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Monday, January 27, 2025

GRICE ITALO A-Z M ME

 

Luigi Speranza -- Grice e Medio: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Medio. Porch. A contemporary of Plotino. He wrote a number of essays. Medio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Megistia: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone --  Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide. Grice: “Cicero argued that anything written in Greek is not part of Roman philosophy; I guess he has a point. Whereas we do consider things written in Latin by Englishmen PART of English philosophy, we do not consider anything written by the Old Britons before the Anglo-Saxon Conquest to be a part and parcel of Sorley, “History of English philosophy’!” -- Megistia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Meis: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – IL FU MATTIA PASCALE – lo spirito abruzzese – la scuola di Bucchianico -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bucchianico). Filosofo italiano. Bucchianico, Chieti, Abruzzo.  Grice: “I agree with Meis’s naturalism; he proposes a three-stage development: vegetal, animal, man – his naturalism has a Hegelian side to it, while man is more old fashioned, more Kantian!” Figlio di un medico aderente alla carboneria e di ideali mazziniani, nacque a Bucchianico, dove compì i primi studi: li prosegue presso il Regio collegio di Chieti e poi a Napoli, dove e allievo dei letterati PUOTI, SANCTIS, SPAVENTA e RAMAGLIA. Si laurea e divenne socio degl’Aspiranti naturalisti, di cui diventerà presidente; e poi medico aggiunto dell'Ospedale degli Incurabili e apre una scuola di grande successo, dove insegna filosofia naturale. E poi rettore del Collegio di Napoli.  Dopo la promulgazione della costituzione nel Regno di Napoli, venne eletto deputato per la circoscrizione Abruzzo Citra: sostenne la protesta di Mancini contro la repressione operata dalle truppe borboniche contro i manifestanti e l'accusa di tradimento al re.  E quindi costretto all'esilio. Dopo un soggiorno a Genova e a Torino, si stabilì a Parigi. Esercita la professione di medico per gli esuli e gli emigrati italiani. Insegna antropologia filosofica lall'università ed entra in contatto con il mondo filosofico parigino, diventando assistente di  Bernard e ottenendo da Trousseau l'incarico di insegnare semeiotica. Strige anche un proficuo rapporto con Cousin. Rientra in Italia,  prima a Torino e poi a Modena, dove insegna.  Torna a Napoli e divenne assistente di SANCTIS, ministro dell'istruzione nel governo provvisorio, e venne eletto membro del Consiglio Superiore della Pubblica istruzione.  E deputato al Parlamento del Regno d'Italia sedendo tra i ministeriali.   Busto di M. al Pincio (Roma) Non si sa né dove né quando e iniziato in massoneria, è certo tuttavia che e membro della Loggia Felsinea di Bologna. Insegna a Bologna. Il suo naturalismo lo spinse a cercare un fondamento filosofico alle scienze della natura, che egli trova nell'idealismo di Hegel. E anche amico intimo e collega di SICILIANI, del quale condivise in parte la speculazione intorno al positivismo.  Venne citato, di passaggio, nel romanzo di PIRANDELLO (si veda), “Il fu Mattia Pascal”. E costruito il palazzo della Biblioteca di Chieti, in piazza Tempietti romani, dedicata a M..  V. Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, M. su treccani.  Il protagonista del romanzo infatti ascolta casualmente, durante un viaggio in treno, una conversazione fra due filosofi, e dato che è uscita la notizia della sua morte, sceglie come proprio nuovo cognome "Meis", traendolo da "De Meis". Il nome sarà "Adriano", udito dal fu Mattia nella stessa conversazione, che attribuiva a M. la tesi che due statue nella città di Peneade rappresentassero Cristo e la Veronica -- colei che si sostiene abbia asciugato il viso di Gesù durante il calvario. In queste pagine del romanzo pirandelliano, Mattia Pascal prova uno straordinario senso di ebbrezza legato alla propria libertà.  Tessitore, M. Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Colapietra, M., politico “militante”, Napoli, Guida, Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  M. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  M., in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  openMLOL, Horizons storia.camera, Camera dei deputati.  M. di Giacomo de Crecchio, in Biblioteche dei filosofi, Scuola Normale Superiore di Pisa Cagliari. L'Unificazione, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Nella prima edizione di Il fu Mattia Pascal figura qui un GIUSEPPE De Meis, che nelle successive si precisa nel nome di un seguace piuttosto atipico di SANCTIS, il filosofo abruzzese M. Difficile immaginare che questa schelta sia del tutoo casual, altrettanto difficile sondarne a fondo le ragioni e avanzare qualche ipotesi. A meno che non si pensi al saggi in cuil M. (“Darwin e la scienza”) tenta una sistesi tra evoluzionismo e dialettica hegeliana dello spirito; o non si immagini che possa essere la sua filosofia, sull’IMPOSSIBILITA della demo-CRAZIA in Italia, alla radice di uno sfogo politico de Adriano Meis. Meis, del quale Mattia Pascale prende parte del cognomen, e autore di una specie di impegnativo paradosso politico (IL SOVRANO), nel quale sostene la necessita di una REGALITA forte, come punto di mediazione disinteressata tra le passioni laceranti di varia strati della popolazione. E questo E il solo possible filo che riusciamo a intravedere tra lui e questo improvviso (ma forse non del tutto imporgrammato) sfodo di Adriano Meis. Antichità Oggettivismo. Oggettivismo primitive da Talete ad Anassagora Soggettivismo pratico individualista Sofisti. Soggettivismo pratico universalista Socrate Oggettivismo ideale assoluto Platone Soggettivismo incompiuto Aristotile Tempo moderno — Soggettivismo. Soggettivismo pratico intuitivo Stoicismo Epicureismo Scetticismo Ne-oplatonismo Cristianesimo  Oggettivismo ideale particolarista Roscellino. Occam Oggettivismo sensibile Bacone. Condillac. Diderot, d’Holbac. Passaggio alla soggettività Hame. Kant. Oggettivismo ideale universalista Anseimo. S. Tommaso. Scoto . » Soggettivismo tendente alla oggettività Cartesio Oggettivismo assoluto Geulinx. Mollebranche. Spinosa Oggettivismo dogmatico individualista — Lcibnitz. Wolf Passaggio alla soggettività —Berlielei/. Kant Tempo recente Soggettivismo assoluto. Soggettivismo trascendentale — Kant Soggettivismo assoluto astratto — Fichte Oggettivismo assoluto Schelling Soggettivismo positivo assoluto — Hegel . La storia della medicina .Cosa è lo Stato?  Lo Stato è l'uomo grande; è la società umana  individuata. L'ha detto Aristotile: lo Stato è la società  che basta a se stessa. 11 che appunto vuol dire che lo  Stato è il grande organismo umano, l'individuo grande, compiuto in sé stesso, indipendente ed assoluto.  L' uomo piccolo è una scala ascendente di funzioni. Egli ha per base la funzione vegetativa, per cui  mangia e beve e si nutre, veste panni, abita un nido  e si riproduce: la funzione riproduttiva è l'apice, e la  corona della vita vegetativa. Egli è questo il sistema dei suoi bisogni materiali, vegetativi ed animali. Ma 1' uomo elementare non è soltanto un vegetabile compenetrato e avvolto da un animale; egli è anche un animale, un'anima, sormontata dall'unità  dello spirito, avviluppata e compenetrata dalla coscienza  umana. La riproduzione è la corona della vita vegetale; la coscienza è la corona della vita animale; e la  coscienza assoluta è la corona e l’apice della vita  spirituale.   Come spirito l'uomo è per prima cosa, e per  prima base, morale. La moralità, la virtti privata, è la  forma più naturale dello spirito: essa è il patrimonio  dell'individuo, e resta confinato e chiuso in lui. Il dritto è l’uomo aggrandito; egli è l'individuo  che si aggiunge una porzione della natura esterna;  ed è una estensione del suo corpo, e della sua anima;  ampliazione della sua natura organica, ed esplicazione  della sua natura giuridica spirituale. E a tutto questo sovrasta l’IO, la libera coscienza,  che è come il perno intorno a cui tutto gira: centro  e circonferenza del circolo umano. L'IO è la conoscenza di se. Nella pura coscienza  l'uomo conosce sé come sé, come semplice forma;  ed egli aspira a conoscere anco l’interno di se, la sua  propria natura. E Si conosce infatti: nell'arte, come  bello, e per dir così semi-infinito: nella religione,  come infinito sensibile; nella scienza, come infinito  di pensiero, e sì come pensiero infinito. Tale è il sistema spirituale nell' uomo piccolo,  nell’individuo particolare. Nell’uomo grande, nell' organismo politico-individuale che si chiama LO STATO, ci sono le stesse funzioni. Ci è la funzione economica, agricola, industriale,  commerciale: produzione materiale, frumento o libro;  trasformazione ed assimilazione; circolazione e scambio;  nutrizione e consumazione: relazione sensibile fra tutti  gl'individui dei quali il corpo sociale è formato. Ci è la funzione morale, non più chiusa nell'individuo, ma estesa alla società, manifestata come relazione attuale fra gì' individui umani. La morale individua diventa dritto comune; materia della polizia,  e del dritto penale. Nessun uomo ha il dritto di offendere e usar vie di fatto contro un altro uomo,  perchè tutti hanno il dritto che la loro coscienza morale sia rispettata. Il reo non fa contro uno, ma contro tutti; e non è quindi uno o pochi, sono tutti  contro di lui: il sentimento della comune natura umana reclama la sua punizione. Nessun uomo ha il  dritto di maltrattare un bruto; perchè non è il bruto,  è il sentimento della fondamentale unità della natura  umana e animale eh' egli ferisce e maltratta in tutti  gli uomini civili e sensibili. La morale individua è  il rispetto della natura; il dritto morale è l'azione  conforme ai fini, ai principii, ai sentimenti naturali.  Egli è dunque una relazione psichica, spirituale, poiché  spirituale è il suo fine. Ci è la funzione giuridica, ed è la relazione dell'individuo coi suoi annessi naturali agli altri individui similmente costituiti di cui la società è formata.  Quello che invade l’altrui, non occupa solo una porzione di natura; egli occupa e viola l'anima di un  uomo, la quale è pur quella di tutti gli uomini, membri di uno stesso corpo sociale; e perciò tutti si levano contro l'ingiusto invasore. Questo tutti è la legge,  che funziona e si esercita in forma di Tribunale. La  legge penale sta di rincontro alla barbarie, alla passione violenta ed alla guerra privata; un tribunale criminale è in realtà una corte marziale. La legge  civile è il principio e la regola della pacifica decisione. Essa è la libera ragione che si leva di mezzo  agli opposti interessi; e il contrasto troncato in germe, e definito in forma di piato, non solo non giunge, ma  neppur tende alla violenza ed alla guerra. La guerra  è la barbarie; la civiltà è la pace, perchè è la legge,  e perciò questa a ragione è detta civile; e i suoi sono  tutti giudici di pace. Ci è finalmente l’IO comune, conoscenza e volere  generale; ed è, come tale, una funzione formale a cui  servono di contenuto e di soggetto tutte le funzioni  speciali. Cosa è dunque lo Stato?   Lo Stato è l’insieme di tutte le funzioni materiali  ed economiche, morali e giuridiche, in quanto sono  unificate nell'IO comune, che tutte le penetra e le  regola, ed è il punto a cui mette capo ogni particolar  movimento, e da cui parte ogni azione generale. Lo Stato è adunque l'IO,  la coscienza sociale. Tale è la forma: il contenuto è la virtù pubblica, il  dritto civile, il dritto penale, e la pubblica economia.   Lo Stato è il giusto, dice ALBICINI (si veda). Sì certamente;  ma il giusto non è che una parte del suo contenuto;  è un elemento della sua natura, il quale piglia nell’organismo giuridico la sua forma particolare, e la sua  realtà naturale. Ma un principe non è solo un Gran Giudice, e un Parlamento non c'è soltanto per fare  il Codice Civile. Giusto io lo piglio in senso di legge:  e la legge io la piglio in senso di relazione umana  in genere. Ed io allora la piglio in senso di relazione cosmica universale. Bisogna finirla una volta con  le idee vaghe ed astratte, e con le parole indeterminate e generali. Lo Stato è la virtti; dice Montesquieu: la virtìi  è il suo principio ed il suo fondamento, e il vizio è la sua rovina. Idee generiche, astratte, indeterminate,  piene di confusione e di errori. La virtù, la morale,  non è che un elemento, ed una sfera dello Stato. Essa ò  per se individuale; ma quando esce dall'individuo, e  promove o turba e nega l'ordine sociale inferiore, e per  così dire individuale, essa allora di privata diventa pubblica, ed appartiene allo Stato. Che se dall' infima sfera  delle relazioni individuali l'azione si leva alla sfera giuridica, o se anche penetra nella sfera politica, allora  essa perde man mano il suo carattere morale. Un delitto politico è per poco un non-senso, quando non è  che politico: e tale egli è quando l'animo è puro.  Omnia mwnda mundis: puro vuol dir non-individuale,  assoluto, generale. E allora non è a parlar di delitto  e di colpa: in politica non ci è che prudenza ed imprudenza, serietà e leggerezza, verità ed errore, successo ed insuccesso. Lo Stato ordina i premi e le pene, e  le proporziona alla loro natura morale, giuridica o politica : se non che una pena politica è quasi un non-senso:  essa in realtà non è che un semplice fatto di guerra,  un puro atto di difesa. La virtù, dirà il Montesquieu,  io la piglio in senso di forza, di energia politica. Ed io la piglio in senso di energia magnetica, elettrica,  nervosa, muscolare. L’antiche repubblica romana e  fondata sulla sobrietà e sulla severa continenza, sulla  parsimonia e la povertà del privato cittadino. Roma  cadde perchè vi penetrò la ricchezza, la voluttà, il  lusso dell'Asia. Quella io chiamo virtù, questo vizio,  rilassatezza, corruzione, dice Montesquieu, e ripete  Napoleone III, e con lui tutti, dal primo all'ultimo,  i francesi. — francesi, questa che voi fate non è  la storia, è il fatto; è la materia appena un po' digrossata, non è l'idea che la determina e la informa; è il  fenomeno, non è il pensiero della storia. E lo vedrete.  Lo Stato è il ben essere, la prosperità, la ricchezza, dice Fourier. Sì, certamente: anche questo  è lo Stato: ed egli cura la produzione, promove ogni  maniera d'industria, e favorisce il commercio con  istituzioni, e leggi, e procedure speciali. Ma la ricchezza non è che il sostrato, il sottosuolo dello Stato.  La ricchezza è la materia, lo Stato è il pensiero: 1' una  è il corpo, l’altro è l' anima. L' anima fa il corpo, ma  non è corpo per questo; e l'Economia politica non è  la Politica, non è lo Stato. IL PRINCIPIO DELLO STATO ITALIANO E LA RELIGIONE, è la Bibbia  degli Ebrei, dice Aquila di Meaux, e per quel tempo  non vola male. Ora però, sarebbe il peggio che si  potesse dire. Cotesto ora non è piti un volare, è uno  strisciar per le terre, o come talpa andar per le cieche  latebre, odiando la luce e il puro e libero aere della  ragione. E se Dupanloup pure insiste e perfidia, allora io dico che il principio dello Stato è l'arte,  è la Divina Commedia e il Decamerone, il Barbiere di  Siviglia e la Trasfigurazione. Tanto ci ha che far l'una  quanto l'altra, ed io avrò altrettanta ragione. Il principio dello Stato è Dio, dirà Dupanloup. Sì, certamente; ora finalmente ci siamo.  Non è però il Dio della Religione e dell'Arte, ma il Dio  del corpo sociale, il Dio dello Stato. Questo è che costituisce i Re, che direttamente o per suoi organi crea  tutti i poteri e le autorità politiche; e questo Dio non  abita nel cielo; lassù non v'è che il Dio della Natura:  il Dio dello Stato abita nel petto del cittadino, ed è  a lui eh' egli ubbidisce quando rende ubbidienza alle  autorità che ne sono i ministri, il braccio e la parola. Lo Stato non e corpo, è anima. Anima è sapere  e volere, coscienza e azione; e la funzione dello Stato come Stato consiste nel sapor di essere, e nel volere  essere Stato. Questa non è che la sua forma; ma questa forma è appunto il vero Stato; e la coscienza assoluta ch'egli ha di sé, e l'azione comune in cui  questa si traduce e si spiega, è per l'appunto la sua  funzione essenziale. La coscienza dello Stato per intrinseca ed assoluta  necessità prende una esistenza naturale, e spontaneamente si crea il suo particolare organismo. Essa è  l'anima; ed il sistema dei poteri politici è il corpo  che si crea, e in cui si fa reale. È una creazione immediata e diretta, ovvero indiretta e mediata, come  quella d' ogni principio vitale; ma in definitivo è la  coscienza pubblica, ed è sempre lo Stato che crea i  poteri e le autorità dello Stato. Questa funzione creatrice è 1' elezione. Ma questo corpo in cui l'anima generale si traduce e si concentra, in realtà non è che una pura  anima: è il semplice potere legislativo. Quest'anima  effettiva ed attuale creata dall'elezione, si crea a sua  volta il suo proprio corpo. Tale è 1! esercito : l' esercito  amministrativo e l' esercito militare ; e la finanza è il  sangue di questo corpo generale. L' esercito amministrativo serve per eseguire o  render possibili tutte le funzioni, che compongono  la triplice natura dello Stato: la funzione economica,  la morale, e la giuridica. Un magistrato, un impiegato, il ministro, il Sovrano, è un soldato; e il suo  onore è d'ubbidir fedelmente alla legge, all'anima  dello Stato. L'esercito militare ha un ufficio anche pili essenziale. Esso serve allo Stato per essere, per esistere; gli  serve a difendersi dalle potenze nemiche, esterne o interne, che ne minacciano la vita economica, politica  o morale. Il soldato è il braccio della legge, e dello  Stato; il suo ufficio è di respinger l' assalto o l' insulto  di un altro Stato, e di reprimere le passioni colpevoli  che si sfrenano contro la legge del suo paese, e le istituzioni del proprio Stato: nobile ed alto ufficio tanto  nel primo come nel secondo caso.   I due eserciti sono entrambi assoldati. Sono il  corpo, e il sangue vi dee circolare. Il potere legislativo è l'anima; ed è perciò che non è pagato. Il Sovrano ha una lista civile perchè unisce in sé le due  nature: egli è il tratto d' unione fra il potere legislativo e l'esecutivo, e personifica in lui l'unità dello  Stato : ed è perciò eh 9 egli è sacro. Sovranità, potere legislativo, potere esecutivo; tutto  questo è forma di forma: la forma essenziale, il vero  Stato, è l”IO assoluto, la coscienza e la volontà generale. Ma non vi è la pura coscienza e l'astratto  volere, e non è possibile una funzione puramente  formale. Si è conscii di essere questo o quello, si vuole  e si fa sempre qualche cosa: e lo Stato conosce e fa da  un lato, e dall'altro esegue, la legge economica, la  legge penale, la legge civile. Il Sovrano, il legislatore, l’impiegato, il soldato, tutti vogliono che lo Stato sia;  vogliono che sia prospero, giusto, savio, forte di tutte  le fotze morali, e che possa tutte liberamente spiegarle, ed esser felice. L'Io è la forma; la forza economica, la virtù, il dritto, è il contenuto dello Stato. Ma la forma prevale, e domina il contenuto. La  morale domina l'economia: la produzione non è possibile, e il guadagno non è realizzabile s'egli è immorale. Il dritto domina la morale: la virtù pubblica  impone alla virtù privata. L'Io, la pura funzione formale, domina e modifica tutte le funzioni speciali che  sono il suo essenziale contenuto: lo Stato domina e  modifica il dritto e la morale. Un assoluto vince l'altro: tutti per sé assoluti, sono fra loro assolutamente  RELATIVI (“il relativo hegeliano”). Il volgo riguarda come piti eccellenti gli assoluti inferiori, perchè piti naturali, e di più immediata e più sensibile idealità. Il più alto è per lui  l'ordine morale; che sovrasta e primeggia sull'ordine  giuridico; 1' ordine politico è subordinato a tutti e due. In realtà il più eccellente è l'ordine dello Stato, perchè  più generale, e più assoluto e divino; e quando l'armonia fra i tre ordini e le tre funzioni si rompe, è la  funzione formale, la funzione assoluta dell'essere,  quella alla quale appartiene il primato, e prende  sopra l' altre la mano. Scoppia la RIVOLUZIONE dal basso  o dall'alto: ribellione, COLPO DI STATO. Slealtà, tradimento, illegalità, delitto. È vero. La coscienza morale lo riprova, la coscienza giuridica lo condanna;  ma v'è (vi può essere) una coscienza superiore che  l'approva; e se non è la coscienza politica dei contemporanei, sarà di certo la coscienza politica degli  avvenire. La storia approva IL COLPO DI STATO  e LA RIVOLUZIONE popolare, quando è vera funzion di essere:  quando cioè l' essere apparente dello Stato non corrisponde al suo VERO essere, a quello che esso è nella  coscienza del corpo sociale, sia che oltrepassi, o sia  che rimanga al di sotto di questa misura ideale. Invadere la proprietà d' un cittadino è ingiusto;  ma lo Stato può farlo; ed è una giusta ingiustizia, ed una legale illegalità, perchè in tal guisa realizza  il suo essere, il benessere della comunità, o dell’intiero  corpo sociale. La ragione e il titolo è la pubblica  utilità. Questo è un vedere solo il lato esterno del  fatto, che vi è di certo e non può mai mancare, ma non  la sua vera ragione. Si vede la comodità sensibile, ma  non si vede il suo interno principio, l'essere generale  realizzato. Ma non è meraviglia. IL CODICE ITALIANO E POCO MEN CHE TRADOTTO DEL FRANCESE. Le nostre leggi  fatte esse pure dal risorgimento, parlano la sua lingua  e ne riflettono le idee. Ammazzare un uomo è ingiusto ed immorale:  è un violar l'ordine naturale; è un toglier all'uomo  una proprietà che 1'uomo non ha creata. Ma lo Stato  anche questo può fare. Lo Stato è funzion di essere; egli è, vale a dire una forza: e l' elemento di questa forza è la sua corrispondenza e la possibile eguaglianza con la coscienza  generale. Lo Stato è debole quando il suo concetto  resta al di sotto o supera quello del corpo sociale. Il secondo, e non già il primo, è di gran lunga il caso  dello STATO ITALIANO. Egli è perciò che quando la  società vede nella pena di morte un elemento di solidità, ed un pegno di sicurezza generale, abolirla è  un errore: è una fallace utopia, una velleità teorica, difetto di serietà pratica, scipita sentimentalità,  filantropia fuor di proposito; bontà di cuore forse, ma  certo debolezza di mente, che ad altro non condurrebbe che a crescer la debolezza, già così grande, dello  Stato, accrescendo la distanza che lo divide dalla coscienza pubblica, di cui deve render l' imagine, ed essere la fedele espressione. Quando l'opinione sarà progredita; quando la coscienza dei pochissimi si troverà  in armonia con la coscienza dei moltissimi, allora lo Stato e forte, e allora la pena ingiusta, immorale ed  inumana della morte si potrà, e si dovrà senza altro  indugio, abolire; perchè allora il PAESE, divenuto meno  incolto e per dir così più spirituale, avrà cessato di  riguardarla come un elemento di esistenza; e non sentirà il bisogno di una garanzia sensibile tanto barbara  e immane. Allora non saranno soltanto pochi pubblicisti  ignoranti e frivoli, ed alcuni legislatori ridicoli, saranno moltissimi, se non pur tutti, a reclamarne l’abolizione. Si parla sempre dell'utilità della pena di morte. È l'argomento dei sostenitori, ed è l'achille degli  oppositori. Questo è da una parte e dall' altra un vergognoso errore. Necessità non è utilità; e quando lo Stato opera in funzion di essere, egli è in una sfera ideale e  assoluta, superiore alla regione della utilità e del senso.  Ma questo sì vergognoso errore era la verità del Risorgimento; ed è perciò che non se ne vergognava,  anzi l'accettava, e ne andava giustameute superbo:  il senso e l'utilità e tutta la sua filosofìa, ed egli  condanna allora la pena capitale come non utile. Venuto più tardi a miglior sentimento, il Risorgimento  respinge l’utilità, e condanna la pena di morte  come utile. Egli scambia per utilità la necessità ideale;  e non si vergogna, perchè questo sofisma è la sua  verità: egli è il da ubi consistam della FILOSOFIA positiva. Ma se ne vergognerà di certo quando di risorgimento sarà passato a secolo decimonono. Ammazzare un uomo, turbarne i dritti, e violarne il possesso, attentare all'esistenza dello Stato,  che è quanto dire alla vita delle sue istituzioni, è  immorale ed ingiusto; e sarà assai di più ammazzare  moltitudini di uomini, insignorirsi, recare in sé il dominio (e sia pur l'alto dominio) delle loro proprietà, e distruggere uno Stato. Questo il cittadino  non lo può, non lo dee fare; ma può e dee talvolta  farlo lo Stato. L' usurpazione e la violenza privata è  ingiusta; la violenza pubblica e la pubblica usurpazione non è giusta; è più e meglio di questo, è politica; e si chiama guerra e conquista, e non più  violenza ed usurpazione. La guerra è buona, e la conquista è giusta legittima e veramente politica, (e dico buona, legittima,  giusta per convenzione, ed in mancanza d'altre parole)  quando in esse lo Stato opera in funzione di essere:  quando guerreggia e conquista per vivere per essere,  o per diventare quello che è in sé, e deve anche attualmente essere. Vi sono società naturali, che la violenza, l'arbitrio, la passione, il caso in una parola, divide in  più corpi sociali, per cui DI UNO SI FORMANO PIU STATI. Ma in tutti rimane la coscienza della loro identità politica, e della loro natura storica comune. Yi sono ancora società originariamente separate,  in cui l’accidente, cioè l'arbitrio, la violenza, le passioni umane, col concorso di altri accidenti ed opportunità naturali, crea una coscienza comune. LA LINGUA ITALIANA, vale a dire la comunità e la somiglianza fondamentale dei DIALETTI ITALIANI  (non mai la loro identità, che  non e' è mai, e non può esserci in natura, ed è una  finzione assurda dei pedanti) è l'organismo sensibile,  e l'espressione approssimativa, e la meno inadeguata,  di quella nuova coscienza. La comune storia è il processo per cui di un gruppo accidentale di popoli e  di Stati si forma a poco a poco un tutto naturale e  vivente con una interna unità e un' anima generale.  LA GEOGRAFIA è la condizione esterna dello sviluppo,  e l' occasione più o meno accidentale di questa formazione ideale.  La comune coscienza che si è conservata dopo lo  spartimento dello Stato unico originario, non è più  coscienza, ma tende a ripigliare l'antica forma e la  primiera attività; e la coscienza comune che si è sviluppata in un gruppo di Stati eterogenei non è che  il sentimento della loro comune unità: e nell' un caso  e nell'altro questo sentimento è la nazionalità, la coscienza nazionale. E nell' uno come nell' altro caso  ciascuno Stato si trova diviso in se stesso; è un' anima  scissa, con due coscienze distinte ; che l' una è la coscienza propria di Stato, l' altra è la coscienza comune  di NAZIONE. Esso è dunque in realtà due anime, due  esseri, uno attuale, e l' altro possibile; il primo è Stato,  l'altro non è che nazione. LA NAZIONE E LA POSSIBILITA NATURALE DELLO STATO. Ma esso anche quest'altra parte  di sé vuol recare ad atto; esso ha bisogno di esser  tutto il suo essere, e irresistibilmente aspira a far della  sua coscienza politica effettiva, e della sua coscienza  nazionale astratta, una sola coscienza reale. Egli è perciò  che lo Stato fa la guerra, e conquista gli Stati connazionali. È la buona guerra, e la legittima conquista;  ma è ancora il processo barbaro, violento, inconsapevole, passionale, irrazionale. Era altra volta la buona  soluzione; ora è divenuta cattiva: il decimonono secolo  è tempo di coscienza e di ragione, e non ammette  che la soluzione consapevole, volontaria e razionale.  Questo succede quando in tutti i corpi sociali si sviluppa più o meno egualmente di sotto alla loro particolare e diversa coscienza politica la comune coscienza nazionale. Tutti allora aspirano, e tutti finiscono per fondersi in un solo corpo di nazione, in  una stessa società, in cui l'antica coscienza nazionale  si eleva e si perde ben presto nella coscienza politica comune. Non è più. la soluzione forzata, è la  soluzione spontanea e razionale.  Egli è nel primo modo che si sono costituite le  nazioni moderne; formazioni accidentali, prodotti di  guerre e di conquiste senza ragione, e di nozze fortunate. Tu felix Austria, tu felix Gallia, etc... nube. La coscienza nazionale non esiste, è venuta dopo. L'Austria felicemente accozzava delle società affatto eterogenee, fra cui non vi è stato che un principio di fusione. Si è formato senza dubbio nella Boemia, nell’Ungheria, nella Iugo-Slavia, una coscienza austriaca. Ma la vera coscienza politica è la coscienza boema,  ungherese e slava; e ciò perchè l' austriaca è una coscienza astratta, occasionale, non è una possibilità naturale effettuata e completa; non è lo sviluppo e la  realtà della coscienza nazionale. La Francia riuniva  con lo stesso metodo delle nozze, delle guerre ingiuste e delle astute diplomazie, degli Stati meno  inomogenei, in cui pur v’era un avanzo di un'antica  LINGUA COMUNE – FIGLIA DELLA LINGUA MADRE LATINA, testimone di una comune coscienza,  di politica rimasta puramente nazionale, reminiscenza  di una potente antica unità; IL FRANCESE E UNA LINGUA AVVENTIZIA E FORZATA, ma che ha finito per essere adottata -- coscienza avventizia, ma che era pur venuta, ed aveva finito per essere LA COMUNE ESSENZIALE UNITA DEL MONDO ROMANO.  Ed ecco perchè quei corpi insieme posti finirono per  formar le membra di un solo corpo morale: fatte però  le dovute e ben note eccezioni. Ora la Francia avrebbe  l'intenzione di seguitare in questa via, ed applicare  ancora il metodo antico, barbaro, medieyale. Ma si  oppone la natura e la ragione. La ragione è la coscienza  nazionale, è LA LINGUA, ed è la storia. La natura è la  geografia: un fiume non è un confine, ma una via ed  un mezzo di unione. La Francia è fuor dei suoi confini  naturali e nazionali.   La soluzione spontanea razionale e naturale delle quistioni nazionali e serbata al secolo della ragione;  ED E L’ITALIA CHE NE HA DATO AL MONDO L’ESEMPIO, ed è  il suo onore immortale, e il suo vero primato civile  e morale. Questo esempio la sorella dell'Italia, la Grecia,  si appresta ad imitarlo. La natura lo richiede. La greca  penisola è un tutto geografico perfettamente circoscritto; si direbbe una regione, un nido apprestato  per una sola razza. La ragione lo esige e lo impone;  lingua, storia, coscienza nazionale, solo in parte venuta a coscienza politica, tutto è comune alla Grecia;  e v' è un altro comune principio che la unisce, ed è la religione. Tutto dunque chiede l'indipendenza e  r unità della Grecia, tutto vuole che la Nazione Greca  diventi lo Stato Greco; ma l' Inghilterra non vi trova  il suo conto, e con tutte le forze si oppone, e l'Europa  delle crociate, divenuta la positiva e irreligiosa Europa  del Risorgimento, custodisce e protegge con una edificante unanimità il barbaro e immondo straniero,  il musulmano oppressore.   L' Italia è stata piu fortunata. Un grand' uomo  uscito dal suo sangue, pervenuto ad. assidersi sopra un  nobile trono straniero, rammenta l'antica madre  per la quale giovanetto aveva pugnato, e pugnava  ancora per essa, e le dava la mano a farsi di una  nazione astratta, uno Statò reale. ITALIANO, IO NON SO CHE QUESTO. Tutto l'altro io l'ignoro, perchè la Storia  non è ancor venuta, e non ci ha giudicato sopra. Ora  non vi è che la morale e il dritto, e le piccole passioni politiche dei francesi, tutti incompetenti nella  quistione. Ma di quel che il grand' uomo ha operato  per l'Italia siamo competenti noi; e non sono ingrati  tutti gì' Italiani. L'Italia per viriti propria, e per generoso aiuto,  che appena è che possa dirsi straniero, è salita dalla coscienza nazionale alla coscienza politica. Ma se quella  è forte e potente, questa è ancor debole ed incompleta. Le sette antiche coscienze politiche, nelle quali  la sua coscienza nazionale era scissa, non si sono  tutte egualmente amalgamate in una coscienza politica comune. Le deboli sono scomparse; ma ve n'è  qualcuna forte, che resiste e permane, ed è L’ANTICA COSCIENZA PIEMONTESE. Il Piemonte ha tre coscienze in lotta fra loro.  La coscienza nazionale, che in lui era, ed è senza dubbio ancor forte, non si è pienamente trasformata. Essa  è rimasta nazionale, astratta; ed ha solamente prodotto  di sé una coscienza politica italiana debole, parziale,  incompleta, poco men che astratta, piena di riserve  e di eccezioni. Essa è incompleta e debole di tutta la  realtà e la forza che rimane alla VECCHIA E TENACE CO-SCIENZA PIEMONTESE, di cui la permanente è l'espressione. Questo SAMMARLINO (si veda) lo ignora ; ed è in una perfetta buona fede. Egli in travvede in lui una forte  coscienza nazionale, e allato a una profonda coscienza  municipale (certo indebolita da quello che era prima)  vi trova un chiaroscuro di coscienza politica italiana,  e dice: io sono quanto si può più essere italiano. E se lo crede. Sammartino non ha tutti i torti : egli è  senza dubbio italiano; ma quel suo quanto si può essere,  o quanto altri sia, è una sua ESAGERAZIONE.. Nobile esagerazione, inganno volontario e generoso, illusione  che genera in lui la coscienza nazionale, la quale fa  sentirgli il bisogno di giustificarsi ai proprii occhi e  agli altrui. Ma in tanta complicazione il valente uomo  non ha tale abito e tal forza d'analisi da rendersi  conto del proprio essere, per cui diviene il giuoco  della sua immaginazione. Egli è perciò che è in buona  fede. Tutti gli uomini ci sono qual pili qual meno  allo stesso modo. Ma il tempo è galantuomo; e s’egli ha potuto  sviluppare in tutto il mondo antico una COSCIENZA ROMANA: se sulla vera coscienza magiara, czeca e jugoslava ha potuto inserire una coscienza austriaca; se  finalmente nella tedesca Alsazia e nella Lorena punto  del mondo francese, ha potuto (incredibile a dirsi, e  mostruoso a pensare) destare una coscienza politica  francese: ben saprà creare una vera coscienza italiana  in quel Piemonte, che pure è il primo fra tutti i paesi  della moderna Italia: in quel Piemonte, che nel momento in cui la grande storia italiana del Medio Evo  ha termine, quando tutto intorno tace, s'avviliva  e s'abbandona, e la nazione intiera scende nella  tomba della servitù straniera e papale, egli solo non  s' abbandona; e che rimasto jnfino allora nell'ombra,  sorge a un tratto giovane e vigoroso, e ripigliava  in sua mano il filo e creava la nuova storia italiana,  e per lui ed in lui l'Italia vive ancora. E quando  a nostra memoria si riapriva 1' antica tomba, e l'Italia  vi scende di nuovo, rimaneva egli solo sulla breccia,  e lottava animosamente, eroicamente, e compiva alla  fine il destino della patria: onore a cui dalla provvidenza della storia era visibilmente riserbato. Ah non  tutti gl'Italiani sono ciechi e ingrati! Certo il tempo  saprà identificare la coscienza piemontese, che dopo  tanta e così grande storia, fuor di proporzione con la  materiale grandezza di quella nobile provincia, è naturale sia permanente e resista alla grande coscienza politica italiana. E sarà allora galantuomo davvero. Quando ciò sia avvenuto, e che in tutta l'Italia  non vi sarà che una sola coscienza politica, allora non  vi sarà più soltanto una grande nazione, ma un vero  e forte Stato Italiano. L'Io, la coscienza sociale, è adunque il vero e  proprio elemento dello Stato; ed è una funzione puramente formale che domina e modera e modifica la  funzione giuridica, e la funzione morale. Lo Stato toglie  la vita, e turba e invade la proprietà del cittadino;  fa la guerra per esser quello eh 9 egli è, o quel che  dev'essere, e toglie la proprietà, la vita, l’essere indipendente, allo Stato vicino. Tutte cose che l'uomo  privato non può fare, e che gli sono permesse, doverose anche talvolta y quando, divenuto uomo pubblico,  la sua coscienza s' immedesima e si confonde con la  coscienza assoluta dello Stato. Allora è illecito e reo  tutto ciò eh' egli può far nel suo particolare interesse,  ma è lecito e buono tutto ciò che fa in vista dell' interesse generale. La fusione e l'amalgama succede  sempre in una certa misura, ed è tanto pili completa  quanto l'uomo è più alto locato, finche nel capo dello  Stato i due interessi non ne fanno più che un solo. Dal momento che si separano, il tiranno è perduto:  egli allora non è piu lo Stato, è un altro; è un corpo  estraneo contro a cui l'intiero organismo si solleva,  e scoppia la crisi. La crisi, la rivoluzione, è un processo di guarigione. Il morbo è la tirannia, l'anarchia:  forme dello stesso disordine; tutte e due passione e  sfrenato arbitrio; ed anarchia tutt' e due. U&rche non è  né questo, ne quello; né uno, né pochi, ne molti, ne  tutti: l’arche è la ragione.   Il principio dello Stato, la sua vita, il suo vero  essere, non è il giusto, non è il morale, non è l' economico. Tutto questo egli lo contiene in sé; ma come  Stato egli è l'unità consapevole organizzatrice e moderatrice di tutte le forme, di tutti gli organi, di tutte  le funzioni sociali. Questo è lo Stato, e qui finisce l'attività politica,  la vita pubblica; ma qui non finisce la vita umana, e  non è anche tutta la storia. Sotto allo Stato vi è il dritto, la morale, la pubblica economia; ma vi è sopra allo Stato un mondo piìi etereo, piìi,assolutò ed universale che non è il suo;  vi è il mondo dell'arte, il mondo della scienza, e il  mondo della religione. Il mondo della verità è di sopra  al mondo della natura e dell'azione. Lo Stato è l'unità, la coscienza, la forma pili alta, e la pili perfetta e più generale esistenza delle funzioni a lui inferiori. Lo Stato non è che la base e la reale possibilità  delle funzioni a lui superiori. L'Arte è una funzione naturale, e perciò rimane  affatto individuale. Vi è un mondo estetico, ma non  vi è una società artistica: vi sono soltanto degli artisti  e dei poeti ; e la parte dello Stato è di render possibile lo sviluppo del talento estetico, e rispettarne la  spontaneità ed il libero giuoco. Egli non ha dritto  sull'artista se non quando egli abusa e tradisce l'Arte,  ed esce dalla sua natura. L'Arte non è la morale o il dritto, e può essere  immorale e ingiusta a sua posta: ma finché rimane Arte la sua immoralità non contamina, e la sua ingiustizia può esser sublime, atta solo a sollevare e fortificare i caratteri, non mai ad avvilire e degradar  l' animo umano. Ma dal momento che essa esce dalle  sue condizioni di Arte, essa non è pili che immorale  ed ingiusta, e allora lo Stato interviene: interviene in  nome della giustizia offesa, e della morale violata;  funzioni inferiori, che gli sono tutte e due subordinate, ch'egli dirige ed ha in sua tutela. L'Arte non è la religione, e può a sua posta  essere empia ed irreligiosa: ma la sua irreligione è  sublime ispiratrice di grandi e puri pensieri, e di religione vera e pura. Che s' ella trasgredisce le proprie  sue leggi, ed esce dalle sue condizioni vitali, e non  è più che semplice e sguaiata irreligione; in tal caso  lo Stato non interviene. Egli dirige e modera le funzioni che sono al di sotto e dentro di lui, ma non  amministra la verità religiosa che gli è superiore. L'Arte non è la Scienza; è in un certo senso il  suo contrario: che s' ella esce dalla sua natura di senso ideale, e si atteggia a ragione e a idea; tanto peggio  per lei. La Religione è una funzione dirò così spiritiforme: la sua natura è sensibilmente spirituale, ed il suo  carattere è di essere naturalmente universale. Egli è  perciò che mentre l'arte rimane nella sua inconsapevole particolarità, la religione viene a coscienza, e si  forma un Io sociale superiore all'Io dello Stato: e di  fuori e di sopra alla società politica si forma una  società religiosa. Il luogo di questa alta società non è  la terra, è il cielo: l'uomo religioso ha i piedi su questo umile suolo, ma la sua anima è altrove. La sua  funzione è tutta celeste; essa è riflessione e adempimento del destino umano: contemplazione della infinita natura dell'uomo, rappresentata nel mondo infinito della grande fantasia; conseguimento della infinita felicità mediante il possesso dell' infinito della religione.  La funzione religiosa dello Stato è di render possibile  la formazione, e libero lo sviluppo e l'azione, della  società religiosa. La religione non è né scienza, né arte, ne economia, ne morale. Essa può dunque essere a sua posta  inestetica e goffa, creare simboli mostruosi e informi,  miti ributtanti e triviali; PUO PROFESSAR TUTTI GLI ERRORI FILOSOFICI astronomici, teologici, politici CHE VUOLE. Tanto meglio per lei; sarà più creduta, e più stimata  e rispettala. Può la religione professare tutte le assurdità morali e giuridiche che le piace. Può attribuire a Dio  tutte le passioni umane, sopratutto le piu barbare,  e pu perverse e colpevoli, quelle che l'uomo moderno pih si rimprovera, e maggiormente arrossisce  quando se ne lascia sorprendere e dominare. Sarà per  lei tanto meglio: maggiore sarà la riverenza, il terrore  religioso, il timor di Dio. La religione può a suo beneplacito credere ed  insegnare che i figli sieno responsabili dei peccati dei  padri, come lo insegna e lo crede Mosè, in un  tempo ed in un paese in cui non v'E ANCORA IL DIRITTO ROMANO, e il Codice Civile era di là da venire.  