Luigi Speranza --
Grice ed Occelo: la ragione conversazionale e la setta di Lucania -- Roma –
filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. Lucania, Matera,
Basilicata. A Pythagorean, according to Giamblico. Brother of Occilo di Lucania.
O. held that the number III is the key to understanding the world. According to
Ippolito, he also believed that in addition to the IV elements – earth, fire,
air, and water – there is a fifth principle which is circular motion. Filone
says that O. believes that it is possible to prove that the world is
indestructible. Occelo.
Luigi Speranza --
Grice ed Occilo: la ragione conversazionale e la setta di Lucania. Roma –
filosofia basilicatese -- filosofia antica – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. Lucania, Matera,
Basilicata. A Pythagorean, cited by Giamblico.
Brother of Occelo di Lucania.
Luigi Speranza -- Grice ed Ocone: la ragione
conversazionale e l’implicature conversazionali dei liberali d’Italia – la
scuola di Benevento – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Benevento). Filosofo italiano. Benevento,
Campania. Grice: “Ocone has selected Croce as the quintessential Italian
liberal! That should please Oxonians like Collingwood!” -- Grice: “I like
Ocone’s idea of a liberalism without a theory – ‘liberalismo senza teoria’ –
that should please J. M. Jack!” -- Grice:
“Speranza has noted that if Bennett
speaks of meaning-nominalism, we could well speak of meaning-liberalism.”
Grice: “While meaning-liberalism requires that the limit of one’s liberty to
make a sign stand for an idea is your co-conversationalist, meaning-anarchism
is Humpty Dumpty (‘I didn’t know that!’ ‘Of course you don’t’) and
meaning-conventionalism is the idea that there is a repertoire on which
conversationalists rely!” Si
occupa soprattutto di temi concernenti il neoidealismo italiano e la teoria del
liberalismo. Allievo di Franchini, è borsista dell'Istituto Italiano per
gli Studi Storici di Napol. Qui ha l'opportunità di lavorare direttamente nella
biblioteca personale di Benedetto Croce e con l'aiuto di Alda Croce, figlia del
filosofo, raccoglie e analizza il materiale scritto nel mondo su di lui. Un
frutto parziale e selezionato del suo lavoro vede la luce nel volume ragionata degli studi su Croce pubblicata
dalla Edizioni Scientifiche di Napoli, che vince l'anno successivo la prima
edizione del "Premio nazionale di saggistica Benedetto Croce",
istituito dall'Istituto Studi Crociani. È stato direttore scientifico
della Fondazione Einaudi di Roma, dalla quale è stato successivamente
allontanato per le sue posizioni nazionaliste. Successivamente è entrato a far
parte della Fondazione Tatarella ed è diventato Direttore Scientifico di
Nazione Futura. È anche membro del Comitato Scientifico della Fondazione
Cortese di Napoli, del Comitato Storico Scientifico della Fondazione Bettino
Craxi, del Comitato Scientifico dell'Istituto Internazionale Jacques Maritain e
del Comitato Scientifico della Fondazione Farefuturo. Attività e pensiero
Fonda a Napoli, con un piccolo gruppo di laureati e laureandi della Federico
II, cittadini sanniti e napoletani, il trimestrale "CroceVia" edito
dalla Edizioni Scientifiche, che si propone di rinnovare il messaggio crociano
e che entra in poco tempo nel dibattito culturale nazionale. I suoi studi
crociani prendono corpo nel volume Croce, Il liberalismo come concezione della
vita, pubblicato da Rubbettino nella collana “Maestri liberali” della
Fondazione Einaudi di Roma. Il volume, presentando l'immagine originale di un
Croce partecipe del processo europeo di distruzione delle categorie
epistemiche, ha numerose recensioni. A partire dalla sua interpretazione di
Croce, O. elabora la prospettiva di un liberalismo senza teoria, cioè
storicistico e non fondazionistico. Il suo progetto filosofico può essere così
formulato: riconquistare il liberalismo alla filosofia; ritornare in filosofia
all'idealismo; ricongiungere il liberalismo con l'idealismo (si vedano, a tal
proposito, gli interventi di O. nella polemica fra neorealisti e
postmodernisti). In quest'ordine di discorso, O. ritiene che la critica rivolta
a Croce di essere un liberale anomalo, in quanto nel suo pensiero il concetto
di individuo sarebbe sacrificato, vada ribaltato: l'individualismo non è
affatto consustanziale al liberalismo, ma si è legato ad esso solo in una sua
prima fase di sviluppo (all'inizio della modernità). Quello di O. è un
liberalismo che non prescinde né dal senso storico né dal realismo politico.
Successivamente il pensiero di O. ha assunto molti caratteri propri dello
scetticismo politico di Michael Oakeshott, in particolare della sua critica del
razionalismo, del perfezionismo e del paternalismo. Egli ha pertanto insistito
sul carattere “anticonformistico” e “eretico” del liberalismo, sulla priorità
in esso del momento “negativo” o della contraddizione. La critica delle
ideologie, e in particolare del “politicamente corretto”, diviene in
quest'ottica il correlato pratico degli approdi antimetafisici della filosofia
contemporanea. E filosofia e liberalismo finiscono per coincidere Da
ultimo, la sua riflessione ha messo a tema il significato teorico e storico
dell’affermarsi dei cosiddetti “populismi” e “sovranismi”. Essi, prima di
essere ostracizzati, vanno per O. capiti: pur in modo confuso e
contraddittorio, lungi dall'essere un “incidente di percorso” incorso al
processo di globalizzazione in atto, essi ne segnalano la definitiva crisi
dell’ideologia portante: il globalismo. Questa ideologia può essere considerata
una radicalizzazione coerente della mentalità illuministica e progressista,
cioè da una parte del processo di secolarizzazione e razionalizzazione e
dall'altra dello speculare e connesso relativismo e nichilismo. I “populismi”
sono perciò per O. movimenti di reazione ai meccanismi di spoliticizzazione (e
connesso “disciplinamento” in senso foucaultiano) propri della globalizzazione,
che aveva definito la sua ideologia all’incrocio fra le idee di due
“deviazioni” dell’autentico liberalismo: il neoliberismo, sul versante
economico, e la cultura liberal sul versante di un diritto globale fortemente
eticizzato. Scrive su diverse riviste scientifiche e culturali e sui
maggiori organi di stampa nazionali. Attualmente è nella redazione della
rivista “LeSfide”, edita dalla Fondazione Craxi, e nel Comitato editoriale dell
quotidiano online “L’Occidentale”. Collaboratore de “Il Giornale” e de “Il
Riformista”, è opinionista politico di “formiche.net”, “Huffpost” e
“nicolaporro”. Molto seguita è la sua rubrica domenicale di riflessione
politico-culturale “O.’s Corner” sulla rivista online “startmagazine”. Un
estratto di un suo articolo (Intervista a Remo Bodei, in C. Ocone, Prendiamola
con filosofia, Il Mattino, è stato utilizzato dal Ministero dell'Istruzione,
dell'Università e della Ricerca come documento per la stesura della traccia
della prova scritta di Italiano negli esami di Stato conclusivi dei corsi di
studio di istruzione secondaria superiore a.s. (Tipologia Redazione di un
saggio breve o di un articolo di giornale2. Ambito socio-economicoArgomento: La
riscoperta della necessità di «pensare»). Nella sezione Dal dopoguerra ai
giorni nostri, Percorso Il dibattito delle idee Dall'“impegno” al postmoderno, Dal
periodo tra le due guerre ai giorni nostri) dell'antologia "Il piacere dei
testi", editore Paravia, è contenuto il suo saggio "Né neorealisti né
postmodernisti, "qdR". Altri saggi: “Coronavirus. Fine della
globalizzazione” Il Giornale, Milano); “La chiave del secolo. Interpretazioni
del Novecento” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Europa. L'Unione che ha
fallito, Historica, Cesena, “La cultura liberale. Breviario per il nuovo
secolo” Giubilei Regnani, Roma-Cesena); “Attualità di Croce” Castelvecchi,
Roma, “Il liberalismo nel Novecento: da
Croce a Berlin” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Il liberale che non c'è.
Manifesto per l'Italia che vorremmo” (Castelvecchi, Roma); “I grandi maestri
del pensiero laico, Claudiana, Torino); “Collingwood e l’Italia” Castelvecchi,
Roma); “Il nuovo realismo è un populismo” (Il Nuovo Melangolo, Genova, (Reichlin e Rustichini) Pensare la sinistra.
Tra equità e libertà, Laterza, Roma-Bari, Liberalismo senza teoria, Rubbettino,
Soveria Mannelli (con Dario Antiseri), “Liberali
d'Italia” Rubbettino, Soveria Mannelli (con altri autori) “Le parole del tempo.
Lessico del mondo che cambia” Pierfranco Pellizzetti, Manifesto libri, Roma); “Spettri
di Derrida, Annali della Fondazione europea del Disegno (Fondation Adami), Il Nuovo Melangolo, Genova); “Profili
riformisti. liberali per le nostre sfide” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Marx”
(Momenti d'oro dell'economia"), Roma); “La libertà e i suoi limiti.
Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, Laterza, Roma); “Croce.
Il liberalismo come concezione della vita” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Bobbio
ad uso di amici e nemici” (Marsilio, Venezia); “Manifesto laico, Laterza, Roma);
“Lessico repubblicano” (Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, ragionata degli
scritti su Croce; Edizioni Scientifiche, Napoli. Cfr. Archivio borsisti in
Istituto Italiano per gli Studi Storici
Premio Croce, su mediamuseum. Comitato Scientifico, su Fondazione luigi einaudi. Ficara, La Fondazione Einaudi allontana O.
perché "filo-sovranista", su Secolo Trentino, La Fondazione, su Fondazione
Giuseppe tatarella. Organigramma, su
nazionefutura. Fondazione Cortese di
Napoli in//Fondazione cortese/ Fondazione
Craxi, Comitato Scientifico dell'Istituto Maritain, Comitato Scientifico e di
indirizzo, su fare futuro fondazione.
rubbettino. Vattimo Pubblicazioni La recensione, Caffe' Europa, Duccio
Trombadori, Questo don Benedetto somiglia a Nietzsche, su il Giornale, Il blog
di VATTIMO: O. e la filosofia classica tedesca, su Gianni vattimo. blogspot. com. La filosofia politica è una pseudo-scienza.
Parola di filosofo. E che filosofo!, su reset.
Attualità di Croce su opac., Europa: l'Unione che ha fallito; opac., La natura del potere svelata dal
coronavirus, su il Giornale, Coronavirus: fine della globalizzazione, Store il Giornale,
Fine di una storia, il ritorno della politica? su leSfide. Chi Siamo, su loccidentale. MIUR Traccia
della prova scritta di Italiano per gli esami di Stato conclusivi dei corsi di
studio di istruzione secondaria superiore anno scolastico su archivio .pubblica.istruzione. Il piacere dei testi QDR Magazine Qualcosa da Raccontare, La
chiave del secolo: interpretazioni del Novecento, opac., La cultura liberale:
breviario per il nuovo secolo; Attualità di Benedetto Croce / O., su opac., Il
liberalismo nel Novecento: da Croce a Berlin /su opac., Il liberale che non c'è:
manifesto per l'Italia che vorremmo su opac., I grandi maestri del pensiero
laico ntroduzione di Massimo L. Salvatori, su opac., Collingwood, Autobiografia
Collingwood; prefazione di O., su opac., Il nuovo realismo è un populismo / Cesare,
Simone Regazzoni, su opac., Pietro Reichlin, Pensare la sinistra: tra equità e
libertà Reichlin, Rustichini, su opac., “Liberalismo
senza teoria”; su opac., “Liberali d'Italia”; Antiseri; prefazione di Giorello,
su opac., Le parole del tempo; M. Barberis; P. Pellzzetti, su opac., Spettri di Derrida opac.,
O., Profili riformisti: pensatori liberal per le nostre sfide opac., Marx:
teoria del capitale / [visto da opac., La liberta e i suoi limiti: antologia
del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, opac., Croce: il liberalismo come
concezione della vita, opac., Bobbio ad uso di amici e nemici, opac., Manifesto
laico / Enzo Marzo; contributi di S. Lariccia on un intervento di Bobbio, su
opac., Lessico repubblicano: Torino, Maurizio Viroli, su opac., ragionata degli scritti su Croce, opac., La
genialità di Marx agli occhi dei liberisti, riconosce i pregi dell'analisi, in archivio storico.corriere
Premio al Premio Croce di saggistica, in premiflaiano Ssu corradoocone.com.
Grice: “Speranza calls me a liberal, but then he calls Locke and Humpty Dumpty
a liberal too.” Grice: “Mussolini
set a puzzle for liberalism – the Italians, disorganized as they are, had to
create a party: they called it the ‘Partito Liberale Italiano’ – which is bound
to close down! It opened in 1922 – while I was at Harborne!” -- Grice: “The test of a man’s intelligence lies
in his ability to name his party – partito liberale italiano – partito liberale
democratico – partito liberale constituzionale – the addition of ‘italiano’ at
the end of ‘partito liberale italiano’ ENTAILS that what Borolli did at
Florence, by founding his ‘partito liberale’ – since he omitted to add the
‘italiano’ was not the partito liberale italiano – but fiorentino at most!
Similarly, the partito liberale democratico is NOT the partito liberale
italiano, nor is the partito liberale costituzionale. Mussolini had it clearer:
there’s only ONE partito – partito nazionale fascitsa – the infix ‘nazionale’
means that provincials should not appy!” Corrado
Ocone. Ocone. Keywords: liberali d’Italia, liberalism, dal liberalism al
fascismo, il partito nazionale fascista e il partito liberale – Refs.: Luigi Speranza: “Grice ed Ocone” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice ed Oddi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Padova -- filosofia
veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Padova, Veneto. Figlio
di Oddo degli Oddi, convinto sostenitore della scuola di Galeno. Professore per
incarico del Senato veneziano assieme a Bottoni a Padova, dove insegna e
introduce senza ricevere emolumenti l'insegnamento della pratica clinica nell'ospedale
di San Francesco Grande, precedendo così tutte le altre scuole. Commentari dell'Ateneo
di Brescia G. Vedova, Biografia degli
scrittori padovani, coi tipi della Minerva, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dobbiamo
al chiarissimo signor dottor Montesanto (Dell'origine della clinica medica di
Padova ec.) la bella ed interessante notizia, che il nostro Bottoni e il suo
collega Marco Oddo, calcando le traccie luminose segnate dal famoso Montano
pochi lustri prima, diedero novella vita al la clinica medica nello spedale di
san Francesco in Padova, condotti dalla sola nobile brama di giovare. E qui
avvertire mo cogli sludiosi di medicina,che il dotto autore, dopo aver
dimostrato con incontrastabile evidenza che l'Università padovana, la prima
d'ogni pubblico Studio d'Europa, vanta la fondazione in essa di quella scuola, base
dellamedica scien za,ci porge il documento luminoso,che tanto onora li ricor
dati professori, e in particolare il Bottoni di cui favelliamo; il quale non
essendo da tacersi, lo riporteremo come ci viene fedelmente e con eleganza
vôlto in lingua italiana dal prelo dato signor Montesanto, che il trasse dagli
Acta nationis germanicae Facultatis medicae, quae,convocata natione, prae lecta
et examinata, digna judicata sunt,ut albo nationis insererentur. Consiliariis
Christophoro Sibenburger Carin thio, etKeller Hallense Saxone. Manoscritto
presso la biblioteca dell'Imperiale Regia Università di Padova. dette in
vita Boltoni, non è da passarsi solto silenzio quello d'essere stato dal Duca
di Urbino, unita mente ai altri quattro medici, chiesto del suo consiglio onde
togliere la città di Pesaro e il territorio da alcu ne febbri pericolose che
colà infierivano. N e taceremo, come a'dinostrisidimostròbellamente,che il Bot
Merita,a comune nostro giudizio, di essere celebrato con riconoscente memoria e
di venir rammentato in questo luogo il beneficio sommo impartito alla nazione
nostra dall'eccellentissimo uomo Bottoni, professore primario di medicina pratica
estraordinaria, il quale condotto dalla singolare benivoglienza che da più anni
a noi concede, oltre all'averci anche in quest'anno dalla pubblica cattedra con
ogni cura ammaestrati, a fine di giovare vieppiù alla nostra istruzione si
riuni nelloscorso inverno all'eccellentissimo Marco degli Oddi, medico
ordinario dello spedale di san Francesco e pubblico professore, e con esso,
finite la lezione, si trasferi sempre a quello speilale medesimo seguito da toni
fu, insieme al suo collega O., il primo che dopo il celebre Montano gettasse i
più so noi per visitarvi parecchi infermi afflitti da diversi generi di
malattie: per tal guisa egli aprissi l'adito ad accuratamente mostrarci come
sido vessero applicare alla pratica quelle dottrine che avevano fatto il
soggetto della sua pubblica lezione, esercitando così i suoi uditori in tutto
ciò che al dotto e sagace medico appartiene di osservare e dipraticarea pro
de'suoimalati. Cessate finalmente le lezioni, volendo Bottoni che neppure
durante le vacanze dell'Università mancasse a noi qualche mezzo di
ammaestramento, e potesse per noi esser posto a profitto il nostro tempo,egli in
una determinata ora della mallina recavasi ogni giorno a quello stesso spedale
:quivi, visitando alternativamente cob O. gli ammalati, andava instruendoci,
ragionando intorno a qualche caso tra i più gravi da lui osservati. Il Campolongo
perciò, vistosi promosso a medico di quel l'ospitale, sipropose egli pure, allafoggia
de'provetti nostri precettori, di dare ogni giorno delle pratiche istruzioni:
nel di susseguente alla sua nomina occupò quindiprimo di tutti con molta
insolenza e temerità quel posto chesoleva essere destinato ai nostri maestri; nè,
occupatolo, volle cederlo ad essi. Fermo in suo pensiero diragionare
aigiovanida quel luogo, non già una sola volta, o per un giorno solamente,
rinnovò la scena istessa per più giorni; e non valseroa ri muoverlo nè a
piegarlo le nostre istanze, direlte a far sì ch'ei lasciasse liberi ü luogo e
l'ora occupati per lo innanzi dai nostri maestri,e che per sè volesse scegliere
altra ora ed altro luogo. Ma, ostinato egli oltre ogni credere, giunse,
coll'insistere per le sue pratiche istruzioni, a turbare quelle solite a darsi
dagli altri prima di lui. Se dal Campolongo solo avesse dovuto dipendere, tutti
saremmo stati esclusi dal Mentre simili esercitazioni, con si maturo
consiglio intra prese a nostro vantaggio, andavano proseguendo, un certo
medicoper nome Emilio Campolongo,digiovanile età, col. lega nell Università e
professore della stessa cattedra, m a in secondo luogo, d’O., riusci,non sisa
come, ottenere che la ispezione a d siedeva e la cura de'malati, cui prima pre
ilsolo O.,venissefra entrambidivisa, permodo che quind'innanzi gli uomini
fossero medicati longo, e le femmine d’O,. dal Campo l'ospitale; il che
pure minacciava apertamente di voler far si che avvenisse. La quale insolenza,
divenuta già intollerabile ai signori professori Bottoni ed Oddo, meritevoli
per ogni riguardo di molta stima e riverenza, li costrinse a partire dallo
spedale, e con essi partirono quanti vi erano studenti della nazione
alemanna,rimanendo così affatto solo ilCampolongo nel luogo da lui tolto agli
altri. Informati poscia bene del fatio i governatori dello spedale, costrinsero
il Campolongo con severi modi a cessare dalla sua pretesa, ingiungendogli,
sepur voleva intraprendere qualche esercizio a vantaggio di taluno degli
studenti, di scegliersi un'altra ora ed u n altro luogo. Cosi, mercè la
prudenza dei nostri maestri e la costanza degli studenti alemanni, fu vinta
l'altrui pertinacia, edinostri esercizii vennero felicementea ricominciare.
Essendosi allontanati, come sogliono, dall'Università glo ltaliani per far le vacanze
presso leloro famiglie, li signori Bottoni e O., eccellentissimi uomini e della
nostra nazione sommamente benemeriti, affinchè far potessimo qualche profitto
nello spazio di tanti mesi, continuarono le loro pratiche istruzioni quasi ogni
giorno nello spedale di san Francesco sino al principio delle lezioni, con gran
fatica e disagio loro, econsomma utilità nostra: della qual cosa poco io dirò, potendo
bene ciascuno dalla rela. zione del mio antecessore rilevare le circostanze
tutte che a ciòsiriferiscono. Aggiungasi, chevenendo nella state invitati
parecchi infermi alle terme di Abano, onde rendersi vieppiù grati a'nostri, li condussero
due volte colà, dando per tutti cavalli e legno il signor O., e quivi
gl'instruirono circa il valore medico delleacque termali e deifanghi. Verso
lafine poi dell'ottobre fattasi la stagione opportuna per le sezioni
anatomiche, iBottoni e O. stabilirono di aprire i cada veri di quelle donne che
morissero nello spedale ; e ciò col fine d'indagare alla presenza degli scolari
le sedi e le cagioni dei mali : fu però d'uopo abbandonare ben tosto que lidi
fondamenti della scuola clinica in Padova, che precedette tutte l'altre in
Europa. Lasciò il nostro Bot Bottoni e O. continuarono anche nel successivo
anno ad istruire nello spedale i giovani;ed in quest'anno pure vennero ad
insorgere nuovi dissidii, come ce ne informano gli atti di quell'epoca, raccontandosiivi
quanto segue: toni un monumento del suo buon gusto nelle arti in un
palazzo ch'ei fece erigere dirimpetto alla chiesa degli Eremitani inPadova
(intorno al quale allude la medaglia riportata da Tomasini(1),cheacquistatopo
sto si utile divisamento,poichè, mentre tutto era disposto per eseguire nel
giorno appresso la sezione di due donne, in una delle quali importava esaminare
lo sluto dell'utero, e nell'altra, mortaditabe, volevasidainostri precettori
scuo prire per dove penetrasse una piaga fistolosa esistente al torace,
Campolongo loro emulo propose a'suoi uditori d'intraprendere in quel giorno
medesimo l'anatomia dell'ute ro,esiserviper questa deidue suddetticadaveri. Nacque
da ciò che i governatori del pio luogo, resi avvertiti dell’ac caduto e mossi
dalle querele delle vecchie inferme, le quali temevano, morendo, di dover
essere del pari anatomizzate, prescrisserotanto ad’O., quanto al Campolongo, di
astenersi dall'incidere verun cadavere nell'ospitale, sotto pena di perdere lo
stipendio. In onta però alle tante opposizioni promosse dalla rivalità del
Campolongo contro Bottoni e O., perseverarono questituttavianell'utile loro
impresa d'istruirenellapratica medicina i giovani, conducendoli al letto dei
malati nello spe dale di san Francesco; poichè anche gli atti compilati dal
consiglieredella nazione alemanpa Pietro Paolo Höchstetter di Tubinga, ne
parlano cosi: A ciascuno di noi è palese con quanta diligenzasi diportasse
ilsignor Albertino Bottoni nelle sue quotidiane esercitazioni. Ogni giorno ei
ci conduceva al lettodi un nuovo malato, e c'istruiva intorno aldi lui morbo, indagandone
dottamente le cagioni, esponendone i segni e le indicazioni curative, non che
il prono stico :egli suggeriva inoltre non solo le più opportune medi. cine di
comune uso,ma quelle altresi chela sua pratica particolare gli avea comprovate
efficacissime; talche vennu ognora più a farsi manifesta la singolare bontà con
cui ila più anni questo insigne uomo ci riguarda. Ond'è che,seb. bene le teorie
mediche da noi apprese nelle nostrecontrade possano a tutta prima allontanarci
in qualche modo dal se guire le sue lezioni, la somma sua felicità nella
pratica e T'ottimo suo metodo di medicare serve però a ricondurci in. torno a
lui. Marco degli Oddi. Marco degl’Oddi. Oddi. Keywords: implicature: filosofia
naturale, Galeno.-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Oddi” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice ed Offredi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del lizio – la scuola di
Cremona -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo italiano. Cremona, Lombardia. Gli
era tributata grande autorità nell’ambiente filosofico. Insegna a Pavia e
Piacenza. In buoni rapporti con Eugenio IV, Visconti e Sforza. Saggi:“De primo et ultimo instanti in
defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum,” S.l., Bonus Gallus, Giambattista Fantonetti, Effemeridi delle
scienze, compilate da G. netti, Paolo- Molina, Rinascimento, Istituto nazionale
di studi sul Rinascimento, Robolini, Notizie appartenenti alla storia della sua
patria, raccolte da G. Robolini, pavese, Fantonetti, Effemeridi delle scienze
mediche, compilate da Fantonetti, Molina. OFFREDI
CREMONENSIS ABSOLVTISSIMA COMMENTARIA [ocr errors] VNA CVM QVAE STIONIBVS
IN PRIMVM ARISTOTELIS Posteriorum Analyticorum librum, Nunc primum
mendis oinnibus expurgati, et egregijs scolijs marginalibus
illustrata, AC DVOBVS INDICIBVS, ALTERO, Qy I RES IN
COMMENTARIIS tractatas, altero, qui quastionum capita copiosissime comple&titur, PRAETERE
A DVPLICI TEXTVS ARIST. INTERPRETATIONE AVCTA IN LVCM RE DEVNT A
PRAECLARISS. DOCTORIS Hoc aut contingit propter posibilitatem intellectus
D APOLLINARIS CREMONE N. noftri, qui à principio est sicut tabula rasa,
et non. 3. de anima tex. in librum primum Posteriorum mouetur ad
intelligendum, nisi de potentia ad actí cap.is. reducatur sic autem
intelligentia non cognoscunt, Aristotelis, exposition cum semper in actu
intelligendi existant, et eodem modo et nunquam in potentia. Bruta etiam
non Mnis doctrina, et discurrunt saltem discursu pfe&to, quamuis in
prin- omnis disciplina incipiosint in potentia ad cognoscendum, et hoc est
telleştiua, ex præpropter imperfectum eorum modum cognoscendi; existenti
fit cogni- Concedi tamen potest, q aliquo modo, et impertione. Manifestum feétè
discurrunt. Ex quo infertur, g per idem medium euidenter concludere habemus,
nostrum mia est autem hoc specu dum cognoscendi imperfectiorem esse modo
intelitia látibus in omnibus; gentiarī, et perfectiorem modo brutorum, per
hoc. f. mathematicæ enim scientiæ per hunc cum difcurfu
cognoscimus, qualiter neq; intelli- modum fiunt, et aliarum unaquæq;
argentia, neq; bruta cognoscunt. Cũigitur intellectui tium. Similiter aút
et orationes,quæ p nostro sit potentia semper admixta, et cūdiscursu syllogismum,
et quæ per inductionem; scientiā acquirat, in discursu autem error, et
recti- utræq; enim per prius nota faciunt do tudo esse poffit, vbi etiam
est admixta potentia, malum, ö error cötingere poffit, vt colligitur de mente e
&rinam; hæ quidem accipientes,tanğà Arift.g meta. cum dicit, q
malum naturaliter eft tex.6. 19 B notis, illä uerò
demonstrātes uniuersale poft potentiā, et vlterius dicit, g in rebus
æternis, perid, quod est manifestum singulare que semper sunt actu,
non est malum, neque error, Similiter aút, et rhetoricæ persuadent:
oportuit artem inuenire,qua in a&tibus rationis di- aut enim per exemplum,
et est Inductio: rigeretur humanus intellectus in acquirêdo notitia aut
per enthimema, quod quidem est vnius, ex notitia alterius, et hæc fuit Ars
Logicæ. Cum autem triplex sit intellctus operatio, quarum syllogismus secunda
primam fupponit, et tertia secundā vt colli Mnis doctrina,omnisý disciplina
gitur 3. de anima (Prima est simpliciü intelle&tio, Tex. c.at. Secunda est simplicium
compositio, vel divisio. Tertia intellettina preexistente è co- est cognitio discursive
His tribus operationibus sed priores dus gnitione fit. Id, fi omnes que tres
correspondent logicæ partes, quarum prima magis conuenite fiant pacto
consideremus,mani- habetur in lib. prædicamentorum Arist. G admi- Lui, quatenus
in feftum profeito fiet. Mathematica nang; niculis ipsius scilicet lib.
vniuersalium Porphiri, tellcdwet. fcientiæ illo comparantur modo, caterarú ý
lib. sex principiorum, obi logicè determinatur artium vnaquaque. Sanè circa
orationes de generibus, et speciebus
predicamentorum, prout quoque, fiueille p raciocinationes fiue per cunda est, quæ
habetur in lib. Peryhermenias, vbi de cognitione quadam simplici cognosci
habent, sem inductioncm fiunt, feruari modusidem fo- propositione determinatur,
et speciebus ipfius tàną let: in utrisq; nanque, per antea nota doctri de
inftrumento aliquid compositiuè, vel divisiuè co- C F na
nimirum fit, quippe cum in altera tanğ gnoscendi. Tertia verò in alys
Logicelibris conti- à cognofcétibus propofitiones accipiantur, netur, qui
cõmuniter Ars Noua dicuntur, vbi de in altera per singulare iam
notüipfum vni. instrumento determinatur, quo discurrere debet in versale
oftendatur. Simili profe&to
modo, telle&tus,o3. de syllogismo, es consequenter de alijs modis
arguendi. Diuiditur autem tota illa pars hoc Goratoria rationes fuadent, aut
.n.exem modo, quia ficut in a&tionibus Nature diuersitas plis,quod
est inductio,aut enthymematibus reperitur, quxdam .n. funt, qua ex neceffitate
fiunt, g&quidē ratiocinatio est, facultas ipsafolet quædam vi plurimum,
quedam vero raro (propter oratoria fuadere. defe&tum aliquem in
natura,ficut monftra ) sicin discursibus rationis quidam sunt, in
quibus est nePro inductione expositionis huius libri Poftecefsitas, et ifti cum
rectitudine rationis habentur. riorum, fub brevitate, videnda funt quædam, v3.
Ală sunt, per quos vt plurimum verum concludiqua fuerit necessitas, logicam
inueniendi, et confetur, non tamen necessariò. Alij verò funt, in quiquenter
fcienciam huius libri, Quis ordo huius libribus eft defectus rationis propter
alicuius principi ad cæteros libros logica del LIZIO. Quis libri titulus,et defecttum.
Pars logice, in qua de primis determiquid subiectum et sic consequenter
habebuntur ipsius natur, iudicatiua dicitur, et est illa, quæ traditur in Non
pigeat hoc cause. Quantum ad primum fciendum est primò, q libris Priorum et
Pofteriorī, dita autem' est iudiloco videre Aszi cum modus nofter cognoscendi sit
medius inter mon catiua à iudicio, eo q iudicium est cum certitudine. dum
intelligentiarī, er modum brutoră, ab vtrifq; Vocata etiam est analetica .i. refolutoria,
co gisa diftinguitur in hoc, g intelligimus cum discursie. dicium certum
de effectibus baberi nö poffit, nisifiat. Con quelle stravaganze ed empietà iusegnavasi cercare
col commercio de'demonj, colle magie e le incantagioni i rimedj delle malattie,
e le maniere di preservarsene. Meritavano maggior illustrazione e lode altri
insignim e dici cremonesi di questo secolo. O. solenne filosofo, astrologo e
medico, LETTORE DI METAFISICA – come Gilbert Ryle! -- lettore di metafisica
nello studio di Pavia e di Piacenza, caro ed accetto ad Eugenio IV, Filippo
Maria Visconti eFrancescoSforza. A Filippo Maria protettor suo dedica O. i suoi
Commentarj di Aristotile sull'anima, stampati poi in Milano, sui quali piacemi
di trascrivere il giudizio che ne fece l'illustre mio concittadino ed amico
Poli. Con quest'opera, dic'egli, pre venne O. in alcuni principii sull'origine
delle idee lo stesso Locke, ecome quegli che appartenendo a quell'onorata
famiglia de'filosofi peripatetici italiani, che al melodo naturale e
sperimentale aggiunsero quello della critica e delle proprie dottrine aveva
proposto nuove ricerche superiori al suo secolo, e di cui van tanto gloriose le
scuole moderne. I n p rova di che il prof. Poli ne'suoi saggi, e nella sua
storia della filosofia ita liana riferisce alcune proposizioni filosofiche
dell'Offredi tratte dalle opere sull'esposizione e sulle questioni de’libri
d'Aristotele de anima (che ebbero poi tante edizioni), dalle quali scorgesi
come l'Offredi svincolasse la filosofia dall'impero dell'autorità, e la posasse
sul sentiero della libera e coscienziosa verità. Quanto alla medicina
Apollinare e celebrato per cure maravigliose fra i migliori medici del suo
tempo, e pubblicava al cune opere, di cui puoi vedere i titoli nell'Arisi.
Il 312 Elogia clariss. virorum Collegii Pisan.1750
negliopuscoliscientificidelCalogerà). Secondo Volaterrado e Spacchio non scrive
quest'Offredi opera alcuna. Ma Ficino ne fa onorevole menzione in una sua
lettera del lib. V, ove dice che dalla salvezza dell'Offredi dipende quella
della filosofia de' suoi tempi. Non ricordato pure da'vostri sto rici e
biografi trovo Baccilerio Tiberio che è solo a c cennato nella Biografia medica
di Parigi, da cui apprendesi ch'egli fu professore di medicina a Bologna,
Ferrara, Padova e Pavia, e muore in Roma. Scrive un saggio intitolato Commentarii
sulla filosofia di Aristotele e di Averroe, che non sembra es sere giammai
stato impresso. Poche cose i nostri biografi ci tramandarono di Albertino de
Cattanei o de Chizzoli o Plizzoli da non confondersi coll'altro Albertino di S.
Pietro. Il Cattanei la dottissinio in varie scienze, dottrine e lettere, e
professore straordinario di filosofia, fisica, etica e teologia prima a P a
dova indi a Bologna, poi difilosofia morale e di medicina nello studio di
Ferrara e di Pisa collo stipendio di 495 fiorini d'oro (Alidosi, Borsetti
Storia del ginnasio di Bologna e di Ferrara. Fabbrucci, op.cit., in Calogera). Ficino
lo chiama doctrinæ et honestatis exemplar; e lascia alcune opera accennate
dall'Arisi. BOEZIO, Hugues de St Victor, Alberto il Grande di Bollstädt e
Alberto di Sassonia, AQUINO, Egidio Colonna, Guglielmo d'Alvernia, Enrico di
Gand, Henricus de Gandano, Roberto Vescovo di Lincoln detto Testa Grossa, il
francese Gianduno o da Jandun contemporaneo e amico di Marsilio da Padova e di
Pietro d'Abano. Giovanni Duns Scoto e Antonio d'Andrea, Antonius Andreae
Scotista, il Burleusossia Burleigh, Pietro d'Abano ossia Concilialor differentiarum,
Buridano, Vio, Gregorio di Rimini (Gregorius Ariminiensis generale degli
Agostiniani nominalisti), Jacopo da Forlì e Gentile dei Gentili discepolo di
Taddeo fiorentino filosofi e medici del medesimo secolo; knalmente Pietro da Mantova
logico, PaoloVeneto filosofo, Apollinare Offredi --filosofo e Pietro Trapolino
da Padova uno dei maestri di Pomponazzi autore di un'opera De Ilumido Radicali,
tutti del 15.0 secolo. Il Nifo e l'Achillini sono citati nelle Questioni
aggiunte. Di Marliano milanese detto il Calcolatore fanno menzione anche i suoi
libri anteriorie stampati especie quello Deintensione el remissione formarum.
La maggior parte di questi Commentatori sono noti e annoverati sia nelle storie
della Filosofia e della Letteratura, sia nelle Biografie universali, e nelle
Enciclopedie. Pietro d'Abano è uno dei più citati e studiati dal Pomponazzi;è
famoso e una sua accurata biografiafral'altresitrova nella Storia scientifica o
letteraria dello Studio di Padova del Colle.Sopra Jacopo da Forlì che fu
professore a Padova è da notarsi al proposito di questo lavoro che egli è
autore di un De Intensionc 339 titolo più particolare che sta in
testa alla prima pagina dopo l'indice delle Questioni si rileva che esso pure
si riferisce ai corsi dati dal Pomponazzi sul De Anima a Bologna. Difatti il
detto titolo è il seguente: “In nomine individuae Trinitatis incipiunt
quaestiones animasticae excellentissimi artium et medicinae doctoris, domini
Magistri Petri Pomponatii Mantuani philosophiam ordinariam in bononiensi
Gymnasio legentis. Sventuratamente il Codice di Firenze non ha che 57 fogli
invece di 267 che ne ha quello di Roma, e delle 79 Questioni di cui contiene
l'indice, 34 soltanto e non senza lacune vi sono trattate; queste corrispondono
generalmente per l'ordine in cui si ccedono, alle prime del Codice di Roma, ma
non sempre e talvolta con parole diverse. Le Questioni del Codice di Roma sono
114 ed esauriscono tutto il trattato del LIZIO, quelle del Codice di Firenze
non vanno guari al di là della metà dello scritto aristotelico e nelle 34 che
sono esaminate e risolute non sono comprese le più importanti dell'Indice come
sarebbe quella della Immortalità dell'anima,soggetto del libro famoso che porta
questo titolo. Da un opuscolo del Brunacci è accertato che a Padova
ilPomponazzi comincið et Remissione Formarum, come il Pom ponazzi,manoscritto
registrato dal Tommasini nelle sue Bibliothecae Palavinae manuscriptae publicae
el privatae, Utin, L'Apollinare, Pietro da Mantova e Paolo Veneto sano più
d'una volta dal Pomponazzi citati insieme; e di fatto sono tutti e tre in parte
della loro vita contemporanei. Paolo Veneto ha fiorito nella prima metà del
secolo XV ed è stato professore a Padova; la sua Somma di Logica e isuoi
Commenti supra l'Organo sulla Fisica di Aristotele e specialmente sul De Anima
furono celebri e c m mendatissimi. Di esso parlano il Tiraboschi e il Papadopoli
(Storia dell'Università di Padova) e Poli nel Supplemento IV al Manuale della
storia della Filosofia del Tennemann. L'Apollinare e della famiglia Offredi o degli
Orfidii da Cremona (Vedi Francesco Arisi, Cremona literata, Parma e Tiraboschi,
Storia della Letteratura italiana); fiori verso la netàdel!V°secolo; ebbe fama grandissima
e fu chiamato l'anima di Aristotele. Risulta dal De Anima del Pomponazzi a
Carte che su discepolo di Paolo Veneto « Paulus Venetus et Apollinaris ejus
discipulus ». E difensore della filosofia cristiana contro l'Averroismo; insegna
a Piacenza evi e aggregato al Collegio medico. Il suo Commento al “De Anima” del
LIZIO esiste manoscritto nella Biblioteca palatina di Firenze. Esso e stampato più
volte. La prima edizione è di Milano (Vedi
il Tiraboschi e il Sassi, Storia della Tipografia milanese). In un volume stampato
a Venezia, esistente nella Biblioteca Alessandrina di Roma, da Locatell, si trovano la Logica di Pietro da Mantova; il
trattatello di questo professore sul primo e l'ultimo istante (“De primo et ultimo
instante”) citato da Pomponazzi nel suo “De Anima”; un trattato responsivo di O. Apollinare da
Cremona al Mantovano in difesa della opinione comune; un commento di Menghi
alla Logica di maestro Paolo Veneto. NICOLETTI. Le due opere del Mantovano
portano questi titoli: Viiri præclarissimi ac subtilissimi logicim a incipit feliciter.
Incipil sublilissimus tractatus ejusdem deinslanli. Il trattato d’O. ha per
titolo “Illustris philosophi et medici O.
Cromonensis de primo et ultimo instanti in defensionem communis opinionis
adversus Petrum Mantuanum seliciler incipil. Ecco il principio di quello del
Mantovano che Pompovazzi cita colle parole Petrus de Mantua o Mantuanus concivis
meus: Incip il sublilissimus Tractatus ejusdem (Magistri Petri Mantuani) de instanti.
Dicemus primo naturaliter loquentes, quod sola forma secundum se el quam libel
sui proprietatem potest incipere el desinere esse. Materia enim prima est
ingenita el incorrutlibilis: el non plus esl, -sul “De Anima” un corso
che non puo finire. Forse ad esso si riferiva il manoscritto che Tommasini (Bibliothecae
Patavinae publicae et privatae) dice di aver veduto nella libreria privata del
Rodio. Quanto a quello di Firevze, il titolo ci avverte, come abbiam detto, che
esso deriva come quello di Roma dall'insegnamento psicologico del Pomponazzi a
Bologna.Si troverà nell'Appendice l'indice delle questioni che vi sono
registrate. È certo in ogni modo che il manoscritto di Roma è il Commento
intero di Pomponazzi sul De Anima del LIZIO, e ciò che più monta e risulta
dalla data apposta alla fine del medesimo, è l'opera della sua età matura, l'espressione
più completa del suo insegnamento più importante, il corso da lui dato o
compiuto sul “De Anima”, nel tempo che segna l'apice della sua attività, in
quel tempo in cui egli stesso datava dalla Cappella di S. Barbaziano in Bologna
il De Naturalium Effectuum Causis, e ilvelerit de materia prima in rerum natura
quam nunc sil, velminus. Secundum tamen verilalem, cioè la fede, malaria ali quando
desinil esse ulinc onsccralione, plusaulem velminusali quando est de forma tam
subslunliali quam accidentali. Sed hoc proposilum non destruil. Er quo sequilur
quod si aliquod ens nalurale incipil vel desinil esse, ipsum incipil vel
desinit esse propter cjus formam substanlialem quae incipit vel desinit esse.
Premessa la eternità della materia, tutto il trattato si aggira sulle
difficoltà e le antinomie che possono sorgere dalla applicazione delle
categorie del moto e della quantità alla generazione e alla cessazione delle
forme nella materia, e specialmente dalla relazione della materia con la forma
nei virenti. La qualità delle argomentazioni giustifica la parola sublilissimus
aggiunta al titolo del trattato e ricorda i ragionamenti della scuola Eleatica di
VELIA -- e specialmente di Zenone sul moto. Il saggio è uno dei più curiosi
esempii dell'ardire pur troppo sterile quanto ai risultati obbiettivi, ma non
infecondo quanto alla ginnastica della mente, con cui la Dialettica del Medio
Evo e della Rinascenza si accinse alla soluzione dei problemi più difficili.
Nel manoscritto di Firenze sopracitato come anche in quello che qui facciamo
conoscere Pietro Mantovano è spesso designato colle iniziali P. M. Fiorentino è
rimasto dubbioso se queste let tere indicassero Pietro Manna cremonese, che
Pomponazzi nell'Apologia chiama viracerrimi in genii gravissimique judicii.
Essendo Manna cremonese, è chiaro che
Pomponazzi non puo chiamarlo concivis meus. Di Pietro Trapolino, il più
celebre dei due Trapolini che Pomponazzi ha per maestri, ecco ciò che dice
Papadopoli nella sua storia dell'università di Padova. Pietro Trapolino Patavii
natus patricia genle PHILOSOPHVS, malhemalicus
el medicus celeberrimus, Medicinam in Gymnasio palrio professusesl ut constatex
Albis gymnasticis. Vixilannos LVIII; vivere desiitan. MDIX caipsadiequa caplum
direplumque Patavium estab exercilu Maximiliani, in eaquererum catastrophe quæmulla
conscripseralperiere. Superesiquem juvenis ediderat liber de Ilumido radicali.
Di Trapolino suo precettore in medicina Pomponazzi parla nella12a delle sue Du
Vilazioni sopra il4o dei Meteorologici del LIZIO adducendo le difficoltà che
egli scolaro gli opponera su certe cause della mutazione delle forme nei misti.
Ivi l'autore avvicina Trapolino a Gentili, a Forlì e a Marsilio di Santa Sofia altri
rinomati professori di Padova. Di Roccabonella che e pure suo maestro è
menzione alla fine del De Falo. Finalmente di Francesco di Neritone altro suo
professore oltre al cenno che ne fa. Grice: “Italians are rightly obsessed with Pomponazzi.
They complained he looked more ‘a Jew than an Italian,’ but he predates Ryle’s
Concept of Mind. One of his influences is Offredi, a lizii – who wrote not just
on Aristotle’s De Anima (a manuscript Pomponazzi consulted) but who himself set
to defend Pomponazzi – to prove that he was a real lizio, he wrote on Analytica
Posteriora too – “Only a true lizio will comment on that!” -- Offredi. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Offredi,” The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice ed Olgiati: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dei classici – la scuola di
Busto Arsizio – Grice on Hart on Holloway on language and intelligence -- filosofia
lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Busto Arsizio). Filosofo italiano. Busto Arsizio,
Varese, Lombardia. Grice: “I’m impressed that Olgiati dedicated a whole tract
to the idea of ‘soul’ in Aquino!” Si forma presso Seminari milanesi. Collabora
con Gemelli e Necchi alla Rivista di filosofia neo-scolastica e fonda con loro
il periodico Vita e Pensiero. Insignito da Pio XI del titolo di Cameriere
Segreto e da Pio XII di Proto-notario Apostolico. Inoltre assieme ad Gemelli,
uno dei fondatori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Presso tale ateneo
insegnò nelle facoltà di Lettere, di Magistero e di Giurisprudenza. Condirettore
della Rivista del Clero Italiano insieme a Gemelli. Autore di saggi relativi sulla
religione e l’istruzione. I suoi allievi più illustri sono Melchiorre e Reale.
Tomba di Gemelli mons. O.. Il libro Le lettere di Berlicche, scritto da Lewis,
oltre ad essere dedicato a Tolkien, è dedicato anche a O.. Medaglia d'oro ai
benemeriti della scuola, della cultura e dell'artenastrino per uniforme
ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte
— Università Cattolica del Sacro CuoreLa storia: Le origini, su uni cattolica. Saggi:
“Religione e vita” (Vita, Milano); “Schemi di conferenze” (Vita, Milano); “I
fondamenti della filosofia classica” (Vita, Milano); “Il sillabario della
Teologia” (Vita, Milano); “Il concetto di giuridicità in AQUINO” (Vita,
Milano); “Marx” (Vita, Milano); Il sillabario della morale Cristiana” (Vita, Milano);
“Il sillabario del Cristianesimo, Vita, Milano) b I nuovi soci onorari della
Famiglia Bustocca. Almanacco della Famiglia Bustocca per l'anno 1956, Busto
Arsizio, La Famiglia Bustocca, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia.
La filosofia di Bergson, TORINO BOCCA
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AT O AD AGOSTINO GEMELLI CON AMMIRAZIONE
E CON AFFETTO nel. «ficie
tico; de: de;
a Forse nessun filosofo, durante
la sua vita, riscosse un plauso cosi
intenso e suscitó tanto entusiasmo, come
Bergson. I difensori stessi di altre tendenze filosofiche, pur dissentendo da lui, lo. ammirano e lo
coronano di rose. William James lo
salutó il nuovo Platone. e disse che le
pagine dei suoi scritti schiudevano nuovi
orizzonti dinnanzi ai suoi occhi: esse gli sembravano simili all'aria pura del mattino ed al canto
d'un. uc- cello (1). Benedetto Croce gli
riconosce il merito grande di aver rotto
le tradizioni dell'intellettualismo e
dell'astrattismo del suo paese, dando per la prima volta alla Francia quella viva coscienza
dell'intuizione, che sempre le e
mancata, e scotendo la fiducia ec-
cessiva, che essa aveva, nelle nette distinzioni, nei concetti ben contornati, nelle classi, nelle
formole, nei raziocinii filanti diritto,
ma scorrenti sulla super- -.ficie della
realtá (2). Il Balfour conclude: un suo ar-
ticolo, assicurando che' chi si trova poco soddisfatto dei sistemi idealistici e che non puó
accettare il credo del naturalismo, si
rivolgerá sempre con interesse e con
ammirazione a questo esperimento brillante di
costruzione filosofica (3). 1! Windelband
in Germania JAMES, A pluralistic
universe, Longmanns, CROCE (vedasi) Logica, Laterza, Ed. 2:, pag. 387. (3) BALFOUR, Cre-.tive evolution and philos.
doubt, in The Hrbbert journal, considera
Bergson come la personalita piú originale
e pia importante della filosofia francese contempo- ranea (1).
Anche se queste lodi fossero esagerate, e certo che da molti anni nessun pensatore ha esercitato
in Francia un efficacia cosi forte come
Bergson (2). Non solo egli ha sotto la
sua influenza il corpo filosofico inse-
gnante del suo paese, che col Gillouin lo stima il solo filosofo di primo ordine che abbia avuto
la Fran- cia dopo Descartes e 1'Europa
dopo Kant; ma « da lui discendono anche
¡i teorici piú moderni delle correnti
pia vivaci francesi » (3). 11 Le Roy, nel suo Comment se pose le probléme de Dieu, crede di poter
distrug- gere con le teorie bergsoniane
le antiche prove tradi- zionali e di
poter additare una via nuova per ascendere
alla conoscenza di Dio (4); e nel Dogme et critique si e sforzato di ripensare i dogmi cattolici
in funzione di quelle dottrine. 11
Sorel, dalle sue Reflexions sur la
violence ai suoi ultimi articoli, vuol giustificare il movimento sindacalista con le idee dell”
Evolution Créatrice, libro che egli non
esita a paragonare alla (1)
WINDELBAND, LZehrbuch der Geschichte der Philosophte, trad. ital, Sandron, vol. II, pag. 361. (2) É una giusta osservazione dello SCHOEN,
2. Bergsons phi- losophische
Anschauungen, in Zeitschrift fúr Philos. und pihlos. Kritik, Band 145, Heft 1, pag. 42. BERGSON, choix de textes avec étude du syst.
philos. par RÉNÉ GILLOUIN, pag. 8. Del
Gillouin si vegga pure il recente
volume: La philosophie de M. H. Bergson, Grasset, pag. 4 € 187. Anche
il Keyserling in Germania considera Bergson come la mente filosofica piú originale dopo Kant. —
Cfr. anche GIUSEPPE PREZZOLIN], La
teoria sindacalista, ultimo capo: La filosofía dí E. Bergson, pag. 284. Fra gli studi critici,
apparsi in Italia e al- estero, € uno
dei piú notevoli. (4) In Revue de
Métaphysique el de Morale, marzo eluglio 1907. Critica della Ragion pura (1). A
Bergson si ispirano _i simbolisti ed il
Claudel. 1 pragmatisti trovano nelle sue
opere nuovi argomenti in loro favore. Nell'intui- -zione i mistici scorgono un primo passo
verso la loro esperienza tacita, intima,
ineffabile. 1 protestanti li- berali
abbracciano con gioia le nuove idee, e solo
pochi mesi or sono, in una riunione degli Unitari a Londra, il pastore Jacks diceva che esse
portano alla religione un soffio nuovo
di vita (2). Persino gli Ebrei tentano
di utilizzare le conclusioni di Bergson (3).
11 quale, come tutti sanno, da alcuni anni e il trionfa- tore dei congressi filosofici. Molte riviste,
tra cui il Logos e 1'Hibbert journal, si
onorano di poterlo ¡iscri- vere tra i
loro collaboratori, e non ce periodico in
Europa che non abbia esaminato i suoi volumi, oramai tradotti in tutte le lingue. In una parola,
la filosofia bergsoniana, per quanto
abbia soltanto venti anni di vita, e
davvero una filosofia alla moda (4).
(1) Cfr. SOREL, Considerazioni sulla violenza, Laterza, rgro; ed in MMouvement Socialiste, 1907, pag. 257 +
in Revue de Métaph. et de Mor., gennaio rgrr,
nell'articolo : Vues sur les problemes
de la philosophie. Quanto
alle relazioni tra sindacalismo e berg-
sonismo, si vegga PREZZOLINI: op. cit. capo III ed un articolo dello stesso autore nel Bollettino
Bibliografico Filosof. di Fi- renze,
Gennaio 1909: 7.e grandi idee sindacaliste e la filosofía di E. Bergson; BOUGLÉ- Sindacalistes et
Bergsoniens in La Revue, 10 Aprile 1909,
GOLDSTEIN : 27. Bergson und
Sozialwis senschajt in Archiv. fúr
Sozialwissenschfat, XXXI, I, 1910. (2)
Cfr. COENOBIUM, 3x1 gennaio 1913, Pag. 14576.
(3) Cfr. : Dr. JGNAZ ZIEGLER, Religion und Wissenschaft, Kaufmann, 1913. (4)
Cosi la definisce ADRIANO TILGHER in un importante ar- ticolo : Zo, liberta, moralita, nella
filosofía di E, Bergson, in Cul- tura,
15 novembre e 1 dicembre 1902. Anche in Inghilterta il berg- sonismo, che sino a pochi anni fa era quasi
sconosciuto, ottiene ora un successo crescente.
Prova ne siano i numerosi volumi e
studii di riviste dedicati al Bergson e le conferenze di questi a Oxford, a Birmingham, a Londra. Gli inglesi
perd.qualche volta, do Na
Prefazione ' E ció che piú ancora
sorprende, osserva un neo- scolastico
francese, e che la sua riputazione oltre-
passa il cerchio degli iniziati, per raggiungere il grande pubblico. Per farsene un'idea, e necessario
assistere ad uno dei suoi. corsi al
Collége de France, ove si ha
limpressione di assistere ad una premitre: gli
automobili aspettano alla porta, i servitori in livrea conservano i posti che saranno occupati dalle
grandi dame; e quando il maestro appare,
si sente che egli affascina il suo
uditorio. Gia Bergson entusiasmava i
suoi studenti di filosofia del collegio Rollin e del liceo Henri IV. Agli esami del baccalauerato,
della licenza, dell'aggregazione, tutte
le dissertazioni si ispiravano dlle sue
idee. E come ciascun anno i grandi sarti
danno la medesima silhouette a tutte le signore, cosi l'autore dell'Essai sur les données
immédiates dava a tutti i candidati la
medesima fisionomia filo- sofica gia fin
dal 1895 (1). Cogli anni l'entusiasmo é
andato crescendo. Nel 1912, narra il Grivet, ogni venerdi la vasta sala del College de Framce
comin- clava a riempirsi un”ora prima dell'apertura
della le- zione; sui banchi gli ultimi
posti erano presi d'as- salto; poi si
entrava per pressione o meglio per com-
pressione. Come ai giorni piú belli della filosofia, le persone si battevano, per poter udire
colui che i giovani hanno
soprannominato « l'allodola », colpiti
da non so quale rassomiglianza tra questo filosofo e nellPinterpretare Bergson, gli hanno
attribuite teorie tutte. op- poste a
quelle da lui difese. Cf. ad es. la risposta . di Bergson ad un articolo del Pitkin nel The journal of
phylosophy, psycolog y and scientific
methods, 7 luglio 1910, pag. 385-388, sul quale ritor- neró in seguito, (1) Cfr. Rivista di filosofía neoscolastica;
Il successo dí Bergson (a. IIl, n.6,
pag. 615). Cfr. anche RAGE OT: 4. Bergson nel Temps, 2 luglio rgrr. Uuccello, che sotto il cielo
azzurro vola cosi alto. e canta cosi
bene (1). Si spieghi come si vuole
questo fenomeno. Si dica che la causa
deve essere attribuita alla magia di uno
stile, che, specialmente nella finezza delle analisi
psicologiche, sa evocare l'inesprimibile (2); se ne cerchi pure la ragione nell'ampiezza della
documen- tazione scientifica o
nell'artistica genialita di simili-
tudini superbe e di immagjni seducenti; se ne assegni il motivo nel bisogno, intensamente
sentito dalla generazione presente, di
una reazione all'intel- lettualismo ed
al positivismo: e un fatto peró che
questo pensatore puóo vantarsi di esercitare su molti spiriti contemporanei un fascino immenso. NM
successo di Bergson e tale, che alcuni asseri-
scono che con lui si inaugura un nuovo periodo filo- sofico. « La sua opera, scrive il Le Roy,
sará riguar- -data dall'avvenire come
una delle piú caratteristiche, dele pin
feconde, delle piú gloriose della nostra
(1) Cfr.: J. GRIVET: MZ. Bergson : esquisse philosophique in Etudes, s ottobre 1909 e La théorie de la
personne d'aprés Bergson nella stessa
rivista, 20 nov. 1grr. Anche nella parte
espositiva del pensiero bergsoniano,
quest'ultimo articolo del P. Grivet mi
ha giovato molto, poiché contiene un sunto delle lezioni tenute dal Bergson nellanno scolastico 1911-1912
sulla teoria della per- sona. (2) Cfr. : BELOT: Un nouveau spiritualisme, in Revue philosophigue 1897, 19 Semestre, pag.
183. Anche il JOUS- SAIN nella stessa
rivista paragond l'opera del Bergson ad una
sinfonia severa : cfr. L'¿dée de l'Inconscient et 'intuition de la
vie, in Revue phtlos., maggio 1911. XIHI
Prefazione epoca. Essa segna una data
che la storia non dimen- ticherá piú;
apre una fase del pensiero metafisico;
pone un principio di sviluppo, di cui non si saprebbe assegnare il limite; ed e dopo fredda
riflessione, con piena coscienza del
giusto valore delle parole, che si puó
dichiarare che la rivoluzione, da essa operata,
eguaglia in importanza la rivoluzione kantiana ed anche la rivoluzione socratica » (1). Certo, si e esagerato dicendo che, se il
metodo bergsoniano fosse vero, la storia
della filosofia non comprenderebbe che
due capitoli: prima e dopo Bergson, e
che il primo capitolo, che abbraccia 25
secoli, non sarebbe che la narrazione di un errore e di un pregiudizio tenace (2). Bergson
infatti, nella sua Introduction á la
Métaphysique (3) e nel suo discorso al
Congresso di Bologna (4), si + degnato
di ammettere che nei sisterni dei grandi maestri c'e sempre qualcosa di semplice e di netto, come
un colpo di sonda, che e andato a
toccare pin o meno in gia il fondo di
uno stesso oceano, portando ogni volta
alla superficie un'intuizione vera, intorno alla quale si e poi organizzato il sistema. Ma anche evi- (1) LE ROY, Une philosophie nouvelle:
H.Bergson, Alcan, 1912, pag. 3. In questo volumetto il Le Roy raccolse due articoli
ap- parsi dapprima nella Revue des deux
mondes, 1 e 15 febbraio 1gr2 e vi
aggiunse parecchie appendici. Il secondo articolo fi- nisce cosi: « Con Bergson nella storia del
pensiero umano qualche cosa di nuovo
comincia ». (2) MENTRÉ, La tradition
philosophique in Revue de philo- sophte,
gennaio 1g1r, pag. 69-77. (3, ln Revue de Métaph. et de morale, gennaio 1903.
Di questo importantissimo articolo del
Bergson c'é una bella traduzione
italiana del Papini, dal titolo: La flosoña dell'intuizione, Lan- ciano, Carabba, Ig1r. (4) IL discorso, che spesso citerd, e stato
pubblicato dalla Revue de Métaphys. et de
Mor., novembre 1911, col titolo : 7m-
tuition philosophique.
Prefazione XIII tando
l'esagerazione del Mentré, e indubitabile che
l'intuizionismo bergsoniano e un tentativo di riforma del modo di filosofare. Lo nota a ragione il
Papini, il quale, appunto per questo e
indignato contro la cicalesca plebaglia
filosofica, che frinisce sempre nello
stesso metro, guarda il Bergson come un pensatore interessante, riassume alla meglio i suoi
libri, si scandalizza un po” della sua
abitudine di scriver bene e con calore,
ma poi non pensa neppure o a distrug-
gerlo tutto senza misericordia, oppure ad accettare il suo metodo, a migliorarlo, ad applicarlo
(1). Ed il Papini ed i bergsoniani
vogliono che tutti noi rinunciamo una
buona volta agli antichi sisternmi morti
dell'analisi concettuale, per immergerci nel flutto del reale, per tuffarci nel fiume dell'intuizione. *
Xx Fra questo delirio frenetico
di. ammiratori, fra tanti inni di lode,
non tardarono a farsi udire le critiche
implacabili, i giudizii severi ed anche le ingiurie pla- teali.
Il nuovo Platone venne chiamato dai Le Dantec, dagli Elliot, dai Lankester, da tutti insomma
i mec- canicisti, un « jongleur », un «
faux monnayeur » e le sue teorie vennero
ritenute come « aberrazioni e
mostruositáa dello spirito umano » (2). 11 Dusmenil osserva che «quasi non si puó pia ascoltarlo,
senza (1) Cfr. Pintroduzione del
Papini alla traduz. dell'artic. cit.,
pag. 3. (2) Vedi: LE DANTEC,
Reflexions d'un Philistin in Grande
Revue, 10 luglio 1910. — ELLIOT, Moderne science and the illusions of prof. Bergson with
preface by Sir R. Lanke- ster,
Longmanns, 1912. XIV Prefazione pensare continuamente: nego» (1). IM. Renda
ha gia proclamato il fallimento di
questa filosofia (2). In Italia poi il
De Ruggiero vi ha sentito un gran senso
di vuoto in mezzo alla pid smagliante ricchezza (3). Ed ¡io potrei continuare a lungo
nell'enumerazione di queste sentenze
inesorabili, se, pur avendo coscen-
ziosamente letto e meditato la maggior parte dei principali lavori critici, pubblicati in
questi ultimi anni intorno al filosofo
francese, non credessi me- glio di
attendere nella seconda parte di questo volu-
me ad esporre ció che in essi ho trovato di meglio. Qui basterá notare che gli studiosi
cattolici, e. so- pratutto i
neoscolastici francesi, sempre si opposero
con le loro riviste e coi loro libri al pensiero di Berg- son. Nel settembre dello scorso anno, in una
lettera ad Albert Farges, che aveva
scritto un'opera contro Bergson, il
Card. Merry Del Val, a nome del Ponte-
fice, si congratulava con lui, perche aveva combattuto « le false teorie di questa nuova filosofia,
la quale vorrebbe scuotere i grandi
principii, le veritá acquisite della
filosofia tradizionale » ed in tal modo aveva pro- curato di preservare gli animi da un veleno «
tanto piú funesto e dannoso, quanto pia
e velato, sottile e se- ducente ». Anche
prima peró di questa condanna, i
neoscolastici francesi furono spiccatamente antiberg- soniani. Nononstante che il Le Roy sognasse
un ab- braccio della fede cattolica col
bergsonismo (4); che (1) DUSMENIL, La
sophistique contemporaine, Beauchesne
1913, Pag. 44. (2) J. RENDA, Le Bergsonisme ou
une philosophie de la mobi- lité,
Mercure de France, rgr2. (3) DE RUGGIERO, La fñlosofia contemporanea, pag.
447. Il giudizio del giovane
neohegeliano € molto diffuso in Italia tra
studiosi di diverse tendenze.
(4) LE ROY, opere citate.
Prefazione XV M. Coignet ed
altri vedessero in questo la riconci-
liazione della religione e della scienza in uno spiri- tualismo nuovo (1); che il Segond tentasse di
mo- strare che le nuove teorie non
negano la trascen- denza divina (3);
nonostante che la stessa lettera
dell'Eminentissimo Segretario di Stato avesse solle- vato le sorprese del Temps, che in tono di
ramma- rico ricordava le benemerenze del
Bergson verso Vapologetica cristiana;
gli scrittori nostri non vollero
bruciare nessun granello d'incenso all'idolo del giorno e furono concordi nel riconoscere che questa
dottrina ' e fuori della corrente della
filosofia cristiana, e lon- tana dalla
tesi spiritualista e conduce inesorabilmente
ad un panteismo ateo (3). Da
queste accuse cerco di scolparsi lo stesso
Bergson. In una lettera diretta al P. De Tonquédec, egli scriveva: « Le considerazioni esposte
nel mio Essai sur les données immédiates
mettono in luce il fatto della liberta;
quelle di Matiére et Mémoire fanno
toccare con mano la realtá dello spirito: quelle del- (1) MAD. C. COIGNET, De Kant a Bergson,
réconciliation de la religion et de la
science dans un spiritualisme nouveau,
Alcan, 19r2. — La stessa cosa aveva gia detto al Congresso di Heidelberg (1909): Cfr. Bericht túber dem III
internation. Kon- £ress fúr Philos.
Heidelberg, pag. 358-369. (2) SEGOND,
L'intuition bergsonienne, Alcan, 1912. — In
Italia G. A. Borgesein un artic. del Corriere della Sera, 18 gen- naio 1913, dal titolo Cercator: di Dio,
diceva che pud darsi che «lo scetticismo
mistico di Bergson si plachi in Dio e che nel
suo mondo sconquassato senza causa né legge ristabilisca 1'or- dine la Provvidenza ». — Il commento poi
del Corriere della Sera alla lettera del
Card. Merry Del Val era simile a quello
del Temps. (3) Cfr. ad es.-J. MARITAIN,
L*évolutionnisme de Bergson in Revue de
Philosophte, settembre-ottobre rg9rr, ed il suo recente volume: La philosophie bergsontenne, Paris,
Riviére, 1914. Identico in sostanza é il
giudizio del Mercier nel suo discorso :
Vers: Pl unite. XVI
Prefazione l'Evolution Créatrice
presentano la creazione come un fatto:
da tutto questo sgorga nettamente l'idea
d'un Dio creatore e libero, generatore ad un tempo della materia e della vita, il cui sforzo di
creazione si continua, dal lato della vita,
con l'evoluzione delle specie e con la
costituzione delle personalita umane. Da
tutto questo deriva, per conseguenza, la confu-
futazione del monismo e del panteismo in gene- rale » (1).
Poco tempo dopo, ad Edouard Le Roy che in un lavoro aveva salutato nella philosophie
nouvelle un punto d'inserzione del
problema religioso, Bergson inviava un
ringraziamento per la simpatia profonda
di pensiero dimostrata dal noto modernista nel- Uesporre le sue idee e soggiungeva: « Questa
sim- patia si dimostra sopratutto nelle
ultime pagine, dove voi indicate con
poche parole la possibilita di svi-
luppi ulteriori della dottrina. lo stesso non direi in proposito altra cosa di ció che voi avete
detto » (2). Non basta. Nella sua
conferenza di Birmin- gham (3), in un
discorso tenuto a Parigi il 4 maggio
1912 (4) ed anche nelle sue recentissime conferenze negli Stati Uniti, Bergson difese la tesi
dell'immor- Il P. DE TONQUÉDEC a
proposito dell Evolution Créa- trice
aveva pubblicato negli Ztudes uno studio : Comment in- terpréter P ordre du monde, dove dimostrava
che Bergson é mo-' nista ateo. A
quell'art. Bergson rispose con la lettera citata, che insieme ad un'altra lettera del Bergson e
ad un altro arti- colo del De Tonquédec:
M. Bergson est - il moniste 2 si trova ora
nel volumetto dello stesso autore: Dieu dans "Evolution créa- trice, avec deux lettres de M. Bergson,
Beauchesne. Cfr. LE ROY, La philos. nouvelle, pag. 5. : (3) Questa conferenza fu pubblicata in
inglese — lingua poco bergsoniana — nel
numero di ottobre 1911 del The Hibbert
Journal col titolo: Life and Consciousness, (4) IL discorso fu tenuto dal Bergson per
Piniziativa dell”as- sociazione Foiet
vie ed aveva per tema: L'áme et le corps. Ne talitá dell? anima, considerandola
quasi una conse- guenza legittima delle sue concezioni. e
Queste dichiarazioni del Bergson, cosi contrastanti. con un giudizio diffuso ed autorevole;
l'importanza che la sua filosofia e
andata acquistando in questi ul- timi
anni e la questione molto dibattuta intorno al
valore del metodo intuizionistico, mi indussero a comporre questo saggio. 2 Nel quale ho cercato innanzi tutto di
tracciare a grandi linee le teorie
bergsoniane, utilizzando non solo le
opere principali del pensatore francese, ma anche quasi tutti i suoi articoli di rivista, i
discorsi da lui recitati in diversi
congressi, le sue piú importanti di-
scussioni alla Société francaise de philosophie, le pre- fazioni da lui scritte a varii libri di altri
autori, le sue conferenze, parecchie sue
lettere, alcune inter- viste, qualche:
sunto dei suoi corsi al. Collége de
France, tutto insomma quello che mi fu dato di consultare (1). Riassumere il pensiero di Bergson non e
facile. L”apparente chiarezza
dell'espressione copre spesso idee
oscure, che sembrano sciogliersi in qualche cosa di impreciso, di vago, di fiuido (2). Se in
qualche punto le mie interpretazioni
sono inesatte, ció mi sará perdonato,
anche per il fatto che, quando nel
apparve un resoconto nel Temps (y maggio 1912) e fu poi inte- gralmente pubblicata nel periodico Fot et
Vie, 16 dicembre 1912, pag. 714-719 e 1
gennaio 1913, pag. 14 e seg. (1) Si
vegga alla fine del volume, nell'appendice, la bibliografia degli scritti di Bergson. (2) Sono parole del Prezzolini in un
articolo della Voce (6 gen- naio 1910):
Bergson. 11 Prezzolini ad un dato punto parlando dell'oscuritá di alcune pagine del Bergson,
esclama: « Ah che di- sgrazia per chi
vuole avere delle idee chiare ! ».
XVnmI Prefazione 1907 Alfred'
Binet apri un'inchiesta tra i professori
di liceo della Francia, per conoscere l'influenza della filosofia bergsoniana sul loro insegnamento,
le loro risposte furono tali, che in una
seduta della Société frangaise de
philosophie (28 novembre 1907) Bergson
protestó vivacemente. Nelle tesi che quei professori gli attribuirono, egli non riconosceva nulla
di ció che aveva pensato, insegnato o
scritto! (1). lo spero pero di essere
stato un espositore coscienzioso e fedele:
alla doverosa lealtá di un avversario onesto, nulla puó tornare tanto doloroso, quanto il sapere
d'aver tradito, sia pure senza colpa, il
pensiero di colui che si combatte. Ponendomi poi dal punto di vista della
Neoscola- stica, e tenendo conto degli
studii critici pia notevoli e
specialmente dei lavori degli scrittori cattolici, ho mostrato gli errori e le contraddizioni di
questa filo- sofia nuova. Ma — sará bene
avvertirlo fin d'ora — lo non ho potuto
appagarmi d'una critica negativa e
demolitrice, poiche lo studioso di filosofia non deve essere mai un Attila che non lascia crescere
filo di erba, dove si posa la zampa del
suo cavallo ; ma deve essere un medico,
il quale esamina un organismo e procura
di distruggerne i microbi dannosi ed ¡ bacilli,
per rendergli possibile un ulteriore sviluppo. Anche il Farges osserva giustamente che non vi sono
sol- tanto teorie false in Bergson, ma
che vi si trovano anche idee buone ed
eccellenti, che egli e felice di
rilevare e di notare (2). Queste idee buone ed ec- cellenti ho cercato di organizzarle nella mia
conce- (1) Cfr. Bulletin de la Société
fran;aise de philosop., genn. 1908, pag.
20-1. (2) A. FARGES, Za Philosophie de
M. Bergson, Bonne Presse, 1912, PAg.
3-4. — Cfr. anche BAEUMKER in Philosophische Jahr- MN
A Prefazione XIX zione filosofica, poiché ho la convinzione
che la filo- sofia ¿ e non puó non
essere sistematica. La seconda parte di
questo libro rappresenta dunque il cozzo
di due sistemi. Ed a chi fosse tentato di ab-
bozzare un facile sorriso e di obiettare a priori che il medioevo, ossia un passato morto e
putrefatto, non puó competere con un
presente fresco di vitalitá e di
energle, porgo l'invito di leggermi senza pre-
gludizil: forse il suo disprezzo cesserá o almeno su- bira una sensibile diminuzione. Prego poi il lettore a ricordarsi che il mio
e un tentativo modesto, che va
riguardato con l'occhio indulgente, col
quale $ doveroso esaminare il primo
tentativo d'un giovane. Saro ben grato a tutti, e specte agli amici della Neoscolastica, se
vorranno rivol- germi le loro osservazioni, persuaso come
sono che, solamente con la critica schietta
fra noi, potremo divenire soldati meno
indegni dell'idea grande che difendiamo,
ed alla quale siamo fieri di consacrare
con animo lieto la nostra giovinezza e la nostra vita. Ho dedicato il volume al P. Dott. Agostino
Ge- melli: questo nome, tanto caro ai
cattolici italiani, rispettato anche da
molti avversari sereni, gioverda, spero,
a far dimenticare le imperfezioni di queste
pagine ed a ricordare a tutti la bellezza dell'ideale, che ci canta in cuore. FRANCESCO OLGIATI. Milano, 19 Marzo 1914. buch (25B., Heft 1, pag. 10): Ueber die
Philosophie von H. Berg- son; GRIVET in
£tudes, art. cit., 20 nOVem. 1917, pag. 485,
BAINVEL in Revue pratique d'apologétique, 1 novembre 1911; TAVERNIER nel! Univers, 2 aprile 1908
etc. PARTE Ll.
Esposizione della filosofia bergsoniana
La teoria della durata reale della coscienza Nella conferenza tenuta al Congresso
internazionale di filosofia in Bologna,
il 10 aprile 1911, Enrico Berg- son
osservava che un sistema filosofico sembra dap-
prima elevarsi come un edificio completo, d'una architettura sapiente, dove sono state prese
disposi- zioni, perché vi si possano
alloggiare tutti i problemi. Ma a misura
che noi cerchiamo di collocarci maggior-
mente nel pensiero del filosofo, invece di girargli at- torno, ci accorgiamo subito che la sua
dottrina si trasfigura. La complicazione
comincia a diminuire, poi le parti
entrano le une nelle altre, infine tutto si rac- coglie in un punto unico, al quale sentiamo
che po- tremmo avvicinarci sempre piú,
benché sia impossibile raggiungerlo. In
questo punto c*é qualcosa di semplice,
d'infinitamente semplice, di si straordinariamente sem- plice, che il filosofo non € mai riuscito a
dirlo. Ed € per questo che egli ha parlato
tutta la sua vita (1). Anche attraverso
alla svariata ricchezza del pen- siero
bergsoniano, é facile scorgere una intuizione in- divisibile, un principio di unitá organica. La filosofia (1) BERGSON: L?2mtustion philosophique in
.Revue de méta- Dbhys. et de morale,
novembre 1911, pag. 809-810. 4 Esposizione della filosofia bergsoniana di Bergson e una filosofia della durata
(1). Ed in- fatti tale fu il punto di
partenza della sua riflessione
originale. Criticando l'idea che la fisica e la mecca- nica si fanno del tempo, cercando il concreto
sotto le astrazioni matematiche (2),
egli giunse, nel sorriso dei suoi
vent'anni (3), a questa teoria della durata
reale, che dal Papini fu chiamata la sua scoperta (4). Essa € la sorgente del metodo
intuizionistico; é la chiave che servirá
al suo autore per risolvere i pro- blemi
della libertá e dei rapporti tra lo spirito ed il corpo; e la nozione, che trasportata nella
natura vi- vente, lo fará arrivare
all'idea dello slancio vitale. Gli
ammiratori di Bergson dicono che dall'Essai
sur les données immédiates de la conscience all” Évo- lution Créatrice, il suo pensiero, con un
progresso ar- monioso che dá
l'impressione d'una bella frase musi-
cale, si € sviluppato in un movimento che non comporta evoluzioni divergenti (5); delle
molteplici forme di questo sviluppo, la
durata reale e il prin- cipio semplice,
inesauribilmente fecondo, che il lin-
guaggio, coi dettagli che si aggiungono ai dettagli e che compongono una approssimazione crescente,
non riesce mai a comunicarci a
perfezione (6). E quindi necessario
incominciare l'esposizione del
bergsonismo da questa idea direttrice, in quanto ri- (1) LE ROY: Une philosophie nouvelle, pag.
200. (2) Cfr. la lettera di Bergson del
ro luglio 1905 al direttore della Revue
philosophique in Rev. phil. 1905, 2% Sem.,' p. 229. In essa il Bergson difende anche come
scoperta sua la nozione della
durata. (3) Cfr. GILLOUIN, Op. cit.,
pag. 1o. (4) CTE MOD. Cif, paga 8. (5) Cfr. GASTON RAGEOT in Revue
philosophique, luglio rg1o,pag. 84, nella recensione dell Evolution
créatrice. (6) Cfr. BERGSON: Préface a
Gabriel Tarde, introduction et pages
choisies par ses fils, pag. s. La teoria della durata reale della coscienza 5 guarda la coscienza individuale; tanto piú
che, se- condo alcuni, essa ha rinnovato
profondamente l'antica massima Conosct
te stesso, che da Socrate in poi fu
sempre il programma della filosofia (1). Xx
* Se io, dice Bergson, faccio
scorrere sulla mia per- sona lo sguardo
interiore della mia coscienza, scorgo
dapprima, come una crosta fatta solida alla superficie, tutte le percezioni che le giungono dal mondo
mate- riale. Queste percezioni sono
nette, distinte, sovrap- poste o
sovrapponibili le une alle altre; esse cercano
di aggrupparsi in oggetti. Scorgo poi dei ricordi piú o meno aderenti a queste percezioni e che
servono ad interpretarle: sono ricordi
che si sono come staccati dal fondo
della mia persona, attirati alla periferia dalle percezioni che loro somigliano e che si son
posati su me, senza essere assolutamente
me stesso. E final- mente sento
manifestarsi delle tendenze, delle abitu-
dini motrici, ed una moltitudine di azioni virtuali piú o meno solidamente legate a quelle percezioni
ed a quei ricordi. Tutti questi elementi
dalle forme ben defínite mi sembrano tanto
piú distinti da me, quanto piú son
distinti gli uni dagli altri. Orientati dal di dentro verso il di fuori, costituiscono, riuniti, la
superficie di una sfera, che tende ad
allargarsi e a perdersi nel mondo
esterno (2). Ma non bisogna
fermarsi a questi cristalli ben ta-
gliati a questa superficie, dove le nostre idee galleggiano come foglie morte sull'acqua d'uno stagno
(3); biso- (1) LE ROY, Op. cit., pag.
201. (2) BERGSON: Introduction á la
Métaphysique, trad. italiana, pag.
19-20. (3) BERGSON : Essai sur les
données immédiates de la con- science,
pag. 103. 6 Esposizione della filosofia bergsoniana gna scendere piú giú, nelle
profondita dell'essere, nella secreta
intimitá di queste tenebre feconde, dove zam-
pillano le sorgenti della coscienza. E qui soltanto, che si puó cogliere la persona nella sua
freschezza, nella sua originalita, nel
suo ritmo vivente, nel suo palpito
intenso, nel suo murmure fievole, nel suo scorrere ininterrotto attraverso il tempo. Quando io percepisco me stesso
interiormente, profondamente, constato
che ¡o passo da uno stato all'altro. La
mia esistenza viene alternatamente co-
lorata da senzazioni, da sentimenti, da volizioni, da rappresentazioni: in una parola, io cangio
senza posa (1). Non basta. Un leggiero
sforzo di attenzione mi ri- vela che uno
stato interno qualsiasi non € mai simile
ad un pezzo di marmo, ma si modifica ad ogni mo- mento. Perfino la percezione visuale di un
oggetto esteriore immobile non si
conserva mai uguale in due momenti
successivi: la visione che ne ho, differisce
da quella che ne avevo or ora, se non altro perché si € invecchiata di un istante ed al
sentimento pre- sente sié aggiunto il
ricordo dei sentimenti passati (2). Ogni
stato d'animo, avanzandosi sulla via del tempo,
si gonfia continuamente della durata che esso accu- mula, e fa, per cosi dire, una palla di neve
con sé stesso. Il cangiamento perció non
risiede nel passaggio da uno stato
all'altro; lo stato stesso é gia cangia-
mento (3). Vale a dire che non
c'e differenza essenziale tra il passare
da uno stato ad un altro ed il persistere in
un medesimo stato. Il passaggio dall*uno all'altro stato rassomiglia ad uno stesso stato che si
prolunga; la transizione € continua
(4). (1) BERGSON : Evolution
créatrice, pag. 1. (2) Z6td., pag. 1-2
e Introd. dá la Métaph., trad. ital., pag. 46.
(3) Evol. cr., pag. 2. (4) Zbid., pag. 2-3. La teoria della durata reale della
coscienza 7 Il male é che io chiudo
spesso gli occhi su questa variazione
perenne e non vi faccio caso, finché e di-
venuta cos] considerevole, da imporsi all'attenzione e da illudermi che uno stato nuovo si e
aggiunto al precedente. É appunto per
questo che io credo alla discontinuita
della vita psicologica, e, dove non c'e
che un pendio dolce, mi sembra di percepire i gra- dini di una scalinata (1). Ma é un'apparenza
fallace; il mio spirito non € mai
qualche cosa di fatto, ma si fa
incessantemente; esso é un perpetuo divenire. Anche ¡ mille incidenti imprevisti che sorgono e
pare non ab- biano nessuna relazione con
ció che li precede o che li segue,
simili a colpi di timballo che squillano qua
e la nella sinfonia, sono portati dalla massa fluida della mia esistenza psicologica tutt'intera.
Ciascuno di essi non é che il punto
meglio rischiarato d'una zona che si
muove e che comprende tutto ció che io sento,
penso, voglio, tutto ció infine che sono in un dato momento (2). Gli stati di coscienza quindi non
sono elementi distinti, non
costituiscono stati multipli, se non
quando li ho passati e mi volgo indietro per os- servarne la traccia. Mentre li provo, sono
cos] solida- mente organizzati, cosi
profondamente animati da una vita
comune, che io non avrei potuto dire dove finisce uno qualunque di essi e dove l'altro
comincia. In realtá nessun di loro né
comincia né finisce, ma tutti si pro-
lungano, si continuano gli uni negli altri in uno scor- rimento senza fine (3), in un zampillare
ininterrotto di novitáa, ciascuna delle
quali non é ancora sorta per fare il
presente, che giá ha indietreggiato nel
pas- sato (4). (1) Z6., pag. 3.* (2) Zb61d., pag. 3. (3) Zntrod. a la Métaph., trad. ital., pag.
20-21. (4) Evol. cr., pag. so. 8 ' Esposizione della filosofia
bergsoniana Il presente! Che cos'é per
me il momento presente ? La proprietáa
del tempo é di scorrere; il tempo gia
scorso é il passato ed io chiamo presente l'istante nel quale scorre. Ma qui non puód esservi
questione d'un istante matematico. Senza
dubbio, c'é un presente ideale,
puramente concepito, limite indivisibile che
separerebbe il passato dallavvenire. Ma il presente reale, concreto, vissuto, occupa
necessariamente una durata. Ov'2 dunque
situata questa durata? É al di qua o al
di lá del punto matematico, che io deter-
mino idealmente, quando ¡o penso all'istante presente? É troppo evidente che essa € al di qua e al
di lá ad un tempo e che ció, che io
chiamo il mio presente, si distente in
una volta sul mio passato e sul mio
avvenire (1). La durata é appunto il progresso con- tinuo del passato, che morde l'avvenire, e
che pro- cedendo si aumenta. Poiché il
passato s'accresce con- tinuamente,
automaticamente si conserva, ed a mia
insaputa mi accompagna. Tutto questo sará dimo- strato nella teoria della memoria e si vedrá
allora che ciascuno di noi trascina
dietro a sé tutto il peso della sua vita
psicologica anteriore. Ció che io ho pensato,
sentito, vissuto dalla prima infanzia in poi, e lá chi- nato sul presente, come la madre sul suo
figliuolo (2), e si rotola, si avvolge
su sé stesso nell'impulso indi- visibile
che mi comunica. lo lo chiamo il mio carat-
tere, quel carattere che mi assiste in tutte le mie decisioni e che mi ricorda che il mio passato
esiste per me piú ancora del mondo esterno,
di cui non percepisco che una
piccolissima parte, mentre al con- (1)
BERGSON: Matiére et Mémotre, pag. 148-9. Cfr. anche BERGSON: La perception du changement, 2*
conferenza di Ox- ford, pag. 28-29 € BERGSON:
Life and consciousness in The Hibbert
Journal, ottobre 1911, pag. 27. (2)
Évol. cr., pag. 5. La teoria
della durata reale della coscienza 9
trario utilizzo sempre la totalita della mia esperienza vissuta (1).
Conservando il passato, la mia persona progredisce, cresce, matura continuamente. Ciascuno dei
suoi momenti é del nuovo, che si
aggiunge a ció che vi era dapprima (2);
sopratutto nell'azione libera, nell”atto
del volere, io comprendo che la durata é inven- zione ed elaborazione creatrice dell”
assolutamente nuovo (3). Cos1, quando con un vigoroso sforzo
d'astrazione, la coscienza si isola dal
mondo esterno e cerca di ri- divenire sé
stessa (4), le diverse parti dell'essere en-
trano le une nelle altre, e la mia personalitáa tutta intera si concentra in un punto o meglio in
una punta, che s'inserisce
nell?avvenire, intaccandolo senza posa (5).
La durata non ha dunque nulla di ineffabile e di mi- sterioso, ma e la cosa piú chiara del mondo
(6); in essa la coscienza si conosce
nella sua essenza e coglie assolutamente
sé stessa (7). (1) Zbid., pag. 5-6 e Matiére et
Mém., pag. 158. (2) Zbid., pag. 6 e
218. (3) 76., pag. 2 e 258. (4) Essai, pag. 69. (5) Évol. cr., pag. 219. (6) Perception du chang., Conf. II, pag. 26. (7) Cfr. la lettera gia citata del BERGSON
in The journal of phylosophy, psychology
and scientific methods. - Nell Introd. € la Métaph. (trad. ital. pag. 21-24), Bergson
cerca di suggerire il sentimento della
durata per mezzo di immagini. Eglila paragona
allo svolgersi ed allarrotolarsi di un rotolo, ad uno specchio
dalle mille sfumature con degradazioni
insensibili, che ci fanno passare da una
tinta all'altra e attraverso le quali passa una corrente di sentimento; ad un elastico infinitamente
piccolo che si allunga e si distende.
Pur difendendo Putilitá delle immagini per darci la intuizione della durata, ne mostra anche
Pincompletezza e l'in- sufficienza. 10 Esposizione della filosofia
bergsoniana Chi é riuscito a darsi il
sentimento originale, 1'in- tuizione
della durata costitutiva del suo essere, si
accorge subito che questa € una continuitá dinamica, semplice ed indivisa. La durata tutta pura é
la forma che prende la successione dei
nostri stati di coscienza, quando l'io
si lascia vivere e si astiene dallo stabi-
lire una separazione tra lo stato presente e gli stati anteriori. Non é necessario per questo che
esso si assorba interamente nella
sensazione o nell'idea che passa, poiché
allora, al contrario, cesserebbe di durare.
Non € nemmeno necessario dimenticare gli stati an- teriori; basta che ricordandoli, non li
giustapponga allo stato attuale come un
punto ad un altro punto, ma li organizzi
con quest'ultimo, come succede quando ci
richiamiamo, fuse per cosi dire insieme, le note di una melodia. Non si potrebbe forse dire che,
benché queste note si succedano, noi
tuttavia le percepiamo le une nelle
altre e che il loro insieme e paragonabile
ad un essere vivente, le cui parti, benché distinte, si penetrano per l'effetto stesso della loro
solida- rieta? (1) Tale € precisamente
la durata; é succes- sione senza la distinzione,
é una penetrazione mutua, un
organizzazione intima di elementi, ciascuno dei
quali é rappresentativo del tutto e non se ne distingue e non se ne isola, che per un pensiero capace
di astrarre (2). Quando perció io parlo
di sensazioni, di tappresentazioni, di
volizioni, e concepisco, 1'unitá vivente
della coscienza come un aggruppamento di
stati distinti e giustapposti ; quando solidifico la flui- dita della mia vita psicologica e la
sbocconcello in (1) Essaz, pag.
76-77. (2) Z6., pag. 77. E
Le La teoria della durata reale
della coscienza 11 istati, come una
commedia in scene (1); io altero con
simboli figurativi e con una deformazione artificiale la realtáa concreta dell'io. La quale € simile
alla figura che un artista di genio
dipinge sulla tela: io posso certo
imitare quel quadro con piccoli quadratelli di
mosaico multicolori, e quanto piú questi saranno pic- coli, numerosi, variati, altrettanto meglio
riprodurro le curve e le sfumature del
modello. Ma come quella figura dipinta
non é una giustaposizione di piccoli
quadratelli, cosi la mia vita interna non é una com- posizione di stati, ma é qualche cosa di
semplice e di uno, nella sua
eterogeneitá qualitativa (2). Siccome
poi il passato sopravvive, € impossibile che
una coscienza traversi due volte lo stesso stato. Le circostanze possono ben essere le stesse, ma
non agi- scono piú sulla medesima
persona, perché la prendono ad un nuovo
momento della sua storia (3). Non vi
sono due momenti identici nel medesimo essere co- sciente, poiché il momento seguente contiene
sempre, oltre il precedente, il ricordo
che questo gli ha la- sciato. Una coscienza
che avesse due momenti iden- tici
sarebbe una coscienza senza memoria, perirebbe e e rinascerebbe continuamente, sarebbe in
altre parole Pincoscienza (4). La durata
reale morde e lascia nelle cose
l'impronta del suo dente (5); é quindi una cor-
rente che non si pub risalire (6); insomma é irrever- sibile. La sua legge fondamentale € di
non ripetersi (1) BERGSON: Le souvenir
du présent et la fausse reconnais- sance
in Revue philosophique, dicembre 1908, pag. 577. (2) Cfr. Évol. cr., pag. 98. (3) Zb1d., pag. 6- (4) ZIntrod. á la Mét., trad. ital., pag.
