Luigi Speranza --
Grice e Medio: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Medio. Porch. A contemporary of Plotino. He wrote a number of essays.
Medio.
Luigi Speranza --
Grice e Megistia: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Metaponto).
Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A Pythagorean according to Giamblico
di Calcide. Grice: “Cicero
argued that anything written in Greek is not part of Roman philosophy; I guess
he has a point. Whereas we do consider things written in Latin by Englishmen
PART of English philosophy, we do not consider anything written by the Old
Britons before the Anglo-Saxon Conquest to be a part and parcel of Sorley,
“History of English philosophy’!” -- Megistia.
Luigi Speranza -- Grice e Meis: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – IL FU MATTIA PASCALE – lo
spirito abruzzese – la scuola di Bucchianico -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Bucchianico). Filosofo italiano.
Bucchianico, Chieti, Abruzzo. Grice: “I agree with Meis’s naturalism; he
proposes a three-stage development: vegetal, animal, man – his naturalism has a
Hegelian side to it, while man is more old fashioned, more Kantian!” Figlio di un medico aderente alla carboneria e di
ideali mazziniani, nacque a Bucchianico, dove compì i primi studi: li prosegue
presso il Regio collegio di Chieti e poi a Napoli, dove e allievo dei letterati
PUOTI, SANCTIS, SPAVENTA e RAMAGLIA. Si laurea e divenne socio degl’Aspiranti
naturalisti, di cui diventerà presidente; e poi medico aggiunto dell'Ospedale
degli Incurabili e apre una scuola di grande successo, dove insegna filosofia
naturale. E poi rettore del Collegio di Napoli.
Dopo la promulgazione della costituzione nel Regno di Napoli, venne
eletto deputato per la circoscrizione Abruzzo Citra: sostenne la protesta di
Mancini contro la repressione operata dalle truppe borboniche contro i
manifestanti e l'accusa di tradimento al re.
E quindi costretto all'esilio. Dopo un soggiorno a Genova e a Torino, si
stabilì a Parigi. Esercita la professione di medico per gli esuli e gli
emigrati italiani. Insegna antropologia filosofica lall'università ed entra in
contatto con il mondo filosofico parigino, diventando assistente di Bernard e ottenendo da Trousseau l'incarico
di insegnare semeiotica. Strige anche un proficuo rapporto con Cousin. Rientra
in Italia, prima a Torino e poi a
Modena, dove insegna. Torna a Napoli e divenne
assistente di SANCTIS, ministro dell'istruzione nel governo provvisorio, e
venne eletto membro del Consiglio Superiore della Pubblica istruzione. E deputato al Parlamento del Regno d'Italia sedendo
tra i ministeriali. Busto di M. al
Pincio (Roma) Non si sa né dove né quando e iniziato in massoneria, è certo
tuttavia che e membro della Loggia Felsinea di Bologna. Insegna a Bologna. Il
suo naturalismo lo spinse a cercare un fondamento filosofico alle scienze della
natura, che egli trova nell'idealismo di Hegel. E anche amico intimo e collega
di SICILIANI, del quale condivise in parte la speculazione intorno al
positivismo. Venne citato, di passaggio,
nel romanzo di PIRANDELLO (si veda), “Il fu Mattia Pascal”. E costruito il
palazzo della Biblioteca di Chieti, in piazza Tempietti romani, dedicata a M.. V. Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori,
Erasmo ed., Roma, M. su treccani. Il
protagonista del romanzo infatti ascolta casualmente, durante un viaggio in
treno, una conversazione fra due filosofi, e dato che è uscita la notizia della
sua morte, sceglie come proprio nuovo cognome "Meis", traendolo da
"De Meis". Il nome sarà "Adriano", udito dal fu Mattia
nella stessa conversazione, che attribuiva a M. la tesi che due statue nella
città di Peneade rappresentassero Cristo e la Veronica -- colei che si sostiene
abbia asciugato il viso di Gesù durante il calvario. In queste pagine del
romanzo pirandelliano, Mattia Pascal prova uno straordinario senso di ebbrezza
legato alla propria libertà. Tessitore, M.
Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Colapietra, M., politico “militante”, Napoli, Guida, Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. M. Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
M., in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. openMLOL, Horizons storia.camera,
Camera dei deputati. M. di Giacomo de
Crecchio, in Biblioteche dei filosofi, Scuola Normale Superiore di Pisa Cagliari.
L'Unificazione, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Nella prima edizione
di Il fu Mattia Pascal figura qui un GIUSEPPE De Meis, che nelle successive si
precisa nel nome di un seguace piuttosto atipico di SANCTIS, il filosofo
abruzzese M. Difficile immaginare che questa schelta sia del tutoo casual,
altrettanto difficile sondarne a fondo le ragioni e avanzare qualche ipotesi. A
meno che non si pensi al saggi in cuil M. (“Darwin e la scienza”) tenta una
sistesi tra evoluzionismo e dialettica hegeliana dello spirito; o non si
immagini che possa essere la sua filosofia, sull’IMPOSSIBILITA della demo-CRAZIA
in Italia, alla radice di uno sfogo politico de Adriano Meis. Meis, del quale
Mattia Pascale prende parte del cognomen, e autore di una specie di impegnativo
paradosso politico (IL SOVRANO), nel quale sostene la necessita di una REGALITA
forte, come punto di mediazione disinteressata tra le passioni laceranti di varia
strati della popolazione. E questo E il solo possible filo che riusciamo a
intravedere tra lui e questo improvviso (ma forse non del tutto imporgrammato)
sfodo di Adriano Meis. Antichità Oggettivismo. Oggettivismo primitive da Talete
ad Anassagora Soggettivismo pratico individualista Sofisti. Soggettivismo
pratico universalista Socrate Oggettivismo ideale assoluto Platone
Soggettivismo incompiuto Aristotile Tempo moderno — Soggettivismo.
Soggettivismo pratico intuitivo Stoicismo Epicureismo Scetticismo Ne-oplatonismo
Cristianesimo Oggettivismo ideale
particolarista Roscellino. Occam Oggettivismo sensibile Bacone. Condillac.
Diderot, d’Holbac. Passaggio alla soggettività Hame. Kant. Oggettivismo ideale
universalista Anseimo. S. Tommaso. Scoto . » Soggettivismo tendente alla
oggettività Cartesio Oggettivismo assoluto Geulinx. Mollebranche. Spinosa
Oggettivismo dogmatico individualista — Lcibnitz. Wolf Passaggio alla
soggettività —Berlielei/. Kant Tempo recente Soggettivismo assoluto.
Soggettivismo trascendentale — Kant Soggettivismo assoluto astratto — Fichte
Oggettivismo assoluto Schelling Soggettivismo positivo assoluto — Hegel . La storia
della medicina .Cosa è lo Stato? Lo Stato è l'uomo grande; è la società
umana individuata. L'ha detto Aristotile: lo Stato è la società che
basta a se stessa. 11 che appunto vuol dire che lo Stato è il grande
organismo umano, l'individuo grande, compiuto in sé stesso, indipendente ed
assoluto. L' uomo piccolo è una scala ascendente di funzioni. Egli ha per
base la funzione vegetativa, per cui mangia e beve e si nutre, veste
panni, abita un nido e si riproduce: la funzione riproduttiva è l'apice,
e la corona della vita vegetativa. Egli è questo il sistema dei suoi
bisogni materiali, vegetativi ed animali. Ma 1' uomo elementare non è
soltanto un vegetabile compenetrato e avvolto da un animale; egli è anche
un animale, un'anima, sormontata dall'unità dello spirito, avviluppata e
compenetrata dalla coscienza umana. La riproduzione è la corona della
vita vegetale; la coscienza è la corona della vita animale; e la
coscienza assoluta è la corona e l’apice della vita spirituale.
Come spirito l'uomo è per prima cosa, e per prima base, morale. La
moralità, la virtti privata, è la forma più naturale dello spirito: essa
è il patrimonio dell'individuo, e resta confinato e chiuso in
lui. Il dritto è l’uomo aggrandito; egli è l'individuo che si aggiunge
una porzione della natura esterna; ed è una estensione del suo corpo, e
della sua anima; ampliazione della sua natura organica, ed
esplicazione della sua natura giuridica spirituale. E a tutto questo
sovrasta l’IO, la libera coscienza, che è come il perno intorno a cui
tutto gira: centro e circonferenza del circolo umano. L'IO è la
conoscenza di se. Nella pura coscienza l'uomo conosce sé come sé, come
semplice forma; ed egli aspira a conoscere anco l’interno di se, la
sua propria natura. E Si conosce infatti: nell'arte, come bello, e
per dir così semi-infinito: nella religione, come infinito sensibile;
nella scienza, come infinito di pensiero, e sì come pensiero
infinito. Tale è il sistema spirituale nell' uomo piccolo, nell’individuo
particolare. Nell’uomo grande, nell' organismo politico-individuale che si
chiama LO STATO, ci sono le stesse funzioni. Ci è la funzione economica,
agricola, industriale, commerciale: produzione materiale, frumento o
libro; trasformazione ed assimilazione; circolazione e scambio;
nutrizione e consumazione: relazione sensibile fra tutti gl'individui dei
quali il corpo sociale è formato. Ci è la funzione morale, non più chiusa
nell'individuo, ma estesa alla società, manifestata come relazione attuale fra
gì' individui umani. La morale individua diventa dritto comune; materia della
polizia, e del dritto penale. Nessun uomo ha il dritto di offendere e
usar vie di fatto contro un altro uomo, perchè tutti hanno il dritto che
la loro coscienza morale sia rispettata. Il reo non fa contro uno, ma contro
tutti; e non è quindi uno o pochi, sono tutti contro di lui: il
sentimento della comune natura umana reclama la sua punizione. Nessun uomo ha
il dritto di maltrattare un bruto; perchè non è il bruto, è il
sentimento della fondamentale unità della natura umana e animale eh' egli
ferisce e maltratta in tutti gli uomini civili e sensibili. La morale
individua è il rispetto della natura; il dritto morale è l'azione
conforme ai fini, ai principii, ai sentimenti naturali. Egli è dunque una
relazione psichica, spirituale, poiché spirituale è il suo fine. Ci
è la funzione giuridica, ed è la relazione dell'individuo coi suoi annessi
naturali agli altri individui similmente costituiti di cui la società è
formata. Quello che invade l’altrui, non occupa solo una porzione di
natura; egli occupa e viola l'anima di un uomo, la quale è pur quella di
tutti gli uomini, membri di uno stesso corpo sociale; e perciò tutti si levano
contro l'ingiusto invasore. Questo tutti è la legge, che funziona e si
esercita in forma di Tribunale. La legge penale sta di rincontro alla
barbarie, alla passione violenta ed alla guerra privata; un tribunale criminale
è in realtà una corte marziale. La legge civile è il principio e la
regola della pacifica decisione. Essa è la libera ragione che si leva di
mezzo agli opposti interessi; e il contrasto troncato in germe, e
definito in forma di piato, non solo non giunge, ma neppur tende alla
violenza ed alla guerra. La guerra è la barbarie; la civiltà è la pace,
perchè è la legge, e perciò questa a ragione è detta civile; e i suoi
sono tutti giudici di pace. Ci è finalmente l’IO comune, conoscenza
e volere generale; ed è, come tale, una funzione formale a cui
servono di contenuto e di soggetto tutte le funzioni speciali. Cosa è
dunque lo Stato? Lo Stato è l’insieme di tutte le funzioni
materiali ed economiche, morali e giuridiche, in quanto sono
unificate nell'IO comune, che tutte le penetra e le regola, ed è il punto
a cui mette capo ogni particolar movimento, e da cui parte ogni azione
generale. Lo Stato è adunque l'IO, la coscienza sociale. Tale è la forma: il
contenuto è la virtù pubblica, il dritto civile, il dritto penale, e la
pubblica economia. Lo Stato è il giusto, dice ALBICINI (si veda). Sì
certamente; ma il giusto non è che una parte del suo contenuto; è
un elemento della sua natura, il quale piglia nell’organismo giuridico la sua
forma particolare, e la sua realtà naturale. Ma un principe non è solo un
Gran Giudice, e un Parlamento non c'è soltanto per fare il Codice Civile.
Giusto io lo piglio in senso di legge: e la legge io la piglio in senso
di relazione umana in genere. Ed io allora la piglio in senso di
relazione cosmica universale. Bisogna finirla una volta con le idee vaghe
ed astratte, e con le parole indeterminate e generali. Lo Stato è la
virtti; dice Montesquieu: la virtìi è il suo principio ed il suo
fondamento, e il vizio è la sua rovina. Idee generiche, astratte,
indeterminate, piene di confusione e di errori. La virtù, la
morale, non è che un elemento, ed una sfera dello Stato. Essa ò per
se individuale; ma quando esce dall'individuo, e promove o turba e nega
l'ordine sociale inferiore, e per così dire individuale, essa allora di
privata diventa pubblica, ed appartiene allo Stato. Che se dall' infima
sfera delle relazioni individuali l'azione si leva alla sfera giuridica,
o se anche penetra nella sfera politica, allora essa perde man mano il
suo carattere morale. Un delitto politico è per poco un non-senso, quando non
è che politico: e tale egli è quando l'animo è puro. Omnia mwnda
mundis: puro vuol dir non-individuale, assoluto, generale. E allora non è
a parlar di delitto e di colpa: in politica non ci è che prudenza ed
imprudenza, serietà e leggerezza, verità ed errore, successo ed insuccesso. Lo
Stato ordina i premi e le pene, e le proporziona alla loro natura morale,
giuridica o politica : se non che una pena politica è quasi un non-senso:
essa in realtà non è che un semplice fatto di guerra, un puro atto di
difesa. La virtù, dirà il Montesquieu, io la piglio in senso di forza, di
energia politica. Ed io la piglio in senso di energia magnetica,
elettrica, nervosa, muscolare. L’antiche repubblica romana e fondata
sulla sobrietà e sulla severa continenza, sulla parsimonia e la povertà
del privato cittadino. Roma cadde perchè vi penetrò la ricchezza, la
voluttà, il lusso dell'Asia. Quella io chiamo virtù, questo vizio,
rilassatezza, corruzione, dice Montesquieu, e ripete Napoleone III, e con
lui tutti, dal primo all'ultimo, i francesi. — francesi, questa che voi
fate non è la storia, è il fatto; è la materia appena un po' digrossata,
non è l'idea che la determina e la informa; è il fenomeno, non è il
pensiero della storia. E lo vedrete. Lo Stato è il ben essere, la
prosperità, la ricchezza, dice Fourier. Sì, certamente: anche questo è lo
Stato: ed egli cura la produzione, promove ogni maniera d'industria, e
favorisce il commercio con istituzioni, e leggi, e procedure speciali. Ma
la ricchezza non è che il sostrato, il sottosuolo dello Stato. La
ricchezza è la materia, lo Stato è il pensiero: 1' una è il corpo, l’altro
è l' anima. L' anima fa il corpo, ma non è corpo per questo; e l'Economia
politica non è la Politica, non è lo Stato. IL PRINCIPIO DELLO STATO
ITALIANO E LA RELIGIONE, è la Bibbia degli Ebrei, dice Aquila di Meaux, e
per quel tempo non vola male. Ora però, sarebbe il peggio che si
potesse dire. Cotesto ora non è piti un volare, è uno strisciar per le
terre, o come talpa andar per le cieche latebre, odiando la luce e il
puro e libero aere della ragione. E se Dupanloup pure insiste e perfidia,
allora io dico che il principio dello Stato è l'arte, è la Divina
Commedia e il Decamerone, il Barbiere di Siviglia e la Trasfigurazione. Tanto
ci ha che far l'una quanto l'altra, ed io avrò altrettanta
ragione. Il principio dello Stato è Dio, dirà Dupanloup. Sì, certamente;
ora finalmente ci siamo. Non è però il Dio della Religione e dell'Arte,
ma il Dio del corpo sociale, il Dio dello Stato. Questo è che costituisce
i Re, che direttamente o per suoi organi crea tutti i poteri e le
autorità politiche; e questo Dio non abita nel cielo; lassù non v'è che
il Dio della Natura: il Dio dello Stato abita nel petto del cittadino, ed
è a lui eh' egli ubbidisce quando rende ubbidienza alle autorità
che ne sono i ministri, il braccio e la parola. Lo Stato non e corpo, è
anima. Anima è sapere e volere, coscienza e azione; e la funzione dello
Stato come Stato consiste nel sapor di essere, e nel volere essere
Stato. Questa non è che la sua forma; ma questa forma è appunto il vero Stato;
e la coscienza assoluta ch'egli ha di sé, e l'azione comune in cui questa
si traduce e si spiega, è per l'appunto la sua funzione
essenziale. La coscienza dello Stato per intrinseca ed assoluta
necessità prende una esistenza naturale, e spontaneamente si crea il suo
particolare organismo. Essa è l'anima; ed il sistema dei poteri politici
è il corpo che si crea, e in cui si fa reale. È una creazione immediata e
diretta, ovvero indiretta e mediata, come quella d' ogni principio
vitale; ma in definitivo è la coscienza pubblica, ed è sempre lo Stato
che crea i poteri e le autorità dello Stato. Questa funzione creatrice è
1' elezione. Ma questo corpo in cui l'anima generale si traduce e si
concentra, in realtà non è che una pura anima: è il semplice potere
legislativo. Quest'anima effettiva ed attuale creata dall'elezione, si
crea a sua volta il suo proprio corpo. Tale è 1! esercito : l' esercito
amministrativo e l' esercito militare ; e la finanza è il sangue di
questo corpo generale. L' esercito amministrativo serve per eseguire
o render possibili tutte le funzioni, che compongono la triplice
natura dello Stato: la funzione economica, la morale, e la giuridica. Un
magistrato, un impiegato, il ministro, il Sovrano, è un soldato; e il suo
onore è d'ubbidir fedelmente alla legge, all'anima dello
Stato. L'esercito militare ha un ufficio anche pili essenziale. Esso serve
allo Stato per essere, per esistere; gli serve a difendersi dalle potenze
nemiche, esterne o interne, che ne minacciano la vita economica, politica
o morale. Il soldato è il braccio della legge, e dello Stato; il suo
ufficio è di respinger l' assalto o l' insulto di un altro Stato, e di
reprimere le passioni colpevoli che si sfrenano contro la legge del suo
paese, e le istituzioni del proprio Stato: nobile ed alto ufficio tanto
nel primo come nel secondo caso. I due eserciti sono entrambi
assoldati. Sono il corpo, e il sangue vi dee circolare. Il potere
legislativo è l'anima; ed è perciò che non è pagato. Il Sovrano ha una lista
civile perchè unisce in sé le due nature: egli è il tratto d' unione fra
il potere legislativo e l'esecutivo, e personifica in lui l'unità dello
Stato : ed è perciò eh 9 egli è sacro. Sovranità, potere legislativo,
potere esecutivo; tutto questo è forma di forma: la forma essenziale, il
vero Stato, è l”IO assoluto, la coscienza e la volontà generale. Ma non
vi è la pura coscienza e l'astratto volere, e non è possibile una
funzione puramente formale. Si è conscii di essere questo o quello, si
vuole e si fa sempre qualche cosa: e lo Stato conosce e fa da un
lato, e dall'altro esegue, la legge economica, la legge penale, la legge
civile. Il Sovrano, il legislatore, l’impiegato, il soldato, tutti
vogliono che lo Stato sia; vogliono che sia prospero, giusto, savio,
forte di tutte le fotze morali, e che possa tutte liberamente spiegarle,
ed esser felice. L'Io è la forma; la forza economica, la virtù, il dritto, è il
contenuto dello Stato. Ma la forma prevale, e domina il contenuto.
La morale domina l'economia: la produzione non è possibile, e il guadagno
non è realizzabile s'egli è immorale. Il dritto domina la morale: la virtù
pubblica impone alla virtù privata. L'Io, la pura funzione formale,
domina e modifica tutte le funzioni speciali che sono il suo essenziale
contenuto: lo Stato domina e modifica il dritto e la morale. Un assoluto
vince l'altro: tutti per sé assoluti, sono fra loro assolutamente RELATIVI
(“il relativo hegeliano”). Il volgo riguarda come piti eccellenti gli assoluti
inferiori, perchè piti naturali, e di più immediata e più sensibile idealità.
Il più alto è per lui l'ordine morale; che sovrasta e primeggia
sull'ordine giuridico; 1' ordine politico è subordinato a tutti e
due. In realtà il più eccellente è l'ordine dello Stato, perchè più
generale, e più assoluto e divino; e quando l'armonia fra i tre ordini e le tre
funzioni si rompe, è la funzione formale, la funzione assoluta dell'essere,
quella alla quale appartiene il primato, e prende sopra l' altre la mano.
Scoppia la RIVOLUZIONE dal basso o dall'alto: ribellione, COLPO DI STATO.
Slealtà, tradimento, illegalità, delitto. È vero. La coscienza morale lo
riprova, la coscienza giuridica lo condanna; ma v'è (vi può essere) una
coscienza superiore che l'approva; e se non è la coscienza politica dei
contemporanei, sarà di certo la coscienza politica degli avvenire. La
storia approva IL COLPO DI STATO e LA
RIVOLUZIONE popolare, quando è vera funzion di essere: quando cioè l'
essere apparente dello Stato non corrisponde al suo VERO essere, a quello che
esso è nella coscienza del corpo sociale, sia che oltrepassi, o sia
che rimanga al di sotto di questa misura ideale. Invadere la proprietà d'
un cittadino è ingiusto; ma lo Stato può farlo; ed è una giusta
ingiustizia, ed una legale illegalità, perchè in tal guisa realizza
il suo essere, il benessere della comunità, o dell’intiero corpo sociale.
La ragione e il titolo è la pubblica utilità. Questo è un vedere solo il
lato esterno del fatto, che vi è di certo e non può mai mancare, ma
non la sua vera ragione. Si vede la comodità sensibile, ma non si
vede il suo interno principio, l'essere generale realizzato. Ma non è
meraviglia. IL CODICE ITALIANO E POCO MEN CHE TRADOTTO DEL FRANCESE. Le nostre
leggi fatte esse pure dal risorgimento, parlano la sua lingua e ne
riflettono le idee. Ammazzare un uomo è ingiusto ed immorale: è un
violar l'ordine naturale; è un toglier all'uomo una proprietà che 1'uomo
non ha creata. Ma lo Stato anche questo può fare. Lo Stato è funzion
di essere; egli è, vale a dire una forza: e l' elemento di questa forza è
la sua corrispondenza e la possibile eguaglianza con la coscienza
generale. Lo Stato è debole quando il suo concetto resta al di sotto o
supera quello del corpo sociale. Il secondo, e non già il primo, è di gran
lunga il caso dello STATO ITALIANO. Egli è perciò che quando la
società vede nella pena di morte un elemento di solidità, ed un pegno di
sicurezza generale, abolirla è un errore: è una fallace utopia, una
velleità teorica, difetto di serietà pratica, scipita sentimentalità,
filantropia fuor di proposito; bontà di cuore forse, ma certo debolezza
di mente, che ad altro non condurrebbe che a crescer la debolezza, già così
grande, dello Stato, accrescendo la distanza che lo divide dalla
coscienza pubblica, di cui deve render l' imagine, ed essere la fedele
espressione. Quando l'opinione sarà progredita; quando la coscienza dei pochissimi
si troverà in armonia con la coscienza dei moltissimi, allora
lo Stato e forte, e allora la pena ingiusta, immorale ed inumana
della morte si potrà, e si dovrà senza altro indugio, abolire; perchè
allora il PAESE, divenuto meno incolto e per dir così più spirituale,
avrà cessato di riguardarla come un elemento di esistenza; e non sentirà
il bisogno di una garanzia sensibile tanto barbara e immane. Allora non
saranno soltanto pochi pubblicisti ignoranti e frivoli, ed alcuni
legislatori ridicoli, saranno moltissimi, se non pur tutti, a reclamarne l’abolizione. Si
parla sempre dell'utilità della pena di morte. È l'argomento dei sostenitori,
ed è l'achille degli oppositori. Questo è da una parte e dall' altra un
vergognoso errore. Necessità non è utilità; e quando lo Stato opera in funzion
di essere, egli è in una sfera ideale e assoluta, superiore alla regione
della utilità e del senso. Ma questo sì vergognoso errore era la verità
del Risorgimento; ed è perciò che non se ne vergognava, anzi l'accettava,
e ne andava giustameute superbo: il senso e l'utilità e tutta la sua
filosofìa, ed egli condanna allora la pena capitale come non utile.
Venuto più tardi a miglior sentimento, il Risorgimento respinge l’utilità,
e condanna la pena di morte come utile. Egli scambia per utilità la
necessità ideale; e non si vergogna, perchè questo sofisma è la sua
verità: egli è il da ubi consistam della FILOSOFIA positiva. Ma se ne
vergognerà di certo quando di risorgimento sarà passato a secolo
decimonono. Ammazzare un uomo, turbarne i dritti, e violarne il possesso,
attentare all'esistenza dello Stato, che è quanto dire alla vita delle
sue istituzioni, è immorale ed ingiusto; e sarà assai di più
ammazzare moltitudini di uomini, insignorirsi, recare in sé il dominio (e
sia pur l'alto dominio) delle loro proprietà, e distruggere uno Stato. Questo
il cittadino non lo può, non lo dee fare; ma può e dee talvolta
farlo lo Stato. L' usurpazione e la violenza privata è ingiusta; la
violenza pubblica e la pubblica usurpazione non è giusta; è più e meglio di
questo, è politica; e si chiama guerra e conquista, e non più violenza ed
usurpazione. La guerra è buona, e la conquista è giusta legittima e
veramente politica, (e dico buona, legittima, giusta per convenzione, ed
in mancanza d'altre parole) quando in esse lo Stato opera in funzione di
essere: quando guerreggia e conquista per vivere per essere, o per
diventare quello che è in sé, e deve anche attualmente essere. Vi sono
società naturali, che la violenza, l'arbitrio, la passione, il caso in una
parola, divide in più corpi sociali, per cui DI UNO SI FORMANO PIU STATI.
Ma in tutti rimane la coscienza della loro identità politica, e della loro
natura storica comune. Yi sono ancora società originariamente
separate, in cui l’accidente, cioè l'arbitrio, la violenza, le passioni
umane, col concorso di altri accidenti ed opportunità naturali, crea una
coscienza comune. LA LINGUA ITALIANA, vale a dire la comunità e la somiglianza
fondamentale dei DIALETTI ITALIANI (non
mai la loro identità, che non e' è mai, e non può esserci in natura, ed è
una finzione assurda dei pedanti) è l'organismo sensibile, e
l'espressione approssimativa, e la meno inadeguata, di quella nuova
coscienza. La comune storia è il processo per cui di un gruppo accidentale di
popoli e di Stati si forma a poco a poco un tutto naturale e
vivente con una interna unità e un' anima generale. LA GEOGRAFIA è la
condizione esterna dello sviluppo, e l' occasione più o meno accidentale
di questa formazione ideale. La comune coscienza che si è conservata dopo
lo spartimento dello Stato unico originario, non è più coscienza,
ma tende a ripigliare l'antica forma e la primiera attività; e la
coscienza comune che si è sviluppata in un gruppo di Stati eterogenei non è
che il sentimento della loro comune unità: e nell' un caso e
nell'altro questo sentimento è la nazionalità, la coscienza nazionale. E nell'
uno come nell' altro caso ciascuno Stato si trova diviso in se stesso; è
un' anima scissa, con due coscienze distinte ; che l' una è la coscienza
propria di Stato, l' altra è la coscienza comune di NAZIONE. Esso è
dunque in realtà due anime, due esseri, uno attuale, e l' altro
possibile; il primo è Stato, l'altro non è che nazione. LA NAZIONE E LA
POSSIBILITA NATURALE DELLO STATO. Ma esso anche quest'altra parte di sé
vuol recare ad atto; esso ha bisogno di esser tutto il suo essere, e
irresistibilmente aspira a far della sua coscienza politica effettiva, e
della sua coscienza nazionale astratta, una sola coscienza reale. Egli è
perciò che lo Stato fa la guerra, e conquista gli Stati connazionali. È
la buona guerra, e la legittima conquista; ma è ancora il processo
barbaro, violento, inconsapevole, passionale, irrazionale. Era altra volta la
buona soluzione; ora è divenuta cattiva: il decimonono secolo è
tempo di coscienza e di ragione, e non ammette che la soluzione
consapevole, volontaria e razionale. Questo succede quando in tutti i
corpi sociali si sviluppa più o meno egualmente di sotto alla loro particolare
e diversa coscienza politica la comune coscienza nazionale. Tutti allora
aspirano, e tutti finiscono per fondersi in un solo corpo di nazione, in
una stessa società, in cui l'antica coscienza nazionale si eleva e si
perde ben presto nella coscienza politica comune. Non è più. la soluzione
forzata, è la soluzione spontanea e razionale. Egli è nel primo
modo che si sono costituite le nazioni moderne; formazioni accidentali,
prodotti di guerre e di conquiste senza ragione, e di nozze fortunate. Tu
felix Austria, tu felix Gallia, etc... nube. La coscienza nazionale non esiste,
è venuta dopo. L'Austria felicemente accozzava delle società affatto
eterogenee, fra cui non vi è stato che un principio di fusione. Si è formato
senza dubbio nella Boemia, nell’Ungheria, nella Iugo-Slavia, una coscienza
austriaca. Ma la vera coscienza politica è la coscienza boema, ungherese
e slava; e ciò perchè l' austriaca è una coscienza astratta, occasionale, non è
una possibilità naturale effettuata e completa; non è lo sviluppo e la
realtà della coscienza nazionale. La Francia riuniva con lo stesso metodo
delle nozze, delle guerre ingiuste e delle astute diplomazie, degli Stati
meno inomogenei, in cui pur v’era un avanzo di un'antica LINGUA
COMUNE – FIGLIA DELLA LINGUA MADRE LATINA, testimone di una comune
coscienza, di politica rimasta puramente nazionale, reminiscenza di
una potente antica unità; IL FRANCESE E UNA LINGUA AVVENTIZIA E FORZATA, ma che
ha finito per essere adottata -- coscienza avventizia, ma che era pur venuta,
ed aveva finito per essere LA COMUNE ESSENZIALE UNITA DEL MONDO ROMANO. Ed ecco perchè quei corpi insieme posti
finirono per formar le membra di un solo corpo morale: fatte però
le dovute e ben note eccezioni. Ora la Francia avrebbe l'intenzione di
seguitare in questa via, ed applicare ancora il metodo antico, barbaro,
medieyale. Ma si oppone la natura e la ragione. La ragione è la
coscienza nazionale, è LA LINGUA, ed è la storia. La natura è la
geografia: un fiume non è un confine, ma una via ed un mezzo di unione.
La Francia è fuor dei suoi confini naturali e nazionali. La
soluzione spontanea razionale e naturale delle quistioni nazionali e serbata
al secolo della ragione; ED E L’ITALIA CHE NE HA DATO AL MONDO L’ESEMPIO,
ed è il suo onore immortale, e il suo vero primato civile e morale.
Questo esempio la sorella dell'Italia, la Grecia, si appresta ad
imitarlo. La natura lo richiede. La greca penisola è un tutto geografico
perfettamente circoscritto; si direbbe una regione, un nido apprestato
per una sola razza. La ragione lo esige e lo impone; lingua, storia,
coscienza nazionale, solo in parte venuta a coscienza politica, tutto è comune
alla Grecia; e v' è un altro comune principio che la unisce, ed è la
religione. Tutto dunque chiede l'indipendenza e r unità della Grecia,
tutto vuole che la Nazione Greca diventi lo Stato Greco; ma l'
Inghilterra non vi trova il suo conto, e con tutte le forze si oppone, e
l'Europa delle crociate, divenuta la positiva e irreligiosa Europa
del Risorgimento, custodisce e protegge con una edificante unanimità il barbaro
e immondo straniero, il musulmano oppressore. L' Italia è
stata piu fortunata. Un grand' uomo uscito dal suo sangue, pervenuto ad.
assidersi sopra un nobile trono straniero, rammenta l'antica madre
per la quale giovanetto aveva pugnato, e pugnava ancora per essa, e le
dava la mano a farsi di una nazione astratta, uno Statò reale. ITALIANO,
IO NON SO CHE QUESTO. Tutto l'altro io l'ignoro, perchè la Storia non è
ancor venuta, e non ci ha giudicato sopra. Ora non vi è che la morale e
il dritto, e le piccole passioni politiche dei francesi, tutti incompetenti
nella quistione. Ma di quel che il grand' uomo ha operato per
l'Italia siamo competenti noi; e non sono ingrati tutti gì'
Italiani. L'Italia per viriti propria, e per generoso aiuto, che
appena è che possa dirsi straniero, è salita dalla coscienza nazionale
alla coscienza politica. Ma se quella è forte e potente, questa è ancor
debole ed incompleta. Le sette antiche coscienze politiche, nelle quali
la sua coscienza nazionale era scissa, non si sono tutte egualmente
amalgamate in una coscienza politica comune. Le deboli sono scomparse; ma ve
n'è qualcuna forte, che resiste e permane, ed è L’ANTICA COSCIENZA
PIEMONTESE. Il Piemonte ha tre coscienze in lotta fra loro. La coscienza
nazionale, che in lui era, ed è senza dubbio ancor forte, non si è pienamente
trasformata. Essa è rimasta nazionale, astratta; ed ha solamente
prodotto di sé una coscienza politica italiana debole, parziale,
incompleta, poco men che astratta, piena di riserve e di eccezioni. Essa
è incompleta e debole di tutta la realtà e la forza che rimane alla VECCHIA
E TENACE CO-SCIENZA PIEMONTESE, di cui la permanente è l'espressione. Questo SAMMARLINO
(si veda) lo ignora ; ed è in una perfetta buona fede. Egli in travvede in lui
una forte coscienza nazionale, e allato a una profonda coscienza
municipale (certo indebolita da quello che era prima) vi trova un
chiaroscuro di coscienza politica italiana, e dice: io sono quanto si può
più essere italiano. E se lo crede. Sammartino non ha tutti i torti : egli
è senza dubbio italiano; ma quel suo quanto si può essere, o quanto
altri sia, è una sua ESAGERAZIONE.. Nobile esagerazione, inganno volontario e
generoso, illusione che genera in lui la coscienza nazionale, la quale
fa sentirgli il bisogno di giustificarsi ai proprii occhi e agli
altrui. Ma in tanta complicazione il valente uomo non ha tale abito e tal
forza d'analisi da rendersi conto del proprio essere, per cui diviene il
giuoco della sua immaginazione. Egli è perciò che è in buona fede.
Tutti gli uomini ci sono qual pili qual meno allo stesso modo. Ma il
tempo è galantuomo; e s’egli ha potuto sviluppare in tutto il mondo
antico una COSCIENZA ROMANA: se sulla vera coscienza magiara, czeca e jugoslava
ha potuto inserire una coscienza austriaca; se finalmente nella tedesca
Alsazia e nella Lorena punto del mondo francese, ha potuto (incredibile a
dirsi, e mostruoso a pensare) destare una coscienza politica
francese: ben saprà creare una vera coscienza italiana in quel Piemonte,
che pure è il primo fra tutti i paesi della moderna Italia: in quel
Piemonte, che nel momento in cui la grande storia italiana del Medio Evo ha
termine, quando tutto intorno tace, s'avviliva e s'abbandona, e la
nazione intiera scende nella tomba della servitù straniera e papale, egli
solo non s' abbandona; e che rimasto jnfino allora nell'ombra,
sorge a un tratto giovane e vigoroso, e ripigliava in sua mano il filo e
creava la nuova storia italiana, e per lui ed in lui l'Italia vive ancora.
E quando a nostra memoria si riapriva 1' antica tomba, e l'Italia
vi scende di nuovo, rimaneva egli solo sulla breccia, e lottava
animosamente, eroicamente, e compiva alla fine il destino della patria:
onore a cui dalla provvidenza della storia era visibilmente riserbato. Ah
non tutti gl'Italiani sono ciechi e ingrati! Certo il tempo saprà
identificare la coscienza piemontese, che dopo tanta e così grande
storia, fuor di proporzione con la materiale grandezza di quella nobile
provincia, è naturale sia permanente e resista alla grande coscienza politica
italiana. E sarà allora galantuomo davvero. Quando ciò sia avvenuto, e che
in tutta l'Italia non vi sarà che una sola coscienza politica, allora
non vi sarà più soltanto una grande nazione, ma un vero e forte
Stato Italiano. L'Io, la coscienza sociale, è adunque il vero e proprio
elemento dello Stato; ed è una funzione puramente formale che domina e modera e
modifica la funzione giuridica, e la funzione morale. Lo Stato
toglie la vita, e turba e invade la proprietà del cittadino; fa la
guerra per esser quello eh 9 egli è, o quel che dev'essere, e toglie la
proprietà, la vita, l’essere indipendente, allo Stato vicino. Tutte cose che
l'uomo privato non può fare, e che gli sono permesse, doverose anche
talvolta y quando, divenuto uomo pubblico, la sua coscienza s' immedesima
e si confonde con la coscienza assoluta dello Stato. Allora è illecito e
reo tutto ciò eh' egli può far nel suo particolare interesse, ma è
lecito e buono tutto ciò che fa in vista dell' interesse generale. La fusione e
l'amalgama succede sempre in una certa misura, ed è tanto pili
completa quanto l'uomo è più alto locato, finche nel capo dello
Stato i due interessi non ne fanno più che un solo. Dal momento che si
separano, il tiranno è perduto: egli allora non è piu lo Stato, è un
altro; è un corpo estraneo contro a cui l'intiero organismo si
solleva, e scoppia la crisi. La crisi, la rivoluzione, è un processo di
guarigione. Il morbo è la tirannia, l'anarchia: forme dello stesso
disordine; tutte e due passione e sfrenato arbitrio; ed anarchia tutt' e
due. U&rche non è né questo, ne quello; né uno, né pochi, ne molti,
ne tutti: l’arche è la ragione. Il principio dello Stato, la
sua vita, il suo vero essere, non è il giusto, non è il morale, non è l'
economico. Tutto questo egli lo contiene in sé; ma come Stato egli è
l'unità consapevole organizzatrice e moderatrice di tutte le forme, di tutti
gli organi, di tutte le funzioni sociali. Questo è lo Stato, e qui
finisce l'attività politica, la vita pubblica; ma qui non finisce la vita
umana, e non è anche tutta la storia. Sotto allo Stato vi è il
dritto, la morale, la pubblica economia; ma vi è sopra allo Stato un
mondo piìi etereo, piìi,assolutò ed universale che non è il suo; vi
è il mondo dell'arte, il mondo della scienza, e il mondo della religione.
Il mondo della verità è di sopra al mondo della natura e
dell'azione. Lo Stato è l'unità, la coscienza, la forma pili alta, e
la pili perfetta e più generale esistenza delle funzioni a lui
inferiori. Lo Stato non è che la base e la reale possibilità delle
funzioni a lui superiori. L'Arte è una funzione naturale, e perciò
rimane affatto individuale. Vi è un mondo estetico, ma non vi è una
società artistica: vi sono soltanto degli artisti e dei poeti ; e la parte
dello Stato è di render possibile lo sviluppo del talento estetico, e
rispettarne la spontaneità ed il libero giuoco. Egli non ha dritto
sull'artista se non quando egli abusa e tradisce l'Arte, ed esce dalla
sua natura. L'Arte non è la morale o il dritto, e può essere
immorale e ingiusta a sua posta: ma finché rimane Arte la sua immoralità
non contamina, e la sua ingiustizia può esser sublime, atta solo a sollevare e
fortificare i caratteri, non mai ad avvilire e degradar l' animo umano.
Ma dal momento che essa esce dalle sue condizioni di Arte, essa non è
pili che immorale ed ingiusta, e allora lo Stato interviene: interviene
in nome della giustizia offesa, e della morale violata; funzioni
inferiori, che gli sono tutte e due subordinate, ch'egli dirige ed ha in sua tutela. L'Arte
non è la religione, e può a sua posta essere empia ed irreligiosa: ma la
sua irreligione è sublime ispiratrice di grandi e puri pensieri, e di
religione vera e pura. Che s' ella trasgredisce le proprie sue leggi, ed
esce dalle sue condizioni vitali, e non è più che semplice e sguaiata
irreligione; in tal caso lo Stato non interviene. Egli dirige e modera le
funzioni che sono al di sotto e dentro di lui, ma non amministra la
verità religiosa che gli è superiore. L'Arte non è la Scienza; è in un
certo senso il suo contrario: che s' ella esce dalla sua natura di
senso ideale, e si atteggia a ragione e a idea; tanto peggio per
lei. La Religione è una funzione dirò così spiritiforme: la sua
natura è sensibilmente spirituale, ed il suo carattere è di essere naturalmente
universale. Egli è perciò che mentre l'arte rimane nella sua
inconsapevole particolarità, la religione viene a coscienza, e si forma
un Io sociale superiore all'Io dello Stato: e di fuori e di sopra alla
società politica si forma una società religiosa. Il luogo di questa alta
società non è la terra, è il cielo: l'uomo religioso ha i piedi su questo
umile suolo, ma la sua anima è altrove. La sua funzione è tutta celeste;
essa è riflessione e adempimento del destino umano: contemplazione della
infinita natura dell'uomo, rappresentata nel mondo infinito della grande
fantasia; conseguimento della infinita felicità mediante il possesso dell'
infinito della religione. La funzione religiosa dello Stato è di render
possibile la formazione, e libero lo sviluppo e l'azione, della
società religiosa. La religione non è né scienza, né arte, ne economia, ne
morale. Essa può dunque essere a sua posta inestetica e goffa, creare
simboli mostruosi e informi, miti ributtanti e triviali; PUO PROFESSAR
TUTTI GLI ERRORI FILOSOFICI astronomici, teologici, politici CHE VUOLE. Tanto
meglio per lei; sarà più creduta, e più stimata e rispettala. Può la
religione professare tutte le assurdità morali e giuridiche che le piace. Può
attribuire a Dio tutte le passioni umane, sopratutto le piu
barbare, e pu perverse e colpevoli, quelle che l'uomo moderno pih si
rimprovera, e maggiormente arrossisce quando se ne lascia sorprendere e
dominare. Sarà per lei tanto meglio: maggiore sarà la riverenza, il
terrore religioso, il timor di Dio. La religione può a suo beneplacito
credere ed insegnare che i figli sieno responsabili dei peccati dei
padri, come lo insegna e lo crede Mosè, in un tempo ed in un paese in cui
non v'E ANCORA IL DIRITTO ROMANO, e il Codice Civile era di là da venire.
Se questo vi fosse stato, non sarebbe venuto in mente a Mosè una siffatta
idea, e non avrebbe insegnato un così sterminato errore. Quella era
pertanto la verità giuridica e la verità religiosa del suo tempo: due
gradi e due forme non per anco distinte, confuse ancora in una verità
sola. Oggi la distinzione è avvenuta: la verità giuridica del Codice Mosaico,
convinta e condannata di falsità, è sostituita dalla verità giuridica del
Codice Civile, nel modo istesso che all'astronomia di Giosuè e del Santo
Uffizio è sottentrata l'astronomia di Copernico e di GALILEI. Ma come verità
religiosa è rimasta in piedi: crede il popolo ed il comune che l'
innocente è colpito col reo dalla vendetta divina. E si crede anche oggi
come tre mila anni sono il dogma che insegna che la colpa del primo
uomo s' è naturalmente trasmessa a tutti gli uomini. Questo dogma non è
che l'applicazione in grande del principio giuridico-religioso di tre mila
anni sonò, e quel che lo rende piti meraviglioso, e perciò più credibile
al popolo ed al comune, si è che quella colpa era la curiosità di sapere,
il bisogno di conoscere il vero : jcolpa grave, imperdonabile agli occhi
del dogma religioso. Un dogma simile viola apertamente il Codice
Civile, e violentemente urta ed offende il 'senso morale; ma non è che una
offesa ed una violazione religiosa, e lo Stato non interviene per far
rispettare il Codice Civile ed il senso comune. La rappresentazione
succede in una sfera superiore, e lo Stato ne rende possibile lo sviluppo
e libera la manifestazione, e la rispetta qualunque ella sia. Ma se l'
azione religiosa esce di questo campo, e deposto il proprio carattere,
si spinge nella sfera dello Stato, e diventa irreligiosamente immorale,
ingiusta ed impolitica, allora lo Stato interviene, e si fa rispettare.