Se questo vi fosse stato, non sarebbe venuto in mente  a Mosè una siffatta idea, e non avrebbe insegnato  un così sterminato errore. Quella era pertanto la verità giuridica e la verità religiosa del suo tempo: due  gradi e due forme non per anco distinte, confuse  ancora in una verità sola. Oggi la distinzione è avvenuta: la verità giuridica del Codice Mosaico, convinta e condannata di falsità, è sostituita dalla verità  giuridica del Codice Civile, nel modo istesso che all'astronomia di Giosuè e del Santo Uffizio è sottentrata l'astronomia di Copernico e di GALILEI. Ma come verità religiosa è rimasta in piedi: crede il popolo  ed il comune che l' innocente è colpito col reo dalla  vendetta divina. E si crede anche oggi come tre mila  anni sono il dogma che insegna che la colpa del primo  uomo s' è naturalmente trasmessa a tutti gli uomini. Questo dogma non è che l'applicazione in grande del principio giuridico-religioso di tre mila anni sonò, e  quel che lo rende piti meraviglioso, e perciò più credibile al popolo ed al comune, si è che quella colpa  era la curiosità di sapere, il bisogno di conoscere il  vero : jcolpa grave, imperdonabile agli occhi del dogma  religioso. Un dogma simile viola apertamente il Codice  Civile, e violentemente urta ed offende il 'senso morale; ma non è che una offesa ed una violazione religiosa, e lo Stato non interviene per far rispettare il  Codice Civile ed il senso comune. La rappresentazione  succede in una sfera superiore, e lo Stato ne rende  possibile lo sviluppo e libera la manifestazione, e  la rispetta qualunque ella sia. Ma se l' azione religiosa  esce di questo campo, e deposto il proprio carattere, si  spinge nella sfera dello Stato, e diventa irreligiosamente immorale, ingiusta ed impolitica, allora lo Stato  interviene, e si fa rispettare. Questo inevitabilmente  succede alle religioni che di spirituali si fanno temporali. Peccato è loro e non naturai cosa: di loro è la  colpa e non dello Stato: e perciò tanto peggio per loro. Finalmente, al di sopra dello Stato, e sì dell'Arte  e della Religione, vi è la scienza, LA FILOSOFIA. Ma qui  l'individuo s'identifica e si perde nel puro assoluto  universale, per cui l'Io filosofico non prende alcuna  forma naturale. Non vi è quindi una società filosofica,  vi è soltanto il mondo della filosofia, il mondo del  pensiero, della verità assoluta. Lo Stato non interviene  in nessun caso in questo ultimo empireo: egli né il  dee, né il può; egli è natura, e non ha presa su ciò  che non è naturale. Lo Stato non può entrare nella  sfera della scienza senza disertare la sua, senza perdere  il suo carattere essenziale, e cessar di essere Stato. Lo Stato del decimonono secolo lascerà dunque  insegnare chi vuole, e checché vuole, anche il Prete ed anche il Demagogo? Non già; non mai. Insegnare  non è pensare e recare in mezzo il proprio pensiero;  è invece agire, educare e preparare all'azione, ed  appartiene quindi allo Stato; e insegnare un principio  repugnante e contraddittorio a quello dello Stato, è uno  scalzare lo Stato, che non può certo trovarci il suo  conto. Lo Stato è funzion di essere, di vivere; e nessuno ha gusto di lasciarsi ammazzare, sia di ferro o  sia di veleno; e i cattivi principii sono velenosi allo  Stato. Il principio politico dei Gesuiti è la Religione, la  loro; e quello a cui in ultima analisi tutto mette capo,  ed a cui il cittadino ubbidisce, è l' autorità religiosa. Il  principio dello Stato moderno è invece l'Io, la ragione;  è la coscienza pubblica, la pubblica opinione; e quello  a cui il cittadino ubbidisce, è lui stesso: in ciò consiste la libertà civile.   Il principio del Demagogo è la libertà sensibile,  e l’eguaglianza materiale. Il principio dello Stato moderno è la libertà ragionevole, l'eguaglianza assoluta,  ideale.  Egli è perciò che lo Stato limita e nega la libertà  del Demagogo e del Prete, e li pone tutti e due fuor  dello Stato — né elettore né eleggibile — e fuor della  scuola — né maestro pubblico, né insegnante privato.   Il giornale è una scuola, e non può quindi godere  una libertà illimitata. Ogni cosa ha il suo limite nella  sua propria natura, e la libertà ha il suo limite nella  natura dello Stalo. Questa è la libertà vera e buona,  perchè concreta: la libertà indefinita, astratta, è la  stolta, .assurda, micidiale e pestifera; e perciò lungi  da noi. La libertà non appartiene che alla libertà.  Solo quella stampa, queir insegnamento, e quella qualunque siasi attività dee poter liberamente agitarsi e spiegarsi nella sfera dello Stato, che ne osserva  e professa il principio generale, e vive dello stesso  elemento assoluto. La religione, l'arte, la scienza  non sono assolutamente libere che nel proprio elemento, e nella loro sfera speciale, e qui lo Stato non  può, non dee, non ha facoltà di mettere il piede.  E però quando io vedo un Ministro chiuder la bocca  a un insegnante né demagogo né prete, ma liberale,  perchè professa delle particolari idee che in un certo  mondo — Dio sa che mondo — non sono ricevute ed  accettate; io lo rispetto troppo per dir eh' egli abusa  delle sue facoltà, ma dico che varca il limite, ed oltrepassa la sfera dello Stato : dico che agisce in nome di  un principio particolare, religioso o scientifico, io non  lo so; so soltanto che non è il suo; e non ha come  Stato facoltà di porvi la mano: e che il Ministro mi  scusi, e mi perdoni il Consiglio Superiore.   Lo Stato non è adunque che la possibilità effettiva  e naturale della vita artistica, della società religiosa,  e della pura attività scientifica. La sua funzione consiste nel renderle tutte e tre possibili mediante l'Istruzione e la Pubblica Educazione ; ma non ha ufficio,  e non può altrimenti intervenire nell'arte, a promulgar le leggi del gusto, e prescriver la rettorica e  la poetica mediante decreto: e così non può decretare la verità religiosa. Non vi è, non vi può essere,  una religione dello Stato: cotesto è un controsenso,  un non senso, un errore. Sent from the all new AOL app for iOS  Opere di M. Studi su M. - Opere ed articoli che a lui accennano - Recensioni di suoi scritti »  La vita e la storia del pensiero di M. . La famiglia e i primi anni Nel R. Collegio di Chieti La vita intellettuale a Napoli Le scuole private. Gli studi letterari, filosofici, scientifici M. a Napoli. I suoi studi. La sua scuola privata . Gli avvenimenti a Napoli  Le vicende di M.. Il processo e l'esilio. La dimora in Francia. Il De Meis medico A Torino «quando l' Italia era colà » . M. e i suoi amici: SPAVENTA, SANCTIS, MARVASI. La corrispondenza col De Sanctis. L'attività intellettuale di M. e la sua metempsicosi; M., professore all'Università di Modena. Il ritorno a Napoli M. a Bologna. L'insegnamento. La vita famigliare, sociale e politica. La morte. Il testamento La personalità di M. Lo svolgimento del suo pensiero. Perchè la sua opera è frammentaria I momenti di sviluppo del pensiero di M. Il Dopo la laurea. La storia della filosofia esposta dal M.. L'antichità o il periodo dell' oggettivismo. Il passaggio dall' oggettività alla soggettività. La filosofia moderna o soggettiva La filosofia hegeliana giudicata da M. Rapporti fra medicina e filosofia. La medicina hegeliana . Influenza dell'hegelismo sulla scuola medica napoletana. M. e gli altri hegeliani di Napoli. Limite tra la fisiologia e la metafisica, Le opere scientifiche e la filosofia della natura. .Il Dopo la laurea e l’orientamento filosofico. Gli scritti scientifici, Lettere geologiche sul M. Majella negli Abruzzi, Sul sessualismo e la fecondazione delle piante in coerenza alle dottrine della morfologia, Saggio sintetico sopra 1' asse cerebro-spinale e la diagnosi delle sue malattie per rispetto alla loro sede. Intorno l'asse cerebro-spinale. Considerazioni anatomiche sul salasso locale Teoria dell'ascoltazione Dello stato e del carattere attuale delle scienze naturali; Nuovi elementi di fisiologia generale speculativa ed empirica; Del principio vitale; Idea della fisiologia greca;  Le opere scientifico-filosofiche; Idea generale dello sviluppo della scienza medica in ITALIA nella prima metà del secolo. Del metodo delle scienze mediche ( Considerazioni sopra l'infiam.   Il momento rivoluzionario e il momento moderato del De Meis. L'evoluzione delle sue idee politiche e la trasformazione del partito liberale italiano li. L* idea dello Stato. Lo Stato come campo libero all' arte, alla religione, alla scienza e alla filosofia. Lo Stato e l'indi- viduo. Stato e nazione. Stato oggettivo e Stato soggettivo. Il limite dello Stato; L'idea della sovranità. Il culto per la dinastia Sabauda .La lotta contro il pensiero e contro 1' azione del partito progressista. Il suffragio universale e lo scrutinio di lista. II giurì. La legislazione e le ingiustizie sociali. Il socialismo secondo M.  Contro l'abolizione della pena di morte Il divorzio. La donna I rapporti fra lo Stato e la Chiesa. L'abolizione delle cor- porazioni religiose. Le corporazioni religiose e l' insegnamento. Le spese del culto e i culti non cristiani. L' Italia e il papato; Lo Stato e l'istruzione pubblica. Insegnamenti obbligatori e insegnamenti facoltativi. I tre gradi di ogni insegnamento scien- tifico. Le facoltà universitarie. Il liceo Magno e l' istituto tecnico  inazione dei vasi sanguigni.  I mammiferi. Fisiologia. Prelezione al corso di fisiologia dato nella R. Università di Modena nell'anno scoi. Gl'ippocratici e gli antippocratici Lettere fisiologiche Le opere scientifico-filosofiche La jatrofilosofia. La medicina sperimentale. La medicina storica o razionale. La medicina religiosa. La natura medicatrice. La patologia storica IV. Jlncora il terzo periodo. La filosofia della natura. La creazione secondo M.. La lotta di M. contro la teoria darwiniana. Il suo metodo trimorfo. La dimostrazione dei suoi principi. L' accidentale e il necessario nella sua concezione filosofica. Le idee politico-sociali e pedagogiche.  medico. L'insegnante unico. Gli esami. La libertà d'insegnamento. I malefici della cattiva coltura e di Mazzini. Due discordi Sacerdoti d'idee: M. e il Mazzini. Le idee estetiche e religiose. La coltura letteraria. Il suo stile. Il suo epistolario. I suoi giudizi sulla terminologia scientifica, sulla lingua italiana, sull' affratellamento delle lingue e sull' uso del fran- cesismo. M. critico letterario II. La profonda religiosità del De Meis. La sua negazione di un Dio personale e la sua critica del Dio cartesiano, dell' antinomia kantiana e dei dogmi dei Santi Padri. Il suo giudizio sui culti non cristiani, sul cristianesimo e sulle varie forme di esso III. La «metempsicosi» dell'arte e della religione nella filosofia secondo M.. La storia del genere umano: oriente, antichità, tempo moderno o cristianesimo. Il tempo moderno : medio evo, risorgimento, secolo XIX. Il mondo latino e il germanico. Il risorgimento o negazione e i suoi prodotti : il romanzo, la filosofia positiva, la musica. Il secolo XIX e l' unificazione di tutte le correnti umane. La religione e l'arte considerate come gradi e forme del vero. Valore degli argo- menti storici e logici addotti da M. Ottimismo e misticismo del De Meis. Rapporti tra il suo hegelismo e il suo misticismo e la sua mentalità scientifica. Significato e valore della sua filosofia della natura. Lettere geologiche sul Monte Majella negli Abruzzi, nel Lucifero, Gior- nale scientifico - letterario - artistico - industriale, Napoli, Filippo Cirelli, Anno IV, Uomini utili alla società: Samuele Pierantoni, nel giorn. // Vigile di Chieti, Sul sessualismo e la fecondazione delle piante in coerenza alle dottrine della morfologia. Memoria letta alla classe fisico-matematica della Reale Ac- cademia bavara delle scienze dal Prof. Martius, dal tedesco voltata in italiano da M., nel «Filiatre-Sebezio» Giornale delle scienze mediche diretto e compilato dal cav. Salvatore De Renzi, Napoli, Tip. del Filiatre-Sebezio, Saggio sintetico sopra l'asse cerebro-spinale e la diagnosi delle sue malattie, per rispetto alla loro sede di A. C. De Meis socio dell'Accademia degli aspiranti naturalisti e medico aggiunto dello Spedale degl'Incurabili. Presentato al 5° congresso degli scienziati italiani - convocato in Lucca. Na- poli, Coster.  Intorno l'asse cerebrospinale. Memoria di Giuseppe Meneghini tradotta dal latino da A. C. De Meis per cura e per uso dello studio privato del prof. Pietro Ramaglia, Napoli, Barnaba Cons, Considerazioni anatomiche sul salasso locale, presentate al VII Congresso degli scienziati italiani celebrato in Napoli, Napoli, Stab. Coster, Teoria dei fenomeni acustici della respirazione, Napoli, F. Vitale,  [Dedicato a Luigi La Vista]. Teoria dei fenomeni acustici della circolazione, citato dall'Autore in Teoria dell'ascoltazione, Torino, Pomba, p. Vili [La Teoria dell'ascoltazione (v. infra) riunisce sotto un titolo comune questa dissertazione e la precedente]. Dello stato e del carattere attuale delle scienze naturali. Discorso di M. presidente dell'Accademia dei naturalisti di Napoli - detto nella pubblica adunanza, Napoli, Stab. tip. all'insegna dell'Ancora, M. deputato di Abruzzo Citra agli elettori della sua provincia, Napoli. Discorso inaugurale di A. C. De Meis neli'assumere l'ufficio di rettore del Collegio Medico. Pronunziato  e pubblicato dagli alunni del Collegio Medico, Napoli, F. Vitale, Proposta di un nuovo sistema di insegnamento pel Collegio Medico. Napoli, Federico Vitale, Discorso di A. C. De Meis ex-rettore del Collegio Medico nel deporre il suo ufficio, Napoli, Vitale,  Nuovi elementi di fisiologia generale speculativa ed empirica. M. già deputato al Parlamento. [Manifesto]. Nuovi elementi di fisiologia generale speculativa ed empirica di M. già deputato al Parlamento Nazionale. Del principio vitale. Napoli, F. Vitale, Lezioni orali, raccolte per cura degli uditori ed amici dell'Autore, e, lui assente, da essi pubbli- cate ». (Cfr. la bibliografia che precede la Teoria dell'ascoltazione, To- rino, Pomba). Sono nove lezioni, dedicate a Pietro Ramaglia].   Chiarimenti al teorema di Hamberger sull'azione dei muscoli intercostali, Napoli,  Fisiologia generale. Evoluzione logica del principio vitale. Idea della fisiologia greca per A. C. De Meis ex-deputato, Napoli, Stab. tip. all'insegna dell'Ancora, [Dodici lezioni in conti- nuazione dei Nuovi elementi ecc.]. Teoria dell'ascoltazione, Torino, Cugini Pomba e comp. edit., Idea generale dello sviluppo della scienza medica in Italia nella prima metà del secolo. Note di A. C. De Meis. Torino, Tip. Pavesio e Soria. [Dedicate alla memoria di Luigi La Vista e di Casimiro De Rogatis]. Del metodo delle scienze mediche. Lettera al professore Carlo Demaria, To- rino, in Giornale della R. Accademia medico-chirur- gica di Torino, anno VII, voi. XX, Torino, Favale Considerazioni sopra l'infiammazione dei Vasi sanguigni nel Giornale della R. Accad medico-chirurgica di Torino, Tip. di G. Favale e Compagnia, Torino,Torino, Torino,  [Nella seconda, nella terza e nella quarta puntata il titolo è : Considerazioni sopra la flogosi dei Vasi sanguigni. Nella quinta puntata e nelle successive il titolo è : Considerazioni critiche sopra la flogosi ecc.]. / mammiferi,Torino,Tip. del Picc. Con. d'Italia. L'opera è preceduta da un'affettuosa lettera dedicatoria « al professore Francesco De Sanctis a Zurigo. Sulla copertina dei Mammiferi si legge: « Quest'opera si com- porrà di tre volumi : il primo conterrà YIntroduzione, il secondo i Generi, il terzo le Specie dei mammiferi, e sarà pubblicata a fascicoli di circa 5 fogli a ragione di centesimi trenta per ciascun foglio. Tutta l'opera sarà composta di circa 70 fogli... »]. Fisiologia, Torino, Franco, Estratto dalla Nuova enciclopedia popolare del Pomba).  Gl'ippocratici e gli antippocralici, nella Rivista contemporanea, Torino, dalla Società l'Unione tip. editrice, Lettere fisiologiche. Lettera I, nella Rivista contemporanea, Torino, dal- l'Unione tip. Editrice. Definizione della vita], . [Il De Meis, sotto la data di Modena, espone l'idea del corso di fisiologia iniziato in quella Università « e che con dispiacere sono ora costretto ad interrompere ». Cfr. infra: Prelezione al corso di fisiologia ecc.]. Agli elettori di Manoppello, (ppNapoli Prelezione al corso di fisiologia dato nella R. Università di Modena nel- l'anno scolastico Napoli, Stabil. tipogr. di T. Cottrau,  Il Collegio Medico-chirurgico di Napoli e la « Monarchia nazionale », Na- poli, Stab. tip. F. Vitale, [Polemica anonima contro il giornale la Monarchia nazionale. Reca la data del 2 gennaio 1862]. Degli elementi della medicina, Prelezione di M. professore di storia della medicina nella R. Università di Bologna, Bologna, Monti, Della natura medicatrice. Lettera prima al prof. Cesare Taruffi, in Bullettino delle scienze mediche pubblicato per cura della Società medico-chirurgica di Bologna. Bologna, Tipi Gamberini e Parmeggiani, La chimica fisiologica, Lettere, Fano, nel giornale L'Ippocratico). [Sono due lettere: I. La vita; La chimica inorganica. - l De Meis si era proposto di scriverne dodici, e di pubblicarle pei tipi del Le Monnier. Questi insistette molto, anche per mezzo di Marianna Florenzi-Waddington, per averle dall'Autore ; ma invano]. / naturalisti, Dialogo 1°, nella Civiltà Italiana, Firenze, Niccolai, dir. da A. De Gubernatis, La natura a volo d'uccello : Forza e materia, Dialogo, nella Civiltà Italiana, Firenze, Niccolai, dir. da A. De Gubernatis,  La natura a volo d'uccello: Un nuovo corpo semplice, Dialogo, nella Civiltà Italiana, Firenze,  [Questo dialogo e i due pre- cedenti sono citati nei “I Tipi animali” col titolo: “I tipi naturali.”   De Meis deputato di Chieti ai suoi elettori, Bologna, Monti,Reca la data: Bologna tipi VegetaU. Ad uso delle scuole italiane, Bologna, Monti,[È, dedicato alla contessa Teresa Gozzadini]. Lettere [il testo: lettera] sulla patologia storica. Lettera I. Si dimostra che l'uomo era in origine assolutamente sano. Estr. dal Bull, delle scienze mediche di Bologna,  Delle prime linee della patologia storica, Prelezione al corso di storia della medicina per M., Bologna, Monti,  Il sovrano, nella Rivista bolognese, periodico mensuale di scienze e letteratura, compilato da Albicini, Fiorentino, Siciliani e Panzacchi, Bologna, Monti, [Ristampato, con notizie e documenti della polemica a cui lo scritto diede luogo tra Carducci e Fiorentino, da CROCE, nella Critica, Vili Dichiarazione nella Gazzetta dell'Emilia,  [Si riferisce alla polemica ora accennata. Fu pubblicata anche nel giornale La Patria di Napoli, a. Vili; e fu ri- stampata dal CROCE, nella Critica, Vili sovrano. Al signor G. B. Tahiti. [Articolo Il|, nella Rivista bolognese, Bologna, Monti,  [È una lettera, con la data: Bologna.  Dopo la laurea - Vita e pensieri [parte prima|, Bologna, Monti, Bologna, Monti, Le prime cinque lettere erano state pubblicate qualche anno prima nel giornale L'Ippocratico di Fano. L'Intermezzo pubblicato nella Rivista bolognese, prima della pubblicazione del volume]. La natura medicatricc e la storia della medicina, Lettera al prof. Salvatore Tommasi, Bologna, Monti, (Estratto dal fase. 8° della Rivista bolognese, Bologna. [Fu pubblicata anche nel Morgagni, Della medicina sperimentale, Prelezione, Bologna, pubblicata anche nel Morgagni di Napoli, Lo Stato, nella Rivista bolognese, Deus creavit, Dialogo I, nella Rivista bolognese, Della utilità dello studio della storia della medicina, [Prelezione], Estratto dalla Rivista Partenopea Testa e Bufalini. Lettere IV, Fano, Lama, 1870 (estr. dall'Ippocratico). Sintesi ed episintesi, Prelezione, Bologna, Monti, Pubblicata sotto il titolo di « Prelezione » nei Tipi animali.  I tipi animali, Lezioni, [parte prima], Bologna, Monti,  [La Prelezione era 3 stata pubblicata prima (v. Sintesi ed episintesi). La lezione fu pubbl. nel Giornale napoletano di filosofia e lettere, dir. da Spaventa, F. Fiorentino e V. Imbriani, col titolo: I tipi animali (Da Linneo a Darwin)]. Prenozioni, Bologna, Tip. di G. Cenerelli, Del concetto della storia della medicina, Prelezione, Bologna, Monti, La medicina religiosa, Prelezione, Bologna, Monti,pubblicata anche nel Giornale napoletano di filosofia e lettere, scienze morali e politiche, diretto da Fiorentino). All'onorevole signor commendatore Gaspare Monaco La Valletta senatore del Regno, presidente dell'Associazione costituzionale di Chieti, Bologna, Monti, [È, una lettera, con la data: Bologna,  Il canonico di Campello e la stampa tedesca, nella Gazzetta dell Emilia,  [Anonimo. Si finge tradotto dal tedesco]. La malattia dell' on. Sella, nella Gazzetta d'Italia, [giorn. di Firenze],  [Anonimo]. Agli elettori del 1° Collegio di Chieti, Bologna, Monti, Filosofia e non filosofia, Discorso inaugurale per la riapertura degli studi nella Imperiale Accademia di Krenztburg del dott. E. K. Mayow, prof, di zoologia in detta Università, tradotto dal tedesco, Bologna, Monti,  Francesco De Sanctis, Bologna, Fava e Garagnani [Estratto dai nu- meri 8-11 della Gazzetta dell'Emilia, opuscolo di pp. 18, in -16°, firmato « Camillo ». Ristampato nel volume In memoria di Fr. De Sanctis, Na- poli, Morano, XVII Spaventa [Necrologia di], nella Gazzetta dell'Emilia (Monitore di Bologna). Fiorentino, Necrologia, Bologna, Fava e Garagnani, [Estratto dalla Gazzetta dell'Emilia, Opu- scolo. Spagnolismi e francesismi. Note di Ange i Antonio Meschia maestro elementare in Zangarona Albanese, Bologna, Monti. Darwin e la scienza moderna, Discorso del prof. Camillo De Meis per la solenne inaugurazione degli studi nella R. Università di Bologna nell'anno scolastico,  Bologna, Monti. [Stampato anche neWAnn. della R. Univ. di Bologna]. Rialzare gli studi, Estratto dal giornale L'Università, Bologna, Società Tip. già Compositori, (pp. 12, in -8°). Repubblica o monarchia (Da un album), nel Sancio Panza, Bollettino quo- tidiano di Bologna, stampato e redatto nella sede dell'Esposizione Emiliana, N. Primo; segue una polemichetta nel giorn. cit. numeri  [La pagina d'album e la polemica furono ripro- dotte in un opuscolo, edito a Bologna, Fava e Garagnani,]. Corso di storia della medicina nella Università di Bologne - Appunti sul- l'introduzione al corso e sulla medicina orientale, nell'Università, Bo- logna, A. Idelson, . [Uscì pure in un opuscolo, estratto dall'Università, Bologna, Azzo- guidi]. Lettere di M. a Spaventa, pubbl. da G. GENTILE, Napoli, Melfi e Joele, 1901, per nozze Salza-Rolando [Tre lettere ed un telegramma di M. sono state pubblicate in Maria Teresa di Serego-Allighieri Gozzadini, seconda edizione ampliata con pref. Di CARDUCCI, Bologna, Zanichelli, (la prima è la dedicatoria dei Tipi vegetali); una lettera da G. CANEVAZZI, Autografi inediti pubblicati per le auspicatissime nozze del tenente nobile Orazio Toraldo di Francia con la gentile signorina Gina Mazzoni, celebrate in Firenze il III luglio MCMXI, Modena, Soc. tip. Modenese. Altre lettere di M. sono state pubblicate da CROCE nel volume Silvio Spaventa - - Lettere scritti documenti, Napoli, Morano, 1898; e negli articoli su // De Sanctis in esilio - Lettere inedite, nella Critica, ed una in FRANCESCO De SANCTIS, Lettere da Zurigo a Diomede Marvasi, Napoli, Ricciardi, Il Croce preparava anche, sin dal 19i4 ('), un florilegio del carteggio inedito del De Meis per gli Atti dell'Accademia Pontaniana. Molte lettere del De Meis sono possedute da Bruto Amante, e saranno probabilmente pubblicate a spese del Consiglio Provinciale di Chietij). La religione cristiana è già distrutta nel mondo civile latino. Vive solo nell'ancor barbaro mondo germanico. La riforma è il secondo medio evo germanico. Il soprannaturale non illude più. All'epica religiosa del medio evo, ed all'epica giocosa del risorgimento, parodia generica del -- Questo pensiero risulta dalle pagine del Dopo la laurea, pur senza  esservi enunciato esplicitamente, e chiarisce le apparenti contraddizioni notate  dal GENTILE, La filosofia in Italia,  Le idee estetiche e religiose -- soprannaturale nel principio, poi caricatura smaccata e cinica  della religione, succede la drammatica senza soprannaturale. La distruzione è compiuta in Italia; in  Francia erano irreligiosi i pochi uomini colti, ma la nazione  era incolta, e per questo la riforma potè attecchirvi, come vi  attecchì nel secolo XVII il giansenismo, una riforma mitigata; ma nel secolo XVIII la Francia, divenuta centro di  coltura, fu anche centro di incredulità. Il secolo XVIII è il  secolo della filosofìa sofistica e negativa. Alla tragedia di Voltaire, priva di vita poetica quando ha per fine l'irreligione, ed a quella dell' Alfieri, in cui tutto è umano e  naturale, succede la lirica moderna, che non lascia alcun  margine fra sé e l'assoluta riflessione, e giunge all'ultimo  limite della poesia. Anche in Germania, in parte  per riflessione spontanea e in parte per influenza del risorgimento italiano divenuto sudeuropeo, si è iniziato il  risorgimento, che DIFFERISCE DAL LATINO in quanto non è la  semplice rappresentazione del naturale, ma la negazione del  soprannaturale, rappresentata e sviluppata nelle sue conseguenze. Secondo M., i due risorgimenti, IL LATINO e  il germanico, che già nel sec. XVII reagivano l'uno sull'altro, si fondono in un solo risorgimento, un solo  mondo di poesia e di pensiero, in cui la religione, divenuta  indifferente, è appunto per questo perfettamente tollerata.  E a questa fusione delle due Europe in una sola Europa  spirituale seguirà certo fra non molti secoli la fusione in una  sola Europa giuridica e politica.   Il secolo XIX durerà finché duri l'uomo. S'inizia nel  secolo XVII, quando a lato a Bacone — che mettendo fin  da principio fuori causa lo spirito non lo ritrova più in seguito, e nega la possibilità di conoscerlo, consolidando la  opera del risorgimento negativo, — sorge Cartesio, che con   [Dopo la laurea, [Le idee estetiche e religiose.] verte subito il dubbio nell'intima certezza di sé, del pensiero del suo pensiero, Il vangelo di Gesù è quello del  cuore, il vangelo di Giovanni quello della fantasia, il Discorso del metodo è il vangelo dello spirito. Tu es Petrus. Il cogito cartesiano è la pietra su cui sorgerà la vera Chiesa cattolica, un edifizio che avrà le proporzioni dell'universo  ed accoglierà tutto il genere umano, destinato a formare un  solo ovile sotto un solo pastore, il pensiero. Dopo Cartesio, il moderno Anassagora, viene Kant, il Socrate moderno,  che leva di mezzo la metafìsica e la natura, e parla dello  spirito, uno spirito fenomenico sì, ma dal quale egli fa scaturire la vita, la virtù, la morale, attribuendo alle cose dello  spirito un pregio infinito. Vero è che questo infinito, questo  divino, questo assoluto e universale non è che individuale.  Ma solo per Socrate. Dopo di lui viene Platone — leggi  FICHTE —, che con profonda intuizione vede come l'universale e il particolare di Socrate si compenetrino in una sola  unità. E dopo Platone viene Aristotele, viene Hegel, che nulla concede alla intuizione e alla fantasia, procede con rigore, esattezza e precisione, tanto che il suo regno non  durerà solo diciotto secoli, come quello dell'antico Aristotele, ma diciottomila, o meglio finché duri questo attuale  genere umano.Hegel, ponendosi nella posizione di  Cartesio, rifa per intero il processo della conoscenza e trova  il processo della creazione. Questo grande movimento, che si compie nel nord, si  era iniziato nel sud; ma il sangue di BRUNO (si veda) era stato versato invano ed VICO (si veda)  non era stato compreso da nessuno, [Pel giudizio di M. circa il sistema cartesiano, v. qui addietro,  ; e cfr. Cfr. qui addietro, V. Dopo la laurea,   Le idee estetiche e religiose.] un po' per colpa del papato e molto più pel carattere delle loro creazioni, che sono intuizioni isolate del genio, più  che momenti di uno sviluppo storico ordinato e necessario. La storia della filosofia moderna è una storia tutta settentrionale. La Germania è la nuova Grecia europea. Nel MONDO LATINO non giunge che tardi l'eco indebolita e sfigurata della  grande filosofia. Cartesio, il padre della filosofia moderna,  non procede da BRUNO, non è inteso da VICO, né da GIOBERTI finché egli non si e “spapificato. Spinoza fa rabbrividire l'Italia e la Francia. M. ritene che a  Napoli si fosse sempre conservato, in mezzo al risorgimento,  un fil di tradizione di BRUNO e di VICO: la quale, così  guasta e superficiale come era diventata nelle mani degl’avvocati, pure erstata bastante a farne un paese a parte;  ma crede che i germi gettati dalla filosofia italiana avessero  germogliato in Germania. SPAVENTA si era molto  preoccupato del problema della filosofia nazionale. E M. accoglie in questo proposito l'opinione del suo Bertrando, da lui ritenuto il primo filosofo vivente dell'Italia,  e forse di tutta l'Europa, la Germania inclusive  Ora  che la storia della filosofia moderna sia concentrata tutta esclusivamente nella sola Germania — concedendo soltanto un posto al cogito cartesiano — è una opinione che Spaventa, e a traverso Spaventa M.,  accettano dai romantici tedeschi. Ad essi, e a tutti coloro  che hanno fede assoluta di essere nel vero, il nostro Autore  rassomiglia anche in questo, che il valore di ogni singolo  filosofo è per lui in ragione diretta della distanza che lo  [SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con  la filosofia europea, a cura di G. GENTILE, Bari, Laterza, e Frammenti di studi sulla filosofia italiana nel secolo XVI, nel Monitore bibliografico di Daelli, Torino,  V. Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] separa dalla sua propria concezione. Caratteristici in questo  proposito i giudizi circa SERBATI e la evoluzione del  pensiero giobertiano. Dopo Hegel, secondo M., religione e poesia  cedono in Germania il posto alla teologia e all'estetica. Nel MONDO LATINO la tradizione cartesiana si è dispersa; è rimasto  padrone del campo il risorgimento sofìstico, ateo e negativo. Ma l'uomo non può vivere senza un Dio, e il tempo moderno, quando il risorgimento ebbe distrutta la religione cristiana, si volge al passato, al medio evo sacerdotale e simbolico, e moltiplica gli sforzi per creare una nuova religione. Sforzi vani, che la religione cristiana, religione di  Dio, del vero spirito, della sua trinità, della sua umanizzazione, è l'ultima di tutte le religioni, e solo potrà trasformarsi e purificarsi. Mentre questi vani sforzi si compiono nella Germania  volgare — non in quella pensante —, nel sud, dove un elemento pensante manca, la parte più elevata, non però pensante e moderna, tardivamente inaugura il secolo XIX: è  un secolo XIX non filosofico, perchè non è rischiarato che  da un debole raggio di riflessione ; è pseudo-religioso e  pseudo-poetico; si apre col Concordato e col Genio del Cristianesimo, parti infelici della riflessione travestita da immaginazione. La riflessione, non avendo piena coscienza di  sé come nel mondo germanico, coesiste nel MONDO LATINO a  fianco alla poesia; e dà origine ad una pseudo-epopea, al  romanzo, genere ibrido, anfibio, tra la storia e la finzione,  tra la poesia e la prosa, tra l'arte e la scienza. Il romanzo,  genere equivoco, compare per la prima volta nel principio  del secolo XIX dell' antichità, ricompare nel nostro se [Dopo la laurea, [Dopo la laurea, Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] e rinasce in Germania, col Goethe, genio equivoco,  tra la poesia e la prosa, in cui l'universo si riflette tutto intero;  si sviluppa in Inghilterra, paese equivoco, tra latino e germanico, e raggiunge la sua perfezione in Italia, paese equivoco anch'esso, mezzo liberale e poetico e mezzo prosaico e papale, e precisamente in un uomo, come Goethe a cui  somiglia, equivoco: MANZONI. Si osservi che M., una volta stabilito che il  romanzo è un genere equivoco, trova che sono equivoci tutti  gl’individui e tutti i popoli presso i quali il romanzo fiorisce, prendendo — si noti — la parola equivoco nella accezione di misto e complesso, sì che ad ogni popolo e ad ogni  individuo potrebbe indifferentemente applicarsi. Dopo Scott e MANZONI, il romanzo perde il  carattere epico, e diventa sempre più storico, riflessivo e  prosaico con l'Hugo e con la Sand, finché in Kock e  Poe la prosa assorbe ed avviluppa in se la poesia. Nel risorgimento moderno, come nell'antico, la lotta comincia antireligiosa e finisce antifilosofica: prima la riforma,  uno scetticismo che distrugge 1' Olimpo cattolico ; poi il  deismo, uno scetticismo più progredito; infine l'ateismo, uno  scetticismo assoluto, la pessima delle filosofie. E non è  finita ancora la triplice serie, osserva M., fedele  sempre alle sue triadi. La Germania è per tre quarti protestante; la Francia è prevalentemente deista, e in parte atea. L’ITALIA HA UNA VENTINA DI MILIONI D’ANALFABETI, TUTTI PAPO-TEMPORALI; i semi-analfabeti sono in gran parte demagoghi.   Il risorgimento produce quella filosofia che è la bestia  nera di M., la filosofia positiva. E la filosofia che gli  ha preso fra i suoi artigli, strappandolo alla fede hegeliana, un caro amico — rimasto tale malgrado la irreconci[Dopo la laurea,  Le idee estetiche e religiose.] liabile opposizione delle opinioni filosofiche. Villari, al quale così frequenti e amichevoli frecciate sono  dirette nel Dopo la laurea; e la filosofia che accoglieva  la teoria dell'evoluzione del Darwin; e la filosofia opposta  alla hegeliana nel principio, nella essenza, nel metodo. Mai  M. si lascia sfuggire una occasione di combatterla :  trova che la filosofia scettica dichiara irraggiungibile la natura delle cose; ma la filosofia nuova, la filosofia positiva o  iperscettica, non ne fa neppur materia di dubbio o di discussione, ed è una filosofia dell'apparenza, cioè una filosofia  antifilosofica. Il risorgimento iperscettico non può trovare  la verità, perchè ha l'occhio sempre rivolto alla natura esterna,  e non mai alla natura interna, al pensiero dell'uomo, che è  la verità stessa. Secondo M., la filosofia sedicente  positiva è di fatto negativa, poiché nega il negabile, la conoscenza dell'essenziale, e non pone che la conoscenza dell'apparente, del reale e dell'accidentale, che nessuno ha mai  pensato a negare. Questa pseudo filosofia si sviluppa come la vera. Il primo  atto è il principio. La scena è in Italia: TELESIO scopre l'apparenza come principio. Il secondo atto è il metodo. La scena  è dapprima in Italia, poi in Inghilterra; il metodo galileo-baconiano, ovvero induttivo sperimentale, ha due parti: la  descrizione e la legge dei fenomeni. Il terzo atto è il sistema,  che ha pure due parti: la classificazione e la filiazione dei  fenomeni. La filosofia positiva è una terza corrente, che si caccia  fra la corrente poetica e la filosofica, ed è il sangue della  [Dopo la laurea, passim; cfr.  VlLLARI, La filosofia positiva e il metodo storico, nel Politecnico  di Milano; e SPAVENTA, Scritti filosofici, nota, per quanto si riferisce alle critiche mosse a questa pubblicazione dal WYROUBOFF, dal MAIANI, dal FIORENTINO, dal TOCCO. Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose] filosofia; l'osservazione e l'esperienza ne è lo stomaco; l'induzione baconiana il polmone sanguificatore. La legge positiva il torrente della circolazione. Ed essa, la filosofia, è il  cervello, in cui il sangue positivo diventa anima e pensiero  speculativo. Giorno verrà in cui lo stomaco baconiano non  avrà più nulla a digerire, né il polmone a respirare; e la  natura divenuta tutta sangue circolerà dentro dell'uomo. Allora questa terza corrente, tutta e sempre prosaica, sarà divenuta un mare, ed avrà confuse le sue acque col mare della  religione, della poesia e della filosofia. La terza parte del gran dramma della filosofia cristiana  è il tempo nuovo. Dopo la riflessione negativa del risorgimento, la filosofia moderna, come ogni filosofia, muove alla  ricerca di un principio. Il nuovo Talete è BRUNO; il  nuovo Pitagora è Leibnitz. Per passare dal naturalismo dinamico di BRUNO e dal neo-pitagorismo e, per così dire, dall'atomismo ideale leibnitziano, dal principio naturale al principio umano, occorre un nuovo Anassagora, e venne Cartesio. Il principio cartesiano, come tutte le cose del mondo,  nasce non perfetto; in Cartesio è uovo o tutt' al più embrione. Il secondo atto della filosofia moderna si volge  al metodo. Nel perfezionare il metodo antico, l'antica dialettica, proporzionatamente alla più perfetta natura del principio moderno, e nell' esplorare più completamente il principio, consiste il lavoro del secondo atto del secolo XIX,  che termina poco dopo la fine del secolo XVIII. L'atto terzo  è il sistema, è il principio di Cartesio e dello Spinoza, del  Kant e dello Schelling, corretto e metodicamente sviluppato.  Ed è nella sua essenza, se non nella sua esecuzione, il sistema più compiuto e perfetto, ne altro ve ne potrà mai essere in eterno. Il principio è il germe e l'assoluta possibilità  dell'universo, ed è quindi uno, come uno è l'universo; tutti   [Cfr. qui addietro,  Le idee estetiche e religiose.   i principi a traverso ai quali la riflessione greca è passata  non sono che le forme e i gradi della sua cognizione. E  uno è per conseguenza il metodo : e quando si giunge a un  punto nel quale il principio contiene in se il tutto % e il metodo  si confonde col processo evolutivo del principio, e il sistema  è il tutto spiegato; quando la filosofìa giunge a comprendere  il creante e il creato in un attivo processo di creazione,  non ha più dove andare, a meno che non voglia indietreggiare,  come fa la Grecia dopo Aristotele, o uscir dell'universo. E  se il tempo moderno non vuole indietreggiare, bisogna che si  contenti del suo nuovo Aristotele. Non è possibile un terzo  Aristotele, perchè il tempo antico ha ricevuto nel moderno il  perfezionamento essenziale, il solo di cui fosse capace : di oggettivo è diventato soggettivo, di totalità immobile vivo processo di cognizione e di creazione. Vivo di riflessione filosofica, non d'immaginazione. Un sistema, per concreto che sia, è  sempre un'astrazione, e l'astrazione è la morte dell'anima  umana. L'anima vive finché la fa, ma quando l'ha fatta, quando della realtà vivente, ossia di se stessa, ha composto quell'estratto che si chiama pensiero filosofico, allora l'azione si  arresta, e con l'azione è finita la vita. Quando Aristotele creato un grande sistema, perfetto e compiuto per l'antichità,  lo spirito antico vi si chiude come in un sepolcro per secoli ;  e torna alla vita solo quando ricomincia a sentire e a fantasticare. Quando la Germania crea il vero sistema  del mondo, e recata la religione cristiana nella forma di un  cristianesimo assoluto, allora la vita si congela nell'astrazione, e lo spirito germanico rimane assiderato. Ma presto  si scuote, e, brancolando nel buio dell'astrazione hegeliana,  trova il risorgimento negativo ed ateo ed il risorgimento negativo-positivo. Congiungendosi col primo, produce mostri  filosofici ed aborti strani; col secondo la medicina naturali- [Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] stica e la storia naturale materiale. Ma la Germania materialistica e naturalistica è più morta della Germania hegeliana. Come la pura riflessione, così la pura contemplazione  è la morte. La vita è pensiero apparente, è unità di riflessione e di contemplazione, di metafìsica e di filosofìa positiva, di poesia e di filosofìa. La storia universale è una sequela di creazioni, identiche  fra loro quanto al ritmo e alla legge, sempre più pure e  perfette quanto al contenuto, che comincia dalla pura forma  dello spazio, e termina nella forma più pura del tempo. Ogni  creazione ha come fine la creazione successiva ; ciascuna vive  di quella dalla quale nasce e serve di alimento a quella a  cui dà origine, che le si sovrappone e l'avviluppa in se stessa,  senza distruggerla. Così dalla natura nasce il regno vegetale,  da questo l'animale, dall'animale l'uomo finito e particolare,  e da questo l'uomo universale. Tutto questo è il regno umano  inferiore, e tutto si spiega nella forma dello spazio, e coesiste come nella natura. L'uomo di sopra, il regno umano  universale, ha esso pure la sua storia, ed è una serie di  sfere, che l'uria avviluppa l'altra; prima l'arte, poi la religione, poi lo spirito, che universalizza la natura, e dà valore  assoluto e infinito al particolare e al finito. Tlàvta qsI . Eterna è solo l'idea ed immortale è soltanto  la natura. Come la natura, così l'uomo, lo spirito umano,  natura anch'esso, ha una legge inflessibile e costante. « Sono  due nature diverse, certo, e ciascuna ha la sua legge particolare e propria, ma in fondo è una natura sola, ed una sola  legge naturale. Le forme e gli elementi naturali ed  umani sono del pari indistruttibili, e la legge comune della  loro attività è immutabile: nascere, crescere, decadere e  perire è destino comune agl’uomini, agl’animali, alle piante  Dopo la laurea, I tipi  animali, Le idee estetiche e religiose.   