, consisterebbe appunto nel primitivo mancipium. 441 in questa parte trovarono già chiusa e formata la cerchia delle res mancipii, nè ebbero motivo di estenderla o modificarla in un'epoca, in cui già cominciavano a ritenersi gravi e inopportune le forma lità dell'antico diritto. Di qui la conseguenza, che i giureconsulti in tutti i responsi, che si riferiscono alle res mancipii, mantennero inviolata l'antica misura, e solo ammisero qualche allargamento, che corrispondeva al concetto informatore del primitivo mancipium, e che era necessario per rendere applicabile il concetto stesso. Così noi troviamo, ad esempio, che i giureconsulti interrogati, se i camelli ed elefanti potessero essere compresi nelle res man cipii, risposero negativamente, sia perchè questi animali non erano conosciuti, quando si fissd il concetto del mancipium, o meglio ancora, perchè essi non si sarebbero potuti riguardare come una pertinenza di quel podere tipico, che costituiva il mancipium . Indarno parimenti si fece notare, che le servitù urbane avevano la medesima natura delle rustiche; esse malgrado di ciò furono sempre ritenute come res nec mancipii, non tanto perchè non fossero co nosciute a quell'epoca, quanto piuttosto perchè non formavano parte integrante del podere stesso. Quando poi si chiese, se i cavalli e i buoi non domati potessero essere ritenuti come res mancipii, l'opinione prevalente fu che non fossero tali, probabilmente perchè essi, finchè non erano domati, non potevano essere strumento indi Parmi perciò da seguirsi,ma con una certa discrezione, l'opinione che l'enumera zione delle res mancipii debba ritenersi tassativa, come quella che in parte fu determi nata da un avvenimento che doveva dargli un carattere esatto e preciso. Ciò però non toglie, che nel concetto comune anche altre cose potessero essere considerate come res mancipii, quali erano, ad esempio, le pietre preziose di Lollia Paolina, di cui ci parla Plinio il Vecchio (Hist. nat. 9, 35, 124 ). Ciò tanto più perchè posteriormente il concetto di mancipium, che erasi sovrapposto a quello di heredium, tornò a riacco starsi almedesimo, e nell'uso non giuridico significò talora i bona paterna avitaque, e specialmente quelli, che nel costume solevano trasmettersi digenerazione in genera zione, quali erano appunto le pietre preziose, che costituivano in certo modo un avitum mancipium. In ciò seguo l'opinione, che il Bonghi ebbe a manifestare nella recensione del lavoro dello SQuitti nella Cultura, anno 1886, 1-15 agosto. Cfr. BONFANTE, op. cit., p. 93. GAJO, Comm., II, 16; ULP., Fragm., XIX, 1. (3 ) GAJO, II, 17; ULPIANO, loc. cit. Che anzi fra le servitù rustiche sono res mancipii quelle soltanto, che hanno una maggior importanza per un podere ru stico, e che formano parte integrante del medesimo, cioè l'iter, actus, via, aquae ductus, e non le altre, come quelle del ius pascendi, calcis coquendae e simili, le quali, essendo particolarità di certi speciali poderi, non potevano dapprima essere tenute in conto. -.442 spensabile per la coltura del fondo, che costituiva il primitivo man cipium. Cid intanto può eziandio servire a spiegare come Varrone parli di formole relative alla vendita di animali da tiro, e da soma ed anche di servi, accennando alla semplice traditio e non alla mancipatio; poichè questa doveva solo ritenersi necessaria, allorchè gli animali e i servi, di cui si trattava, dovessero considerarsi come instrumenta fundi. Siccome invece le res mancipii, ancorchè singolarmente enumerate, costituiscono però un tutto (cioè il man cipium ), così i giureconsulti rispondono, che alle medesime conside rate come un tutto può essere applicato quello stesso mezzo di alienazione, che è proprio delle singole res mancipii; donde la pos sibilità della mancipatio familiae e del testamentum per aes et libram, di cui si parlerà a suo tempo (3 ). La controversia in proposito fra i Proculeiani, che escludevano dalle res man cipii questi animali finchè non fossero giunti a tale età da essere domati, e i Sabi niani, che invece li ammettevano fra le res mancipii, appena fossero nati, è accen nata da GAJO, II, 15, comemolto dubbiosa anche per lui, che era Sabiniano. In ogni caso la stessa esistenza di una simile controversia, ed anche il fatto, che erano res man cipii solo i quadrupedes, quae dorso collove domantur, dimostra abbastanza che la determinazione delle res mancipii aveva stretta attinenza colla coltivazione del fondo. Le formole conservateci da VARRONE intorno all'emptio venditio dei cavalli e dei buoi anche domati (V. Bruns, Fontes, p. 388) condussero il Voigt a ritenere che i cavalli ed i buoi fossero introdotti solo dopo Varrone nel novero delle res man cipië (Ius nat., Leipzig). Veramente non si saprebbe ilmotivo di questa nuova introduzione in una distinzione, che oramai appariva antiquata; ma ad ogni modo la cosa a mio avviso è facile a spiegarsi, quando si ritenga che la qualità di res mancipiä era dapprima attribuita dall'essere questa cosa un instru mentumt fundi. Quindi non sempre era necessaria la mancipatio per questi animali, come non sempre era necessaria per i servi, come lo attesta lo stesso Varrone. Non credo poi che possa essere il caso di supporre
Wednesday, January 8, 2025
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