Questo inevitabilmente succede alle religioni che di spirituali si fanno
temporali. Peccato è loro e non naturai cosa: di loro è la colpa e non
dello Stato: e perciò tanto peggio per loro. Finalmente, al di sopra dello
Stato, e sì dell'Arte e della Religione, vi è la scienza, LA FILOSOFIA. Ma
qui l'individuo s'identifica e si perde nel puro assoluto
universale, per cui l'Io filosofico non prende alcuna forma naturale. Non
vi è quindi una società filosofica, vi è soltanto il mondo della
filosofia, il mondo del pensiero, della verità assoluta. Lo Stato non
interviene in nessun caso in questo ultimo empireo: egli né il dee,
né il può; egli è natura, e non ha presa su ciò che non è naturale. Lo
Stato non può entrare nella sfera della scienza senza disertare la sua,
senza perdere il suo carattere essenziale, e cessar di essere
Stato. Lo Stato del decimonono secolo lascerà dunque insegnare chi
vuole, e checché vuole, anche il Prete ed anche il Demagogo? Non già; non
mai. Insegnare non è pensare e recare in mezzo il proprio pensiero;
è invece agire, educare e preparare all'azione, ed appartiene quindi allo
Stato; e insegnare un principio repugnante e contraddittorio a quello
dello Stato, è uno scalzare lo Stato, che non può certo trovarci il
suo conto. Lo Stato è funzion di essere, di vivere; e nessuno ha gusto di
lasciarsi ammazzare, sia di ferro o sia di veleno; e i cattivi principii
sono velenosi allo Stato. Il principio politico dei Gesuiti è la Religione,
la loro; e quello a cui in ultima analisi tutto mette capo, ed a
cui il cittadino ubbidisce, è l' autorità religiosa. Il principio dello
Stato moderno è invece l'Io, la ragione; è la coscienza pubblica, la
pubblica opinione; e quello a cui il cittadino ubbidisce, è lui stesso:
in ciò consiste la libertà civile. Il principio del Demagogo è la
libertà sensibile, e l’eguaglianza materiale. Il principio dello Stato
moderno è la libertà ragionevole, l'eguaglianza assoluta, ideale.
Egli è perciò che lo Stato limita e nega la libertà del Demagogo e del
Prete, e li pone tutti e due fuor dello Stato — né elettore né eleggibile
— e fuor della scuola — né maestro pubblico, né insegnante privato.
Il giornale è una scuola, e non può quindi godere una libertà
illimitata. Ogni cosa ha il suo limite nella sua propria natura, e la
libertà ha il suo limite nella natura dello Stalo. Questa è la libertà
vera e buona, perchè concreta: la libertà indefinita, astratta, è
la stolta, .assurda, micidiale e pestifera; e perciò lungi da noi.
La libertà non appartiene che alla libertà. Solo quella stampa, queir
insegnamento, e quella qualunque siasi attività dee poter liberamente
agitarsi e spiegarsi nella sfera dello Stato, che ne osserva e
professa il principio generale, e vive dello stesso elemento assoluto. La
religione, l'arte, la scienza non sono assolutamente libere che nel
proprio elemento, e nella loro sfera speciale, e qui lo Stato non può,
non dee, non ha facoltà di mettere il piede. E però quando io vedo un
Ministro chiuder la bocca a un insegnante né demagogo né prete, ma
liberale, perchè professa delle particolari idee che in un certo
mondo — Dio sa che mondo — non sono ricevute ed accettate; io lo rispetto
troppo per dir eh' egli abusa delle sue facoltà, ma dico che varca il
limite, ed oltrepassa la sfera dello Stato : dico che agisce in nome di
un principio particolare, religioso o scientifico, io non lo so; so
soltanto che non è il suo; e non ha come Stato facoltà di porvi la mano:
e che il Ministro mi scusi, e mi perdoni il Consiglio Superiore.
Lo Stato non è adunque che la possibilità effettiva e naturale
della vita artistica, della società religiosa, e della pura attività
scientifica. La sua funzione consiste nel renderle tutte e tre possibili
mediante l'Istruzione e la Pubblica Educazione ; ma non ha ufficio, e non
può altrimenti intervenire nell'arte, a promulgar le leggi del gusto, e
prescriver la rettorica e la poetica mediante decreto: e così non può
decretare la verità religiosa. Non vi è, non vi può essere, una religione
dello Stato: cotesto è un controsenso, un non senso, un errore. Sent
from the all new AOL app for iOS Opere di M. Studi su M. - Opere ed
articoli che a lui accennano - Recensioni di suoi scritti » La vita e la storia del pensiero di M. . La
famiglia e i primi anni Nel R. Collegio di Chieti La vita intellettuale a
Napoli Le scuole private. Gli studi letterari, filosofici, scientifici M. a
Napoli. I suoi studi. La sua scuola privata . Gli avvenimenti a Napoli Le vicende di M.. Il processo e l'esilio. La
dimora in Francia. Il De Meis medico A Torino «quando l' Italia era colà » . M.
e i suoi amici: SPAVENTA, SANCTIS, MARVASI. La corrispondenza col De Sanctis.
L'attività intellettuale di M. e la sua metempsicosi; M., professore
all'Università di Modena. Il ritorno a Napoli M. a Bologna. L'insegnamento. La
vita famigliare, sociale e politica. La morte. Il testamento La personalità di
M. Lo svolgimento del suo pensiero. Perchè la sua opera è frammentaria I
momenti di sviluppo del pensiero di M. Il Dopo la laurea. La storia della
filosofia esposta dal M.. L'antichità o il periodo dell' oggettivismo. Il
passaggio dall' oggettività alla soggettività. La filosofia moderna o
soggettiva La filosofia hegeliana giudicata da M. Rapporti fra medicina e
filosofia. La medicina hegeliana . Influenza dell'hegelismo sulla scuola medica
napoletana. M. e gli altri hegeliani di Napoli. Limite tra la fisiologia e la
metafisica, Le opere scientifiche e la filosofia della natura. .Il Dopo la laurea
e l’orientamento filosofico. Gli scritti scientifici, Lettere geologiche sul M.
Majella negli Abruzzi, Sul sessualismo e la fecondazione delle piante in
coerenza alle dottrine della morfologia, Saggio sintetico sopra 1' asse
cerebro-spinale e la diagnosi delle sue malattie per rispetto alla loro sede.
Intorno l'asse cerebro-spinale. Considerazioni anatomiche sul salasso locale
Teoria dell'ascoltazione Dello stato e del carattere attuale delle scienze
naturali; Nuovi elementi di fisiologia generale speculativa ed empirica; Del
principio vitale; Idea della fisiologia greca; Le opere scientifico-filosofiche; Idea
generale dello sviluppo della scienza medica in ITALIA nella prima metà del
secolo. Del metodo delle scienze mediche ( Considerazioni sopra l'infiam.
Il momento rivoluzionario e il momento moderato del De Meis. L'evoluzione
delle sue idee politiche e la trasformazione del partito liberale italiano li.
L* idea dello Stato. Lo Stato come campo libero all' arte, alla religione, alla
scienza e alla filosofia. Lo Stato e l'indi- viduo. Stato e nazione. Stato
oggettivo e Stato soggettivo. Il limite dello Stato; L'idea della sovranità. Il
culto per la dinastia Sabauda .La lotta contro il pensiero e contro 1' azione
del partito progressista. Il suffragio universale e lo scrutinio di lista. II
giurì. La legislazione e le ingiustizie sociali. Il socialismo secondo M. Contro l'abolizione della pena di morte Il
divorzio. La donna I rapporti fra lo Stato e la Chiesa. L'abolizione delle cor-
porazioni religiose. Le corporazioni religiose e l' insegnamento. Le spese del
culto e i culti non cristiani. L' Italia e il papato; Lo Stato e l'istruzione
pubblica. Insegnamenti obbligatori e insegnamenti facoltativi. I tre gradi di
ogni insegnamento scien- tifico. Le facoltà universitarie. Il liceo Magno e l'
istituto tecnico inazione dei vasi
sanguigni. I mammiferi. Fisiologia. Prelezione
al corso di fisiologia dato nella R. Università di Modena nell'anno scoi.
Gl'ippocratici e gli antippocratici Lettere fisiologiche Le opere
scientifico-filosofiche La jatrofilosofia. La medicina sperimentale. La
medicina storica o razionale. La medicina religiosa. La natura medicatrice. La
patologia storica IV. Jlncora il terzo periodo. La filosofia della natura. La
creazione secondo M.. La lotta di M. contro la teoria darwiniana. Il suo metodo
trimorfo. La dimostrazione dei suoi principi. L' accidentale e il necessario
nella sua concezione filosofica. Le idee politico-sociali e pedagogiche. medico. L'insegnante unico. Gli esami. La
libertà d'insegnamento. I malefici della cattiva coltura e di Mazzini. Due
discordi Sacerdoti d'idee: M. e il Mazzini. Le idee estetiche e religiose. La
coltura letteraria. Il suo stile. Il suo epistolario. I suoi giudizi sulla
terminologia scientifica, sulla lingua italiana, sull' affratellamento delle
lingue e sull' uso del fran- cesismo. M. critico letterario II. La profonda
religiosità del De Meis. La sua negazione di un Dio personale e la sua critica
del Dio cartesiano, dell' antinomia kantiana e dei dogmi dei Santi Padri. Il
suo giudizio sui culti non cristiani, sul cristianesimo e sulle varie forme di
esso III. La «metempsicosi» dell'arte e della religione nella filosofia secondo
M.. La storia del genere umano: oriente, antichità, tempo moderno o
cristianesimo. Il tempo moderno : medio evo, risorgimento, secolo XIX. Il mondo
latino e il germanico. Il risorgimento o negazione e i suoi prodotti : il
romanzo, la filosofia positiva, la musica. Il secolo XIX e l' unificazione di
tutte le correnti umane. La religione e l'arte considerate come gradi e forme
del vero. Valore degli argo- menti storici e logici addotti da M. Ottimismo e
misticismo del De Meis. Rapporti tra il suo hegelismo e il suo misticismo e la
sua mentalità scientifica. Significato e valore della sua filosofia della
natura. Lettere geologiche sul Monte Majella negli Abruzzi, nel Lucifero,
Gior- nale scientifico - letterario - artistico - industriale, Napoli, Filippo
Cirelli, Anno IV, Uomini utili alla società: Samuele Pierantoni, nel giorn. //
Vigile di Chieti, Sul sessualismo e la fecondazione delle piante in coerenza
alle dottrine della morfologia. Memoria letta alla classe fisico-matematica
della Reale Ac- cademia bavara delle scienze dal Prof. Martius, dal tedesco
voltata in italiano da M., nel «Filiatre-Sebezio» Giornale delle scienze
mediche diretto e compilato dal cav. Salvatore De Renzi, Napoli, Tip. del
Filiatre-Sebezio, Saggio sintetico sopra l'asse cerebro-spinale e la diagnosi
delle sue malattie, per rispetto alla loro sede di A. C. De Meis socio
dell'Accademia degli aspiranti naturalisti e medico aggiunto dello Spedale
degl'Incurabili. Presentato al 5° congresso degli scienziati italiani -
convocato in Lucca. Na- poli, Coster.
Intorno l'asse cerebrospinale. Memoria di Giuseppe Meneghini tradotta
dal latino da A. C. De Meis per cura e per uso dello studio privato del prof.
Pietro Ramaglia, Napoli, Barnaba Cons, Considerazioni anatomiche sul salasso
locale, presentate al VII Congresso degli scienziati italiani celebrato in
Napoli, Napoli, Stab. Coster, Teoria dei fenomeni acustici della respirazione,
Napoli, F. Vitale, [Dedicato a Luigi La
Vista]. Teoria dei fenomeni acustici della circolazione, citato dall'Autore in
Teoria dell'ascoltazione, Torino, Pomba, p. Vili [La Teoria dell'ascoltazione
(v. infra) riunisce sotto un titolo comune questa dissertazione e la
precedente]. Dello stato e del carattere attuale delle scienze naturali.
Discorso di M. presidente dell'Accademia dei naturalisti di Napoli - detto
nella pubblica adunanza, Napoli, Stab. tip. all'insegna dell'Ancora, M.
deputato di Abruzzo Citra agli elettori della sua provincia, Napoli. Discorso
inaugurale di A. C. De Meis neli'assumere l'ufficio di rettore del Collegio
Medico. Pronunziato e pubblicato dagli
alunni del Collegio Medico, Napoli, F. Vitale, Proposta di un nuovo sistema di
insegnamento pel Collegio Medico. Napoli, Federico Vitale, Discorso di A. C. De
Meis ex-rettore del Collegio Medico nel deporre il suo ufficio, Napoli,
Vitale, Nuovi elementi di fisiologia
generale speculativa ed empirica. M. già deputato al Parlamento. [Manifesto].
Nuovi elementi di fisiologia generale speculativa ed empirica di M. già
deputato al Parlamento Nazionale. Del principio vitale. Napoli, F. Vitale,
Lezioni orali, raccolte per cura degli uditori ed amici dell'Autore, e, lui
assente, da essi pubbli- cate ». (Cfr. la bibliografia che precede la Teoria dell'ascoltazione,
To- rino, Pomba). Sono nove lezioni, dedicate a Pietro Ramaglia].
Chiarimenti al teorema di Hamberger sull'azione dei muscoli intercostali,
Napoli, Fisiologia generale. Evoluzione
logica del principio vitale. Idea della fisiologia greca per A. C. De Meis
ex-deputato, Napoli, Stab. tip. all'insegna dell'Ancora, [Dodici lezioni in
conti- nuazione dei Nuovi elementi ecc.]. Teoria dell'ascoltazione, Torino,
Cugini Pomba e comp. edit., Idea generale dello sviluppo della scienza medica
in Italia nella prima metà del secolo. Note di A. C. De Meis. Torino, Tip.
Pavesio e Soria. [Dedicate alla memoria di Luigi La Vista e di Casimiro De
Rogatis]. Del metodo delle scienze mediche. Lettera al professore Carlo
Demaria, To- rino, in Giornale della R. Accademia medico-chirur- gica di
Torino, anno VII, voi. XX, Torino, Favale Considerazioni sopra l'infiammazione
dei Vasi sanguigni nel Giornale della R. Accad medico-chirurgica di Torino,
Tip. di G. Favale e Compagnia, Torino,Torino, Torino, [Nella seconda, nella terza e nella quarta
puntata il titolo è : Considerazioni sopra la flogosi dei Vasi sanguigni. Nella
quinta puntata e nelle successive il titolo è : Considerazioni critiche sopra
la flogosi ecc.]. / mammiferi,Torino,Tip. del Picc. Con. d'Italia. L'opera è
preceduta da un'affettuosa lettera dedicatoria « al professore Francesco De
Sanctis a Zurigo. Sulla copertina dei Mammiferi si legge: « Quest'opera si com-
porrà di tre volumi : il primo conterrà YIntroduzione, il secondo i Generi, il
terzo le Specie dei mammiferi, e sarà pubblicata a fascicoli di circa 5 fogli a
ragione di centesimi trenta per ciascun foglio. Tutta l'opera sarà composta di
circa 70 fogli... »]. Fisiologia, Torino, Franco, Estratto dalla Nuova
enciclopedia popolare del Pomba). Gl'ippocratici e gli antippocralici,
nella Rivista contemporanea, Torino, dalla Società l'Unione tip. editrice,
Lettere fisiologiche. Lettera I, nella Rivista contemporanea, Torino, dal-
l'Unione tip. Editrice. Definizione della vita], . [Il De Meis, sotto la data
di Modena, espone l'idea del corso di fisiologia iniziato in quella Università
« e che con dispiacere sono ora costretto ad interrompere ». Cfr. infra:
Prelezione al corso di fisiologia ecc.]. Agli elettori di Manoppello, (ppNapoli
Prelezione al corso di fisiologia dato nella R. Università di Modena nel-
l'anno scolastico Napoli, Stabil. tipogr. di T. Cottrau, Il Collegio Medico-chirurgico di Napoli e la
« Monarchia nazionale », Na- poli, Stab. tip. F. Vitale, [Polemica anonima
contro il giornale la Monarchia nazionale. Reca la data del 2 gennaio 1862].
Degli elementi della medicina, Prelezione di M. professore di storia della
medicina nella R. Università di Bologna, Bologna, Monti, Della natura
medicatrice. Lettera prima al prof. Cesare Taruffi, in Bullettino delle scienze
mediche pubblicato per cura della Società medico-chirurgica di Bologna. Bologna,
Tipi Gamberini e Parmeggiani, La chimica fisiologica, Lettere, Fano, nel
giornale L'Ippocratico). [Sono due lettere: I. La vita; La chimica inorganica.
- l De Meis si era proposto di scriverne dodici, e di pubblicarle pei tipi del
Le Monnier. Questi insistette molto, anche per mezzo di Marianna
Florenzi-Waddington, per averle dall'Autore ; ma invano]. / naturalisti,
Dialogo 1°, nella Civiltà Italiana, Firenze, Niccolai, dir. da A. De
Gubernatis, La natura a volo d'uccello : Forza e materia, Dialogo, nella
Civiltà Italiana, Firenze, Niccolai, dir. da A. De Gubernatis, La natura a volo d'uccello: Un nuovo corpo
semplice, Dialogo, nella Civiltà Italiana, Firenze, [Questo dialogo e i due pre- cedenti sono
citati nei “I Tipi animali” col titolo: “I tipi naturali.” De Meis
deputato di Chieti ai suoi elettori, Bologna, Monti,Reca la data: Bologna tipi
VegetaU. Ad uso delle scuole italiane, Bologna, Monti,[È, dedicato alla
contessa Teresa Gozzadini]. Lettere [il testo: lettera] sulla patologia
storica. Lettera I. Si dimostra che l'uomo era in origine assolutamente sano.
Estr. dal Bull, delle scienze mediche di Bologna, Delle prime linee della patologia storica,
Prelezione al corso di storia della medicina per M., Bologna, Monti, Il sovrano, nella Rivista bolognese,
periodico mensuale di scienze e letteratura, compilato da Albicini, Fiorentino,
Siciliani e Panzacchi, Bologna, Monti, [Ristampato, con notizie e documenti
della polemica a cui lo scritto diede luogo tra Carducci e Fiorentino, da CROCE,
nella Critica, Vili Dichiarazione nella Gazzetta dell'Emilia, [Si riferisce alla polemica ora accennata. Fu
pubblicata anche nel giornale La Patria di Napoli, a. Vili; e fu ri- stampata
dal CROCE, nella Critica, Vili sovrano. Al signor G. B. Tahiti. [Articolo Il|,
nella Rivista bolognese, Bologna, Monti,
[È una lettera, con la data: Bologna. Dopo la laurea - Vita e pensieri [parte
prima|, Bologna, Monti, Bologna, Monti, Le prime cinque lettere erano state
pubblicate qualche anno prima nel giornale L'Ippocratico di Fano. L'Intermezzo
pubblicato nella Rivista bolognese, prima della pubblicazione del volume]. La
natura medicatricc e la storia della medicina, Lettera al prof. Salvatore
Tommasi, Bologna, Monti, (Estratto dal fase. 8° della Rivista bolognese,
Bologna. [Fu pubblicata anche nel Morgagni, Della medicina sperimentale,
Prelezione, Bologna, pubblicata anche nel Morgagni di Napoli, Lo Stato, nella Rivista
bolognese, Deus creavit, Dialogo I, nella Rivista bolognese, Della utilità
dello studio della storia della medicina, [Prelezione], Estratto dalla Rivista
Partenopea Testa e Bufalini. Lettere IV, Fano, Lama, 1870 (estr.
dall'Ippocratico). Sintesi ed episintesi, Prelezione, Bologna, Monti,
Pubblicata sotto il titolo di « Prelezione » nei Tipi animali. I tipi animali, Lezioni, [parte prima],
Bologna, Monti, [La Prelezione era 3
stata pubblicata prima (v. Sintesi ed episintesi). La lezione fu pubbl. nel Giornale
napoletano di filosofia e lettere, dir. da Spaventa, F. Fiorentino e V.
Imbriani, col titolo: I tipi animali (Da Linneo a Darwin)]. Prenozioni,
Bologna, Tip. di G. Cenerelli, Del concetto della storia della medicina,
Prelezione, Bologna, Monti, La medicina religiosa, Prelezione, Bologna,
Monti,pubblicata anche nel Giornale napoletano di filosofia e lettere, scienze
morali e politiche, diretto da Fiorentino). All'onorevole signor commendatore
Gaspare Monaco La Valletta senatore del Regno, presidente dell'Associazione
costituzionale di Chieti, Bologna, Monti, [È, una lettera, con la data:
Bologna, Il canonico di Campello e la
stampa tedesca, nella Gazzetta dell Emilia,
[Anonimo. Si finge tradotto dal tedesco]. La malattia dell' on. Sella,
nella Gazzetta d'Italia, [giorn. di Firenze],
[Anonimo]. Agli elettori del 1° Collegio di Chieti, Bologna, Monti,
Filosofia e non filosofia, Discorso inaugurale per la riapertura degli studi
nella Imperiale Accademia di Krenztburg del dott. E. K. Mayow, prof, di zoologia
in detta Università, tradotto dal tedesco, Bologna, Monti, Francesco De Sanctis, Bologna, Fava e
Garagnani [Estratto dai nu- meri 8-11 della Gazzetta dell'Emilia, opuscolo di
pp. 18, in -16°, firmato « Camillo ». Ristampato nel volume In memoria di Fr.
De Sanctis, Na- poli, Morano, XVII Spaventa [Necrologia di], nella Gazzetta
dell'Emilia (Monitore di Bologna). Fiorentino, Necrologia, Bologna, Fava e
Garagnani, [Estratto dalla Gazzetta dell'Emilia, Opu- scolo. Spagnolismi e
francesismi. Note di Ange i Antonio Meschia maestro elementare in Zangarona
Albanese, Bologna, Monti. Darwin e la scienza moderna, Discorso del prof.
Camillo De Meis per la solenne inaugurazione degli studi nella R. Università di
Bologna nell'anno scolastico, Bologna,
Monti. [Stampato anche neWAnn. della R. Univ. di Bologna]. Rialzare gli studi,
Estratto dal giornale L'Università, Bologna, Società Tip. già Compositori, (pp.
12, in -8°). Repubblica o monarchia (Da un album), nel Sancio Panza, Bollettino
quo- tidiano di Bologna, stampato e redatto nella sede dell'Esposizione
Emiliana, N. Primo; segue una polemichetta nel giorn. cit. numeri [La pagina d'album e la polemica furono
ripro- dotte in un opuscolo, edito a Bologna, Fava e Garagnani,]. Corso di
storia della medicina nella Università di Bologne - Appunti sul- l'introduzione
al corso e sulla medicina orientale, nell'Università, Bo- logna, A. Idelson, .
[Uscì pure in un opuscolo, estratto dall'Università, Bologna, Azzo- guidi].
Lettere di M. a Spaventa, pubbl. da G. GENTILE, Napoli, Melfi e Joele, 1901,
per nozze Salza-Rolando [Tre lettere ed un telegramma di M. sono state
pubblicate in Maria Teresa di Serego-Allighieri Gozzadini, seconda edizione
ampliata con pref. Di CARDUCCI, Bologna, Zanichelli, (la prima è la dedicatoria
dei Tipi vegetali); una lettera da G. CANEVAZZI, Autografi inediti pubblicati
per le auspicatissime nozze del tenente nobile Orazio Toraldo di Francia con la
gentile signorina Gina Mazzoni, celebrate in Firenze il III luglio MCMXI,
Modena, Soc. tip. Modenese. Altre lettere di M. sono state pubblicate da CROCE
nel volume Silvio Spaventa - - Lettere scritti documenti, Napoli, Morano, 1898;
e negli articoli su // De Sanctis in esilio - Lettere inedite, nella Critica,
ed una in FRANCESCO De SANCTIS, Lettere da Zurigo a Diomede Marvasi, Napoli,
Ricciardi, Il Croce preparava anche, sin dal 19i4 ('), un florilegio del
carteggio inedito del De Meis per gli Atti dell'Accademia Pontaniana. Molte
lettere del De Meis sono possedute da Bruto Amante, e saranno probabilmente pubblicate
a spese del Consiglio Provinciale di Chietij). La religione cristiana è già
distrutta nel mondo civile latino. Vive solo nell'ancor barbaro mondo
germanico. La riforma è il secondo medio evo germanico. Il soprannaturale non
illude più. All'epica religiosa del medio evo, ed all'epica giocosa del
risorgimento, parodia generica del -- Questo pensiero risulta dalle pagine del
Dopo la laurea, pur senza esservi enunciato esplicitamente, e chiarisce
le apparenti contraddizioni notate dal GENTILE, La filosofia in Italia, Le
idee estetiche e religiose -- soprannaturale nel principio, poi caricatura
smaccata e cinica della religione, succede la drammatica senza
soprannaturale. La distruzione è compiuta in Italia; in Francia
erano irreligiosi i pochi uomini colti, ma la nazione era incolta, e per
questo la riforma potè attecchirvi, come vi attecchì nel secolo XVII il
giansenismo, una riforma mitigata; ma nel secolo XVIII la Francia, divenuta
centro di coltura, fu anche centro di incredulità. Il secolo XVIII è
il secolo della filosofìa sofistica e negativa. Alla tragedia di Voltaire,
priva di vita poetica quando ha per fine l'irreligione, ed a quella dell'
Alfieri, in cui tutto è umano e naturale, succede la lirica moderna, che
non lascia alcun margine fra sé e l'assoluta riflessione, e giunge
all'ultimo limite della poesia. Anche in Germania, in parte per
riflessione spontanea e in parte per influenza del risorgimento italiano
divenuto sudeuropeo, si è iniziato il risorgimento, che DIFFERISCE DAL LATINO
in quanto non è la semplice rappresentazione del naturale, ma la
negazione del soprannaturale, rappresentata e sviluppata nelle sue
conseguenze. Secondo M., i due risorgimenti, IL LATINO e il germanico,
che già nel sec. XVII reagivano l'uno sull'altro, si fondono in un solo
risorgimento, un solo mondo di poesia e di pensiero, in cui la religione,
divenuta indifferente, è appunto per questo perfettamente
tollerata. E a questa fusione delle due Europe in una sola Europa
spirituale seguirà certo fra non molti secoli la fusione in una sola
Europa giuridica e politica. Il secolo XIX durerà finché duri
l'uomo. S'inizia nel secolo XVII, quando a lato a Bacone — che mettendo
fin da principio fuori causa lo spirito non lo ritrova più in seguito, e
nega la possibilità di conoscerlo, consolidando la opera del risorgimento
negativo, — sorge Cartesio, che con
[Dopo la laurea, [Le idee estetiche e religiose.] verte subito il dubbio
nell'intima certezza di sé, del pensiero del suo pensiero, Il vangelo di Gesù è
quello del cuore, il vangelo di Giovanni quello della fantasia, il
Discorso del metodo è il vangelo dello spirito. Tu es Petrus. Il cogito
cartesiano è la pietra su cui sorgerà la vera Chiesa cattolica, un
edifizio che avrà le proporzioni dell'universo ed accoglierà tutto il
genere umano, destinato a formare un solo ovile sotto un solo pastore, il
pensiero. Dopo Cartesio, il moderno Anassagora, viene Kant, il Socrate
moderno, che leva di mezzo la metafìsica e la natura, e parla dello
spirito, uno spirito fenomenico sì, ma dal quale egli fa scaturire la vita, la
virtù, la morale, attribuendo alle cose dello spirito un pregio infinito.
Vero è che questo infinito, questo divino, questo assoluto e universale
non è che individuale. Ma solo per Socrate. Dopo di lui viene Platone —
leggi FICHTE —, che con profonda intuizione vede come l'universale e il particolare
di Socrate si compenetrino in una sola unità. E dopo Platone viene
Aristotele, viene Hegel, che nulla concede alla intuizione e alla fantasia,
procede con rigore, esattezza e precisione, tanto che il suo regno
non durerà solo diciotto secoli, come quello dell'antico Aristotele, ma
diciottomila, o meglio finché duri questo attuale genere umano.Hegel,
ponendosi nella posizione di Cartesio, rifa per intero il processo della
conoscenza e trova il processo della creazione. Questo grande
movimento, che si compie nel nord, si era iniziato nel sud; ma il sangue
di BRUNO (si veda) era stato versato invano ed VICO (si veda) non era stato compreso da nessuno, [Pel
giudizio di M. circa il sistema cartesiano, v. qui addietro, ; e cfr. Cfr.
qui addietro, V. Dopo la laurea,
Le idee estetiche e religiose.] un po' per colpa del papato e
molto più pel carattere delle loro creazioni, che sono intuizioni isolate
del genio, più che momenti di uno sviluppo storico ordinato e
necessario. La storia della filosofia moderna è una storia tutta
settentrionale. La Germania è la nuova Grecia europea. Nel MONDO LATINO non
giunge che tardi l'eco indebolita e sfigurata della grande filosofia.
Cartesio, il padre della filosofia moderna, non procede da BRUNO, non è
inteso da VICO, né da GIOBERTI finché egli non si e “spapificato. Spinoza fa
rabbrividire l'Italia e la Francia. M. ritene che a Napoli si fosse
sempre conservato, in mezzo al risorgimento, un fil di tradizione di
BRUNO e di VICO: la quale, così guasta e superficiale come era diventata
nelle mani degl’avvocati, pure erstata bastante a farne un paese a parte;
ma crede che i germi gettati dalla filosofia italiana avessero
germogliato in Germania. SPAVENTA si era molto preoccupato del problema
della filosofia nazionale. E M. accoglie in questo proposito l'opinione del suo
Bertrando, da lui ritenuto il primo filosofo vivente dell'Italia, e forse
di tutta l'Europa, la Germania inclusive
Ora che la storia della filosofia moderna sia concentrata tutta
esclusivamente nella sola Germania — concedendo soltanto un posto al cogito
cartesiano — è una opinione che Spaventa, e a traverso Spaventa M.,
accettano dai romantici tedeschi. Ad essi, e a tutti coloro che hanno
fede assoluta di essere nel vero, il nostro Autore rassomiglia anche in
questo, che il valore di ogni singolo filosofo è per lui in ragione
diretta della distanza che lo [SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue
relazioni con la filosofia europea, a cura di G. GENTILE, Bari, Laterza, e
Frammenti di studi sulla filosofia italiana nel secolo XVI, nel Monitore
bibliografico di Daelli, Torino, V. Dopo
la laurea, Le idee estetiche e religiose.] separa dalla sua propria concezione.
Caratteristici in questo proposito i giudizi circa SERBATI e la
evoluzione del pensiero giobertiano. Dopo Hegel, secondo M., religione e
poesia cedono in Germania il posto alla teologia e all'estetica.
Nel MONDO LATINO la tradizione cartesiana si è dispersa; è rimasto
padrone del campo il risorgimento sofìstico, ateo e negativo. Ma l'uomo
non può vivere senza un Dio, e il tempo moderno, quando il risorgimento ebbe
distrutta la religione cristiana, si volge al passato, al medio evo sacerdotale
e simbolico, e moltiplica gli sforzi per creare una nuova religione. Sforzi
vani, che la religione cristiana, religione di Dio, del vero spirito,
della sua trinità, della sua umanizzazione, è l'ultima di tutte le religioni, e
solo potrà trasformarsi e purificarsi. Mentre questi vani sforzi si
compiono nella Germania volgare — non in quella pensante —, nel sud, dove
un elemento pensante manca, la parte più elevata, non però pensante e moderna,
tardivamente inaugura il secolo XIX: è un secolo XIX non filosofico,
perchè non è rischiarato che da un debole raggio di riflessione ; è
pseudo-religioso e pseudo-poetico; si apre col Concordato e col Genio del
Cristianesimo, parti infelici della riflessione travestita da immaginazione. La
riflessione, non avendo piena coscienza di sé come nel mondo germanico,
coesiste nel MONDO LATINO a fianco alla poesia; e dà origine ad una
pseudo-epopea, al romanzo, genere ibrido, anfibio, tra la storia e la
finzione, tra la poesia e la prosa, tra l'arte e la scienza. Il
romanzo, genere equivoco, compare per la prima volta nel principio
del secolo XIX dell' antichità, ricompare nel nostro se [Dopo la laurea,
[Dopo la laurea, Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] e rinasce in
Germania, col Goethe, genio equivoco, tra la poesia e la prosa, in cui
l'universo si riflette tutto intero; si sviluppa in Inghilterra, paese
equivoco, tra latino e germanico, e raggiunge la sua perfezione in Italia,
paese equivoco anch'esso, mezzo liberale e poetico e mezzo prosaico e
papale, e precisamente in un uomo, come Goethe a cui somiglia, equivoco:
MANZONI. Si osservi che M., una volta stabilito che il romanzo è un
genere equivoco, trova che sono equivoci tutti gl’individui e tutti i
popoli presso i quali il romanzo fiorisce, prendendo — si noti — la parola
equivoco nella accezione di misto e complesso, sì che ad ogni popolo e ad
ogni individuo potrebbe indifferentemente applicarsi. Dopo Scott e MANZONI,
il romanzo perde il carattere epico, e diventa sempre più storico,
riflessivo e prosaico con l'Hugo e con la Sand, finché in Kock e
Poe la prosa assorbe ed avviluppa in se la poesia. Nel risorgimento
moderno, come nell'antico, la lotta comincia antireligiosa e finisce
antifilosofica: prima la riforma, uno scetticismo che distrugge 1' Olimpo
cattolico ; poi il deismo, uno scetticismo più progredito; infine
l'ateismo, uno scetticismo assoluto, la pessima delle filosofie. E non
è finita ancora la triplice serie, osserva M., fedele sempre alle
sue triadi. La Germania è per tre quarti protestante; la Francia è
prevalentemente deista, e in parte atea. L’ITALIA HA UNA VENTINA DI MILIONI
D’ANALFABETI, TUTTI PAPO-TEMPORALI; i semi-analfabeti sono in gran parte
demagoghi. Il risorgimento produce quella filosofia che è la
bestia nera di M., la filosofia positiva. E la filosofia che gli ha
preso fra i suoi artigli, strappandolo alla fede hegeliana, un caro amico —
rimasto tale malgrado la irreconci[Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] liabile
opposizione delle opinioni filosofiche. Villari, al quale così frequenti e
amichevoli frecciate sono dirette nel Dopo la laurea; e la filosofia che
accoglieva la teoria dell'evoluzione del Darwin; e la filosofia
opposta alla hegeliana nel principio, nella essenza, nel metodo.
Mai M. si lascia sfuggire una occasione di combatterla : trova che
la filosofia scettica dichiara irraggiungibile la natura delle cose; ma la
filosofia nuova, la filosofia positiva o iperscettica, non ne fa neppur
materia di dubbio o di discussione, ed è una filosofia dell'apparenza, cioè una
filosofia antifilosofica. Il risorgimento iperscettico non può
trovare la verità, perchè ha l'occhio sempre rivolto alla natura
esterna, e non mai alla natura interna, al pensiero dell'uomo, che
è la verità stessa. Secondo M., la filosofia sedicente positiva è
di fatto negativa, poiché nega il negabile, la conoscenza dell'essenziale, e
non pone che la conoscenza dell'apparente, del reale e dell'accidentale, che
nessuno ha mai pensato a negare. Questa pseudo filosofia si sviluppa
come la vera. Il primo atto è il principio. La scena è in Italia: TELESIO
scopre l'apparenza come principio. Il secondo atto è il metodo. La scena
è dapprima in Italia, poi in Inghilterra; il metodo galileo-baconiano, ovvero
induttivo sperimentale, ha due parti: la descrizione e la legge dei
fenomeni. Il terzo atto è il sistema, che ha pure due parti: la
classificazione e la filiazione dei fenomeni. La filosofia positiva
è una terza corrente, che si caccia fra la corrente poetica e la
filosofica, ed è il sangue della [Dopo la laurea, passim; cfr.
VlLLARI, La filosofia positiva e il metodo storico, nel Politecnico di
Milano; e SPAVENTA, Scritti filosofici, nota, per quanto si riferisce alle
critiche mosse a questa pubblicazione dal WYROUBOFF, dal MAIANI, dal
FIORENTINO, dal TOCCO. Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose] filosofia;
l'osservazione e l'esperienza ne è lo stomaco; l'induzione baconiana il polmone
sanguificatore. La legge positiva il torrente della circolazione. Ed essa, la
filosofia, è il cervello, in cui il sangue positivo diventa anima e
pensiero speculativo. Giorno verrà in cui lo stomaco baconiano non
avrà più nulla a digerire, né il polmone a respirare; e la natura
divenuta tutta sangue circolerà dentro dell'uomo. Allora questa terza corrente,
tutta e sempre prosaica, sarà divenuta un mare, ed avrà confuse le sue acque
col mare della religione, della poesia e della filosofia. La terza
parte del gran dramma della filosofia cristiana è il tempo nuovo. Dopo la
riflessione negativa del risorgimento, la filosofia moderna, come ogni
filosofia, muove alla ricerca di un principio. Il nuovo Talete è BRUNO;
il nuovo Pitagora è Leibnitz. Per passare dal naturalismo dinamico di
BRUNO e dal neo-pitagorismo e, per così dire, dall'atomismo ideale
leibnitziano, dal principio naturale al principio umano, occorre un nuovo
Anassagora, e venne Cartesio. Il principio cartesiano, come tutte le cose del
mondo, nasce non perfetto; in Cartesio è uovo o tutt' al più embrione. Il
secondo atto della filosofia moderna si volge al metodo. Nel perfezionare
il metodo antico, l'antica dialettica, proporzionatamente alla più perfetta
natura del principio moderno, e nell' esplorare più completamente il principio,
consiste il lavoro del secondo atto del secolo XIX, che termina poco dopo
la fine del secolo XVIII. L'atto terzo è il sistema, è il principio di
Cartesio e dello Spinoza, del Kant e dello Schelling, corretto e
metodicamente sviluppato. Ed è nella sua essenza, se non nella sua esecuzione,
il sistema più compiuto e perfetto, ne altro ve ne potrà mai essere in eterno.
Il principio è il germe e l'assoluta possibilità dell'universo, ed è
quindi uno, come uno è l'universo; tutti [Cfr. qui addietro, Le idee estetiche e religiose. i
principi a traverso ai quali la riflessione greca è passata non sono che
le forme e i gradi della sua cognizione. E uno è per conseguenza il
metodo : e quando si giunge a un punto nel quale il principio contiene in
se il tutto % e il metodo si confonde col processo evolutivo del principio,
e il sistema è il tutto spiegato; quando la filosofìa giunge a
comprendere il creante e il creato in un attivo processo di
creazione, non ha più dove andare, a meno che non voglia
indietreggiare, come fa la Grecia dopo Aristotele, o uscir dell'universo.
E se il tempo moderno non vuole indietreggiare, bisogna che si
contenti del suo nuovo Aristotele. Non è possibile un terzo Aristotele,
perchè il tempo antico ha ricevuto nel moderno il perfezionamento
essenziale, il solo di cui fosse capace : di oggettivo è diventato soggettivo,
di totalità immobile vivo processo di cognizione e di creazione. Vivo di
riflessione filosofica, non d'immaginazione. Un sistema, per concreto che sia,
è sempre un'astrazione, e l'astrazione è la morte dell'anima umana.
L'anima vive finché la fa, ma quando l'ha fatta, quando della realtà vivente,
ossia di se stessa, ha composto quell'estratto che si chiama pensiero
filosofico, allora l'azione si arresta, e con l'azione è finita la vita.
Quando Aristotele creato un grande sistema, perfetto e compiuto per
l'antichità, lo spirito antico vi si chiude come in un sepolcro per
secoli ; e torna alla vita solo quando ricomincia a sentire e a
fantasticare. Quando la Germania crea il vero sistema del mondo, e recata
la religione cristiana nella forma di un cristianesimo assoluto, allora
la vita si congela nell'astrazione, e lo spirito germanico rimane assiderato.
Ma presto si scuote, e, brancolando nel buio dell'astrazione
hegeliana, trova il risorgimento negativo ed ateo ed il risorgimento
negativo-positivo. Congiungendosi col primo, produce mostri filosofici ed
aborti strani; col secondo la medicina naturali- [Dopo la laurea, Le idee
estetiche e religiose.] stica e la storia naturale materiale. Ma la
Germania materialistica e naturalistica è più morta della Germania hegeliana.
Come la pura riflessione, così la pura contemplazione è la morte. La vita
è pensiero apparente, è unità di riflessione e di contemplazione, di metafìsica
e di filosofìa positiva, di poesia e di filosofìa. La storia universale è
una sequela di creazioni, identiche fra loro quanto al ritmo e alla
legge, sempre più pure e perfette quanto al contenuto, che comincia dalla
pura forma dello spazio, e termina nella forma più pura del tempo.
Ogni creazione ha come fine la creazione successiva ; ciascuna vive
di quella dalla quale nasce e serve di alimento a quella a cui dà
origine, che le si sovrappone e l'avviluppa in se stessa, senza
distruggerla. Così dalla natura nasce il regno vegetale, da questo l'animale,
dall'animale l'uomo finito e particolare, e da questo l'uomo universale.
Tutto questo è il regno umano inferiore, e tutto si spiega nella forma
dello spazio, e coesiste come nella natura. L'uomo di sopra, il regno
umano universale, ha esso pure la sua storia, ed è una serie di
sfere, che l'uria avviluppa l'altra; prima l'arte, poi la religione, poi lo
spirito, che universalizza la natura, e dà valore assoluto e infinito al
particolare e al finito. Tlàvta qsI . Eterna è solo l'idea ed immortale è
soltanto la natura. Come la natura, così l'uomo, lo spirito umano,
natura anch'esso, ha una legge inflessibile e costante. « Sono due nature
diverse, certo, e ciascuna ha la sua legge particolare e propria, ma in fondo è
una natura sola, ed una sola legge naturale. Le forme e gli elementi
naturali ed umani sono del pari indistruttibili, e la legge comune
della loro attività è immutabile: nascere, crescere, decadere e
perire è destino comune agl’uomini, agl’animali, alle piante Dopo la
laurea, I tipi animali, Le idee estetiche e religiose. e ai
sistemi planetari. Ma gl’elementi della natura sono l'uno fuori
dell'altro, e anche quando si combinano non si compenetrano. Quelli dello
spirito sono compenetrati ed intimamente unificati, ne mai si scompagnano nella
realtà, variando solo quanto alla proporzione. E il prodotto piglia forma
e natura dall'elemento preponderante e più attivo. La natura è come una
scala a piuoli. Lo spirito come una scala a corda, che raggiunta la meta
si raggruppa in se stessa. Nell'uomo-cosmos gl’elementi spirituali sono
tutti in uno stato di assoluta quiete e di completa indifferenza. Solo
il genio, l'immaginazione e attiva da principio. Poi entra in attività il
senso. Anche la natura, poiché si muove, deve avere il senso naturale,
nella forma inferiore di senso chimico ed in quella superiore di senso
meccanico. Poi l'uomo di sistema solare si fa pianta. Nella pianta
l'unico elemento spirituale attivo è il senso chimico. Nell'animale v'è
il senso meccanico in nuove forme; v'è un arco diastaltico, di cui
l'impressione, il senso naturale è il primo atto, e l'ultimo è il
movimento, la contrazione; e nel sommo dell'arco cominciano ad entrare in
azione gl’altri elementi umani: immaginazione, sensazione, memoria, e ristretta
in una sfera tutta animale una piccola induzione, e per poco la famiglia
umana, e talvolta la società umana in forma animale. Finalmente
nell'uomo entra in attività la coscienza, la riflessione, e con questa
gli elementi spirituali superiori, la poesia, la religione. Manca la
riflessione della riflessione, la scienza; predomina il senso (vegetale,
animale ed umano). Questo è lo stato naturale di cui parla Rousseau. Nel
secondo tempo l'attività passa alla fantasia, e si conciliano le disuguaglianze
fra gl’uomini. Queste si vanno poi via via accentuando per opera
della riflessione, che si è andata rinvigorendo alle spese del sentimento
e dell'immaginazione. Ma contemporaneamente a questo processo di divisione
e di analisi, si compie nella storia un lavoro di unificazione e di
sintesi. La grande ragione avviluppa la piccola, poiché è sempre la
facoltà superiore che unifica in sé e dà la sua forma alla facoltà
inferiore, da cui riceve in contraccambio LA VITA. Questa seconda
coscienza non è un trovato della odierna metafisica, che anche Aristotele
parla di due vovg, l'uno poietico o attivo, l'altro patetico o passivo ;
e nel secolo XVI qualcuno e arso vivo per aver parlato di quel secondo
spirito. La vera vita dello spirito, unità vivente, è in una moltitudine di
individui ad un tempo ; e però la storia dello spirito si compone di una
successione di grandi unità. Il primo stato embrionale del genere umano è
la natura (M., hegeliano e medico, prende spesso come termine di
confronto l'organismo umano); la vita fetale è il vegetabile e l'animale.