21-22. (5) Evol. cr., pag. 49. (6)
Z01d., pag. 42. 12 Esposizione della
filosofia bergsoniana giammai; cessare
di cambiare, sarebbe cessare di vi- vere
(1). Essa € anche imprevedibile. Nel
suo progresso in- timo c'é
incommensurabilitá tra ció che precede e ció
che segue (2); il mio stato attuale si spiega, é vero, con ció che vi era in me e con ció che or ora
agiva su di me: io non vi troverel altri
elementi, analizzan- dolo. Ma
un'intelligenza, anche sovrumana, non
avrebbe potuto prevedere la forma semplice che a questi elementi astratti (i quali non hanno
nemmeno un'esistenza reale) vien data
dalla loro organizzazione concreta.
Poiché prevedere consiste nel proiettare nel-
l'avvenire ció che si € percepito nel passato o nel rap- presentarsi per piú tardi un nuovo
aggregamento, in un altro ordine, di
elementi gia percepiti. Ma ció che non é
mai stato percepito e ció che e nello stesso
tempo semplice, é necessariamente imprevedibile. Ora, tale é il caso di ciascuno dei nostri stati,
riguardato come un momento di una storia
che si svolge. Esso é semplice e non pud
essere giá percepito, poiché concentra
nella sua indivisibilitá tutto il percepito con, in piú, ció che il presente vi aggiunge. É un
momento originale di una storia non meno
originale (3). Cosi, per portare un esempio,
quando un ritratto € finito, lo si
spiega con la fisionomia del modello, con la
natura dell'artista, coi colori stemperati sulla tavolozza; ma anche con la conoscenza di tutto questo,
nessuno, nemmeno Partista, avrebbe
potuto prevedere quale (1) BERGSON :
Le rire, pag. 32. Per Bergson, se cosi e lecito
esprimere il suo pensiero, Pattendere la ripetizione di uno stesso stato di coscienza € un'ingenuitá peggiore
ancora di quella di una certa signora
che l'astronomo Cassini aveva invitata ad assistere ad un*eclisse di luna e che, arrivata in
ritardo, esclamo: il signor Cassini
vorrá bene ricominciare per me. Cfr. Le rire, pag. 45» (2) vol. cr.. pag. 30 (3) Zbid., pag. 7, Essat, 140-151. sarebbe stato il ritratto (1). L'ingegno
stesso del pit- tore si modifica sotto
l'influenza dell?opera che pro- duce,
poiché ogni invenzione, man mano che viene
realizzandosi, reagisce sull'idea e sullo schema, che essa era destinata ad esprimere (2). Tutto
questo si verifica in quella creazione inventiva
che é la nostra durata. La quale perció, a chi, con uno sforzo di
intui- zione diretta, cerca di
penetrarla nella sua realtá e nella sua
ricchezza interiore, si manifesta come va-
rietá di qualitá, continuitá di progresso, unitá di dire- zione (3), dove in una semplicita indivisa,
irreversi- bile, imprevedibile, il
passato si conserva e si crea
Pavvenire. * + *
Purtroppo contro questa concezione elevano le piú fiere proteste la scienza, il senso comune,
la filosofía. Protesta la psicofisica,
che non solo attribuisce agli stati
interni un esistenza distinta e separata, ma pre- tende persino di misurarli. Protesta la
psicofisiologia, che nella danza degli
atomi cerebrali crede di aver scoperto
lunitá di misura di tutti 1 fenomeni psicolo-
gici. Protesta il senso comune, che ha sempre rite- tenuto che molti fossero gli stati di
coscienza ed anzi li va enumerando, e
che ad ogni modo si appella al tempo
della fisica e della meccanica, che permette di
dividerli e di calcolarne la lunghezza. Protesta 1'asso- ciazionismo che si ¿ sempre immaginato le
idee e le rappresentazioni come uno
sciame di piccoli corpuscoli (1)
701d., pag. 7. (2) BERGSON: Z effort
intellectuel in Revue philosophique,
gennaio 1912, PAg. 17. (3)
Zntrod. dá la Mét., trad. ital., pag. 23-24.
14 Esposizione della filosofia
bergsoniana A O MI e AN solidi, mossi in ognisenso con estrema
velocitá, che talvolta si uniscono
insieme per produrre un'unita si- mile a
quella che ci é data dagli elementi di un composto chimico. Ed infine molti altri protesteranno
in tutte le varie questioni, che saranno
sollevate. Contro questo esercito di
nemici, di diverse nazio. nalitá, ma
concordi nel muovere battaglia alla teoria
della durata reale, Bergson scende in campo e affronta la lotta. IL
I nemici della durata reale La
psicologia moderna, sopratutto sotto l'influenza di Kant, é tormentata dalla preoccupazione di
stabi- lire che noi deformiamo la
realtá, poiché percepiamo le cose
esterne mediante le forme soggettive, dovuté
alla nostra costituzione.
Bergson invece ha la persuasione tutta opposta : egli € convinto che gli stati di coscienza,
che noi cre- diamo di cogliere
direttamente, portano il segno vi-
sibile di certe forme del mondo esteriore (1). Ed € venuto a questo risultato, esaminando i varii
nemici della teoria esposta : poiché
essi, invece di contem- plare l'io nella
sua purezza originale, guardano la du-
rata interna attraverso lo spazio esteso, sostituendo cos] alleterogeneitá qualitativa l'omogeneita
di simboli quantitativi, al flusso
perenne della successione i punti fissi
della simultaneita. a) La
psicofisica. Ecco dapprima i
psicofisici, i quali ci assicurano che una
sensazione pud essere due, tre, quattro volte pid (1) Essaz, pag. 171. 16 Esposizione della filosofia
bergsoniana intensa d*un'altra; anche
i loro avversari non vedono del resto
nessun inconveniente nel parlare d*uno sforzo
piú grande d'un altro sforzo, e a porre cosl differenze di quantitá tra gli stati puramente interni.
ll senso comune d'altra parte si
pronuncia senza esitazione su questo
punto. Si dice che si ha piú o meno caldo;
che si é piú o meno tristi, e questa distinzione del piú e del meno, anche quando la si prolunga
nella regione dei fatti soggettivi e
delle cose inestese, non sorprende
nessuno (1). E superfluo osservare che
tutto ció 8 incompatibile con la realtá
della durata. Questa, non presentando se
non fenomeni che si intrecciano e si inseriscono gli uni negli altri nella fluiditáa d'un
cangiamento inin- terrotto, si ribella
ad uno spezzettamento artificiale. Ma,
anche prescindendo per ora da questo fatto, noi
vedremo che la vita reale della coscienza e pura- mente qualitativa e perció esclude dal suo
campo ogni grandezza, intensiva o
estensiva che sia. Fu questa la prima
battaglia del Bergson. La sua tesi di
dottorato, 1” Essai sur les données immédiates
de la conscience, si inizia appunto con la critica del concetto dell'intensitá psichica (critica,
che secondo Guido Villa (2), € la piú
acuta che si sia fatta ai nostri tempi)
e con una confutazione della psicofisica.
Nessuno pud negare — dice il Bergson — che uno stato psicologico abbia una intensitá. La
questione e semplicemente di sapere se
questa intensitaá sia una grandezza
(3). (1) Essaz, pag. 1. (1) VILLA: La psicologia contemporanea,
Bocca, 20 edizione, pag. 149. (2) Cfr. BERGSON : Le parallélisme
psycho-physique et la Mé- taphysique
positive in Bulletin de la Société frangaise de philo- sophie, 1901, Séance 2 Mat, pag. 60-61. I
nemici della durata reale 17
Consideriamo ad esempio i sentimenti profondi del- l'animo. In che cosa consiste la loro
intensitá ? Se bene si osserva, essa si
riduce ad una certa qualitá o sfumatura,
di cui si colora una massa piú o meno
considerevole di stati psichici. Un oscuro desiderio e divenuto ad esempio una passione profonda. La
sua de- bole intensitá consisteva in
ció, che esso vi sembrava isolato e come
straniero a tutto il resto della vostra vita
interna. Ma a poco a poco esso ha penetrato un pid gran numero di elementi psichici, tingendoli
per cos dire del suo proprio colore; ed
ecco che il vostro punto di vista
sull'insieme delle cose vi sembra ora
cangiato. Tutte le vostre sensazioni, tutte le vostre idee hanno riacquistato una freschezza tale,
che vi dá l'impressione di una novella
infanzia. É un can- giamento di qualitá
che € avvenuto, non di gran- dezza
(1). Questo lo si ripeta anche delle
grandi gioie, delle tristezze sentite,
delle emozioni estetiche, dei senti-
menti morali, di tutti insomma gli stati profondi dell”anima : il loro aumentare corrisponde ad
una ricchezza crescente, ad un progresso
puramente qua- litativo (2). Si dirá forse che questi stati sono rari, e
che bisogna studiare anche gli altri
fenomeni che avven- gono in noi. Ebbene,
trasportiamoci pure all'estremita
opposta della serie dei fatti psicologici. Se c'é un fe- nomeno che sembra presentarsi immediatamente
alla coscienza sotto forma di quantitá o
almeno di gran- dezza, é senza dubbio lo
sforzo muscolare. Ci sembra che la forza
psichica, imprigionata nell”anima come i
venti nell'antro di Eolo, attenda solamente un*occa- sione per slanciarsi fuori; la volonta
sorveglierebbe (1) Essaz, pag.
6-7 (2) Zbid., pag. 7-14. F. OLG1AT1I 2 18 Esposizione della filosofia
bergsoniana questa forza, e di
tempo in tempo le aprirebbe una uscita.
Eppure, se noi ricerchiamo attentamente in
che consiste davvero la percezione dell'intensitá di uno sforzo, ci persuaderemo che quanto piú questo
ci fa Peffetto di crescere, tanto piú
aumenta il numero dei muscoli che si
contraggono simpaticamente e che esso si
riduce in realtá alla percezione d'una pid
grande superficie del corpo, che si interessa all*opera- zione. Provate ad es. a chiudere il pugno
sempre di pid. Vi sembra che la
sensazione di sforzo, tutta intiera loca-
lizzata nella vostra mano, passa successivamente per grandezze differenti. In realtá la vostra
mano prova sempre la stessa cosa.
Solamente la sensazione, che vi era
localizzata, ha invaso il vostro braccio, € risa- lita fino alla spalla ; finalmente 1'altro
braccio si irri- gidisce, le due gambe
l'imitano, la respirazione si ar- resta
e via dicendo. Voi credevate che si trattasse di una stato di coscienza unico, che variava di
gran- dezza; invece no: anche qui c'é un
progresso quali- tativo, una complessitá
crescente, confusamente per- cepita (1).
II che si verifica anche negli stati intermediari, vale a dire nei fenomeni dell'attenzione, nei
desideri acuti, nelle collere scatenate,
nell'amore appassionato, nell*odio
violento (2). Veniamo da ultimo alle
sensazioni, la cui intensitá varia come
la causa esteriore, della quale esse sono
considerate l"equivalente cosciente: come spiegare l'in- vasione della quantitá in un effetto inesteso
e questa volta indivisibile? (3) Per rispondere a questa questione bisogna
dapprima distinguere tra sensazioni
affettive e sensazioni rap-
presentative. Nelle prime, allo stato interno, che € (1) Zó1d., pag. 18-20. (2) Zb1d., pag. 20-23. (3) Z01d., pag. 24. I nemici della durata reale 19 pura qualitá, sono sempre congiunti mille
piccoli mo- vimenti di reazione, che
esse provocano nel nostro corpo. É di
questa reazione che noi teniamo conto
nell?apprezzare l'intensitá di quelle sensazioni e nel- l'interpretare come differenza di grandezza
una diffe- renza di qualita. Nelle seconde un'esperienza di tutti gli
istanti ci mostra che una sfumatura
determinata risponde ad un determinato
valore di eccitazione. Noi associamo
cosi ad una certa qualitá dell'effetto l'idea di una certa quantitá della causa, poniamo questa in
quella, ed in tal modo !'intensita, che
prima non era che una certa sfumatura
della sensazione, diventa una gran-
dezza. Nelle une e nelle altre
si forma quindi un compro- messo tra la
qualitá pura, che € il fatto di coscienza,
e la pura quantitá, che € necessariamente spazio: a questo compromesso vien dato il nome di
intensita, concetto bastardo, che ci fa
dimenticare che se la grandezza, fuori
di noi, non é mai intensiva, l'inten-
sitá, dentro di noi, non e mai grandezza (1). Per non aver compreso questo, i filosofi
hanno do- vuto distinguere due specie di
quantita, luna: esten- siva, l'altra
intensiva, senza giammai riuscire a spiegare
ció che esse avevano di comune, né come si possa adoperare, per cose cosl dissimili, le stesse
parole « crescere » e « diminuire ». Con
ció stesso essi sono responsabili delle
esagerazioni della psicofisica ; poiché
dal momento che si riconosce alla sensazione la fa- coltá di crescere, ci si invita anche a
cercare di quanto essa cresce (2). Ed e ció che fu tentato da Fechner. Questi,
par- tendo da una legge di Weber,
affermava un rapporto (1) Z0td., pag.
24 € Seg. (2) 7Zb1d., pag. 173. 20 Esposizione della filosofia
bergsoniana costante tra la
quantitá dell'eccitazione e l”accresci-
mento della sensazione. Noi non solleveremo nessuna difficoltá sull'esistenza probabile di una
simile legge: ma contestiamo, e qui fu
l'errore di Fechner, che si possa
introdurre la misura in psicologia e che tra due sensazioni successive S e S' vi sia un
intervallo, una differenza di grandezza,
e non gia un semplice pas- saggio
(1). Non si puó misurare se non ció che
é omogeneo ; ora che cosa c'é d'omogeneo
tra due sensazioni? Ab- biamo provato
che l'intensita di qualsiasi stato psico-
logico non é una grandezza, ma solo una qualitá ; se quindi da due sensazioni eliminiamo le loro
differenze qualitative, non ci restera
un fondo identico, una unitá elementare
ed eguale, ma ci resta nulla, asso-
lutamente nulla (2). Fechner non
giudicó insormontabile questa diffi-
colta; egli si illuse di aver scoperto il fondo comune nelle differenze minime della sensazione, che
corri- spondono al piú piccolo
accrescimento percettibile
dell'eccitazione esteriore. Si raffiguró quindi la sensa- zlone come un processo continuativo,
unilineare, omo- geneo; S' € la somma di
S con la differenza minima, come d'altra
parte S fu ottenuta coll”addizione delle
differenze minime che si traversarono prima di rag- giungerla (3). In tutto questo c'é il postulato
indimostrato e falso che il passaggio da
S a S' sia paragonabile ad una
differenza aritmetica, sia una realtá ed una quantita. Ora, non solo non si saprebbe dire in che
senso questo passaggio é una quantitá,
ma, se si riflette, si capisce subito
che non € nemmeno una realta. (1)
Z01d., pag. 45-46. (2) Z01d., pag.
47. (3) Zótd., pag. 48. EA
q . PERS I nemici della durata
reale 21 Di reale non vi sono che
gli stati S e S', che non sono dei
numeri, non sono una somma di unita, ma
sono stati semplici tra i quali c'é una differenza analoga a quella delle sfumature
dell'arcobaleno e non un intervallo di
grandezza (1). Possiamo quindi dire che
non c'é contatto tra l'ine- steso e
l'esteso, tra la quantitá e la qualita. Si puó
interpretare l'una con l'altra, erigere ¡”una in equi- valente dell'altra; ma presto o tardi, al
principio o alla fine, bisognerá
riconoscere il carattere convenzio- nale
di questa assimilazione (2). b) La
psico-fisiologia. L?illecita
intrusione della quantitá nel regno della
qualitá condusse gli scienziati all”altra ipotesi del pa- rallelismo psico-fisiologico, che ammette
un*equiva- lenza perfetta tra la vita
della nostra coscienza e la danza degli
atomi cerebrali. Questa concezione,
secondo Bergson, non solo non ha nemmeno un senso intelligibile quando si tratta della
fluida mobi- lita degli stati
psicologici profondi; ma é falsa anche
per i fenomeni del nostro io superficiale (3). Non si pud dire assolutamente che i movimenti
omogenei degli atomi del cervello siano
la traduzione integrale degli stati
interni. Egli svolse questa tesi in due discorsi, il primo tenuto alla Société frangaise de
philosophie il 2 Maggio 1911, il secondo
pronunciato a Ginevra al Congresso
internazionale di filosofia nel Settem-
bre 10904. lo sono interamente
convinto — cosl Bergson enun- ciava il
suo pensiero agli illustri della Societá francese (1) Z01d., pag. 49-50. (2) Z0id., pag. 52. (3) BERGSON: Le parallelisme psycho-physigue
etc. pag. 64. 22 Esposizione della
filosofia bergsoniana HA E NE di filosofia (1) — che tra il fatto
psicologico e 1'atti- vita cerebrale c'é
una certa relazione, una corrispon-
denza di un certo genere, ma non esiste in nessun modo un parallelismo rigoroso. Posto un fatto
psico- logico, voi determinate senza dubbio
lo stato cerebrale concomitante ; ma la
reciproca non e necessariamente vera,
poiché questa attivitá cerebrale puó essere iden- tica per pensieri tutto affatto diversi.
Ritengo perció falsa la tesi del
parallelismo, che potrebbe essere for=
mulata cosl: posto uno stato cerebrale, segue uno stato psicologico determinato. O ancora:
un'intelligenza sovrumana, che
assistesse alla danza degli atomi di cui
é fatto il cervello umano e che avesse la chiave della psico-fisiologia, potrebbe leggere in
un cervello che lavora, tutto ció che
avviene nella coscienza cor-
rispondente. O infine: la coscienza non dice nulla di piú di ció che si fa nel cervello, ma
l'esprime solo in un'altra lingua. Chi volesse fare la storia della questione,
dovrebbe riconoscere che l'idea d'una
corrispondenza tra il mo- rale e il
fisico rimonta alla pid alta antichitá, ma non
gia l'idea del paralelismo. Il senso comune ha sempre pensato alla prima cosa, non ha mai ammesso
la se- conda, che altro non € se non
un'ipotesi filosofica di origine
spinozista e leibniziana, che data dal giorno
in cui si € creduto al meccanismo universale, e che gia era implicitamente contenuta nel sistema di
Descartes. I successori di quest'ultimo,
spingendo alle estreme conseguenze le
idee del maestro, hanno creduto ad una
scienza unica della natura, ad una grande mate-
matica, capace di tutto abbracciare. Per non rompere (1) Riassumo le idee espresse da BERGSON in
quella discus- sione: cír. Bulletin de
la Societé Frangaise de Philosophte,
1901, Pag. 32-70: Le parallelisme Psychophysique et la metaphy- sigue positive, l nemici della durata reale 23 questo concatenamento rigoroso di cause e
di effetti, parlarono di parallelismo
tra il psichico ed il fisico. Per
l'intermediario poi dei medici filosofi del sec. xvIHn, quella teoria € passata nella psicofisiologia
del nostro tempo. La quale fa benissimo
a procedere nelle sue ricerche come se
dovesse un giorno darci la tradu- zione
fisiologica integrale dell'attivitá psicologica, ma dovrebbe ricordarsi sempre che questo é
un'utile re- gola metodologica e nulla
piú. Invece gli scienziati la erigono in
una affermazione dogmatica, e la mutano
in una ipotesi metafísica, alla quale incombe di stretta glustizia l'onus probandi e che sarebbe
distrutta ¿pso facto, se i fatti le
fossero contrari. Orbene, “questo
parallelismo psico-fisiologico non fu
mai dimostrato : nessuno ha finora portato una prova che ce lo imponesse o che ce lo suggerisse. E
non appellatevi - replicava Bergson ad
un obiettante - non appellatevi ai
progressi futuri della scienza : non solo
perché sarebbe questo un procedere poco scientifico, ma anche perché io fondo la negazione del
paralle- lismo non su considerazioni
negative, ma con una tesi positiva
suscettibile di miglioramento e di verift-
cazione progressiva. Il metodo
da seguire non é quello dell'antico spi-
ritualismo, che per ribattere i suoi avversari si rin- chiudeva come in una fortezza nelle facoltá
superiori dello spirito, proprie ed essenziali
all'uomo. Con questa tattica di
combattimento lo spiritualismo sembrava ar-
bitrario ed era infecondo. Sembrava arbitrario, perché gli oppositori potevano sempre obiettargli
che la dif- ferenza constatata tra il
psichico e il fisico derivava
semplicemente da ció, che esso considerava la materia nelle sue forme piú rudimentali e lo spirito
nei suoi stati piú perfetti; ma che se
si prende la materia al grado di
complessitá e di mobilitá ove imita certi ca-
ratteri della coscienza, e la coscienza ad un grado di 24 Esposizione della filosofia
bergsoniana semplicitá e di
stabilitá ove partecipa dell'inerzia della
materia, si riesce senza pena a farle coincidere. Era anche infecondo, poiché si limitava a
considerare i termini estremi e a
dichiarare che lo spirito e irridut-
tibile alla materia. Ora una dichiarazione di questo genere puú essere vera (essa dé vera, a mio
gludizio), ma non si guadagna nulla a
constatare che quei due concetti di
spirito e di materia sono esteriori 1”uno
all'altro. Si potranno fare invece scoperte importanti, se ci si pone nel punto ove i due concetti si
toccano, alla loro frontiera comune, per
studiare la forma e la natura del
contatto. A questo lavoro lungo e difficile
io - continua Bergson - ho invitati i filosofi nel mio Matiére el Mémoire. Nel fatto cerebrale determinato e
localizzato, che condiziona una certa
funzione della parola, ho consi- derato
le manifestazioni della materia nella loro forma piú complessa, nel punto ove rasentano
l'attivita dello spirito. Nel ricordo
del suono delle parole ho esami- nato lo
spirito nel suo stato pid semplice. lo era questa volta alla frontiera, eppure ho dovuto
arrivare alla conclusione che tra il
fatto psicologico e il suo sub- strato
centrale non c'é un parallelismo rigoroso, ma
esiste una relazione che non risponde a nessuno dei concetti tutti fatti che la filosofia mette a
nostro ser- vizio. Dato uno stato
psicologico, la parte vissuta, jouable,
di questo stato, quella che si traduce con
un'attitudine del corpo e con azioni del COrpo, é rap- presentata nel cervello; il resto ne 8
indipendente e non ha equivalente
cerebrale. Di modo che ad uno stesso
stato cerebrale possono corrispondere stati psi- cologici diversi, che hanno tutti in comune
lo stesso schema motore, ma non stati
psicologici qualsiasi, perché in una
medesima cornice possono stare molti
quadri, ma non tutti i quadri. Il pensiero e relativa- mente libero e indeterminato per rapporto
all'attivita 2” TI nemici della durata reale 25 cerebrale che lo condiziona, poiché questa
non esprime che le articolazioni motrici
dell'idea, le quali possono essere le
stesse idee assolutamente differenti. Da ció
ne segue che non pud esservi parallelismo o equiva- lenza tra lo stato cerebrale ed il pensiero
(1). Queste furono le idee che Bergson
difese in quella seduta. Segui una
discussione serenamente tranquilla, che
diede campo all'oratore di affermare sempre piú
le sue teorie. Molto piú agitato
fu il dibattito che avvenne al Congresso
di Ginevra tra i numerosissimi difensori
del parallelismo ed il Bergson. Questi in una comu- nicazione, che sollevd molto rumore (2),
volle prescin- dere dalle sue teorie, e
si propose di stabilire che il pa- rallelismo
psico-fisiologico implica una contradizione
fondamentale e riposa su un artificio dialettico, su una serie di paralogismi. La lettura di questa memoria, racconta il
Chartier, provoco in tutti gli uditori
un sentimento di sorpresa e di
inquietudine. Quasi tutti coloro che si trovavano presenti, avevano formulato spesso la tesi
del pa- rallelismo. 1 piú prudenti
l'avevano presentata come il risultato
esatto di un gran numero di esperienze
concordanti; nessuno aveva mai esaminato se la sem- plice enunciazione di questa tesi
rinchiudesse una con- tradizione
(3). Ora, era questo che Bergson
pretendeva provare. Quando parliamo
d'oggetti esteriori - egli disse - noi
abbiamo la scelta tra due sistemi di notazione. Pos- siamo trattare gli oggetti ed i cangiamenti,
che si (1) Questa teoria beresoniana
sará ampiamente esposta nei capitoli
seguenti, dedicati alla percezione ed alla memoria. (2) BERGSON: Le paralogisme psycho-physiqgue in Revue
de Métaph. et de Morale, novembre 1904,
pag. 895-908. (3) Revue de métaphys. et de morale, num. cit., pag.
1027. 26 Esposizione della filosofia
bergsoniana compiono, come cose o come
rappresentazioni: nel primo caso siamo
realisti, nel secondo idealisti. Che ¡i
due postulati si escludano lun 1'altro, che sia perció illegittimo 1applicare nello stesso tempo i
due sistemi di notazione allo stesso
oggetto, tutti lo accorderanno. Orbene,
se si opta per la notazione idealista, l'affer-
mazione del paralelismo implica contradizione; se si preferisce la notazione realista, si ritrova
la stessa contradizione; la tesi del
parallelismo non e intelligi- bile se
non nel caso, che per una incosciente pre-
stidigitazione intellettuale, si adottino nello stesso tempo, nella stessa proposizione, i due
sistemi di no- tazione. Poniamoci infatti dapprima dal punto di
vista idea- listico e consideriamo ció
che avviene nella percezione degli
oggetti, che popolano il campo della visione.
Per Pidealismo tutto € immagine e nelle cose non vi é se non ció che e mostrato nell'immagine,
perchée la realtá si identifica con la
rappresentazione. Il mondo esteriore €
quindi un'immagine, il cervello 4 un'altra
immagine della stessa natura e nella danza degli atomi cerebrali non c'e nulla di piú ne di
diverso, se non la danza di questi atomi
stessi. 11 dire col paral- lelismo che
lo stato cerebrale equivale alla rappresen-
tazione degli oggetti, é un assurdo in questa ipotesi ; poiché lo stato cerebrale € un'infima parte
del campo di rappresentazione, mentre
gli oggetti riempiono il campo di
rappresenzazione tutto intero. É evidente
che la parte non pud equivalere al tutto, e che for- mulato in una lingua rigorosamente idealista,
la ' tesi del parallelismo si
riassumerebbe in questa proposi- zione :
la parte e il tutto, Ma la veritá € che
si passa incoscientemente dal punto di
vista idealistico al punto di vista pseudo-
realista. Si € cominciato a fare del cervello una rap- presentazione, che non ha da suscitare le
altre rappre- > IL I nemici della durata reale 27. sentazioni, poiché queste sono date con
esso, attorno ad esso. Ma
insensibilmente si arriva ad erigere il cer-
vello ed i movimenti intracerebrali in. cose, cioé in cause nascoste dietro una certa
rappresentazione ed il cui potere si
estende infinitamente piú lungi di ció
che vien rappresentato. Dall'idealismo si é sdruccio- lato nel realismo. Passiamo ora al realismo, secondo il quale,
le mo- dificazioni del cervello prodotte
dalle cose esterne, creano, occasionano
o almeno esprimono la rappre- sentazione
degli oggetti da me veduti. Si noti che, a
differenza dell'idealismo, il realismo non pud separare dal tutto reale ció che € separabile nella
rappresenta- zione ; esso definisce
l'oggetto per la sua solidarietá col
tutto ed anche la scienza, man mano che progre-
disce, considera l'interazione come la realtá definitiva. 1l realista perció dovrebbe dire che la
rappresenta- zione degli oggetti € funzione
dello stato cerebrale e degli oggetti
che lo determinano, poiché questo stato
e questi oggetti formano per lui un blocco indivisi- bile. 1l sostenere che la rappresentazione é
funzione dello stato cerebrale soltanto,
é contraditorio ed equi- vale alla
affermazione che una relazione tra due ter-
mini equivale all'uno di essi, oppure all'altra : una parte, che deve tutto ció che e, al resto del
tutto, pud essere concepita come
sussistente, quando il resto del tutto
svanisce. Ein questa contradizione che incorre
il parallelismo. Esso comincia a darsi un cervello, che gli oggetti esteriori modificano in modo da
suscitare delle rappresentazioni. Poi fa
tavola rasa di questi 0g- getti e attribuisce
alla modificazione cerebrale il po- tere
di disegnare, da sola, la rappresentazione degli oggetti. Ma ritirando gli oggetti che lo
incorniciano, si ritira anche lo stato
cerebrale, che da loro prende le sue
proprietá e la sua realtá. Il realista lo conserva, perché passa furtivamente al sistema di
notazione 28 Esposizione della
filosofia beresoniana idealista, ove si pone come isolabile in
diritto ció che e isolato nella
rappresentazione. L*essenza stessa
dell'illusione parallelistica consiste
nell*apparente conciliazione di due affermazioni incon- ciliabili, nell*oscillare ciog dall'idealismo
al realismo o dal realismo
all'idealismo. Questo, in breve, é il
discorso di Bergson, che nei
congressisti causó una emozione profonda e che fu seguito da una discussione vivacissima, la
quale si prolungó anche dopo la seduta,
nelle conversazioni accalorate dei
filosofi presenti a quel Congresso. c)
Il tempo e lo spazio. Dopo le
scaramuccie contro la psicofisica e la psico-
fisiologia, Bergson con una battaglia campale contro certi idoli dellazione e del linguaggio vuol
dimostrare quella profonda distinzione
tra durata e spazialitá, che, come ben
nota il Prezzolini, forma un leit-motiv del-
l'opera sua (1). Se dai fenomeni
di coscienza, presi isolatamente,
passiamo alla molteplicitá concreta ed allo sviluppo organico della vita interiore, noi vediamo
che in questa tutto si compenetra e si
fonde in un cangiamento in- divisibile,
ininterrotto, eterogeneo. 1 che, come si
disse, non viene menomamente ammesso dal senso co- mune, dalla filosofia, dalla scienza, quando
frazionano la continuitá della durata
pura in tanti stati distinti, separati,
esteriori gli uni agli altri, che si possono
trattare come i numeri dell”aritmetica e rappresentare per mezzo di una giustaposizione nello
spazio. Sorge quindi la questione: la
molteplicitá dei nostri stati di
coscienza ha la minima analogia con la molteplicita (1) Opera citata, pag. 3135. Ne
I nemici della durata reale 29
delle unitáa di un numero? la vera durata ha il me- nomo rapporto con lo spazio? (1). Nell Estetica trascendentale Kant, con una
conce- zione che non differisce troppo
dalla credenza popolare, distingue lo
spazio dalla materia che lo riempie, gli
concede un esistenza indipendente dal suo contenuto. Lo spazio per Kant é un mezzo vuoto, infinito
e infi- nitamente divisibile, che si
presta indifferentemente a qualsiasi
modo di decomposizione; € una realtá senza
qualitá, una omogeneitá estesa, una maglia dalle reti che si possono fare e disfare a piacimento
(2). In questo spazio noi ci
rappresentiamo i numeri, le unita
omogenee, che non si penetrano, ma che sono su- scettibili di essere sbocconcellate
all'infinito e poste le une accanto alle
altre. Ossessionati da questa idea,
osserva Bergson, noi Pintroduciamo a
nostra insaputa nella rappresentazione
della successione pura della coscienza e proiettiamo nello spazio il tempo concreto, vale a dire la
durata reale, indi- visa nella sua
molteplicitá, una nella sua eterogeneita,
irreversibile nei suoi movimenti. In tal modoriesciamo a dividere i nostri stati interni, a
giustaporli, a percepirli
simultaneamente non piú l*uno nell'altro, fusi insieme come le note di una melodia, ma l'uno accanto
al- Paltro. 11 prima ed il poi non si
succedono piú, ma coesistono e prendono
per noi la forma di una catena, i cui
anelli si toccano senza penetrarsi. Cosi la conti- nuita dei fatti di coscienza viene
frazionata, ed i di- versi stati, con un
ordine che ci sembra reversibilis- simo,
si dispongono e si allineano in un mezzo
omogeneo ed indefinito. Il quale, nevvero, dovrebbe essere chiamato spazio ed invece... prende il
nome di tempo! (1) Essaz, pag. 69. (2) 7b01d., pag. 70 € Seg. 30 Esposizione della filosofia
beresoniana Ora, non é forse vero
che questo tempo kantiano e un concetto
bastardo, dovuto all'intrusione dell'idea
di spazio nel dominio della coscienza pura, e che questa pretesa forma dell'omogeneo deriva
dall'altra? Non é forse vero che il
tempo astratto non é che spazio? Bisogna persuadersi bene di ció, per non
confon- dere, come fece Kant, il tempo
astratto, spazia- lizzato, omogeneo, col
tempo concreto, ossia con la durata
reale. C'2 una differenza capitalissima tra
essi: poiché il primo non e che il simbolo e 1'ombra dell”altro, proiettato nello spazio. Noi, purtroppo, sostituiamo sovente, pet
ragioni che ricercheremo poi, il simbolo
alla realtá. Ma quando stacchiamo gli
occhi dall*ombra che ci segue; quando
con mano franca strappiamo il velo che si interpone tra la realtá e noi; quando, — non fermandoci
alla superficie del nostro io, dove le
sensazioni successive. pur fondendosi le
une nelle altre, ritengono qualche cosa
dell”esterioritá reciproca che ne caratterizza opgetti- vamente le cause, — gettiamo lo sguardo
indagatore nelle regioni piú profonde
della coscienza vivente; noi scor- giamo
che in questa non vi sono cose, ma progressi; vi notiamo momenti eterogenei che si penetrano,
si orga- nizzano, si mescolano in tal
maniera, che non si sa- prebbe dire se
sono uno o molti e nemmeno esami- narli
da questo punto di vista senza snaturarli tosto (1). Allora comprendiamo che la molteplicitá
qualitativa degli stati di coscienza,
riguardata nella sua purezza originale,
non presenta alcuna rassomiglianza con la
molteplicita distinta che forma un numero, e che al- lVinfuori di una rappresentazione simbolica,
il tempo non prenderebbe mai per noi
l'aspetto di un mezzo omogeneo. (1) Z61d., pag. 96 e 104. I nemici della durata reale 31 Una distinzione dunque si impone tra le due
forme della molteplicitá, tra le due
apprezziazioni della du- rata: luna é la
durata vera e concreta, la durata
eterogenea e vivente, la durata qualitá; Paltra e in- vece un simbolo morto, € la durata quantita,
e un un tempo materializzato per mezzo
di una proiezione nello spazio, € il
fantasma dello spazio che ci perse-
guita e ci ossessiona (1). Per
non essersi ricordati di questo, gli associazio- nisti hanno polverizzato la vita dello
spirito, risolven= dola in un aggregato
di elementi separati ed incon- trando
poi gli assurdi che la loro teoria suscita nella questione della libertá e nel problema della
memoria. Lo mostreremo ampiamente in
seguito e sempre ci accorgeremo che chi
calpesta i diritti della durata reale
solleva mille dispute inutili, insolubili ed eterne. Il giorno in cui avvenne la confusione di
quei due aspetti della vita cosciente,
del tempo con lo spazio, — cosl esclamava
Bergson in una conferenza al Col- lege
de France — si iniziarono i guai e le sciagure
della filosofia (2). Ma allora,
si domanderá, se la durata propriamente
detta non si divide e quindi non si misura, che cosa dividono e che cosa misurano le oscillazioni
del pen- dolo? 11 tempo che
l”astronomia, la fisica e la mecca- nica
introducono nelle loro formule, non é forse una
egrandezza divisibile, misurabile ed omogenea? Un esame attento, risponde il Bergson,
dissipera quest' ultima illusione. Quando
io seguo con gli occhi, sul quadrante
d'un orologio, il movimento della lan-
(1) Z01d., pag. 57-81. (2) Cfr.
GRIVET, art cit., in £tudes. - Riguardo alla spazia- lizzazione della durata, si vegga anche la
risposta del Bergson al Le Dantec in
Revue du mois, 1o settembre 1907 : L*évolution
créatrice. 32 Esposizione
della filosofia bergsoniana cetta che
corrisponde alle oscillazioni del pendolo, ¡o
non misuro la durata, ma mi limito a contare delle simultaneitá, cosa che e ben differente.
Fuori di me nello spazio, non c'é che
una posizione unica della lancetta e del
pendolo, poiché delle posizioni passate
nulla resta. Dentro di me, avviene un processo di organizzazione dei fatti di coscienza, che
costituisce la durata. E perché io duro
in questo modo, che mi rap- presento ció
che chiamo le oscillazioni passate del
pendolo, nello stesso tempo che percepisco 1'oscilla- zione attuale. Ora, sopprimiamo per un
istante l'¡o, che pensa le oscillazioni
successive; non vi sará che una sola
oscillazione del pendolo e quindi nessuna du-
rata. Sopprimiamo, dall*altra parte, il pendolo e le sue oscillazioniz non vi sará che la durata
eterogenea dell'io, senza momenti
esteriori gli uni agli altri, senza
rapporto col numero. Cosl nel nostro io, c'é succes- sione senza esterioritá reciproca; fuori di
me esterio- rita reciproca senza
successione, poiché la successione
esiste soltanto per uno spettatore cosciente, che ricordi il passato e giustaponga le due
oscillazioni e i loro simboli nello
spazio ausiliario. Tra queste due realtá
si produce un fenomeno d'endosmosi. Siccome
ciascuna delle fasi successive della nostra vita co- sciente, che si penetrano tra loro,
corrisponde ad una oscillazione del
pendolo, che le € simultanea; siccome
d'altra parte queste oscillazioni sono nettamente di- stinte, poiché l'una non c'é piú, quando si
produce l'altra, noi contraiamo
l'abitudine di stabilire la stessa
distinzione tra i momenti successivi della nostra vita cosciente; le oscillazioni del bilanciere la
decompon- gono in parti esteriori le une
alle altre: di qui l'idea erronea d'una
durata interna omogenea, analoga allo
spazio, i cui momenti identici si seguirebbero senza penetrarsi. Ma dall'altro lato le
oscillazioni pendolari, ciascuna delle
quali svanisce, quando l'altra appare,
I nemici della durata reale : 33
grazie al ricordo che la nostra coscienza organizza del loro complesso, si conservano, si allineano e
creano nella nostra fantasia il tempo
omogeneo (1). Cosi dalla comparazione
dello spazio, dove i fenomeni non du-
rano, e la durata reale, dove non vi sono che mo- menti eterogenei, nasce questa forma
illusoria d'un mezzo omogeneo ; il
trait-d'union tra 1 due termini é la
simultaneitá, che si potrebbe definire 1'intersezione del tempo con lo spazio. Ancora una volta, il
tempo omogeneo ed astratto é solo una
rappresentazione simbolica della vera
durata, dedotta dallo spazio. Se ora
sottoponiamo alla stessa analisi il concetto
di movimento, noi verremo ad un identico risul- tato (2).
lo ho la mano al punto A e la trasporto al punto B, percorrendo l'intervallo A-B. In questo
atto ¡o posso considerare due cose
: Innanzi tutto, lungo questo movimento
posso rap- presentarmi lo spazio
percorso, cioé le possibili fer- mate,
le stazioni del mobile, i punti per i quali la
mia mano passa. Queste posizioni, questi punti non sono nel movimento e neppure sotto il
movimento : sono semplicemente
proiettati da me sotto al moto, come
tanti luoghi dove sarebbe la mano, se si fer-
masse; sono quindi dei semplici punti di vista. Non basta : le stazioni, i punti sono
l'immobilita stessa ; anche
moltiplicindoli all'infinito, non si ricostruisce il moto. Il movimento sdrucciola
nell*intervallo. In breve: lillusione di
costruire il movimento con quelle posi-
(1) Essaz, pag. 8273. (2) Essai, pag. 78 e Seg. ;
Matiére el Mémotre, pag. 207 € Seg. ; La
perception du-changement, pag. 19 € Seg. Prego
i lettori a se- guire attentamente
l'analisi bergsoniana pel movimento : essa ha
dato origine alla famosa obiezione del Le Roy contro la prima delle cinque vie che, secondo S. Tommaso
conducono a Dio. Cfr. .LE ROY: Comment se pose le probleme de Dieu, l.
c. zioni immobili, implica l'assurdo che il movimento
+ immobilitá (1). Ma io posso riguardare anche l'atto col
quale per- corro quello spazio,
l'operazione ciog per cui la mano passa
da una posizione all'altra. Allora non ho piú
Una 'CoSa, ma un progresso ; ho una sintesi qualitativa, 'un'organizzazione graduale delle mie
sensazioni suc- cessive, un”unitá
analoga a quella d'una frase melo-
dica, 'un processo psichico e percid inesteso. In questo caso non ho piú i punti traversati, che non
erano che immobilita, ma ho la
traversata dei punti, cioé il vero
movimento. Ma anche qui si
produce un fenomeno d'endosmosi: da una
parte, siccome il movimento, una volta effet-
tuato ha deposto nello spazio una traiettoria immobile, divisibile all'infinito, noi attribuiamo al
movimento la divisibilitá stessa dello
spazio percorso, dimenticando che
l'immobilitá non coincide col movimento e che,
se si pud frazionare la traiettoria una volta creata, non si puó dividere la sua creazione, che non é
una cosa, ma un atto in progresso.
Dall'altra parte noi ci abi- tuiamo a
proiettare questo atto nello spazio, a solidi-
ficarlo, come se questo non significasse che anche fuori della coscienza il passato coesiste col
presente (2). E in questo modo che
sorge l'idolo del movimento omogeneo e
divisibile, il quale rappresenta - gioverá
ripeterlo - lo spazio percorso e non il moto stesso, le stazioni successive del mobile e non il
progresso per cui esso passa da una
posizione all'altra, il punto di riposo
e non lattivita, Pestremitá e non l'intervallo
della durata, in una parola l'immobilitá e non il mo- vimento ! Qual meraviglia se per queste
confusioni il (1) Cfr. anche /Zntrod.
a la Meétaph., trad. ital. pag. 49, Essaz,
pag. 84-5, Évol. cr. pag. 344, 393 etc.
(2) Essaí pag. 85, Évol. cr., 334.
I nemici della durata reale 35
problema del moto ha fatto nascere fin dalla piú re- mota antichitá mille questioni? 1 quattro
famosi ar- gomenti di Zenone d”Elea non
hanno altra origine di questa. Sia il
primo (della dicotomia), sia gli altri
(d*Achille e della tartaruga, della freccia, dello stadio) non fanno altro che scambiare il fatto
indivisibile del movimento con la
traiettoria infinitamente divisibile,
che quello descrive, e che non é altro che spazio im- mobile (1).
Ed e solo su quest'ultimo che riposa tutta la nostra fisica, anche quando si parla di tempo, di
moto, di velocitá. I trattati di meccanica infatti hanno cura
di notare che essi non definiscono la
durata stessa, ma l'egua- glianza di due
durate. Due intervalli di tempo, di-
cono essi, sono eguali, quando due corpi identici, posti nelle stesse circostanze al principio
di ciascuno di questi intervalli, e
sottomessi alle stesse azioni ed '
influenze di ogni specie, avranno percorso lo stesso spazio alla fine di questi intervalli. In
altre parole noi notiamo l'istante
preciso in cui il movimento comincia,
ciog la simultaneita d'un cangiamento esteriore con uno dei nostri stati psichici; notiamo il
momento in cui il movimento fluisce,
cioé una simultaneitá ancora; infine
misuriamo lo spazio percorso, la sola cosa che
di fatto sia misurabile. Qui non c'é dunque questione di durata, ma solo di spazio e di
simultaneitá (2), vale a dire
d'immobilitá. 11 tempo reale, che é un
flusso, ed € la mobilitá stessa dell'essere, sfugge alla conoscenza scientifica (3). Dal punto di
vista della (1) Essai, pag. 85-7, Mat.
et Mém. pag. 211-2; ÉvOol. cr. pag. 333
eseg.; Introd. a la Mét., trad. ital. pag. 52. La perception du changement, Conf. Il, pag. 20. (2) Essaz, pag. 88. (3) Lvol. cr., pag. 364. 36
Esposizione della filosofia bergsoniana
A e A E A scienza, ció che
conta non e P'intervallo di durata, che
noi viviamo e sentiamo, ma sono le stazioni del mo- bile, tanto € vero che se tuttii movimenti
dell”uni- verso si producessero due o
tre volte pid in fretta, non vi sarebbe
nulla da modificare ne alle nostre for-
mule né ai numeri che vi facciamo entrare (1). Edé evidente; poiché la scienza non tiene conto ná
della successione in ció che ha di
specifico, ne del tempo in ció che ha di
fluido; essa non si applica alla realtá
in ció che ha di movente, come i ponti lanciati su un fiume non seguono l'acqua che scorre sotto
le loro arcate (2). Analizziamo finalmente la nozione di velocitá.
La meccanica costruisce dappprima l'idea
d'un moto uniforme, rappresentandosi
d'un lato la traiettoria A B d'un certo
mobile, e dall'altro un fenomeno fisico
che si ripete indefinitamente in condizioni iden- tiche, per esempio la caduta d'una pietra,
che cade sempre dalla stessa altezza al
medesimo luogo. Se si notano sulla
traiettoria A B ¡ punti M, N, P.... rag-
giunti dal mobile in ciascuno dej momenti in cui la pietra tocca il suolo, e se gli intervalli A
M, MN, NP... sono riconusciuti eguali tra
loro, si dirá che il movimento e
uniforme e si chiamera velocita d'un mobile uno
qualunque di questi intervalli, purché si convenga di adottare come unitá di durata il fenomeno
fisico, che si é scelto come termine di
paragone. Si definisce dunque la
velocitá d'un movimento uniforme senza
fare appello ad altre nozioni che a quelle di spazio e di simultaneitá. Conclusione, questa, alla quale
si giun- gerebbe analizzando anche il
moto variato (3). Confessiamolo,
dunque; noi parliamo di tempo, (1)
Essaz, pag. 83-89, 148, cfr. anche £vol. C7., PAY. 10. (2) Evol. cr., pag. 366. (3) Essaz, pag. 89-90. E A
PA, ya) SAR e ná
I nemici della durata reale 37
pronunciamo questa parola, e pensiamo allo spazio. Discorriamo di movimento e ad esso
sostituiamo la simultaneitáa. Noi
insomma - esclamava Bergson nella prima
conferenza di Oxford - diciamo e ripetiamo che
tutto cangia, che il movimento esiste, che esso € la legge stessa della cose : ma intanto
ragioniamo e fi- losofiamo, come se il
cangiamento non esistesse. Per pensarlo
e per vederlo, bisogna rimuovere un velo
fitto di pregiudizi (1). (1) La
perception du changement, Conf. 1, pag. 4. In.
L' Intelligenza ed il Linguaggio
Chi vuole riprodurre per mezzo del cinematografo una scena animata, ad esempio la sfilata di
un reg- gimento, prende sul reggimento che
passa una serie di istantanee, e le
proietta sulla tela in modo che si
sostituiscano velocissimamente le une alle altre. Col movimento impersonale, astratto e semplice
dell*appa- recchio, e con fotografie,
ciascuna delle quali rappre- senta il
reggimento in un attitudine immobile, si rico-
stituisce la mobilitá dei soldati che passano. Il meccanismo della nostra conoscenza usuale
— dice il Bergson, e questa é una delle
idee a lui piú care, che sviluppó
lungamente del 1goo al 1904 nelle sue
lezioni al College de France, sopratutto in
un corso sulla storia dell'idea di tempo — é di na- tura cinematografica (1). Ne abbiamo una prova evidente nella
ricostruzione che il pensiero
concettuale fa del divenire continuo
della durata. Noi prendiamo delle vedute istantanee su questa realtá interiore che scorre, e poi
le infiliamo lungo un divenire astratto
ed uniforme, situato al (1) Évol. cr.,
pag. 329 € Seg. X 40 Esposizione della filosofia
beresoniana fondo
dell'apparecchio della coscienza. Quale valore
abbia questo divenire, che si vuol chiamare tempo omogeneo, l'abbiam gia visto nel capitolo
precedente; ora invece ricercheremo il
significato delle varie foto- grafie,
vale a dire dei concetti della nostra intelligenza, e del linguaggio con cui li enunciamo. pa
Qualunque sia il sistema filosofico che abbia le nostre preferenze, noi tutti siamo d'accordo
su due punti. Siamo pronti ciod a
concedere coi pensatori antichi e
moderni che un essere perfetto sarebbe colui
che conoscesse ogni cosa intuitivamente, senza aver bisogno di passare per l'intermediario del
ragionamento, dell'astrazione e della
generalizzazione. Inoltre tutti
affermiamo che le idee astratte e generali, i concetti, hanno solo il valore delle percezioni
eventuali da essi rappresentate : tanto
é vero che crollano come castelli di
carta il giorno in cui un fatto, un fatto solo real- mente percepito viene ad urtarli (1). Se si ammette questo, — e come non
ammetterlo ? — bisogna necessariamente
procedere oltre e conce- dere che ¡i
concetti coi quali esprimiamo la durata del
nostro io profondo, sono schemi morti che non ci danno la realtá, ma solo l'ombra di questa;
sono fo- tografie immobili, relative ad
uno speciale punto di vista, che non ci
possono servire in u na filosofia che
che vuol cogliere l'assoluto. La
durata infatti della nostra coscienza é un flusso continuo ed indiviso, dove tutto é
cangiamento. Eb- bene, cosa fa la nostra
intelligenza? Essa comincia a
distinguere e a dividere questa vita interiore e ne ot- tiene delle unitá artificiali, che chiama
sensazioni, sentimenti,
rappresentazioni, ecc. Riesce cos] a rappre-
(1) La perception du changement, Conf. 1, pag. 5-8. sentarsi il divenire come una serie di
stati, ciascuno dei quali non muta
punto; e se osserva la mutazione di uno
di essi, subito lo decompone in un seguito di
altri stati immobili, che costituiranno riuniti la sua modificazione esteriore, e cosl via, fin
quando non ha ottenuto degli elementi stabili.
L*intelligenza ha una viva ripugnanza
per ció che e fluido, solidifica tutto
ció che tocca, e non si rappresenta chiaramente che la immobilitá. Siccome quindi il reale, il
vissuto, il con- creto si riconosce per
il fatto che e la variabilita stessa, é
chiaro che coi concetti invariabili e fissi, con questi quadri rigidi ed inerti, non potremo
ricomporre la realta. Essi sono soltanto una ricostruzione
semplificata, spesso un semplice
simbolo, in ogni caso una veduta
immobile, presa sulla fugace successione della realtá che scorre (1). Non é vero, rispondera l'intelligenza; la
durata é unitá e molteplicitá: eccola
risolta in concetti, esat- tamente, ed
in concetti estratti d a essal — Ma é un tentativo vano di difesa. La nostra durata non
puó racchiudersi in una rappresentazione
concettuale. Se la si dichiara multipla,
la coscienza insorge ed afferma che le
mie sensazioni, i miei sentimenti, i miei pensieri sono astrazioni che opero su me stesso, e che
questi termini, invece di distinguersi
come quelli di una mol- teplicitáa
qualunque, si accavallano gli uni sugli altri.
Confessiamo dunque che, se c'é una molteplicita, questa molteplicitá non rassomiglia a nessun altra.
Diremo allora che la durata ha
dell?unita? Senza dubbio, una continuitá
di elementi che si prolungano gli uni negli
altri partecipa dell'unitá quanto della molteplicita; ma questa unitá -mobile, mutevole, colorata,
vivente, non (1) Cfr. Zntrod. á la
Mét., trad. ital. pag. 45, 48; Évol. cr.
pag. 50, 169, 177. 42
Esposizione della filosofia bergsoniana
rassomiglia affatto all?unitá astratta, immobile e vuota, che circoscrive il concetto di unitáa pura.
Conclude- remo da ció che la durata si
deve definire ad un tempo con lunitá e
la molteplicita? Ma, cosa strana, avró
un bel manipolare i due concetti, dosarli, com-
binarli diversamente insieme, praticar su di essi le piú sottili operazioni della chimica mentale,
non otterrd mai niente che somigli
all'intuizione semplice che ho della
durata; mentre se io mi rimetto nella durata con uno sforzo d'intuzione, m'accorgo subito come
essa é unita, molteplicitá e molte altre
cose ancora (1). In altre parole si
comprende che i concetti fissi pos- sono
essere estratti dal nostro pensiero dalla realtá mobile; ma non c'é modo di ricostruire, colla
fissitá dei concetti, la mobilitá del
reale (2). E del resto che che la
personalitá abbia dell”unitá, che il nostro io sia molteplice, é certo; ma ció che importa alla
filosofia é di sapere quale unitá, quale
molteplicita, guale realtá superiore
all'uno e al multiplo astratti, sia la
unitá molteplice della persona (3). Questo ¡ concetti né separati né riuniti non ce lo diranno mai;
tutto al piú faranno sorgere una tesi ed
un'antitesi, che invano cercheremo di
conciliare logicamente (4). E non si
dica che i concetti sono estratti dalla realtá : lo concediamo; ma da ció non si pud
concludere che vi erano contenuti. L”apparecchio fotografico estrae, da uno
spettacolo che si muove, delle vedute
immobiliz ma non ne segue che le
immobilita abbiano fatto parte del mo-
vimento. Tra la realtá ed i concetti ad essa piú. vi- cini, c'é lo stesso rapporto che tra la scena
animata e (1) Zntrod. á la Mét. trad.
it., pag. 29. (2) Z61d., pag. 63. (3) Zb1d., pag. 41; Cfr. anche Le
paralogisme psycophysique in Bulletin n.
cit., pag. 40. (4) Z01d., pag. 42. .
A la fotografia istantanea. Che
sarebbe poi, se si consi- derassero
tutti gli altri concetti, che sono meno an-
cora di questo, semplici note prese a proposito di questa realtá, ed anche, piú sovente, note
prese su queste note? (1) Non basta: per altre ragioni ancora dobbiamo
con- dannare l'intelligenza. Essa €
invaghita di semplicita, ha abitudini
tenaci e radicate di economia. Con pochi
principii, con pochi elementi, vuol ricomporre
tutto il reale, il quale invece € ridondante, é sovrab- bondante e colle sue innumerevoli
manifestazioni Ci attesta la sua ricca
feconditá. Tra la realtá vera e quella
dei filosofi, si puó stabilire lo stesso rapporto che esiste tra la vita che noi viviamo tutti
i giorni e quella che gli attori ci
rappresentano, la sera, sulla scena. Al
teatro ciascuno non dice che ció che bisogna
dire e non fa che ció che bisogna fare; vi sono delle scene ben tagliate; la rappresentazione ha un
prin- cipio, un mezzo, una fine; e tutto
é€ disposto colla massima parsimonia, in
vista d'uno scioglimento fe- lice o
tragico. Ma nella vitá c'e una folla di cose e
di gesti inutili, non vi sono situazioni nette; nulla avviene cosi semplicemente, cosl
completamente, cosl bellamente come
vorremmo; le scene si allargano le une
nelle altre, le cose non cominciano né finiscono, non c'é né uno scioglimento interamente
soddisfa- cente, ne gesti assolutamente
decisivi e via dicendo (2). Tale e la
vita nella sua feconda ricchezza. Come mai
questa potrá essere abbracciata dalle forme ischele- trite del pensiero, dai quadri
dell'intelletto, da pochi concetti
? (1) Bergson scrisse questo nella sua
lettera al Pitkin in The jour- nal of
phylosophy etc. num. cit. (2) BERGSON : Vérité et realité.
Introd. alla trad. franc. di un libro di
William James : Le pragmatisme, pag. 2-3.
44 Esposizione della filosofia
bergsoniana Tanto piú che noi
abbiamo visto che la durata €
originalita e imprevedibilitá per essenza. In essa non vi sono mai due istanti uguali; ogni momento della
sua storia porta qualche cosa di nuovo
che scaturisce senza posa nella
genialitá di uno slancio creatore. Se si
volessero vestire questi momenti, si dovrebbe ta- gliare un concetto appropriato a ciascuno di
essi, che a fatica si potrebbe chiamare
concetto, perché si ap- plicherebbe ad
una cosa sola. Invece l'intelligenza non
vede che l'aspetto ripetizione ; se il tutto é ori- ginale, essa l'analizza in aspetti, che sono
press'a poco la riproduzione del
passato. Essa non ammette la novita
completa né il divenire radicale, ma risolve la perenne invenzione creatrice della durata in elementi
conosciuti ed antichi, disposti in un
ordine differente (1). Per questo
procede con la combinazione di idee che si
trovano gia in commercio e nella sua incurabile pre- sunzione si immagina di possedere per diritto
di na- scita o per diritto di conquista,
innate o apprese, tutti gli elementi
essenziali della conoscenza della veritá.
Non le viene nemmeno il sospetto di dover creare per un momento nuovo un nuovo concetto, ma é
preoc- cupata solo di scegliere uno
degli abiti gia confezio- nati; vuol
trovare la categoria antica, il vecchio ca-
sellario, la rubrica usuale, l'etichetta di un concetto bello e fatto (2). L'intelligenza perció
comincia a tra- scurare la colorazione
speciale della persona, che non puó
esprimersi in termini noti e comuni. Poisi sforza, di isolare nella persona gia semplificata a
quel modo, il tale o tal'altro aspetto
che si presta ad uno studio
interessante, e lo erige in fatto indipendente, otte- nendo cosi un punto di vista sulla mobilitá
della vita interna, uno schema della
realtá concreta. É un la- (1) Évol.
cr., pag. 177 e Seg. (2) Zb1d., pag.
52-3, Introd, á la Mét., trad. ital. pag. 40-3. voro analogo a quello dun
artista, che, di passaggio a Parigi,
facesse, ad esempio, uno schizzo d'una torre
di Nótre-Dame. La torre é inseparabilmente legata all'edificio, che € legato, non meno
inseparabilmente, al suolo, ai dintorni,
a tutta Parigi ecc. Bisogna co- minciare
collo staccarla ; si noterá solo un certo aspetto dell'insieme. La torre é costituita da pietre
che le dánno, con la loro speciale
combinazione, la sua forma, ma il
disegnatore non si interessa alle pietre e non
nota che il profilo della torre. Egli sostituisce dunque all'organizzazione reale ed interna della
cosa una ricosti- tuzione interna e
schematica, in modo che il suo disegno
risponde, insomma, a un certo punto di vista sull*oggetto e alla scelta di un certo modo di
rappresentazione (1). Ora succede
precisamente lo stesso nell'operazione
colla quale estraiamo un concetto dall'insieme della persona: noi consideriamo.il tutto sotto un
certo aspetto elementare che si
interessa particolarmente e lo espri-
miamo con un concetto, che non ci dá l'assoluto, come non ce lo dá lo schizzo preso dalla torre di
Nótre- Dame. Quest'ultimo avrebbe potuto
essere diverso, se fosse stato ritratto
da un punto di vista differente; quello
pure non ci dá dell'oggetto in questione che
qualche tratto sommario, variabile secondo la dire- zione e Pangolo. L*analisi concettuale é
quindi relativa, poiché non si pone
nell*oggetto, ma gira attorno ad esso ed
e costretta a tradurlo in simboli, a confrontarlo con altre cose che giá crede di conoscere, a
espri- merlo in funzione di ció che esso
non é. Anche ag- giungendo descrizioni a
descrizioni, moltiplicando i punti di vista,
non ci dará mai una conoscenza per-
fetta : l'oggetto sará sempre la moneta d'oro di cui non si finisce di rendere il resto (2). E
quando si ten- (1) Zntrod. a la Mél.,
pag. 32-3. (2) Zb1d,, trad. ital. pag.
13-19. 46 Esposizione della filosofia
bergsoniana terá con la
moltitudine di queste rappresentazioni
simboliche, con le idee e con i concetti, di ricostruire la realtá assoluta, non vi si riuscirá, come
non riesce un bambino a fabbricarsi un
balocco solido con le ombre che si
profilano sui muri (1). Come e possi-
bile fabbricare la realtá, manipolando dei simboli? Come si potrá rappresentare la durata con una
serie di note, di rappresentazioni piú o
meno schematiche? Come si potrá comporre
una cosa con punti di vista ? (2). ES
* Ecco quindi spiegato 1”eterno
bisticciare delle scuole filosofiche, le
difficoltá inerenti alla metafísica, le an-
tinomie che fa sorgere, le contradizioni in cui cade, il pullulare di teorie antagoniste,
lopposizione irridu- cibile dei sistemi. Se la filosofia dev'essere fondata sui
concetti, non v'é e non vi pud essere
uma filosofia, ma vi saranno tante
filosofie, quanti sono i pensatori originali, che salgono alternativamente sulla scena, per
farsi applau- dire (3). Con un decreto
contestabile essi attribuiranno
un'importanza arbitraria ad un concetto o ad un altro, ad un punto di vista sulla realtá, che
impoverirá la visione concreta ed
eliminerá una moltitudine di differenze
qualitative. A questo decreto se ne potrá
sempre opporre un altro e cosi sorgeranno varie filo- sofie, armate di differenti concetti e capaci
di lottare indefinitamente tra
loro. E allora che si avanzano le
dottrine scettiche, idealiste e
criticiste, che, constatando Pimpossibilita di (1) Z01d., pag. 31. (2) Zbid., pag. 50.
(3) Z61d., pag. 27 e Seg.; Bulletin de la Soc. fr. de phil., 1901, pag. 50; La perception du changement, Conf. I, pag. 7-6.
L'intelligenza ed il linguaggio 47
far entrare il reale nei vestimenti di confezione che sono le nostre idee, proclameranno con Kant la
relativitá della conoscenza (1). Dopo
troppo orgoglio si finisce con un
eccesso di umiltá. Dopo la pretesa assurda di voler racchiudere negli schemi concettuali la
ricchezza ine- sauribile dello spirito
vivente e di voler cogliere con formule
fisse ed immutabili il rinnovarsi incessante
d'una primavea eterna, eternamente nuova ed ine- sauribile nelle sue creazioni, la ragione
umana giunge con orgogliosa modestia a
dichiarare il proprio falli- mento e
l'impossibilitá della metafísica (2). A
questa triste e sconsolata conclusione non si
sarebbe giunti, se si fosse incominciato a valutare con sereno giudizio la natura dell'intelligenza
nostra, scien- tifica o metafisica che
sia; se nel tempo spazializzato, nel
movimento omogeneo, nei concetti astratti, nelle idee generali, si fosse riconosciuto una
conoscenza esclusivamente pratica,
orientata verso il profitto che ne
vogliano ricavare. Ce ne persuaderemo, esami-
nando la funzione naturale dell'intelligenza, 1'origine delle idee generali e la natura propria del
linguaggio. *k * Se
potessimo spogliarci della nostra superba fierezza, se per definire la nostra specie ci tenessimo
stretta- mente a ció che la storia e la
preistoria ci presentano come la
caratteristica costante dell'uomo, noi non di-
remmo homo sapiens, ma homo faber. Originaria- mente noi non pensiamo, che per agire. La
specula- zione é un lusso, mentre
l'azione é una necessitá. Ed e nella
forma dellazione che la nostra intelligenza é
stata fusa; essa non e la facolta di fabbricare sistemi (1) Introd. a la Mét., pag. 72-6. (2) Évol. cr., pag MI. 48 Esposizione della filosofia
bergsoniana di metafisica, bensi di
preparare strumenti artificiali. Stretta
dalle esigenze della vita pratica, la sua atti-
vitá si esercita esclusivamente sulla materia bruta, nel senso che anche quando adopera materiali
orga- nizzati, li tratta sempre come
oggetti inerti. Della stessa materia
bruta non ritiene che il solido, e non
si rappresenta chiaramente che il discontinuo ; perció considera ogni oggetto decomponibile in
parti arbitra- mente tagliate,
esteriori 1*una all'altra e alla loro volta
divisibili all'infinito; la realtá ultima, 1*elemento estremo é sempre per essa qualche cosa di stabile e
di immo- bile. Questo é utile e questo
le basta ; la fluidita e la continuitá
non l'interessano. Poi, per le esigenze della
vita pratica e sociale, l'intelligenza da alle cose esterne un nome, estensibile ad un'infinita di
oggetti. Nascono cosl le idee, i
concetti, che naturalmente sono este-
riori fra loro, come i modelli sui quali furono formati; sono fissi ed inerti come il mondo dei
solidi; sono simboli piú leggieri, piú
diafani, piú facili a manipo- lare
dell'immagine pura e semplice delle cose concrete. La logica non é che l'insieme delle regole
che bisogna seguire, per maneggiare
questi simboli. I nostri concetti
perció sono stati creati da un?atti-
vitá che non era destinata alla speculazione pura, ma era orientata verso l'azione : dall”azione
soltanto eb- bero origine le idee
generali (1). Se si riflettesse a
questo, scomparirebbe il circolo vizioso
che il problema delle idee generali sembra pre-
sentare : per generalizzare bisogna astrarre, ma per astrarre utilmente bisogna saper
generalizzare. Intorno a questo circolo
gravitano concettualismo e nomina-
lismo, ognuno dei quali ha sopratutto per sé l'insuf- ficienza dell”altro. 1 nominalisti hanno il
torto di non dirci come mai il nome
generale puó applicarsi a (1) Z61d.,
pag. 149 € Seg. L'intelligenza
ed il linguaggio 49 molti oggetti, se
questi non presentano rassomiglianze tra
loro, se cioé la generalizzazione non fu preceduta da una estrazione di qualitá comuni. Í
concettualisti -si dimenticano di dirci
se le qualitá individuali, anche isolate
con uno sforzo di astrazione, non restano indi-
viduali come prima, e se per apparire comuni non hanno dovuto giá subire un lavoro di
generalizzazione. Gli uni e gli altri
suppongono che noi partiamo dalla per-
cezione di oggetti individuali. Ora questo postulato e falso. La nostra percezione delle cose ha
origini tutte utilitarie. Ció che ci
interessa in una data si- tuazione e ció
che cogliamo dapprima, é il lato per cui
essa pud rispondere ad una tendenza o ad bisogno: ed il bisogno va diritto alla qualita, alla
rassomiglianza, e non ha a che fare
colle differenze individuali. Questa
rassomiglianza agisce oggettivamente come una forza e provoca reazioni identiche in virtú della
legge tutta fisica che vuole che gli
effetti d'insieme seguano le stesse
cause profonde. L”identitá di reazioni ad azioni superficialmente diverse e il germe che la
coscienza umana sviluppa in idee
generali. Siamo quindi libe- rati dal
circolo vizioso, nel quale sembravamo rinchiusi: per generalizzare, dicemmo, bisogna astrarre
le rasso- miglianze, ma per far questo
bisogna giá saper gene- ralizzare. La
verita e che la rassomiglianza dalla quale lo
spirito parte, quando dapprima estrae, non é la rasso- miglianza alla quale giunge, quando,
coscientemente, generalizza. Quella da
cui parte é una rassomiglianza sentita,
vissuta, automaticamente rappresentata; quella
a cui riviene é una rassomiglianza intelligentemente per- cepita o pensata. Nel corso di questo
progresso si co- struisce l'idea chiara
della generalitá, che ai suoi inizi non
era che la coscienza d*un'identita d'attitudine in una diversita di situazioni. Con uno sforzo
di riflessione siamo passati all'idea
generale del genere, per for- mare poi
un numero illimitato di nozioni generali, le
F. OLGIATI 4 50 Esposizione
della filosofia bergsoniana
quali perció nacquero non dalla speculazione disinte- ressata, ma dallazione (1). Da questa ebbero origine anche tutti i prin- cipii. Nel primo Congresso internazionale di
filosofía, tenutosi a Parigi nell'Agosto
1900, Bergson cercó di dimostrare questa
tesi, per quello che riguarda il prin-
cipio di causalita. In quella
sua Note sur les origines psychologiques
de notre croyance ú la loi de causalité (2), egli so- stenne che la nostra credenza a questa legge
€ vissuta dal nostro corpo, prima di essere
pensata dal nostro spirito. L*acquisto
graduale di questa credenza non fa che
una cosa sola con la coordinazione progressiva
delle nostre impressioni tattili alle nostre impressioni visuali, coordinazione che implica l'intervento
di mo- vimenti e sopratutto di tendenze
motrici. La percezione ripetuta di una
forma visuale determinata crea in noi
un'aspettazione macchinale di percezioni tattili deter- minate ; la forma visuale, che si continua
cosi rego- larmente in resistenza, ci
appare a poco a poco come la causa di
questa resistenza. Ed a poco a poco anche
le forme visuali in generale, vale a dire gli oggetti esteriori, ci appaiono come forze che
agiscono rego- larmente le une sulle
altre. La riflessione, esercitan- dosi
su questa credenza, deduce il principio di cau-
salita sotto la sua forma precisa e scientifica. La necessita inerente alla legge di causalitá si
muove cosl tra due limiti estremi: da
necessita vissuta di- viene necessita
pensata. Empirismo ed apriorismo si
accordano a non tener conto che della seconda di queste due forme della necessita; € per
questo che (1) Questa analisi
sull'origine e la natura delle idee generali
si trova in Matiére et Mémoire, pag. 169 e seg. (2) Questo discorso si trova in Bibliot. du
Congrés Intern, de Philos., Vol. 1,
Philos, gén. et meétaphys.,
L*intelligenza ed il linguaggio 51
né Puno né l'altro ci dá una spiegazione veramente psicologica della nostra credenza ai
principii (1). * * xk
Se ¡ concetti, le idee, i principii derivano non gia dalla speculazione, ma dalla vita, e
precisamente dalle relazioni nostre con
la materia bruta, € evidente in- nanzi
tutto che l'intelligenza raggiunge con essi la
realtáa, quando si ferma nel dominio della materia inerte. L'azione nostra non potrebbe muoversi
nel- Virreale e perció, purché non si
consideri della fisica che la sua forma
generale e non il dettaglio della sua
realizzazione od il simbolismo delle sue leggi,
pud dire che essa tocca l'assoluto (2). S1, ripeteva Bergson contro coloro che lo accusavano di
anti-intellet- tualismo; io dico che
quando l'intelligenza umana e la scienza
positiva si esercitano sul loro proprio 0g-
getto, sono in contatto col reale e penetrano sempre piú nell'assoluto (3). Ma il male é, che quando Pintelligenza opera
non piú sulla materia bruta, ma sulla
durata reale o sulla vita (che, come
vedremo, presenta tutti caratteri della
durata), tratta il vivente come l'inerte, applicando al novello oggetto le stesse forme, proprie dei
corpi inor- ganizzati, trasportando nel
nuovo dominio le mede- simi abitudini
contratte nell'antico campo (4). Ed essa
ha ragione di farlo, poiché a questa condizione
soltanto, il vivente offrirá alla nostra azione la stessa (1) Ho utilizzato il sunto fedele che del
discorso del Bergson diede la Revue de
Métaphys. et de Mor. settembre 1900, pag. 655
e seg. Évol. cr. pag. 216. (3) BERGSON ; A propos de l 'Evolution de
Pintelligence géome- trique, in Revue de
mél. et de mor ale, Gennaio 1908, pag. 30.
(4) vol. cr., Pag. 213-14. 52 Esposizione della filosofia
bergsoniana presa della materia
inerte. Ma resti inteso che la ve- rita alla
quale allora si giunge, diviene tutta relativa
alla nostra facoltá di agire e non é piú che una ve- rita simbolica, Nel nuovo dominio
l'intelligenza non é piú un sole che
illumina il mondo, ma una lanterna
manovrata al fondo d'un sotterraneo (1). q
Noi peró dimentichiamo tutto questo, sedotti dalla grande causa di mille errori, il linguaggio, Creato per designare le cose e null'altro
che le cose, il linguaggio, quando lo si
applica alle idee, esige che noi vi
stabiliamo le stesse distinzioni nette e precise, la stessa discontinuita che c'é tra gli
oggetti mate- teriali (2). Si vuole una
prova convincente? Quando noi diciamo
che nella nostra durata molti stati di
coscienza s*organizzano tra loro, si penetrano, s'arric- chiscono sempre piú; adoperando la parola «
molti », abbiamo isolati questi stati,
li abbiamo esteriorizzati e glustaposti;
coll'espressione stessa, alla quale eravamo
obbligati a ricorrere, abbiamo tradito l'abitudine pro- fondamente radicata di sviluppare il tempo
nello spazio (3). Per portare un altro
esempio: quando si dice «il fanciullo
diviene uomo », se riflettessimo bene,
vedremmo che allorché poniamo il soggetto « fan- ciullo », Pattributo « uomo » non gli si
addice ancora, e quando enunciamo
l'attributo « uomo » questo non si
applica gia piú al soggetto « fanciullo ». La realta, che € la transizione dall'infanzia all” etá
matura, a ci e sfuggita, ci € sdrucciolata tra le
dita (4). (1) Zbid., pag. II. Cfr. anche
in Fot et Vie 1911, fasc. IV, PD. 421:
BERGSON : Les réalitlés que la Science n'atteint pas. (2)
Essaz, pag. VII. (3) Z01d., pag.
92-3. (4) Evol. cr., pag. 338-9. A AA ==
Il nostro modo abituale di parlare € consono alle abitudini cinematografiche della nostra
intelligenza € non sa cogliere 1”aspetto
infinitamente mobile ed ine- sprimibile,
che ci presentano le percezioni, le sensa-
zioni, le emozioni, le idee, senza fissarne e distrug- gerne la mobilita (1). É il linguaggio che ci
fa confondere il sentimento intimo in
perpetuo divenire, coll'oggetto
esteriore che lo causa e con la parola che
esprime questo oggetto, facendoci attribuire alle im- pressioni, che cangiano continuamente,
contorni pre- cisi e l'immobilitá (2). E
il linguaggio che ci fa soli- ficare le
nostre sensazioni. Un sapore, un profumo mi
sono piaciuti quando era fanciullo ed ora mi ripu- gnano; tuttavia io do ancora lo stesso nome
alla sen- sazione provata e parlo come
se il profumo edil sapore fossero
restati identici ed i miei gusti soli aves-
sero cambiato. Mentre tutte le sensazioni si modificano ripetendosi, il linguaggio ci fa credere alla
loro immobi- litá; la parola dai
contorni ben definiti, la parola
brutale, che immagazzina ció che c'é di stabile, di comune, di impersonale nelle impressioni
dell?uma- nitaá, schiaccia o almeno
ricopre le impressioni delicate e
fuggitive della nostra coscienza individuale e special- mente i nostri sentimenti. Essa deforma
l”originalitá d'un amore violento, d'una
melanconia profonda; se- para nella loro
massa confusa una molteplicitá di
elementi che dispone poi in un mezzo omogeneo; ruba ai nostri sentimenti la loro indefinibile
anima- zione, il loro colore, e poi vi
appiccica sopra un nome e li erige in un
genere; e dopo aver spogliato questi
stati d'animo di tutto ció che essi avevano di intimo, di personale, di tutte le loro sfumature
fuggenti e delle lora risonanze
profonde, pretende di averci fatto cono- Essaz,scere meglio noi stessi, mentre
non ha fatto altro che stendere dinanzi
a noi la tela abilmente tessuta del
nostro io convenzionale (1).
Anche riguardo alle nostre idee, se le cogliessimo in sé stesse, ci accorgeremmo che la
dissociazione dei loro elementi
costitutivi, che mette capo all*astrazione,
per quanto comoda nella vita ordinaria e nella discus- sione filosofica, assomiglia alla
dissociazione degli stati di coscienza.
Anche le nostre idee hanno uno slancio
comune, presentano una penetrazione mutua;
esse non hanno la forma banale, che loro dá il lin- guaggio, ma vivono in noi come cellule in un
orga- nismo, modificandosi ad ogni
nostra mutazione. Certo, non tutte
queste idee si incorporano cosi alla massa
dei nostri stati di coscienza: quelle che riceviamo tutte fatte, che rimangono in noi senza venir
assimi- litate dalla nostra sostanza e
che giacciono dissecate nell'abbandono,
sono adeguatamente esprimibili con
parole; ma se penetriamo negli strati piú profondi dell'io, assisteremo alla fusione intima di
idee, che, una volta dissociate,
sembrano escludersi sotto forma di
termini logicamente contradditorii (2).
* * X Con tutto questo noi non disprezziamo
I'intelli- genza né neghiamo /utilitá
del linguaggio, come non contestiamo
l'importanza dei biglietti di banca (3). La
nostra vita esteriore e sociale esige giustamente che sotto l'estensione reale delle cose noi
stendiamo uno spazio omogeneo; che
sbocconcelliamo la fluida con- tinuitá
della durata in tanti momenti ben distinti, in (1) Essat pag. 99 e seg.; Le Rire, pag.
157. (a) Essaií, pag. 103-4. (3) La perception du changement, pag. 5. L'intelligenza ed il linguaggio ls 'tanti stati nettamente caratterizzati; che
applichiamo al vivente i concetti, le
idee, il linguaggio derivati dalla
materia inerte. Solo a questo modo, con questi
principi di divisione e di solidificazione, la nostra at- tivita pud avere dei punti di applicazione:
nulla di piú legittimo nel campo
dell'azione. Ma pretendere di penetrare
la natura intima ed il fluire concreto
della realtá con questo linguaggio, con
questi schemi rigidi, con queste idee generali, con queste astrazioni concettuali, significa
voler traspor- tare nella speculazione
pura un procedimento fatto per la vita
pratica. Se non vogliamo baloccarci con sim-
boli, praticamente utili, ma assolutamente inefficaci nel raggiungimento dell'assoluto; se vogliamo
arrivare ad una conoscenza
disinteressata ma vera; Se vo- gliamo la
filosofia ; dobbiamo avere il coraggio di atter- rare con mano inesorabile gli idoli del
linguaggio ed i concetti
dell'intelligenza. a - Aya
pe y EE (5 IV.
L'Intuizione L”intelligenza
umama - tale fu la conclusione del
capitolo precedente - non e affatto quella che ci mo- strava Platone nell”allegoria della caverna.
Essa non ha Pufficio di guardare ombre
vane che passano, né di contemplare
voltandosi l”astro splendente. Ha da far
altro: aggiogati, come bovi da lavoro, ad un com- pito pesante, noi sentiamo il giogo dei
nostri muscoli e la resistenza della
terra; agire e sapersi agire, en- trare
in contatto colla realtá e anche riviverla, ma solo nella misura in cui interessa il lavoro
che si fa ed il solco che si apre, ecco
la funzione dell'intelli- genza umana
(1). O la filosofia quindi non €
possibile ed ogni co- noscenza delle
cose é una conoscenza pratica orientata
verso il profitto che vogliamo trarre, oppure filosofare consiste non giá nel prendere delle idee gia
fatte per dosarle e per combinarle
insieme, ma nel rovesciare, nell'invertire
il lavoro abituale del pensiero, nel porsi
nel oggetto stesso, nel tuffarci d'un colpo nel fluire della durata per adottarne la direzione
mutevole senza posa, e per afferrarla
con uno sforzo d'intuizione (2). Che
cos'é quest'intuizione ? (1) Évol cr.,
pag. 209 (trad. Papini). (2) Introd. a
la Métaph., trad. ital., Se ¡o potessi coincidere per un istante col
personaggio di un romanzo, di cui mi
raccontano le avventure, la mia
conoscenza non sarebbe relativa ed imperfetta,
ma mi parrebbe di veder sgorgare naturalmente, come dalla sorgente, le sue azioni, i suoi gesti,
le sue pa- role. lo coglierei ció che costituisce
la sua essenza in tutta la completezza
delle sue perfezioni, e proverei un
sentimento semplice, che si presterebbe nello stesso tempo ad un apprendimento indivisibile e ad
una ine- sauribile enumerazione (1).
Ecco che cos*e P'intuizione: e quella
specie di simpatia divinatrice (2), per cui ci
si trasporta nell'interno di un oggetto per coincidere con ció che ha di unico e per conseguenza di
inesprimi- bile (3); €
quell'auscultazione intima che ci fa acco-
stare alla realtá, per sentirne palpitare l'anima (4) e vi si inserisce, per coglierla al di fuori di
ogni espressione, traduzione o
rappresentazione simbolica (5). Essa sola,
dove é possibile, pud darci la vera metafísica, la scienza cioé che vuol fare a meno dei simboli e che
raggiunge Passoluto (6). Diciamolo subito : questa facoltá non ha
nulla di misterioso (7). Non é
necessario, per andare all'intui- zione,
di trasportarsi fuori del dominio dei sensi e della coscienza, come falsamente credette Kant (8).
Essa Z01d., pag. 13-17. (2) Bergson nell'Zntrod. a la Met. (scritta
nel 1093) diceva « simpatia
2ntellettuale ». Ma come bene osservano il Ségond ed il Le Roy, egli dopo 1'Evolution créatrice,
non userebbe piu quella parola. (3) Zntrod. a la Mét., trad. ital., pag. 17. (4) Zbid., pag. 39. (5) Zótd., pag. 19 (6) Zbtd., pag. 19. (7)
Zbid., pag. 80. (8) L*imtuition
philosophique, riv. cit., pag. 827. non é altro che uno sforzo penoso, perfino
doloroso, di risalire la china abituale
del lavoro del pensiero (1), di disfare
i prodotti artificiali creati dall'intelligenza per facilitare la nostra azione sulle cose, di
mettersi subito per una specie di
dilatazione intellettuale nell*oggetto
che si studia, per andare dalla realtá ai concetti e non dai concetti alla realtá (2). Gli inizii di questa intuizione filosofica
sono segnati dal buon senso (3). Questo,
che tanto differisce dal senso comune, é
un senso del reale, del concreto,
dell*originale, del vivente, un'arte di equilibrio e di precisione, un senso della complessitá, in
palpazione continua, come le antenne di
certi insetti. Esso implica una certa
diffidenza della facoltá logica di fronte a sé
stessa; fa una guerra incessante all'automatismo in- tellettuale, alle idee tutte fatte, alla
deduzione lineare. Si preoccupa
sopratutto di collocare e di pesare senza
nulla disconoscere ; arresta lo sviluppo di ogni prin- cipio e di ogni metodo al punto preciso in
cui un*ap- plicazione troppo brutale
offenderebbe la delicatezza del reale;
ad ogni momento raccoglie l'insieme della
nostra esperienza e l'organizza in vista del presente. Esso, in una parola é pensiero che si
conserva libero, attivitá che sta in
guardia, flessibilitá di attitudine,
attenzione alla vita, accomodamento sempre rinnovato a situazioni sempre nuove. Da questo contatto
mobile col dato, da questo sforzo vivente
di simpatia, deriva la sua virtú
rivelatrice. Ecco ció che noi dobbiamo
tendere a trasportare dall'ordine pratico all*ordine spe- (1) Zntrod. dá la Met. trad. ital., pag.
53. (2) Z01d., pag. 53-54. (3) BERGSON: Le bon sems et les études
classiques, discorso pronunciato alla
distribuzione dei premi del Concorso generale,
il 30 luglio 1895. 60
Esposizione della filosofla bergsoniana
culativo (1) e che gia abbiamo compiuto, quando spo- gliandola dai simboli che la ricoprivano,
abbiamo cercato di cogliere la durata
del nostro.io. Mentre l'intelligenza,
costretta a prendere delle vedute immo-
bili sul movimento e a scoprire ripetizioni lungo ció che non si ripete, attenta a dividere
comodamente l'indivisibilita della
nostra coscienza, era obbligata a
gilocar d*astuzia con la realtá e ad assumere in faccia ad essa un'attitudine di diffidenza e di
lotta, noi ab- biamo trattato questa
realtáa en camarade, abbiamo
simpatizzato col nostro io, e con questo sforzo d'in- tuizione abbiamo oltrepassato l'intelligenza
(2). ES * X
Queste parole suggeriscono subito l'idea di un cir- colo vizioso. Invano si dirá, pretendete di
andar piú in lá dell'intelligenza ; come
otterrete questo, se non con
l'intelligenza stessa ? L'obiezione si
presenta naturalmente allo spirito, ma
con un simile ragionamento si proverebbe l'impos- sibilitá di acquistare qualsiasi abitudine
nuova. L*es- senza del ragionamento sta
nel rinchiudersi nel cerchio del dato.
Ma l'azione rompe il cerchio. Se voi non
aveste mai visto nuotare un uomo, mi direste forse che nuotare é una cosa impossibile, giacché
per im- parare a nuotare, bisognerebbe
cominciare a reggersi nell'acqua, e per
conseguenza saper nuotare di gia.
Infatti il ragionamento m'inchiodera sempre alla terra ferma. Ma se io mi butto nell'acqua senza
aver paura, dapprima mi sosterró alla meglio,
dibattendomi contro di essa, a poco a
poco mi adatteró a questo nuovo (1) Il
sunto di questo discorso sul buon senso € dato dal LE ROY, op. cit., pag. 135. Di esso mi sono
servito. (2) Z'intuition philosophique,
riv. cit. pag. 824-825.ambiente e impareró a nuotare. Cosi, in teoria, é
un assurdo voler conoscere altrimenti
che coll'intelligenza, ma se si accetta
francamente il rischio, l”azione toglierá
forse il nodo che ha intrecciato il ragionamento e che questo non scioglierá (1). * *
x Ma se la metafisica deve procedere
per intuizione, se l'intuizione ha per
oggetto la mobilitá della durata, e se
la durata € d'essenza psicologica, non corriamo
il rischio di rinchiudere il filosofo nella contemplazione esclusiva di sé stesso ? La risposta a questa difficolta dev'essere
data da tutto l'insieme dell'opera
bergsoniana, che procurerá di mostrare
come noi possiamo simpatizzare con altre
realtá ed inserirci in esse con uno sforzo di immagi- nazione. Questo lo possiamo giá comprendere
fin d'ora, osservando che l'intuizione
di cui parliamo non é un atto unico, ma
una serie indefinita di atti, tutti senza
dubbio, del medesimo genere, ma ciascuno di una specie particolare, e che questa diversita di
atti cor- risponde a tutti i gradi
dell'essere. Se io cerco di analizzare
la durata, cioé di risolverla in
concetti belle fatti, sono obbligato a prendere sulla durata in generale due vedute opposte, colle
quali, dopo, tenteró di ricomporla. Diró
che da una parte c'é un*unitá e
dall'altra una molteplicita di stati di
coscienza e che la durata e la sintesi di questa unita e di questa molteplicitá. Questa
combinazione, che ha del resto qualcosa
di miracoloso e di misterioso, non pud
presentare né una diversitá di gradi, né una
varietá di forme e di sfumature: in questa ipotesi non c'é e non ci pud essere che una durata
unica. (1) £vol. cr., pag. 209-10 (trad,
Papini). 62 Esposizione della
filosofia bergsoniana Ma se invece di
voler analizzare la durata e di farne la
sintesi con dei concetti, ci s'installa subito in essa con uno sforzo d'intuizione, si ha il
sentimento di una certa temsione ben
determinata, di cui la stessa
determinazione appare come una scelta fra un'infinita di durate possibili. Allora scorgiamo tante
durate quante vogliamo, tutte molto
differenti tra loro, benché ciascuna di
esse, ridotta a concetti, si riconduca sempre
alla medesima combinazione indefinibile del molteplice e dell'uno. Cosi l'intuizione della nostra
durata, ben lungi dal lasciarci sospesi
nel vuoto, come farebbe la pura analisi,
ci mette in contatto con tutta una con-
tinuitá di durate che dobbiamo tentar di seguire, sia verso il basso sia verso l'alto: mei due casi
possiamo dilatarci indefinitamente, con
uno sforzo sempre pid violento; nei due
casi trascendiamo noi stessi. Nel primo
andiamo verso una durata sempre piú sparpa-
gliata, i cui palpiti, piú rapidi dei nostri, dividendo la nostra senzazione semplice, ne diluiscono la
qualitá in quantitá: al limite sarebbe
il puro omogeneo, la pura ripetizione,
colla quale definiremo la materialita.
Andando nell*altro senso, andiamo ad una durata che si tende, si serra, si intensifica sempre
piú: al limite sarebbe l'eternitáa. Non
piú leternitá concettuale, che e
eternitá di morte, ma una eternitá di vita. L'in- tuizione si muove fra questi due limiti
estremi e questo movimento é la stessa
metafísica (1). * *x*
Voi vi contradite, hanno osservato altri; se la nostra intelligenza ha delle abitudini statiche,
come potrá comprendere il flusso del
reale? A Wildon Carr (2) che gli
presentava questa obie- (1) Introd. á
la Mét. trad. ital. pag. 55-60. (2) In
Proceedings of Aristotelian Society, 1908-9, pag. 208. L*intuizione 63 zione, Bergson rispose che la nostra
intelligenza e cir- condata da una
frangia d'intuizione che ci permette di
simpatizzare con ció che c'é di propriamente vitale nella vita. Se a questa frangia si vuol dare
il nome d'intelligenza, si é liberi di
farlo, ma si estenderá troppo il senso
della parola; ed a dire il vero, questa
frangia d'intuizione sembra che rassomigli meno alla intelligenza che all'istinto, che é quasi
l”opposto del- Pintelligenza (1). . Siccome questo confronto tra imtuizione e
istimto ricorre spesso nella pagine di
Bergson e diede luogo a molti malintesi,
contro i quali egli stesso ha prote-
stato (2), € necessario ricercare quale sia il pensiero preciso del filosofo francese. Nell Evolution créatrice, quando affronta il
pro- blema della vita, Bergson tenterá
di mostrare che la vita, dalle sue
origini in poi, non é che la continua-
zione d'un solo e medesimo slancio, che si € poi di- viso in linee di evoluzioni divergenti (3).
Lo sviluppo di quell”unico impulso ha
dissociato cosl tendenze che non
potevano crescere al di lá di un certo punto,
senza divenire incompatibili tra loro; ma che peró, nonostante la divergenza dei loro effetti,
conservano qualche cosa di comune per
l'identitá della loro ori- gine. Cosi,
ad es., lo slancio iniziale s'é scisso in in-
telligenza nell”uomo e in istinto negli-«animali, in modo che ogni istinto concreto é mescolato
d'intelligenza ed ogni intelligenza
reale e penetrata d'istinto (4). É per
questo che noi non siamo pure intelligenze, ma che intorno al nostro pensiero concettuale e
logico é re- (1) Cír. Proceedings of
Arist. Society, 1908-9, pag. 220. (2) A
propos de l'évolution de l'intell. géom., riv. cit., pa- gina 30.