e ai sistemi planetari. Ma gl’elementi della natura sono  l'uno fuori dell'altro, e anche quando si combinano non si  compenetrano. Quelli dello spirito sono compenetrati ed intimamente unificati, ne mai si scompagnano nella realtà, variando solo quanto alla proporzione. E il prodotto piglia forma  e natura dall'elemento preponderante e più attivo. La natura  è come una scala a piuoli. Lo spirito come una scala a corda,  che raggiunta la meta si raggruppa in se stessa. Nell'uomo-cosmos gl’elementi spirituali sono tutti in  uno stato di assoluta quiete e di completa indifferenza. Solo  il genio, l'immaginazione e attiva da principio. Poi entra  in attività il senso. Anche la natura, poiché si muove, deve  avere il senso naturale, nella forma inferiore di senso chimico  ed in quella superiore di senso meccanico. Poi l'uomo di  sistema solare si fa pianta. Nella pianta l'unico elemento  spirituale attivo è il senso chimico. Nell'animale v'è il senso  meccanico in nuove forme; v'è un arco diastaltico, di cui  l'impressione, il senso naturale è il primo atto, e l'ultimo è  il movimento, la contrazione; e nel sommo dell'arco cominciano ad entrare in azione gl’altri elementi umani: immaginazione, sensazione, memoria, e ristretta in una sfera tutta  animale una piccola induzione, e per poco la famiglia umana,  e talvolta la società umana in forma animale. Finalmente  nell'uomo entra in attività la coscienza, la riflessione, e con  questa gli elementi spirituali superiori, la poesia, la religione. Manca la riflessione della riflessione, la scienza; predomina  il senso (vegetale, animale ed umano). Questo è lo stato  naturale di cui parla Rousseau. Nel secondo tempo l'attività passa alla fantasia, e si conciliano le disuguaglianze fra  gl’uomini. Queste si vanno poi via via accentuando per opera  della riflessione, che si è andata rinvigorendo alle spese del  sentimento e dell'immaginazione. Ma contemporaneamente a  questo processo di divisione e di analisi, si compie nella  storia un lavoro di unificazione e di sintesi. La grande ragione  avviluppa la piccola, poiché è sempre la facoltà superiore che unifica in sé e dà la sua forma alla facoltà inferiore,  da cui riceve in contraccambio LA VITA. Questa seconda coscienza non è un trovato della odierna metafisica, che anche  Aristotele parla di due vovg, l'uno poietico o attivo, l'altro  patetico o passivo ; e nel secolo XVI qualcuno e arso vivo  per aver parlato di quel secondo spirito. La vera vita dello spirito, unità vivente, è in una moltitudine di individui ad un tempo ; e però la storia dello spirito  si compone di una successione di grandi unità. Il primo  stato embrionale del genere umano è la natura (M.,  hegeliano e medico, prende spesso come termine di confronto l'organismo umano); la vita fetale è il vegetabile e  l'animale. Terza muda è quella dell'uomo positivo, l'infante  del genere umano. Egli con la sua piccola positiva riflessione  vede intorno a se un mondo finito, e si fa un Dio finito e positivo; non soddisfatto di questo breve corso mortale, senza  scopo in se stesso, sogna una seconda vita, ha fede in essa,  ed è religioso. Questa religione, questa fede, si trasforma  a poco a poco in un ideale, in un caro sogno poetico. Poi  dalla prima nasce una seconda coscienza, e l'uomo intuitivo diventa quarta muda l'uomo riflessivo e intellettuale. La nuova coscienza, mentre si appropria la coscienza  finita e positiva, imprime in tutte le diverse funzioni umane  il suggello della sua infinita unità, pur lasciandole nella loro  distinzione naturale; e così permangono l'agricoltore, l'avvocato, il medico, e via dicendo. Ma nella sfera superiore le  due coscienze si unificano, ed il poeta ed il prete rimangono  assolutamente identificati nel pensatore, perchè una volta sviluppata la coscienza intellettiva l'uomo non può più deporla per ritornare uomo positivo ovvero semi-uomo, così come  non poteva deporre la coscienza positiva e tornar ad essere [Dopo la laurea,  Del Vecchio-Veneziani - animale. E la poesia si trasforma in estetica; la religione  in critica e in filosofia. Oggi la poesia non c'è più al mondo,  perchè essa non è una combinazione di fantasia che afferra  e trasforma e di natura afferrata e idealizzata ; ma è una  sola unità, « è l'universo pervenuto a grado di spirito, che  inconsciamente si trasforma e si purifica nella conscia anima  di un solo uomo, spettatore più che autore della sua propria  trasformazione ».   È un fatto di ragione che la vita umana comincia con  l'assoluta barbarie, col puro senso materiale e col semplice  istinto naturale; e termina nella riflessione intellettuale, che  è la vera vita e l'assoluta e definitiva civiltà. È un fatto di  osservazione e di ragione che si va dall'una all'altra passando  per la forma intermedia della immaginazione. La religione  e l'arte è il regno dell'immaginazione: è una barbarie civile  ed un senso spirituale. L'epica è la poesia immaginativa e  barbara, e perciò più perfetta; la lirica è la poesia riflessiva  e civile, e perciò più imperfetta; la drammatica è la forma  intermedia. Essa è più riflessiva dell'epica, e sviluppa un  elemento di questa; è epico- religiosa nell'antichità, raggiunge  la perfezione nel risorgimento, e decade nel secolo XIX,  nel greco-romano come nel latino-germanico, per eccesso di  riflessione. Analogo arco descrive la lirica, che sviluppa un  elemento della drammatica, e, finita come poesia, durerà  come lirismo filosofico finché duri il secolo XIX, ossia finché  duri il genere umano.   La poesia sensibile ed oggettiva è la barbarie dello spirito umano, la filosofia intellettuale e soggettiva è la sua civiltà ; dall'una all'altra si passa a traverso la forma intermedia della religione, che è tutt'insieme oggettiva e soggettiva, è sensibilmente intellettuale, è la barbarie civile  dello spirito umano. La religione più barbara, più naturale,  più oggettiva e più epica è la religione indiana; la più civile,  più umana, più soggettiva e più lirica è la cristiana. Tra la religione epica orientale e la religione lirica occidentale,  la religione passa per una stazione intermedia, la Grecia, e  vi prende una forma intermedia, la forma drammatica. Nella  religione indiana troviamo tutti gli elementi e tutti i caratteri di un sistema religioso completamente sviluppato; il  politeismo greco è la prima caduta della religione, la quale  risorge nel tempo moderno. L'oriente moderno, ossia il medio  evo, pone gli elementi essenziali della religione, che sono  quelli stessi del pensiero, nella vera forma religiosa; l'antichità moderna, ossia il risorgimento, spezza questa forma;  il secolo XIX, il vero tempo moderno, li pone nella forma  di pensiero : invece della riflessione filosofica del medio evo  è una filosofia religiosa. L'oriente è essenzialmente epico;  la Grecia è, nella sua stessa epopea, principalmente drammatica; il tempo moderno è tutto umano e tutto divino ed è  tutto lirico e riflessivo. E del tempo moderno il medio evo  è religioso ed epico; ma è un'epica lirica, ispirata dalla  grande riflessione: tale è la poesia dantesca. Il risorgimento  è irreligioso e drammatico. Il fantastico si cangia nel meraviglioso; poi il meraviglioso stesso sparisce dalla poesia. Il  secolo XIX è di nuovo religioso ed è tutto lirico: il principio è epico-lirico; poi viene la drammatica, che comincia  storica e finisce cittadinesca e domestica; e all'ultimo viene  una lirica tutta stravolta per voler essere ultra-poetica. Ormai  la riflessione ha superata l'immaginazione; il sentimento e  la fantasia sono stati oltrepassati e ravviluppati dentro al  pensiero; quindi quella del nostro tempo deve essere una  poesia lirica, drammatica ed epica ad un tempo; il prodotto  di tutte le facoltà riunite, la filosofia vivente, poetica e  religiosa, la filosofia dell'universo, cioè dell'uomo. 11 secolo XIX, cominciato lirico-poetico, termina lirico-prosaicofilosofico-poetico-religioso ed assolutamente cristiano. La  poesia non è morta; ha subita una metempsicosi, uscendo dalla forma di immaginazione per entrare in quella di FILOSOFIA, e in quella vive ed eternamente vivrà.   La forma e l'elemento della poesia e della religione è,  come abbiamo visto, l'immaginazione. Quando il risorgimento  ha distrutta l'immaginazione, allora il sentimento, che prima  era in germe, assorbe tutto l'uomo e tutta la natura. E sorge  la musica f 1 ), forma di poesia della quale il sentimento è solo  elemento e sola sostanza, e il tempo V unica forma. La  musica è l'ultima delle arti ; la poesia è la prima. Le arti  plastiche usano una materia più naturale, meno ideale, debbono sostenere con questa una lotta più lunga, e giungono più  tardi a perfezione. Viene prima la scultura, poi la pitiura.   Certo la musica è nata, come tutto il resto, con l'uomo;  ma nel medio evo antico è un esercizio secondario, subordinato alla poesia e alla religione ; nel risorgimento sofistico  è bensì un'arte, ma rimane di gran lunga inferiore alla scultura e alla pittura ; nel medio evo moderno la musica è epicoreligiosa, e rimane subordinata alla religione. Solo nel risorgimento moderno la musica si sviluppa, mentre le arti plastiche decadono: dapprima, nel risorgimento drammatico,  la musica non è che un compimento e un aiuto del dramma ;  acquista un proprio assoluto valore solo nel risorgimento lirico, che è il tempo della negazione del pensiero, ossia dell'essenziale, e quindi è il tempo del nulla. Questo vuoto  sentimento si traduce in un vuoto suono, che diviene arte  e poesia. La musica è dunque una lirica vacua, è un'arte  oltre-lirica, è l'arte del nulla. È l'ultimo prodotto del risorgimento, ed è quello che meglio ne scopre il carattere, poiché  il fine è il grande rivelatore. Ma il nulla al quale il risorgimento mette capo, se in apparenza è la fine, in realtà è  il principio, quello stesso dal quale in origine usciva l’universo. Da quel punto istesso l'universo, ossia l'uomo, rico- [Dopo la laurea] mincia da capo, tutto intero, in seno alla filosofìa. Questa  nuova creazione è il tempo dell'essere, il secolo XIX, che  ha per necessaria preparazione il risorgimento progressivamente negativo e per divisa: negazione di negazione. Il secolo XIX nega quel vuoto universo di suoni ; fa della musica  quello stesso che già prima ha fatto della poesia, la dissolve  a poco a poco ; comincia dallo snaturare la musica a furia  di sapere e di meditazione, dando sempre meno alla melodia e sempre più all'armonia, e la riduce ad essere una  scienza musicale. Questo è già avvenuto in Germania, dove  allato al risorgimento scorre il tempo moderno; nell'Europa  italo-celtica prevale ancora il risorgimento lirico, e tocca  ormai l'estremo punto dell'assoluta negazione; già la musica  si avvicina al suo limite prosaico ; già il pensiero positivo  comincia a sopraffare e ad assorbire il sentimento e l'immaginazione.   Il tempo moderno è la vita che rinasce dal seno della  morte, la fede che spunta dalla negazione. Non il tempo  moderno dell'antichità, perchè sopravviene nell'anima romana, mentre il dramma del risorgimento si era combattuto  nell'anima greca, ma il vero tempo moderno che è la continuazione e l'adempimento del risorgimento cristiano. In questo secolo il sentimento dell'umanità, che è un aspetto del sentimento della natura, prenderà  la sua vera forma in una nuova poesia, nella quale la lirica,  la drammatica e l'epica saranno ricomposte in una unità  assoluta e definitiva. L'unificazione non è però avvenuta ancora nel campo  della poesia, né in quello della religione e della filosofia.  La poesia primitiva o naturale, invariabile come la natura,  sussiste presso il popolo analfabeta; e c'è la poesia medioevale e quella del risorgimento, immodernate e ormai vuote.  Così è delle forme religiose. Analogamente delle forme filosofiche : esiste presso il popolo apostolico primitivo la  filosofia primitiva o religione ; ed esiste pure la filosofia medioevale, la scolastica, e la filosofia del risorgimento, con tutte le sue gradazioni progressivamente scettiche e negative e con tutte le sue forme positive. Abbiamo  oggi la massima complicazione di indirizzi e di forme ; non  è però difficile distinguere le diverse funzioni storiche in  atto, né prevedere un continuo avvicinarsi ad una assoluta  unità.   A questa teoria di M. si mossero da Silvio Spaventa  e da altri obbiezioni, che possono ridursi sostanzialmente  a questa : Come può lo spirito umano perdere due delle sue  funzioni essenziali, l'arte e la religione? M. risponde  che SPAVENTA ha ragione se, basandosi sulla filosofia  kantiana, afferma che lo spirito umano sarà sempre tratto a  fare degli assoluti giudizi religiosi ed estetici, ad unire al  concetto della mente la intuizione che deve dargli corpo e  vita; ma ha torto se crede che la intuizione da accompagnare all'ideale debba essere sempre fantastica e falsa. Nel  principio l'intuizione religiosa e l'intuizione estetica è creata  dalla fantasia, ed è a vicenda distrutta perchè non è la vera,  non è assoluta, e non agguaglia l'assoluto concetto; e di  qui nasce da una parte una serie di capolavori tutti relativamente perfetti — se son davvero capolavori —, perchè  l'ideale dell'arte, come finito ch'egli è, può accordarsi con  una intuizione finita; e ne viene dall'altra parte una serie  di religioni tutte imperfette e però tutte transitorie, perchè  l'ideale religioso è infinito, e la fantasia non sa creare che  delle immagini finite. Ma le due serie hanno una legge, perchè [Dopo la laurea, e cfr. Poesia ed arte, Lettera di FRANCESCHI a M., nella Rivista bolognese. Franceschi dice che M., togliendo all'uomo la religione e la  poesia, lo abbassa all'abbaco e al pane ; egli non comprende che M.  intende anzi di innalzarlo alla sua filosofia religioso-poetica. Le idee estetiche e religiose. hanno un termine: e il loro termine non può essere che la  vera e reale intuizione corrispondente al concetto dell'arte  ed all'ideale della religione. E difatti abbiamo da un lato  una serie di forme estetiche l'una meno perfetta dell'altra,  e sempre meno rispondenti alle condizioni assolute dell'arte;  e sono sempre meno naturali e spontanee, meno epiche e  fantastiche, sempre più spirituali, liriche, filosofiche e reali;  e sì l'intuizione dell'arte è sempre meno lieta e bella, e più  trasparente ed immediata all'ideale. È, dunque una serie  regressiva e discendente. La serie religiosa è al contrario  ascendente e progressiva. Ogni forma religiosa è meno fantastica, più razionale, più reale della precedente. Per cui  l'ultima, la cristiana, è assolutamente vera e perfetta; in  essa al mondo della ragione corrisponde un mondo fantastico quanto esser può più adeguato e spirituale : il cristianesimo non ha altro difetto che quello di essere una religione. La religione cristiana si va sempre più perfezionando;  e il suo perfezionamento consiste nell'essere sempre più  storia, più realtà, più verità, e sempre meno religione. E  così per contrarie vie, l'una scendendo e l'altra montando,  la religione e l'arte corrono al loro fine, al vero. Il vero  è l'eguaglianza della realtà e dell'idea, del pensiero e dell'intuizione. L'intuizione estetica, da principio fantastica e  non realmente assoluta, diventa a gradi sempre più somigliante al concetto assoluto dell'arte, finché raggiunge l'assoluta e reale intuizione. Allora la natura è concepita come  un solo essere vivente, indipendente, assoluto; e ciascuna  sua parte è intuita come membro dell'intero, ed assoluta  essa stessa : giacché le due intuizioni ne fanno una sola. La  intuizione religiosa, essendo finita, non è adeguata alla sua  idea, che è infinita. La verità religiosa non è mai la vera,  perchè è una combinazione di finito e di infinito, anzi che  di infinito con infinito. Ma la intuizione religiosa si va  sempre più allontanando dalla forma naturale, e si fa sempre  più veriforme fino a diventar vera ; il che avviene quando  l'infinito ritrova se stesso, ed è a un tempo concetto e  intuizione. Allora al falso succede il vero, e la religione finisce. Questo non è perdere una funzione; è risolvere e  trasfigurare. Le funzioni inferiori dello spirito, come la morale, il diritto, lo Stato, conservano una esistenza separata,  perchè partecipano ancora della qualità della natura; ma la  religione e l'arte hanno per oggetto il vero; sono i gradi e  le forme del vero pensiero, e perciò quando il pensiero acquista una esistenza distinta, esse la perdono e rimangono  unificate in lui. L'arte è per sua natura illusione e la religione è per sua essenza errore ; ora l'illusione è fatta per  trasformarsi in certezza e realtà, l'errore in verità. L'arte  si trasforma nella vera cognizione naturale ; la religione nella  vera cognizione spirituale. In questa trasformazione consiste  la storia; il suo compimento è il fine della civiltà ed il limite  del progresso umano, che è temporalmente indefinito, ma  idealmente determinato. L' ideale è provvisorio, e sparisce  nell'idea. Così termina la parabola religioso-poetica, della quale  il primitivo oriente è il ramo ascendente; l'antichità pagana,  tutta arte e mistero, è la cima; ed il ramo che discende è  l'era cristiana, in cui la religione e l'arte vanno progressivamente diventando più riflessive, sino a ridursi ad essere,  oggi, il pensiero e la scienza cristiana. L'uomo moderno  cerca l'ideale e trova l'idea, cerca il concetto dell'arte e  trova il vero concetto, cerca il divino fuori di se e trova in  se l'umano; cerca il sovrannaturale e trova il naturale. Il  nuovo uomo crede e pensa; e pensando ricrea l'universo, dal  suo pensiero una prima volta creato. Questo nuovo universo  è un'opera d'arte in cui la forma eguaglia il concetto ; ed il  concetto fatto conscio di se vince la forma, ed è bello  e sublime ad un tempo. Questo nuovo universo è un capolavoro, di cui il nuovo uomo, poeta e critico insieme, intende  il magistero; è un tempio, di cui il pensiero umano è il nume [ Le idee estetiche e religiose. ] e ciascun uomo il sacerdote, che a quel Dio sacrifica ciò  ohe è in lui di non buono. E il nuovo uomo continua questa  creazione con azioni generose ed alti pensieri. « Ed è così  che egli è più che mai non sia stato religioso e poeta,  quando non è più che scienziato e libero pensatore ». L'uomo  parte dalla tenebrosa unità della natura e del senso, e, a  traverso la piccola riflessione e la grande immaginazione,  giunge alla luminosa unità della riflessione intellettiva, avvivata dalla fede religiosa e poetica, che sole restano della  religione e della poesia. Naturalmente gli argomenti logici addotti dal M. a sostenere la sua tesi della « metempsicosi » della religione  e dell'arte nella filosofia hegeliana sono validi solo se si  ammette l'esistenza di un concetto assoluto, universale, definitivamente vero, al quale le intuizioni estetiche e le religiose possano gradatamente adeguarsi; solo, in una parola,  se si accoglie l'hegelismo dell'Autore. Il compendio di  storia del genere umano tracciato per convalidare queste  argomentazioni non raggiunge lo scopo, perchè in esso non  la storia conduce alla dimostrazione, ma la dimostrazione,  se pur non modifica la storia, certo la coglie nei momenti  e negli aspetti a lei giovevoli, sorvolando sugli altri. E le  molte e molte pagine che l'Autore consacra alla dimostrazione della sua tesi riescono invece a dimostrare questo : che  egli ha avuta la somma fortuna di trovare nella sua concezione dell hegelismo la sua filosofia, la sua religione e la  sua poesia.   M. è certo che le tre grandi correnti umane, — la  contemplativa religioso-poetica che nasce dalla natura e la  riflessivo-filosofica che, nata dalla precedente, si suddivide  in altre due : la filosofica positiva o filosofia della sostanza e  Tanti filosofica negativa che bentosto diviene afilosofica, negativo-positiva, pseudo-riflessiva o filosofia dell'apparenza,  dopo aver proceduto isolate fino al secolo XIX, suddividendosi in altre molte correnti o scienze pseudo-positive,  accennano oggi a ri convergere. L'unità dell'apparenza e del  pensiero, con la precedenza di questo su quella, è l'unità  del pensiero. Per avere l'unità della natura non basta che  le due filosofie astratte si fondano in una sola filosofia concreta; bisogna che la corrente religioso-poetica mescoli le  sue acque con la corrente unificata della filosofia. La corrente filosofica, scaturita dalla religione e dalla poesia, torbida in principio, si allarga, si purifica, diviene trasparente  sino a perdere ogni potere nutritivo; ma poi, a poco a poco,  invade e travolge il tutto, l'uomo e la natura, la religione  e la poesia; e fa di tutto una sola unità vitale. E allora la  filosofia sarà la vita, sarà l'unità spontanea ed armoniosa della  natura : un pensiero pieno d'amore vivificherà una natura  piena di fantasia, l'amerà come natura umana, e l'adorerà  come natura divina.   Qui alcuno potrebbe chiedersi : in questa identificazione  della filosofia con la vita, non subirà la filosofia stessa un  assorbimento analogo a quello subito dall'arte e dalla religione ? La forma superiore non sarà la vita e l'azione ? Ma M. non distingue dalla vita quella sua filosofia dell'avvenire. Egli afferma che è difficile precisare come tale  unificazione vitale si compia, e perchè quest'opera è appena  cominciata, e perchè avviene nella profondità del pensiero,  al di sotto della coscienza. Sono cose tanto lontane   dic'egli  e c'è di mezzo una tal nebbia di tempo avvenire, che è impossibile vederci chiaro: bisogna contentarsi  di averne un'idea generale, a Ma —soggiunge — a questa  generalità io ci credo, e giurerei, tanto ne sono certo, che  le cose passeranno così in generale ; e che tutto anderà a  terminare nella fusione di tutte le forze, di tutte le conoscenze, e di tutte le realtà, in una sola vita umana. La  sua filosofia sarebbe forse un atto di fede? L'uomo è un sistema vegetativo, un sistema riproduttivo,  un sistema animale e un sistema spirituale. Ciascuno di questi  quattro sistemi umani è attivo e si muove; ed ha, come naturale, la causa del suo movimento fuori di se, nella natura.  La natura della causa esterna che move è corrispondente e  proporzionata alla natura della sfera interna che è mossa;  mentre è una stessa natura che fa l'una per l'altra, ed è  sempre la seconda che move se stessa con la prima natura.  Ma se l'accidente, esterno o interno che sia, se la irragionevole cattiva natura interviene, e rompe la legge, e viola la  ragione; se l'arbitrio umano o naturale modifica la qualità  della causa motrice, e ne muta la relazione, e ne altera la  proporzione con la interna sfera umana, questa si altera e  si disordina. Il disordine della sfera direttamente colpita si  comunica alle altre, ed è una successione e una complicazione di morbi; ma, isolati o uniti, non vi sono che quattro  morbi umani essenziali: i vegetativi, i riproduttivi, gli animali, gli umani o mentali. La patologia preistorica dice che  di questi quattro morbi il primo è stato il morbo vegetativo.  L'uomo primitivo, uscito sano, valido ed innocente dalle mani  del Creatore, rimane sano, finché rimane innocente; non  ammala che per irragionevole arbitrio estemo o naturale ; non  è esposto che agli accidenti meccanici, alle malattie traumatiche. Ma l'animale umano è, a differenza degli altri, capace  di colpa; egli trasgredisce il precetto e oltrepassa la natura:  felice colpa, perchè lo fa accorto di poterla oltrepassare.  Di là dalla natura l'uomo trova se stesso : trova la sua libertà  e la sua propria natura, e fa della necessità animale, istintiva ed involontaria, una necessità umana, spirituale e volontaria: e così di colpevole ritorna innocente. Ma non è più  la primitiva innocenza dell'animale ignaro e meccanico; è  l'innocenza dell'uomo che si vede nel suo interno, e si sa  libero ; e liberamente vuole se stesso, ed ama e venera la sua  propria natura. Ma bentosto egli oltrepassa questo se stesso,  supera questa sua natura, e diviene di nuovo colpevole, e  si rifa sempre di nuovo innocente, finché non abbia raggiunto  tutto se stesso e la sua vera natura spirituale, e non sia compiuto il fato umano. Così l’uomo naturale diventa in principio civile, e poi da una civiltà passa in un' altra. La  civiltà ha certamente i suoi morbi; e sopratutto nel momento del passaggio e della colpa il morbo si impadronisce  dell'uomo, e cresce e si moltiplica ed imperversa. Allora  l'uomo è annoiato di se stesso, e perciò si corrompe. E il  morbo, fecondato dalla corruzione, genera nuovi e più crudeli morbi. La corruzione sensuale moltiplica i morbi vegetativi ; le voluttà naturali e preternaturali generano i morbi  riproduttivi. Le cause psichiche non moltiplicano solo le  cause naturali, ma operano anche per proprio conto, generano per diretta azione le malattie nervose e le psichiche.  D'altra parte, nelle nature più elette, invece di una corruzione sensuale, nasce un principio di fermentazione intellettuale, che dà origine alle malattie dello spirito. Ma tutto  questo avviene con una certa legge. Tre grandi civiltà si  succedono: la prima naturale, la seconda umana, la terza  divina. E ciascuna ha il suo proprio carattere e la sua particolare natura; e ciascuna si corrompe, ed ha le sue proprie  e particolari malattie. La civiltà naturale quando è nel suo  primo fiore e nella sua perfezione originaria è senza morbi,  altro che accidentali e meccanici ; ma la sua corruzione porta  seco le cause fìsiche e chimiche, e genera morbi fisici e  morbi chimici: cause cosmiche, naturali, che danno origine  a morbi naturali, sopratutto vegetativi, prima ai morbi nutritivi, e più tardi ai morbi formativi. La civiltà umana — il  paganesimo — nel suo fiore è di nuovo senza morbi ; ma la  sua corruzione porta seco le cause umane, sensuali, passionali, e dà origine ai morbi riproduttivi ed ai morbi animali:  ai nervosi prima, e quindi ai psichici. La civiltà divina   la cristiana  nel suo primo fiore è del pari senza morbi ;  essa è la reazione della medicatrice natura umana, è la guarigione dell'anima e la salute del corpo, rimedio radicale  di tutti i morbi umani. Ma la reazione eccede tosto il segno  della umana natura, ed è principio di nuovi morbi. Mistica  e tutta entusiasmo e religioso sentimento, essa reca le cause  mistiche, che danno origine alle malattie psichiche mistiche e  religiose. La corruzione cristiana riproduce la corruzione  pagana, e con le cause passionali rinnova le antiche malattie.  Ma di sotto alle rovine del primo spunta il secondo cristianesimo, la nuova e vera civiltà divina, e riconduce le cause  spirituali e le nuove malattie mentali. Quando quest'ultima  civiltà avrà raggiunta la sua definitiva perfezione, allora sparirà il male e l'uomo spirituale sarà di nuovo senza morbi,  come era in principio l'uomo animale. Tale è il primo e più  generale risultato, la prima legge della patologia storica :  l'uomo ha quattro vite, quattro anime, ed ha quattro qualità di morbi, che sono le categorie primarie della patologia. Ma ciascuna anima può oltrepassare nell'uno o nell'altro  senso quei limiti della sua attività entro i quali ha luogo la  oscillazione normale ; ed allora concepisce un morbo positivo  o negativo, stenico ovvero astenico. Sono queste le categorie secondarie della patologia. La categoria primaria, la  natura e la qualità fisiologica del morbo, è l'essenziale, e  mai non manca, né può mancare ; invece la categoria secondaria, il grado e la quantità innormale, può mancare, e manca  infatti, o non è sensibile ed apparente. Certo non vi è qualità senza quantità ; ma nelle piccole applicazioni cliniche  la quantità innormale può mancare del tutto, perchè è supplita dalla quantità normale ; nelle grandi applicazioni storiche la categoria secondaria trasparisce sempre dentro alla  categoria primaria. Le categorie primarie e secondarie ci danno la pianta  della patologia storica; non l'edilìzio con tutte le sue parti.  Le quattro grandi sfere contengono minori sfere, i quattro  grandi sistemi contengono sistemi sempre più piccoli : apparecchi, organi, tessuti, elementi istologici: le anime generali non esistono veramente che nelle anime elementari o  cellulari. I fatti sono complessi organici e naturali di categorie, le più generali chiuse nelle più particolari, e queste  ricoperte dalla loro buccia innominabile ed accidentale. A  forza di aggiungere categorie a categorie il vacuo si riempie  e si consolida l'astrazione. La patologia storica congegnata da M. è veramente  originale; e sebbene, volendo dedurre da pochi principi  e compendiare in pochi schemi tutti i fatti umani, abbia talvolta dell'artinzioso, non è certo nel complesso senza genialità, e coglie con acume i nessi che legano i singoli morbi  alle varie forme della civiltà umana. Ancora il terzo periodo — La filosofia della natura. La creazione secondo M.. La lotta di M. contro la teoria  darwiniana. Il suo metodo trimorfo. La dimostrazione dei suoi principi.  L'accidentale e il necessario nella sua concezione filosofica. M. non puo limitare la sua speculazione entro  l'ambito della jatronlosofìa. Dalla sua stessa concezione di   [Delle prime linee della patologia storica, Prelezione, Bologna,  Monti. Della sua patologia storica l'A. scrive (Delle prime linee della patologia storica): Sarà vera o falsa, buona o cattiva; ma sarei  curioso, e ben vorrei vedere chi di questa bazzecola, come d'ogni altra mia  piccola cosa infino a una menoma parola, sarebbe capace di reclamare la  priorità. Nella prel. qui cit. l'A. non tracciò che lo schema generale di  questa sua costruzione. Ma svolse poi l'argomento nel successivo corso di  lezioni universitarie, mai dato alle stampe. Cfr. SICILIANI, Gli hegeliani in  Italia. Per gli argomenti trattati in questo  paragrafo, si vedano: / naturalisti, La natura a volo d'uccello: Forza] questa, oltre che dall'indole del suo ingegno e dall'influenza  dell'ambiente filosofico nel quale era stato educato, egli  doveva essere e fu infarti condotto alla costruzione di una  filosofìa della natura. Ma se egli parte dall'affermazione che l'essere è pensiero,  e non vede chiaro il significato di questa identità e non ne  deduce logicamente tutte le conseguenze, se egli pone le  fondamenta in modo arbitrario e nelle singole parti confuse  e cozzanti fra loro, non può innalzare un edifizio solido e  fermo. E la sua filosofìa della natura è infatti un castello in  aria, sebbene edificato con ingegnosità, pazienza e tenacia  ammirevoli. Sono pagine che succedono a pagine, volumi  che succedono a volumi, e rivelano una profonda conoscenza  dello svolgimento di tutte le scienze mediche e naturali, dai  tempi più antichi fino a quelli in cui viveva l'Autore: geologia, chimica, fisica, zoologia, anatomia umana e comparata, fisiologia, patologia, terapia; e sono ipotesi e conquiste  scientifiche messe in relazione con sistemi filosofici e con  periodi storici. Sono analisi di animali e di vegetali, di specie,  di classi, di ordini, di generi; e descrizioni di organi, di  funzioni, il cui nascere e modificarsi vuol essere spiegato  dal crearsi della idea divina. Ma in tutta la costruzione si  risentono le conseguenze della incertezza fondamentale. M. afferma che creare è diventare, è spiegare successivamente le forme di cui si ha il germe nel proprio essere. Il pensiero originario compie la propria creazione, e  di semplice essere si fa a poco a poco pensiero assoluto. Ma poi aggiunge che il pensiero è il fondamento, il tetto e  e materia, Un nuovo corpo semplice, I tipi vegetali,  Deus creavit,  I tipi animali, Filosofia e non filosofia, Darwin e la scienza moderna,  ecc.  Deus creavit, Dialogo I, nella Rivista bolognese] la travatura dell'edilìzio della natura. Egli viene così ad ammettere che il pensiero non basta ad esaurire tutta la realtà,  perchè il fondamento e la travatura non sono tutto l'edifizio. Non resta dunque fedele alla concezione idealistica, secondo  la quale la natura è un momento del pensiero, che si risolve  interamente nel pensiero stesso, e senza la quale lo sviluppo  del pensiero non sarebbe né completo, né possibile.   Egli distingue nella natura due gradi e due modi di  creazione: l'una sensibile, individuale, l'altra tipica, ideale,  individuale anch' essa. La prima creazione è quella che  F idea dell' uomo fa dell' individuo umano; ma 1' idea dell'uomo è naturale, e le idee naturali restano latenti finché  l'idea divina, prima causa di sé e della natura, le renda  attuose, le fecondi e ne determini la trasformazione. Quando  l'idea divina è naturata nell'uomo, la creazione cessa nella  natura e ricomincia nella storia, finché l'uomo si è ricongiunto  al suo principio, e l'idea divina esiste tutta in forma di idea  spirituale. Anche l'idea spirituale esiste solo legata all'accidente, cioè come individuo. Quindi, come nella natura, così  nello spirito accade una doppia creazione : quella dello spirito individuale e quella dello spirito universale. Il primo  ripercorre le forme storiche passate dell'umanità sino all'attuale, l'altro crea le nuove e più perfette forme storiche.  La storia della natura umana, quella della natura vivente e  quella della natura cosmica sono le tre forme vitali di uno  stesso assoluto individuo temporale, il mondo. Sono tre creazioni : una divina, eterna, infinita; l'altra essa pure ideale,  ma temporale e finita, universale e particolare insieme; la  terza materiale, individuale, accidentale. Dio si realizza nel mondo, e il mondo nell'individuo;  quindi anche Dio si realizza nell'individuo. L'universo fa  nel tempo come Dio fa nell'eternità: comincia nella forma  più semplice del suo essere, la natura; si divide in due forme  opposte, il vegetale e l'animale, e infine si raccoglie in una [Del Vecchio-Veneziani - Le opere scientifiche e la filosofia della natura. ]  forma completa, lo spirito umano. Le forme dell'idea divina  passano eternamente l'una nell'altra, senza annullarsi; e così  pure le forme dell'idea naturale; ma nella materia una forma  esclude l'altra, e però nell'individuo sensibile, pur rimanendo  tutte idealmente, spariscono via via sensibilmente. Come un  mammifero passa per le forme animali inferiori e le protovertebrate prima di assumere ra sua forma specifica, così l'individuo umano principia selvaggio, e poi riproduce le tre  forme moderne essenziali, ed è prima immaginativo, indi ragionatore, e finalmente pensatore: medio evo, risorgimento,  tempo nuovo. L'uomo ordinario, nel suo sviluppo, si arresta  alle forme storiche già create; l'uomo di genio crea forme  nuove, opera come spirito universale, traendo da Dio l'impulso e l'ispirazione creatrice. E sempre esisteranno oltre ai  più, agli uomini evolutivi, anche i pochi, i creativi, finché,  come la natura, anche l'umanità non sia giunta alla sua forma  vera, già tracciata da Dio. E perciò ora coesistono i vari  gradi e le varie forme in cui il tipo divino si squaderna nella  natura.   Questi gradi sono una scala di mezzi e fini, in cui la  forma inferiore è organo e mezzo all'esistenza della superiore. Il ciclo tipico concepisce il moto creativo e produce  il ciclo superiore. Quando la natura è fatta, comincia la vita;  e quando è chiusa la creazione vitale comincia lo spirito  umano. I cicli secondari, anche prima di essersi svolti interamente, cominciano a produrre i tipi corrispondenti del ciclo  superiore. E la creazione ideale è creazione sensibile ; la  creazione di una specie è produzione di molti individui in  cui appare la nuova forma. Il concetto precede l'esecuzione,  e la successione effettiva e naturale presuppone la successione logica, ideale. La funzione è la vita, la forma è la  natura, che precede il contenuto vitale, e non se ne lascia  tuttavia assorbire e soverchiare ; e quando il contenuto sparisce la forma rimane. Nei tipi superiori la funzione assorbe  e domina sempre più la forma, ma la sua vittoria non è mai  completa. L'equilibrio fra la forma e il contenuto si ristabilisce non nel corpo, ma nello spirito umano. La vita passa  come il tempo; la natura è più tenace. Altra è la successione di tempo, altra di idea. La successione naturale va non da ciclo a ciclo, ma da tipo a  tipo ; e perciò in tutte le epoche della creazione tutti i  tipi primari sono, più o meno completamente, rappresentati.  Ogni tipo incomincia col riprodurre i tipi formali che lo precedono, indi prende la sua forma propria, e infine arieggia  al tipo che gli deve succedere. Anche diverso è il modo di accrescimento nella natura,  nella vita e nello spirito. Essendo la natura pura esteriorità,  i corpi inorganici crescono per moltiplicazione quantitativa  esteriore, e non hanno altra unità che la loro forma comune. Nello spirito, che è pura interiorità, la esterna moltiplicità  diviene interna e qualitativa. Infine, essendo la vita uno spirito naturale, un misto di esteriorità e di interiorità, di apposizione e di intuscezione, Tessere organico si sviluppa per  una moltiplicazione quantitativa ed esterna e per una moltiplicazione interna e qualitativa, con prevalenza dell'una o dell'altra secondo che si tratti di una forma più o meno prossima alla natura. Mai la vita è tanto esterna che non abbia  la sua interiorità ; mai la forma organica è tanto molteplice  che non abbia la sua unità. Ma quest'unità è diversa nel vegetale e nell'animale. Nel vegetale la vita di ogni individuo  elementare si unifica nella vita comune dell'aggregato; nell'animale deve prevalere l'unità dello spirito umano, e l'individuo, semplice e libero al di fuori, è molteplice e tutto  qualificato al di dentro. Le forme superiori [sono la chiave I tipi animali,, Bologna, Monti; Cfr. Lettere sulta patologia storica, I tipi animali] necessaria a spiegare ed interpretare le inferiori, per se stesse  oscure, indistinte, indeterminate; e sono alla loro volta spiegate dalle forme inferiori in cui appariscono nella primitiva  semplicità. Ma il riscontro non è utile se non cade sulle forme  fra le quali corre una particolare e più diretta e più intima  relazione tipica, secondo il vero metodo evolutivo, in cui  l'idea unisce le forme ed organizza le serie, non col metodo  empirico, capace solo di conclusioni generali arbitrarie, artificiali, ovvero, se alla vacuità sostituisce il preconcetto darwiniano, di una inestricabile confusione.   Come Giorgio Hegel aveva combattuto e denigrato il  Newton, così M.  lancia in quasi tutte le sue opere  strali frequenti contro il Darwin e i darwiniani. Il naturalista  inglese è per lui un genio, ma il genio dell'ignoranza, perchè  pone il cieco caso in luogo della ragione vitale. Egli pretende che tutte le forme dell'intera serie animale sieno venute  l'ima dall'altra per l'aggiunta di sempre nuove particolarità  organiche nate a caso, e perchè utili ritenute nella selezione  naturale, e trasmesse dall'eredità, senza che mai in una forma  nulla preesistesse dell'altra che da essa proviene. M. afferma che qui c'è un progresso sul Lamark, in quanto la  modificazione dell'essere vivente è primitiva, spontanea, in- [M.dice che la proposizione in cui si compendia la scienza  dell'astronomia : « I sistemi solari sono i primi uomini, il cosmos è il mondo  umano primitivo... non è possibile che alla filosofia della natura: motivo per  cui Newton, il divinissimo astronomo, non la sapeva altrimenti; egli nel  cielo ci vedeva Dio, e per questo ci voleva poco, ma non ci vedeva  l'uomo. - Dopo la laurea, li, [I tipi animaci, pel giudizio di M.  circa la teoria darwiniana, Dopo la laurea, Deus  creami, Darwin e la scienza moderna, I tipi animali; Filosofia e non filosofia, Lettera sulla patologia storica] genita, e non prodotta soltanto da agenti esterni; ma egli  non sa comprendere come si possa affermare che tale modificazione è casuale, irrazionale, e che la ragione c'entra poi,  introdotta dal caso. Ammette che in ciascuna delle teorie  di Mosè, Zaratustra, Firdusi, Diodoro, Lamark, Darwin, è  qualcosa di ragionevole, cioè di serio e di vero. La verità  più ragionevole, sebbene espressa in modo goffo e materiale,  è quella di Mosè: Deus creavit! — la meno ragionevole è  quella darwiniana. La teoria adattativa del Lamark e quella  selettiva di Darwin, pur essendo tutte e due sbagliate, hanno  di vero lo schema comune, ed è questo: gli animali formano  tutti una sola famiglia naturale ; il principio che unisce e lega  le forme è l'eredità; il principio della divergenza delle forme  è la variabilità. Se non che questi tre punti debbono essere  integrati rispettivamente così : gli animali sono tutti in fondo  uno stesso animale ; la generazione è creazione ; la variabilità  deve essere determinata, perchè nella natura e nella scienza  la potenza sta nella determinazione.   Secondo M., è vero che l'individuo varia senza  legge e senza ragione, fuorché quella di essere individuo  accidentale; ma varia anche con ragione, perchè è posto fra  la cieca necessità della natura e la conscia assoluta libertà  dello spirito umano. Dio è il grande modincatore, il vero e  solo creatore dei nuovi organi e delle nuove funzioni vitali,  perchè una funzione è un'idea, e per creare un'idea ci vuole  un'idea. Il non essere non può creare l'essere, l'irrazionale  non può creare la ragione, la natura ossia l'accidente non  può creare i tipi e le funzioni. Senza l'idea divina non potrebbe nascere dall' antropoide 1' antropo, intercorrendo fra  loro una differenza ideale anche, e di gran lunga, maggiore  dell'organica, e neppure potrebbero nascere nuove forme,  perchè ogni fonma ha un suo proprio valore assoluto, e si sviluppa secondo il ritmo assoluto del mondo, secondo il disegno  eterno della creazione. L'idea, e non il sangue, fa l'unità  delle forme vitali. Fra coloro che non riducono la scienza ad una storia accidentale, alcuni i seguaci della scienza  antica, essenzialmente religiosa e intuitiva ammettono due  storie ideali, una fuori della natura e del mondo, un'altra  secondaria, riflesso della prima, sviluppantesi nel seno della  natura e dell'essere vivente; gli altri, i seguaci della scienza  moderna, riflessiva, non riconoscono che la forma e la storia  intrinseca alla natura, all'animale, allo spirito umano, considerando la storia extramondana come un effetto ottico operato dalla intuizione. Vi sono tre maniere diverse di considerare le forme vitali. L'una consiste nel distinguere fra gli elementi comuni  a tutte quelli che sono propri di alcune soltanto. E si considerano questi elementi formali come caratteri costitutivi di  un tipo più o meno comprensivo. È la maniera astratta, quella  di Linneo, di Jussieu, di Decandolle, di Cuvier, di Milne  Edwars, di Owen. V'è una seconda maniera, che si riassume tutta nella frase : una forma è simile ad un'altra perchè  il figlio è simile al padre e il padre all'avo. Questo è pel  I. il finis Poloniae, la comune e l'internazionale della  scienza moderna. Vi è infine una terza maniera, che consiste nel cogliere la forma nel suo movimento, e considerare  i vari tipi come i momenti evolutivi di un tipo ideale assoluto,  il quale è l'unità, la verità, la ragione, il principio e il termine di tutte; e questo tipo è il vero animale. È la maniera  concreta, quella di Schelling, di Hegel, di Oken. Dopo di  loro il solo Baer l'ha presentita, ma non ne ha fatta una  applicazione sistematica e conseguente alle varie forme  animali. M. dice che egli intende di fare un tentativo  di questa specie. Secondo lui, tutte le forme preesistono  idealmente l'una nell'altra; tutte preesistono in una forma  [I  tipi animali, Le opere scientifiche e la filosofia della natura] germinale di cui sono lo sviluppo creativo, interno, spontaneo. La creazione consiste nella determinazione ideale  originaria di schemi indeterminatissimi, e nella loro delimitazione naturale, ossia accidentale. Una forza interna a un  dato momento, aiutando le condizioni esterne da lei stessa  preparate, trasforma l'embrione in larva e la larva nell'individuo completo, facendolo attraversare una serie di forme  l'una più perfetta dell'altra, immagine della palingenesi universale. Questa forza ricevette una prima spinta dalla generazione. L'uomo dà l'impulso prima alle forme semplici e  generali, quiescenti l'una nell'altra, che sono nella natura  e pur non sono naturali; le desta, le crea, le differenzia, le  delimita; dei puri e semplici momenti della legge formale  fa delle forme vive, reali, accidentali; muove la materia informe a creare il sistema solare e l'uomo a traverso alla  serie delle forme cosmiche e vitali. L'uomo eterno, l'uomo  intelletto umano, è dietro al caos ed a tutte le forme, è la  forma, l'anima, la forza, la spontaneità pura, assoluta, in  cui lo stesso accidente, il limite indifferente, l'assoluta particolarità esiste, ma nella forma di principio, di universalità, di necessità, ed in questa contraddizione consiste la  sua attività creatrice. Il pensiero assoluto si trasferisce e si  effettua nella realtà dell'universo, e lo fa a sua immagine,  e seco vi trasporta il metodo assoluto della sua evoluzione  attuale. La forma è un principio e una forza indipendente  dalla funzione; e questa forza ha una legge che ne determina lo sviluppo e l'azione, ed è la stessa*legge dell'universo, è il metodo della natura, del vegetabile, dell'animale  e dell'uomo, il metodo insomma di tutto il creato, perchè è  quello intrinseco alla divinità creatrice. Secondo questa legge,  ogni sviluppo essenziale si fa in tre momenti: tesi, antitesi,  sintesi. Al movimento puro, assoluto, astratto, corrisponde il [I tipi animali, Le opere scientifiche e la filosofia della natura]  movimento concreto della forma, ai tre momenti ideali corrispondono tre tipi sensibili : amorfo, antimorfo, teleomorfo.  