Terza muda è quella dell'uomo positivo, l'infante del genere umano. Egli
con la sua piccola positiva riflessione vede intorno a se un mondo
finito, e si fa un Dio finito e positivo; non soddisfatto di questo breve corso
mortale, senza scopo in se stesso, sogna una seconda vita, ha fede in
essa, ed è religioso. Questa religione, questa fede, si trasforma a
poco a poco in un ideale, in un caro sogno poetico. Poi dalla prima nasce
una seconda coscienza, e l'uomo intuitivo diventa quarta muda l'uomo riflessivo
e intellettuale. La nuova coscienza, mentre si appropria la coscienza
finita e positiva, imprime in tutte le diverse funzioni umane il suggello
della sua infinita unità, pur lasciandole nella loro distinzione naturale;
e così permangono l'agricoltore, l'avvocato, il medico, e via dicendo. Ma nella
sfera superiore le due coscienze si unificano, ed il poeta ed il prete
rimangono assolutamente identificati nel pensatore, perchè una volta
sviluppata la coscienza intellettiva l'uomo non può più deporla per
ritornare uomo positivo ovvero semi-uomo, così come non poteva deporre la
coscienza positiva e tornar ad essere [Dopo la laurea, Del
Vecchio-Veneziani - animale. E la poesia si trasforma in estetica; la
religione in critica e in filosofia. Oggi la poesia non c'è più al
mondo, perchè essa non è una combinazione di fantasia che afferra e
trasforma e di natura afferrata e idealizzata ; ma è una sola unità, « è
l'universo pervenuto a grado di spirito, che inconsciamente si trasforma
e si purifica nella conscia anima di un solo uomo, spettatore più che
autore della sua propria trasformazione ». È un fatto di ragione
che la vita umana comincia con l'assoluta barbarie, col puro senso
materiale e col semplice istinto naturale; e termina nella riflessione
intellettuale, che è la vera vita e l'assoluta e definitiva civiltà. È un
fatto di osservazione e di ragione che si va dall'una all'altra
passando per la forma intermedia della immaginazione. La religione
e l'arte è il regno dell'immaginazione: è una barbarie civile ed un senso
spirituale. L'epica è la poesia immaginativa e barbara, e perciò più
perfetta; la lirica è la poesia riflessiva e civile, e perciò più
imperfetta; la drammatica è la forma intermedia. Essa è più riflessiva
dell'epica, e sviluppa un elemento di questa; è epico- religiosa
nell'antichità, raggiunge la perfezione nel risorgimento, e decade nel
secolo XIX, nel greco-romano come nel latino-germanico, per eccesso
di riflessione. Analogo arco descrive la lirica, che sviluppa un
elemento della drammatica, e, finita come poesia, durerà come lirismo
filosofico finché duri il secolo XIX, ossia finché duri il genere
umano. La poesia sensibile ed oggettiva è la barbarie dello spirito
umano, la filosofia intellettuale e soggettiva è la sua civiltà ; dall'una
all'altra si passa a traverso la forma intermedia della religione, che è
tutt'insieme oggettiva e soggettiva, è sensibilmente intellettuale, è la
barbarie civile dello spirito umano. La religione più barbara, più
naturale, più oggettiva e più epica è la religione indiana; la più
civile, più umana, più soggettiva e più lirica è la cristiana. Tra
la religione epica orientale e la religione lirica occidentale, la
religione passa per una stazione intermedia, la Grecia, e vi prende una
forma intermedia, la forma drammatica. Nella religione indiana troviamo
tutti gli elementi e tutti i caratteri di un sistema religioso completamente
sviluppato; il politeismo greco è la prima caduta della religione, la
quale risorge nel tempo moderno. L'oriente moderno, ossia il medio
evo, pone gli elementi essenziali della religione, che sono quelli stessi
del pensiero, nella vera forma religiosa; l'antichità moderna, ossia il
risorgimento, spezza questa forma; il secolo XIX, il vero tempo moderno,
li pone nella forma di pensiero : invece della riflessione filosofica del
medio evo è una filosofia religiosa. L'oriente è essenzialmente epico;
la Grecia è, nella sua stessa epopea, principalmente drammatica; il tempo
moderno è tutto umano e tutto divino ed è tutto lirico e riflessivo. E
del tempo moderno il medio evo è religioso ed epico; ma è un'epica
lirica, ispirata dalla grande riflessione: tale è la poesia dantesca. Il
risorgimento è irreligioso e drammatico. Il fantastico si cangia nel
meraviglioso; poi il meraviglioso stesso sparisce dalla poesia. Il secolo
XIX è di nuovo religioso ed è tutto lirico: il principio è epico-lirico; poi
viene la drammatica, che comincia storica e finisce cittadinesca e
domestica; e all'ultimo viene una lirica tutta stravolta per voler essere
ultra-poetica. Ormai la riflessione ha superata l'immaginazione; il
sentimento e la fantasia sono stati oltrepassati e ravviluppati dentro
al pensiero; quindi quella del nostro tempo deve essere una poesia
lirica, drammatica ed epica ad un tempo; il prodotto di tutte le facoltà
riunite, la filosofia vivente, poetica e religiosa, la filosofia
dell'universo, cioè dell'uomo. 11 secolo XIX, cominciato lirico-poetico,
termina lirico-prosaicofilosofico-poetico-religioso ed assolutamente cristiano.
La poesia non è morta; ha subita una metempsicosi, uscendo dalla
forma di immaginazione per entrare in quella di FILOSOFIA, e in quella vive ed
eternamente vivrà. La forma e l'elemento della poesia e della
religione è, come abbiamo visto, l'immaginazione. Quando il
risorgimento ha distrutta l'immaginazione, allora il sentimento, che
prima era in germe, assorbe tutto l'uomo e tutta la natura. E sorge
la musica f 1 ), forma di poesia della quale il sentimento è solo
elemento e sola sostanza, e il tempo V unica forma. La musica è l'ultima
delle arti ; la poesia è la prima. Le arti plastiche usano una materia
più naturale, meno ideale, debbono sostenere con questa una lotta più lunga, e
giungono più tardi a perfezione. Viene prima la scultura, poi la
pitiura. Certo la musica è nata, come tutto il resto, con
l'uomo; ma nel medio evo antico è un esercizio secondario, subordinato
alla poesia e alla religione ; nel risorgimento sofistico è bensì
un'arte, ma rimane di gran lunga inferiore alla scultura e alla pittura ; nel
medio evo moderno la musica è epicoreligiosa, e rimane subordinata alla
religione. Solo nel risorgimento moderno la musica si sviluppa, mentre le arti
plastiche decadono: dapprima, nel risorgimento drammatico, la musica non
è che un compimento e un aiuto del dramma ; acquista un proprio assoluto
valore solo nel risorgimento lirico, che è il tempo della negazione del
pensiero, ossia dell'essenziale, e quindi è il tempo del nulla. Questo
vuoto sentimento si traduce in un vuoto suono, che diviene arte e
poesia. La musica è dunque una lirica vacua, è un'arte oltre-lirica, è
l'arte del nulla. È l'ultimo prodotto del risorgimento, ed è quello che meglio
ne scopre il carattere, poiché il fine è il grande rivelatore. Ma il
nulla al quale il risorgimento mette capo, se in apparenza è la fine, in realtà
è il principio, quello stesso dal quale in origine usciva l’universo. Da
quel punto istesso l'universo, ossia l'uomo, rico- [Dopo la laurea] mincia
da capo, tutto intero, in seno alla filosofìa. Questa nuova creazione è
il tempo dell'essere, il secolo XIX, che ha per necessaria preparazione
il risorgimento progressivamente negativo e per divisa: negazione di negazione.
Il secolo XIX nega quel vuoto universo di suoni ; fa della musica quello
stesso che già prima ha fatto della poesia, la dissolve a poco a poco ;
comincia dallo snaturare la musica a furia di sapere e di meditazione,
dando sempre meno alla melodia e sempre più all'armonia, e la riduce ad essere
una scienza musicale. Questo è già avvenuto in Germania, dove
allato al risorgimento scorre il tempo moderno; nell'Europa italo-celtica
prevale ancora il risorgimento lirico, e tocca ormai l'estremo punto
dell'assoluta negazione; già la musica si avvicina al suo limite prosaico
; già il pensiero positivo comincia a sopraffare e ad assorbire il
sentimento e l'immaginazione. Il tempo moderno è la vita che
rinasce dal seno della morte, la fede che spunta dalla negazione. Non il
tempo moderno dell'antichità, perchè sopravviene nell'anima romana,
mentre il dramma del risorgimento si era combattuto nell'anima greca, ma
il vero tempo moderno che è la continuazione e l'adempimento del risorgimento
cristiano. In questo secolo il sentimento dell'umanità, che è un aspetto del
sentimento della natura, prenderà la sua vera forma in una nuova poesia,
nella quale la lirica, la drammatica e l'epica saranno ricomposte in una
unità assoluta e definitiva. L'unificazione non è però avvenuta
ancora nel campo della poesia, né in quello della religione e della
filosofia. La poesia primitiva o naturale, invariabile come la
natura, sussiste presso il popolo analfabeta; e c'è la poesia medioevale
e quella del risorgimento, immodernate e ormai vuote. Così è delle forme
religiose. Analogamente delle forme filosofiche : esiste presso il popolo
apostolico primitivo la filosofia primitiva o religione ; ed esiste pure
la filosofia medioevale, la scolastica, e la filosofia del risorgimento, con
tutte le sue gradazioni progressivamente scettiche e negative e con tutte le
sue forme positive. Abbiamo oggi la massima complicazione di indirizzi e
di forme ; non è però difficile distinguere le diverse funzioni storiche
in atto, né prevedere un continuo avvicinarsi ad una assoluta
unità. A questa teoria di M. si mossero da Silvio Spaventa e
da altri obbiezioni, che possono ridursi sostanzialmente a questa : Come
può lo spirito umano perdere due delle sue funzioni essenziali, l'arte e
la religione? M. risponde che SPAVENTA ha ragione se, basandosi sulla
filosofia kantiana, afferma che lo spirito umano sarà sempre tratto
a fare degli assoluti giudizi religiosi ed estetici, ad unire al
concetto della mente la intuizione che deve dargli corpo e vita; ma ha
torto se crede che la intuizione da accompagnare all'ideale debba essere sempre
fantastica e falsa. Nel principio l'intuizione religiosa e l'intuizione
estetica è creata dalla fantasia, ed è a vicenda distrutta perchè non è
la vera, non è assoluta, e non agguaglia l'assoluto concetto; e di
qui nasce da una parte una serie di capolavori tutti relativamente perfetti —
se son davvero capolavori —, perchè l'ideale dell'arte, come finito
ch'egli è, può accordarsi con una intuizione finita; e ne viene
dall'altra parte una serie di religioni tutte imperfette e però tutte
transitorie, perchè l'ideale religioso è infinito, e la fantasia non sa
creare che delle immagini finite. Ma le due serie hanno una legge,
perchè [Dopo la laurea, e cfr. Poesia ed arte, Lettera di FRANCESCHI
a M., nella Rivista bolognese. Franceschi dice che M., togliendo all'uomo la
religione e la poesia, lo abbassa all'abbaco e al pane ; egli non
comprende che M. intende anzi di innalzarlo alla sua filosofia
religioso-poetica. Le idee estetiche e religiose. hanno un termine: e il
loro termine non può essere che la vera e reale intuizione corrispondente
al concetto dell'arte ed all'ideale della religione. E difatti abbiamo da
un lato una serie di forme estetiche l'una meno perfetta
dell'altra, e sempre meno rispondenti alle condizioni assolute
dell'arte; e sono sempre meno naturali e spontanee, meno epiche e
fantastiche, sempre più spirituali, liriche, filosofiche e reali; e sì
l'intuizione dell'arte è sempre meno lieta e bella, e più trasparente ed
immediata all'ideale. È, dunque una serie regressiva e discendente. La
serie religiosa è al contrario ascendente e progressiva. Ogni forma
religiosa è meno fantastica, più razionale, più reale della precedente. Per
cui l'ultima, la cristiana, è assolutamente vera e perfetta; in
essa al mondo della ragione corrisponde un mondo fantastico quanto esser può
più adeguato e spirituale : il cristianesimo non ha altro difetto che quello di
essere una religione. La religione cristiana si va sempre più
perfezionando; e il suo perfezionamento consiste nell'essere sempre
più storia, più realtà, più verità, e sempre meno religione. E così
per contrarie vie, l'una scendendo e l'altra montando, la religione e
l'arte corrono al loro fine, al vero. Il vero è l'eguaglianza della
realtà e dell'idea, del pensiero e dell'intuizione. L'intuizione estetica, da
principio fantastica e non realmente assoluta, diventa a gradi sempre più
somigliante al concetto assoluto dell'arte, finché raggiunge l'assoluta e reale
intuizione. Allora la natura è concepita come un solo essere vivente,
indipendente, assoluto; e ciascuna sua parte è intuita come membro
dell'intero, ed assoluta essa stessa : giacché le due intuizioni ne fanno
una sola. La intuizione religiosa, essendo finita, non è adeguata alla
sua idea, che è infinita. La verità religiosa non è mai la vera,
perchè è una combinazione di finito e di infinito, anzi che di infinito
con infinito. Ma la intuizione religiosa si va sempre più allontanando dalla
forma naturale, e si fa sempre più veriforme fino a diventar vera ; il
che avviene quando l'infinito ritrova se stesso, ed è a un tempo
concetto e intuizione. Allora al falso succede il vero, e la religione finisce.
Questo non è perdere una funzione; è risolvere e trasfigurare. Le
funzioni inferiori dello spirito, come la morale, il diritto, lo Stato,
conservano una esistenza separata, perchè partecipano ancora della
qualità della natura; ma la religione e l'arte hanno per oggetto il vero;
sono i gradi e le forme del vero pensiero, e perciò quando il pensiero acquista
una esistenza distinta, esse la perdono e rimangono unificate in lui.
L'arte è per sua natura illusione e la religione è per sua essenza errore ; ora
l'illusione è fatta per trasformarsi in certezza e realtà, l'errore in
verità. L'arte si trasforma nella vera cognizione naturale ; la religione
nella vera cognizione spirituale. In questa trasformazione consiste
la storia; il suo compimento è il fine della civiltà ed il limite del
progresso umano, che è temporalmente indefinito, ma idealmente
determinato. L' ideale è provvisorio, e sparisce nell'idea. Così
termina la parabola religioso-poetica, della quale il primitivo oriente è
il ramo ascendente; l'antichità pagana, tutta arte e mistero, è la cima;
ed il ramo che discende è l'era cristiana, in cui la religione e l'arte
vanno progressivamente diventando più riflessive, sino a ridursi ad
essere, oggi, il pensiero e la scienza cristiana. L'uomo moderno
cerca l'ideale e trova l'idea, cerca il concetto dell'arte e trova il
vero concetto, cerca il divino fuori di se e trova in se l'umano; cerca
il sovrannaturale e trova il naturale. Il nuovo uomo crede e pensa; e
pensando ricrea l'universo, dal suo pensiero una prima volta creato.
Questo nuovo universo è un'opera d'arte in cui la forma eguaglia il
concetto ; ed il concetto fatto conscio di se vince la forma, ed è
bello e sublime ad un tempo. Questo nuovo universo è un capolavoro, di
cui il nuovo uomo, poeta e critico insieme, intende il magistero; è un
tempio, di cui il pensiero umano è il nume [ Le idee estetiche e
religiose. ] e ciascun uomo il sacerdote, che a quel Dio sacrifica ciò
ohe è in lui di non buono. E il nuovo uomo continua questa creazione con
azioni generose ed alti pensieri. « Ed è così che egli è più che mai non
sia stato religioso e poeta, quando non è più che scienziato e libero
pensatore ». L'uomo parte dalla tenebrosa unità della natura e del senso,
e, a traverso la piccola riflessione e la grande immaginazione,
giunge alla luminosa unità della riflessione intellettiva, avvivata dalla fede
religiosa e poetica, che sole restano della religione e della
poesia. Naturalmente gli argomenti logici addotti dal M. a sostenere la
sua tesi della « metempsicosi » della religione e dell'arte nella
filosofia hegeliana sono validi solo se si ammette l'esistenza di un concetto
assoluto, universale, definitivamente vero, al quale le intuizioni estetiche e
le religiose possano gradatamente adeguarsi; solo, in una parola, se si
accoglie l'hegelismo dell'Autore. Il compendio di storia del genere umano
tracciato per convalidare queste argomentazioni non raggiunge lo scopo,
perchè in esso non la storia conduce alla dimostrazione, ma la
dimostrazione, se pur non modifica la storia, certo la coglie nei
momenti e negli aspetti a lei giovevoli, sorvolando sugli altri. E
le molte e molte pagine che l'Autore consacra alla dimostrazione della
sua tesi riescono invece a dimostrare questo : che egli ha avuta la somma
fortuna di trovare nella sua concezione dell hegelismo la sua filosofia, la sua
religione e la sua poesia. M. è certo che le tre grandi
correnti umane, — la contemplativa religioso-poetica che nasce dalla
natura e la riflessivo-filosofica che, nata dalla precedente, si
suddivide in altre due : la filosofica positiva o filosofia della
sostanza e Tanti filosofica negativa che bentosto diviene afilosofica,
negativo-positiva, pseudo-riflessiva o filosofia dell'apparenza, dopo
aver proceduto isolate fino al secolo XIX, suddividendosi in altre molte
correnti o scienze pseudo-positive, accennano oggi a ri convergere.
L'unità dell'apparenza e del pensiero, con la precedenza di questo su
quella, è l'unità del pensiero. Per avere l'unità della natura non basta
che le due filosofie astratte si fondano in una sola filosofia concreta;
bisogna che la corrente religioso-poetica mescoli le sue acque con la
corrente unificata della filosofia. La corrente filosofica, scaturita dalla
religione e dalla poesia, torbida in principio, si allarga, si purifica,
diviene trasparente sino a perdere ogni potere nutritivo; ma poi, a poco
a poco, invade e travolge il tutto, l'uomo e la natura, la
religione e la poesia; e fa di tutto una sola unità vitale. E allora
la filosofia sarà la vita, sarà l'unità spontanea ed armoniosa
della natura : un pensiero pieno d'amore vivificherà una natura
piena di fantasia, l'amerà come natura umana, e l'adorerà come natura
divina. Qui alcuno potrebbe chiedersi : in questa identificazione
della filosofia con la vita, non subirà la filosofia stessa un
assorbimento analogo a quello subito dall'arte e dalla religione ? La forma
superiore non sarà la vita e l'azione ? Ma M. non distingue dalla vita
quella sua filosofia dell'avvenire. Egli afferma che è difficile precisare come
tale unificazione vitale si compia, e perchè quest'opera è appena
cominciata, e perchè avviene nella profondità del pensiero, al di sotto
della coscienza. Sono cose tanto lontane dic'egli e c'è di mezzo una tal nebbia di tempo avvenire,
che è impossibile vederci chiaro: bisogna contentarsi di averne un'idea
generale, a Ma —soggiunge — a questa generalità io ci credo, e giurerei,
tanto ne sono certo, che le cose passeranno così in generale ; e che
tutto anderà a terminare nella fusione di tutte le forze, di tutte le
conoscenze, e di tutte le realtà, in una sola vita umana. La sua
filosofia sarebbe forse un atto di fede? L'uomo è un sistema vegetativo, un
sistema riproduttivo, un sistema animale e un sistema spirituale.
Ciascuno di questi quattro sistemi umani è attivo e si muove; ed ha, come
naturale, la causa del suo movimento fuori di se, nella natura. La natura
della causa esterna che move è corrispondente e proporzionata alla natura
della sfera interna che è mossa; mentre è una stessa natura che fa l'una
per l'altra, ed è sempre la seconda che move se stessa con la prima
natura. Ma se l'accidente, esterno o interno che sia, se la irragionevole
cattiva natura interviene, e rompe la legge, e viola la ragione; se
l'arbitrio umano o naturale modifica la qualità della causa motrice, e ne
muta la relazione, e ne altera la proporzione con la interna sfera umana,
questa si altera e si disordina. Il disordine della sfera direttamente
colpita si comunica alle altre, ed è una successione e una complicazione
di morbi; ma, isolati o uniti, non vi sono che quattro morbi umani
essenziali: i vegetativi, i riproduttivi, gli animali, gli umani o mentali. La
patologia preistorica dice che di questi quattro morbi il primo è stato
il morbo vegetativo. L'uomo primitivo, uscito sano, valido ed innocente
dalle mani del Creatore, rimane sano, finché rimane innocente; non
ammala che per irragionevole arbitrio estemo o naturale ; non è esposto
che agli accidenti meccanici, alle malattie traumatiche. Ma l'animale umano è,
a differenza degli altri, capace di colpa; egli trasgredisce il precetto
e oltrepassa la natura: felice colpa, perchè lo fa accorto di poterla
oltrepassare. Di là dalla natura l'uomo trova se stesso : trova la sua
libertà e la sua propria natura, e fa della necessità animale, istintiva
ed involontaria, una necessità umana, spirituale e volontaria: e così di
colpevole ritorna innocente. Ma non è più la primitiva innocenza
dell'animale ignaro e meccanico; è l'innocenza dell'uomo che si vede nel
suo interno, e si sa libero ; e liberamente vuole se stesso, ed ama e
venera la sua propria natura. Ma bentosto egli oltrepassa questo se
stesso, supera questa sua natura, e diviene di nuovo colpevole,
e si rifa sempre di nuovo innocente, finché non abbia
raggiunto tutto se stesso e la sua vera natura spirituale, e non sia compiuto
il fato umano. Così l’uomo naturale diventa in principio civile, e poi da una
civiltà passa in un' altra. La civiltà ha certamente i suoi morbi; e
sopratutto nel momento del passaggio e della colpa il morbo si
impadronisce dell'uomo, e cresce e si moltiplica ed imperversa.
Allora l'uomo è annoiato di se stesso, e perciò si corrompe. E il
morbo, fecondato dalla corruzione, genera nuovi e più crudeli morbi. La
corruzione sensuale moltiplica i morbi vegetativi ; le voluttà naturali e
preternaturali generano i morbi riproduttivi. Le cause psichiche non
moltiplicano solo le cause naturali, ma operano anche per proprio conto,
generano per diretta azione le malattie nervose e le psichiche. D'altra
parte, nelle nature più elette, invece di una corruzione sensuale, nasce un
principio di fermentazione intellettuale, che dà origine alle malattie dello
spirito. Ma tutto questo avviene con una certa legge. Tre grandi civiltà
si succedono: la prima naturale, la seconda umana, la terza divina.
E ciascuna ha il suo proprio carattere e la sua particolare natura; e ciascuna
si corrompe, ed ha le sue proprie e particolari malattie. La civiltà
naturale quando è nel suo primo fiore e nella sua perfezione originaria è
senza morbi, altro che accidentali e meccanici ; ma la sua corruzione
porta seco le cause fìsiche e chimiche, e genera morbi fisici e
morbi chimici: cause cosmiche, naturali, che danno origine a morbi
naturali, sopratutto vegetativi, prima ai morbi nutritivi, e più tardi ai morbi
formativi. La civiltà umana — il paganesimo — nel suo fiore è di nuovo
senza morbi ; ma la sua corruzione porta seco le cause umane, sensuali,
passionali, e dà origine ai morbi riproduttivi ed ai morbi animali: ai
nervosi prima, e quindi ai psichici. La civiltà divina la cristiana nel suo primo fiore è del pari senza morbi
; essa è la reazione della medicatrice natura umana, è la guarigione
dell'anima e la salute del corpo, rimedio radicale di tutti i morbi
umani. Ma la reazione eccede tosto il segno della umana natura, ed è
principio di nuovi morbi. Mistica e tutta entusiasmo e religioso
sentimento, essa reca le cause mistiche, che danno origine alle malattie
psichiche mistiche e religiose. La corruzione cristiana riproduce la
corruzione pagana, e con le cause passionali rinnova le antiche
malattie. Ma di sotto alle rovine del primo spunta il secondo cristianesimo,
la nuova e vera civiltà divina, e riconduce le cause spirituali e le
nuove malattie mentali. Quando quest'ultima civiltà avrà raggiunta la sua
definitiva perfezione, allora sparirà il male e l'uomo spirituale sarà di nuovo
senza morbi, come era in principio l'uomo animale. Tale è il primo e
più generale risultato, la prima legge della patologia storica :
l'uomo ha quattro vite, quattro anime, ed ha quattro qualità di morbi, che sono
le categorie primarie della patologia. Ma ciascuna anima può oltrepassare
nell'uno o nell'altro senso quei limiti della sua attività entro i quali
ha luogo la oscillazione normale ; ed allora concepisce un morbo positivo
o negativo, stenico ovvero astenico. Sono queste le categorie secondarie della
patologia. La categoria primaria, la natura e la qualità fisiologica del
morbo, è l'essenziale, e mai non manca, né può mancare ; invece la
categoria secondaria, il grado e la quantità innormale, può mancare, e
manca infatti, o non è sensibile ed apparente. Certo non vi è qualità
senza quantità ; ma nelle piccole applicazioni cliniche la quantità
innormale può mancare del tutto, perchè è supplita dalla quantità normale ;
nelle grandi applicazioni storiche la categoria secondaria trasparisce sempre
dentro alla categoria primaria. Le categorie primarie e secondarie
ci danno la pianta della patologia storica; non l'edilìzio con tutte le
sue parti. Le quattro grandi sfere contengono minori sfere, i
quattro grandi sistemi contengono sistemi sempre più piccoli :
apparecchi, organi, tessuti, elementi istologici: le anime generali non
esistono veramente che nelle anime elementari o cellulari. I fatti sono
complessi organici e naturali di categorie, le più generali chiuse nelle più
particolari, e queste ricoperte dalla loro buccia innominabile ed
accidentale. A forza di aggiungere categorie a categorie il vacuo si
riempie e si consolida l'astrazione. La patologia storica congegnata da
M. è veramente originale; e sebbene, volendo dedurre da pochi
principi e compendiare in pochi schemi tutti i fatti umani, abbia talvolta
dell'artinzioso, non è certo nel complesso senza genialità, e coglie con acume
i nessi che legano i singoli morbi alle varie forme della civiltà
umana. Ancora il terzo periodo — La filosofia della natura. La creazione
secondo M.. La lotta di M. contro la teoria darwiniana. Il suo metodo
trimorfo. La dimostrazione dei suoi principi. L'accidentale e il
necessario nella sua concezione filosofica. M. non puo limitare la sua
speculazione entro l'ambito della jatronlosofìa. Dalla sua stessa
concezione di [Delle prime linee della patologia storica,
Prelezione, Bologna, Monti. Della sua patologia storica l'A. scrive
(Delle prime linee della patologia storica): Sarà vera o falsa, buona o cattiva;
ma sarei curioso, e ben vorrei vedere chi di questa bazzecola, come
d'ogni altra mia piccola cosa infino a una menoma parola, sarebbe capace
di reclamare la priorità. Nella prel. qui cit. l'A. non tracciò che lo
schema generale di questa sua costruzione. Ma svolse poi l'argomento nel
successivo corso di lezioni universitarie, mai dato alle stampe. Cfr.
SICILIANI, Gli hegeliani in Italia. Per gli argomenti trattati in
questo paragrafo, si vedano: / naturalisti, La natura a volo d'uccello:
Forza] questa, oltre che dall'indole del suo ingegno e dall'influenza
dell'ambiente filosofico nel quale era stato educato, egli doveva essere
e fu infarti condotto alla costruzione di una filosofìa della
natura. Ma se egli parte dall'affermazione che l'essere è pensiero,
e non vede chiaro il significato di questa identità e non ne deduce
logicamente tutte le conseguenze, se egli pone le fondamenta in modo
arbitrario e nelle singole parti confuse e cozzanti fra loro, non può
innalzare un edifizio solido e fermo. E la sua filosofìa della natura è
infatti un castello in aria, sebbene edificato con ingegnosità, pazienza
e tenacia ammirevoli. Sono pagine che succedono a pagine, volumi
che succedono a volumi, e rivelano una profonda conoscenza dello
svolgimento di tutte le scienze mediche e naturali, dai tempi più antichi
fino a quelli in cui viveva l'Autore: geologia, chimica, fisica, zoologia,
anatomia umana e comparata, fisiologia, patologia, terapia; e sono ipotesi e
conquiste scientifiche messe in relazione con sistemi filosofici e
con periodi storici. Sono analisi di animali e di vegetali, di
specie, di classi, di ordini, di generi; e descrizioni di organi,
di funzioni, il cui nascere e modificarsi vuol essere spiegato dal
crearsi della idea divina. Ma in tutta la costruzione si risentono le
conseguenze della incertezza fondamentale. M. afferma che creare è
diventare, è spiegare successivamente le forme di cui si ha il germe nel
proprio essere. Il pensiero originario compie la propria creazione, e di
semplice essere si fa a poco a poco pensiero assoluto. Ma poi aggiunge che il
pensiero è il fondamento, il tetto e e materia, Un nuovo corpo semplice, I
tipi vegetali, Deus creavit, I tipi
animali, Filosofia e non filosofia, Darwin e la scienza moderna,
ecc. Deus creavit, Dialogo I, nella Rivista bolognese] la travatura
dell'edilìzio della natura. Egli viene così ad ammettere che il pensiero non
basta ad esaurire tutta la realtà, perchè il fondamento e la travatura
non sono tutto l'edifizio. Non resta dunque fedele alla concezione
idealistica, secondo la quale la natura è un momento del pensiero, che si
risolve interamente nel pensiero stesso, e senza la quale lo
sviluppo del pensiero non sarebbe né completo, né possibile. Egli
distingue nella natura due gradi e due modi di creazione: l'una
sensibile, individuale, l'altra tipica, ideale, individuale anch' essa.
La prima creazione è quella che F idea dell' uomo fa dell' individuo
umano; ma 1' idea dell'uomo è naturale, e le idee naturali restano latenti
finché l'idea divina, prima causa di sé e della natura, le renda
attuose, le fecondi e ne determini la trasformazione. Quando l'idea
divina è naturata nell'uomo, la creazione cessa nella natura e ricomincia
nella storia, finché l'uomo si è ricongiunto al suo principio, e l'idea
divina esiste tutta in forma di idea spirituale. Anche l'idea spirituale
esiste solo legata all'accidente, cioè come individuo. Quindi, come nella
natura, così nello spirito accade una doppia creazione : quella dello spirito
individuale e quella dello spirito universale. Il primo ripercorre le
forme storiche passate dell'umanità sino all'attuale, l'altro crea le nuove e
più perfette forme storiche. La storia della natura umana, quella della
natura vivente e quella della natura cosmica sono le tre forme vitali di
uno stesso assoluto individuo temporale, il mondo. Sono tre creazioni :
una divina, eterna, infinita; l'altra essa pure ideale, ma temporale e
finita, universale e particolare insieme; la terza materiale,
individuale, accidentale. Dio si realizza nel mondo, e il mondo
nell'individuo; quindi anche Dio si realizza nell'individuo. L'universo
fa nel tempo come Dio fa nell'eternità: comincia nella forma più
semplice del suo essere, la natura; si divide in due forme opposte, il
vegetale e l'animale, e infine si raccoglie in una [Del Vecchio-Veneziani
- Le opere scientifiche e la filosofia della natura. ] forma
completa, lo spirito umano. Le forme dell'idea divina passano eternamente
l'una nell'altra, senza annullarsi; e così pure le forme dell'idea
naturale; ma nella materia una forma esclude l'altra, e però
nell'individuo sensibile, pur rimanendo tutte idealmente, spariscono via
via sensibilmente. Come un mammifero passa per le forme animali inferiori
e le protovertebrate prima di assumere ra sua forma specifica, così l'individuo
umano principia selvaggio, e poi riproduce le tre forme moderne
essenziali, ed è prima immaginativo, indi ragionatore, e finalmente pensatore:
medio evo, risorgimento, tempo nuovo. L'uomo ordinario, nel suo sviluppo,
si arresta alle forme storiche già create; l'uomo di genio crea
forme nuove, opera come spirito universale, traendo da Dio l'impulso e
l'ispirazione creatrice. E sempre esisteranno oltre ai più, agli uomini
evolutivi, anche i pochi, i creativi, finché, come la natura, anche
l'umanità non sia giunta alla sua forma vera, già tracciata da Dio. E
perciò ora coesistono i vari gradi e le varie forme in cui il tipo divino
si squaderna nella natura. Questi gradi sono una scala di
mezzi e fini, in cui la forma inferiore è organo e mezzo all'esistenza
della superiore. Il ciclo tipico concepisce il moto creativo e produce il
ciclo superiore. Quando la natura è fatta, comincia la vita; e quando è
chiusa la creazione vitale comincia lo spirito umano. I cicli secondari,
anche prima di essersi svolti interamente, cominciano a produrre i tipi
corrispondenti del ciclo superiore. E la creazione ideale è creazione
sensibile ; la creazione di una specie è produzione di molti individui
in cui appare la nuova forma. Il concetto precede l'esecuzione, e
la successione effettiva e naturale presuppone la successione logica, ideale.
La funzione è la vita, la forma è la natura, che precede il contenuto
vitale, e non se ne lascia tuttavia assorbire e soverchiare ; e quando il
contenuto sparisce la forma rimane. Nei tipi superiori la funzione
assorbe e domina sempre più la forma, ma la sua vittoria non è mai
completa. L'equilibrio fra la forma e il contenuto si ristabilisce non nel
corpo, ma nello spirito umano. La vita passa come il tempo; la natura è
più tenace. Altra è la successione di tempo, altra di idea. La successione
naturale va non da ciclo a ciclo, ma da tipo a tipo ; e perciò in tutte
le epoche della creazione tutti i tipi primari sono, più o meno
completamente, rappresentati. Ogni tipo incomincia col riprodurre i tipi
formali che lo precedono, indi prende la sua forma propria, e infine
arieggia al tipo che gli deve succedere. Anche diverso è il modo di
accrescimento nella natura, nella vita e nello spirito. Essendo la natura
pura esteriorità, i corpi inorganici crescono per moltiplicazione
quantitativa esteriore, e non hanno altra unità che la loro forma comune.
Nello spirito, che è pura interiorità, la esterna moltiplicità diviene
interna e qualitativa. Infine, essendo la vita uno spirito naturale, un misto
di esteriorità e di interiorità, di apposizione e di intuscezione, Tessere
organico si sviluppa per una moltiplicazione quantitativa ed esterna e
per una moltiplicazione interna e qualitativa, con prevalenza dell'una o dell'altra
secondo che si tratti di una forma più o meno prossima alla natura. Mai la vita
è tanto esterna che non abbia la sua interiorità ; mai la forma organica
è tanto molteplice che non abbia la sua unità. Ma quest'unità è diversa
nel vegetale e nell'animale. Nel vegetale la vita di ogni individuo
elementare si unifica nella vita comune dell'aggregato; nell'animale deve
prevalere l'unità dello spirito umano, e l'individuo, semplice e libero al di
fuori, è molteplice e tutto qualificato al di dentro. Le forme superiori [sono
la chiave I tipi animali,, Bologna, Monti; Cfr. Lettere sulta patologia
storica, I tipi animali] necessaria a spiegare ed interpretare le inferiori,
per se stesse oscure, indistinte, indeterminate; e sono alla loro volta
spiegate dalle forme inferiori in cui appariscono nella primitiva
semplicità. Ma il riscontro non è utile se non cade sulle forme fra le
quali corre una particolare e più diretta e più intima relazione tipica,
secondo il vero metodo evolutivo, in cui l'idea unisce le forme ed
organizza le serie, non col metodo empirico, capace solo di conclusioni
generali arbitrarie, artificiali, ovvero, se alla vacuità sostituisce il
preconcetto darwiniano, di una inestricabile confusione. Come
Giorgio Hegel aveva combattuto e denigrato il Newton, così M. lancia in quasi tutte le sue opere
strali frequenti contro il Darwin e i darwiniani. Il naturalista inglese
è per lui un genio, ma il genio dell'ignoranza, perchè pone il cieco caso
in luogo della ragione vitale. Egli pretende che tutte le forme dell'intera
serie animale sieno venute l'ima dall'altra per l'aggiunta di sempre
nuove particolarità organiche nate a caso, e perchè utili ritenute nella
selezione naturale, e trasmesse dall'eredità, senza che mai in una
forma nulla preesistesse dell'altra che da essa proviene. M. afferma che
qui c'è un progresso sul Lamark, in quanto la modificazione dell'essere
vivente è primitiva, spontanea, in- [M.dice che la proposizione in cui si
compendia la scienza dell'astronomia : « I sistemi solari sono i primi
uomini, il cosmos è il mondo umano primitivo... non è possibile che alla
filosofia della natura: motivo per cui Newton, il divinissimo astronomo,
non la sapeva altrimenti; egli nel cielo ci vedeva Dio, e per questo ci
voleva poco, ma non ci vedeva l'uomo. - Dopo la laurea, li, [I tipi
animaci, pel giudizio di M. circa la teoria darwiniana, Dopo la laurea,
Deus creami, Darwin e la scienza moderna, I tipi animali; Filosofia e non
filosofia, Lettera sulla patologia storica] genita, e non prodotta soltanto da
agenti esterni; ma egli non sa comprendere come si possa affermare che
tale modificazione è casuale, irrazionale, e che la ragione c'entra poi,
introdotta dal caso. Ammette che in ciascuna delle teorie di Mosè,
Zaratustra, Firdusi, Diodoro, Lamark, Darwin, è qualcosa di ragionevole,
cioè di serio e di vero. La verità più ragionevole, sebbene espressa in
modo goffo e materiale, è quella di Mosè: Deus creavit! — la meno
ragionevole è quella darwiniana. La teoria adattativa del Lamark e
quella selettiva di Darwin, pur essendo tutte e due sbagliate,
hanno di vero lo schema comune, ed è questo: gli animali formano
tutti una sola famiglia naturale ; il principio che unisce e lega le
forme è l'eredità; il principio della divergenza delle forme è la
variabilità. Se non che questi tre punti debbono essere integrati
rispettivamente così : gli animali sono tutti in fondo uno stesso animale
; la generazione è creazione ; la variabilità deve essere determinata,
perchè nella natura e nella scienza la potenza sta nella
determinazione. Secondo M., è vero che l'individuo varia
senza legge e senza ragione, fuorché quella di essere individuo
accidentale; ma varia anche con ragione, perchè è posto fra la cieca
necessità della natura e la conscia assoluta libertà dello spirito umano.
Dio è il grande modincatore, il vero e solo creatore dei nuovi organi e
delle nuove funzioni vitali, perchè una funzione è un'idea, e per creare
un'idea ci vuole un'idea. Il non essere non può creare l'essere,
l'irrazionale non può creare la ragione, la natura ossia l'accidente
non può creare i tipi e le funzioni. Senza l'idea divina non potrebbe
nascere dall' antropoide 1' antropo, intercorrendo fra loro una
differenza ideale anche, e di gran lunga, maggiore dell'organica, e
neppure potrebbero nascere nuove forme, perchè ogni fonma ha un suo
proprio valore assoluto, e si sviluppa secondo il ritmo assoluto del mondo,
secondo il disegno eterno della creazione. L'idea, e non il sangue, fa
l'unità delle forme vitali. Fra coloro che non riducono la
scienza ad una storia accidentale, alcuni i seguaci della scienza
antica, essenzialmente religiosa e intuitiva ammettono due storie ideali,
una fuori della natura e del mondo, un'altra secondaria, riflesso della
prima, sviluppantesi nel seno della natura e dell'essere vivente; gli
altri, i seguaci della scienza moderna, riflessiva, non riconoscono che
la forma e la storia intrinseca alla natura, all'animale, allo spirito
umano, considerando la storia extramondana come un effetto ottico operato dalla
intuizione. Vi sono tre maniere diverse di considerare le forme vitali. L'una
consiste nel distinguere fra gli elementi comuni a tutte quelli che sono
propri di alcune soltanto. E si considerano questi elementi formali come
caratteri costitutivi di un tipo più o meno comprensivo. È la maniera
astratta, quella di Linneo, di Jussieu, di Decandolle, di Cuvier, di
Milne Edwars, di Owen. V'è una seconda maniera, che si riassume tutta
nella frase : una forma è simile ad un'altra perchè il figlio è simile al
padre e il padre all'avo. Questo è pel I. il finis Poloniae, la comune e
l'internazionale della scienza moderna. Vi è infine una terza maniera,
che consiste nel cogliere la forma nel suo movimento, e considerare i
vari tipi come i momenti evolutivi di un tipo ideale assoluto, il quale è
l'unità, la verità, la ragione, il principio e il termine di tutte; e questo
tipo è il vero animale. È la maniera concreta, quella di Schelling, di
Hegel, di Oken. Dopo di loro il solo Baer l'ha presentita, ma non ne ha
fatta una applicazione sistematica e conseguente alle varie forme
animali. M. dice che egli intende di fare un tentativo di questa
specie. Secondo lui, tutte le forme preesistono idealmente l'una
nell'altra; tutte preesistono in una forma [I tipi animali, Le opere scientifiche e la
filosofia della natura] germinale di cui sono lo sviluppo creativo,
interno, spontaneo. La creazione consiste nella determinazione ideale
originaria di schemi indeterminatissimi, e nella loro delimitazione naturale,
ossia accidentale. Una forza interna a un dato momento, aiutando le
condizioni esterne da lei stessa preparate, trasforma l'embrione in larva
e la larva nell'individuo completo, facendolo attraversare una serie di
forme l'una più perfetta dell'altra, immagine della palingenesi universale.