(3) vol. cr., pag. 57. (4)
701d., pag. 148. 64 Esposizione della
filosofia beresoniana stata una
nebulosita vaga, fatta della sostanza stessa
alle cui spese si € formato il nocciolo luminoso che noi chiamiamo intelligenza (1); accanto alla
zona ri- schiarata, c'é una frangia
oscura che va a perdersi nella notte
(2). Se questa frangia indistinta
esiste, essa deve avere per il filosofo
una importanza maggiore del nucleo lu-
minoso che essa circonda (3). Che pud essere infatti questa frangia inutile, se non la parte del
principio. evolventesi, che non si €
ristretta alla. forma speciale della
nostra organizzazione e che € passata in contra- bando? (4). Ed appunto perché questa
intuizione vaga non c'é d'alcun aiuto
per dirigere la nostra azione sulle
cose, azione interamente localizzata alla super- ficie del reale, non possiamo noi presumere
che essa non si esercita semplicemente
in superficie, ma in profonditá ? (5). É
qui dunque che dobbiamo cercare le
indicazioni per dilatare la forma intellettuale del nostro pensiero; é qui che attingeremo lo
slancio ne- cessario per innalzarci al disopra
di noi stessi (6) e per trovare certe
potenze complementari dell'intelletto,
potenze di cui non abbiamo che un sentimento con- fuso, quando restiamo in noi, ma che si
rischiarano e si distinguono, quando
percepiscono sé stesse al- Popera,
nellevoluzione della natura (7). La
conoscenza intuitiva di questa frangia ha molta
rassomiglianza colla conoscenza propria dell'istinto. (1) Z61d., pag. 5. (2) Cosi disse Bergson al Congresso di
filos. di Parigi nel 1900 in una
discussione col Weber. Cfr. Revue de métaph. et de morale.
Settembre 1900, pag. 662. (3) Evol.
cr., pag. 50. (4 Z01d., pag. 53. (5) Zbid., pag. so. (6) Z01d., pag. 53. (7) Zbid., pag. V-VI. L*intuizione
63 Per quanto l'istinto non abbracci
che la piccolissima porzione di vita che
l'interessa e sia necessariamente
specializzato ; per quanto si esteriorizzi in azione, in- vece di interiorizzarsi in coscienza e tenda
assai verso l'incoscienza ; pure bisogna
riconoscere che esso € orientato verso
la vita e non fa altro che continuare il
lavoro per il quale la vita organizza la materia, a tal punto che non sapremmo dire dove finisce
l'orga- nizzazione e dove comincia
l'istinto (1). II quale coglie il suo
oggetto, al di dentro, non per un processo di
conoscenza, ma per un'intuizione vissuta piuttosto che rappresentata, che rassomiglia senza
dubbio a ció che noi chiamiamo simpatia
divinatrice. Lo ripetiamo : questa
simpatia ha un oggetto limitato ed é incapace
di riflettere su sé stessa; in ció sta la sua deficienza. L'intelligenza invece, benché dapprima si
concentri sulla materia e si adatti agli
oggetti del di fuori, pure giunge a
circolare tra essi, a rovesciare le barriere
che le si oppongono, ad ampliare indefinitamente il suo regno. Una volta liberata, pud piegarsi
all'in- terno e risvegliare le
virtualita d'intuizione che son-
necchiano ancora in essa e che altro non sono se non una specie d'istinto, divenuto
disinteressato, cosciente di sé stesso,
capace di riflettere sul suo oggetto e di
allargarlo indefinitamente (2).
Bergson quindi — come scriveva nel 1908 in un arti- colo apparso nella Revue de métaphysiqueet de
morale — non pretende di sostituire
all'intelligenza qualcosa di differente
o di preferirle l'istinto. Egli vuole sol-
tanto che, quando si abbandona il dominio degli og- getti materiali e fisici, per entrare in
quello della vita e della coscienza, si
faccia appello a un certo senso della
vita che s'oppone all'intelletto puro e
(1) Zb1d., pag. 179-180. (a)
Zbid., 192-198 e Life and Consciousness, riv. Cit., pag. 44. F, OLGIATI 5 66 Esposizione della filosofia
bergsoniana E. AE EN ONIS che ha la sua origine nel medesimo getto
vitale del- listinto, benche l'istinto
propriamente detto sia tutta altra cosa
(1). *
X * Che Pintuizione sia
possibile, che l'uomo possa distogliere
la sua attenzione dal lato praticamente in-
teressante dell'universo, per rivolgerla verso ció che praticamente non serve a nulla, e ció che ci
sugge- risce l'esistenza in noi di una
facoltá estetica accanto alla percezione
normale (2). Nulla come l'arte, pud dirci
che cosa sia 1'imtui- zione filosofica.
Non solo, vivendo di creazioni, l'arte
pud farci comprendere ció che é la durata reale e lo slancio vitale (3); ma inoltre, anche
l'artista si pone per una specie di
simpatia nell'interno dell'oggetto e non
percepisce piú semplicemente in vista d'agire,
ma solo per percepire, per il piacere, per nulla (4). L”osservazione sincera della nostra vita
psicologica normale ci mostra una tendenza
costante dello spirito a limitare il suo
orizzonte. Nel campo infinitamente vasto
della nostra conoscenza virtuale, noi cogliamo
solo ció che interessa la nostra azione sulle cose e trascuriamo il resto. Prima di filosofare
bisogna vi- vere (5) e vivere significa
accettare dagli oggetti sol- tanto
l'impressione utile, per rispondervi con reazioni appropriate: le altre impressioni debbono
oscurarsi o non giungerci che
confusamente (6). I sensi e la co-
scienza non ci dánno della realtá che una semplifi- (1) A propos de Pévol. de Pintell. géomét.,
riy. cit, pag. 30. (2) Évol. cr., pag. 192. (3) Z01d., pag. 49. (4) La perception du changement, Conf. l,
pag. 13. (5) Z61d., Conf. 1, pag. 12. (6) Le Rtire, pag. 154. L'intuizione K 67 cazione pratica. L'individualitá delle
cose e degli es- seri ci sfugge tutte le
volte che non giova materialmente di
percepirla. E anche lá dove la notiamo, come quando distinguiamo un uomo da un altro uomo, non é
la individualitá stessa che afferra il
nostro occhio, ma soltanto uno o due
tratti che faciliteranno il ricono-
scimento pratico (1). Infine per dir tutto, noi non ve- diamo le cose stesse, come non percepiamo i
nostri stati d'animo in ció che hanno di
piú intimo e di ori- ginalmente vissuto.
Ci appaghiamo di solito di leggere le
etichette, che il linguaggio appiccica sul reale (2). Noi insomma ci muoviamo tra generalitá e
simboli ; e affascinati, attirati
dall'azione, viviamo in una zona mediana
tra le cose e noi, esteriormente alle cose, ed
esteriormente anche a noi stessi (3). Se la realtá col- pisse direttamente i nostri sensi e la nostra
coscienza, se noi potessimo entrare in
immediata comunicazione con le cose e
con noi, l'arte sarebbe inutile, o piut-
tosto saremmo tutti artisti, perché allora la nostra anima vibrerebbe continuamente all*unissono
colla na- tura. 1 nostri occhi, aiutati
dalla memoria, ritagliereb- bero nello
spazio e fisserebbero nel tempo dei quadri
inimitabili. Il nostro sguardo afferrerebbe a volo, scol- piti nel vivo marmo del corpo umano,
frammenti di statua, belli come quelli
della statuaria antica. Noi sentiremmo
cantare in fondo alle nostre anime, come
una musica a volte gaia, ma piú che altro lamentosa, sempre originale, la melodia ininterrotta
della nostra vita interiore (4). Ma
nulla di tutto ció é percepito
direttamente da noi, perché tra noi e la natura, tra noi e la nostra stessa coscienza, s'interpone
un velo (trad. Papini).fitto per gli uomini comuni, leggiero e quasi
traspa- rente per l'artista ed il poeta.
Di quando in quando, per un felice
accidente, nascono delle anime che coi
loro sensi e con la loro coscienza sono meno attac- cate alla vita. Quando riguardano una cosa,
la vedono per sé stessa (pour elle) e non
per sé stesse (pour eux) e ne ritraggono
una visione piú diretta e piú immediata.
Se il distacco della vita fosse completo,
se l'anima non aderisse piú all'azione con nessuna delle sue percezioni, avremmo l'anima di un
artista, che eccellerebbe in tutte le
arti nello stesso tempo o piuttosto le
fonderebbe tutte in una sola. Ma sarebbe
chieder troppo alla natura. Per quelli stessi fra noi che ha fatti artisti, essa ha sollevato il
velo acciden- talmente e da una parte
sola: da ció la diversita delle arti. Ma
sia pittura, sia scultura, poesia o musica,
Parte non ha altro oggetto che di levar di mezzo i simboli praticamente utili, le generalita
convenzional- mente e socialmente
accettate, infine tutto ció che ci
maschera la realtá, per metterci faccia a faccia con la realtá stessa (1). L”arte dunque ci mostra che una estensione
delle nostre facoltáa di percepire €
possibile (2), e benché essa non attinga
che l'individuale, ci fa peró conce-
pire una ricerca orientata nel suo stesso senso e che prenda per oggetto la vita in generale (3).
Ció che la natura fa di quando in quando
per distrazione e per qualche
privilegiato, la filosofia deve farlo per
tutti in un altro modo, conducendoci ad una perce- zione piú completa del reale, per un certo
spostamento della nostra attenzione (4).
L*arte e la
filosofia si ri- (1) Zbid., pag.
158-9. (2) La perception du changement,
Conf. l, pag. 11. (3) vol. cr., pag. 192. (4) La perception du changement, Conf. 1,
pag. 13. L'intuizione 69 congiungono cosi nell'intuizione, che é la
loro base comune (1); é la stessa
intuizione, diversamente uti- lizzata,
che fa il filosofo profondo ed il grande ar-
tista (2). ll senso comune dice
che lartista € un idealista e certo é
un ri] Filosoña e realtá 177 X*
* * A questa concezione pura
del reale si sostituisce spesso un
equivalente statico. La durata vera cede il
posto ad un tempo polverizzato, il movimento si ri- solve in una serie di posizioni, il
cangiamento in una serie di
istantaneita, il divenire in una serie di stati. Con una ingegnosa disposizione di immobilitá,
con un procedimento cinematografico, si
ricompone il movi- mento : operazione
praticamente comoda, ma teorica- mente
assurda e gravida di tutte le contraddizioni,, dí tutti i falsi problemi, in cui si impigliano
la meta- fisica e la critica (1), come
lo mostra 'un colpo d*oc- chio sulla
storia dei sistemi filosofici (2).
Xx * Perché infatti i filosofi della scuola di
Elea dichiara- rono assurdo il
movimento? Si esaminino gli argo- menti
di Zenone e si vedrá che essi sono logicamente
concludenti, se si confonde il movimento con la tra- iettoria, vale a dire se si fa coincidere il
moto colla immobilita. a Cerchiamo il principio fondamentale della
filosofia che si sviluppd attraverso
l”antichita classica : lo spi- rito deve
trovare la qualita, la forma o essenza, il fine, ció insomma che e refrattario al cangiamento,
sotto il divenire delle cose. Ecco
quindi le pure idee im- mutabili, alle
quali Platone attribuisce un”esistenza
vera, e che entrando le une nelle altre si raggrup- pano in un concetto unico, nella forma delle
forme, nell'idea delle idee, nel motore
immobile di Aristotele. Cfr. L'intuition philosophique, riv. cit., pag.
825. (2) Tutto il Capo IV dell vol.
Créat. € dedicato a dimostrare questa
tesi. Questo sistema di concetti fissi, che costituisce la vera scienza, € completo e tutto fatto
dall'eternitá : tutto é dato. Quale sará
allora l'indivisibile sorgente della
mobilita? Essendo la negazione della forma, sfuggirá per ipotesi ad ogni definizione e sará
l'indeterminato puro, il quasi-niente,
il non-essere platonico, la materia
prima aristotelica. E via di seguito, fino alle creazioni fantastiche di cosmologie arbitrarie, dedotte
dalla con- cezione falsa, che € alla
base di queste metafisiche. Le quali,
nelle loro grandi linee, corrispondono alla
metafisica naturale dell'intelligenza umana: edé per tale ragione che mille fili invisibili
uniscono la scienza moderna alla
filosofia greca. Nonostante le differenze
profonde che esistono tra la scienza nostra e quella degli antichi, i nostri scienziati, costretti
dalle esi- genze pratiche, non
considerano altro che il tempo lunghezza
e trascurano il tempo vero, il tempo inven-
zione. Da questa negazione della durata, sorge il determinismo assoluto, che abbraccia la
totalitá del reale: anche per loro,
tutto e dato. Descartes sembra dubitare
di questo: se da una parte egli accetta
il meccanismo universale, dall'altra
crede al libero arbitrio, che ci fa credere all'inven- zione, alla creazione, alla successione vera.
Tra le due concezioni egli é esitante,
ma é purtroppo la prima che la filosofia
posteriore abbraccia con Spinoza e con
Leibniz. Per l'uno e per l'altro, la realtá come la veritá sono integralmente date ab aeterno.
Essi rifiu- tano l'idea di una durata
assoluta, come la rifiutano anche il
preteso empirismo moderno, le spiegazioni
meccanistiche dell*universo, l”epifenomenismo mate- rialista, la psicofisiologia e via
dicendo. Tutte queste dottrine sono in
ritardo in confronto della critica kantiana.
Vedendo nell'intelligenza una facoltá di
stabilire dei rapporti, Kant attribul ai ter-
mini dei rapporti stessi un'origine extraintellettuale. Egli affermó,
contro i suoi predecessori immediati che
la conoscenza non é interamente risoivibile in termini d'intelligenza. Con ció apriva la strada ad
una filo- sofía nuova, che avrebbe
dovuto porsi nella materia
extraintellettuale della conoscenza, con uno sforzo su- periore d'intuizione. Ma Kant non si mise in
questa direzione ; anch”egli non pensd
ad affermare la realtá sostanziale della
durata. Il pensiero filosofico del sec.
xix senti che questa era la via da
prendersi. Quando un pensatore sorse ad
annunciare una dottrina d'evoluzione, ove il pro- gresso della materia verso la percettibilita
sarebbe stata delineata insieme alla
marcia dello spirits verso la
razionalitá, ed ove si sarebbe seguito di grado in grado la complicazione delle corrispondenze
tra 1'in- terno e l'esterno, ed il
cangiamento sarebbe divenuto la sostanza
stessa delle cose, verso di lui si rivolsero
tutti gli sguardi. Ma Spencer non attud il suo pro- gramma. La sua dottrina porta il nome di
evoluzio- nismo e pretende di salire e
di discendere il corso del divenire
universale: ma in realtá non era que-
stione né di divenire né di evoluzione. L”artificio or- dinario del metodo spencieriano consiste
infatti nel ricostituire l”evoluzione
coi frammenti dell'evoluto. Se incollo
un'immagine sul cartone e taglio poi questo
ultimo in pezzetti, io potrei, raggruppando i piccoli cartoni, riprodurre l'immagine. Ed il
fanciullo che cosi lavora sui pezzi d'un
giuoco di pazienza, che giusta- pone i
frammenti d'immagini informi e finisce per
ottenere un bel disegno colorato, pensa senza dubbio d'aver prodotto il disegno ed il colore.
Tuttavia 1”atto di disegnare e di
dipingere non ha nessun rapporto con
quello di radunare i frammenti di una immagine
gia disegnata e gia dipinta. Nello stesso modo com- ponendo tra l oro i risultati piú semplici
dell*evoluzione, voi imiterete bene o
male i piú complessi ; ma né 180
Esposizione della filosoña bergsoniana degli uni né degli altri voi
avrete delineato la genesi; e questa
addizione dell'evoluto coll'evoluto non rasso-
miglierá assolutamente al movimento dell'evoluzione. Tale tuttavia e l'illusione di Spencer : egli
prende la realtá nella sua forma attuale
; la spezza, la sparpiglia in frammenti
che getta al vento; poi integra questi
frammenti e ne dissipa il movimento. Dopo di aver imitato il tutto con un lavoro di mosaico, e
di essersi dato anticipatamente tutto
ció che si trattava di spie- gare, crede
di aver compiuta l*opera promessa (1).
A questo falso evoluzionismo bisogna invece sosti- tuire l'evoluzionismo vero, ove la realtá sia
seguita nella sua generazione e nel suo
crescere (2). É cid ap- punto che ha
tentato di fare Bergson. Cosi finisce
1”Évolution Créatrice e cosi termino
anch'io lesposizione del pensiero bergsoniano. Come gia dissi al congresso di Bologna ed in
una prefazione agli scritti di Tarde,
Bergson sostenne che per capire il
pensiero di un filosofo, bisogna riassu-
mere tutte le sue teorie in un punto unico, straordi- nariamente semplice. Questo punto é cos)
semplice che il filosofo parla tutta la
vita senza riescire ad esprimerlo. Egli
non pud formulare ció che ha nello
spirito, senza sentirsi obbligato a correggere la sua formola ed a correggere poi la sua correzione
: cos di teoria in teoria,
rettificandosi quando crede di comple-
tarsi, non fa altra cosa che rendere con approssima- zione crescente la semplicitá della sua
intuizione ori- ginale. (1) Évol. Créat., Capo IV passim. (2) Zbid., pag. VI-VII. É questo il metodo che Bergson vuole che si
ap- plichi a tutti i pensatori e quindi
anche a lui: metodo tutto opposto ai
tentativi molto in voga e contro i quali
egli protesta, di trascurare ció che di personale vi é in un sistema, per dissolverlo nelle sue
fonti e per ridurlo ad una sintesi di
idee di altri filosofi (1). Il lettore
dovrá perció cercare di afferrare nella com-
plicazione delle dottrine bergsoniane l'intuizione sem- plice che le anima. Modifichera la nozione
della durata della coscienza con le
teorie della memoria e sopra- tutto
della vita, poiché la nostra coscienza che dura
e che porta con sé tutto il peso del suo passato, non ¿ che un frammento della piú grande
Coscienza. La durata e libertá ; ma il
concetto di questo dev'essere completato
con la concezione della genesi universale,
poiché e lo slancio vitale che e libero e che si risveglia ad una libertá non perfetta nello spirito
umano. La Supracoscienza poi che dura,
con la sua distensione fa sorgere la
materialita, e cosi di seguito. Le
opere future di Bergson porteranno nuovi ritocchi, daranno al pensiero passato un colorito
speciale; ma (1) Infiniti sono gli
articoli di riviste, dove si cercano le orí-
gini del bergsonismo e si paragona Bergson a Eraclito, a Plotino, a Kant, a Darwin, a James, a Freud, a Wells,
a Balfon, etc. etc. Non ne cito nemmeno
uno, perché, fatta qualche rara eccezione,
non mirano a provare la continuita del pensiero filosofico, ma cercano con ravvicinamenti, quasi sempre
contrari al vero spi- rito di questa
filosofia, di distruggere ció che di originale vi € in Bergson.
lo non nego perd che vi siano analogie tra alcune teorie berg- soniane e le teorie di altri pensatori, ad
es. di Ravaisson, di Paul Janet, di
Maine de Biran. Si legga ad es:
BERGSON: Prin- cipes de psychologie et
de métaphysique a' aprés M. Paul Janet
in Revue Philosophique 1897, 2% Sem., pag. 525-5515 elo studio gia citato dello stesso Bergson: /Votice sur
la vie et les oeuures de M. F.
Ravaisson-Mollien (Académie des Sciences morales et politiques, séances des 20 et 27 février
1904). 182 Esposizione della filosofia bergsoniana Panima vivificatrice, se é lecito
esprimerla con una formula, sará sempre
l'intuizione della durata pura. A
quanto si dice, il pensatore francese sta ora stu- diando il problema morale ed il problema
d”oltretomba, memore forse che la
filosofia non € solo una medita- zione
della vita, come disse Spinoza, ma é anche,
secondo il detto di Platone, una meditazione della morte. Recentemente agli amici che lo
avvicinavano, ai giornalisti ammessi
allintervista, Bergson confes- sava che
il mistero dell'al di lá lo tormenta E
Mentre egli sta meditando, ¡o vorrei invitare il let- tore ad un esame critico delle teorie
lealmente e serenamente esposte, per
vedere se Bergson pud ab- bandonarsi
davvero alla gioia di aver creato un si-
stema vitale, gioia ineffabile, che, in una lezione al College de France, egli preferiva a tutti gli
onori ed a tutti gli applausi (2). (1) Cfr. Pintervista concessa da Bergson a
Maurice Verne nel- VIntransigeant del 26
novembre Igrr. PA > BE; (2) Cfr.
Etudes, art. cit., 20 NOV. 1911, pag. 449:"e Life and Consciousness, riv. cit., pag. 42.Gli
ammiratori di Bergson, che nel loro maesto ac-
clamavano « il nuovo Platone », ebbero un giorno una sgradita sorpresa. « Bergson — cosl dicevano
alcuni critici — é un grande artista, ma
non e un filosofo. Anche noi lo
ammiriamo, se ce lo presentate come un
cantore genialmente ispirato. Le sue dottrine sono davvero creazioni superbe e fantastiche,
degne d'un poeta. Ma se vorreste
ostinarvi a ricercare in esse un sistema
filosofico, noi saremmo obbligati a ripetervi
Pinvito di Alfred Fouillée e vi proporremmo di non discorrere piú di Évolution Créatrice, ma di
Imagi- tion créatrice » (1). Questo giudizio molto diffuso, per quanto
rara- mente espresso in una forma cosl
crude e sincera, mi sembra ingiusto.
Poiché, se Bergson é sempre un at- tista
della parola, se alcune pagine dei suoi libri ras- somigliano di piú ad un canto dell”Ariosto
che non ad un capitolo della Critica
della Ragione pura, tuttavia egli ¿
anche un filosofo per i problemi che tratta e per il metodo che difende. In un tempo in cui si tentava di ridurre la
filosofia ad un paragrafo delle scienze
naturali, Bergson ha sentito il dovere
di discutere i problemi della liberta
umana, della spiritualita dell'anima, dell”unione del- (1) Cfr. A. FOUILLÉE: La pensée et les
nouvelles écoles anti- intellectualistes,
Paris, Alcan, 1912, Pag. 353- 186 Note
critiche A O E AENA GU ANIOS l*anima col corpo, della natura della vita,
dell'origine del mondo e via dicendo. Si
potrá e si dovrá combat- terlo per il
modo con cui li ha discussi; ma nessuno
puó negargli il merito di aver compreso che le do- mande: «Chi siamo noi? che cosa dobbiamo
fare quaggiú? dove veniamo e dove
andiamo? » sono — come egli stesso
proclamava nelle sue recenti confe-
renze di Birmingham e di Parigi — «le questioni essenziali e vitali, le questioni di
interesse supremo, che prime si
presentano al filosofo e che sono o do-
vrebbero essere la vera ragione della filosofia » (1 E questi « massimi problemi » Bergson ha
cercato di risolverli non giá con le
macchinette, cogli istru- mentini dei
laboratorii o con gli altri famosi ritrovati
della filosofia naturalistica, ma con quel metodo in- tuitivo, che € certo incompleto e che nel suo
esclu- sivismo é falso e contradittorio,
ma che rappresenta un'esigenza del
metodo filosofico vero. Da queste
parole il lettore avrá gia inteso qual'e
il giudizio che io daró del sistema bergsoniano. lo credo che esso, per quanto abbia segnato un
immenso progresso di fronte al
positivismo imperante pochi anni or sono
(2), presenta ancora mille errori, che
rovinano spesso le sue tesi pid belle. Sono peró anche convinto che questi errori non sono una
manifesta- zione di uno spirito debole
ed inadatto alla specula- zlone, come
potrebbe pensare un osservatore super-
ficiale; ma sono talvolta lespressione di tendenze legittime ed insoddisfatte (3). (1) Cfr. BERGSON : Life and Consciousness in The
Hibdert Journal, num. cit., pag. 24-25;
1d.: Ame et corps, in Foi et Vie, num.
cit. (2) In questo sono concordi tutti ¡ neoscolastici,
dal Farges al Mercier, dal Tredici al
Baeumker. (3) Sottoscrivo quindi, pur
dissentendo «dal loro sistema filo-
sofico, al giudizio di alcuni critici italiani. Note critiche 187 Il che equivale a dire che, per
giudicare Bergson, non bisogna fermarsi
alle particolaritá dei suoi scritti, non
bisogna considerare atomicamente le varie teorie, per accontentarsi di una facile critica,
puramente e semplicemente distruttrice.
Si deve invece studiare questa filosofia
nello spirito che la vivifica e la sug-
gerisce, per colpire in ogni sua parte il tutto, con una crítica positiva e costruttiva (1). Con tale programma, che non so se sara da
me felicemente svolto ed attuato, ma che
certo fu since- ramente voluto, mi
accingo ad esaminare il metodo e le
dottrine di Enrico Bergson. (1) Cfr. KRONER
nel Logos art. cit., pag. 139. Chi
volesse avere un saggio di critica, tutto opposto al mio, pud leggere il recente volume di DAVID BALSILLIE
: An examination of Professor Bergsons
Philosophy, London, Williams and Nor-
gate, 1912. ta e MS
A An y (Jal y no 1 '
as A AN ras A ME A
r $ Bergson e un filosofo del
divenire. La realtá per lui é un
movimento senza mobile, € un flusso con-
tinuo, e durata. Nell”esposizione delle teorie bergsoniane, non si 8 fatto altro che ripetere con una
insi- stenza significativa questo
pensiero, che venne giusta- mente
indicato come l'espressione sintetica di tutta
la filosofia nuova (1). Da
questa concezione fondamentale, Bergson ha
dedotto il suo metodo: se tutto diviene, la realta — che in due momenti, anche consecutivi, cangia
quali- tativamente — non potrá essere
espressa con parole comuni, le quali
nella monotonia della loro ripetizione
suppongono l'identitá costante di una parte almeno del reale, e nemmeno pud essere afferrata
dall'intel- ligenza con concetti
immobili, rigidi e sempre eguali.
Linguaggio e concetti sono utili per i bisogni imme- diati della vita, per la necessita della
pratica, ma sono impotenti a darci la
veritá, che solo pud essere rag- giunta
coll'intuizione. lo prescindo ora dalla
premessa bergsoniana, poiché é nella
seconda parte di questo studio che cercherd
di confutare la teoria del divenire universale; e mi limito a considerare il metodo in sé, vale a
dire l'odio (1) Cfr. LE ROY: Une
philosophie nouvelle, pag. 201. 190
Note critiche del Bergson contro
il linguaggio e contro l'intelligenza ed
il suo ideale di una filosofia intuitiva. Mi sembra che questo metodo sia in sé stesso
contraddittorio. E Il linguaggio, secondo il Bergson, e la
causa di tutti gli errori, 1”origine di
tutti gli inganni. Egli lancia le sue
imprecazioni contro'« la parola brutale », Che de- forma la realtá, che ce ne dá solo un'ombra
pallida e fallace, che non riesce a
riprodurre fedelmente le idee veramente
nostre, la vita intima della coscienza e
dell'io profondo, l”evoluzione creatrice dello slancio vitale (1).
Eppure Bergson stesso ha dovuto constatare un fatto. Nell'introduzione del suo Essai sur
les données immédiates de la coscience,
egli scrive: « Noi ci esprimiamo
necessariamente con parole » (2). Ed e
verissimo: infatti anche i libri di Bergson si compon- gono di parole; il metodo dell'intuizione
viene di- feso con le parole; con parole
sono esposte tutte le sue teorie;
perfino la critica spietata contro il linguaggio e fatta col linguaggio. Non é forse chiaro che se la teoria
bergsoniana del linguaggio fosse vera,
se la parola non potesse dav- vero
esprimere la realtá senza deformarla, anche tutta la filosofia di Bergson sarebbe falsa? La
parola tra- disce la realtá: ora Bergson
ha continuato a parlare; dunque ha
continuato a tradire la realtá. Anzi
bisognerebbe aggiungere che la critica stessa
del linguaggio € completamente vana, poiché anche essa é enunciata con parole, In breve: combattere il valore del
linguaggio e ser- Cfr. Essat, Cap. Il passim.
(2) Z61d., pag. VII. Il
metodo 11 ' virsi del linguaggio
come se avesse valore, é una con-
traddizione. Se il reale € inesprimibile, rassegniamoci al silenzio. Per essere coerente, Bergson
doveva ne- gare alla filosofia il diritto
di esistere, anzi non do- veva nemmeno
dire questo: la logica gli imponeva un
assoluto silenzio (1). Uno dei piú
profondi discepoli di Bergson, J. Segond
ha tentato di ribattere questa accusa ed ha osservato che la denuncia del verbalismo non é una
condanna del pensiero verbale, poiché
quest'ultimo nella sua ispirazione
spirituale € orientato intuitivamente (2). Ed
il Le Roy ha soggiunto che, benché « lintuizione dell'immediato, a parlare rigorosamente, sia
inespri- mibile », pure «la si pud
suggerire ed evocare con metafore e con
immagini » (3). lo non negheró che
specialmente l'osservazione del Segond, come meglio apparirá in seguito, contiene un'anima di
veritá; ma perché queste difese possano
divenire valide, e indi- spensabile
confessare con schiettezza che Bergson ha
per lo meno... esagerato. Secondo la sua teoria, il (1) Quanto a questa critica della teoria
bergsoniana del lin- guaggio, si vegga:
PREZZOLINI, Op. cit., cap. 111, pag. 285-2945
LECLÉRE: Pragmatisme, Modernisme, Protestantisme, Paris, Bloud, pag. 8 e 16; CALO: 11 problema della
Isbertá nel pen- siero contemporaneo,
Milano, Sandron, pag. 71, nota; KEY-
SERLING: Das Wesen der Intuition und ihre Rolle in der Phi- losophie in Logos, 1912, Band lII, Heft 1, S.
72-73; e fu svolta anche da molti
neoscolastici, come ad es. dal PIAT : Insuffisance des philosophies de Pintuition, Paris, pag.
275. Solo perd il PREZZOLINI non si
limitó ad una critica negativa. Riguardo poi
alle riserve di ADOLFO LEVI, L'indeterminismo nella filosofia contemporanea, Firenze, Seeber, pag. 265 e
seg. ed alla sua di- stinzione tra il
valore psicologico ed il valore log.co della pa- rola, credo non abbiano piú nessuna ragione
di essere dopo P Evolution
Créatrice. (2) J. SEGOND: Z*intuition
bergsonienne, Paris, Alcan, 1913, Capo
IV, passim. (3) LE ROY : opera cit.,
pag. 49-50. 192 Note critiche pensiero verbale, appunto perché
verbale, non pud darci una visione
fedele della durata; ogni parola, anche
se é Evolutionisme de M. Bergson in Revue de
Philosophte, settembre-ottobre I9II, PAg. 527. (4) A CRESPI: Lo spirito nella filosofia di
Bergson. M. La me- tafisica
bergsontanain La Cultura contemporanea, ottobre 1912, pag. 169. 11 metodo | 203 razione, ed invece ci ha dato un'altra
metafísica, ricca di contraddizioni
numerose, che non si risolvono
tuffandosi nel flutto del reale, ma solo possono essere dissipate da una filosofía, che, pur
riconoscendo la intuizione, non
disprezza la ragione ed il concetto.
IV. Quali sono questi concetti,
che la filosofia deve adoperare? Le
obiezioni di Bergson non distruggono
forse il loro valore ? Due sono
le correnti, che in questi ultimi anni si
sono delineate tra i neoscolastici italiani a proposito di questa questione. Gli scolastici puri stanno fermi all*antico
astrattismo aristotelico ed aderiscono
perció a quanto in prege- voli lavori
hanno detto il De Tonquédec, il Farges,
il Piat, il Tredici e mille altri (1). Essi, dinanzi al bergsonismo, ragionano cos]: «E facile mettere di fronte, da una parte la
ric- chezza e la complessitá del reale
quale € dato dall*intui- zione, con
tutto quel cumulo di note che rendono
ciascuno differente da ogni altro reale e soggetto alle piú svariate vicissitudini e mutazioni,
— e dal- altra la povertá, la
semplicitáa del concetto astratto, che
non rappresenta una cosa piuttosto che un'altra, che resta immutabilmente lo stesso nonostante
il cam- biamento delle cose esistenti,
—e poi gridare alla loro (1) DE
TONQUÉDEC: La notion de la vérité dans la Philos. nou- velle, dapprima apparso in Études, come dissi
e poi pubblicata dal Beauchesne, Parigi,
pag. 48-52; PIAT, Op. cit., passim. ;
FARGES, op. cit., cap. Vl e VII; MARITAIN, art. cif., passim. ; GRIVET: Henri Bergson: esquisse philosophique
in Études, 5 ottobre e 20 novembre 1909
e sopratutto 20 luglio 19ro, etc. 204
Note critiche completa
eterogeneitá, e chiamare il concetto una de-
formazione della realtá... Ma la cosa merita di essere esaminata un po” piú profondamente. »; ammette « la libera scelta » dello slancio incosciente; e siccome la radice
dell'atto li- bero é nella durata,
richiede come conditio sine qua mon
della libertá che vibri la nostra personalitá tutta intera ; distingue perció 1l'io superficiale
dall'io pro- fondo ed enuncia la strana
teoria — ripugnante alla te- stimonianza
della nostra coscienza — che gli atti li-
beri sono rari e che molti muoiono senza aver cono- sciuto la vera libertá. Invece € chiaro che
quando, conscio di quello che faccio, scrivo
queste righe, mi sento libero, anche
senza far vibrare tutta la lira dei
sentimenti e delle potenze del mio animo (1); é su- perfluo bruciare la casa per far cuocere due
uova. Vi- ceversa, il desiderio della
felicita, profondamente in- sito in
ciascuno di noi ed in ciascuna delle nostre
azioni, é necessitato. Bergson
afferma che é impossibile definire l”atto li-
bero, perché l'eterogeneita sempre cangiante della du- rata non puó essere rinchiusa in una forma
morta. Poniamoci dal punto di vista
bergsoniano; concediamo per ora, senza
discutere, che il flusso della nostra du-
rata interiore sia una continuitá perfetta; che sul teatro della nostra coscienza sia assurdo che
si ripro- ducano due volte le stesse
cause; ammettiamo che per un essere
finito l'atto libero futuro sia impreve-
dibile. Anche allora, quando dopo d'esser passato (1) FARGES, op. cit., c. II, passim. A EP VIA
per una serie di mutazioni, Pio compie Patto libero, sente che se elegge quest'azione, potrebbe
perú anche non eleggerla o eleggerne
un'altra. Bergson stesso lo riconosce;
poiché e costretto a scrivere: «anche
quando si abbozza (on esquisse) lo sforzo necessario per compiere un'azione, si sente bene che si
é ancora in tempo di arrestarsi » (1).
In questo fatto sta 1'es- senza della
libertá. Bergson critica tre definizioni della
libertáa: «Patto libero € quello che una volta compiuto, poteva anche non esserlo; é quello che non si
po- trebbe prevedere, anche se
antecedentemente si cono- scessero tutte
le condizioni; quello che non é necessa-
riamente determinato dalla sua causa». Ma egli ha dimenticato proprio la definizione esatta :
«| P'atto li- bero é quello che, mentre
lo si compie, potrebbe anche non essere
compiuto ». Questa definizione non
confonde il tempo con lo spazio, ma si
pone nella pura durata ed esprime esat-
tamente un fatto della nostra coscienza; non vale solo per l'azione compiuta, ma anche e
sopratutto per l'azione che si compie;
non incorre nella tautologia che «il
fatto, una volta avvenuto, é avvenuto ;
mentre, prima di avvenire, non era avvenuto »; non cade nelle braccia del determinismo, ma
infigge un pugnale nel cuore di questo
avversario. Essa — cosa importante da
osservare — non fa nem- meno dell”atto
libero un'abitraria creazione ex nihilo,
poichée e la ragione che deve dirigere la volonta. Quando la volontá vuole un bene che in quelle
cit- costanze € ragionevole, non pone un
atto arbitrario, bensi un atto libero:
non e Poggetto esterno che de- termina
la volontá, ma e la volonta, che determina sé
stessa e potrebbe anche (irragionevolmente si, e qui (1) Essaz, pag. 161. 284 Note critiche sta appunto la colpa o l'imperfezione e la
responsa- bilita personale) non
determinarsi. Avere il dominio dei
proprii atti, non significa che questo dominio debba venire esercitato arbitrariamente, come
credono certi illustri positivisti (1). Non mi dilungo su questa questione della
liberta, perché nel presente studio
critico io non mi propongo di esporre
tutte le tesi scolastiche riguardanti i diversi
problemi. Il mio scopo € piú modesto: io vorrei sol- tanto che ¡ lettori si persuadessero che non
é poi per stupido cretinismo o per un
decreto di autoritá che i neoscolastici-
moderni alla voce che oggi risuona nel
College de France preferiscono un”altra parola, la cui eco dorme da settecento anni tra le pietre
della vecchia Sorbona e che veniva
pronunciata senza scintilllo di
metafore, ma con semplicita profonda da
un grande filosofo. Quel filosofo, che gli studiosi d*allora, accorsi da tutte le contrade
d”Europa, ascol- tavano con Paviditá che
oggi tiene sospesa la gio- ventú
francese alle labbra di Enrico Bergson, si chia- mava San Tommaso d'Aquino. Coloro che lo
igno- rano, lo possono disprezzare ;
coloro che lo meditano, lo debbono
ammirare (2). (1) Cfr. MATTIUSSI,
opera cit., capo Ill. (2) GRIVET: 4H.
Bergson, esquisse philosophique in Études,
3 Ottobre 1909, pag. 46. La
dottrina 285 II. — L'anima. « Un nouveau spiritualisme » : ecco come
vennero denominate dal Belot le teorie
bergsoniane intorno all'anima umana ed
ai rapporti dello spirito col corpo (1).
E parrebbe infatti che nessuna parola
fosse meglio indicata, per designare questa filosofia che combatte il materialismo, che riconosce
una dif- ferenza di natura (e non di
grado soltanto) tra 1'ani- male e
l?uomo, che sente cosi prepotente il bisogno
dell'immortalitá personale. Ma
anche qui é necessario procedere cautamente;
poiché, come nel problema della liberta Bergson non sapeva conciliare la libertá dell'io con la
necessita del tutto, cosi in questa
questione non sa conci- liare l'unitá
dello slancio e lPindividualitáa dei singoli.
Egli si trova molto impacciato. Ci ha sempre detto che la corrente vitale ha tutti ¡ caratteri
della nostra coscienza per ció che
riguarda la durata: lo slancio unico é
un tutto indiviso, in cui non vi sono elementi
o stati separati, come i quadratelli d'un mosaico od i gradini di una scalinata; le molteplici
virtualitá si prolungano e si continuano
le une nelle altre insen- sibilmente,
come la dolcezza d'un pendio. Ma e gli
individui? Dobbiamo negarne l”esistenza ? No, risponde Bergson: la corrente una, indivisa,
indivisibile, si rami- fica
nelll'oscuritá della materia in tante gallerie sot- terranee ; é un obice che esplode in tanti
frammenti, destinati alla loro volta ad
esplodere ancora. Ció che era uno,
semplice, indiviso, indivisibile, si divide, si (1) GUSTAVE BELOT osservava peró che questo
spiritualismo rischia di fare gli affari
del materialismo. Cfr. Revue philoso-
phique, 1897, 1” Semestre, p. 199.
256 Note critiche A A A A suddivide, separa le sue tendenze, crea i
regni, le specie, i viventi tutti!
! Bergson capisce di essersi messo su
di una brutta china ; e, pentito di aver
spezzettato l?unita del tutto, cerca di
ridurre ai minimi termini la individualitá dei
singoli: un colpo al cerchio ed uno alla botte. « Gli organismi — egli avverte — piú che individui,
hanno la tendenza all'individualitá »
(1) ; « l'individuo é un semplice luogo
di passaggio, dove la vita prende il suo
slancio per ascendere piú in alto » (2); non c'é « une individualité tranchée » nella natura, tanto
€ vero che quello che voi chiamate
individuo, dipende dai suoi parenti, dai
suoi antenati, da tutta la corrente vitale (3).
Insomma, gli esseri viventi non si individualizzano, se non in una certa misura «dans une certaine
me- sure » (4). In tal modo il povero
Bergson € sbattuto da Scilla in
Cariddi. E la burrasca e la confusione
aumentano : malcon- tento di aver troppo
depressa l'individualita, egli * Come
si spiegano tutti questi fatti o datici imme-
diatamente dalla coscienza o constatati dall'esperienza ? Come si spiega che il mio spirito,
sostanzialmente identico nelle sue
mutazioni qualitative, non é il tuo,
(1) Si veggano a questo proposito le opere del Wasmann, del Gutberlet, Gemelli, del Salis-Seevis, del
Farges, del Mercier etc. La
dottrina 267 che tra il mio spirito
ed il principio vitale d'un bruto c'é
una differenza assoluta di natura ? La
teoria delllunico slancio non sa che pesci pi-
gliare. Lo slancio bergsoniano € obbligato a scindersi, e ció € assurdo, perché ció che é
indivisibile, non pud dividersi. Lo
slancio bergsoniano importa la ne-
gazione dell'individualitá perfetta e calpesta l”attesta- zione chiara della coscienza. Lo slancio
bergsoniano, tende a porre una
differenza solo di grado tra il bruto e
l'uomo, contro ció che lo stesso Bergson é obbligato ad ammettere. Quei fatti sono invece
meravigliosa- mente spiegati dalla
filosofia cristiana. Quando un uomo ed
una donna — che non sa- rebbero tali, se
tale non fosse stata la realtá in cui
sono stati prodotti ed in cui sono cresciuti — gene- rano un. nuovo essere, il principio vitale di
quest'ul- timo e, secondo Bergson, la
stessa anima dei genitori e dei loro
antenati, e l'identico slancio (naturalmente
modificato nel corso del suo sviluppo) che si scinde ancora una volta. L'impossibilitáa di questa
scissione appare subito a chi riflette
che ció che é semplice € spirituale non
pud scindersi. Bisognerebbe dunque dire
che i genitori creano quest'anima, ma Bergson
non ricorre a questa scappatoia ; la vita creativa im- porta una potenza infinita. Resta dunque che
questa anima, venga creata. 1 genitori
pongono, causano il corpo, ma lo spirito
e creato da Dio e col corpo forma un
unico essere. Con cid si chiarisce,
perché io sono questo indi- viduo e non
un altro; perche io, pur derivando dai
miei genitori, non mi posso confondere con loro; perché, nonostante le mutazioni successive
continue, ¡o rimanga sostanzialmente
identico : perché tra 1'ani- male e
Puomo ci sia una differenza di natura, essendo
solo l'anima delluomo che e spirituale e solo questa richiedendo un intervento creativo
diretto. $ 268 Note critiche *
** Ma allora, domanderá
Bergson, non é forse Aena Porganicitá
dell'universo ? No, perché la filosofia
cristiana ha sempre difeso Paltra
grandiosa concezione aristotelica, che Bergson
non mostra di conoscere, dell'unione sostanziale del- l'anima col corpo. In questo problema Bergson si é accontentato
di parole e di frasi. La sua teoria, che
fa unire la ma- teria e lo spirito in
ragione del tempo e non in ra- gione
dello spazio, non rischiara il mistero. Intanto, se essa fosse vera, non sarebbe possibile la
percezione. L”essenza della percezione
consiste in ció, che il corpo avverte
l'azione esterna che si esercita su di esso;
in altre parole, la percezione € d'ordine psicologico. Non basta che il cervello sia un bureaw
telefonico centrale, munito
abbondantemente di apparecchi; perché
sorga la percezione, € indispensabile che a
questi apparecchi vi sia qualcuno, che riceva e spe- disca la comunicazione. Orbene, chi mai nella
teoria bergsoniana percepisce il
movimento ? Nessuno : non lo spirito,
poiché la materia agisce solo sulla materia
e lo spirito é incapace di essere avvertito della pre- senza di un oggetto per mezzo di un eccitante
mate- riale; anche se l”oggetto
materiale é un'immagine, siccome € fuori
dello spirito, non rimane in comuni-
cazione con esso. E tanto meno il corpo: il' corpo riceve il movimento e lo restituisce per
un'attivitá tutta meccanica, che non é
menomamente di ordine psicologico. Se
dunque la teoria bergsoniana fosse vera,
non solo non si comprenderebbe il sorgere della
percezione cosciente, ma non percepiremmo nulla (1). (1) GRIVET, art. cit., Études, 20 Nov.
1909, pag. 461 e seg. La dottrina
269 E poi, Bergson chiarisce forse il
fatto che la libertá si introduce nella
necessitá e che lo spirito non resta
legato dalle ferree catene del determinismo ? Ci spiega forse come mai lo spirito inesteso possa
avere delle sensazioni estese e
percepire la materia indivisa? Ci dice
il modo con cui lo spirito si unisce al corpo, cosi da poter legare i momenti successivi della
durata delle cose e da ottenere il
sentimento della tensione ? Ep- pure era
in questa notte che si doveva far luce ed in
cui il dualismo aristotelico ha, secondo me, proiettato un fascio luminoso. Bergson conosce solo un dualismo volgare,
che non sa trovare un punto di contatto
tra due entitá cosl diverse, come
l'anima e il corpo, e che ricorre all*ar-
monia prestabilita o ad un accordo fortuito (1). Egli ha ragione di deridere un simile dualismo, ma
ha torto di non voler prendere in
considerazione il pen- siero di
Aristotile. Questi, dopo aver
dimostrato che due elementi si debbono
distinguere nellluomo, procedeva cosl. Co-
minciava a constatare un fatto sicuro; il fatto cioé dell'unitá dell'essere umano. É lo stesso
uomo che vegeta, che sente, che si
muove, che intende, che vuole. E
concludeva che l'anima ed il corpo non sono uniti tra loro come un pilota ad una nave, ma che
la loro unione é sostanziale, produce
cioé e costituisce una sola natura
specifica, una sola sussistenza completa ;
lo spirito forma con la materia un solo e medesimo essere, una sola natura umana, una sola
persona. E come avviene questo? Il
principio dell'unita non € certo la
materia divisibile, ma 2 l'anima. É lo spirito
che perfeziona la materia, che le comunica l'essere, il moto, la vita, e le conferisce la sua
specificitá : essa informa il corpo, €
forma del corpo. Forma sostanziale (1)
Cfr. Matiére et Mém., pag. 13, 252-3.
270 Note critiche ed anche
unica, in quanto contiene nella sua potenza
eminente tutte le potenze delle forme imperfette : se il principio vitale in noi non fosse unico,
sarebbe an. nientata lP'unitáa
dell'essere umano. Ed allora tutto si
spiega : si comprende il sorgere della
percezione sensibile, poiché la materia animata
pud essere alterata da una attivita materiale; le sue sensazioni saranno dotate di vera unitá,
perché uno e semplice é il principio
vitale che informa il soggetto
senziente, e nello stesso tempo saranno estese a ca- gione del principio esteso, della materia. Si
spiega la materialitá
dell'immagine-ricordo ed anche come ogni
funzione psichica debba avere in noi un riflesso fisio- logico.
Ho detto che € anima che informa gli elementi: ad essa bisogna guardare, per giudicare un
organi- smo, come per comprendere il
significato di una pa- rola bisogna
mirare al pensiero che la vivifica. Che
importa quindi se c'é una somiglianza maggiore o mi- nore di struttura tra l'animale e l'uomo? Per
capire un pensiero non si guarda alla
somiglianza materiale delle lettere, ma
al suo significato; per giudicare un
vivente si deve guardare alla natura della sua anima. Ho accennato brevemente a questa dottrina
aristote- lica, per venire alla
conclusione che con la creazione degli
spiriti singoli non si distrugge 1l”organicitá del tutto. Poiché, siccome l'anima forma con la
materia un intrinseco costitutivo' del
vivente, essa .risentira l'influsso del
corpo. E questo corpo é quale 1'han for-
mato ¡ genitori, quale l*han preparato gli antenati, € condizionato insomma da tutta la storia e da
tutta la natura : se i genitori furono
viziosi, il figlio porterá le stigmate
del vizio e cosl via. Come si vede, questa
concezione della filosofia cri- stiana €
consona coi fatti, e basata sui fatti ed ac-
cetta quello che c'é di vero in Bergson. La dottrina 271 Accetta cioé — posto l'identitá sostanziale
dell'io — tutte le analisi bergsoniane
della nostra vita psi- chica, la continuitá
dei nostri stati interni, lo scorri-
mento ininterrotto del nostro io, che si svolge, ma- tura e cresce in un ritmo irreversibile, dove
il passato si conserva e si prolunga in
un presente sempre nuovo. Puód
accogliere la sua denuncia della confusione tra il tempo astratto della scienza e la durata
concreta, le sue splendide confutazioni
delle concezioni atomistiche, spaziali
ed associazionistiche dello spirito; pud ap-
plaudire anche alla sua lotta tenace contro la psico- fisica ed il parallelismo psicofisiologico
(1). Xx * X
Sopratutto solo la filosofia cristiana pud difendere efficacemente l'immortalitá personale. Bergson ha fondato la sua presunzione di
quest'im- mortalitá nel fatto che il
parallelismo € falso e che la vita
mentale trascende (deborde) la vita cerebrale, li- mitandosi il cervello a tradurre in movimento
una pic- cola parte di ció che avviene
nella coscienza. L'indi- pendenza di
questa riguardo al corpo dá un grande grado
di probabilitá alla tesi della sopravivenza. Confesso candidamente di
non esser mai riuscito a capire
Pentusiasmo di alcuni neoscolastici per la psicofisica e per la psicofisiologia. L”unione sostanziale
dell.anima col corpo importa soltanto
che ogni stato psicologico abbia una ripercussione sullo stato fisiologico, ma non esige che tra l'uno
e lPaltro vi sia un perfetto
parallelismo, né permette di formare delle generalizza- zioni scientifiche, le quali, in questo caso,
quando hanno la pre- tesa di essere
vere, sono la negazione della storicitá della co- scienza. Perció pur rispettando la
psicofisica e la psicofisiologia, come
rispetto l'astronomia e le altre scienze, non comprendo come si voglia fare di esse una parte della
filosofia. Lo stesso si potrebbe
ripetere del nuoyo metodo introspettivo. Anche in questa questione mi sembra
che la Sco- lastica era ben piú
profonda. L”anima spirituale, che ha
delle operazioni indipendenti dalla materia, non dipende da questa nemmeno nell'essere ;
dissolvendosi dunque l”organismo, non
cessa di esistere. Ecco una prova che
non ci dá solo uua probabilitá, ma una
certezza e che prescinde affatto dall'ipotesi paralleli- stica. Supposto anche che ad ogni nostro atto
psichico corrispondesse un determinato
movimento cerebrale, ció non
significherebbe che l'atto psichico non sia
spirituale e che perció lo spirito dipenda dalla ma- teria nei suoi pensieri. Anche allora sarebbe
ragione- vole concludere che l*anima,
sciolta dal corpo, nasce ad un'alba che
non tramonta mai; sarebbe logico far
risuonare il grido delle eterne speranze in mezzo ai due grandi silenzi, ammirati da Carlyle e tra
¡ quali viviamo : il silenzio delle
tombe ed il silenzio degli astri. La
dottrina La vita. L'£volution créatrice € ritenuta da molti
come la parte piú poetica e meno
filosofica dell?opera bergso- niana.
Alcuni anzi non la stimano del tutto degna
dell'autore dell” Essai sur les données immédiates. A me invece sembra che tra l'uno e laltro
volume esista un nesso strettissimo e
che 1”Evoluzione crea- trice non sia che
la teoria intorno alla durata della
coscienza, applicata logicamente ad una piú grande Coscienza, alla Supercoscienza. Partendo da questa mia interpretazione, che
giudico esatta e che, spero, sará
limpidamente risultata dalla esposizione
che ho dato della filosofia di Bergson, co-
minceró ad indicare il progresso che la nuova conce- zione biologica rappresenta di fronte al
meccanicismo, per poi enumerare le
asserzioni che mi paiono fanta- stiche
od infondate. La biologia di ¡eri
voleva spiegare i fenomeni vitali col
giuoco delle sole forze fisico-chimiche ed accarez- zava la speranza di poter costruire
artificialmente la vita. Basterá
ricordare in proposito tutti ¡ tentativi
fatti per provare la generazione spontanea, dal Ba- thybius Haeckelii alla glia di Maggi, dalla
glairina di Béchamp, ai ritrovati di
Burke e di Bastian. Basterá accennare
alle piante artificiali di Herrera e di Leduc,
ai cristalli viventi di von Schrón, alle teorie basate sulle proprietá della materia allo stato
colloidale o sui processi catalitici da questi provocati, alle ipotesi dei tropismi, degli ¡oni, dell'osmosi, alle
deduzioni tratte dalle esperienze del
Carrel, a tutte insomma le dot- trine
antivitalistiche, che sorsero, brillarono e scom- parvero (1).
Era tale l'atteggiamento mentale — che ormai va lentamente scomparendo — della generazione
trascorsa, che ognuna di queste ipotesi
attirava subito l”atten- zione vivissima
di tutti; ognuna di esse, anche se
strana, suscitava l'interesse animato di una tragedia grandiosa, nella quale la forza possente
della scienza infliggeva la morte ad un
passato tenebroso di bar= barie. E
nessuno si scoraggiava, anche quando la se-
veritá della supposta tragedia terminava miseramente — come il famigerato Bathybius Haeckelii e la
legge biogenetica fondamentale — nelle
allegre amenita di una farsa. Prossimo parente della concezione meccanica
della vita era ritenuto l'evoluzionismo,
che — come bene osserva Bergson — in sé
non dice affatto meccani- cismo. Si pud
anzi aggiungere che la ragione principale
del trionto delle idee trasformiste € da ricercarsi nel- l'illusioné degli scienziati, i quali nelle
teorie dell'evo- luzione videro una
dimostrazione della loro concezione. Se
dalla materia é sorta la vita, se l'uomo deriva dal- Vanimale, non c'é tra l'inorganico e
organico, tra Puomo e il bruto che una
differenza di grado, non di natura. 1
fenomeni vitali non sono piú un enigma;
Pistinto e l'intelligenza differiscono tra loro quantita- (1) Cfr. la magnifica opera di AGOSTINO
GEMELLI: ZL'enigma della vita ed inuovi
orizzonti della biología, Ediz. 2*, Firenze, come pure le altre numerose
pubblicazioni dell'egregio biologo. (2) Cfr. GEMELLI-BRASS : Le falsificazioni
di Haeckel, 3% Edi Firenze. A A
AS La dottrina 275 AS A A SE e El Ia OI A tivamente; ció che proviene da un altro €
uguale qualitativamente ad esso. Ecco la
mentalita di ¡eri. Se la generazione
passata avesse sospettato che l'e-
voluzionismo nulla diceva in favore dell'idea mecca- nicistica, il novantacinque per cento dei
cultori delle scienze positive gli
avrebbe fatto una accoglienza non troppo
festosa., Dinanzi a questo indirizzo,
che con nomi reboanti e con parole
sonore nascondeva un semplicismo an- tifilosofico
spaventoso, Bergson ha la gloria di aver
reagito. I suoi critici — anche piú spietati — hanno confessato che le splendide confutazioni del
meccani- cismo sono la parte piú bella e
piú duratura della sua opera. E — per la
storia — si deve aggiungere che questo €
il motivo per il quale furono rivolte a Berg-
son molte ingiurie, che gli fanno onore (1), e che pro- vano tutt'al piú il basso livello
intellettuale, di chi le ha usate. * *
xk Bergson ha compreso innanzi tutto
la storicitá della vita e con la sua
teoria della vita-durata ha superato il
meccanicismo. Spieghiamoci. Un
esploratore ardito, viaggiando in regioni lontane, scopre una tribú, che parla una lingua
affatto scono- sciuta. Procura di farsi
intendere con segni e con gesti, ma non
vi riesce. Trova invece un numero con-
siderevole di iscrizioni nei cimiteri, nei templi, nelle piazze di quella tribú. Quelle iscrizioni
sono per lui oscure come un enigma; ma
egli, pieno di speranza, le esamina
pazientemente, distingue le varie lettere, Cfr. nella prefazione gli insulti di
Le Dantec, di Elliot, di Lankester
etc. 276 Note critiche giunge a scoprire lalfabeto di quella lingua
e crede con gran probabilita di
conoscere l'alfabeto com- pleto. Ha forse interpretato con questo anche una
sola iscri- zione? No: chi sapesse solo
che in esse vi sono tanti a, tanti b,
tanti c, ne saprebbe ancora press'a poco
come prima. Chi dei Promessi Sposi conoscesse
soltanto quante migliaia di lettere di un genere, quante migliaia di vocali, quante migliaia di
consonanti vi sono, non avrebbe ancora
capito niente del romanzo dello
scrittore lombardo. — Chi pretendesse di spie-
gare il significato della parola « Dio », dicendo che Dio significa D + 1 + O, toccherebbe il colmo
del ridicolo. La vera spiegazione ben
lungi dal rinchiu- dersi
nell'enumerazione e nella disposizione delle let- tere, va dal pensiero alle lettere; quello
spiega queste e non viceversa. E se l'esploratore,
per confermare la sua stranissima tesi,
si balloccasse a mettere in- sieme
lettere con lettere, formando cervellotticamente dei pseudovocaboli, noi gli risponderemmo che
le sue sono parole morte, dove non
brilla il raggio del pensiero. Chi
volesse proprio comprendere una iscrizione di
quella tribú, non solo deve cercare il significato delle parole e delle frasi, ma dovrebbe anche
ricordarsi che queste sono nate in una
determinata situazione di fatto e che
perció i vocaboli di quella iscrizione hanno
il senso che loro ha conferito colui che Il'ha com- posta. Noi tanto meglio la interpreteremo,
quanto piú non ci fermeremo alle lettere
dell'alfabeto, ma sco- priremo il valore
delle espressioni, il tempo in cui fu
scritta, l*uomo che la dettó, l'occasione che la sug- gen, la cultura e il carattere di quell'epoca
e via dicendo. Non basta limitarsi alla materialitá delle
parole e delle frasi. La stessa frase
sulle labbra di una persona pud avere un significato ben diverso di quello che
ad essa attribuisce un'altra persona di
un'altra epoca, od anche della stessa
epoca. Il vero é€ il fatto, ha detto
Vico e lo dice oggi Benedetto Croce e lo ripete
anche Roberto Ardigd : l'espressione e materialmente identica; il pensiero inteso dai tre filosofi
€ sostan- zialmente diverso. Per portare
un*altro esempio: quando un negoziante
di acquavite parla di « spirito », non intende
certo indicare lo « spirito » dell'idealista, come quest*ultimo a sua volta non intende alludere
allo « spirito » del monadista, né allo
« spirito » dello spi- ritista. Non si puó quindi dimenticare la storicita
dell'iscri- zione, storicitáa che fa si
che il significato di essa sia unico.
Scritta in un'altro tempo, in altre circostanze, con le stesse lettere, con le stesse parole,
con le stesse frasi, avrebbe espresso un
pensiero differente, corrispondente agli
avvenimenti di quel tempo. E lo stesso
si ripeta, se fosse stata composta da un altro
individuo o dalla stessa persona in un momento di- verso della sua vita. Una differenza
qualitativa ci sarebbe sicuramente, se,
ben inteso, si considera la iscrizione
nella sua realtá concreta. Finalmente il
pensiero dell'iscrizione € uno, pur nella molteplicita delle idee espresse; si trova in essa
quell'unitá di ispirazione, che si
osserva in una strofa, in un inno, in un
quadro. Ecco perché non si pud spiegare
l'iscrizione con le lettere di cui
consta, L*iscrizione ha una storia, é
storia; le lettere non ne hanno. L'iscrizione é unica ; le lettere son sempre quelle. L'iscrizione €
una; le lettere sono molte. Con queste riflessioni — che sembreranno
infantil- mente elementari e che pure
furono calpestate dal meccanicismo — si
rimprovera forse all*esploratore di aver
fatto una cosa ¿imutile ? Ma nemmeno per sogno. Egli ha compiuto un lavoro
utilissimo, una prepa- razione
necessaria. Ed anche nel caso che per una
felice combinazione fosse arrivato a decifrare il senso di quelle iscrizioni, Pesploratore, per
utilizzare il suo studio, metterá per un
momento da parte la loro sto- ricitá, la
loro unicitá, la loro unitá, in una parola la
loro finalitá. Le scomporrá invece in tanti vocaboli, ne catalogherá il maggior numero possibile,
formerá un vocabolario e dará cosi un
mezzo utile e indispen- sabile a coloro
che vorranno comunicare con gli abi-
tanti di quel popolo o che vorranno studiarne la let- teratura, la storia, la civiltá. E tutti
applaudiranno alle sue fatiche pazienti,
al suo sforzo, al suo sucCesso. - Solo
allora gli applausi si muteranno — ed a ra-
gione — in fischi sonori, quando egli fosse cos pazzo da pretendere che le parole si debbono
spiegare con le lettere, che ad es. la
parola « Re » si interpreta, non giá
alludendo ad una autoritá sovrana, ma con
R + e; oppure quando, dopo aver finito il vocabolario ed elencato tutti i vocaboli, credesse di
aver riassunto tutta una cultura ed
una civiltá. A chi ci offrisse un
dizionario completo della Divina Commedia e s'illu- desse che tutta ll fosse la poesia di Dante,
noi di- remmo: scusa, questi sono i
detriti di quell*opera immortale, non il
poema; sono la morte e non la vita.
Quando — per riassumere — si confonde un proce- dimento pratico, utile, se si vuole, e
necessario, Op- pure un minimum di
veritá, quale ci é dato dall'a-
strazione, con la veritá in tutta la sua concretezza, allora noi protestiamo. Ebbene, dice press'a poco Bergson: applicate
questo al problema della vita. Le iscrizioni oscure sono gli organismi viventi;
eli esploratori sono gli scienziati che
vogliono risolvere e spiegare l'enigma
della vita. Siccome non ne comprendono nulla, cominciano ad esaminare le
lettere che compongono le parole, vale a
dire gli elementi fisico- chimici, le
molecole, gli atomi che compongono il
vivente. E si pud dire che raggiungono con probabilita un alfabeto completo. Fin qui tutto va nel migliore dei mondi
possibili:; il loro lavoro, le loro
scoperte sono utilissime sotto mille
rispetti. 11 male é che alcuni scienziati si accon- tentano di ricercare le lettere
dell”alfabeto, gli ele- menti
fisico-chimici e credono di aver spiegato il
mistero, quando hanno trovato che in un dato orga- nismo, vi sono tante molecole di carbonio,
tante di acqua, etc., non comprendendo
che essi sono simili all'esploratore,
che si ostina a pensare d'aver inter-
pretata l'iscrizione, perché sa quanti a, quanti b etc. in essa vi sono. Ed il male si accresce, quando questi
biologi si divertono nei loro laboratori
ad accozzare lettere a lettere, elementi
ad elementi, per creare degli esseri
vitali, delle parole significative, senz'accorgersi che é per il pensiero che si hanno tali lettere,
€ per la vita che si ha un tale
organismo, e non vice- versa. Le conseguenze che ne derivano sono le
medesime: lesploratore poneva in oblio
la storicita, 1unicita, I?unita
dell'iscrizione. 1 meccanicisti non si ricordano che ogni organismo ha una storia, mentre
quest'ultima, come dice il Bergson,
sdrucciola sopra gli elementi, senza
penetrarli. L”organismo é unico e non vi sono
in nature due foglie identiche; gli elementi sono eguali. L'organismo € unita; gli elementi
sono nu- merosi. Essi.sono i
concomitanti necessari della vita, come
le lettere sono i concomitanti necessari dell'iscri" zione; ma non sono la vita, non sono il
pensiero ; gli elementi sono i detriti
dei fenomeni vitali, sono la morte e non
spiegano nulla. Note critiche Senza
dubbio, é utile, é necessario studiare gli
elementi ed i loro composti, come é utile, é necessario conoscere le lettere d'un alfabeto ed il
vocabolario di una lingua. Ma come non
€il vocabolario che spiega la lingua, €
questa che spiega quello; cosi non sono
gli elementi né loro combinazioni che risolvono l'enigma della vita, bensl € quellattivita immanente,
che ma- nifesta sempre caratteri opposti
alla materia. Ed anche — ripetiamolo —
non si disprezza il lavoro degli esploratori,
ossia dello scienziato; non solo la
scienza, come esperienza storica é presa di realta; non solo, io aggiungo, alcune sue
generalizzazioni astratte hanno un
valore teoretico; ma essa e feconda di
risultati pratici. Per ottenere i quali, come l'inter- prete deve trascurare la storicitá,
l'unicitá, I*unitá dell'iscrizione, cosi
lo scienziato deve trascurare gli stessi
caratteri della vita. S'intende perd: il suo € un metodo pratico di ricerca, indispensabile per
1'utiliz- zazione della realtá ed anche
per poter poi risalire a cogliere la
vita nella sua finalitá concreta; egli com-
mette un errore grossolano, solo quando vuol erigere una regola metodologica alla dignitáa di
spiegazione teoretica e di sistema
metafisico. : Questa in breve la confutazione bergsoniana del meccanicismo (1); che io accetto,
sottoscrivendo anche quasi completamente
— (dico: quasi, per la teoria da me
difesa intorno all'astrazione) cid
che riguarda i rapporti tra scienza e
filosofia. Scienza e filosofia marciano
in due direzioni ben diverse; questa
verso la storicitá della vita e della
coscienza, quella verso l'antistoricitá degli elementi, BALSILIE nel suo
libro: 4x4 examination of prof: Bergson
philosophy, London rgr2, sostiene che Bergson é un meccanista per alcune teorie di Matiére et
Mémoire, non gia per le idee
dell'Évolution créatrice. La dottrina della psicofisica, della psicofisiologia; luna
verso il movimento composto di
immobilitá e di simultaneita, l'altra
verso il movimento reale; l'una verso il tempo
t della fisica, l'altra verso la durata concreta; l'una verso il meccanicismo, l'altra verso la
finalitá; l'una verso la morte, l'altra
verso la vita; la scienza verso
Putilita, la filosofia verso la veritá.
o Conseguentemente al suo antimeccanicismo,
Berg- son contro gli evoluzionisti
d'ieri, i quali con una asserzione che faceva loro poco onore —
vedevano nell'uomo un bruto perfezionato
e che tra l'uomo e il bruto ponevano
solo una diversitá di grado, affermó la
tesi contraria, ossia una diversitá di natura. Se ¡ suoi pregiudizi contro l'intelligenza rendono
talvolta un po” deboli le sue prove, é
un fatto peró che le pagine dell”
Évolution Créatrice, dedicate alla diver-
genza tra l'istinto e l'intelligenza, contengono molte verita.
Egli anzi ha compreso che la teoria del trasfor- mismo non é nemmeno una teoria filosofica, e
dinanzi a coloro, che nell'ipotessi
trasformista scorgevano un compendio di
tutta la filosofia, ha notato che gli im-
porterebbe molto poco, anche se il trasformismo fosse dimostrato falso. Gli evoluzionisti non hanno mai afferrato
l'anima di veritá, che David Hume
insegnó nel suo Treatise of human
nature. L'esperienza — disse Hume — ci
mostra solamente come un fatto segue l'altro, ma non ci dá l'intima necessita del loro
collegamento; ci offre cioé un « rapporto
di successione », non un » Filosofia e realtá » Note critiche. a) Il metodo pag b) La dottrina » La libertá . » IT. L'anima »
La vita » Dio Note oriaficho. Piecola Biblioteca di Scienze
Moderne Eleganti volumi in-120 1. Zanotti-Bianco, In cielo. Saggi di
ones — 1897 . A y E L. 250 2. Cathrein,
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umano. Con figuro - 2 'edizione, 1907 92:00
L. Sergi, Arii e Italici — 1898, (esaurito) 5. Rizzatti, Varietá di storia naturale. Eon
figure — 1901 .” . ñ - PA 6. Lombroso,
Il problema della felicitá — Ya edizione, 1907, a E = 7. Morasso, Uomini e idee del domani Kautsky,
Le dottrine economiche di C. Marx — e (sequestrato). 9. Hugues, Oceanografia — 1898 a dl $ a 6 Re
L. 350 10. Frati, La donna italiana —
1899 . o E AS : ” 2 11. Zanotti-Bianco,
Nel regno del sole — 1899. 6 $ o 2 S s) 2,50
192, Troilo, 1l misticismo moderno — 1899. > B E ; ” 3 13. Jerace, La ginnastica e l'arte greca. Con
fi ure — 1899 ; ó > : » 3= 44.
Revelli, Perche si nasce maschi o femmine? — 1899 = o »» 2,50. 15. Groppali, La genesi sociale del fenomeno
scientifico — 1899 . z > »» 2,50 16.
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contemporanea — 1900. A é ; A z . 1 %2=
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Dall'alchimia alla chimica. Gon figure — 1906 A ; BR Pa Fratelli Bocca, Editori – Torino De
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organica e le origini umane Gallo, Valore sociale dell'abbigliamento — . E ”.
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di star bene (in corso a stampa). = 3
228. Vercellini, Unita di legge nei fenomeni vitali — 1914 z a » 208 '929. Germani, La Ragioneria come scienza
moderna . - PE s» 2,50. Ys NB. 1 volumi di questa serie esistono pure
elegantemento legati im tela con” fregi
artistici, con una lira d'aumento sul prezzo indicato. Ps Ñ
a A ll
nes e T Se
y Pe
ES A y e a xi le
t y ES y,
3 E Z $ í
seo > 1 pe 4. Francesco Olgiati. Olgiati. Keywords: classici, il gusto per l’antico, ius,
Aquino, sillabario, filosofia classica, filosofia no-classica, logica classica.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olgiati” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice ed Olimpio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di
Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He lives in the middle of nowhere.
When he finds his city became an uncomfortable place for pagans, he moves to
Rome.
Luigi Speranza -- Grice ed Olivetti: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’archivista – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “Olivetti deals with some
topics dear to me and Strawson, like subject, transcendental subject, and the
rest – he also uses ‘analogy,’ which is a pet concept of mine – I have been
compared to Apel, so the fact that Olivetti in his ‘conversational’ approach
relies on him, helps!” - Professore a Roma -- preside della Facoltà di
filosofia. Formatosi a Roma, confrontandosi con i
temi del rapporto fede e ragione nell'ambito di un collegio di docenti
orientato sul versante marxista, storicista, postidealista, trova in ZUBIENA il
suo maestro. Con lui iniziò una collaborazione intellettuale che lo porta a
studiare i temi della filosofia della religione, partecipando ai colloqui
romani inaugurati dal filosofo piemontese, dapprima come segretario e poi, dopo
la morte di ZUBIENA come organizzatore. Dopo iniziali studi di estetica
religiosa e di filosofia classica tedesca, si dedicò alla ricerca di un
approccio neo-trascendentale al tema della religione, insegnando filosofia
morale a Bari e poi sostitundo Zubiena nella cattedra romana di filosofia della
religione. Giunse dopo l'incontro decisivo col pensiero di Lévinas, ad
elaborare una concezione di questa disciplina come antropologia filosofica e
etica in quanto «filosofia prima anzi anteriore» su base storica, nata dalla
dissoluzione in età tardo settecentesca, soprattutto ad opera di Kant e Hegel,
della onto-teologia. Molta rilevanza aveva nel suo insegnamento lo studio dei
classici tedeschi, in chiave storica, e da ultimo il confronto sia con la
fenomenologia, specie con Lévinas e Marion, sia con la filosofia analitica. In
Analogia del soggetto, la sua opera maggiore, l'autore elabora una teoria
analogica del soggetto, riprendendo suggestioni di Husserl, Apel e Lévinas,
confrontandosi con Heidegger e suggerendo una teoria dell'"umanesimo
dell'altro uomo" su base staurologica ed etico-interinale («espropriarsi
del caritatevole nell'interim interlocutivo» ibidem). La tesi è che non
esiste un'essenza dell'essere umano. Tale essenza è immaginata, e senza
siffatta immaginazione l'essere e l'umano non si coapparterrebbero. Così si
dice, in un certo senso la fine dell'etica. Tuttavia così si dice anche che
l'etica, e non l'ontologia, è la filosofia prima, anzi anteriore. Di seguito
l'autore prospetta un ripensamento del soggetto trascendentale, con un
differimento dell'ergo rispetto al cogito cartesiano, partendo dal “loquor,” ovvero
«dall'origine analogica di ogni logica, in modo da scomporre la presenza
trascendentale in sum-prae-es-abest. Si perverrebbe così all'abbozzo di un
«ripensamento dell'appercezione trascendentale, in modo tale da reimmettere il
pensiero rappresentativo nella giusta traccia della rappresentazione. Attività
accademica e influenza Direttore dell'Istituto degli Studi Filosofici Castelli
e poi dell'"Archivio di Filosofia", si fece promotore di colloqui e
convegni nei quali conveniva, a Roma, ogni due anni, nei primi giorni di
gennaio, l'élite della filosofia della religione europea e mondiale (Ricœur,
Marion, MATHIEU, Quinzio, Melchiorre, Lévinas, Lombardi Vallauri, Forte,
Casper, Dalferth, Greisch, Capelle, Courtine, Falque, Grassi, Paul Gilbert, S.J.
Stéphane Mosès, Flor, Prini, Peperzak, Swinburne, Gabriel Vahanian, Hénaff,
Vitiello, Tilliette, Henry, Taylor, tra gli altri). Nelle sue prolusioni e nei
suoi contributi introduttivi si prospettava lo sfondo su cui si sarebbero
esercitati i contributi e le discussioni del Colloquio, di seguito pubblicati
in numeri monografici della Rivista "Archivio di Filosofia". I
temi trattati erano spesso centrali nell'elaborazione di una filosofia della
religione come filosofia tout court e abbracciavano, negli anni ottanta e
novanta del Novecento, temi centrali come "Teodicea oggi?",
l'argomento ontologico, l'Intersoggettività, il Dono, la Filosofia della
Rivelazione,il Sacrificio, il Terzo. La sua personalità riservata entro
l'ambito strettamente scientifico e il rigore speculativo dei suoi scritti non
ne hanno favorito una conoscenza pubblica al di là dei circuiti accademici, e
il suo insegnamento ha lasciato un traccia significativa costituendo una vera e
propria scuola di filosofia della religione. Saggi: “Il tempio simbolo
cosmico” (Milani, Padova); “L'esito teo-logico della filosofia del linguaggio” (Milani,
Padova); “Filosofia della religione come problema storico” (Milani, Padova); “Da
Leibniz a Bayle: alle radici degli Spinoza briefe, “Archivio di filosofia”; “Analogia
del soggetto” (Laterza, Roma); "Filosofia della religione" in La
filosofia, Le filosofie speciali (Pomba, Torino); Avant-propos, in Le Tiers,
Archivio di Filosofia Archives of Philosophy, Considerazioni introduttive sul
tema: Postmodernità senza Dio?, in «Humanitas»
a.c. di Ciglia e De Vitiis Traduzioni e curatele: Kant I., La
religione entro i limiti della sola ragione, Romam Laterza); “La religione nei
limiti della sola ragione, I.Kant (Laterza, Roma); “Saggio di una critica di
ogni rivelazione, con introduzione Fichte, Laterza, Roma) ; Dizionario
Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.
Francesco Valerio Tommasi, Archivio di filosofia », Tommasi, Le persone,
infiniti fini in sé. Un ricordo lettore di Kant, « Studi Kantiani », Filosofia
della religione Fenomenologia Ontologia Teologia Fede Ragione Bruno Forte, Del sacrificio e dell'amore_In
memoria, su, Tributo dell'Roma, Istituzioni collegate, su filosofia.uniroma1. E. Giacca: un filosofo della religione",
Giornale di filosofia, su giornaledifilosofia.net. Archivio di filosofia, su
libraweb.net. Marco Maria Olivetti. Oivetti. Keyword: implicatura, l’archivista
-- “philosophy of language.” Cratilo, teologia del linguaggio, esito teo-logico
della filosofia del linguaggio, la religione razionale secondo Kant, l’idea de
fine – autonomia, il regno dei fini in Kant, religione e linguaggio, l’esito
teologico della filosofia del linguaggio, Jacobi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olivetti” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice ed Olivi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia
friulese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Filosofo italiano. Udine, Friuli-Venezia
Giulia. Medico e storico italiano. Anche
filosofo. PALLADIO degli Olivi, Gian Francesco. – Nacque a Udine tra il 1610 e
il 1615 da Alessandro e da Elena di Strassoldo.
Gli Annales di Udine il 4 dicembre 1609 annoverano l’aggregazione della
famiglia, proveniente da Portogruaro, tra i nobili della città. Palladio frequentò l’università di Padova,
dove si laureò in giurisprudenza nel 1638. Rientrato in patria, si dedicò per
un breve periodo alla professione forense; divenuto abate, ottenne il beneficio
ecclesiastico della pieve di Latisana. Si iscrisse, con il nome di Ferace,
all’Accademia udinese degli Sventati, fondata tra gli altri dallo zio paterno
Enrico. Nel 1658 e nel 1659 pubblicò a Udine due opere di Enrico: il De
oppugnatione Gradiscana libri, sul conflitto che oppose tra il 1615 e il 1617
la Repubblica di Venezia e l’Austria, noto con il nome di guerra di Gradisca,
e i Rerum Foro-Iuliensium ab orbe
condito usque ad an. Redemptoris Domini nostri 452 libri undecim, rimasti
interrotti alla presa di Aquileia da parte degli unni. Palladio decise di
continuare l’opera dello zio, non più in latino ma in volgare, partendo dal
punto in cui si era interrotta, l’anno 452, per arrivare sino al 1658.
-ALT La cronaca, Historie delle
provincie del Friuli, è composta secondo il metodo annalistico e fu pubblicata
in due volumi a Udine nel 1660. La narrazione, pur essendo fondata su un’ampia
documentazione, ripete alcuni luoghi comuni concernenti in particolare
l’origine delle città e dei loro casati più eminenti. L’autore difese in
particolare l’antichità di Udine riprendendo parte degli argomenti proposti da
Gian Domenico Salomoni e ripresi da Enrico Palladio, i quali identificavano
Udine e non Cividale nell’antica Forum Iulii di cui parla Paolo Diacono,
attribuendo in tal modo a Udine l’egemonia sulla regione dopo la distruzione
dell’antica sede metropolita di Aquileia. Riprendendo quanto detto da Salomoni,
Palladio riconduceva la fondazione di Cividale sul fiume Natisone al periodo
successivo alla vittoria del duca Wechtari, o Vettero, sugli Slavi, descritta
nel capitolo V della Historia Langobardorum di Paolo Diacono. Palladio sostenne con diverse argomentazioni
l’esistenza di un antico vescovato udinese indicando in un presunto vescovo
Teodoro da Udine il destinatario della lettera Regressus ad nos del 21 marzo
458, sulle donne sposate con uomini rapiti dai barbari, inviata da papa Leone
Magno a Niceta, vescovo di Aquileia; attribuì poi a Udine i vescovi di Zuglio
citati nei sinodi dei secoli VI-VII e in Paolo Diacono. La Historia, pur
presentando i limiti comuni alla storiografia prodotta nel corso del XVII
secolo, fornisce dunque numerosi dati che contribuiscono alla ricostruzione
della storia friulana. Nella metà del Settecento Paolo Fistulario criticò
severamente i passaggi nei quali è creata un’origine delle illustri famiglie
cittadine priva di qualsiasi fondamento. La la famiglia comitale degli
Strassoldo, per esempio, sarebbe discesa da Rambaldo di Strassau, descritto
come il «supremo direttore delle armi» ai tempi dell’imperatore Valentiniano
III (vol. I, p. 5). L’opera conobbe ulteriori critiche nel secolo successivo da
parte di Antonio Zanon, che rimproverò
Palladio di avere scritto una storia parziale, nella quale veniva data
voce solamente al punto di vista espresso dalla nobiltà e non al ceto borghese
cittadino, che trovava invece spazio in altre opere che circolavano al tempo,
quali i Dialoghi di Romanello Manin, rimaste manoscritti. Palladio morì nel 1669. Scrisse anche altre opere in prosa e in versi
per l’Accademia degli Sventati, ancora di proprietà degli eredi al tempo di
Giuseppe Liruti, e alcuni testi di contenuto giuridico. Nella Biblioteca civica
di Udine sono conservate alcune rime, intitolate latinamente Carmina (Fondo
principale, 1076) e una Collectanea legalis (Joppi, 623), redatta secondo voci
organizzate in ordine alfabetico e solo in parte compilate. Fonti e Bibl.: Udine, Biblioteca civica,
Mss.: V. Joppi, Letterati friulani, c. 77v; G.D. Salomoni, Difesa del capitolo
de’ canonici della città di Udine agli ill.mi et rever.mi signori cardinali
della sacra congregatione Sopra i riti di S. Chiesa, Udine 1596; G. Liruti,
Notizie delle vite ed opere scritte da letterati del Friuli, IV, Venezia, 1760,
p. 459; A. Zanon, Dell’agricoltura, dell’arti e del commercio in quanto unite
contribuiscono alla felicità degli stati, Venezia 1766, pp. 191-229; P.
Fistulario, Discorso sopra la storia del Friuli detto nell’Accademia di Udine,
addì X maggio dell’anno MDCCLIX, Udine 1769; F. Di Manzano, Cenni biografici
dei letterati ed artisti friulani dal secolo IV al XIX, Udine 1884, p. 147; F.
Fattorello, Storia della letteratura italiana e della coltura nel Friuli, Udine
1929, p. 157; E. Petrarca, Storici minori del Friuli. Palladio Gian Francesco,
in La Guarneriana, X (1967), pp. 71 s.; L. Milocco, L’Accademia udinese degli
“Sventati” (secoli XVII-XVIII), in Più secoli di storia dell’Accademia di
scienze, lettere e arti di Udine (1606-1969), Udine 1970; L. Cargnelutti, P.
degli Olivi, G.F., in Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei friulani, III, a
cura di C. Scalon - G. Greggio, Udine 2009, pp. 1903-1905.Enrico Palladio
degl’Olivi.
Luigi Speranza --
Grice ed Onato: la ragione conversazionale e la setta di Crotone -- Roma – filosofia
calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean.
Fragments from his treatise survive. Grice: “But since they are in Greek,
CICERONE refuses to study him!” -- Onato. Onata. Onato.
Luigi Speranza --
Grice ed Onorato: la ragione conversazionale del cinargo romano – Roma –
filosofia italiana. Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano.A member of the Cinargo who takes to the habit of wearing a bearskin. Onorato
Luigi Speranza --
Grice ed Opillo: la ragione conversazionale e l’orto romano -- l’implicatura
conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Segue l'indirizzo dell’orto. Liberto
di un membro dell’orto, insegna filosofia, ma sciolge la sua scuola per seguire
Rutilio Rufo a Smirne, ove compose varie saggi, fra le quali Musarum libri
IX. Aurelius Opilius. Ueber die Schreibung “Opillus” statt “Opilius” vgl.
F. Buecheler, Rhein. Mus. Opilius lehrte zuerst Philosophie, dann Rhetorik.
endlich Grammatik. Später löste er seine Schule auf und folgte dem P. Rutilius
Rufus ins Exil nach Smyrna. Hier schrieb Opilius unter anderem ein Werk von neun Büchern mit dem
Titel “Musarum libri IX”. Nach den Citaten, die daraus von Gellius und
besonders von Varro, Festus und Julius Romanus gemacht werden, muss er sich
besonders mit Worterklärungen befasst haben. Ferner erwähnt Sueton einen Pinax
mit dem Akrostichon „Opillius"; da wir wissen, dass sich Opilius mit
Scheidung der echten und unechten Stücke des plautinischen Corpus abgab, werden
wir diese Schrift dafür in Anspruch nehmen dürfen. Zeugnisse. «) Sueton, de
gramm. Aurelius Opilius, Epicurei cuiusdum libertus, philosophiam primo, deinde
rhetoricam, nocissime premmetiram docuit. dimissa autem schole Rutilinm Rufum damnatum
in Asiam secutus ibidem Smyrnae simulque consenuit compositque variae eruditionis
aliquod volumina, ex quibus novem unius corporis, quia scriptores ac poetas sub
clientela Musarum indicaret, non absurde et fecisse et inscripsisse se ait ex
numero divarum et appellatione. huius cognomen in plerisque indcibus et titulis
per unam (L) litteram scriptum animadcerto, rerum ipse id per duas effert in parastichide
libelli, qui incribitur pinax 3) Musarum libri novem. Gellius, Aurelins
Opi-lines in primo librorum, ques Mexerum inceripoit (über indutine). Bei Varro
de lingua lat. wird er unter dem Namen Aurelins angeführt (proefica; i, 106,
unter dem Namen Opilins Vgl. H. Usener, Rhein. Mus., Bei Festus wird er citiert
als Aurelius Opilius, dann als Opilius Aurelius, ferner als Aurelio, endlich
als Opilius, O. M. Vgl. R. Reitzenstein, Verrianische Forschungen (Bresl.
philol. Abh.). Charis.
(Julius Romanus) Gramm. lat., 1 at ait Aurelius Opilius. Aurelio plaret. Vgl.
O. Froehde, De C. Julio Romano Charisii anctore (Fleckeis. Jahrb.
Supplementbd.) Der lirres Vgl. F. Ritschi, Parerga, Zu den Verfassern von
indices plautinischer Stücke rechnet Gellius, auch ungeren Aurelius. F. Osann,
Aurelius Opilius der Grammatiker (Zeitschr. für die Altertumsw.); G. Goetz,
Pauly-Wissowas Real-encycl. Bd. 1 Sp. 2514. Die Fragmente bei E. Egger, Lat.
serm. vet. rel. und Funaioli (Oben v. u. ist statt (C'os.)* zu lesen. denn P.
Rutilius Rufus war Cos.). Grice: “Since he
was a ‘liberto,’ CICERONE refuses to study him!” -- Opillo
Luigi Speranza -- Grice ed Opocher: la ragione
conversazionale l’implicatura conversazionale della giustizia – IVSTVM QVIA
IVSSVM – filosofia veneta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Treviso, Veneto. Grice: “There are two points that
connect me with Opocher: ‘individuality’ in Fichte, since I love the problem of
the in-dividuum, perhaps influenced by my tutee Strawson (“Individuals!”) – and
Opocher’s ‘analisi’ as he calls it, of the ‘idea’, as he calls it, of
‘giustizia’, particularly in Thrasymachus, for which I propose an
eschatological study!” Con Ravà e
Capograssi è considerato uno dei maggiori filosofi del diritto italiani del
Novecento. Nacque da Enrico Giovanni, ginecologo. Durante la Grande Guerra la
famiglia, timorosa dei bombardamenti, si trasferì dapprima nella periferia di
Treviso, quindi a Pistoia presso una parente. Gli anni successivi riportarono
un clima di serenità e agiatezza, nel quale Enrico crebbe, dividendosi tra la
città natale e Vittorio Veneto, meta delle sue vacanze estive. Dopo il liceo fu avviato, secondo il volere
del padre, agli studi giuridici, benché fosse decisamente più inclinato verso
la filosofia. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza a Padova, ma continua a
coltivare i propri interessi personali seguendo le lezioni di filosofia del
diritto tenute dRavà. Sotto la guida di quest'ultimo stilò una tesi su La
proprietà nella filosofia del diritto di Fichte, con la quale si laurea brillantemente.
Ottenuta la libera docenza, vinse il concorso per la cattedra di filosofia del
diritto presso la facoltà di giurisprudenza a Padova, succedendo a Bobbio che
in Veneto era divenuto segretario regionale del Partito d'Azione. Nell'ateneo
padovano insegnò ininterrottamente per quarant'anni, tenendo lezioni per i
corsi di filosofia del diritto, di storia delle dottrine politiche e di
dottrina dello stato Italiano. È
ricordato in maniera particolare per i suoi studi sull'idea di giustizia, e sul
rapporto tra diritto e valori, nonché per la redazione di un celebre manuale,
Lezioni di filosofia del diritto, usato da generazioni di allievi. Fu magnifico rettore dell'Università. È stato
Presidente della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica.
Influenzato dall'amicizia con il cattolico Capograssi e col laico Bobbio, fu
azionista con Bobbio e Trentin, condividendo (a Palazzo del Bo) le attività
cospirative della Resistenza locale. Nel dopoguerra rimase amico stretto di
Trentin e di Visentini, divenendo a sua volta il maestro di Toni Negri. Saggi:“Individuale”
(Padova, MILANI); “Esperimentato” (Treviso, Crivellari); “Giusto” (Milano,
Bocca); “Filosofia del diritto” (Padova, MILANI); “Gius-to” (Padova, MILANI);
“Gius-to” (Milano); Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fulvio
Cortese, Liberare e federare: L'eredità intellettuale di Silvio Trentin,
Firenze University Press, 2citando D. Fiorot, La filosofia politica e civile –
filosofia CIVILE --. in Scritti, G.
Netto, Ateneo di Treviso, Treviso, Vedi G. Zaccaria, Il contributo italiano
alla storia del Pensiero, Padova, I rettori Unipd | Padova, su unipd.