E perciò l'universo è una gran trilogia: è amorfo nella natura, antimorfo nella vita, teleomorfo nello spirito umano. La  natura (amorfopan) è indifferenza senza opposizione essenziale; è tutta forma senza unità, senza fine, senza ragione,  senza la forma della forma. La vita (antipan) è essenzialmente  opposizione fra corpo ed anima, fra molteplicità ed unità, fra  vegetale ed animale. Esiste fra vegetale ed animale una  doppia antitesi : l'una di natura e l'altra di funzione (antitesi  psichica e antitesi corporea). Lo spirito umano (teleopan) è  teleomorfo. Lo spirito è 1' opposizione spinta all' estremo,  poiché l'antitesi non è più solo fra corpo ed anima, fra senso  e sensibile, ma fra intelligenza e intelligibile, fra Dio e  l'uomo. Lo spirito comincia con l'opporsi alle idee e finisce  per riconoscersi in quelle, e con lo stesso colpo si riconosce  nelle cose : sì che egli è l'unità reale e distinta delle cose  e delle idee. L'anima nella natura è interna, nel vegetale  apparisce al di fuori, ma è corporea; nell'animale diventa  corporea, ma rimane particolare; nell'uomo diviene assoluta,  universale e puramente ideale, e la opposizione è finalmente  risoluta e conciliata. La natura, la vita, lo spirito umano hanno  ciascuno a sua volta il proprio sviluppo trilogico essenziale. Questo metodo trimorfo, come egli stesso lo chiama, è per M. il filo ariadneo che deve guidarlo a traverso al  labirinto delle forme vegetali ed animali. Per lui tutte le  forme e i tipi più eterogenei e dissimili sono in realtà uno  stesso identico animale in via di formazione : l'uomo. E  dei tipi animali egli vuol tracciare la storia ideale, perseguendola a traverso alla descrizione. Confessa che la descrizione gli riesce troppo completa e determinata, mentre ogni  tipo è sfumato ed evanescente innanzi alla sua realizzazione,  è il mobile oscuro che da dentro fa forza e opera lo sviluppo  creativo, cominciando da sé, creando a mano a mano le proprie determinazioni. Invece i sistematici ordinari, tutti  intenti alla diagnosi delle forme, poco si curano delle differenze di quantità ; essi hanno bisogno di caratteri qualitativi specifici, possibilmente esclusivi, precisamente quelli  più materiali, che non significano nulla appunto perchè non  passano in altre forme. Tipo è forma con significato.   Questi sistematici hanno una logica difettiva a forza di  astrazione; non pensano che nel quanto è rinchiuso il quale.  Seguono la vecchia tendenza separatrice, diagnostica, artificiale, bisognosa di abissi e avida di caratteri esclusivi, isolatori. La nuova morfologia invece cerca le comunanze e  le transizioni, benché non arrivi ancora a ravvisare la transizione ideale dove manca quella materiale. Per la vera  morfologia il primo è la forma, che pone i lineamenti generali dell'essere; poi viene la funzione ideale che la accomoda e la modifica; e in ultimo viene la funzione reale e  la selezione naturale. I darwiniani invece ignorano l'omo [I tipi animali] Dopo aver chiarita la differenza fra le due morfologie, Meis soggiunge che il suo scritto è un lavorìo tutto di pensiero, condotto con  un organo che nel cervello dei naturalisti, darwiniani o antidarwiniani ch'ei  sieno, dev'essere assolutamente atrofizzato: « è tutta da capo a fondo (apriti  cielo)... una ricostruzione a priori. Ma lo scandalo sarà piccolo, perchè non  ci sarà di certo chi ci si voglia rompere il capo. Questo scritto non si fa per  stamparlo, si stampa per farlo ; e si fa per uso e consumo esclusivo, e per  supremo divertimento dell'autore, che quando sarà tutto stampato tirerà tanto  di chiavistello sulle pochissime copie che ne avrà fatto tirare ». Le opere scientìfiche e la filosofia della natura] la formale; per essi la funzione è tutto e fa tutto, ed è  una funzione prodotta dall'organo, la nutrizione, non la funzione essenziale, «principiale)), a loro ignota e inconcepibile,  Le dottrine materiali non hanno nulla a che fare con la  scienza, perchè questa non è la ragione dell'uomo che la  fa, ma la ragione della cosa. Il caratterizzatore vede crollare  come castelli di carta le sue classificazioni più o meno inge-gnose. Il rimedio è uno solo: a Non caratterizzare, non classificare; pensare e ripensare. Seguendo il metodo trimorfo, si riconosce che nel vegetale l'amorfofito è indifferente ed informe; l'antifìto è il  centro della formazione, il punto in cui si spiega l'opposizione fra il corpo e l'anima vegetale ; nel teleofito le due  sfere sono egualmente sviluppate. Il vegetale amorfo è l'alga,  prima chimicamente e poi anatomicamente semplice, indi  molteplice, ma tutta disgregata nei suoi elementi cellulari.  11 vegetale antimorfo è da un lato la felce vegetativa, dall'altro il fungo riproduttivo. Il vegetale teleomorfo è il cotiledonato, in cui la forma vegetativa e la forma riproduttiva  sono egualmente sviluppate. Analogo è lo sviluppo tipico  dell'animale. L'amorfozoo è informe e indifferente; nell'antizoo, punto centrale di tutta la formazione, si sviluppa  l'opposizione fra corpo e anima, fra sistema vegetativo e  sistema riproduttivo ; nel teleozoo i due opposti sviluppi sono  riuniti e in giusta proporzione fra loro. L'amorfo animale è  il protozoo, cioè il rizopode e l'infusorio; l'antimorfo è il  radiario, il mollusco e l'articolato; il teleomorfo è il vertebrato: pesce, anfibio, rettile, uccello, mammifero. I nomi  di amorfozoo, antizoo e teleozoo sono preferibili a quelli di  vertebrato ed invertebrato, che esprimono solo la presenza  o l'assenza di un elemento secondario.   Finché M. sta fedele al suo programma di dimostrare solo col farli muovere i principi filosofici ai quali  [I tipi animali,  Le opere scientifiche e la filosofia della natura] crede, egli lavora a meraviglia: originali le applicazioni  alla scala degli esseri viventi, alle varie forme della vita,  della scienza, della filosofìa, della storia; particolarmente  geniali e nuove le applicazioni alla patologia. Ma a volte  — rare volte, è vero — egli sente il bisogno di tentare una  dimostrazione logica di quei principi, e riesce invece, senza  avvedersene, a dimostrarne 1' ìnsuffìcenza, 1' arbitrarietà, la  nebulosità. Ciò gli accade nel Deus creavit, e nei tre dialoghi : / naturalisti ; Forza e materia ; Un nuovo corpo semplice. Nel Deus creavit — già lo abbiamo visto — egli  tenta, senza riuscirvi, di dimostrare che il pensiero è fin dal  primo momento essere. Nei Dialoghi affronta lo stesso problema in forma più concreta : ricerca il punto in cui l'essere  ed il pensiero si identificano, lo ricerca con la sicurezza di  chi sappia di rintracciare cosa esistente nella realtà ; e con  lo stesso metodo, lo stesso procedimento, lo stesso linguaggio,  e quasi la stessa mentalità con cui un naturalista potrebbe  studiare un essere da lui non visto ancora, ma del quale, per  descrizione autorevole e per indizi indiretti e certi, gli fosse  nota l'esistenza e i caratteri.] vero lutto è l'uomo, l'uomo come pensiero, in cui  l'uomo della natura, che in sé ricompendia tutta la natura,  si risolve ed unifica perfettamente. Ma come questo pensiero  eterno passa nel realizzarsi per tutti i gradi della natura ?  E che è questa natura ? Quale il suo primo grado ? Retrocedendo nella storia del processo naturale si perviene ad un  muro saldo, incrollabile, oltre al quale non si può andare:  quel muro è la materia. Certo la materia suppone lo spazio;  ma spazio senza materia non ci può essere. Chi dice spazio [I naturalisti, Diagolo 1°, nella Civiltà italiana, Firenze, La natura a volo d'uccello: Forza e materia, Dialogo, nella Civiltà italiana, Firenze, La natura a volo  d'uccello: Un nuovo corpo semplice, Dialogo, nella Civiltà italiana, Firenze,  Le opere scientifiche e la filosofia della natura.   dice tempo, e chi dice tutti e due dice moto; e dir moto  è dir qualche cosa che si muove, è dire  insomma  la  materia, moto immobile, forza latente ed inerte dell'universo.  La forza diviene sempre materia a traverso un suo sviluppo :  da forza chimica, semplice affinità, a forza fìsica, e da forza  fìsica a forza meccanica, e infine corporea. Ogni forza è la  materia della forza inferiore ed il germe della superiore : e  così il moto è il tempo materializzato; il tempo è lo spazio  divenuto più materiale. Sempre la materia è la realtà, il  limite di una forza; e la forza è la materia nel suo spontaneo svolgimento. La forza del pensiero da principio non  pensa ancora, ma si vuol pensare, ed è chiusa nella forza  semplice in cui tutte le forze speciali sono latenti ; e come  la più forte, le urta di sotto e fa uscire la forza chimica, che  si comunica a tutta la massa della forza semplice, sì che  tutto diventa forza chimica reale, affinità e materia puramente  chimica ; e fa di questa affinità informe un imponderabile  informe, e di questo un informe ponderabile, un corpo semplice informe.   L'uomo senza influsso di esterno accidente, mentre egli  era da per tutto ed era tutto, non poteva scegliere un punto  del tempo e dello spazio in cui operare la trasformazione  della materia semplice in corpo sémplice. E l'operò in un  punto del tempo e dello spazio che erano tutto il tempo, tutto  lo spazio. Quell'attimo, quello spazierello» si riempì di materia reale, naturale, diventò da spazio ideale spazio reale,  interminato, e con esso cominciò la natura. La forza del pensiero, come ha trasformato il moto, la forza semplice, in  forza chimica, così trasforma questa in forza fìsica, e la  forza fìsica in forza meccanica; e dallo stesso oscuro fondo  fa scaturire dietro a quelle forze la materia chimica, che si  trasforma in materia fìsica e indi in meccanica; e all'ultimo  in vera materia, in corpo chimico imponderabile, ponderabile. È la materia semplice che successivamente si modifica  e si realizza; è la proprietà chimica, è la speciale natura  Le opere scientifiche e la filosofia della natura.] fisica, è la figura meccanica, geometrica, cristallina, che si  aggiunge alla forza chimica imponderabile, ponderabile, e  le dà un primo corpo ed una nuova realità; gli è un corpo  incorporeo, una materia immateriale, una realità non sensibile. Le forze, e le loro forme, le loro proprietà, sono semplici, indifferenti, indistinte; esse sono avviate all'atto, alla  esistenza naturale, ma non ci sono giunte ancora. La forza  è molto pensiero e poca natura, e non ha tal realità e tal  valore da fare di uno spazio-pensiero uno spazio-natura; ma  la proprietà è più natura che pensiero ed è perciò atta ad  empire di se lo spazio ; onde appena il pensiero umano dietro  a quelle tre forze fa scaturire quelle tre semi-materie, subito  mette fuori lo spazio, e lo distende, e vi spiega le tre proprietà; e queste vi portano seco le loro forze, e le disseminano egualmente in tutti i suoi punti. Non perciò lo spazio  è pieno ed ha compiuta realtà. Egli è estensione, è materia,  ma non corpo, perchè non è ancora sensibile. Il primitivo pensiero umano ha dentro di sé un limite  che è esso stesso pensiero, ed è il germe e l'origine del senso;  di questo limite fa lo spazio-pensiero e il tempo-pensiero, e  il moto, la forza-pensiero, e persino il qualcosa, la materia  pensiero: e tutto questo rimane dentro di lui, rimane lui  stesso, ed è ancora poco men che pura ragione e semplice  pensiero. Ma poi egli, premendo di più su quel limite, fa  dello spazio-pensiero uno spazio-estensione, e di questo un  corpo sensibile prima al corpo, e poi, per mezzo del corpo,  anche all'anima. E poi, facendo del moto-pensiero un moto  reale, farà del tempo-pensiero un tempo durata; e poi farà  tutta la natura, e la vita — il vegetale —, e l'anima — l'animale ; e all'ultimo si rifa pensiero, e pensa se stesso e l'opera  sua. Di quel suo limite originario, che era un senso-pensiero,  egli ha fatto a poco a poco un senso-senso. E di questo senso  farà nella natura formata vari sensi distinti, e così farà dell'anima. Se noi facciamo la storia della natura, troviamo  all'origine della forza e della materia uno stesso identico germe, il quale è in uno pensiero umano e senso umano  originario. Quel germe, pur mantenendo sempre la sua originaria identità, si sviluppa di grado in grado, ed è prima  natura, poi vegetale, poi animale, e da ultimo uomo; e in  ogni grado conserva quelle due cose opposte, la forza e la  materia, sempre distinte e sempre unite in una perfetta identità. Nell'uomo, nell'io, nel pensiero reale, l'unità delle due  cose opposte è naturata, personificata, e incorporeamente  corporalizzata. Questa unità veduta nella nostra natura ci  fa più facilmente riconoscere l'unità dei due elementi nelle  nature inferiori, la psichica, la vitale, la naturale. Nell'afferrare ciò consiste la scienza. Questa è la storia della natura amorfa, in cui tutto è  quiete ed immobilità, in cui non c'è che un corpo semplice,  omogeneo, uniforme, informe. Poi — dice l'Autore — verrà  la natura antimorfa, lo sviluppo delle forze e delle materie,  il caos. Infine vedremo sorgere una nuova forza, che a tutte  le forze del caos darà una legge e una norma, a tutte le  materie una forma comune ; e sarà la natura olomorfa, il  cosmo. E vedremo la forza cosmica trasformarsi nella forza  vitale, e la forma cosmica divenire la forma vitale, vegetale.  E con questo programma egli termina il secondo dialogo,  Forza e materia; ma non pubblica più che un terzo dialogo (*), nel quale riassume la storia del pensiero umano, che  da prima tutta interna, tutta dentro un punto, si squaderna  poi nello spazio e si sgomitola nel tempo, e all'ultimo si  ritrasforma di natura in pensiero, e si riduce di nuovo ad  un punto, e questo punto è l'io. Come in principio il punto  originario, così ora il punto individuale si trasforma tutto;  ma la trasformazione non si fa, come allora, tutta in un atto, [Il dialogo (Un nuovo corpo semplice) è preceduto da questa nota. Il presente dialogo è indipendente dai precedenti », - Sappiamo già che  M. lavora spesso frammentariamente.  Le opere scientifiche e la filosofia della natura.] bensì successivamente. L'io è un animale naturale, individuale; ma gli ii sono molti, e sono come molti punti,  molti tempi in un solo tempo, e tutti fanno come uno spazio  intellettuale nello spazio naturale, La trasformazione umana  universale, come quella dell'individuo umano, si sgomitola nel tempo e si srotola nello spazio, e intanto si raggomitola e torna ad arrotolarsi nella storia. E perciò la storia  umana è una storia naturale di tempo e di spazio, è una  cronologia e una geografìa. La storia umana e la storia della  natura, essendo creata dal pensiero, è in ogni sua fase totale  e universale ; solamente non appare e non diventa reale che  in certi punti di tempo e di spazio: in certe epoche, in  certi luoghi, in certi corpi e in certi ii.   È facile scorgere che M. non è felice quando vuole  risalire ai principi sui quali ha fondata la sua costruzione.  Invero non si capisce come quel suo pensiero originario,  avendo nel senso un limite interno, possa non avere anche  un limite esterno, e tutta la natura, che invece deve ancora  nascere; ne si capisce come quel pensiero, a furia di premere  e caricare sul proprio limite, possa fare del senso-pensiero  un senso-senso, possa, in altre parole, trasformarsi da forza  in materia. Ma l'Autore non ha il più lontano dubbio di  star tentando la soluzione di un problema forse insolubile,  certo insoluto. Che forza e materia sieno due cose distinte  ed opposte, ma unite ed identiche è per lui una verità certa,  positiva, reale. Egli dichiara che non ha la pretesa di dimostrare, ma solo di far presentire la verità, come la presente egli stesso: e certo di quella verità da lui presentita non riesce a dare una dimostrazione logica. In una  pagina che onora il suo senso poetico più che la sua  GENTILE, LA FILOSOFIA ITALIANA. Forza e materia, I  naturalisti, Dialogo] profondità filosofica, egli afferma che il corpo è un vegetale,  è l'inferno, l'anima è parte materiale e parte immateriale  ma sempre naturale, il pensiero è il paradiso, e di pensiero  noi siamo tutti uni in Dio ; e per descrivere il suo paradiso  tratteggia con poche belle linee il paradiso dantesco. Come  Dante non può significar per verba il trasumanare, così egli  stesso non può chiarirci come 1' universo si unifichi nell'uomo; solo ci dice con slancio lirico che quella è la sua  fede. Alla fede in quanto è davvero tale e solo tale, ed  è ardente, profonda, incrollabile, sarebbe certo vano, se  pur fosse possibile, 1' opporre argomentazioni. Ma ai principi che di quella fede sono oggetto, e vengono posti a fondamento di una costruzione scientifico-filosofica, si può e si  deve chiedere se sieno suscettibili di avere dall'esperienza  una conferma o dalla logica una dimostrazione.   La risposta è negativa.  Quanto alla conferma dell'esperienza, M. dice che con le idee si scopre, è vero, la sostanza delle forme  e si tien dietro al loro movimento essenziale ; ma il controllo  è la stessa realtà che deve rimanere inalterata ed intatta,  ed è il fatto che deve essere riprodotto nella sua integrità,  e con tutte le sue condizioni essenziali. Ma se l'Autore  ammette l'esistenza di realtà e di fatti che non sono idee,  e che solo con le idee possono venir scoperti nella loro  sostanza e seguiti nel loro movimento, dovrebbe indicare  un terzo termine, atto a valutare la rispondenza fra gli altri  due. Non lo indica. Ma è chiaro che il terzo termine non  può essere per lui che la stessa idea, giudice e parte in  causa. Il controllo di cui egli ha parlato manca; e non  poteva non mancare. Nell'ambito dell'idealismo assoluto non  può esistere un controllo esterno, ne si può senza essere  [I tipi animali. Cfr. Dopo la laurea, Le opere scientifiche e la filosofia della natura. incoerenti ammettere l'esistenza di una realtà che non sia  l'idea o il pensiero.Quanto alla dimostrazione logica dei suoi principi, abbiamo veduto che le rare volte in cui M. la tenta  non la raggiunge, e cade in contraddizioni, come quando,  dopo aver affermato che il pensiero è l'essere, ne ragiona  come di un pensiero che pensa l'essere, e considera l'essere  come puro essere e non pensiero ('); o incorre in errori,  come quando afferma che il pensiero originario ha nel senso  un limite interno senza avere un limite esterno; ovvero si  appiglia ad ipotesi degne di un alchimista ostinato alla ricerca della pietra filosofale, come è quella della forza che  diviene materia premendo e calcando sul suo proprio limite. La sua filosofìa della natura, riposando su principi che  possono essere oggetto di fede, ma non possono avere dall'esperienza un controllo né dal ragionamento una conferma,  è una costruzione che può essere, ed è difatto, ingegnosa  e bella, ma è del tutto arbitraria. Di ciò mai ebbe alcun  sospetto l'Autore, sempre fermo nella sua fede hegeliana,  vita della sua vita, anima della sua anima. Egli non  intendeva di cercare una soluzione nuova; solo si proponeva  di svolgere ed elaborare una soluzione già da altri raggiunta.  La sua opera è fallita perchè aveva come presupposto e come  base quella conciliazione dell'essere e del pensiero, della  forza e della materia, che contrariamente a quanto egli credeva non era stata raggiunta da nessuno, e meno che mai poteva esserlo da chi, avendo studiata analiticamente la natura,  si ribellava a tagliare il nodo gordiano negando la natura  stessa o riducendola a una mera forma spirituale. Deus creavit. Forza e materia. Della medicina sperimentale; e cfr. tutte le opere di M. M.  non è d'accordo col Berkeley, che « sopprime la natura»;   Del Vecchio Veneziani Una costruzione speculativa della natura, quale l'idealismo assoluto e la riduzione della natura a pensiero esigono,  dev'essere tutta una deduzione necessaria per considerarsi  compiuta e riuscita. E in una deduzione logica e necessaria  l'accidente come tale non può trovar luogo. Non si dimentichi, del resto, die l'idea dominante in  tutte le assidue e lunghe meditazioni del M. intorno  alla natura, l'idea informativa di tutti i suoi studi era, come  egregiamente la definiva Fiorentino, « l'idea di contrapporre al predominio dell’accidente, che è il lato debole  del darwinismo, una spiegazione più intima e più razionale  delle forme, attraverso delle quali progredisce e si dispiega  la vita della natura... una ragione superiore, che regola lo  sviluppo dei tipi della vita naturale, finche non si dispieghi,  e non si allarghi nell’uomo e nella coscienza. Si trattava dunque per M. di superare quello  scoglio contro il quale, a suo vedere, naufragava il darwinismo; di evitare la trasformazione dell' accidente in Deus  ex machina, al quale far ricorso perchè o dove non soccorra  una ragione superiore o una spiegazione più intima e razionale.   M. appunto dice e ridice, anche per quanto si  riferisce alla natura, che la filosofia vive nella sfera della  necessità e della certezza assoluta; ma in contrasto con  questa esigenza afferma anche l’indispensabilità dell’accidente in tutti i momenti della creazione. Ora l'accidente,  che è dichiarato indispensabile, o è razionalmente necessario,  cioè deducibile a priori, e allora deve rientrare nella costruzione speculativa come elemento interno, e non esteriore, sicché non può più dirsi propriamente accidentale. O è la né col Fichte, nel cui sistema la natura c'è soltanto quanto basta per far  la coscienza, ed è quindi ridotta ad una espressione astratta. Cfr. Prenozioni, La filosofia contemporanea in Italia,  Dopo la laurea, negazione della necessità razionale e della deduzione a  priori, ed in questo caso la dichiarazione della sua indispensabilità costituisce il confessato fallimento della costruzione  speculativa. M. oscilla fra le due alternative, senza  sapersi appigliare né all'una né all'altra. Questa non meno di quella avrebbe significato il riconoscimento della contraddittorietà della sua impresa.  Invero l'accidente sembra necessario per lui a costituire  nella catena dello sviluppo creativo l'anello iniziale e gli  anelli di saldatura tra i frammenti non altrimenti congiungibili. L'anello iniziale, poich'egli dice che quando non  c'era la natura e quindi l'accidente » era impossibile all'uomo (ossia all'idea di Uomo, che come fine deve precedere e determinare lo sviluppo), senza arbitrio e « senza influsso di esterno accidente, di scegliere un punto del tempo  e dello spazio in cui operare la iniziale trasformazione della  materia semplice in corpo semplice. Gli anelli di saldatura, in quanto dice che l'accidente, elemento costitutivo  della natura, è necessariamente compreso nel processo della  funzion ; che ogni tipo vivente è già idealmente quello  che dee succedergli, ma non basta a crearlo, a produrlo realmente nella natura, senza il concorso di cause accidentali e  d'esterni influssi. E in generale tutto il processo e lo  sviluppo della natura per M. consegue la realtà solo in quanto l'accidente interviene e concorre con l'idea alla  produzione del risultato. Il fatto è anche idea, ma l'idea  non è reale e non esiste che nel fatto; « il principio  e la potenza della vita... è sempre unito a un qualche  elemento materiale e meccanico che lo fa reale e particolare, che è quanto dire individuale ed accidentale. Forza e materia,  / mammiferi. Prelezione al corso di fisiologia dato nella R. Un. di Modena.  Degli elementi della medicina. Le opere scientifiche e la filosofia della natura. M. considera i vari tipi carne momenti evolutivi di un  tipo ideale assoluto, l'uomo eterno. Crede che tutte le forme  preesistano in forme germinali di cui sono lo sviluppo creativo interno e spontaneo. Ma la creazione non consiste soltanto, nella determinazione ideale originaria di quegli schemi  indeterminatissimi », sì anche nella loro delimitazione naturale, o sia accidentale. E molte volte ripete che la natura  è accidente e che l'idea spirituale esiste solo legata all'accidente. Ma qui appunto si potrebbe obiettare alla nostra osservazione, che noi dobbiamo approfondire il concetto dell'accidente che M. afferma. Legato all'idea, intrinseco alla natura, l'accidente che egli fa entrare in campo a  determinare e spiegare lo sviluppo non è, come l'accidente  dei darwiniani, puramente estrinseco e meccanico. Ha anzi  esso medesimo una necessità interiore ; è il momento della  antitesi, senza il quale non potrebbe svolgersi la sintesi creativa. L'uomo eterno, dice appunto M., è « la forma,  l'anima, la forza, la spontaneità pura, assoluta, in cui lo stesso accidente, il limite indifferente, l'assoluta particolarità  esiste, ma nella forma di principio, di universalità, di necessità : ed è in questa contraddizione che consiste la sua attività  creatric. Per questa via parrebbe risolversi la difficoltà nella quale  ci appare impigliato la filosofia di M.. Che se anche  altrove egli identifica il puro accidentale col male, non vi  sarebbe contraddizione con la universalità e necessità riconosciuta sopra all'accidente; ma distinzione di due specie  di accidenti o di nature: l'interna e l'esterna; necessaria la  prima, accidentale in senso proprio la seconda. M. difatti parla esplicitamente di una natura esterna che viene  Deus creavit,  (/ tipi ammali. Le opere scientifiche e la filosofia della natura. a dare l'ultima mano alla natura interna, di un agente esterno  ed accidentale che non era compreso nel processo della  natura interna, non era calcolato nella evoluzione vitale, e  oltre a modificare, sia pur solo superficialmente e quantitativamente, le forme, e favorire la trasformazione, e provocare  la nuova interna creazione e lo sviluppo di germi latenti,  « può fare e fa certamente di più, v'introduce qualche cosa  di accidentale e di naturale. Di fronte a questo accidente,  esterno sta l'interno : « vi è già — soggiunge M. —  nella forma latente un principio di accidente. Essa è semplice ed una, ma nella sua unità vi è un germe di differenza  e di moltiplicità, vi è l'attitudine e la disposizione a dividersi  in molti e diversi, ed è un accidente indeterminato e scolorato, pura possibilità di farsi, più che non è, accidentale. L’accidente esterno feconda 1' accidente interno e gli dà  corpo e colore, e ne fa una realità accidentale e naturale. Gli agenti esterni stimolano, promuovono, determinano, ma Dio opera la trasformazione. L'accidente  può render conto delle differenze secondarie, non giunge ai  veri gradi della formazione. Esiste dunque una storia  interna, essenziale, ed una esterna, accidentale; ed esistono due sorta di accidente: uno necessario ed essenziale,  l'altro secondario e individuale: il primo, l'accidente  necessario, assoluto, realizza l'evoluzione creativa ideale,  intrinseca, assoluta della forma animale; accompagna ogni  realtà, circoscrive esteriormente le forme, e fa esistere gli  individui; l'altro, l'accidente accidentale, nasce dall'intreccio dei processi e dal cozzo inevitabile delle cause na- [Lettera sulla patologia storica] Cfr. Deus creavit, passim. Dopo la laurea, tipi animali, tipi animali, Cfr. Deus creavit, Deus creavit, Le opere scientifiche e la filosofia della naturatura] li, delle quali una è la darwiniana concorrenza vitale, da  cui deriva la formazione delle varietà, delle specie, dei generi, ma la sua azione non potrebbe estendersi fino ai tipi. La natura finisce per essere, come la società umana, una  lotteria. Finisce, ma non comincia; e non è una lotteria da  capo a fondo », perchè ha le sue basi ideali e le sue leggi necessarie. Se non che arrivati a questo punto noi possiamo domandarci : l'obiezione che abbiam detto potersi muovere al nostro  rilievo delle difficoltà inerenti al pensiero del M., è  veramente risolutiva? Questo approfondimento del concetto  di accidente, questa distinzione delle due specie di esso,  interna o necessaria ed esterna o accidentale, elimina veramente la contraddizione nella quale ci era sembrato che questa  filosofia della natura si involgesse ? L’accidente interno consiste nella indeterminazione e  molteplice possibilità della forma latente. Ma intanto M. più volte afferma che senza il concorso di esterno accidente la possibilità non passerebbe all'atto, non si farebbe  realtà di natura. Tra la potenza e l'atto bisogna che s'inserisca un mediatore perchè il passaggio avvenga. Sicché l'accidente esterno è da lui riconosciuto indispensabile non soltanto per l'esistenza degli individui, ma anche per la produzione reale dei tipi nella natura. E del resto la stessa  molteplice possibilità in cui è fatto consistere l'accidente  necessario, del pari che l'intreccio dei processi dal quale si  fa nascere l’accidente accidentale, possono essere a loro  posto in una concezione puramente causale e meccanica della  natura (per esempio in quella cartesiana), ma non sono più  a posto in una dottrina finalistica, nella quale il termine finale, l'uomo eterno, pre-esiste a tutto il processo di sviluppo e lo  genera esso medesimo. Voler dimostrare che nella natura si compie uno sviluppo  teleologico, e non saper negare che vi sia anche qualche cosa  di ciò che il Darwin vi scorge, ossia che la natura finisce per  essere, come la società umana, una lotteria, è contraddizione  non conciliabile tra l'intenzione e il resultato.   E si potrebbe anche aggiungere che una contraddizione è  nello stesso intervento dell' accidente esterno a spiegare la  patologia. L'intero edinzio della patologia storica costruito  dal M. crollerebbe, se non intervenisse l'accidente accidentale, perchè solo «se l'accidente, esterno o interno che sia, se la irragionevole cattiva natura interviene,  e rompe la legge, e viola la ragione; se l'arbitrio umano o  naturale modifica la qualità della causa motrice, e ne muta  la relazione, e ne altera la proporzione con la interna sfera  umana, questa si altera e si disordina. Ora si ricordi che  per M.  la malattia corrisponde al passaggio dall'innocenza alla colpa, a cui succede il passaggio ad una forma  superiore d'innocenza, alla libertà. Se questa forma superiore,  che è il fine dello sviluppo, non è raggiungibile che attraverso  a questo processo, il processo è necessario, e necessari, non  accidentali sono i suoi momenti : la tesi, l'antitesi e la sintesi.  Ma allora come può il momento dell'antitesi essere un accidente violatore della ragione ? In un idealismo assoluto, e  particolarmente nel ritmo dialettico che si svolge nel movimento degli opposti, il momento negativo non è meno necessario che il positivo a dare con la negazione della negazione  la più alta realtà. Come può dunque in questa concezione  filosofica trovar luogo l'accidente accidentale di M.? Come può un accidente siffatto, cioè un accidente  estrinseco, che rompe la necessità e viola la ragione, essere  costitutivo della natura quale dev'essere intesa in un idealismo  assoluto, cioè come pensiero o ragione ? [Delle prime linee della patologia storica]. Queste contraddizioni si collegano con una profonda, inconciliabile contraddizione interna del pensiero di M..  È in fondo il contrasto fra il naturalista e il filosofo idealista,  contrasto che si svolge anche nell'antitesi fra l'ardente e  costante aspirazione a ricongiungere ed unificare la fisiologia  con la filosofia, e lo scrupolo della divisione del lavoro, che  talvolta si riaffaccia: la metafisica ai metafisici, a noi la  fisiologia. Questo è il suo conflitto intemo non superata,  che si potrebbe estendere ben oltre il suo caso individuale. Invero se la natura è, come M. sostiene, idea e  natura a un tempo, la divisione del lavoro non è possibile:  il fisiologo non può essere tale se non è prima filosofo; la  fisiologia non può essere costruita se non è costruita prima la  metafisica. E costruita non da altri, ma dal fisiologo stesso,  come altrove M. riconosce. Perchè, secondo il  principio vichiano ed hegeliano, per M. il fare soltanto ci dà il vero conoscere : criterio del vero è il farlo. Dal che sarebbero pure derivate conseguenze contrarie  alle conclusioni di M. intorno ai rapporti fra la teoria  e la pratica medica. Infatti come può la separazione della  jatrofilosofia dall'attività del medico pratico conciliarsi con  l'unità del vero col fatto? Se la vera scienza è la storia,  perchè è la realtà vivente, non varrà anche per la jatrofilosofia la massima che criterio del vero è il farlo ? E non sarà  quindi contraddittorio il dichiararla disgiunta dalla pratica,  e quindi inutile come tutte le cose eccellenti, virtù, giustizia,  arte, religione, scienza ? Ed ecco il criterio della verità della  jatrofilosofia nella pratica, nella clinica, nella cura delle malattie, secondo voleva TOMASSI. Anche qui M. Lettere fisiologiche, Cfr. Dopo la laurea, là dove si riconosce come necessaria, sia pur soltanto al sapere positivo, la divisione del lavoro. [Idea della fisiologia greca ; e altrove. La natura medicatrice e la storia della medicina] mostra di non aver raggiunta la piena coerenza del suo pen-  siero, né la piena consapevolezza delle esigenze dei suoi  principi. Egli, come ogni naturalista, riconosce la funzione del-  l' accidente ; ma il rapporto e il contrasto fra il necessario  e l'accidentale, fra ciò che è conoscibile e costruibile a priori  e ciò che è dato solo dall'osservazione sperimentale, rimane in  lui insoluto. Ed egli non riesce a vincere le difficoltà che anche  Hegel aveva incontrate nel costruire la sua filosofìa della na-  tura, la quale è certo la parte più debole del suo sistema. L'errore fondamentale del M. è consistito in questo :  che egli ha attribuite le deficenze della filosofìa della natura  hegeliana a cause fortuite e soggettive, e non ha scorto che  le cause erano intrinseche al sistema, per se stesso tale da non  consentire che vi fosse inquadrata una filosofia della natura  compiuta, razionale e concreta ad un tempo. E andò cercando  per tutta la vita una soluzione non raggiunta ancora, sempre  credendo di lavorare solo alla dimostrazione e alle applica-  zioni di quella, che egli stimava già scoperta da Hegel. Grice: “De Meis’s theory resembles my pirotological progression, heavily! I like his generalisations. I wish we had at Oxford such a freedom to generalise!” -- Camillo De Meis. Angelo Camillo De Meis. Meis. Keywords: implicature, citato da Pirandello in “Il fu Mattia Pascal” “Chi lo dice? – gli domanda forte il giovane, fermo, con aria di sfida. Quegli allora si volta per gridargli: “Camillo De Meis!” –-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e e Meis” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Melandri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- le forme dell’analogia – analogia nel convito di Platone – Reale – filosofia ligure – la scuola di Genova -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “One of the ten items he lists in his ‘Contro lo simbolico’ is ‘lo simbolico’ itself!” -- Grice: “Melandri takes analogy more seriously than I did – I do list ‘analogy’ as part of what I call ‘philosophical eschatology – the third branch of metaphysics, along with ontology and category study.” Grice: “Melandri focuses on the Graeco-Roman tradition of analogy, which he pairs with two other concepts: proportion, and symmetry – re-interpreting mainly Aquino’s reading of the Aristotelian tradition in a semiotic approach.” Grice: “Melandri also takes Kant seriously on this.” Grice: “If an Italian philosopher wrote ‘contro la comunicazione,’ another wrote ‘contro il simbolico’!” --  Grice: “He has studied Buehler; I like that!” Laureatosi a 'Bologna, è lettore a Kiel in Germania. Insegna poi a Lecce, Trieste e Bologna. Parallelamente all'attività universitaria, collabora con Mulino e alla rivista omonima, per le quali ha svolto attività di consulenza, con traduzioni e curatele, pubblicando con essa alcuni dei suoi saggi. I suoi saggi vertono sulla fenomenologia di Husserl, sul concetto di analogia e sul principio di simmetria. Tra le sue curatele, anche presso altre case editrici -- Cappelli, Faenza, Laterza, Ponte alle Grazie, Giuffrè, Pitagora ecc. -- ci sono studi che vanno dalla scienza politica di Ritter e di Habermas, alla fenomenologia di  Schütz, dalla logica di Copilowski e dalla filosofia del linguaggio do Hoffmann o dai paradossi di Bolzano (e poi la storia della logica di Scholz), agli studi di metodologia scientifica di Pap, a quelli di psicologia della percezione di Meinong o di Ehrenfels, e dall'estetica di Trier alla metaforologia» di Blumenberg ecc.  Ha istituito un gruppo di studi su Leibniz, in seguito affiliato col nome di «Sodalitas Leibnitiana» alla Leibniz-Gesellschaft di Hannover. Ha anche collaborato attivamente alle attività del Centro di studi per la filosofia mitteleuropea con sede a Trento; partecipando  alla realizzazione della rivista Topoi. Da vita agl’Annali dell'Istituto di discipline filosofiche dell'Bologna, poi trasformatisia nella rivista semestrale «Discipline filosofiche», ancora attiva e di cui è stato il direttore. Tra i suoi saggi, spicca per centralità di pensiero “La linea e il circolo,” definito d’Agamben un capolavoro della filosofia.  Il filo conduttore di tutta la riflessione di M. è il rapporto tra pensiero logico e pensiero analogico. Mentre la logica tende a svilupparsi mediante un concetto d'identità elementare, legato alla discontinuità del principio di non-contraddizione, l’ANALOGIA si fonda invece sul principio di continuità, legato alla figura oppositiva della contrarietà, che ammette una transizione tra gl’opposti. Ora, queste due forme di ragionamento non sono affatto inconciliabili, ma complementari, in quanto fondate, non su una struttura assiomatica, ma su una diversa direzione costitutiva dell'esperienza. Questa diversità prospettica si realizza, secondo M., nella fenomenologia husserliana, di cui egli tende a evidenziare l'empirismo radicale connesso alle strutture costitutivo-trascendentali della soggettività e ben distinto, dunque, da quell'idealismo entro cui troppo spesso si è voluto rubricare l'atteggiamento fenomenologico. In ultima istanza, congiungendo istanze aristoteliche e husserliane, M. assume una concezione dell'essere fondamentalmente equivoca, nell'ambito della quale l'intenzionalità si presenta, al tempo stesso, come principio formale logico e funtore operativo analogico. Inoltre, M. espone questi contenuti filosofici attraverso un metodo d'indagine e d'insegnamento del tutto particolare, che viene così descritto da Besoli, filosofo a Bologna. A lezione, si può dire che M. non parlas, ma pensas ad alta voce dando l'illusione, quanto mai benefica ed essenzialmente terapeutica, di pensare insieme con lui. Si ha l'impressione di assistere, dunque, a un pensiero in corso d'opera, e più propriamente ciò che accade e un'esperienza di pensiero condivisa, giacché la condivisione e appunto la condizione stessa della buona riuscita di tale esperienza  Altri saggi: “I paradossi dell'infinito nell'orizzonte fenomenologico,” -- introduzione a Bolzano, “I paradossi dell'infinito”, Cappelli, Bologna; “Logica ed esperienza,” “La scienza come criterio storio-grafico,” “Note in margine all'organon dei peripatetici; “Considerazioni critiche sui syn-categorematica – co-predicabili – negazione come avverbio, la congiunzione ‘e’ come co-predicabili, la disgiunzione ‘o’ come co-predicabili, l’implicazione ‘se’ come co-predicabile -- ” in "Lingua e stile", “Esistenzialismo,” “Logica e Logistica”  Enciclopedia “Filosofia,” Preti, Feltrinelli, Milano; “Psicologia galileiana” -- poi in Sette variazioni in tema di psicologia e scienze sociali; “Foucault: l'epistemologia delle scienze umane", in «Lingua e stile». “E corretto l'uso dell'analogia nel diritto? Zoon Politikon. Bolk e l'antropo-genesi, Che Fare, “La linea e il circol: studio logico-filosofico sull'analogia, Bologna: Mulino  rist. Macerata: Quodlibet, prefazione d’Agamben, appendice di  Besoli e Brigati, Limongi. Nota in margine all'episteme di Foucault, Lingua e stile, La realtà e l'immagine, in Barth, Verità e ideologia; Sulla crisi attuale della filosofia, Mulino,  L'analogia, la proporzione, la simmetria, Isedi, Milano. I generi letterari e la loro origine, Lingua e stile, Quodlibet, Macerata, L'inconscio e la dialettica, Bologna: Cappelli, Freud: L'inconscio e la dialettica, Sette variazioni in tema di psicologia e scienze sociali, Bologna: Pitagora;  L'inconscio e la dialettica, Macerata: Quodlibet. Bühler. La crisi della psicologia come introduzione a una nuova teoria linguistica, in Animo ed esattezza. Letteratura e scienza, Marietti: Casale Monferrato, Variazioni in tema di psicologia e scienze sociali, Pitagora, Bologna; Matematica e logica in psicologia: applicazione propria determinante o im-propria analogico-riflettente, L'inconscio e la dialettica, Macerata: Quodlibet, Per una filologia del sublime, in "Studi di estetica" (Grice: “I like that; surely there must be an ordinary unpompous way to say or mean ‘sublime’” – “Go thorugh the dictionary!” -- La novità degl’ultimi tremila anni, Mulino", "Faenza" e Marisa Vescovo, L’oblio affligge la memoria; La comunicazione e la retorica, Contro il simbolico. Lezioni di filosofia, -- Grice: “The ten ‘concepts’ he chooses are less important than the generic remarks he makes about the whole ten.” Grice: “While in his study on ‘analogia, proporzione, simmetria,’ he is semiotic, in this one he is thoroughly hermeneutic!” -- Quodlibet, Macerata, postfazione di Guidetti; Sul concetto di descrizione nella psicologia fenomenologica, in "Intersezioni", Su quel che è dato” (Grice: “A good analysis of a phrase I overuse, ‘datum,’ as per sense-datum’! in "erri", Le ricerche logiche di Husserl: introduzione e commento, Mulino, Bologna, Su quel che c'è, e quel che immaginiamo che ci sia, o della principale equi-vocazione del termine 'rappresentazione')", in Discipline filosofiche, Il problema della comunicazione, Paradigmi, Tempo e temporalità nell'orizzonte fenomenologico, Discipline filosofiche, La crisi dei grandi sistemi e l'avvento della filosofia esistenziale, Questo nostro tempo -- studi e riflessioni sull'evolversi della nostra epoca” (Bologna); Filosofia come critica della conoscenza e impegno interdisciplinare, Tratti, Besoli, Il percorso intellettuale, in Studi su M., Faenza, Agamben, Archeologia di un'archeologia, in M., La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull'analogia, Macerata: Quodlibet, Agamben, Al di là dei generi letterari, in M., I generi letterari e la loro origine, Macerata: Quodlibet,  Ambrosetti, Sugli stoici, Roma: Aracne; Ambrosetti, Una lettura di Epitteto", in "dianoia", Besoli, "Il percorso fenomenologico", in  La fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni, Roma: Inschibboleth; Besoli e Paris (Faenza: Polaris); Bonfanti, Le forme dell'analogia. Roma: Aracne. Cimatti, "Postfazione: Psicoanalisi e rivoluzione", in L'inconscio e la dialettica, Macerata: Quodlibet  sinistra in rete.info cultura’ Lagna e Lévano, "Contro l’isomorfismo. Il rapporto soggetto-oggetto, Philosophy Kitchen, Matteuzzi, "Prefazione", in Ambrosetti, Sugli stoici, Roma: Aracne); Palombini, "Dal chiasma ontologico al chiasma trascendentale. Forme di razionalità in «Philosophy Kitchen», Possati, La ripetizione creatrice. lo spazio dell'analogia, Milano-Udine: Mimesis. Sini, "Lo schematismo figurale", in Besoli e Paris. Solerio, Le opere di  M. edite da Quodlibet, edizione completa. Discipline Filosofiche, rivista di filosofia. Enzo Melandri. Melandri. Keywords: Bühler, l’aggetivo ‘galileano’ -- le forme dell’analogia, Grice – analogia – problema della comunicazione, Buehler, teoria di Buehler, analogical unification, lacomunicazione, implicaturaproblematica, aquino, kant, mill, jevons, maxwell, Perelman, abcd, haenssler, dorolle, lyttkens, Reichenbach, newton, cellucci, marramao, aristotele, platone, convito, reale, grice, analogicalunification, owens, ross. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Melandri,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Luigi Speranza -- Grice e Melanipide: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Bari. The author of a number of tragedies. He appears to have practised a relatively ascetic version of Pythagoreanism. Grice: “Cicerone argues: Melanipide spoke Greek, not Latin; therefore, he is not an Italian. At Oxford, we are a bit more inclusive: Gellner spoke French, he is a Jewish philosopher who teaches at some London red-brick!” -- Melanipide

 