Questa forza ricevette una prima spinta dalla generazione. L'uomo dà l'impulso
prima alle forme semplici e generali, quiescenti l'una nell'altra, che
sono nella natura e pur non sono naturali; le desta, le crea, le
differenzia, le delimita; dei puri e semplici momenti della legge formale
fa delle forme vive, reali, accidentali; muove la materia informe a creare il
sistema solare e l'uomo a traverso alla serie delle forme cosmiche e
vitali. L'uomo eterno, l'uomo intelletto umano, è dietro al caos ed a
tutte le forme, è la forma, l'anima, la forza, la spontaneità pura,
assoluta, in cui lo stesso accidente, il limite indifferente, l'assoluta
particolarità esiste, ma nella forma di principio, di universalità, di
necessità, ed in questa contraddizione consiste la sua attività
creatrice. Il pensiero assoluto si trasferisce e si effettua nella realtà
dell'universo, e lo fa a sua immagine, e seco vi trasporta il metodo
assoluto della sua evoluzione attuale. La forma è un principio e una
forza indipendente dalla funzione; e questa forza ha una legge che ne
determina lo sviluppo e l'azione, ed è la stessa*legge dell'universo, è il
metodo della natura, del vegetabile, dell'animale e dell'uomo, il metodo
insomma di tutto il creato, perchè è quello intrinseco alla divinità
creatrice. Secondo questa legge, ogni sviluppo essenziale si fa in tre
momenti: tesi, antitesi, sintesi. Al movimento puro, assoluto, astratto,
corrisponde il [I tipi animali, Le opere scientifiche e la filosofia della
natura] movimento concreto della forma, ai tre momenti ideali corrispondono
tre tipi sensibili : amorfo, antimorfo, teleomorfo. E perciò l'universo è
una gran trilogia: è amorfo nella natura, antimorfo nella vita, teleomorfo
nello spirito umano. La natura (amorfopan) è indifferenza senza
opposizione essenziale; è tutta forma senza unità, senza fine, senza
ragione, senza la forma della forma. La vita (antipan) è
essenzialmente opposizione fra corpo ed anima, fra molteplicità ed unità,
fra vegetale ed animale. Esiste fra vegetale ed animale una doppia
antitesi : l'una di natura e l'altra di funzione (antitesi psichica e
antitesi corporea). Lo spirito umano (teleopan) è teleomorfo. Lo spirito
è 1' opposizione spinta all' estremo, poiché l'antitesi non è più solo
fra corpo ed anima, fra senso e sensibile, ma fra intelligenza e
intelligibile, fra Dio e l'uomo. Lo spirito comincia con l'opporsi alle
idee e finisce per riconoscersi in quelle, e con lo stesso colpo si
riconosce nelle cose : sì che egli è l'unità reale e distinta delle cose
e delle idee. L'anima nella natura è interna, nel vegetale apparisce al
di fuori, ma è corporea; nell'animale diventa corporea, ma rimane
particolare; nell'uomo diviene assoluta, universale e puramente ideale, e
la opposizione è finalmente risoluta e conciliata. La natura, la vita, lo
spirito umano hanno ciascuno a sua volta il proprio sviluppo trilogico
essenziale. Questo metodo trimorfo, come egli stesso lo chiama, è
per M. il filo ariadneo che deve guidarlo a traverso al labirinto
delle forme vegetali ed animali. Per lui tutte le forme e i tipi più
eterogenei e dissimili sono in realtà uno stesso identico animale in via
di formazione : l'uomo. E dei tipi animali egli vuol tracciare la storia
ideale, perseguendola a traverso alla descrizione. Confessa che la descrizione
gli riesce troppo completa e determinata, mentre ogni tipo è sfumato ed
evanescente innanzi alla sua realizzazione, è il mobile oscuro che da
dentro fa forza e opera lo sviluppo creativo, cominciando da sé, creando
a mano a mano le proprie determinazioni. Invece i sistematici ordinari, tutti
intenti alla diagnosi delle forme, poco si curano delle differenze di quantità
; essi hanno bisogno di caratteri qualitativi specifici, possibilmente
esclusivi, precisamente quelli più materiali, che non significano nulla
appunto perchè non passano in altre forme. Tipo è forma con
significato. Questi sistematici hanno una logica difettiva a forza
di astrazione; non pensano che nel quanto è rinchiuso il quale.
Seguono la vecchia tendenza separatrice, diagnostica, artificiale, bisognosa di
abissi e avida di caratteri esclusivi, isolatori. La nuova morfologia invece
cerca le comunanze e le transizioni, benché non arrivi ancora a ravvisare
la transizione ideale dove manca quella materiale. Per la vera morfologia
il primo è la forma, che pone i lineamenti generali dell'essere; poi viene la
funzione ideale che la accomoda e la modifica; e in ultimo viene la funzione
reale e la selezione naturale. I darwiniani invece ignorano l'omo [I
tipi animali] Dopo aver chiarita la differenza fra le due morfologie, Meis
soggiunge che il suo scritto è un lavorìo tutto di pensiero, condotto con
un organo che nel cervello dei naturalisti, darwiniani o antidarwiniani
ch'ei sieno, dev'essere assolutamente atrofizzato: « è tutta da capo a
fondo (apriti cielo)... una ricostruzione a priori. Ma lo scandalo sarà
piccolo, perchè non ci sarà di certo chi ci si voglia rompere il capo.
Questo scritto non si fa per stamparlo, si stampa per farlo ; e si fa per
uso e consumo esclusivo, e per supremo divertimento dell'autore, che
quando sarà tutto stampato tirerà tanto di chiavistello sulle pochissime
copie che ne avrà fatto tirare ». Le opere scientìfiche e la filosofia della
natura] la formale; per essi la funzione è tutto e fa tutto, ed è una
funzione prodotta dall'organo, la nutrizione, non la funzione essenziale,
«principiale)), a loro ignota e inconcepibile, Le dottrine materiali non
hanno nulla a che fare con la scienza, perchè questa non è la ragione
dell'uomo che la fa, ma la ragione della cosa. Il caratterizzatore vede
crollare come castelli di carta le sue classificazioni più o meno
inge-gnose. Il rimedio è uno solo: a Non caratterizzare, non classificare;
pensare e ripensare. Seguendo il metodo trimorfo, si riconosce che nel vegetale
l'amorfofito è indifferente ed informe; l'antifìto è il centro della
formazione, il punto in cui si spiega l'opposizione fra il corpo e l'anima
vegetale ; nel teleofito le due sfere sono egualmente sviluppate. Il
vegetale amorfo è l'alga, prima chimicamente e poi anatomicamente
semplice, indi molteplice, ma tutta disgregata nei suoi elementi cellulari.
11 vegetale antimorfo è da un lato la felce vegetativa, dall'altro il fungo
riproduttivo. Il vegetale teleomorfo è il cotiledonato, in cui la forma
vegetativa e la forma riproduttiva sono egualmente sviluppate. Analogo è
lo sviluppo tipico dell'animale. L'amorfozoo è informe e indifferente;
nell'antizoo, punto centrale di tutta la formazione, si sviluppa l'opposizione
fra corpo e anima, fra sistema vegetativo e sistema riproduttivo ; nel
teleozoo i due opposti sviluppi sono riuniti e in giusta proporzione fra
loro. L'amorfo animale è il protozoo, cioè il rizopode e l'infusorio;
l'antimorfo è il radiario, il mollusco e l'articolato; il teleomorfo è il
vertebrato: pesce, anfibio, rettile, uccello, mammifero. I nomi di
amorfozoo, antizoo e teleozoo sono preferibili a quelli di vertebrato ed
invertebrato, che esprimono solo la presenza o l'assenza di un elemento
secondario. Finché M. sta fedele al suo programma di dimostrare
solo col farli muovere i principi filosofici ai quali [I tipi animali,
Le opere scientifiche e la filosofia della natura] crede, egli lavora a
meraviglia: originali le applicazioni alla scala degli esseri viventi,
alle varie forme della vita, della scienza, della filosofìa, della
storia; particolarmente geniali e nuove le applicazioni alla patologia.
Ma a volte — rare volte, è vero — egli sente il bisogno di tentare
una dimostrazione logica di quei principi, e riesce invece, senza
avvedersene, a dimostrarne 1' ìnsuffìcenza, 1' arbitrarietà, la
nebulosità. Ciò gli accade nel Deus creavit, e nei tre dialoghi : / naturalisti
; Forza e materia ; Un nuovo corpo semplice. Nel Deus creavit — già lo abbiamo
visto — egli tenta, senza riuscirvi, di dimostrare che il pensiero è fin
dal primo momento essere. Nei Dialoghi affronta lo stesso problema in
forma più concreta : ricerca il punto in cui l'essere ed il pensiero si
identificano, lo ricerca con la sicurezza di chi sappia di rintracciare
cosa esistente nella realtà ; e con lo stesso metodo, lo stesso
procedimento, lo stesso linguaggio, e quasi la stessa mentalità con cui
un naturalista potrebbe studiare un essere da lui non visto ancora, ma
del quale, per descrizione autorevole e per indizi indiretti e certi, gli
fosse nota l'esistenza e i caratteri.] vero lutto è l'uomo, l'uomo come
pensiero, in cui l'uomo della natura, che in sé ricompendia tutta la
natura, si risolve ed unifica perfettamente. Ma come questo
pensiero eterno passa nel realizzarsi per tutti i gradi della natura ?
E che è questa natura ? Quale il suo primo grado ? Retrocedendo nella storia
del processo naturale si perviene ad un muro saldo, incrollabile, oltre
al quale non si può andare: quel muro è la materia. Certo la materia
suppone lo spazio; ma spazio senza materia non ci può essere. Chi dice
spazio [I naturalisti, Diagolo 1°, nella Civiltà italiana, Firenze, La
natura a volo d'uccello: Forza e materia, Dialogo, nella Civiltà italiana,
Firenze, La natura a volo d'uccello: Un nuovo corpo semplice, Dialogo,
nella Civiltà italiana, Firenze, Le opere scientifiche e la filosofia
della natura. dice tempo, e chi dice tutti e due dice moto; e dir
moto è dir qualche cosa che si muove, è dire insomma la materia, moto immobile, forza latente
ed inerte dell'universo. La forza diviene sempre materia a traverso un
suo sviluppo : da forza chimica, semplice affinità, a forza fìsica, e da
forza fìsica a forza meccanica, e infine corporea. Ogni forza è la
materia della forza inferiore ed il germe della superiore : e così il
moto è il tempo materializzato; il tempo è lo spazio divenuto più
materiale. Sempre la materia è la realtà, il limite di una forza; e la
forza è la materia nel suo spontaneo svolgimento. La forza del pensiero da
principio non pensa ancora, ma si vuol pensare, ed è chiusa nella
forza semplice in cui tutte le forze speciali sono latenti ; e come
la più forte, le urta di sotto e fa uscire la forza chimica, che si
comunica a tutta la massa della forza semplice, sì che tutto diventa
forza chimica reale, affinità e materia puramente chimica ; e fa di
questa affinità informe un imponderabile informe, e di questo un informe
ponderabile, un corpo semplice informe. L'uomo senza influsso di
esterno accidente, mentre egli era da per tutto ed era tutto, non poteva
scegliere un punto del tempo e dello spazio in cui operare la
trasformazione della materia semplice in corpo sémplice. E l'operò in
un punto del tempo e dello spazio che erano tutto il tempo, tutto
lo spazio. Quell'attimo, quello spazierello» si riempì di materia reale,
naturale, diventò da spazio ideale spazio reale, interminato, e con esso
cominciò la natura. La forza del pensiero, come ha trasformato il moto, la
forza semplice, in forza chimica, così trasforma questa in forza fìsica,
e la forza fìsica in forza meccanica; e dallo stesso oscuro fondo
fa scaturire dietro a quelle forze la materia chimica, che si trasforma
in materia fìsica e indi in meccanica; e all'ultimo in vera materia, in
corpo chimico imponderabile, ponderabile. È la materia semplice che
successivamente si modifica e si realizza; è la proprietà chimica, è la
speciale natura Le opere scientifiche e la filosofia della natura.] fisica,
è la figura meccanica, geometrica, cristallina, che si aggiunge alla
forza chimica imponderabile, ponderabile, e le dà un primo corpo ed una
nuova realità; gli è un corpo incorporeo, una materia immateriale, una
realità non sensibile. Le forze, e le loro forme, le loro proprietà, sono
semplici, indifferenti, indistinte; esse sono avviate all'atto, alla
esistenza naturale, ma non ci sono giunte ancora. La forza è molto
pensiero e poca natura, e non ha tal realità e tal valore da fare di uno
spazio-pensiero uno spazio-natura; ma la proprietà è più natura che
pensiero ed è perciò atta ad empire di se lo spazio ; onde appena il
pensiero umano dietro a quelle tre forze fa scaturire quelle tre semi-materie,
subito mette fuori lo spazio, e lo distende, e vi spiega le tre proprietà;
e queste vi portano seco le loro forze, e le disseminano egualmente in tutti i
suoi punti. Non perciò lo spazio è pieno ed ha compiuta realtà. Egli è
estensione, è materia, ma non corpo, perchè non è ancora sensibile. Il
primitivo pensiero umano ha dentro di sé un limite che è esso stesso
pensiero, ed è il germe e l'origine del senso; di questo limite fa lo
spazio-pensiero e il tempo-pensiero, e il moto, la forza-pensiero, e
persino il qualcosa, la materia pensiero: e tutto questo rimane dentro di
lui, rimane lui stesso, ed è ancora poco men che pura ragione e
semplice pensiero. Ma poi egli, premendo di più su quel limite, fa
dello spazio-pensiero uno spazio-estensione, e di questo un corpo
sensibile prima al corpo, e poi, per mezzo del corpo, anche all'anima. E
poi, facendo del moto-pensiero un moto reale, farà del tempo-pensiero un
tempo durata; e poi farà tutta la natura, e la vita — il vegetale —, e
l'anima — l'animale ; e all'ultimo si rifa pensiero, e pensa se stesso e
l'opera sua. Di quel suo limite originario, che era un
senso-pensiero, egli ha fatto a poco a poco un senso-senso. E di questo
senso farà nella natura formata vari sensi distinti, e così farà dell'anima.
Se noi facciamo la storia della natura, troviamo all'origine della forza
e della materia uno stesso identico germe, il quale è in uno pensiero
umano e senso umano originario. Quel germe, pur mantenendo sempre la sua
originaria identità, si sviluppa di grado in grado, ed è prima natura,
poi vegetale, poi animale, e da ultimo uomo; e in ogni grado conserva
quelle due cose opposte, la forza e la materia, sempre distinte e sempre
unite in una perfetta identità. Nell'uomo, nell'io, nel pensiero reale, l'unità
delle due cose opposte è naturata, personificata, e incorporeamente
corporalizzata. Questa unità veduta nella nostra natura ci fa più
facilmente riconoscere l'unità dei due elementi nelle nature inferiori,
la psichica, la vitale, la naturale. Nell'afferrare ciò consiste la
scienza. Questa è la storia della natura amorfa, in cui tutto è
quiete ed immobilità, in cui non c'è che un corpo semplice, omogeneo,
uniforme, informe. Poi — dice l'Autore — verrà la natura antimorfa, lo sviluppo
delle forze e delle materie, il caos. Infine vedremo sorgere una nuova
forza, che a tutte le forze del caos darà una legge e una norma, a tutte
le materie una forma comune ; e sarà la natura olomorfa, il cosmo.
E vedremo la forza cosmica trasformarsi nella forza vitale, e la forma
cosmica divenire la forma vitale, vegetale. E con questo programma egli
termina il secondo dialogo, Forza e materia; ma non pubblica più che un
terzo dialogo (*), nel quale riassume la storia del pensiero umano, che
da prima tutta interna, tutta dentro un punto, si squaderna poi nello
spazio e si sgomitola nel tempo, e all'ultimo si ritrasforma di natura in
pensiero, e si riduce di nuovo ad un punto, e questo punto è l'io. Come
in principio il punto originario, così ora il punto individuale si
trasforma tutto; ma la trasformazione non si fa, come allora, tutta in un
atto, [Il dialogo (Un nuovo corpo semplice) è preceduto da questa nota. Il
presente dialogo è indipendente dai precedenti », - Sappiamo già che M.
lavora spesso frammentariamente. Le opere scientifiche e la
filosofia della natura.] bensì successivamente. L'io è un animale naturale,
individuale; ma gli ii sono molti, e sono come molti punti, molti tempi
in un solo tempo, e tutti fanno come uno spazio intellettuale nello
spazio naturale, La trasformazione umana universale, come quella
dell'individuo umano, si sgomitola nel tempo e si srotola nello spazio, e
intanto si raggomitola e torna ad arrotolarsi nella storia. E perciò la
storia umana è una storia naturale di tempo e di spazio, è una
cronologia e una geografìa. La storia umana e la storia della natura,
essendo creata dal pensiero, è in ogni sua fase totale e universale ;
solamente non appare e non diventa reale che in certi punti di tempo e di
spazio: in certe epoche, in certi luoghi, in certi corpi e in certi
ii. È facile scorgere che M. non è felice quando vuole
risalire ai principi sui quali ha fondata la sua costruzione. Invero non
si capisce come quel suo pensiero originario, avendo nel senso un limite
interno, possa non avere anche un limite esterno, e tutta la natura, che
invece deve ancora nascere; ne si capisce come quel pensiero, a furia di
premere e caricare sul proprio limite, possa fare del
senso-pensiero un senso-senso, possa, in altre parole, trasformarsi da
forza in materia. Ma l'Autore non ha il più lontano dubbio di star
tentando la soluzione di un problema forse insolubile, certo insoluto.
Che forza e materia sieno due cose distinte ed opposte, ma unite ed
identiche è per lui una verità certa, positiva, reale. Egli dichiara che
non ha la pretesa di dimostrare, ma solo di far presentire la verità, come la
presente egli stesso: e certo di quella verità da lui presentita non riesce a
dare una dimostrazione logica. In una pagina che onora il suo senso
poetico più che la sua GENTILE, LA FILOSOFIA ITALIANA. Forza e materia, I
naturalisti, Dialogo] profondità
filosofica, egli afferma che il corpo è un vegetale, è l'inferno, l'anima
è parte materiale e parte immateriale ma sempre naturale, il pensiero è
il paradiso, e di pensiero noi siamo tutti uni in Dio ; e per descrivere
il suo paradiso tratteggia con poche belle linee il paradiso dantesco.
Come Dante non può significar per verba il trasumanare, così egli
stesso non può chiarirci come 1' universo si unifichi nell'uomo; solo ci dice
con slancio lirico che quella è la sua fede. Alla fede in quanto è
davvero tale e solo tale, ed è ardente, profonda, incrollabile, sarebbe
certo vano, se pur fosse possibile, 1' opporre argomentazioni. Ma ai
principi che di quella fede sono oggetto, e vengono posti a fondamento di una
costruzione scientifico-filosofica, si può e si deve chiedere se sieno
suscettibili di avere dall'esperienza una conferma o dalla logica una
dimostrazione. La risposta è negativa. Quanto alla conferma
dell'esperienza, M. dice che con le idee si scopre, è vero, la sostanza delle
forme e si tien dietro al loro movimento essenziale ; ma il
controllo è la stessa realtà che deve rimanere inalterata ed
intatta, ed è il fatto che deve essere riprodotto nella sua
integrità, e con tutte le sue condizioni essenziali. Ma se l'Autore
ammette l'esistenza di realtà e di fatti che non sono idee, e che solo
con le idee possono venir scoperti nella loro sostanza e seguiti nel loro
movimento, dovrebbe indicare un terzo termine, atto a valutare la
rispondenza fra gli altri due. Non lo indica. Ma è chiaro che il terzo
termine non può essere per lui che la stessa idea, giudice e parte
in causa. Il controllo di cui egli ha parlato manca; e non poteva
non mancare. Nell'ambito dell'idealismo assoluto non può esistere un
controllo esterno, ne si può senza essere [I tipi animali. Cfr. Dopo la
laurea, Le opere scientifiche e la filosofia della natura. incoerenti ammettere
l'esistenza di una realtà che non sia l'idea o il pensiero.Quanto alla
dimostrazione logica dei suoi principi, abbiamo veduto che le rare volte in cui
M. la tenta non la raggiunge, e cade in contraddizioni, come
quando, dopo aver affermato che il pensiero è l'essere, ne ragiona
come di un pensiero che pensa l'essere, e considera l'essere come puro
essere e non pensiero ('); o incorre in errori, come quando afferma che
il pensiero originario ha nel senso un limite interno senza avere un
limite esterno; ovvero si appiglia ad ipotesi degne di un alchimista ostinato
alla ricerca della pietra filosofale, come è quella della forza che
diviene materia premendo e calcando sul suo proprio limite. La sua filosofìa
della natura, riposando su principi che possono essere oggetto di fede,
ma non possono avere dall'esperienza un controllo né dal ragionamento una
conferma, è una costruzione che può essere, ed è difatto, ingegnosa
e bella, ma è del tutto arbitraria. Di ciò mai ebbe alcun sospetto
l'Autore, sempre fermo nella sua fede hegeliana, vita della sua vita,
anima della sua anima. Egli non intendeva di cercare una soluzione nuova;
solo si proponeva di svolgere ed elaborare una soluzione già da altri
raggiunta. La sua opera è fallita perchè aveva come presupposto e
come base quella conciliazione dell'essere e del pensiero, della
forza e della materia, che contrariamente a quanto egli credeva non era stata
raggiunta da nessuno, e meno che mai poteva esserlo da chi, avendo studiata
analiticamente la natura, si ribellava a tagliare il nodo gordiano
negando la natura stessa o riducendola a una mera forma spirituale. Deus
creavit. Forza e materia. Della medicina sperimentale; e cfr. tutte
le opere di M. M. non è d'accordo col
Berkeley, che « sopprime la natura»; Del Vecchio Veneziani Una
costruzione speculativa della natura, quale l'idealismo assoluto e la riduzione
della natura a pensiero esigono, dev'essere tutta una deduzione
necessaria per considerarsi compiuta e riuscita. E in una deduzione
logica e necessaria l'accidente come tale non può trovar luogo. Non
si dimentichi, del resto, die l'idea dominante in tutte le assidue e
lunghe meditazioni del M. intorno alla natura, l'idea informativa di
tutti i suoi studi era, come egregiamente la definiva Fiorentino, «
l'idea di contrapporre al predominio dell’accidente, che è il lato debole
del darwinismo, una spiegazione più intima e più razionale delle forme,
attraverso delle quali progredisce e si dispiega la vita della natura...
una ragione superiore, che regola lo sviluppo dei tipi della vita
naturale, finche non si dispieghi, e non si allarghi nell’uomo e nella
coscienza. Si trattava dunque per M. di superare quello scoglio contro il
quale, a suo vedere, naufragava il darwinismo; di evitare la trasformazione
dell' accidente in Deus ex machina, al quale far ricorso perchè o dove
non soccorra una ragione superiore o una spiegazione più intima e
razionale. M. appunto dice e ridice, anche per quanto si
riferisce alla natura, che la filosofia vive nella sfera della necessità
e della certezza assoluta; ma in contrasto con questa esigenza afferma
anche l’indispensabilità dell’accidente in tutti i momenti della creazione. Ora
l'accidente, che è dichiarato indispensabile, o è razionalmente
necessario, cioè deducibile a priori, e allora deve rientrare nella
costruzione speculativa come elemento interno, e non esteriore, sicché non
può più dirsi propriamente accidentale. O è la né col Fichte, nel cui
sistema la natura c'è soltanto quanto basta per far la coscienza, ed è
quindi ridotta ad una espressione astratta. Cfr. Prenozioni, La filosofia
contemporanea in Italia, Dopo la laurea,
negazione della necessità razionale e della deduzione a priori, ed in
questo caso la dichiarazione della sua indispensabilità costituisce il
confessato fallimento della costruzione speculativa. M. oscilla fra le
due alternative, senza sapersi appigliare né all'una né all'altra. Questa
non meno di quella avrebbe significato il riconoscimento della
contraddittorietà della sua impresa. Invero l'accidente sembra necessario
per lui a costituire nella catena dello sviluppo creativo l'anello
iniziale e gli anelli di saldatura tra i frammenti non altrimenti
congiungibili. L'anello iniziale, poich'egli dice che quando non c'era la
natura e quindi l'accidente » era impossibile all'uomo (ossia all'idea di Uomo,
che come fine deve precedere e determinare lo sviluppo), senza arbitrio e «
senza influsso di esterno accidente, di scegliere un punto del tempo e
dello spazio in cui operare la iniziale trasformazione della materia
semplice in corpo semplice. Gli anelli di saldatura, in quanto dice che
l'accidente, elemento costitutivo della natura, è necessariamente
compreso nel processo della funzion ; che ogni tipo vivente è già
idealmente quello che dee succedergli, ma non basta a crearlo, a produrlo
realmente nella natura, senza il concorso di cause accidentali e
d'esterni influssi. E in generale tutto il processo e lo sviluppo della
natura per M. consegue la realtà solo in quanto l'accidente interviene e
concorre con l'idea alla produzione del risultato. Il fatto è anche idea,
ma l'idea non è reale e non esiste che nel fatto; « il principio e
la potenza della vita... è sempre unito a un qualche elemento materiale e
meccanico che lo fa reale e particolare, che è quanto dire individuale ed
accidentale. Forza e materia, /
mammiferi. Prelezione al corso di fisiologia dato nella R. Un. di Modena.
Degli elementi della medicina. Le opere scientifiche e la filosofia della
natura. M. considera i vari tipi carne momenti evolutivi di un tipo
ideale assoluto, l'uomo eterno. Crede che tutte le forme preesistano in
forme germinali di cui sono lo sviluppo creativo interno e spontaneo. Ma la
creazione non consiste soltanto, nella determinazione ideale originaria di
quegli schemi indeterminatissimi », sì anche nella loro delimitazione
naturale, o sia accidentale. E molte volte ripete che la natura è
accidente e che l'idea spirituale esiste solo legata all'accidente. Ma qui
appunto si potrebbe obiettare alla nostra osservazione, che noi dobbiamo
approfondire il concetto dell'accidente che M. afferma. Legato all'idea, intrinseco
alla natura, l'accidente che egli fa entrare in campo a determinare e
spiegare lo sviluppo non è, come l'accidente dei darwiniani, puramente
estrinseco e meccanico. Ha anzi esso medesimo una necessità interiore ; è
il momento della antitesi, senza il quale non potrebbe svolgersi la
sintesi creativa. L'uomo eterno, dice appunto M., è « la forma, l'anima,
la forza, la spontaneità pura, assoluta, in cui lo stesso accidente, il
limite indifferente, l'assoluta particolarità esiste, ma nella forma di
principio, di universalità, di necessità : ed è in questa contraddizione che
consiste la sua attività creatric. Per questa via parrebbe risolversi la
difficoltà nella quale ci appare impigliato la filosofia di M.. Che se
anche altrove egli identifica il puro accidentale col male, non vi
sarebbe contraddizione con la universalità e necessità riconosciuta sopra
all'accidente; ma distinzione di due specie di accidenti o di nature:
l'interna e l'esterna; necessaria la prima, accidentale in senso proprio
la seconda. M. difatti parla esplicitamente di una natura esterna che
viene Deus creavit, (/ tipi ammali. Le opere scientifiche e la
filosofia della natura. a dare l'ultima mano alla natura interna, di un agente
esterno ed accidentale che non era compreso nel processo della
natura interna, non era calcolato nella evoluzione vitale, e oltre a modificare,
sia pur solo superficialmente e quantitativamente, le forme, e favorire la
trasformazione, e provocare la nuova interna creazione e lo sviluppo di
germi latenti, « può fare e fa certamente di più, v'introduce qualche
cosa di accidentale e di naturale. Di fronte a questo accidente,
esterno sta l'interno : « vi è già — soggiunge M. — nella forma latente
un principio di accidente. Essa è semplice ed una, ma nella sua unità vi è un
germe di differenza e di moltiplicità, vi è l'attitudine e la
disposizione a dividersi in molti e diversi, ed è un accidente indeterminato
e scolorato, pura possibilità di farsi, più che non è, accidentale. L’accidente
esterno feconda 1' accidente interno e gli dà corpo e colore, e ne fa una
realità accidentale e naturale. Gli agenti esterni stimolano, promuovono,
determinano, ma Dio opera la trasformazione. L'accidente può render conto
delle differenze secondarie, non giunge ai veri gradi della formazione.
Esiste dunque una storia interna, essenziale, ed una esterna,
accidentale; ed esistono due sorta di accidente: uno necessario ed
essenziale, l'altro secondario e individuale: il primo, l'accidente
necessario, assoluto, realizza l'evoluzione creativa ideale, intrinseca,
assoluta della forma animale; accompagna ogni realtà, circoscrive
esteriormente le forme, e fa esistere gli individui; l'altro, l'accidente
accidentale, nasce dall'intreccio dei processi e dal cozzo inevitabile delle
cause na- [Lettera sulla patologia storica] Cfr. Deus creavit, passim.
Dopo la laurea, tipi animali, tipi animali, Cfr. Deus creavit, Deus creavit, Le
opere scientifiche e la filosofia della naturatura] li, delle quali una è la
darwiniana concorrenza vitale, da cui deriva la formazione delle varietà,
delle specie, dei generi, ma la sua azione non potrebbe estendersi fino ai tipi.
La natura finisce per essere, come la società umana, una lotteria.
Finisce, ma non comincia; e non è una lotteria da capo a fondo », perchè
ha le sue basi ideali e le sue leggi necessarie. Se non che arrivati a questo
punto noi possiamo domandarci : l'obiezione che abbiam detto potersi muovere al
nostro rilievo delle difficoltà inerenti al pensiero del M., è
veramente risolutiva? Questo approfondimento del concetto di accidente,
questa distinzione delle due specie di esso, interna o necessaria ed
esterna o accidentale, elimina veramente la contraddizione nella quale ci era
sembrato che questa filosofia della natura si involgesse ? L’accidente
interno consiste nella indeterminazione e molteplice possibilità della
forma latente. Ma intanto M. più volte afferma che senza il concorso di esterno
accidente la possibilità non passerebbe all'atto, non si farebbe realtà
di natura. Tra la potenza e l'atto bisogna che s'inserisca un mediatore perchè
il passaggio avvenga. Sicché l'accidente esterno è da lui riconosciuto
indispensabile non soltanto per l'esistenza degli individui, ma anche per la
produzione reale dei tipi nella natura. E del resto la stessa molteplice
possibilità in cui è fatto consistere l'accidente necessario, del pari
che l'intreccio dei processi dal quale si fa nascere l’accidente
accidentale, possono essere a loro posto in una concezione puramente
causale e meccanica della natura (per esempio in quella cartesiana), ma
non sono più a posto in una dottrina finalistica, nella quale il termine
finale, l'uomo eterno, pre-esiste a tutto il processo di sviluppo e lo
genera esso medesimo. Voler dimostrare che nella natura si compie uno
sviluppo teleologico, e non saper negare che vi sia anche qualche
cosa di ciò che il Darwin vi scorge, ossia che la natura finisce
per essere, come la società umana, una lotteria, è contraddizione
non conciliabile tra l'intenzione e il resultato. E si potrebbe
anche aggiungere che una contraddizione è nello stesso intervento dell'
accidente esterno a spiegare la patologia. L'intero edinzio della
patologia storica costruito dal M. crollerebbe, se non intervenisse
l'accidente accidentale, perchè solo «se l'accidente, esterno o interno
che sia, se la irragionevole cattiva natura interviene, e rompe la legge,
e viola la ragione; se l'arbitrio umano o naturale modifica la qualità
della causa motrice, e ne muta la relazione, e ne altera la proporzione
con la interna sfera umana, questa si altera e si disordina. Ora si
ricordi che per M. la malattia
corrisponde al passaggio dall'innocenza alla colpa, a cui succede il passaggio
ad una forma superiore d'innocenza, alla libertà. Se questa forma
superiore, che è il fine dello sviluppo, non è raggiungibile che
attraverso a questo processo, il processo è necessario, e necessari,
non accidentali sono i suoi momenti : la tesi, l'antitesi e la
sintesi. Ma allora come può il momento dell'antitesi essere un accidente
violatore della ragione ? In un idealismo assoluto, e particolarmente nel
ritmo dialettico che si svolge nel movimento degli opposti, il momento negativo
non è meno necessario che il positivo a dare con la negazione della
negazione la più alta realtà. Come può dunque in questa concezione
filosofica trovar luogo l'accidente accidentale di M.? Come può un accidente
siffatto, cioè un accidente estrinseco, che rompe la necessità e viola la
ragione, essere costitutivo della natura quale dev'essere intesa in un
idealismo assoluto, cioè come pensiero o ragione ? [Delle prime
linee della patologia storica]. Queste contraddizioni si collegano con una
profonda, inconciliabile contraddizione interna del pensiero di M.. È in
fondo il contrasto fra il naturalista e il filosofo idealista, contrasto
che si svolge anche nell'antitesi fra l'ardente e costante aspirazione a
ricongiungere ed unificare la fisiologia con la filosofia, e lo scrupolo
della divisione del lavoro, che talvolta si riaffaccia: la metafisica ai
metafisici, a noi la fisiologia. Questo è il suo conflitto intemo non
superata, che si potrebbe estendere ben oltre il suo caso
individuale. Invero se la natura è, come M. sostiene, idea e natura
a un tempo, la divisione del lavoro non è possibile: il fisiologo non può
essere tale se non è prima filosofo; la fisiologia non può essere
costruita se non è costruita prima la metafisica. E costruita non da
altri, ma dal fisiologo stesso, come altrove M. riconosce. Perchè,
secondo il principio vichiano ed hegeliano, per M. il fare soltanto ci dà
il vero conoscere : criterio del vero è il farlo. Dal che sarebbero pure
derivate conseguenze contrarie alle conclusioni di M. intorno ai rapporti
fra la teoria e la pratica medica. Infatti come può la separazione
della jatrofilosofia dall'attività del medico pratico conciliarsi
con l'unità del vero col fatto? Se la vera scienza è la storia,
perchè è la realtà vivente, non varrà anche per la jatrofilosofia la massima
che criterio del vero è il farlo ? E non sarà quindi contraddittorio il
dichiararla disgiunta dalla pratica, e quindi inutile come tutte le cose
eccellenti, virtù, giustizia, arte, religione, scienza ? Ed ecco il
criterio della verità della jatrofilosofia nella pratica, nella clinica,
nella cura delle malattie, secondo voleva TOMASSI. Anche qui M. Lettere
fisiologiche, Cfr. Dopo la laurea, là dove si riconosce come necessaria, sia
pur soltanto al sapere positivo, la divisione del lavoro. [Idea della
fisiologia greca ; e altrove. La natura medicatrice e la storia della
medicina] mostra di non aver raggiunta la piena coerenza del suo pen-
siero, né la piena consapevolezza delle esigenze dei suoi
principi. Egli, come ogni naturalista, riconosce la funzione del- l'
accidente ; ma il rapporto e il contrasto fra il necessario e
l'accidentale, fra ciò che è conoscibile e costruibile a priori e ciò che
è dato solo dall'osservazione sperimentale, rimane in lui insoluto. Ed
egli non riesce a vincere le difficoltà che anche Hegel aveva incontrate
nel costruire la sua filosofìa della na- tura, la quale è certo la parte
più debole del suo sistema. L'errore fondamentale del M. è consistito in
questo : che egli ha attribuite le deficenze della filosofìa della
natura hegeliana a cause fortuite e soggettive, e non ha scorto che
le cause erano intrinseche al sistema, per se stesso tale da non
consentire che vi fosse inquadrata una filosofia della natura compiuta,
razionale e concreta ad un tempo. E andò cercando per tutta la vita una
soluzione non raggiunta ancora, sempre credendo di lavorare solo alla
dimostrazione e alle applica- zioni di quella, che egli stimava già scoperta
da Hegel. Grice: “De Meis’s
theory resembles my pirotological progression, heavily! I like his
generalisations. I wish we had at Oxford such a freedom to generalise!” -- Camillo
De Meis. Angelo Camillo De Meis. Meis. Keywords: implicature,
citato da Pirandello in “Il fu Mattia Pascal” “Chi lo dice? – gli domanda forte
il giovane, fermo, con aria di sfida. Quegli allora si volta per gridargli:
“Camillo De Meis!” –-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e e Meis” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Melandri: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- le forme dell’analogia – analogia
nel convito di Platone – Reale – filosofia ligure – la scuola di Genova -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Genova).
Filosofo ligure.
Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “One of the ten items he lists in
his ‘Contro lo simbolico’ is ‘lo simbolico’ itself!” -- Grice: “Melandri takes
analogy more seriously than I did – I do list ‘analogy’ as part of what I call
‘philosophical eschatology – the third branch of metaphysics, along with
ontology and category study.” Grice: “Melandri focuses on the Graeco-Roman tradition
of analogy, which he pairs with two other concepts: proportion, and symmetry –
re-interpreting mainly Aquino’s reading of the Aristotelian tradition in a
semiotic approach.” Grice: “Melandri also takes Kant seriously on this.” Grice:
“If an Italian philosopher wrote ‘contro la comunicazione,’ another wrote
‘contro il simbolico’!” -- Grice: “He
has studied Buehler; I like that!” Laureatosi
a 'Bologna, è lettore a Kiel in Germania. Insegna poi a Lecce, Trieste e Bologna.
Parallelamente all'attività universitaria, collabora con Mulino e alla rivista
omonima, per le quali ha svolto attività di consulenza, con traduzioni e
curatele, pubblicando con essa alcuni dei suoi saggi. I suoi saggi vertono
sulla fenomenologia di Husserl, sul concetto di analogia e sul principio di
simmetria. Tra le sue curatele, anche presso altre case editrici -- Cappelli,
Faenza, Laterza, Ponte alle Grazie, Giuffrè, Pitagora ecc. -- ci sono studi che
vanno dalla scienza politica di Ritter e di Habermas, alla fenomenologia di Schütz, dalla logica di Copilowski e dalla
filosofia del linguaggio do Hoffmann o dai paradossi di Bolzano (e poi la
storia della logica di Scholz), agli studi di metodologia scientifica di Pap, a
quelli di psicologia della percezione di Meinong o di Ehrenfels, e dall'estetica
di Trier alla metaforologia» di Blumenberg ecc.
Ha istituito un gruppo di studi su Leibniz, in seguito affiliato col
nome di «Sodalitas Leibnitiana» alla Leibniz-Gesellschaft di Hannover. Ha anche
collaborato attivamente alle attività del Centro di studi per la filosofia
mitteleuropea con sede a Trento; partecipando alla realizzazione della rivista Topoi. Da
vita agl’Annali dell'Istituto di discipline filosofiche dell'Bologna, poi
trasformatisia nella rivista semestrale «Discipline filosofiche», ancora attiva
e di cui è stato il direttore. Tra i suoi saggi, spicca per centralità di
pensiero “La linea e il circolo,” definito d’Agamben un capolavoro della
filosofia. Il filo conduttore di tutta
la riflessione di M. è il rapporto tra pensiero logico e pensiero analogico. Mentre
la logica tende a svilupparsi mediante un concetto d'identità elementare,
legato alla discontinuità del principio di non-contraddizione, l’ANALOGIA si
fonda invece sul principio di continuità, legato alla figura oppositiva della
contrarietà, che ammette una transizione tra gl’opposti. Ora, queste due forme
di ragionamento non sono affatto inconciliabili, ma complementari, in quanto
fondate, non su una struttura assiomatica, ma su una diversa direzione
costitutiva dell'esperienza. Questa diversità prospettica si realizza, secondo
M., nella fenomenologia husserliana, di cui egli tende a evidenziare
l'empirismo radicale connesso alle strutture costitutivo-trascendentali della
soggettività e ben distinto, dunque, da quell'idealismo entro cui troppo spesso
si è voluto rubricare l'atteggiamento fenomenologico. In ultima istanza, congiungendo
istanze aristoteliche e husserliane, M. assume una concezione dell'essere
fondamentalmente equivoca, nell'ambito della quale l'intenzionalità si
presenta, al tempo stesso, come principio formale logico e funtore operativo
analogico. Inoltre, M. espone questi contenuti filosofici attraverso un metodo
d'indagine e d'insegnamento del tutto particolare, che viene così descritto da Besoli,
filosofo a Bologna. A lezione, si può dire che M. non parlas, ma pensas ad alta
voce dando l'illusione, quanto mai benefica ed essenzialmente terapeutica, di
pensare insieme con lui. Si ha l'impressione di assistere, dunque, a un
pensiero in corso d'opera, e più propriamente ciò che accade e un'esperienza di
pensiero condivisa, giacché la condivisione e appunto la condizione stessa
della buona riuscita di tale esperienza Altri saggi: “I paradossi dell'infinito nell'orizzonte
fenomenologico,” -- introduzione a Bolzano, “I paradossi dell'infinito”,
Cappelli, Bologna; “Logica ed esperienza,” “La scienza come criterio storio-grafico,”
“Note in margine all'organon dei peripatetici; “Considerazioni critiche sui syn-categorematica
– co-predicabili – negazione come avverbio, la congiunzione ‘e’ come co-predicabili,
la disgiunzione ‘o’ come co-predicabili, l’implicazione ‘se’ come co-predicabile
-- ” in "Lingua e stile", “Esistenzialismo,” “Logica e Logistica” Enciclopedia “Filosofia,” Preti, Feltrinelli,
Milano; “Psicologia galileiana” -- poi in Sette variazioni in tema di psicologia
e scienze sociali; “Foucault: l'epistemologia delle scienze umane", in
«Lingua e stile». “E corretto l'uso dell'analogia nel diritto? Zoon Politikon.
Bolk e l'antropo-genesi, Che Fare, “La linea e il circol: studio
logico-filosofico sull'analogia, Bologna: Mulino rist. Macerata: Quodlibet, prefazione d’Agamben,
appendice di Besoli e Brigati, Limongi. Nota
in margine all'episteme di Foucault, Lingua e stile, La realtà e l'immagine, in
Barth, Verità e ideologia; Sulla crisi attuale della filosofia, Mulino, L'analogia, la proporzione, la simmetria,
Isedi, Milano. I generi letterari e la loro origine, Lingua e stile, Quodlibet,
Macerata, L'inconscio e la dialettica, Bologna: Cappelli, Freud: L'inconscio e
la dialettica, Sette variazioni in tema di psicologia e scienze sociali,
Bologna: Pitagora; L'inconscio e la
dialettica, Macerata: Quodlibet. Bühler. La crisi della psicologia come
introduzione a una nuova teoria linguistica, in Animo ed esattezza. Letteratura
e scienza, Marietti: Casale Monferrato, Variazioni in tema di psicologia e
scienze sociali, Pitagora, Bologna; Matematica e logica in psicologia: applicazione
propria determinante o im-propria analogico-riflettente, L'inconscio e la
dialettica, Macerata: Quodlibet, Per una filologia del sublime, in "Studi
di estetica" (Grice: “I like that; surely there must be an ordinary
unpompous way to say or mean ‘sublime’” – “Go thorugh the dictionary!” -- La
novità degl’ultimi tremila anni, Mulino", "Faenza" e Marisa
Vescovo, L’oblio affligge la memoria; La comunicazione e la retorica, Contro il
simbolico. Lezioni di
filosofia, -- Grice: “The ten ‘concepts’ he chooses are less important than the
generic remarks he makes about the whole ten.” Grice: “While in his study on ‘analogia, proporzione,
simmetria,’ he is semiotic, in this one he is thoroughly hermeneutic!” -- Quodlibet,
Macerata, postfazione di Guidetti; Sul concetto di descrizione nella psicologia
fenomenologica, in "Intersezioni", Su quel che è dato” (Grice: “A
good analysis of a phrase I overuse, ‘datum,’ as per sense-datum’! in
"erri", Le ricerche logiche di Husserl: introduzione e commento, Mulino,
Bologna, Su quel che c'è, e quel che immaginiamo che ci sia, o della principale
equi-vocazione del termine 'rappresentazione')", in Discipline filosofiche,
Il problema della comunicazione, Paradigmi, Tempo e temporalità nell'orizzonte
fenomenologico, Discipline filosofiche, La crisi dei grandi sistemi e l'avvento
della filosofia esistenziale, Questo nostro tempo -- studi e riflessioni
sull'evolversi della nostra epoca” (Bologna); Filosofia come critica della
conoscenza e impegno interdisciplinare, Tratti, Besoli, Il percorso
intellettuale, in Studi su M., Faenza, Agamben, Archeologia di un'archeologia,
in M., La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull'analogia, Macerata:
Quodlibet, Agamben, Al di là dei generi letterari, in M., I generi letterari e
la loro origine, Macerata: Quodlibet,
Ambrosetti, Sugli stoici, Roma: Aracne; Ambrosetti, Una lettura di
Epitteto", in "dianoia", Besoli, "Il percorso
fenomenologico", in La
fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni, Roma: Inschibboleth; Besoli
e Paris (Faenza: Polaris); Bonfanti, Le forme dell'analogia. Roma: Aracne. Cimatti,
"Postfazione: Psicoanalisi e rivoluzione", in L'inconscio e la
dialettica, Macerata: Quodlibet sinistra
in rete.info cultura’ Lagna e Lévano, "Contro l’isomorfismo. Il rapporto
soggetto-oggetto, Philosophy Kitchen, Matteuzzi, "Prefazione", in Ambrosetti,
Sugli stoici, Roma: Aracne); Palombini, "Dal chiasma ontologico al chiasma
trascendentale. Forme di razionalità in «Philosophy Kitchen», Possati, La
ripetizione creatrice. lo spazio dell'analogia, Milano-Udine: Mimesis. Sini,
"Lo schematismo figurale", in Besoli e Paris. Solerio, Le opere di M. edite da Quodlibet, edizione completa.