Denominazione attuale: Società Italiana di Filosofia del Diritto, vedi. Giuseppe Zaccaria, Il Rettore della
tolleranza, in La Tribuna di Treviso, Toni Negri: «Un uomo davvero libero
nell'università chiusa degli anni '60», in [Il Mattino di Padova] Giuseppe
Zaccaria, Ricordo Omaggio ad un maestro,
Padova, MILANI, 2Giuseppe Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del
PensieroDiritto, Società Italiana di Filosofia del Diritto, su sifd. Grice: “Opocher is concerned
with ‘iustum quia iussum,’ which while transparent to Cicero as analytically
false a posteriori, it is just impossible to express in Anglo-Saxon or English.
Both iustum and iussum come from the same root. So what is just is what is
commanded. The principle of positivism. Opocher finds this all too easy, so he
rather examines Fichte, who tries to express in his vernacular vulgar (Recht,
Wesen, Gemein Wesen, and so forth) all the ideas of contractualism – a contract
between a ego and alter – on the wake of the beheading of Marie Antoinette!”. Enrico Giuseppe Opocer. Opocher. Keywords: giustizia –
fairness, gius, il concetto di gius nel diritto romano, iustum non quia iussum
– verbal aspect here --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Opocher: giustizia
del neo-Trasimaco.”
Luigi Speranza --
Grice ed Opsimo: la ragione conversazionale e la setta di Reggio – Roma – filosofia
calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Reggio, Calabria. A
Pythagorean cited by Giamblico. Grice: “Cicerone said that in proper Italian,
his name was Ossimo!” -- Opsimo.
Luigi
Speranza -- Grice ed Orabona Ancora negli anni novanta nascono altri
progetti di lingua universale di autori italiani, fra questi il Raubser (da
raub = universo e ser = lingua), elaborato nell’arco di quasi vent’anni dal
varesino Luigi Orabona (1943), insegnante elementare. Fra le altre cose, i
vocaboli del Raubser esprimenti concetti opposti o che hanno una certa analogia
vengono rappresentati con inversi grafici; così abbiamo: met = amore e tem =
odio; doraf = arteria e farod = vena; favet = bianco e tevaf = nero; kabon =
testa e nobak = coda.
Luigi
Speranza -- Grice ed Orazio: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- Roma – la scuola di Venosa -- filosofia basilicatese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Venosa). Filosofo italiano. Venosa, Potenza,
Basilicata. Orazio fu attirato dai problemi morali ed estetici. Quinto Orazio
Flacco. Muore a Roma. Soltanto nelle "Epistole," Orazio dichiara di
sentirsi attirato dalla filosofia morale per la quale vuole abbandonare la
lirica. Si è notato che questa epistola è un protrettico. Ma anche negli
scritti precedenti O. tocca spesso argomenti filosofici. Scherzosamente, O.
si chiama dall’orto “de grege poreus” (Epist.). Effettivamente egli, che
dichiara di non voler giurare sulle parole di nessun maestro, non appartiene ad
alcun indirizzo determinato. Nei suoi studi in Atene conosce dottrine di scuole
diverse, vede nelle sette filosofiche una disciplina che non deveno essere
ignorate. O. s’interessa soprattutto per la morale applicata ai casi della
vita. La sua indole, amante dell’equilibrio, della tranquillità, della
serenità, gli fa considerare con simpatia l’etica dell’ORTO, di cui si scorge
l’influsso nelle satire, che abbondano
di reminiscenze a LUCREZIO (si veda). O. ri-assume la teoria dell’orto
sull’origine del diritto e della legge. Più volte, satireggia paradossi del
Portico: tutte le colpe sono uguali, il sapiente è re e conosce ogni cosa. O. disegna
la caricatura del Portico: capelluti e barbuti che, predicatori ambulanti,
espongono precetti ai quali non sempre fanno corrispondere la vita. Ma O.
mostra di apprezzare maggiormente la severa nobiltà degl’ideali del Portico. O.
si avvicina sia all’Orto che al Portico quando loda la vita semplice e sana
della campagna. Ma quando sferza la caccia alle riechezze e al lusso, O. si
collega al Cinargo, delle cui diatribe si avverte l'influsso nelle sue
satire. Nell'insieme, la morale di O. è utilitaria ed è diretta
dall’esigenza dell’equilibrio e della misura. La sua non è una teoria
filosoficamente fondata e perciò non manca di incoerenze. Nell’"Arte
Poetica" si riconoscono abitualmente riflessi di teorie del “Lizio” e
particolarmente di Neottolemo di Pario, che assegna alla poesia il duplice
ufficio di dilettare e di giovare. Da Panezio si fa provenire il concetto del
"decorum", che ha un posto centrale nella dottrina estetica che O. propugna. He is sent by his father to study philosophy. His studies are cut short
when civil war breaks out after the assassination of GIULIO (si veda) Cesare.
His works, frequently advocate the simple country life, and a number of letters
he publishes indicate a continuing interest in philosophy. Although he has
friends that followed the doctrine of The Garden, and he is clearly familiar
with these doctrines, it is not clear that he belongs to any particular
‘school.’ In an examination of O.’s philosophy, we should not look for that
comprehensive love of wisdom generally termed philosophy by the ancients,
including science, ethics, and speculative thought. O. Is not the speculative
type of man to be interested in the composition of the universe. Quae mare
compescant causae, quid temperet annum, Quid velit et possit rerum Empe 00168
at Stert tan doddret acunen, fre Wetaer the pLanete wander ad rol Fone
spontareduer) 18 pedoedes or subt1e dtortinius that Is Crazed."). O. Is a
realist, concerned with the ethical side of wisdom -- with the conduct of life.
O. is thoroughly Roman, and the Romans, except only a few lofty souls such as
Lucrezio, Cicerone, and Virgilio, are of a practical, mundane nature. The Roman
philosopher cares little for the abstractions of speculation. The Roman is born
to rule -- parcere subleatio et debellare superdos.*2 than oupire, titg Shail
be tnite are, to ozdain the law of peace, to be merciful to the conquered
andbeat the haughty down. The philosophy which appeals to the Roman is that
which would give him mastery over self, and hence over the world. But
everywhere around him O. sees the tremendous waste of human energy, struggling
nen, feverishly pursuing the bubbles that do not satisfy, frittering away their
man-hood, consuming time and not achieving the mastery of life to which their
heritage entitles them. For such an audience, then, in which the will to live is
the dominant characteristie, O., the sane, tolerant, and sympathetic man of the
world, with the insight which comes from contemplation and the inspiration
which comes from a realization of the dignity of his task, formulates his
philosophy of living, a simple, practicable code of ethios, to help men to
saner, worthier, happier lives -- a code which furnishes a solution to the
problems of life. It is not an explanation of life, but a way of life,
something tangible, a touchstone by which the Roman man may test his own worth
and contentment. How keenly he feels the importance of his mission we may know
from "Sic nihi tarda fluunt ingrataque tempora, quae spem Consitiumque,
morantur agendi naviter id quod alike to the poor, alike to the rich, and the
neglect. O. Is unusually well qualified to undertake this office of sage,
monitor, and guide, for he is the product of unusual home training, thorough
training 1n the schools of philosophy, and a very varied experience. O. is very
fortunate in his home influence. Born of a freedman father, who knows life from
the point of view of the toiler, O. early aoquires the common sense which is
the basis of sound living. His father gives him an insight into the things
worth seeking, by pointing out the conspicuous failures in his own vicinity.
Instead of merely advising his son to live frugally, he calls his attention to
a certain well-known fellow who squands his patrimony. Others he indicates as
shameful examples of the effects of lust. By taking as a precedent the action
of certain Romans whose lives are an example to the wole comunity, and shunning
the practices which had made others infamous, he may always have a criterion of
conduct. Further than teaching his son to distinguish clearly between vice and
virtue, keep his eyes open to the lives of those arourd him, and profit by
their mistakes, his father could not go, saying that others could explain to
him the reasons for shunning vice, and that he might learn these reasons, O. is
sent to the best possible schools, no doubt at no small sacrifice. It is the
finest possible tribute to the fundamental worth of this rustic freedman that O. speaks ever gratefully and without shame of
his humble birth and boyhood training. Just what O.’s life at the 'University'
of Athens may have been, we do not know. But he gives ample proof of his entire
familarity with both L’ORTO and IL PORTICO. The former, so ably expounded by LUCREZIO,
must have made a profound impression on O., the lover of life. That he had a
sympathy with their doctrine of impassiveness -- to them the duty of man being
to increase to the utmost his pleasure, decrease to the utmost his pain, and
the highest pleasure being peace of mind -- is proved by Tempora momentis
Tapora potent. Oat qua gordine Dulla -- Not to be exoited about anything,
Numicius, is almost the one and only thing that can make and keep a Ion sun and
stars and the seasons departing in fixed course there are who view with no
tinge of and again -- Gaudeat an doleat capiat metuatre, quid ad rem ntere 1, --
ral eerento ne has esea beeter oat matters it, worse than BotE In body and
soudii, hs eyes stare and he ds dased. In another place he allies himself
playfully with the more material enjoyments of L’ORTO. Once he admits, half
shamefacedly, his weakness for the hedonism of Ceristippus -- Now imperceptibly
I slip back to the terets of et, tot ne to the worla ate the rorta to. And in a
second passage he praises the adaptability of Aristippus, contrasted with the
cynic. But a man with the rigid training of O.s early years could not be
completely satisfied with the superficialities of L’ORTO and Cyrenaism. He
values happiness, but he has too much moral fibre to find it either in
impassiveness or pleasure for its own sake, and so in spite of his repugnance
to the sternness of IL PORTICO, and the severity of its "Sapiens", he
is drawn toward the positive virtue of IL PORTICO. No utterance could ring more
clearly of IL PORTICO than the following: "Vir bonus et sapiens audebit
dicere: 'Pentheu, 'Adiman bona.''Nempe pecus, rem, Comed bas entro toste httote
tenth maniodsette sub custode tenebo.'hoo sentit, 'Moriar.' -- The good and wise
man will make bold to say, 'Pentheus, Ruler of Thebes, what will you force an
undeserving man like me to suffer and endure?' 'I will take keep you under the
charge of a grim "The deity himself will free me as soon as I I suppose
thig is what he means, 'I will die.' Death is the final goal of things. Although
he appreciates the value of the tenets of IL PORTICO, he cannot take its asceticism
altogether seriously, nor adopt them in their entirety, and fling this jest at
them: "Ad summem; sapiens uno munor est cove, dives, Liber, honoratus,
pulcher, rex Denique Pree iple sanus, nisi oun pituita molesta est. -- To sum
up, the philosopher is inferior to jove alone; tingo inga aborea noalthg, sare
winen troubied Thus we see that O. is an eclectic, sifting from all the schools
of philosophy what wis finest, sanest and best adapted to his needs. If there
appear to be inconsistencies in his system of ethics, and there are countless
ones, we must remember that he regards himself as the physician of morals,
ministering to many kinds of ailments, each one demanding a different
prescription, and he knows all too well that life is too complex to be reduced
to a simple formula. To IL PORTICO O. owes his positive dootrine of self
control, of a life in accordance with nature and controlled by virtue, and his
superiority to misfortune. To L’ORTO, O. owes his theory of the wise enjoyment
of life, and to the Cyrenaics his theories of moderation. Of his own foibles
and changeableness he says Cone todtur t tale thdate pocune – I commend the safe ana humble when funds are
low, brave enough in a poor environment; but when aught better and more
sumptuous falls to my good fortune. O’s life experience ia a kaleidoscopic one.
His youth is spent in association with the sons of the wealthy and well-born, and
thus he acquires that tact and urbanity which are so valuable in his later
relationships, and which enable him to give advice on matters of social
conduct. Then follow his attachment to the hopeless cause of the Republicans,
with the disillusionment, loss of property, position, and purpose. such a
complete alteration of nis entire life scheme could not but have a tremendous
effect. Any faith that he might have had in politics as worthy of a man's best
efforts, is of course completely shaken. From that time on he philosophises with
thorough conviction of the insubstantiality of "ambitio". Besides he
realises keenly the moral evils that follow the civil ware, and pessimism and
general contempt for nis shameful countrymen. His fresh beginning in kome in a
most humble position, gives him the first taste of the real struggle of the
great mass of men for the mere means of existence. From this position he sees
the weaknesses of the poor, their unrest, and idle craving for the wealth which
they fail to see is not conducive to happiness. It is perhaps from this phase
of his existence that O. gains an appreciation of the simple joys of life wich
are attainable for all -- sunshine, the shade of tree, the river, wine, etc. Lastly
nis friendship with MECENATE (si veda), coming after the bitterness of life,
affords him the leisure to devote himself to philosophy. He learns too well the
instability of position to value it over highly, but from this relationship he
draws the principles which he lays down as guides for patron and client.The
burthen of O.'s PHILOSOPHY OF LIFE – cf. H. P. GRICE, “PHILOSOPHY OF LIFE” -- is
the attainment of HAPPINESS – H. P. GRICE, “HAPPINESS”. Since he tastes of the
sweetness and bitterness of life, and now by virtue of his devotion to philosophy
is somewhat removed from the toil and moil of the world, he thinks that he has
a better perspective, oa. better judge of the eternal values than the great
majority of men, blinded to the larger view by the details, and hence first
undertakes an explanation of the NATURE of happiness. Ultimately happiness is
the product of a definite attitude toward life. It is not a mere matter of
chance. It is within the reach of all who care enough for it to pursue it in
the right way. An idle, aimless, drifting existence will never attain the goal.
the thoughtless, short sighten so man world must be brought to realise this,
must be aroused to a contemplation of the issues of life, for he who neglects
them suffers for his neglect -- et miPosces ante diem librum cum lumine, si non
-- and if you will not call for a book with a light before dawn, if you will
not apply your mind to the pursuit of honorable ends, you will be kept awake
and racked with jealousy and 1ove. Men's bodily well-being, in wich they take
such a keen interest, is not half so important as right living. Si latus aut
renes morbo temptantur acuto Quaere fugen morbi. Vis reate vivere: Quis
non?"l who does not? -- And yet they place every other interest before the
wise regulation of life, either because they are too ignorant to realise its
importance, or because they are too slothful and cowardly to face the issues.
Nam our Bet andaum, ditters Surand tompue inatun -- When you make haste to
remove what hurts the eye, Then let every man take thought of whither his life
1s trending -- Inter cuneta leges et percontabere doctos, Qua ratione queas
traducere leniter sevum -- In the midst of all you must read and question the
what lessens care, what makes you your own friend, we aud walk, and tae pata of
a iise mo 10e4. -- When once men do come to acknowledge that happiness in not
an accident, but the logical outcome of et well considered and consistently
pursued course of life, they should give prompt attention to these matters of
vital moment, and thus H. indicates the first step toward the new life. Multit
e arttase fygere et sapteatia prine And once aroused it will not seem so
difficult, for -- Dope up taot que coopst habit; aapeze aude; If a man really
desires happiness he must have an aggressive attitude toward it, for what is
worth achieving can be won only at the expense of vigorous effort. -- Sedit qui
timuit ne non succederet. -- osame has beer afraid of fallure, has remained And
again -- Ho onus horret,10oodt at persert, ro cospore matus. One shudders at
the load as too great for his fueble spirit and feeble frame; another takes it
on his back and carries it to the end. Lest anyone should think that because
his past life has not been a worthy one it is useles or ridiculous to attempt
any serious reformation. O. invites him to draw inspiration from his own
altered ideals. Quem tenues decuere togae nitidique capilli, quem sois immunem
Cinarse placuisse rapaci,Quem bibulum liquia1 media de luce ralerni,, Cena
brevis luvatet prope rivum sommus in led luglise puaet, sed non incidere ludum.
"Leroa -- I, whom fine togas ana perfumed hair became, I whom you know
witnout a gift pleased grasping leinars,the rill; I am not ashamed to have had
my sport, but would be, not now to out it short. Inconsistency is no disgrace,
if you have veered to a wiser course, jut whatever you do, do not delay, but
act at once! -- Qui recte vivendi prorogat horam("He wao postpones the
season of upright living is like It gidea and will glide, rolling on to all
time.""out down. With this awakened interest, O. thinks it well for
each man to test to the fill each of the things wich men from time immemorial
have deemed the sunmum bonum – OPTIMVM – Grice: OPTIMALITAS -- [Indeed, Piso makes
this assumption, and it leads him erroneously to the conclusion that THE
PORTICO values scientia as its own end, as “QVOD IN EO SIT OPTIMVM”, as that
which is highest in one. Antiochus then attributes to IL PORTICO, whether
rightly or wrongly, the very LIZIO valuation of theoretical over practical life
that we, his readers, know IL PORTICO would refuse. When it comes to accurately
portraying IL PORTICO as philosophical movement, the fact that Antiochus, a
character in Cicero's dialogue, elides the difference between IL PORTICO and
Aristotle serves as no indication of the reliability or unreliability of
Cicero's or his sources. Cicero simply wants to show that, whatever the
original truth of orthodox PORTICO might have been, it lent itself to this
Antiochean interpretation. As he proceeds, the question he asks is whether the
PORTICO can indeed be accused of valuing theoretical over practical life
despite the fact that THE PORTICO would refuse the very distinction.] with a
view to adopting as HIS one, whichever one seems to have the most real VALUE,
to bring the calm and contentment that are significant of a life well lived.
The decision is a momentous one -- Non qui Sidonio contendere callidus ostro
lescit Aquinatem potantia vellera fucumOcrtius accipiet damnum propiusque
medullis, Quan qui non poterit vero distinguere falsun. -- He who has not skiil
to know now to distinguish from the purple of sidon, fleeces steeped in
Aquinun, will not sustain a more certain loss or one nearer his heart than he
who will not be able to discriminate the false from the true. Try virtue first
of all. Si VIRTUVS [andreia] hoc una
potest dare, fortis omissisHoo age delioiis -- If virtue alone can bestow this,
manfully give up pleasures, and make her your aim. Or try the pursuit of
wealth;1 Tme tepates ous, 108 postrene ontts. 2part that squares the
heap." Or try ambition:"Si fortunatum species et gratia praestat,
Meroemur servum qui diotet nomina, laevum Qui fodicet latus et cogat trans
pondera dextram Porrigere. If pomp and popularity secure bliss, let us buy a
slave to tell us the names, to nudge our left side, and force us to stretch our
hand over the counter. And"Caude quod spectant ocull te mille loquentem.
"elonge that a thousand eyes gaze on you as you Or test the pleasures of
food and wine--Ne let fileen Cruad Tumaigue trons, Quad deceat, guid non, oblitt."b10tus
0 mere apetie eadenith tod unagesteproper, witt not "gt us takebaths,
forgetful what 18 Or the satisfaction of mirth--jests.")Then, having
advised each man to try for hinself, for each must be the best judge of his own
life. Metiri se quemque suo modulo ao pede verun est. "2 a 100t-leht For
caoh one to measure hamsel or hie And he will never be sure that one of these
thinge might not have proved the key to happiness until he has used it and
found its futility, O. sings up the decision which each is bound to reach. Abstract
virtue is a hollow thing,"Virtutem verba putas etLnoun 11gna, -- You think
virtue words, and a holy-grove sticks. As CICERONE says, 4 suitable for a
community of disembodied spirits, but hardly fitted to men who consist of both
body and soul. It is too cold, too remote, andVre guan satte ca virea, ge petat
naen-s Nor will men find wealth any more satisfactory than virtue as a
"summum bonun" (strictly, OPTIMUM, not ‘goodest'), for its weaknesses
are all too evident. Even granted that it does have many undoubted advantages
-- Soilicet uxorem cum dote fidenque et amicosL Bone numa doret Suadele eaus due, w2 -- For of
course queen Cash bestows a wife with a dowry,ney tan le acornid mith Sua bon
and Lode .ho man ofhundred; so you will be one of the masses. Yet how fleeting
wealth 1s!"Quiequid sub terra est in apricum proferet aetas; Defodiet
condetque nitentia. And the summum bonum must be a permanent thing.
rurther-more peace of mind and good health are not conferred by it--Non animo
curas."4ind poia gat ar res tover son the asting oods bratheir lord, or
troubles from his soul. Nor is pleasure a necessary accompaniment of riches. Nam
neque divitibus contingunt gaudia 80118. "I'or pleasures do not fall to
the rich alone. And his advice is bad who bide you get money rightly or not, by
hook or crook, just so that you may get a nearer view of the plays of PUPIO,
for after all, they are lachrimose plays, and why see them nearer? Besides, in
the gest for wealth alone, you are prone to lose the sense of all other values
-- "He has lost his armour, has deserted the post ofполог, who is always slaving, entirely absorbed in augmenting his fortune. Ambition
cannot satisfy any more than virtue or wealth, for see the ignominy that it carries
with it. One must seek the favor and the gifts of the fickle Roman mob "Plausus
et antoi dona Quiritis, "and make friends of all sorts of people Ut oulque
est atra, Tia quengue deotus adopta teand although the world applauds a man
today, tomorrow its fickle favore may be given to someone else, leaving 1ts
former favorite stranded, so that only a small taste of the pursuitof ambition
will convince a man that"Nex vixit male, qui natus moriensque fefellit.
" pass de not de bad life whose barta and deata have Furthermore the
unrestrained indulgence of theappetite is sure to result disastrously to both
body and mind,there is no ultimate good to be derived from a life of excess, so
men must rejectit, too, as the "summum bonum.""Sperne voluptates;
nocet empta dolore voluptas, "I•("Scorn delights; delight bought with
pain is hurtful."). None of these external things, then, can be regardedas
the "summum bonum" – OR OPTIMVM – quid in eo sit optimum --, since
not only do they fail to bring the happiness all men are longing for, but are
the osuse of so much of the uncertainty and distress which plague the world. Qui
timet hig adversa fere miratur eodem Quo cupiens pacto; pavor est utrobique
molestus,Improvisa simul species exterret utrumque.Sa guto ue ast mette poutare
sie ofe ad romDeflixis oculis animoque et corpore torpet? He who fears their
opposites excites himself much in the same way as he who covets them, the
flurry in both cases is a torment,whenever the unexpected appearanceagitates
the one or the other. Whether one joys orif at every-It is not that in
themselves these things are wrong--only that they are externals and one must
not attach too much significance to them. It is because men have overestimated
them that the three greatest ourses of the age have come upon the
world--superficiality, restlessness, and greed. Since men are always looking
for something tangible as the secret of happiness they have bedome shallow,
have grown to care far too much for outward appearance, and far too little for
inward appearance, and far too little for inward worth. Si curatus insequali
tonsore capilloslee mediai credis neo curatoria egere -- If I have met you with
my hair dressed by theha hare et hreed fa be ants beeatt a fosey tuno,or if my
toga sits unevenly and awry, you laugh; whole round of life, pulls down, builds
up, exchanges the square for the round?lou think mine an ordinary madness and
do not laugh, nor yet imagine I want a leech, or a trustee appointed tortune 8,
and tume aboutn 12-out na1102 thean ill-out nail of the And this same belief
that happiness lies in externals makes men restless -- a feverishness that
manifests itself in the iorm of travelling, forever pursuing the happiness
which forever escapes them. now foolish it is to try to escape the things which
batfle one by seeking another clime! -- Sed neque qui Capua romam petit imbre
lutoque Aspersus volet in caupona vivere; nee qui Frigus collegit, furnos et
balnea laudat Lt fortunatam plene praestantia vitam. leo si te validus
lactaverit Auster in alto, Idcirco naven trans Aegaeum mare vendas. Incolumi
Rhodos et mytilene pulohra facit quodr ben 11078, Sextl nonae oantnusrs. Dum
licet et volutem servat fortuna benignum, Romae laudetur, samos et Chios et
Fhodos absene. "2 AAQpraise bake-houses and baths as fully making up thebe
praised, and uhois, and far-off Rhodes. The peace for which men are searching
may be attained anywhere if they only know the secret. Nam si ratio et
prudentia curas, Non locus effusi late maris arbiter aufert.Caelum non animum mutant
qui trans mare currunt.Strenua nos exercet inertia: navibus atque("So that
in whatmay Bay You have lared a pleasent Lite, tor seineit is common sense and
wisdom that remove cares, and not a spot which commands a wide sweep of sea,
their climate, not their mind,they change whorun across the sea.An active
idleness busies us,in ships and carswe seek to live aright.Te Por totH at
u20ra0, 1 a contented sptrit The people are merely consuming time, not living,
who are forever on the march. They exhaust their energies and gain nothing but
discontent. And of these curses of looking to externals for happiness perhaps
the worst is the curse of avarice. Why seek for much in the world when one can
use so little and more cannot delight? Quod satis est ous contingit ninil
amplius optet. "2' dia to whose lot 1a118 a competency, desire nothingThe
grasping continually after more only breeds dissatisfao-tion. There can be no
tranquillity so long as one is subject to an ever-increasing desire. Semper
avarus eget; certun voto pete finem. 3 praye iser 18 ever in want; aot a fixed
80a1 to your What a misshapen monster avarice is anyway -- Belua multorum es
capitum. Nam quid sequar aut quem? A many-headed monster you are; for wnat or
whom shall I follow: As soon as one head is cut off new heads appear, so that
it seems inconquerable."Verum Ta de po sun horan turare preantes, How
helpless men are in the olutch of such a power as this, which never gives them
a moment's real rest and peace of mind!How wretched the heat of their desires
has always made mankind, and how heroie 1g the figure of the man who has risen
above them, is well illustrated by Homer's tale of the Trojan war, wherein the
struggling, feverish, dissatisfied Agamemnon and Achilles and Paris
arecontrasted with sane, calm, and prudent men like Ulysses and Nestor. Nestor
componere litesInter Peliden festinat et inter Atriden; Huno amor, ira quidem
communiter urit utrunque Seditione, dolis, scelere atque libidine et ira
Iliacos intra muros peccatur et extra.Rursus quid virtus et quid sapientia
possetUtile proposuit nobis exemplar ulixen,aspera multa Pertulit, adversis
rerum immersabilis undis. "I ("Nestor makes haste to settle the
strife between the son of Peleus and the son of Atreus; the one is fired by
love and both in common by wrath.and anger There as Bannin nithin the valls o
ofun and with-Again as to what efficacy there is in virtue in Ulixes.many a
hardship over thewide ocean, a man not to be sunk in the adverse wave of
things.") If the seoret of happiness lies not in wealth, ambition, mirth,
or any of these external things, which in a limited measure may contribute to
the richness of life, but beyond the golden mean – AVREAS MEDIOCRITAS --,
pursued as an end in themselves, are the cause of so much misery, discarding
all such inoidentals men must look for the real source of happiness within
themselves. When men are dissatisfied, it is not the world which is wrong, but
their own attitude toward the world. In culpa est animus, qui se non eifugit
unquam. "Ihates his own. with the harmless place; it is the mind that is
at fault which never escapes itself.") Two great doctrines O. presones -- the
wise control of life and the wise
enjoyment of life. the first thing men must learn is to adapt themselves to
circumstances, to frankly face the fact of the evil and injustice in the world,
to realise that such a thing as periect happiness is nowhere existent and that
all life 18 an adjustment. -- solue puae posot eret estare beatum, Saost the
one ate ony thng Lhat on rate and keep a man happy. Chafing and fretting
against the established order of the universe, against life's seening
inequalities, only serve to augment their hardships. When once men do face the
facts of life and bring themselves Into
accord with them, things wich fornerly seemed of greatest moment will be looked
upon with indifference. Yon sun and stars and the seasons departing infixed
courses there are who view with no tinge of dread.") And it 18 not only
for his individual well-being, but for the benefit of the state as well, that
he have this philosophical outlook upon life. and Bet, to take up beae, Ios nen
to are deer toour country, dear to ourselves.")for ii we are dissatisfied
with our fortunes, our bitterness will taint every relationship in life, but if
we are sane, life will look back at us with the same calm expression. Sincerum
est nisi vas, quodoumque infundis acescit."?Brow Sout,, ressel 18 olean,
Whaterer jou pour 1aOf prime importance i8 integrity of life. It is not enough
that a man assume all the outward appearance of goodness and make a great
parade of virtue. Qui consulta patrum, qui leges iuraque servat;Quo multae
magnae que secantur iudice lites; Quo res sponsore et quo causae teste
tenentur. sed videt huno omnis domus et vicinia tota introrsum turpem,
speciosum pelle decora. "3evidence cases are gained.but all his household
and theNo Bod thout he 18, Wit beautoous brtn) taz Unless the people no know
him best find him honourable and sincere, he need lay no olaim to worth. Low
senseless 1t 18 to delight in being called good by the world in general,
forthat very world will perhaps tomorrow call him a thief, or unchaste, or say
that he strangled his father. de deserved the commendation they gave him
yesterday no more than the slander they heap upon him today.caliny terig put
ede manwao te Fosous and Leedeto be reformed? It is perfectly clear how
pernicious this false praise is and to what lengths it leads men."Leu, si
te populus sanum recteque valentem Dictitet, occultam febrem sub tempus edendi
Dissimules, donec manibus tremor incidat unctis. If the people keep saying you
are in sound and perfect health, you conceal a hidden fever up to the hour
ofR2E2™E60a:till paralysis seize your hands wile filledIn order to deceive the world
they offer sacrifices publioly to the gods, while secretly they are praying to
the gods of trickery to shield their crimes from detection. 3ecause one is not
a thief or a murderer he has no right to demand praise, for he has his reward
already in freedom from pun-ishment. or is it virtue to avoid evil merely for
fear of the consequences--"Iu nihil admittes in te formidine poenae.
"*("You will commit no crime through fear of punishment.")Good
men desire virtue for calm and peace that it brings them--"Oderunt peccare
boni virtutis amore."("Good men hate sinning through love of
virtue.")For it is what you are that really counts, not what the world
thinks. Even the school boy realizes this.("Yet the boys at their games
say: 'You will be king if you act rightly. However many of the externals of
life fortune man have given a man, if he is weighed down by the sense of his
own guilt or unworthines, he cannot enjoy them. But the man conscious of his
own rectitude fears neither loss of property or of life. Si forte in medio
positorum abstemius herbiscontestin 1lquidus sortunae ctrus inauret;vel quia
naturam mutare pecunia nescit, Val quia cunota putas una virtute minora. "2forward, even though Fortune's clear stream wereFreedom is
another element in this wise regulationof life--freedom from all these
externals which so often bring disaster."Ne cOtia divitiis Arabun
liberrima muto. Lor the riones or the drabs,"t freedon of my ledsuz1oon
oiet etterr sede fehe tbao edntere: when hestoops down for a copper fixed in
the orossings, not see; for he who shall desire shall also fear: further, the
man who shall live in fear, I will never regard as free. Once the love of
riches has fastened itself upon a man he cannot escape it. If he only realized
what a hard master it was he would flee from it as the fox did from the lion in
the old fable.Omnia te angersue pattent a renta retroraum."tad, an oe be aai0,
a2 polateIf then, he have wealth, he must place it in its proper position, else
it may take out of his hands the direction of his life--it will either be his
master, or his slave."Imperat aut servit collecta pecunia culgue,
"3("Each man's hoard of money is his master or his slave. O. boasts of his own freedom from the opinionof
the masseg-- Noamai ons anotre trote ot putpite afeo, I do not hunt for the
suffrages of the fickle crowd by expensive banquets, and a gift of threadbard
olothes.Not only must a wise man control externals toattain perfect freedom,
but he must practise self-control.He must restrain his anger lest it be a
source of shame and humiliation to him."Qui non moderabitur iraeinfectum
voletesse dolor quod suaserit et mens, dum poenas odio per vim festinat
inulto.Tiperat, hune ente, hune Tu oupese oatera, 2t.that whion vexation and
passion nace prompted, waitoehurrying on with violence the punishment for his
unavenged hate.Ilese 1t 1f the elave, It' 18 theo1ourb it with the bit, yea,
curbAnd his envy, too, must be mastered, or it willmake him utterly miseraole. Invidus
alterius macrescit rebus opimis, invidia Siouli non invenere tyranni maius
tormentum."2("The envious man repines at his neignbour's goodly•
treater foreat than atos t hare not dtscoveredFor while he is covetous of
others' material blessings, he poisons his enjoyments of what is his
own.auriculas citharae collecta sorde dolentes. "3Bre he sane peaure ta
pantie faro to theateof filth.")Let no man surrender to envy of his
neighbor's lot, as did the ox and the nag in the fable."Optata ephippia
bos, pigre optat arare caballugQuan soit uterque libens densebo exerceat artem.
"IWhen men do yield once to the domination of avarice, envy, anger, public
opinion, they have lost their freecom just as did the horse which summoned man
to help him drive out the stag, and then could not shake the rider from his
baok.?And of no less importance is self confidence.A man will accomplish only
so much as he feels himself oapable of. Let hin therefore trust in his own
ability and others will have faith in him.Dux reset examen,n3"Qus elb1
fldot,("Whoso has self-confidence, will be king and head the
swarm.")The second doctrine is the wise enjoyment oflife. Happy indeed
whould you be 11--"Di tib1----dederunt artemque fruend1. The gods have
given you the art of enjoyment.")But at any rate men may develop their
powers of enjoyment. Life 13 so uncertain and so brief, death so final and
always imminent --"Ire tamen restat Numa quo devenit et Anous.
"5("It remains for you to go where iuma and Anous have descended. There
is no hope of a life after death in norade--it ig an eternal exile. Yet he is
not pessimistic about 1t. Death18 Inevitable; accept 1t as such, and since
there is only this brief span of years for every man, ending all too soon in
oblivion, let him on that account make the best possible use of each day -- Carpe
Diem -- so that the doom of death will appear only as a dark background
enhancing the bright foreground of life. Looking foward, looking backward breed
discontent. Think only of the present. The surest way to get all the possible
joy out of life is to live every day as though it were the last. Grata
superveniet quae non sperabitur hora. Amid hope and care, amid fears and
passions, believe every day has dawned for you the last; so, welcome shall
arrive the hour your will not hope for.")If men keep this thought ever in
mind they will f1ll each moment so full of the richness of living that there
will beno regrets, no joys postponed to a future day which will never be
theirs, when the summons of death does come.This means that to avoid
disappointment men mustenjoy right now whatever the gods may have given
them--"Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam grata sum manu, neu
dulcia differ in annum;HE 200619e 2000 Ter18 133e 21beater. Whatever hour the
deity has blessed you with, dosoever you have been, you may say you have lived
apleasant life.If among these blessings wealth is numbered, let men not hoard
it, but enjoy its benefits--("Po what end have I a fortune if I am not permitted
The man who spares in anxiety for hisneima., no 18 all too severe 18 next door
to a For there is much to enjoy in ine world--andmost of the really worth while
sources of pleasure are within the reach of all. shere 18 health. There are all
the delights of the country and out-of-door life. Ego laudo ruris amoenirivos
et musco circumlita saxa nemusque.brown rocks and wood.king, as soon as I have
lorsaken tnose soenes you extol to the skies with loud acclaim. And--"Novistine
locum potiorem rure beato? Tenat ef Taoe conle er onete ont ura Cumsemel accepit
Solem furibundus acutum? Est ubi divellat somnos minus invida cura?Deterius
Mbyois olet aut nitet herba lapillis?"4("Know you a place preferable
to the blessed country?I nore Leasant bree2e allays ailke te tury of treDogstar
and the commotions of the Lion, when once he has gone mad by receiving the
stings of the Sun?Is there a spot where envious care less distraots our
slumbers? Is the scentThere is simple food which nourishes without
distressing--"Pane egeo iam mellitis potiore placentis.
"I"Besad, is what I want now more pleasant than honded There is
sunshine, free to all, of which norace is 8o fond--"golibus aptum. How
foolish it is to want more when these things, if properly regarded, will make
one's life rich and blessed--The wise nan will learn to value and employ what
is within his reach.Not the least of the joys of life is friendship.There is a
deal of the utilitarian point of view in orace's advice about sooial
interoourse. The life of a reculse cannot be the richest one, contact with
other people is both necessary and valuable. Ae Epicurius said,
"Friendship enhances the charm of life; it nelps to lighten sorrowe and
heighten ine joys of fellowship." Hence it is to a man's advantage to make
himself as agreeable as possible. temust not pry into people's
secrets--"Arcanum neque tu sorutaberis illius unquam. "1nYou must
never po dato secret on the meetbut when they have been confided to him, he
must keep them--"Commissumque teges et vino tortus et ira. "2"a
teraladon a trust, thouga plied alike mita vineFor"Et senel emissum volat
irrevocabile verbum. A word once let slip, flies beyond recall.")He must
not be boorish, merely to prove that he 18 a man of Independence and stannia,
for thereby he simply makes himself Obnoxioug~~"Asperitas agrestie et
inconcinna gravisque. A boorish rudeness, at once unlovely and
offensive.") When he takes up the oudgels in defence of some
trifle--"Alter rixatur de lana saepe caprina, Propugnat nugis armatus. Equally
disgusting is the fellow who slavishly bows to every opinion of his host merely
to keep his favour--"Sic iterat noces et verba cadentia tollit, Ut puerum
saevo credas dictata magistro Reddere vel partes mimum tractare secundas.
"6actor in a farce handling the seoond part.")Horace gives a deal of
sound advice about the relationship of client and patron. There are numerous
duties whioh a client owes to his patron in return for his favor.First, he
should be grateful for the gifts he receives:-An rapias. "Pistat, sunasne
pudenteror tense a tans erence waether you take with modestySeoond, he should
be willing to share cheerfully in his patron's chosen pastimes.or blamebe you
for composing poetry.")"¿u cede potentia amici"So do you give
way to the mild requests of your power-Because even the closest bonds of
friendghip have been broken because of dissimilarity of tastes and
unwillingness to compromise. It is foolish to try to dress and live in
anextravagant way as one's patron does. The patron knows only too well his
client's ciroumstances and will despise him for trying to imitate him when he
cannot afford it. By all means let him not complain of trifles, but bear
hardships without grumbling."Brundisium comes aut Surrentum ductus
amoenumQui queritur salebras et acerbum frigus et imbres, Aut cistam effractam
et subducta viatica plorat, ("He who has been taken as a companion to
Brundisium, or lovely Surrectum, and complains of the jolting roadsSion one ote
1059 014 Ba11 ao an ance,Beatet.-poon erer her real 10sse8 and sortowe get
noAnd further he should try to appear cheerful for the benefit of those around,
for--"Demesupercilio nubem; pleurumque modestus Occupat obscuri speciem,
taciturnus acerbi."3If the client finds that he is humiliated by
patronage, loses his independence and his self respect, if his patron i8 the
sort of man no makes presents only of what he cares nothing ior and dislikes,
as the host woo pressed upon his guest pears that were so plentiful that wat he
refused, went to the pigs, then he had much better break off therelationship,
for it is degradation.Wen should be most careful of their choice offriends, so
that when accusations assail one who is well known, they may protect him and
back him up. I and it pays to have a rezard for the wishes of others, even if
it costs a little effort, for--"Vilis ancorun est annona, bonis ubi quid
desset."? went are et of arlends
Low, when those who wantAnd it is a source of shame to a man to be
mock-modest and refuse to help another when it is in his power to do
so--("But I was afraid I might be thought to have undervalued my
influence, a dissembler of my true power, profitable to mygelf alone.") Tact
is absolutely necessary to success in a social way. There is a proper time for
everything, as Horace warns Vinius Asina when he commissions him to present books
to Caesar. One must be careful not to intrude upon the great, but must await a
suitable opportunity, lest by his excessive zeal he offends the one he would
please. Conceit is unbearable and will destroy friendship. Ut tu fortunam, sio
nos te, Celse, feremus. "5("As you bear your fortune, so shall we
yourself, Celsus.") Just how highly dorace valued social interoourse
isshown by his careful instruotions to orquatus on the duties of host and
guests. The host should be most discriminating in his choice of guests so that
all may be congenial--Jungatur que part, "loeat par("That like meet
and be associated with like.") and that all be the kind which will not
make friendly table conversation a matter of gossip outside--sit qus atota
forae edemthet. andoos("That amidst our faithful friends there be none to
carry our talk abroad.") A friendship of long standing is an invaluable
thing and not lightly to be broken, as he warns Florus, who has become
estranged from lunatius. The best possible summary of O.'s philosophy of life
is his own prayer. Sit mihi quod nuno est, etiam minus, et mihi vivamQuod
superest aevi,si quid superessevolunt diSit bona librorum et provisae frugis in
annumneu fluitem dubise spe pendulus horae.Sed satis est orare Iovem quae donat
et aufert;Det vitam, det opes, aequum mi animum ipse parabo. "4Inay ire
2or aselt the renaindes ofidarg, 1onsI may live for myself the remainder of my
gods will any to remain for me.May I havegood stock of books and of provisions
for each year, trembling on the hopes of the man. RAPOLLA, VITA DI O.
CON RAGGUAGLI NOVISSIMI E CON NOTE DIFFUSE SULLA STORIA DELLA
CITTÀ DI VENOSA POR TIOI Premiato Stabilimento Tlpografloo
Vesuviano V *L '*S^è» «&• •&• «è» «A* «A* «A» •'1^ •e*
*-.'» SU'' X» i I I i sJ-Sì- I^* VITA DI
QVINTO O. FLACCO DI
RAPOLLA o VITA DI O. CON RAGGUAGLI NGVISSIBO E CON
NOTB DIFFUSE SULXiA 8TOBIA DBLLA OITTÀ DI VENOSA. RAPOLLA MOBILB VKN08IMO CAVALIKSB
DELL’ORDI1CK DELLA CORONA D'ITALIA CITTADINO ONOKARIO DI
POSTICI PXOrSSSOKB OMORARIO B SOaO DI VARIB
ACCADBMIB PORTICI pTABILIMENTO JlPOQRAFICO yESUVIANO Corso Garibaldi,
L'ijf.S'^ Dtnique quid psalterio canorius ? Quod in morem
nostri Flacci et Gratci Pindari, nunc Jamòo CHrrit, nuHC Alcaico
personal^ nunc Sapphico tumet, nunc semipede ingreditìtr. 8.
SlroUmo, pref. Cronaca ad Eusebio Sommo di poesìa mastro e di
vita. Pisdnnont*, ad O. Venosino cantor, sci tu ì t'ascolto !
D'un si vivace Splendido colorir, d'un si fecondo
Sublime imagjnar, d'una si ardita Felicità secura, Altro mortai non
arricchì natura Xetattailo, Canto ad Orazio. Et tenuit mastras Humerosus Horatius aures, DutH
ferii Ansonia carmina eulta lyra. Ovidio, Trist. 4. Elegia
to. il mastro dei poeti, O. La cui lira per tutto manda
il suono, E qual Pindaro Grecia, egli ornò Lazio. Tansillo, Canto al viceré di Napoli.
Mais fapprend qu*aujourdhui Melpomene propose D'abaisser son
cotAurne, et de parler en prose, Voltaire, EpItre à Horace. Sume
superbiam Quaesitam meritis Venosino. Dauti - //. Cult.
XIV. // cittadino di Venosa sentir devesi som- mamente
orgoglioso per esser nato in così celebre terra, pili antica di Roma:
splendida civitas, anche nel tempo dei Romani, splendi- dissima nei
medio-evo, e patria, il che più monta, di Quinto O. Fiacco. Del
grande Venosino smisurate innumerevoli sono state le produzioni letterarie
che ne hanno decantato il nome, criticata F opera
eterna, postillato e glossato ciascun verso o parola
Non havvi paese al mondo che non abbia offerto suir altare del culto
della poesia per- fetta di Orazio il suo attestato di reverente
omaggio: Sopratutto in Germania, hi Fran- eia, in Inghilterra si son
fatti studi prò fondi sulle opere del gran poeta italiano, e bio-
grafie e ricerche storiche pregevolissime su tutto quello che riguarda la
sua vita, ed i luoghi ove vissse. In Italia, ed in Roma particolarmente,
si cmiservano reliquie preziose di severe e dotte lucubrazioni su tal
subietto. Duole non poco però che in Venosa, fra tanto lume d
ingegni preclari che ha dato quel paese, non vi sia stato scrittore che
ab- bia inneggiato ad O. con serietà e pro^ fondita, e con opera
particolarmente a lui dedicata; ed era un dovere attraverso i secoli
venir lodato Orazio da gente venosina. Neppure un bronzo od una lapide
parlava di lui sin oggi. Ed invero il dottissimo cardinale Giovan
Battista De Luca venosino perchè nei suoi quaranta volumi in folio non
trovò il posto per seguire quello che un S. Girolamo iniziò? Luigi
Tansillo, O. de Gervasiis, Donato de Brunis, sommi poeti venosini,
Giovanni Dardo, anch' egli da Venosa, scrittore di bel- lissimi e
maestrevoli carmi (ingeniosa et venustissima carmina scripsit, disse M.
Arcan- gelo Lupoli), perchè non composero poema sult immortale loro
concittadino? Che anzi giustamente Francesco Fioren- tino j
nelle sue note ai sonetti del Tansillo, redarguisce costui, perchè «
discorre di quello ix^che chiamava suo concittadino con un certo «
risentimento che non è giusto, perché O. non sdegnò altiero il soggiorno di
Ve- « nosa: nei carmi del poeta latino ci è anzi (( un certo
compiacimento nel ricordare la sua a patria ». O.fuggì da Venosa, sia
per fini politici^ sia perchè stretto dalla necessità, sia perchè
ogni genio sublitne sorvolando per forza arcana, trova pure
in tutto il ter- restre spazio angusto confine! In luogo di e alitare
tante vuote lodi ad una componente r aristocrazia di quei tristi
tempi di feudalismo, che anzi lo sprezzava, non poteva il Tansillo
toccare la sua lira can- tando di Orazio, stella che illumina il
mondo e che egli stesso chiama ^maestro deipoetiy? Hanno voi/
do forse rispettare il suo testamento: (( Mitte supervacuos honores ». Ma
non è lecito negligere i sommi. Io, benché non degno di venir
noverato fra cotanto senno, ho composto questo lavoro con gran
fatica, con gran sudore, con gran reli- gione, essendomi prefisso con
esso diradare molte idee oscure circa la vita e le opere di O.,
riferire coti la maggiore esattezza quanto ad esse si associa, mettere in
luce tutto quello che sin oggi si è scoperto, e che formava pel
passato delle lacune negli scritti dei biografi anche più esatti italiani
e stra- nieri. Ho pure aggiunto dei cenni storici
sulla celebre Venosa, che si commettono con la vita del suo
immortale concittadino. Tutto ciò mi è riuscito lieve, e mi è
venuto » strenuamente compensato col fatto, che
ho aggiunto, io venosino, un fiore al serto, che immarcescibile
cinge la fronte sublime del grande italiano. Oggi fra tanto
tramestio di sentimenti di- sparati, atti a spegnere ogni entusiasmo,
ri- temprare gli animi alla fonte delle opere lei* terarie immortali
come quelle di Orazio, ed il seguirne le norme che da esse emanano,
o cittadini^ è quanto di meglio si può fare. Si respira così aura piti
pura ; si resta an- negato in un Lete morale dolcissimo: si guar-
da con occhio impassibile la vertiginosa corsa del torbido torrente della
vita umana, da una sponda secura e tranquilla. Valete.
Portici— Granatello. DZE&O BAPOLLA L mondo, questo
pianeta, che pare sin oggi abbia il primato sul si- stema
universale dei pianeti, perchè in esso vive l'uomo, il re della
creazione, avverti, circa duemila anni or sono, una di quelle
trasformazioni, uno di quegli avvenimenti, che segnano date incan-
'cellabili, e che forse non più si verificheranno nei secoli futuri,
tranne quando avverrà la fine -dell' età. Neil' aria pregna dì
densissimi vapori guizzavano folgori rossicce ; reboava il tuono ;
poi appariva luce sfolgorante, bian- chissima, divina. Le nefandezze, le
turpitudini, la mollezza, la superbia, la degenerazione del genio
del bene in quello del male erano giunte all'estremo limite del
possibile. Era prossima l'ora delle rivendicazioni, della redenzione,
della riscossa voluta dalla ragione. Era vicina la nascita dell' Uomo-dio,
an- nunziato, già da secoli, come apportatore di pace ed amore.
Roma, caput mundi, impe- rava. Le aquile svolazzavano in liberi
campi, ghermendo prede facili in difficili e remoti paesi. La potenza
e la protervia dell'uomo si disegnavano al massimo grado. I grandi
ed i piccoli, i padroni e gli schiavi, i senatori al- bagiosi, i
cresi onnipotenti ed i gladiatori morituri. Roma già da sette
secoli esisteva, quando l'umanità parve potersi paragonare al
vapore chiuso in forte e potente recipiente che sem- bra prossimo a
scoppiare. La civiltà dei Greci, le gesta ed il ricordo degli altri
popoli, come i Cinesi, i Babilonesi ed i Persi, che vanta- vano
maggiore e più antica coltura, eran pres- sochè cancellati
da questi violenti conati di gente che era barbara e volea divenire
inci- vilita. Neir immensa Roma, per la quale po- poli al sommo
grado belligeri pugnavano sanguinosamente per potersi dire cittadini
romani^ vagavano uomini quasi nudi, ed appena ornati da toghe e preziose
porpore, che ne lasciavano scovrire i poderosi garetti e le erculee
braccia ; e le altiere fronti pare- vano non use a piegarsi alle volubili
e spesso avverse disposizioni del destino. Da Roma partiva quella
voce imperiosa che comandava alle schiere invitte la conquista del
mondo intero. Tutto pareva nascer gigante in quel
tempo, e con l'impronta del misterioso e del sublime. Mario, Siila,
Mitridate, Ottavio, Cinna, Giugurta, Pompeo, Cesare, Bruto, Antonio,
Cleo- patra; Roma, Atene, Cartagine; Virgilio, Ti- bullo,
Properzio, Ovidio, Sallustio, Cicerone, Giovenale, Tito Livio, O.,
Mecenate, Augusto I Gli uomini, dalla civiltà, che lentamente
in- vadeva, resi più chiaroveggenti, mal soffriva- no la schiavitù
più abbietta. Fremevano e le- vavano ruggiti di leoni. E
Mario era un leone della foresta : nato da vilissima gente, sorbì
sin dall'infanzia il veleno dell' odio contro i potenti ed i gaudenti.
Era smilzo, altissimo, nervoso, brutto, di volto terreo, come se
quel colore della pelle dovesse indicarne la mal- vagità
dell'animo, come dopo molti secoli in Marat. Di quei che vantavansi di
nobile stirpe solea far aspro maneggio. Gridava fremente alle
turbe spensierate e lussuriose : O voi altri, che vantate imagini
lettighe e porpore, ne avrete di giorni tristi; verrà Y ora della
rivendicazione sociale. II vostro cammino trionfale sarà arrestato
da un fiume di sangue. Le vostre pompe su- perbe saranno oscurate
da montagne di ca- daveri deformi 1 Eppure Mario avea sortito
dalla natura il genio uguale a quello di Cesare, suo grande nepote.
Era guerriero nato. Vinse i Cimbri, aggiogò Giugurta, si unì con Siila.
Con Siila stesso si misurò a suo forte discapito. Corse vagolante sulle
rovine di Cartagine. Dipoi iniziò la fatale guerra sociale. Morì
atterrito da visioni tremende 1 A Siila scorrea nelle
vene sangue gentile di patrizio. Avea fierissimo e troculento
aspetto; era vendicativo oltre ogni credere, ma celava in petto
cuor generoso e forte. Non poche migliaia di Sanniti
restarono sgozzati al semplice muovere del suo soprac- ciglio, e
nel sangue restò affogato anche lui, che invano entrava nel cotidiano
bagno di es- senze per torsi di dosso la miriade di paras- siti e
microbi che lo dilaceravano e lo spen- sero. E la lotta ferveva sorda,
quasi ne fosse infetto il sangue degli umani, tra i servi e gli
strapotenti. I mirmilloni ed i reziarii, nelle barbare e sanguinose
lotte, formicola- vano, per appagare la sozza cupidigia di vec- chi
lussuriosi e donne ben pasciute e coronate di rose, e briache e spossate
dalla crapula e dal piacere. Era il preludio delle guerre servili.
Dugentoventimila servi e Spartaco con centoventimila gladiatori
produssero uno scoppio ed uno schianto formidabile, come
potentissimo vulcano che erutti lapidi e lave. Licinio Crasso, quegli che
rappresentava l'or- pellata repubblica, ne fece crocifiggere sei-
mila. A spaventoso movimento, repressioni più spaventose. Licinio
Crasso fu favolosamente ricco per le opime spoglie e per V oro rag-
granellato con la confisca dei beni delle sue vittime e dei milioni di
proscritti. Ma quell'oro di nefando acquisto vennegli fatto
ingoiare fuso e bollente dinanzi agli stessi suoi figli. E trentamila
Romani sgozzati dai Parti, ad Harron nella Mesopotamia, furono quelli che
espiarono con lui V inau- dita ferocia. Spartaco gladiatore, di razza
nu- mida e di regio sangue, morì da eroe nella fiera mischia sulla
riva del Sele in Lucania, condottiero di stanche e poche agguerrite
schiere di uomini oppressi. Fra Spartaco e Crasso, tra il gladiatore ed
il potente, tra quel povero oppresso e quel ricco oppressore, es-
servi dovea odio mortale. Perversi però e scelesti ambidue !
Cicerone e Catilina, sommo oratore ma ambiziosissimo l'uno,
patrizio romano disso- luto l'altro. Dalla congiura del secondo,
che mirava in realtà al nichilismo dei nostri giorni, e dalla fine
del primo si videro strani risul- tati. Catilina cadde trafitto nel campo
tra le sue schiere pugnaci per un ideale. CICERONE (si veda) ha
il capo e le mani mozzi e confitti ai rostri del foro romano, e la lingua
foracchiata dall' aureo spillone della proterva Fulvia. Splendidi
esempii agli ambiziosi I Mentre che alla magnifica Atene non
re- stava che il primato nel mondo per le let- tere e per le
scienze, e mentre V immensa Roma repubblicana si affraliva e s*
incrude- liva tra la mollezza, i vizii, le congiure, i mas- sacri e
le guerre, nasceva Cesare. Cesare lo si disse dapprima congiuratore
con Catilina. Gli scorreva però nelle vene il sangue vile di Mario. Era
rinfocolato da am- bizione smodata e livore. Fu uno dei più grandi
uomini che nacquero nel mondo. Lottò da atleta gigante con Pompeo, nato
da eque- stre famiglia e partigiano del nobile Siila, e Io vinse.
Ma pianse quando i vili cortigiani gliene recarono la testa mozza, e
volle punita la barbara adulazione. Era letterato di gran talento.
Era generoso, ma sotto il mantello di leone ascondeva animo felino,
vendicativo, dissimulatore. Catone preferì trapassarsi di propria
mano il corpo con la spada, piuttosto che rendersi servo di Cesare. Cesare
am- biva air imperio, alla tirannia. Vinse i Germani, i Galli e Scipione,
ma venne pugnalato. Bruto, il fiero repubblicano, il prediletto
di Cesare, s' intinse pure del sangue di lui; si macchiò di
parricidio, perchè la dittatura lo premeva come incubo, anelava alla
libertà, E tale fu la progenie umana sin da che vide la
luce. Cristo, r Uomo-dio, venne al mondo colla missione di pace tra
gli uomini. Fatalmente però gli uomini si mantennero sempre gli '
stessi. Adamo ribelle al Dio creatore; Caino fra- tricida per
invidia e per sete di dominio. E da questi a Cesare, a Crasso, a
Spartaco, a Bruto, tutti ambiziosi e ribelli; e da questi a Tiberio
ed a Nerone, che ricreavansi degli spaventosi dirupi di Capri e delle
fiaccole umane. *) E da questi ai Torquemada, agli
autori degli auto-da-fè, dei roghi ove bruciarono Bruno,
Savonarola, Arnaldo, Vanini. E da questi a Luigi XI, il compare di
Tristano, ed a Carlo IX che dalle finestre del Louvre aizzava le
orde a fare strage, e permise la tre- menda notte di S. Bartolomeo, a
Robespierre che allagò il bel suolo di Francia col sangue delle
vittime del Terrore ; al prigioniero di S. Elena, che seminò di stragi,
rovine e morti buona parte del mondo ; sino a quelli, innu-
merevoli, che in questo nostro secolo avven- turoso han messo a soqquadro
l'universo con lotte ferocissime. Una è perciò la linea che appare
precisa: l'odio dell'uomo contro il suo simile, contro qualsivoglia
supremazia, servaggio od oppres- sione; mista a malvagità ammantata, sia
dalla porpora, sia dai cenci; in diverse guise, nel- l'alto e nel
basso, tra plebei e nobili, tra so- vrani e sudditi, tra volgo profano e
menti elette, e persino tra letterati e tra i sacri mi- nistri
delle diverse religioni; il quale odio malvagio personificato potrebbe
raffigurarsi quale Encelado premuto dall' Etna. La scala
della nequizia in tutti i tempi ha toccato i cieli, come quella biblica.
Tale era lo stato del mondo allorché nac- que Quinto Orazio Fiacco; e
nelle sue vene scorreva sangue di schiavo. I ELLA vetustissima Venosa [Venu- sid),
città situata tra la Puglia e la Lucania), nel dì 8 dicembre
dell'anno 689 dalla fondazione di Roma, sessan- tacinque anni prima
dell' era cristiana, essendo consoli Cotta e Torquato, essendo Cesare
compromesso con la prima congiura di Catilina, perchè sognava la caduta della
repubblica e la dittatura, nacque Quinto O. Fiacco. Il nome di “Quinto”
se lo appropria lui stesso nel libro delle satire. O. ognuno lo
chiama, ed egli stesso così sempre si noma nei suoi scritti. Plutarco lo
dice “Fiacco” nella vita di Lucullo – cioè: “orecchiuto”, ed egli
stesso, nell'Epodo e nella satira, così si cognomina. Ma tale soprannome
non indica che ha orecchie deformi, bensì può riferirsi a lui,
quello che egli stesso dice di essere di facilissima audizione, oppure che
quelli di sua famiglia fossero distinti con tal nomignolo, tra le non
poche famiglie della tribù oraziana, della quale si discorrerà in
appresso. In un antico manoscritto che si conserva nella Biblioteca
Nazionale di Napoli, che vuoisi opera del dottissimo Cenna,
venosino, si asserisce che O. nacque nelle case dette, al tempo nel quale
il Cenna scriveva, dei Plumbaroli, presso le mura della città, e
presso certi molini, che in appresso (come rilevasi . nelle note del
Cimaglia) ap- partennero ai Pironti venosini, e che oggi son quasi
di fronte alla cattedrale, venendo dalla via di^S. Rocco, presso al luogo
detto /e Sa/me. Suo padre era uno schiavo fatto libero.
La quale condizione se non era tanto miserevole quanto quella dello
schiavo, poteva dirsi av- vilitiva oltre, ogni credere; imperocché il
liberto ripeter doveva quella larva di libertà dal suo antico padrone;
come cittadino ve- deasi privato del diritto al suffragio; aspirar
non potea agli alti uffizii civili, e neppure a coprirsi le braccia e le
dita di anella d' oro perchè venivagli rigorosamente proibito. Lo
stesso matrimonio era per lui limitato nella cerchia dei suoi pari, perchè
un liberto spo- sar non poteva sia la figliuola d' un senatore o d*
un patrizio, sia altro essere nato libero od ingenuo, come diceasi
allora. Viveva il liberto sotto la tutela del passato padrone, e
lui malaugurato se a questo si fosse ribel- lato: ridiveniva schiavo. Spesso
il suo pas- sato padrone se ne avvaleva per servizii ono- rifici,
mediante lieve mercede. Malamente taluni vollero sostenere che il padre
d'Orazio fosse libertino nel senso voluto da Svetonio in altri suoi
scrìtti, e non nella biografia d’O., cioè figliuolo di liberto o figlio
di schiavo fatto libero. Orazio, alludeìtttea suo padre, usa sempre
la parola libertinus^ ma nel senso detto dapprima, volendo intendere
che suo padre era stato schiavo, ed aveva avuto poi la libertà. Non
vi pjiò cader dubbio alcuno. Il padre di O. presta il servizio di
riscotitore di tasse del comune di Venosa e di banditore, era un servus
pubKcus; il Che dimostra che il suo passato padrone essere dovea di
alto grado sociale, assegnandogli tali uffizii rimunerativi e non bassi,
ed a ser- vizio della città. Nel suo stato perciò dirsi potea
felice ed agiato, stantechè possedeva presso la Rendina, luogo neir agro
di Ve- nosa, un fondicello che gli dava ( sebbene O. dicesse esser
suo padre macro pan- per ugello) un conveniente provento, e quindi
potette unire al suo impiego anche un negozio di salsamentario, o
salumiere; e come vuoisi da Svetonio, Tunico biografo, così la-
conico, ma purtroppo veritiero, veniva scher- nito il giovanetto O. dai
suoi compagni di scuola così: Quottes ego, vidipatrem tuum brachio
se emungentem ? ^) Ingiuria solita in quei tempi ai figli di salumaio, e
che Cice- rone riferisce così: Quiesce tu cujus pater cu-- aito se
emungere solebat. Certa cosa è che non può ricavarsi da tutto ciò che O.
ha scritto sopra i suoi geni- tori, né da altri scrittori suoi
contemporanei, compreso lo stesso Svetonio, né il nome di suo
padre, né il nome e la condizione di sua madre. Il Fabretto,
celebre raccoglitore di iscri- zioni e sigle, riporta un frammento d'
iscri- zione che dice leggersi sopra una casetta in Venosa, che
erroneamente fu detta esser la casa di Orazio, così concepita:
HORATI C. L. Dio MlTULLEIAE UX. e che sì è voluta decifrare
così: HoRATio DioDORo Caji Liberto MiTULLEjAE Uxori)
La quale interpretazione importerebbe che il padre di Orazio nomar
si dovesse Diodoro o Diocle, e sua madre Metulla. Ma é questo un
falso indìzio – cf. Grice: spots are a falso indizio di measles], poiché in
Venosa furonvi non pochi che si dissero Grazi, ed a qualcuno di
questi è riferibile l'iscrizione funeraria. I due eruditi
Grotefend, il Franke nei suoi Fasti Horatiani, ed il Milmam nella
sua splendida opera The works of Q. Horatius Flaccus illustrateci,
opinarono il padre di Orazio poter esser un discendente dell’illustre
famiglia romana degl’ORAZII, e che ri- divenuto libero, avesse ripreso,
secondo il costume del tempo, il proprio nome. Ma il Mommsen, nella
sua opera Inscriptiones Regni Neapolitani, riporta tredici iscrizioni
rin- venute in Venosa indicanti l'esistenza di una tribù Hofatia,
colonia romana, nella quale erano allistati gli abitanti della città di
Ve- nosa. Il padre di Orazio faceva parte di que- sta colonia, non
discendeva però dalla fami- glia degli Orazii, nel qual caso farebbero
op- posizione le continue lamentazioni del figlio di vii
nascimento. Né si potea concepire che, fra tanta chia- rezza
di prosapia, da darsi pure il lusso di un' iscrizione sepolcrale, O. poi
non enunziasse neppure il nome di quelli che gli -«(
17 )f^ aveano data la vita. Ed è poi noto, come si vedrà in
appresso, che tutto venne confiscato alla famiglia di O. dopo la disfatta
di Filippi. Era anzi quella gente tenuta in bando, e del tutto sprovvista
di mezzi, il che permetter non poteva ad essi il foggiarsi lapidi con
iscrizioni commemorative. G. Batt. Duhamel, nella sua opera Philo-
sophia vetus et nova ad usum scholae, opina che un avo d’O, assoldato nell’esercito
di Mitridate, venne nelle guerre del Ponto fatto prigioniero, e tradotto
in Roma, e comprato da un questore venosino, dal quale si ebbe la
libertà. Ma tale idea fanta- stica, come moltissime venute fuori dalla
penna del letterato e filosofo del Calvados, non ha fondamento, mancando
della parte principale, cioè del nome del prigioniero, schiavo fatto
libero, dal quale deriverebbe il padre di O. (di cui neppure sa dire il
nome), che per tal guisa sarebbe stato figlio di liberto, non
liberto, come era infatti; Orazio chia- mando sempre suo padre
liòertinus, non nel senso voluto da Svetonio, e mostrando sempre
rammarico per tale causa. Altri poi (come rilevasi da vecchissime
edizioni del gran poeta ) credettero assegnare al padre di Orazio il nome
di Tubicino; ma pure questo va chiaramente emendato, stanteche si è
voluto confondere il nomignolo del- l'uffizio che il padre di O. si aveva
in Venosa, cioè di banditore. E siccome i banditori in quel tempo solcano
annunziarsi a suon di tuba, diceansi trombettieri ( tubicen^
tubicinis) quindi Tubicino ! Può quindi asse- rirsi che s'ignora del
tutto il nome del padre di O. e quello della sua genitrice: se ne
conoscono solo del tutto la condizione e lo stato del primo. Orazio disse
essere stato suo padre uno schiavo, al quale venne concessa la
libertà. Tale origine del suo casato lo mo- lestava acremente. E qui cade
in acconcio notare che mentre Orazio non ha mai indi- cato il nome
di suo padre e di sua madre, non ha mai nominata la città di Venosa.
Con molta lucidità indica il luogo della sua na- scita e ne fa un
piccolo cenno storico topo- grafico così concepito: Io non so con
preci- sione se son Lucano o Pugliese, perché il colono venosino
suole volgere l'aratro tra i due confini di queste due regioni. E che
Tansillo venosino cosi traducendo imita nel suo canto al viceré di
Napoli: Io non so se Lucani o se Pugliesi Siam noiy però
ch'il venosin villano Ara i confini d'ambidue paesi. Ed una colonia
romana fu spedita in tal luogo, abitato prima da Sanniti, per
iscacciar- neli, e per impedir poi che tale infesta gente corresse
sopra Roma a molestarla come pel passato. Ed invero i Sanniti furono
infesti non poco ai Romani come le storie luculentemen- te
asseriscono. E tale colonia romana spedita in Venosa, secondo attesta LIVIO,
formar dovea guarentigia a tutta la regione pugliese e lucana, e
mostra ad evidenza V importanza della città di Venosa in quei
tempi. O. volle con precisione dichiararsi ap- partenente
alla colonia ronìana che discacciava da Venosa i Sanniti. Eppure i
Sanniti furono di razza Sabina, ed O. non pensa che la Sabina, cioè
la patria prima dei Sanniti, formar dovea la sua seconda desiderata
patria, la sua aspirazione. Oh coincidenze misteriose! Oh lumana commedia
! Eppure i costumi dei Sanniti furono qual si conviene a
popolo belligero, sobrio e buo- no. Governavansi in austera repubblica,
ed il sistema democratico formava la base delle loro istituzioni.
Pei servigi resi alla patria davan persino le avvenenti compagne e
le figlie come premio. O sacrifizio memorabile \ Nelle lunghe
guerre coi Romani mostraronsi i Sabini più destri e valorosi. Venne però
l'ora definitiva della sconfitta, e nell'eterna guerra tra le
genti, il più forte li debellò. I Romani 290 anni prima di Cristo li
espugnarono del tutto. A questo ricordo allude Orazio allorché dice
che la colonia venosina, debellati i Sanniti, divenne propugnacolo contro le
ossi- dioni di tal forte e belligera gente. Convien quindi notare
che Orazio per quanto asserì esser nato sul suolo venosino, per tanto
sem- bra mostrarsi superbo di appartenere alla co- lonia romana ivi
residente: che anzi bisogne- rebbe assegnargli meritevolmente la
taccia d' ingratissimo, perchè oltre a non nominare una sola volta
in tutte le sue opere la patria sua, come non precisa il nome ( e li
avrebbe immortalati) né di suo padre, né di sua ma- dre, bensì il
nome del suo primo maestro Flavio venosino e della sua castalda,
Fidile^ cosi sacrilegamente si esprime: Sic quodcumque minabitur Eurus Fluctibus
hesperiis, venusinae plectantur silvae, te sospite. E Gargallo,
quasi arrossendo, in tal guisa traduce, cangiando le venosine selve in
lucani boschi: Còsi qualunque netnbo Euro Minaccia^ Ai
flutti esperii^ di là ratto il muova A* lucan boschi^ e n'abbi tu
bonaccia) E per giunta in tutte le sue opere O. non nominando
mai, come dissi, Venosa, spesso nomina Forenza, Acerenza, Banzi,
TAufido (l'Ofanto odierno), il Vulture, il Ma- tino, Benevento, e con
aspirazione invidiosa Taranto e Tivoli 1 E pure Venosa, lantichis-
sima Venusia, era bella, com' è tuttora, su- perba, attraente, forte più
del suo Tivoli, e dei luoghi dei monti Sabini. I grandi hanno tutti
gravi e non poche mende, ma bilanciate con le qualità individuali,
superiori e rare, vanno cancellate. Salve perciò, o O., sovrano
poeta, onore della razza umana! Venosa, la patria tua, perdona tale
non- curanza, e tale al certo involontaria irricono- scenza. L' hai
ricolmata di gloria imperitura, indicando a chiare note che sorbisti le
prime aure della vita sulle sue opime colline ; e ciò bastar deve
per fare scomparire ogni traccia di livore o sdegno verso di te, se pur
può albergare nell'animo di alcun tuo concitta- dino livore o
sdegno, come invece alberga venerazione e maraviglia ! Salve, sommo
poe-. tal Tu certo vivi ancora. Il tuo spirito im- mortale aleggia
benefico genio del luogo su quella ancor bellissima terra; oppure da
qual- che stella lucente gitta raggio amico che mo- stra la via al
viandante in quelle selve lucane, od al nocchiero la via nera dell'antico
mare Jonio, ove il bollente e rumoroso Aufido an- cora oggi si
annega ! O. scrive : Che qual figliuol di libertin trafitto
Soft da tutti) Invero Guerrazzi da savio sostiene: La
ignobilità più che la chiarezza del Itg^taggio riuscire stimolo acuto a
ben meritare; aven- do la natura concesso all'uomo maggiori po-
tenze per acquistare, che non per mante- nere. ^L'assillo nonpertanto che
tormentava O. era la sua nascita: perché non potendo schermirsi dai vili
ma pur tormentosi frizzi della plebe che lo dicea discendente da
schia- vo, rinfocolato dall'odio naturale di cui più su si è
discusso, che gli bolliva in seno, e che il padre vieppiù incrudeliva,
estolle la ma- gnanimità del suo genitore per averlo fatto educare,
istruii^e e porre a livello dei giovani di buone famiglie ed agiate. Che
anzi con boria e sicumere che mal velava lo struggersi interno,
asseriva potersi porre a pari, egli figliuol di schiavo, coi figli dei
senatori e dei cavalieri di quel tempo anche nella superba
Romal Si vedrà in appresso quanto fosse ampollosa questa sua
assertiva, allorché si noterà co- me egli stentar doveva per accaparrarsi
sia l'amicizia di altri poeti più fortunati, sia dei grandi, che un
solo fortuito caso gli permise avvicinare, e come molte
volte ingiustamente ne restava mortificato, mendicandone le grazie,
ed attendendo nove lunghi mesi per meritarsi l'onore di venire annoverato
tra i commensali di Mecenate ! Giunse a rendersi maestro in
cortigianeria a parecchi suoi gio- vani amici ed ammiratori !
Non è lecito credersi di più di quello che si è in realtà, né fidar
troppo sul proprio me- rito, per quanto incontrastabile esso sia,
in questa commedia umana nella quale regna sovrana V ingiustizia !
Il suo orgoglio come poeta diveniva ridevole quando si rivolgeva
circa la sua condizione nella società nella quale viveva. Ma quel marchio
che al solo presentarselo alla mente lo straziava a morte, il
marchio di esser figliuolo di uno schiavo, gli faceva talvolta aver le
traveggole. Riesce sublime quando esclama: Io disdegno e
allontano Da me il vulgo profano Tacciasi ognun
Vo*cantar^ de le Muse io sacerdote. »o) Egli lodò grandemente
il padre, perché questi gì* inculcò dì fuggire dal luogo ove molto
era conosciuta la sua origine, e di af- francarsi dalle prepotenze dei
ricchi, dei senatori, dei cavalieri e di ognuno con Y i- struzione, col
coprirsi di gloria: e tanto ot- tenne. Orazio nacque, come si
accennò, dodici anni prima della congiura di Catilina. Cele- bri
erano in quel tempo tra i poeti Valerio Catullo, Licinio Calvo e molti
altri. E tra i FILOSOFI Terenzio VARIO e Numidio FEGULO. E per
l'arte tribunizia CICERONE, Ortensio e Quinto Catulo. In Venosa in quei
tempi eravi pure una classe sociale che si distin- gueva dalla
volgare, la quale frequentava la scuola di un maestro Flavio, del
povero Flavio, che non avrebbe potuto mai augurar- si di divenir
celebre per l'eternità, vedendosi consacrato nel libro di O., che pur
non dice il nome del suo genitore, della genitrice, della patria. A
questa scuola attinse i primi rudimenti il piccolo Orazio. I suoi
compagni lo schernivano; ed egli si vendicò ad oltranza col farsi
in seguito beffe di essi e dei loro parenti nobili venosini I La povera
nobiltà venosina) quella nobiltà che ebbe incisa in pietra pelasgica
tale enfatica iscrizione : Ex LUCULLANORUM PrOLE RoMANA Aelius
Restitutianus Vir Perfectissimus CORRBCTOR ApULIAE ET CaLABRIAE IN
HONOREM Splendidae Civitatis Venusinorum Consecravit
") resta schernita e vilipesa dallo stile del sommo
satirico. Quei rampolli di famiglie nobili ed agiate della città di
Venosa dovean tenere a vile accumunarsi con Orazio e famiglia,
stante che ne conoscevano Torigine. Fu questa una delle ragioni per
cui il padre decise condurlo in Roma. Dovette poi notare nel
giovanetto un ingegno precoce e svegliato che promet- teva alcun
che di grande, e pensò abbiso- gnargli più ampli orizzonti e pabolo più ade-
guato e conveniente. Orazio aveva circa otto anni o dieci al massimo,
secondo il computo di Andrea Dacier, nella sua Chronologia an-
norum Horatii, allorché giunse col padre in Roma, e cominciò a
frequentare quelle scuole romane. Ed è caro quel vanto che trasse O.
quando nei suoi canti, ricordando il padre ed i felici giorni della
pueri- zia, e sentendosi nella folla della scolaresca deir immensa
città susurrare airorecchio di esser creduto di alto lignaggio, dice
: Ma d'alti sensi osò condurre a Roma Me fanciulletto^ ad
apparar quell'arti Che un cavaliere che un senatore insegna Ai
propri figli, Allor se, come avviene In un popolo immenso^ avesse
alcuno Gli abiti visto^ ed i seguaci servii Certo creduto avria
spese sì fatte A me apprestarsi da retaggio avito] La quale ingenua
confessione dimostra che il padre di Orazio, sebbene
appartenente alla bassa condizione di liberto, non doveva essere
scarso a pecunia, anzi bastevolmen- te ricco. Quanti miseri studenti,
figliuoli di coloni agiati e signori delle provincie^ non vanno
oggi in Napoli o nell'alma Roma ad apprender lettere o scienze ? Ma ben
pochi vivono certo vita allegra, vestono panni di lusso, e possono
farsi seguire da servi e staffieri con panieri ricolmi di succulenti
ma- nicaretti od altre costose leccornie ! O. però per generoso e
riconoscente sentimento riferisce al padre il potersi istruire con
tanta comodità, né può tacciarsi di parabolano o falso, né molto
meno di orgoglioso, lui, che abborriva dall'orpellato fastigio, e
mordeva con denti velenosi i prodighi, i ricchi ed i centurioni
venosini! Sotto l'usbergo d'una morale istintiva covava Tira repressa
del figliuol del liberto 1 ni. L padre d' O. condusse
suo figlìo in Roma, cioè cin- quantacinque anni prima dell' era
cri- stiana, non raggiungendo questi ancora i dieci anni di età.
Forte baleno dì or- goglio e di stupore dovette abbagliare il
piccolo venosino, ma pur cittadino romano, nel calpestare le aboliate
strade della magnì- fica Roma. Ergevasi la città, che
imperava allora su buona parte dell' orbe terraqueo, sui
dodici celebri colli, dei quali il Vaticano, il Citorio, e
quell'altro dove Tazio venne a fissarsi coi suoi Quiriti, rifulgono oggi
maggiormente nel mondo, perchè dominio di validissime potenze: la
tiara, e la monarchia costituzio- nale deir Italia unita e libera. Aveva
ponti lunghi e meravigliosi, porte monumentali, mura che potean
vantarsi più durature e in- concusse delle ciclopiche o pelasgiche o
delle cinesi. Avea più di quattrocento templi ador- nati di colonne
preziose, archi trionfali, obe- lischi fatti trasportare con ingentissime
spese dalle più remote regioni del mondo onde si fosse palesata la
grandezza delle vittorie romane dalle spoglie ricavate dai potenti e
riottosi nemici. Se però Roma mostravasi tanto superba e
potente alla vista, il che poteva lusingare i sensi del piccolo
viaggiatore (il quale poi non proveniva da paese barbaro e povero,
bensì da Venosa, caput Apuliae, città monumen- tale e stupenda,
siccome attestano le antiche carte e le lapidi che hanno sfidata la
corro- sione dei secoli, "^)) non cessava di ascondere nella
sua ampiezza e magnificenza gente av- vilita dalle discordie civili. Pel
triunvirato di Cesare, Pompeo e Crasso (quel Crasso di cui più
sopra si delineò la proterva jattanza), quel popolo, dapprima così forte
e generoso, vedeva sfuggirsi, pel libertinaggio prepon- derante, la
libertà che offriva ai cittadini la repubblica di CATONE (si veda),
repubblica ormai mo- ribonda. La mollezza ed il mal costume tor-
cer facean lo sguardo ad ogni onesto e probo romano. E perciò Orazio
stesso, allorché co- minciò a balenargli in mente il vero, scrisse
che le cure del suo buon genitore, che gli fu guida permanente, fra tante
grandezze e fra tanto scompiglio morale lo ritrassero dal cadere in
brutture ed ignominie e dal venir tacciato di cattivo cittadino ; che anzi gli
procu- rarono la stima dei buoni e dei veramente grandi.
Il padre soleva giornalmente condurlo dai maestri più celebri della
città, ed ai banchi di quelle scuole famose sedevano con lui
figliuoli di senatori e di altre famiglie nobili ed alto- locate
dell'alma Roma. Era sicuro il padre che non si sarebbe rinfacciato al
giovanetto Quinto O. la nascita vilissima, perchè s' ignorava donde
fosse venuto : Y emporio immenso, oceano nel quale rifluivano tutti
i popoli della terra, lo assorbivano. E lo schiavo fatto libero
superava per lusso e per criterio sicuro moltissimi ingenui e
gentiluomini. O. gliene fu gratissimo ; e scrisse che se avesse
dovuto rinascere, ed avesse potuto scegliersi un padre, avrebbe scelto
quello che gli die natura, non trovando altro uomo più coscenzioso,
più perspicace, più amore- vole di questo ! Desta ammirazione e
mera- viglia questa confessione, se si rifletta che il padre di O.
era illetterato, e che era stato soggetto alla schiavitù 1 Ed
Orazio nel parlar di suo .padre include pure la madre sua, perchè
dice: io pago a' miei (genitori), di fasci E di sedie curuli avoli
adorni Saprei spezzar. Le prime lettere gli furono apprese da Pupilio
Orbilio da Benevento, che, come narra Svetonio, fu dottissimo grammatico
in quel tempo e tra i migliori maestri sotto il consolato di CICERONE
Visse centenario; morì povero, solita fine dei non pochi lavoratori
coscenziosi ed indefessi. Era severissimo e non risparmiò la sua sferza
allo stesso O., che se lo rammentava con satirica soddi- sfazione.
L'uso delle sferzate nella palma delle mani degli scolari, antico
più del tempo del quale si discorre, formava sin negli ultimi
nostri giorni un genere di punizione che la civiltà invadente va
oggi disperdendo, siccome si è tolto il barbaro uso di bastonare e
torturare i poveri folli ! Le cure morali debbono sosti- tuirsi a quelle
corporali e costrittive. Alla scuola di Orbilio Pupilio
cominciò O. ad alimentarsi della poesia latina; menando a memoria e
tratteggiando le scene drammatiche del poeta Livio Andronico ed
altri illustri. Come più sviluppavasi negli anni, cominciò ad attingere
alle fonti delle lettere greche, che egli stesso poi definì le più
pure e che dovevano occupare i dì e le notti degli scrittori.
Omero, Anacreonte, Saffo, Archi- loco, Alceo, Stesicoro, Simonide, e non
tra- lasciando i latini, a cominciar da Lucilio, che gli fece
acquistar gusto alla satira, furono i suoi modelli nel bello scrivere, e
da essi ap- prese quell'arte divina, quella melodia am- maliatrice,
che lo fecero addivenire il prìftio tra i lirici del mondo. Ed egli solea
paì-agonarsi all'ape industre del monte Matino (ser- vendosi per
similitudine del nome d* un monte della sua Puglia, ma non del
Vulture presso del quale spento
vulcano ebbe la 'Cuna), cfee svolazzando di fiore in fiore ne suggeva
da ciascuno quel tanto di dolce e poetico da for- mar xumti
immortali 1 Ed invero potrebbe qui riferirsi senza de- rogare
l'aurea massima di Ovidio del prin- cipiis còsta, nel senso inverso, per
umU, privo del tetto «npic.1, eha Bud«t var»(EUr
bnpuko SctDW col cV»l. Io radiche, essendo gli scribi addetti
al contenziose amministrativo, od alla pubblica contabilità,
formavano un' autorità speciale, siccome la Gran Corte dei Conti dei
nostri giorni. Essi formavano un collegio a parte e la carica era
vitalizia ed inamovibile. Dalle antiche iscrizioni scoperte in
Tivoli, e presso la via Nomentana in Roma nei pri- mi anni del
secolo decimonono, come da altre che vennero con esattezza riportate e
com- mentate dal Gruter, da Fabretto, da Donati, da Tommaso
Reinesius, nella sua Syntagma inscriptionum, da Creili, da Mommsen, e
da Visconti, si rileva appunto l'importanza del- Tuffizio di
scriba. Hawene una di un Tito Sabidio Massimo, scriba della
questura, ed appartenente al sur- referito collegio, al quale i Tiburtini
innalza- rono un monumento in riconoscenza dell'alta protezione
accordata da lui a questa città: T. Sabidio T. F. Pal. Maximo
Scribae. Q. SEX. Prim. Bis. Praef. Fabrum. Pontifici.
Salio. Curatori Fani Herculis. Tribuno. Aquarum. Q. Q. Patrono,
Municipii. Locus Sepulturae. Datus, VOLUNTATE. POPULI. DECRETO.
SeNATUS. TlBURTIUM. Siccome quest'altra seguente
iscrizione a Manio Valerio Basso antico tribuno di legione come era stato
Orazio, pubblicata nel 1854 nel Giornale di Roma dal comm.
Visconti, rende noto che la carica di scriba della que- stura
soleva assegnarsi alla miglior classe dei cittadini, e talvolta solevasi
contraccam- biare con la carica di tribuno delle milizie, acciocché
se qualcuno fosse stato esonerato o per età o per volontà, trovar potesse
un appannaggio adeguato al proprio valore, ed un meritato
guiderdone: Man. Valerio. Man. F. Quir. Basso. Trib. Mil. Leg.
III. Cyrenejae Scrib. Q. VI. Primo. Harispic. Maximo.
Testamento. Fieri. Iussit. Siri Et. Fratri. Suo. Hs. L.
M. N. Arbitratu. Heredum. Erroneamente quindi gli antichi
interpreti della parola scriba e dell' impiego ottenuto da Orazio,
e molti scoliasti e glossatori e biografi attribuirono solo il senso di
copiatori di pubblici atti, oppure notai o redatt di atti privati,
all'ufficio di scriba. Tale dignità elevata, ottenuta solo per
ii pegno di altissimi personaggi, rese ad Oi zio più facile V
accesso ed il conversare e grandi ed i potenti di queir età, come si
\ drà in appresso. L’importanza poi di tale impiego ott nuto
dal poeta si rileva anche da quello ci egli stesso scrive nella satira
sesta del libi secondo: Quinto, Ti pregano i notai che
non ti scordi Di tornar oggi pel noto affare Al
collegio d* altissima importanza [Anche il Gargallo spiega la parola
scribi con la voce notato; ma non credo aver voluta egli intendere
quello che oggidì importa h carica di notaio, bensì componente il
collegio degli scribi questorii suddetti. Il sommo poeta
trascorse dunque i primi anni della sua dimora in Roma tra Toccupa-
zione che gli offriva tale dignità onorifica e lucrativa e tra i diletti
della poesia. Non può asserirsi con piena conoscenza quanto
Weichert, uno dei più indefessi il-lustratori del poeta, nella sua opera
Poe- tarum latinorum, vuol sostenere, cioè che O. avesse solo
ventisette anni allorché venne presentato a Mecenate, cioè nel 715
di Roma. La cronologia diventa un mito quando si ravvolge in date così
lontane e senza testimoni oculari. Volendo però seguire tale opinione,
adottata pure da Andrea Dacier, la presentazione di O. a Mece- nate
successe quattro o cinque anni dopo la sua dimora in Roma. E Mecenate, il
gran protettore degrillustri letterati di quel tempo, non lo ammise
nella propria corte se non dopo averne conosciute le virtù, i pregi dell'animo
e l'ingegno portentoso, e dopo aver giudicato se Vario e Virgilio, che
glielo raccomanda- rono, avessero imberciato nel segno propo-
nendolo pel novero dei suoi favoriti, quando era a sua conoscenza che
Orazio aveva so- stenuto la carica di tribuno nelle legioni di
Bruto, ed era fiero ed ardente repubblicano. Riesce quindi logico
noverare la satira quarta del primo libro di O. come scritta poco
prima che fosse a Mecenate presentato, stante che in essa si scusa con
quelli che lamentavansi delle sue punture, e gliele rimprove vano come
poco coerenti per uno che int( deva guadagnarsi la stima dei grandi. ]
egli vuol farsi credere semplice moralista filosofo che castiga, ridendo,
i costumi, perciò egli si esprime presso a poco coi Il leggere
satire, il veder frizzata la catti gente non riesce certo piacevol cosa a
colo che hanno la coscienza poco monda. Ma e è puro ed integro ed
onesto, non teme scudisciate del poeta, siccome disprezza calunnie
dei malvagi. Poi non soglio io ai dar divulgando le mie composizioni
nel piazze, nei trivii, nei simposii od anche nel accademie. Scrivo
per semplice diletto, spini da forza arcana e per pura intenzione di
ù del bene e purgare la società inondata d; vampiri, dai viziosi,
dagli scelesti, dagVinv diosi, dagli scialacquatori di patrimoni eh
costarono sudori a generazioni di lavorator Confesso d' aver anch' io dei
difetti; ma ci: può mai tacciarmi d'aver tradita l'amicizia d'aver
calunniato chi merita lode, d'aver scemato il merito, anzi non aver
abbastanz; lodato i cittadini eminenti ed onesti? Un
uomo che parla così di se stesso me- ritava venire annoverato tra quelli
la cui ami cizia è un guadagno, un pregio, un onore. Vario e
Virgilio lo presentarono a Me- cenate. iur> nurmi; • Kt» pu prtgjo la
noa. cliL nciFBnlI iDroliJ. poicha ftllm lla^iu k ÉufanUl pad
or nada td kncluopv. Gaxoallo — Trmd. di Oraiìa AIO Cilnio
Mecenate nasce in Arezzo dalla nobilissima famiglia Cilnia, discendente
dai re dell'Etruria, che erano quei guerrieri etruschi venuti a
soc- correre Romolo nella guerra contro i Sabini. Nacque tre anni
prima di O. Visse i primi anni legato di amicìzia col giovane Ottaviano,
e fecero insieme gli studii delle h tere e delle scienze in Atene.
Egli pure, seguendo le orme degli avi, intrepido guerriero, e seguì
sempre il vitt rioso Cesare in tutte le battaglie per demoli la
repubblica e difendere Roma dai nemi interni ed esterni. Non
fu affetto dal morbo dell' ambizion Allorché Augusto divenne
padrone del v stissìmo imperio, a Mecenate vennero ofFei i primi
onori, i più ampii poteri; ma tutto eg rifiutava. Accolse solo le premure
di Augusl di rappresentarlo quando si allontanava e
Roma. Preferiva il sistema governativo a regim monarchico assoluto,
piuttosto che quell retto a repubblica, e riuscì a far determinar
col suo savio consiglio Augusto a conservar quel potere sovrano che per
suoi fini particc lari avea deciso abbandonare. Si avvalse dell
propria influenza, dei suoi disinteressati am monimenti e del suo credito
per rendere Au gusto, imperatore e pontefice, proclive ali clemenza
ed a far più manifesto il fastigio della monarchia. Amante del lusso,
egli stesso sprona Augusto severo, economico e restio al grandeggiare, al
rendersi sovrano per magnificenza e per sublimi intraprese edi-
lizie e monumentali. Sposò Terenzia, donna di grandissima
bellezza, ma altezzosa ed infedele. La ripudiò: ritornò ad essa sommesso:
che non hawi grande uomo esente da mende, principal- mente
dipendenti da procacia donnesca. So- stenne lotte atroci per
dimenticarla, e non ne ebbe la forza. U illustre tedesco Meibom la
dipinge nel vero suo aspetto. Era scrittore forbito, piacevole ed
erudito. Compose ( ma non sono giunte fino a noi ) una Storia
naturale, la Vita di Augusto, e diverse tragedie e poesie.