Luigi Speranza -- Grice e Melchiorre: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – il corpo – la filosofia dell’amore – amante ed amato – il convito di Turolla – la scuola di Chieti -- filosofia abruzzese --  filosofia italiana -- Luigi Speranza (Chieti). Filosofo italiano. Chieti, Abruzzo. Grice: “I like Melchiorre; while I refer to bodily identity in my “Mind” essay, Melchiorre has dedicated a whole treatise to ‘the body’ – he has also explored semiotic aspects and come up with nice oxymora: ‘nome indicibile,’ ‘immaginazione simbolica,’ ‘essere e parola.’”. Grice: “Melchiorre’s first explorations on the concept of body is Strawsonian – corpore e persona -. What led Melchiorre to this reflection is what he calls a meta-critique of love – Socrates did his critique of love in the Symposium, and Phaedrus – Melchiorre analyses this from a body-theoretical perspective.” Dopo essere stato ammesso al Collegio Augustinianum, inizia a frequentare la Facoltà di Filosofia all'Università Cattolica del Sacro Cuore, dove si laurea.  Terminati gli studi, nel medesimo ateneo inizia la carriera accademica come assistente volontario di filosofia della storia, per poi insegnare a Venezia.  Richiamato a Milano, ha ricoperto  la cattedra di Filosofia morale, per poi insegnare Filosofia teoretica. Ha diretto, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Cattolica, la Scuola di specializzazione in Comunicazioni sociali. Altri saggi: Arte ed esistenza, Firenze’ Il metodo di Mounier, Milano; Il sapere storico, Brescia; La coscienza utopica, Milano; L'immaginazione simbolica, Bologna, Meta-critica dell'eros, Milano, Ideologia, utopia, religione, Milano, Essere e parola, Milano, Corpo e persona, Genova, “Studi su Kierkegaard, Genova, Analogia e analisi trascendentale: linee per una lettura di Kant, Milano, Figure del sapere, Milano, La via analogica, Milano, Creazione, creatività, ermeneutica, Brescia, I segni della storia, Ghezzano Fontina, Al di là dell'ultimo, Milano, Sulla speranza, Brescia, “Ethica,” Genova, Dialettica del senso. Percorsi di fenomenologia ontologica, Milano, “Qohelet, o la serenità del vivere,” Brescia, Essere persona,” Milano, Breviario di metafisica, Brescia, Il nome indicibile, Milano, Profilo nel sito dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Recensione del volume Essere persona. Natura e struttura di Rigobello, in Acta Philosophica, Rivista internazionale di filosofia. Unità e pluralità del vero: filosofie, religioni, culture. I diversi volti della verità Relazione di M., Convegno del Centro Studi Filosofici Gallarate, video integrale nel sito Cattedra SERBATI. M., Rai Educational Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche.  Grice: “Melchiorre, while quoting the necessary German sources for an Italian philosophers – Eros und Agape, tr. N. Gay – he dwells on Enrico Turolla’s beloved (by every Italian schoolboy) version of “Convito” – which Turolla published under the ostentatious title, “Dialogo dell’amore” – Melchiorre typically finds some mistakes, since Turolla was no philosopher – and no lover of Sophia, and no Sophos of love!” -- Virgilio Melchiorre. Melchiorre. Keywords: il corpo corpi e personi, meta-critica dell’eros, il convito di Trolla, il fedro di Turolla – amore – il riconoscimento come identita – la dialettica dell’atto amoroso – l’amante e l’amato – l’amore reciproco, amore e contramore, erote ed anterote --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Melchiorre” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Melesia: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilcata. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide. Grice: “Cicerone complained that Melesia spoke Greek, not Roman!” – Melesia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Melisso: la ragione conversazionale e la scuola di Velia -- Roma – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Velia). Filosofo italiano. Velia, Campania. A pupil of Parmenide di Velia. The cosmos is not physical and change is an illusion he attributed to the unreliability of the senses. Luigi Speranza, “Grice e Melisso”, The Swimming-Pool Library. Melisso

 

Luigi Speranza -- Grice e Melli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- AVRELIO – filosofia italiana – la filosofia a Roma nel tempo di Pomponio – pre-ambasciata -- Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Melli; you see, Italians feel that Marc’aurelio is theirs, so Melli puts his soul in his essay on Marc’aurelio, while his essay on Socrates is rather neutral! For us at Oxford, both Marc’Aurelio and ‘Socrate’ are just as furrin; Locke ain’t!”. Altri saggi: La filosofia di Schopenauer, Felice Tocco, Firenze, Il professor Tocco, Firenze,Commemorazione di Villari, Firenze,  La filosofia greca da Epicuro ai Neoplatonici, Firenze, Socrate, Lanciano. I primi contatti tra i filosofi romani e i filosofi greci non sono amichevoli. Essendosi parlato in senato dei filosofi e dei retori il senato consulto da incarico al pretore Marco POMPONIO (si veda) di provvedere “uti Romae NE essent [FILOSOFI greci]”. Semi della filosofia greca sono sparsi dagl’esuli ACHEI, tra i quali era anche Polibio, venuti dopo la guerra macedonica. Pochi anni dopo, ci e l'ambasciata della quale fa parte Carneade. Anche questa volta vedemmo come CATONE (si veda) s’impensiera dell’efficacia rovinosa che quell’abile parlatore puo esercitare sull'educazione nazionale. Ma Carneade ha un grande successo e l’infiltrazione delle idee filosofiche grechi e già cominciata, specialmente dopo la conquista delle città della Magna Grecia come Crotone – sede della scuola di Pitagora --, Taranto – sede della scuola di Archita --, Velia – sede di Parmenide e Senone – e dopo l’isola della Sicilia – Girgenti, sede della scuola di Empedocle --, e Leontini, sede della scuola di Gorgia. Nei ditti, tradotti o imitati, i filosofi romani senteno parlare di questo ‘amore di sapienza’, filosofia, e degl’amanti di sapienza, filosofi. Un motto si trova in un frammento di ENNIO (si veda), nel Neottolemo. Philosophari mihi necesse est, sed degustalidum de ea, non ingurgitandum in eam. Col progredire della cultura, con lo svilupparsi dell'eloquenza, nasce il bisogno di far istruir i romani presso questi pedagogi schiavi ditti amanti di sapienza. Alcuni grandi personaggi, come SCIPIONE Emiliano (si veda) e il suo amico LELIO (si veda) divieno protettori dei questi pedagogi detti ‘amanti della sapienza’ e li ammettano nella loro familiarità. I giureconsulti trovano un'utile disciplina nella dialettica, studiata nella lingua strainiera, non in romano. La riforme di GRACCO (si veda) -- Gracchi -- e ispirata da idee di questi ‘amanti di sapienza’. Quello che i filosofi romani domandano a questo ‘amore di sapienza’ e 1'orientazione nelle questioni pratiche e una cultura necessaria o utile all’oratore,  al giureconsulto, agl’uomini di stato. Cominciano ad essere conosciute le diverse scuole o sette. Una delle prime ad essere trattata in latino e la dottrina dell’Orto. Sono nominati un  AMAFINO (si veda) e un RABIRIO (si veda) come espositori delle idee, dell’Orto, ma con poca arte. Più tardi è pure ‘edonista’ – sostenitore del piacere -- un certo CAZIO (si veda), “levis quidem, sed non inineundus tamen auctor”, secondo Quintiliano. Ma non ne sappiamo nulla. Il grande interprete dell'edonismo presso i Romani è LUCREZIO (si veda), che segue Empedocle. Altri ‘amanti di sapienza’ sono M. BRUTO minore (si veda), l'uccisore di Cesare, che parla della virtù e dei doveri, e il dottissimo VARRONE (si veda), che insieme con Bruto, sente Antioco in Atene, e in psicologia e in teologia segue più il PORTICO che l'Accademia. Ma tutte queste sono semplici notizie. Il gran nome che oscura, tutti gl’altri ed è per noi il vero rappresentante e inter-prete della filosofia presso i romani è CICERONE (si veda). I primi contatti tra Roma e i filosofi greci non furono amichevoli. Abbiamo già accennato al senatocon- sulto del 161, nel quale, essendosi parlato in senato dei filosofi e dei retori ch’erano in Italia, si dava incarico al pretore Marco Pomponio di provvedere uti Romae ne essent. Pare che i primi semi della filosofia fossero sparsi dagli esuli achei, tra i quali era anche Polibio, venuti * dopo la guerra macedonica nel 168 a. C. Pochi anni dopo, nel 156 ci fu l’ambasciata della quale faceva parte Oar- neade, e anche questa volta vedemmo come il vècchio Catone s’impensierisse dell’efficacia rovinosa che quegli abili parlatori potevano esercitare sull’educazione nazionale. Ma ebbero, come sappiamo, un grande successo ; e l’infiltrazione delle idee greche era già cominciata con la letteratura, specialmente dopo la conquista delle città della Mago a Grecia. Nelle tragedie tradotte o imitate, e LA FILOSOFIA PRIMA DI CICERONE 201 anche nelle commedie, i Romani sentivano parlare sul teatro di filosofìa e di filosofi. (Ricordo il motto che si trova in un frammento di Ennio, nel Neottolemo di Euripide: Philosophari mihi necesse est, sed degustan- dum de ea, non ingurgitandum in eam). Ool progredire della cultura, con lo svilupparsi dell’eloquenza, nasce il bisogno d’istruirsi presso i filosofi. Alcuni grandi personaggi, come Scipione Emiliano, il suo amico Lelio, diventano protettori dei filosofi, li ammettono nella loro familiarità. I giureconsulti trovano un’utile disciplina nella dialettica stoica; le riforme dei Gracchi sono ispirate da idee filosofiche: quello che i Romani domandavano alla filosofìa era l’orientazione nelle quistioni pratiche e una cultura necessaria o utile agli oratori, ai giureconsulti, agli uomini di Stato. Cominciano ad essere conosciute le diverse scuole. Una delle prime ad essere trattata in latino dev’essere stata la dottrina di Epicuro, perchè sono nominati un Amafinio e un Rabirio come espositori della filosofìa epicurea, ma pare con poca arte; e più tardi, ai tempi di Cicerone, è pure epicureo un certo Catius, levis quìdem, sed non ìniueundus tamen auctor, secondo Quintiliano. Ma non ne sappiamo nulla. Il grande interprete dell’ Epicureismo presso i Romani è Lucrezio. Altri scrittori di filosofìa furono M. Bruto, l’uccisore di Cesare, che scrisse della virtù e dei doveri, e il dottissimo Varrone, che insieme con Bruto aveva sentito Antioco in Atene, e in psicologia e in teologia seguiva, pare, più gli Stoici che l’Accademia. Ma tutte queste sono semplici notizie. Il gran nome che oscura tutti gli altri ed è per noi il vero rappresentante e interprete della filosofia presso i Romani è M. Tullio Cicerone. 202 LA FILOSOFIA A ROMA L’uomo politico e l’oratore non ci appartengono, ma sui filosofo dobbiamo fermarci un momento. 2. - Cicerone nacque nel 106, fu ucciso dai sicari di Antonio nel 43 a. C. Studiò in Atene e a Rodi, udì maestri delle varie scuole : Fedro epicureo, Filone di Larissa accademico: lo stoico Liodoto divenne suo ospite per più anni, e diventato cieco morì in casa sua: udì poi ad Atene Antioco di Ascalona, l’epicureo Zenone, e a Rodi lo stoico Posdonio. Cli uffici pubblici e la vita tempestosa di Roma in quegli ultimi anni della Repubblica lo avevano distolto dagli studi filosofici, ch’egli del resto aveva considerato sempre come una preparazione necessaria all’oratore e poi come una nobile distrazione dello spirito; ma le vicende della vita pubblica, l’ozio a cui è condannato dopo la battaglia di Farsaglia, e sventure domestiche, tra cui specialmente la morte della figlia Tullia amatissima, lo riconducono alla filosofia, nella quale egli cerca un’occupazione e una consolazione. Bisogna aggiungere a questi motivi quella che chiamano la vanità letteraria, e ch’è la passione dello scrittore di razza, di uno scrittore di prim’ordine e che gode di una grandissima autorità presso i suoi concittadini; egli vuol far parlare in latino la filosofia, toglierne il monopolio ai Greci, darle il diritto di cittadinanza in Roma rivaleggiando con loro, e si rivolge ai giovani ut huius quoque generis laudem iam languenti Graeciae eri- piant; ed egli si dà come l’iniziatore di quest’opera, di conquistare alla letteratura latina questa vastissima provincia del sapere. Già prima, (lai 54 al 52, egli aveva scrìtto i suoi trattati politici De repuìflicci e De legibus, e prima ancora, nel De oratore, era proclamata con molta energia 1’unione della filo- sofia con l’eloquenza : Cicerone in un luogo del De nat. deor. si vanta di aver sempre filosofato: cum minime videbamur, tum maxime philosophabamur ; ma i suoi libri propriamente d’argomento filosofico li ha scritti negli ultimi anni della sua vita, dal 45 al 43. E quali siano questi scrìtti filosofici ce lo dice egli stesso in un passo del De divinalione, IX, 1. Egli comincia con un trattato dal titolo Consolatio, composto dopo la battaglia di Earsaglia e la morte della figlia, indicando nel titolo i servizi ch’egli si aspetta dalla filosofìa: era fatto a imitazione di un libro simile di Orantore accademico raspi, raévOoo;, eh’ è detto altrove un libro d’oro, da imparare a memoria. Poi scrive VHortensìus, introduzione ed esortazione allo studio della filosofia, difendendola dai pregiudizi romani. Ortensio, ch’era un grande oratore suo contemporaneo, vi combatteva lo studio della filosofìa, Cicerone la difendeva calorosamente. Il libro era molto ammirato. S. Agostino lo ha conosciuto, e la lettura di esso contribuì alla sua conversione. Questi due libri sono perduti. Le opere che ci rimangono sono : Academica > in due libri, importantissimi per le controversie dibattute fra Stoici e Accademici intorno al problema della conoscenza e specialmente per le opinioni degli Accademici più recenti fino ad Antioco. Ce n’ora una prima redazione in due libri; poi l’opera fu rifatta, in quattro libri, e dedicata a Varrone che vi entra come interlocutore. Il caso ha voluto che noi possediamo il 1° libro della seconda edizione, e il 2° libro, il così detto Lncullus, della prima (che si sogliono citare Ac. post. I, e Ac. pr. II). È deplorevole che non ci sia, e sarebbe desideratissima, un’edizione italiana commentata di questi libri. De Finibus honorum et malorum, in cinque libri. Vi sono esposte e criticate le teorie delle diverse scuole greche sul problema fondamentale dell’Etica, il sommo bene o il fine delle azioni. Nel 1° libro Torquato espone la dottrina di Epicuro, nel 2° Cicerone ne fa la critica; nel 3° è introdotto Catone, quello di Utica, a esporre la filosofìa stoica, nel 4° se ne fa la critica ; il 5° libro espone la teoria accademica e peripatetica. È una delle opere più istruttive e forse meglio composte di Cicerone. Le Tttsculanae disputationes, in cinque libri, dalla villa ciceroniana di Tusculo, in cui si suppone tenuto il dialogo, pure d’argomento morale: il 1° tratta de eontemnenda morte, il 2° de tolerando dolore, il 3° de aegritudine lenienda, il 4° de reliquis animi perturbationibus, il 5°, continua Cicerone, eum locum complexus est qui totam phil osophiam maxime inlustrat, docet enim ad beate vivendum virtutem se ipsa esse contentam. Seguono i tre libri De natura deorum, importanti per le teorie metafisiche e teologiche degli Epicurei e degli Stoici. Un epicureo, Velloio, espone la teoria di Epicuro; Lucilio Balbo stoico la teologia degli Stoici; Aurelio Cotta accademico combatte gli uni e gli altri dal punto di vista delle dottrine probabiliste della nuova Accademia. Si connettono col De natura deorum i libri De divina- tione, nel 1° dei quali il fratello di Cicerone, Quinto, difende dal punto di vista stoico la verità della divinazione, e nel 2° F augure Marco Tullio Cicerone la combatte con una gragnuola di argomenti vivacissimi ; e così pure si connette agli stessi argomenti il libro De fato, che ci è pervenuto disgraziatamente con molte lacune, nel quale sono esposte molto sottilmente le quistioni intorno al destino e il modo confesso possa conciliarsi con la libertà umana: anche questa una delle controversie dibattute fra Stoici e Accademici. Ci sono poi degli scritti minori, Oato maior de senectute, Laelius de amicitia; anche i Paradoxa, scritti prima, nei quali Cicerone si diverte a sostenere in linguaggio oratorio, come un avvocato, sei dei piu famosi paradossi stoici; e infine il grande trattato di morale pratica De officìis, in tre libri. La filosofia sociale e la teoria del diritto erano state trattate prima nei libri De republiea e in quelli De Legibus. Questi sono gli scritti filosofici di Cicerone, dei quali egli stesso dice in ima lettera ad Attico: àT:óypacpa sunt; minore labore fiunt; verba tantum afferò, quibus abundo: sono riproduzioni, derivano da fonti greche: le quali parole sono state prese da alcuni molto alla lettera, senza tener conto di quello che Cicerone ci ha messo di suo, oltre le parole latine, e senza badare a quest 7 altre parole sue (De fin. I, fi): non interpretum fungimnr munere, sed tuemur ea quae dieta sunt ab iis quos probamus, eisque nostrum iudicium et nostrum scribendi ordinem adiungimus. È noto il giudizio del Mommsen e di altri-: giornalista, dilettante, compilatore frettoloso e confusionario. Un altro tedesco, lo Ziegler, ha detto : il solo suo merito è di aver trovato parole e frasi latine per rivestirne i pensieri greci, un merito che può essere stato utile più che ai suoi contemporanei, agli scolastici del medio evo e ai latinisti moderni. Questi giudizi non sono giusti, non corrispondono alla realtà. Cicerone non è un filosofo di professione: è un spirito colto, agile, curioso, che ha il gusto delle idee generali, e considera la filosofìa come una parte essenziale della cultura umana, importante soprattutto per la vita pratica. L’opera sua si può considerare o come contributo alla storia della filosofia anteriore, o per le dottrine e i risultati a cui egli è giunto. Come storico, Cicerone ha conosciuto direttamente e sin da giovane le dottrine più recenti: lo stoicismo, l’epicureismo, i nuovi Accademici fino a Filone ed Antioco : oltre a questi, ha letto certamente scritti di Aristotile (probabilmente quelli che si dissero essoterici, di carattere popolare) e di Teofrasto, conosce anche alcuni dialoghi di Platone, si è provato a tradurre il Timeo, conosce Senofonte, gli è familiare la figura di Socrate. Ora è un fatto che per tutto il periodo postaristotelico, Cicerone è una delle fonti secondarie più importanti per le preziose informazioni ch’egli ci dà sulle dottrine e le controversie di quel tempo : egli ha letto libri che noi non conosciamo più; e non sono nemmeno senza valore le indicazioni e notizie ch’egli ci dà, perchè le trova nei suoi libri, sulla filosofia anteriore ad Aristotile, anche sui presocratici. Cosicché, coi soli libri di Cicerone si può ricostruire, ed è stato fatto più volte, tutta una storia della filosofia antica fino a lui. Si dirà: non è una storia attendibile, non è una storia del tutto esatta: ha bisogno di essere controllata, commentata e corretta. Ma si può domandare: qual’è lo scrittore o doxografo antico di cui non si debba dire lo stesso, a cominciare da Aristotile e da Teofrasto, che pure erano filosofi di protessione, e scrivendo di storia della filosofia ci hanno dato notizie e interpretazioni del pensiero altrui molte volte discutibili. Sarà sempre uno studio interessante il cercare le fonti di cui può essersi servito Cicerone e come se n’ è servito: si potrà trovare che in qualche punto s’inganna, che può aver lavorato in fretta, che parafrasando o accorciando gli è accaduto di fraintendere in qualche punto la dottrina che espone: tutte cose su cui si può discutere caso per caso ; ma dal dire questo al dire sommariamente che non capiva niente di filosofia e non sapeva leggere i libri che aveva davanti, c’è una grande distanza. Come ha detto benissimo il Giussani, è diventata una specie di moda o di mania quella di parecchi critici di scoprire a ogni momento prove dell’ignoranza o della irriflessione di Cicerone. Piò volte invece accade che una più attenta considerazione può provare che chi non ha capito è il critico. Ma questa non è nemmeno la cosa più importante. Anche ammessi tutti gli errori parziali o di fatto che si attribuiscono a Cicerone, quello che non bisogna dimenticare è che le idee e le dottrine della filosofia antica andavano ripensate per poter essere dette in latino, e sono state ripensate e rielaborate da un cervello non scolastico, coltissimo, aperto, ch’era anche un grande scrittore, un maestro della parola, e si rivolgeva a un gran pubblico, non fatto per le disquisizioni sottili o le finezze di scuola. Questo ripensamento e questa trascrizione delle idee greche in un altro linguaggio non è il primo venuto che poteva farla. Non solo ai suoi concittadini e contemporanei, ma durante il Medio Evo, per quanto poteva essere conosciuto, e più specialmente dalla Rinascenza in poi, le opere di Cicerone hanno reso all’umanità tutta quanta, alla cultura umana, un servizio immenso. « Le esposizioni delle dottrine antiche che noi possiamo ora trovare superficiali o anche in qualche punto inesatte, erano fatte con una grande chiarezza e in una forma attraente. Per uomini che non potevano leggere, e che anche potendo non avrebbero capito Platone e Aristotile, che pure tutti citavano, Cicerone fu una guida preziosa. Lo stesso carattere eclettico della sua opera era un pregio di più : vi si trovava quello che gli antichi avevano pensato di più nobile, di più grande e di più accessibile. Si direbbe che Cicerone avesse preparato per gli uomini a cui la barbarie aveva impedito per più secoli di pensare, un nutrimento intellettuale eh’essi potessero assimilarsi, a dir così il succo della filosofìa antica; che li preparasse a comprendere i filosofi greci quando fossero stati loro accessibili, e li preparasse infine a pensare da sè » ] ). Questo servizio, come interprete vivo, facile, eloquente, del pensiero antico, egli ha continuato a renderlo anche dopo il Rinascimento, continua a renderlo tutti i giorni, in tutte le scuole, dovunque s’impara a leggere e a pensare leggendo le sue opere. - Rimane a sapere qual’è il valore di Cicerone come filosofo, che cosa ha pensato lui) Queste parole sono del Picavet, nell’ Introduzione alla sua edizione, con note, del II libro De Natura deorum (Paris, Alcan)] ( qual’è e se c’è un contributo suo personale alla storia delle idee. CICERONE (vedasi) non è e non pretende di essere un filosofo originale. Sa di essere scolaro dei Greci e si trova davanti a dottrine discordanti, quando già nelle scuole greche stesse è cominciato quel processo di ravvicinamento e di fusione che le porta a diventare eclettiche, ciascuna a modo suo. Qual’è l’atteggiamento ch’egli prende? Cicerone si professa accademico, dice di aderire alla teoria della conoscenza della nuova Accademia. Non già ch’egli creda suo compito il trattare ex professo di questi problemi, riflettendo per conto suo sulle condizioni e i limiti della conoscenza umana, come ha fatto Cameade; no, egli non ha di queste ambizioni; ma trovandosi davanti al contrasto delle sètte e delle opinioni su quistioni spesso sottili, su problemi difficili a decidere, l’attitudine più savia gli pare quella del dubbio prudente, raccomandato, com’egli crede coi suoi maestri, da Socrate e da Platone: egli non è scettico ma probabilista: è la dottrina o meglio la disposizione di spirito ch’egli chiama, meno arrogante, la più aliena dalle arroganze dogmatiche; ed è anche conforme alla sua abitudine di sostenere il prò e il contro di ciascuna causa, richiede agilità e versatilità di spirito, e si presta agli sviluppi oratori, mentre nello stesso tempo lo tiene in guardia dai paradossi stravaganti, e lo mantiene in contatto con le opinioni popolari. E infine diciamo pure eh’è un’attitudine conforme alla sua natura ondeggiante e diversa, al suo carattere spesso indeciso anche nella vita pratica. Ma intanto quest’adesione al probabilismo accademico gli ha giovato a mantenere lo spirito libero, a non farsi seguace di Una setta, a non giurare nelle parole di un maestro: Vipse dixit dei Pitagorici non gli piace: nos in diem vivimus : vuol conservare l’indipendenza del suo spi- rrito: la disciplina accademica non solo gli pare la meno arrogante, ma la più elegante e la più coerente, non nel senso eh’essa importi un sistema chiuso di dottrine che non si contradicono, ma nel senso eh’essa suppone una disposizione di spirito che, dando la sua adesione a ciò eh’è più verisimile, rimane sempre conseguente con se stessa: il che gli ha permesso di prendere quello che gli pareva buono in ciascun sistema, di libare tutte le dottrine, di essere insomma l’interprete e il volgarizzatore dei grandi pensieri di tutte le scuole antiche. Questa disposizione di spirito, piuttosto che scettica, si potrebbe dire liberalo e non settaria, senza partito preso, e Cicerone la descrive con parole che meritano di essere ritenute : (De nat. deor. J, 12): « Noi non diciamo che non ci sia niente di vero, ma al vero è mescolato il falso, bisogna essere canti nel giudicare e nell’affermare : diciamo che ci sono molte cose probabili, le quali se pure non dànno scienza certa, generano una convinzione che basta a guidare l’uomo savio. E in un luogo molto bello del libro II dei primi Accar- demici, al cap. 3° è detto: « Fra noi e coloro che credono di sapere la verità delle cose passa questo divario, ch’essi tengono per verissime le loro opinioni, mentre noi abbiamo sì molte cose probabili da seguire, ma non ci attentiamo di spacciarle per certe. Così rimanendo assai più liberi e sciolti nel giudicare {inteff tu nobis est iiidicandi potestas ), nessuna necessità ci costringe a difendere delle dottrine prescritte e a dir così comandate ; mentre che gli altri si trovano incatenati ad alcune dottrine prima che sappiano quale sia la migliore: l e trascinati sin da giovinetti, nell’età più debole, da un amico autorevole* o . presi dal discorso di un maestro eloquente, giudicano di cose che non conoscono, e quasi fossero sbalzati dalla tempesta, s’attaccano come ad uno scoglio al primo sistema di cui hanno sentito parlare : ad quameumque sant disciplinavi quasi tempestate delati, ad eam y tanquam ad saxum, adhaerescunt ». O come dice altrove (De nat. deor. I, 5): obesi plerumque iis qui discere volani, auctoritas eorum, qui se decere profitentur. Quest’attitudine di riserva prudente egli mantiene specialmente nelle quistioni di fìsica, che del resto non sono di sua competenza, e sulle quali le opinioni sono tante e così discordanti. Latent ista omnia. Noi non conosciamo abbastanza nè il nostro corpo nè che cosa è l’anima, se è fuoco, aria o sangue, se è mortale o eterna: nam in utramque partem multa dicuntur. Non possiamo penetrare nè nel cielo nè dentro la terra. Tuttavia non crede che lo studio della fìsica debba essere messo da parte. L’esame e la.considerazione della natura sono una specie di nutrimento (pabulum) per lo spirito. Diventiamo più grandi, ci solleviamo al di sopra di noi stessi, sdegniamo le cose umane tenendo l’occhio e la mente rivolti alle cose divine e celesti. La ricerca, anche nelle cose più oscure, ha una grande attrattiva e procura una voluttà umanissima. Ma da buon romano, nonostante quest’elevazione dello spirito, egli ha poco gusto per la speculazione pura: apprezza di più la scienza eli* è utile alla vita. E quanto più si avvicina allo studio dell’ uomo e ai problemi pratici della vita morale e sociale, egli sente il bisogno di affermazioni più decise. E tra il contrasto delle opinioni una sorgente o criterio di verità, o vogliamo dire di probabilità massima, gli si apre, ed è la coscienza naturale, quello che la coscienza comune e non falsificata di tutti gli uomini rivela a ciascuno, e che trova la sua conferma nel comensus gentium. Egli ricorda il ‘conosci te stesso’ dell’oracolo e lo interpreta in questo senso: tutta quanta la filosofìa è un commento, uno sviluppo della conoscenza di se stessi, di quello che la coscienza ci rivela. Gli Stoici e in un certo senso anche gli Epicurei avevano parlato di nozioni comuni, che si formano naturalmente in ogni coscienza. E Filone di Larissa deve avergli insegnato che ci sono delle nozioni evidenti, perspicue, impresse dalla natura nella mente e nell’animo di ciascun uomo. Egli trova che fra gli uomini nessuna gente è così fiera, così selvaggia che non abbia il concetto della divinità, anche se non sappia quale ne è la natura. Egli non ignora che anche qui le opinioni sono discordi, e conosce pure le difficoltà del problema; e se gli domandate, quid aut quale sit Deus, egli vi risponderà come Simonide, il quale interrogato su questa quistione dal tiranno Jerone, domandò un giorno per rifletterci su, e poi due e poi quattro, e finì col rispondere: quanto più ci penso, tanto mihi res videtur obscurior. Ma ciò nonostante non è una credenza arbitraria: Omni autem in re consensio omnium gentium lex na- turae putanda est. E oltre il consenso delle genti, è anche molto plausibile, il più plausibile fra tutti, 1’argomento delle cause finali, ricavato dall’ordine e dalla bellezza del mondo, ch’egli espone con molta eloquenza, quantunque non trovi sempre concludenti o del tutto convincenti le argomentazioni degli Stoici per provare la provvidenza e l’ottimismo, e che sono fatte più per rendere dubbia la cosa che per chiarirla. Ma insomma egli crede agli Dei, anzi a una divinità unica: è un’idea alla quale la mente degli uomini è naturalmente condotta. E lo stesso si può dire dell’anima umana, che dev’essere una natura singolare, diversa dagli altri elementi terrestri che ci’sono più noti. i^Toi non possiamo vantarci di conoscere la natura dell’anima; ma gli elementi dei corpi che noi conosciamo, l’acqua, l’aria o il fuoco non potrebbero spiegare la conoscenza, la memoria, la previsione dell’avvenire, le altre funzioni psichiche: e dalle opere di Cicerone si può ricavare un piccolo trattato di psicologia, che non sarà quello degli scienziati moderni, ma che contiene delle descrizioni eccellenti, e sempre vere, dei principali fatti della coscienza, compresi gli affetti e le passioni umane, ricavate dall’osservazione interiore e dall’ esperienza della vita, seguendo anche in questo naturalmente i suoi maestri, Platone e Panezio e Posidonio. Egli difende la libertà umana contro il fato degli Stoici, e crede anche nell’immortalità come una cosa infinitamente probabile. Quod si in hoc erro, libenter erro. E nel Sogno di Scipione, dove sono descritte le sfere celesti e la loro armonia, e la sede dei beati, è affermata con gli argomenti platonici l’immortalità delle anime umane. Soprattutto quello che la coscienza ci rivela è la legge morale, eh’ è una legge della ragione, la quale ragione è il privilegio dell’uomo sui bruti, l’attributo divino nel- l’uomo, e il legame che lo congiunge ai suoi simili. Così Cicerone crede di avere scoperto nella coscienza stessa del genere umano i fondamenti di cui ha bisogno per la sua dottrina morale. Opinionum enim commenta delet dies, naturae iudìcia confirmat. E ricordandosi dei dubbi accademici, egli scrive, avendo appunto in mente i problemi morali, quelle parole così caratteristiche: perturba- tricem miteni harum omniam rerum Academiam liane reeentem exoremus ut sileat. È la dottrina ch’è stata chiamata del senso comune, ch’è riapparsa più volte nella storia della filosofìa. Ma l’interesse storico dell’eclettismo ciceroniano sta appunto in questo: che noi vediamo com’esso è nato. Quello che Cicerone presenta come rivelazione della coscienza comune è il precipitato di tutta la speculazione greca anteriore, risultato di quella fusione che s’era venuta operando tra le tendenze affini delle tre scuole derivate da Socrate: platonica, aristotelica e stoica, e che hanno per base la concezione teleologica, il valore cosmico e antropologico che attribuiscono alla ragione, e il pregio eminente in cui tengono la virtù come il massimo dei beni o la condizione essenziale della felicità. Rimane esclusa, come ho già avvertito, da questo processo di fusione la scuola epicurea con la sua concezione meccanica e con la sua formula pericolosa della voluttà, che si presta ai malintesi e agli eccessi. E nel fatto CICERONE (vedasi), indulgente e tollerante con tutte le scuole, combatte aspramente, fino all 1 ingiustizia, L’ORTO, trovandolo inconseguente in quello che può avere di buono, e pur avendo la più grande stima del carattere di Epicuro stesso e di alcuni degli Epicurei ch’egli ha personalmente conosciuto: io combatte anche, oltre che per tutte le altre ragioni, perchè l’Epicureismo non possiede secondo lui una base su cui fondare i doveri civili, che a lui stanno tanto a cuore. Ma tra tutte le altre scuole egli trova che le affinità sono maggiori e più importanti che le differenze, e sceglie e adatta quello che gli pare più utile e più conveniente. E lo guida, oltre il talento straordinario dello scrittore e dell’oratore, un grande buon senso, una grande rettitudine, e un certo istinto generoso che lo porta verso ciò eh’ è nobile e grande. 1 _ E una volta eh’è sul terreno della morale, egli non si \ tiene sulle generali, ma costruisce in tutti i particolari un trattato di morale eh’è fino al giorno d’oggi un perfetto manuale dell’onest’uomo e del buon cittadino: il De of - Jiciis. Nel quale segue, come abbiamo detto, lo stoico Pa- / nezio, e inclina egli stesso verso lo stoicismo nel proda- ^ mare il pregio incomparabile della virtù : ma i paradossi stoici urtano il suo buon senso; ed egli tempera la dottrina morale con la misura dei peripatetici, ricollegandola anche ad alcune delle speculazioni e delle speranze del Platonismo, come quella dell’immortalità. Proclama la virtù gratuita, disinteressata, e illustra la dottrina con esempi presi dalla storia romana, esempi di disinteresse, di forza d’animo, di disprezzo della morte, di fedeltà al dovere, di amore alla patria. Traduce il xaXóv dei Greci con l’honestum, e considera come parti dell’onesto le quattro virtù cardinali, su ciascuna delle quali dice cose sapienti, non dimenticando la beneficenza accanto alla giustizia, la charitas generis Immani, e non dimenticando i doveri del deco rum, di ciò eh’ è conveniente e della cortesia, il che rivela il buon gusto oltre che la coscienza delicata. È un trattato compiuto di morale individuale e sociale; e soprattutto le tesi sociali dello stoicismo egli si assimila esponendole con la magia e col fascino della sua eloquenza. Già nel De republica aveva esposto la teoria del governo misto, come il migliore dei governi, trovandone la conferma e l’applicazione nella vecchia costituzione romana. E nel De legibus aveva esposto le basi lìlosofiche del diritto: su queste idee, attinte ai suoi maestri stoici, egli ritorna sempre. La vera legge è la diritta ragione, conforme alla natura, dappertutto diffusa, costante, eterna. £Ton ò altra in Atene e altra a Itoma. Ohi la rinnega rinnega la natura umana, rinnega se stesso. Questa legge eterna e immutabile è il fondamento di ogni diritto, la regola e la misura delle legislazioni umane. Essa stabilisce fra tutti gli uomini, che partecipano della ragione, una società naturale, una società di giustizia e di amore. Espressa da quest’oratore e uomo di Stato, la grande idea dell’umanità e del diritto umano esce dall’angustia delle scuole per entrare nel mondo della vita e della cultura, e agisce nei secoli a traverso tutta la storia T ). Ho accennato ai giudizi di alcuni tedeschi. Giustizia vuole che si dica che non tutti i tedeschi la pensano allo stesso modo. Uno di essi, 1’ Hiibner (Deutsche Rundschau), citato dal prof. Pasdèra nella Prelazione alla sua edizione del Sogno di Scipione, parlando dell’azione eser- *) Jankt et Séaillks, nini, de la Philosophie (Paris, Del agrave).] citata da Cicerone sulla cultura dei popoli dell’ Europa, dice: Pure ammettendo che la grande maggioranza delle persone colte non legga più gli scritti di Cicerone nè prenda esempio dalla bellezza della loro forma, certo non è perduta per l’umanità la profonda influenza eh’essi hanno esercitata sul pensiero e sulla parola di tanti spiriti illuminati, non è perduto il sentimento di nobilissima umanità che in essi vive. Il che vuol dire che Cicerone è stato e sarà sempre un grande educatore, del quale bisogna parlare con rispetto e con gratitudine. SENECA 1. La scuola dei Sestii - 2. Seneca, le sue qualità di moralista e di scrittore - 3. Le sue idee su la società, Dio e Tanima umana - 4. Seneca e S. Paolo. 1. - Dopo Cicerone, la filosofìa acquista a Roma una grande importanza tra le persone colte, diventando sempre più pratica e popolare. Cicerone scriveva alla vigilia delle ultime proscrizioni delle quali egli stesso doveva essere vittima, e nei suoi trattati c’era ancora l’eco delle dispute agitate nelle scuole greche; dopo di lui, terminate le lotte della vita pubblica, stabilito l’impero, la filosofìa risponde al bisogno di tutti quelli che vi cercavano un rifugio, una consolazione, dei principi salutari, una regola di condotta. Sotto Augusto cresce il numero dei suoi adepti: poeti e storici, giureconsulti e uomini di Stato se ne occupano; Orazio stesso, che qualche volta deride i filosofi per i loro paradossi, è filosofo a modo suo, molto savio e di molto buon gusto, ora stoico ora epicureo, e fa spesso il suo esame di coscienza, ha delle preoccupazioni morali, maestro nell’arte di vivere. Nelle grandi famiglie i filosofi entrano come precettori, consiglieri e consolatori, hanno cura d’anime. Seneca ci parla di un condannato a_morte, che andando al luogo del supplizio, è accompagnato dal suo filosofo, prose- quebatur illum philosophus suus, col quale s’intrattiene dell J immortalità dell’anima. Quando Livia, la moglie di Augusto, perde il figlio Druso, essa si rimette per essere. consolata nelle mani di Areos, il filosofo di suo marito: era il confessore, il confidente dell’uno e dell’altra. E c’è pure un insegnamento pubblico di filosofia, che da Cicerone a Seneca è rappresentato da un gruppo di uomini, i quali fecero l’educazione della gioventù d’allora. Sono innanzi tutto i due Sestii padre e tìglio. Quinto Sestio era un romano di buona famiglia, che al tempo della dittatura di Cesare andò a studiare filosofìa in Atene, e poi venne a professarla a Roma. Attorno a lui e a suo figlio si formò una scuola, la cosiddetta scuola dei Sestii, che ebbe un certo splendore, esercitò molta efficacia: essi lottano con energia contro i vizi del secolo, e mettono in uso certe pratiche inorali come l’esame di coscienza, una pratica già raccomandata dai pitagorici, i quali pare che i Sestii seguissero anche nell’astenersi dalle carni di animali. Altri professori illustri della stessa scuola furono So- zione di Alessandria, che s’avvicina ancora più al pitagorismo insegnando la metempsicosi, Attalo stoico e Fabiano Papirio, un declamatore del tempo di Augusto, che s’era fatta una grande riputazione nelle scuole, trattando quelle cause immaginarie su cui si esercitava allora' l’eloquenza dei retori. Fu convertito da Quinto Sestio alla filosofìa, e continuò a declamare, a parlare pubblicamente di argomenti filosofici. L’insegnamento così non fu più limitato a un gruppo d’iniziati o di adepti, ma diventò una vera predicazione: la filosofia s ? indirizza alla folla, diventa eloquente, cerca di essere persuasiva ed efficace. Fabiano Papirio specialmente ebbe un grande successo: aveva una fìsonomia dolce, una maniera di parlare semplice e sobria: 10 ascoltavano con un’attenzione rispettosa; ma a volte V uditorio, colpito dalla grandezza delle idee, non poteva trattenere delle grida di ammirazione. Un altro che attirò l’attenzione della gioventù romana fu il cinico Demetrio, ille semimidus, cencioso, come lo chiama Seneca, con la stranezza delle sue maniere e la foga della sua parola, tutto energia e disprezzo del dolore e della morte: riappariscono i Cinici, che sono come ' sempre l’esagerazione degli Stoici. Del resto, qualunque sia il nome che portino, tutti questi filosofi erano più o meno stoici. Non si trattava per loro di scoprire verità nuove, ma di applicare le grandi verità morali e le massime di condotta già fissate dagli antichi saggi. Come dice ancora Seneca, i rimedi dell’anima sono stati trovati prima di noi: non ci resta che cercare in che maniera e quando bisogna applicarli. La tristezza dei tempi e il dispotismo imperiale che diventa sempre più pazzo e violento dànno, come ha detto 11 Boissier, un terribile, a propon allo stoicismo, il quale diventa una fede ardente, la religione delle anime libere: l’anima ha bisogno d’irrigidirsi nel sentimento della sua forza e della sua dignità in mezzo a quelle sventure e a quei pericoli che a ogni momento la minacciano. Per questo la filosofia ebbe l’onore di essere odiata dagl’ imperatori : essa e la Storia erano, come dice Tacito, ingrata principiòus nomina. La filosofia ebbe i suoi devoti e ì suoi martiri, a cominciare da Catone, che rifiuta la vita cercando libertà, e venendo alle vittime di Nerone illustrate da Tacito, come tra gli altri, Trasea Peto, assistito negli ultimi suoi momenti dal cinico Demetrio; e poi lo stesso Seneca, sul quale dobbiamo fermarci ] ). 