Discipline Filosofiche, rivista di filosofia. Enzo Melandri. Melandri.
Keywords: Bühler, l’aggetivo ‘galileano’ -- le forme dell’analogia, Grice –
analogia – problema della comunicazione, Buehler, teoria di Buehler, analogical
unification, lacomunicazione, implicaturaproblematica, aquino, kant, mill,
jevons, maxwell, Perelman, abcd, haenssler, dorolle, lyttkens, Reichenbach,
newton, cellucci, marramao, aristotele, platone, convito, reale, grice,
analogicalunification, owens, ross. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Melandri,”
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Luigi Speranza --
Grice e Melanipide: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma
– filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Bari. The author of a
number of tragedies. He appears to have practised a relatively ascetic version
of Pythagoreanism. Grice: “Cicerone argues: Melanipide spoke Greek, not Latin;
therefore, he is not an Italian. At Oxford, we are a bit more inclusive:
Gellner spoke French, he is a Jewish philosopher who teaches at some London
red-brick!” -- Melanipide
Luigi Speranza -- Grice e Melchiorre: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – il corpo – la filosofia
dell’amore – amante ed amato – il convito di Turolla – la scuola di Chieti -- filosofia
abruzzese -- filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Chieti). Filosofo italiano. Chieti, Abruzzo. Grice: “I like
Melchiorre; while I refer to bodily identity in my “Mind” essay, Melchiorre has
dedicated a whole treatise to ‘the body’ – he has also explored semiotic
aspects and come up with nice oxymora: ‘nome indicibile,’ ‘immaginazione
simbolica,’ ‘essere e parola.’”. Grice: “Melchiorre’s first explorations on the
concept of body is Strawsonian – corpore e persona -. What led Melchiorre to
this reflection is what he calls a meta-critique of love – Socrates did his
critique of love in the Symposium, and Phaedrus – Melchiorre analyses this from
a body-theoretical perspective.” Dopo
essere stato ammesso al Collegio Augustinianum, inizia a frequentare la Facoltà
di Filosofia all'Università Cattolica del Sacro Cuore, dove si laurea. Terminati gli studi, nel medesimo ateneo
inizia la carriera accademica come assistente volontario di filosofia della
storia, per poi insegnare a Venezia.
Richiamato a Milano, ha ricoperto la cattedra di Filosofia morale, per poi
insegnare Filosofia teoretica. Ha diretto, presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia dell'Università Cattolica, la Scuola di specializzazione in Comunicazioni
sociali. Altri saggi: Arte ed esistenza, Firenze’ Il metodo di Mounier, Milano;
Il sapere storico, Brescia; La coscienza utopica, Milano; L'immaginazione
simbolica, Bologna, Meta-critica dell'eros, Milano, Ideologia, utopia,
religione, Milano, Essere e parola, Milano, Corpo e persona, Genova, “Studi su
Kierkegaard, Genova, Analogia e analisi trascendentale: linee per una lettura
di Kant, Milano, Figure del sapere, Milano, La via analogica, Milano, Creazione,
creatività, ermeneutica, Brescia, I segni della storia, Ghezzano Fontina, Al di
là dell'ultimo, Milano, Sulla speranza, Brescia, “Ethica,” Genova, Dialettica
del senso. Percorsi di fenomenologia ontologica, Milano, “Qohelet, o la
serenità del vivere,” Brescia, Essere persona,” Milano, Breviario di
metafisica, Brescia, Il nome indicibile, Milano, Profilo nel sito
dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Recensione del volume Essere
persona. Natura e struttura di Rigobello, in Acta Philosophica, Rivista
internazionale di filosofia. Unità e pluralità del vero: filosofie, religioni,
culture. I diversi volti della verità Relazione di M., Convegno del Centro
Studi Filosofici Gallarate, video integrale nel sito Cattedra SERBATI. M., Rai Educational Enciclopedia
Multimediale delle Scienze Filosofiche. Grice:
“Melchiorre, while quoting the necessary German sources for an Italian
philosophers – Eros und Agape, tr. N. Gay – he dwells on Enrico Turolla’s
beloved (by every Italian schoolboy) version of “Convito” – which Turolla
published under the ostentatious title, “Dialogo dell’amore” – Melchiorre
typically finds some mistakes, since Turolla was no philosopher – and no lover
of Sophia, and no Sophos of love!” -- Virgilio Melchiorre. Melchiorre. Keywords: il corpo corpi e personi,
meta-critica dell’eros, il convito di Trolla, il fedro di Turolla – amore – il
riconoscimento come identita – la dialettica dell’atto amoroso – l’amante e
l’amato – l’amore reciproco, amore e contramore, erote ed anterote --. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Melchiorre” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Melesia: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto,
Basilcata. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide. Grice: “Cicerone complained
that Melesia spoke Greek, not Roman!” – Melesia.
Luigi Speranza --
Grice e Melisso: la ragione conversazionale e la scuola di Velia -- Roma – filosofia
campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Velia). Filosofo italiano. Velia, Campania. A pupil
of Parmenide di Velia. The cosmos is not
physical and change is an illusion he attributed to the unreliability of the
senses. Luigi Speranza, “Grice e Melisso”, The
Swimming-Pool Library. Melisso
Luigi Speranza -- Grice e Melli: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- AVRELIO – filosofia italiana
– la filosofia a Roma nel tempo di Pomponio – pre-ambasciata -- Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice:
“I like Melli; you see, Italians feel that Marc’aurelio is theirs, so Melli
puts his soul in his essay on Marc’aurelio, while his essay on Socrates is
rather neutral! For us at Oxford, both Marc’Aurelio and ‘Socrate’ are just as
furrin; Locke ain’t!”. Altri saggi: La
filosofia di Schopenauer, Felice Tocco, Firenze, Il professor Tocco, Firenze,Commemorazione
di Villari, Firenze, La filosofia greca
da Epicuro ai Neoplatonici, Firenze, Socrate, Lanciano. I primi contatti tra i
filosofi romani e i filosofi greci non sono amichevoli. Essendosi parlato in
senato dei filosofi e dei retori il senato consulto da incarico al pretore
Marco POMPONIO (si veda) di provvedere “uti Romae NE essent [FILOSOFI greci]”. Semi
della filosofia greca sono sparsi dagl’esuli ACHEI, tra i quali era anche
Polibio, venuti dopo la guerra macedonica. Pochi anni dopo, ci e l'ambasciata
della quale fa parte Carneade. Anche questa volta vedemmo come CATONE (si veda)
s’impensiera dell’efficacia rovinosa che quell’abile parlatore puo esercitare
sull'educazione nazionale. Ma Carneade ha un grande successo e l’infiltrazione
delle idee filosofiche grechi e già cominciata, specialmente dopo la conquista
delle città della Magna Grecia come Crotone – sede della scuola di Pitagora --,
Taranto – sede della scuola di Archita --, Velia – sede di Parmenide e Senone –
e dopo l’isola della Sicilia – Girgenti, sede della scuola di Empedocle --, e Leontini,
sede della scuola di Gorgia. Nei ditti, tradotti o imitati, i filosofi romani
senteno parlare di questo ‘amore di sapienza’, filosofia, e degl’amanti di sapienza,
filosofi. Un motto si trova in un frammento di ENNIO (si veda), nel Neottolemo.
Philosophari mihi necesse est, sed degustalidum de ea, non ingurgitandum in eam.
Col progredire della cultura, con lo svilupparsi dell'eloquenza, nasce il
bisogno di far istruir i romani presso questi pedagogi schiavi ditti amanti di
sapienza. Alcuni grandi personaggi, come SCIPIONE Emiliano (si veda) e il suo
amico LELIO (si veda) divieno protettori dei questi pedagogi detti ‘amanti
della sapienza’ e li ammettano nella loro familiarità. I giureconsulti trovano
un'utile disciplina nella dialettica, studiata nella lingua strainiera, non in
romano. La riforme di GRACCO (si veda) -- Gracchi -- e ispirata da idee di
questi ‘amanti di sapienza’. Quello che i filosofi romani domandano a questo
‘amore di sapienza’ e 1'orientazione nelle questioni pratiche e una cultura
necessaria o utile all’oratore, al giureconsulto,
agl’uomini di stato. Cominciano ad essere conosciute le diverse scuole o sette.
Una delle prime ad essere trattata in latino e la dottrina dell’Orto. Sono
nominati un AMAFINO (si veda) e un RABIRIO
(si veda) come espositori delle idee, dell’Orto, ma con poca arte. Più tardi è
pure ‘edonista’ – sostenitore del piacere -- un certo CAZIO (si veda), “levis
quidem, sed non inineundus tamen auctor”, secondo Quintiliano. Ma non ne
sappiamo nulla. Il grande interprete dell'edonismo presso i Romani è LUCREZIO
(si veda), che segue Empedocle. Altri ‘amanti di sapienza’ sono M. BRUTO minore
(si veda), l'uccisore di Cesare, che parla della virtù e dei doveri, e il
dottissimo VARRONE (si veda), che insieme con Bruto, sente Antioco in Atene, e
in psicologia e in teologia segue più il PORTICO che l'Accademia. Ma tutte
queste sono semplici notizie. Il gran nome che oscura, tutti gl’altri ed è per
noi il vero rappresentante e inter-prete della filosofia presso i romani è CICERONE
(si veda). I primi contatti tra Roma e i filosofi greci non furono amichevoli.
Abbiamo già accennato al senatocon- sulto del 161, nel quale, essendosi parlato
in senato dei filosofi e dei retori ch’erano in Italia, si dava incarico al
pretore Marco Pomponio di provvedere uti Romae ne essent. Pare che i primi semi
della filosofia fossero sparsi dagli esuli achei, tra i quali era anche
Polibio, venuti * dopo la guerra macedonica nel 168 a. C. Pochi anni dopo, nel
156 ci fu l’ambasciata della quale faceva parte Oar- neade, e anche questa
volta vedemmo come il vècchio Catone s’impensierisse dell’efficacia rovinosa
che quegli abili parlatori potevano esercitare sull’educazione nazionale. Ma
ebbero, come sappiamo, un grande successo ; e l’infiltrazione delle idee greche
era già cominciata con la letteratura, specialmente dopo la conquista delle
città della Mago a Grecia. Nelle tragedie tradotte o imitate, e LA FILOSOFIA
PRIMA DI CICERONE 201 anche nelle commedie, i Romani sentivano parlare sul
teatro di filosofìa e di filosofi. (Ricordo il motto che si trova in un
frammento di Ennio, nel Neottolemo di Euripide: Philosophari mihi necesse est,
sed degustan- dum de ea, non ingurgitandum in eam). Ool progredire della
cultura, con lo svilupparsi dell’eloquenza, nasce il bisogno d’istruirsi presso
i filosofi. Alcuni grandi personaggi, come Scipione Emiliano, il suo amico
Lelio, diventano protettori dei filosofi, li ammettono nella loro familiarità.
I giureconsulti trovano un’utile disciplina nella dialettica stoica; le riforme
dei Gracchi sono ispirate da idee filosofiche: quello che i Romani domandavano
alla filosofìa era l’orientazione nelle quistioni pratiche e una cultura
necessaria o utile agli oratori, ai giureconsulti, agli uomini di Stato.
Cominciano ad essere conosciute le diverse scuole. Una delle prime ad essere
trattata in latino dev’essere stata la dottrina di Epicuro, perchè sono
nominati un Amafinio e un Rabirio come espositori della filosofìa epicurea, ma
pare con poca arte; e più tardi, ai tempi di Cicerone, è pure epicureo un certo
Catius, levis quìdem, sed non ìniueundus tamen auctor, secondo Quintiliano. Ma
non ne sappiamo nulla. Il grande interprete dell’ Epicureismo presso i Romani è
Lucrezio. Altri scrittori di filosofìa furono M. Bruto, l’uccisore di Cesare,
che scrisse della virtù e dei doveri, e il dottissimo Varrone, che insieme con
Bruto aveva sentito Antioco in Atene, e in psicologia e in teologia seguiva,
pare, più gli Stoici che l’Accademia. Ma tutte queste sono semplici notizie. Il
gran nome che oscura tutti gli altri ed è per noi il vero rappresentante e
interprete della filosofia presso i Romani è M. Tullio Cicerone. 202 LA
FILOSOFIA A ROMA L’uomo politico e l’oratore non ci appartengono, ma sui
filosofo dobbiamo fermarci un momento. 2. - Cicerone nacque nel 106, fu ucciso
dai sicari di Antonio nel 43 a. C. Studiò in Atene e a Rodi, udì maestri delle
varie scuole : Fedro epicureo, Filone di Larissa accademico: lo stoico Liodoto
divenne suo ospite per più anni, e diventato cieco morì in casa sua: udì poi ad
Atene Antioco di Ascalona, l’epicureo Zenone, e a Rodi lo stoico Posdonio. Cli
uffici pubblici e la vita tempestosa di Roma in quegli ultimi anni della
Repubblica lo avevano distolto dagli studi filosofici, ch’egli del resto aveva
considerato sempre come una preparazione necessaria all’oratore e poi come una
nobile distrazione dello spirito; ma le vicende della vita pubblica, l’ozio a
cui è condannato dopo la battaglia di Farsaglia, e sventure domestiche, tra cui
specialmente la morte della figlia Tullia amatissima, lo riconducono alla
filosofia, nella quale egli cerca un’occupazione e una consolazione. Bisogna
aggiungere a questi motivi quella che chiamano la vanità letteraria, e ch’è la
passione dello scrittore di razza, di uno scrittore di prim’ordine e che gode
di una grandissima autorità presso i suoi concittadini; egli vuol far parlare
in latino la filosofia, toglierne il monopolio ai Greci, darle il diritto di
cittadinanza in Roma rivaleggiando con loro, e si rivolge ai giovani ut huius
quoque generis laudem iam languenti Graeciae eri- piant; ed egli si dà come
l’iniziatore di quest’opera, di conquistare alla letteratura latina questa
vastissima provincia del sapere. Già prima, (lai 54 al 52, egli aveva scrìtto i
suoi trattati politici De repuìflicci e De legibus, e prima ancora, nel De oratore,
era proclamata con molta energia 1’unione della filo- sofia con l’eloquenza :
Cicerone in un luogo del De nat. deor. si vanta di aver sempre filosofato: cum
minime videbamur, tum maxime philosophabamur ; ma i suoi libri propriamente
d’argomento filosofico li ha scritti negli ultimi anni della sua vita, dal 45
al 43. E quali siano questi scrìtti filosofici ce lo dice egli stesso in un
passo del De divinalione, IX, 1. Egli comincia con un trattato dal titolo
Consolatio, composto dopo la battaglia di Earsaglia e la morte della figlia,
indicando nel titolo i servizi ch’egli si aspetta dalla filosofìa: era fatto a
imitazione di un libro simile di Orantore accademico raspi, raévOoo;, eh’ è
detto altrove un libro d’oro, da imparare a memoria. Poi scrive VHortensìus,
introduzione ed esortazione allo studio della filosofia, difendendola dai
pregiudizi romani. Ortensio, ch’era un grande oratore suo contemporaneo, vi
combatteva lo studio della filosofìa, Cicerone la difendeva calorosamente. Il
libro era molto ammirato. S. Agostino lo ha conosciuto, e la lettura di esso
contribuì alla sua conversione. Questi due libri sono perduti. Le opere che ci
rimangono sono : Academica > in due libri, importantissimi per le controversie
dibattute fra Stoici e Accademici intorno al problema della conoscenza e
specialmente per le opinioni degli Accademici più recenti fino ad Antioco. Ce
n’ora una prima redazione in due libri; poi l’opera fu rifatta, in quattro
libri, e dedicata a Varrone che vi entra come interlocutore. Il caso ha voluto
che noi possediamo il 1° libro della seconda edizione, e il 2° libro, il così
detto Lncullus, della prima (che si sogliono citare Ac. post. I, e Ac. pr. II).
È deplorevole che non ci sia, e sarebbe desideratissima, un’edizione italiana
commentata di questi libri. De Finibus honorum et malorum, in cinque libri. Vi
sono esposte e criticate le teorie delle diverse scuole greche sul problema
fondamentale dell’Etica, il sommo bene o il fine delle azioni. Nel 1° libro
Torquato espone la dottrina di Epicuro, nel 2° Cicerone ne fa la critica; nel
3° è introdotto Catone, quello di Utica, a esporre la filosofìa stoica, nel 4°
se ne fa la critica ; il 5° libro espone la teoria accademica e peripatetica. È
una delle opere più istruttive e forse meglio composte di Cicerone. Le
Tttsculanae disputationes, in cinque libri, dalla villa ciceroniana di Tusculo,
in cui si suppone tenuto il dialogo, pure d’argomento morale: il 1° tratta de
eontemnenda morte, il 2° de tolerando dolore, il 3° de aegritudine lenienda, il
4° de reliquis animi perturbationibus, il 5°, continua Cicerone, eum locum
complexus est qui totam phil osophiam maxime inlustrat, docet enim ad beate
vivendum virtutem se ipsa esse contentam. Seguono i tre libri De natura deorum,
importanti per le teorie metafisiche e teologiche degli Epicurei e degli Stoici.
Un epicureo, Velloio, espone la teoria di Epicuro; Lucilio Balbo stoico la
teologia degli Stoici; Aurelio Cotta accademico combatte gli uni e gli altri
dal punto di vista delle dottrine probabiliste della nuova Accademia. Si
connettono col De natura deorum i libri De divina- tione, nel 1° dei quali il
fratello di Cicerone, Quinto, difende dal punto di vista stoico la verità della
divinazione, e nel 2° F augure Marco Tullio Cicerone la combatte con una
gragnuola di argomenti vivacissimi ; e così pure si connette agli stessi
argomenti il libro De fato, che ci è pervenuto disgraziatamente con molte
lacune, nel quale sono esposte molto sottilmente le quistioni intorno al destino
e il modo confesso possa conciliarsi con la libertà umana: anche questa una
delle controversie dibattute fra Stoici e Accademici. Ci sono poi degli scritti
minori, Oato maior de senectute, Laelius de amicitia; anche i Paradoxa, scritti
prima, nei quali Cicerone si diverte a sostenere in linguaggio oratorio, come
un avvocato, sei dei piu famosi paradossi stoici; e infine il grande trattato
di morale pratica De officìis, in tre libri. La filosofia sociale e la teoria
del diritto erano state trattate prima nei libri De republiea e in quelli De
Legibus. Questi sono gli scritti filosofici di Cicerone, dei quali egli stesso
dice in ima lettera ad Attico: àT:óypacpa sunt; minore labore fiunt; verba
tantum afferò, quibus abundo: sono riproduzioni, derivano da fonti greche: le
quali parole sono state prese da alcuni molto alla lettera, senza tener conto
di quello che Cicerone ci ha messo di suo, oltre le parole latine, e senza
badare a quest 7 altre parole sue (De fin. I, fi): non interpretum fungimnr
munere, sed tuemur ea quae dieta sunt ab iis quos probamus, eisque nostrum
iudicium et nostrum scribendi ordinem adiungimus. È noto il giudizio del
Mommsen e di altri-: giornalista, dilettante, compilatore frettoloso e
confusionario. Un altro tedesco, lo Ziegler, ha detto : il solo suo merito è di
aver trovato parole e frasi latine per rivestirne i pensieri greci, un merito
che può essere stato utile più che ai suoi contemporanei, agli scolastici del
medio evo e ai latinisti moderni. Questi giudizi non sono giusti, non
corrispondono alla realtà. Cicerone non è un filosofo di professione: è un
spirito colto, agile, curioso, che ha il gusto delle idee generali, e considera
la filosofìa come una parte essenziale della cultura umana, importante
soprattutto per la vita pratica. L’opera sua si può considerare o come
contributo alla storia della filosofia anteriore, o per le dottrine e i
risultati a cui egli è giunto. Come storico, Cicerone ha conosciuto
direttamente e sin da giovane le dottrine più recenti: lo stoicismo,
l’epicureismo, i nuovi Accademici fino a Filone ed Antioco : oltre a questi, ha
letto certamente scritti di Aristotile (probabilmente quelli che si dissero essoterici,
di carattere popolare) e di Teofrasto, conosce anche alcuni dialoghi di
Platone, si è provato a tradurre il Timeo, conosce Senofonte, gli è familiare
la figura di Socrate. Ora è un fatto che per tutto il periodo postaristotelico,
Cicerone è una delle fonti secondarie più importanti per le preziose
informazioni ch’egli ci dà sulle dottrine e le controversie di quel tempo :
egli ha letto libri che noi non conosciamo più; e non sono nemmeno senza valore
le indicazioni e notizie ch’egli ci dà, perchè le trova nei suoi libri, sulla
filosofia anteriore ad Aristotile, anche sui presocratici. Cosicché, coi soli
libri di Cicerone si può ricostruire, ed è stato fatto più volte, tutta una
storia della filosofia antica fino a lui. Si dirà: non è una storia
attendibile, non è una storia del tutto esatta: ha bisogno di essere
controllata, commentata e corretta. Ma si può domandare: qual’è lo scrittore o
doxografo antico di cui non si debba dire lo stesso, a cominciare da Aristotile
e da Teofrasto, che pure erano filosofi di protessione, e scrivendo di storia
della filosofia ci hanno dato notizie e interpretazioni del pensiero altrui
molte volte discutibili. Sarà sempre uno studio interessante il cercare le
fonti di cui può essersi servito Cicerone e come se n’ è servito: si potrà
trovare che in qualche punto s’inganna, che può aver lavorato in fretta, che
parafrasando o accorciando gli è accaduto di fraintendere in qualche punto la
dottrina che espone: tutte cose su cui si può discutere caso per caso ; ma dal
dire questo al dire sommariamente che non capiva niente di filosofia e non
sapeva leggere i libri che aveva davanti, c’è una grande distanza. Come ha
detto benissimo il Giussani, è diventata una specie di moda o di mania quella
di parecchi critici di scoprire a ogni momento prove dell’ignoranza o della
irriflessione di Cicerone. Piò volte invece accade che una più attenta
considerazione può provare che chi non ha capito è il critico. Ma questa non è
nemmeno la cosa più importante. Anche ammessi tutti gli errori parziali o di
fatto che si attribuiscono a Cicerone, quello che non bisogna dimenticare è che
le idee e le dottrine della filosofia antica andavano ripensate per poter
essere dette in latino, e sono state ripensate e rielaborate da un cervello non
scolastico, coltissimo, aperto, ch’era anche un grande scrittore, un maestro
della parola, e si rivolgeva a un gran pubblico, non fatto per le disquisizioni
sottili o le finezze di scuola. Questo ripensamento e questa trascrizione delle
idee greche in un altro linguaggio non è il primo venuto che poteva farla. Non
solo ai suoi concittadini e contemporanei, ma durante il Medio Evo, per quanto
poteva essere conosciuto, e più specialmente dalla Rinascenza in poi, le opere
di Cicerone hanno reso all’umanità tutta quanta, alla cultura umana, un
servizio immenso. « Le esposizioni delle dottrine antiche che noi possiamo ora
trovare superficiali o anche in qualche punto inesatte, erano fatte con una
grande chiarezza e in una forma attraente. Per uomini che non potevano leggere,
e che anche potendo non avrebbero capito Platone e Aristotile, che pure tutti
citavano, Cicerone fu una guida preziosa. Lo stesso carattere eclettico della
sua opera era un pregio di più : vi si trovava quello che gli antichi avevano
pensato di più nobile, di più grande e di più accessibile. Si direbbe che
Cicerone avesse preparato per gli uomini a cui la barbarie aveva impedito per
più secoli di pensare, un nutrimento intellettuale eh’essi potessero
assimilarsi, a dir così il succo della filosofìa antica; che li preparasse a
comprendere i filosofi greci quando fossero stati loro accessibili, e li
preparasse infine a pensare da sè » ] ). Questo servizio, come interprete vivo,
facile, eloquente, del pensiero antico, egli ha continuato a renderlo anche
dopo il Rinascimento, continua a renderlo tutti i giorni, in tutte le scuole,
dovunque s’impara a leggere e a pensare leggendo le sue opere. - Rimane a
sapere qual’è il valore di Cicerone come filosofo, che cosa ha pensato lui)
Queste parole sono del Picavet, nell’ Introduzione alla sua edizione, con note,
del II libro De Natura deorum (Paris, Alcan)] ( qual’è e se c’è un contributo
suo personale alla storia delle idee. CICERONE (vedasi) non è e non pretende di
essere un filosofo originale. Sa di essere scolaro dei Greci e si trova davanti
a dottrine discordanti, quando già nelle scuole greche stesse è cominciato quel
processo di ravvicinamento e di fusione che le porta a diventare eclettiche,
ciascuna a modo suo. Qual’è l’atteggiamento ch’egli prende? Cicerone si
professa accademico, dice di aderire alla teoria della conoscenza della nuova
Accademia. Non già ch’egli creda suo compito il trattare ex professo di questi
problemi, riflettendo per conto suo sulle condizioni e i limiti della
conoscenza umana, come ha fatto Cameade; no, egli non ha di queste ambizioni;
ma trovandosi davanti al contrasto delle sètte e delle opinioni su quistioni
spesso sottili, su problemi difficili a decidere, l’attitudine più savia gli
pare quella del dubbio prudente, raccomandato, com’egli crede coi suoi maestri,
da Socrate e da Platone: egli non è scettico ma probabilista: è la dottrina o
meglio la disposizione di spirito ch’egli chiama, meno arrogante, la più aliena
dalle arroganze dogmatiche; ed è anche conforme alla sua abitudine di sostenere
il prò e il contro di ciascuna causa, richiede agilità e versatilità di
spirito, e si presta agli sviluppi oratori, mentre nello stesso tempo lo tiene
in guardia dai paradossi stravaganti, e lo mantiene in contatto con le opinioni
popolari. E infine diciamo pure eh’è un’attitudine conforme alla sua natura
ondeggiante e diversa, al suo carattere spesso indeciso anche nella vita
pratica. Ma intanto quest’adesione al probabilismo accademico gli ha giovato a
mantenere lo spirito libero, a non farsi seguace di Una setta, a non giurare
nelle parole di un maestro: Vipse dixit dei Pitagorici non gli piace: nos in
diem vivimus : vuol conservare l’indipendenza del suo spi- rrito: la disciplina
accademica non solo gli pare la meno arrogante, ma la più elegante e la più
coerente, non nel senso eh’essa importi un sistema chiuso di dottrine che non
si contradicono, ma nel senso eh’essa suppone una disposizione di spirito che,
dando la sua adesione a ciò eh’è più verisimile, rimane sempre conseguente con
se stessa: il che gli ha permesso di prendere quello che gli pareva buono in
ciascun sistema, di libare tutte le dottrine, di essere insomma l’interprete e
il volgarizzatore dei grandi pensieri di tutte le scuole antiche. Questa
disposizione di spirito, piuttosto che scettica, si potrebbe dire liberalo e
non settaria, senza partito preso, e Cicerone la descrive con parole che
meritano di essere ritenute : (De nat. deor. J, 12): « Noi non diciamo che non
ci sia niente di vero, ma al vero è mescolato il falso, bisogna essere canti
nel giudicare e nell’affermare : diciamo che ci sono molte cose probabili, le
quali se pure non dànno scienza certa, generano una convinzione che basta a guidare
l’uomo savio. E in un luogo molto bello del libro II dei primi Accar- demici,
al cap. 3° è detto: « Fra noi e coloro che credono di sapere la verità delle
cose passa questo divario, ch’essi tengono per verissime le loro opinioni,
mentre noi abbiamo sì molte cose probabili da seguire, ma non ci attentiamo di
spacciarle per certe. Così rimanendo assai più liberi e sciolti nel giudicare
{inteff tu nobis est iiidicandi potestas ), nessuna necessità ci costringe a
difendere delle dottrine prescritte e a dir così comandate ; mentre che gli
altri si trovano incatenati ad alcune dottrine prima che sappiano quale sia la
migliore: l e trascinati sin da giovinetti, nell’età più debole, da un amico
autorevole* o . presi dal discorso di un maestro eloquente, giudicano di cose
che non conoscono, e quasi fossero sbalzati dalla tempesta, s’attaccano come ad
uno scoglio al primo sistema di cui hanno sentito parlare : ad quameumque sant
disciplinavi quasi tempestate delati, ad eam y tanquam ad saxum, adhaerescunt
». O come dice altrove (De nat. deor. I, 5): obesi plerumque iis qui discere
volani, auctoritas eorum, qui se decere profitentur. Quest’attitudine di
riserva prudente egli mantiene specialmente nelle quistioni di fìsica, che del
resto non sono di sua competenza, e sulle quali le opinioni sono tante e così
discordanti. Latent ista omnia. Noi non conosciamo abbastanza nè il nostro
corpo nè che cosa è l’anima, se è fuoco, aria o sangue, se è mortale o eterna:
nam in utramque partem multa dicuntur. Non possiamo penetrare nè nel cielo nè
dentro la terra. Tuttavia non crede che lo studio della fìsica debba essere
messo da parte. L’esame e la.considerazione della natura sono una specie di nutrimento
(pabulum) per lo spirito. Diventiamo più grandi, ci solleviamo al di sopra di
noi stessi, sdegniamo le cose umane tenendo l’occhio e la mente rivolti alle
cose divine e celesti. La ricerca, anche nelle cose più oscure, ha una grande
attrattiva e procura una voluttà umanissima. Ma da buon romano, nonostante
quest’elevazione dello spirito, egli ha poco gusto per la speculazione pura:
apprezza di più la scienza eli* è utile alla vita. E quanto più si avvicina
allo studio dell’ uomo e ai problemi pratici della vita morale e sociale, egli
sente il bisogno di affermazioni più decise. E tra il contrasto delle opinioni
una sorgente o criterio di verità, o vogliamo dire di probabilità massima, gli
si apre, ed è la coscienza naturale, quello che la coscienza comune e non
falsificata di tutti gli uomini rivela a ciascuno, e che trova la sua conferma
nel comensus gentium. Egli ricorda il ‘conosci te stesso’ dell’oracolo e lo
interpreta in questo senso: tutta quanta la filosofìa è un commento, uno
sviluppo della conoscenza di se stessi, di quello che la coscienza ci rivela.
Gli Stoici e in un certo senso anche gli Epicurei avevano parlato di nozioni
comuni, che si formano naturalmente in ogni coscienza. E Filone di Larissa deve
avergli insegnato che ci sono delle nozioni evidenti, perspicue, impresse dalla
natura nella mente e nell’animo di ciascun uomo. Egli trova che fra gli uomini
nessuna gente è così fiera, così selvaggia che non abbia il concetto della
divinità, anche se non sappia quale ne è la natura. Egli non ignora che anche
qui le opinioni sono discordi, e conosce pure le difficoltà del problema; e se
gli domandate, quid aut quale sit Deus, egli vi risponderà come Simonide, il
quale interrogato su questa quistione dal tiranno Jerone, domandò un giorno per
rifletterci su, e poi due e poi quattro, e finì col rispondere: quanto più ci
penso, tanto mihi res videtur obscurior. Ma ciò nonostante non è una credenza
arbitraria: Omni autem in re consensio omnium gentium lex na- turae putanda est.
E oltre il consenso delle genti, è anche molto plausibile, il più plausibile
fra tutti, 1’argomento delle cause finali, ricavato dall’ordine e dalla
bellezza del mondo, ch’egli espone con molta eloquenza, quantunque non trovi
sempre concludenti o del tutto convincenti le argomentazioni degli Stoici per
provare la provvidenza e l’ottimismo, e che sono fatte più per rendere dubbia
la cosa che per chiarirla. Ma insomma egli crede agli Dei, anzi a una divinità
unica: è un’idea alla quale la mente degli uomini è naturalmente condotta. E lo
stesso si può dire dell’anima umana, che dev’essere una natura singolare,
diversa dagli altri elementi terrestri che ci’sono più noti. i^Toi non possiamo
vantarci di conoscere la natura dell’anima; ma gli elementi dei corpi che noi
conosciamo, l’acqua, l’aria o il fuoco non potrebbero spiegare la conoscenza,
la memoria, la previsione dell’avvenire, le altre funzioni psichiche: e dalle
opere di Cicerone si può ricavare un piccolo trattato di psicologia, che non
sarà quello degli scienziati moderni, ma che contiene delle descrizioni
eccellenti, e sempre vere, dei principali fatti della coscienza, compresi gli
affetti e le passioni umane, ricavate dall’osservazione interiore e dall’
esperienza della vita, seguendo anche in questo naturalmente i suoi maestri,
Platone e Panezio e Posidonio. Egli difende la libertà umana contro il fato
degli Stoici, e crede anche nell’immortalità come una cosa infinitamente
probabile. Quod si in hoc erro, libenter erro. E nel Sogno di Scipione, dove
sono descritte le sfere celesti e la loro armonia, e la sede dei beati, è
affermata con gli argomenti platonici l’immortalità delle anime umane.
Soprattutto quello che la coscienza ci rivela è la legge morale, eh’ è una
legge della ragione, la quale ragione è il privilegio dell’uomo sui bruti,
l’attributo divino nel- l’uomo, e il legame che lo congiunge ai suoi simili.
Così Cicerone crede di avere scoperto nella coscienza stessa del genere umano i
fondamenti di cui ha bisogno per la sua dottrina morale. Opinionum enim
commenta delet dies, naturae iudìcia confirmat. E ricordandosi dei dubbi
accademici, egli scrive, avendo appunto in mente i problemi morali, quelle
parole così caratteristiche: perturba- tricem miteni harum omniam rerum
Academiam liane reeentem exoremus ut sileat. È la dottrina ch’è stata chiamata
del senso comune, ch’è riapparsa più volte nella storia della filosofìa. Ma
l’interesse storico dell’eclettismo ciceroniano sta appunto in questo: che noi
vediamo com’esso è nato. Quello che Cicerone presenta come rivelazione della
coscienza comune è il precipitato di tutta la speculazione greca anteriore,
risultato di quella fusione che s’era venuta operando tra le tendenze affini
delle tre scuole derivate da Socrate: platonica, aristotelica e stoica, e che
hanno per base la concezione teleologica, il valore cosmico e antropologico che
attribuiscono alla ragione, e il pregio eminente in cui tengono la virtù come
il massimo dei beni o la condizione essenziale della felicità. Rimane esclusa,
come ho già avvertito, da questo processo di fusione la scuola epicurea con la
sua concezione meccanica e con la sua formula pericolosa della voluttà, che si
presta ai malintesi e agli eccessi. E nel fatto CICERONE (vedasi), indulgente e
tollerante con tutte le scuole, combatte aspramente, fino all 1 ingiustizia, L’ORTO,
trovandolo inconseguente in quello che può avere di buono, e pur avendo la più
grande stima del carattere di Epicuro stesso e di alcuni degli Epicurei ch’egli
ha personalmente conosciuto: io combatte anche, oltre che per tutte le altre
ragioni, perchè l’Epicureismo non possiede secondo lui una base su cui fondare
i doveri civili, che a lui stanno tanto a cuore. Ma tra tutte le altre scuole
egli trova che le affinità sono maggiori e più importanti che le differenze, e
sceglie e adatta quello che gli pare più utile e più conveniente. E lo guida,
oltre il talento straordinario dello scrittore e dell’oratore, un grande buon
senso, una grande rettitudine, e un certo istinto generoso che lo porta verso
ciò eh’ è nobile e grande. 1 _ E una volta eh’è sul terreno della morale, egli
non si \ tiene sulle generali, ma costruisce in tutti i particolari un trattato
di morale eh’è fino al giorno d’oggi un perfetto manuale dell’onest’uomo e del
buon cittadino: il De of - Jiciis. Nel quale segue, come abbiamo detto, lo
stoico Pa- / nezio, e inclina egli stesso verso lo stoicismo nel proda- ^ mare
il pregio incomparabile della virtù : ma i paradossi stoici urtano il suo buon
senso; ed egli tempera la dottrina morale con la misura dei peripatetici,
ricollegandola anche ad alcune delle speculazioni e delle speranze del
Platonismo, come quella dell’immortalità. Proclama la virtù gratuita,
disinteressata, e illustra la dottrina con esempi presi dalla storia romana,
esempi di disinteresse, di forza d’animo, di disprezzo della morte, di fedeltà
al dovere, di amore alla patria. Traduce il xaXóv dei Greci con l’honestum, e
considera come parti dell’onesto le quattro virtù cardinali, su ciascuna delle
quali dice cose sapienti, non dimenticando la beneficenza accanto alla
giustizia, la charitas generis Immani, e non dimenticando i doveri del deco
rum, di ciò eh’ è conveniente e della cortesia, il che rivela il buon gusto
oltre che la coscienza delicata. È un trattato compiuto di morale individuale e
sociale; e soprattutto le tesi sociali dello stoicismo egli si assimila esponendole
con la magia e col fascino della sua eloquenza. Già nel De republica aveva
esposto la teoria del governo misto, come il migliore dei governi, trovandone
la conferma e l’applicazione nella vecchia costituzione romana. E nel De
legibus aveva esposto le basi lìlosofiche del diritto: su queste idee, attinte
ai suoi maestri stoici, egli ritorna sempre. La vera legge è la diritta
ragione, conforme alla natura, dappertutto diffusa, costante, eterna. £Ton ò
altra in Atene e altra a Itoma. Ohi la rinnega rinnega la natura umana, rinnega
se stesso. Questa legge eterna e immutabile è il fondamento di ogni diritto, la
regola e la misura delle legislazioni umane. Essa stabilisce fra tutti gli
uomini, che partecipano della ragione, una società naturale, una società di
giustizia e di amore. Espressa da quest’oratore e uomo di Stato, la grande idea
dell’umanità e del diritto umano esce dall’angustia delle scuole per entrare nel
mondo della vita e della cultura, e agisce nei secoli a traverso tutta la
storia T ). Ho accennato ai giudizi di alcuni tedeschi. Giustizia vuole che si
dica che non tutti i tedeschi la pensano allo stesso modo. Uno di essi, 1’
Hiibner (Deutsche Rundschau), citato dal prof. Pasdèra nella Prelazione alla
sua edizione del Sogno di Scipione, parlando dell’azione eser- *) Jankt et
Séaillks, nini, de la Philosophie (Paris, Del agrave).] citata da Cicerone
sulla cultura dei popoli dell’ Europa, dice: Pure ammettendo che la grande
maggioranza delle persone colte non legga più gli scritti di Cicerone nè prenda
esempio dalla bellezza della loro forma, certo non è perduta per l’umanità la
profonda influenza eh’essi hanno esercitata sul pensiero e sulla parola di tanti
spiriti illuminati, non è perduto il sentimento di nobilissima umanità che in
essi vive. Il che vuol dire che Cicerone è stato e sarà sempre un grande
educatore, del quale bisogna parlare con rispetto e con gratitudine. SENECA 1.
La scuola dei Sestii - 2. Seneca, le sue qualità di moralista e di scrittore -
3. Le sue idee su la società, Dio e Tanima umana - 4. Seneca e S. Paolo. 1. -
Dopo Cicerone, la filosofìa acquista a Roma una grande importanza tra le
persone colte, diventando sempre più pratica e popolare. Cicerone scriveva alla
vigilia delle ultime proscrizioni delle quali egli stesso doveva essere
vittima, e nei suoi trattati c’era ancora l’eco delle dispute agitate nelle
scuole greche; dopo di lui, terminate le lotte della vita pubblica, stabilito
l’impero, la filosofìa risponde al bisogno di tutti quelli che vi cercavano un
rifugio, una consolazione, dei principi salutari, una regola di condotta. Sotto
Augusto cresce il numero dei suoi adepti: poeti e storici, giureconsulti e
uomini di Stato se ne occupano; Orazio stesso, che qualche volta deride i
filosofi per i loro paradossi, è filosofo a modo suo, molto savio e di molto
buon gusto, ora stoico ora epicureo, e fa spesso il suo esame di coscienza, ha
delle preoccupazioni morali, maestro nell’arte di vivere. Nelle grandi famiglie
i filosofi entrano come precettori, consiglieri e consolatori, hanno cura
d’anime. Seneca ci parla di un condannato a_morte, che andando al luogo del
supplizio, è accompagnato dal suo filosofo, prose- quebatur illum philosophus
suus, col quale s’intrattiene dell J immortalità dell’anima. Quando Livia, la
moglie di Augusto, perde il figlio Druso, essa si rimette per essere. consolata
nelle mani di Areos, il filosofo di suo marito: era il confessore, il
confidente dell’uno e dell’altra. E c’è pure un insegnamento pubblico di
filosofia, che da Cicerone a Seneca è rappresentato da un gruppo di uomini, i
quali fecero l’educazione della gioventù d’allora. Sono innanzi tutto i due
Sestii padre e tìglio. Quinto Sestio era un romano di buona famiglia, che al
tempo della dittatura di Cesare andò a studiare filosofìa in Atene, e poi venne
a professarla a Roma. Attorno a lui e a suo figlio si formò una scuola, la
cosiddetta scuola dei Sestii, che ebbe un certo splendore, esercitò molta
efficacia: essi lottano con energia contro i vizi del secolo, e mettono in uso
certe pratiche inorali come l’esame di coscienza, una pratica già raccomandata
dai pitagorici, i quali pare che i Sestii seguissero anche nell’astenersi dalle
carni di animali. Altri professori illustri della stessa scuola furono So-
zione di Alessandria, che s’avvicina ancora più al pitagorismo insegnando la
metempsicosi, Attalo stoico e Fabiano Papirio, un declamatore del tempo di
Augusto, che s’era fatta una grande riputazione nelle scuole, trattando quelle
cause immaginarie su cui si esercitava allora' l’eloquenza dei retori. Fu
convertito da Quinto Sestio alla filosofìa, e continuò a declamare, a parlare
pubblicamente di argomenti filosofici. L’insegnamento così non fu più limitato
a un gruppo d’iniziati o di adepti, ma diventò una vera predicazione: la
filosofia s ? indirizza alla folla, diventa eloquente, cerca di essere
persuasiva ed efficace. Fabiano Papirio specialmente ebbe un grande successo:
aveva una fìsonomia dolce, una maniera di parlare semplice e sobria: 10
ascoltavano con un’attenzione rispettosa; ma a volte V uditorio, colpito dalla
grandezza delle idee, non poteva trattenere delle grida di ammirazione. Un
altro che attirò l’attenzione della gioventù romana fu il cinico Demetrio, ille
semimidus, cencioso, come lo chiama Seneca, con la stranezza delle sue maniere
e la foga della sua parola, tutto energia e disprezzo del dolore e della morte:
riappariscono i Cinici, che sono come ' sempre l’esagerazione degli Stoici. Del
resto, qualunque sia il nome che portino, tutti questi filosofi erano più o
meno stoici. Non si trattava per loro di scoprire verità nuove, ma di applicare
le grandi verità morali e le massime di condotta già fissate dagli antichi
saggi. Come dice ancora Seneca, i rimedi dell’anima sono stati trovati prima di
noi: non ci resta che cercare in che maniera e quando bisogna applicarli. La
tristezza dei tempi e il dispotismo imperiale che diventa sempre più pazzo e
violento dànno, come ha detto 11 Boissier, un terribile, a propon allo
stoicismo, il quale diventa una fede ardente, la religione delle anime libere:
l’anima ha bisogno d’irrigidirsi nel sentimento della sua forza e della sua dignità
in mezzo a quelle sventure e a quei pericoli che a ogni momento la minacciano.