Possedeva enormi ricchezze, potendo quasi competere con Lucullo:
largheggiava con ma- gnificenza regale. Ma quello che lo rese pro-
verbiale nei secoli si fu \ aver protetto e be- neficato i sommi
letterati del suo tempo. VIRGILIO (vidasi), Vario, Terenzio, Tibullo,
Catullo, Marziale ed il nostro grande poeta furono i suoi favoriti. Né la
sua protezione si limi- tava a piccoli sussidii, ad inviti ai suoi
sontuosi conviti od a sterili raccomandazioni Bensì soleva rendersi
splendido per largi zioni tali da bastare ad assicurare l'agiatezze
per tutta la vita del protetto. Pochi sovran si sono succeduti sulla
scena del mondo prodighi come Mecenate, e tanto avveduti nei dare ed
innalzare chi realmente possedeva meriti personali così insigni da
immortalare il protettore, considerandolo nei frutti del lorc
ingegno. Solo in questi ultimi anni nelle ro- vine di Carseoli nel Lazio
si rinvenne un bu- sto marmoreo di Mecenate. Le rovine della
splendida sua villa a Tivoli non sarebbero bastate a rischiarare la sua
vita e la sua gran- dezza senza la Lucerna venosma, che lo ha fatto
rifulgere di luce splendidissima ed eterna. Il vero monumento imperituro
a Mecenate glielo ha innalzato O. Fiacco venosino. Virgilio nelle
Georgiche così decanta il suo insigne protettore: O Mecenate, o
decoro nostro e parte massima della nostra fama. » Ma Orazio si
mostra più virile. Ritiene Me- cenate gloria, presidio, sostegno e forte
scu- do della sua persona; ma non attribuisce a lui, bensì al
proprio ingegno la propria immortalità. La superbia Oraziana (superbia
derivante dai meritati allori ) non comportava servilità comuni al
volgo. Poteva forse il ricchissimo aretino forjiir- gli una
sola favilla di quel genio che il gran cittadino di Venosa stesso definì
particella di aura divina? Tutti i tesori di Golconda non
equivalgono a quegli slanci di lirica sublime che non han- no avuto
eguale in nessun mortale quaggiù ! Come si accennò innanzi, O.
venne presentato a Mecenate mentre vivea occu- pato neir ufficio di
scriba questorio, e nel comporre satire ed altre poesie, che aveano
già richiamato l'attenzione degli altri eruditi del giorno. E ciò dovette
succedere neir an- no 717 di Roma, cioè avendo egli già sor-
passato il ventisettesimo anno. Egli stesso così descrive questa
presentazione: r ottimo Virgilio Da pria^ poi Vario
dissero chi fossi, ' Né me figliuol di genitor preclaro Né me
opulento possessor che scorra Suoi vasti campi su destrier
pugliese^ Ma quel eh* io m* era espongo: accenti pochi^ Giusta tua
usanza^ tu rispondi: io parto. E dice pure: Fattomi al tuo
cospetto, singhiozzando Pochi accenti succiai^ poiché alla lingua
Era infantil pudor nodo ed inciampo. Donde nacque mai in Orazio tanta
umiltà tanta bonomia e tanta confusione vedendos al cospetto dell'
erudito e ricchissimo e pò tente Mecenate, se non dallo scorgere in
lu un amico sincero che cordialmente e senzc vedute interessate lo
proteggeva, e lo 'ponevc nel novero dei suoi favoriti, ciò che
formava l'orgoglio di altri in quel tempo più in fams di lui,
mentre pel contrario molti altri lo di- sprezzavano e lo invidiavano, e
per tal fine cercavano fargli il maggior danno possibile? Aggiunger
poi si deve che la magnificenza che circondava Mecenate, il suo palagio,
la fila dei cortigiani che colle teste curve sino a toccare le
lastre marmoree del pavimento, il suo prestigio dovettero colpire O.,
che, per quanto impavido fosse, dovette risentirne certamente
imbarazzo e confusione. Ti è occorso mai, o lettore, di presentarti,
dopo un' aspettativa lunga ed ansiosa nelle anticamere, ad un sovrano? E
se sei italiano. ti trovasti mai alla presenza del gran Re
Vit- torio Emanuele ? Quella figura atletica, chiu- sa nella
cornice che cinge i re nelle reggie, colla divisa brillante di generale
italiano, con quelli occhioni vividi e fieri che ti scendeano come
saette sin nelle intime latebre dell'ani- mo, quasi a scrutarne le più
riposte idee e sentimenti, non ti produsse alcuna emozio- ne ?
Nulla avvertisti ? E se quel sovrano ti avesse di sua mano largita un'
alta onorifi- cenza, od una lode schietta, non ti hai sentito
sussultare il cuore di gioia, riconoscenza e compiacimento? Se nulla hai
provato, dir debbo che l'animo tuo è insensibile come pietra fi-edda di
sepolcro! Garibaldi, Cavour, Thiers^ lo stesso Bismark ed il grande
taciturno tedesco ebbero fieri sussulti dell'animo, quando la mano del
gran re strinse la loro! Discordanti ben vero appaiono le opinioni
circa il tempo e l'età nella quale Orazio fu da Virgilio e da Vario
presentato a Mecenate. Molti sostengono (e si riscontra nelle
me- morie dei suoi moderni biografi) che siffatto avvenimento
accadde nell'anno 735 o 736 di Roma, così che fanno succedere nel 737
il viaggio di O. con Mecenate a Brindisi e quindi pochi mesi dopo
questa data la pub blicazione della satira quinta del libro primo
che ne descrive facetamente il viaggio, l evoluzioni, gì' incontri
avvenuti ed altri fat terelli piccanti. Ma nella Cronologia
del Dacier, che devt stimarsi la più esatta disposizione degli av
venimenti e degli anni nei quali O. com pose le sue poesie, attenendosi
ai diversi con- solati sotto i quali O. accenna scrivere, viene
indicato il viaggio di Brindisi nel 716, od in quel torno di tempo, cioè
quando O. avea ventinove o trent' anni, e riesce ciò più presumibile.
Poiché nelle opinioni con- trarie il poeta avrebbe fatto quel viaggio
por- tando sulle spalle mezzo secolo: ed avuto ri- guardo alla sua
salute un po' malandata ed alla circospezione a conservarsi, ed alla
sua vita ritiratissima allorché vivea in Sabina e rifiutava perfino
gli inviti di Augusto, non appare verosimile. Sia però come si
voglia, certa cosa é che Mecenate riserbossi nove mesi per poterlo
ammettere nel novero dei suoi amici stretti. O., erudito,
giovialissimo, baldo, perchè adusato agli esercizii aspri della milizia:
sperto del mondo, perchè provato dalle sventure e chiaroveggente: amante
del vivere allegro, buontempone, re- sistente alle libazioni dei cecubi e
dei falerni, uccellatore esimio di donzelle e facile ad ade- scarle
col vischio della poesia, dovea venir ricercato nelle brigate e nelle
accolte dei dotti e dei viveurs di quel tempo. Era bel
giovane, se non bellissimo, e ne menava vanto; ed i malanni della precoce
se- nilità (dovuta agli studii indefessi), siccome la cisposità
degli occhi ed i reumatismi, non aveanlo ancora reso solibus aptum, né
biso- gnevole delle stufe calde di Cuma o delle fredde docce di
Chiusi e di Gubbio. Tutto ciò fé' propendere la bilancia a suo
favore. Mecenate, gran conoscitore degli uomini, ed
indagatore minuzioso, specialmente trat- tandosi di quelli che doveano
essergli sempre vicino e sui quali doveva fidare, lo volle con sé,
dopo nove mesi di prove ed indagini, com- mensale ed ospite nelle sue
splendide reggie. Si sostenne (al dir di Svetonio) da taluni
detrattori del sommo poeta, che nel temp in cui O. e presentato a
Mecenate, ve nisse pubblicata in Roma una lettera sua i prosa, e
dei versi elegiaci supplichevoli, co quali, adulando il ricchissimo
Mecenate, n implorasse la protezione e l'accoglimento. Ms calunnia
(e Svetonio stesso lo asserì) apparv più atroce e vile; tutto era
apocrifo, si trat tava di libelli infamanti. O. non piatì sup plice
nessun onore, provando in petto senti menti di fiera libertà; sentiva
troppo di sé tanto che in luogo di adulare sferzava i cor tigiani e
lo stesso Mecenate sino a dargl dell'effeminato e del Malchino. Il
seguirsi de fatti di sua vita e le proverbiali espression di
superbia che si notano nei suoi scritti, at testano lalto grado della sua
alterigia, fie- rezza ed indipendenza. E non aveva poi h carica
autorevole e redditizia di scriba questorio in Roma ? E a lui, cui bastava tante
poco, a lui nemico del lusso e delle albagie boriose dei grandi, come
potette addebitarsi tanta viltà ? Molti scrittori dissero O. es-
sere traduttore dei poeti greci. Frontone chiama O. memoriabilis poeta, e
nient'altro. È noto del resto che il gran Venosino nei più
antichi tempi non fu tenuto in quella no- minanza altissima, come ora si
tiene. *^) Oh che gli uomini sogliono vedere sem- pre il male
nel prossimo, e fingono non ve- derne il bene I L'adulazione,
gli omaggi resi da O. a Mecenate ed Augusto, sono, derivati dal suo
animo riconoscente e buono. Mecenate lo colmò di doni e favori. O. se
l'ebbe a gran fortuna ed insperata, e per aver ester- nata la sua
riconoscenza procacciossi la taccia di pettegolo e vile adulatore. Lessing
^7) così si esprime : « La malizia regna sovrana negli
apprezzamenti, come nelle altre cose. Che un letterato espri- ma le
proprie idee sulla divinità in maniera da rendersi sublime, esponga le
massime più belle sulla virtù, il volgo si guarderà bene dair
ammirare il cuore da cui partono siffatti sentimenti, bensì gli si
assegnerà la taccia di stravagante. Se poi, al contrario, allo
scrittore sfugge il benché minimo biasime- vole fatto, lo si dirà
derivante da un cuore cattivo, da un animo perverso. Così giudicano gli
uomini! Le massime così morali ed istruttive d O., la sua
circospezione, la sua religio ne, la sua integrità, la sua indomita
fierezza il suo animo generoso ed affettuoso insieme la sua
amicizia, che si svelava sempre sin cera e disinteressata, non furono
bastevoli e liberarlo dal dente della calunnia e dai vita perii
degr invidi ed ipocriti suoi ammiratori Quando altro i suoi nemici
non potetterc fare, stabilirono la lega del silenzio, creden- do
che Toblio l'avrebbe ricoperto; ed infatti ben pochi scrittori di quel
tempo e soltantc qualcuno dei sommi furono quelli che ricor- darono
O. Oh stolti ! O. era stella sfolgoreg- giante di propria
luce! Oh quanti avrebbero spedito (e ne spe- dirono certo, perché
pregavano O. stesso a presentarle, ed O. negavasi) suppliche e
petizioni a Mecenate per aversi quello che O. ottenne per suoi meriti
straor- dinarii, e perchè forse a sua insaputa venne aiutato da
Vario e Virgilio, i quali indipendenti e sommi non mercanteggiavano sulla
virtù e suiramicizia ! O. conservò sempre una virile dignità, né fu mai
parassita o cortigiano di Mecenate, ma suo amico fedele, e fedele gli fu
sino alla morte che li colpì, per istrana fatalità,
insieme! Svetonio riporta l'epigramma faceto ed amichevole che
Mecenate ad O. diresse, che molto spiega e rischiara : Ni te
visceribiis meis, Morati^ Plus jam diligo^ tu tuum sodaUm ninno me
videas strigosiorem, (( Se io, o O., non continuerò ad amarti
più di me stesso, possa tu vedermi ridotto più sfiancato del mio muletto.
Al cardinale Ippolito d'Este, che non era certo al livello di Mecenate,
né per inge- gno, né per ricchezza e potenza, e che ri- volse
all'Ariosto quell'esclamazione avvili- ti va: « Donde traeste fuori,
messer Ludovico, tante fanfaluche ? » Ariosto scriveva : Fa che la
povertà meno m*incresca^ E fa che la ricchezza sì non
m*ami Che di mia libertà per suo amor esca. Quel ch'io non
spero aver fa eh* io non bramii Che né sdegno ne invidia mi consumi
. Si noti differenza di sentimenti ! O. così risponde al celebre
giurecon sulto Caio Trebazio Testa, che lo consi gliava a celebrare
coi carmi suoi immorta] le gesta di Ottaviano: Trebazio di
Cesare tinvitto Osa le gesta celebrar^ sicuro Che ne
otterrai ricca al lavor mercede, O. cedono ineguali A tanto
desio le forze inferme fuor che in propizio istante. Mai non Jìa che di Fiacco
accento voli) Ma questa è apologia bella e buona, chse, sed
c( si tibi natura deest, corpuscolum non « deest. )) Dai
quali brani si rileva che Augusto non solo stimava Orazio al massimo
grado, tanto da temere che essendo le sue opere immor- tali, non
curasse d'immortalarlo in esse, quanto eragli amico intrinseco e con lui
so- leva scherzare come con un suo pari. Ed Augusto non addivenne
l'erede testamentario del poeta? Sono fatti che riescono incomprensibili
a quelli che non vogliono riflet- tere quanto grande sia la potenza del
genio, dell' arte ! Il volo sublime spiccato dal vate venosino è un
fenomeno che merita uno stu- dio speciale, e non altrimenti possono
spie- garsi quelle poesie nelle quali la superbia e lo sprezzo del
volgo profano fanno ma- nifesta quella grandezza sua, che
chiarissima a lui stesso appariva. Di bronzo più durevole Ho
un monumento alzato.,.^ Non Jta che basti a chiudere Me breve
tomba intero Dair imo suolo alt etere Diran eh io seppi
alzarmi Primier su cetra italica Cigno d* Eolii carmi,,,..
Superba or va^ Melpomene Dei meritati allori Tutto il
terrestre spazio È angusto a me confine,... Non io
Da r urna e da la stigia Onda sarò ristretto^ Già del
figliuol di Dedalo Io spiego ala piti ardita.... Laude fra tardi
posteri Farà ch'io, guai per fresca Aura, arbuscel piti
vegeto Ognor m^ innovi e cresca..,. La pompa è a me soverchia
Che r altrui tombe onora,.,. 34) Colui che si esprimeva in questi
termin sentir doveva di essere di gran lunga supe riore a tutto il
resto degli uomini, e non rieso incomprensibile che abbia potuto divenire
i favorito del potentissimo Augusto, siccom( lo era del generoso
Mecenate. E che la superbia di O. fosse stafc sprone
ad acquisto di ricchezze ed onori e vuo- ta supremazia sui suoi simili,
patentemente vien diniegato dal suo metodo di vita, dalle sue
massime radicate di sobrietà e morigera- tezza, dal suo contentarsi del
poco e godere della parsimonia. Mecenate ed Augusto po- teaii certo
offerirgli più che un podere in Sabina, potean delegarlo proconsole in terre
lon- tane, dove sarebbe ritornato ricco come Lu- cuUo; ma ciò
sarebbe stato un offenderlo, un ferire la sua suscettibilità, un recargli
fastidio, un attendersi un reciso rifiuto, perchè non eran questi i
voti del venosino. È notorio che Orazio non usò altri di-
stintivi di onorificenze se non lanello e gli ornamenti di giudice, ^5)
ma valevasene sol- tanto per accompagnare Mecenate nei pub- blici
ritrovi, perchè non amava certo che si fosse detto che l'amico del
potente signore fosse un figliuol di liberto, bensì un cava- liere
che comandato aveva una legione ro- mana! Un poderetto in
luogo ameno, salubre, tranquillo e lontano dai rumori della gran
città, un tetto sicuro, la certezza di vivere agiato, la vicinanza ai suoi
sinceri amici protettori, ai quali dimostrava ad ogni p
sospinto la sua riconoscenza: ciò gli era ne solo sufficiente
ma sovrabbondante, e ne rii graziava le divinità! Ah
che daddovero era una grand' anim quella di Orazio venosino ! O
divino Verd o sommo Cantù, voi siete oggi esempi vi
venti di uomini immortali aborrenti dalla st perba jattanza,
e modesti, e cari ai popoli e all'Essere eterno che vi stampò !
Riesce fs cile notare nel passato, fatte le dovute ecce
zioni, taluni pure letterati od artisti, ai qual riuscì
appena in certa guisa a far risonar pel mondo la tromba della fama,
che non pii si appagarono di piccoli poderi o rustich-
casette, ma bramarono s'innalzassero monu menti a loro stessi
viventi. Vollero onor sommi, castelli, parchi, magnificenza,
fra stuono di accademie e di teatri, e scialo à superare i re
della terra ! LA VILLA SABINA SvsTomo — Vitt ili Orma
L'ooohka eoM DgU kiL mlil non ibiHa, Qu«l oh* poHl*d«: PIA
qaaL poco i mto^... Cari rfciuip « M mtJ crvLI. immL Gaioallo
Tra4. ili Orati I ell' esposizione della Promotrice in Napoli si
ammirava un cjuadro ad olio, segnato O. in viiia, dell'illustre
pittore Camillo Miola, mio amico, autore della Sibilla, del San-
sone al torchio, delle Danaidi, del Plauto^ e di altre pregevolissime
tele riguar- danti r antichità, e dì cui l' Illustrazione italiana fa
elogio sommo, dichiarandolo uno dei migliori artii moderni d'
Italia. Ed invero chi esamina quel quadro st pendo yien
compreso d' ammirazione p l'arte e per la precisione storica che vi
nota. Non palagio cinto da portici, o i parco, o da aiuole fiorite, non
statue né ca celli con grifoni e sfingi di bronzo; ma ui modesta
costruzione nascosta da un altissin albero, sul quale si arrampica un
cespo g gantesco, che lo fa assomigliar ad un eno me roseto; con
semplicità di colore, con pi cola corte, con finestrette modeste, da
un delle quali pende una gabbiolina con un capinera, e da cui
compare il busto di On zio che maschera una vaga donzella, dell
quale si distinguono solo le belle fattezzrini e Batillì imberbi con lunghe
chiome, che saltellando ed agitando nacchere e tirsi, si versan
dalle anfore colme vini prelibati rac- colti nel podere. Una capretta
randagia presso il rustico cancello di legno, apparisce spetta-
trice innocua di quelle piacevolezze campestri. Basta veder quel quadro
per formarsi una idea della proprietà che Orazio si ebbe in dono da
Mecenate, unico dono che la sua modestia aggradì, e che confaceva al
suo ideale. O. cosi enunzia la topografìa del suo
podere rustico: Tutto di monti una catena il forma^ Se non
che t interrompe opaca valle Ma così^ che sorgendo^ il destro lato
Ne copre il sole^ e con fuggente carro Cadendo^ il manco ne vapora. Il
clima Ne loderesti) Nella terza satira del secondo libro per
la prima volta parla di tal dono che gli venne fatto da Mecenate
quando cioè Agrippa fu edile. Perchè, siccome opina il Dacier,
nella sua Cronologia delle opere oraziane, tale satira in quel tempo fu
scritta. Ed O. ringrazia cordialmente Mece- nate per tal dono che gli
giungeva nel suo trentesimosecondo anno di età. La voracità
del tempo che ogni traccia di opera distrugge ed oscura, fece del
tutto scomparire le vestigia della villa di O. in Sabina. Solo la
pertinace ricerca dei suoi ammiratori, e la religione che
accompagnò i dotti archeologi nel voler rintracciare i ru- deri di
tal fabbricato e podere, guidati dal lume nello stesso O. nelle
descrizioni che ne fa nelle sue opere, fece in questi ul- timi anni
stabilire il luogo preciso, la con- formazione e r area dove quella villa
sor- geva, e dove il gran poeta, al dir di Sve- tonio, visse molti
anni nel ritiro fin secessu) e nella quiete. Ch. Guill.
Mitscherlich, dotto filologo prus- siano, nelle sue Racemationes
venusinae; Obbario, nelle sue no- te sulle epistole oraziane; e principalmente
r opera che X illustre Chaupy pubblicò in Roma sulla Scoperta della casa
di O., possono offrire prezìose notizie sulle ricerche pazienti e sulle
in- vestigazioni profonde e minuziose fatte per dar luce chiara a
tale obbietto. O. disse che al suo piccolo fondo bastano cinque
lavoratori per menarlo a coltura, i quali andavano a smerciarne le der-
rate a Varia, piccola città lambita dall' Aniene, ed avean tutti alloggio
nei fabbricati adia- centi a quelli che lui stesso abitava, e dove
ciascuno soleva vivere con la propria fami- glia, tanto che dai fumajuoli
delle cucine, sul far della sera, sprigionavansi cinque nuvo- lette
azzurrognole che ne indicavano il ru- stico convito (cinque fuochi), ed
il soggiorno tranquillo. Si costuma tuttodì dagli agiati
proprietarii di terre nelle province meridionali di vivere nel
proprio fondo circondati dai rispettivi coloni, e r occhio vigile del
padrone non nuoce alla prosperità di esso. Si comincia pure
oggi a comprendere dai ricchi possessori di latifondi che la pigra
vita delle popolose città non ridonda a vantag- gio della loro
fortuna. Si creino pure ca- stelli, e si viva in essi, ma si faccia
dimora presso la sorgente, donde si ricavano quel ricchezze che
rendono disuguali gli uomii fra loro. Si renderebbe così possibile e
pei donabile tale disuguaglianza! Il principale castaido di O.
dovev nominarsi Davo, marito forse a quella Fi dile alla quale
dirige consigli savissimi salutari con una sua epistola. Davo esser
do veva un cattivo castaido, come lo son per h più quei villici che
abituati da tempo a fa da padroni nel fondo, mal vedono un nuo vo
signore venire ad imporre ad essi leggi ( dettami ed a sorvegliarli. O.
lo rimbrotta acremente in una satira, ^s) perchè nelle fe- ste
saturnali, solendosi concedere ai subal- terni piena facoltà di esternare
i proprii sen- timenti senza poter venire redaguiti dal pa- drone,
ancorché gliele cantassero amare, (e tal costume si è conservato sin
negli ul- timi secoli scorsi, e Tansillo, venosino, nel suo sudicio
e laido poema, che intitolò // yendemmtatore^vciostvò quanto quella
libertà possa degenerare in licenza) svela il suo animo protervo,
indocile e poco amante delle rusticane usanze e prosperità derivanti
dalle buone e fertili annate, e dall' amor del suolo opimo; che anzi
si svela amante dei piaceri della città per quanto spregiatore delle
gioje campestri, e sotto la veste del campagnuolo si nasconde un
guattero tralignato, ed un operajo invido ed infingardo. Davo
prima di entrare nel podere aveva servito dei signori romani nell*
ufficio di mediastmus. Si figuri il bel tomol Il fondo si
componeva di una selvetta ce- dua (dove al poeta successe quel fiero
in- contro col lupo, ed un dio propizio lo fé' restare incolume)
ricca di elei ed altri alberi ghiandiferi che servivano ad alimentare
le piccole greggi. Vi si godeva nell* estate fre- scura e
raccoglimento. Eravi un pomiere, ed un orto, nei quali pruni, susini e
cornie ab- bondavano, con diverse altre specie di frutta delicate :
né mancavano ulivi; tanto che ben potea dirsi di ritrovarsi a Taranto. La
vite poi formava la parte più ricca del fondo, e dalla quale Orazio
solea distillare quel cele- brato vinello che non disdegnava far
gusta- re al palato di Mecenate. Nel mezzo del fondo scorreva
un rivolo di acqua freschissima, che ricascando in gt terelli
e piogge, e purificandosi lungo le ghi je, formava poi una fonte limpida
e crisfc lina da potersi paragonare al celebre fon Bandusia, che
versava le sue pure linfe pres; la patria del poeta, e che ancora oggidì
qu di Palazzo S. Gervasio chiamano Fontah di Venosa, presso il
bosco di Banzi. La fontana D* acqua perenne a la magion
vicina,,, '9> è appunto \ attuale fontana degli Oratir
presso Tivoli. Il fonte Bandusia sta press Venosa nella strada che mena a
Palazzo £ Gervasio, e X ode ad esso fu improvvisai da Orazio in una
gita a Venosa per cacci, o diporto. Erroneamente si
confondono queste du\ cioè morirà il mio corpo marcescibile, ma Y anima
mia soprav- viverà I In che cosa si discosta dalle credenze del
cristianesimo, se si cangiano i nomi alla divinità che dall' alto
dispone, assiste e protegge? O Jehova, o Dio, o Giove, uno è il
prin- cipio, r esistenza d' un essere soprannaturale che tutto vede
e dispone, e che premia o punisce. Non è la sommissione buddistica,
bensì la virile sommissione ad una forza on- nipotente. Orazio
diceva: Che Giove fra celesti Tien regno ^ il tuon
creder ci feo primiero. ^^ E Vittor Hugo in questi ultimi tempi,
ben- ché ammantato di scetticismo volteriano, gri- dava: // est, il
est, il est! **) A tali credenze religiose mescolandosi
la -c(a più dolce salsa alle vivande Procaccia col sudor.
5^) Soleva in compagnia dei suoi familiari ed alle vezzose
ancelle od amiche, aggiungere a queste semplici vivande un buon
bicchiere di vino schietto e leggiero, che essi mede- simi avevano
manipolato dopo la gioconda vendemmia. La sua mensa era
linda, lucente, bianca, sulla quale campeggiava un vasello emble-
matico ripieno di sale: e V aveva per caro auspicio e quale usanza
religiosa. Il sale ha avuto grande importanza in tutti i
tempi, persino nei culti. Presso gli Israe- liti serviva per purificare e
consacrar la vit- tima nei sàcrifizii. L' acqua santa nostra è mista
al sale. Questa sua grande mondezza, non lo dissuadeva dall' invitare a
convito amichevole, oltre ai suoi amici di condizione eguale alla
sua, siccome Torquato, Settimio, LoUio, Quinzio Irpino, oppure delle donzelle
di vita allegra ed avvenenti, come Fillide, Glicera, Cloe, Tindaride,
anche il gran Mecenate, al quale scriveva: n nauseoso lusso
ammirar cessa. Grato ben giunger suole Sovente ai
grandi il variar di scena. Cerca mensa frugai^ là dove ammessa Non
è pompa d^ arazzi^ e non di porpora In pover tetto fa sparir le
impronte Che affanno incide in accigliata fronte. Viriti m' è
schermo^ ed il seguir m' è pregio Povertà senza fasto e senza
sfregio) Ed in tali circostanze straordinarie mo- strar si
soleva galante a modo suo. Inco- minciava col prevenir gli amici che se
con- servavano vino miglior del suo, Io portas- sero pure alla sua
mensa che non se ne sarebbe offeso, anzi ne avrebbe bevuto un
bicchierino di soverchio alla salute del do- natore. O. ammetteva
che il vino rinfocolasse l'estro poetico, e perciò mal soffriva
sedessero al suo desco gli astemii, sostenendo che pu- tirono di
vino sin dall' alba le dolci muse. Prometteva ai commensali che li
avrebbe collocati nel triclinio ciascuno presso a per- sona che non
gli riuscisse antipatica o me- ritevole di troppe cerimonie. Né
disdegnava riservare il posto ai più gai, ai più giovani e baldi,
presso quelle generose donzelle ro- mane di bellezza e brio regine. La
gentilezza, poi, formava il principale suo pensiere. Così scriveva a
Torquato: Già il focolare da un pezzo e le stoviglie
Splendon rigovernate a farti onore A bere^ a sparger fiori io
già son primo, Che sozza coltre Che sordido mantil non giunga il
nc^so Ad aggrinzarti^ che il boccale eh' il piatto Tal non sia che
specchiarviti non possa) Né gli piacevano numerosi convitati,
ma pochi, cari e buoni: Che caprino sentore ammorba i troppo
Folti conviti. Riesce in vero gradito e dilettoso figi rarsi in mente il
nostro O., re del coi vito, con quel suo faccione pieno e rose^
ilare, faceto, coronato di rose, levigato terso colla cute, da sembrare
un majaletl lustro e pinzo. Levatosi da letto, soleva
andarsene a zoi zo per la sua terra, e dilettavasi a smuover glebe
e sassi, adocchiare i filari delle vit curare gì' innesti delle piante e
degli albei da frutta; della qual cosa solcano ridere vicini) i
quali conoscendo come Grazi frequentasse la corte, e che di Augusto e
e Mecenate e di altri potenti fosse familiare non poteano
persuadersi di questo suo amor per così rustiche e basse faccende
campe stri. Non riflettevano essi che nella ment del venosino eravi
fisso, incardinato il « m admirari y> secondo l'opinione di
Laerzic e di Democrito. Orazio era dotato di « aia raxia » e le
grandigie, il fasto, il lusso nor lo lusingavano punto, anzi ne era al
somme disgustato, siccome ritrovava diletto in quelle sue. umili
occupazioni. Ecco il suo savie consiglio: Alma al ben fare
accorta Tu serbi • inflessibile A V oro abbagliator
d* ogni pupilla. 57) E dopo le escursioni nel podere ponea
mano a coltivar lo spirito, scrivendo, leg- gendo, meditando.
Solca poi di tratto in tratto recarsi nella gran città, in Roma,
sia pel disimpegno della sua carica di scriba della questura, sia
per altre faccende, sia per coltivare le amicizie di Augusto, di
Mecenate e di altri che egli stimava, principalmente versati nelle
lettere e nelle scienze. Ma sen ritirava sfinito, perchè la folla
dei postulatori, degl'intriganti, dei finti amici invidi e malvagi, degli
zingani, dei ciurmatori, ruffiani, baratti e simili lor- dure, e
dei molestissimi e garruli falsi lette- rati non lo avevano
risparmiato. villa, e quando io rivedrotti^ e quando Potrò
dei prischi saggi or fra i volumi Or tra il sonno e le pigre ore
oziose Trarre de V egra vita un dolce oblio ì Li fave^ al Sannio,
in parentela aggiunte E i buoni erbaggi come va conditi Nel pingue
lardo, oh quando avrò sul desco I notti I cene degli dei^ dov* io
Presso il mio focolar coi miei m' assido^ E mangio^ ed alla vispa
famiglinola Dei servii nati dai miei servii io stesso I già libati
pria cibi dispenso! S^) Della sjpa persona soleva avere som cura,
perchè quasi giornalmente immerge nel bagno, e dopo ungere si solea di
o profumato e finissimo. Nel vestire most vasi dimesso e
noncurante, ma non pe privo di gran pulitezza o da potersi dir come
vuole san- to Attanasio, al dir dello stesso Lupoli e del Farao.
^^) Non mi è quindi riuscito straordi- nario ed inesplicabile quanto in
appresso verrò esponendo circa le consuetudini do- mestiche d’O..
Nelle molteplici edizioni delle opere del sommo poeta, le quali
riportano la sua bio- grafia redatta da Svetonio Tranquillo, ho
rilevato che si è tralasciata una notizia in- teressante che riguarda una
sua pratica oc- culta, la quale può ben riferirsi al culto sur-
riferito di misticismo caldaico. La vita di O. composta da
Svetonio Tranquillo, che è l’unico che scrive del gran venosino
pochi anni dopo la morte di lui, e che fa accrescere certezza alle
investiga- zioni fatte neir analizzarne le opere, si compone non più di
una sessantina di versi di stampa. Tutto è laconico e scritto
fugacemente, come se si trattasse d’un cenno necrologico. Sembra che Svetonio
abbia vo- luto far notare con certa diffusione Solo l'a- micizia
intima che legava O. ad Augusto, ed in essa si dilunga, fornendo preziosi
brani di lettere. La quale riproduzione di brani di lettere di
Augusto ad Orazio dirette forma- vano forse il soggetto che per la
maggior parte dei contemporanei destar doveva in- teresse maggiore,
e far di O. un uomo agli altri superiore per tanto onore. Il brano
della biografia che è stato cancellato (forse per purgarla), V ho
rilevato da un' edizione olandese delle opere di O. pub- blicata da
Bond, che la prima volta comparve in Londra nel 1614, e dopo se ne
riprodussero diverse al- tre edizioni intere, ed è il seguente:
(( Ad res venereas (Horatius) intemperantior traditur nani speculato
cubiculo scorta dicitur, habuisse disposila, ut quocunque
respextsset, tòt et imago e referretur. Formava adunque per Fiacco un
culto (( / ars Venerea », ed egli addimostrava- sene tanto
fervente, perchè nato nel luogo ove sorse il primo Succoth-Benoth.
Nella cennata antica cronaca venosina del Cenna, il quale era pure
investito della prima di- gnità del capitolo dell' insigne cattedrale
di Venosa, si leggono i seguenti versi che rinforzano la mia assertiva: «
Alcuni, e spe- tialmente Nicolò Franco nelli suoi Dialoghi, vanno
dicendo che Horatio Fiacco fusse stato in sua vita di costumi osceni, il
che tutto è falsissimo, siccome lo testifica Ludovico Dolce nella
vita di esso Horatio. » E Sivry, eccelso poeta, nel suo poema. « L Emulation
» va all'eccesso contrario, proclamando O. (( modéle de bravoure et
de chasteté. » Ciò che forma adunque l'addentellato al
dispregio di molte produzioni oraziane, viene per tal riguardo distrutto
; considerando che la sporcizia e l'oscenità, non erano poi in quei
tempi una qualifica essenziale dell' immoralità e della disonestà. Egli stesso
ripetuta- mente bersaglia, bistratta, dispregia e colpi- sce gli
adulteri, i violatori delle vergini, gl'incestuosi I Eran questi per lui
grimmo- rali ed i disonesti. E se non è questo il cor- reggere i
costumi, qual altro fondamento di morale, mancando la cristiana, poteva
offrir- gliene sostegno ? Egli rampogna acremente i Romani d'
ir- religione e lascivia. Egli volle vivere sempre celibe. Del nodo
d'Imene aveva tale concetto d' alta responsabilità che non volle
allacciar- sene, né restarne tenacemente avvinto. La moglie di
Mecenate gli forniva un esempio troppo splendido d* incostanza, infedeltà
e disonestà. Terenzia seguì Augusto in Asia abbandonando lo sposo.
E non parea conve- niente al sagace venosino far la triste figura
di Mecenate, intendendo professare V opi- nione di Seneca a tal riguardo,
quando com- pose la biografia del marito dell' infedelis- sima
Terenzia.Il suo celibato vien confermato dal non aver scritto mai carme o
verso per donna che fosse stata sua moglie. E lo dice esplicito e
chiaro nell'ode 8* del libro 3^: Te Mecenate il rimirar
sorprende Che vivo cespo ardente^ e incensi^ e altari^ Io cèlibe^
di ?narzo a le calende E fior prepari. E solo ad un
celibe sarebbe convenuto far pompa di tante conoscenze di cortigiane
e donne allegre. Lagage, Gige, dori, Barine, Foloe, Leuconoe,
Noebule, Lidia, Neera, Glicera, Tindaride ed altre dimostrar posso-
no, essendo state amanti riamate di Orazio, che se egli non aveva moglie,
godeva non poco del benefizio inapprezzabile di essere li- bero e
celibe. ìÀjiS^Ì se.
"*-Sj GuOALio Tml. di
Orm, N moltissimi punti delle opere di Orazio appare che nella sua
mente elevata si presentava l'immagine della morte, questo
indecifrabile, nebuloso, oscurissimo problema, questo fatto in-
cognito, pauroso e spaventevole. E dir ch'egli covava in petto un cuor di
ferro, e so- steneva che: Con impavido ciglio Se
delteteree spere in pezzi infrante. Valta compage piombi Sotto il
suo minar Jia che s* intombi, ^^s) Non poteva con tutto ciò
esimersi da quella paura istintiva, da quel senso di terrore in-
generato dal dover mancare alla vita, dal do- ver brancolare nelle
tenebre dell'ignoto. Nato a morir
Tutti attende alfin quella profonda Che non conosce
aurora unica notte Hctssi un giorno a calcar la stigia sponda Presto rapì t
inclito Achille morte E a me ciò farse offrir vorrà la sorte
Necessità di morte Getta sovra ciascun Legge
crudeli Ma pazienza mitiga Ciò che non ha riparo Tutti
spigne tal forza ad ugual meta Che a pugnar seco è mortai forza
inabile) Tutta la sua filosofia: le massime di Democrito e di
Epicuro, che facean precetto essenziale di dispregiare e non curare
gli orrori del sepolcro, non bastarono a toglier questo pensiero
ftinestissimo dalla mente di lui. In mille maniere lo rimuginava, lo
com- mentava, compiacevasi tormentarsene. La lu- ce ed i fulgori
delle verità cristiane non gli rischiaravano l'intelletto e non gli
molcevano il dolore, promettendogli una patria lassù, sulle sfere,
patria immutabile, bella d' ogni godimento ed allietata dalla vista di
quel Dio rimuneratore e buono ed onnipotente. Ammetteva Y
Èrebo e Y Olimpo, come so- levansi ammettere quei miti inverosimili
ed incredibili, che acchetavano la bramosia di quei popoli privi di
una fede consolatrice, che prometteva la beatitudine ventura come
compenso alla vita onesta e laboriosa. Dato che il piacere terreno
formar do- vesse la meta della felicità, che poteva spe- rarsene
dalla vita futura? Il nulla, la distru- zione completa, la particella
della materia andava a ricongiungersi alla materia: Noi
cadendo Nella notte che non sgombra Più non siatn che polve ed
ombra . Degli anni il breve termine Vieta ordir lunga speme:
V ombre favoleggiate e la perpetua Notte già già ti preme) Nella
distruzione completa del suo essere O. ammetteva che soltanto una parte
di se stesso sopravviver dovesse eterna: cioè il frutto dei suoi
sudori, il suo monumento: r anima sua. E tale credenza, che
non era dubbio, gli scusava la fede nel!' immortalità dello spi-
rito umano. L* (( omnis moriar », espressione tanto concisa
per quanto chiara, spiega che non eravi dubbio in lui neir immortalità
del- lanima. La paura della morte comune a tutti, sebbene con tanta
jattanza, dalla maggior parte apparentemente sfidata, più che O. vinceva
il suo protettore, Mecenate. E siccome la paura è attaccaticcia e
conta- giosa, O. non addimostravasi meno al- larmato di lui. E tal
pensiero dominante trapela nelle sue opere, come quell'altro, che
lo mordeva sordo, della nascita vile ; né bastavagli a frenargli la
lingua, la sua for- tezza e valentia. La paura della morte era così
possente in Mecenate da fargli dettar quei versi riportati da Seneca, che
non fanno grande onore al valoroso romano: Vita dum superest,
bene est Hunc mihi vel acuta Si sedeam cruce^ sustine ! Tanto grave
e scoraggiante riusciva per lui tale idea, che avrebbe meglio amato
ve- nire inchiodato in croce come l'ultimo dei malfattori e vivere,
che farsi tragittar da Caronte nella palude Acherontea. Orazio
venivalo consolando con teneris- sime espressioni, perchè O. non era
codardo, né intendea scoraggiarlo maggior- mente. Ma le sue espressioni
non appro- davano gran che. Tentò alfine porre in ope- ra il savio
consiglio, che la pena gli sa- rebbe venuta scemata sapendolo
compagno nel dolore, ed è perciò che gli dice senza essere scevro
di paura :, Non piace ai numi Che i tuoi si spengano pria dei miei
lumi Un dì medesimo fia d* ambi estremo Ne il voto è perfido,
inseparabili Andremo^ andremo. Che pria se muori Pur teco air
ultimo comun mi trovi I nostri unanimi fuor S ogni esempio Astri
consentono 69) E tale profetica consolazione, per istrana
fatalità, si verificò pur troppo. Non è lecito veder tutto con tinte
soprannaturali. Buona parte di quello che molti direbbero spirito
profetico attribuir si deve alla paura della morte che premeva così
Mecenate come O. E la paura, il dubbio dell' ignoto, non è vigliaccheria,
bensì è innata nella natura umana. Anzi prode è colui che questa
paura affronta, e guarda imperterrito quella figura armata di
falce, sfidandola sui campi delle battaglie, al letto degli
appestati. Se non vi fosse terrore e spavento istin- tivo del
morire, quale prodezza, qual valentia sarebbe affrontare impavido la
mitraglia e le pesti, il mare irato ed il baleno delle armi nelle
tenzoni cavalleresche? L' amistà che legava Mecenate ad Orazio, il
sentirsi quel grande consolato da lui così coraggiosamente lo fecero
memore del poeta che l'assisteva nelFora estrema a preferenza degli
altri. Nel suo testamento scriveva ad Augusto, al dir di Svetonio: (c
Prendete cura di O. Fiacco come prendereste cura e terreste memoria
di me stesso I » E riesce veramente straordinario come, morto
appena Mecenate, che era già soffe- rente e presentiva la propria fine,
dopo pochi giorni, un subitaneo malore colpì il sommo filosofo, da
non lasciargli neppure il tempo di dettare in iscritto le sue ultime
vo- lontà. Andonne misteriosamente a raggiun- gere r amico neir ima
notte, siccome aveva promesso. O. morì a Roma, essendo consoli Caio Mario
Censorino e Caio Asinio Gallo, nell'età di anni cinquantasette, due
mesi e qualche giorno, cioè nel dì 27 novembre. Già da
qualche tempo varcati i dieci lu- stri, O. non senti vasi sano: accusava
sof- ferenza ai nervi e malinconia che accom- pagnar sogliono per
lo più quelli che tra- scorrono molte ore del giorno a logorarsi la
mente coi severi studii. Perchè i visceri si rendono sofferenti per le
occupazioni men- tali, e defatigata la mente, la tetraggine invade
il cervello, principalmente quando gli anni incalzano. In una
lettera che il poeta scriveva ad un compagno d'impiego nella questura,
Cel- so Albinovano, suo amico, ma che giunto al- l' apogeo della
grandezza, perchè ben ve- duto e careggiato dal giovane Nerone,
erede dell' imperio, mostravasi altezzoso e superbo (sebbene non
manchi la nota sarcastica, ben- ché infermo, per questo favorito di
ven- tura) così diceva : Dritto né ameno è di mia vita il
corso^ Perché men della mente sano Che delt intero
corpo^ udir vo' nulla, Nulla imparar che il morbo sgravi, I fidi
Medici fanno orror, gli amici restia Perchè al sottrarmi al rio letargo
intesi. 7o) Ed a Mecenate . scriveva : Ma di cor debil
troppo e troppo infermo Me conoscendo^ chiederai tu quale Il mio
far possa al tuo periglio schermo ?... 70 Col corpo affranto dal
peso degli anni, dalla vita trascorsa nelle fatiche mentali e nelle
avventure e nei godimenti venerei, sopraggiunse ad O. la nuova della
mor- tale malattia del suo Mecenate e la fine dì questo. Il colpo
fu troppo violento e dovea riuscirgli fatale. La sua fibra debole
non poteva resistere. Pomponio Porfirio, che con lo scoliaste
Elanio Acrone, dilucida le la- coniche note di Svetonio, circa la vita
di Orazio, dice che lo stato suo di salute era deteriorato assai con
gli anni, che non gli conveniva più restar l'inverno nelle monta-
gne della Sabina, nella sua cara villa : che svernar soleva a Tivoli (ed
egli stesso lo scrisse) come il luogo più aprico: ce Tiburi enimi
fere otium suwn conferebat, ibique carmina conseribebat.ì) E Tivoli
desiderava Orazio infermo e pensava morirvi là. Così egli scriveva
al fido amico Settimio: Oh tregua al vecchio fianco
Tivoli dia Quivi piagnente di pietosa stilla
Spargerai la calda delt amico vate favilla. 7^) Certuni
erroneamente attribuirono la mor- te di O. a suicidio, tanto apparve
strana la coincidenza della sua con la morte di Me- cenate. Ma deve
venire del tutto bandita tale idea per le seguenti ragioni. O. dei
suicidi soleva fare aspro maneggio, soleva dileggiarli; e la storia di
Empedocle di GIRGENTI che ricorda ntìV^rfe poetica, chiaramente lo
dimostra. Empedocle per desio di molta vanagloria e prodezza, invano
precipitossi neir Etna. Ma la sua pantofola ne tradì la inutile
bravura. Esaminando imparzialmente e con co- scienza la vita di O.,
si nota che ogni sua cura si volgeva a conservarla, sia che
militasse a Filippi, sia che vivesse in Sabina. Era poi tarchiato ed obeso, e
quindi facilmente proclive all' apoplessia. Che era già fiacco e
malandato in salute nel suo undecimo lustro. Che il dolore della
per- dita del suo più caro amico e protettore Mecenate (egli così
amante degli amici e riconoscente) doveva avergli prodotto tale un
rincrudimento dei suoi malanni da dar- gli la morte con colpo apopletico.
E son numerosi gli esempii di fratelli od amici ancor forti e
vegeti, che, toccati dalla re- pentina disparizione d* un fratello o d'
un amico, li han seguiti immantinenti nella tomba sopraffatti da
colpo di malore vio- lento. Non altrimenti deve pensarsi di O..
E che fu tale il suo genere di morte lo prova poi chiaramente il
non avere avuto il tempo di tesser un elogio funebre al suo sommo
protettore Mecenate, che aveva assistito negli ultimi momenti, mentre lo
fé' con Virgilio e con altri. Eppoi non ebbe forza di scrivere il
proprio testamento. Svetònio dice: (c Quum urgente si va-
letudinis non sufficeret ad obbligandas testa- menti tabulas . Dovette
avvalersi di quello che, dice Giustiniano, prescrivevasi dal giure civile
di quel tempo, cioè della prova testimoniale di sette cittadini,
che dinanzi notaro provarono esser volontà del moribondo O. che
l'imperatore Augusto fosse il suo erede, Orazio per decidersi a lasciare
erede \ imperatore, che consentì ad accettare \ eredità, doveva
esser fornito di non pochi beni di fortuna. Che di fondi, che di valsente
doveva aversi senza manco veruno un buon dato, stante la sua
parsimonia. E lo certifica Svetònio quando accennando alle largizioni di
Mecenate e di Augusto dice: (( Unaque et al- tera liberalitate
locupletavit. » Ma delle sue sostanze rimaste non appare vestigio
od accenno, meno della villa e del podere in Sabina, che han
formato, come si disse, la paziente investigazione dei dotti
archeologi e degli ammiratori del grande filosofo. L' aver lui posseduto
poderi in Taranto, a Tivoli od a Roma, non è che una supposizione dei
comentatori delle sue opere, che di. ciascuna sua aspirazione han formato
un dominio. Mentre chiaramente Orazio, nella sua diciottesima ode
del secondo libro dice: (c Satis beatus unicis sabinis. » La quale
esplicita dichiara- zione formò la base delle rimunerate inve-
stigazioni archeologiche del Capmartin de Chaupy, siccome si accennò
parlandosi della villa oraziana. Che anzi in Taranto è comune r
idea falsa che Orazio si avesse colà un po- dere nel luogo detto ce Le
Leggiadrezze ». Ma per quante ricerche siansi fatte dai dotti,
principalmente dal Tommaso Nicolò d' Aquino, autore dell'opera Delle delizie
Tarantine, da Giambattista Gagliardo nella sua Descrizione topografica di
Taranto, e da Ate- nisio Carducci, illustre letterato tarantino,
nella sua versione dell' opera del Aquino, con note, non si è potuto
affermare che O. avesse dominio in Taranto, ma soltanto ohe vi
avesse fatto delle brevi escursioni per isvago. In Venosa poi, sua
patria, non evvi vestigio di casa o podere a lui od ai suoi
appartenuta, dovendosi credere erronea V as- sertiva di Cenna, venosino,
nella sua cronaca manoscritta, più volte mentovata, della città di
Venosa del 1500, nella quale si dice aver posseduto Orazio una casa
presso le antiche mura della città, a levante, forse alludendo a quella
che si accennò nei capi- toli precedenti, appartenente ad uno della
tribù Grazia romana, e di cui ritrovossi iscri- zione. E da tale ipotesi
lascia derivare che dalle finestre di quella sua abitazione in Ve-
nosa, Orazio spaziasse con lo sguardo sopra vastissime campagne, e da
quella veduta venisse ispirato a dettare i versi : « Lauda- turque
domus longas quae prospicit agros. » Perché non riferire invece con
maggiore pro- babilità air agro Sabino ? Ciò si dimostra
chiaramente erroneo, quando si riflette a tutto ciò che si è riferito nei
capitoli precedenti circa la dimora di O. in Venosa, ove si
trattenne solo adolescente : circa la con- fisca di tutti i beni della
sua famiglia, perchè seguace di Bruto, e particolarmente per non
averne fatto il menomo indizio in tutte le sue opere. Venosa ai tempi di
Orazio era cinta da fitte boscaglie, e la lunga esten- sione dei
campi asserita dal Cenna è un sogno. Che O. abbia fatto in
Venosa qual- che rara apparizione, forse per diletto ed in
compagnia d'amici, lo lascia desumere soltanto r ode al fonte di
Bandusia, che rumoreggiava con polla cristallina ed ar- gentea nei
fitti boschi di Banzi, dove es- sendosi recato O. a cacceggiare od
a merendare, dovette improvvisare quei versi. Ciò a seconda dei
pareri dei più dotti illu- stratori delle sue opere. O., come
si disse, nacque a dì 8 dicembre del 689 dall' edificazione di
Roma, essendo consoli Lucio Aurelio Cotta e Lucio Manlio Torquato. Morì a
Roma, consoli C. Mario Censorino, C/ Asinio Gallo, cioè nell' età
di anni cinquantasette. Acrone scambia però, per errore dei copiatori
delle sue opere, il numero LXXVII per LVII, assegnando ad O. anni
settantasette. Ma Pietro Cri- nito asserisce: « Alti supra
septuagesimum annum vixisse scribunt, quod ego tamen fai- sum
existimo. » Ed Eusebio, nelle sue cronache, siccome Svetonio,
ritengono con precisione gli anni della vita di Orazio essere stati
cinquanta-sette, il primo dicendolo morto nell’ anno di Augusto, il secondo
asserendolo morto nelle date surriferite, e riportando i consolati
rispettivi sotto cui nacque e morì ; dai quali limiti precisi estremi non
è lecito discostarsi. Il suo cadavere venne trasportato,
tra il compianto universale, in Roma, (non è indicato da alcuno
antico scritto il luogo preciso ove morì), e rinchiuso nella tomba
della famiglia Cilnia. Dacier sostiene, nelle sue annotazioni alla vita
di O. di Svetonio, che Mecenate possedeva un superbo palazzo suir
Esquilino, e presso ad esso una tomba monumentale. In questa ripo-
sarono Mecenate ed O.. Mecenate ed O. vissero amicissimi, intrinseci,
vera- mente uniti di pensieri e di amore ; benché l'uno nato di
reale famiglia e di sangue purissimo, e X altro figliuol di liberto.Una
possanza inesplicabile ed onnipotente li fece incontrare, divenire tra
loro stretta- mente simpatici, e quindi insieme dormire nello
stesso Ietto V ultimo sonno I Di Mecenate i tardi posteri
ricorderanno le gesta e la gloria pel suono reboante della tromba
della fama procacciatasi col proteg- gere generosamente quella schiera
immor- tale di uomini che vissero nel secolo di Au- gusto. Il gran
venosino vivrà eterno pel suo nionumento. È tutta sua la gloria che fa
semprepiù, col trascorrer dei secoli, stupire l'umanità, e che non
cesserà sinché traccia di vita sarawi sul globo. Del sommo
poeta non si conservano sta- tue antiche o figure nei monumenti da
po- terne precisare la struttura corporale ed i lineamenti. Ma
dalle sue opere ne appare tanto chiaro il ritratto, che basta
coordinare le parole che si riferiscono al suo fisico, per
vederselo innanzi vivo e parlante. Egli de- scrive con certa vanagloria
la lussuria dei suoi capelli d' un bel color d' ebano, che
ombreggiavangli la fronte virile e balda, ma che gli anni e le cure
aveano resi argentei. Questi hanno improntata una certa tinta di
pazzia benigna, che in luogo di ammira- zione suol destare compatimento,
antipatia e ribrezzo. Le cellule del cervello, Y involucro osseo che
le ricopre, il corpo umano, non han bisogno di quella veste esterna
non naturale, oppur naturale, sian cenci o por- pore, adipe,
globuli rossi, magrezza estrema, capelli o calvizie per foggiare un genio
od un cretino I Si può essere profondo filo- sofo, saggio come gli
antichi della Grecia, e conservar forme aristocratiche, linde, ma-
nierose, affabili, con un corpo formato al pari di Antinoo. O. ne sia
esempio lu- culento, e Foscolo e Byron e Leopardi negli ultimi
scorsi anni così difformi tra loro. Assicura Giuseppe Ilario
Eckhel, celebre antiquario austriaco, nella sua opera « Doc- trina
Nummorum » e lo conferma Masson nella sua vita d’O., nel capitolo
inti- tolato De Horatii effigie, essersi rinvenuti dei medaglioni di
metallo, terminati nella loro circonferenza con un cerchio da tre a
quattro millimetri di larghezza, e che possono ben rassomigliarsi alle
nostre me- daglie commemorative o di onore, nei quali si vede
inciso in un lato un busto, ed intorno ad esso la scritta chiarissima
(( Horattus », mentre nell' altro lato la scritta n' è illegibile e
consumata. Il busto anzi- detto è modellato esattamente a tenore di
quanto più sopra si è esposto. Uno di essi si conserva nel museo del
Louvre. E certo appaiono riproduzione di busti o medaglie d' onore
di Orazio vivente, eseguiti nel quarto secolo dell' era volgare. Tale
almeno è r opinione del dottissimo barone Walke- naèr. Nessun busto
marmoreo, come si disse, « o di bronzo si è rinvenuto
che ricordi il gran venosino. Deve però convenirsi che un uomo che ha da
poco varcati i cinquant' anni, raro è che si renda deforme e
barbogio. Anzi la razza umana generalmente suole giungere a questa
età ancora atta a buona vegetazione, e ad abbellirsi e conservarsi.
Se r aureola che circonfuse O. non è il (( nomen imitile » e neppure X
opinione che i suoi contemporanei ebbero di lui ( opinione poco
proporzionata ai suoi meriti, secondo che dottamente asserisce
Leopardi, ^s) e negli anni seguenti non ebbe tra i dotti il primo posto,
perchè Dante stesso chiamò Virgilio Aquila ed O. Satiro), maggiormente
risulta la sua vera gloria dal sempre fecondo entusiasmo che per r
eternità gli uomini risentiranno per lui Trascorsi
appena nove anni dalla morte di Quinto Orazio Fiacco, nasceva Gesù Cri-
sto, il rigeneratore dell'umanità. Oh età portentosa! L'ETERNO MONUMENTO
ORAZIANO Ouao - za. I/I. - Ode. Che dire di O. filosofo,
creatore nella letteratura latina di due ge-neri di poesie del tutto
nuove, e che seppe far giungere ed elevare persino I la lettera
all' eccelsitudine dì un ge- nere poetico? Quintiliano dice :' «
Dei lirici O. è quasi il solo che merita di esser letto, poiché
s'innalza talvolta con slancio ammirevole: è pieno di dolcezze e di
grazie, e nelle varietà -«( i84 )»-* delle
figure, delle espressioni, d' una felicis- sima audacia. » E Petronio ^7)
continua as- serendo che (( fra i romani Virgilio ed O. sono
accuratemente felici, come Omero ed i lirici greci. Perocché gli altri o
non vi- dero la strada che conduce al lirico stile, o non ebbero il
coraggio di batterla. » E que- st* opinione distrugge la miserabile
assertiva di Frontone, ^s) al dir di Leopardi, ^9) che chianja
Orazio Fiacco, siccome accennossi, appena poeta non isprezzabile
[memorabilts poeta). Tanto potevano in questo possessore degli orti
mecenaziani V invidia ed il livore, che tra certi letterati sono solite
malattie I Ma Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Tibullo, Ovidio,
Petronio, Sidonio Apollinare, S. Girolamo, Venanzio Fortunato,
Persio, Giovenale, Lattanzio, Alessandro Severo, Dante, Voltaire e
cento altri, a coro unanime, gridarono le lodi del gran venosino.
Moltissimi eruditi si sono occupati di studiare precisamente le opere di
O.. I più celebri fra essi nel mondo, siccome il Bent- lejo, il
Masson, il Dacier, il Sanadon, Passow, Kirckner, Franke,
Weber, Grotefend, THart, il Milmon, lo Stalbaum, il Weichert,
il Jahn, il Mitscherlich, il Dab- ner, il Jacòbs, il Leissing, il
Margestern, il Walckenaer, il Siringar, il Manso, V O- relli, si
avvalsero degl' interpetri antichi delle opere oraziane, Elenio Acrone,
Pomponio Porfirio, e dell'altro che prendendo nome dal suo editore,
si disse Scoliaste Cruchiano, non meno che di Emilio e Terenzio
Scauro. Ciascuno di essi ha cercato desumere con pazienti
ricerche il tempo nel quale O. scrisse le singole parti del suo eterno
monu- mento. Cercherò notare le più interessanti
investigazioni. O. dapprima scrisse le satire e ne compose il
primo libro negli anni di Roma, non avendo ancora raggiunto il
trentesimo anno. In essa, siccome si accennò, irrompe con
impeto sarcastico contro un tal Rupilio che con lui aveva militato
nell'armata di BRUTO, Segue poi la seconda scritta nell' autunno
del 714, nella quale parla in generale dei vizii di cui
la società romana era infetta. La quarta satira fu scritta nell'estate del
715, ed in essa cerca scusarsi col pubblico dell' essersi mostrato
un po' virulento nello sferzare la cattiva gente, e secondo il parere di
Wei- chert fu questa la satira che i suoi amici VIRGILIO e VARIO
presentarono a MECENATE, avendo inculcato al poeta di scriverla per
cattivarsi l'animo di quel potente. Scrisse la terza nel principio del
716, ed in essa fa vedere che mentre gli uomini sogliono cri-
ticare i vizii altrui, son ciechi a vedere i proprii. Vangelo dice : « Tu
suoli ve- dere il fuscello nell'occhio del tuo prossimo, e non vedi
la trave che è lì lì per acce- carti ? )) Dopo poco tempo da che tale
satira venne pubblicata, Orazio fu ammesso tra i commensali di
Mecenate; infatti la satira quinta che descrive con gran lepidezza e
pre- cisione un suo viaggio da Roma a Brindisi, vi fa risaltare la
figura di Mecenate come attore principale e come uomo politico,
spe- dito dal governo per delicati maneggi a quel luogo di sbarco
ad abboccarsi con altri personaggi influenti, e che compagni insepa-
rabili di lui furono O., Virgilio, Vario, COCCEIO e TUCCA. Compose poi la
prima satira in omaggio al suo gran protettore, e pubblicando il
libro la pose come principale, perchè a lui dedicata e per
testimoniargli la sua stima ed il suo affetto. Scrisse la nona dopo circa
un anno per cor- reggere quei miserabili che invidiandogli la
protezione di Mecenate, mostravano, .mor- dendolo col dente velenoso
della livida in- vidia, di non esserne a parte. La bellissima
satira sesta, nella quale pone la virtù come il vero blasone che onora
gli umani, e l'ottava con la quale schernisce i superstiziosi e le
donnacce, furono scritte, secondo l'opinione di Spohn. Il
libro degli Epodi era già stato composto da O. prima del cennato primo libro
delle satire, ma fu pubblicato piu tardi. Vuoisi che abbia preso il
nome di Epodi dai versi Epodois di Archiloco, che fu l'in- ventore
dei giambi, al dir di Diomede gram- matico. Sebbene altri sommi
scrittori, com- preso il Gargallo nelle note, ammettano che epodi
si dicesse il libro compilato da odi pòstume di O., fondandosi sul termine
gre- co epodem, che significa sopraccantare. E la terza del
secondo libro delle satire sostengono essere stata scritta nella villa
Sabina, dimostrando che già poco più che trentenne Orazio avea avuta
donata quella proprietà. Riguardo alle odi, furono scritte,
se- condo il parere di Butman, del Dacier e di altri dotti, nel 726
al 732 sino al 734, E da quest'anno ed i seguenti sino al 744, cioè
nella sua età di anni cinquantacinque, solo l'ultima ad Augusto, come
omaggio al più grand' uomo del secolo e suo insi* gne
benefattore. O. dalla sua villa aveva spedito ad Augusto
diversi scritti e molte delle let- tere surriferite, e gliele indirizzò
con un viglietto umoristico consegnato ad un Vinio Frontone Asella,
che è proprio l'epistola decima del primo libro. Augusto dopo aver
letto tali componimenti, gli rispose così: (( Sappi che io sono teco
sdegnato, perche in molti di cotali scritti (come sono le satire e le
epistole) tu non parli principal- mente con me. E forse che temi non ti
sia per tornare ad infamia nella posterità, se tu mostri d'essere
stato mio amico ?» A questo onorevole ed amorevole rimprovero O.
rispose colla prima epistola del secondo libro, che è invero un
capolavoro nel genere sotto ogni rispetto. Il primo libro
delle epistole venne com- posto prima del quarto libro delle odi. Il
carme secolare scritto per condiscendere al volere di Augusto fu composto
nel 737, cioè nel quarantottesimo anno d'O.. L'Arte poetica, che
deve ritenersi il suo capolavoro, e che può dirsi una lettera di-
dasailica indirizzata ai fratelli Pisoni, può benissimo classificarsi
come terza nel secon- do libro delle epistole, e venne composta nel
741-742, mentre la prima epistola del secondo libro indirizzata ad
Augusto vuoisi essere V ultimo lavoro del poeta, e fu com- posta
nel 744, avendo il poeta V età di anni cinquantacinque. Nessun
autore al mondo ha ottenuto tanta pubblicità e diffusione e celebrità
dalla sua opera, quanto O. Fiacco (non Flacco, dato che ‘fl’ e
impossibile nella fonologia italiana). È qualche cosa che sa quasi dell'
inverosimile. Basta però per convincersene notare il numero
straordinario delle edizioni delle sue opere, dacché ci furono
tramandate, siansi es- se rinvenute in tavolette, papiri o palinsesti.
Nessun erudito scrittore ha saputo sin oggi precisare chi sia stato
il primo scopritore dei canti immortali di O., né dove rinven- gasi
la prima edizione di essi nei tempi re- motissimi composta. Vuoisi da
taluni che in un museo inglese se ne conservi vestigio. Certissima
cosa é che da molti secoli, sia in Italia che in Germania, in Francia ed
in Inghilterra principalmente, le edizioni delle opere del gran
poeta possono contarsi a cen- tinaia. Ed in ciascun anno sempre ntìove
ne sorgono, unite a nuovi commenti, chiose e note illustratrici. È
proprio l'arboscello pro- fetizzato da O.: Laude fra tardi
posteri Farà ch'io guai per fresca Auray arbuscel più vegeto
Ogn* or m* innuovi e cresca, 80 "i Quante opere insigni
di altri uomini nati in Caldea, in Babilonia, in Cina, in Grecia ed
altrove sono state composte nei secoli scorsi I E sono ignorate o perdute
e scomparse per sempre. E dei monumenti sanscriti di Persia, delle opere
eccelse degli arabi che scrissero nei tempi del califfi e dei sultani,
e dei codici vetusti dei dottissimi scrittori armeni, che invano i
Mechitaristi tentarono illustrare, che cosa rimane ? O sono cadute
neir oblio, o hawene un labilissimo ricordo, o giacciono ignorate in
fondo a qualche pol- verosa biblioteca. Soltanto la Bibbia ha pro-
dotto un fenomeno superiore, se pure non uguale, a quello del monumento
oraziano. Alle opere di O. avvenne un simile me- raviglioso
fatto. Sembrarono piccoli granelli di seme, che fruttificando, e
dapprima poco curati (che dai suoi contemporanei, come si disse e lo
confermò Leopardi, non furono tenute in quella stima che meritavano)
divennero poi giganti. Le radici dell'albero, ormai reso smisurato,
si distesero nelle viscere della terra, per tutte le latitudini,
con gagliardia non mai vista. E per disperdersene le tracce, per
abbat- tere tale fenomenale vegetazione, bisogne- rebbe che la
terra universa andasse in fran- tumi. Dalla nostra Italia,
avventurosa patria del poeta, sino ai più ignorati angoli dei poli,
appaiono vestigia del portentoso volume, in tutte le lingue tradotto e
glossato. Ciascuna edizione, ciascun libro che tratta del monumento
oraziano è una fronda fre- sca e vegeta che ci ricorda uno dei più
grandi italiani. Non era scorso un secolo dopo la morte di O,
siccome attesta Giovenale, che già le opere di lui, dai suoi
contempora- nei poco apprezzate, servirono in presso che tutte le
scuole di Roma come libri di testo, unite a quelle di Virgilio; sicché
deve arguirsi che non poche edizioni dovettero farsene in quei
tempi remoti. Ma il primo editore conosciuto si è Vezio Agorio Ba-
silio Mavorzio, che studia, con Felice grammatico, sui manoscritti e ne
fece redigere non pochi esemplari riveduti e corretti.
Riuscirà tuttavia interessante Tenumerarne le seguenti edizioni
principali antiche e moderne, che sono sparse pel mondo, sopra tali
esemplari condotte: Edizione primaria, senza luogo ed anno,
con 'caratteri romani, di fogli 147, di linee 26, in folio piccolo.
Altra che non porta data, né firma del ti- pografo che s' ignora, stampate
in lettere rotonde, di forma poco graziosa. Antichissima. Se ne conoscono
solo due o tre esemplari in Inghilterra. Edizione pure senza
luogo, senza data e senza tipografo conosciuto, pure in caratteri
rotondi, ma molto belli. Edizione di Napoli. In quarto per Arnauld de
Bruxelles, pagine Edizione di Milano. In quarto. Ant. Zarolus. Fatta
sopra quella dì Napoli. Milano. Filippo di Lavagna. Venezia.
Filippo Conda- min. Venezia. Senza nome di tipografo. Milano. In
folio. Per Antonio Miscomini, col comentario di Cristofaro
Lantini. Milano. In folio, con co- menti di Antonio Mancinello e
degli antichi scoliasti. Edizioni ripetute molte volte. Strasburgo. In
quarto. Gruninger. Opere di Orazio in latino, con testo stabilito sopra
manoscritti preziosi antichi. Con molte incisioni. La prima edizione
Aldina. Ver nezia. In 8.° (primo formato piccolo) Aldo Manuzio.
Rarissima e preziosa. Firenze. La prima dei Giunti in 8.° Filippo
Giunti. Rarissima. La prima Ascenziana, Venezia. Aldo Manuzio.
Riproduzioni. Paganini. Venetiis. In quarto grande, Petrum de
Nicolinis de Sabio. Con note erudite di Erasmo de Roterdamo, Angelo
Poliziano ed altri. Rara. Venezia. Con postille di Gior- gio
Fabricio di Basilea, Mureto. Lione. Due volumi in quarto di
Dionisio Lambino, che corresse ed interpretò magistralmente Orazio,
avvalendosi di dieci antichi codici. Edizione ripetuta con molte
correzioni ed aggiunte in Parigi, in Francoforte, ed in Parigi. Anversa.
Teodoro Pulman con critiche rinomate. Parigi. In 8^ Henry
Stefano; anche con critiche. Anversa. In quarto. Alfonso Cru-
chio. Leida. Con lo Scoliaste. Da un manoscritto Blandiniano
antichissimo, ed altri della biblioteca dei benedettini di Gand
andata in fuoco nel 1568, manoscritto accreditatissimo. Anversa. Daniele
Heinsius. Due volumi in ottavo.
Londra. Giovanni Bond. Stu- penda, bellissima Anversa. Sevino
Torrenzio. In quarto con dottissimo comento. Anversa. Edizione
elzeviriana con note di Daniele Heinsius. Con disser- tazione dotta
di tale letterato sopra le sa- tire. Anversa. Nuova edizione
del medesimo, riveduta con note. Leida. Variorum, Editore
Cor- nelius Schrevelius. Lugdunum Batavorum. Ex of- ficina
Hackiana. Con comentari sceltissimi di varii per Giovanni Bond. Rara.
Cornelius Schrevelius accurante. Riproduzione. Anversa. Variorum.
Sulla pre- cedente di Schrevelius, corretta. Parigi. di
Dacier. Tolosa. In 8.°. Pietro Rodellio, molte volte
ricopiata. Parigi. Ad usum Delphini. Stupenda. Parigi.
Jouvensy. Cambridge. Di Bentley. Cambridge. Di Riccardo Bentley. Con
gli studi i di tale scrittore sopra Orazio. In quarto. Monumento
immortale dell'arte critica, lacerato dai contemporanei per livida
invidia. Ripetuta l'edizione in Amsterdam più volte, ed in Lipsia. Parigi.
Due volumi in quarto. Stefano Sanadon, con traduzione delle opere
di Orazio molto stimata. Londra. Con note del Dacier. Ad usum
Delphini. Rarissima e preziosa. La suddetta in Amsterdam, riveduta
e corretta. Otto volumi in ottavo. Lipsia. In ottavo di Mattia Ge-
snero ripetuta con aggiunzioni di Zeunio e Both. Parigi. Edizione
classica in ot- tavo di Giuseppe Valart. Napoli. Michele Stasi, con
note di Ludovico Desprez. Due volumi in ottavo. Molto
stimata. Lipsia. Due volumi in ot- tavo, contenente solo le odi,
con note ed illustrazione di Ch. D. Jhan. Edizione Bipontina.
Ripetuta in Milano. La stupenda edizione di Bodoni in Parma.
Londra. Due volumi in ottavo di Ghilberto Wakefield, con critica
eccelsa. La più stupenda e magnifica si- nora edita di Didot.
Lipsia. Mitscherlinch. Mancano in essi le satire e le epistole, ma sono
eruditissimi pomenti e note sulle altre opere e partico- larmente
sul carme secolare. Lipsia. Di Guglielmo Baxter con note di
Gessner e Zeunio. Composta sulla prima edizione dello stesso editore in
Londra. Lipsia. Ti^ volumi in ot- tavo del Doering. Riputatissima
edizione per uso delle scuole. Roma. Due volumi in ottavo
di Carlo Fea. Con critica e note riputatissime. Edizione
bellissima. Parigi. Due volumi in ottavo di Charles
Vanderbourg. Contiene solo le odi e gli epodi. Ma è superba.
Breslavia, In ottavo di L. Fed. Heindorf, con conienti eruditi e note.
Con- tiene solo le satire. Maneim-Baden. Due volumi in ottavo
di F. Both. Heidelberga. Ristampa dell'edizione di Carlo Fea di Roma con
molte ag- giunte. Heidelberga. Due volumi in ot- tavo di
Grevio. Contiene le sole odi. Jahn. Lipsia. Con scel- tissime
note ed aggiunte. Schmid. Contiene solo le epistole.
Lugdunum Batavorum. Un vo- lume in ottavo. Edizione di
Perlkamp. Zurigo, Gaspare Creili. Con biografia di Orazio e note.
Libro erudi- tissimo e molte volte riprodotto, e partico- larmente
l'ultima edizione quarta, accura- tamente emendata e corretta, sicché con
ragione può dirsi la migliore. Venezia. Premiato con meda- glia
d'oro. Di Giuseppe Antonelli, e con traduzione in versi e note del
celebre mar-chese Tommaso Gargallo. Un volume in ottavo,
preziosissimo. Della vita e delle opere di Orazio scris- sero
pure con profondità di vedute e som- ma dottrina: Crist.
Fred. Jacobs, Lecttones Venusinae, 5 volumi in ottavo. Berlino Gotthold
Leissing, De O., Berlino. Masson, Vita di O..Leida Eichstedt, Critica ed
osservazioni stille opere di Orazio. Jena, Eusebio Baconiere de Salverte.
Osserva- zioni sopra Orazio. Un volume in 8^. Pa- rigi, Cristofaro
Martino Wieland, Traduzione delle opere di O. con note. Berlino.
Morgesten, Le satire e le epistole ora- ziane. Un volume in quarto,
Lipsia. E fra tutti primeggiano gli scrittori fran- cesi che convien
notare: C. Boudens de Vanderbourg, Traduzione delle odi di
Orazio in versi francesi con biografia ricavata da vecchissimo
mano- scritto. Andrea Dacier, Horace. Opera
latina-fran- cese. Dieci volumi in dodicesimo. Parigi, Più sopra
mentovata, essa può definirsi una delle più dotte e belle edizioni
delle opere del poeta. Sanadon, Les Batteux, Binet, Campenon,
Goubaux, Barbet, Patin, Janin, Cass-Robi- ne, Daru, Ragon, Duchemin,
Goupil, Cour- nol, Boulard, De Wailly, Halevy, Michaux, Lacroix,
Dabner, Boileau, e l'insigne poligrafo barone Walckenaèr, che nel 1840
compilò una Storia della vita e delle poesie di Orazio, Parigi, due
volumi in ottavo, opera dottissima ed insuperabile. E
redizione grandiosa del Didot del 1855 in Parigi, con tavole topografiche
e note e biografia, che può asserirsi la più perfetta edizione del
secolo. Riproduzione con ag- giunte di quella suddetta del 1799.
E TRA GL’ITALIANI: Metastasio,
Leopardi, Algarotti, Corsetti, Bertola, Galiani, Alfieri, Cesari,
Tommaseo, Cesarotti, Pagnini, Salvini, Pallavicini, Colonnetti,
Bindi, Gligerio Campanella, Rocco, ed altri molti scrittori di
comenti e studii e saggi critici. Ma in Italia tra le molte
traduzioni delle opere oraziane, la più perfetta e completa è
quella del marchese Tommaso Gargallo, e le edizioni ne sono innumerevoli.
In essa, facendo risaltare la bellezza della frase oraziana, tale
ammirevole letterato ha cercato inciderne il concetto, abbellendola con
versi armoniosissimi, che sembrano ispirati dalla musa stessa del
gran poeta venosi no. Mi sono avvalso in questa mia opera ap-
punto della traduzione del Gargallo, principalmente in quei passi della storia,
nei quali era necessario dar luce alla dicitura con le stesse
parole di Orazio, le quali forma- no, al dir del gran Fénélon, uno dei
pregi massimi del poeta : « Jamais homme n'a donne un tour plus
heureux à la parole Pour lui /aire signifier un beau sens, avec
brteveté et deli e atesse. » ^') E perciò ser- vendomi dei versi sublimi
frutto del forte ingegno del Gargallo, e dettati in purissima lingua
italiana, per illustrare uno dei più grandi italiani, ho creduto far còsa
grata ai miei concittadini, ai quali, per questo mio lavoro, chiedo
venia e benevola
approvazione. M^ihr^^yrj&>s>a«ji£iì^»ii^iufe«wuai'; Da1
Municipio di Venosa venne emesso il seguente proclama: L'idea di onorare
la memoria deità orientale anteriore r^( 212
y»^ all'epoca del frammento ove è incisa l'iscrizione, e che
nelle notizie sull' etimologia del nome della città di Venosa si disse da
Benoth -' Benotsa'- Venosa^ siccome riferiscono Francesco M. Farao, nella
lettera apologe- tica riguardante la Menippea di Pasquale Magnoni (Napoli),
ed il sommo Lupoli, dal quale dovet- tero essere dal primo attinte molte
preziose idee, perchè scrisse due anni innanzi. Ed il Markolis del
frammento trova riscontro nell'iscrizione sopra pietra esistente in
una antica casa della nobile famiglia Rapolla in Venosa, riportata dal
Pratillo, dal Corsignani, dal Lupoli, dal Cimaglia, da Mommsen e da altri
storici e raccoglitori di sigle, che viene così tradotta :
MbKCUKI tMVIC. 8ACR. pro salute Pbassbmtis mostri
Agaris Acnc. Come pure trova riscontro in una pietra di corniola
incisa per anello, scoperta in Venosa ed appartenente alla famiglia
Lupoli, siccome attesta il Farao nella cen- nata sua opera, che raffigura
Mercurio coi calzari alati, con borsa a destra e caduceo a sinistra ed al
disotto la scritta di Michele Arcangelo Lupoli? Che cosa ag-
giungervi da stenebrare il passato? Chi desidera perciò aver piena
conoscenza di Venosa antica studii e pon- deri r e Iter venusinum » di
cosi eccelso scrittore. Il tradurre in buona lingua italiana tale
stupenda opera scritta in latino sarebbe una fatica vantaggiosa e
meritoria. (4) Svetonio Tranquillo — Vita Morati,
Cicerone. Op. Lib. IV. Atl Herennium. Fabretto.
Inscrip. Gargallo Tonìmaso Traduzione delle opere di Q. O. Fiacco (non
FLACCO, dato che ‘fl’ e impossibile in fonologia italiana) Lib. i.®, ode
28.*" Idem Loc. cit. lib. i.* satira Guerrazzi G. D. Orazioni. A
Cosimo Delfante. r^- (io) Gargallo. Trad. di Orazio,
lib. 3* od^ i.* Della nobiltà venosina. — Non è conveniente
avvalersi deirautorità del Summonte circa il fastigio della nobiltà
venosina, perchè erroneamente si attribuisce al Summonte quel brevissimo
e misero accenno sulla to- pografìa e sulle famiglie nobili di Venosa e
privilegi annessi, il quale è opera di Tobia Almagiore, che per
mezzo del libraio Antonio Bulifon nel 1675 in Napoli, fece inserire dopo
Topera del Summonte « Istoria della città e Regno di Napoli » un
trattatello intitolato « Raccolta di varie notitie historiche >,
mentre con precisa diffu- sione si rilevano ragguagli in altre opere di
altri autori. Ed invero, si rileva dal manoscritto antico più volte
ci- tato, e che si conserva nella Biblioteca Nazionale in Napoli,
redatto nel terminare del 1500, e che vuoisi opera dell' U. I. D. Jacopo
Cenna, venosino, essere stata tradizione dei vecchi, che le mura della
città di Venosa, mura raffìguranti quasi le costruzioni ciclopiche e che
im- portarono spese colossali, fossero state innalzate da Lu-
cullo, il celebre milionario del tempo dei Romani, e che fii lui che fece
trasportare in Venosa buon numero di statue e preziosi marmi serviti di
decorazione ai monumenti di quell'illustre città, sicché videsi
creata per la conservazione di tali ricchezze artistiche, una
carica onorifica che vien riportata dal Corsignani, dal Lupoli,
siccome dal Cimaglia, dal Pratillo e da altri molti (non però dal Cenna
suddetto^ nelle seguenti iscrizioni esi- stenti in Venosa. Bemusbi.
MOMUMRNTUlf. POBLICX. rACTUM D. D. M. MUTTIBMUS. L. F. C.
Vibius . l. F. M. Bfsssius . F.
OB F. M. Camillius . HONOREM.
l. F. >•- M.
Mumnius « L*. F. C. Vmn» . L. F. n
. Vis . J. D. Statuas . KZ D. D.
Rbficivmdas e. Fece pure LucuUo stabilire in detta
città, attratte dalla magnificenza, salubrità e bellezza di essa, non
po- che nobili famiglie romane, dalle quali poi derivarono quei componenti
la nobiltà fiorente, che sino all'inva- sione dei barbari formavano il
lustro di quella bellissima terra italiana. Né col seguirsi degli anni
quella nobiltà scemò in prestigio, fasto e decoro, perchè sin nel 1
500 e proseguendo poi fmchè fu abolito ogni privilegio, nei
prìncipii del secolo presente, si vantò in Venosa un ti- tolo di. nobiltà
da potersene fregiare con orgoglio. I sovrani che si successero nel
regno di Napoli arric- chirono la nobiltà venosina di prerogative
straordinarie, tra le quali primeggia quella concessa
dall'imperatore Ludovico I con la quale si definiva non poter Ve-
nosa venir data in feudo ad alcun signore o barone del regno ( il che poi
per la instabilità di fede o per fini politici dei sovrani che si
successero, non venne man- tenuto, siccome ad altre città è avvenuto), ma
restar dovesse autonoma e libera di sé, governata dai suoi patrizii
illustri, scelti dal popolo. E Ferdinando I di Aragona, che fece
lunga dimora in Venosa, vi mandò l'illustrissimo suo figlio Don Fe-
derigo, a visitarvi quei gentiluomini, ai quali poi diresse la seguente
lettera : e Nobilibus et egregiis viris univer- « sitatis et hominibus
civitatis Venusii, fidelibus nostri e dilecti. Come altre volte vi
abbiamo scritto, noi de- [E già precedentemente Ludovico II, il giovane,
imperatore d'Occidente, era venuto in Venosa a ripristi- narla dalle
soflerte devastazioni; e della sua venuta v*ha memoria in un'antica
lapide esistente nell'attuale semi- nario, un dì castello, prima che
Pirro del Balzo avesse edificato quello che tuttora si ammira, coi ruderi
dello splendido tempio della SS. Trinità, ove riposano le ceneri di
Guiscardo e di altri sommi guerrieri e duci, sovrani e bali dell' ordine
supremo di Malta, il che fece dire a Giulio Cesare Scaligero : Gens
Venu- Sina, nitet tantis honorata sepulcrisì L'iscrizione è la
seguente: StIRPS LuDOVICUS FKANCOItUM UftBIS AMICUS DUM
FUKHIS Sbupbr Rxgmabis Jums POTKNTEB E
nella venuta in Venosa (riporta sempre il Cenna) del cardinal Consalvo, i
nobili venosini si mostrarono magnifici e splendidi quanto dir non si
può, e formarono un'accademia, che può porsi al pari delle più insigni
ed illustri del regno. In detta accademia presedeva lo stesso
cardinal Consalvo, con suo fratello, nel luogo detto Monte Albo, o
MoQte Aureo, o Monte doro^ titolo della nobile casa [Porfido venosina,
(volgarmente oggi Montalto) che rappresentava l'Olimpo. E che la
nobiltà venosina fosse fiorente e riuscita insigne per tutto il regno,
convien trascrivere quanto riferisce il Cenna suddetto, l'unico cronista
del 1500 per quanto disadorno scrittore: e così si enumerano
molti doni che i sovrani solevano assegnare, per testimoniare fatti
di valore e degni di stima e compenso. Trascrivo V elenco delle
famiglie nobili venosine riportate dal surriferito Cenna, e quelle riportate
da Pietro Antonio Corsignani nella sua opera « De Ecclesia et civitate
Venusiae Historica monumenta selecta > edita, come si disse, ^el 1723,
che rimontano sino al precedente secolo deci- mosesto:
Barbiani. — Dai quali nel 1434 derivò il conte di Cuneo, Alberico
Barbiano, gran contestabile del Regno di Napoli, e condottiere di
cavalieri venosini, del quale diflusamente parla il Giannone, nel quarto
volume della sua Storia civile del regno di Napoli ed altri
storici. Deitardis. Gomiti. Plumbaroli. Da cui derivò un
Corrado Plumbarolo, duce preclaro di cavalieri venosini sotto i re
aragonesi. Maranta. Che ebbe tre giureconsulti insigni, lu-
minari del foro, nel 1600, e due illustri vescovi, dei quali quello di
Calvi, di cui discorre a lungo il Gian- none, nel voi. 5^ lib. 32, in
occasione della scandalosa e celebre causa di suor Giulia di Marco da
Sepino, agitata tra i teatini ed i
gesuiti. E si dissero Roberto, Lucio, Fabio e Carlo. Cenna. Da essa
derivò quel Jacopo Cenna definito dal Corsignani « Vir sapientissimus >. Era
U. L D. e si dice autore della cronaca antica di Venosa, che,
manoscritta, si conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli.
Cappellani. Una Laura Cappellano fu madre del celebre poeta
venosino Luigi Tansillo, il cui padre
era nobile nolano. Porfidi. Celebre famiglia fregiata del
titolo di conte di Montedpro, ed
imparentata con la nobile casa Sozzi di
Venosa, che tenea la gerenza del principe di
Venosa, Ludovisio, nipote di Gregorio XV. Fenice. Solimene. Casati, Consultnagni. Giustiniani,
Caputi, Simone. Moncelli. Costanzo. Famiglia proveniente da nobili vene- ziani. Fuvvi un Costanzo/ vescovo di
Minervino, la cui nipote sposa 1' U. I.
D. Rapolla della nubile famiglia Rapolla
di Venosa, dei quali il figlio Nicolao
fu nel 1693 protonotario apostolico. De Bellis. De Luca. Da cui derivò queir
insigne cardinale Giovan Battista de
Luca, onore della città di Venosa,
autore di opere preclare in circa quaranta volumi in folio. Bruni Donato De Bruni fu celebre poeta
venosino. E Giordano Bruno o de Bruni, figlio del nobile Giovanni de Bruni da Nola, intrinseco del
Tansillo (BRUNO (vedasi) scriv un epitaffio sulla sepoltura di Giacopon
Tansillo, figliQ del poeta venosino Tansillo, siccome attesta Minieri Riccio)
non è forse da questa famiglia venosina
derivato Fioriti. Tramaglia. Ttsct. Tommasini Palogani. Pagani. Balbi. Sperindeo. Berlingieri. Violani. Gervasiis. Orazio de Gervasiis fu il più
insigne membro della celebre accademia
venosina, e poeta famoso. Abenanti, Grossi. Protonotabilissimi, Capibianchi, Campanili.
Ferrari, Faccipecora, Leonetto
Troni, Antonello Trono fu esimio nella legale palestra. Aloisiis, Rosa Biscioni. De
Vicariis. Rapolla. Dalla quale
derivarono il Clarissimus D. Venanzio U.
I. D. vicario generale Diego ^ U. I. D. Il Corsignani parlando di lui dice :
« Romae triginta fere Annis Curiam
laudabiliter prosecutus in legali f
acuitale excellentissimus fuit. Ib idem anno j*joi ex hac vita discessit. Donato U. I. D. Ed il
celeberrimo D. Francesco giureconsulto, presidente della Regia Camera della Sommaria nel 1760, senatore del
S. Consiglio del regno di Napoli, uno dei settemviri del regio erario. Le sue principali opere furono: De
Jureconsulto Difesa della
Giurisprudenza. Risposta all'opera di Ludovico
Antonio Muratori De jure Regni. Opera eccelsa in quattro volumi in
ottavo. Vitamore. Moncardi. Lauridia. De Jura
o Thura. Sprioli, Leoparda, Sozzi.
Altruda, Vito Altruda era cavaliere deirordine di Malta.
Delle quali famiglie nobili riportate dal Cernia e dal Corsignani,
due sole compaiono tuttavia esistenti in Venosa: la Rapolla e la
Lauridia. Della seconda di essa si legge nella cattedrale di Venosa la
seguente epigrafe, riportata dal Corsignani. JOANMi Baptistab
Lauridia, Blasio, U. I. D. Patutio Venusino Et Ammae Fbrrabi Nobili
Sbkbmsi Prognato MaTMBMATICIS, PMILOSOPHXaS, LeOAUBUS,
ThKOLOGICIS ASTIBUS OPTIMB IMSTBUCTO U. I. LaUBBA, AC VbNUSIMAB
ECCLBSIAB Canonicatu Insignito, humanab salutis Ann. oca.
abtatis suab xxyii ad Supbbos Evocato, Dobunicus, bt Hibbonimus Fratbi
DIGNI8SIM0 P E la famiglia Rapolla imparentata con la casa
Cappellana e con la Casati, ed in appresso coi Costanzo nel 1641, con la
Sozzi, con T Altruda, iscritta neir ordine di Malta, e con la Lauridia,
conserva nella vetusta e stupenda cattedrale di Venosa V altare gen-
tilizio, che il Cenna bellamente esalta come uno dei più degni di quel
sacro luogo, e che appartenne prima alle nobili famiglie de Bellis e
Tisci, e nel quale si ammira un quadro pregevolissimo di S.^ Maria di
Costantinopoli, e vi si leggono le seguenti iscrizioni : Sull*
altare : HOC. S ACRU.
BEAT AB .VIRGLNI. DIC AtEsCIPIO. DE3ELLA. U.LD. BT. HOR. DE. BELLA
. A. EF. M. D. EQUES. DE . ORDINE.VICTORIÆ
.TISCI. EORVM. MATRIS. RESTAURANDUM. CURAVER . BIDCXVI. àACELL
. HOC . MENSE . EPLÌ . DEVO LUTO . AEHUTAU . EPO . VSNO. FUrr
. CONCESSO. VENANTIO . RAPOLLA . U . I . D. PRIMICERIO . VICARIO .
GENLI . SUISQUE . HBREDIB . LT. SUCCESSO . ET . PATRONI. CONSENSUS.
ACCESSIT . Sotto l'altare: SACELLUM . HOC NOBIUS. FAMILIÆ .
RAPOLLA VENUSIMAB. . IN . VENUSTIOREM . QUAE . CERNITUR . FORMA.
RSDIGrr . U . I . D . DIDACUS . RAPOLLA. Ed in un istrumento
redatto da notar Nicola li Frusci di Venosa si rileva che dinanzi al magnifico
giudice regio della città di Venosa, D. Saverio Compagno, e del vescovo
del tempo ed altri molti, nel monastero di Santa Maria la Scala si
volle inaugurare un'abitazione per uso esclusivo e privilegiato delle monache
educande della famiglia Rapolla, e vi si fé* innalzare inciso su pietra
in fronte dell* architrave della porta che dà nel giardino di tal luogo,
(e vi si vede tuttora) e sotto lo stemma della famiglia Rapolla, la
seguente iscrizione: CUBICULUM . HOC . PROPRIO . SUO .
ABBB. U. I. D . AX.OISIUS. Rapolla. Patritius. Vbmosinus. EkBGI.
CUItAVtT CRAT1AM . D. MaUAB . AnDRSAB. Rapolla. Momcalis •Profkssas.
suak. kx. rmA-ntc. MXPOTXS. OmnOMQUB. SDCCBSSOBUM. DB.