2. - L. Anneo Seneca, figlio di Seneca il retore e di Elvia, nacque a Cordova. Venuto a Roma col padre che non ama la filosofia, e avrebbe voluto farne un oratore, è scolaro di quei moralisti della scuola dei Sestii, Sozione, Attalo, Fabiano Papirio, la cui maschia e severa dottrina fece sopra di lui la più viva impressione. Si fece conóscere per la sua eloquenza, entrò nella via degli onori, fu accolto e apprezzato nella più alta società di Roma. Sotto l’imperatore Claudio fu esiliato in Corsica per gl’intrighi di Messalina; dopo otto anni è richiamato per opera di Agrippina che gli affida l’educazione del giovane Nerone. Del quale dunque fu precettore e poi ministro: caduto in disgrazia nel 62, morì nel 65 per ordine dell’imperatore. Mescolato agl’intrighi e ai delitti della corte imperiale che non seppe o non potè impedire, il suo carattere è Stato molto discusso, special- mente per le immense ricchezze eh’ egli possedeva, in gran parte donategli dall’imperatore, e per la parte che può avere avuto nell’assassinio ! di Agrippina per opera di Nerone, in nome del quale Seneca scrisse una lettera giustificativa al Senato, presentando la morte di Agrippina come un suicidio. Ma quali che possano essere state le J ) Cfr. Martha, Les moralistes souti l’empire romaìn; Boissier, La religion romaine d’Auguste aux Antonina; Havet, Le Cliristianisme et ses origines, * 2° voi.; il capitolo su Seneca del Pichon nella sua Hist. de la Lìti, latine (Hachette) ; o uno studio del prof. Pascal nel voi. Figure e caratteri (Sandron). sue debolezze, egli le riscattò da filosofo con una bella morte, eh’è raccontata da Tacito. Impeditogli di far testamento, diceva di lasciare agli amici l’immagine della sua vita. Non fu senza ambizione e senza vanità, e non uscì immacolato dalla vita, in quei tempi e in quella corte; ma non gii si può negare un certo entusiasmo sincero e l’aspirazione verso il bene. Le opere di Seneca che si riferiscono alla filosofìa sono i trattati morali: de provìdentia, de comtantia sapienti», de ira, de vita beata, de olio, de tranquillitate animi, de bre- vitate vitae, de elementia, de beneficiis; le Consolazioni ad Marciavi, ad Polybium, ad JSelviam matrem; le Lettere morali a Lucilio che sono 124, l’ultima, la più matura e la più importante delle opere di Seneca; e infine le Qui- stioni naturali, che trattano di argomenti di fisica, fecero testo e godettero di molta autorità durante il Medio Evo; ma vi si tratta anche di argomenti morali., Seneca si prolessa stoico, e degli scrittori latini è l’interprete più compiuto della dottrina stoica, di cui riproduce i dogmi con una certa enfasi, non scevra di declamazione e di retorica. Ma è eclettico anche lui e impara da tutte le scuole: Cita spesso anche Epicuro, verso il quale è più giusto degli nitri Stoici. Egli stesso confessa: Solco in aliena castra transire, non tanquam transfuga, sed tanquam explorator. La sua specialità è il genere monitorio e precettivo; e il suo capolavoro ò una raccolta di consigli e precetti morali a Lucilio, suo amico, un cavaliere romano ch’era procuratore in Sicilia, amministratore finanziario della provincia, e ch’egli guida e dirige da lontano coi suoi consigli. * E' 1 Biblioteca Comunale “Giuseppe Melli” - San Pietro Vernotico (Br) SENECA 223 Seneca non ama la folla, non pensa al gran pubblico: Satis sunt mifii patiti, satis est unns, satis est nullws. La sua opera non è di un predicatore, ma di un direttore delle coscienze. Ed egli sa adattare il suo insegnamento secondo le persone e le circostanze. Aliter cum alio agendum: egli consola quelli che hanno bisogno di essere consolati, spinge all’azione le nature fiacche e molli, ridesta la forza di quelli che s’annoiano, predica il ritiro e la solitudine a quelli che amano troppo la vita mondana. E in quest’opera di moralista pratico egli porta una grande conoscenza della vita, l’esperienza di un uomo che conosce il mondo, la corte, le passioni, le inquietudini e i bisogni del cuore umano: sicché i suoi trattati e specialmente le sue lettere sono importanti non solo per le verità morali che contengono, ma anche come studio dei caratteri e delle passioni del suo tempo e di tutti i tempi. La sua psicologia è molto più raffinata di quella di Cicerone, e c’è in Ini una preoccupazione della vita interiore e della perfezione morale, in ciò che ha di più intimo, che non c’è in Cicerone. Egli propone come un ideale di perfezione la virtù stoica, ma sa adattarsi alle circostanze, e consente quando occorre alle debolezze della natura umana: di qui le contradizioni che gli rimproverano, e che derivano dalle condizioni speciali in cui si esercita il suo insegnamento. S’aggiunga, per spiegare l’impressione che fa Seneca, l’efficacia di uno stile non senza artifizio, ma concettoso, sentenzioso, energico, a frasi spezzate e serrate, con qualche cosa di brusco e di veemente. La grande frase, il periodo ciceroniano si spezza: ne prendono il posto dei periodi brevi, a scatti, con frequenti antitesi, e sentenze aguzzate e raffinate, piene di energia: anche questo un carattere che lo ravvicina al gusto di noi moderni. La morale di Seneca, guardata nel suo insieme, è, come . quella di tutti gli Stoici, un’àpologìà perpetua della volontà morale di fronte a tutto ciò che tende a limitarla e asservirla. La fortezza dì fronte agli attacchi della fortuna, il disprezzo dei beni esterni, la serenità davanti alla morte, questi e gli altri temi abituali della predicazione stoica sono anche i suoi : egli ne rinfresca l’espressione col suo accento passionato e concitato, che dà a quelle massime forza e rilievo.Soprattutto non bisogna dimenticare quel sapore di attualità che, come abbiamo accennato, avevano le idee stoiche in quella condizione dei tempi e in bocca di Seneca. Già questa attualità o riscontro nella realtà comincia ad essere un fatto anche con Cicerone. Il quale, quando scrive nelle Tusculane de eontemnenda morte o de tolerando dolore, non scrive di temi astratti e retorici, ma di pericoli imminenti, in tempi già diventati iniqui e tristissimi, tra gli orrori delle guerre civili e delle proscrizioni. Con l’impero, dopo Augusto, la situazione si aggrava, diventa intollerabile. In mezzo a quell’orgia, a quei delitti, a quella tirannide che non ha più niente di umano, la sola cosa che l’anima umana può salvare è la sua libertà e il sentimento della sua dignità. La filosofia compie l’ufficio suo predicando la forza della volontà, la purezza interiore, il disprezzo di tutto ciò che non dipende da noi, il disprezzo della vita. He nasce una situazione violenta, che si riflette anche nello stile di questi scrittori, come ha osservato con molta finezza l’Havet. SENECQuando noi leggiamo in Seneca e negli altri stoici che la povertà, V esilio, le torture, la morte stessa non sono nulla, noi diciamo eh’ essi declamano; e in un certo senso è vero; ma la loro declamazione è come imposta dalla situazione, è l’espressione esagerata di un sentimento legittimo e naturale. Essi declamano perchè sentono il bisogno di sii dare la forza brutale che dispone di tutte le maniere per far soffrire. In quella declamazione non tutto è effetto dei vizi letterari del secolo, c J è anche qualche cosa di sincero. Il filosofo è portato a prendere un tono veemente: la sua enfasi, le sue ripetizioni insistenti, il gesto concitato che sembra accompagnare la parola, sono altrettante proteste di una coscienza che la forza vorrebbe far tacere, e che non tace, ma ha bisogno di gridare per farsi ascoltare. 3. - È di Seneca la sentenza che dice : Non scftolae sed vitae diwimus. Salvo che questo motto non va inteso nel senso ' utilitario in cui oggi è così spesso ripetuto. Nemmeno Epicuro lo avrebbe inteso in questo senso. Quando i moralisti antichi dicono di voler insegnare a vivere, hanno in mira la salute e la perfezione dell’anima, non gli agi, le comodità, l’apprendi mento delle arti utili alla vita: la sola arte eh 7 essi insegnano è l’arte stessa di vivere: artifex rivendi, come dice Seneca del saggio. Un’altra conseguenza di quella situazione che abbiamo detto è che le differenze esterne fra gli uomini spariscono. Nella servitù comune, nella quale tutti gemono e temono in quelle vicende inopinate della fortuna, i grandi non hanno più ragione di disprezzare le miserie dei piccoli, nè gli uomini liberi quelle degli schiavi. In Seneca le grandi tesi sociali e umanitarie dello stoicismo sono riprese con un nuovo accento, più forte e più intimo. Egli vede negli schiavi degli amici di condizione inferiore, humiles amici; sono degli schiavi, ma sono degli uomini: imo homines. Egli condanna i giochi dei gladiatori, che Cicerone, quantunque non li amasse, giustificava ancora come una scuola di coraggio per fortificare l’animo degli spettatori contro il dolore e la morte, quando quelli che si vedevano combattere erano dei malfattori. Seneca non li può soffrire sotto alcun pretesto, non vuole che s’insegni al popolo la crudeltà: quest’uomo è un brigante, merita di essere punito; ma tu, disgraziato, che hai fatto per essere condannato a questo spettacolo? E in quest’ordine d’idee trova la meravigliosa espressione: homo res sacra homini; e condanna pure la guerra, dicendo che la natura ha fatto l’uomo per la dolcezza (mitissinutm genus), dimenticando forse che ci sono delle guerre giuste e anche pietose, quando bisogna difendersi dai briganti e dagli assassini. E celebra con parole che hanno del mistico la solidarietà umana e i suoi dovevi: nell’ep. 95: membra sumus corporis magni. Natura nos cognatos edidit: di qui l’amore reciproco e ciò che ci rende socievoli: la giustizia e il diritto non hanno altro fondamento : è più miserabile il nuocere altrui che l’essere offeso: siano sempre pronte le mani a giovare, e abbiamo sempre nel cuore e nella bocca quel verso: Homo sum, nihil Immani a me alienum puto. E aggiunge: la società umana è come una vòlta che cadrebbe se le singole pietre non si sostenessero a vicenda. Esorta alla bontà, alla clemenza, al beneficare, al perdono delle offese. Ubieumque homo est, ibi benefica locus est. Non desinemus opem ferve etiam inimicis. Alteri vivas oportet si vis Ubi vivere. Questa morale, che con la sua umanità e la sua mitezza si stacca sul fondo di quella tristezza di tempi crudeli e violenti, ha già un carattere e un’ispirazione religiosa. Questo caràttere religioso si accentua ancora di più in alcune delle idee che Seneca esprime intorno alla divinità, alle relazioni dell’uomo con Dio, e al destino dell’anima umana. Anche per lui, come per tutti gli Stoici, il concetto di Dio oscilla tra il panteismo e il teismo. Quid est Deus? Mens universi. Quid est Deus ? quod vides totum et quod non vides totum. Ma nella sua opera di moralista consolatore e direttore delle cosciente egli non può a meno di mettere in evidenza gli attributi personali della divinità, concepita non solo come ragione universale, ma coi suoi attributi morali di bontà, di clemenza, di sollecitudine per gli uomini. Nulla è nascosto a Dio, egli è presente agli animi nostri, vicino a noi: prope est a te Deus, tecum est, intus est. Sì, o Lucilio, egli continua^ nella lettera 4P, saeer intra nos spiritus sedei, malorum bonorumque nostr orimi ohservator et custos. Dio non si onora coi templi nè si rende propizio sollevando in alto le mani supplichevoli, ma con la purezza del cuore e della vita : vis deos propiUare ? bonus esto. Satis illos coluit, quisquis imitatus est (Lett. 95). È dunque sulla virtù che si fonda questa relazione tra l’uomo e Dio, del quale è detto: patrium Deus habet adversus bonos viros animum, et illos fortiter amai. Un Dio cosiffatto non è una pura astrazione filosofica, ma è oggetto di adorazione religiosa : il rapporto religioso è un 1 rapporto intimo tra due persone, l’una delle quali si sente dipendente dall’ altra. Dio comunica con noi, risiede in noi, ci ama ed è amato da noi: colitur et amatur; e noi P invochiamo perchè, com’è detto altrove, da lui ci vengono le risoluzioni grandi e forti: ille dat constila magnìfica et creda: c’ispira e ci sostiene: si direbbe che in queste parole è toccata o intraveduta la dottrina della grazia. Notevoli pure sono i concetti intorno all’uomo, alla natura e al destino dell’anima. L’uomo non ha ragione di vantarsi, di essere orgoglioso: idem semper de nobis pronuntiare débébvmus, malos esse nos, malos fuisse, invitus adieiam et fiutar os esse . Peccavimus omnes. E solo a traverso gli errori noi giungiamo alla virtù: anche il migliore fra noi ad innocentiam tamenpeccando pervenit. E l’inìzio della salvazione è la conoscenza del peccato. Initium est salutis notitia peccati } una sentenza di Epicuro, che Seneca si appropria. La vita è una lotta, una milizia: c’è dentro dell’uomo una lotta continua tra la carne e lo spirito, tra il corpo, eh’è come un peso o una prigione, e lo spirito sacer et aeternus che aspira alla sua liberazione: gravi terrenoque detineor carcere. 1 Ohi mi libererà da questo corpo di morte?’ griderà S. Paolo. Nell’anima stessa c’è qualche cosa d’irrazionale: quel dualismo platonico che Posidonio aveva introdotto nella dottrina stoica, è conservato da Seneca, e n’è resa più acuta, più accentuata l’espressione: diventa il contrasto tra la carne e lo spirito, eh’è tanta parte della concezione cristiana. SENECA La vita è dunque una guerra continua. Nóbis militan- dum est, ed è un genere di milizia che non consente riposo. Bisogna essere vigilanti con se stessi, bisogna combattere con le passioni, col dolore, col piacere, con la fortuna, con la povertà, col nostro proprio cuore: Proiice quaecumque cor tuiim laniant ; quae si aliter estrahi nequi- rent, cor ipsum cimi illis revellendum crai, parole energiche die ricordano quelle dell’Evangelo: se il tuo occhio destro ti scandalizza, strappalo e gettalo da te. Seneca ha il sentimento più vivace della miseria umana: Omnis vita supplicmm est. Per questo la morte è una liberazione, e come il porto nel quale troviamo il rifugio dal mare agitato della vita. Dell’ immortalità Seneca non parla sempre allo stesso modo. Ipotesi, speranze, le opinioni diverse s’avvicendano nei suoi scritti. MS, non di rado, specialmente quando si rivolge ai suoi corrispondenti per consolarli della morte dei loro cari, egli prende un tono più affermativo. La morte è l’inizio, il giorno natale di una nuova esistenza. IMes iste quem tanquam extremum reformidas, aeterni na- talis est. Il corpo è un breve ospizio dell’anima: si dissiperanno le caligini che circondano la nostra esistenza, la luce divina ci apparirà nella sua sorgente, e con essa la grande eterna pace. Si potrebbero moltiplicare le citazioni, ma basteranno. Sono queste idee che hanno fatto credere a una ispirazione cristiana degli scritti di Seneca. Seneca saepe noster, diceva già Tertulliano. 4. - Qui bisogna sapere una cosa. Kel 61 d. 0., quattro anni prima della morte di Seneca, giungeva a Roma un piccolo ebreo, Paolo di Tarso in Ciiicia, il quale accusato e perseguitato da altri ebrei, si appellava, nella sua qualità di cittadino romano, dal giudizio delle autorità imperiali in Giudea, a quello dell’imperatore. Fu condotto davanti al prefetto del pretorio eli’era Burrus, amico e collega di Seneca come ministro di Nerone. Giudicato favorevolmente, l’apostolo fu lasciato libero o quasi libero durante due anni, dei quali profittò per diffondere la sua dottrina, e pare che facesse dei proseliti anche nel palazzo imperiale, fra gli schiavi o i liberti della casa di Nerone. Si disse per esempio che Atte, la giovane eh’ era stata amata da Nerone, e che poi abbandonata fu la sola che ne cercasse il cadavere, quando egli fu obbligato ad uccidersi, per dargli sepoltura, fosse stata convertita al Cristianesimo. Atte, come sappiamo da Tacito, era personalmente conosciuta da Seneca. Bisogna aggiungere che anche prima della venuta a Poma, Paolo, accusato dagli ebrei di Corinto, s’era trovato a contatto con un proconsole romano, ch’era quel Gallione di cui parlano gli Atti degli Apostoli, e che si rifiutò di dare ascolto ai suoi accusatori, trattandosi di cose die non lo riguardavano (polemiche religiose tra Ebrei). Ora si dà il caso che questo Gallione era fratello di Seneca, e si chiamava così perchè adottato da un Gallio, di cui portava il nome: il suo nome di famiglia era Anneo Novatus, ed era fratello maggiore di Seneca. Fatto sta che a poco a poco si formò la leggenda che Seneca e S. Paolo si fossero conosciuti, anzi fossero diventati amici, e che l’apostolo avesse convertito il filosofo, e si fossero scambiate anche delle lettere, 14 delle quali sono giunte fino a noi: e in base a queste lettere S. Girolatno, nel quarto secolo, enumerando gli scrittori ecclesiastici dei primi secoli, vi mette anche Seneca. È una leggenda che ha avuto corso per tutto il Medio Evo, e anche alcuni moderni vi hanno creduto. I^a qui- stione è stata agitata più volte l ). Le conclusioni sono queste: La corrispondenza è certamente apocrifa, scritta in un latino che non è nè classico nè argenteo; e del resto è insignificante, e qualche volta buffa. Per es. c’ è una lettera, la 7% nella quale Seneca informa il carissimo amico Paolo che l’imperatore è stato molto colpito dalla sua dottrina, e che sentendo leggere un certo esordio di Paolo sulla virtù, avrebbe detto: mi meraviglio come un uomo che ha ricevuto un’istruzione regolare possa avere di tali sentimenti. E nella stessa lettera gli scrive: lo Spirito Santo ti fa dire delle cose sublimi, ma appunto jier questo mi piacerebbe che avessi un po’ più cura della forma, ut maiestati earum rerum cuìtus sermonis non desti. E in un’altra lettera, da uomo soccorrevole, gli manda un libro de copia verborum. E non parliamo delle risposte di Paolo. Sono inezie da una parte e dall’altra. La corrispondenza è certamente una falsificazione, e anche poco abile. Rimane la quistione se Seneca e S. Paolo si sono conosciuti. E se per conoscersi s’intende il semplice fatto di vedersi, incontrarsi, scambiare qualche parola più o ] ) Si possono consultare un libro dolLAutìERTiN, Sénèque et S. Paul f e un articolo magistrale di Ferd. Bat.tr nella Zeitschr. f. wias. Tipologie, t. 1°, 1858, ristampato da Zeller in un voi. dì Abhandlungen del Baur; e più brevemente quello che ne dice il Boissier nel libro che ho citato : La religion ro inaine.] meno insignificante o per ragioni di affari, non possiamo dire nè sì nè no, non ne sappiamo nulla. Quello che importa è che, anche dato e niente affatto concesso che Seneca abbia conosciuto o avvicinato l’apostolo, certamente non gli deve nulla nè per quello che riguarda le idee, nè le espressioni. E questo per le seguenti ragioni: ! 1° ed è la ragione più ovvia, le idee di Seneca sulla provvidenza, sulla natura dell’uomo, sulla vita morale si trovano già nelle opere sue anteriori a questa pretesa conoscenza con S. Paolo ; 2° quando si leggono quelle idee, non come frasi staccate ma al loro luogo, in connessione con tutto il resto, fanno parte di un discorso nel quale Seneca continua a professare le dottrine stoiche, alle quali ha sempre aderito; e non c’è nulla in quelle idee stesse di sapore cristiano o che sembrino tali, che non trovi il suo riscontro non solo nei vecchi stoici, ma in tutta la tradizione filosofica anteriore, in Platone, in Epicuro, in Cicerone; 3° e soprattutto, se Seneca e S. Paolo si fossero conosciuti e si fossero messi a discorrere di filosofia e di religione, non si sarebbero intesi affatto, in nessun modo, per la differenza radicale e insanabile che c’è tra i due modi di considerare il mondo e la vita. Già Seneca non avrebbe potuto comprendere nulla di tutta la parte storica e dogmatica del pensiero di Paolo, voglio dire di quei fatti e di quei dogmi che sono come i cardini del suo apostolato: il peccato di Adamo, la venuta del Messia, la morte e la risurrezione di Cristo, la redenzione di tutti gli uomini fondata sulla fede in questo fatto della risurrezione: sono fatti così miracolosi, e interprelazioni di questi fatti così lontane, così aliene da una mente educata nel razionalismo greco-romano, che Seneca, quando pure non avesse sbarrato tanto d’occhi per la meraviglia, non avrebbe potuto comprenderne nulla. Ma a parte questo, anche sul terreno limitato dell’Etica, j le due concezioni, quella di Paolo e quella di Seneca sono, .= nonostante le frasi analoghe, lontanissime 1’ una dall’altra. Seneca si riconnette a tutta la tradizione classica e pagana, che considera la virtù come una perfezione della natura, una conquista e un trionfo della ragione sugl’im-1 pulsi inferiori dell’uomo; e tiene fermo alla formula stoica: seguire la natura, che egli concepisce come qualche cosa di essenzialmente razionale. S. Paolo e con lui il Cristianesimo insegna la corruzione originaria, radicale, della volontà naturale dell’uomo, e in- . segna la rigenerazione possibile solamente per opera della ; grazia divina, che redime e rinnova la creatura, ricrean- dola a dir così dalla vita della carne alla vita dello spirito. Per Seneca come per gli altri Stoici la legge morale è % una semplice legge della ragione che s’identifica con la \ legge cosmica; per S. Paolo la legge è nel senso preciso della parola un comando, un imperativo, espressione della volontà divina; e il peccato non è la semplice distanza che separa la realtà empirica dall’ ideale morale, ma è sin dall’origine una ribellione al comando di Dio, della sola volontà che sia santa. L’autonomia e l’autarchia del saggio stoico non sono parole cristiane. La conseguenza è che il saggio stoico, l’ideale di Seneca, manca della qualità propriamente cristiana, non è umile; può sentire più o meno la sua imperfezione finche quell’ideale non è raggiunto, ma non c’è propriamente abnegazione in lui, anzi egli pone il suo orgoglio nell’affermazione della sua volontà razionale, e in questo senso egli si sente simile a Dio. Il santo cristiano invece sa che nulla gli appartiene, non ha orgoglio, nega la sua volontà, la sente spezzata e ri-generata da una forza onnipotente, e si umilia pregando: fiat voluntas tua, eh’è qualche cosa di più della semplice rassegnazione stoica a quello che vuole o porta il fato. Ohi vuole misurare con un’occhiata sola tutto il contrasto, guardi a queste parole di Seneca: non video, in- quam, quid hàbeat in terris Jupiter pulchrius, si convertere animum velit, quam ut spectet Catonem, iani partibus non semel fractis, stantem nihilominus inter ruinas publicas recium. Il saggio stoico con la sua forza d’ animo e la sua virtù eroica è glorificato in modo eh 7 è lo spettacolo più degno e più bello che Dio possa ammirare. E badiamo che Catone è un suicida: perchè, come dice Seneca, ogni vena del tuo corpo è una via aperta alla libertà. Il suicidio, per un cristiano, è la ribellione più aperta alla volontà santa di Dio, e non c’è altra gloria che la gloria di Dio, e il fare la sua volontà si chiama dovere, obbedienza, morire a se stessi per essere partecipi della gloria di Dio e della vita eterna. Sono due concezioni diverse. Seneca non deve nulla a S. Paolo. Quello che c’è di vero è che l’accento religioso che prendono in lui le dottrine antiche è un indizio che segna* l’avvicinarsi dei tempi cristiani. Dopo Seneca, contemporaneo più giovane di lui, è da nominare Musonio Rufo, eli e nato a Volsinia (Bol- sena) nell’ Etruria, visse sotto Nerone e poi ancora sotto gl’imperatori Vespasiano e Tito. Dell’ ordine equestre, coltivò e insegnò la filosofia seguendo le dottrine stoiche, come dice Tacito clie lo nomina più volte. Fu un maestro tutto pratico, stimando inutile ogni scienza che non giovasse alla vita. Esortava alla filosofia uomini e donne, poiché la filosofìa non è altro per lui che la ricerca della xaXoxàyala pratica di ciò eh’è onesto, e senza la filosofia non si può conseguire la virtù. Anche il contadino dietro il suo aratro può filosofare in questo senso, e dare lezioni ed esempi di saggezza: faceva un elogio dell’agricoltura come un genere di vita più acconcio alla filosofia dei costumi corrotti della città. Il suo insegnamento e la vita intemerata gli dettero nome, e dovette esercitare una grande efficacia, se dobbiamo giudicare specialmente dal modo come lo ricorda Epitfeto clie fu suo scolaro; e basterà averlo ricordato anche noi, senza insistere sui frammenti e precetti particolari che ci sono stati conservati di lui. 2. - Il grande e più celebre rappresentante dello stoicismo nell’ epoca imperiale è Epitteto. Epitteto nacque a Hierapoli, nella Frigia, verso il 50 dell’e. v. Venne a Roma, dove passò la sua giovinezza, come schiavo di un Epafrodito, che fu probabilmente il liberto e favorito di Nerone dello stesso nome. Lo stesso nome di Epitteto non è in origine un nome proprio, ma vuol dire schiavo (!tuxt7]tq£). Era zoppo e, secondo un aneddoto celebre, per effetto dei maltrattamenti del suo padrone. Un giorno questi gli avrebbe messo la gamba in uno strumento di tortura. Bada, gli disse Epitteto, che finirai col rompermela. E siccome l’altro continuava e la gamba si ruppe di fatto, Epitteto si contentò di aggiungere: Te l’avevo detto. Questo tratto d’insensibilità stoica fu tanto ammirato, che più tardi Celso, l’avversario del Cristianesimo, apostrofava i cristiani : Forse che il vostro Cristo, nel suo supplizio, ha mai detto niente di così bello? Al che Origene, lo scrittore ecclesiastico che scrisse contro Celso, rispose: Nostro Signore non ha detto niente, e questo è anche più bello. Il giovane Epitteto, ancora schiavo, potè istruirsi e seguire le lezioni di Musonio Rufo. Fatto libero, rimase a. Roma, tentando anche lui l’insegnamento o la predicazione morale, finché non fu obbligato a lasciare la città quando l’imperatore Domiziano con un senatoconsulto del 94 d. C. fece cacciare i filosofi da Roma e dall’Italia. Epitteto allora si ritirò nell’Epiro, a Nicopoli, dove visse fin verso il 125, povero e senza famiglia, ma circondato da molti discepoli, e venerato per la santità della vita, come maximus più losophorum, secondo Aulo Geli io. Uno di quelli che lo udirono, e per più anni, fu Ar- riano di Nicomedia, lo storico, che fu il più attento e il più entusiasta dei discepoli. Arriano aveva scoperto di avere dei gusti e uno spirito affine a quello di Senofonte, volle essere un Senofonte redivivo, e, come l’altro, scrisse la sua Anabasi (di Alessandro), e i suoi Memoràbili: Epit- teto diventò il suo Socrate, e nei Discorsi o Dissertazioni di lui (Storpipoi o Xóyot) raccolti molto fedelmente da Arriano (in 8 libri, dei quali ce ne rimangono 4 e frammenti degli altri), la figura di Epitteto già vecchio rivive con. la vivacità del suo spirito e l’energia del suo carattere e del suo insegnamento. Più tardi, visto il successo delle lezioni di Epitteto, Arriano le condensò in un piccolo volume: è il famoso 1 Manuale di Epitteto ’, che nei tempi moderni comparve dapprima nella traduzione latina di Angelo Poliziano, nel 1493; il testo originale fu pubblicato nel 1528, a Venezia. Non ho bisogno di ricordare eh’ è stato tradotto in italiano dal Leopardi. Epitteto è anche lui un maestro tutto pratico: non è un pensatore che ricerchi o discuta i fondamenti teorici della dottrina che insegna: le ricerche sistematiche, le discussioni di scuola non sono il fatto suo. Egli vuole agire sulle coscienze, rinnovarle ed educarle. Seneca è uno spirito curioso e un letterato, che pure mirando a un fine pratico, ha coscienza della sua abilità di scrittore, e si compiace di aguzzare in forme ingegnose le sue massime, le sue osservazioni, i suoi consigli. Epitteto non mira a brillare, non vuole applausi, non ha mai pensato  TO'*, C 1 1 " L 1 ^ y h  t,. :'yY £VsE S, àtàeXcpol  Un primo documento di quest’attività greco-ebraica è la traduzione greca della Bibbia, che si disse dei Settanta, perchè secondo una leggenda sarebbe stata fatta da 72 dotti mandati dal Sacerdote di Gerusalemme a Tolomeo Filadelfo, che voleva avere nella sua grande biblioteca i libri di Mosè tradotti in greco, e questi 72 traduttori, chiusi in tante camerette separate, senza poter comunicare fra loro, avrebbero tradotta da capo a fondo, come per un’ispirazione divina, tutta quanta la Bibbia. Il vero è che la traduzione rispondeva al bisogno della comunità ebrea di Alessandria di leggere il libro suo nazionale nella lingua diventata oramai comune nella colonia. La maggior parte non leggevano nemmeno più l’ebraico. Questo libro si può considerare come il primo travasa- mento di idee giudaiche in un contenente ellenico 1 ), ed ebbe una grande efficacia sulla propagazione posteriore dell’Ebraismo e poi del Cristianesimo. Un ebreo di Alessandria, che in filosofia era peripatetico, Aristobulo è ritenuto da molti il primo scrittore in cui apparirebbe una vera connessione di filosofemi greci con le idee e le tradizioni ebraiche. E influsso d’idee greche è stato pure notato in uno dei libri apocrifi del Vecchio Testamento, nel Libro della Sapienza di Saio- mone, che si crede composto da un ebreo alessandrino verso il 100 a. C. Ma il principale rappresentante di questa filosofia grecoebraica è Filone ebreo.0 Castelli, Storia degli Ebrei (Firenze, Barbèra). ti.: FILONE EBREO 265 2. - riione nacque in Alessandria fra il 30 e il 20 a. C. da una famiglia sacerdotale ch’era delle più ricche e ragguardevoli fra gli Ebrei di quella città. Ebbe un’istruzione compiuta ellenica ed ebraica: consacrò tutta la vita agli studi teologici e filosofici, dedito alla vita contemplativa, ma senza trascurare i legami col suo popolo e i doveri che la sua posizione gl’imponeva. Doveva godere di una grande riputazione per la sua pietà, per la sua scienza e per la sua eloquenza. Verso il 40, già vecchio, fu messo a capo di un’ambasceria presso l’imperatore Caligola per chiedere la liberazione dei suoi correligionari di Alessandria dalle persecuzioni a cui erano fatti segno. Tornato ad Alessandria, scrisse egli stesso la relazione di questa ambasceria, e morì forse verso il 50. Scrisse in greco molte opere che ci rimangono. Alcuni degli scritti di Filone sono d’argomento storico e ci fanno conoscere quale fosse io stato della colonia giudaica di Alessandria: gli altri sono per la maggior parte un commento filosofico ai libri mosaici. Filone dunque sta tra la scienza greca e la rivelazione. Per lui non si tratta di ricercare e scoprire la verità con la semplice attività della ragione: la verità è quella ri velata da Dio nei libri santi. D’altra parte Filone è anche uno spirito esercitato alla meditazione, grande studioso e ammiratore della scienza greca : ha un culto per Platone: egli ritrova nei filosofi greci le verità rivelate dalla Bibbia, e legge la Bibbia a traverso i concetti della filosofìa, la vede in quella gran luce di verità creata dal pensiero greco. È naturale che la fusione di elementi così disparati e d’idee di così diversa provenienza non fosse possibile senza un certo sforzo, il quale importava due cose: una finzione e un metodo particolare 2 ). La finzione (in buona fede, s T intende) è che i filosofi greci come Pitagora, Eraclito, Platone, e anche i poeti più antichi come Omero, Esiodo, avessero avuto notizia dei libri di Mosè e attinto dunque alla sapienza ebraica: una finzione che si trova già in Aristobulo; ed era avvalorata da alcune falsificazioni: si attribuivano ai poeti mitici come Lino, Orfeo, dei versi di fattura posteriore. Il metodo è quello dell’interpretazione allegorica, non inventato da Pilone, applicato già prima di lui fra gli Ebrei alessandrini, e del quale anche gli Stoici gli davano l’esempio. Pilone distingue dapertutto un senso letterale e un senso spirituale o intelligibile, e ritiene il primo come simbolo del secondo; la relazione tra i due è quella che c’ è tra il corpo e V anima. Per esempio, Adamo è lo spirito (il vouc), e il Paradiso è 1’^epovtxòv xfjc; 4^/jA nel quale egli è messo per coltivare gli alberi, che sono le virtù; la creazione di Èva significa il nascere della sensibilità, e così via: quel metodo d’interpretazione allegorica che si può dire fantastico e non critico quanto si vuole, ma che ha contribuito a spiritualizzare le credenze e le idee. L’uomo ha cominciato col concepire Dio a sua immagine e somiglianza, attribuendogli occhi e mani e voce e passioni umane. A poco a poco il concetto del divino si spiritualizza. Per Filone, Dio non solo non ha forma nè attributi umani, ma è al di là di ogni determinazione, una realtà, ! ) Dkussen, Die Philo sophie der Griechen.] assolatamente trascendente, sia rispetto al mondo da cni è separato, sia rispetto alla nostra intelligenza alla quale è inaccessibile. Noi siamo certi della sua esistenza, ma non possiamo comprendere la sua essenza. Filone lo designa con la parola di cui si servivano gli Eleati e Platone: tò £v, l’Essere, o con l’espressione aristotelica: l’Essere in quanto essere; e trova il riscontro di questa denominazione in quello ch’egli stesso, Dio, dice di sè nell’-Z&odo; J5V/o sum qui sum: èyw eijxt Ó wv. Dio dunque è l’essere universale, eterno, immutabile, semplice, libero, pago di se stesso, assolutamente trascendente e separato dal mondo. Ma d’altra parte egli raccoglie in sè tutte lo perfezioni, e tutte le perfezioni delle cose create derivano unicamente da lui. Egli è la causa prima di tutte le cose create: riempie e comprende tutto. C’è una doppia esigenza in questa concezione: l’idea dell’assoluta trascendenza di Dio, e quella dell’assoluta dipendenza delle cose finite da Dio. Dio è uno, ma possiede forze infinite, mediante le quali crea e governa il mondo: le due principali di queste forze sono la bontà e la potenza, e l’ima e l’altra si uniscono nel Xóy oc, o ragione divina, eh’è come il pensiero di Dio prima della creazione, e che si manifesta poi in questa come la parola di Dio. Il lòyo- o la ragione cosmica di Eraclito e degli Stoici non è per Filone il primo principio del mondo, ma è a dir così il figlio primogenito di Dio, il suo verbo, l’intelligenza divina stessa iu quanto personificata, qualche cosa che sta in mezzo tra la pura essenza di Dio e il mondo eh’ è creato da lui. Filone ha bisogno di potenze intermediarie per colmare l’abisso tra l’assoluta trascendenza di Dio e il mondo delle cose finite, e queste potenze intermediarie sono rappresentate dal Logos, dalla parola di Dio. Quando un architetto costruisce una casa, ha in sè il suo piano, la sua idea. Il Logos di Filone comprende insè le idee, i modelli ideali delle cose, e insieme le forze generatrici e formatrici degli esseri: le idee platoniche e le ragioni seminali degli Stoici. È il Logos che divide in parti la massa di cui si compone il mondo, dà alle cose le proprietà che le costituiscono, determina i mari, le isole, i continenti, fìssa le specie dei viventi, stabilisce bordine nella diversità: compie l’ufficio o gli uffici della ragione come rivelazione di Dio e della sua provvidenza nel mondo. Filone tiene fermo al dogma della creazione, ma formula la sua fede servendosi dei concetti della filosofia greca: in questa mescolanza, in questo ripensamento delle idee greche in una nuova atmosfera spirituale sta l’interesse e l’importanza storica di Filone. E che cosa è l’uomo in questo sistema? Secondo la Scrittura Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza; e poi aggiunge che Dio formò l’uomo prendendo un pugno di terra, e soffiandovi sopra un soffio di vita, l’uomo fu fatto in anima vivente. Filone si domanda in quale misura e in che senso l’uomo è la creatura di Dio, e conclude dai due luoghi biblici che bisogna distinguere l’uomo celeste, ideale, creato da Dio a sua immagine, e l’uomo terrestre e sensibile. Il primo è un essere intelligibile, senza materia, nè uomo nè donna, è l’idea dell’uomo in quanto uomo, di natura incorruttibile; invece l’uomo terrestre, plasmato dal fango della terra, e non da Dio direttamente, ma dalle sue potenze o ministri, è di natura sensibile, materiale, naturalmente mortale, capace del bene, ma anche del male. L’uomo intelligibile è un riflesso diretto del Logos divino, quindi possiede tutte le virtù che lo fanno simile a Dio. L’uomo terrestre realizza solo in parte quest’idea, perchè l’anima, partecipe dello spirito divino, si trova ad abitare in un corpo mortale, fatto di forze inferiori. Di qui la doppia natura dell’uomo: egli si trova come al confine dei due mondi, del mondo sensibile e del mondo intelligibile. Per esprimere questo concètto Pilone riproduce a modo suo la distinzione aristotelica dell’anima vegetativa, sensitiva e razionale; oppure la teoria stoica dello rnsOpa, che pure conservando nell’espressione la reminiscenza del suo significato materialista, si viene sempre più spiritualizzando: è lo spirito, il soffio divino nell’uomo; soprattutto, si ricorda delle immagini platoniche che il corpo è come una prigione dell’anima. Quello che più importa a Filone è l’opposizione tra la parte irrazionale e quella razionale dell’uomo. Che cosa è l’uomo? Tutto per la sua origine divinò e il suo carattere razionale, nulla per la sua natura mortale e finita. Api>arisce come un’incomprensibile mescolanza di grandezza e di piccolezza, il più vicino a Dio, ma anche capace di male, miserabile, mortale. Mentre tutte le piante rivolgono o dirizzano le loro corolle verso il sole, l’uomo può, pianta celeste nudrita di elementi divini, elevarsi verso il cielo, ma questa sua libertà è come appesantita dal peso del corpo. E qual’è dunque il compito e il destino dell’uomo? Il restaurare in sè l’immagine di Dio, il somigliare a lui, il seguire la natura, clie sono frasi platoniche e stoiche, ma con un nuovo significato. Pilone combatte gli Epicurei, e considera il piacere come il massimo impedimento alla vita divina; accetta la formula stoica del seguire la natura, e distingue le quattro virtù cardinali, che trova simboleggiate nei quattro fiumi del Paradiso; insegna non la sola metropatia ma l’apatia, è insomma l’ideale del saggio stoico, salvo che il seguire la natura diventa per lui obbedire alla volontà divina. La morale è aneli’essa rivelata: essa si trova tutta quanta nelle leggi generali è particolari che emanano da Dio. La virtù dell’uomo è un’ombra della volontà divina; e lungi dall’essere un Dio, il saggio riceve la virtù come un dono della grazia divina, e un dono sempre rinnovato. In quest’ Etica teologica le quattro virtù cardinali ricevono il loro compimento nelle virtù religiose, che sono la fede e la pietà; e la vita contemplativa, di cui fanno parte le virtù religiose, è superiore alla vita attiva, che consiste nella pratica delle virtù cardinali. E come l’anima, allontanandosi da Dio, s’è legata in questa vita dei sensi, così essa può ritornare a Dio ; e l’ultimo grado della perfezione umana è l’unione conDio, la deificatio, la visione estatica. L’ uomo può sollevarsi al di sopra dei sensi, al di sopra delle idee; e-poichè l’essenza di Dio è inconoscibile, così quest’unificazione con Dio non è possibile mediante la conoscenza razionale, ma avviene per la grazia di Dio che si comunica a noi, in una specie di rapimento eh’è in noi come il furore dei coribanti, dice Filone con frase platonica; e i limite della felicità, la più alta aspirazione dell’uomo è, mediante quest’estasi, il riposare in Dio: sv jaóvcj) Osm axf;vai. Questa è nei suoi tratti fondamentali la filosofìa di Filone ebreo, eh’è in fondo anch’essa una filosofia eclettica, in quanto profitta di tutte le filosofie anteriori; ma è caratterizzata specialmente dal suo carattere religioso e dalla mescolanza d’idee greche con idee o credenze ebraiche. Le stesse tendenze religiose e mistiche, che abbiamo visto in Filone ebreo, ritroviamo sul terreno greco in quel gruppo di filosofi che si sogliono denominare Neopitagorici e Platonici eclettici più o meno pitagorizzanti, che si possono considerare anch’essi come precursori e preparatori del Neoplatonismo propriamente detto. L’antica scuola pitagorica, come un complesso di dottrine, era estinta sin dal quarto secolo, al tempo di Aristotile; ma come forma