Per questo la filosofia ebbe l’onore di essere odiata dagl’ imperatori : essa e
la Storia erano, come dice Tacito, ingrata principiòus nomina. La filosofia
ebbe i suoi devoti e ì suoi martiri, a cominciare da Catone, che rifiuta la
vita cercando libertà, e venendo alle vittime di Nerone illustrate da Tacito, come
tra gli altri, Trasea Peto, assistito negli ultimi suoi momenti dal cinico
Demetrio; e poi lo stesso Seneca, sul quale dobbiamo fermarci ] ). 2. - L.
Anneo Seneca, figlio di Seneca il retore e di Elvia, nacque a Cordova. Venuto a
Roma col padre che non ama la filosofia, e avrebbe voluto farne un oratore, è scolaro
di quei moralisti della scuola dei Sestii, Sozione, Attalo, Fabiano Papirio, la
cui maschia e severa dottrina fece sopra di lui la più viva impressione. Si
fece conóscere per la sua eloquenza, entrò nella via degli onori, fu accolto e
apprezzato nella più alta società di Roma. Sotto l’imperatore Claudio fu esiliato
in Corsica per gl’intrighi di Messalina; dopo otto anni è richiamato per opera
di Agrippina che gli affida l’educazione del giovane Nerone. Del quale dunque
fu precettore e poi ministro: caduto in disgrazia nel 62, morì nel 65 per
ordine dell’imperatore. Mescolato agl’intrighi e ai delitti della corte
imperiale che non seppe o non potè impedire, il suo carattere è Stato molto
discusso, special- mente per le immense ricchezze eh’ egli possedeva, in gran
parte donategli dall’imperatore, e per la parte che può avere avuto
nell’assassinio ! di Agrippina per opera di Nerone, in nome del quale Seneca
scrisse una lettera giustificativa al Senato, presentando la morte di Agrippina
come un suicidio. Ma quali che possano essere state le J ) Cfr. Martha, Les
moralistes souti l’empire romaìn; Boissier, La religion romaine d’Auguste aux
Antonina; Havet, Le Cliristianisme et ses origines, * 2° voi.; il capitolo su
Seneca del Pichon nella sua Hist. de la Lìti, latine (Hachette) ; o uno studio
del prof. Pascal nel voi. Figure e caratteri (Sandron). sue debolezze, egli le
riscattò da filosofo con una bella morte, eh’è raccontata da Tacito.
Impeditogli di far testamento, diceva di lasciare agli amici l’immagine della
sua vita. Non fu senza ambizione e senza vanità, e non uscì immacolato dalla
vita, in quei tempi e in quella corte; ma non gii si può negare un certo
entusiasmo sincero e l’aspirazione verso il bene. Le opere di Seneca che si
riferiscono alla filosofìa sono i trattati morali: de provìdentia, de comtantia
sapienti», de ira, de vita beata, de olio, de tranquillitate animi, de bre-
vitate vitae, de elementia, de beneficiis; le Consolazioni ad Marciavi, ad
Polybium, ad JSelviam matrem; le Lettere morali a Lucilio che sono 124,
l’ultima, la più matura e la più importante delle opere di Seneca; e infine le
Qui- stioni naturali, che trattano di argomenti di fisica, fecero testo e
godettero di molta autorità durante il Medio Evo; ma vi si tratta anche di
argomenti morali., Seneca si prolessa stoico, e degli scrittori latini è l’interprete
più compiuto della dottrina stoica, di cui riproduce i dogmi con una certa
enfasi, non scevra di declamazione e di retorica. Ma è eclettico anche lui e
impara da tutte le scuole: Cita spesso anche Epicuro, verso il quale è più
giusto degli nitri Stoici. Egli stesso confessa: Solco in aliena castra
transire, non tanquam transfuga, sed tanquam explorator. La sua specialità è il
genere monitorio e precettivo; e il suo capolavoro ò una raccolta di consigli e
precetti morali a Lucilio, suo amico, un cavaliere romano ch’era procuratore in
Sicilia, amministratore finanziario della provincia, e ch’egli guida e dirige
da lontano coi suoi consigli. * E' 1 Biblioteca Comunale “Giuseppe Melli” - San
Pietro Vernotico (Br) SENECA 223 Seneca non ama la folla, non pensa al gran
pubblico: Satis sunt mifii patiti, satis est unns, satis est nullws. La sua
opera non è di un predicatore, ma di un direttore delle coscienze. Ed egli sa
adattare il suo insegnamento secondo le persone e le circostanze. Aliter cum
alio agendum: egli consola quelli che hanno bisogno di essere consolati, spinge
all’azione le nature fiacche e molli, ridesta la forza di quelli che
s’annoiano, predica il ritiro e la solitudine a quelli che amano troppo la vita
mondana. E in quest’opera di moralista pratico egli porta una grande conoscenza
della vita, l’esperienza di un uomo che conosce il mondo, la corte, le
passioni, le inquietudini e i bisogni del cuore umano: sicché i suoi trattati e
specialmente le sue lettere sono importanti non solo per le verità morali che
contengono, ma anche come studio dei caratteri e delle passioni del suo tempo e
di tutti i tempi. La sua psicologia è molto più raffinata di quella di Cicerone,
e c’è in Ini una preoccupazione della vita interiore e della perfezione morale,
in ciò che ha di più intimo, che non c’è in Cicerone. Egli propone come un
ideale di perfezione la virtù stoica, ma sa adattarsi alle circostanze, e
consente quando occorre alle debolezze della natura umana: di qui le contradizioni
che gli rimproverano, e che derivano dalle condizioni speciali in cui si
esercita il suo insegnamento. S’aggiunga, per spiegare l’impressione che fa
Seneca, l’efficacia di uno stile non senza artifizio, ma concettoso,
sentenzioso, energico, a frasi spezzate e serrate, con qualche cosa di brusco e
di veemente. La grande frase, il periodo ciceroniano si spezza: ne prendono il
posto dei periodi brevi, a scatti, con frequenti antitesi, e sentenze aguzzate
e raffinate, piene di energia: anche questo un carattere che lo ravvicina al
gusto di noi moderni. La morale di Seneca, guardata nel suo insieme, è, come .
quella di tutti gli Stoici, un’àpologìà perpetua della volontà morale di fronte
a tutto ciò che tende a limitarla e asservirla. La fortezza dì fronte agli
attacchi della fortuna, il disprezzo dei beni esterni, la serenità davanti alla
morte, questi e gli altri temi abituali della predicazione stoica sono anche i
suoi : egli ne rinfresca l’espressione col suo accento passionato e concitato,
che dà a quelle massime forza e rilievo.Soprattutto non bisogna dimenticare
quel sapore di attualità che, come abbiamo accennato, avevano le idee stoiche
in quella condizione dei tempi e in bocca di Seneca. Già questa attualità o
riscontro nella realtà comincia ad essere un fatto anche con Cicerone. Il
quale, quando scrive nelle Tusculane de eontemnenda morte o de tolerando
dolore, non scrive di temi astratti e retorici, ma di pericoli imminenti, in
tempi già diventati iniqui e tristissimi, tra gli orrori delle guerre civili e
delle proscrizioni. Con l’impero, dopo Augusto, la situazione si aggrava,
diventa intollerabile. In mezzo a quell’orgia, a quei delitti, a quella
tirannide che non ha più niente di umano, la sola cosa che l’anima umana può
salvare è la sua libertà e il sentimento della sua dignità. La filosofia compie
l’ufficio suo predicando la forza della volontà, la purezza interiore, il
disprezzo di tutto ciò che non dipende da noi, il disprezzo della vita. He
nasce una situazione violenta, che si riflette anche nello stile di questi
scrittori, come ha osservato con molta finezza l’Havet. SENECQuando noi
leggiamo in Seneca e negli altri stoici che la povertà, V esilio, le torture,
la morte stessa non sono nulla, noi diciamo eh’ essi declamano; e in un certo
senso è vero; ma la loro declamazione è come imposta dalla situazione, è
l’espressione esagerata di un sentimento legittimo e naturale. Essi declamano
perchè sentono il bisogno di sii dare la forza brutale che dispone di tutte le
maniere per far soffrire. In quella declamazione non tutto è effetto dei vizi
letterari del secolo, c J è anche qualche cosa di sincero. Il filosofo è
portato a prendere un tono veemente: la sua enfasi, le sue ripetizioni insistenti,
il gesto concitato che sembra accompagnare la parola, sono altrettante proteste
di una coscienza che la forza vorrebbe far tacere, e che non tace, ma ha
bisogno di gridare per farsi ascoltare. 3. - È di Seneca la sentenza che dice :
Non scftolae sed vitae diwimus. Salvo che questo motto non va inteso nel senso
' utilitario in cui oggi è così spesso ripetuto. Nemmeno Epicuro lo avrebbe
inteso in questo senso. Quando i moralisti antichi dicono di voler insegnare a
vivere, hanno in mira la salute e la perfezione dell’anima, non gli agi, le
comodità, l’apprendi mento delle arti utili alla vita: la sola arte eh 7 essi
insegnano è l’arte stessa di vivere: artifex rivendi, come dice Seneca del
saggio. Un’altra conseguenza di quella situazione che abbiamo detto è che le
differenze esterne fra gli uomini spariscono. Nella servitù comune, nella quale
tutti gemono e temono in quelle vicende inopinate della fortuna, i grandi non
hanno più ragione di disprezzare le miserie dei piccoli, nè gli uomini liberi
quelle degli schiavi. In Seneca le grandi tesi sociali e umanitarie dello stoicismo
sono riprese con un nuovo accento, più forte e più intimo. Egli vede negli
schiavi degli amici di condizione inferiore, humiles amici; sono degli schiavi,
ma sono degli uomini: imo homines. Egli condanna i giochi dei gladiatori, che
Cicerone, quantunque non li amasse, giustificava ancora come una scuola di
coraggio per fortificare l’animo degli spettatori contro il dolore e la morte,
quando quelli che si vedevano combattere erano dei malfattori. Seneca non li
può soffrire sotto alcun pretesto, non vuole che s’insegni al popolo la
crudeltà: quest’uomo è un brigante, merita di essere punito; ma tu,
disgraziato, che hai fatto per essere condannato a questo spettacolo? E in
quest’ordine d’idee trova la meravigliosa espressione: homo res sacra homini; e
condanna pure la guerra, dicendo che la natura ha fatto l’uomo per la dolcezza
(mitissinutm genus), dimenticando forse che ci sono delle guerre giuste e anche
pietose, quando bisogna difendersi dai briganti e dagli assassini. E celebra
con parole che hanno del mistico la solidarietà umana e i suoi dovevi: nell’ep.
95: membra sumus corporis magni. Natura nos cognatos edidit: di qui l’amore
reciproco e ciò che ci rende socievoli: la giustizia e il diritto non hanno
altro fondamento : è più miserabile il nuocere altrui che l’essere offeso:
siano sempre pronte le mani a giovare, e abbiamo sempre nel cuore e nella bocca
quel verso: Homo sum, nihil Immani a me alienum puto. E aggiunge: la società
umana è come una vòlta che cadrebbe se le singole pietre non si sostenessero a
vicenda. Esorta alla bontà, alla clemenza, al beneficare, al perdono delle
offese. Ubieumque homo est, ibi benefica locus est. Non desinemus opem ferve
etiam inimicis. Alteri vivas oportet si vis Ubi vivere. Questa morale, che con
la sua umanità e la sua mitezza si stacca sul fondo di quella tristezza di
tempi crudeli e violenti, ha già un carattere e un’ispirazione religiosa.
Questo caràttere religioso si accentua ancora di più in alcune delle idee che
Seneca esprime intorno alla divinità, alle relazioni dell’uomo con Dio, e al
destino dell’anima umana. Anche per lui, come per tutti gli Stoici, il concetto
di Dio oscilla tra il panteismo e il teismo. Quid est Deus? Mens universi.
Quid est Deus ? quod vides totum et quod non vides totum. Ma nella sua opera di moralista consolatore e
direttore delle cosciente egli non può a meno di mettere in evidenza gli
attributi personali della divinità, concepita non solo come ragione universale,
ma coi suoi attributi morali di bontà, di clemenza, di sollecitudine per gli
uomini. Nulla è nascosto a Dio, egli è presente agli animi nostri, vicino a
noi: prope est a te Deus, tecum est, intus est. Sì, o Lucilio, egli continua^
nella lettera 4P, saeer intra nos spiritus sedei, malorum bonorumque nostr
orimi ohservator et custos. Dio non si onora coi templi nè si rende propizio
sollevando in alto le mani supplichevoli, ma con la purezza del cuore e della
vita : vis deos propiUare ? bonus esto. Satis illos coluit, quisquis imitatus
est (Lett. 95). È dunque sulla virtù che si fonda questa relazione tra l’uomo e
Dio, del quale è detto: patrium Deus habet adversus bonos viros animum, et
illos fortiter amai. Un Dio cosiffatto non è una pura astrazione filosofica, ma
è oggetto di adorazione religiosa : il rapporto religioso è un 1 rapporto
intimo tra due persone, l’una delle quali si sente dipendente dall’ altra. Dio
comunica con noi, risiede in noi, ci ama ed è amato da noi: colitur et amatur;
e noi P invochiamo perchè, com’è detto altrove, da lui ci vengono le
risoluzioni grandi e forti: ille dat constila magnìfica et creda: c’ispira e ci
sostiene: si direbbe che in queste parole è toccata o intraveduta la dottrina
della grazia. Notevoli pure sono i concetti intorno all’uomo, alla natura e al
destino dell’anima. L’uomo non ha ragione di vantarsi, di essere orgoglioso:
idem semper de nobis pronuntiare débébvmus, malos esse nos, malos fuisse,
invitus adieiam et fiutar os esse . Peccavimus omnes. E solo a traverso gli
errori noi giungiamo alla virtù: anche il migliore fra noi ad innocentiam
tamenpeccando pervenit. E l’inìzio della salvazione è la conoscenza del
peccato. Initium est salutis notitia peccati } una sentenza di Epicuro, che
Seneca si appropria. La vita è una lotta, una milizia: c’è dentro dell’uomo una
lotta continua tra la carne e lo spirito, tra il corpo, eh’è come un peso o una
prigione, e lo spirito sacer et aeternus che aspira alla sua liberazione: gravi
terrenoque detineor carcere. 1 Ohi mi libererà da questo corpo di morte?’
griderà S. Paolo. Nell’anima stessa c’è qualche cosa d’irrazionale: quel
dualismo platonico che Posidonio aveva introdotto nella dottrina stoica, è
conservato da Seneca, e n’è resa più acuta, più accentuata l’espressione:
diventa il contrasto tra la carne e lo spirito, eh’è tanta parte della concezione
cristiana. SENECA La vita è dunque una guerra continua. Nóbis militan- dum est,
ed è un genere di milizia che non consente riposo. Bisogna essere vigilanti con
se stessi, bisogna combattere con le passioni, col dolore, col piacere, con la
fortuna, con la povertà, col nostro proprio cuore: Proiice quaecumque cor tuiim
laniant ; quae si aliter estrahi nequi- rent, cor ipsum cimi illis revellendum
crai, parole energiche die ricordano quelle dell’Evangelo: se il tuo occhio destro
ti scandalizza, strappalo e gettalo da te. Seneca ha il sentimento più vivace
della miseria umana: Omnis vita supplicmm est. Per questo la morte è una liberazione,
e come il porto nel quale troviamo il rifugio dal mare agitato della vita.
Dell’ immortalità Seneca non parla sempre allo stesso modo. Ipotesi, speranze,
le opinioni diverse s’avvicendano nei suoi scritti. MS, non di rado,
specialmente quando si rivolge ai suoi corrispondenti per consolarli della
morte dei loro cari, egli prende un tono più affermativo. La morte è l’inizio,
il giorno natale di una nuova esistenza. IMes iste quem tanquam extremum
reformidas, aeterni na- talis est. Il corpo è un breve ospizio dell’anima: si
dissiperanno le caligini che circondano la nostra esistenza, la luce divina ci
apparirà nella sua sorgente, e con essa la grande eterna pace. Si potrebbero
moltiplicare le citazioni, ma basteranno. Sono queste idee che hanno fatto
credere a una ispirazione cristiana degli scritti di Seneca. Seneca saepe
noster, diceva già Tertulliano. 4. - Qui bisogna sapere una cosa. Kel 61 d. 0.,
quattro anni prima della morte di Seneca, giungeva a Roma un piccolo ebreo,
Paolo di Tarso in Ciiicia, il quale accusato e perseguitato da altri ebrei, si
appellava, nella sua qualità di cittadino romano, dal giudizio delle autorità
imperiali in Giudea, a quello dell’imperatore. Fu condotto davanti al prefetto
del pretorio eli’era Burrus, amico e collega di Seneca come ministro di Nerone.
Giudicato favorevolmente, l’apostolo fu lasciato libero o quasi libero durante
due anni, dei quali profittò per diffondere la sua dottrina, e pare che facesse
dei proseliti anche nel palazzo imperiale, fra gli schiavi o i liberti della
casa di Nerone. Si disse per esempio che Atte, la giovane eh’ era stata amata
da Nerone, e che poi abbandonata fu la sola che ne cercasse il cadavere, quando
egli fu obbligato ad uccidersi, per dargli sepoltura, fosse stata convertita al
Cristianesimo. Atte, come sappiamo da Tacito, era personalmente conosciuta da
Seneca. Bisogna aggiungere che anche prima della venuta a Poma, Paolo, accusato
dagli ebrei di Corinto, s’era trovato a contatto con un proconsole romano,
ch’era quel Gallione di cui parlano gli Atti degli Apostoli, e che si rifiutò
di dare ascolto ai suoi accusatori, trattandosi di cose die non lo riguardavano
(polemiche religiose tra Ebrei). Ora si dà il caso che questo Gallione era
fratello di Seneca, e si chiamava così perchè adottato da un Gallio, di cui
portava il nome: il suo nome di famiglia era Anneo Novatus, ed era fratello
maggiore di Seneca. Fatto sta che a poco a poco si formò la leggenda che Seneca
e S. Paolo si fossero conosciuti, anzi fossero diventati amici, e che
l’apostolo avesse convertito il filosofo, e si fossero scambiate anche delle
lettere, 14 delle quali sono giunte fino a noi: e in base a queste lettere S.
Girolatno, nel quarto secolo, enumerando gli scrittori ecclesiastici dei primi
secoli, vi mette anche Seneca. È una leggenda che ha avuto corso per tutto il
Medio Evo, e anche alcuni moderni vi hanno creduto. I^a qui- stione è stata
agitata più volte l ). Le conclusioni sono queste: La corrispondenza è
certamente apocrifa, scritta in un latino che non è nè classico nè argenteo; e
del resto è insignificante, e qualche volta buffa. Per es. c’ è una lettera, la
7% nella quale Seneca informa il carissimo amico Paolo che l’imperatore è stato
molto colpito dalla sua dottrina, e che sentendo leggere un certo esordio di
Paolo sulla virtù, avrebbe detto: mi meraviglio come un uomo che ha ricevuto
un’istruzione regolare possa avere di tali sentimenti. E nella stessa lettera
gli scrive: lo Spirito Santo ti fa dire delle cose sublimi, ma appunto jier
questo mi piacerebbe che avessi un po’ più cura della forma, ut maiestati earum
rerum cuìtus sermonis non desti. E in un’altra lettera, da uomo soccorrevole,
gli manda un libro de copia verborum. E non parliamo delle risposte di Paolo.
Sono inezie da una parte e dall’altra. La corrispondenza è certamente una
falsificazione, e anche poco abile. Rimane la quistione se Seneca e S. Paolo si
sono conosciuti. E se per conoscersi s’intende il semplice fatto di vedersi,
incontrarsi, scambiare qualche parola più o ] ) Si possono consultare un libro
dolLAutìERTiN, Sénèque et S. Paul f e un articolo magistrale di Ferd. Bat.tr
nella Zeitschr. f. wias. Tipologie, t. 1°, 1858, ristampato da Zeller in un
voi. dì Abhandlungen del Baur; e più brevemente quello che ne dice il Boissier
nel libro che ho citato : La religion ro inaine.] meno insignificante o per
ragioni di affari, non possiamo dire nè sì nè no, non ne sappiamo nulla. Quello
che importa è che, anche dato e niente affatto concesso che Seneca abbia
conosciuto o avvicinato l’apostolo, certamente non gli deve nulla nè per quello
che riguarda le idee, nè le espressioni. E questo per le seguenti ragioni: ! 1°
ed è la ragione più ovvia, le idee di Seneca sulla provvidenza, sulla natura
dell’uomo, sulla vita morale si trovano già nelle opere sue anteriori a questa
pretesa conoscenza con S. Paolo ; 2° quando si leggono quelle idee, non come
frasi staccate ma al loro luogo, in connessione con tutto il resto, fanno parte
di un discorso nel quale Seneca continua a professare le dottrine stoiche, alle
quali ha sempre aderito; e non c’è nulla in quelle idee stesse di sapore
cristiano o che sembrino tali, che non trovi il suo riscontro non solo nei
vecchi stoici, ma in tutta la tradizione filosofica anteriore, in Platone, in
Epicuro, in Cicerone; 3° e soprattutto, se Seneca e S. Paolo si fossero conosciuti
e si fossero messi a discorrere di filosofia e di religione, non si sarebbero
intesi affatto, in nessun modo, per la differenza radicale e insanabile che c’è
tra i due modi di considerare il mondo e la vita. Già Seneca non avrebbe potuto
comprendere nulla di tutta la parte storica e dogmatica del pensiero di Paolo,
voglio dire di quei fatti e di quei dogmi che sono come i cardini del suo
apostolato: il peccato di Adamo, la venuta del Messia, la morte e la
risurrezione di Cristo, la redenzione di tutti gli uomini fondata sulla fede in
questo fatto della risurrezione: sono fatti così miracolosi, e interprelazioni
di questi fatti così lontane, così aliene da una mente educata nel razionalismo
greco-romano, che Seneca, quando pure non avesse sbarrato tanto d’occhi per la
meraviglia, non avrebbe potuto comprenderne nulla. Ma a parte questo, anche sul
terreno limitato dell’Etica, j le due concezioni, quella di Paolo e quella di
Seneca sono, .= nonostante le frasi analoghe, lontanissime 1’ una dall’altra.
Seneca si riconnette a tutta la tradizione classica e pagana, che considera la
virtù come una perfezione della natura, una conquista e un trionfo della
ragione sugl’im-1 pulsi inferiori dell’uomo; e tiene fermo alla formula stoica:
seguire la natura, che egli concepisce come qualche cosa di essenzialmente razionale.
S. Paolo e con lui il Cristianesimo insegna la corruzione originaria, radicale,
della volontà naturale dell’uomo, e in- . segna la rigenerazione possibile
solamente per opera della ; grazia divina, che redime e rinnova la creatura,
ricrean- dola a dir così dalla vita della carne alla vita dello spirito. Per
Seneca come per gli altri Stoici la legge morale è % una semplice legge della
ragione che s’identifica con la \ legge cosmica; per S. Paolo la legge è nel
senso preciso della parola un comando, un imperativo, espressione della volontà
divina; e il peccato non è la semplice distanza che separa la realtà empirica
dall’ ideale morale, ma è sin dall’origine una ribellione al comando di Dio,
della sola volontà che sia santa. L’autonomia e l’autarchia del saggio stoico
non sono parole cristiane. La conseguenza è che il saggio stoico, l’ideale di
Seneca, manca della qualità propriamente cristiana, non è umile; può sentire
più o meno la sua imperfezione finche quell’ideale non è raggiunto, ma non c’è
propriamente abnegazione in lui, anzi egli pone il suo orgoglio nell’affermazione
della sua volontà razionale, e in questo senso egli si sente simile a Dio. Il
santo cristiano invece sa che nulla gli appartiene, non ha orgoglio, nega la
sua volontà, la sente spezzata e ri-generata da una forza onnipotente, e si
umilia pregando: fiat voluntas tua, eh’è qualche cosa di più della semplice
rassegnazione stoica a quello che vuole o porta il fato. Ohi vuole misurare con
un’occhiata sola tutto il contrasto, guardi a queste parole di Seneca: non
video, in- quam, quid hàbeat in terris Jupiter pulchrius, si convertere animum
velit, quam ut spectet Catonem, iani partibus non semel fractis, stantem
nihilominus inter ruinas publicas recium. Il saggio stoico con la sua forza d’
animo e la sua virtù eroica è glorificato in modo eh 7 è lo spettacolo più
degno e più bello che Dio possa ammirare. E badiamo che Catone è un suicida:
perchè, come dice Seneca, ogni vena del tuo corpo è una via aperta alla
libertà. Il suicidio, per un cristiano, è la ribellione più aperta alla volontà
santa di Dio, e non c’è altra gloria che la gloria di Dio, e il fare la sua
volontà si chiama dovere, obbedienza, morire a se stessi per essere partecipi
della gloria di Dio e della vita eterna. Sono due concezioni diverse. Seneca
non deve nulla a S. Paolo. Quello che c’è di vero è che l’accento religioso che
prendono in lui le dottrine antiche è un indizio che segna* l’avvicinarsi dei
tempi cristiani. Dopo Seneca, contemporaneo più giovane di lui, è da nominare
Musonio Rufo, eli e nato a Volsinia (Bol- sena) nell’ Etruria, visse sotto
Nerone e poi ancora sotto gl’imperatori Vespasiano e Tito. Dell’ ordine
equestre, coltivò e insegnò la filosofia seguendo le dottrine stoiche, come
dice Tacito clie lo nomina più volte. Fu un maestro tutto pratico, stimando
inutile ogni scienza che non giovasse alla vita. Esortava alla filosofia uomini
e donne, poiché la filosofìa non è altro per lui che la ricerca della
xaXoxàyala pratica di ciò eh’è onesto, e senza la filosofia non si può
conseguire la virtù. Anche il contadino dietro il suo aratro può filosofare in
questo senso, e dare lezioni ed esempi di saggezza: faceva un elogio
dell’agricoltura come un genere di vita più acconcio alla filosofia dei costumi
corrotti della città. Il suo insegnamento e la vita intemerata gli dettero
nome, e dovette esercitare una grande efficacia, se dobbiamo giudicare
specialmente dal modo come lo ricorda Epitfeto clie fu suo scolaro; e basterà
averlo ricordato anche noi, senza insistere sui frammenti e precetti
particolari che ci sono stati conservati di lui. 2. - Il grande e più celebre
rappresentante dello stoicismo nell’ epoca imperiale è Epitteto. Epitteto
nacque a Hierapoli, nella Frigia, verso il 50 dell’e. v. Venne a Roma, dove
passò la sua giovinezza, come schiavo di un Epafrodito, che fu probabilmente il
liberto e favorito di Nerone dello stesso nome. Lo stesso nome di Epitteto non
è in origine un nome proprio, ma vuol dire schiavo (!tuxt7]tq£). Era zoppo e,
secondo un aneddoto celebre, per effetto dei maltrattamenti del suo padrone. Un
giorno questi gli avrebbe messo la gamba in uno strumento di tortura. Bada, gli
disse Epitteto, che finirai col rompermela. E siccome l’altro continuava e la
gamba si ruppe di fatto, Epitteto si contentò di aggiungere: Te l’avevo detto.
Questo tratto d’insensibilità stoica fu tanto ammirato, che più tardi Celso,
l’avversario del Cristianesimo, apostrofava i cristiani : Forse che il vostro
Cristo, nel suo supplizio, ha mai detto niente di così bello? Al che Origene,
lo scrittore ecclesiastico che scrisse contro Celso, rispose: Nostro Signore
non ha detto niente, e questo è anche più bello. Il giovane Epitteto, ancora
schiavo, potè istruirsi e seguire le lezioni di Musonio Rufo. Fatto libero,
rimase a. Roma, tentando anche lui l’insegnamento o la predicazione morale,
finché non fu obbligato a lasciare la città quando l’imperatore Domiziano con
un senatoconsulto del 94 d. C. fece cacciare i filosofi da Roma e dall’Italia.
Epitteto allora si ritirò nell’Epiro, a Nicopoli, dove visse fin verso il 125,
povero e senza famiglia, ma circondato da molti discepoli, e venerato per la
santità della vita, come maximus più losophorum, secondo Aulo Geli io. Uno di
quelli che lo udirono, e per più anni, fu Ar- riano di Nicomedia, lo storico,
che fu il più attento e il più entusiasta dei discepoli. Arriano aveva scoperto
di avere dei gusti e uno spirito affine a quello di Senofonte, volle essere un
Senofonte redivivo, e, come l’altro, scrisse la sua Anabasi (di Alessandro), e
i suoi Memoràbili: Epit- teto diventò il suo Socrate, e nei Discorsi o
Dissertazioni di lui (Storpipoi o Xóyot) raccolti molto fedelmente da Arriano
(in 8 libri, dei quali ce ne rimangono 4 e frammenti degli altri), la figura di
Epitteto già vecchio rivive con. la vivacità del suo spirito e l’energia del
suo carattere e del suo insegnamento. Più tardi, visto il successo delle
lezioni di Epitteto, Arriano le condensò in un piccolo volume: è il famoso 1
Manuale di Epitteto ’, che nei tempi moderni comparve dapprima nella traduzione
latina di Angelo Poliziano, nel 1493; il testo originale fu pubblicato nel
1528, a Venezia. Non ho bisogno di ricordare eh’ è stato tradotto in italiano
dal Leopardi. Epitteto è anche lui un maestro tutto pratico: non è un pensatore
che ricerchi o discuta i fondamenti teorici della dottrina che insegna: le
ricerche sistematiche, le discussioni di scuola non sono il fatto suo. Egli
vuole agire sulle coscienze, rinnovarle ed educarle. Seneca è uno spirito
curioso e un letterato, che pure mirando a un fine pratico, ha coscienza della
sua abilità di scrittore, e si compiace di aguzzare in forme ingegnose le sue
massime, le sue osservazioni, i suoi consigli. Epitteto non mira a brillare,
non vuole applausi, non ha mai pensato
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documento di quest’attività greco-ebraica è la traduzione greca della Bibbia,
che si disse dei Settanta, perchè secondo una leggenda sarebbe stata fatta da
72 dotti mandati dal Sacerdote di Gerusalemme a Tolomeo Filadelfo, che voleva
avere nella sua grande biblioteca i libri di Mosè tradotti in greco, e questi
72 traduttori, chiusi in tante camerette separate, senza poter comunicare fra
loro, avrebbero tradotta da capo a fondo, come per un’ispirazione divina, tutta
quanta la Bibbia. Il vero è che la traduzione rispondeva al bisogno della
comunità ebrea di Alessandria di leggere il libro suo nazionale nella lingua
diventata oramai comune nella colonia. La maggior parte non leggevano nemmeno
più l’ebraico. Questo libro si può considerare come il primo travasa- mento di
idee giudaiche in un contenente ellenico 1 ), ed ebbe una grande efficacia
sulla propagazione posteriore dell’Ebraismo e poi del Cristianesimo. Un ebreo
di Alessandria, che in filosofia era peripatetico, Aristobulo è ritenuto da
molti il primo scrittore in cui apparirebbe una vera connessione di filosofemi
greci con le idee e le tradizioni ebraiche. E influsso d’idee greche è stato
pure notato in uno dei libri apocrifi del Vecchio Testamento, nel Libro della
Sapienza di Saio- mone, che si crede composto da un ebreo alessandrino verso il
100 a. C. Ma il principale rappresentante di questa filosofia grecoebraica è
Filone ebreo.0 Castelli, Storia degli Ebrei (Firenze, Barbèra). ti.: FILONE
EBREO 265 2. - riione nacque in Alessandria fra il 30 e il 20 a. C. da una
famiglia sacerdotale ch’era delle più ricche e ragguardevoli fra gli Ebrei di
quella città. Ebbe un’istruzione compiuta ellenica ed ebraica: consacrò tutta
la vita agli studi teologici e filosofici, dedito alla vita contemplativa, ma
senza trascurare i legami col suo popolo e i doveri che la sua posizione
gl’imponeva. Doveva godere di una grande riputazione per la sua pietà, per la
sua scienza e per la sua eloquenza. Verso il 40, già vecchio, fu messo a capo
di un’ambasceria presso l’imperatore Caligola per chiedere la liberazione dei
suoi correligionari di Alessandria dalle persecuzioni a cui erano fatti segno.
Tornato ad Alessandria, scrisse egli stesso la relazione di questa ambasceria,
e morì forse verso il 50. Scrisse in greco molte opere che ci rimangono. Alcuni
degli scritti di Filone sono d’argomento storico e ci fanno conoscere quale
fosse io stato della colonia giudaica di Alessandria: gli altri sono per la
maggior parte un commento filosofico ai libri mosaici. Filone dunque sta tra la
scienza greca e la rivelazione. Per lui non si tratta di ricercare e scoprire
la verità con la semplice attività della ragione: la verità è quella ri velata
da Dio nei libri santi. D’altra parte Filone è anche uno spirito esercitato
alla meditazione, grande studioso e ammiratore della scienza greca : ha un
culto per Platone: egli ritrova nei filosofi greci le verità rivelate dalla
Bibbia, e legge la Bibbia a traverso i concetti della filosofìa, la vede in
quella gran luce di verità creata dal pensiero greco. È naturale che la fusione
di elementi così disparati e d’idee di così diversa provenienza non fosse
possibile senza un certo sforzo, il quale importava due cose: una finzione e un
metodo particolare 2 ). La finzione (in buona fede, s T intende) è che i
filosofi greci come Pitagora, Eraclito, Platone, e anche i poeti più antichi
come Omero, Esiodo, avessero avuto notizia dei libri di Mosè e attinto dunque
alla sapienza ebraica: una finzione che si trova già in Aristobulo; ed era avvalorata
da alcune falsificazioni: si attribuivano ai poeti mitici come Lino, Orfeo, dei
versi di fattura posteriore. Il metodo è quello dell’interpretazione
allegorica, non inventato da Pilone, applicato già prima di lui fra gli Ebrei
alessandrini, e del quale anche gli Stoici gli davano l’esempio. Pilone
distingue dapertutto un senso letterale e un senso spirituale o intelligibile,
e ritiene il primo come simbolo del secondo; la relazione tra i due è quella
che c’ è tra il corpo e V anima. Per esempio, Adamo è lo spirito (il vouc), e
il Paradiso è 1’^epovtxòv xfjc; 4^/jA nel quale egli è messo per coltivare gli
alberi, che sono le virtù; la creazione di Èva significa il nascere della sensibilità,
e così via: quel metodo d’interpretazione allegorica che si può dire fantastico
e non critico quanto si vuole, ma che ha contribuito a spiritualizzare le
credenze e le idee. L’uomo ha cominciato col concepire Dio a sua immagine e
somiglianza, attribuendogli occhi e mani e voce e passioni umane. A poco a poco
il concetto del divino si spiritualizza. Per Filone, Dio non solo non ha forma
nè attributi umani, ma è al di là di ogni determinazione, una realtà, ! )
Dkussen, Die Philo sophie der Griechen.] assolatamente trascendente, sia
rispetto al mondo da cni è separato, sia rispetto alla nostra intelligenza alla
quale è inaccessibile. Noi siamo certi della sua esistenza, ma non possiamo
comprendere la sua essenza. Filone lo designa con la parola di cui si servivano
gli Eleati e Platone: tò £v, l’Essere, o con l’espressione aristotelica:
l’Essere in quanto essere; e trova il riscontro di questa denominazione in
quello ch’egli stesso, Dio, dice di sè nell’-Z&odo; J5V/o sum qui sum: èyw
eijxt Ó wv. Dio dunque è l’essere universale, eterno, immutabile, semplice,
libero, pago di se stesso, assolutamente trascendente e separato dal mondo. Ma
d’altra parte egli raccoglie in sè tutte lo perfezioni, e tutte le perfezioni
delle cose create derivano unicamente da lui. Egli è la causa prima di tutte le
cose create: riempie e comprende tutto. C’è una doppia esigenza in questa
concezione: l’idea dell’assoluta trascendenza di Dio, e quella dell’assoluta
dipendenza delle cose finite da Dio. Dio è uno, ma possiede forze infinite,
mediante le quali crea e governa il mondo: le due principali di queste forze
sono la bontà e la potenza, e l’ima e l’altra si uniscono nel Xóy oc, o ragione
divina, eh’è come il pensiero di Dio prima della creazione, e che si manifesta
poi in questa come la parola di Dio. Il lòyo- o la ragione cosmica di Eraclito
e degli Stoici non è per Filone il primo principio del mondo, ma è a dir così
il figlio primogenito di Dio, il suo verbo, l’intelligenza divina stessa iu
quanto personificata, qualche cosa che sta in mezzo tra la pura essenza di Dio
e il mondo eh’ è creato da lui. Filone ha bisogno di potenze intermediarie per
colmare l’abisso tra l’assoluta trascendenza di Dio e il mondo delle cose
finite, e queste potenze intermediarie sono rappresentate dal Logos, dalla
parola di Dio. Quando un architetto costruisce una casa, ha in sè il suo piano,
la sua idea. Il Logos di Filone comprende insè le idee, i modelli ideali delle
cose, e insieme le forze generatrici e formatrici degli esseri: le idee
platoniche e le ragioni seminali degli Stoici. È il Logos che divide in parti
la massa di cui si compone il mondo, dà alle cose le proprietà che le
costituiscono, determina i mari, le isole, i continenti, fìssa le specie dei
viventi, stabilisce bordine nella diversità: compie l’ufficio o gli uffici
della ragione come rivelazione di Dio e della sua provvidenza nel mondo. Filone
tiene fermo al dogma della creazione, ma formula la sua fede servendosi dei
concetti della filosofia greca: in questa mescolanza, in questo ripensamento
delle idee greche in una nuova atmosfera spirituale sta l’interesse e
l’importanza storica di Filone. E che cosa è l’uomo in questo sistema? Secondo
la Scrittura Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza; e poi
aggiunge che Dio formò l’uomo prendendo un pugno di terra, e soffiandovi sopra
un soffio di vita, l’uomo fu fatto in anima vivente. Filone si domanda in quale
misura e in che senso l’uomo è la creatura di Dio, e conclude dai due luoghi
biblici che bisogna distinguere l’uomo celeste, ideale, creato da Dio a sua
immagine, e l’uomo terrestre e sensibile. Il primo è un essere intelligibile,
senza materia, nè uomo nè donna, è l’idea dell’uomo in quanto uomo, di natura
incorruttibile; invece l’uomo terrestre, plasmato dal fango della terra, e non
da Dio direttamente, ma dalle sue potenze o ministri, è di natura sensibile,
materiale, naturalmente mortale, capace del bene, ma anche del male. L’uomo
intelligibile è un riflesso diretto del Logos divino, quindi possiede tutte le
virtù che lo fanno simile a Dio. L’uomo terrestre realizza solo in parte
quest’idea, perchè l’anima, partecipe dello spirito divino, si trova ad abitare
in un corpo mortale, fatto di forze inferiori. Di qui la doppia natura
dell’uomo: egli si trova come al confine dei due mondi, del mondo sensibile e
del mondo intelligibile. Per esprimere questo concètto Pilone riproduce a modo
suo la distinzione aristotelica dell’anima vegetativa, sensitiva e razionale;
oppure la teoria stoica dello rnsOpa, che pure conservando nell’espressione la
reminiscenza del suo significato materialista, si viene sempre più spiritualizzando:
è lo spirito, il soffio divino nell’uomo; soprattutto, si ricorda delle
immagini platoniche che il corpo è come una prigione dell’anima. Quello che più
importa a Filone è l’opposizione tra la parte irrazionale e quella razionale
dell’uomo. Che cosa è l’uomo? Tutto per la sua origine divinò e il suo
carattere razionale, nulla per la sua natura mortale e finita. Api>arisce
come un’incomprensibile mescolanza di grandezza e di piccolezza, il più vicino
a Dio, ma anche capace di male, miserabile, mortale. Mentre tutte le piante
rivolgono o dirizzano le loro corolle verso il sole, l’uomo può, pianta celeste
nudrita di elementi divini, elevarsi verso il cielo, ma questa sua libertà è
come appesantita dal peso del corpo. E qual’è dunque il compito e il destino
dell’uomo? Il restaurare in sè l’immagine di Dio, il somigliare a lui, il
seguire la natura, clie sono frasi platoniche e stoiche, ma con un nuovo
significato. Pilone combatte gli Epicurei, e considera il piacere come il
massimo impedimento alla vita divina; accetta la formula stoica del seguire la
natura, e distingue le quattro virtù cardinali, che trova simboleggiate nei
quattro fiumi del Paradiso; insegna non la sola metropatia ma l’apatia, è
insomma l’ideale del saggio stoico, salvo che il seguire la natura diventa per
lui obbedire alla volontà divina. La morale è aneli’essa rivelata: essa si
trova tutta quanta nelle leggi generali è particolari che emanano da Dio. La
virtù dell’uomo è un’ombra della volontà divina; e lungi dall’essere un Dio, il
saggio riceve la virtù come un dono della grazia divina, e un dono sempre
rinnovato. In quest’ Etica teologica le quattro virtù cardinali ricevono il
loro compimento nelle virtù religiose, che sono la fede e la pietà; e la vita
contemplativa, di cui fanno parte le virtù religiose, è superiore alla vita
attiva, che consiste nella pratica delle virtù cardinali. E come l’anima,
allontanandosi da Dio, s’è legata in questa vita dei sensi, così essa può
ritornare a Dio ; e l’ultimo grado della perfezione umana è l’unione conDio, la
deificatio, la visione estatica. L’ uomo può sollevarsi al di sopra dei sensi,
al di sopra delle idee; e-poichè l’essenza di Dio è inconoscibile, così
quest’unificazione con Dio non è possibile mediante la conoscenza razionale, ma
avviene per la grazia di Dio che si comunica a noi, in una specie di rapimento
eh’è in noi come il furore dei coribanti, dice Filone con frase platonica; e i limite
della felicità, la più alta aspirazione dell’uomo è, mediante quest’estasi, il
riposare in Dio: sv jaóvcj) Osm axf;vai. Questa è nei suoi tratti fondamentali
la filosofìa di Filone ebreo, eh’è in fondo anch’essa una filosofia eclettica,
in quanto profitta di tutte le filosofie anteriori; ma è caratterizzata
specialmente dal suo carattere religioso e dalla mescolanza d’idee greche con
idee o credenze ebraiche. Le stesse tendenze religiose e mistiche, che abbiamo
visto in Filone ebreo, ritroviamo sul terreno greco in quel gruppo di filosofi
che si sogliono denominare Neopitagorici e Platonici eclettici più o meno
pitagorizzanti, che si possono considerare anch’essi come precursori e preparatori
del Neoplatonismo propriamente detto. L’antica scuola pitagorica, come un
complesso di dottrine, era estinta sin dal quarto secolo, al tempo di Aristotile;
ma come forma e metodo di vita, che si diceva appunto vita pitagorica, come
disciplina di pratiche morali pure e austere sanzionate da credenze religiose,
il Pitagorismo doveva aver conservato dei fedeli, tra i quali abbiamo già
nominato i due Sestii ed altri. A cominciare dagli ultimi cinquantanni che
precedono Péra cristiana e poi nei due o tre secoli che seguono, il Pitagorismo
rinasce e si diffonde: non solo si cercano i libri degli antichi pitagorici, ma
se ne scrivono anche degli altri,-che si attribuiscono a Pitagora stesso o ai
suoi seguaci: tutta una letteratura apocrifa, come i Versi d'oro di Pitagora,
che sono una serie di precetti morali, il trattato di Timeo di Locri a\\WAnima
del mondo, quello di Ocello Lucano sulla Natura del tutto, in parte, se non
interamente, i libri attribuiti a Filolao e ad Archita di Taranto, anche ad
alcune donne pitagoriche, come la famosa Theano e altre, perchè una delle
specialità dei Pitagorici era di avere un grande rispetto della donna. Sono
opere dovute a falsari di buona fede, i quali ri- spondendo ai bisogni del
tempo, senza nessuno scrupolo critico, e attingendo a tutte le filosofie
contemporanee o anteriori, davano una filosofìa completa, delle idee intorno a
Dio, il mondo, 1’ uomo, la società, la virtù, mettendo queste idee sotto il
patrocinio di un nome illustre e autorevole: il bisogno di appoggiarsi a
un’autorità venerata era uno dei bisogni del tempo. La stessa leggenda di
Pitagora si compie in questo tempo, si arricchisce di nuovi tratti
meravigliosi: la sua vita diventa un mito. JB oltre poi alle opere apocrife, ce
ne furono delle altre pubblicate dai loro autori coi loro veri nomi, e che sono
appunto i Neopitagorici. Si possono e si sogliono citare come rappresentanti di
questo indirizzo un NIGIDIO FIGULO (vedasi), eh’è nominato da CICERONE (vedasi)
come rinnovatore del Pitagorismo in Alessandria, Sozione, scolaro dei Sestii,
che abbiamo pure nominato, poi più specialmente Apollonio di Tiana, Moderato di
Gades, e M- comaco di Gerasa sotto gli Antonini. La figura più importante e
caratteristica che possiamo prendere come rappresentante di tutto questo
indirizzo è Apollonio di Tiana, nella Cappadocia, il quale nacque sotto Augusto
e visse fino agli ultimi anni del primo secolo dell’e. v., e la cui efficacia
si estende molto al di là del tempo in cui visse. Più di un secolo dopo la sua
morte, nei primi decenni del 200, ne scrisse la vita un sofista di quel tempo,
Filostrato di Lemno, in una specie di romanzo che vorrebbe essere storico, a
richiesta dell’imperatrice Giulia Doinna, moglie di Settimio Severo, la quale
era una bella donna, originaria della Siria, ambiziosa e colta, che non solo faceva,
occorrendo, della politica, ma aveva il gusto delle lettere e della filosofìa,
e raccoglieva alla sua corte un circolo di persone istruite più o meno
illustri. In questo libro Apollonio è presentato come un tipo di perfezione
morale e religiosa, secondo i precetti della filosofìa pitagorica, come un
essere più che umano, non filosofo solamente, ma qualche cosa di mezzo tra la
natura umana e la natura divina. Ha una nascita meravigliosa e fa anche dei
miracoli. Cosicché è difficile, da questa vita dì Filostrato, sceverare la
parte storica dalla leggenda, quello eh’è stato realmente Apollonio da quello
ch’è diventato nell’immaginazione dei suoi ammiratori. Ce lo possiamo raffigurare
come una specie di riformatore morale e religioso che, dopo essersi istruito
nella filosofia e avere accettato quella di Pitagora o che passava per
pitagorica, esercita un apostolato predicando la conoscenza del vero Dio e il
culto che gli è dovuto. In un frammento di lui che ci è conservato da Eusebio,
egli dice: « Per onorare degnamente la divinità e rendersela propizia e
benevola, non giova, al Dio che diciamo primo e ch’è uno e separato da tutte le
cose, offrir sacrifizi nè accendere fuoco nè in generale consacrare alcuna cosa
sensibile; giacché egli non ha bisogno di nulla, e non c’è pianta che la terra
produce nè animale eh’essa o l’aria alimenta, che non sia inquinato di qualche
macchia. Quelloche dobbiamo offrirgli è il meglio di noi, il discorso della
mente, non le parole che escono dalla bocca, ma invocare da lui, eh’è il
migliore degli esseri, il nostro bene con quello che abbiamo di meglio in noi,
lo spirito, il pensiero (il vo0$), che non ha bisogno di un organo con cui
rivelarsi Al di sotto di questo Dio primo ve n’ ha degl’ inferiori o secondari,
primo dei quali è il sole, la più pura manifestazione visibile del divino.