FAIIIUAB. UTBIUSQUB . SBZUS . QUAMDOCUMQUB . CASUS. OCCIDBBIT. La casa
Rapolla poi si è mantenuta sempre no- bilmente, tanto che nel 1807,
essendosi recato a visitar Venosa, nel suo viaggio nelle provincie del
reame il re Giuseppe Bonaparte, venne ospitato con gran magnificenza per
due giorni con tutti i generali e gli altri personaggi della sua
splendida corte, dal nobile Venanzio Rapolla, al quale rilasciò certificato di
sovrano comt>iacimento per la ricevuta accoglienza, non avendo vo-
luto quel fiero gentiluomo, già capitano sotto la repubblica partenopea, e
tornato da poco tempo da emigra- zione politica in Francia, accettare
titoli, onori od altro compenso. Walckenaer nel 1° voi. pag. 4 della sua
opera Histoire de la vie et des poesies d' Horace dice: « La Venouse
moderne à, malgré sa faible population, con^ serve quelque chose de plus
que son nom et sa position antique^ pouisqu* elle est le siege d' un
eveché, Ormai ò noto, ed il
Lavista nel suo opuscolo: Notizie istoriche degli antichi e presenti
tempi della città di Venosa Potenza^ tipi Favata e Frediano Fiamma, rettore
del seminario vescovile venosino, nelle sue note alla necrologia del
nobile Giuseppe Rapolla (Napoli, tipi Giannini) riportano, che essendosi
disposto di trasportare la sede del vescovado da Venosa a Minervino, con grandissimo
nocumento alla patria di Fiacco, Venanzio Rapolla tanto seppe destreggiarsi ed
agire nella capitale del regno, ove venne trattato l'affare in Consiglio
di Stato, con impegno di illustri avvocati, da far distrarre tale
improvvida risoluzione; ed anzi vi spese a tale scopo più di lire
ventimila, che non volle per sua generosità gli venissero rimborsate. Veramente
nobile animo ) Splendido esempio di filantropia Riportata da M. A. Lupoli nella
sua opera quel preclara gentiluomo, mio defunto genitore, nobile
Luigi Rapolla, direttore degli scavi di antichità nel di- stretto di
Melfi, si legge quanto segue : « Mi aflretto parteciparle che non lungi
da Venosa un terzo di miglio, mentre si attendeva allo scavo di arena
in una grotta messa sul ciglione di una collina verso oriente,
sovrastante al fiume che scorre nella vallata sottostante al tempio della
Santissima Trinità, si è rinvenuto un lungo corridoio con altre strade
laterali, con una quantità di sepolcri scavati nel tufo, coperti da
grossi mattoni antichi, con delle iscrizioni indecifrabili, fra le quali
se ne osservano talune, cui soprasta una palma ed un'ampolla > E
tale luogo si dice il Piano della Maddalena^ e scovronsi
dintorno ad esso dei resti di fabbriche che indicano come un forte
nucleo di abitanti viver doveva in tale spianata, che aveva il suo tempio
dedicato alla Maria di Magdala, ed in quelle grotte scavate nel masso vi
avevano la loro necropoli. Da tutto ciò può benissimo e con cer-
tezza arguirsi che Venosa, chiusa nei limiti anzidetti, che si
estendevano verso le colline, che oggidì diconsi Monte e Montalto sino al
fiumicello divento, formava una va- sta città abitata da più di
ottantamila uomini. Che ai tempo dei Romani era splendida per monumenti,
statue e nobiltà, e conservossi tale sin presso al 1500, quando
andò mano mano assottigliandosi per danni solTerti dai tremuoti, dalle
pesti, dalle guerre e dall'aprirsi dei diversi sbocchi a centri che cresceano
in importanza, gran- dezza e magnificenza sia in Puglia che in Lucania.
E venne tanto assottigliandosi da divenire un tempo un borgo,
fortificato però, di poche centinaja di fuochi, sinché poi non risorse a
novella vita. Quei pochi fieri abi- tanti, che avevano per emblema il
basilisco che si morde la coda, e la scritta: Respublica Venusina^ si
conservaro- no però sempre eguali a loro stessi ed alla loro origine.
In essa nacquero e vissero baldi guerrieri, come si disse, e
letterati insigni e sommi giuristi ed eminenti ecclesiastici, sempre
altieri, nobili e pieni di genio, de- stinati a grandi imprese.
L' antica grandezza lasciò uno stampo in ciascun abitante di tale ameno
e forte luogo. Ciascun abitante porta con sé una particella dell'aura
divina, che emana da questa terra benedetta dal cielo, e tra le più
belle e feraci dltalia. Il Bestini, nella sua opera Monetarii
antiqui^ sostiene essersi coniate in Venosa delle monete raflìguranti
Giove che gitta fulmini. Come esprimere me- glio figuratamente la potenza
della città di Venosa ? Oggi Venosa colla libertà e col progresso è
nuovamente ri- fiorita, e per ricchezze e lustro non è inferiore che
a poche città meridionali d'Italia. Gargallo Tommaso. Traduzione
delle- opere di O. Lib. i." sat. Il Vulture. I due versi di Orazio
nella sua ode quarta del libro terzo ed il « pios errare per
lucos > han dato campo a non poche dispute tra i dotti e gli antichi
scoliasti. Fuvvi tra gli altri per- sino il Bentley, il quale sostenne
essere esistita una balia di Orazio nomata Apulia^ che in quel sogno
del pargoletto prese parte, tenendolo addormentato in su le
ginocchia, fuori la porta della sua casa rurale in Ve- nosa. Gargallo
traduce: Da pueril trastullo Mentre io lasso, e dal sonno oltre alla
soglia De r Apula nutrici, amar faruimllo Giaceva sul V\lL?r appulo,
di faglie Tutu a nuazi arhuscelli Fer siefe int4fniù a wu, gt idal^
mmgelli. Ma ben considerando questo bisticcio di
Voltar appulo oltre la soglia (i confini) delt Apula nutrice^ si
chiarisce che T Apula nutrice per Orazio era Venosa, usando il tutto per
la parte, cioè la Puglia Daunia. PLINIO (vedasi), (disse e Dauniorum
colonia Venusia >, ed il Voltar appula alla soglia indicava la
re- gione del Vultore, mentre il Vulture era situato nella Puglia
Peucezia, quindi fuori dei confini della Puglia Daunia, patria di Orazio.
Con tale criterio resta dilu* cidato questo passo di Orazio, il certo un
po' oscuro per chi ignora la topografìa delia regione pugliese. È
certo che O. intese parlare, nominando il Vulture, della catena appenninica
minore dopo il Vulture, cioè i monti alle cui pendici Venosa era situata,
che in quei tempi erano copèrti da fitte boscaglie, come una buona
parte lo sono tuttora (contrada Monte, Monte Alto ecc.). Infatti accenna
in seguito alla foreste di Banzi, {saltu- sque bandinas\ ad Acerenza
{celsa nidum Acherantiae)^ a Forenza {humilis Ferenti)^ che son tutti
luoghi che fan seguito anche oggi a tali boschi, che bisogna tra-
scorrere per giungervi partendo da Venosa. Se Orazio avesse inteso
parlare delle pendici del Vulture, come oggi s' indicano, avrebbe dovuto
far cenno di Atella, RapoUa, Rionero, Barile, e di altri paesetti, che se
non esistevano in quei -tempi, certo in tutto il perimetro della
pendice del Vulture doveva esistere qualche traccia o zona di terra
abitata, come la Rendina attuale, ove la taberna celebre è anteriore
all'epoca romana della quale si discorre. Del Vulture hanno
ampiamente e dottamente trat- tato r abate Tata {Lettera sul Vulture),
Daubeny {Narrative of on excursion to mount Vultur in Apulia— Oxford), il
prussiano Ermanno Abich, L.. n Patrizio e l'Abate — Un volume in i6», pag.
250, Tipi Di Angelis Napoli, XTobiltà e 1)0rgh68ia, Tifi
Tarnese Napou, Uemorìe storiche di Portici Stabilimento Tipografico
Vesuviano Portici, Presso Tautore Napoli, Riviera di Chiaja, N. ijo Dei
Conti Sì Bavoja— Tipi Giannini Napoli. ì Quinto Orazio
Flacco. Orazio. Keyword: Il Giardino. Luigi Speranza, “Grice ed Orazio” – The
Swimming-Pool Library. Orazio.
Luigi Speranza -- Grice ed Ordine: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo – la
scuola di Diamante -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Diamante). Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Diamante, Cosenza, Calabria.
Professore a Calabria. Rriconosciuto come uno dei massimi studiosi del
Rinascimento e Bruno. Ben noto ai lettori per i suo eccellente saggio su Bruno,
è anche uno dei migliori conoscitori attuali del milieu sociale, artistico,
letterario e spirituale dell'età del Rinascimento e degli inizi dell'Età
moderna.Sigillo d’Ateneo dell’Urbino. Centro
di Studi Telesiani, Bruniani e Campanelliani. “L' utilità dell'inutile”
(Milano, Bompiani). Opere: “La cabala dell'asino”, “Asinità e conoscenza in Bruno”
(Teorie et oggetti, Napoli, Liguori, Collana I fari, Milano, La Nave di Teseo);
“La soglia dell'ombra -- Letteratura, filosofia
e pittura in Bruno” (Venezia, Marsilio); “Contro il Vangelo armato: Bruno, Ronsard
e la religione” (Milano, Cortina); “Teoria
della novella e teoria del riso” (Napoli, Liguori); “Tre corone per un re.
L'impresa di Enrico III e i suoi misteri” (Milano, Bompiani). Classici per la
vita. Una piccola biblioteca ideale, Collana Le onde, Milano, La Nave di Teseo,
Gli uomini non sono isole. I classici ci aiutano a vivere” (Milano, La Nave di
Teseo). Grice: “Some like Bruno, but I don’t – for one, he was
a PRIEST before he was burned – no philosopher *I* know is a priest. Being a
priest, as A. J. P. Kenny well knows, disqualifies you as a philosopher.
Campanella was a priest too, and I’m not sure about Telesio. I mention the
three because while there is a Keats-Shelley Association in Rome, only the
Italians can think of ONE centro di studi TELESIANI, BRUNIANI e CAMPANELLIANI –
enough to have a triple split personality!” Nuccio Ordine.
Ordine. Keywords: Bruno, futilitarianism, riso, risus significant laetiia
animae – il sorriso di Macchiaveli, centro di studi telesiani, divenne centro
di studi telesiani, bruniani, e campanelliani! – telesio not a priest!--. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ordine: l’inutilita dell’utilitarismo di Geremia
Bentham” – The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice ed Orestada: la ragione conversazionale della diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto).
Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A
Pythagorean cited by Giamblico. He frees Senofane from slavery – as cited by
Diogene Laerzio.
Luigi Speranza -- Grice ed Orestano: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’opzione eroica – la
scuola d’Alia -- filosofia siciliana -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Alia). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Alia,
Sicilia. Self-described as a ‘Federalista siciliano’ --. Grice: “There is something
pompous about Italian philosophers and their isms – Orestano’s ism is the
superrealism!” Grice: “When I was
invited to deliver my lectures on the conception of value, I was hoping it was
a first, but Orestano had written two big volumes on it!” – Studia a Palermo. Insegna Palermo, Pavia, e Roma. Collabora con Marinetti
nella concezione del futurismo, e lavorando ad alcune pubblicazioni comuni. E inoltre
vicino alle idee politiche, collaborando tra l'altro con “Gerarchia.” Invitato
da Balbo nella Libia italiana, difende gli ideali e gli intenti italiani in
contrapposizione al nazionalismo. E eticista, fenomenologo e promulgatore
d'un'idea filosofica positivista che egli stesso denomina “super-realismo.” Si
ritira a vita privata nel su palazzo di Roma per dedicarsi alla sua opera
principale “Nuovi principi” (Milano, Bocca). Membro dell’Accademia d'Italia e della
Società filosofica italiana e dell’Istituto Siciliano di Studi Politici ed
Economici. Autore di noti aforismi, a lui sono intitolate una via di Roma e una
scuola di Palermo. Saggi: “Opera omnia” (Padova, C. E. D. A. M.); “Comenio”,
Roma, Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, Angiulli, Roma,
Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, A proposito dei principi di
pedagogia e didattica” (Città di Castello, Alighieri);“Un'aristocrazia di
popoli -- saggio di una valutazione aristocratica delle nazionalità” (Milano,
Treves); “Verità dimostrate, Napoli, Rondinella); “Opera letteraria di
Benedetta, Roma, Edizioni Futuriste di Poesia); “Esame critico di Marinetti e
del Futurismo” (Roma, Estratto dalla "Rassegna Nazionale"); “Civiltà
europea e civiltà americana” (Roma, Danesi); “Nuove vedute logiche” (Milano,
Bocca); “Il nuovo realismo” (Milano, F.lli Bocca); “Verità dimostrate, Milano,
Bocca); “Idea e concetto” (Milano, Bocca, Celebrazioni I, Milano, Bocca
Editori, Celebrazioni, 2, Padova, MILANI, “Filosofia del diritto” (Milano, Bocca,
Gravia levia, Milano, Bocca); “Saggi giuridici, Milano, Bocca); “Verso la nuova
Europa” (Milano, Bocca); Prolegomeni
alla scienza del bene e del male, Milano, Bocca); “Leonardo, Galilei, Tasso” (Milano,
Bocca); “La conflagrazione spirituale e altri saggi filosofici” (Milano,
Bocca); “Pensieri, un libro per tutti”; Studi di storia della filosofia”; “Kant”;
“Rosmini-Serbatti”; “Nietzsche”; Contributi vari, studi pedagogici, studi
danteschi; Aligheri e saggi di estetica e letteratura; conversazioni di varia
filosofia; corsi, ricerche e conferenze, studi sulla Sicilia, Filosofia della
moda e questioni sociali, Dizionario Biografico
degli Italiani, E. Guccione, L'idea di Europa in Federalisti siciliani, A. R. S. Intergruppo
Federalista Europeo, Palermo, Guccione, Da un diario una nuova pagina di
storia, in La politica tra storia e
diritto, Scritti in memoria di L. Gambino, Giunta” (Angeli, Milano); Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Quando i vincitori scrivono la storia della
filosofia: il caso di Lamendola, Arianna, O. Castellana, Il rapport tra stato e Chiesa nel
pensiero politico, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici. I valori
egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli
valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono
espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta
dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi
va speciali, così, quando adopera
i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico –
con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o
quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi.
Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi
quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza
concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò
che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora
si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio
o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che
modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione?
Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda
può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si
noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della
volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali
restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della
valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione
d’identità. Ciò che il artista o un
politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in
qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione
italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o
anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un
bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia
molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora
bene (+), ma che fa rumore e fumo (-),ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due forme:
a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per esempio,
promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad arricchire la sua
nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può raggiungere che
come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante per . Ora
torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale di una
valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio
della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di
valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti
concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI
VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le
quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola
dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di
volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le
variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE
ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più
importante è qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO
DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore
di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il
valore con “W”,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL
DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE
al beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno
si danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza
concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la
circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula
sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione
materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr. glianze. Invece
L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il valore.
La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più grave qui
si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9). Se
la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione egoistica
si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si aggiunga la
circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o anche di un
proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le due egua W
(99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se oltre al
danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U). Per
quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si
associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W (rg)= Wr. La volizione
altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per
attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza
aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u).
Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore
della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W
(ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) >
W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U)
W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0
W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con
segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di
queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come
indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque
riassumere così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla.
‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della
volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si
è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di
una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla
determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE.
L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante
constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti
concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei valori,
dianzi tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel
modo indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità
della volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e
repulsione, che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra
affermazione e negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi
come una doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà
indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si
comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai
valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL
PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U)
(U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni
ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di
“Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione
delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al
polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto.
Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi
quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi
delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta. (ū) si possono
fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore
nella tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio
iniziale della volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al
momento opportuno, a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò
facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale,
allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la
volizione è risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo
che questa volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui.
In forma positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione
iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati
fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente
concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra
loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la
maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col
proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui.
Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui
si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o
grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s
duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL
CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione
che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde
alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi
tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose
dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal
semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi
comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in
principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra
l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi
interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della
valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”.
Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u”, “W(gu)”,
si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre
il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra
del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i
termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una
semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande
interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo
interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a
un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore
morale più basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non
tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del
valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le
costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g”
e “r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono
necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti
0 e 0,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è
però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse
altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è
quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u”
pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F, 1
W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)=
0, lim W (ru)= 0,, limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0
lim W (gu)= – 00. pure evidente, che
la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più
IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore
dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando
però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà
pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla
grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che
l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si
sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula.
Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si
determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono
mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per
far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a
“g” ogni volta una costante “c” o “c '”. Queste formule non modificano i limiti
funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la
formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C, lim W (gu) = - ' Sin qui
abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però,
se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente,
supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore?
Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così
le formule. T r W (ru) = 0 9 + c g +di e
Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore
deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il
valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può
riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso
valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà
un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E
se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare
quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL
CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere
le formule e per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande
dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno
così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i seguenti limiti. A questo
punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di alcun'altra correzione. Per
semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula del binomio divienne W(gu)=
T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y gkilt o W(gu)= W (ru)= C
per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e
limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne
ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con
una volizione,l a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni
staranno, secondo la formula principale or ora ricavata, in un
rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale.
In secondo luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo)
o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o
TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il NUMERATORE
E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, … n), tanto
più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme superiore o
inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti sono invece
quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di mezzo di
detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una volizione I cui
scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta ridurla. W(9)=0(1).
UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO D’INTERESSI, la
caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O INTERSEZZIONE O
COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui, positive, o,
come nella guerra o il duello, negativi. Se il progetto offre l'occasione di
congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui
nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con
(gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui
si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione
e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”,
cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la
formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >. Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di
binomi: gr g+1 1 T (go+ 1)r.
Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due
binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in
queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione
tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Recenti studi sui valori morali in Italia. TAROZZI
comunica al congresso di psicologia (Roma) un programma di etica scientifica,
sotto il titolo: Sulla possibilità di un fondamento psico logico del valore
etico. I risultati dell'indagine psicologica sono capaci di assumere importanza
di fondamento e di criterio nella determinazione del valore etico delle azioni
umane e nell'apprezzamento etico degli individuiumani? Questo il
problema.Tarozzi crede possibile una risposta affermativa, e ne dà le ragioni.
Il valore etico è il risultato di un apprezzamento morale. L'apprezzamento
morale è funzione della coscienza morale, che si forma in noi storicamente e
psicologicamente. E siccome lo studio della formazione storica si risolve pure
in un'indagine psicologica, così la vera sede della dimostrazione del valore
etico è la psicologia. A ciò non si può opporre, che il valore etico dipenda
direttamente dal fine etico, e che questo per l'assolutezza sua (o teologica o
categorica) sia indipendente dalla causalità psicologica e antropologica. Giacchè,
anche ammessa questa indipendenza del fine etico, nulla vieta che essa riceva
una interpretazione psicologica e antropologica. Si può cioè voler sapere come
sia possibile nella realtà (umana) il fine etico, e ciò conduce anche a
interpretare la relazione dei valori etici con quei fini, e a trovare il
criterio per la valutazione morale degl’individui umani. Fra il principio
assoluto e l'atto concreto,più ancora fra quel principio e l'individuo, intercorre
la eterogeneità più radicale. Per giudicare quindi se l'atto compiuto o da
compiersi stia in un giusto rapporto col principio, è necessaria una
interpretazione psicologica. Senza questa interpretazione la valutazione etica
alla stregua dei principi assoluti non può farsi. Ove poi si abbia un concetto
non teologico, nè categorico del fine etico, la psicologia può darne non solo
l'interpretazione, ma anche, coll'aiuto dei dati dell'antropologia e della
sociologia, una vera e propria dimostrazione. L'ufficio della psicologia nella
dimostrazione del fine etico è anzi assai più rilevante, perchè da questa dimo
strazione dipende. Primo se il principio sia ammissibile oppur no. Secondo, quale
valore etico abbiano le azioni e gl'individui in base al principio dimostrato.
Ma non a questo si ferma l'ufficio dellapsicologia nella morale. Volendo
fondare un'etica, umanistica nelle sue basi,e umanitaria nelle sue norme,
un'etica cioè rispondente alla concezione di un significato morale della vita
umana,la coscienza del quale giusti fichi, non in senso di fine, m a in senso
di fondamento, i particolari propositi delle volizioni umane, la psicologia
porterebbe i più decisivi elementi a una tale concezione della umanità. La psicologia
è scienza sovrana nell'àmbito dell'etica umanistica. Senza di essa è
impossibile la ricerca di un significato morale della vita, che assuma valore
di fine dopo essere stato fondamento e criterio, e risponda alle tendenze onde
la moralità positiva si svolge nella storia dell'umanità. Oltre a questo
contributo diretto della psicologia all'etica, vi sono gl'indiretti,
consistenti nella difesa,che solo la psicologia può fare contro lo scetticismo
morale. La legittimità di una valutazione etica, che abbia forza di per sè, si
suole negare da chi crede che il bene e il male siano risultato di convenzioni
sociali più o meno inveterate, mutabili secondo i vari tempi e I bisogni, e non
rispondenti a una costante necessità della vita e della natura umana. Per
riparare dallo scetticismo si è ricorso o all'utilitarismo o alla metafisica. Ora,allo
scetticismo e anche ai suoi falsi rimedi (l'utilitarismo e la metafisica) non
può opporsi efficacemente che la ricerca psicologica. Essa sola, riuscendo a
determinare positiva mente le concezioni fondamentali del valore morale, porge
argo menti di difesa sia contro la negazione di un fondamento reale e
necessario del valore etico, sia contro le affermazioni erronee od arbitrarie
di esso. Un esempio importantissimo dà Tarozzi dell'ufficio della psicologia
nell'etica, accennando ai problemi concernenti la ricerca dei fondamenti
psicologici della solidarietà o dei fondamenti naturali di essa, come li chiama
GENOVESI, opportunamente ricordato dall'autore. Questo esame particolareggiato
comprende la crudeltà e le sue varie forme, la simpatia, così in generale, come
nelle sue due manifestazioni principali, gl’atti di cortesia e di protezione. Le
dispute sulla natura umana, così conclude Tarozzi, attendono la loro decisione
non dagli argomenti del razionalismo, ma dai fatti che la psicologia può
rivelare e valutare. Quando fosse dato di stabilire, che non è generale
nell'uomo l'avversione al potente, ma allenatureavare, fredde, crudeli, quando
si potesse esplorare in un àmbito sempre più vasto l'estensione dei fatti e
degl'istinti della simpatia, sì da rendere legittimo il costituire con essi il
concetto dell'umanità, questa umanità sarebbe il fondamento di una morale
immanente, estranea, benchè non opposta, all'utilitarismo. Quando si potesse
attribuire positivamente, cioè psicologicamente e antropologicamente, un valore
definitivo al rapporto di solidarietà, e stabilire che esso risponde a un
istinto originario, valido per se stesso,e non per l'esperienza della sua utilità,
sarebbe tolta all'utilitarismo quella base consistente nella proposizione
universale, che l'uomo agisce per il suo utile. Ne c'è da temere che i dubbii
della ricerca psicologica si riflettano nella morale, perchè i risultati che la
psicologia ci potrà offrire non avranno valore di modificazione del contenuto
normativo della morale, ma bensì tenderebbero a modificare il carattere
formale di essa, come dottrina del dorer essere e come scienza. Al Congresso medesimo
Calò presenta una comunicazione intorno alla Calderoni ritiene che l'assenza
della ricerca e della sufficiente analisi di quello ch'è il fatto ultimo e
irriducibile su cui poggia tutta la vita morale, il giudizio etico, ha impedito
il costituirsi dell'etica come scienza. Molto ha anche nociuto “la nessuna, o
quasi, distinzione che si è fatta tra il giudizio etico e il giudizio teoretico
o conoscitivo, La morale deve invece ricercare come ogni altra scienza, dei
fatti ultimi, elementari, irriducibili su cui fondare l'edificio autonomo delle
proprie investigazioni. L'elemento irriducibile, la realtà ultima, da cui deve
prendere le mosse ogni dottrina morale, è un fatto psicologico, un
sentimento, non uccidere per esempio, apparterrà sempre al contenuto
normativo della morale, qualunque conclusione possa trarre la psicologia
intorno agl'istinti di pugnacità e di ferocia. Ma se le conclusioni intorno al
fondamento umano delle tendenze alla solidarietà e alla simpatia saranno
negative, l'etica e un sistema dottrinale, la cui imposizione presenta i caratteri
della accidentalità e della fluttuazione dei fatti sociali, oppure i caratteri
trascendentali metafisici o religiosi; e perciò la valutazione etica e una
gradazione fondata su altra base, non su quella della realtà effettiva dei
fatti umani. Se invece quelle conclusioni saranno positive, l'etica, assumendole
come sue proprie, avrà a fondamento il significato psicologico e antropologico
dell'umanità morale e potrà scientemente stabilirei valori umani in relazione conesso.
Infine TAOROZZI ri-assume il suo credo in queste parole, che tutto si debba
attendere dalla scienza, e che essa sola possa spiegare un giorno perchè
abbiano universale valore massime conversazionali come queste: Non uccidere u ‘non
mentire,’ “Ama il tuo prossimo. Ogni qual volta noi giudichiamo del valore
morale d'un sentimento, d'un'azione, d'una determinazione volitiva, tale
giudizio si presenta alla nostra coscienza con un sentimento particolare di
approvazione o di disapprovazione. L'esame retrospettivo ci dice, che quel giudizio
non risulta da un meccanico sovrapporsi dei concetti del soggetto e del
predicato (buono, giusto, ecc.), dal paragone delle loro estensioni e
connotazioni rispettive, dalla rivelazione pura e semplice del loro rapport. Ciò
che interviene, e ciò che più importa, è il sentimento di approvazione o di
disapprovazione, di adesione o di ripugnanza. Qui si presenta un problema
fondamentale. Trattasi di vedere se il sentimento di approvazione o di
disapprovazione accompagni semplicemente, come effetto o come carattere, la
rivelazione del rapporto in cui l'obbietto considerato è con quel predicato. O se
quel sentimento appunto renda possibile la costituzione del predicato e quindi,
mercè la capacità di riferimento propria della ragione, l'enunciazione del
rapporto. Questo problema non può essere risoluto senza una analisi comparativa
del giudizio conoscitivo e del giudizio valutativo. E quest'analisi mostra
appunto che, mentre nella funzione conoscitiva il sentimento è un sopraggiunto,
nella funzione valutatrice è, al contrario, costitutivo del rapporto. Conoscere
è constatare, attingere ciò che è; mentre nel valutare, l'atteggiamento dello
spirito non è di chi constata, ma di chi reagisce. Non di chi afferma e
riconosce l'essere, ma di chi vi aggiunge qualcosa risultante da ciò che in lui
non corrisponde, ma risponde alla realtà conosciuta. E l'atteggiamento non di
chi afferma o nega, ma di chi si sovrappone alla realtà, o che le assenta o che
le si ribelli, sia che lodi, sia che condanni. Mentre, per il teoretico, il
sentimento è un accessorio trascurabile, per il moralista, esso è la vera
realtà etica, poichè il senti mento serve a caratterizzare qualsiasi obbietto
di giudizio etico. In ultima analisi, ogni giudizio etico si riduce ad
approvazione o disapprovazione d'un sentimento, d'un istinto, d'una volizione,
d'un'azione. Ora l'approvazione e la disapprovazione non sono che due
speciali sentimenti, due forme diverse d’uno stesso sentimento, il sentimento
del valore. Il giudizio etico, dunque, intanto è possibile in quanto si compie
una sintesi fra l'obbietto conosciuto e la ragione valutativa ch'esso suscita
in noi. E, insomma, questa stessa reazione che costituisce tutto quanto noi
diciamo di quel fatto qualsiasi ch'è assunto come soggetto del giudizio. Si
direbbe che quel fatto tanto ha di realtà etica quanto e come vive nel senti
mento valutativo. Questo poi varia e quasi si determina e si atteggia
diversamente secondo gli obbietti a cui si riferisce, e di venta volta a volta
sentimento del giusto, del buono, del santo, dell'eroico o dei loro contrari,
di rimorso o di auto-sodisfazione, di rimpicciolimento o di stima di se
stessi,di pace dell'anima, ecc.; di modo che può dirsi che ognuna di queste
determinazioni del sentimento di approvazione e di disapprovazione ha una sua
individualità e che l'analisi di esse ci dà l'analisi di tutta la coscienza
morale. Il sentimento del valore, come fatto fondamentale della coscienza
etica, si pone a norma della realtà interiore e dispone gerarchicamente i vari
istinti e le varie tendenze. Un'altra sua proprietà è anche quella di avvertire
ogni atto che rappresenti un non-valore come un'intima contradizione, il che dà
luogo al sentimento particolare dell'obbligazione. Il sentimento del valore è
dunque di sua natura tale da assumere, di fronte al resto della realtà
psichica, un'attitudine speciale e da contrapporre all'esistenza di fatto
un'esistenza di diritto. Esso si distingue profondamente dal piacere e dal
dolore, perchè questi sono stati subbiettivi interessanti semplicemente
l'individualità del soggetto, mentre ilsentimento del valore è obbiettivo anche
rispetto alla individualità del soggetto che giudica. Il sentimento del valore
oltrepassa la sfera della mia utilità o del mio benessere individuale; sono io che
sento, ma non perme. Altro carattere differenziale è questo, che nei sentimenti
di piacere e dolore lo stato subbiettivo è confuso con l'oggetto della
rappresentazione, mentre nel sentimento del valore, l'oggetto è nettamente
distinto dall'atto valutativo e può essere rappresentato come obbietto di
conoscenza teorica. Ciò ch'è piacevole e spiacevole non esiste che nel
sentimento e per il sentimento, mentre ciò ch'è valutato è chiaramente
rappresentato di fronte all'atto giudicativo, è insomma conosciuto. Non si può
valutare se non ciò ch'è ben noto, tanto è vero che la valutazione si presenta
spessissimo sotto forma di preferenza e il valore viene appreso
comparativamente ad altri come plus-valore o come minus valore. Sebbene il
giudizio di valore abbia il suo punto di partenza nel sentimento,esso non
esclude, anzi richiede necessariamente l'intervento della funzione conoscitiva,
la quale prepari il terreno su cui possa esercitarsi la funzione apprezzativa. La
grande varietà dei giudizi morali osservabile fra individui diversi dipende
appunto dal diverso modo come sono appresi e considerati gli obbietti,dai
diversi elementi che ci pone in luce la funzione conoscitiva. Così, mentre
l'analisi del processo della valutazione etica è compito della psicologia
morale, gli obbietti a cui le nostre valutazioni morali si riferiscono non
possono esser tratti analiticamente dalla natura stessa dei nostri sentimenti
di valore. Essi possono essere determinati in parte in base alla considerazione
di rapporti for mali della volontà, in parte in base all'esperienza storica e
sociale, quale è studiata dall'etica storica comparative. CALDERONI, nelle sue
Disarmonie economiche e disarmonie morali, si è recentemente proposto di porre
in rilievo talune concordanze fra le leggi economiche del valore e della
rendita e le valutazioni morali sociali. In tal modo egli crede che l'economia
politica possa apportare un contributo positivo alla scienza della morale e
aiutarne il definitivo costituirsi. La vita morale può considerarsi, così
Calderoni, come un vasto mercato, dove determinate richieste vengono fatte da
taluni uomini o dalla maggioranza degli uomini agli altri, I quali oppongono a
queste richieste una resistenza, secondo i casi, maggiore o minore, e
richiedono alla loro volta incitamenti, stimoli, premi e compensi di natura
determinata. Questi stimoli o incitamenti prendono la forma sociale di
approvazione e di biasimo, di lodi, di gloria, di premio e punizione. Premesse
alcune nozioni intorno alla legge dell'utilità marginale e alla formazione della
rendita, non soltanto fondiaria, ma anche, in generale, del consumatore e del
produttore, CALDERONI accenna più particolarmente a due specie di disarmonie
economiche che si verificano nei fenomeni di rendita. La prima è conseguenza
del principio che, data la unicità del prezzo in un mercato, il compratore e il
venditore realizzano un vantaggio, rappresentato dalla differenza tra ciò che
sarebbe bastato a indurli a comprare o a vendere la singola dose in questione,
e ciò che, per effetto del mercato, vengono a ricevere. Ora, se i prezzi sono
proporzionali ai costi marginali delle merci, essi non sono proporzionali ai
costi di tutte quelle dosi che non sono al margine. Tutti coloro che si trovano
più o meno lontani dal margine di produzione o di i mezzi di produzione si
trovano infatti in quantità limitata e variano grandemente per qualità ed
efficacia, sicchè la produzione si compie in condizioni differentissime da
diversi individui,e l'au mento di produzione fatto con mezzi più costosi, mette
quelli che impiegano i mezzi più facili in una posizione privilegiata, ch'è poi
quella da cui la rendita deriva. Queste e altre considerazioni mostrano, che il
fenomeno della rendita non si può correggere mai assolutamente, e che dà luogo
a vere e proprie disarmonie economiche. La seconda specie è descritta da CALDERONI
così. Supponiamo che sia raggiunta in un modo qualsiasi l'abolizione dei più
stri denti ed evidenti fenomeni di rendita. In tal caso tutti iprodut consumo
si trovano a fruire di un prezzo, che basta soltanto a rimunerare quegli
individui, i quali cesserebbero dal produrre se il prezzo ribassasse; e godono
perciò di un vantaggio differenziale, o rendita, più o meno grande. Nè è
possibile la correzione automatica del fenomeno della rendita, mediante aumento
di produzione da parte di quelli che guadagnano di più, e conseguente ribasso
di prezzi, perchè non sta ad arbitrio dei produttori di ottenere in quantità
indefinita le merci in quistione. tori riceverebbero retribuzioni equivalenti,
per ciascun loro pro dotto, a ciò che è necessario e sufficiente per indurli
alla loro produzione. E nondimeno non si potrebbe ancora affermare che
all'eguaglianza di retribuzione per i produttori dei diversi prodotti
corrisponda una intima ed effettiva eguaglianza nei sacrifizi o nel lavoro che
il prodotto costa a ciascuno. La misurazione di questo rapporto implicherebbe
la conoscenza dei bisogni e dei desideri più intensi, dei sacrifizi più gravi
per ciascun individuo e porterebbe a risultati assai diversi. Dal fatto che due
individui sono disposti a dar la medesima somma per una merce o a contentarsi
di una data somma per un servigio, nulla può dedursi intorno alla in tensità
del desiderio che hanno o del sacrificio che fanno : come dal fatto che due individuisi
scambiano una merce, non puòde dursi che chi la cede la desideri meno di chi
l'acquista. Dal persistere di queste differenze è condizionata un'altra serie
di disarmonie economiche più sottili e più intime e per loro na tura
irriducibili, perchè persisterebbero anche quando si riuscisse a stabilire
rapporti equivalenti o eguali sul mercato. Dopo questi cenni CALDERONI passa a
rilevare le analogie tra fatti economici e fatti morali, le quali renderebbero,
a suo giudizio, possibile una concezione economica della morale. Anzitutto, non
meno in morale che in economia, ciò di cui effettivamente si giudica è, non il
valore complessivo o generale degli atti e delle attitudini, di cui s'invoca
l'adempimento o l'osservanza; ma il loro valore marginale e comparativo, valore
atto a variare e col numero di questi atti effettivamente compiuto dagli
uomini,e col numero altresì di quegli altri atti, cui si rinuncia per compierli
Vi è nella vita una gran quantità di
atti ed attitudini, che pure essendo di una incontestabile utilità, puressendo essen
ziali alla conservazione ed al benessere della convivenza umana, non entrano
nell'ambito di ciò che noi chiamiamo la morale. Perchè? Con ciò CALDERONI vuole
opporsi a tutta quanta la tradizione intuizionistica e kantiana in filosofia
morale. Gl’atti morali non hanno alcun valore assoluto, ma un valore
esclusivamente marginale e comparativo. Perchè nonostante la loro
desiderabilità astratta, nonostante i vantaggi totali che la società ritrae dal
loro adempimento, vantaggi certamente assai maggiori, nel loro complesso, a
quelli degli atti che la morale esalta; essi sono tuttavia atti di cui non è
deside rabile un ulteriore aumento, la cui DESIRABILITA marginale comparata, in
altre parole è zero o addirittura negativa. Gl’atti prodotti dall'istinto
personale di conservazione o da quello della riproduzione della specie non sono
considerati virtuosi, perchè, ben lungi dal richiedere un incitamento, essi
richiedono freni, gl’uomini essendo piuttosto proclivi ad eccedere che a
difettare in essi, e a sacrificar loro l'adempimento di altre funzioni che sono
marginalmente o comparativamente PIU DESIRABILI. Le nostre tavole di valori
contengono tutte quelle cose, per ottenere un aumento delle quali, in noi
stessi o negli altri, siamo disposti a de terminati sacrifice. Ma non già tutte
le cose che possono apparirci DESIRABILI. Col crescere delle azioni virtuose
esse tendono a diminuire di valore, come analogamente il diminuire delle azioni
viziose tende a render meno disposti a far dei sacrifici per diminuirle
ulteriormente. Ond'è sempre concepibile un limite, naturalmente molto diverso, secondo
i casi, oltre al quale il vizio, di verrebbe una vizio, viene infatti per la
domanda e per l'offerta etica lo stesso che per la domanda el'offerta economica.
In una società di completi altruisti avrebbe pregio l'egoista. L'ALTRUISMO è
una virtù il cui valore è strettamente connesso colla presenza di egoisti o
almeno di non altruisti nella società. Queste considerazioni confuterebbero la
legge morale di Kant, che prescrive di seguire massime capaci di divenire
universali. Nessuna virtù e nessun dovere resisterebbe ad un esame fatto
rigorosamente in base a questo criterio. Moltea zioni sono per noi un dovere, appunto
perchè gl’altri uomini non le fanno e rimangono tali a condizione che non siano
troppi gli uomini capaci e volonte rosi di imitarle. Come in una barca
sopraccarica, l'opportunità di sedersi da una parte o dall'altra dipende
strettamente dal nu e la un virtù, virtù, mero di persone sedute
dalla parte opposta. Se qui fosse seguito un imperativo kantiano qualsiasi, il
capovolgimento della barca porrebbe tosto fine ai consigli del pilota e alle
buone volontà dei passeggieri. Si può credere che si possa ovviare a questi
errori particola reggiando quanto più è possibile i precetti e le sanzioni,
individualizzandole in grado estremo. Ma alla stessa maniera che in un mercato
non si può variare il Prezzo secondo gl’avventori, così alla legge
d'indifferenza del mercato, corrisponde una legge d'indifferenza morale, per
cui sono stabilite regole comuni non troppo discutibili e sanzioni precise, non
atte troppo a variare e applicabili alla media dei casi. La necessità di dare
precetti e sanzioni generali dà luogo a fe nomeni analoghi ai fenomeni di
rendita. Alla generalità e rigidità della legge morale farà contrasto la
varietà delle condizioni individuali, per le quali si verificheranno vantaggi e
svantaggi differenziali da individui a individui. Il dovere per ciascuno sarà
di fare, non già quello che nel suo caso è il meglio o l'ottimo, ma ciò che in
media è meglio che gli uomini facciano di più,di quanto ora non facciano. Non
agendo così egli si attirerà una sanzione, che nel suo caso, potrà anche
talvolta essere immeritata. Le pene e i premi hanno un costo marginale che
cresce col cre scere della loro severità e grandezza,e colla loro estensione;
mentre colla loro estensione diminuisce la loro efficacia marginale. La gloria
e l'onore, come l'infamia, diminuiscono rapidamente di efficacia quanto
maggiore è il numero degl'individui che ne frui scono o soffrono. Così alcuni
si troveranno a godere di lode o gloria molto superiore al loro merito,
individuale, per avere compiuto azioni, poniamo, talmente conformi al loro
carattere che sarebbe piuttosto stato necessario punirli, se si fosse voluto di
ciò premesso, Calderoni trova le analogie fra le disarmonie economiche e
morali. stoglierli dal farle. Altri subiranno invece biasimo o infamia di gran
lunga sproporzionata alla loro colpa. Se poi i precetti e le sanzioni fossero
più particolareggiate e commisurate a ciò che è necessario e sufficiente per
indurre ciascuno al ben fare, rimarrebbe ancora una gran diversità nelle
condizioni individuali, delle quali non si potrebbe tener conto senza diminuire
l'efficacia dei precetti e delle sanzioni medesime. E questo dà luogo all'altra
specie di disarmonie morali analoghe a quelle che persi sterebbero nel campo
economico,se si correggesse la legge d'indifferenza del mercato. Queste
disarmonie morali infatti persiste rebbero,anche se le prime si venissero a
eliminare,analogicamente a quello che è stato osservato nei fenomeni di rendita.
Grice: “I love
Orestano loving Benedetta” – Grice: “Orestano takes Meinong very seriously – as
he should! Few outside Austria do! Meinong symbolses the I with ‘e’ from Latin
‘ego’ (Italian io), and the other with a, for Latin ‘alter, Italian altro. So
we have W for value (worth), and the possibilities that ego desires the evil
for alter – sadism. When ego desires the good, he is altruism. Altruism can be
reciprocal. In a purely altruistic society, things go well – but Pound knows
who’s against that! That’s why Orestano finds sympathy for Meinong, and so do
I” --. Francesco Orestano. Orestano. Keywords: l’opzione
eroica, Alighieri, Galilei, Tasso, Vinci, concezione aristocratica della nazionalita,
l’eroe Mussolini, l’eroe Enea, Weber e la teoria dell’eroe carismatico,
l’ozione dell’eroe non e una ozione. It’s not an option, Calderoni. Luigi Speranza, “Grice ed Orestano”.
Luigi Speranza --
Grice ed Oribasio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale
di Marte, o la scuola di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Giuliano’s personal
philosopher. He shares Giuliano’s enthusiasm for paganism. His treatises
survive, as does paganism – “Only you shouldn’t use that vulgar adjective,” as
Cicerone says!” – H. P. Grice.
Luigi Speranza -- Grice ed Orioli: l’implicatura conversazionale
nella logica della monarchia romana – i sette re – la scuola di Vallerano -- filosofia
lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Vallerano). Filosofo italiano. Vallerano, Viterbo, Lazio. Grice:
“Only in Italy, a philosopher, rather than a cricketer, is supposed to take
part in a revolution and write a book about his shire!” -- Fondatori della
Repubblica Romana. “De' paragrandini
metallici” (Milano, Fondazione
Mansutti). Il padre, medico, lo condusse a Roma, dove si laureò brillantemente.
La professione non lo attraeva molto: lo troviamo, infatti, professore di
filosofia nei seminari e nei licei dell'Urbe. Da Roma si trasfere a Perugia,
dove si laureò. Insegnò a Bologna. Partecipò con gli allievi all'insurrezione
delle Romagne; successivamente fu eletto membro del governo provvisorio di
Bologna, che fu sciolto in seguito all'intervento militare dell'Austria.
Tentando di mettersi in salvo,salpò da Ancona diretto in Francia con un altro
centinaio di rivoluzionari; ma il brigantino Isotta sul quale viaggiava venne
catturato dall'allora capitano di vascello della marina austriaca Francesco
Bandiera (padre dei due famosi fratelli Attilio ed Emilio) e tutti i rivoluzionari
furono arrestati. Venne incarcerato a Venezia. Poco dopo venne liberato, forse
per mancanza di risultanze gravi sul suo conto.
Iniziò così l'errare, costretto a fuggire da terra in terra, inneggiando
sempre all'Italia unita. Fu professore di archeologia alla Sorbona. A Bruxelles
insegnò. Soggiornò anche a Corfù, dove tenne un corso dnell'università della
città. Quando Pio IX concesse
l'amnistia, poté tornare a Roma, dove tenne la cattedra di archeologia. Le sue
attitudini per il giornalismo non attesero molto per farsi notare, e così fondò
un periodico politico che ebbe però vita breve, La Bilancia. Fu eletto deputato al parlamento della
Repubblica Romana. Quando il governo pontificio fu restaurato, in
riconoscimenti dei suoi meriti, fu nominato consigliere di stato. Pubblica
molti saggi di filosofia. Tra i più famosi sono da menzionare “Dei sette re di
Roma e del cominciamento del consolato” (Firenze), “Intorno le epigrafi
italiane e l'arte di comporle” (Roma). Prese parte alla polemica sui sistemi di
prevenzione contro i fulmini e la grandine, che coinvolse anche Bellani,
Beltrami, Demongeri, Lapostolle, Normand, Majocchi, Contessi, Molossi, Nazari,
Richardot, Scaramelli, Tholard e Volta. Le compagnie assicurative usarono
questi studi per valutare rischi e premi per i campi agricoli. Riconoscimenti Il comune di Vallerano lo ha
onoratocon l'intitolazione di una delle vie principali del borgo antico, quella
del Teatro comunale, e con l'apposizione di una lapide commemorativa sulla
facciata della casa in cui lo scienziato nacque. A Viterbo un Istituto Statale
di Istruzione Superiore -che comprende il Liceo Artistico e diversi indirizzi
di Istituto Professionale, A. Ghisalberti, nella voce della Enciclopedia
Italiana, vedi, riporta queste date di nascita e morte, A. Ghisalberti, Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fondazione Mansutti,
Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M. Bonomelli,
schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano:
Electa, Polizzi, Alla ricerca dello «specioso» e dell’«insolito». Leopardi,
«Lettere Italiane», Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. -- rità assai leggieri, e, se
grandemente non m'inganno, assai consentanei alla ragione, de'quali ho stiinato
aver bisogno, l'enunciazione de'puri fatti che costruiscono l'istoria della
dignità regale nella città de’ sette colli, ha dovuto essere da me
corretta, e ridottasotto la forma seguente. La successione al trono mai non
appartenne in Roma a figliuoli maschi de' re precedenti. Essa appartenne sempre
a' generi loro, quando ve n'ebbe di viventi -- Numa, Servio, Tarquinio il
Superbo. Lo sposo della figliuola Maggiore e a tutti gl’altri preferito -- Servio.
Quando i generi sono morti, la successione passa ai primogeniti del primo
genero -- Tullo Ostilio, secondo la mia correzione della leggenda che lo
concerne; Anco Marcio. Quando si tratta di DUE RE, in luogo di un solo, e di quella
magistrature binaria ed a vita che si surroga ne primi tempi alla dignità
regia, parimente non si rinunzia a queste medesime regole, e se non trovansi
due generi che potessero elevarsi al potere supremo, si'elevano egualmente a
quello, secondo l'ordine legale DUE FIGLI DI GENERO --- REMO E ROMOLO -- Bruto
e Collatino. La figliastra del re e equiparata alla figlia nel dritto di dare il
trono al marito, o a’ suoi discendenti maschi, in un tempo in cui probabilmente
figlie proprie non esistevano -- Tullo Osti. Quando non v'hanno, nè generi, nè
figliuoli di generi, il trono passa a’ nipoti che s'a mò riguardare, in sì fatta
contingenza, come legittimi eredi de’dritti degl’ascendenti loro -- Tullo
Ostilio, se si preferisce l'ipotesi, nella quale egli è NIPTE D’UNA FIGLIA DI
ROMOLO -- maritata ad Osto. Fuori della serie deʼre, o de 'magistrali che ne
tenner le veci, tra gli stessi pretendenti che, senza ottenerla, dimandano la
dignità suprema, uno di quelli, de' quali l'antichità ci ha trasmesso la
memoria, è stato ugualmenle un genero di re -- Numa MARCIO -- ; due altri, ne'quali'
non ci è dato riconoscere questa qualità, non hanno dimandato il trono per le
vie legali ma cercarono d'ottenerlo con un delitto -- i figliaoli d'ANCO --; due
di che solo si parla presso Plutarco se si ricusi di considerare l'Ersilia
dalla quale discende, come FIGLIA DI ROMOLO, e se si rispetta la tradizione,
secondo la quale l'ultim re non è che il patrigno o al più il padre adotetivo
della SECONDA ERSILIA. In un caso, nel quale il capo supremo non potè far
valere il dritto di successione alla sua dignità negl’eredi maschi delle sue
figliuole, ne in altro modo potè effettuare la trasmissione della suprema
autorità per via d'altre donne sue discendenti, almeno tramanda il suo grado
nell'erede necessario della moglie – BRUTO rispetto a LUCREZIO TRICIPITINO, suo
successore nella pretura massima, o vogliam dire nel consolato. Quando non vi
furono eredi quali che si fossero di lato di donna, il trono, sempre messi in
non cale i maschi, ricadde in una persona estranea, cioè non legata di piirentela
colla famiglia reale -- Tarquinio Prisco. Quando, non ostante l'aversi eredi
legittimi per parte di donna, una persona estranea consegue la dignità regia,
ciò avvenne contra il dritto, per la forza dell'armi: Tazio. Non altra è l'espression'
rigorosa de' fatti, cosi come sono riferiti dagl’antichi, o come io dovetti
correggerne la sostanza e l'enunciazione, secondo le regole di una critica, se
posso dirlo, in nessun modo 'temeraria.' Le mie autorità, i miei ragiovamenti,
non sofferirono contraddizióve ne’loro particolari, eme nechiamo felice. Si
volle solamente avvertirmi che nel mio sistema sono alcuni fatti dubbiosi, e ricavati
per conghiettura. stato . co: Voleso e Proculo, sono stati proposti senza
gran fatto fermarsi sopra la proposizione; non hanno preso sul serio la lor qualità
di candidati, e sembrano avervi rinunziato essi stessi; finalmente sono messi
innanzi in un tempo nel quale tutto che concerne le leggi relative alla
successione regia era evidentemente suggetto di controversia, e dispuldvasi
intorno alle basi stesse di questa parte della costituzione organica dello Io
risposta, io vi ho presentato l'analisi, per così dire più condensata, delle tradizioni;
lebo prese da prima quali si leggono; mi sono per 'messo unicamente qualche
volta. o. Spesso la successione al trono in Roma s' è fatta contra ogni
principio d'equità, d'utilità, e di convenienza reciproca de' cittadini. Perchè
-- per qui contentarmi d' un solo esempio il quale abbraccia un lungo periodo
d'anui -- non certamente a vantaggio del partito latino, o di quel deʼ sabini,
sotto la dinastia etrusca, la dignità regia resta sempre nella fazion toscana. Grice: “Orioli philosophised
on many topics. To Italian philosophers, who are OBSESSED, during their
unstable political history, with political philosophy, his ‘research’ on the
consulate proves helpful. He notes that Romolo had no son – so who to succeed
him? Other than that, he was almost shot (Orioli, not Romolo) after trying to
oppose what he called the Roman theocrazy – or theocracia – For Orioli there
are various cracies: theocracia, democrazia, TIMOcrazia, and ARISTO-crazia. PATRIZIO
VITERBESE; CONSIGLIERE ORDINARIO DI STATO DI 3. S. P. DI M. MEMBRO DEL
COLL F1LOSOF. DELLA UNI V. DI ROMA, PROF. DI STOR. ANT. ED ARCHEOLOG.
NELLA STESSA UNIY fclA* PROF. DI FISICA NELLA UNIV. DI BOLOGNA CC. CC.
MEMBRO CORRISPOND. DELL* A. SC. MOR. E POL. DELL’lSTIT. DI FRANCIA,
ACCAD. BENED. DELL’ ISTIT. DI BOLOGNA, UNO DE'TRE SOCI ATTIVI DELLA CL.DI
LETT. DELLA REALE AC. DI SC. E LETT. DI PALERMO . SOC. ONOR. DELLA IMP. E
R. AC. DI SC. E LETT. DI PADOVA. SOC. CORRISP. E R. IST. LOMBARDO DELLE
SC. DI MILANO E DELL* IMF. E R. IST. DI VENEZIA, DELLA AC. DELLE SC. E
LETT. DI TOAINO...E DI MOLTISSIME ALTRE ACC. DI FRANCIA, GRECIA, E ISOLE
IONIE, NAPOLI E REGNO, ROMA E STATI PONTIF., FIRENZE E TOSCANA, LOMBARDIA
CC. CC. CC. : M l' ì(? 0 POLITICI j\r rro
vjl Con giunte dell' A. NAPOLI STAMPERIA DEL KIBRENO. Faites, mon
garcon, faites, ré{K>nd lo vìeux radicai, et dites-leur aussi à ces hotnwes
qui ont cbassé et. ..et tous ceni qui ont osé ex printer un mot de se ns
commun et d'humanité, qui lapident Ics prophètes et éteignent l’esprit de
Dieu, qui aiment le mensonge, qui pensent ameoer le rógne de l’atnour et
de la fraternité aree des piques, des bouteilles de vilriol, aree le
meurtre et le blaspbéme, dites-leur à eui et à tous ceux qui pensent
comme eux qu’un vieillard...dont les ebeveux ont bianchi au Service de la cause
du peuple..., qui contempla lecraquement des nalions en g'3 et qui entcndit les
premieri cria d’tm monde au berccau, qui, lorsqu’il était encore un
enfant, vit venir de loin la liberté et qui se réjouit en la voyant comme
devant une fiancée, et qui pendant soixante pé nibles années, l’a suivie à
travers les soliludes ; - diles - leur que cet homme leur eovoie le
deraie r message qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur qu’ils soni les
esclaves de leurs convoitises et de leur r message qu’il envcrra sur
cetle terre; dites-leur qu’ils soni les esclaves de leurs convoitises et
de leur r message qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur qu’ils soni
les esclaves de leurs convoitises et de leur s passioni, les
esclaves du premier coquin venu à la laogue retentissante, du premier charlalan
veuu qui dorlote leur opinion pcrsonnclle ; dites-leur que Dieu les
frapperà, Ics fera renlrer dans le néa nt et les dispenserà jusqu’à ce
qu’ils se soient repentis, qu’ ils se soieot fait des coeurs purs et de nobles
ames, et qu'ils aieut relenu les lecons qu’il s’ efforce de leur donner depuis
quelque soixante ans ; dites-leur que la carne du pcuple est la cause de
celui qui créa le peuple, et que le malhcur toinbera sur ceux qui prennent les
armes du diablc pour accomplir l’ceuvre de Dieu ? » Sandy
Mackate nel Romano Alton locke di Kingsley Revue des deux Mondes. DUE
PAROLE A CHI È PER LEGGERE Stampo ancora una volta, cedendo alle
lusinghevoli istanze di parecchi amici miei, questi Opuscoli, a'
quali m’è altresì parulo bene d' aggiungere qualche annotazione
nuova dove V argomento s embravami o richiederlo, o meritarlo.
Certo, che, s'io pongo mente, non alla benigna accoglienza soltanto, la
quale a essi Opuscoli fecero que' che m' onorano da lungo tempo della
loro pregiata amicizia, e le mie povere cose hanno abito di giudicare con
molta indulgenza, ma sì a quel che altri, a me per lo addietro
ignoti, o,per fermo, non congiunti d' alcun vincolo di antecedente amistà, ne
scrissero ne' giornali, o con private lettere me ne significarono, io debbo
tenermi come bastantemente ricompensato della quale che siasi fatica durata nel
comporre le pagine che qui appresso seguitano. Tra coloro che più
contribuirono alla buona fortuna della mia impresa ho debito di noverare
principali i dotti e benemeriti scrittori del Giornale che ha titolo — Civiltà
Cattolica — E so la mina degli sdegni a’ quali questo atto di franca
gratitudine è per metter fuoco nel campo nemico, poiché campo nemico non
manca. Ciò non mi sarà impedimento al fare lealmente il mio dovere di render
loro pubbliche grazie. II Giornale — la Civiltà Cattolica — è a troppi, e
in troppe sue parli un osso non poco duro da rodere. Nel difetto d'
argomenti logici, si può a libito dirigere contro al valoroso drappello
de' dieci o dodici campioni che vi brandiscono cotidianamenle la penna,
batterie, da ogni lato, di que’ pessimi argomenti rettorici, che si
chiamano, in arte, argomenti ad odium, e ad invidiam : resisterà
però illeso ed invulnerabile agli strali spuntati de' loro sarcasmi, come le
legioni romane restavano salde ed immote agli urli co' quali i barbari,
nella loro impotenza, tentavano spaventarle. Quando si sarà detto e ridetto, facendo
l’ alto dello scherno e del vilipendio — È opera dei rugiadosi — che si
sarà provato con ciò ? Si sarà lasciata una prova di più della misera e
svergognata dialettica del nostro secolo, rotto a tutte le perversità, ed
avvezzatosi a dare alle villanie valore di ragioni. Tornando al mio
proprio libro, censure fino ad ora, le quali valgano la pena d’ una
speciale risposta, non le ho vedute, nè udite. Sunt quibus in dictis videar nimis acer, et ultra
Legem... e, rileggendo a mente fredda, conosco l'
acrimonia di certe espressioni, la qual forse sarebbe stato meglio tem perare
un po' più. Tuttavia, ben ponderata ogni cosa, ho creduto dover lasciare
tutto come stava ; e ciò, in primo luogo, perchè questa in somma è una ristampa,
la qual non dee mentir al suo titolo ; in secondo luogo, perchè, al
postutto, muri può dire che, contro ad alcuno singolarmente, abbia combattuto e
combatta con armi ripassate alla còte samia. Il mio proposito fu ed è, non di
fare duelli, ma battaglie. Le persone io le ho sempre rispettate e le rispetto,
perciocché ho voluto, e voglio, esser libero ( ed esco ornai dalla
metafora ) di trattare /’ errore pervicace e spavaldo con tutta quella
severità ed austerità di forme eh' et merita, e che un uomo,, il quale ha
sentimento di sua dignità, rifugge dall’ adoperar contro all’errante.
L’errante è, quanto alla carne ed allo spirito, consanguineo e fratello nostro.
Niun può sapere s'e i non sia più presto un fanatico ed un illuso, che un
perverso, od almeno un gran perverso. Ha sempre diritto al fare in sé
rispettare la santa emanazione del soffio divino ricevuto, od ereditato, nella
fronte. È sempre la creatura celeste, che, se cadde, può rialzarsi, e
che, quand’anche, per propria colpa, è in terra, e più al basso che in
terra, esser dee per noi, più ancora subbietto di compassione, che obbietto di
collera. Ma V errore staccato dalla persona, l' errore lasciato in tutta
la sua schifosa nudità, non ha diritto ad alcun riguardo, e vuol essere
trattato senza discrezione, senza misericordia. Quanto a colui che
avendolo in sé incorporato, sé da quello non distingue, ed a sé stima
dette le ingiuriose parole, che quello solo feriscono, tal sia di lui.
Più di cosi non aggiungo. E forse non era nè manco necessario dir
così : tanto più, che, nell’ antica prefazione, ciò stesso, comechè più
brevemente, aveva significato. 1 discreti perdonino. Gl'indiscreti
riconoscano che queste ciance premesse per lo meno non hanno il torto
della prolissità. wmmm PARERE D’ UN AMICO INTORNO
11 MIO SAGGIO Ho Ietto attentamente la prefazione, e le due
dissertazioni vostre. Io credo che abbiate ragione. Avete però del
pari prudenza? - II mondo è oggi troppo malato. Certe verità dette
con durezza qua e là soverchia fanno l’effetto del dito stropicciato
sulla piaga viva. Il meglio che vi possa accadere è di non esser letto. Se
leggeranno, le grida saranno alte .... terribili. Perchè stuzzicare il vespaio?
Ciò non è degno della vostra vecchia esperienza. Il passato non vi basta?
Pensateci. RISPOSTA Ho pensato .... e stampo la
prefazione, e le dissertazioni. Le considerazioni che mi schierate innanzi
hanno molta verità, ma non mi rimuovono dal mio proposito. La
prudenza ! - Sta ottimamente. La prudenza è però spesso il soprabito
della vigliaccheria ; e in questo caso non è niente altro che un belletto
dell’egoismo. Per non incorrere nel male proprio .... per non
turbare la propria pace .... per non tirarsi addosso disturbi o peggio
.... per non guastar, come suol dirsi, i fatti suoi, s’ban da lasciare,
senza darsene per intesi, le menti umane sempre più travolgersi, le opinioni
sempre più corrompersi, certa gente accrescer la pervicacia nell’errore,
e propagarlo a tutto potere. Sentendosi bollire in corpo la verità
utile, ed affacciarlasi alla bocca, s’ha da ringhiottirla, o sputarla (
scusate la parola ) nel fazzoletto e poi rimettersela in tasca, quand’anche s'è
persuasi, che a gittarla là alla palese sarebbe bene ; che questa verità
messa in pubblico sgannerebbe alcuni r eh’ essa suonerebbe alto all'
orecchio d’altri, e servirebbe a svegliarne il coraggio addormentato, o
gioverebbe almeno a restare come testimonio a’ futuri che v’è, pur tra
noi, qualcuno, il quale ricusa le complicità, protesta virilmente
contro alle cattive e rovinose dottrine, se ne sdegna com’è il suo
debito, ed è disposto a mostrare, che chi sproposita e minaccia scompigli
e rovine, invano si confida d’avere il monopolio della franca ed ardita
parola. Io vi ringrazio, caro amico: ma voi m’amate troppo.
Non pensando, che al mio privato materiale vantaggio, avete dimenticato a mio
prò il resto del mondo. Io sento d’ amarmi men di quel che voi mi amate.
Intendo benissimo, che scrivere com’ io scrivo, è prepararsi disgusti
.... e forse peggio. Ma considero ch’io son vecchio, e nell’ ordine
naturale poco ancora mi resta a vivere. La mia povera e caduca persona non è
ornai di tal prezzo che siavi interesse per me a risparmiarla. È
lungo tempo da che ho perduto il sapor delia vita, e che le sue
dolcezze non mi fanno gran gola, nè le amarezze grave offesa al palato. La lode
è un amo che non mi passa la pelle. Il biasimo ( dove creda non meritarlo
) è un’ortica che non mi punge. La minaccia è contro a sì poco che a
tenerne conto è una miseria. Di me sarà quel che piace alla Provvidenza. Nella
minuzia di tempo che a vivere mi rimane, vorrei pur fare il bene nella
maggior misura che posso, a qualunque mio costo. E poiché il pubblicare queste
mie carte mi sembra, che o in una guisa o nell’altra qualche bene
possa recarlo, perciò le pubblico. Al mio male quale che siasi,
dunque, non ci badate, com’io non ci bado. Fate conto ch’io sia soldato.
Sarebbe pur bella che al soldato si consigliasse di pensare alle ferite, alle
quali battagliando s’espone ! Per altra parte, a me tocca
ricomperare il tempo perduto, ed affrettarmi a farlo. Troppo mi dorrebbe il
lasciare di me tal memoria in questo mondo che dia giusto diritto a
suppormi quale certe antecedenti particolarità della mia vita possono aver
fatto credere ch’io mi sia. Non nego, e sarebbe ridicolo il
negarlo, d’avere avuto anch’io le mie politiche illusioni ( certo però
non quelle di gran lunga, le quali oggi corrono il mondo, e sono in
gran favore presso tanti ). Sento il dovere di far conoscere a
qualunque prezzo ch’io non sono mai stato da confondere col più de’ cosi
detti liberali d’ oggidì, e che istruito ornai ioti all’ esperienza, non
sono nemmen da confondere con quell’io che già fui, e molte mutazioni ho in me
fatto. Costi ciò tutto che s’abbia da costare al mio amor proprio, voglio
che Io si sappia. Gli altri posson tacere ; io non lo posso, nè Io debbo.
E so che dirassi da taluni ch’io adulo que’che regnano. Veramente
crederei che tutta la mia vita passata m’avesse da essere scudo contro
alla bassezza di questa accusa ; tanto più che quegli stessi i quali la
daranno (dove tuttavia questo ardiscano ), dovrebbero ricordare, se quando essi
regnavano pur testé, io li adulava. Sarebbe avere aspettalo un po’ troppo
tardi a mutar natura. Ma voi dite eziandio, che il mondo è troppo malato,
e che le sue piaghe non vogliono esser toccate com’ io qua e là le
tocco, senza molta discrezione. Caro amico ! la vostra seconda
proposizione distrugge la prima. Se accordate che la malattia del mondo è
grave, pretendete voi di curarla coll’acqua di gramigna? Eh si: vi son
medici che non curano le malattie, ma si contentano di guardarle. Se
morte sopravviene, tanto peggio pel malato. Il medico se ne lava le mani.
Io non sono di questa scuola. Vi sono piaghe che han fatto il callo,
evoltano tutta la malignità aldidentro;ed allora l’arte insegna di
trattarle col caustico. Si fan cerimonie, e si risparmia la sensibilità quando
il male é leggiero; e questo, per vostra confessione, non è il nostro
caso. Da ultimo io vi prego a considerare ch’io mi guardo scru *
pelosamente dall’attaccare le persone. Il mio dogma é Parme personis,
dicere de viliis. Contea il male non mai congiunto al nome di tale o (ale
altro, credo mio diritto, e — li — mio debito scagliarmi con
tanta più veemenza quanta mi sforza ad usarne l’animo grandemente
commosso. Delle persone io non sono, non voglio, e non debbo essere il giudice;
nè v’è il prezzo dell'opera ad esserne il pubblico accusatore. Per altra parte
il pubblico non perde nulla per cagione delle mie reticenze. Le persone
s’accusan da sè. La loro moda è di non dissimulare quel che pensano,
quel che vogliono, quel che van facendo. Per chi’ scrivo? Pei
popolo? Il popolo non legge. Tra que’ che leggono, gli uni non han
bisogno di leggere ciò ch’io scrivo, perchè ciò eh’ io scrivo è quello
che essi medesimi scriverebbero se avessero a scrivere. . . quello che
sanno già, e di che sono persuasi tanto quanl’ io lo sono. Gli altri, nel
maggiore lor numero, son oggimai venuti a tale, che, quand’anche io fossi
aitr’ uomo da quel che sono, cioè, quand’anche fossi più eloquente oratore di
Demostene e di Cicerone, e più stringente ragionatore di Zenone, e d’
Aristotele, non si lascerebbero smuovere dalle opinioni loro, delle quali han
fatto carne e sangue. . . una (falsa) religione... un culto... una
necessità... una parte principalissima, e la più soave, delia lor vita
interiore ed esterna. Ove fosse pur possibile che consentisser d’aprire
gli occhi dell’ intelletto alla luce de’ ragionamenti, e si lasciassero
illuminare nella cecità alla quale son venuti di deliberato e volontario
proposito, e vedessero, perciò vinti, il bisogno d’ abbiurare la politica
fede in che Guor vissero e giurarono di morire, non oserebbero farlo,
vincolati, come sono (impavidamente diciamolo), alle sette che li tiranneggiano
e ne tengono in catena ogni libertà. Cosi, solo a pochissimi, posso io
rivolgere la parola con qualche speranza che sia per tornare non inutile; e son
que’ pochissimi, i quali non tanto innamorarono del creder nuovo, che di
questo credere abbiano a sè fatto una passione, e non un legittimo atto
della facoltà intellettiva, al quale sian giunti per lavoro di
ragionamento, soggetto, come tutti i legittimi atti di ragione, alla
necessità di sottostare alle leggi che governano la potestà raziocinante,
e che debbono dominarla. Io m’inganno però anche rispetto a
essi ultimi. Noi viviamo in un secolo, nel quale la ragione stessa è come morta
dell’abuso che se n’è fatto esagerandone i diritti, e falsificandoli.
Due già erano, dal tetto in giù ( e voglio dire nelle questioni dove
rivelazione non ha luogo ) gli elementi necessari — coessenziali.... tendenti a
rafforzamento reciproco, per dare fermezza alla morale governatrice delle
volontà e delle azioni umane, ragione (d’individuo), ed autorità (collettiva
dei più savi, la cui ragione siasi guadagnata, per ogni correr di secoli,
maggior fede presso l’universale, che le spicciolate ragioni di tale o
tal altro o di stuoli comparativamente piccoli, e d’un opinar dissonante ). Il
qual secondo elemento ( l’ autorità ) è dunque ( a ben considerarlo nella
sua vera e giusta natura c quiddità ) ragione aneli’ esso, ma una ragione
preponderante e superiore, come quella che non è il giudicare soltanto d’
alcuni separatamente presi, e ristrettisi nella lor propria e privata
impotenza, fallibilità e pochezza, ma è la quinta essenza delle
ragioni dei più ( chè questa sola, dai tetto in giù, pur sempre, in
certe questioni di senso comune, è l’ autorità vera o legittimamente sovrana ).
£ dico dei più, o sia che si contino nel numero, -o che si pesino nel
valor loro intellettuale: i quali perciò, quanto son maggiore stuolo nel
lor consenso prestato a equipollenti sentenze .... quanto
rappfesentan meglio, colla lor somma, tempi e scuole e popoli
diversi... quanto hanno maggiore e più costante comunion di pareri,
non ostante la diversità di sangue, di luogo, d’educazione, e di tutte le
secondarie influenze, tanto fan più sicuramente una forza morale, clic è forza
di natura, non d’arte, e che è qualche cosa più potente e più salda che
la tanto oggi predicata sovranità del popolo; poiché èia sovranità, non
d’un popolo, ma la sovranità della specie umana tutta intera, esprimente
il suo voto colla più legittima e la più autorevole delle maggioranze
possibili ad ottenersi. Or noi, uomini del secolo XIX, de’ due
soprannominali elementi, uno e il più gagliardo, ripudiammo... Y
autorità-, ed abbiamo chiamato sovrana unica la ragione
(d’individuo), cioè V anarchia! Noi, tutti o quasi tutti
(dico noi ragionatori nel popolo, e consenzienti a ragionamento ) abbiamo
stabilito in cuore questo primo articolo del nostro atto di fede
politica. Io non crederò mai che quello che persuade il mio proprio intelletto;
e quel che pèrsuade il mio proprio intelletto io io crederò conira ogni
persuasione degli altri, contra ogni dottrina di sapienti o di popoli, contra
ogni sperienza di presenti, di passati, o di futuri, contra ogni domma di religione,
contra ogni legge di governi... E stabilita una volta questa democrazia
delle fedi... decretato anzi, che, in argomento di fedi d’ogni genere, non è
governo alcuno possibile, ma gli uomini han tutti naturale e iualienabile diritto
d’indipendenza reciproca ed assoluta . . . dove ornai vassi, ed a che?
posto che le fedi, cioè le persuasioni dell’ intelletto, sono il perno, sul
quale s’appoggiano per muoversi le volontà umane. C’è più possibilità di leggi?
C’è più speranza d’obbedienze, altre che tirate colla forza materiale?
C’è più virtù di logica? C’è più società ? (li ISullius addiclus
jtirare in rerba mtigtstri ama ogni giovane dire di sè slesso uscito
ap|»ena dalle scnole di quella filoso- [Persuadetemi, noi diciamo, e mi
piegherò ad obbedire, senza combattere il vostro comando con ogni mio
mezzo. Persuadetemi che quel che m’insegnate è vero, e quel che
lia, che oggi, sotto Dome d’ eclettica, invade un grandissimo numero di
scuole, e quel eh’ è il peggio, anche colla innocente approvazione, e sotto il
patronato, di maestri ottimi, i quali mostrano di non aver ben compreso a
quale indirizzo con ciò guidano gl' illusi discepoli. Se l'avesser compreso,
si sarebbero accorti, che professare eclettismo è professare la negazione
d’ogni vera certezza, riducendo quella maniera di certezza, che pur si
concede, ad un fenomeno d’individuo senz’alcun valore per gli altri
individui liberissimi di preferire ciascuno la stia propria certezza alle
opposte altrui, comechè d’un numero quanto sì vuol grande, c consenzienti
in una medesima opposta sentenza. L'eclettismo non è una filosofia,
ma una negazione della filosofia quale scienza altra che opinativa. Essa
è anzi peggio che ciò, perchè mentre nega una certezza intrinsecaad ogni
filosofia d'individuoo d’individui (per numerosi eh’ essi siano nel
consentimento ad una stessa filosofìa), e mentre non s’ avvede, che con ciò
viene a negare, per conseguenza, ogni autorevolezza intrinseca a tutte le
certezze individuali, confessandole tutte intrinsecamente incerte,
accorda non pertanto a ciascuno il diritto di fidare nella propria
certezza, e, quel eh' è il più, il diritto di regolare le proprie azioni a
dettato di questa incerta certitudine : ciocché viene a dire, che, nel tempo
stesso nel quale afferma la fallibilità di tutte le certiludini individuali,
afferma nondimeno f infallibilità loro nell’ applicazione all' individuo,
dando a esse il diritto d’ingannarlo, e all’individuo il diritto di
seguitare unicamente questa guida fallace, quando, a proprio esame, non gli
paia tale. E cosi, in luogo d’ una morale, viene a stabilire e farne legittime
tante quante piu vuoisi o non vuoisi. L'eclettismo non è nè
manco un metodo, come alcuni spropositando dissero, perchè non indica- una
speciale strada da seguire nella ricerca del vero. Esso è niente più che una
professione di libertà e d' indipendenza nell’opinare ; è un assoggettamento a
niente altro, che alla ragion propria. Filosofia eclettica è parola
che non ispiega nulla quanto alla natura delle dottrine. Dice solo che il
libro, il quale reca in fronte questa parola, è scrìtto seguitando il dettame
della ragione dello scrittore, fattosi giudice supremo d’ ogni ragionamento ed
opìuamento altrui. Cosi, tutte le filosofie, per diverse che siano, c 1’
una all' altra contraddicenti, possono intitolarsi, del pari, eclettiche,
e tanto più eclettiche, quaulo più professanti indipendenza. Messo
taluno alte strette, crede d'aver salvato a bastauza la mala parola si
fecouda d’errore, rispondendo che il filosofo eclettico, quando accorda
alla ragion propria l' autorità che pur le accorda secondo il canone fonda[che
nii comandale è giusto . ... Ma siam noi tutti atti ad essere persuasi?
Gl’ingegni nostri son tutti di quella virtù, di •* quell’addestramento,
di quella purità e serenità, che li fa esser buoni a intendere un
raziocinio, a non lasciarsi illu men late dell’ eclettismo, parla della
retta ragione, cioè convenientemente usata e normale; e non s’ accorge,
che, colla sua risposta o rinega la scuola eclettica e la disdice, o ne lascia
interi tutti gl’ inconvenienti ed i difetti. Che cosa è la retta
ragione, e la ragione convenientemente usata, e normale ? Ad esclusione de'
notoriamente pazzi ed universalmente tenuti per tali, e perciò per non
uomini, o per non più uomini ; e de’ rozzi ed incolti, che riscuotono
risaie da tulli, e son tenuti universalmente per incompetenti, ossia per
non ancor uomini (i quali ultimi tuttavia del ticchio dell’ eclettismo
non vanno immuni, nè si di leggieri della loro autocrazia e indipendenza
si lasciano spodestare ; e il fatto odierno di tutte le filosofìe di
piazza più che troppo lo prova ), ognuno di noi, che abbiamo il mesticr
d’ occuparci di studi e di stampa, crediam d’ usare la ragion retta, e
convenientemente usarla con ogni normalità, e troviam facilmente, con poco
impiego di senno ed industria, un coro grande o piccolo di lodanti, il
qual basta per darci persuasione, che la ragion nostra è per lo meno tanto
retta e normale quanto quella di chicchessia. Peggio è che vi son uomini, di
ragione, per fermo, squisitissima, e universalmente riconosciuta come tale, de’
quali, per conseguenza, mal si potrebbe dir che non hanno la ragion retta ed a
ottima norma, e non sanno usarla ; e pur mostrano, col fatto, che le loro
ragioni li conducono a dottrine opposte.... 0 vuoisi dire che la
ragion retta e normale si riconosce a certi criterii suoi, che non sono
della ragione d’ individuo, ma sono d’ una universale ragione, a' quali
criterii debbono le ragioni individuali commensurarsi, accettandoli per una
norma estrinseca alla quale debbano affarsi ? Ma ecco dunque rinegata
allora e disdetta veramente la scuola eclettica, e confessato il bisogno d’un
dommatismo,' al quale debba soggiacere ogni opinar privato, perduta la libertà
della ribellione c l' indipendenza.... Facciasi tutto che vuoisi,
ci è appunto nella filosofia necessità d’ un dommalismo dominante i capricci e
le contraddizioni degl' ingegni in certe fondamentali questioni costitutive del
viver morale e civile. L 'eclettismo potrà permettersi all’ amor proprio
d’ognuno nelle altre questioni, come una concessione di poco o niun nocumento.
E nondimeno, anche in quelle, il giudizio dell’ individuo dee sottostare al
senato degli uomini che si chiaman competenti . . .. Ma
questo non è un argomento per una nota, per la quale il poco che se n’ è
detto 6 troppo, mentre ciò che ad una nota è troppo, ad una trattazione
conveniente è men che poco . ] dere da un sofisma, da un
paralogismo, a por nell’ esame * delle questioni la necessaria
preparazione di scienza, a spogliarsi di tulle le prevenzioni dell' intelletto,
dell' affetto, dell’interesse? Siam tutti veramente uomini ed uomini maturi;
o molti di noi non sono, e non restano, fanciulli sempre, e non sono, e non
restano, bruti, o quasi-bruti ? A tutto questo nessun pensa a
rispondere. Il primo articolo del simbolo de’ nuovi pseudo-apostoli sta pur
fermo. Io non crederò, se non mi persuadete; e non farò di buon
accordo, e senza resistenza, che quello che sarà conforme al mio credere
! Dirassi eh’ io esagero gli errori del tempo presente. J)irassi,
che non tutto alla sovranità del proprio intendimento è dato, ma non è, nel
fatto, chi non fortifichi, ancor oggi, le suggestioni del proprio intendimento
coll’ autorità di numerosi stuoli d’ amici e d’ uomini del proprio
partito, ovunque sparsi, e in più d’un paese predominan ti. Aggiungerassi,
che la fede nou è atto di libertà, ma di coazione morale, alla quale l’
intelletto-, che nou è potenza libera, non può resistere : ma faci! cosa è dare
risposta. Si, per fermo. Contro alle necessità imposte da
natura non cosi di leggieri vassi. O vogliasi, o non si voglia, non
si può restar soli del proprio parere, se nou s’ è monomaniaci, che è dire
malati di cervello. L’istinto stesso ci spinge a metterci all' unisono con
altri, verso i quali ci attraggono simpatie naturali o artificiali, e a’ quali
si crede, perchè si crede a noi medesimi : e v’ è in noi tendenza al formarci
un mondo di que’ che ci accostano, e che accostiam noi, magnificando ed
esagerando il valore e il numero loro. Cosi, quando il mondo che ci siaui fatto
pensa e crede come noi, e noi crediamo e pensiamo come quello, ci palelle
qiiesta universalità parziale e locale valga la vera universalità potente a
vincere tutte le contraddizioni. Ma può ella esser questa l'autorità
destinata a fare spalla alla ragion privala di chicchessia, o ad essere
uno de’ due puntelli del I' uomo, postigli da due lati per impedirgli il
cadere ? La specie umana è forse un partito, ed è una ragion di
partito la ragione umana? I partili forse non s’ingannano, e non
ingannano? Non hanno passioni che velano il giudizio? Non hanno interessi
che muovono le passioni? O nou v’é obbligo, nelle grandi questioni umanitarie,
non di misurare il proprio deliberare e credere col deliberare e credere
di ((udii, o pochi o molli, a’ quali ci stringono i nostri interessi e i
nostri affetti, ma di misurarlo con quel che delibera e crede la sola legale
maggioranza del genere umano, cioè quella che si raccoglie in una somma,
comprendendo nel computo i popoli di tutte le età, di tutte le stirpi, di
tutte le regioni, e dando particolar valore a que’ che si reputaron sempre
i più savi, i più probi; e riguardando un po'nella verificazione
delle dottrine ( in virtù di quell’argomentazione che i dialettici
chiamano ab absurdo) ai grandi ed ultimi conseguenti loro, i quali, se
contrari alla perfezione della specie intera, significano, con ciò stesso,
efficacemente, la falsità d e’ principii, donde que’ conseguenti
discendono? E istituita questa misura e questa comparazione, non bassi egli
obbligo, per una generale norma, di dar sempre più valore
all’espressione ultima di quel sentimento della vera maggioranza degli uomini,
che al sentimento suo proprio, e de’ suoi colleglli ed amici, per
numerosi che paiano e siano? o siani venuti a tanto stravolgimento di
logica, che ornai l’ autorità di ciò che si chiama il senso comune, ed è
appunto il da noi descritto in ultimo luogo, è distrutta ed annullata ?
Dopo di che, qual forza ha più l’altra obbiezione dedotta dal
supposto, che l’inlelletto non soffra violenza, e che, rispetto al credere, non
si è liberi di credere quel che si vuole, ma si è costretti a regolare la
propria fede secondo la luce interiore, d’onde essa fede ha unico procedimento?
Ammetto il fallo: sebbene, anche in ciò, molto dipende dalle preparazioni
estrinseche della monte, e dalle disposizioni del cuore. Pur liberalmente lo
ammetto. Ma, dal fatto cosi ammesso, qual diritto scaturisce ? Forse che
regolar dobbiamo le nostre azioni interne cd esterne, secondo la suprema norma
di quel che all’ intelletto nostro pare unicamente vero? Non già.
L’obbligo è d' umiliarci, e di riconoscere, una volta per sempre,
l’inferiorità del nostro intelletto, quando ci accorgiamo che i privati
opinamenli nostri son contraddetti dalla grande universalità degli
opinamenti dell’umana famiglia, considerata nella totalità sua presente e
passata; e di lasciare allora da parte il falso lume del proprio
intendimento per diriger noi e le cose nostre coll’altro lume tanto più
sicuro, eh’ è il lume a cui demmo il nome di cornuti senso. Ed
intendiamoci bene, a evitar tutte le ambiguità. Qui non parliamo delle
questioni, intorno alle quali il cornuti senso non ha luogo, ne
competenza, nè autorità... di quelle questioni, che non son fatte per
esser trattate da tutti, e che non bisognano a tutti per la -loro normale
esistenza e sussistenza... Qui si tratta di quelle questioni, le quali
possono e debbono chiamarsi le grandi questioni del genere umano: le
grandi questioni teoriche, fondamento sommo da fatti appartenenti
ad un tempo di tralignamento, a svantaggio e discredito delle aristocrazie, non
può in nulla percuotere le dottrine che qui si professano. La questione
allora sarà al più, se i ceti aristocratici possano mai realmente preservarsi
dalle mutazioni che li fan perniciosi più presto che utili, e ridursi a
tale di conservare piena conformità col tipo migliore, o di riguadagnarla
; ciocché per me non è nemmeno una questione, e non può esserlo per
alcuno, il quale tutta la potenza delle buone arti educatrici conosca.
Risaliamo dunque, ripeto, al tempo di certe vere ed antiche aristocrazie
cavalleresche, normalmente condotte a quella natura, che aver denno per
essere dell’utile specie da noi voluta, e spesso stata e vedutasi nel
mondo. In esse voi troverete familiari alcune virtù sommamente utili
al popolo, e diffìcilmente reperibili altrove nel numero e coll’abbondanza
che più sono desiderabili. Chi noi sa ? Nelle prosapie
aristocratiche, principalmente, se non unicamente, può sperarsi- di trovare, ad
ogni necessità, i veri patres palriae, preparati a tutti i bisogni
; cioè quegli uomini autorevoli, potenti, coraggiosi, avvezzi a mettersi
fuori si dignus vindice nodus, godenti già il privilegio d’essere ascoltati con
riverenza, con effetto, assennati, sperimentati, periti, probi, pe’quali è
fatto naturai dono, ancor più che artificiale, tutto che è generoso, nobile,
magnanimo, eminentemente civile ed utile a civiltà ; e prima la lealtà
oggi si rara, il eaudore, la fede, la incorruttibilità, la fermezza, il
disinteresse, la franca ed inviolata parola, quella che proverbialmente pereiò
si dice parola di cavaliere ; il mantenere a qualunque costo i patti
e le promesse ; il non mai mentire ; il religioso astenersi da ogni
cosa vile o brutta... Non è la santità de'perfelti in religione,
nobil dono di Dio, e privilegio sommo di grazia, sdegnoso per solito
di queste cose terrene e caduche ; è la virtù antica e civile, una
cosa illibata, ingenita, uscita dai paterni lombi, ed avuta da natura,
più ancora che da innestato ammaestramento ; che perciò non costa fatica, nè
sacrificio, ma è ab ovo e per traducem, fin dal primo impasto dell’uomo e
della razza. — Con questo, è l’abitudine dell’ anteporre
l’interesse pubblico ed altrui al proprio e privato... è la naturale generosità
e larghezza... è il preferire quasi istintivo del retto all’ utile... è
la disposizione avita di tutte le cosi fatte stirpi a eminenza di
cittadine virtù ed attezze... il primeggiare nel ci vii senno e
consiglio... il gittarsi innanzi, come il ’ prode destriero al romore
delle battaglie, anche non chiamati, nè pregati, né desiderati, in tutti i
grandi e solenni bisogni della cosa pubblica, senza risparmio di sè e
delle sue fortune... il trovarsi pronti e preparali a soccorso, a
protezione, a sosteguo, a sovvenzione, a incoraggiamento, a guida, a ufficio di
capitani e di porta-bandiera. E I’ esser sempre caporioni agli altri nel
bene, e caporioni efficaci, ascoltati, sentiti, rispettali, obbediti...
l’aver coraggio civile o militare secondo clie fa d'uopo... il guardare
dall'alto al basso il puro e vile materiale interesse, e il cercar sempre
nelle questioni il lato della moralità e della giustizia...
Non mi state a dire che queste qualità preziose son rare come le
mosche bianche. Rare forse oggi, vi ripeto : ma non rare in ogni tempo ;
non rare quando gli uomini s’educavano a modo antico. E se si riusciva ad
ottenerle, quando a quella forma s’ educavano essi, io non veggo,
perchè richiamando le stesse cagioni, non s’abbiano ad ottenere, e non si
possauo, gii stessi effetti. Non mi venite a soggiungere, che
altrettanto e meglio, per forza di conveniente educazione, puossi
ottenere fuori delle privilegiate caste. L’educazione è cosa sempre
troppo artificiale, e troppo perciò difficile a condursi a buon termine,
se natura non agevola, e condizioni intrinseche non favoriscono ; e l’una
e l’ altre non favoriscono, se fin dai primi istanti non concorrono ; e
dai primi istanti non concorrono che assai di rado, e solo con qualche
frequenza, quando certe disposizioni son fatte dono abituale per
lunga serie di generosi avi, e quando ogni cosa che è intorno le
seconda. Imperciocché indipendentemente da quel che allora è dato per una
felice armonia del fisico col morale improntata per concepimento, v’è lo
spontaneo innesto che nou può mancare a chi è uato in mezzo alle morali
qualità che si voglion generate ; a chi le ha trovale in casa, e
n’è stato cinto da ogni parte fin dalla prima infanzia -, infine a
chi non ha incontrato, anche uscendo" di casa, che quelle, come cosa
propria della casta in mezzo a cui vive. Le quali cose tutte non sono,
per fermo, allo stesso modo, in uno stato dove non è che democrazia,
pe'figliuoli degl’ingenliliti da un giorno, e degli arricchiti. Perchè in
questi per solito le ricchezze e l’innalzamento è dall’industria
mercantile o quasi-mercantile ; e l’industria delle mercature e de’com
fu merei, pur troppo, a esser promossa, e tanto da generare tesoro,
ha bisogno d’accompagnarsi con amor di guadagno, e d’ esserne preceduta
come da suo naturale stimolante : amor di guadagno, che è passione per sè,
non dirò vile, ma certo un po’ bassa, e non troppo generativa di virtù politiche.
Ed ha radice d’egoismo e d’interesse materiale e personale, due interessi che
non poco penano a subordinarsi all’interesse morale, tanto da contentarsi
sempre delle seconde parti. Donde poi viene, che nelle case di si fatti
(non ch’io neghi molte onorevoli eccezioni) gli esempi non sogliono esser
quali in quelle della vera e buona aristocrazia ; e colla rarità di
questi esempi va proporzionata la difficoltà della fruttuosa educazione
di che favellavamo. Che se, pe’fin qui discorsi argomenti, s’ è
dunque cercalo di provare, che utile pertanto è l’aristocrazia, rispetto
al creare, con un buono e conveniente indirizzo, una schiera di cittadini
egregi, quali con arte di speciale istituzione applicata a’ primi che presenta
il caso, o la fortuna, è difficile ottenerli; già possiamo a un altro argomento
venire, e sarà l’argomento di un secondo e ancor più elevato interesse politico,
il qual consiglia a mantenere, quantunque dentro giusti contini, un ceto
aristocratico nello stato; c questo è l’interesse cornai at or e. Il quale
interesse, naturale antagonista delV interesse riformatore, molti non vogliono
conoscere utile, perchè non vi pongon mente : e, non avvertendolo, non
se ne fanno una chiara idea. Ma non perciò non esiste; e non è
rilevantissimo, e tanto anzi più importante, quanto le forme del governo
son più liberali, e tengono delle repubblicane, o delle rappresentative e
democratiche, e quanto v’è più grande l’autorità delle turbe
popolari. Perchè il proprio delle democrazie, come in generale
dei popoli e de’tempi tendenti a democrazia, è, in politica, il
moto perpetuo. Un paese dato o soggetto alla dominazione, od alle forti
influenze de’ capricci, di quello che fu e sarà sempre varium et mutabile
vuigus, è come dire un terreno in man d’una compagnia d’ agricoltori,
ognun dei quali vuol coltivare a suo modo ; e dove, secondo che uno
riesce a prevalere sull’ altro nella lotta delle volontà, e nella pertinacia
e nella validità de’ contrasti, distrugge l’opera de’compagni, e rilavora, e
risemina a suo modo. Il qual terreno lascio decidere a chicchessia se può mai
prosperare, e dare un frutto che valga le spese, e le fatiche
periodicamente abortive. Un tal paese è sempre sul disordinarsi, e riordinarsi
per disordinarsi di nuovo, e tornare ad ordinarsi: come ciò accade del
mobile campo del mare a ogni nuova aura che spiri, non importa da qual parte.