e metodo di vita, che si diceva appunto vita pitagorica, come disciplina di pratiche morali pure e austere sanzionate da credenze religiose, il Pitagorismo doveva aver conservato dei fedeli, tra i quali abbiamo già nominato i due Sestii ed altri. A cominciare dagli ultimi cinquantanni che precedono Péra cristiana e poi nei due o tre secoli che seguono, il Pitagorismo rinasce e si diffonde: non solo si cercano i libri degli antichi pitagorici, ma se ne scrivono anche degli altri,-che si attribuiscono a Pitagora stesso o ai suoi seguaci: tutta una letteratura apocrifa, come i Versi d'oro di Pitagora, che sono una serie di precetti morali, il trattato di Timeo di Locri a\\WAnima del mondo, quello di Ocello Lucano sulla Natura del tutto, in parte, se non interamente, i libri attribuiti a Filolao e ad Archita di Taranto, anche ad alcune donne pitagoriche, come la famosa Theano e altre, perchè una delle specialità dei Pitagorici era di avere un grande rispetto della donna. Sono opere dovute a falsari di buona fede, i quali ri- spondendo ai bisogni del tempo, senza nessuno scrupolo critico, e attingendo a tutte le filosofie contemporanee o anteriori, davano una filosofìa completa, delle idee intorno a Dio, il mondo, 1’ uomo, la società, la virtù, mettendo queste idee sotto il patrocinio di un nome illustre e autorevole: il bisogno di appoggiarsi a un’autorità venerata era uno dei bisogni del tempo. La stessa leggenda di Pitagora si compie in questo tempo, si arricchisce di nuovi tratti meravigliosi: la sua vita diventa un mito. JB oltre poi alle opere apocrife, ce ne furono delle altre pubblicate dai loro autori coi loro veri nomi, e che sono appunto i Neopitagorici. Si possono e si sogliono citare come rappresentanti di questo indirizzo un NIGIDIO FIGULO (vedasi), eh’è nominato da CICERONE (vedasi) come rinnovatore del Pitagorismo in Alessandria, Sozione, scolaro dei Sestii, che abbiamo pure nominato, poi più specialmente Apollonio di Tiana, Moderato di Gades, e M- comaco di Gerasa sotto gli Antonini. La figura più importante e caratteristica che possiamo prendere come rappresentante di tutto questo indirizzo è Apollonio di Tiana, nella Cappadocia, il quale nacque sotto Augusto e visse fino agli ultimi anni del primo secolo dell’e. v., e la cui efficacia si estende molto al di là del tempo in cui visse. Più di un secolo dopo la sua morte, nei primi decenni del 200, ne scrisse la vita un sofista di quel tempo, Filostrato di Lemno, in una specie di romanzo che vorrebbe essere storico, a richiesta dell’imperatrice Giulia Doinna, moglie di Settimio Severo, la quale era una bella donna, originaria della Siria, ambiziosa e colta, che non solo faceva, occorrendo, della politica, ma aveva il gusto delle lettere e della filosofìa, e raccoglieva alla sua corte un circolo di persone istruite più o meno illustri. In questo libro Apollonio è presentato come un tipo di perfezione morale e religiosa, secondo i precetti della filosofìa pitagorica, come un essere più che umano, non filosofo solamente, ma qualche cosa di mezzo tra la natura umana e la natura divina. Ha una nascita meravigliosa e fa anche dei miracoli. Cosicché è difficile, da questa vita dì Filostrato, sceverare la parte storica dalla leggenda, quello eh’è stato realmente Apollonio da quello ch’è diventato nell’immaginazione dei suoi ammiratori. Ce lo possiamo raffigurare come una specie di riformatore morale e religioso che, dopo essersi istruito nella filosofia e avere accettato quella di Pitagora o che passava per pitagorica, esercita un apostolato predicando la conoscenza del vero Dio e il culto che gli è dovuto. In un frammento di lui che ci è conservato da Eusebio, egli dice: « Per onorare degnamente la divinità e rendersela propizia e benevola, non giova, al Dio che diciamo primo e ch’è uno e separato da tutte le cose, offrir sacrifizi nè accendere fuoco nè in generale consacrare alcuna cosa sensibile; giacché egli non ha bisogno di nulla, e non c’è pianta che la terra produce nè animale eh’essa o l’aria alimenta, che non sia inquinato di qualche macchia. Quelloche dobbiamo offrirgli è il meglio di noi, il discorso della mente, non le parole che escono dalla bocca, ma invocare da lui, eh’è il migliore degli esseri, il nostro bene con quello che abbiamo di meglio in noi, lo spirito, il pensiero (il vo0$), che non ha bisogno di un organo con cui rivelarsi Al di sotto di questo Dio primo ve n’ ha degl’ inferiori o secondari, primo dei quali è il sole, la più pura manifestazione visibile del divino. L’uomo è d’essenza divina e può per la saggezza elevarsi fino a Dio. La sua anima è immortale, anzi eterna: essa passa da un corpo in un altro, ma in ogni corpo è in prigione, incatenata ai sensi e agl’impulsi disordinati, da cui la filosofìa ha per oggetto di liberarlo. Bisogna conoscere moralmente se stessi per arrivare alla virtù e alla saggezza. Colui che pratica tutte le virtù, che conserva la sua vita interamente pura, e sa adorare Dio con adorazione vera, s’avvicina sempre più a Dio, diventa partecipe del divino. Ora è qui che comincia a lavorare la leggenda: questa dottrina non è solamente insegnata, ma è vissuta da Apollonio, nella biografia che ne scrive Filostrato: egli stesso è l’uomo divino, la personificazione vivente della perfezione spirituale e della potenza a cui può giungere l’uomo. Gli abitanti del paese di Tiana, dov’egli è nato, pretendono ch’egli è figlio di Giove; Filostrato non lo crede, ma afferma che venne al mondo in condizioni straordinarie, dopo che sua madre ebbe appreso in sogno che portava il dio Proteo, il dio dellà divinazione, in persona. Dopo avere abbracciata la vita pitagorica ed essersi formato nel silenzio per cinque anni, viaggia per il mondo, in Oriente, in Grecia, a Roma, in Egitto, in tutti i paesi allora conosciuti, conversa coi sapienti di tutti i paesi, istruendosi e ammaestrando gli altri, preceduto da una gran fama e facendo delle cose maravigliose. A Efeso ferma la peste facendo lapidare un vecchio mendicante, il quale difatti non è altro che un demone camuffato, nel quale s’era incarnato il flagello. Ad Alessandria riconosce istantaneamente in un corteo di condannati a morte un innocente. A Efeso pure egli sa e annunzia la morte di Domiziano nel momento in cui questo è colpito a Roma: un bel caso di telepatia. Non solo sa delle cose sconosciute a tutti gii altri uomini, ma dispone di un vero potere sugli elementi della natura: sulle rive dell’Ellesponto ferma i terremoti. Parla tutte le lingue senza averle imparate, scaccia i demoni, si trasporta istantaneamente a grandi distanze, s’intrattiene con le ombre degli eroi, fa cadere i suoi ferri in prigione col solo prestigio della sua volontà, richiama in vita una ragazza che passava per morta. A Corinto, apre gli occhi di uno dei suoi discepoli perdutamente innamorato di una donna molto bella e ricca in apparenza, ma ch’era in realtà una lamia, uno di quei cattivi demoni femminili che si fanno amare dai giovani per poterli divorare a loro piacere. E non già ch’egli sia un mago, uno stregone, che operi prodigi grazie all’intervento di spiriti maligni; no, Filostrato si dà una gran pena per escludere questa interpretazione. Apollonio fa dei miracoli in virtù della sua scienza superiore e della sua cola unione con gli Dei; e per arrivare fino a questo punto quello che occorre è una virtù austera, un’estrema purezza di costumi e l’osservazione di una disciplina rigorosa. Così egli ha la conoscenza delle cose più nascoste all’uomo, predice l’avvenire, e opera dei miracoli. La sua carriera si termina aneli’essa in modo meraviglioso. La leggenda più diffusa intorno alla sua morte racconta che, essendo andato a Creta vecchissimo, entrò nel tempio di Diana e non ne uscì più. Si sentirono come delle voci di fanciulle che cantavano nell’aria: lasciò la terra, salì al cielo. Dopo la sua morte, la città di Tiana gli rese onori divini, e la venerazione di tutto il mondo pagano attestò l’impressione lasciata negli spiriti dal passaggio di quest’essere soprannaturale, che faceva dire ai suoi contemporanei: Un Dio abita fra noi J ). Questo carattere meraviglioso della vita di Apollonio ha fatto credere che fosse intenzione di Filostrato e della sua ispiratrice di opporre una specie di Cristo pagano a quello della Chiesa nascente, che guadagnava sempre più adoratori. Per combattere il prestigio che la storia e l’insegnamento di Gesù esercitavano di giorno in giorno non solo sulla folla, ma in tutte le classi della società, avrebbero pensato di suscitargli contro un rivale in un saggiopagano, che non solo operava miracoli come l’altro, ma che professava una dottrina attinta alle più pure fonti della scienza ellenica. Ora la più parte dei critici non credono a questa intenzione o tendenza del romanzo, nel quale non si allude affatto e non si può dire che ci sia uno spirito ostile al Cristianesimo. Il romanzo è piuttosto interessante innanzi q Cfr. .1. Réville, La veli gioii (ì Home som ìes Sé vèr eh, Paris, Levous.] tatto per il fatto stésso che, alla distanza di poco più di un secolo, la vita di un filosofo neopitagorico come Apollonio sia potuta diventare materia di una leggenda cosiffatta: è un documento interessante non solo di quel- V atmosfera meravigliosa e della credulità in cui si svolgeva la lotta delle religioni; ma soprattutto di quella religiosità spirituale che tendeva a purificare e moralizzare il paganesimo, e del bisogno che si sente di presentare l’ideale \ religioso come incarnato in una figura concreta, santa e beila di quell’ideale stesso, e operatrice di miracoli, perchè avesse più presa sulle coscienze e la forza di comunicarsi. Il saggio stoico o quello di Epicuro sono costruzioni razionali che non bastano più: occorre la figura vivente e reale dell’ uomo che s’india, che rappresenta la natura umana divinizzata. A questo bisogno, a quest’aspirazione religiosa delle anime, rispondono ora le figure di Pitagora e di Apollonio. Del quale sappiamo anche che scrisse una Vita di Pitagora. L’uno e l’altro sono uomini divini, modelli di vita pura e santa, nei quali la verità si è rivelata, i Quando poi questi Neopitagorici cercano di formulare filosoficamente le loro credenze e le loro massime etico religiose, essi mescolano alle idee pitagoriche concetti elaborati dalla filosofia posteriore, platonici, aristotelici, stoici : di qui il carattere eclettico e recente della loro speculazione, e per cui è facile riconoscere quelle falsificazioni della letteratura apocrifa che abbiamo detto. L’idea fondamentale è l’opposizione tra Dio e il mondo: Dio è l’uno, la monade primitiva: il mondo è rappresentato dal due, dalla dualità indeterminata, è il molteplice. Ma siccome nel mondo tutto è ordinato con numero e mitilira, esso si può dire l’attuazione d’idee, che sono pensieri della mente divina, che s’identificano aneli’esse coi numeri; e poiché Dio non può venire in contatto diretto col mondo, sorto realizzate da un essere intermedio, dal- l’anima del mondo in una materia preesistente, la quale pure talvolta resiste a questa penetrazione delle forme divine; ed è nella materia che bisogna cercare la causa delle imperfezioni e del male nel mondo. Questo dualismo si ripete, si ripercuote nell’uomo: l’anima ha bisogno di purificarsi con la vita santa, con le espiazioni, per ridiventare divina. È stato osservato che in/queste speculazioni ora è accentuato il concetto monistico del principio unico da cui tutto il resto sarebbe derivato; ora invece, e più spesso, prevale la concezione dualistica del principio divino e di una materia originaria. Il problema del male s’.è posto davanti alla coscienza religiosa e alla riflessione filosofica, e l’una e l’altra s’affaticano a risolverlo cercando di superare l’antitesi tra il divino e il suo contrario, tra il corpo o la materia e le aspirazioni superiori dell’anima. Il problema in fondo era nato con la distinzione platonica tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile. E di tutte le autiche scuole nessuna doveva sentirsi più vicina all’ indirizzo neopitagorico della scuola platonica, per la ragione eccellente che Platone stesso aveva accolto nella sua dottrina elementi pitagorici, aveva finito col pitago- reggiare identificando le sue idee coi* numeri, e speculando su Dio e l’anima e la formazione del mondo materiale alla maniera dei pitagorici nel Timeo, il quale Timeo era quel Timeo di Locri pitagorico, da cui Platone fa esporre appunto la sua filosofia della natura nel dialogo che porta quel nome. Così è che V indirizzo dei Neopitagorici si può dire continuato nel secondo secolo d. 0. da un gruppo di Platonici eclettici, tra i quali, senza citare altri nomi, possiamo ricordare due scrittori notissimi, Plutarco e Apuleio; e poi, per la sua importanza caratteristica, Numenio di Apamea, che ora è detto pitagorico ed ora platonico. PLUTARCO di Cheronea è Fautore celebre delle Vite parallele – la seconda e di ROMOLO --, che hanno educato tanta gente all’amore della virtù e dell’eroismo, e poi di una quantità di opuscoli che si sogliono designare col titolo complessivo di Opere morali. Egli è un poligrafo, moralista principalmente, anche nelle Vite, ma è curioso di tutto, erudito, istruttivo e piacevole: le sue opere sono una specie di enciclopedia, un repertorio di notizie e d’idee su tutta l’antichità classica, che egli, venuto tardi, ammira in tutte le sue forme; e come ha celebrato nelle sue Vite la storia dei suo popolo e degli eroi antichi, così si assimila la scienza, la religione, la morale dei padri, e se ne fa l’interprete ai contemporanei e ai secoli futuri. Uomo religiosissimo, ha nella sua patria e a Delfo funzioni sacerdotali. Ama la filosofia, e l’ha anche insegnata. Si dice platonico, e ammira Platone come il più grande dei filosofi, ma ha imparato anche da tutti gli altri; e da quell’uomo istruito che è, e non nella filosofia solamente, ha qualche volta la riserva prudente dei nuovi Accademici. Il che non gl’impedisce di avere non precisamente un sistema, ma una dottrina eh’è come il risultato di tutte le dottrine anteriori. La sua filosofia ha un intento essenzialmente morale e religioso: egli vuole mantenere e difendere la tradizione religiosa anche nei suoi miti e nelle sue pratiche, interpretandola secondo principi filosofici, in modo cioè che non faccia ostacolo a una concezione pura e degna della divinità. La filosofia è la rivelatrice e l’interprete del segreto sacro e divino che i miti contengono, togliendo le concezioni false e le menzogne che talvolta i poeti raccontano. Plutarco combatte l’ateismo, ma combatte pure la superstizione, quella ch’egli chiama 5esoi8ac|xovfa, la paura servile degli Dei: invece la fiducia e la gioia accompagnano il vero culto eh’ è loro dovuto. Combatte gli Epicurei per il loro materialismo, ma combatte anche gli Stoici, che col loro principio unico non possono rendere ragione del male nel mondo. E qui apparisce il platonico. Non è possibile, egli dice, porre il principio delle cose nè nei corpi senz’anima (negli atomi) come fanno Democrito ed Epicuro, nè nella ragione formatrice di una materia senza qualità. Nel primo caso non si capisce come vi possa essere bene, ordine, ragione nel mondo; nel secondo caso non si capisce come ci possa essere il male, il disordine. D’onde viene il male? Non dal bene, non da Dio certamente. E nemmeno dalla materia, come molti pensano, perchè la materia per se stessa è assolutamente passiva, il sostrato indifferente di tutte le forme, non è nè buona nè cattiva. Per spiegare dunque la cosa, bisogna ammettere che come c’ è un’ anima del mondo che realizza le idee divine, ci sia anche una cattiva anima del mondo, un principio o potenza del male che esiste da tutta eternità col bene, il quale, benché superiore, non può mai annientare quella potenza eh’ è Y origine e la causa di tutto ciò clie v’ lia di disordine nel mondo, e rende conto della generazione del male. Il motivo di questa speculazione è eliminare, di fronte alla realtà del male, tutto ciò che può compromettere la purezza e la bontà di Dio, a costo di compromettere la sua onnipotenza. Di qui im J altra idea affine e connessa con questa. Dio è il principio del bene e governa il mondo con la sua provvidenza; ma questa provvidenza non si esercita dilettamente da lui, ma per mezzo di esseri intermediari che sono tra Dio e il mondo. Al di sotto del Dio primo e supremo, realtà trascendente e inaccessibile, ci sono gli Dei celesti o visibili, e al di sotto di questi i demoni o genii o spiriti che vigilano e governano direttamente le azioni e le sorti degli uomini; e come ce ne sono dei buoni, ce ne sono anche dei cattivi, nei quali la natura divina apparisce inquinata e commista al male. Questa demonologia, clPè insegnata anche da Apuleio, ed è una delle credenze più diffuse in quest’età, serviva non solo a mantenere puro nella sua sublimità trascendente il concetto di Dio, ma anche a giustificare in qualche modo tutte le divinità pagane, e le funzioni loro attribuite, e i riti e gli oracoli e tutte le altre parti del culto che vi erano connesse. E infine un’altra idea domina la speculazione religiosa di Plutarco, quella di trovare a traverso la diversità dei miti e delle credenze dei diversi popoli una verità fondamentale. A quello eh’ è stato detto il sincretismo religioso, il mescolarsi di tutte le religioni, ch’è caratteristico di questi secoli, corrisponde il sincretismo eclettico Biblioteca Comunale “Giuseppe Melli” - San Pietro Vernotico (Br) NUMENIO 283 dei filosofi, i quali aspirano a formulare la verità religiosa comune ai diversi .sistemi e alle diverse civiltà. Non ci sono, dice Plutarco, diversi Dei per diversi popoli, non ci sono Dei barbari e Dei greci, Dei del nord e Dei del sud. Ma come il sole e la luna illuminano tutti gli uomini, come il cielo, la terra e il mare esistono per tutti, nonostante la diversità dei nomi con cui si designano, così vi ha una sola Intelligenza che regna nel mondo, una sola Provvidenza che lo governa, e sono le stesse potenze che agiscono dapertuttó; solo i nomi cangiano come le forme del culto; e i simboli che elevano lo spirito verso ciò eh’ è divino sono ora chiari ora oscuri. Idee affini e tendenze mistiche anche più pronunziate si ritrovano in Apuleio di Madaura, che anch’egli professa ed espone il platonismo, adattandolo ai bisogni teosofici del tempo. Ma di tutti questi filosofi eclettici del secondo secolo quello che segna più nettamente il passaggio al Neo- platonismo è Numenio di Apamea: gli stessi Neoplatonici lo considerano come il loro precursore immediato: lo leggono e lo commentano nella loro scuola. Secondo Numenio, che visse verso il IfiO, la vera dottrina di Platone era identica a quella di Pitagora; e questa filosofia egli la trova d’accordo con quella dei saggi dei- fi Oriente, Bramani, Magi, Egiziani, Ebrei. Egli aveva in particolare la più viva ammirazione per Mose, nel quale trovava tutte le idee di Platone; di qui quel motto che ci è riferito di lui : Che cosa è altro Platone se non un Mosè che parla attico (atticizzante) ?, a quel modo come di Filone ebreo si diceva: o Filone platonizza o Platone fìlonizza. Numenio conosce certamente Filone e adopera lo stesso metodo d’interpretazione allegorica, e ha tendenze affini nella sua speculazione : cosicché qui il sincretismo è completo: la tradizione orientale e occidentale si congiungono a produrre la nuova filosofìa. Dei libri di Numenio, uno dei quali s’intitolava intorno al Bene, ci rimangono dei frammenti interessanti conservatici da Eusebio, e che si possono vedere nel 3° volume del Mullach, Frammenta pliilosopliorum graecorum. Numenio si domanda: che cosa è l’essere, la vera realtà? Non i quattro elementi, nè i corpi composti da essi, che sono realtà mutevoli, cangianti, si trasformano, divengono sempre e non sono mai, come diceva Platone; e nemmeno la vera realtà si può cercarla nel sustrato materiale di tutti questi fenomeni sensibili, nella materia, la quale è qualche cosa d’indefinibile e d’irragionevole (àXoyo?). Per conoscere la vera realtà bisogna rivolgersi non al- 1’ esperienza sensibile, ma alla ragione. Per Numenio la realtà è ciò che è assolutamente, l’ Essere increato e che non sarà distrutto, l’Essere semplice e invariabile. Quest’essere è incorporeo (cèawpaiov), ed è intelligibile (voyj-cóv), si può cogliere con la ragione solamente, non con la sensazione o con l’opinione, come le cose periture e finite. Con questo Numenio esprime la tendenza di tutto questo movimento d’idee: l’opposizione a ogni materialismo, non solo a quello degli Epicurei, ma anche a quello degli Stoici: il bisogno di concepire la realtà ultima come una realtà spirituale diversa e opposta a tutto ciò eh’ è corporeo. Da queste considerazioni metafisiche Numenio ricava la sua dottrina teologica.  NUMENIO La quale, per dire la cosa con tutta brevità, consiste in questo: nell’ammettere un Dio supremo inaccessibile, puro essere spirituale, senza connessione col mondo, eh’è pura agione ed è il Bene in se stesso; poi un Dio secondo, il Demiurgo, eh’è l’ordinatore o l’architetto del mondo; e per ultimo un terzo Dio, eh’è il mondo stesso. Dato il concetto trascendente del puro Essere come 10 abbiamo definito, e eh’è il primo Dio, nasce la solita difficoltà: com’è possibile l’azione di Dio sul mondo. Come Filone unificava le idee e le potenze divine nel concetto del Logos, come gli altri platonici ponevano degli Dei o demoni intermediari tra Dio e il mondo, così Nn- menio statuisce al disotto del primo Dio un secondo eh’è 11 Demiurgo, distinguendo in certo modo quello che Platone identificava: il Demiurgo era per Platone, a dir così, la funzione divina per rispetto al mondo. hTumenio ne fa un secondo essere divino, il quale partecipa della bontà del primo, e ne riceve i semi di tutte le cose che sono le Idee, ma trapianta questi semi nel mondo sensibile formando e ordinando il mondo. Sicché il Demiurgo ha una posizione intermedia : è come un pilota che, assiso al governo del mondo, ha sempre gli occhi fissi sul cielo e 1 gli astri, per assicurare l’armonia dell’ordine del mondo, che dirige mediante le Idee, ossia dunque ha sempre gli occhi fissi al primo Dio; ma d’altra parte, e appunto per la sua fuuzione causale e formatrice sul mondo, il suo sguardo e la sua azione è rivolta verso le cose sensibili, che ricevono da lui la loro persistenza, la loro vita, il loro ordine, le leggi dell’essere loro. E in quanto il mondo è fattura del Demiurgo, si può dire esso stesso un Dio .TTJfcV^VF.286 NE OPITAG ORICI E PLATONICI ECLETTICI Cosicché avremmo: il primo Dio eh’è il padre (icaxrjp), il secondo Dio eli’è il Demiurgo, l’artefice (mr]T%), e il terzo clP è il 7ioùj|i«, la fattura di Dio, il mondo in quanto formato da Dio. Questo è il cosiddetto triteismo che insegna Numenio. ' Del quale un’altra dottrina caratteristica è che l’anima umana è duplice: un’anima razionale e un’anima non razionale: queste due nature sono in lotta fra loro, come il bene e il male, e il male viene all’anima dalla materia,o dal suo contatto con la materia, e tutte le incorporazioni dell’anima sono considerate come un male. Si suppone la preesistenza e la trasmigrazione delle anime; 1’ unione dell’anima con un corpo terrestre è come la punizione di una colpa commessa in una vita anteriore, prima della nascita in quel dato corpo. E l’aspirazione suprema dell’anima razionale è la sua unione con Dio, la contemplazione o l’intuizione del vero Bene, Uno stato di beatitudine di cui possono godere solo quelli che allontanano la loro anima da ogni comunicazione col corpo e coi sensi. Cosicché avremmo qui, e con maggiore nettezza, formulate le idee e le esigenze di tutta questa speculazione da Filone in poi: la trascendenza del divino, un termino o più termini intermediari tra Dio e il mondo, la doppia natura dell’uomo o dell’anima, che da una parte è di Origine divina, e dall’altra è rivolta verso la materia e le cose terrene; quindi il bisogno della purificazione e della liberazione per avvicinarsi a Dio e unirsi con Dio: idee e esigenze che troveranno la loro espressione più compiuta nella filosofia dei Neoplatonici. La Filosofia greca finisce col sistema e la scuola (lei Neoplatonici. Fondatore del Neopfatonismo è ritenuto dagli antichi e dagli stessi Neo pi atonici Ammonio Sacca > alessandrino; nato ed educato da genitori cristiani, sarebbe passato alla religione antica; e insegnò filosofìa in Alessandria. Non scrisse nulla, e non sappiamo niente di preciso sulle dottrine che professava: ci è riferito che secondo lui le dottrine di Platone e di Aristotile, nelle cose essenziali, concordavano, si potevano ridurre o fondere in una sola dottrina. La tendenza religiosa dell 7 uomo, oltre che l’ammirazione che ispirava, si può concludere dall’epiteto di 0£o5iBaxToc, a Deo doctus, che scrittori posteriori gli danno. Ebbe, molti scolari: si citano tra gli altri un Erennio, un Origene pagano che non è da confondere col teologo cristiano dello stesso nome, quantunque anche di questo è detto che passò per la scuola di Ammonio; poi il critico  e retore Longino a cui è stato attribuito (falsamente) il trattato Del sublime; ma sopraffatti importante fra gli scolari di Ammonio Sacca è Plotino. Questi tre scolari principali, Erennio, Origene e Plotino s’erano messi d’accordo di non pubblicare nulla degl’ insegnamenti di Ammonio, probabilmente per non profanarli divulgandoli; ma non essendo stati ai patti prima Erennio e poi Origene, anche Plotino si ritenne sciolto dalla sua parola, e così insomma egli è diventato per noi il rappresentante letterario, il vero organizzatore ed espositore di quel sistema d’idee eh’è il Neoplatonismo. Quali che siano stati gl’insegnamenti di Ammonio, la filosofia neoplatonica è la filosofia di Plotino e poi dei suoi successori. 2. - Plotino è di Licopoli, nell’Egitto. A 28 anni si diede alla filosofìa e udì più d’uno dei maestri eh’erano allora in Alessandria, senza rimanerne contento; ma quando un amico, al quale s’era confidato, lo condusse a sentire Ammonio, disse : è quello che cercavo; e rimase suo scolaro per 11 anni. Nel 243, desiderando conoscere nelle sue fonti la saggezza orientale dei Persiani e degl’indiani, accompagnò l’imperatore Gordiano nella sua spedizione contro la Persia; ma questa spedizione riuscì male; lo stesso imperatore vi fu ucciso ; Plotino potè appena salvarsi in Antiochia, poi venne a stabilirsi a Poma nel 244 e vi rimase quasi fino all’ultimo della sua vita. Aperse una' scuola ' che Ìventò sempre più numerosa. Non tanto il talento della parola, quanto la profondità dei pensieri, la bontà del carattere, la purezza e semplicità della vita gli attiravano la simpatia e la venerazione. Era una natura mite e gentile, meditativo, tutto dedito all’insegnamento e allo studio. Diventava bello quando parlava, e specialmente quando disputava, con grande dolcezza: la sua intelligenza sembrava brillare sul suo viso e illuminarlo. Dovette esercitare una potente efficacia. Tra i sxioi ascoltatori furono persone di riguardo, dei senatori e alcune donne distinte. Ci furono uomini e donne, che, vicino a morire, gli affidarono i loro figli d’ambo i sessi, con tutti i loro beni, come a un depositario o un tutore di cui si poteva avere fiducia: onde la sua casa era piena di giovanetti e di giovanotte. Egli guardava a tutto, adempiva a tutti i suoi obblighi, il che non lo distraeva punto dalle cose intellettuali, ch’erano la passione della sua vita. L’imperatore Gallieno e sua moglie, l’imperatrice Saloniua, lo ebbero in grande favore, 27egli ultimi anni del filosofo fu ventilata pef un momento tra lui e l’imperatore l’idea di fondare nella Campania una città filosofica sul modello di quella di Platone, e che si sarebbe chiamata Platono- poli ; ma non se ne fece nulla. Le condizioni della sua salute peggiorata (soffriva di un’affezione cronica dello stomaco) lo decisero ad abbandonare Roma e a ritirarsi in una villa della Campania che fu messa a sua disposizione. Morì nel 270, a 66 anni, presso Minturno. Al medico, suo amico e discepolo, che venne a vederlo, Plotino morente avrebbe detto : Ti aspettavo, prima di riunire quello che v’ha di divino in noi al divino che è nell' universo. Tutte queste cose si leggono nella Vita che ne scrisse il suo scolaro Porfirio, il quale comincia la sua biografia con queste parole: Il filosofo Plotino, vissuto ai nostri giorni, pareva si vergognasse di avere un corpo. Così pure egli non parlava mai della sua famiglia e della sua patria; e gli ripugnava di farsi fare un ritratto o un busto. Un giorno che Amelio (un altro degli scolari) lo pregava di lasciarsi ritrarre, Plotino gli disse: Non basta di portare quest’immagine nella quale la natura ci ba chiusi? Bisogna proprio trasmettere alla posterità l’immagine di questa immagine come un oggetto che valga la pena di essere guardato? Dobbiamo soprattutto a Porfirio se possiamo leggere Plotino. Il quale s’era contentato per molti anni dell’insegnamento orale, e solo a cinquantanni aveva cominciato a mettere, in iscritto le sue idee. Scriveva rapidamente, tutto assorbito dal suo pensiero, lungamente e intensamente meditato, senza curarsi molto dello stile e nemmeno dell’ortografia: non si rileggeva, anche per la vista debole che aveva. Verso la fine della sua vita affidò a Porfirio i suoi manoscritti con l’incarico di rivederli e ordinarli. Porfirio trovò eh’essi contenevano o se ne potevano ricavare 54 trattati o capitoli, li distribuì in sei gruppi ciascuno di nove libri, e chiamò questa raccolta Enneadi, come chi dicesse Novene, sei Enneadi di nove libri ciascuna. Questa è l’origine dell 1 Enneadi di Plotino, il libro fondamentale della speculazione neoplatonica, e uno dei tesori della letteratura mistica di tutti i tempi. Fu tradotto in latino da FICINO (si veda). Il neo-platonismo è una filosofia essenzialmente religiosa; il motivo da cui è nata si può dire anzi mistico: l’aspirazione verso il divino, il bisogno dell’ anima di sollevarsi dai limiti dell’esistenza finita, e di sentirsi una con l’essenza universale di tutte le cose. L’idea fonda- mentale e dominante della filosofia di Plotino è che tutte le cose esistono in Dio, emanano da lui e ritornano a lui; e questo non come una cosa solamente pensata, ma sentita e vissuta in tutte le fibre dell’anima, con uno sforzo persistente del pensiero di penetrare nei misteri di questa vita divina di se stessi e del mondo. Il punto di partenza e il presupposto di questa speculazione è la distinzione platonica tra le cose sensibili e la realtà intelligibile, la realtà delle idee. È una distinzione che può essere pensata in una maniera sobria, senza nulla di mistico. Tutti in fondo viviamo in un mondo ideale, nel mondo delle idee, quando parliamo di verità, di giustizia, di virtù, di bellezza; e il mondo tutto quanto, anche il mondo naturale, si può considerare come una realizzazione d’idee. Questo insegnava Platone e questo insegnava Aristotile. Ebbene, secondo Plotino, bisogna elevarsi ancora più in su. Le Idee sono una realtà derivata, non sono la prima realtà. Il principio di tutto ciò ch’esiste è l’Unità assoluta, ch’è al di là di ogni molteplicità e di ogni determinazione. Le cose che noi vediamo e che possiamo pensare sono molte, ma tutte queste cose non potrebbero esistere se non avessero la loro radice prima nell’Uno da cui procedono e che le tiene insieme. L’unità è la condizione di ogni molteplicità non solo nei numeri, ma anche nel mondo dell’essere; senza un’unità suprema incondizionata nessuna cosa esisterebbe, e il mondo si risolverebbe in un caos senza consistenza e senz’ordine. Plotino chiama questo primo principio l’Uno, zb gv, nel senso che esclude ogni molteplicità, e gli nega pure ogni determinazione o attributo, perchè* definirlo in qualche modo sarebbe un limitarlo, farne una cosa piuttosto che un’ altra. Si può dire quello che non è, non quello che è: senza limiti, infinito, senza forma nè qualità. È una realtà assolutamente trascendente, rcàvawv, al di là di tutte le cose : una realtà a cui nessun concetto e nessuna parola è adeguata. Questo lo diceva anche Filone ebreo, il quale però, educato sulla Bibbia, non poteva a meno di concepire Dio come persona. Secondo Plotino, non si può attribuire a Dio, alla realtà prima e assoluta, nessuna delle proprietà della persona: nè il pensiero nè la volontà: il pensiero suppone la dualità di soggetto e oggetto e la molteplicità delle idee pensate; la volontà suppone un’attività rivolta a un fine: saremmo sempre nel campo delle realtà derivate, della molteplicità, della differenziazione. Ogni attributo dunque,) personale o non personale che sia, bisogna negarlo di lui.^ Ma insieme con questo esso è ciò che v’ha di supremamente reale e di supremamente positivo, giacche se noi affermiamo la sua trascendenza assoluta al di là di tutte le cose finite e di tutte le cose pensabili, non è per diminuirne la realtà, ma unicamente perchè la pienezza dell’essere non sarebbe compatibile con una limitazione o determinazione qualsiasi. / Si può dire solo di lui eh’è l’Uno, il Primo, potenza c (prima e causalità assoluta di tutte le cose; e anche si può ì \ dire eh’è il Bene, non come un attributo intrinseco a lui ' (come se fosse un essere buono), ma come il fine ultimo a cui tutte le cose tendono. È insomma l’Ineffabile. Un filosofo italiano *) (liceva: * : l’Innominabile Reale. E voleva dire: la vita, il mondo è j un grande mistero: tutte le cose elle noi vediamo e che I pensiamo accennano, sono l’indizio di una realtà suprema che ci supera, ci trascende : possiamo affermarla, non nominarla. Questo è l’Uno di Plotino. Rimane a sapere come procedono gli effetti di questa causalità originaria. Bisogna escludere innanzi tutto ogni idea di divenire nel tempo, come se prima esistesse l’Uno e poi le altre cose ; no, non si tratta di raccontare una storia di eventi che si succedono ; e più specialmente non si può ammettere che le cose procedano dall’ Uno in seguito a un atto di volontà, a una decisione intenzionale, come se l’Uno fosse una persona che pensa e delibera : dunque niente creazione, nel senso ebraico e cristiano. E Plotino non ammette nemmeno con gli Stoici che la sostanza divina, come un fuoco sottilissimo, si comunichi alle cose derivate, permeandole come il miele che riempie di sò le celle dell’alveare : Dio non è una sostanza che si possa disperdere e spartire. Per esprimere la sua idea Plotino è obbligato a servirsi d’immagini.^ È per la sola necessità della sua natura che il primo juincipio dà origine alle cose derivate, si comunica ad esse. Come ogni essere vivente, giunto al suo punto di perfezione, ne genera un altro simile a sè, così la realtà suprema ne fa nascere delle altre simili benché inferiori. Dalla pienezza dell’ Uno si diffonde, straripa il flusso delle q Antonio Tari, professore di Estetica nell’ Università di Napoli. esistenze derivate. Esse procedono da lui, come la pianta germina dalla radice, come dal sole la sua luce. Questa è l’immagine più frequente e in un certo senso la più chiara. L’universo è la fulgurazione (TcepiXajjL^) dell’Uuo, della luce divina. Non è dunque nè creazione nè spartizione della sostanza divina, ma emanazione, intendendo per emanazione non una diffusione che diminuisca la sorgente da cui essa deriva, ma un comunicarsi di forza che pure rimanendo integra in se stessa si comunica alle esistenze derivate. Le quali perciò sono pure manifestazioni dell’Infinito, emanazioni di lui, sono immanenti in lui, mai separate da esso, il quale ciò nonostante non si confonde con le cose, ma le trascende, è al di là di tutte le cose. Dio è dapertutto ed è l’attualità di tutto, senza essere in nessun posto e senza confondersi nè con ciascuna cosa finita nè con la loro totalità. Quando si parla di Panteismo, ordinariamente s’intende quella concezione che confonde o identifica Dio col mondo. Per Plotino Dio, l’Uno, rimane eternamente distinto dal mondo, e ciò nonostante il mondo è tutto pieno di Dio, è un’emanazione della sua luce, della forza divina da cui deriva: si potrebbe chiamare questo un Panteismo dinamico o emanatistico. Prodotto dall’efficacia dell’Uno, il derivato ne è come la riproduzione indebolita, a dir così un’immagine o una copia, una luce più debole, un’ombra. E come l’immagine che riflette uno specchio sparisce quando s’allontana l’oggetto che la produce, così, senza l’efficacia persistente e continuata dell’Uno, le esistenze, derivate si dileguerebbero. Esse hanno in lui la loro consistenza, ma ogni nuova emanazione, pur partecipando del- l’Uno, è meno perfetta di lui ; le cose diventano via via meno perfette a misura che s’allontanano dalla causa prima e aumentano i termini intermediari: la luce proiettata dall’ Uno impallidisce via via fino a sembrare come dileguarsi nelle tenebre del non essere, della materia bruta. Si direbbe un’evoluzione a rovescio, non dalle forme meno perfette alle più perfette, ma al contrario, una degradazione progressiva del divino, un allontanarsi sempre più della luce dalla sua sorgente. E quali sono i gradi di questa emanazione 1 ? Prima e immediata emanazione dell’Uno è l’intelligenza o il vou?, s’intende l’Intelligenza universale,, la Mente divina con le sue idee (il Logos che diceva Filone, e che anche per lui era il primogenito di Dio) : il mondo delle Idee dunque, le quali contengono le ragioni seminali di tutte le cose, terre, mari, fiumi, animali, piante, individui, cosi come possono esistere nella loro essenza, ab eterno: l’Uno, senza cessare di essere l’Uno, si è come enucleato in questa molteplicità delle Idee, che costituiscono il mondo intelligibile insieme con la Mente che le pensa. E come dall’Uno emana l’Intelligenza o il voOg, così da questo emana il principio della Aita cosmica, l’Anima universale, l’Anima del mondo, che da una parte guarda alle Idee, e dall’altra come Natura le attua nello spazio e nel tempo generati da essa, le attua nel mondo sensibile; sicché l’Anima, come il secondo Dio di Numenio, è, si può dire, al confine dei due mondi, del mondo intelligibile di cni essa è l’ultima emanazione, e del mondo dei corpi che emana e eh’è formato da essa; e l’ultimo termine di questa processione è la materia o il sustrato materiale dei corpi, la materia senza forma, in cui la luce divina si estingue in qualche cosa di opaco e di oscuro. Cosicché avremmo come una gerarchia di esistenze che, in ordine inverso a quello che abbiamo detto, andrebbe dalla materia ai corpi che costituiscono la fantasmagoria del mondo sensibile, dai corpi all’Anima, dall’Anima al- l’Intelligenza o Ragione universale, dall’Intelligenza a Dio. Il mondo corporeo riceve la luce dall’Anima, l’Anima dall’Intelligenza o Ragione, questa dall’Uno: così tre sfere concentriche illuminate da un punto al centro, esso stesso invisibile agli occhi mortali, ma eh’è la sorgente prima e il focolare perenne della luce che illumina il mondo. 