L’uomo è d’essenza divina e può per la saggezza elevarsi fino a Dio. La sua
anima è immortale, anzi eterna: essa passa da un corpo in un altro, ma in ogni
corpo è in prigione, incatenata ai sensi e agl’impulsi disordinati, da cui la
filosofìa ha per oggetto di liberarlo. Bisogna conoscere moralmente se stessi
per arrivare alla virtù e alla saggezza. Colui che pratica tutte le virtù, che
conserva la sua vita interamente pura, e sa adorare Dio con adorazione vera,
s’avvicina sempre più a Dio, diventa partecipe del divino. Ora è qui che
comincia a lavorare la leggenda: questa dottrina non è solamente insegnata, ma
è vissuta da Apollonio, nella biografia che ne scrive Filostrato: egli stesso è
l’uomo divino, la personificazione vivente della perfezione spirituale e della
potenza a cui può giungere l’uomo. Gli abitanti del paese di Tiana, dov’egli è
nato, pretendono ch’egli è figlio di Giove; Filostrato non lo crede, ma afferma
che venne al mondo in condizioni straordinarie, dopo che sua madre ebbe appreso
in sogno che portava il dio Proteo, il dio dellà divinazione, in persona. Dopo
avere abbracciata la vita pitagorica ed essersi formato nel silenzio per cinque
anni, viaggia per il mondo, in Oriente, in Grecia, a Roma, in Egitto, in tutti
i paesi allora conosciuti, conversa coi sapienti di tutti i paesi, istruendosi
e ammaestrando gli altri, preceduto da una gran fama e facendo delle cose
maravigliose. A Efeso ferma la peste facendo lapidare un vecchio mendicante, il
quale difatti non è altro che un demone camuffato, nel quale s’era incarnato il
flagello. Ad Alessandria riconosce istantaneamente in un corteo di condannati a
morte un innocente. A Efeso pure egli sa e annunzia la morte di Domiziano nel
momento in cui questo è colpito a Roma: un bel caso di telepatia. Non solo sa
delle cose sconosciute a tutti gii altri uomini, ma dispone di un vero potere
sugli elementi della natura: sulle rive dell’Ellesponto ferma i terremoti.
Parla tutte le lingue senza averle imparate, scaccia i demoni, si trasporta
istantaneamente a grandi distanze, s’intrattiene con le ombre degli eroi, fa
cadere i suoi ferri in prigione col solo prestigio della sua volontà, richiama
in vita una ragazza che passava per morta. A Corinto, apre gli occhi di uno dei
suoi discepoli perdutamente innamorato di una donna molto bella e ricca in
apparenza, ma ch’era in realtà una lamia, uno di quei cattivi demoni femminili
che si fanno amare dai giovani per poterli divorare a loro piacere. E non già
ch’egli sia un mago, uno stregone, che operi prodigi grazie all’intervento di
spiriti maligni; no, Filostrato si dà una gran pena per escludere questa
interpretazione. Apollonio fa dei miracoli in virtù della sua scienza superiore
e della sua cola unione con gli Dei; e per arrivare fino a questo punto quello
che occorre è una virtù austera, un’estrema purezza di costumi e l’osservazione
di una disciplina rigorosa. Così egli ha la conoscenza delle cose più nascoste
all’uomo, predice l’avvenire, e opera dei miracoli. La sua carriera si termina
aneli’essa in modo meraviglioso. La leggenda più diffusa intorno alla sua morte
racconta che, essendo andato a Creta vecchissimo, entrò nel tempio di Diana e
non ne uscì più. Si sentirono come delle voci di fanciulle che cantavano
nell’aria: lasciò la terra, salì al cielo. Dopo la sua morte, la città di Tiana
gli rese onori divini, e la venerazione di tutto il mondo pagano attestò
l’impressione lasciata negli spiriti dal passaggio di quest’essere
soprannaturale, che faceva dire ai suoi contemporanei: Un Dio abita fra noi J
). Questo carattere meraviglioso della vita di Apollonio ha fatto credere che
fosse intenzione di Filostrato e della sua ispiratrice di opporre una specie di
Cristo pagano a quello della Chiesa nascente, che guadagnava sempre più
adoratori. Per combattere il prestigio che la storia e l’insegnamento di Gesù
esercitavano di giorno in giorno non solo sulla folla, ma in tutte le classi
della società, avrebbero pensato di suscitargli contro un rivale in un
saggiopagano, che non solo operava miracoli come l’altro, ma che professava una
dottrina attinta alle più pure fonti della scienza ellenica. Ora la più parte
dei critici non credono a questa intenzione o tendenza del romanzo, nel quale
non si allude affatto e non si può dire che ci sia uno spirito ostile al
Cristianesimo. Il romanzo è piuttosto interessante innanzi q Cfr. .1. Réville,
La veli gioii (ì Home som ìes Sé vèr eh, Paris, Levous.] tatto per il fatto
stésso che, alla distanza di poco più di un secolo, la vita di un filosofo
neopitagorico come Apollonio sia potuta diventare materia di una leggenda cosiffatta:
è un documento interessante non solo di quel- V atmosfera meravigliosa e della
credulità in cui si svolgeva la lotta delle religioni; ma soprattutto di quella
religiosità spirituale che tendeva a purificare e moralizzare il paganesimo, e
del bisogno che si sente di presentare l’ideale \ religioso come incarnato in
una figura concreta, santa e beila di quell’ideale stesso, e operatrice di
miracoli, perchè avesse più presa sulle coscienze e la forza di comunicarsi. Il
saggio stoico o quello di Epicuro sono costruzioni razionali che non bastano
più: occorre la figura vivente e reale dell’ uomo che s’india, che rappresenta
la natura umana divinizzata. A questo bisogno, a quest’aspirazione religiosa
delle anime, rispondono ora le figure di Pitagora e di Apollonio. Del quale
sappiamo anche che scrisse una Vita di Pitagora. L’uno e l’altro sono uomini
divini, modelli di vita pura e santa, nei quali la verità si è rivelata, i
Quando poi questi Neopitagorici cercano di formulare filosoficamente le loro
credenze e le loro massime etico religiose, essi mescolano alle idee
pitagoriche concetti elaborati dalla filosofia posteriore, platonici,
aristotelici, stoici : di qui il carattere eclettico e recente della loro
speculazione, e per cui è facile riconoscere quelle falsificazioni della
letteratura apocrifa che abbiamo detto. L’idea fondamentale è l’opposizione tra
Dio e il mondo: Dio è l’uno, la monade primitiva: il mondo è rappresentato dal
due, dalla dualità indeterminata, è il molteplice. Ma siccome nel mondo tutto è
ordinato con numero e mitilira, esso si può dire l’attuazione d’idee, che sono
pensieri della mente divina, che s’identificano aneli’esse coi numeri; e poiché
Dio non può venire in contatto diretto col mondo, sorto realizzate da un essere
intermedio, dal- l’anima del mondo in una materia preesistente, la quale pure
talvolta resiste a questa penetrazione delle forme divine; ed è nella materia
che bisogna cercare la causa delle imperfezioni e del male nel mondo. Questo
dualismo si ripete, si ripercuote nell’uomo: l’anima ha bisogno di purificarsi
con la vita santa, con le espiazioni, per ridiventare divina. È stato osservato
che in/queste speculazioni ora è accentuato il concetto monistico del principio
unico da cui tutto il resto sarebbe derivato; ora invece, e più spesso, prevale
la concezione dualistica del principio divino e di una materia originaria. Il
problema del male s’.è posto davanti alla coscienza religiosa e alla
riflessione filosofica, e l’una e l’altra s’affaticano a risolverlo cercando di
superare l’antitesi tra il divino e il suo contrario, tra il corpo o la materia
e le aspirazioni superiori dell’anima. Il problema in fondo era nato con la
distinzione platonica tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile. E di
tutte le autiche scuole nessuna doveva sentirsi più vicina all’ indirizzo
neopitagorico della scuola platonica, per la ragione eccellente che Platone
stesso aveva accolto nella sua dottrina elementi pitagorici, aveva finito col
pitago- reggiare identificando le sue idee coi* numeri, e speculando su Dio e
l’anima e la formazione del mondo materiale alla maniera dei pitagorici nel
Timeo, il quale Timeo era quel Timeo di Locri pitagorico, da cui Platone fa
esporre appunto la sua filosofia della natura nel dialogo che porta quel nome.
Così è che V indirizzo dei Neopitagorici si può dire continuato nel secondo
secolo d. 0. da un gruppo di Platonici eclettici, tra i quali, senza citare
altri nomi, possiamo ricordare due scrittori notissimi, Plutarco e Apuleio; e
poi, per la sua importanza caratteristica, Numenio di Apamea, che ora è detto
pitagorico ed ora platonico. PLUTARCO di Cheronea è Fautore celebre delle Vite
parallele – la seconda e di ROMOLO --, che hanno educato tanta gente all’amore
della virtù e dell’eroismo, e poi di una quantità di opuscoli che si sogliono
designare col titolo complessivo di Opere morali. Egli è un poligrafo,
moralista principalmente, anche nelle Vite, ma è curioso di tutto, erudito,
istruttivo e piacevole: le sue opere sono una specie di enciclopedia, un repertorio
di notizie e d’idee su tutta l’antichità classica, che egli, venuto tardi,
ammira in tutte le sue forme; e come ha celebrato nelle sue Vite la storia dei
suo popolo e degli eroi antichi, così si assimila la scienza, la religione, la
morale dei padri, e se ne fa l’interprete ai contemporanei e ai secoli futuri.
Uomo religiosissimo, ha nella sua patria e a Delfo funzioni sacerdotali. Ama la
filosofia, e l’ha anche insegnata. Si dice platonico, e ammira Platone come il
più grande dei filosofi, ma ha imparato anche da tutti gli altri; e da quell’uomo
istruito che è, e non nella filosofia solamente, ha qualche volta la riserva
prudente dei nuovi Accademici. Il che non gl’impedisce di avere non
precisamente un sistema, ma una dottrina eh’è come il risultato di tutte le
dottrine anteriori. La sua filosofia ha un intento essenzialmente morale e
religioso: egli vuole mantenere e difendere la tradizione religiosa anche nei
suoi miti e nelle sue pratiche, interpretandola secondo principi filosofici, in
modo cioè che non faccia ostacolo a una concezione pura e degna della divinità.
La filosofia è la rivelatrice e l’interprete del segreto sacro e divino che i
miti contengono, togliendo le concezioni false e le menzogne che talvolta i
poeti raccontano. Plutarco combatte l’ateismo, ma combatte pure la superstizione,
quella ch’egli chiama 5esoi8ac|xovfa, la paura servile degli Dei: invece la
fiducia e la gioia accompagnano il vero culto eh’ è loro dovuto. Combatte gli
Epicurei per il loro materialismo, ma combatte anche gli Stoici, che col loro
principio unico non possono rendere ragione del male nel mondo. E qui apparisce
il platonico. Non è possibile, egli dice, porre il principio delle cose nè nei
corpi senz’anima (negli atomi) come fanno Democrito ed Epicuro, nè nella
ragione formatrice di una materia senza qualità. Nel primo caso non si capisce
come vi possa essere bene, ordine, ragione nel mondo; nel secondo caso non si
capisce come ci possa essere il male, il disordine. D’onde viene il male? Non
dal bene, non da Dio certamente. E nemmeno dalla materia, come molti pensano,
perchè la materia per se stessa è assolutamente passiva, il sostrato
indifferente di tutte le forme, non è nè buona nè cattiva. Per spiegare dunque
la cosa, bisogna ammettere che come c’ è un’ anima del mondo che realizza le
idee divine, ci sia anche una cattiva anima del mondo, un principio o potenza
del male che esiste da tutta eternità col bene, il quale, benché superiore, non
può mai annientare quella potenza eh’ è Y origine e la causa di tutto ciò clie
v’ lia di disordine nel mondo, e rende conto della generazione del male. Il
motivo di questa speculazione è eliminare, di fronte alla realtà del male,
tutto ciò che può compromettere la purezza e la bontà di Dio, a costo di
compromettere la sua onnipotenza. Di qui im J altra idea affine e connessa con
questa. Dio è il principio del bene e governa il mondo con la sua provvidenza; ma
questa provvidenza non si esercita dilettamente da lui, ma per mezzo di esseri
intermediari che sono tra Dio e il mondo. Al di sotto del Dio primo e supremo,
realtà trascendente e inaccessibile, ci sono gli Dei celesti o visibili, e al
di sotto di questi i demoni o genii o spiriti che vigilano e governano
direttamente le azioni e le sorti degli uomini; e come ce ne sono dei buoni, ce
ne sono anche dei cattivi, nei quali la natura divina apparisce inquinata e
commista al male. Questa demonologia, clPè insegnata anche da Apuleio, ed è una
delle credenze più diffuse in quest’età, serviva non solo a mantenere puro
nella sua sublimità trascendente il concetto di Dio, ma anche a giustificare in
qualche modo tutte le divinità pagane, e le funzioni loro attribuite, e i riti
e gli oracoli e tutte le altre parti del culto che vi erano connesse. E infine
un’altra idea domina la speculazione religiosa di Plutarco, quella di trovare a
traverso la diversità dei miti e delle credenze dei diversi popoli una verità fondamentale.
A quello eh’ è stato detto il sincretismo religioso, il mescolarsi di tutte le
religioni, ch’è caratteristico di questi secoli, corrisponde il sincretismo
eclettico Biblioteca Comunale “Giuseppe Melli” - San Pietro Vernotico (Br)
NUMENIO 283 dei filosofi, i quali aspirano a formulare la verità religiosa
comune ai diversi .sistemi e alle diverse civiltà. Non ci sono, dice Plutarco,
diversi Dei per diversi popoli, non ci sono Dei barbari e Dei greci, Dei del
nord e Dei del sud. Ma come il sole e la luna illuminano tutti gli uomini, come
il cielo, la terra e il mare esistono per tutti, nonostante la diversità dei
nomi con cui si designano, così vi ha una sola Intelligenza che regna nel
mondo, una sola Provvidenza che lo governa, e sono le stesse potenze che
agiscono dapertuttó; solo i nomi cangiano come le forme del culto; e i simboli
che elevano lo spirito verso ciò eh’ è divino sono ora chiari ora oscuri. Idee
affini e tendenze mistiche anche più pronunziate si ritrovano in Apuleio di
Madaura, che anch’egli professa ed espone il platonismo, adattandolo ai bisogni
teosofici del tempo. Ma di tutti questi filosofi eclettici del secondo secolo
quello che segna più nettamente il passaggio al Neo- platonismo è Numenio di
Apamea: gli stessi Neoplatonici lo considerano come il loro precursore
immediato: lo leggono e lo commentano nella loro scuola. Secondo Numenio, che
visse verso il IfiO, la vera dottrina di Platone era identica a quella di
Pitagora; e questa filosofia egli la trova d’accordo con quella dei saggi dei-
fi Oriente, Bramani, Magi, Egiziani, Ebrei. Egli aveva in particolare la più
viva ammirazione per Mose, nel quale trovava tutte le idee di Platone; di qui
quel motto che ci è riferito di lui : Che cosa è altro Platone se non un Mosè
che parla attico (atticizzante) ?, a quel modo come di Filone ebreo si diceva:
o Filone platonizza o Platone fìlonizza. Numenio conosce certamente Filone e adopera
lo stesso metodo d’interpretazione allegorica, e ha tendenze affini nella sua
speculazione : cosicché qui il sincretismo è completo: la tradizione orientale
e occidentale si congiungono a produrre la nuova filosofìa. Dei libri di
Numenio, uno dei quali s’intitolava intorno al Bene, ci rimangono dei frammenti
interessanti conservatici da Eusebio, e che si possono vedere nel 3° volume del
Mullach, Frammenta pliilosopliorum graecorum. Numenio si domanda: che cosa è
l’essere, la vera realtà? Non i quattro elementi, nè i corpi composti da essi,
che sono realtà mutevoli, cangianti, si trasformano, divengono sempre e non
sono mai, come diceva Platone; e nemmeno la vera realtà si può cercarla nel
sustrato materiale di tutti questi fenomeni sensibili, nella materia, la quale
è qualche cosa d’indefinibile e d’irragionevole (àXoyo?). Per conoscere la vera
realtà bisogna rivolgersi non al- 1’ esperienza sensibile, ma alla ragione. Per
Numenio la realtà è ciò che è assolutamente, l’ Essere increato e che non sarà
distrutto, l’Essere semplice e invariabile. Quest’essere è incorporeo
(cèawpaiov), ed è intelligibile (voyj-cóv), si può cogliere con la ragione
solamente, non con la sensazione o con l’opinione, come le cose periture e
finite. Con questo Numenio esprime la tendenza di tutto questo movimento
d’idee: l’opposizione a ogni materialismo, non solo a quello degli Epicurei, ma
anche a quello degli Stoici: il bisogno di concepire la realtà ultima come una
realtà spirituale diversa e opposta a tutto ciò eh’ è corporeo. Da queste
considerazioni metafisiche Numenio ricava la sua dottrina teologica. NUMENIO La quale, per dire la cosa con tutta
brevità, consiste in questo: nell’ammettere un Dio supremo inaccessibile, puro
essere spirituale, senza connessione col mondo, eh’è pura agione ed è il Bene
in se stesso; poi un Dio secondo, il Demiurgo, eh’è l’ordinatore o l’architetto
del mondo; e per ultimo un terzo Dio, eh’è il mondo stesso. Dato il concetto
trascendente del puro Essere come 10 abbiamo definito, e eh’è il primo Dio,
nasce la solita difficoltà: com’è possibile l’azione di Dio sul mondo. Come
Filone unificava le idee e le potenze divine nel concetto del Logos, come gli
altri platonici ponevano degli Dei o demoni intermediari tra Dio e il mondo,
così Nn- menio statuisce al disotto del primo Dio un secondo eh’è 11 Demiurgo,
distinguendo in certo modo quello che Platone identificava: il Demiurgo era per
Platone, a dir così, la funzione divina per rispetto al mondo. hTumenio ne fa
un secondo essere divino, il quale partecipa della bontà del primo, e ne riceve
i semi di tutte le cose che sono le Idee, ma trapianta questi semi nel mondo
sensibile formando e ordinando il mondo. Sicché il Demiurgo ha una posizione
intermedia : è come un pilota che, assiso al governo del mondo, ha sempre gli
occhi fissi sul cielo e 1 gli astri, per assicurare l’armonia dell’ordine del mondo,
che dirige mediante le Idee, ossia dunque ha sempre gli occhi fissi al primo
Dio; ma d’altra parte, e appunto per la sua fuuzione causale e formatrice sul
mondo, il suo sguardo e la sua azione è rivolta verso le cose sensibili, che
ricevono da lui la loro persistenza, la loro vita, il loro ordine, le leggi
dell’essere loro. E in quanto il mondo è fattura del Demiurgo, si può dire esso
stesso un Dio .TTJfcV^VF.286 NE OPITAG ORICI E PLATONICI ECLETTICI Cosicché
avremmo: il primo Dio eh’è il padre (icaxrjp), il secondo Dio eli’è il
Demiurgo, l’artefice (mr]T%), e il terzo clP è il 7ioùj|i«, la fattura di Dio,
il mondo in quanto formato da Dio. Questo è il cosiddetto triteismo che insegna
Numenio. ' Del quale un’altra dottrina caratteristica è che l’anima umana è
duplice: un’anima razionale e un’anima non razionale: queste due nature sono in
lotta fra loro, come il bene e il male, e il male viene all’anima dalla
materia,o dal suo contatto con la materia, e tutte le incorporazioni dell’anima
sono considerate come un male. Si suppone la preesistenza e la trasmigrazione
delle anime; 1’ unione dell’anima con un corpo terrestre è come la punizione di
una colpa commessa in una vita anteriore, prima della nascita in quel dato
corpo. E l’aspirazione suprema dell’anima razionale è la sua unione con Dio, la
contemplazione o l’intuizione del vero Bene, Uno stato di beatitudine di cui
possono godere solo quelli che allontanano la loro anima da ogni comunicazione
col corpo e coi sensi. Cosicché avremmo qui, e con maggiore nettezza, formulate
le idee e le esigenze di tutta questa speculazione da Filone in poi: la
trascendenza del divino, un termino o più termini intermediari tra Dio e il
mondo, la doppia natura dell’uomo o dell’anima, che da una parte è di Origine
divina, e dall’altra è rivolta verso la materia e le cose terrene; quindi il
bisogno della purificazione e della liberazione per avvicinarsi a Dio e unirsi
con Dio: idee e esigenze che troveranno la loro espressione più compiuta nella
filosofia dei Neoplatonici. La Filosofia greca finisce col sistema e la scuola
(lei Neoplatonici. Fondatore del Neopfatonismo è ritenuto dagli antichi e dagli
stessi Neo pi atonici Ammonio Sacca > alessandrino; nato ed educato da
genitori cristiani, sarebbe passato alla religione antica; e insegnò filosofìa
in Alessandria. Non scrisse nulla, e non sappiamo niente di preciso sulle
dottrine che professava: ci è riferito che secondo lui le dottrine di Platone e
di Aristotile, nelle cose essenziali, concordavano, si potevano ridurre o
fondere in una sola dottrina. La tendenza religiosa dell 7 uomo, oltre che
l’ammirazione che ispirava, si può concludere dall’epiteto di 0£o5iBaxToc, a
Deo doctus, che scrittori posteriori gli danno. Ebbe, molti scolari: si citano
tra gli altri un Erennio, un Origene pagano che non è da confondere col teologo
cristiano dello stesso nome, quantunque anche di questo è detto che passò per
la scuola di Ammonio; poi il critico e
retore Longino a cui è stato attribuito (falsamente) il trattato Del sublime;
ma sopraffatti importante fra gli scolari di Ammonio Sacca è Plotino. Questi
tre scolari principali, Erennio, Origene e Plotino s’erano messi d’accordo di
non pubblicare nulla degl’ insegnamenti di Ammonio, probabilmente per non profanarli
divulgandoli; ma non essendo stati ai patti prima Erennio e poi Origene, anche
Plotino si ritenne sciolto dalla sua parola, e così insomma egli è diventato
per noi il rappresentante letterario, il vero organizzatore ed espositore di
quel sistema d’idee eh’è il Neoplatonismo. Quali che siano stati
gl’insegnamenti di Ammonio, la filosofia neoplatonica è la filosofia di Plotino
e poi dei suoi successori. 2. - Plotino è di Licopoli, nell’Egitto. A 28 anni
si diede alla filosofìa e udì più d’uno dei maestri eh’erano allora in
Alessandria, senza rimanerne contento; ma quando un amico, al quale s’era
confidato, lo condusse a sentire Ammonio, disse : è quello che cercavo; e
rimase suo scolaro per 11 anni. Nel 243, desiderando conoscere nelle sue fonti
la saggezza orientale dei Persiani e degl’indiani, accompagnò l’imperatore
Gordiano nella sua spedizione contro la Persia; ma questa spedizione riuscì
male; lo stesso imperatore vi fu ucciso ; Plotino potè appena salvarsi in Antiochia,
poi venne a stabilirsi a Poma nel 244 e vi rimase quasi fino all’ultimo della
sua vita. Aperse una' scuola ' che Ìventò sempre più numerosa. Non tanto il
talento della parola, quanto la profondità dei pensieri, la bontà del
carattere, la purezza e semplicità della vita gli attiravano la simpatia e la
venerazione. Era una natura mite e gentile, meditativo, tutto dedito
all’insegnamento e allo studio. Diventava bello quando parlava, e specialmente
quando disputava, con grande dolcezza: la sua intelligenza sembrava brillare
sul suo viso e illuminarlo. Dovette esercitare una potente efficacia. Tra i
sxioi ascoltatori furono persone di riguardo, dei senatori e alcune donne
distinte. Ci furono uomini e donne, che, vicino a morire, gli affidarono i loro
figli d’ambo i sessi, con tutti i loro beni, come a un depositario o un tutore
di cui si poteva avere fiducia: onde la sua casa era piena di giovanetti e di
giovanotte. Egli guardava a tutto, adempiva a tutti i suoi obblighi, il che non
lo distraeva punto dalle cose intellettuali, ch’erano la passione della sua
vita. L’imperatore Gallieno e sua moglie, l’imperatrice Saloniua, lo ebbero in
grande favore, 27egli ultimi anni del filosofo fu ventilata pef un momento tra
lui e l’imperatore l’idea di fondare nella Campania una città filosofica sul
modello di quella di Platone, e che si sarebbe chiamata Platono- poli ; ma non
se ne fece nulla. Le condizioni della sua salute peggiorata (soffriva di
un’affezione cronica dello stomaco) lo decisero ad abbandonare Roma e a
ritirarsi in una villa della Campania che fu messa a sua disposizione. Morì nel
270, a 66 anni, presso Minturno. Al medico, suo amico e discepolo, che venne a
vederlo, Plotino morente avrebbe detto : Ti aspettavo, prima di riunire quello
che v’ha di divino in noi al divino che è nell' universo. Tutte queste cose si
leggono nella Vita che ne scrisse il suo scolaro Porfirio, il quale comincia la
sua biografia con queste parole: Il filosofo Plotino, vissuto ai nostri giorni,
pareva si vergognasse di avere un corpo. Così pure egli non parlava mai della
sua famiglia e della sua patria; e gli ripugnava di farsi fare un ritratto o un
busto. Un giorno che Amelio (un altro degli scolari) lo pregava di lasciarsi
ritrarre, Plotino gli disse: Non basta di portare quest’immagine nella quale la
natura ci ba chiusi? Bisogna proprio trasmettere alla posterità l’immagine di
questa immagine come un oggetto che valga la pena di essere guardato? Dobbiamo
soprattutto a Porfirio se possiamo leggere Plotino. Il quale s’era contentato
per molti anni dell’insegnamento orale, e solo a cinquantanni aveva cominciato
a mettere, in iscritto le sue idee. Scriveva rapidamente, tutto assorbito dal
suo pensiero, lungamente e intensamente meditato, senza curarsi molto dello
stile e nemmeno dell’ortografia: non si rileggeva, anche per la vista debole
che aveva. Verso la fine della sua vita affidò a Porfirio i suoi manoscritti
con l’incarico di rivederli e ordinarli. Porfirio trovò eh’essi contenevano o
se ne potevano ricavare 54 trattati o capitoli, li distribuì in sei gruppi
ciascuno di nove libri, e chiamò questa raccolta Enneadi, come chi dicesse
Novene, sei Enneadi di nove libri ciascuna. Questa è l’origine dell 1 Enneadi
di Plotino, il libro fondamentale della speculazione neoplatonica, e uno dei tesori
della letteratura mistica di tutti i tempi. Fu tradotto in latino da FICINO (si
veda). Il neo-platonismo è una filosofia essenzialmente religiosa; il motivo da
cui è nata si può dire anzi mistico: l’aspirazione verso il divino, il bisogno
dell’ anima di sollevarsi dai limiti dell’esistenza finita, e di sentirsi una
con l’essenza universale di tutte le cose. L’idea fonda- mentale e dominante
della filosofia di Plotino è che tutte le cose esistono in Dio, emanano da lui
e ritornano a lui; e questo non come una cosa solamente pensata, ma sentita e
vissuta in tutte le fibre dell’anima, con uno sforzo persistente del pensiero
di penetrare nei misteri di questa vita divina di se stessi e del mondo. Il
punto di partenza e il presupposto di questa speculazione è la distinzione
platonica tra le cose sensibili e la realtà intelligibile, la realtà delle
idee. È una distinzione che può essere pensata in una maniera sobria, senza
nulla di mistico. Tutti in fondo viviamo in un mondo ideale, nel mondo delle
idee, quando parliamo di verità, di giustizia, di virtù, di bellezza; e il
mondo tutto quanto, anche il mondo naturale, si può considerare come una
realizzazione d’idee. Questo insegnava Platone e questo insegnava Aristotile.
Ebbene, secondo Plotino, bisogna elevarsi ancora più in su. Le Idee sono una
realtà derivata, non sono la prima realtà. Il principio di tutto ciò ch’esiste
è l’Unità assoluta, ch’è al di là di ogni molteplicità e di ogni
determinazione. Le cose che noi vediamo e che possiamo pensare sono molte, ma
tutte queste cose non potrebbero esistere se non avessero la loro radice prima
nell’Uno da cui procedono e che le tiene insieme. L’unità è la condizione di
ogni molteplicità non solo nei numeri, ma anche nel mondo dell’essere; senza
un’unità suprema incondizionata nessuna cosa esisterebbe, e il mondo si
risolverebbe in un caos senza consistenza e senz’ordine. Plotino chiama questo
primo principio l’Uno, zb gv, nel senso che esclude ogni molteplicità, e gli
nega pure ogni determinazione o attributo, perchè* definirlo in qualche modo
sarebbe un limitarlo, farne una cosa piuttosto che un’ altra. Si può dire
quello che non è, non quello che è: senza limiti, infinito, senza forma nè
qualità. È una realtà assolutamente trascendente, rcàvawv, al di là di tutte le
cose : una realtà a cui nessun concetto e nessuna parola è adeguata. Questo lo
diceva anche Filone ebreo, il quale però, educato sulla Bibbia, non poteva a
meno di concepire Dio come persona. Secondo Plotino, non si può attribuire a
Dio, alla realtà prima e assoluta, nessuna delle proprietà della persona: nè il
pensiero nè la volontà: il pensiero suppone la dualità di soggetto e oggetto e
la molteplicità delle idee pensate; la volontà suppone un’attività rivolta a un
fine: saremmo sempre nel campo delle realtà derivate, della molteplicità, della
differenziazione. Ogni attributo dunque,) personale o non personale che sia,
bisogna negarlo di lui.^ Ma insieme con questo esso è ciò che v’ha di supremamente
reale e di supremamente positivo, giacche se noi affermiamo la sua trascendenza
assoluta al di là di tutte le cose finite e di tutte le cose pensabili, non è
per diminuirne la realtà, ma unicamente perchè la pienezza dell’essere non
sarebbe compatibile con una limitazione o determinazione qualsiasi. / Si può
dire solo di lui eh’è l’Uno, il Primo, potenza c (prima e causalità assoluta di
tutte le cose; e anche si può ì \ dire eh’è il Bene, non come un attributo
intrinseco a lui ' (come se fosse un essere buono), ma come il fine ultimo a
cui tutte le cose tendono. È insomma l’Ineffabile. Un filosofo italiano *)
(liceva: * : l’Innominabile Reale. E voleva dire: la vita, il mondo è j un
grande mistero: tutte le cose elle noi vediamo e che I pensiamo accennano, sono
l’indizio di una realtà suprema che ci supera, ci trascende : possiamo
affermarla, non nominarla. Questo è l’Uno di Plotino. Rimane a sapere come
procedono gli effetti di questa causalità originaria. Bisogna escludere innanzi
tutto ogni idea di divenire nel tempo, come se prima esistesse l’Uno e poi le
altre cose ; no, non si tratta di raccontare una storia di eventi che si
succedono ; e più specialmente non si può ammettere che le cose procedano dall’
Uno in seguito a un atto di volontà, a una decisione intenzionale, come se
l’Uno fosse una persona che pensa e delibera : dunque niente creazione, nel
senso ebraico e cristiano. E Plotino non ammette nemmeno con gli Stoici che la
sostanza divina, come un fuoco sottilissimo, si comunichi alle cose derivate,
permeandole come il miele che riempie di sò le celle dell’alveare : Dio non è
una sostanza che si possa disperdere e spartire. Per esprimere la sua idea
Plotino è obbligato a servirsi d’immagini.^ È per la sola necessità della sua
natura che il primo juincipio dà origine alle cose derivate, si comunica ad
esse. Come ogni essere vivente, giunto al suo punto di perfezione, ne genera un
altro simile a sè, così la realtà suprema ne fa nascere delle altre simili
benché inferiori. Dalla pienezza dell’ Uno si diffonde, straripa il flusso
delle q Antonio Tari, professore di Estetica nell’ Università di Napoli.
esistenze derivate. Esse procedono da lui, come la pianta germina dalla radice,
come dal sole la sua luce. Questa è l’immagine più frequente e in un certo
senso la più chiara. L’universo è la fulgurazione (TcepiXajjL^) dell’Uuo, della
luce divina. Non è dunque nè creazione nè spartizione della sostanza divina, ma
emanazione, intendendo per emanazione non una diffusione che diminuisca la
sorgente da cui essa deriva, ma un comunicarsi di forza che pure rimanendo
integra in se stessa si comunica alle esistenze derivate. Le quali perciò sono
pure manifestazioni dell’Infinito, emanazioni di lui, sono immanenti in lui,
mai separate da esso, il quale ciò nonostante non si confonde con le cose, ma
le trascende, è al di là di tutte le cose. Dio è dapertutto ed è l’attualità di
tutto, senza essere in nessun posto e senza confondersi nè con ciascuna cosa
finita nè con la loro totalità. Quando si parla di Panteismo, ordinariamente
s’intende quella concezione che confonde o identifica Dio col mondo. Per
Plotino Dio, l’Uno, rimane eternamente distinto dal mondo, e ciò nonostante il
mondo è tutto pieno di Dio, è un’emanazione della sua luce, della forza divina
da cui deriva: si potrebbe chiamare questo un Panteismo dinamico o
emanatistico. Prodotto dall’efficacia dell’Uno, il derivato ne è come la
riproduzione indebolita, a dir così un’immagine o una copia, una luce più
debole, un’ombra. E come l’immagine che riflette uno specchio sparisce quando
s’allontana l’oggetto che la produce, così, senza l’efficacia persistente e
continuata dell’Uno, le esistenze, derivate si dileguerebbero. Esse hanno in
lui la loro consistenza, ma ogni nuova emanazione, pur partecipando del- l’Uno,
è meno perfetta di lui ; le cose diventano via via meno perfette a misura che
s’allontanano dalla causa prima e aumentano i termini intermediari: la luce
proiettata dall’ Uno impallidisce via via fino a sembrare come dileguarsi nelle
tenebre del non essere, della materia bruta. Si direbbe un’evoluzione a
rovescio, non dalle forme meno perfette alle più perfette, ma al contrario, una
degradazione progressiva del divino, un allontanarsi sempre più della luce
dalla sua sorgente. E quali sono i gradi di questa emanazione 1 ? Prima e
immediata emanazione dell’Uno è l’intelligenza o il vou?, s’intende
l’Intelligenza universale,, la Mente divina con le sue idee (il Logos che
diceva Filone, e che anche per lui era il primogenito di Dio) : il mondo delle
Idee dunque, le quali contengono le ragioni seminali di tutte le cose, terre,
mari, fiumi, animali, piante, individui, cosi come possono esistere nella loro
essenza, ab eterno: l’Uno, senza cessare di essere l’Uno, si è come enucleato
in questa molteplicità delle Idee, che costituiscono il mondo intelligibile
insieme con la Mente che le pensa. E come dall’Uno emana l’Intelligenza o il
voOg, così da questo emana il principio della Aita cosmica, l’Anima universale,
l’Anima del mondo, che da una parte guarda alle Idee, e dall’altra come Natura
le attua nello spazio e nel tempo generati da essa, le attua nel mondo sensibile;
sicché l’Anima, come il secondo Dio di Numenio, è, si può dire, al confine dei
due mondi, del mondo intelligibile di cni essa è l’ultima emanazione, e del
mondo dei corpi che emana e eh’è formato da essa; e l’ultimo termine di questa
processione è la materia o il sustrato materiale dei corpi, la materia senza
forma, in cui la luce divina si estingue in qualche cosa di opaco e di oscuro.
Cosicché avremmo come una gerarchia di esistenze che, in ordine inverso a
quello che abbiamo detto, andrebbe dalla materia ai corpi che costituiscono la
fantasmagoria del mondo sensibile, dai corpi all’Anima, dall’Anima al-
l’Intelligenza o Ragione universale, dall’Intelligenza a Dio. Il mondo corporeo
riceve la luce dall’Anima, l’Anima dall’Intelligenza o Ragione, questa
dall’Uno: così tre sfere concentriche illuminate da un punto al centro, esso
stesso invisibile agli occhi mortali, ma eh’è la sorgente prima e il focolare
perenne della luce che illumina il mondo. 4. - L’Uno, l’Intelligenza e l’Anima
costituiscono insieme il mondo intelligibile, da cui dipende il mondo sensibile;
e sono dette con parola tecnica le tre ipostasi, le tre sostanze che nominate a
una a una sembrano tre personificazioni: una trinità di principi che sono stati
paragonati alle tre persone del dogma cristiano. C’è la differenza essenziale
che nel mistero cristiano le tre persone sono uguali in perfezione e
costituiscono tutte insieme l’unità di Dio: e in questa triplicità di un solo
Essere sta appunto il mistero. In Plotino, i tre principi non sono persone, ma
gradi della realtà: il mondo procede direttamente dall’Anima e mediatamente
dall’Intelligenza e dall’Uno. Ho già avvertito che bisogna escludere da questo
processo ogni idea di divenire nel tempo ; e così pure bisogna escludere ogni
idea di spazio, come se si trattasse di un edifizio a tre piani, di cui il
mondo PLOTINO: l’anima e il mondo sensibile 297 sensibile sarebbe come il pian
terreno. No, sono tutte rappresentazioni in adeguate. Si tratta invece di
comprendere V universo, nella sua unità, come la manifestazione di un principio
divino unico che si manifesta come Intelligenza e come Anima, come Intelligenza
in quanto il mondo lia un contenuto razionale che sono le Idee che vi sono realizzate,
come Anima in quanto il mondo è il risultato di una forza generatrice e
formatrice che distribuisce l’essere e la vita a tutte le cose che esistono; e
così l’Intelligenza come l’Anima sono da considerare come l’irradiazione o
l’efflorescenza di quell’Uno originario nel quale vivono e sussistono esse
stesse e tutte le cose; e l’ultimo termine di questa produzione, il polo
estremo, a dir così, di questa degradazione progressiva dell’Uno è la materia,
che non è più luce, ma ombra, oscurità, ma in quanto è materia animata e
formata dalle potenze divine, è ombra di luce, ombra dell’Anima e della Mente
di cui porta in sè impresse le tracce. Dopo questa veduta sommaria, fissiamo
più particolarmente la nostra attenzione su l’Anima, che, come dicevamo, si
trova al confine dei due mondi, del mondo intelligibile e del mondo sensibile:
li separa e li unisce partecipando di entrambi. In quanto emanazione o
espressione dell’Intelligenza, l’Anima contempla in essa le-Idee, e sono queste
Idee eh’essa attua, realizza nel mondo dei corpi. Si potrebbedire che ha una
doppia funzione, una rispetto all’Intelligenza da cui riceve o riflette o
rispecchia le Idee, l’altra rispetto al mondo dei fenomeni che si genera da
essa, e nel quale essa imprime le Idee, che diventano così le forme o ragioni
seminali delle cose. Per esprimere questa doppia funzione Plotino ne parla
talvolta come fossero due anime, una superiore e l’altra inferiore, 1’Afrodite
celeste e PAfrodite terrena, e quest’ultima è insomma la filatura (cpuaic;),
eli’è dunque la stessa Anima cosmica come j principio della vita universale,
come forza creatrice, la cui \ attività non rimane nella sua semplicità
originaria : pur [essendo semplice e indivisibile in se stessa, la sua attività
si moltiplica, si partisce, si unisce al mondo corporeo, allo stesso modo come
l’anima umana al corpo umano ]ch’ essa vivifica in tutte le sue parti. Con
questo però, ^che il corpo non è qualche cosa di estraneo, di diverso
essenzialmente dall’Anima, ma è una sua produzione, si potrebbe dire una sua
esteriorizzazione. Già è essa l’Anima (l’anima cosmica) che con la sua
espansione genera lo spazio, e con l’azione successiva delle sue potenze genera
il tempo ; e il corpo stesso è una produzione dell’Anima, un’emanazione
umbratile di essa, ma è essa che lo illumina della sua luce. Di qui
quell’espressione così caratteristica in Plotino, che non è l’anima ch’è nel
corpo, ma il corpo è nell’anima, il corpo è l’organo, lo strumento dell’anima,
ed è tenuto insieme, animato, unificato dall’anima che lo produce e lo avviva
tutto. Questo è vero non del corpo singolo solamente, ma di tutto l’universo.