Le leggi non vi durano. L’espcrienze lunghe non vi si maturan mai. Le fortune
vi sono instabili, come le dignità, come le influenze, come le ricchezze,
come le risoluzioni. Ora un tal paese, per avere una qualche speranza di
requie, e di rallentamento negl’impeti inconsiderati del moto, ; per non
lasciarsi perpetuamente allucinare da false apparenze di mali, da false
apparenze di beni, giudicate secondo la prima impressione, e guidanti a
fatti spesso inconsiderati e rovinosi, ha bisogno che sia, nel popolo, un
certo numero di cittadini saldamente potenti (ciocché non vuol dir prepotenti),
i quali mettano nella bilancia disposizioni opposte ; cioè appunto quelle
disposizioni che si chiatnan conservatrici, com’é il proprio delle
aristocrazie, alle quali tutto fa invito a temere i troppo rapidi mutamenti, e
a temperarli, facendo per propria essenza l’officio del regolatore nell’
orologio, e della scarpa nel carro, non per arrestare l’ andamento, o per
voltarlo io contrario, ma per fare necessario contrasto alle
accelerazioni dissenna te, e per impedirne le aberrazioni pericolose. Né
voglio, a provarlo, altra dimostrazione che quella delle prove storiche,
dalle quali risulta che nessun paese prosperò mai lungamente, dove un robusto
ceto aristocratico non si ponesse in mezzo tra le facili velleità delle
plebi e de' municipii, tra i piccoli e gretti interessi del terzo stato
... tra le tendenze agli abusi del potere in più alto luogo; c non concorresse
con ciò validamente e in modo principalissimo alla costruzione diffìcile del
buon governo. Finirò enumerando i beni accessorii, che a lutti i
precedenti van connessi. Unicamente coll'aristocrazia, che si tiene ancorala
sopra una ricchezza immancabile ( non fluttuante, non fortuita, non nata oggi o
ieri, c non destinata a perire domani), e sopra tradizioni antiche di
potenza, e sopra le aderenze numerose e gagliarde che la corroborano, e
la fan per cosi dire immortale, sono possibili, od almen frequentissimi,
tanti abbellimenti delie città ; que’ palagi, de’quali parlavain sopra,
che sffdano i secoli, e che son come reggie; i musei, le ville, i parchi, le
splendide ed ereditarie proiezioni alle belle arti di lusso, alle lettere,
alle scienze; i costumi gcutili, il secolo di Leon X, la considerazione
al di dentro, e al di fuori, la dignità c il decorodelle nazioni.
Solamente coll'esistenza di famiglie, la cui poderosa influenza sugli uomini e
sulle cose abbia grande ed antico ed esteso fondamento, è lecito sperare ad
ogni privato facili appoggi e saldi nelle solenni necessità d’ogui genere,
ferma resistenza contra ogni nemico interno od esterno che minacci lo
stato e la città, c perfino la miglior guarentigia possibile contra gli
abusi d'autorità, procedenti da ogni alto luogo. Questi abusi,
possibilissimi anzi dove non sono che governo e popolo più o meno minuto,
e qua c là ricchi senza consistenza e senz’ altra fede che nella loro pecunia,
non possono esistere o sussistere gran fatto dove quel terzo elemento
dello stato è fortemente costituito su basi ben radicate che non tremano ; le
combinazioni ternarie, in queste faccende, piu essendo valide ad impedire
le abusive prevalenze da qualunque parte, c quindi le prepotenze di qualunque
origine. Ivi i facili rivolgimenti c sconvolgimenti trovano remora gagliarda e
principalissima, distrutta la quale i Iremuoti politici si succedono a ogni piè
sospinto ; e dura pròva più d’un paese n’ha falla in questi nostri lagrime
volissiini tempi. Di qui è che la sapienza antica, per voce di Platone c di
Cicerone, cosi appunto sentenziava ne’ libri De republica. Si ama favellare
soltanto delle soperehierie de’ nobili, di certe violenze che alcuni di
loro si permettono, di certi mali ch’essi han prodotto. Bisogna, com’ io
diceva, pesar più giusto, e mettere su la bilancia nell’ altro piatto i
vantaggi. Quando avrete distrutta la nobiltà, e avrete solo
tollerato quella ineguaglianza di fortune, che non siete padroni di distruggere,
e che resisterà ad ogni vostro tentativo livellatore, avrete tanto e tanto le
stesse violenze e le stesse soperchierie da que’che avranno la prevalenza di
fortuna, ma le avrete senza il correttivo ed il freno che per sua natura
è chiamalo a mettervi il buon patriziato per una dicevole educazione e
tradizione. Servio Tullio, fin dai tempi regii di Roma, non annullò
questo ; ne moderò i poteri ; e provvide con ciò alla fuUira grandezza di
quella ch’era destinata ad essere la capitale del mondo. La elevazione di
Roma repubblicana è dovuta principalmente al suo senato di patrizi. Le
successive invasioni della plebe alzaron molli di quesla sino a quello,
cd era giusto ; non abbassarono quello fino a sè, che sarebbe stato
follia. . . distruzione di Roma. I Cesari lolser di mezzo, o snaturarono
l’organo politico, pel quale Roma dominò la terra ; eslcrminarono le
grandi famiglie, fecer perire l’ antiche tradizioni, tolsero ogni impedimento,
ogni potestà tra sè e il popolo, e con quale effetto non ho bisogno di
ricordarlo ad alcuno. Venezia ed Inghilterra. . . la Venezia de’ passati secoli,
l’Inghilterra d’oggidi, son altra prova storica e splendida della mia tesi. I
soprusi e gli abusi di potere si possono correggere, impedire, medicare;
il male della mancanza della nobiltà è immedica bile nel materiale e nel
morale. . . E la nobiltà è zero senza ricchezza ; e la ricchezza è
labile senza fedecommessi. Dunque i fedecommessi, oltre al non essere
ingiusti, oltre all'essere senza detrimento al paese che li ammette, gli
sono necessari (1). (1) Di qui è, che, a mio senso guardando alla
ragion politica, possono nelr eredita fidecommissaria difendersi anche certe
sostituzioni, e certi passaggi di famiglia a famiglia come mezzo di
perpetuare i gran nomi, la memoria de’ grandi servigi, e gli obblighi che
queste memorie traggon seco. L'argomento è degno per lo meno di nuovi esami.
Non è il mio Bne l’intraprenderli. N- B. Dopo stampale, una prima
ed una seconda volta, queste lettere, un vicino paese fu, nel quale i
maggiorati s’ abolirono, disputatone prima, come e quanto lo si poteva
aspettare, nella camera dei suoi deputati, e nel senato de’sapienti del luogo.
Nè negherò, che, vista la coedizione de'tempì e delle opinioni, il
conservarli sarebbe quivi stato un’ anomalia ; certo una disarmonia con tutto
il resto. Nel fallo, si guardi meno alla quistione assoluta, che alla relativa
; e meno la relativa al piti o manco di vantaggio del popolo, e in generale
dello stato, ebe ia relativa all' andamento politico in cui lo stato s'è
colà messo, ed alle necessità che ciò s'è tratte dietro. La questione giudicata
oggi cosi sta donque forse bene. Bisognerà vedere se ugualmente starà bene
domani. DELLA LIBERTA’ E DELL’EGUAGLIANZA CIVILE. -DEL GOVERNO E DELLA
SOVRANITÀ’ IN GENERALE. - DELLA COSI DETTA SOVRANITÀ’ DEL POPOLO E DELLA
DEMOCRAZIA. -DEL VOTO UNIVERSALE. DELLE RIVOLUZIONI E DELLE RIFORME NEI
GOVERNI EC. Al REPUBBLICA*! RICOVERATI
IH IHGBlLTERRA E ALTROVE Il ne faut pas vous le dissiniuler.
Le peuple, ainsi que la bourgeoisie n’a nulle confianee en vous. Le
peuple rii de vos pasquinades politiqueset sociales: il vous a connus à
l’oeuvre : il a jugé la puissance de vos moyens et la fécondité de vos ressources;
il a vu poindre, sous volre iniiiative, celle réaction que vous
condamne/. aujourd'bui, mais dont le principe est loujours vivant
dans vos vues et pour rien au monde il ne se sou cie de
riimeltre nne seconde fois ses destinées eulre vos mains.
Tranquillisez-vous donc, et quoi qu’ il arrive, ne vous excilez pas
le cerveau, ne vous écbaufl'ez l.oint la bile. Acceptez en tonte
résiguation le repos que vous fait l’cxil, et metlez-vous bien dans
la téle qu’à rnoins d'unc transformation complète de volre esprit, de volre
caraclèrc, de votre intelligence, volre ròte est lini....
Teuez, voulez-vous queje vous dise louie ma pensée? Je ne connais qu’un
mot qui caractérise votre passò, et je saisis celie occasion de le Taire
passer de l’argot populairc dans la langue polilique. Avec vos grands mols de
guerre aux rois, et de l'ralernité des peuples ; avee vos parades revolulionnaires,
et toutee lintamarre de démagogues, vous n’avez été jusqu’à préscnt, que
des blagucurs. Journ. le Peuple ile
l»bO Articolo di P. /. Prudhon Della libertà nel civile consorzio,
e dei limiti che necessariamente debbc avere. Che cosa
volete, signori maestri del mondo, che si rinnova? - « Libertà ed eguaglianza
nel consorzio civile, nco« nosciute e difese; e, come frutto della libertà e
dell’egua« glianza, la parte di sovranità nel popolo, che a ognuno «
coegualmente spelta per quel che concerne gl’interessi « sqoi, e
gl’interessi dell’universale in correlazione co’suoi. « Perchè, se gli
uomini sono uguali per natura ( e certo lo « sono}, è una iniquità il
farli disuguali per arte; è una slo« Udita il lasciarsi far tali, ed ammettere
maggiori di sé soci pra sè quando piace, e quando non piace. E se gli
uomini « sono liberi per natura, è una iniquità il farli più o meno
a schiavi per arte, e stolidità il lasciarsi far tali, ed ammet« tere padroni
di sè sopra sè, quando piace, e quando non « piace. » - Ma qui vale la
risposta celebre degli spartani a Filippo re - (1). « SE ».
La libertà! Innanzi tratto, parliamo un po’ sul serio: raccordate voi
veramente all’ uomo, voi che pugnate tanto perchè vi si lasci interissima, e
quasi o senza quasi priva di vincoli ? - Ma molti di voi, che chiamano l’uomo
una macchina fisica, so che il libero arbitrio, cioè questa tanto
richiesta libertà, dicono non esistere ; poiché tutto che facciamo,
lo facciamo, secondo essi, per coazione prodotta in noi da impellenti
motivi, interiori od esterni, che prepotentemente, (I) Plutarch.
fìe g.imililale. Edil. Rnisk Voi Vili, 32. Digitlzed by
Google benché occultamente, ci spingono a fare o non fare,
ed a fare una cosa piuttosto che un' altra. Dunque, almen per tutti
cotesti negatori del libero arbitrio, le dimande d’ esser liberi hanno
assurdità manifesta, e mancan di senso, essendo in contraddizione perfetta
colla loro intima e confessata persuasione di non poter esser soddisfatti nelle
loro dimande, nè essi, nè chicchessia (1). Essi sanno, o pretendon sapere, che
chiedono quel che non è possibile dar loro ; poiché quel che chiedono, a
lor detto, è un nulla, un non-ente; e niun può dare ad altrui, se non
illudendolo, un non ente, un nulla, una cosa, che nè ha egli, nè alcun
altro possiede, o può possedere. Dunque la libertà non possono
chiederla, che coloro i quali la credon possibile all’uomo, e che non
risguardano il mondo morale, ossia il mondo delle volontà, come un
conflitto di forze, ognuna delle quali non può non esercitarsi, che nel
modo col quale nel fatto s’esercita, senza che alcuno possa iutervenirvi
per azioni diverse da quelle con che ogni volta in realtà
v’interviene. La libertà, in altri termini, non posson chiederla, che
gli spiritualisti ; e già in ciò v’è molto di guadagnato: perchè
cogli spiritualisti, se sono veramenle quel che dicono di essere, si può
disputare con ferma speranza di giungere presto o tardi a spogliarli di certe
idee, per così dire, superfetate ed aggiunte, contro a naturatile loro
persuasioni di spiritualisti: idee non compatibili con quelle persuasioni, e
tali, che nonèdifficile alla lunga di farle apparir loro quali
realmente sono, riducendole al giusto loro valore. È argomento ad hominem
— Ex ore vestro voi judico. Que’ cbe negano la libertà non solo non
posson chiedere questa, ma non possono, sul serio e da senno, chiedere o
pretendere nulla, nè accusar nulla, nè lagnarsi o adirarsi di nulla, nè trovare
a ridire su nulla. Nella loro ipotesi lutto quel che è o sarà, tatto quel che
si la o si farà, non dipende dall'arbitrio 'di chicchessia. È o sarà, à fa o si
farà, perchè non puh essere nè farsi diversamente. Dimande, lagnanze,
accuse, saranno, per vero, esse pure atto necessario, ma un alto senza
significato, o d’ un signitìcato che non può stare. La proposizione non lo
che accennarla. Il trattarla ex profitto non è di questo luogo. E
che cosa è questa libertà ? - « La facoltà ( rispondono } « d’usare delle
proprie forze, fisiche o morali, nel modo « che più aggrada, la quale (
dicono que’che vi credono ) « è una facoltà primitiva e naturale, e tale
perciò che non si « ha diritto di toglierla. » Intanto, essi che l’
ammettono, si vergognerebbero di non ammettere però, che alcuni di
si fatti usi della libertà propria son buoni, altri cattivi, e che i
buoni usi ognuno è tenuto a praticarli, e i cattivi ad evitarli. Dunque
coloro che ammettono la libertà, .e che perciò ne chiedono alla congrega civile
la maggiore possibile indipendenza e franchigia, concedono almeno una legge
interiore, e naturale, e non abrogabile, data al loro intelletto, che
comanda, consiglia, o proibisce; legge obbligatoria per ognuno. Dunque
concedono, che la libertà, per sua natura, non è poi cosi sfrenata come lo si
suppone, nemmen nell’uom solitario e sottratto perciò ad ogni coazione
estrinseca de’simili suoi, da che è limitata e vincolata da una legge
interna, che notabilmente ne restringe pur sempre i poteri. Anzi,
poiché, conceduto il bene ed il male nelle azioni libere o volontarie,
vengono con ciò necessariamente a concedere la distinzione tra l’uomo da bene e
perfetto, e l’uomo imperfetto e cattivo, conseguita da questo, che per
essi il migliore ed il più perfetto degli uomini è quegli che più
limita le proprie libertà, e che, per conseguenza, nel fatto, è o si fa men
libero; e viceversa, che l’ uom peggiore e più imperfetto è quegli il
quale più ai vincoli della libertà si sottrae, godendo, nel fatto, d’un
più illimitato uso della libertà propria. Qual è l'uomo il più libero ? — Il
ciallroue, che, senza un riguardo per sè o per gli altri, va e fa e dice,
e si veste o sveste, e s'accompagna o scompagna, e si satolla negli appetiti
suoi più disordinati e più bestiali ed immondi a tutto suo grado, gitlandosi
panciolle o rotolandosi in istrada, ubriacandosi nella taverna, appaiandosi
colle sgualdrine, gridando e urlando per via, spargendo motti,
dileggiamenti, bestemmie, ingiurie a questo ed a quello. Or, se la civil
convivenza è ordinata a rendere gli uomini, non più imperfetti e cattivi, ma
sempre migliori e piu perfetti (ed aspetto che qualcuno voglia con
moderna impudenza negarmelo), è chiaro, che quello è il consorzio umano
più conforme alle leggi di natura, in che il male è più difficile a
farsi, ed il bene piu facile. Laonde, se un modello di ottimo civile
ordinamento è a proporsi come un tipo al quale si debbano conformare,
quanto meglio ciò è dato, le umane congreghe, converrà dire l’ideal naturale (
come lo chiamano ) dell’ ottima e perfetta civil convivenza esser quello
dove alle volontà del male è recato il massimo impedimento, alle volontà
del bene il massimo eccitamento e favore, alle volontà indifferenti
quanto a bene ed a male la massima indipendenza : quello dunque dove la libertà
ha vincoli molto maggiori de’ vincoli che le nostre leggi, anche le più
rigorose impongono. Tuttavia confesso, che chi cosi ragionasse
andrebbe troppo in là col ragionamento, massime ove difendesse l’opinione, che
questo ideale sia immediatamente riducibile ad atto nella odierna
condizione delle aggregazioni umane che si noman popoli. Confesso, che,
conosciuto il mondo cosi com’è, e considerato quanto immensamente son gli
uomini ancor lontani, nella lor molta corruttela, dal tollerare universalmente
d’ esser costretti a farsi ottimi, e ad incontrare ostacoli ad ogni azion loro
men che retta ed a bene rivolta; veduto quindi che la legge troppo rigorosa
incontrerebbe innumerabili ribelli, i quali sarebbe presso a poco
impossibile frenare, e colla forza ridurre ad obbedienza, o pur solo punire;
infine, richiamalo alla memoria, che Iddio stesso, nella formazione dell’
uomo, mentre si è contentato di dare ad — Lo 5cln 'rauo clic corre
armalo le campagne taccinlo silo tulio che trova, spogliando i viandanti,
accoltellandoli.... — E qual uomo onesto, nel senso che questa parola
ottiene in ogni vocabolario di popolo civile, vorrebbe essere cialtrone o
scherano ? o eie' specie li ci' il consorzio è possibile ne' cialtroni, e fra
gli scherani?] ognuno le norme del bene e del male, ba però voluto lasciare, a
tutto risico di chi devia da queste norme, la libertà di si fatta
deviazione ; di qui è che, per men danno, e per men difficoltà, i savi,
che dell’ ordinamento degli stati han fatto particolare studio,
avvisarono la necessità di abbandonare al proprio libito di ciascuno il più di
quegli abusi di li bertà recanti a tristo o sconveniente (ine, ma che non
nuocono altrui, riserbato il vincolare con leggi quegli abusi die agli
altri recauo un più o men grave ed ingiusto nocumento, od una indebita e
non lieve molestia : ciocché accordandosi a riconoscere e concedere ( e
vi riflettati bene i capitani e i campioni delle nuove dottrine) non
credon già di aver, per si fatti divisamenti, proposto quel che veramente
sarebbe il meglio; ma, proponendolo, o, a dir piu vero, confessando
d’ essere stati costretti a concederlo, compiangono di non aver potuto
proporre c consigliare che un men male. E tuttavia questo men male non lo
propongono, e non lo accettano, che in modo, per cosi dire, precario, e finché,
con un migliore indirizzo della educazione privala e pubblica, sia
lecito assai più recidere di questa libertà del non buono, senza troppa
resistenza, e per successivi sempre maggiori troncamenti giungere alfine
a quel minimo di libertà lasciata al mal fare, che costituirebbe de’
civili ordinamenti la vera normalità. Ed ecco ricacciate in
gola, io spero, a certi insipienti banditori del sacro diritto (coni’ essi
soglion chiamarlo) d’ esser padroni delle azioni loro, tante balorde
cicalcric di pocosen so, che vanno eglino ripetendo, e che, se dimostran
qual che cosa, dimoslrau solo quanto è grande la ignoranza di gridatori
si fatti in lutto che risguarda la vera filosofia delle leg; gi e la vera
natura dell’ uomo. Io so però con qual mutamento di linguaggio si
sforzeranno essi di riguadagnare terreno, se non di fronte, almen per
fianco. Senza osar troppo di negare, presi cosi alle strette, che quegli
usi della libertà, dai quali un altro, e con piu forte ragione più altri,
o la comunità intera, possono essere più o men notabilmente ed
ingiustamente pregiudicati, debbono dalla legge frenarsi, diranno però, ed in
effetto dicono ( abbassato molto il tuono della voce e della superbia ),
che la forfattura de’ legislatori a cui si chiede emendamento è appunto
nel giudizio del male, operato o da operarsi, il qual conviene, o
prevenire perchè si tema, o punire perchè si risguardi come fatto, e
delle condizioni che si stima utile all’ universale di lasciare in
potestà de’governanti lo imporre a’ singoli, quale un debito comune di violenze
fatte o da farsi alia libertà d’ ognuno pel bene di tutti. Rispetto a
che ricusano il più delle norme stabilite dalla sapienza antica,
senza un riguardo eh’ ella sia stata sempre una e costante, sempre simile
a sè fin dalle prime manifestazioni sue, giungendo da gente a gente al nostro
tempo ; e trinceratisi sopra questo terreno, vogliono, coni’ oggi dicesi,
guarentite almeno certe principali libertà, o salvati certi privilegi di
libertà, di che fanno enumerazione, secondochè, per un detto di detto,
impararono. E qui non discenderò io a disputar loro ciascun palmo del nuovo
terreno in che s’accampano, questo non essendo per ora il mio proposito. Non
ch’io non voglia, a miglior tempo, a un per uno, espugnare ciascun
de'baluardi ove atlendon battaglia, impotenti, come si sentono, a tener
la campagna aperta. Ben, fermandomi qui sulle generali, poche cose dirò,
che importa stabilire, come opportune premesse a tutte l'altre, quasi
circonvallandoli intorno d’un regolare assedio, per toglier loro qualunque spe [
È degno d’esser notato che si schiamazza e si pugna per si fatte libertà, e per
questi privilegi sempre ne’ tempi in cui più si vuole abusarne, e da
que’che di abusarne hanno il proposito deliberato. Que’ che non han
bisogno dell’abuso, e che non lo hanno nell’animo e nel desiderio, è
chiaro che sarebbe ridicolo se ciò curassero. Ed altrettanto è a dire de’
secoli in cui rarissimi sono, o nessuni, gli abusa tori di fatto o
d'intenzione. Queste grida allora non si sa che siano. Si chiede il
permesso di quel che si vuol fare, e si muovono lagnanze di quel che, volendo
farlo, non sì pub ; non di quello mai, che non occupa la mente, e che non
ispiace di non poterlo operare a suo grado.] anza di esteriore sussidio, e di
futuro scampo. Dove, se per avventura, io paia a taluno usare, a
dispetto, un troppo superbo linguaggio, valgami a scusa la salda fede che ho
nell’animo, non veramente del prevalere per senno, ma sì certo dello
scendere a combattimento con tale una soprabbondanza di forze, che il far
fronte, negli avversari, più mi sembra presunzione ed insania, che
coraggio e bravura. E prima, prendo, come suol dirsi, atto del
concesso, e dell’ ornai da essi perduto per non poterlo difendere : cioè,
che tutte le declamazioni, le quali fannosi, a destra e a sinistra, suonare sul
sacro diritto della libertà umana, cosi in generale sfrenata, e della
intangibilità di questo diritto ( le quali declamazioni tanto si vanno
ripetendo a illusione e pervertimento degli sciocchi, e col plauso del codazzo
lungo anzichenò de’tristi, i quali approvano e fan coro, perchè l’approvazione
è come indiretta difesa di molte ribalderie loro); tutte queste
declamazioni, dico, bisogna ringhiottirsele, o riservarle a’ crocchi
degl’ imburiassali a lor forma, e già non più ragionanti, nè disputanti,
ma credenti, e disposti a contendere solo co’pugnali e colle contumelie. Per
tutti gli altri un punto è vinto, ed una verità è conquistata: la
libertà, per sé medesima, dev’ esser vincolala in tutti. Questo non
ammette più disputa. Or, ciò premesso, io dico poi, che,
nelle azioni le quali necessariamente han, per cosi dire, contatto cogli
altri, e sono usi di libertà che agli altri possono riuscire o molesti
o pregiudice voli, a rendere, non pur possibile, ma solo reciprocamente
tollerabile la consociazione degli uomini, è chiaro che l’interesse comune
richiede il provvedere a tanto, che i conflitti delle coeguali libertà
siano evitati il meglio che esser può, e siano del pari scansate le cagioni,
quant’elle sono, onde, per fatto delle libertà male-usate, si renda
sgradevole ed intolleranda ad altri, pochi o molti, la convivenza. E poiché
nessuno è giusto che sia giudice in causa propria, quando specialmente la
causa propria è in contrasto colla causa degli altri, perchè niuno, negl’
innumerabili e colidiani casi di si fatti contrasti, vorrebbe aver fede
nella giustizia e nella discrezione d’un che ha interesse a favorire sè stesso
(massime considerando, che il momento medesimo del conflitto, allorché
più le passioni sono in presenza, in accensione, ed in tumulto, dovrebbe
esser quello del giudizio ), perciò è necessario, che ognuno anticipatamente
sappia (da terzi ed im parziali, e parlanti con autorità in guisa da
comandare obbedienza ed ottenerla) quel che può e deve, e quel che non
può, nè dee. Di che poi si conclude, che, innanzi al fatto, egli è
della più grande evidenza, bisognare alcune regole prestabilite, ossiano leggi,
per le quali si determini efficacemente il lecito e l'illecito. Resterà
dunque solamente a cercare, da quali, secondo ragion naturale, debbano
queste leggi emettersi, ed in che misura. E la -questione giunta a
questo termine, s’allarga. Perchè, venuto il discorso alle leggi che
stabilir denno i confini e la misura della libertà civile, l’argomento
facilmente trapassa alla non meno astrusa ed importante trattazione del
primitivo stabilimento di tutte l’altre leggi obbligatorie per
l’universale, e si di quelle che fermano, o fermar debbono le originarie
condizioni della civile congrega, nelle parti onde si compone od hassi a
comporre l’intera macchina governativa, qual si ha, o qual si desidera
averla, si di quell’altrc, che, a volta a volta, si van facendo, o si
vorrebbero fatte, per nuovi bisogni che si stimano sopravvenuti, o per
correzione d’antichi e nuovi errori, de’ quali credesi avere
accorgimento. Intorno a che una opinione oggi, e da molli anni, a memoria
di noi vec-r chi, cerca di signoreggiare il mondo, secondo la quale,
la volontà egualmente ed il senno di lutti avrebbe in ciò a consultarsi,
e a deliberare, per quella dottrina che troppi pongono a di nostri in cima a
ogni altra, e che chiamano il domala della sovranità del popolo, da cui, come
da vecchia sua radice, sorse già e prese forza l’altro domina del cosi
detto patto, o contratto sociale ; due domini a’ quali dassi
appunto per fondamento, come la libertà originaria e naturale dell’uomo,
cosi l ’ eguaglianza primitiva d’uomo con uomo. Or poiché, rispetto alla
prima già vedemmo, quantunque sommariamente, quel che bassi a pensarne,
favelliamo adesso della seconda. Della eguaglianza in generale, e
quanto poco esista essa nella specie utnana. Si pretende, che
gli uomini, per naturale diritto, sian tutti uguali, e, al solito,
insegnando al popolo questa supposta fondamentale verità, que’ che la
insegnano si guardan bene dal dichiararla con più esplicite parole, e
dallo spiegare in che senso, a lor senno, questa eguaglianza può
affermarsi, in che senso non lo si può. E il popolo fa di questa proposizione
quel medesimo, che dell’altra, la qual die e-Gli uomini son lutti liberi -
Ambedue le accetta così come gli si danno, senza limitazione, e se le stampa
bene in mente al modo che suonano, per poi trarne le conseguenze dirette
ed estre- i me, che oggi pur troppo ne trae... conseguenze che la
pace del mondo da sessanta anni disturbano ed impediscono. Io
spesso ho domandato a que’ difensori di si fatte stolte teoriche, co'quali è
pur possibile tentare un po’ di ragionamento, qual fondamento dessero (
parlando dell’egualità ) al domma che stabiliscono ; e i più di loro
m’hanno risposto con gran franchezza, che l’eguaglianza è da legge di
natura, perchè la natura ci ha fatti tutti della stessa specie, e della
stessa carne; tutti, gli uni agli altri, fratelli. Ma, quando li ho incalzati,
chiedendo, se la natura facendoci uguali quanto a specie e carne, e con questo
dandoci una comune fraternità, abbia poi col fatto mostrato di averci
voluto ad un tempo dare anche le altre eguaglianze qualitative e quantitative,
ossia di modo, e di grado, che bisognano per costituire l’assoluta
eguaglianza naturale, la quale intende il popolo, non ra’han potuto più
rispondere cosa che valga. Almeno avessero potuto dimostrarmi che queste ultime
sono una conseguenza necessaria di quelle prime! Bisogna compatirli. Essi
non potevan fare l’ impossibile. La natura, certo, non ha voluto
farci diversi da quelli che ci ha fatto. Ora è chiaro, ch’essa ci ha
fatto in ogni cosa disuguali. ( E si noti, eh’ io qui uso il linguaggio de’
moderni filosofanti. Metto da parte la fede, il peccato d’origine, e
le sue conseguenze. Parlo, come oggi usano tanti, della natura acefala, e
separala dalle sue cagioni, come se non le avesse ). Infatti
che vogliamo ricercare? Il fisico, o il morale? Ma, nel fisico, nessuno,
per fermo, avrà l’ ardire d’ affermare, che la natura, fabbricandoci
tutti della stessa carne, e collocandoci nella stessa specie, abbia voluto
altro farci che disugualissimi. Non forse ogni giorno ci schiera essa
innanzi i belli ed i brutti, i dritti ed i bistorti, i contraffatti a
ogni forma ed i ben composti della persona.... i sani e gl’ infermicci, i
gagliardi ed i frolli, gli svegliati ed i pigri o buoni-da-nulla? Non forse tra
milioni di visi nessun ce ne presenta ben simile... ben uguale ad un altro «
imprimendo ad ognuno una fisonomia sua, che è la sua e non d’altrui?
Non forse disuguali dà le complessioni, la fazion generale della
persona, le idiosincrasie ? Pur la carne è una in tulli, e la stessa : la
specie è una e comune. Più però l’originaria e naturale
disuguaglianza fassi palese, ove al morale riguardiamo, e si a questo
nella parte intellettiva e discorsiva, si nella memorativa, si nella immaginativa,
nell’ affettiva, nella volitiva, e in quante altre le sottigliezze de’ filosofi
distinguono... Ho io bisogno di dire, che hannovi nati stupidi, e nati
con ogni buona disposizione di memoria, di giudizio, d’ acume... ? Ho io
bisogno di ricordare le portentose varietà d’ altezze, di capacità, d’umori,
di tendenze, infinitamente tra loro disparate e distanti ? Ho io bisogno
di avvertire, che GALILEI (si veda), Newton, Eulero, Lagrangia non nacquero per
esser umili ragionieri di lor persona sopra un povero banco di libri tenuti a
scrittura-doppia ; Cesare, Carlo Magno, Napoleone, non erano modellati
alta stampa d'un piccolo caporale di milizie ; i Law non furono mai del legno
di che si formano i Colbert, i Turgot ; Omero non doveva essere Clierilo,
nè Virgilio Bavio..., e tutta la larghezza d’ un oceano doveva separare
Marco Tullio Cicerone da Marco figliuolo, Marco Aurelio Antonino da
Commoilo, Tito da Domiziano... Vaucanson da un costruttore d’organucci di
Barberia... Giovanna d’ Arco dalla mia donna di faccende ?
Non favello delle disposizioni di cuore... delle disposizioni di
volontà... del più o meno di mercurio, di zolfo, di sali, che, fino dal
primo impasto, è infuso nelle nostre crete; e del diverso rombo di vento
a che si volge l’ago delle nostre tramontane. Nel vostro stesso campo, signori
maestri del novello mondo, consultate Gali, Spurzheim, Fossati, Combe.
Crederanno leggervi sul cranio, scritto e significato a grandi rilievi,
se siete della pasta dei Tersiti, de’Paridi, degli Ulissi, de’ Palamedi,
o degli Achilli.... E non solo differenti s’esce di prima stampa
dall’utero materno. Altre cagioni soggiungono, da natura pur sempre, e
dal conflitto perpetuo delle sue forze, per le quali alle inegualità fisiche e
morali, cominciate fin dai primordi nostri, se ne vanno altre aggiungendo
finché dura la vita, ed alcune per effetto della stessa vita.
Imperciocché a questo lavorano giornalmente le infermità, e centinaia di
fortuiti accidenti che sopravvengono... le differenze di climi e del
tenor di vita... i nostri spropositi volontari ed involontari... : senza
di che molle cose al vecchio toglie P età, e al fanciullo non le dà
ancora... E l’arte, eh’ essa medesima è da natura, opera forse,
e conduce, a diverso fine? -L’arte è l’educazione, secondo che ce
la danno, secondo che ce la diamo. Or l’educazione, facciasi quel che si vuole,
è per l'uomo una nuova grandissima cagione d’ inegualità, la quale niun
potrà mai governare in modo da impedirle il produrre questo ultimo
effetto. E, primo, è una potente cagione d'inegualità dalla
parte degli educatori. Perché come poterli applicare a uno stesso
modo, a una stessa misura, in tutti i luoghi ed a tutti? nelle città e
ne’ villaggi ? nelle campagne e ne’ boschi ? a que’ che vivono raccolti
insieme, e a que’che in solitudine, o grandemente spicciolati e divisi ? Come
trovarli, da per tutto, uguali in eccellenza, per dottrina, per zelo, per
altezza, per l’allre molte qualità che aver denno, o dovrebbero ; o come
non piuttosto contentarsi assai spesso di non trovarne, di non averne, o
di averne de’mediocri, degl'insufficienti, o decessimi? Come, da per tutto,
avere o procacciarsi le stesse facilità secondarie, gli stessi ausiliarii mezzi,
senza di che la bontà degli educatori o fallisce, o men vale? Come non
avere riverberate sugli educati le diversità che provengono dalla
diversa natura de’ maestri, de’ metodi, degli aiuti estrinseci? E, per
tutti questi motivi, come non giungere all’effetto ultimo, che, se le
differenze predisposte da natura erano già grandi, più grandi ancora
saranno esse fatte, dopoché di necessità in diversissimo grado e modo l'arti
educatrici sarannosi adoperate? Secondo, è un’altra cagione
d’ineguaglianze, dalla parte di coloro che debbono educarsi. Imperciocché
le inegualità già preordinate in ciascuno nell’esser coucetli, come
potranno non avere accrescimento e moltiplicazione, aggiuntevi le
inegualità avventizie, prodotte dall’azion di coloro, che, più o men
bene, o più o men malamente, educheranno? Dove, tra inegualità ed
inegualità, sarà pur talvolta che accadano compensazioni: ma sarà più
spesso ancora, che le inegualità si sommino, e s’alzino a maggior
valuta... Terzo, son molte più, accidentali, cagioni, che
necessariamente faranno anche maggiore essa differenza : come dire, il
più o men bene, o male affetto stato di salute, o di vigore, il più o meno di
fortuiti ostacoli, o di fortunate agevolezze sopraggiuugenti : la nebbia delle
passioni viziose che alcuni offuscalo la loro forza che molti distrae; lo
stimolo delle passioni generose che ad altri é incitamento... cento altri
e mille incidenti della vita, che or turbano, or secondano, e fan mentire
in bene o in male ogni anticipato presagio da natura tratto...
Ma v’ è una piu generai considerazione, che vie meglio conferma la
verità del mio detto. Essa ci è somministrala dalla ricerca del fine
stesso per cui la natura ci diede delle arti educatrici il bisogno,
l’istinto, ed il seme. Questo fine evidentemente, e per sua essenza, è,
sempre, e ogni giorno più, disuguagliare, anziché uguagliare.
Imperciocché la perfettibilità umana esse arti han persubbietto sul quale lavorano
; e la perfettibilità è cosa sterminata. L'arte, cioè l’educazione, perfeziona,
che è dire s’ aggiunge alla natura, acciocché quello che in essa è germe,
tallisca, cresca in pianta, e fruttifichi. Ora il germe è d’ineguaglianze:
dunque ineguaglianze raccoglierannosi dall’ educare, tanto maggiori,
quanto l’ educare sarà più perseverante, e condotto a maggiore eccellenza. In
ciò sta il progresso, che è pure un altro degl’ idoli del nostro tempo :
in ciò la civiltà, effetto principale del progresso, che tanto oggi i nuovi
dottori dicono di voler promuovere, non s’accorgendo, che il suo vero
fine è aumentare le differenze tra gli uomini, non già scemarle.
Gara infatti essa è per essenza, e specie di palestra aperta a tutti,
dove arte aiuta natura a far si che ciascuno co’ vantaggi che può e sa, si
gitti innanzi quanto più può e sa meglio, lasciando iudietro il compagno
o i compagni di quanto piu intervallo è possibile, nelle diversità di
direzione che tutti prendono. Cosi arte e natura a un medesimo scopo
convengono. Quella accresce 1’ effetto di questa. La disuguaglianza é
data all’uomo per legge; il disuguagliarsi per istinto, e per bisogno.
Voi piu facilmente fabbrichereste gli uomini della favola di Luciano,
usciti dalla granata magica, con metodo di successive dicotomie, che gli
uguali i quali sognale. Arroge, die questa è una legge non esclusivamente propria
della nostra specie. Chi ben considera, trova ch’è legge data all’intero
universo, come norma del suo modo d’essere. Tutto in esso è varietà e
diversità. Tutto è gerarchia. La materia è una nella sua sostanza, pur
l’oro non è argento, nè T argento rame, nè il rame piombo, nè il piombo
arsenico, nè l’arsenico azoto od ossigeno. Vi son dunque caste nella
materia, come nella specie umana ; come nelle specie degli animali
domestici (cavalli, pecore, capre)... V’ è una gerarchia delle stelle tra
le stelle, delle comete tra le comete. V’é il grande ed il piccolo, il
luminoso e l’oscuro, quel che domina e quel eh’ è dominato. Un carbone è
cristallizzato ; è brillante; è la coli-i noor, la montagna della luce,
che brillerà sulla fronte di Vittoria regina d’ Inghilterra ; un altro
carbone non è buono che a scaldare la pentola della massaia. Lo stesso
grano, dice il più santo de’libri, è trasportato dalla piena del torrente
nel mare, e vi perisce ; dal vento tra le sabbie, e non vi nasce ;
dall’agricoltore nel campo, e, secondo le condizioni diverse del terreno e de’
succhi, v’ intristisce c non viene a spiga, traligna ed è ucciso dalla golpe...
prolifica ed è ricchezza della messe e del granaio. Evidentemente queste
diversità di sorte furono, sin dalla prima origine, ne’ disegni del
Creatore, nelle necessità imposte al creato... Quanto agli
uomini, ciò non è solo un fatto cieco ed improvvido : è una manifestazione
splendente della sapienza del divino architetto. La vita normale della
civil congrega ha bisoguo di simiglianti radicali disuguaglianze. È forza
che v’ abbia chi non si sdegni d’ esser destinalo ad metalla, alla
coltivazione laboriosa delle terre, alle meccaniche fatiche dell’incudine,
della sega, della pialla... Come è forza che v’abbiano altri ad altro buoni, ed
a meglio, secondo tutta la varietà degli uffici e de’ servigi che se ne
aspettano. Fede c filosofia s’ accordan poscia a proporci, affinchè nissuno si
lagni, il sistema delle compensazioni in una seconda vita. Or, se tanto è
innegabilmente vero, come s’ osa insegnare al popolo l’opposto di queste
dottrine? Come s’abusa della sua irriflessione naturale e della sua
ignoranza per falsificargli sino a questo segno il giudizio? Come s’ardisce
predicargli ogni giorno il domina supposto delVeguaglianza, o non
fiancheggiandolo con ragioni, o rendendolo credibile con miserabili ragioni di
fratellanza universale, d’identità d’origine, o simile? (1)-E v’ha chi
chiama perfino a complicità dell’inganno la religione, come se vi credesse!
V’ha chi usa come argomento: Siamo lutti figli d’Adamo; lutti ugualmente
redenti sulla croce; tutti ugualmente fratelli in Cristo! - Fratelli si certo ;
c figliuoli lutti della prima umana coppia, e della seconda per Noè il
diluviano; ed ugualmente ricomperati col prezzo di sangue sul Golgota: ma non
perciò uguali; come uguali non erano, ancorché fratelli, più ancora
stretti tra toro che non un uomo a un altr’ uomo, Caino e Abele ;
come uguali non erano tra loro, ancorché fratelli, Isacco ed Ismaele,
Giacobbe ed Esaù, Giuseppe e Beniamino, e gli altri figliuoli di
Giacobbe... Fratelli, e perciò tenuti a reciprocamente amarci, ad assisterci, a
giovarci; ma non a modellarci ognuno sull’altro, ma non a metterci tutti
a uno stesso livello, ma non a interdirci ogDuno i vantaggi delle nostre
individualità, o a pretender di divider cogli altri gli svantaggi. L’ autorità
della religione, della quale s’ abusa, non ha mai consacrato queste
massime, o, per dir meglio, ha consacrato sempre le massime contrarie. Io
dimentico però, che hannovi, a di nostri, cristiani a’ quali par bello
servirsi del vangelo per falsificarlo, e spurii cattolici, i quali s’argomentano
d’ insegnare caltolicliesimo alla Chiesa, e teologia alla teologia!
(1) É facile intendere, se non il come, almeno il perchè. Si cercano nel
volgo, e nel minuto popolo complici, ed uomini di braccio per l'opera di distruzione
ebe si medita; e l’adescarli con si fatti miserabili e detestabili inganni par
utile, se non bello. Se non che intendo bene quel che vorrassi
rispondermi. Sorgeranno d’ ogni parte di coloro, che vorranno dirmi,
nissuno esser si stupido da pretender di negare il fatto visibile e palpabile
delle ineguaglianze di natura e d’arte, che son tra gli uomini, troppe
delle quali non possono non essere in un grado maggiore o minore, si nel
morale, che nel fìsico. Solo chiedersi oggi quell' eguaglianza, che
spetta agli uomini, in quanto congregati in società; e questa esser
Veguaglianza che chiamasi civile, cioè de’ fondamentali diritti della
vita di cittadino; e pretendersi essa come dovuta per legge eterna di naturale
giustizia. E avvegnaché, ristretta la proposizione entro si fatti più precisi e
più angusti termini, non è poi si chiaro il comando della legge di
giustizia la qual si cita, e resta sempre a superarsi la difficoltà del
concepire come e perché abbia a credersi di misurar giustamente,
applicando a tanti fra loro disuguali una misura uguale per tutti,
fan prova d’ avviluppare sé e gli altri in un tessuto di ragionamenti,
che è pregio dell’ opera l’ esaminare- Esaminiamoli dunque, c cerchiamo
di far conoscere quanto essi hanno poco del solido, e quanto facilmente
s’abbattono, e si riducono a nulla. Dell' eguaglianza nel civile
consorzio e su quali falsi fondameli ti si pretenda stabilirla.
Si vuole l ' Eguaglianza civile, cioè l’eguaglianza ne’ fondamentali
diritti della vita di cittadino! E per che buona ragione ?-Rispondono i pili
barbassori: « non veramente per « che siavi tra gli uomini l’eguaglianza
primitiva di natura, « o perché possa l’arte giungere a distrugger mai le
diffe« renze che natura ha in noi largamente seminate nel tisico « e nel
morale j ma perchè, tra tante che mancano, un’e« guaglianza primordiale è pur
veramente in tutti, ed è « T eguaglianza di condizione primitiva, quando
la vita civile « ha per noi, secondo ragione, normale coininciamento.
» E, a meglio spiegare il concetto loro, cosi ragionano, tornando
un tratto a considerazioni relative alla libertà « Sia quel che si voglia de’
limiti che la legge eterna ha se« gnato al libero arbitrio d’ogn'uno, e della
natura obbli« gatoria de’ precetti ch’essa legge dà a tutti ; se potente« mente
c’invila essa ad unirci in civil convivenza, non, « per fermo, l’invito è
coattivo (posto che niuu pretende « esserci disdetto il segregarci per
vivere in solitudine, « quando ciò ne piaccia) ; e molto meno è
obbligatorio a un « dato modo d’associazione (posto che niun pretende
esser« ci da ragione naturale vietato il torci all’ associazione, in «
che, per esempio, ci troviamo inclusi dal nascere, per « entrare, a
nostro libito, in un'altra la quale consenta « di riceverci). Dunque
l’entrare, o il restare, in una data « civil congrega, è, per sé, atto di
libertà, rispetto al qua Digitized by Google — 89 —
• « le noi conserviamo intero l’arbitrio. Ma lo stesso
ragio— « namento può ugualmente applicarsi ad ogni uomo. Dun« que tutti
gli uomini, debbono, in ciò, riguardarsi d* lift guai condizione : lutti almeno
coloro, a togliere qui ogni « soGstcria, che hanno sufficiente normalità
coni’ uomini, « quanto alle facoltà naturali (salvo il diverso grado in
che « le posseggono), per non dare evidente motivo d’ esser te« nuli come
non liberi. Ma concessa l’esistenza d’almen « questa eguaglianza, non v’è
poi ragione perche da detta « eguaglianza non si derivi un’altra
eguaglianza, e vuoisi « dir quella per che, ne’ rapporti generali di
cittadino a cil« ladino, e da cittadino a tutta la congrega, pesi c benefi« zi,
cioè doveri e diritti sian parificati. Dunque sì fatta pali rificazione, che è
l’eguaglianza la quale aveva a dimo« strarsi essere di diritto naturale, lo è
realmente. » Dal qual tenore di discorso è poscia uscita, nel passato
secolo, tutta la dottrina del palio sociale, c (connessa con
quella) l’altra dottrina, secondo la quale il popolo, cioè la somma
di tutti i concorrenti a civil consorzio, nell’atto del concorrervi, c dopo
esservi concorsi, ha in sè la vera sovranità e supremazia, per tal guisa,
che ognuno ne possiede la sua coeguale parte: ciocché costituisce poi
quella che si chiama la sovranità popolare, o la democrazia risguardata
come il solo governo naturale e legittimo. Donde molte conseguenze
scaturiscono, c principalmente questa « Che gli entrati, « od i
liberamente restati in una civil convivenza, se dispnee nendo di sè, come
sovrani che ne sono, tutti con egual « volontà e potestà si spogliano o
si spogliarono pacificale mente d’una parte della sovranità di sè stessi, per
formale re di queste parti riunite l’altra sovranità posta fuori, e ee
depositata in mani terze, alla quale, in essa convivenza, ee liberamente
si sottoposero, non però a questa seconda so« vranità non si serban sempre
superiori. Nè, in quanto è « artificiale, e procedente dal loro libero
arbitrio, da cui « trae tutto il suo valore su ciascuno, può questa
sovranità fattizia distruggere la supremazia delle volontà da « cui
supponsi derivala. E perciò, quantunque soprastante « per patto, essa è
nondimeno in realtà soggetta, e dalla « stessa volontà onde procede può
quindi essere rivocata e « distrutta ». Le quali teoriche con tanto animo
i nuovi maestri le difendono, che, non potendo non accorgersi, ciò,
nel fatto, non esser mai, perchè, storicamente parlando, l’asserito patto
sociale, mai, o quasi mai, non in terviene, ancorché per diritto dovrebbe,
a lor sentenza, intervenire « ciò dicono provar solo la spuria origine
delle « civili congreghe in che, per tal guisa, si è inclusi. Don« de è
poi, che il pacifico e precario restarvi, il qual fac« damo, non può, a lor
detto, chiamarsi nemmeno un « tacito consentimento. Imperciocché secondo
il proverbio, « chi non parla non dice niente. Ed, essendo che ogni go«
verno é intanto una forza di fatto alla quale difficilmente « si può
resistere, cosi il non dir niente esso medesimo è, « conchiudon essi, una
necessità imposta, piuttosto che « volontaria. Il perchè, ora
massimamente che i popoli co« minciarono a parlare, il diritto, il quale non
poteva essere abrogato, o soppresso, risorge, dicon essi, con tanto « più
vigore, e legittimamente pronunzia illegittimi quc’civili consorzi, e sentenzia
rivendicata e ripigliata da tutti « quella sovranità di sé, che natura
diè loro, per esercitar« la congiuntamente, dove ciò aggradi, nella
formazione « di consorzi nuovi e di nuovi governi, a tal forma, e
con tali leggi, che il libero ed effettivo consentimento prece« da
consorzio e governi, e li accompagni, o, cessando, « cessi l’autorità di
questi, c sia come se non fosse. Donde « tornan di nuovo alla tesi, che
la democmzia è nel diritto x di natura, in quanto almeno poter supremo,
cioè alto ed « indeclinabile potere, che sovrasta ad ogni maniera di
governo, la quale il libero consenso degli uomini abbia stabilito, o sia per
istabilire ; e che tutte le altre maniere di « governo, anche consentite,
sono artificiali e transitorie, mentre quell’ una, o esista o no in alto,
è permanente ed « imprescrittibile... » Cosi presso a poco
ragionano, quanto a tutto cotesto domma dell'eguaglianza, e a’ corollarii
che ne traggono, i più logici tra costoro, e nondimeno ragionano
pessimamente e con una molto povera logica. Perchè, in tutta
l’esposta tela di raziocinii, s’afferma, più che si provi, quella supposta
egualità di condizion primordiale, che, o realmente, 0 per una
finzione giuridica, precede, o debbe precedere, l’ingresso consentito
d’ognuno nella civil convivenza, e che è data come fondamento di tutta
l’eguaglianza civile intorno alla quale si disputa. In questa vece facilissimo
è dimostrare che il fondamento, assunto per postulato non ha
sussistenza alcuna. Imperciocché sia pur dato e non concesso a’cosi ragionanti
d'assumer l’uomo nel momento d’entrare con perfetta libertà di sè in una
associazione nuova, 1 cui patti abbiano allora allora da stringersi,
e, come molti oggi dicono, da formularsi (ciocché, nel fatto, non è mai)
; certo, anche in questa immaginaria ipotesi, di che direm poi quel che è
a dirne, falsissima cosa è, che, nella turba de’ concorrenti a costituire
la nuova congrega, ciascuna arrechi, non una quale che siasi equipollenza,
od eguaglianza di requisiti, ma quella equipollenza od eguaglianza che
sarebbe necessaria per venire alla conclusione a cui vuol venirsi.
L’equipoHenza o l’eguaglianza che v’è, è quella delle individuali libertà
degli ancora sciolti, ossia è l’eguaglianza nella autocrazia, o nella
signoria di sè, che ciascuno, per ipotesi, conserva ancora, e in virtù
delia quale, come padrone della propria individualità, concorre e
consente per la sua parte alla formazione d’ un sociale consorzio. Ma da che si
viene all’inventario ed alla ricogniti) E tuttavia del rigore di questa stessa
speciale uguaglianza potrebbe disputarsi, cercando deulro quali termini, e
sotto quali condizioni ogni uomo è sui juris nel fatto. Ma il cercarlo
sarebbe un'iucidentu questione, la quale ci porterebbe troppo lungi.] zione
de’ capitali e de’ requisiti che ciascuno con sè reca ad associazione,
l’equipollenza o l’eguaglianza subito cessa, e cominciano le
disuguaglianze... tutte quelle disuguaglianze, che noveravamo nel
precedente articolo, e che non possono non essere messe in conto rispetto al
reciproco interesse degli stipolanti, c a quanto esso comanda.
Imperciocché sia pure un contratto quel che trattasi di formare, e
sia pure in libertà d’ognuno il preordinarne gli articoli a suo proprio
grado, o il ricusare la stipolazione. Ma si abbia in memoria, che qui si
domanda al postutto, a stipolazione da farsi, non quello che ognuno, con
un pensiero egoista di superbia, d’invidia, e di gelosia, non
volendo esser da meno degli altri, pretende a perfetta parità cogli altri, per
prezzo d’adesione, o sia o no interesse degli altri il concederlo ; ma
quello che gli eterni principii di ragione c di giustizia in questo
proposito consigliano ed ordinano. Perchè, insomma, bisogna ricordare
quel che dicevamo nel nostro primo articolo. Non è il libero
arbitrio puro e semplice la norma direttrice degli atti umani, e
non esso è l’autocrate, oil sovrano legittimo; nè alcuno ci venga a dire,
secondo filosofìa, stai prò ralione voluntas. Il vero e legittimo sovrano è il
Xòyos", e il Xòyos, cioè la ragione, non di tale o tale altro individuo,
ma si l’universale ; quello che è la espressione del senno raccolto dalle
ragioni più squisite di tutte l’età e di tutti i luoghi. Rispetto a’
cui precetti non si può nemmen dire che nel caso nostro siavi
oscurità, o incertezza, chiari essendo e non contrastati i principii
generali regolatori de’ contratti di società, non secondo tale o bile
altra legge scritta, ma secondo il naturale diritto. Insegna esso, che se un
individuo contribuisce al bene della società men clic altri, non può
pretendere d’essere accettato alla stessa dose di beneficii che gli
altri., i quali contribuiscon più. Nè se, quanto aU’amministrazione della
società intera, sono in essa e capaci ed incapaci, è giusto che gl’
incapaci pretendano il diritto dell'avere altra parte che indirettissima nella
direzione e nel governo degl’interessi sociali. Di che l’applicazione al
caso nostro non ha bisoguo d’altre parole. E tuttavia l’ altre parole,
che qualcun chiede a maggiore schiarimento saran dette a suo luogo.
Qui basti per ora t’avere indicato in che giace la falsità del ragionamento su
cui la pretensione all’eguaglianza civile si vuol fondata ; e- basti
chiudere il discorso facendo riflettere, che, dopo le cose dette, resta
almeno a tutto carico ornai de’difensori di cotesta domandata eguaglianza
il provare, che realmente, nell’ ipotesi del libero convenire degli
uomini a costituire una nuova civil convivenza, tutti arrechino in
contributo, non una parziale ed apparente, ma una totale e conveniente
egualità di condizione primordiale, e nè più, nè meno di quella che il caso
nostro richiederebbe a rigore di legge. Ma è una seconda parte, che
non vuol esser passata sotto silenzio. Questa è l’esame di quel che si vuol
dare per conchiuso ed accettalo ; cioè che gli umani consorzi, come
sono fin qui stali c sono, abbian da considerarsi tutti appunto per illegittimi,
e spurii, perchè non consentiti normalmente da ciascuno nel popolo, ed anomali,
e non formali secondo quelle che sole si giudicano essere le regole
veramente razionali, destinate da natura a presiedere al nuovo patto
sociale, e a servire a stabilirlo. Intorno a che veggiamo un po’ quanto,
ugualmente, e con quanto pericolo, vanno errati coloro i quali cosi predicano,
e cosi s’ostinano a pervertire il piceol senno delle turbe. • Sta
bene mettersi in capo di sovvertire tutto ciò che è stato, ed è, in fatto
di civili convivenze, e volere sconvolgere da cima a fondo lutti gli stati,
perchè vi sono alcuni (e sian pur molti ), che gridano che, negli stati,
cosi come sono, la distribuzione de’diritti civili non è esatta !
Sta meglio che questi medesimi, i quali cosi propongonsi di turbare
violentemente la pace del mondo, giurino di non voler cessare la guerra da essi
intimata, e già flagrante dal lato loro, contro alle congreghe umane oggi
esistenti, e di non posare le armi, e di non finire le cospirazioni,
finché non solo a una riforma in ciò siasi giunti, ma quel, che è
più, finché uon siasi pervenuti alla maniera di riforma, la quale, a lor
senno, è la sola giusta ! Peccato che vi siano certe difficoltà teoriche
e pratiche, le quali combattono questo bene e questo meglio... £ so che
delle difficoltà oggi non s’usa occuparsi dai proseliti delle nuove
scuole. Chiamali vigliaccheria, strettezza di spirilo l'occuparsene. Chiamano
oscurantismo il proporle. Chiamano forfattura il dirle al popolo. Noi, che non
siamo proseliti di quelle scuole, diciamone alcuna cosa. Non saremo da essi
ascoltati. Non mancheranno tuttavia gli ascoltatori in tempi piu tranquilli,
se non oggi. Questa è almeno la nostra fiducia. Considerazioni contro al
preteso diritto di rinnovare le società umane per accomodarle alle
proprie idee preconcette, e contro alle tentale riduzioni ad allo di
questo diritto. « Il mondo'( vuoisi dirci ) ha bisogno di riforma,
e di « quella riforma che noi da lungo tempo andiamo indican« do : e,
poiché n’ha bisogno, non resteremo colle mani in « mano. - Giovandoci
d’ogni mezzo, tanto faremo, finché « avrem pur conseguito quel che ci
siamo proposto. » Quante proposizioni incluse nelle precedenti parole,
ognuna delle quali proposizioni, in argomento si grave, richiederebbe un
libro a parte per trattarla come si conviene, e per porre ben in chiaro
quel che debba pensarsene! « Il mondo ha bisogno di riforma. - La riforma
che bisogna è quella che le scuole democratiche oggi insegnano, e non
altra. Questa maniera di riforma si ha diritto di cercare immediatamente il
tradurla ad atto, senza lasciarsi trattenere da quale si voglia opposta
secondaria ragione. - Tutti i mezzi son buoni e leciti, se a sì fatto
fine paian conducenti. » - Ecco quel che vale il discorso con che abbiamo
incominciato questo articolo! Non tutte, per vero, le dette proposizioni
s’ osa dirle da tutti : ma tutte son professate con cieca ed ostinata
fede. Professarle, in questo caso, è metterle in pratica, perchè la loro natura
c tendenza è pratica più ancora che teorica. Due fini si hanno. Uno è
terribile. Da maniaci e per maniaci ; impossibile, grazie al cielo, a
conseguirsi interamente, ma purtroppo tale, che il camminare verso esso è
impresa feconda de’ piu gran mali che melile umana possa immaginare.
L’altro è un castello in aria verso il quale non è pallon volante che possa
condurre, perchè tutti i palloni son condannali a precipitare prima di
giungervi: castello senza base, altra che di nuvole; castello posto nella
regione de’ turbini, e del fulmine; dove niuno durerebbe tranquillo, e
senza perirvi alla lunga, corps el biens. Il primo è mettere a soqquadro ogni
cosa : città, terre, castelli, e ville, per distruggervi gli ordini
stabiliti, e, se bisogna, tutti che s’oppongono alla distruzione. Il
secondo è dare alla specie umana un altro ordinamento: ordinamento
repubblicano; ordinamento di pura democrazia, interpretata e stabilita
nel senso il più largo. Se ne spera per gli uomini d’un altro secolo
(certo, non pe’vivenli oggidi, e, men che per tutti, pèr quegli stessi che
ciò tentano ) quasi l’inaugurazione d’un’ era nuova tra gli uomini, era
di felicità, di ragione, e di giustizia! Cerchiam di mostrare quanto
questa speranza è vana, temeraria, fallace, e quanto questa impresa è
colpevole, sottoponendo ad una ad una, ma brevemente, ciascuna delle
proposizioni a critico esame. 1. Il mondo ( morale ) ha bisogno di
riforma ? - Eh si. Ma la perfezione, in ogni cosa umana, è un punto di
mira piuttosto che una meta. Vi si guarda, ma non si pretende arrivarvi. Vi si
guarda per prendere la direzione, e per accorgersi se si sbaglia nell'andare,
come si guarda alla stella cinosura dal navigante, non che il guardarvi
significhi speranza di raggiungerla. E bello è accorgersi di quel
che merita riforma. Per gran disgrazia - judicium difficile,
experitnenlum periculosum - Si prendono spesso de’ be’ granchi a secco,
in questo mare, piu che in altro, e con più danno. E
conosciuto il bisogno vero di riforma, bello è spesso il tentare di
operarla. Spesso, ma non sempre. Perchè vi sono in medicina certe
malattie, che a volerle curare si fa peggio ; e ciò nel morale, come nel
fisico. Perciò un medico savio, prima cerca di ben conoscere la malattia,
e di non ingannarsi nel giudicarla ( cosa, come testé notavamo, non
facile ). Poi cerca se si pnò medicare. Se si può intraprenderne la cura
subito. Se non giova invece differire il rimedio, e far vero il dinotando
restiluit rem. Od ancora se a tutto non è preferibile il rassegnarsi per non
isdegnare il mafe ed intristirlo. E il medico savio al cito preferisce il
tufo; e, salvo pochi casi estremi, e disperati, che scusano le più
grandi temerità, non mai dimentica lo jucunde d’Asclepiade. Gli
stati sono grandi corpi, ne’ quali un'intera sanità è impossibile. E guai
se tutti pretendono di tastar loro il polso, e di trattarli alla risoluta con
ferro e con fuoco, alla Browniana, od alla Rasoriana, dandosi patente di
dottori senza diploma. Turba medicorum occidit Caesarem, e Cesari,
in subiecta materia siamo tutti. Figuriamoci poi quel che dev’essere, quando i
medici non sono che empirici. . ! Quel che è peggio, nel caso nostro que’
che si gittano innanzi a tastare il polso, non sono nemmeno empirici;
perchè empirici sono quelli che se non han teorica, almeno han pratica :
e che pratica possono avere di cose amministrative e politiche tutti cotesti
innanzi tempo usciti, o piuttosto scappati, di scuola, a’ quali l’età
troppo giovanile e il non essere mai stati in faccende nega ogni
esperienza? La riforma che bisogna è quella che le scuole
democratiche oggi insegnano, e non altra? Stimo la franchezza colla
quale in piazza questo è spaccialo come assioma, che non importa
dimostrare. V'ha egli in ciò buonafede? Quando lutti coloro ette studiano a
queste cose fossero d’ un medesimo avviso, potrebbe ben dirsi a chi non lo sa :
Ecco la verità in poche parole. Le prove sono inutili. Si tratta di quel che è
consentito generalmente. Ma qui la dottrina che si va spargendo è contro a ciò
che i più grandi Statisti e Politici sempre ed uniformemente insegnarono.
Trova oggi stesso una forte opposizione nelle scuole e fuori delle scuole,
presso il più gran numero di coloro che a queste materie han volto l’animo
preparato da forti studi. Noi medesimistiam per provare, che è dottrina
palpabilmente falsa; e lo proveremo, se al eie! piace.E si tratta d’ana
dottrina che minaccia grandi interessi stabiliti, dottrina gravida di
sconvolgimenti e di rovine .... forse e senza forse di stragi : e affermo
anzi senza forse, perché quei che la professano, stragi senza reticenza
minacciano a ogni terza lor parola. Con che coraggio dunque persi fatto modo
s’inganna il povero popolo invasandolo a questa guisa di supposte certezze, che
non sono che grossolani e pericolosissimi errori, atti a scaldare le
sue passioni le più accensibili, le più feraci di mali quando sono
accese ; o che, per Io meno, son dottrine in nessun modo
dimostrate? 3 La riforma, la cui necessità si v# predicando con
parole, si ha diritto di cercar di tradurla immediatamente ad atto
senza lasciarsi trattenere da qualunque ostacolo d’opposta ragione?
Ciò è ben qualche cosa di peggio. Tal diritto in una proposizione incerta,
combattuta, negata da troppi ed autorevolissimi I Bella legislazione iu materia
di diritti ! Ciò è il diritto in causa grandemente controversa ( e non
tornerò ad aggiungere, nella quale non è difficile dimostrare che si ha
torto marcio ) di sentenziare, non solo, in proprio favore, sommando in
sé le parti di contendente e di giudice; ma eziandio quello d'eseguir subito la
sentenza che si è pronunziata dando a sé ragione ! S’ardisce dire : « Se
gli altri negano la « certezza della opinione nostra, noi ne siam
persuasi, e « non possiamo permetterci di dubitarne, ed operiamo co« me
persuasi e non dubitanti ». - Ma gli altri che negano, negano perchè, con più
persuasione ancora, od almanco con pari fermezza di persuasione, hanno
una certezza in senso contrario. V’è dunque, per lo meno, lotta teorica e coeguale
di certezze contro a certezze, delle quali nessuna, cosi di leggieri,
cede alla sua contraria (1). Or perchè, e (1) Io indebolisco l'
argomento . e mi lo torlo. Gli altri che uegano hanno per qual ragione, la
certezza vostra dee prevalere alla nostra, e non la nostra alla vostra? Per la
ragion della forza, o per la forza della ragione ? Se per la forza «Iella
ragione ; dunque ragionate, e vincete ragionando, cioè persuadendo,
ciocché solo è vincere in fatto di ragionamenti. Ma > finché
ragionando non avrete vinto, e non avrete guadagnato quella generai
convinzione degli intelletti, nella quale sola può consistere la vittoria,
confessate almeno ch’ei v'é la sola certezza del non v’ esser certezza, e ciò
colla solenne forinola, Nonliquei; e lasciate le cose, nel generale, come
stanno, finché alla certezza clic si cerca non siasi veramente
giunti. Se poi la certezza vostra volete che alla nostra prevalga
per Tunica ragione della forza, abbiate almeno il pudore di non
parlar più di ragione. . . abbiate almeno il pudore di non parlar più
d'eguaglianza civile de’ difilli- Voi rinegate quest'ultima col vostro fatto
medesimo, mentre la difendete col detto, e mentre pugnate ( solete dice) per
conquistarla ad universale vantaggio. Voi la rinegate, perchè vi fate
superiori, e prevalenti, per forza, a lutti coloro che credono e vogliono
il contrario di quel che voi credete e volete. Voi la rinegate, perchè,
prima di contar quanti siete, senza legittimamente poter sapere ancora se siete
la pluralità, o il minor numero, vi tenete padroni di venire ai fatti, e di combattere
contro ai dissenzienti da voi, pochi o molti che siano, sforzandovi di tirarli
a voi men colle ragioni, che ado perandovi le cospirazioni, e a vostro
libilo le armi, cioè la una certezza ben altrimenti salila die la
vostra. La vostra è ertezza di partilo, o di setta : quella degli altri è
certezza fondata sul senso colmine, cioè sul credere presso a poco
universale degli uomini di lutti i luoghi, e di tutti i tempi; di quelli
che si son sempre giudicati i più sapienti, ed i migliori ; degl’ interi popoli,
i quali tra gli altri ebbero la riputazione di più savi, e che meglio
prosperarono finché a questa certezza furono fedeli nella direzione della
loro azienda politica. Si può egli dunque istituir confronto giusto fra la
vostra certezza, e la certezza degli altri ? Chi non ha il senno velato
da passione risponda e giudichi.]frode eia violenza. Voi rinegate, perché non
vi vergognale di dire, clic, se anche una maggiorità evidente e contata,
dissentisse in modo esplicito da voi, voi minorità non più dubbia, pur
seguitereste la guerra per vincere, cioè per fare che il numero minore
soperchiasse il maggiore, e per conseguente acciocché voi che costituireste il
primo dei due numeri aveste a valere ciascuno più che ciascuno degli
altri, costituenti il secondo numero. Voi finalmente la rinegate,
perchè, divenuti ancora maggiorità manifesta, nel voler tradurre ad alto
la opinion vostra, se voleste esser ben d’accordo colla dottrina vostra d’
universale eguaglianza ne’diritli civili, dovreste concedere che il vostro solo
diritto non potrebbe esser che quello di formare un consorzio civile
del modo che a voi piace con coloro che con voi concordano,
lasciando a’ discordi di formare un altro consorzio a lor gusto, ma non di
sforzare le volontà de’ discordi a soggiacervi ; non di comandare ad essi, e di
disporre delle lor cose : ciocché è misconoscere il loro diritto,
individualmente pari a quello di ciUscun di voi . . . ciocché è dare alla
forza il diritto supremo d’annullare l’eguaglianza ciocché é confiscare
in ognuno de’dissidenti I’ autocrazia di sé e delle sue cose, e ciò a
profitto d' una sovranità vostra su voi e sugli altri.E so che
risponderete. I dissidenti, che riescon mi— « nori di forza e di numero,
sgombrino il suolo, e se ne va« dano altrove; o se voglion rimaner tra noi,
s’assoggettino « colle persone e colle cose loro. » — Ma qual è il
principio di ragione, col quale giustificate questa vostra massima
di governo ? Un patto reciproco di cosi fare, tra maggiorità e
minorità ? No : perché questa massima non può esser parie d’ un patto,
che non é fatto né consentito ancora, e per conseguenza che non esiste altrove
che nel paese delle vostre speranze e de’ vostri desiderii ; donde poi si
deduce, che non è obbligatoria per que’ che ai patto da voi proposto non
si son fatti spontaneamente ligi, e che, come uguali a voi,
sono perfettamente indipendenti da voi. O volete insegnarci, che
così dev’ essere per un diritto realmente superiore ed anteriore a quello dell’
eguaglianza... per un diritto antecedente ad ogni patto... diritto
naturale... diritto che attinge la virtù efficace e la sanzione dal
fatto, in quanto è fatto; e dal fatto, in virtù di clic i più numerosi, i
più forti, i più destri est in fatis, che faccian sempre la legge alle
minorità di numero, di destrezza, di forza? Guardatevi dall’insegnarlo.
Quei che saran per avventura disposti a concederlo, potran per virtù di
logica dedurne ben altro da quello che voi ne deducete. Siccome numero
maggiore, violenza, destrezza non sono lo stesso che ragione ; siccome
sovranità di numero, di violenza, di destrezza non è lo stesso che
sovranità di ragione ; siccome, secondo la ipotesi assunta, numero
maggiore, violenza, destrezza non han bisogno di consentimenti e di patti per
comandare ; siccome l’essenza di questa virtù di comando è di
misconoscere il principio dell'autocrazia nell'uomo, e quanti» a sè, e
quanto alle sue cose, e d’assoggettarlo, per cosi dire a posteriori, ad
una forza che gli viene dal di fuori, trasformando il fatto in diritto ( c sia
poi, nella pratica, questa forza, quella d’una maggiorità, d’una minorità
scaltra, o d’un solo ) : cosi, ammessa una volta si fatta dottrina,
s’accorgeranno ch’ella assorbe ed annichila tutte le altre. S’accorgeranno, che
non vi sono più, con essa, nè uguaglianze, uè autocrazie di persona, nè
patti che tengano. Sentenzieranno che la forza, razionale od irrazionale,
è l’unica padrona... la tiranna degli uomini : la forza che ha la ragione
di sè in sè, o piuttosto in nessun luogo, ma che non ne ha bisogno.
E sarà con ciò giustificato non solo il vostro fatto, ma quello d’ogni
despota felice, d’ogni governo forte, qualunque siane la natura, l’origine, e
la forma ; o sarà dispensato almeno dalla necessità di giustificarsi,
perchè sarà annullata la giustizia. E voi che avrete messa in onore questa
terribile massima, n’ avrete guadagnato al postutto di metter in onore un
principio, che potrà esservi ritorto contro da ogni fortunato avversario; e
ridurrà tutto il diritto pubblico al diritto d’una guerra perpetua tra gli
uodiìdì ; senza mai speranza di concordia o di pace. Nè ho qui
toccato l’altro punto della proposizione la quale esamino, contenuto
nella seconda parte di essa proposizione, dove si dice dai nuovi riformatori
del mondo, eh’ essi non son disposti a lasciar di cominciare o di
seguitare l’ opera per qualunque ostacolo d' opposta secondaria cagione:
ciocché, mi si perdoni d’ esser costretto a risponderlo, è favellar
da mentecatti. Imperocché i soli insensati dancominciamentoalle
imprese, e s’ostinano a continuarle, senza punto attendere alle
circostanze, alle opportunità, agl’ impedimenti. Povera gente! Questo lo
chiamano bravura! la bravura di Storlidano nella Gerusalemme liberata. È un
amor idolatra della propria opinione, la quale ha toccato i termini della
infatuazione e della mania. Per essi è vero Audaces fortuna juvat; non è vero —
La fine de’ temerari e degl’improvvidi è fiaccarsi il collo. Come tra tutti gl’
innamorati, le difficoltà non servono ad essi ebe a far crescere in loro
le furie cieche del1’ amore. Caloandri fedeli, andranno per montagne e
per valli, colla lancia sempre in resta, contro a rupi e burroni,
se non basti contro ad uomini, e contro a giganti. La previdenza la chiamano
codardia, tiepidità, sacrilegio. Sacrilegio, perchè questo amore è per loro una
religione ( perdonino la parola le orecchie pie). Son sacerdoti dell’ idea,
della quale si son fatti un idolo interiore ; e purché l’ idolo sopravvinca,
muoiano tutti, e la patria stessa perisca. E sorga un'altra patria, se lo
può, e sia rifatto il mondo a pieno lor grado... o sia disfatto!!! —
Aspetto, intanto, che mi si provi, gl’innamorati ed i fanatici esser mai stati,
o poter essere uomini atti ad amministrare le cose umane, private o pubbliche.
Governali essi male sé medesimi : può immaginarsi come governerebbero gli
altri ! — Gran miseria de’ nostri giorni, il dover perdere il tempo a
confutare monomanie si mostruose! Il meglio che si possa fare sul loro
proposito è non dirne altro. Qualunque mezzo dee tenersi per buono
e lecito, se al fine conduca della universale Riforma che vuol ten~
(arsir — Egregiamente, come il resto! L’assassinio... perchè no? Questo s’ usa.
Questo non radamente è necessario. Ha spesso una efficacia molto
sbrigativa ed unica. Dunque è bene. E se è bene I’ assassinio... un
pugnale dietro le spalle... un assalto a tradimento... un’aggressione di
quindici armati cantra uno disarmato, perché non il veleno? perchè
non l’ incendio ? perchè non la calunnia ? perchè non » libelli infa manti?
perchè non le falsificazioni di carattere? perchè non il furto, o la rapina?
#alum ad bonum ErgobonumH! E ciò
sarà chiamato riformare in meglio il mondo !... Togliete a! popolo
ogni sentimento religioso. La religione, eh’ esso ha, favorisce i
tiranni. Toltagli questa religione, il volgo sarà materialista ed ateo...
M’inganno. Alzerà altari Deo ignoto, come già in Atene ; ma ad un Dio,
che non ha fulmini per punire, non ha che indulgenze per chiuder
gli occhi sui male che fanuo gli uomini ; e gli uomini faranno il
male allegramente, e con piena sicurtà di sé. Ma per (sradicare nel popolo la
fede nel Dio de’ Cristiani, nel Dio che lo ajutò ad esser buono colle sue
speranze, co’ suoi spaventi, volete adoperar le scaltrezze d’una filosofia
sofistica e trascendente? Esso non la capirebbe, non la gusterebbe. Meglio
vale creargli il bisogno di non crederla. Si renda vizioso, e tanto che disperi
del perdono, e trovi più comodo il negare le pene d' un’ altra vita, che
il paventarle. Si seducano perciò le donne, e s’infiammino d’illeciti amori. Si
corrompa la gioventù... Debbo io seguitare questo tristo inventario di pratiche
atte a pervertire? O non qui scrivo un piccolo brano della prima pagina delia
storia contemporanea ? Cosi, non è tanto una proposizione astratta,
quella che qui discorro, quanto un’ opera avviata a compimento e cotidiana.
Già non c’ è più bisogno di prediche. Le prediche son fatte, ed han
fruttificato. È in pien corso il nuovo insegnamento. Aspettando la universale
Riforma, a chi minacciata sotto forma d'una ghigliottina, (o d’una delle
tante eleganze inventate 60 anni fa in Francia, coggi pronte a
risuscitare: u«e fournée, une noyade, una passeggiata di colonna infernale),
a chi presentata nell’ abito verde della speranza come un secol d’oro che
si prepara a nascere per condurre in terra la perfezione fin qui ignota
a’mortali; noi poveri contemporanei vivemmo, invecchiamo e morremo tra le
delizie d’un presente tutto pieno di perturbazioni. Ora i benefizi che
si promettono agli eletti son per lo meno nella schiera de’ futuri assai
contingenti. Il male che s’ opera, e che si soffre purtroppo, è da lungo
tempo una funesta realtà. Per tornare all’ argomento nostro, gli scrupoli si
van togliendo. La bella morale del fine che giustifica i mezzi corre il
mondo, c lo conquista. Noi siam cattivi abbastanza. I nostri figli,
se Iddio nella sua misericordia uon ci provvede, saran peggiori di noi.
Qual riforma della umana convivenza possa divenir possibile con si fatta
educazione degli uomini, altri mcl dica. Io non so indovinarlo. Il mio
stomaco si solleva dalla nausea veggendo i costumi nuovi, le abitudini
nuove, udendo le bestemmie nuove. L’istoria ha sempre insegnato, che
tutte le volte nelle quali un popolo è stato condotto a questi estremi, esso ha
rapidamente degenerato, e finalmente è perito. Cosi fu spenta la gloria
di Grecia e di Roma antica. Cosi la gloria più antica ancora delle
Monarchie de’ Babilonesi, de’ Medi, de’ Persiani, degli Egizi. Le stesse cause
hau sempre prodotto nel mondo gli stessi effetti ... e sempre li
produrranno ! E qui fo punto. Fo punto; ma poche altre parole mi
permetto d’aggiungere su tutto l’argomento di questo articolo. Si vuol
distruggere gli antichi ordinamenti del mondo caule que conte, facendo
sempre la vista di partire dai due principii, della libertà e della
eguaglianza. E vedemmo quanto l’una e l’altra si rispettino in tulli gli
sforzi che si fanno per fas et nefas a fin d’ affrettare l’ ora della
riforma. V’ é però ancor peggio di quel che ho detto, sebbene ho detto
molto. Ripigliando da un’ altra parte il principio de\Y eguaglianza, dopo
averlo calpestato c manomesso, e ripigliandolo a scapito del principio
della libertà, si parla d’abolire lutti i diritti acquistali anche per vie le
più oneste. Gli uguali ban da essere uguali, perdendo tutto quello per
che con arti anche degne, e coll’ industria, e co’meriti, e colle
fatiche, s’eran fatti maggiori, e non han da esser nè uguali nè liberi quanto
al diritto di contrapporre il loro no all’allrui si. Gli uguali s’tian da
potere non solo spogliare dagli altri uguali, ma da questi si ban da
potere anche sterminare ed uccidere, se voglion conservare intatta tutta
la loro autocrazia, se non voglion piegarsi a dar mano a queste
spogliatrici dottrine... -Un contratto sociale tra eguali ha da esser
fondamento della società nuova per libero consentimento di tutti; ma il
patto, o contratto sociale non dee poter aver forza, e il libero consentimento
non ha da esser libero di non consentire ai patti che vogliono i
preparatori della nuova libertà ed eguaglianza. E queste contraddizioni
palpabili e nauseose si dissimulano dagli uni ; e dette agli altri non li
commuovono, ed è come se non fosscr dette, tanto è fermo il proposito di
non ragionare, c d’ostinarsi. Ecco a qual grado d’ accecamento e di depravazione
s’è giunti.... ! Con che torna vero quel che già notavamo, chiudendo il
3. articolo. Cercar di confutare costoro è spendere parole ed inchiostro a pura
perdita. — Scriviamo a preservazione dei non corrotti ancora, o ad emendazione
di chi sta tra due nè ben sano, nè tutto guasto. Gli altri Iddio li
illumini. E ripigliamo dal suo principio il discorso delle ricostruzioni, delle
costruzioni, o delle riparazioni dell’ edilizio sociale. Altre
considerazioni sulle riforme nel reggimento delle convivenze umane in generale,
e sul diritto e il modo di tentarle. Quantunque d’un argomento si
importante oggi tutti parlino in tuon di dottori, e quasi anche i fanciulli,
qui «ondimi aere lavanlur, pur non è men vero, che il dire intorno ad esso quel
che veramente la ragione insegni è cosa grandemente difficile per tutti,
ed anche pei più periti nelle scienze dello Statista. Due sono i
casi. O alcuni inclusi in una convivenza civile già stabilita, e soggetti
alle sue leggi, se ne stancano, vi si trovan male, vogliono sottrarsene,
e ciò non collo staccarsi e irsenealtrove in cerca d’un’associazion
nuova, ma coi riformar l’associazion vecchia e spiacente, resistendo a
questo gli altri che pur vi sono ; o i venuti a desiderio di rinnovazione
del politico ordinamento, nella civile congrega alla quale s’appartiene,
non sono alcuni, ma presso a poco tutti, cosicché nessun degl’interessati
in ciò resista, e faccia notabile ostacolo. Nel secondo caso, difficoltà gravi,
quanto all’iniziare le riforme, di che si crede aver bisogno, non possono
esservi (1), perchè si suppone non esservi lotta ; ed aversi, (t)
Noq saranno le difficoltà quanto al consenso nelle riforme, ed alla loro
attuazione. Resterà peri) a vedere pur sempre, se le riforme in che
consentirono, avranno quel sommo genere di legittimità che sola puh dar
la giustizia e ragionevolezza loro, o se uon l'avranno. E resterà a cercar se,
non avendola, siano ciò non ostante obbligatorie, ed in che senso, e fino
a qual grado, o dentro quai limiti lo siano : questioni difficilissime a
trattarsi, ma che non e questo il lungo di trattare presso a poco,
universalità di consenso. (Le difficoltà cominceranuo, quando si tratterà del
modo, se vogliasi che questo modo sia il più ragionevole, ed il più
profittevole a tutti). Ma, nel primo caso, non si può dire
altrettanto. Quando un governo è stabilito, e un ordine quale che
siasi già esiste... quando in tutto il numero dei componenti la civile
congrega i sufficientemente contenti sono di gran lunga i più, e i veramente
gravati, e giustamente malcontenti sono di gran lunga i men numerosi, il
vero diritto non è quello di turbare tutto lo stato tentando novità, e
con ciò disturbare tutti i contenti e tranquilli, rimescolando e rinnovando
ogni cosa, e scomponendo e disordinando ogni privato interesse, per fare
ragione ai pochi che si lagnano perchè stan male ; ma è il diritto di
cercare, senza punto incomodar gli altri, o comunque gravarli nelle
persone e negli averi, che sia fatta ragione ai pochi che lo dimandano, e
che lo meritano. £ questo può esser difficile ; può essere anche talvolta
impossibile senza rovesciare intera mente la costituzione dello Stato. Tuttavia
ci vuole un bel coraggio per mettere innanzi la proposizione, che,
dove ciò accada, la giustizia negata a’ comparativamente pochi,
debba essere ad essi buono e legittimo motivo di spinger la reazione
immensamente più in là di quel che porta il loro diritto ; cioè, affinché
questa sopravvinca, di scomporre e distruggere tutta la macchina
costitutiva della civil congrega, della quale i più si trovan paghi, mentre
ogni turbamento un po’ generale dell’ordine stabilito tutti inquieta,
molesta, e danneggia (1). Maggiore però fa d’uòpo che sia questo coraggio,
se quei che si fatta proposizione mettono (1) Può bene io questa
ipotesi ater luogo il principio (ed il più spesso lo de\e)-Expedit unum hominem
mori prò cunctopopulo.-l pochi gravati, operato per ottener giustizia tutto
quello che non pub operarsi senza manifesto e mollo maggiore danno deli'
universale, se ascoltano la voce della coscienza, il meglio che possan
fare è rassegnarsi, come è forza rassegnarsi alle malattie, alle
disgrazie fortuite, ai tanti altri mali della vita. ] innanzi,
nessuna ingiuria, nessun (orlo ricevettero, e sono unicamente duellanti, per
cosi dirlo, di malcontento, i quali non si lagnano per proprio conto, ma
si lagnano per conto di quelli che a loro spiace di non udire lagnarsi,
e eh’ essi vogliono che si lagnino per forza ; o di quegli altri
che, pur lagnandosi a buon diritto, nondimeno par loro che non si lagnino
abbastanza, e non sian disposti a spinger le querele fino agli estremi che a
lor piacerebbero. Vengan di nuovo que’ehe cosi vogliono e fanno, a parlarci d’eguaglianza,
e di tutte l’ altre loro frottole di libertà, di giustizia, di ragione ! La
loro eguaglianza diventa, come altrove riflettevamo, superiorità de’ pochi su i
molti. La loro libertà diventa licenza di nuocere agli altri per giovare
a sé, o per soddisfare la propria passione. La loro giustizia è non
tener conto del diritto altrui, per non aver occhio che a quello che si
crede essere il diritto proprio, od il proprio talento. La loro ragione è
la ragione del più forte ; una ragione egoista, ostinata, feroce, senza pietà,
senza discrezione, senza riguardi... una ragione che ricusa di ragionare, e che
vuol esser tiranna delle ragioni altrui. Si difenderanno con dire, che,
ncll’operare quel che tentano, il fine loro non è contentare sé stessi,
pregiudicando indebitamente gli altri, c dando loro motivo legittimo
di querelarsi ; ma è proporsi cosa in sé buona : cioè, considerato che
gli stali son oggi, dove più, dove meno, in tal mala guisa ordinali da
render possibili per tutti, e inevitabili per molti, una gran quantità d’
ingiustizie, d’avanie, d’oppressioni cotidiane, senza facile riparo, e
sovente senza alcun riparo ; considerato per conseguente, che il malcontento il
quale per gli uni è attuale, per gli altri è virtuale, e che il danno da tale o
tale sofferto oggi, può percuoter domani, o doman l’altro, a volta a volta,
quelli ancora che or sono contenti ; considerato perciò, finalmente, che,
a distruggere il vizioso edificio delle odierne macchine politiche per
sosliluirvene un altro migliore, è meno ancora contentare sé, che rendere
servizio all’universale, e a quei medesimi che ora per poca previdenza,
per indolenza, per egoismo rifuggono dalle riforme e che ciò è poi
promuovere la causa sempre bella ed onesta della giustizia : per tutte
queste ragioni far essi cosa degna d’ approvazione, anziché di biasimo,
perseverando nella impresa alla quale si danno. Ma l’apologià nulla
vale. Primo : hanno eglino ben pensato, cotesti temerari sconvolgitori
delle civili convivenze, la massima gravitò del fatto a cui s’adoperano?
Uno stato è una somma immensa d’interessi distribuiti e collegati tra tanti
quanti sono in esso gl’individui che sono, e que’che prossimamente, o più
tardi, saranno. Ogni interesse si risolve esso medesimo in innumerabili
subalterni interessi di cose e di persone, ed ha sempre due parti : una
che risguarda i privati, l’altra che risguarda il pubblico, ossia 1’
universale. Quanto più una umana congrega è matura a civiltà, ed in essa
progredisce, tanto più questi interessi crescon di numero e d’importanza.