4. - L’Uno, l’Intelligenza e l’Anima costituiscono insieme il mondo intelligibile, da cui dipende il mondo sensibile; e sono dette con parola tecnica le tre ipostasi, le tre sostanze che nominate a una a una sembrano tre personificazioni: una trinità di principi che sono stati paragonati alle tre persone del dogma cristiano. C’è la differenza essenziale che nel mistero cristiano le tre persone sono uguali in perfezione e costituiscono tutte insieme l’unità di Dio: e in questa triplicità di un solo Essere sta appunto il mistero. In Plotino, i tre principi non sono persone, ma gradi della realtà: il mondo procede direttamente dall’Anima e mediatamente dall’Intelligenza e dall’Uno. Ho già avvertito che bisogna escludere da questo processo ogni idea di divenire nel tempo ; e così pure bisogna escludere ogni idea di spazio, come se si trattasse di un edifizio a tre piani, di cui il mondo PLOTINO: l’anima e il mondo sensibile 297 sensibile sarebbe come il pian terreno. No, sono tutte rappresentazioni in adeguate. Si tratta invece di comprendere V universo, nella sua unità, come la manifestazione di un principio divino unico che si manifesta come Intelligenza e come Anima, come Intelligenza in quanto il mondo lia un contenuto razionale che sono le Idee che vi sono realizzate, come Anima in quanto il mondo è il risultato di una forza generatrice e formatrice che distribuisce l’essere e la vita a tutte le cose che esistono; e così l’Intelligenza come l’Anima sono da considerare come l’irradiazione o l’efflorescenza di quell’Uno originario nel quale vivono e sussistono esse stesse e tutte le cose; e l’ultimo termine di questa produzione, il polo estremo, a dir così, di questa degradazione progressiva dell’Uno è la materia, che non è più luce, ma ombra, oscurità, ma in quanto è materia animata e formata dalle potenze divine, è ombra di luce, ombra dell’Anima e della Mente di cui porta in sè impresse le tracce. Dopo questa veduta sommaria, fissiamo più particolarmente la nostra attenzione su l’Anima, che, come dicevamo, si trova al confine dei due mondi, del mondo intelligibile e del mondo sensibile: li separa e li unisce partecipando di entrambi. In quanto emanazione o espressione dell’Intelligenza, l’Anima contempla in essa le-Idee, e sono queste Idee eh’essa attua, realizza nel mondo dei corpi. Si potrebbedire che ha una doppia funzione, una rispetto all’Intelligenza da cui riceve o riflette o rispecchia le Idee, l’altra rispetto al mondo dei fenomeni che si genera da essa, e nel quale essa imprime le Idee, che diventano così le forme o ragioni seminali delle cose. Per esprimere questa doppia funzione Plotino ne parla talvolta come fossero due anime, una superiore e l’altra inferiore, 1’Afrodite celeste e PAfrodite terrena, e quest’ultima è insomma la filatura (cpuaic;), eli’è dunque la stessa Anima cosmica come j principio della vita universale, come forza creatrice, la cui \ attività non rimane nella sua semplicità originaria : pur [essendo semplice e indivisibile in se stessa, la sua attività si moltiplica, si partisce, si unisce al mondo corporeo, allo stesso modo come l’anima umana al corpo umano ]ch’ essa vivifica in tutte le sue parti. Con questo però, ^che il corpo non è qualche cosa di estraneo, di diverso essenzialmente dall’Anima, ma è una sua produzione, si potrebbe dire una sua esteriorizzazione. Già è essa l’Anima (l’anima cosmica) che con la sua espansione genera lo spazio, e con l’azione successiva delle sue potenze genera il tempo ; e il corpo stesso è una produzione dell’Anima, un’emanazione umbratile di essa, ma è essa che lo illumina della sua luce. Di qui quell’espressione così caratteristica in Plotino, che non è l’anima ch’è nel corpo, ma il corpo è nell’anima, il corpo è l’organo, lo strumento dell’anima, ed è tenuto insieme, animato, unificato dall’anima che lo produce e lo avviva tutto. Questo è vero non del corpo singolo solamente, ma di tutto l’universo. Tutto quanto l’Universo è spiritualizzato in questa veduta: il mondo dei corpi è un’ombra o riflesso dello Spirito, non è fuori dell’Anima, ma un prodotto dell’Anima e quindi dell’Intelligenza e dell’Uno divino di cui essa è ministra. Per questa, a dir cosi, incidenza del mondo corporeo nelle potenze spirituali da cui si genera, tutto nella natura è animato: tutto è penetrato d’intelligenza e delle idee realizzate dall’Anima. PLOTINO: l’anima e il mondo sensibile 299 materia pura, senza forma, senza vita e senz’ anima è più un’astrazione del pensiero che una realtà. Già nella pietra c’è una vita latente: negli elementi stessi c’è qualche cosa di vivido, nella fiamma, nell’acqua che scorre, nell’aria. Ed è sempre l’Anima che in virtù della sua fecondità inesauribile produce l’immensa serie degli esseri, i corpi celesti, i corpi degli animali e delle piante, fino alla più grossolana materia delle cose terrestri. È una vita infinita diffusa per tutto l’universo: lo spirito animatore vi apparisce in gradi diversi : nei suoi generi e nelle sue specie e nelle diverse forme individuali c’è come un passaggio continuo dal più perfetto al meno perfetto; e nelle creature inferiori c’è come la traccia o il ricordo e quindi l’aspirazione e il presentimento delle forme superiori; e tutte queste vite singole, distinte, non confuse tra loro, si unificano pnre nel juincipio unico da cui emanano. Come l’Intelligenza, pure essendo una, contiene in sè tutte le Idee, cosi l’Anima universale contiene in sè le singole anime, tutte le forme di vita che popolano il mondo, le quali, benché distinte individualmente, si unificano pure nella loro essenza, sono manifestazioni diverse della stessa Anima del mondo, come raggi che partono da un centro comune, o come la scienza è una nelle diverse sue parti, e una stessa luce può illuminare i luoghi più diversi. Nel mondo sensibile l’unità diventa molteplicità e l’armonia può diventare opposizione e lotta; ma ciò nonostante l’unità originaria non è annientata: tutti gli esseri realizzano la stessa vita, e sono come le voci diverse che celebrano o riecheggiano la stessa armonia. Dato questo concetto dell’animazione universale e della vita unica che ricircola rimanendo identica a se stessa in tutte le parti e forme del mondo, Plotino si trova in una situazione non dissimile da quella in cui s’ era trovato Platone, di fronte alla realtà della nostra esperienza. Da una parte la tendenza religiosa del suo spirito e i concetti platonici con cui lavora, l’opposizione tra realtà sensibile e realtà intelligibile, lo portano a considerare il mondo sensibile, eh’è nato dalla mescolanza dell’anima con la materia, come un peggioramento, come un’ombra della vera realtà; quindi la realtà empirica e sensibile non è la vera patria dell’anima, la quale anzi aspira a liberarsi da essa. E questa tendenza troverà la sua espressione nell’Etica. Ma d’altra parte questa fantasmagoria dei sensi è pure un riflesso del mondo ideale, è una manifestazione dell’Anima, penetrata d’intelligenza e d’idee; deve avere tutta la perfezione e la bellezza di cui è capace. Plotino combatte espressamente quelli che considerano il mondo dei sensi come il regno del male, di un male originario e insanabile, quasi fosse l’opera di un demiurgo cattivo. Egli è ancora troppo greco per accettare questa condanna. Il mondo sensibile è inferiore al mondo ideale perchè se ne distingue ed è fatto di materia; ma rappresenta pure il suo modello, esprime la vita e la saggezza infinita, è un riflesso del Bene, le cui emanazioni finiscono in lui. Tenendo dall’Anima V essere suo, è un tutto organico in cui l’opposizione e la lotta dei contrari sono subordinati all’unità del tutto. Non solo c’è ordine e armonia, ma connessione, solidarietà fra le diverse parti, non per azione fìsica o meccanica che vi sia fra loro, ma per l’unità dell’Anima e dell’Intelligenza che lo vivifica, e quindi per la simpatia e affinità di natura di tutti gli esseri fra loro. Biblioteca Comunale “Giuseppe Melli" - San Pietro Vernotico (Br) Plotino proclama con gli Stoici l’ordine e l’armonia del mondo, e scrive una Teodicea per difendere il concetto della Provvidenza. Tutto è bene, anche per lui : la distruzione perpetua degli esseri anche quando si divorano gli uni gli altri, non l’offende, è la condizione del rinnovarsi perpetuo della scena della vita. Sì, è necessario eh’essi si divorino: è come sulla scena; un attore eh’è stato ucciso, che s’è visto morire, va a cangiare di vestito e ritorna sotto un altro aspetto : vuol dire che non era morto realmente. A traverso questa vicenda la vita permane, morire è cangiare di corpo come l’attore cangia di vestito e riprende la sua parte: che cosa c’è di spaventoso in questa permutazione degli animali gli uni negli altri? E così, morire nella guerra, nella battaglia, è anticipare di ben poco i colpi della vecchiaia e la morte naturale: è un partire per ritornare sotto altra forma. Questi massacri che noi vediamo, questi saccheggi di città, queste violenze, pianti e gemiti degli attori, in tutte queste .vicissitudini della vita, non è l’anima del di dentro che cambia, ma è l’ombra dell’uomo esteriore che geme e si lamenta. - L’ottimista, che crede nella Provvidenza, e guarda le cose dal punto di vista dell’eternità, si consola facilmente di questo spettacolo, ch’è così doloroso a chi ci vive dentro e n’è vittima. Kon solo Plotino afferma che tutto è bene, ma ammira soprattutto la bellezza del mondo, e scrive del Bello, e dopo i primi accenni che si trovano in Platone, pone alcuni dei concetti fondamentali della scienza dell’Estetica. Perchè in verità tutta la concezione della natura che abbiamo veduto è una concezione che si può dire religiosa e estetica insieme. Data quell’animazione e spiritualizzazione dell’universo, la realtà o fenomeno sensibile non è altro che un riflesso dell’Idea eh’esso esprime. E il lampeggiare dell’Idea nel fenomeno è appunto la bellezza. Il bello ha carattere spirituale. ISTon è bella la forma sensibile come tale, nella sua esteriorità, non la simmetria, non la proporzione, ma la vita o l’Idea che la forma esprime, quel certo che di spirituale, d’impalpabile, che risplende in essa. E il bello così inteso noia è un oggetto fuori dell’anima, non c’è nulla al di fuori dell’anima, tanto meno gli oggetti belli. È intanto l’Anima, come potenza generatrice, che realizzando le Idee produce le forme belle; ed è un’anima, un’anima individuale, che ha il sentimento della bellezza, contemplando quelle forme. L’anima coglie e sente la bellezza perchè sente e scopre se stessa nelle cose belle; ma questa visione e questo sentimento non sarebbe possibile, l’anima non potrebbe vedere la bellezza, se essa stessa non è diventata bella. È una delle grandi parole di Plotino, che vuol dire: solo le anime pure hanno veramente il sentimento della bellezza, quelle che si sollevano sulle cupidigie e i desiderii inferiori, che sanno guardare con occhi sereni, con una contemplazione disinteressata, le cose belle. Di qui quest’altra parola sua: se tu non trovi ancora la bellezza nella tua anima, fa’come l’artista ‘ che non cessa di lavorare alla sua statua, finché non le ab- . bia dato tutta la sua bellezza. Cosi tu scolpisci e cesella la tua anima, e purifica e illumina tutto ciò che v’ha in essa di torbido, perchè essa diventi degna di sentire la bellezza. La bellezza è un mistero che non solo ci piace ma ci attira, non c’ispira ammirazione solamente, ma amore. plotino: l’anima umana Il che vuol dire che al di là di essa c’è qualche altra cosa. Al di là della forma bella, o per meglio dire a traverso di essa, traluce qualche cosa di cui essa è lo splendore: ed è il Bene a cui l’anima aspira. Solo il Bene può far nascere l’amore, ed è col Bene che l’anima aspira ad unirsi. Come tutte le cose che esistono, anche l’uomo ha la ragione della sua esistenza nel mondo intelligibile, non solo ne deriva, ma ci vive dentro, non ne è separato, anche durante la sua esistenza terrena. Ogni anima deve considerare eh’essa è parte dell’Anima universale, di quell’Anima che ha prodotto tutte le cose del mondo sensibile, gli astri divini, il sole e il cielo immenso : è essa che ha dato al cielo la sua forma e che presiede alle sue rivoluzioni regolari: è da essa che si generano tutti i viventi, le piante e gli animali che sono sulla terra, nell’aria e nel mare. Tutte le anime individuali sono immanenti in quest’Anima cosmica ; ed è insomma lo stesso principio animatore del mondo che vive anche in noi, e che noi diciamo la nostra anima. Sicché ciascun’anima, per questa sua provenienza, è,, come quella che le contiene tutte, di natura spirituale^ ed eterna; la sua esistenza non comincia nè finisce col \ corpo con cui è congiunta. Essa non è un aggregato di atomi, come pensavano gli Epicurei, non è corpo sottilissimo igneo o etereo, come credevano gli Stoici, non è nemmeno funzione del corpo, entelechia o forma di esso, come insegnava Aristotile, e nemmeno armonia risultante dalle relazioni fra le parti del corpo, come opinavano i Pitagorici. Plotino discute e rifiuta tutte queste ipotesi, per concludere die fiamma non Ita bisogno del corpo per esistere: la sua vera essenza è di essere semplice e separabile dal corpo : è di natura spirituale e quindi immortale ; tutte le sue facoltà, la sensazione, la memoria, il pensiero, le * x'-l T qualità morali non sarebbero possibili se fi uomo e la sua -, anima fossero un semplice aggregato di molecole rnate^ riali : tutte quelle funzioni e facoltà suppongono un soggetto semplice, identico a se stesso, non sottomesso alle _ Vicende delle cose corporee: la critica del materialismo che j si trova in Plotino è fra le più compiute che ci abbia lasciato fi antichità, e contiene argomenti che sono stati poi sempre utilizzati. Questa natura spirituale delfi anima importa elfi essa è vicinissima alla sorgente di tutte le cose. Giacché i tre principi che sono nelfiuniverso, l’Anima, fi Intelligenza e l’Uno, debbono essere .anche in noi: essi costituiscono l’uomo interiore, la vera essenza dei- fi uomo. Il quale è un’anima e possiede fi intelligenza, non solo l’intelligenza discorsiva, che procede per via di ragionamenti, ma anche quella forma superiore di essa che intuisce le Idee, la ragione intuitiva. Bisogna dunque che risieda in noi anche quel principio divino da cui emana l’Intelligenza, l’Uno ineffabile, che non esiste in nessun luogo, ma eh’è come il centro e* il cuore più intimo del mondo. L’uomo è un microcosmo, un piccolo mondo, jl compendio dell’universo. È così che noi uomini, nella nostra intima essenza, siamo in contatto con Dio, siamo in certo modo sospesi a lui, respiriamo e sussistiamo in lui l’ anima umanaSe non che, quest’uomo interiore esìste in un corpo, j ha pure un’esistenza terrena e sensibile. Coni’è avvenuta | questa specie di caduta o discesa? \ Qui Plotino bisogna che si aiuti con l’immaginazione, ; come del resto faceva anche Platone, quando parlava di una caduta delle anime che hanno perduto le loro ali. Ci sono delle anime celesti che rimangono pure da ogni - contatto corporeo e beate nella contemplazione delle Idee' eterne. Ma ce ne sono delle altre, che siamo noi, le vere anime umane, le quali si sono rivestite di un corpo, e sono discese in un grado di esistenza inferiore. Come l’Anima universale procedendo nelle sue emanazioni avviva il corpo intero dell’universo, così alle anime particolari è devoluta una parte determinata del mondo corporeo ; il che si può anche intendere come una legge provvidenziale, perchè il mondo intelligibile da cui le anime derivano manifesti ed esplichi tutte le potenze eh’esso possiede. L’anima particolare, sviluppando le sue potenze sensitiva e vegetativa, entra in un corpo, o a dir meglio, se ne riveste, se lo forma vivificandolo e governandolo. {Si potrebbe forse rappresentarsi la cosa ài modo che dice Dante quando nel XXV del Purgatorio descrive il formarsi delle ombre: la virtù informativa raggia intorno e suggella di sè la materia corporea che le si condeusa intorno o eh’essa irradia da sè). Ma comunque si voglia immaginare la cosa, e a parte qualunque mitologia, l’idea e la verità profonda eh’è espressa qui, in questa discesa delle anime nel mondo corporeo, è il distaccarsi dell’anima individuale dalla sorgente di ogni vita, la volontà dell’esistenza individuale, che finisce col diventare un’esistenza separata, e dimentica della sua origine e dei legami che la congiungono col tutto. — Com’è — dice Plotino in un luogo magnifico (il principio della V a Enneade) — come accade che le anime dimentichino Dio, il loro padre? Come accade che avendo una natura divina, ed essendo uscite da Dio, esse lo disconoscano e disconoscano se stesse ? L’origine del lomale è l’audacia o l’orgoglio (xóX[xa), il desiderio di non appartenere che a se stesse. Da quando hanno gustato il piacere di possedere una vita indipendente, usando largamente del potere ch’esse avevano di muoversi da sè, si sono avanzate nella strada che le deviava dal loro principio, e sono giunte ora a un tale allontanamento da lui (apostasia, àTzòa-a,ai % vita a cui l’uomo può e deve aspirare; non costituiscono propriamente questa vita. Non solo la vera virtù consiste non nelle azioni esterne, f sibbene nella disposizione interna dell 7 anima; ma questa disposizione virtuosa è soprattutto una purificazione, una catarsi, una liberazione dell’anima dalla sensibilità e daisuoi legami col corpo. Quest’idea della purificazione è il significato più profondo della dottrina della metempsicosi, che anche Piotino accetta come Platone e i Pitagorici. L’anima che figura nel dramma di cui il mondo è il teatro, e che vi recita la sua parte, vi porta una disposizione a recitar bene o male, ed è punita o ricompensata in conseguenza, secondo quello che fa e secondo giustizia. Salvo che per riconoscere questa giustizia, non bisogna fermarsi alla vita presente, ma bisogna tener conto drtutti i periodi passati e futuri dell’anima, la quale non muore col corpo che momentaneamente la riveste, ma è di sua natura immortale. Chi è stato padrone in una vita anteriore, se ha abusato del suo potere, rinasce schiavo; chi ha impiegato male le sue ricchezze, rinasce povero ; quelli che hanno commesso violenza, saranno a loro volta maltrattati ; chi ha ucciso la madre, sarà ucciso dal figlio suo: l’anima è destinata a incorporarsi in questo o quel corpo, a ridiventare uomo o animale o anche pianta, secondo i suoi meriti e gli atti che ha compiuti in una vita anteriore; e a traverso queste rinascite successive ciascuna anima si purifica, espia, finché non ridiventi degna di ritornare alla regione celeste da cui è discesa. Questa purificazione non si ottiene mediante pratiche ascetiche o mortificazioni, ma facendo si che l’anima non diventi prigioniera delle passioni del corpo, non s’abbandoni ai fantasmi dell’immaginazione, non si estranii dalla ragione, cerchi di sollevarsi sempre più verso quella realtà intelligibile ch’ò la sua vera patria. E da questo punto di vista anche le virtù cardinali o civili acquistano un nuovo significato : diventano virtù purificative, orientano l’anima verso quella realtà superiore, facendo che l’intelligenza domini nell’uomo e regoli tutte le sue azioni e i suoi sentimenti. Ossia insomma più delle virtù civili e pratiche vale la virtù contemplativa, la virtù dello spirito puro. f E lo stesso mondo sensibile può avere valore per il nostro perfezionamento quando sia appunto oggetto dì con- « templazione: qui vengono a confluire quelle due correnti d’idee che dicevamo: l’inferiorità della realtà sensibile rispetto al mondo ideale, e la perfezione e la bellezza di questo stesso mondo sensibile in quanto riflesso delle Idee. L’anima aspira in fondo al bene supremo, e non vi può pervenire se non mediante la conoscenza del vero e del bello. Ma anche le apparenze del mondo sensibile possono servire di gradini, di scala per sollevarsi fino a quel mondo superiore. Tre vie conducono a questo mondo, che sono per Plotino la musica, l’amore e la filosofia. La musica ha per oggetto l’armonia, l’amore ha per oggetto la bellezza, la filosofìa ha per oggetto la verità. Il musicista si lascia facilmente commuovere da alcuno forme del bello ; ma bisogna che delle impressioni esterne vengano a stimolarlo. Come l’essere timido è risvegliato al più piccolo rumore, cosi il musicista è sensibile alla bellezza delle voci e degli accordi ; egli rifugge da tutto ciò che gli sembra contrario alle leggi dell’armonia, e ricerca il numero e la melodia nei ritmi e nei canti. Ma bisogna che dopo queste intonazioni, questi ritmi e queste arie puramente sensibili, egli impari a conoscere le proporzioni e i rapporti intelligibili che sono l’idea e il principio stesso dell’armonia delle cose ch’egli ammira, e ammirando le quali egli possiede come istintivamente delle verità che solo una scienza più alta potrà rivelargli. L’amore è rivolto verso la bellezza, e dicemmo già come l’anima diventa bella, si purifica, contemplando il bello, il lampeggiare delle Idee nella forma sensibile. Ma i anche qui ci sono dei gradini da salire, e bisogna che l’amante si sollevi dalle belle forme corporee alle Idee ch’esse esprimono, e riconosca il Bello anche nelle cose incorporee, nelle scienze, nei prodotti spirituali dell’attività umana, nella virtù, finché non giunga a quel pelago ampio del Bello di cui parlava Diotima nel Convito platonico. Perché la stessa commozione profonda e trepida che noi proviamo di fronte alle belle forme e a tutte le cose belle, ci dice che al disopra di esse tutte c’ è una bellezza superiore, di natura puramente ideale, quella del Bene che le illumina e le colora della sua luce. Quanto al filosofo, dice Plotino, egli è naturalmente disposto ad elevarsi al mondo intelligibile. Vi si slancia portato da ali leggiere, senza aver bisogno, come i precedenti, d’imparare a liberarsi dagli oggetti sensibili. La filosofia non è ridotta a intravedere la verità a traverso i suoi simboli, ma la coglie direttamente e nella sua essenza, senza che la passione o l’immaginazione vengano a turbarne o oscurarne la tranquilla e pura contemplazione. La filosofia rivela e spiega e commenta quelle verità che il musicista e ramante intravedono solo confusamente e come per istinto : ci svela la realtà e la natura (lei mondo intelligibile, concesso è costituito e come procedono i suoi effetti. % Qui si direbbe che siamo giunti all 7 ultimo termine della nostra ascensione. Ebbene no. Al disopra di ogni riflessione e di ogni conoscenza, al disopra di ogni distinzione di pensante e di pensato, di soggetto e di oggetto, e 7 è uno stato veramente incitabile, nel quale l’anima individuale si annega e si perde, come illuminata dalla luce divina, con la quale essa s’identifica. ISon si può chiamare nemmeno visione, ma piuttosto un’estasi, una semplificazione, un abbandono di sè, una perfetta quietudine, infine un confondersi con ciò che si contempla. Come l’amore non si contenta della visione, ma aspira all’unificazione intera delle anime, così l’anima umana aspira a congiungersi con l’Uno, col Bene, col principio di ogni realtà, e vi riesce qualche volta quando nel più profondo raccoglimento dalle cose esterne, al di là di ogni pensiero, nella più profonda pace, aspetta di essere illuminata dalla luce divina, nega la sua finitudine, e come rapita e fuori di sè, essa stessa s’india. Questa Divina Commedia finisce non con una visione beatifica, ma con l’estasi. Porfirio ci dice che Plotino, durante il tempo che furono insieme, aveva provato questo stato di suprema beatitudine solo quattro volte, ed egli stesso, Porfirio, una sola volta. Cfr. YachehoTj Histoire oritique de l’école d’Alexandrìe. La filosofia di Plotino, per i concetti con cui opera, si può considerare come il risultato di tutta la speculazione anteriore. Plotino fia imparato non solo da Platone, ma da Aristotile, dagli Stoici, dai presocratici, specialmente dagli Eleati: ha imparato anche dalle filosofie ch’egli combatte; e mentre riassume il passato, contiene idee, intuizioni e suggestioni che valgono per tutti i tempi: il motivo religioso, da cui questa filosofìa è nata, ne ha fatto una delle concezioni tipiche e caratteristiche di quello eh’è stato chiamato il bisogno metafìsico. Ci sono dei tempi in cui la filosofìa si sforza e non conosce altro compito se non di comprendere la realtà dell’esperienza, la struttura e le leggi di questo nostro mondo sensibile: diventa, come dicono, positiva; ce ne sono degli altri in cui non si contenta di questo, e nemmeno di quella saggezza pratica, che basta a condurci nella vita ; ma cerca di esprimere e di appagare i bisogni più profondi dello spirito o di alcuni spiriti che non mancano mai in nessun tempo; il bisogno di liberarsi dalle inquietudini e dalle limitazioni di questo oscuro viaggio della vita, di trovare la pace e la beatitudine in una realtà superiore. Di questo slancio, di quest’aspirazione verso il divino, Plotino è rimasto uno degl’interpreti più eloquenti; e la sua efficacia è stata grande a traverso i secoli, in S. Agostino e negli altri Padri della Chiesa, nei mistici del Medio Evo, poi massimamente nei nostri filosofi del Rinascimento, in Malebranche e Spinoza, più tardi nei poeti e filosofi del Romanticismo tedesco, fino ai nostri giorni. Intanto non bisogna dimenticare che questa filosofia neoplatonica si produceva in un’età di fermentazione religiosa, tra spiriti sitibondi del soprannaturale, in un’atmosfera satura di superstizióni, in mezzo a quel sincretismo di tutte le credenze e di tutti i culti del mondo antico, fra cui si preparava la fede dell’avvenire: bisogna tener conto di questo fondo storico, in cui il Neoplatonismo s’è formato, per intendere la sua storia posteriore e le sue trasformazioni. Nel tempo stesso in cui il Neoplatonismo era insegnato e si diffondeva nell’impero romano, la Chiesa cristiana, che s’era già cominciata a organizzare, cercava essa pure di definire i suoi dogmi, superando i contrasti che si producevano nel suo seno; creava un corpo di dottrine, le quali fissavano, di fronte alle opinioni dichiarate eretiche, il contenuto della nuova coscienza religiosa: nasceva così la teologia cristiana, una filosofìa del Cristianesimo, la quale utilizzava anch’essa a modo suo i concetti della filosofìa greca, specialmente quello del Logos, che finisce con V identificarsi col Messia come il mediatore vivente tra Dio e l’uomo; si assimilava questi concetti modificandoli e incorporandoli nel sistema delle sue credenze. Ora di fronte ai progressi sempre crescenti del Cristianesimo, clie ai principi del quarto secolo trionfa con Costantino, e finisce col diventare la religione dello Stato, il Neoplatonismo, per gli spiriti non persuasi della nuova religione ft rimasti fedeli alla tradizione pagana, diventa 1 o è utilizzato come la base di una teologia del politeismo : si tenta per mezzo delle idee neoplatoniclie di ristaurare, legittimare e ridurre a sistema tutte le divinità e i culti dell’antica religione. Il Neoplatonismo diventa l’ultima filosofìa del paganesimo, e non solo come un sistema di dottrine destinate a spiegare o risolvere come che sia i problemi di Dio, del mondo e dell’anima umana, ma come il puntello dell’antica religione pagana, con tutti i suoi Dei e le sue pratiche. 2. - Non vogliamo entrare nei particolari di quest’ultima parte della nostra storia; basterà ricordare i nomi principali. Fra gli scolari diretti di Plotino il più importante è Porfirio, al quale dobbiamo la redazione e la pubblicazione delle Enneadi, e che continua la dottrina del maestro esponendola con chiarezza e brevità in quelle Sentenze d’introduzione al mondo intelligibile (’Acpoppori Ttp&s Tic vorjTa), che si trovano molto utilmente premesse all 'Enneadi nell’edizione Didot. Scrisse molte altre opere, tra cui una in 15 libri contro i Cristiani, andata naturalmente perduta. È anche studioso e commentatore di Aristotile; e un passo diventato celebre della sua Isagoge o Introduzione alle Categorie di Aristotile, che tratta delle cinque voci (il genere, la specie, la differenza, il proprio, l’accidente), sarà il punto di partenza delle controversie medievali sugli universali. Porfirio è uno spirito colto, erudito, che vorrebbe riformare la religione tradizionale ; combatte le superstizioni più grossolane, predica un culto puro, senza sacrifizi sanguinosi: raccomanda anche delle pratiche ascetiche. Ea consistere il fine della filosofìa nella salute dell’anima; ma pure accentuando le tendenze pratiche e religiose della scuola, e facendo delle concessioni alle credenze'popolari, si può dire che in lui è vivo an- ’i _ cora l’interesse filosofico. Egli è il continuatore immediato della tradizione plotiniana. Invece con Giamblico, che fu scolaro di Porfirio, avviene decisamente quella trasformazione del Neoplatonismo in un sistema di credenze religiose: l’interesse teosofico prevale: la filosofia diventa ancella della teologia, e della teologia pagana. Giamblico nacque in Calcide nella Gelesiria, non si sa precisamente in quale anno, visse ai tempi di Costantino. È riguardato come il fondatore di una nuova scuola, della scuola siria del Neoplatonismo: ebbe molti discepoli, entusiasti di lui, che lo riguardavano •come un uomo straordinario e divino, dotato di potenza occulta e miracolosa. Giamblico intraprende una ricostruzione filosofica del Panteon pagano, nella quale entrano gli Dei greci e romani e le divinità orientali, tutte all’infuori del Dio cristiano. E alla credenza in tutta questa moltitudine di Dei si aggiungono le pratiche del culto : alla virtù e alla contemplazione, ck’erano per Plotino i mezzi con cui l’uomo si solleva al divino, si aggiunge o piuttosto si sostituisce la teurgia, cioè l’arte di esercitare un’azione sulla volontà degli Dei per renderseli favorevoli, di far discendere in sè il divino per mezzo di pratiche esterne, riti, preghiere, con la virtù di formule simboliche, che ci riedificano nell’unità primitiva da cui siamo usciti. Le formule filosofiche diventano pretesto à stravaganze magiche e spiritiche. Com’è stata possibile la degenerazione di una così nobile filosofìa, concepita con tanta energia speculativa e animata da una così pura fede e aspirazione al divino? Pur troppo il Neoplatonismo portava in se stesso, e già in Plotino, i germi di questa degenerazione: innanzi tutto il metodo delle ipostasi, e poi la tendenza a trovare, con interpretazioni allegoriche, nei nomi o nelle figure tradizionali degli Dei il simbolo dei diversi momenti dell’emanazione del divino. Plotino stesso nomina Uranos, Kronos e Zeus come simboli dell’Uno, del vou* e dell’Anima; e simboleggia pure le due anime con l’Afrodite celeste e quella terrena. Se si prendono alla lettera questi riferimenti, e soprattutto i termini si moltiplicano, si arriva al sistema fantastico di Giamblico. Il quale non si contenta delle tre ipostasi plotiniane, ma al di sopra dell’Uno che s’identifica col Bene, ammette un altro Uno assolutamente incomprensibile, dal* quale deriverebbe il secondo Uno ch’è quello di Plotino; e da questo non deriva semplicemente il vou^, ma prima il mondo intelligibile o pensabile votjtó?) e poi il mondo intellettuale o pensante vosp6?) ; e la divisione continua quando si passa all’Anima: dalla prima Anima ne derivano altre due; e ciascuno di questi termiai poi si tripartisce e si moltiplica in diversi momenti, a ognuno dei quali corrisx>onde una persona divina. Così, abusando del metodo delle ipostasi e dell’interpretazione allegorica, Giamblico trova da collocare una quantità di divinità sopramondane, celesti e terrestri, genii e demoni d’ogni specie, che sarebbero i termini intermediari tra Dio e l’uomo. S’aggiunga poi quell’idea dell’animazione universale, e della simpatia o affinità fra tutte le cose, che contiene una verità profonda, ma che per menti non disciplinate da nessuna critica, apriva facile l’accesso alle credenze magiche e alle pratiche teurgiche. In fondo, anche a traverso a queste esagerazioni superstiziose, non è possibile disconoscere l’antica fede ellenica che tutto è pieno degli Dei, eh’è il motto attribuito a Talete, il primo filosofo. Così il Neoplatonismo uscì dalla scuola e volle agire sulle coscienze, quasi contrastandone il dominio alle nuove credenze. Non fu solamente una dottrina, ma fu l’ul¬ timo tentativo dell’Ellenismo per difendersi da quella religione di barbari, che col suo Dio unico negava tutti gli altri Dei. E si fece campione di questa restaurazione dell’antica religione dei padri, in nome della filosofia, Giuliano l’Apo¬ stata, imperatore dal 361 al 363, morto a 32 anni, che, educato da maestri greci, s’era nutrito dell’antica cultura ellenica, e poi aveva dovuto subire la disciplina e l’edu¬ cazione cristiana; e contro il Cristianesimo si ribellò prima secretamente,' poi, diventato imperatore, apertamente, at¬ taccandosi sempre più all’Ellenismo. Giuliano era uno sco¬ laro degli scolari di Giamblico. Giuliano, da vero greco, adorava il sole, principio di Vita per tutta la natura : ma nel sole materiale e visibile egli vedeva V immagine e come il riflesso di un altro sole, che i nostri occhi non possono cogliere, e che illumina le razze invisibili e divine degli Gei intelligenti. Cosi, alla maniera dei Neoplatonici e col loro linguaggio, egli costruiva il mondo delle Idee e dell’Uno, da cui tutte le cose di- -pendono. Giuliano è stato dqtto un romantico sul trono dei Cesari, perchè aveva gli occhi rivolti indietro, e consumò miseramente i suoi sforzi nella restaurazione di un passato diventato impossibile. Era difficile che il Neoplatonismo potesse fare seria¬ mente concorrenza al Cristianesimo. C’era innanzi tutto questa differenza: che il Neoplatonismo, per quanto tentasse di mettersi in contatto con l’anima popolare, era semplicemente una scuola di dotti più o meno solitari ; il Cristianesimo invece era una Chiesa, una comunione di fedeli potentemente organizzata, e la cui fede si basava su certi fatti positivi, di natura storica, la vita e la morte del Cristo, fatti creduti con una fede ardente, ardente fino al martirio; e intorno a questi fatti si andavano elaborando i dogmi che saranno presto fìssati dai Concilii. Ma la scarsa efficacia pratica del Neoplatonismo si com¬ prende anche meglio se si guarda un momento alle diffe¬ renze dottrinali tra i due sistemi. Una prima e fondamentale differenza è che l’intuizione cristiana tiene fermo al concetto ebraico della personalità divina, e concepisce il mondo non come un’emanazione di Dio, derivante da esso per un processo fìsico o logico o metafìsico, ma come un atto della sua volontà, quindi come creato nel tempo. Dio creò il cielo e la terra: questa • è la base della dottrina cristiana. E a questo primo fatto ne succede un altro : la caduta del primo uomo e quindi di tutti gli uomini, il peccato, che risolve il problema del male; il quale dunque non è da cercare nella materia o nell’ultima emanazione della divinità, ma è aneli’esso un atto di volontà, della volontà umana ribelle al comando di Dio. Di qui il bisogno della ' 1 redenzione o liberazione dal peccato, a cui l’anima aspira; la quale redenzione è resa possibile da un terzo fatto, l’in¬ carnazione del Verbo, del Logos, del figlio di Dio fatto uomo, che prende sopra di sè le colpe e i dolori di tutti t gli uomini, e li redime, per un miracolo di amore, col suo sangue- innocente. Tutta la storia del destino umano è qui drammatizzata in un dramma potente di efficacia. Il ISTeoplatonico, col suo concetto spiritualissimo della divinità, combatterà fino all’ultimo questo concetto dell’Incarnazione, di un Dio fatto uomo, e la considererà come la superstizione più assurda; ma è appunto questo concetto di un Dio redentore che ha una virtù di simpatia e di consolazione per milioni di anime; e apre la via della liberazione non ai sapienti solamente, ma a tutti, agl’ignoranti, agli umili, agl’infelici soprattutto, purché credano nella virtù redentrice del sangue sparso di Gesù crocifisso. Qui si ha veramente un Dio che si può pre¬ gare, invocare, domandargli perdono, ritornare in pace fcon lui, acquistare la vita eterna. Se si paragona questa liberazione con quella che si potrebbe dire aristocratica e filosofica di Plotino, mediante la dialettica e l’amore delle cose belio e l’unione estatica con Dio, si vedrà la differenza. Si direbbe che il Neoplatonismo suscitava bisogni che non poteva appagare. Agostino nelle Confessioni dice: Ho letto nei libri dei Neoplatonici la dottrina del Verbo, ma non ci ho letto ch’egli è diventato uomo, e ha abitato fra noi, ed è morto pei peccatori, perchè tutti quelli che gemono e soffrono venissero a lui e ne fossero consolati. 3. - Tuttavia il Neoplatonismo, nelle sue parti migliori, rappresentava pure una grande tradizione di scienza e di cultura; e si capisce come spiriti non volgari se ne lascias- sero attrarre. t E una pura, nobilissima e innocente vittima delle lotte religiose, nelle quali la filosofìa antica finirà con l’essere vinta e con l’estinguersi, è una donna : Ipazia di Alessandria. . Ipazia era nata ad Alessandria da Teone, ch’era celebre matematico e astronomo. Eu educata e istruita dal padre nelle scienze in cui egli era maestro, ma il vivido ingegno della giovinetta cercava altro alimento, e studiò con passione la filosofìa. Dicono anche che andasse a perfezionarsi in Atene. Quello eh’è certo è che nella sua città essa diventò celebre, ammirata, e rispettata da tutti. La natura le aveva largito tutti i doni, quelli dello spirito e una bellezza non comune. Fu messa a capo della scuola neoplatonica di Alessandria, ed essa v’insegnava Platone e Aristotile, tutte le discipline filosofiche. I titoli di alcune sue opere sono d’argomento scientifico, il che nella penuria di altre notizie ci permette di supporre che con la sua forte cultura essa si tenne lontana dalle stravaganze degli altri Neoplatonici,e che s’erano raccolte in lei le migliori tradizioni dell’ellenismo. Ebbe un grande successo. Per le strade di Alessandria tutti si voltavano a guardare la bella persona quando passava con semplicità e sicurezza, vestita del pallio dei filosofi, e conversando con quelli che fi accompagnavano. Alle sue lezioni affluivano gli ascoltatori, non tutti probabilmente per imparare la filosofia. Della sua eloquenza ci è detto eh 7 era dolce e persuasiva, e ci è riferito pure che un suo scolaro s 7 innamorò di lei, e osò confessarle i suoi patimenti. La nobile donna cercò di calmarlo, sollevando il suo spirito e distogliendolo da desi- derii non degni. Pur troppo noi non la conosciamo altrimenti che da quello che ne dicono i suoi contemporanei. Il vescovo Sili esio, ch’era stato suo scolaro, e le rimase amico anche dopo che fu passato al Cristianesimo, nelle lettere che le scrive e che ancora ci rimangono, la chiama sorella e madre e maestra, e le manda i suoi libri prima di pubblicarli per averne consigli. E nVN Antologia c’è un epigramma {il n. 400 del libro IX) entusiastico e gentile, che fìssa quest’apparizione luminosa, e non pare un’esagerazione. « "Oxav pXénto as, Trpoaxuvco. Quando io ti vedo, io ti adoro, e così quando ascolto la tua parola; come contemplando il segno celeste della Vergine) perchè tu sei cosa tutta di cielo, o nobile Ipazia, con la bellezza dei tuoi discorsi, astro purissimo di scienza e di cultura ». Disgraziatamente, questa storia finisce con una tragedia orribile. Erano frequenti in Alessandria i tumulti per le discordie fra ebrei, cristiani e pagani. 11 prefetto o governatore della città, Oreste, non andava d’accordo col vescovo Cirillo, e ognuno aveva il suo partito: spesso scendevano in città delle compagnie di monaci, che di monaco non avevano altro che'l’abito: erano dei malfattori che venivano a pescare nel torbido. Oreste era uno degli ammiratori ed amici d’Ipazia, e spesso le domandava consiglio. Essa, tutta intesa alla sua scienza e, alla sua scuola, rimaneva estranea a tutte queste contese, e nessuno degli storici nemmeno ecclesiastici formula un’accusa contro di lei; ma nel partito di Cirillo dovette formarsi l’opinione che Ipazia influisse sul governatore, impedendogli di vivere d’accordo col vescovo; e del resto per la sua posizione e il suo insegnamento doveva essere ritenuta come un sostegno o fautrice del m partito dei pagani, e odiata a morte dagli zelanti che non mancano in nessun partito. Fatto sta che un giorno di quaresima del 415, in un tumulto, mentre Ipazia tornava in città in vettura, vide accorrere contro di sè una folla furiosa, e, come racconta Io storico Niceforo, la strapparono dal carro, la portarono in una chiesa, e ivi spogliatala delle vesti l’uccisero, la fecero in pezzi e andarono a bruciarla in un luogo detto Cinaron. Col martirio della vergine pagana si estingue la scuola neoplatonica di Alessandria. Ma riapparisce nel quinto secolo in Atene, e sarà l’ultima scuola. La Filosofia ritorna per morire nella sua patria antica, alla città di Socrate e di Platone; e allo studio di Platone congiunge quello di Aristotile, come già s’è visto in Plotino, in Porfirio, in Ipazia. i) Si può vedere su Ipazia uno studio del prof. Faggi nella Rivinta d’Italia del 1905, e un altro del prof. Pascal nel voi. Figure e caratteri .  -,”;js-w v ; \ PROCLO Fondatore di questa scuola ateniese è Plutarco detto il grande dai suoi scolari, a cui succede Siriano, e poi Proclo, eh’è il più celebre e il più importante. Proclo era nato a Costantinopoli. È un dialettico sottilissimo, ebe al bisogno di sapere congiunge quello di credere; e crede ai presagi dei sogni, alla potenza degl’ incanti e degli scongiuri. Passò la sua vita scrivendo e insegnando. I suoi discepoli credevano sentire in lui la presenza di un Dio. Un giorno, uno .che aveva udito una sua lezione, affermò che aveva visto attorno al suo capo un’aureola divina. Scrisse fra l’altro dei commenti a Platone e un ’Istituzione teologica } che si può vedere nell’edizione Didot di Plotino. La sua opera consiste essenzialmente nel ridurre a sistema tutta la sapienza anteriore. La filosofia di Aristotile è considerata come l’introduzione a quella di Platone, i piccoli misteri che precedono i grandi; e il fondo della dottrina è quello neoplatonico, Proclo dimostra metodicamente come bisogna partire dall’Uno, e come dall’Uno derivano i molti, mediante un processo dialettico che comprende tre momenti : ogni prodotto, da una parte somiglia alla causa che lo produce, e dall’altra se ne distingue, e pure distinguendosene, ritorna ad essa: dunque jjlov'/j o immanenza, TipóoSoc o progresso, iTUKjrpo'f/) o conversione sono i tre momenti di questo processo. Questo ritmo si riproduce a ogni fase dell’emanazione o sviluppo dell’Assoluto, che procede dunque per triadi successive in tutte le sfere dell’Essere, dall’Uno 4 q Cfr. ProCI.O, Elementi di teologia con im’ introduzione di Loia a eco (Lanciano, Carabba). fino alla materia, triadi che si moìtiplicario, perchè ogni momento di ciascuna triade dà luogo a sua volta a triadi (e poi a ebdomadi) subordinate. Ne nasce una costruzione eh’è insieme un 7 architettonica di concetti e una gerarchia di divinità mitologiche, alla maniera di Giamblico : una filosofia compiutamente messa in ordine, coi suoi scompartimenti e le sue formule tecniche, che ha pure trovato i suoi ammiratori. Vittorio Cousin ha pubblicato le opere di Proclo, e Giorgio Hegel ha riconosciuto in lui uno spirito sistematico e. sistematizzatore come il suo. Quello che si può dire in generale è che il pensiero greco vive oramai del suo passato: per parlare con Piotino (e col Windelband), lo spirito greco, a traverso le sue emanazioni, finisce col perdersi in questa scolastica. E la morte naturale della filosofìa antica, per esaurimento, è suggellata da un atto di violenza, da un editto dell’imperatore GIUSTINIANO nel quale si ordinache nessuno insegnasse più filosofìa in Atene. Così si chiudeva per ordine superiore quest 7 ultima scuola, della ([naie furono confiscate le rendite, e i filosofi dispersi. L’ultimo scolarca fu Hamascio, il quale col suo scolaro Simplicio, il celebre commentatore di Aristotile, e altri cinque neoplatonici, ripararono in Persia, dove speravano protezione dal re Cosroe, amico della cultura greca. Poi rimpatriarono, ma la scuola rimase chiusa per sempre. Una filosofia non cristiana era diventata impossibile nel mondo greco. San Pietro Vernotico, Br. Giuseppe Melli. Melli. Keywords: AVRELIO. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Melli” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Memmio: la ragione conversazionale e l’orto romano -- Roma – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A bit of an enigmatic character. LUCREZIO dedicates his great Garden poem to him. He acquires the ruins of the house in Athens where Epicuro starts his Garden. Gaio Memmio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Menecrate: la ragione conversazionale e la scuola di Velia -- Roma – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Velia). Filosofo italiano. Velia, Campania. A pupil of Senocrate. Menecrate

 

Luigi Speranza -- Grice e Menestore: la ragione conversazionale ela scuola di Sibari -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sibari). Filosofo italiano. Sibari, Cazzano all’Ionio, Cosenza, Calabria. Pythagorean. Giamblico. Menestore.

 

Luigi Speranza -- Grice e Menone: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – gl’ottimati di Crotone -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorian and son-in-law of Pythagoras, according to Giamblico di Calcide.

 

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