Tutto quanto l’Universo è spiritualizzato in questa veduta: il mondo dei corpi
è un’ombra o riflesso dello Spirito, non è fuori dell’Anima, ma un prodotto
dell’Anima e quindi dell’Intelligenza e dell’Uno divino di cui essa è ministra.
Per questa, a dir cosi, incidenza del mondo corporeo nelle potenze spirituali
da cui si genera, tutto nella natura è animato: tutto è penetrato
d’intelligenza e delle idee realizzate dall’Anima. PLOTINO: l’anima e il mondo
sensibile 299 materia pura, senza forma, senza vita e senz’ anima è più
un’astrazione del pensiero che una realtà. Già nella pietra c’è una vita
latente: negli elementi stessi c’è qualche cosa di vivido, nella fiamma,
nell’acqua che scorre, nell’aria. Ed è sempre l’Anima che in virtù della sua
fecondità inesauribile produce l’immensa serie degli esseri, i corpi celesti, i
corpi degli animali e delle piante, fino alla più grossolana materia delle cose
terrestri. È una vita infinita diffusa per tutto l’universo: lo spirito
animatore vi apparisce in gradi diversi : nei suoi generi e nelle sue specie e
nelle diverse forme individuali c’è come un passaggio continuo dal più perfetto
al meno perfetto; e nelle creature inferiori c’è come la traccia o il ricordo e
quindi l’aspirazione e il presentimento delle forme superiori; e tutte queste
vite singole, distinte, non confuse tra loro, si unificano pnre nel juincipio
unico da cui emanano. Come l’Intelligenza, pure essendo una, contiene in sè
tutte le Idee, cosi l’Anima universale contiene in sè le singole anime, tutte
le forme di vita che popolano il mondo, le quali, benché distinte
individualmente, si unificano pure nella loro essenza, sono manifestazioni
diverse della stessa Anima del mondo, come raggi che partono da un centro
comune, o come la scienza è una nelle diverse sue parti, e una stessa luce può
illuminare i luoghi più diversi. Nel mondo sensibile l’unità diventa
molteplicità e l’armonia può diventare opposizione e lotta; ma ciò nonostante
l’unità originaria non è annientata: tutti gli esseri realizzano la stessa
vita, e sono come le voci diverse che celebrano o riecheggiano la stessa
armonia. Dato questo concetto dell’animazione universale e della vita unica che
ricircola rimanendo identica a se stessa in tutte le parti e forme del mondo,
Plotino si trova in una situazione non dissimile da quella in cui s’ era
trovato Platone, di fronte alla realtà della nostra esperienza. Da una parte la
tendenza religiosa del suo spirito e i concetti platonici con cui lavora,
l’opposizione tra realtà sensibile e realtà intelligibile, lo portano a
considerare il mondo sensibile, eh’è nato dalla mescolanza dell’anima con la
materia, come un peggioramento, come un’ombra della vera realtà; quindi la
realtà empirica e sensibile non è la vera patria dell’anima, la quale anzi
aspira a liberarsi da essa. E questa tendenza troverà la sua espressione
nell’Etica. Ma d’altra parte questa fantasmagoria dei sensi è pure un riflesso
del mondo ideale, è una manifestazione dell’Anima, penetrata d’intelligenza e
d’idee; deve avere tutta la perfezione e la bellezza di cui è capace. Plotino
combatte espressamente quelli che considerano il mondo dei sensi come il regno
del male, di un male originario e insanabile, quasi fosse l’opera di un
demiurgo cattivo. Egli è ancora troppo greco per accettare questa condanna. Il
mondo sensibile è inferiore al mondo ideale perchè se ne distingue ed è fatto
di materia; ma rappresenta pure il suo modello, esprime la vita e la saggezza
infinita, è un riflesso del Bene, le cui emanazioni finiscono in lui. Tenendo
dall’Anima V essere suo, è un tutto organico in cui l’opposizione e la lotta
dei contrari sono subordinati all’unità del tutto. Non solo c’è ordine e
armonia, ma connessione, solidarietà fra le diverse parti, non per azione
fìsica o meccanica che vi sia fra loro, ma per l’unità dell’Anima e
dell’Intelligenza che lo vivifica, e quindi per la simpatia e affinità di
natura di tutti gli esseri fra loro. Biblioteca Comunale “Giuseppe Melli"
- San Pietro Vernotico (Br) Plotino proclama con gli Stoici l’ordine e
l’armonia del mondo, e scrive una Teodicea per difendere il concetto della
Provvidenza. Tutto è bene, anche per lui : la distruzione perpetua degli esseri
anche quando si divorano gli uni gli altri, non l’offende, è la condizione del
rinnovarsi perpetuo della scena della vita. Sì, è necessario eh’essi si
divorino: è come sulla scena; un attore eh’è stato ucciso, che s’è visto
morire, va a cangiare di vestito e ritorna sotto un altro aspetto : vuol dire
che non era morto realmente. A traverso questa vicenda la vita permane, morire
è cangiare di corpo come l’attore cangia di vestito e riprende la sua parte:
che cosa c’è di spaventoso in questa permutazione degli animali gli uni negli
altri? E così, morire nella guerra, nella battaglia, è anticipare di ben poco i
colpi della vecchiaia e la morte naturale: è un partire per ritornare sotto
altra forma. Questi massacri che noi vediamo, questi saccheggi di città, queste
violenze, pianti e gemiti degli attori, in tutte queste .vicissitudini della
vita, non è l’anima del di dentro che cambia, ma è l’ombra dell’uomo esteriore
che geme e si lamenta. - L’ottimista, che crede nella Provvidenza, e guarda le
cose dal punto di vista dell’eternità, si consola facilmente di questo
spettacolo, ch’è così doloroso a chi ci vive dentro e n’è vittima. Kon solo
Plotino afferma che tutto è bene, ma ammira soprattutto la bellezza del mondo,
e scrive del Bello, e dopo i primi accenni che si trovano in Platone, pone alcuni
dei concetti fondamentali della scienza dell’Estetica. Perchè in verità tutta
la concezione della natura che abbiamo veduto è una concezione che si può dire
religiosa e estetica insieme. Data quell’animazione e spiritualizzazione
dell’universo, la realtà o fenomeno sensibile non è altro che un riflesso
dell’Idea eh’esso esprime. E il lampeggiare dell’Idea nel fenomeno è appunto la
bellezza. Il bello ha carattere spirituale. ISTon è bella la forma sensibile
come tale, nella sua esteriorità, non la simmetria, non la proporzione, ma la
vita o l’Idea che la forma esprime, quel certo che di spirituale,
d’impalpabile, che risplende in essa. E il bello così inteso noia è un oggetto
fuori dell’anima, non c’è nulla al di fuori dell’anima, tanto meno gli oggetti
belli. È intanto l’Anima, come potenza generatrice, che realizzando le Idee
produce le forme belle; ed è un’anima, un’anima individuale, che ha il
sentimento della bellezza, contemplando quelle forme. L’anima coglie e sente la
bellezza perchè sente e scopre se stessa nelle cose belle; ma questa visione e
questo sentimento non sarebbe possibile, l’anima non potrebbe vedere la
bellezza, se essa stessa non è diventata bella. È una delle grandi parole di
Plotino, che vuol dire: solo le anime pure hanno veramente il sentimento della
bellezza, quelle che si sollevano sulle cupidigie e i desiderii inferiori, che
sanno guardare con occhi sereni, con una contemplazione disinteressata, le cose
belle. Di qui quest’altra parola sua: se tu non trovi ancora la bellezza nella
tua anima, fa’come l’artista ‘ che non cessa di lavorare alla sua statua,
finché non le ab- . bia dato tutta la sua bellezza. Cosi tu scolpisci e cesella
la tua anima, e purifica e illumina tutto ciò che v’ha in essa di torbido,
perchè essa diventi degna di sentire la bellezza. La bellezza è un mistero che
non solo ci piace ma ci attira, non c’ispira ammirazione solamente, ma amore.
plotino: l’anima umana Il che vuol dire che al di là di essa c’è qualche altra
cosa. Al di là della forma bella, o per meglio dire a traverso di essa, traluce
qualche cosa di cui essa è lo splendore: ed è il Bene a cui l’anima aspira.
Solo il Bene può far nascere l’amore, ed è col Bene che l’anima aspira ad
unirsi. Come tutte le cose che esistono, anche l’uomo ha la ragione della sua
esistenza nel mondo intelligibile, non solo ne deriva, ma ci vive dentro, non
ne è separato, anche durante la sua esistenza terrena. Ogni anima deve
considerare eh’essa è parte dell’Anima universale, di quell’Anima che ha
prodotto tutte le cose del mondo sensibile, gli astri divini, il sole e il
cielo immenso : è essa che ha dato al cielo la sua forma e che presiede alle
sue rivoluzioni regolari: è da essa che si generano tutti i viventi, le piante
e gli animali che sono sulla terra, nell’aria e nel mare. Tutte le anime individuali
sono immanenti in quest’Anima cosmica ; ed è insomma lo stesso principio
animatore del mondo che vive anche in noi, e che noi diciamo la nostra anima.
Sicché ciascun’anima, per questa sua provenienza, è,, come quella che le
contiene tutte, di natura spirituale^ ed eterna; la sua esistenza non comincia
nè finisce col \ corpo con cui è congiunta. Essa non è un aggregato di atomi,
come pensavano gli Epicurei, non è corpo sottilissimo igneo o etereo, come
credevano gli Stoici, non è nemmeno funzione del corpo, entelechia o forma di
esso, come insegnava Aristotile, e nemmeno armonia risultante dalle relazioni
fra le parti del corpo, come opinavano i Pitagorici. Plotino discute e rifiuta
tutte queste ipotesi, per concludere die fiamma non Ita bisogno del corpo per
esistere: la sua vera essenza è di essere semplice e separabile dal corpo : è
di natura spirituale e quindi immortale ; tutte le sue facoltà, la sensazione,
la memoria, il pensiero, le * x'-l T qualità morali non sarebbero possibili se
fi uomo e la sua -, anima fossero un semplice aggregato di molecole rnate^
riali : tutte quelle funzioni e facoltà suppongono un soggetto semplice,
identico a se stesso, non sottomesso alle _ Vicende delle cose corporee: la
critica del materialismo che j si trova in Plotino è fra le più compiute che ci
abbia lasciato fi antichità, e contiene argomenti che sono stati poi sempre
utilizzati. Questa natura spirituale delfi anima importa elfi essa è
vicinissima alla sorgente di tutte le cose. Giacché i tre principi che sono
nelfiuniverso, l’Anima, fi Intelligenza e l’Uno, debbono essere .anche in noi:
essi costituiscono l’uomo interiore, la vera essenza dei- fi uomo. Il quale è
un’anima e possiede fi intelligenza, non solo l’intelligenza discorsiva, che
procede per via di ragionamenti, ma anche quella forma superiore di essa che intuisce
le Idee, la ragione intuitiva. Bisogna dunque che risieda in noi anche quel
principio divino da cui emana l’Intelligenza, l’Uno ineffabile, che non esiste
in nessun luogo, ma eh’è come il centro e* il cuore più intimo del mondo.
L’uomo è un microcosmo, un piccolo mondo, jl compendio dell’universo. È così
che noi uomini, nella nostra intima essenza, siamo in contatto con Dio, siamo
in certo modo sospesi a lui, respiriamo e sussistiamo in lui l’ anima umanaSe
non che, quest’uomo interiore esìste in un corpo, j ha pure un’esistenza
terrena e sensibile. Coni’è avvenuta | questa specie di caduta o discesa? \ Qui
Plotino bisogna che si aiuti con l’immaginazione, ; come del resto faceva anche
Platone, quando parlava di una caduta delle anime che hanno perduto le loro
ali. Ci sono delle anime celesti che rimangono pure da ogni - contatto corporeo
e beate nella contemplazione delle Idee' eterne. Ma ce ne sono delle altre, che
siamo noi, le vere anime umane, le quali si sono rivestite di un corpo, e sono
discese in un grado di esistenza inferiore. Come l’Anima universale procedendo
nelle sue emanazioni avviva il corpo intero dell’universo, così alle anime
particolari è devoluta una parte determinata del mondo corporeo ; il che si può
anche intendere come una legge provvidenziale, perchè il mondo intelligibile da
cui le anime derivano manifesti ed esplichi tutte le potenze eh’esso possiede.
L’anima particolare, sviluppando le sue potenze sensitiva e vegetativa, entra
in un corpo, o a dir meglio, se ne riveste, se lo forma vivificandolo e
governandolo. {Si potrebbe forse rappresentarsi la cosa ài modo che dice Dante
quando nel XXV del Purgatorio descrive il formarsi delle ombre: la virtù
informativa raggia intorno e suggella di sè la materia corporea che le si
condeusa intorno o eh’essa irradia da sè). Ma comunque si voglia immaginare la
cosa, e a parte qualunque mitologia, l’idea e la verità profonda eh’è espressa
qui, in questa discesa delle anime nel mondo corporeo, è il distaccarsi
dell’anima individuale dalla sorgente di ogni vita, la volontà dell’esistenza
individuale, che finisce col diventare un’esistenza separata, e dimentica della
sua origine e dei legami che la congiungono col tutto. — Com’è — dice Plotino
in un luogo magnifico (il principio della V a Enneade) — come accade che le
anime dimentichino Dio, il loro padre? Come accade che avendo una natura
divina, ed essendo uscite da Dio, esse lo disconoscano e disconoscano se stesse
? L’origine del lomale è l’audacia o l’orgoglio (xóX[xa), il desiderio di non
appartenere che a se stesse. Da quando hanno gustato il piacere di possedere
una vita indipendente, usando largamente del potere ch’esse avevano di muoversi
da sè, si sono avanzate nella strada che le deviava dal loro principio, e sono
giunte ora a un tale allontanamento da lui (apostasia, àTzòa-a,ai % vita a cui
l’uomo può e deve aspirare; non costituiscono propriamente questa vita. Non
solo la vera virtù consiste non nelle azioni esterne, f sibbene nella
disposizione interna dell 7 anima; ma questa disposizione virtuosa è
soprattutto una purificazione, una catarsi, una liberazione dell’anima dalla
sensibilità e daisuoi legami col corpo. Quest’idea della purificazione è il
significato più profondo della dottrina della metempsicosi, che anche Piotino
accetta come Platone e i Pitagorici. L’anima che figura nel dramma di cui il
mondo è il teatro, e che vi recita la sua parte, vi porta una disposizione a
recitar bene o male, ed è punita o ricompensata in conseguenza, secondo quello
che fa e secondo giustizia. Salvo che per riconoscere questa giustizia, non
bisogna fermarsi alla vita presente, ma bisogna tener conto drtutti i periodi
passati e futuri dell’anima, la quale non muore col corpo che momentaneamente
la riveste, ma è di sua natura immortale. Chi è stato padrone in una vita
anteriore, se ha abusato del suo potere, rinasce schiavo; chi ha impiegato male
le sue ricchezze, rinasce povero ; quelli che hanno commesso violenza, saranno
a loro volta maltrattati ; chi ha ucciso la madre, sarà ucciso dal figlio suo:
l’anima è destinata a incorporarsi in questo o quel corpo, a ridiventare uomo o
animale o anche pianta, secondo i suoi meriti e gli atti che ha compiuti in una
vita anteriore; e a traverso queste rinascite successive ciascuna anima si
purifica, espia, finché non ridiventi degna di ritornare alla regione celeste
da cui è discesa. Questa purificazione non si ottiene mediante pratiche
ascetiche o mortificazioni, ma facendo si che l’anima non diventi prigioniera
delle passioni del corpo, non s’abbandoni ai fantasmi dell’immaginazione, non
si estranii dalla ragione, cerchi di sollevarsi sempre più verso quella realtà
intelligibile ch’ò la sua vera patria. E da questo punto di vista anche le
virtù cardinali o civili acquistano un nuovo significato : diventano virtù
purificative, orientano l’anima verso quella realtà superiore, facendo che
l’intelligenza domini nell’uomo e regoli tutte le sue azioni e i suoi
sentimenti. Ossia insomma più delle virtù civili e pratiche vale la virtù
contemplativa, la virtù dello spirito puro. f E lo stesso mondo sensibile può
avere valore per il nostro perfezionamento quando sia appunto oggetto dì con- «
templazione: qui vengono a confluire quelle due correnti d’idee che dicevamo:
l’inferiorità della realtà sensibile rispetto al mondo ideale, e la perfezione
e la bellezza di questo stesso mondo sensibile in quanto riflesso delle Idee.
L’anima aspira in fondo al bene supremo, e non vi può pervenire se non mediante
la conoscenza del vero e del bello. Ma anche le apparenze del mondo sensibile
possono servire di gradini, di scala per sollevarsi fino a quel mondo
superiore. Tre vie conducono a questo mondo, che sono per Plotino la musica,
l’amore e la filosofia. La musica ha per oggetto l’armonia, l’amore ha per
oggetto la bellezza, la filosofìa ha per oggetto la verità. Il musicista si
lascia facilmente commuovere da alcuno forme del bello ; ma bisogna che delle
impressioni esterne vengano a stimolarlo. Come l’essere timido è risvegliato al
più piccolo rumore, cosi il musicista è sensibile alla bellezza delle voci e
degli accordi ; egli rifugge da tutto ciò che gli sembra contrario alle leggi
dell’armonia, e ricerca il numero e la melodia nei ritmi e nei canti. Ma
bisogna che dopo queste intonazioni, questi ritmi e queste arie puramente
sensibili, egli impari a conoscere le proporzioni e i rapporti intelligibili
che sono l’idea e il principio stesso dell’armonia delle cose ch’egli ammira, e
ammirando le quali egli possiede come istintivamente delle verità che solo una
scienza più alta potrà rivelargli. L’amore è rivolto verso la bellezza, e
dicemmo già come l’anima diventa bella, si purifica, contemplando il bello, il
lampeggiare delle Idee nella forma sensibile. Ma i anche qui ci sono dei
gradini da salire, e bisogna che l’amante si sollevi dalle belle forme corporee
alle Idee ch’esse esprimono, e riconosca il Bello anche nelle cose incorporee,
nelle scienze, nei prodotti spirituali dell’attività umana, nella virtù, finché
non giunga a quel pelago ampio del Bello di cui parlava Diotima nel Convito platonico.
Perché la stessa commozione profonda e trepida che noi proviamo di fronte alle
belle forme e a tutte le cose belle, ci dice che al disopra di esse tutte c’ è
una bellezza superiore, di natura puramente ideale, quella del Bene che le
illumina e le colora della sua luce. Quanto al filosofo, dice Plotino, egli è
naturalmente disposto ad elevarsi al mondo intelligibile. Vi si slancia portato
da ali leggiere, senza aver bisogno, come i precedenti, d’imparare a liberarsi
dagli oggetti sensibili. La filosofia non è ridotta a intravedere la verità a
traverso i suoi simboli, ma la coglie direttamente e nella sua essenza, senza
che la passione o l’immaginazione vengano a turbarne o oscurarne la tranquilla
e pura contemplazione. La filosofia rivela e spiega e commenta quelle verità
che il musicista e ramante intravedono solo confusamente e come per istinto :
ci svela la realtà e la natura (lei mondo intelligibile, concesso è costituito
e come procedono i suoi effetti. % Qui si direbbe che siamo giunti all 7 ultimo
termine della nostra ascensione. Ebbene no. Al disopra di ogni riflessione e di
ogni conoscenza, al disopra di ogni distinzione di pensante e di pensato, di
soggetto e di oggetto, e 7 è uno stato veramente incitabile, nel quale l’anima
individuale si annega e si perde, come illuminata dalla luce divina, con la
quale essa s’identifica. ISon si può chiamare nemmeno visione, ma piuttosto
un’estasi, una semplificazione, un abbandono di sè, una perfetta quietudine,
infine un confondersi con ciò che si contempla. Come l’amore non si contenta
della visione, ma aspira all’unificazione intera delle anime, così l’anima
umana aspira a congiungersi con l’Uno, col Bene, col principio di ogni realtà,
e vi riesce qualche volta quando nel più profondo raccoglimento dalle cose
esterne, al di là di ogni pensiero, nella più profonda pace, aspetta di essere
illuminata dalla luce divina, nega la sua finitudine, e come rapita e fuori di
sè, essa stessa s’india. Questa Divina Commedia finisce non con una visione
beatifica, ma con l’estasi. Porfirio ci dice che Plotino, durante il tempo che
furono insieme, aveva provato questo stato di suprema beatitudine solo quattro
volte, ed egli stesso, Porfirio, una sola volta. Cfr. YachehoTj Histoire
oritique de l’école d’Alexandrìe. La filosofia di Plotino, per i concetti con
cui opera, si può considerare come il risultato di tutta la speculazione
anteriore. Plotino fia imparato non solo da Platone, ma da Aristotile, dagli
Stoici, dai presocratici, specialmente dagli Eleati: ha imparato anche dalle
filosofie ch’egli combatte; e mentre riassume il passato, contiene idee, intuizioni
e suggestioni che valgono per tutti i tempi: il motivo religioso, da cui questa
filosofìa è nata, ne ha fatto una delle concezioni tipiche e caratteristiche di
quello eh’è stato chiamato il bisogno metafìsico. Ci sono dei tempi in cui la
filosofìa si sforza e non conosce altro compito se non di comprendere la realtà
dell’esperienza, la struttura e le leggi di questo nostro mondo sensibile:
diventa, come dicono, positiva; ce ne sono degli altri in cui non si contenta
di questo, e nemmeno di quella saggezza pratica, che basta a condurci nella
vita ; ma cerca di esprimere e di appagare i bisogni più profondi dello spirito
o di alcuni spiriti che non mancano mai in nessun tempo; il bisogno di
liberarsi dalle inquietudini e dalle limitazioni di questo oscuro viaggio della
vita, di trovare la pace e la beatitudine in una realtà superiore. Di questo
slancio, di quest’aspirazione verso il divino, Plotino è rimasto uno
degl’interpreti più eloquenti; e la sua efficacia è stata grande a traverso i
secoli, in S. Agostino e negli altri Padri della Chiesa, nei mistici del Medio
Evo, poi massimamente nei nostri filosofi del Rinascimento, in Malebranche e
Spinoza, più tardi nei poeti e filosofi del Romanticismo tedesco, fino ai
nostri giorni. Intanto non bisogna dimenticare che questa filosofia
neoplatonica si produceva in un’età di fermentazione religiosa, tra spiriti
sitibondi del soprannaturale, in un’atmosfera satura di superstizióni, in mezzo
a quel sincretismo di tutte le credenze e di tutti i culti del mondo antico,
fra cui si preparava la fede dell’avvenire: bisogna tener conto di questo fondo
storico, in cui il Neoplatonismo s’è formato, per intendere la sua storia
posteriore e le sue trasformazioni. Nel tempo stesso in cui il Neoplatonismo
era insegnato e si diffondeva nell’impero romano, la Chiesa cristiana, che
s’era già cominciata a organizzare, cercava essa pure di definire i suoi dogmi,
superando i contrasti che si producevano nel suo seno; creava un corpo di
dottrine, le quali fissavano, di fronte alle opinioni dichiarate eretiche, il
contenuto della nuova coscienza religiosa: nasceva così la teologia cristiana,
una filosofìa del Cristianesimo, la quale utilizzava anch’essa a modo suo i
concetti della filosofìa greca, specialmente quello del Logos, che finisce con
V identificarsi col Messia come il mediatore vivente tra Dio e l’uomo; si
assimilava questi concetti modificandoli e incorporandoli nel sistema delle sue
credenze. Ora di fronte ai progressi sempre crescenti del Cristianesimo, clie
ai principi del quarto secolo trionfa con Costantino, e finisce col diventare
la religione dello Stato, il Neoplatonismo, per gli spiriti non persuasi della
nuova religione ft rimasti fedeli alla tradizione pagana, diventa 1 o è
utilizzato come la base di una teologia del politeismo : si tenta per mezzo
delle idee neoplatoniclie di ristaurare, legittimare e ridurre a sistema tutte
le divinità e i culti dell’antica religione. Il Neoplatonismo diventa l’ultima
filosofìa del paganesimo, e non solo come un sistema di dottrine destinate a
spiegare o risolvere come che sia i problemi di Dio, del mondo e dell’anima
umana, ma come il puntello dell’antica religione pagana, con tutti i suoi Dei e
le sue pratiche. 2. - Non vogliamo entrare nei particolari di quest’ultima
parte della nostra storia; basterà ricordare i nomi principali. Fra gli scolari
diretti di Plotino il più importante è Porfirio, al quale dobbiamo la redazione
e la pubblicazione delle Enneadi, e che continua la dottrina del maestro
esponendola con chiarezza e brevità in quelle Sentenze d’introduzione al mondo
intelligibile (’Acpoppori Ttp&s Tic vorjTa), che si trovano molto utilmente
premesse all 'Enneadi nell’edizione Didot. Scrisse molte altre opere, tra cui
una in 15 libri contro i Cristiani, andata naturalmente perduta. È anche
studioso e commentatore di Aristotile; e un passo diventato celebre della sua
Isagoge o Introduzione alle Categorie di Aristotile, che tratta delle cinque
voci (il genere, la specie, la differenza, il proprio, l’accidente), sarà il
punto di partenza delle controversie medievali sugli universali. Porfirio è uno
spirito colto, erudito, che vorrebbe riformare la religione tradizionale ;
combatte le superstizioni più grossolane, predica un culto puro, senza
sacrifizi sanguinosi: raccomanda anche delle pratiche ascetiche. Ea consistere
il fine della filosofìa nella salute dell’anima; ma pure accentuando le
tendenze pratiche e religiose della scuola, e facendo delle concessioni alle
credenze'popolari, si può dire che in lui è vivo an- ’i _ cora l’interesse
filosofico. Egli è il continuatore immediato della tradizione plotiniana.
Invece con Giamblico, che fu scolaro di Porfirio, avviene decisamente quella
trasformazione del Neoplatonismo in un sistema di credenze religiose:
l’interesse teosofico prevale: la filosofia diventa ancella della teologia, e
della teologia pagana. Giamblico nacque in Calcide nella Gelesiria, non si sa
precisamente in quale anno, visse ai tempi di Costantino. È riguardato come il
fondatore di una nuova scuola, della scuola siria del Neoplatonismo: ebbe molti
discepoli, entusiasti di lui, che lo riguardavano •come un uomo straordinario e
divino, dotato di potenza occulta e miracolosa. Giamblico intraprende una
ricostruzione filosofica del Panteon pagano, nella quale entrano gli Dei greci
e romani e le divinità orientali, tutte all’infuori del Dio cristiano. E alla
credenza in tutta questa moltitudine di Dei si aggiungono le pratiche del culto
: alla virtù e alla contemplazione, ck’erano per Plotino i mezzi con cui l’uomo
si solleva al divino, si aggiunge o piuttosto si sostituisce la teurgia, cioè l’arte
di esercitare un’azione sulla volontà degli Dei per renderseli favorevoli, di
far discendere in sè il divino per mezzo di pratiche esterne, riti, preghiere,
con la virtù di formule simboliche, che ci riedificano nell’unità primitiva da
cui siamo usciti. Le formule filosofiche diventano pretesto à stravaganze
magiche e spiritiche. Com’è stata possibile la degenerazione di una così nobile
filosofìa, concepita con tanta energia speculativa e animata da una così pura
fede e aspirazione al divino? Pur troppo il Neoplatonismo portava in se stesso,
e già in Plotino, i germi di questa degenerazione: innanzi tutto il metodo
delle ipostasi, e poi la tendenza a trovare, con interpretazioni allegoriche,
nei nomi o nelle figure tradizionali degli Dei il simbolo dei diversi momenti
dell’emanazione del divino. Plotino stesso nomina Uranos, Kronos e Zeus come
simboli dell’Uno, del vou* e dell’Anima; e simboleggia pure le due anime con
l’Afrodite celeste e quella terrena. Se si prendono alla lettera questi
riferimenti, e soprattutto i termini si moltiplicano, si arriva al sistema
fantastico di Giamblico. Il quale non si contenta delle tre ipostasi plotiniane,
ma al di sopra dell’Uno che s’identifica col Bene, ammette un altro Uno
assolutamente incomprensibile, dal* quale deriverebbe il secondo Uno ch’è
quello di Plotino; e da questo non deriva semplicemente il vou^, ma prima il
mondo intelligibile o pensabile votjtó?) e poi il mondo intellettuale o
pensante vosp6?) ; e la divisione continua quando si passa all’Anima: dalla
prima Anima ne derivano altre due; e ciascuno di questi termiai poi si
tripartisce e si moltiplica in diversi momenti, a ognuno dei quali
corrisx>onde una persona divina. Così, abusando del metodo delle ipostasi e
dell’interpretazione allegorica, Giamblico trova da collocare una quantità di
divinità sopramondane, celesti e terrestri, genii e demoni d’ogni specie, che
sarebbero i termini intermediari tra Dio e l’uomo. S’aggiunga poi quell’idea
dell’animazione universale, e della simpatia o affinità fra tutte le cose, che
contiene una verità profonda, ma che per menti non disciplinate da nessuna
critica, apriva facile l’accesso alle credenze magiche e alle pratiche
teurgiche. In fondo, anche a traverso a queste esagerazioni superstiziose, non
è possibile disconoscere l’antica fede ellenica che tutto è pieno degli Dei,
eh’è il motto attribuito a Talete, il primo filosofo. Così il Neoplatonismo
uscì dalla scuola e volle agire sulle coscienze, quasi contrastandone il
dominio alle nuove credenze. Non fu solamente una dottrina, ma fu l’ul¬ timo
tentativo dell’Ellenismo per difendersi da quella religione di barbari, che col
suo Dio unico negava tutti gli altri Dei. E si fece campione di questa
restaurazione dell’antica religione dei padri, in nome della filosofia,
Giuliano l’Apo¬ stata, imperatore dal 361 al 363, morto a 32 anni, che, educato
da maestri greci, s’era nutrito dell’antica cultura ellenica, e poi aveva
dovuto subire la disciplina e l’edu¬ cazione cristiana; e contro il
Cristianesimo si ribellò prima secretamente,' poi, diventato imperatore,
apertamente, at¬ taccandosi sempre più all’Ellenismo. Giuliano era uno sco¬
laro degli scolari di Giamblico. Giuliano, da vero greco, adorava il sole,
principio di Vita per tutta la natura : ma nel sole materiale e visibile egli
vedeva V immagine e come il riflesso di un altro sole, che i nostri occhi non
possono cogliere, e che illumina le razze invisibili e divine degli Gei
intelligenti. Cosi, alla maniera dei Neoplatonici e col loro linguaggio, egli
costruiva il mondo delle Idee e dell’Uno, da cui tutte le cose di- -pendono.
Giuliano è stato dqtto un romantico sul trono dei Cesari, perchè aveva gli
occhi rivolti indietro, e consumò miseramente i suoi sforzi nella restaurazione
di un passato diventato impossibile. Era difficile che il Neoplatonismo potesse
fare seria¬ mente concorrenza al Cristianesimo. C’era innanzi tutto questa
differenza: che il Neoplatonismo, per quanto tentasse di mettersi in contatto
con l’anima popolare, era semplicemente una scuola di dotti più o meno solitari
; il Cristianesimo invece era una Chiesa, una comunione di fedeli potentemente
organizzata, e la cui fede si basava su certi fatti positivi, di natura
storica, la vita e la morte del Cristo, fatti creduti con una fede ardente,
ardente fino al martirio; e intorno a questi fatti si andavano elaborando i
dogmi che saranno presto fìssati dai Concilii. Ma la scarsa efficacia pratica
del Neoplatonismo si com¬ prende anche meglio se si guarda un momento alle
diffe¬ renze dottrinali tra i due sistemi. Una prima e fondamentale differenza
è che l’intuizione cristiana tiene fermo al concetto ebraico della personalità
divina, e concepisce il mondo non come un’emanazione di Dio, derivante da esso
per un processo fìsico o logico o metafìsico, ma come un atto della sua
volontà, quindi come creato nel tempo. Dio creò il cielo e la terra: questa • è
la base della dottrina cristiana. E a questo primo fatto ne succede un altro :
la caduta del primo uomo e quindi di tutti gli uomini, il peccato, che risolve
il problema del male; il quale dunque non è da cercare nella materia o
nell’ultima emanazione della divinità, ma è aneli’esso un atto di volontà,
della volontà umana ribelle al comando di Dio. Di qui il bisogno della ' 1
redenzione o liberazione dal peccato, a cui l’anima aspira; la quale redenzione
è resa possibile da un terzo fatto, l’in¬ carnazione del Verbo, del Logos, del
figlio di Dio fatto uomo, che prende sopra di sè le colpe e i dolori di tutti t
gli uomini, e li redime, per un miracolo di amore, col suo sangue- innocente.
Tutta la storia del destino umano è qui drammatizzata in un dramma potente di
efficacia. Il ISTeoplatonico, col suo concetto spiritualissimo della divinità,
combatterà fino all’ultimo questo concetto dell’Incarnazione, di un Dio fatto
uomo, e la considererà come la superstizione più assurda; ma è appunto questo
concetto di un Dio redentore che ha una virtù di simpatia e di consolazione per
milioni di anime; e apre la via della liberazione non ai sapienti solamente, ma
a tutti, agl’ignoranti, agli umili, agl’infelici soprattutto, purché credano
nella virtù redentrice del sangue sparso di Gesù crocifisso. Qui si ha
veramente un Dio che si può pre¬ gare, invocare, domandargli perdono, ritornare
in pace fcon lui, acquistare la vita eterna. Se si paragona questa liberazione
con quella che si potrebbe dire aristocratica e filosofica di Plotino, mediante
la dialettica e l’amore delle cose belio e l’unione estatica con Dio, si vedrà
la differenza. Si direbbe che il Neoplatonismo suscitava bisogni che non poteva
appagare. Agostino nelle Confessioni dice: Ho letto nei libri dei Neoplatonici
la dottrina del Verbo, ma non ci ho letto ch’egli è diventato uomo, e ha
abitato fra noi, ed è morto pei peccatori, perchè tutti quelli che gemono e
soffrono venissero a lui e ne fossero consolati. 3. - Tuttavia il
Neoplatonismo, nelle sue parti migliori, rappresentava pure una grande
tradizione di scienza e di cultura; e si capisce come spiriti non volgari se ne
lascias- sero attrarre. t E una pura, nobilissima e innocente vittima delle
lotte religiose, nelle quali la filosofìa antica finirà con l’essere vinta e
con l’estinguersi, è una donna : Ipazia di Alessandria. . Ipazia era nata ad
Alessandria da Teone, ch’era celebre matematico e astronomo. Eu educata e
istruita dal padre nelle scienze in cui egli era maestro, ma il vivido ingegno
della giovinetta cercava altro alimento, e studiò con passione la filosofìa.
Dicono anche che andasse a perfezionarsi in Atene. Quello eh’è certo è che
nella sua città essa diventò celebre, ammirata, e rispettata da tutti. La
natura le aveva largito tutti i doni, quelli dello spirito e una bellezza non
comune. Fu messa a capo della scuola neoplatonica di Alessandria, ed essa
v’insegnava Platone e Aristotile, tutte le discipline filosofiche. I titoli di
alcune sue opere sono d’argomento scientifico, il che nella penuria di altre
notizie ci permette di supporre che con la sua forte cultura essa si tenne
lontana dalle stravaganze degli altri Neoplatonici,e che s’erano raccolte in
lei le migliori tradizioni dell’ellenismo. Ebbe un grande successo. Per le
strade di Alessandria tutti si voltavano a guardare la bella persona quando
passava con semplicità e sicurezza, vestita del pallio dei filosofi, e
conversando con quelli che fi accompagnavano. Alle sue lezioni affluivano gli
ascoltatori, non tutti probabilmente per imparare la filosofia. Della sua
eloquenza ci è detto eh 7 era dolce e persuasiva, e ci è riferito pure che un
suo scolaro s 7 innamorò di lei, e osò confessarle i suoi patimenti. La nobile
donna cercò di calmarlo, sollevando il suo spirito e distogliendolo da desi-
derii non degni. Pur troppo noi non la conosciamo altrimenti che da quello che
ne dicono i suoi contemporanei. Il vescovo Sili esio, ch’era stato suo scolaro,
e le rimase amico anche dopo che fu passato al Cristianesimo, nelle lettere che
le scrive e che ancora ci rimangono, la chiama sorella e madre e maestra, e le
manda i suoi libri prima di pubblicarli per averne consigli. E nVN Antologia
c’è un epigramma {il n. 400 del libro IX) entusiastico e gentile, che fìssa
quest’apparizione luminosa, e non pare un’esagerazione. « "Oxav pXénto as,
Trpoaxuvco. Quando io ti vedo, io ti adoro, e così quando ascolto la tua
parola; come contemplando il segno celeste della Vergine) perchè tu sei cosa
tutta di cielo, o nobile Ipazia, con la bellezza dei tuoi discorsi, astro
purissimo di scienza e di cultura ». Disgraziatamente, questa storia finisce
con una tragedia orribile. Erano frequenti in Alessandria i tumulti per le
discordie fra ebrei, cristiani e pagani. 11 prefetto o governatore della città,
Oreste, non andava d’accordo col vescovo Cirillo, e ognuno aveva il suo
partito: spesso scendevano in città delle compagnie di monaci, che di monaco
non avevano altro che'l’abito: erano dei malfattori che venivano a pescare nel
torbido. Oreste era uno degli ammiratori ed amici d’Ipazia, e spesso le domandava
consiglio. Essa, tutta intesa alla sua scienza e, alla sua scuola, rimaneva
estranea a tutte queste contese, e nessuno degli storici nemmeno ecclesiastici
formula un’accusa contro di lei; ma nel partito di Cirillo dovette formarsi
l’opinione che Ipazia influisse sul governatore, impedendogli di vivere
d’accordo col vescovo; e del resto per la sua posizione e il suo insegnamento
doveva essere ritenuta come un sostegno o fautrice del m partito dei pagani, e
odiata a morte dagli zelanti che non mancano in nessun partito. Fatto sta che
un giorno di quaresima del 415, in un tumulto, mentre Ipazia tornava in città
in vettura, vide accorrere contro di sè una folla furiosa, e, come racconta Io
storico Niceforo, la strapparono dal carro, la portarono in una chiesa, e ivi
spogliatala delle vesti l’uccisero, la fecero in pezzi e andarono a bruciarla
in un luogo detto Cinaron. Col martirio della vergine pagana si estingue la
scuola neoplatonica di Alessandria. Ma riapparisce nel quinto secolo in Atene,
e sarà l’ultima scuola. La Filosofia ritorna per morire nella sua patria
antica, alla città di Socrate e di Platone; e allo studio di Platone congiunge
quello di Aristotile, come già s’è visto in Plotino, in Porfirio, in Ipazia. i)
Si può vedere su Ipazia uno studio del prof. Faggi nella Rivinta d’Italia del
1905, e un altro del prof. Pascal nel voi. Figure e caratteri . -,”;js-w v ; \ PROCLO Fondatore di questa
scuola ateniese è Plutarco detto il grande dai suoi scolari, a cui succede
Siriano, e poi Proclo, eh’è il più celebre e il più importante. Proclo era nato
a Costantinopoli. È un dialettico sottilissimo, ebe al bisogno di sapere
congiunge quello di credere; e crede ai presagi dei sogni, alla potenza degl’
incanti e degli scongiuri. Passò la sua vita scrivendo e insegnando. I suoi
discepoli credevano sentire in lui la presenza di un Dio. Un giorno, uno .che
aveva udito una sua lezione, affermò che aveva visto attorno al suo capo
un’aureola divina. Scrisse fra l’altro dei commenti a Platone e un ’Istituzione
teologica } che si può vedere nell’edizione Didot di Plotino. La sua opera
consiste essenzialmente nel ridurre a sistema tutta la sapienza anteriore. La
filosofia di Aristotile è considerata come l’introduzione a quella di Platone,
i piccoli misteri che precedono i grandi; e il fondo della dottrina è quello
neoplatonico, Proclo dimostra metodicamente come bisogna partire dall’Uno, e
come dall’Uno derivano i molti, mediante un processo dialettico che comprende
tre momenti : ogni prodotto, da una parte somiglia alla causa che lo produce, e
dall’altra se ne distingue, e pure distinguendosene, ritorna ad essa: dunque
jjlov'/j o immanenza, TipóoSoc o progresso, iTUKjrpo'f/) o conversione sono i
tre momenti di questo processo. Questo ritmo si riproduce a ogni fase
dell’emanazione o sviluppo dell’Assoluto, che procede dunque per triadi
successive in tutte le sfere dell’Essere, dall’Uno 4 q Cfr. ProCI.O, Elementi
di teologia con im’ introduzione di Loia a eco (Lanciano, Carabba). fino alla
materia, triadi che si moìtiplicario, perchè ogni momento di ciascuna triade dà
luogo a sua volta a triadi (e poi a ebdomadi) subordinate. Ne nasce una
costruzione eh’è insieme un 7 architettonica di concetti e una gerarchia di
divinità mitologiche, alla maniera di Giamblico : una filosofia compiutamente
messa in ordine, coi suoi scompartimenti e le sue formule tecniche, che ha pure
trovato i suoi ammiratori. Vittorio Cousin ha pubblicato le opere di Proclo, e
Giorgio Hegel ha riconosciuto in lui uno spirito sistematico e.
sistematizzatore come il suo. Quello che si può dire in generale è che il
pensiero greco vive oramai del suo passato: per parlare con Piotino (e col
Windelband), lo spirito greco, a traverso le sue emanazioni, finisce col
perdersi in questa scolastica. E la morte naturale della filosofìa antica, per
esaurimento, è suggellata da un atto di violenza, da un editto dell’imperatore GIUSTINIANO
nel quale si ordinache nessuno insegnasse più filosofìa in Atene. Così si
chiudeva per ordine superiore quest 7 ultima scuola, della ([naie furono
confiscate le rendite, e i filosofi dispersi. L’ultimo scolarca fu Hamascio, il
quale col suo scolaro Simplicio, il celebre commentatore di Aristotile, e altri
cinque neoplatonici, ripararono in Persia, dove speravano protezione dal re
Cosroe, amico della cultura greca. Poi rimpatriarono, ma la scuola rimase
chiusa per sempre. Una filosofia non cristiana era diventata impossibile nel
mondo greco. San Pietro Vernotico, Br. Giuseppe Melli. Melli. Keywords:
AVRELIO. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Melli” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Memmio: la ragione conversazionale e l’orto romano -- Roma – filosofia
lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A bit of an enigmatic character. LUCREZIO
dedicates his great Garden poem to him. He acquires the ruins of the house in
Athens where Epicuro starts his Garden. Gaio
Memmio.
Luigi Speranza --
Grice e Menecrate: la ragione conversazionale e la scuola di Velia -- Roma – filosofia
campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Velia). Filosofo italiano. Velia, Campania. A pupil
of Senocrate. Menecrate
Luigi Speranza --
Grice e Menestore: la ragione conversazionale ela scuola di Sibari -- Roma –
filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sibari). Filosofo italiano. Sibari, Cazzano
all’Ionio, Cosenza, Calabria. Pythagorean. Giamblico. Menestore.
Luigi Speranza --
Grice e Menone: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale –
gl’ottimati di Crotone -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone,
Calabria. A Pythagorian and son-in-law of Pythagoras, according to Giamblico di
Calcide.
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