La prosperità privata e pubblica è tutta principalmente fondata sul
rispetto, sulla protezione, sui favore che ottengono si fatti interessi. È pur
troppo certo (colpa delle imperfezioni umane !), che non v’ha umana congrega,
non v’ha stato, dove gl’interessi qui mentovati riscuotano tutto il
favore, tutta la protezione, tutto il rispetto che aver dovrebbero,
acciocché la prosperità fosse massima. Per conseguenza è purtroppo certo, che
tutte le umane congreghe, tutti gli stati han sempre bisogno di qualche
riforma, e di molte riforme, e questo è bisogno che mai non cessa, perchè
mai non cessano di rivelarsi e di generarsi i difetti di rispetto, di
favore, e di proiezione di che parlo. Qualche umana congrega, o qualche
stato, tanto alle volte soprabbonda di difetti di si fatto genere, che il
riformarli si fa un bisogno generalmente, e fortissimamente sentito. Ma,
dopo lutto ciò, può egli dirsi che sia cosa lecita e conveniente (per lo sdegno
delle riforme che non si fanno da que’che llO lo dovrebbero,
polendole fare) l’opera cbe, con privala autorità, vogliono alcuni collocare in
promuovere tali convulsioni politiche, dalle quali, secondo le maggiori probabilità
umane, queste immediate conseguenze sian per discendere, che tutta, o quasi
tutta la massa degl’interessi privati e pubblici sia improvvisamente e
grandemente turbata-che moltissimi di essi patiscano enorme ed irreparabile
offesa, od anche intera rovina-e cbe, per un tempo più o meno lungo, e
sovente lunghissimo, nata, e durando, la lotta tra que’cbe si difendono,
e que’ctie offendono, innanzi alla vittoria decisiva, la quale di soprappiù non
si può mai prevedere per chi sarà, non s’abbia altro spettacolo cbe
di fortune ile a soqquadro, di famiglie desolate, di uomini esterroinati, di
civili battaglie e guerre... del commercio rovinato, dell’industria spenta,
degli studi intermessi, d’ abitudini d’ozio, di turbolenza, e di licenza
introdotte, e di lutti gli altri mali di cui gli annali contemporanei
troppi esempi da più cbe mezzo secolo ci somministrano ? Per poterlo dire,
sarebbe almen necessario aver fatto un bilancio: il bilancio de’ danni a’quali
vuoisi portare riparo, e di quegli altri, che, col fine d'arrivare a
questo riparo, certamente si genereranno. Ma questo bilancio, che, ne’ singoli
casi, i temerari sconvolgitori odierni delle civili convivenze non fanno, e non
han fatto, l’ba già fatta per tutti la storia, e lo ha pubblicato. Essa
da lungo tempo ha insegnato agli uomini, che, di tutte le calamità, le quali
possono cadere sopra un popolo, nessuna calamità pareggia quella di ciò
cbe si chiama una rivoluzione, massime dei modo di quelle che oggi si
macchinano, e si hanno in pensiero, od apertamente si minacciano. I cattivi
governi... le tirannidi d’ogni nome offendono gravemente alcuni, od anche
molti ; ma, salvo certi casi rari come le mosche bianche, lascian
sufficientemente tranquilli i più, e, nel loro proprio interesse (voglio
dire nell’interesse de’ governanti) risparmiano il massimo numero : di
guisa che le angherie, — lille ingiustizie, sodo enormi iu
pregiudizio d' alcuni; per molti sono grandi, ma pur tollerabili e
pazientemente tollerate, per non pochi nessune. Al contrario, le rivoluzioni, a
quel modo che oggi s’ intendono, se pur non siano, come suol dirsi, colpi
di mano, a coi per miracolo succeda un immediafo e tranquillo
riordinamento, per poco che durino (e durano spesso una o più generazioni
d'uomini), offendono tutti... anche que’che le han fatte, i quali, d’ordinario,
finiscono col perirvi, essi e i loro. Finché si pugna, è strage dalle due
parti... la strage delle guerre civili ; strage accompagnata di crudeltà
mostruose e ferine, d’eccessi contro a natura. Sono incendi, saccheggi,
brutalità d’ogni nome, e senza nome. Que’che non combattono, sono vittime
spesso delle due parti combattenti. E chi può prevedere quanto durerà il
combattimento, quanto sarà esteso, quante volte ripullulerà, or dall’un
lato, or dall’altro ? Chi può dire a priori, se vincerà Bruto, o
Tarquinio... se interverrà Porsenna.... se si troverà sempre un
Muzio Scevola, un Orazio, una Clelia... o se piuttosto Roma non
finirà per servire al re di Chiusi, come pur troppo la storia rettificata
oggi dice? Habenl sua sidera lites.-E intanto le felicità dell’anarchia per
que’che non pugnano ! Le felicità delle dittature militari nel campo, o
ne’ campi di battaglia, o dovunque armati stanno o passano ! Le terre le
coltiverà chi può, ossia non le coltiverà più alcuno 1 mercatanti potran
chiudere i loro fondachi, se tuttavia lo potranno, e se non li vedranno
messi a ruba ed a rapina prima del chiuderli. I ricchi fuggiranno, se lor torna
fatto, ma fuggiranno in farsetto, se nou perdano la testa per via. Palagi, monumenti,
sa il cielo come saranno malmenati. Il danaro rubato si dissiperà, come
si dissipa sempre il danaro del furto. L’altro sarà nascosto, o mandato
all’estero. Poi la penuria, la carestia, la fame, e seguace della fame la
peste o l’epidemia. De’ costumi non parlo, né della gioventù falciata
innanzi tempo, o perduta ad Ogni buono impiego Digitized per
l’avvenire... Succederà, quando Iddio vuole, la villoria ultima a chi Iddio
vorrà darla (spesso nè agli uni, nè agli altri, ma a' terzi venuti di
fuori... ai Porsenna : secondo il proverbio, che tra due litiganti il terzo
gode ; con che sarà perduta l’autonomia, e da popolo che obbedisce a
sé stesso ed a’suoi, si sarà trasformati in popolo conquistato, in popolo
assoggettato, in popolo profeto, in popolo-colonia, in popolo vaceg-da -mungere
), e colla vittoria ultima sarà una specie di pace. Che pace però? La
pace accompagnata qualche volta da amnistie per tutti, se può sperarsi,
che, come è disposto a dimenticanza vera il Vincitore, cosi sia disposto il
vinto : ma, se a questa seconda dimenticanza non si crede da esso vincitore,
mancherà d’ordinario la prima, e mancherà, alle volte, indipendentemente
da ciò, s’cgli creda che bisognin giustizie ed esempi, e se le
collere non calmate cosi consiglino, o le circostanze paiano cosi comandare. Ed
allora s’avrà un altro tempo, più o meno lungo, che sarà di terrori più o
meno grandi, e di severi gastighi, od anche aspri, che i gastigali
chiameranno reazioni e persecuzioni, i gastiganti chiameranno necessità, e
opere di prudenza ; e chi oserà dire, in massima generale, da qual parte
sia la ragione ? — E questa vittoria, e questa pace, e i migliori lor
frulli, per chi poi saranno? 10 l’ho già detto. Per chi vorrà Iddio
: cosicché è possibile (si torni bene a pensarvi sopra), mollo
frequentemente è probabile, e facile a prevedere, se non si è ciechi, che
non sarà dalla parte di chi tentò la rivoltura : ma, o di quelli
contro a’quali fu tentata, o d’altri e d’altri, diversi, e non aspettati,
c non voluti, e non utili. Nel qual caso agli altri mali s’aggiungerà
quello che non s’avrà nemmeno il contento d’aver guadagnato ciò che si cercava
; e s’avrà invece 11 dolore e la pena di avere aggravato il male
che voleva allontanarsi, o d’ esser caduti, come s’usa dire, dalla
gradella nelle brace. - Anzi non basterà a’rivoltuosi nemmeno
l’aver essi per sè guadagnata la vittoria : perchè aver vinto è poco. Ciò
significa essere riusciti a distruggere, non significa avere edificato, e
poterlo e saperlo fare. L'opera della riedificazione resterà ad intraprendersi
: opera più difficile sempre che non quella della distruzione : opera, che, ne'
paesi, ove gli ordini antichi, colla violenza, si spiantarono, richiede,
per solito, anni moltissimi, e talvolta secoli, innanzi all’ esser condotta a
qualche buon termine : opera, in questo mezzo, tutta di prove e di errori,
tutta d’esitazioni, tutta di conti sbagliati e da rifarsi ; vera tela di Penelope
da far disperare del compierla ; e che quando pur si compie si trova ben
altra da quel che s’era immaginato, finita da altre mani, sotto l’impero
d’altre circostanze, sovente di altre idee, tale insomma che, per ultima conclusione
si riconosce essere un imperfetto sostituito a un altro imperfetto, dove
ciò solo di sicuro che emerge è la certezza del male immenso che si è fatto a
pura ed inutile perdita.... (1). Secondo: e fin qui ho supposto che
si parta almeno da un motivo più o meno evidentemente giusto dell’
operare le rovine che vogliono operarsi, col fine huono, sebbene con Non
si crede vero? — Un’occhiata allo Stato d’Europa ila sopra a 60 anni in qua.
Veggasi piti che altro la Francia. Vcggansi poscia le tante repubbliche
succedute alle mutazioni americane. E mi si opporrà, per avventura, il
solilo modello della repubblica degli Stati Uniti d’America ; cioè un
esempio sufficientemente favorevole contro a molti contrari. Questo è la
pruova del terno vinto, che è la rovina di tutti i dilettanti di giuoco.
La repubblica degli Stati Uniti d’America ha incontrato quattro fortune
piuttosto uniche che rare. 1. La fortuna d’ essersi imbattuta in un
Washington. 2. Quella d’essere stata, quando cominciava l'affrancamento
un paese nuovo, e d'una popolazione assai sparsa In mezzo alla quale le
fermentazioni e i conflitti delle idee meno eran facili. 3. Quella
d’averne avuto a progenitori, uomini già educati a libertà, ed a
reggimento presso a poco repubblicano. 4. Quella d’aver dovuto lottare contra
un potere lontano.... troppo lontauo, e con validi esteri aiuti. E ancora,
prima di giudicare il bene o il male del reggimento che si è conseguito
di stabilire, bisogna la sanzione d’ almeno un paio di secoli. Io non lo
credo fondato su base ferma.] gravo pericolo, e spesso quasi colla sicurezza di
successo non buono, o non proporzionatamente buono. Ma questa
giustizia del motivo v’è ella sempre? Chi la giudica d'ordinario? e quanti sono
que’che la giudicano? Uomini d’esperienza? Uomini i più sapienti nel popolo?
Uomini che conoscou bene lo stato vero delle cose? Uomini, che non si
lasciano illudere dalla passione? Uomini capaci di ponderare, non solo se il
motivo è vero in qualche grado, ma se è vero fino a tal grado da
richiedere un pronto rimedio, da non averiosi che per una rivoluzione? e
da lasciare sperare con qualche buon fondamento che per una rivoluzione
di leggieri s’avrà? Diamo un’occhiata al passato, ed al presente
prima di rispondere, e ricaviamo la risposta da quel che s’è veduto, e si
vede. - Ragazzi, e giovinastri, od uomini già noti per natura torbida, e
per naturale inclinazione a novità. Gente impetuosa, violenta, a cui natura
toglie il giudizio freddo ed imparziale dei fatti. Persone di mano, e non
di testa, facili a prestar fede al male che si dice di que’che odiano, e
ad esagerarlo, ed a misconoscere il bene: tali che .a reggimento ed a
governo mai non dieder mano, e che parlano di quel che non sanno, per un
dicium de dieta. . . tali che delle ponderate risoluzioni non hanno nè la
scienza, nè 1’ abito, nè la capacità ; e il cui maggiore studio non è
curare, se quel che vogliono sta bene o male a volerlo, ma cercare come
possano cominciare a ridurlo ad atto. E cotesti formano il fiore dello
stuolo. Gli altri son quali possono accompagnarsi a cosi fatti gonfalonieri,
come subalterni. Volgo proletario, che è facile sedurre con immaginarie
speranze, e mettere in fermento con fanatiche predicazioni. Disperati e
perduti per debiti. Piccoli ambiziosi, che consapevoli della loro nullità e
turgidi di luciferesca superbia, non altro mezzo veggono per sorgere, che
il gittarsi a corpo perduto tra i motori di cose nuove. Giovani
entusiasti, poveri di mente e di cuore, in cui l’immaginazione prevale al
giudizio, il bisogno d’agitarsi e di fare al bisogno di starsi con uu
libro innanzi o Ira le pacifiche occupazioni d’ una vita di sedentari
negozi. Altri che seduce il mistero delle sette, nati per essere schiavi
in nome della libertà, e bruti in nome della ragione. I seguaci di
Calilina, quali ce li descrivono Cicerone e Sallustio.... gli scherani di
Clodio ... i guerriglieri di Spartaco. Ora il senno di questi può con giustizia
decidere il tremendo problema delle rivoluzioni, e della necessità del
farle...? Poveri popoli condannati a patire la costoro malefica influenza! I
disordini d’uu governo cotesti son più atti ad accrescerli che a
conoscerli, e a ripararli.,E il lor costume è di dire che il desiderio loro è
il desiderio di tutti, o almcn de’ più, perchè più di tutti essi
gridano, e s’ agitano, e accendon fuoco da ogni parte! Gli altri che
tacciono, e che col silenzio mostrano che non si malesi trovano da dover
gridare, non li contano. Son essi il popolo vero; il popolo solo. Gli
altri, che coraggiosamente s’oppongono e gridan contro, non li
apprezzano. Chi sta in casa e bada agli affari suoi non fa numero.
Chi s’oppone è zero ! ! ! Tanto basti avere avvertito per
giunta ali’altre cose dette nell’antecedente articolo, e nel principio di
questo. Si opporrà — Stando al precedente discorso, le rivoluzioni non si
potrebber mai fare ( vedi calamità !), e i gravi disordini degli stali non mai
correggere. E Bruto primo ( po'ni esempio ), e Bruto secondo sarebbero stati o
due pazzi, o due furfanti. E Roma avrebbe dovuto tollerarsi in pace
quella grande iniquità del regno, e quella maggiore di Tarquinio
secondo e di Giulio Cesare. E i popoli dovrebber soflferir sempre, eie
tirannidi sempre trionfare, lo rispondo. — Innanzi tratto non si abusi delle
autorità. Sappiamo oggi tutti la verità intorno ai due Bruti, non quale
ce l'han trasmessa menzognere storie, ma quale una bene illuminata
critica cereò di porla in chiaro in mezzo alle tenebre addensate sugli
antichi fatti. Del primo Bruto poco può dirsi. Esso è mito più che
personaggio certo. Stando a quel che se ne narra.] bene addimostrò s’egli amava
la libertà o la schiavitù diRo' ma, nella famosa storia del bacio dato
alla terra. Oggi si sa, e ben sa, che Roma, innanzi alla distruzione dei
Galli, non fu mai si florida come sotto i re etruschi. La rivoluzione
di Giunio Bruto contra il Superbo, se risguardiamo agli effetti,
distrusse per lunghi anni la prosperità della futura capitale del mondo,
e non è sicuro che la preparasse. A essa dovette Roma i mali d’ una lunga
e disgraziata guerra, che condusse, come testé notavamo, all’assoggettamento a
Porsenna, il quale altro ferro non lasciò a’ vinti romani se non
quello che agli usi dell’ agricoltura sovvenisse. La città regina
deve la sua rivendicazione in libertà ai fatti della guerra infelice
del re chiusino contro ad Aricia e contro a’Cumani.E senza Bruto, la
tirannide del Superbo finiva al finir di lui : nè le due catastroG, che
successero, pel tentato repubblicano mutamento sarebbero state. Se dal male
venne poi bene alla luoga,ciò non è il merito dell’ autore del male. I
provvidenziali destini di Roma dovevansi compiere ad ogni modo. — Quanto
al secondo Bruto, si conosce nou meno a che buon fine usci il
cavalleresco, e sufficientemente odioso fatto dell’ingrato bastardo del
Dittatore. Il fanatico non conobbe nè i suoi contemporanei, nè i veri
bisogni del suo paese. Fu un povero politico, siccome un povero
guerriero. Nè combatteva per la riforma, ma a chi ben riflette, contro ad essa,
voglioso di richiamare a una vita impossibile la degenerata e morta repubblica,
la quale Cesare per ben di Roma aveva distrutta. E il mondo che vi
guadagnò? L’aver perduto un grand’ uomo qual senza dubbio era il vincitore
delle Gallie e di Pompeo, per fargli succedere un minore di lui, nè
manco despota di quello. — Nondimeno, io non voglio abusare di questa
maniera d’argomentazione. Certe rivoluzioni, che, dopo i primi mali prodotti,
alla fine son riuscite ad utilità ( una ogni mille ) io non voglio
negarle. Voglio negare che il massimo numero delle volte siano state
atti considerati e degni di lode, anche quando una utilità se ne trasse.
Voglio osservare ch’elle sono giuocate di lotto, dove il vincere è un
caso assai raro, il perdere è la sorte comune; con questo di peggio, che il
perdere non è mai di poca cosa, nè d’uno o di due, ma di tutto un popolo,
di tutta una nazione, perchè la posta ( 1 ’enjeu ) è la fortuna di
esso popolo, di essa nazione, nel suo presente, forse nell’avvenire; sono
le vite, gli averi, gli onori, ogni cosa più cara che gli uomini
s’abbiano. Voglio per conseguenza dire, ch'esse possono esser atto di
disperazione o d’audacia, non atto mai, o quasi mai di senno; e che sono
un mezzo, e qualche rarissima volta il solo ( della cui natura lecita
od illecita quanto a coscienza di buon cristiano è questione che
lascio decidere a’casuisti ) per liberare l’universale da mali, più o men
reali, e più o meno intollerandi, son però un pessimo mezzo; uno di que’
rischia-tutto, che chi sente d’andare a irreparabile ed imminente rovina, tenta
qualche volta, come un’ultima speranza, quia melius est anceps, quarti
nullum experiri remedium, ma che aggiunge un biasimo di più a chi,
andando a rovina, per questa via l’ affretta, e la rende più grave, più
inevitabile. Or, data, contro alle rivoluzioni in generale, questa
sentenza di condanna, qual rimedio dunque avranno i tiranneggiati,
gl’insoffribilmente angariati, i giustamente e gran-: demente malcontenti
de’ mali ordini politici sotto i quali gemono ? Vuoisi eh’ io tratti la
questione storicamente, o teoricamente? Se storicamente, dirò, con
franchezza, spesso nessuno. Perciò gli annali del mondo son pieni delle
storie di popoli non solo lungamente malgovernati, e barbaramente
oppressi, ma sterminati senza rimedio, e cancellali tutti interi dal
libro della vita. Coraggio o viltà ; resistenza e difesa sino agli
estremi, od abbandono di sè, non ci fanno nulla: chè spesso il tentar di
liberarsi e di riscuotersi è stato col proprio peggio, rendendo più tormentosa
1’ agonia, più terribile I’ eslerminio. In questa guerra, come in
ogni altra, è quale nel duello. Non vince sempre chi ha ragione.
Cosi le disgrazie dei mali ordinamenti, e le pressure, son come le
pestilenze, come le fami, come gli altri flagelli che cadono a volta a
volta sulla nostra povera specie, a ventura, come un decreto di calamità e di
morte, al quale ci è forza soggiacere. Se parliamo poi teoricamente, dirò,
che in cielo non è scritto, che la giustizia in terra sempre vinca. È
nell’ economia del mondo, che il male non rade volte domini il bene, e
che la specie nostra riceva, a quando a quando, dure lezioni per imparare
umiltà e rassegnazione; per accorgersi che non è qui il tribunale supremo
dove si giudicano le cause degli uomini in ultima istanza; per Operare o
per temere una giustizia futura ; per credere un’ altra vita. Noi tratteremo
altrove questo argomento più alla distesa. Il rassegnarci
sarà dunque lo scoraggiante unico dover nostro? nè Iddio nella sua pietà
e bontà infinita ci avrà dato modo per ajutare la giustizia, se non a
vincere, almeno a generosamente difendere le proprie ragioni, a
virilmente protestare contro alla iniquità e al sopruso? Questo io
non pretendo, e nessuno lo pretende. Quel ch’io pretendo, e ciò t
che i savi pretendono, richiede un più lungo discorso. A chi, senza
passione, studia i casi dei popoli quasi sempre appar chiaro, che si fatta
specie di mali assai radamente sono senza manifesta colpa o cooperazione
di chi vi soggiace. Si soffre perchè s’è meritalo di soffrire. I figli pagano
la pena degli errori de’ padri. E tuttavia, se par non esservi
rimedio, è che manca le più volte piuttosto la sapienza e la virtù per
emendare il danno, di quello che la possibilità d’emendarlo. Un popolo
che soffre ( giova ridirlo ), soffre ordinariamente, perchè è degno di
soffrire; ed allora il soffrire è una pena meritata, e il non saper liberarsi
di questa pena, e il seguitare di essa è ugualmente sua colpa. Dove
i probi, ed i sapienti, e i fervidi amatori del pubblico bene
abbondano, l'amor del giusto e del vero necessariamente si prepondera,
che l’ingiusto ed il falso non possono allignare, od allignando non possono
guadagnare rigoglio, e non finire col diseccarsi fino alla radice, e col
perire. Perchè dal retto apprezzamento, nel maggior numero, di quel che
è buono e cattivo, e dall’avversione per questo, e dal bisogno di quello,
si genera di necessità ciò che si chiama la forza della opinion dominante,
che è tanta parte della forza delle cose, la quale, allorché ha saldo
fondamento di verità, dura, e non domina da burla. I cattivi, se vi sono, allora
han più vergogna, e a lor malgrado, si nascondono, e non osano, o, se
ardiscono, sono presto repressi, senza strepito d’armi, dalla generale
riprovazione, la quale, in innumerabili, prende la forma di coraggio
civile, che dice animosamente, ma pacificamente, e con tulli i modi
legali, il vero : ciocché è possibile, ed alle volte è probabile,
che nuoca a chi lo dice, ma non è possibile, nè probabile, che non
Gnisca col giovare all’universale, secondo che gli esempi di sì fatto coraggio
fruttifichino, si moltiplichino, e si rinnovino. In altri prende la forma
di pubblica e franca disapprovazione, tanto più efficace, quanto men
turbolenta, quanto meno esagerata. In tutti prende ogni legittima forma,
per la quale sia possibile arrivare, senza eccessi mai, nè disordini,
all’emendazione del malfatto. E il malfatto battutto da tante parti, ed in modo
si misurato, si degno, sì animoso^ nel tempo stesso si prudente, potrà bene
sbizzarrirsi ancora qualche tempo, ma non vincerà la pazienza e la virile
e nobile resistenza di quei che giustamente si querelano, si bene sarà
vinto con assai più prontezza che altri non immagini. Ma dove
cittadini della forte e virtuosa tempra ch’io dissi, o difettano al lutto,
o sono in minimo numero, e gli altri non sono che turba ignobile,
impastata d’ egoismo e di vizio, primo (torno a dirlo perchè bisogna), la
perseveranza e l’ immedicabilità del male a torlo è querelata. Essa è
un effetto le cui cagioni principali sono in chi si querela, come
dianzi affermavamo: secondo, è allora solamente che in mezzo a popolo depravato
si giltan fuori falsi medici ; cioè quelli che han fuoco soprabbondante
di passioni per isdegnarsi di ciò che materialmente si soffre, e per
accender lo sdegno al di là d’ ogni equa proporzione col suo fomite ; ma
non hanno, nè senno per conoscere e pesare quel che conviene e quel che
no, nè virtù per saper soffrire quel che non può evitarsi, nè altro di
ciò che bisogna a dar buono indirizzo al pensiero riformatore. E son
eglino che non contenti di sbagliar essi la strada, traggon fuori di via
gli altri, già purtroppo, per ipotesi, poco alti a fare saper quel eh’ è il debito.
Eglino che screditano la moderazione, i mezzi legali e pacifici, e tutto
che non sia l’impeto loro sconsigliato e pazzo. Eglino da cui nasce e prende
piede la falsa opinione dell’ impossibilità del bene o del meglio senza
ricorrere a’ loro forsennati e pericolosi divisamenti. E già
troppo di questo argomento s’ è favellato. Ma fin qui noi, per cosi dire,
non abbiamo che girato attorno al massiccio delle questioni nostre. Ciò è la
trattazione del governo in sè, che si vuole ostinarsi a considerare come
una emanazione pur sempre di quella sovranità del popolo, di che abbiamo già
detto parecchie indirette parole, ma non le dirette che si richiedono.
Direttamente dunque ornai favelliamone, e cerchiamo che il discorso abbia
l’ estensione che l’importanza del soggetto richiede. De’ governi, e
delle sovranità in generale. Si : nessun assioma più oggi è fitto
nella mente degli uomini, che quest’ uno, tenuto come principale — La sovranità
risiede, per sua essenza, nel popolo — Chiedete intanto a que’ che cosi
pronunziano, qual cosa, in si fatto assioma delle piazze e delle
conversazioni, significa per essi sovranità, che cosa popolo : chiedete l’
analisi e la sintesi teorica e pratica dell’ idea che innestano a questi
due vocaboli : chiedete la spiegazione delle dottrine, che da esso assioma voglion
dedotte, od almeno de’suni più immediati conseguenti; e vi accorgerete
esser quello, al maggior numero di loro, niente altro che una frase
oscura e d’ indeterminata significazione, la quale permette interpretazioni le
più diverse, e, purtroppo, lascia sovente libero il luogo alle più strane
e le più assurde. Come intendete voi, brav’ uomo, questo che
oggi tutti dicono — Il popolo è sovrano ? — dimandava io, son or pochi
giorni, a un mercenario, il quale, per prezzo, prestava alla mia casa non
so che faticoso servigio — Rispose — L’intendo, che tutti dobbiamo comandare —
Io ripresi — Ma, se tutti comanderanno, chi dunque obbedirà? — Senza perdersi
d’animo, egli soggiunse — Que’ che han comandato finora. I nobili ed i preti. I
ricchi e gli usurai. Quei che posseggono e possono, mentre noi non abbiamo fin
qui posseduto, e potuto nulla — Ed io — Ma non sono essi ancora popolo, e
del popolo, e perciò, almen almeno, cosi legitimamente padroni della lor parte
del comandare, quanto I’ han da essere gli altri? — Ed egli — La parte
loro di padronanza l’hanno esercitata e goduta anche troppo, giacché
l’hanno adoperata soli e sempre. Una volta per uno. Adesso tocca a noi.
Essi non eran popolo, nè del popolo, quando comandavano, e lasciarono
esser popolo, e del popolo, solamente a noi poveretti. Dunque, giacché s’ erano
separati dagli altri, ne patiscano la pena... Ecco come il volgo interpreta la sua sovrana
potestà ! Un abuso sostituito ad un altro abuso : una tirannide ad un’
altra tirannide ( concessogli anche, senza esame, nè disputa, che ogni poter
sovrano dell’ antico modo sia stato, sia, e non possa non essere, che
abuso e tirannide ; concessione, la quale dicano i discreti se possa farsi.
Certo, in coscienza, io non posso farla. ) Ritorniamovi sopra. 11 secolo
interroga — Di chi è per naturai diritto la sovranità ? — E son io questa volta,
che voglio rispondere. Nè tratterò prima la quislione, che chiamano
pregiudiciale : se quel che lilosolìcamente parlando, sembri a taluno, od a
molti, od anche a lutti, di naturai diritto assoluo più sono per andare,
innanzi, avvegnaché in si fatti popoli, le sempre crescenti disuguaglianze
stabiliscono, per legge di ragione, una necessità di gerarchie, per le
quali vuole giustizia, che gli uni siano maggiori degli altri a vario
grado, e la sovranità s’ attemperi all’ordine gerarchico, il quale natura
ed arte hanno stabilito, o son per istabilire. Ma essenza
della civiltà non è meno un immenso campo aperto alle passioni ed ai vizi
i più detestabili, come alle virtù più nobili. Da una parte avarizia, invidia,
rivalità, egoismo, ambizione, tradimento, perfìdia, frode, broglio, seduzione,
baratteria, truffa, usura, ladroneccio, mariuoleria, stupro, adulterio,
dissolutezza, maltolto, accattoneria, accoltellamento, assassinio, e cento
altre mila simili, o peggiori, depravazioni e miserie d’una civiltà volta a
contrario fine : dall’ altra filantropia vera, generosità, carità, longanimità,
sacrifizio abituale di sè, e delle cose sue, date a pubblico e privato
vantaggio, assistenza a chi è in bisogno, disinteresse, rettitudine
eminente, desiderio intenso del bene, orrore del male, coraggio militare e
civile, infaticabilità, zelo, larghezza di consigli, d’indirizzi, d'aiuti...
virtù cristiane. . . virtù civili. Or ciò fa una seconda categoria
di disuguaglianze, maggiori ancora di quelle che precedentemente
consideravamo in più special modo ; disuguaglianze che hanno un gràdo
intermedio de'non buoni e non cattivi abitualmente, ma degli andanti a
orza. Donde la convenienza di tener gli uni come peste del popolo, e come
non popolo; di diffidare grandemente degli altri, c di non aver fede,
a pubblica e comune utilità, che de’ già provati ottimi, nei quali
le altre condizioni pur concorrano. E di qui una nuova ragione perché la
democrazia pura a’ popoli civili tanto men s’ attemperi quanto son più
civili, e contenenti perciò nel loro seno, al fianco di molti ottimi,
molti (tessimi, e molti che stanno tra l’ ottimo e il pessimo. Il perchè,
se, a priori, e secondo le suggestioni astratte dal senso comune,
in essi popoli avesse a crearsi una sovranità, certo ogni sua parte
sarebbe agli uni negata assolutamente, agli altri non concessa in ogni
cosa, e ridotta, nel generale, a più o men ristrette proporzioni ; e
riservata o interamente, o nella massima sua dose, a’ soli degni di questo
privilegio. In che può ben essere una difficoltà grande d’esecuzione; ma
ciò non toglierebbe che in teorica ciò avrebbe a giudicarsi il
meglio da ogni savio. Per ultimo l’essenza della civiltà è il
creare innumerabili maniere d 'interessi, de’ quali non è vestigio nella
vita delle selve, o delle capanne : interessi principalmente materiali,
odiali e screditati da quei che vorrebbero ricondurre gli uomini alla vita
della selva e della capanna ( o lo confessino, o no, perchè chi vuole il
mezzo vuole il fine ); ma interessi tanto connaturati a ogni società
civile, che il turbarli a qualunque grado è fare a un popolo uno dei maggior
mali che possano farglisi. Tali sono gl’ interessi di possidenza, gl’
interessi d’industria promossi da qùe’ primi, gV interessi di famiglia,
gl’interessi di condizione, ed altri che non accade specificare più a minuto. I
quali da due parti si possono riguardare: dalla parte di coloro a chi spettano;
e dalla parte delI’ universale, in mezzo a cui sorgono, e si moltiplicano.
E, dal primo lato, giova dire, che hanno essi una origine, della
quale, se sono artificiali i modi, è da natura la principale radice.
Perché è natura l'amare noi stessi, e i nostri congiunti, e il nostro e il loro
bene ed agio ; natura l’ istinto della proprietà, o del possesso di quél
ciré ci troviamo avere, e di quel che andiamo procacciando man mano ;
natura il cercar di crescere questo capitale nostro, che non siam padroni
di non considerare come facente colla nostra persona un sol tutto, per
tal guisa, che, quanto fa esso maggior somma, tanto fa più grande la
nostra importanza, il nostro ben essere terreno, il sentimento d’ esser
meglio che altri riusciti a soddisfare il bisogno ingenito d’alzarci con
ogni nostro onesto sforzo, non per soperchiare chicchessia, ma per
obbedire, anche in questo, alla legge di perfettibilità e di progresso ;
natura quindi ( ciò che istintivamente a un modo medesimo ammise presso a
poco ogni popolo ), il chiamare ed il credere legittimamente nostro l’
ereditato, il donatoci, il comperato, l’ottenuto, si nel peculio, e
si nella superiorità della condizion relativa a che s’ è giunti, o
in che s’ è nati... il guadagnato e l’avuto dal lavoro, o da traffichi di
buona lega; (ìnalmerite natura il riguardare l'interesse proprio d’ ogni forma
come non si esclusivamente proprio della persona, che non s’abbia a
riguardarlo quale un interesse, ad un tempo, dell’ intera famiglia alla
quale apparteniamo, finché sarà essa per durare e per estendersi. E
di qui categorie di ricchezza più o meq considerabile, in opposizione
colla povertà ; di patriziato più o meno eminente, in opposizione col terzo
stato e col volgo. Di qui tutta la scala delle fortune, per che uno è
Grasso, o Luculio; un secondo è un accattone di strada; un terzo è un che
vive del suo, masotlilmente, con quel che basta, e con nulla che avanzi —
Da un altro lato, se gli effetti di ciò, nell’universale de’ cittadini, si
considerino, quantunque a dì nostri molta sia la proclività de’ novatori
al gridare, questo essere, non pur soltanto ingiustizia degli uni contro degli
altri, ma ( quel ch’è peggio) gravissimo danno, gl’imparziali e
giudiziosi però non cosi vorranno affermare quando ben vi riflettano, e
quando massimamente volgan l’occhio alle conseguenze ultime. Per
chi ben guardaci! mondo è fatto in modo, cosi avendo il creatore disposto, che
non può uscire di questo di lemma ; o dell’esser composto di lutti poverissimi,
costretti, per sussistere, alla vita selvaggia, e nomade, e di cacciatori ;
senza nemmen pastorizia, non che agricoltura ; o dell’ esserlo d’ uomini,
i quali, cominciato a gustare le materiali e miste dolcezze .d’ un viver più
confortevole, più agiato, meglio congiunto con que’che s’amano, e
co’quali s’ ha strettezza di sangue, più che le gustano, più ne divengono
avidi, e più speronano la propria attività per procacciarsele, ognuno, nella
maggior misura possibile, senza essere impedito o disturbato, e più se ne
creano quel che si chiama un loro interesse individuale, a cui tengon
tanto quanto alla propria vita : ed allora, secondo che un s’ industria
più, un altro meno, uno piu è destro, un altro ha manco attezza, ecco a
poco a poco ricchi e poveri, possidenti e proletari, banchieri, mercatanti in
ogni ragion di mercatura e di commerci, agricoltori, fabbricatori, mercenari,
patrizi, e plebei... uomini accasati e vagabondi, capi di bottega e
garzoni, e manovali, padri di famiglia e scapoli ricusanti la briglia delle
nozze per amore dell' allegra e libera vita, quegli che ha la casa e la
vigna, e quegli che non ha nè la casa, nè la vigna... E l’amore di ciò
crescendo, cresceranno le distanze tra gli estremi, o le differenze.
— Or quello è barbarie, questo è quel che sempre s’è chiamato la civiltà,
il progresso, o della civiltà, e del progresso, . effetto, ad un tempo, c
causa e criterio e simbolo il più visibile. Volete voi una civiltà,
invece, ed un progresso, senza questi effetti? Voi vi fate illusione.
Avrete un ricadere infallibile nello stato barbaro.
Imperciocché, si pubblichi, a cagiou d’ esempio, una legge domani,
non dirò che abolisce ogni proprietà, ma dirò che abolisce, pur solo, la
libertà de’ cumuli, e degli accrescimenti, nella possidenza così detta, e che
con una nuova divisione di tutte le terre distribuisce per teste il
suolo, assegnando a ognuno tanti iugeri, e non più. Aggiungansi altre leggi,
che quanto è danaro faccian colare spartito coegualmente, o più o men
coegualmente, su tutti. Chi non vede la conseguenza forzala? — Tu che non
puoi coltivare colle tue braccia, con quali braccia coltiverai? Con
quelle d’ un operaio preso a mercede? Ma l’operaio è possidente ai
par di te, ed ha i suoi propri iugeri da coltivare. Se addoppiando la fatica,
pur si darà braccia anche per te, si contenterà più egli di coltivare il
tuo con quello stesso salario con che te lo coltiva oggi? Vorrà raddoppiarlo, o
astenersi, perchè non ha bisogno ; e tu dove troverai questo doppio
danaro che t’ è necessario, se vuoi che i tuoi pochi iugeri ti faccian
mangiare? Dove lo troverai, se sei di coloro, i quali s’avvezzarono a vivere
col solo frutto della loro possidenza, e non saprebbero far altro? (Oltre
di che, se Io trovi, c glie lo dai, egli diverrà comparativamente il
ricco, e tu diverrai, viceversa, il povero, ristabilita cosi a rovescio,
comechè dentro piu ristretti limiti, la differenza di fortuna, e
ripristinato, per contrario verso, un nuovo bisogno di livellazione ).
Ma, educato come sei, non ti basta, pe’ pochi iugeri che ti son
dati, o che ti restano dopo lo spoglio, il trovare coltivatori. Ei ti bisogna
trovare un che dell’ amministrazione s’intenda, più di quel che tu ne
intendi, tu che, probabilmente, non vi pensasti mai, volto ad altro il pensiero,
e solito a farti servire in tutto ; e questi ancora non vorrà
spartire il suo tempo tra l'azienda della propria coltivazione e della
tua, senza esserne ben pagalo egli stesso. Ecco dunque per te una nuova
necessità di pecunia, che non saprai donde trarre. Ecco, se tu arrivassi
a trovarla su i risparmi eccessivi che t’ imporresti, una cagione per
esso di soprastare a te nell’ avere, e di turbare il livello, quanto
almeno il misero sistema che analizziamocomporta (colla conseguenza poi
del bisogno di sconvolgere nn’ altra volta la società, per novamente
livellarla, quando il ricco sarà diventato povero, e il povero ricco). Ed ecco,
se, non ostante ciò, non potrai trovarne quanta te ne bisogna, ecco
dunque, ripeto, cbe i tuoi pochi iugeri non ti serviranno a nulla, e resteranno
incolti, con danno anche pubblico, e tu morrai di fame. Muori pure, tu
fuco nell’alveare della nazione, tu il « quale non meriti vivere» dirà la
legge nuova, che, senza scrupolo, e senza badare a numero, vuole uccidere
una eletta parte della popolazione a profitto del nuovo mondo, il
quale s’avvisa di fabbricare. « Muori tu, con tutti i tuoi. « Resteranno,
con maggiore utilità, cittadini più laboriosi, « tra’ quali que’cbe
prestan le braccia e la direzione per « coltivare, saran pagati con quel
cbe lucreranno i non col« tivanti con altre occupazioni retribuite. » — Ma che
occupazioni potranno esser queste? Arti, per esempio, di lusso? Tu burli.
Queste no : perchè il lusso è una superfluità per que’gran birboni de’
ricchi, cbe necessariamente costa cara, essendo cara la materia prima,
care le operazioni destinate a trasformarla, e le spese di manifattura ;
ciocché fa, che il prezzo loro è necessariamente alto ed altissimo,
e perciò irreperibile in un popolo dove ricchi più non sono. Dunque non
più carrozze, non più arredi preziosi, non più drappi sfoggiati, non più
cristalli e porcellane di Sevres, non più ori e gemme ed argenti, e per
analoghe ragioni, non più statue, non più pitture, non più palagi,
non più parchi, giardini di piacere, cavalli di pompa, ville... cose
tutte riservate a’ paesi infelici dove duri la servitù degli uomini... Quali
pertanto, nella beata tua Sparta, saranno le arti, a che que’chenon
vogliono, o non sanno, o non possono, coltivar la terra, o fare al più
vita di pastori, potranno darsi, per isperare sostentamento, e
possibilità di coltura alle poche terre, che la legge agraria avrà voluto
assegnare alla loro incapacità? Siccome la consumazione è quella che regola
sempre la produzioiìe, saranno > salvo poche eccezioni, le arti che si
chiamano di prima necessità, ed elle stesse ridotte alla loro pili
grossolana e più rozza e men costosa espressione.... E questo non si
chiamerà rendere la spezie umana retrograda, e distruggere la civiltà ! !
! Questo sarà il secol d’oro ( senza l’oro, e ricacciato nel fango dei consorzi
umani che sono in sul cominciare, e che tengono ancor molto della
primitiva creta senza vernice ). E io qui non parafraso
l’argomento, e non lo-scorroper ogni suo punto, piacendomi a descrivere
tutti gli altri conseguenti: gli studi scaduti, le occupazioni geniali
vegnenti meno, lo slaucio, il potere degl’ intelletti inceppato ...
a dir breve, la condizione di tutto il popolo condotta sollecitamente a
quella forma, che oggi, per trovarla, dohhiam salire le montagne più
selvagge, insinuarci ne’ villaggi i più rozzi.... Pur so qùel
che si risponde dai gros bonnels delle nuove filosofìe politiche. Non son
essi cosi bestie da non vedere tutto ciò, per poco che vi riflettano,
cosi limpidamente come noi lo veggiamo... Ma essi han due lingue in
bocca. Una colla quale parlano al volgo; un’altra colla quale parlano
a noi. La prima delle due lingue favella alla faccia del popolo. Divisione de’ beni Distruzione de' ricchi Abolizione dell’ odierno ordine di cose
col ferro e col fuoco — Sovranità della moltitudine proletaria.... senza
comento, senza restrizione. E la feccia del popolo accetta con alacrità questo
simbolo della sua fede politica nel senso il più letterale, il più largo
; e vi crede ; e se ne infatua ogni giorno più ; e affretta co’desiderii
l’ istante, in che la legge agraria sarà promulgata; e odia intanto, e minaccia
que’ che hanno, considerandoli, come usurpatori del dovuto (!) a que’ che
non hanno ( e che non hanno fatto niente per avere ). Come potrebbe
essere diversamente? — La lingua, in questa vece, che parla con noi,
rinega, o piuttosto maschera sì fatte enormità. Va per giravolte.
Sostituisce alle idee troppo urtanti, ch’esse enormità rappresentano, altre
idee che mostran meno quel che è celato sotto. Propone temperamenti e
sistemi, che creeranno una civiltà nuova, capace d’ evitare, o
d’attenuare Uno ad una proporzione innocua i precedenti sconci. Utopie.
Le Icarie d’ un Cabet ( da andare a cercare in America, lontano lontano dagli
occhi di coloro, che potrebbero screditarne gl’ incunaboli, e riferirne
le miserie). I ComuniSmi sotto certe forme. I socialismi de’Fourieristi e
di Considerane diLouisBlanc, e di Prudhon: sistemi confutati ogni giorno
lecento volte da uomini sommi.. . da uomini i più grandi, i più
competenti della Francia, e dell’ altre nazioni d’Europa, e pur messi sempre
innanzi colla stessa impavida sfrontatezza, colla stessa subdola
destrezza, fingendo, che confutazioni nou vi siano. ..che le dispute abbiano
cessato, o non meritino la pena ’d’ essere intraprese e siano state vinte
... che il giudizio dell’ universale ( non quello delle proprie sette
soltanto ) sia già intervenuto, e sia stato favorevole : sistemi, uno
de’quali è la confutazione dell’altro: sistemi, non pertanto, ciascuno
de’quali, cosi ancor controverso, cosi ancor contrastato tra le file
stesse degli odierni rinnovatori del mondo, non si è già contenti
dell'ofirirlo solo all’esame ed alla disputa de’ ginnasi, com’io pur
altrove considerava, ina, prima d’averne posto fuor d’ogni controversia
la certa utilità presso almeno il maggior numero degl’invitati a subirlo,
si vuol pervicacemente tradurlo ad alto ; si vuole imporlo a tutti colla forza,
e guadagnargli la prevalenza del numero, colla seduzione, e con arti di
cospiratori ! Nè io, deviando troppo dall'argomento principale e
diretto di questo articolo, debbo qui imprendere d’ aggiungere una
confutazione di più alle tante che corrono il mondo, e che si rimangono
senza adeguata risposta. A me, per l’oggetto, che mi son proposto,
basterà fare una dimanda (lasciato da parte il trattare, se quello di si
fatti sistemi, che ciascuno .ole de’ parliti nuovi
preferisce, e che, ad ogni costo, vorrebbe sostituito, senza dilazione,
al presente ordine di cose, bada esser liberamente consentito, o si vuol
che sia una confisca violenta delle libertà di troppi a profitto d’ una
futura riordinazione degli uomini secondo la prestabilita formola d'alcuni, che
non si vuol disputata, né sottomessa ad arbitrio di rifiuto, ma si vuol
accettata da chi non la crede buona ed utile, come da chi la crede,
ancorché chi non la crede s’ostini invece a riputarla un esperimento
eminentemente dannoso ed assurdo, o per lo meno grandemente
rischioso, e pieno di pericolosa incertitudine). — Io farò la
dimanda, che sola qui m’ imporla. — 1 nuovi sistemi di congrega civile (
si risponda con franchezza ) manterranno si o no, la diversità, più o
meno, di specie e di grado negl’interessi, anche materiali, de’ singoli,
come in generale, l'ordine della civiltà mostrammo, per sua natura
leudere a produrre? — Se no: dunque ( levata pure ogni maschera ) tutti,
ne’ materiali profitti, avranno lo stesso ; tutti spereranno lo stesso, o
presso a poco lo stesso. Sparirà, o tenderà a sparire, la libertà del mio
e del tuo, almeno quanto alla misura. L’attività, la solerzia, per ciò
che spetta al ben essere fisico d'ognuno, non recheranno alcun maggiore vantaggio,
che l’infiugardia, l’inerzia. La perizia più grande nello stesso genere
sarà materialmente trattata come la minore. Nella comunità nessuno avrà alcuno
di quegli stimoli stali sempre, che più energicamente e più
universalmente ed infallibilmente son motori al fare, non che al ben
fare. — Vi sarà ( vorrà dircisi ) il premio della maggiore stima
che si godrà da chi la merita, oltre alla soddisfaziou generosa dell’ animo
proprio. Vi sarà il piacere di sentirsi lodato j di vedersi onorato, consultalo
sopra gli altri. Ma questo é dimenticare, che si fatto premio già c’é
nell’ordine odierno, e pur non basta senza quegli altri che oggi vi
sono, anzi non basta nemmen con quegli altri. Questo é dimenticare che
noi siam composti d’anima e di corpo, 1' uno e l’altra co’ suoi speciali
bisogni, e perciò cogl'interessi, e co’ diritti suoi ( purtroppo i
secondi essendo, di più, meglio sentiti che i primi ). Questo è il togliere de’
due ordini di molle, che natura ci ha dato per impulso al progredire,
uno de’ più efficaci; il più efficace de’due; il solo efficace pel
maggior numero de’viventi : i quali, se anche colla giunta della potente azione
di si fatta specie di molle, si spesso, tra color pure che son meglio
educati e disciplinati, si ristanno, c non progrediscono, o vanno all’
indietro, può ben prevedersi quanto più si ristaranno dal progredire, od
andranno all’ indietro dopo la sottrazione che lor si minaccia. Ma
qui non si fermeranno gl’inconvenienti, poiché bisognerà bene esser preparati
al subire molti altresi di quelli che già di sopra toccavamo, od analoghi
a quelli. Tradotto a pratica, uno od un altro di cotesti sistemi* per
ipotesi, livellatori, senza bisogno di speciali leggi suntuarie, il naturale
loro effetto sarà che diverranno per tutti ugualmente interdetti certi
innocenti, ma vivi, piaceri della vita, a che pur ci ha preparato natura,
e non ci è a disgrado che ci educhi l’ arte ; cioè il magnifico vestire,
la buona tavola con una corona d’ amici del cuore, servita di costosi
manicaretti, e di squisiti vini, e le altre, o simili cose ch’io diceva ; come
dire argenterie, oreficerie, tappeti, arazzi, bei quadri, le sontuosità
de’ palagi, le scuderie popolate da bei palafreni, o da generosi corsieri
.... cocchi, cacce, viaggi, villeggiature, libero ed ampio sfogo a’ propri
generosi impulsi, e ad altri, che, per essere men nobili, non ci
son però men cari, nè men sono innocenti.. ; il poter direasè
stesso. Y’è qualche cosa... v’è molto, di cui son io padrone... di che posso
disporre a mio pien beneplacito, e di che posso, con oneste arti, a me
accrescere il godimento, quanto a farlo mi basti la volontà e l’ ingegno,
chiamandolo mio senza che altri me ne turbi, o me ne coarti ad una data
invidiosa misura, l’uso ed il possedimento. Questa è la vera libertà del
progresso. Questo è il progresso della libertà. Libertà dell’ industria.
Libertà piena «senza limitazioni. Libertà, non della sola persona, ma di quello,
che, com’ io notava altrove, noi consideriamo qual parte, e
connaturale contorno e complemento della nostra persona terrestre,
nel senso che già esponemmo. Or si ponga ben mente alla contraddizione.
Si dice, che, ne’ sistemi presenti di reggimento de’ popoli le libertà
son troppo vincolate, e non hanno il loro legittimo slancio,
tiranneggiandole soverchiamente tutti più o meno i governi. Si dice, che
il diritto al progresso è inceppato ; che è giunto finalmente il tempo d’
affrancar l’uomo dalle infami antiche catene; ed intanto i nuovi sistematici
preparano al mondo forme di schiavitù inaudite, e che non sono mai state.
La vita comune è d’ alcuni conventi, e si sa quanta abnegazione del proprio
volere ed istinto costa, e quanto pesa, e quanta virtù esige perchè si giunga a
patirla senza lamento. Altrettanto è dello stare a parte in mano, e del
vivere a misura quale che siasi, ed a spilluzzico in ogni cosa, secondo che
altri assegni o conceda. Quel dover più o manco, giusta la diversità de’
sistemi, lamentare tra sè e sè con queste voci : « La famiglia me la «
usurpa in gran parte lo stato. La rendita me la limita lo « stato. La
nobiltà me l’abolisce lo stato. La eredità me la « sequestra e me la
impedisce lo stato » ( parlo qui specialmente nella supposizione sempre dalla
quale son partito, cioè in quella de’ livellamenti, qualunque siane il
metodo e la forma), non è egli un costringere ad esclamare chi cosi
considera « Io non son più meijuris ! — Io mi son fatto servo dell’
associazione d’ uomini nella quale sono entrato! Questo è ben altro che società
sinaliagmatica di buona fede 1 — Questa è una società leonina, o una società
da « volpe ( ripeteranno ), dove il più poltrone, il più gaglioffo, il
più stupido, il più disadatto, iLpiù vivente a « peso degli altri è il
più favorito o il più furbo, ed ha stipolato in suo favore il monopolio del
massimo vantaggio; « mentre il più attivo, il più industrioso, il più
ingegnoso, « il meglio animato a fatica, quegli che del suo piu contri«
buisce, è quegli eh’ è sopraffatto, eh’ è derubato, eh’ è « vittima!
Questo è il mondo alla rovescia!? Cosi combinisi ogni cosa come lo si
voglia, diasi d’ oro alla pillola meglio che si sappia, cuoprasi con tutti i
nastri che si voglia la trappola, mal s'ha fiducia del riuscire a
ingannare altri che i più sciocchi. Da che l’ effetto ultimo sai che
ha da essere l’averti tirato dentro ad una società a capitale morto,
dove, nella liquidazione de’frutti, a te principale azionista, o dei principali,
dee toccare un dividendo pari al dividendo di chi non ha messo nulla, per poco
che abbi saviezza, non si sarai gonzo da lasciarviti accalappiare. Dopo
tutte le quali considerazioni, per ultimo risultato, e per giunta
alla derrata, a si fatta conclusione non si sfugge, che l’alzarsi al postutto
degl’ infimi, e di essi stessi fino a un limite poco lontano e di piccola
elevazione, gioverà ben poco alla causa della civiltà e del progresso, e
rabbassarsi a precipizio, de’ nati per esser sommi, gioverà a questo ancor
meno; e perciò, che, contata ogni cosa, la conclusione finale sarà
il regresso sollecito degli uomini verso quella che sempre s’è chiamata
barbarie, non certo un’accelerazione di passo nel verso opposto.
Se poi.ne’nuovi ordinamenti politici, che si ci si vantano, per
salvar la legge di progresso, e di civiltà, e della naturale libertà di
sé e delle cose sue, che alla civiltà ed al progresso è tanto incitamento,
vogliansi conservate le diversità negli interessi di vario nome, si
quanto a specie, sì quanto a grado (ch’era la seconda parte del mio dilemma),
dunque costituirà ciò una terza categoria di disuguaglianze, crescenti
col grado del progresso e della civiltà ; e ammessa la realtà di queste
nuove disuguaglianze, come non dovranno generare elle ancora una disuguaglianza
ne'diritti in ragione delle disuguaglianze suddette? Perchè, io non sarò
di coloro, i quali esclusivamente le convivenze umane risguardano
sotto l’aspetto di quelle società A’azionisli eh’ io poco là mentovava,
dove i soli valori de’ puri interessi materiali d’ognuno, tradotti nell’
idea del proprio tornaconto, rappresentino le azioni messe in comune, e
quindi le correspettività de’ diritti politici da godersi. Certo v’è
altro eziandio, a che gli eterni principii della giustizia distributiva
comandano che s’ abbia riguardo, e spesso un maggior riguardo; e alcune
delle cose dette di sopra mostrano in ciò la mia persuasione in
questo senso. Ma non son io nemmen di quegli altri, i quali la somma e
l’importanza disi fatti interessi non considerano affatto nella
ripartizione de’ poteri e de’ diritti a’ poteri ; e per questo lato, tanta voce
vorrebber data al mascalzone, il quale non ha interessi di possidenza,
non d' industria... non di famiglia (od ha interessi tutti negativi, cioè
tutti in opposizione cogl’ interessi di coloro, i quali nell’ alveare sociale
sono Tapi operaie e produttive ; tutti interessi di far guerra alla produzione,
alla possidenza, all'industria... alla famiglia... ; tutti interessi di
disordine per pescare nel torbido), quanta agli altri pe’ quali la
società va prosperando, cresce in affluenza di beni, ed è corpo,
regolare, utile, e conducente al fine, per cui principalmente le
convivenze umane sono stabilite. ]si dato mano, e solamente lo patirono,
di che il bene susseguente è poida ricompensa. ]mili, esso uomo abbia or
buono avviamento od indirizzo alla riuscita, or non l’abbia, e ciò, alle
volte per colpa propria, o rispettivamente per proprio merito, altre
volte senza ciò, e contro a ciò: cosicché l’impiego de’ mezzi
aberra più o meno dal fine, e radamente vi conduce ; e, quando vi conduce,
lascia sempre molto e moltissimo di desideralo e non conseguito. Dove le
volte, che più o men si riesce, servono a mantenere l’attività nostra, e
la speranza, e il coraggio, e a preservarci dal precipitare nell’inerzia ; le
volte che non si riesce, servono a ricordarci, che un potere superiore al
nostro è dietro la tela, il quale regge le coso umane, e con occulta
sapienza, or ci dà i beni della terra, or ce li leva, o ce li nega, acciocché
pensiamo che non son questi il fin proprio e sommo a noi proposto.
Ma poiché insonuna, concedo io pure, che al mal governo l’ opporsi con
onesti sforzi, invece di esser colpa, è anzi spesso dovere, o quasi
dovere (l’acquiescenza pura e semplice, e la rassegnazione, quando fosse
di tutti, potendo in alcuni casi divenire condannabile, rispetto almeno
ad alcuni: perocché è alto, non di sola virtù, ma di debito, per quelli che han
di ciò competenza : 1. l'illuminare, a il cercar d’ illuminare, i
depositari del potere, in quel che veramente abbiano errato, od errino,
massime quandi l’errore sia grave ed abituale : 2. l’adoperarsi a promuovere la
medicina de’ vizi radicali con indefessi, opportuni, e convenienti mezzi),
come dee procedersi iu questa dilli cile e delicata faccenda? — 'fiuti is thè
qmstion — Ciò sia materia d’un Di quello che al popolo non ispelta, e
spelta, in fatto di governo e di sovranità, e del modo e della misura in che
gli spetta. L’argomento io l’ho toccato qua e là più volle,
forse con un po’ di disordine, ma esprimendo con forza ogni volta
l’opinione della quale sono persuaso. Giova nondimeno tornarvi sopra in
quest’articolo, e dir con più grande asseveranza ancora, che in ogni altro
luogo — la principal fonte degli errori, i quali sul proposito nostro si
spacciano, e corrono oggi il mondo, stare appunto in questo atto d’universale
superbia, per che, in cosa, la quale tanto è legata a fatti providcnziali che
si burlano, per cosi favellare, di tutte le previdenze umane ; la quale
tanto poco dipende dalla volontà de’singoli ; la quale tanto è superiore
alla intelligenza delle turbe ; tanto è diffìcile ad essere trattata come lo si
addice ; tanto è poco alla a condursi per sole deliberazioni d’uomini quali che
siano, a grado delle passioni loro, e nel conflitto de’loro interessi
perpetuamente fra loro lottanti : s’argomentano di credere tra tutti
distribuita, ed a tulli appartenente la competenza del trattarla per
Io meglio loro. Don^c è poscia l’opinione si da noi combattuta, che la
sovranità, in radice, è di tutto il popolo, inalienabile da esso, reversibile
in esso, e rivendicabile per esso, tutte le volte che lo vuole ; esercitarle da
ciascuno, individuatamente, ed individualmente, nella porzione più
o men coeguale che gli spetta ; residente di fatto, come potere attuale ed
accidentale nella maggiorità ( più o meno istabile di sua natura)
de’cittadini, che sendosi data la pena di concorrere ad esercitarla, convennero
in un medesimo voto ; ma non ispettante di diritto normale ad essa;
perchè la parte non può equivalere al tutto ; perchè chi non ha parlato,
non ha detto niente, e non s’è interdetto di poter parlare quando che sia
; perchè il diritto delle minorità, tanto piccolo quanto più si voglia, può
essere oppresso, ma non annullato, nè distrutto; perchè, infine, non può
non esser lecito a queste il cercar di farsi maggiorità la loro volta,
acciocché il fatto della sovranità ad essi o passi, o ritorni. E,
per vero, i fautori stessi delle anzidette sentenze, non osapo
analizzarle, od almen confessare, i naturali conseguenti loro, de’quali
conseguenti il principale è, che, cosi insegnando essi, vengono a dire,
insomma, che la sovranità, comunque affidata come potere esecutivo, legislativo,
giudiziario, o quale altro potere che siasi o che si chiami, obbliga in
diritto i soli consenzienti: quanto agli altri, li violenta, ma non può
obbligarli; o, ciò che vale lo stesso, vengono a dire, che la sovranità è
obbligatoria di diritto per nessuno, giacché que’che le obbediscono,
in quanto sono consenzienti, evidentemente obbediscono a sè e non a
quella, cioè obbediscono alla propria volontà di obbedire, nou alla forza
imperante della sovranità, attinta, in massima parte, dagli eterni principii
della ragione e della giustizia ; ed obbediscono perchè son contenti di
farlo, non perchè si credano obbligati a farlo ; ed, in que’che obbediscono,
in quanto, a lor malgrado, vi sono costretti, non dall’autoriLà, ma dalla
forza materiale, in essi ancora l’obbedienza è un fatto sofferto, e non un
dovere adempito ; e un’ obbligazione estrinseca, e non un obbligo di vero
nome ; o, a dir meglio, è violazione di diritto, e non diritto, contro
alla qual violazione si ba invece il diritto di mettersi in istato
d’ostilità, di cospirare, di muover guerra flagrante, in detto ed in
alto. Il che dire è negare la sovranità, e ennsiderarla come ud fallo pur
sempre, non come un diritto; Tatto di alcuni che soperchiano tutti, non
diritto di tutti contro a ciascuno ; tirannide, e non sovranità, pe’
dissenzienti ; cosa inutile, superflua, ed illusoria, o simulacro di cosa
pe' danti libero consentimento : ciocché bene interpretalo, significa poi, che
la sovranità, in quanto è potere, pe’soli dissenzienti esiste ; ma esiste per
essi soli come una iniquità ed una ingiustizia, non come cosa mai legittima
e normale : verità si vera, che lo spirito logico d’ uno de’ più sinceri,
e de’ più espliciti tra gli antesignani del nuovo liberalismo (Prudhon) non ha
dubitato di confessarla e dichiararla ad alta voce, e per istampa.
In si fatto sistema, pertanto, gli attualmente investiti della
sovrana potestà, e d’ogni sua grande o piccola parte, quali e quanti pur
siano, non sono che semplici incaricati d’affari, privi di plenipotenza,
e quasi direbbesi ad referendum, o piuttosto godenti d’una plenipotenza
frodolenta di l'alto a tutto loro risico, e sotto la loro perpetua
responsabilità, come i generali di Cartagine ; sempre revocabili, sempre
soggetti al sindacato di tutti e di ciascuno ; posti in una siugolar
condizione innanzi al popolo : perchè, ne’paesi dove tutto il popolo non è
stalo chiamato, e non è concorso a farli (messo dietro le spalle ogni diritto
di prescrizione e d’usucapione) sono come se non fossero; usurpatori
posti fuori della legge ; nemici pubblici, e niente meno di ciò : ma, ne’
paesi stessi, dove il popolo è quegli che li elesse negli universali suoi
comizi, non hanno, per le ragioni esposte di sopra, solidità e realtà alcuna di
potere ; burattini da filo quanto a tutti, e tali burattini, il cui
filo dev’essere spezzato il più presto, o quando il destro uc viene,
quanto a’dissidenti. Che se tutto ciò è rispetto alle persone, poco
diversamente dee dirsi rispetto agli atti loro, il cui valore intrinseco
è subordinato sempre all’apprezzamento libero e capriccioso
d’ognuno. Ed altrettanto è ancora delle leggi ; o sian pure quelle che si
chiamano Costituzioni, Carle, Statuti, o simile. E cosi dislruggesi allatto, e
si demolisce l’idea di governo, e si sperperano le convivenze civili,
rimettendo ogni umana congrega nelle condizioni primordiali del
viver selvaggio, ricondotto a’suoi naturali e radicali elementi
d’indipendenza degl’individui, e di forza brutale del più potente, o del
numero maggiore, centra il più debole, o contra il numero più
piccolo. Io invece, per finirla, riduco a queste non molte proposizioni
i dettati della ragion pura in si fatta perplessa materia, sottoposti nondimeno
alcuni di essi, nell’applicazion loro, al prudente apprezzamento delle
circostanze. Iddio, a farci appunto conoscere, nella presente imperfezione ed
ignoranza nostra, eh’ egli è il padrone (domitius dominanlium ), e che noi, per
molto che immaginiamo di esserlo, non lo siamo punto, o lo siamo assai
poco, c sotto sempre la legge della sua supremazia, dispose, c dispone,
colla sua direzione occulta del mondo morale, come del tìsico, le cose in
modo, che lo stabilimento de’ governi, nel materiale, e nel personale, è
(storicamente parlando, cioè nella pratica, cosi come dalla storia universale
e particolare de’ popoli ci è dichiarata) un mero previdenziale
fatto, dato o coadiuvalo, sempre, o quasi sempre, da forza di circostanze,
indipendenti il più spesso da ogni preordinala volontà delle turbe ; per le
quali circostanze, o contrastato, o no che sia ne'suoi cominciamenti, esso,
da una esistenza precaria, e spesso irregolare, passa, a poco a
poco, ad un'altra esistenza tacitamente consentita dall’universale, e pacifica,
e con ciò legittimata ; rispetto alla quale, l’azione indesinente de’ due
principali fattori di quest’ordine di fatti (e voglio dire, 1. il reggimento
divino delle cose umane, 2. quella dose di politico senno, che
giunge per solito, da ultimo, a scaturire da qualche parte), più o
meri laboriosamente, viene a galla, a traverso d’ogni difficoltà, in mezzo ai
popoli, come una manifestazione inevitabile alla lunga, dell’idea insita in
tutti, ed eterna, tuttoché più o meno oscurata, di giustizia, di verità, di
dovere; ed allora quest’azione, or lenta, or sollecita, opera in guisa,
che l’intollerabile alla fine si fa tollerabile e tollerato, l’ingiusto
si fa giusto, o meno ingiusto, l’improvvido o provvido, o meno improvvido
; e nascono sistemi e vie di compensazione, lenitivi, palliativi, rimedi
; e il male che c’è, o che resta, non può superare una certa misura (tranne
quando un decreto terribile di Provvidenza vuol che le nazioni periscano,
o si consumino, e decadano umiliate e contrite), nè può non avere un
contrapposto di beni : cosicché di questo misto si componga quella dose d’
infelicità terrena, più o meno temperata, che è necessariamente compagna
di questa vita, punizione meritala agli uni ; scuola di virtù, e mezzo di
merito agli altri. A vie meglio mostrarci la verità di questa dottrina,
la Divinità ha in tal forma ordinato il mondo morale, che in que’ secoli
di contumace superbia, o tra quelle superbe nazioni, in cui la verità c
la presunzione della propria sapienza più prevale tra gli uomini, e li spinge a
voler tutti fare e non lasciar fare, ognuno mettendosi innanzi, e cercando
d’esser primo, o de’ primi, ognuno volendo esser dio a sé stesso, e
governo, e governante ; ivi, ed allora, è l’infelicità massima, il
disordine massimo, lo sgovernamelo massimo, la guerra civile imminente o
flagrante, l’anarchia, lo stato convulsivo, od epilettico, delle
umane congreghe: disordine, sgovernamenlo, guerra, anarchia,
convulsione, epilessia, che seguitano finché questo periodo di presunzione non
passa, e finché principii migliori, e più giusti, non tornano a prevalere
la loro volta. Intanto perù è giusto confessare, che, se da un
lato, il Creator delle cose, per le ragioni che più volte adducemmo, non
ha concesso agli uomini la perfezione in nulla, e nè manco ne’governi, ed
ha voluto tollerare, e permettere, a volta a volta, l’imperfezione, anche
condotta, in essi governi, fino all'abituale imperizia, imprevidenza,
inettitudine, ingiustizia, e tirannide; da un altro lato, ei non ba
voluto, in generale, abbandonare si fattamente la specie umana all’
impero del male, anche sulla terra, che non abbiale concesso, nella sua
benignità, mezzi normali di riparo, di resistenza, di rimedio (renduti,
egli è vero, per suoi segreti disegni, ora più, or meno efficaci), e
non abbia perciò inserito nelle ragioni, le meglio addottrinate,
de’ saggi in mezzo ai popoli il lume più o manco opportuno a conoscere in
ogni caso quel che è lecito, e conveniente, e necessario di fare per
tentar diuscire di pena, d’ingiustizia, e d’oppressione. Questa è almeno la
regola generale, sebbene, purtroppo, convien dire, che talvolta, nel segreto
della sua sapienza, esso Creatore, permette e tollera, come altrove
notammo, che sì fatto lume in pochissimi splenda, e quasi in nessuno : di che
poi la conseguenza è, che il male del malgoverho, o dura, o quel che è
peggio, per gli sforzi inconsiderati di que’che non vogiion patirlo
s’aggrava, o sia che conservi, o non conservi le prime sue forme.
Or quando a si fatto ultimo flagello non si è condannati (pena, per
solito, del lungo tralignare d’una civil convivenza, confermata nel vizio, e
nella cecità d’intelletto) allora il rimedio, e il riparo, c’è, sol che
tutti facciano il dover loro ; e c’è senza le maledette rivoluzioni,
senza le illecite cospirazioni e sette. C’è per la forza pacifica ed
infallibile delle persone, e delle cose. Del quale riparo e rimedio le massime
io le ho sostanzialmente, qui indietro dette, nell’articolo. E non è, che,
in si fatto ufficio non abbia ognuno la sua parte legittima. Solo bisogna
confessare, che la parte non può nè dev’ essere in tutti uguale, e la
stessa. La prima e principal condizione è il coraggio civile (giova ripeterlo :
il militare guasterebbe tutto, infondendovi dentro le sue furie), coraggio
prudente, ponderato, modesto, mantenuto sempre rigorosamente dentro i limiti
del permesso dalla legge, ma perseverante, istancabile, non in alcuni,
ma nel maggior numero. Le leggi in nessun luogo son cosi cattive, che non
aprano più di un adito a raddrizzare i torti, e a far fare giustizia.
Bisogna non perdersi d’animo. I forti debbono aiutare i deboli, dirigerli,
farsene avvocati. 1 savi debbon dar mente agl’ insipienti. Questi debbon
ricorrere a coloro che la fama universale indica in ogni luogo come sapienti ed
uomini da bene, per cercar lume, e conoscere se veramente ban ragione e diritto
di lagnarsi, e dentro che misura. Gli uomini da bene e sapienti non debbono
negarsi agl’inferiori.Tutti insistendo nelle vie consentite da ragione e da
legge, e facendo concerto perpetuo di sforzi, ciò, senza essere una
cospirazione illecita, e di setta, e d' armati, è impossibile che non produca
il suo frutto. Ma non bisogna che i primi, a’ quali questo coraggio sia
di qualche danno personale, faccia» perciò meno il debito loro, o che
l’esempio del loro danno distolga gli altri dali’imitarli. Ciò ha da essere,
come nella guerra. 1 feriti, non perchè feriti, finché possono, lasciano
il combattimento, se aspirano al titolo di bravi : e i non feriti non
fuggono perché altri al loro fianco son feriti od uccisi. Solamente bisogna ben
guardarsi dall’ uscir dalle vie rigorose della legalità, e del rispetto che è
interesse di tutti il non dimenticare; e dall’ immaginare, o pretender
gravami e torti, dove non sono. Cosi adoperando, colla metà della
ostinazione che gli odierni settarii pongono nelle loro inconsiderate e
criminose mene, certo non è abuso di potestà, il quale non debba
con [Ecco mio de' vantaggi innegabili dell' aristocrazia. Dov’ella è in
forza, e bene e convenientemente stabilita, è 3i grande l' autorità sua,
si connatura to il coraggio civile, si spontaneo f intervento a tutela de
deboli, che difficilissimo riesce l'abuso del potere in cbi lo ha in mano,
almeno condotto sino a vizio abituale, ed a quell’eccesso ch'è tirannide
intolieranda, od insipienza equivalente a tirannide.]più certezza essere
corretto, die tentando pazze congiure a moderna usanza. Nè nego,
perfino, che quando i’ abusare nasca da imperfezione di legge, o di leggi, di
questa o queste non possa legittimamente chiedersi il mutamento, e il
raggiustamento a più equa forma. Quando veramente costi, per consenso di
tutti tsavi, che le leggi sono cattive, o talmente imperfette da rendere
necessario un cangiamento, niun può trovare men che giusto il desiderarne e il
chiederne la rettificazione. Il male non istà nel desiderare, e nel
chieder ciò, ma nel desiderarlo e nel chiederlo in modo illecito,
arrogante, e perturbatore. Sta nel volere a forza cattivo, quel che non
lo è manifestamente. Sta nel non andare a rilento in si fatti giudizi, e nei
non ben verificare ogni cosa a norma della sapienza scritta di
tutti i tempi, prima d'avventurarsi a pretendere che la cosa è come la si
pensa. Sta nel non aver occhio alle circostanze, agli effetti probabili, agli
scompigli possibili. Sta nel mancar infine di buone bilance per non
trascender mai la giusta misura in nessuna sua parte : condizione più
essenziale ancora, acciocché niuno possa imputare di sedizione, di
ribellione, di fellonia ciò che nel qui discorso senso e modo va
operandosi. Da tutte le quali cose vede ognuno che non discende, nè
l’obbligo assoluto di rassegnarsi al male, che evidentemente è male, nè
l’assoluta assenza di mezzi per medicarlo. Ma non discende nemmeno la
pazza politica massima degl’odierni, che per ultima panacea propongono date
forme di [Queste sono le teoriche. Ma torno a dire, se i savi mancano, se
mancan d’ accordo, se v’ è funesto li svolgimento negl’ intelletti di
que’ che so» creduti tali ; se certi desiderii poco ragionati, e poco
ragionevoli, si confondono co’bisogni, solo perchè sono alia moda, e perché
sono intensissimi; se certe lagnanze son di minimi che si giudican
massimi, e che fatte suonar alto più disturbano che non giovino; se?
Allora come non tremare nell’avventurarsi alla pratica? Iddio liberi i popoli
dall’ esser condotti agli estremi qui sopra ricordati; e dia loro la sapienza
vera che li aiuti a scegliere il miglior partito.] governo applicabili a
tutti i casi, come uua calza a maglia. Delle democrazie pure già
dicemmo quanto basta a provare la loro imperfezione essenziale. L’antica
sapienza rappresentata da CICERONE sta per le Monarchie temperate, dove i
veri ottimati, cioè dove le capacità e gl’ interessi han voce
preponderante, e tra gl’interessi, meno ancora i fluttuanti e transitorii
(sebbene questi eziandio), che i permanenti e più tenaci, d’un buono e
lodevole patriziato. S’ è perciò giustamente levata a cielo la timocrazia
di Servio Tullio la sapienza del Senato romano e dell’ aristocrazia
inglese, corroborata dalle tradizioni di più secoli. Ma non tutti
gli ordinamenti ( ridiciamolo ) convengono a tutti i popoli e a
tutti i tempi: e chi non ne fosse persuaso, più d’un esempio recente
potrebbe addurne, fatto per iscoraggiare assai del supposto valor pratico
di certe teoriche, le quali poi, quando si traducono in iscena, si
risolvono in bliteri, e in peggio che ciò, vale a dire in danno
evidentissimo de’ popoli. Grandissimo ( a miglior prova di ciò ) è il
male che s’è detto, massime nel tempo nostro, de’ governi assoluti; e
i governi assoluti eglino stessi han poi per loro essenza e natura il
grande ed intrinseco male, che con tanta generalità oggi s’afferma? (
L’argomento loabbiam già toccato alcune pagine indietro : pure importa
tornarvi sopra un’ultima volta ). Messi a bilancia con tutte le altre forme di
governo, e contati, e imparzialmente pesati, i vantaggi egli svantaggi,
traendoli dalla verità storica d’ogni età e d’ogni contrada, e non dalle
menzogne sistematiche di tale o tale altro declamatore odierno, io non so se un
uomo di delicata coscienza oserebbe giurare, che la parte degli svantaggi
preponderi, sempre totale contro a totale, cioè somma intera di fatti
contro a somma di fatti, dal Iato delle monarchie pure, a quel modo che
s’ama asserirlo. Per Io meno questo conto, o vogliasi dirlo bilancio, non
è mai stato instituito colla debita accuratezza, e varrebbe la pena dell'
instituirlo: impresa tuttavia molto più difficile di quel che non si
pensa, e da più dotti, che non sono di gran lunga i giudici di strada.
Donde poi deduco, che, assai più alla leggiera di quel che si dovrebbe,
si pronunzia la sentenza assoluta di condanna, la qual suona nelle bocche
di tauti, più per moda, che in forza d’ una dimostrazion rigorosa. Le ingiustizie,
le improvidità, le tirannidi s’incontrano in tutte le forme d’ ordinamenti
politici ( cosi insegna la storia ), e le forme le più liberali n'ebbero,
e possono averne all’ avvenire, di non minori che i più tristi degli assoluti
governi. Quidleges sine moribusvanae profitiunt (ridirò col poeta)?
Uno o molti che siano gl’ investiti dell’ atto della potestà, possono del
pari abusarne; e, se gli abusatori son molti, sarà il danno più grave
assai, che con un abusatore unico, tranne se alcun si piaccia del
paradosso che più tiranni debbono men nuocere d’un tiranno solo. Le
responsabilità ministeriali, o d'altri ( nome vano ) si dovrebbe ornai
sapere da tutti quel che valgono. Le supposte guarentigie sono
sempre un preservativo, o un rimedio, più illusorio, che vero. Cb’ buoni
sono inutili, co’ cattivi sono insufficienti, per grandi eh’ elle
sembrino. Dove furono concesse Ano ad ogni richiesta misura,
gl’incontentabili odierni se ne contentarono forse? Le probabilità del maggior
senno, che parrebber più facili ad incontrarsi nel consiglio di molti, di
quello che in una mente unica, non sono assai spesso, in tempi di civiltà
corrotta, e d’ambizioni flagranti, che un vantaggio presunto, più che
bilanciato, ed annullato dall’altre probabilità delle discordie intestine tra
senno e senno, e delle lotte che quindi nascono. E sovente è più bisogno di
guarentirai da que’che sono scelti à guarentire, che ragionevolezza di
speranze le quali in questi ultimi si ripongano. Hannovi poi circostanze (
è giusto il ricordarlo ), nelle quali solo le pure monarchie valgono ad
operare il bene delle nazioni; e sonovi beni che soltanto dalle pure
monarchie possono aspettarsi. Ad esse principalmente, se non unicamente,
parche abbia riservato la Provvidenza l'incarico de' grandi mutamenti da
operarsi ne’ popoli colla debita rapidità, rovesciando i maggiori ostacoli :
perchè il modificare ampiamente, e radicalmente, con forza, prontezza e
conveniente efficacia, le sorti d’un popoloso dimoiti popoli a uu tempo,
è parte quasi esclusivamente concessa agli assolutismi de’ Sesostri,
degli Alessandri, de’ Cesari, degl’Augusti, de’ Carli Magni, de’
Federicbi, de’ Napoleoni, certo non alle disordinate e burascose
discussioni de’ senati, de’ parlamen li, de’tribunali, delle moltitudini
deliberanti. Sono sempre, o quasi sempre, gli assolutismi, che tagliano ultimi
il capo alle rivoluzioni, e creano ultimi la stabilità delle paci. Sono
essi una necessità pe’ popoli che vanno in bizzarrie pericolose e
distruttive. Sono essi a volta a volta, grandissimi benefattori della
umanità, piuttostocfaè i suoi principali flagelli. £ di questa particolare
virtù de’ governi assoluti, quanto a prevalenza d' efficacia e di
rapidità, tanto hanno persuasione, perfino i moderni perturbatori, ( torniamo a
dirlo sebbene altrove l’abbiamo già detto), clic solamente perciò hanno
istituito, essi medesimi, la obbedienza passiva delle sette, e
l’assoggettamento senza discussione, e sotto pene terribili, a’capi di
esse. Tuttavia non voglio io qui farmi l’apologista esagerato de’governi
di si fatto genere, e dissimulare gl’inconvenienti a’quali vanno per
solito espósti. Non voglio dare il piacere a’ miei avversari, di poter
dire ch’io sono un assolutista sistematico, perchè abbia con ciò bella
occasione la rettorica di certa gente del gittarmi alla faccia questo
rimprovero seguitato da una mezza dozzina di punti ammirativi. Ho voluto
solamente dire che ancora essi governi possono avere ed hanno il loro
tempo, e la loro opportunità; ed in subiecla materia esaminino (dirò di
nuovo) i capi-setta sé stessi prima di rispondere se è vero o falso. Mi
basta avere indicato l’irragionevolezza della troppo universale condanna la
qual di essi governi è fatta, come di cosa assolutamente CONTRO A NATURA
(cf. H. P. Grice), e necessariamente riprovevole. Mi basta aver dato a
conoscere, die vale, anche rispetto ad essi, la regola generale, che non vi può
essere una regola generale di proscrizione. Le circostanze, anche a loro
riguardo, entrano per molto nel giudizio, come in ogni altra maniera di
governo. D’ altra parte, i governi veramente assoluti dove più
sono? Tutti il tempo li modifica. Addolcisce i più severi. Modera i
più dispotici, e viene più o meno accostandoli alle forme di temperata
monarchia. Siamo giusti. Dove son più i Busiridi, i Falaridi, i Tarquini
Superbi, i liberi, i Neroni ? Se si voglia trovar tiranni, nell'antica
significazione del vocabolo, bisogna andar a cercare nel campo
repubblicano ultraliberale i Marat, i Robespierre. I voti del vero
popolo, di giorno in giorno, son più ascoltati di quel che vuol confessarsi;
e, se si é di buona fede, non può esser negato, che le concessioni
cominciate qua e là a farglisi, per tutta Europa, son bastantemente
grandi per far dire che nelle altissime regioni non si è tanto
sordi, quanto da alcuni si va spacciando. 1 bisogni reali finiscono
sempre coll’essere ascoltati, non per forza, ma per ragione. Gli esagerati e
falsi può colla violenza costringersi a soddisfarli per un momento, ma vale
allora il proverbio. Nil wolentum durabile. Per chiudere a quel modo che
meglio per me si può l’ardua discussione nella quale sono entrato, io Unirò
dunque cosi dicendo a chi tanto si preoccupa del male dei governi
più o meno imperfetti (come se per necessità non dovessero a, diverso
grado tutti esserlo), e a chi perciò, venendo a conseguenze estreme,
niente ha più a cuore ed in mente, che farsi autore e cooperatore di
riforme radicali, da ottener subito, quasi a tamburo battente, ed a qualunque
gran costo, giuste ch’elle sianolo non siano, purché tali paiano a
quei che le dimandano, avuto a sdegno, e messo in non cale il più
prudente desiderio e consiglio de’ miglioramenti graduati, bene studiali,
ben maturati, e solo predisposti e promossi ne' legittimi e tranquilli
modi che rispettan la pubblica pace, e servono ad assodarla, anziché a
turbarla. Se veramente ami tu il bene del tuo paese, fa senno, e pensa che qui
non si tratta d’un trastullo da gioventù, e d’un balocco da capi
sventati, per darsi dell’ aria e dell’importanza, ma della somma delle cose pel
presente e per l’avvenire, od almeno per lunga successione d’anni. Fa senno,
e dà prova d’averlo fatto, giudicando per anticipazione testesso, prima
d’assumere il terribile incarico di giudicare gl’imperi ed i regni.
Discendi, Gracco, nel tuo interno, e chiedi, con buona fede, a te
medesimo se t’è lecito di crederti tale da ben sapere quel che è mestieri
sapersi nell’astrusissimo argomento de’ governi, per islendervi sopra una
man temeraria; e se ti puoi, senza farti rosso nel viso, chiamare uomo di
stato, ose, in questa vece, non senti, nel tuo segreto, d’essere
niente altro che un misero pappagallo, il quale ripeti su ciò, senza bene
intenderlo, quel che t’ha insegnato la piazza, o la setta. Non ti lasciare
illudere dall'orgoglio, nè dall’assenso lusinghiero de’ niente maggiori e
migliori di le, ma metti l’amor proprio da parte, e dà sentenza su te,
come la daresti sopra un altro. Tastati addosso, e cerca imparzialmente se
trovi sotto il dito l’economista, il dotto nella filosofia delle leggi,
l’intendente ne’ misteri dell’amministrazione e della finanza, il fino
conoscitore della storia umana, l’uomo freddo, ponderato, esperto, che
nel giudicare questioni si diffìcili, si recondite, si gravi, si feconde
di beni e di mali, come sono tutte queste delle quali stiam parlando, sa,
innanzi tratto, esaminare, prima del giudizio, gl’innumerabili particolari; che
concorrer debbono ad illuminare la mente; a spogliarsi d’ogni passione e
d’ogni opinione preconcetta; e, senza dar peso a insinuazioni d’amici, o
di confederati e compagni, discernere, e ben discernere quel che il luogo, il
tempo, le circostanze, gli uomini, gli antecedenti, i comitanti, i conseguenti,
oltre ai principii eterni di ragione e di giustizia, suggeriscono e
richiedono. Va intorno, e parla pettoruto alle genti in questo linguaggio.
Miratemi, e sentenziate voi. Son io veramente l’uomo da rifare il mondo, e da
insegnare agli altri il come? Son io Zaleuco, Caronda, NUMA (si veda), Licurgo,
Solone del secolo illustre ; o sono almeno l’uomo da saper discernere,
senza ingannarmi, que’ eh’ io possa e debba seguitar come capitani in faccenda
di si gran momento? O piuttosto la risposta non l’odi aver già preceduto
la dimanda? Povera mosca del carro (tu dei sapere la favola), va a
scuola, e fatti vecchia prima di toccar solo col pensiero problemi di
tanta astrusità. Solamente allora saprai ridurre al genuino valor loro
tanti spropositi di moderne teoriche assolute, che, messe in prova da già
dodici lustri, non han saputo partorire ovunque che continuati scompigli,
e inenarrabili guai sempre ripullulanti a doppio cornei capi tagliati
dell’idra! Povera mosca, solo buona ad esser tafano atto ad inquietare i
cavalli che tirano il carro dello stato, finché un colpo di frusta ti
schiacci. Riguarda ( se non hai le cataratte agli occhi ) nella Francia,
prima maestra di sì fatte novità, e spettacolo e scuoia delle lor
conseguenze a ogni gente... nella Francia già più volte rovinata, e data
per queste a scompiglio, e le più volte, non da mani forestiere, ma dalie proprie.
Riguarda a’ be’frutti delle agitazioni tedesche. Riguarda a’ bei fruiti delle
agitazioni di questa misera Italia, qual ella è or fatta per colpa di
simili tuoi ! Gusta il Progresso che han generato i tuoi pari, la
ricchezza e la prosperità eh’ è opera loro! Basta ornai. Basta. La terra
ha bisogno di tranquillità, e, a tuo dispetto, saprà come darsela.
Cosi ti risponderà, e ti risponde il mondo : non quello veramente
nel quale tu vivi, ma quello in mezzo al quale dovresti imparare a vivere,
per tua istruzione, ed emendazione, e per l’altrui pace. Ma ti risponderà,
e ti risponde anche altro. Ti dirà, e ti dice. O tu, che ti proponi
niente meno che di metterti il grembiule di Prometeo, cioè di rifare la
gran famiglia umana in quella parte che rende a lei possibile il viver
socievole, cioè negli ordinamenti de’ suoi governi, comincia col rifare
te stesso. Volendo insegnare a’ tuoi contemporanei l'arte del comando,
insegna a te medesimo l’ arte dell’ obbedienza, che non sai, o non vuoi sapere.
Con uomini quale tu sei nessun arte di comando, e per conseguente
di governo, è possibile, e l’ esperimento s’è visto. È forse
giovato in più d’ un luogo darti costituzioni, e rinnovarle? É forse
giovato accordarti assemblee deliberanti, libertà di stampa, libertà
d’associazione ...tutte le libertà? È bisognato finir col frenarle dal momento
che i pari tuoi v’ han voluto metter mano. E cosi doveva
essere ; perchè ogni governo, anche larghissimo e mitissimo, è legge e
dominazione; e cbe legge, oche dominazione può esservi per tali come tu
sei? Tu ( quel tu eh’ io m’ intendo ) di Dio non accetti che H
nome. Tu sei di quegli uomini, quorum Deus venler est ( riconosciti ). .
; degli uomini turbolenti, sfrenati, ricalcitranti che chiamano ben pubblico il
dar di naso abitualmente ad ogni autorità, sotto colore di far la guerra
agli abusi suoi, colla presunzione di giudicarli in ultimo appello
secondo il privato tuo senno; degli uomini che ban distratto ogni
riverenza, ogni fede al senno antico, ai documenti de’ secoli passati, alla
sapienza accumulata per gli studi comuni de’ migliori cbe in ogni età
vissero; degli uomini che ner gano ogni efficacia d’ antica esperienza, e
che queste massime non si contentano di professarle per sè, ma le promulgano
giornalmente d’ ogni intorno! Or con te, e con tali quale tu sei, qual
maggiore pubblico bisogno v’è, del bisogno di mettersi in guardia, e tirare a
sè le briglie ? É egli tempo d’allargar la mano alle redini, quando il
cavallo dà continuo cenno di rubarla, e di mettersi alla scappata verso
precipizi!? Pur troppo quando un paese ha la disgrazia d'avere a
ridondanza gente del tuo taglio, facilmente arriva a quella condizione di
tempi che o scusano, o rendono ine vitabili gli assolutismi i più stretti
e i più vessatori. Perchè, non accade dissimularlo. Ecco la massima
miseria della condizion nostra. È peggio che al tempo de’ guelfi e de’
ghibellini. L’ira tien luogo di ragione. Vendicarsi, ed esterminare sono
ornai la parola di guerra. Sangue! San-gue! Ammazza ammazza! Quel che non s’ osa
fare aucora, si dice pubblicamente che sarà fatto alla prima opportunità.
Designane adcaedem unumquemque nostrum. Poveretti! S’uccidono gl’individui, non
s’uccide la verità e la giustizia. Ma anche a’Principi d’Europa rivolgerò
finalmente la rispettosa mia voce. Purtroppo hanno essi bisogno d’una rivista
severa del passato, e d'una ponderazione accurata del presente a
previsione del futuro. Quel che è stato ed é male, fa d’uopo mutarlo. Quel che
è giusto e doveroso in tanto mare di desiderii, di querele, di mescolate
richieste, bisogna farlo. Mai non ci fu maggior necessità, per chi siede
ne’ sommi scanni, d’esaminare gli antichi ordinamenti, e di recarvi
miglioramenti reali e legittimi. Mai non richiesero i secoli che sono scorsi
maggior senno in chi regge i popoli, e per conseguenza più grande
opportunità di circondarsi di buoni, e probi, e saggi aiutatori, e subalterni. “Riforma!”
è la parola favorita del nostro tempo. Riforma non è in sé medesima
parola d’errore. Le riforme bisognano sempre alle congreghe umane, come
agl’ individui. Riforma dunque anch’ essi dicano i re ma non ogni riforma
dimandata le riforme che la vera sapienza politica consiglia, e vuole.
Eruditami qui iudicalis terram. Imparino le genti col fatto, che amate di
cuore il ben pubblico, odiate il male, e vi studiate per quanto è da voi
d’affaticare alla pubblica felicità correggendo intorno a voi, per aver
più diritto, e più facilità a correggere intorno a quei che vi debbono
obbedire. Due parole a chi è per leggere Parere d’un Amico intorno a
questo saggio Risposta Prefazione Opuscolo De’ Fedecommessi e dell’
Aristocrazia Due parole al Lettore Lettera I Fedecommessi sono una istituzione
appartenente a più luoghi c a più genti e tempi, che non si crede.
Conseguenza di ciò Essi hanno una principale e giusta difesa nell’interesse
convenientemente inteso di famiglia Non sono applicabili ai piccoli patrimoni,
ma solo ai grandissimi ivi Perennando lo splendore di tutta una
linea principale po tentemente soddisfatto a uno de’ sentimenti
connaturali all’ uomo Senza i Fedecommessi, le grandi fortune, di
necessità, tra breve, sminuzzandosi, periscono per V intera famiglia, e
con ciò essa è condannata a rapido scadimento 1 Fedecommessi salvano, per
quanto esser può, il patrimonio dalle imprevidenze, dall'incuria, e da’ vizi
dei temporanei suoi possessori, e lo conservano a que’che debbono
in avvenire possederlo Discussione delle ragioni de’ cadetti. E maggiore il
numero de'beneficali nel sistema che qui si contempla di quello
che nel sistema opposto pag. ivi Infatti quei che nel i°
sistema godono ( al contrario di ciò che succede nel 2°) sonpiù
numerosi de’ danneggiati I vantaggi d’ognuno de' favoriti sono più grandi,
che i vantaggi d’ognuno de’ favoriti nell' altro sistema Gli
svantaggi de’ danneggiati nel secondo sistema sono più grandi che
quei de’ danneggiali nel primo Lettera Soluzione d’ alcune difficoltà 35
Si risponde a chi oppone che il testatore dee riguardare al bene
massimo de’ prossimi ed esistenti, e non, collo scapito di questi, a
quello de’ remoti, e non esistenti ancora, o forse non destinati ad
esistere giammai .Si prova che, oltre al vero interesse delle famiglie, nel si
stema de fedecommessi, meglio che nel sistema contrario, è provveduto anche
all’interesse dello stato Risposta alla obbiezione de’ supposti diritti degli
altri figli, che si dicon violali nel sistema da noi difeso Si
torna a distinguere tra i fedecommessi utili, e i dannosi, e si prova come ne’
primi i cadetti non sono pregiudicali in modo indebito 19 Risposta
a chi oppone l’ accusa di parzialità, e d’ eccitamento alle invidie, a’
disamori, alle discordie tra pa dre e figli e tra fratelli Esposizione de’
rapporti tra V erede preferito cogli altri posposti Convenienza del
preferire il primogenito ai nati poi . . M Di nuovo sull’ accusa
del supposto fomite somministrato alle invidie reciproche 45
Indirizzo da dare all’ educazione perchè queste temute in vidie non
nascano Lettera Seguita la soluzione delle difficoltà Non è vero che i
fedecommessi, favorendo il celibato laicale, favoriscano i vizi che vi vanno
connessi 1 matrimoni son più incoraggiati nel sistema qtrì difeso, che in
quello della divisione dell’ eredità per capita, p. 49 È insussistente il
nocumento che la sottrazione di molti be ni rustici, in virtù, de’ vincoli
fidecommissarii, alle speculazioni di compra e vendila minaccia di
recare al pubblico Un certo numero di latifondi legati a fedecommesso,
lungi dall’ essere un impedimento alla buona agricoltura, ed alla
pubblica prosperità, sono utili e necessari al l'unae all’ altra Risposta
alla difficoltà tratta dai creditori dell’eredità defraudali talvolta, quando
essa ha il genere di vincolo del quale qui si tratta Lettera Difesa
dell’Aristocrazia Proposizione premessa, che, distrutti i fedecommessi, è
distrutto il patriziato I vizi de’ nobili che sono da degenerata
istituzione non vogliono esser contati soli, ma messi a confronto delle
utilità, e delle virtù ivi Essi vizi possono emendarsi, e le
utilità e le virtù accrescersi : utilità e virtù le quali difficilmente
possono trovarsi fuori del ceto patrizio ivi È nella
natura stessa della Nobiltà un seme di miglioramento nella specie umana, che ne
innalza la dignità e la perfezione Caratteri propri del genuino
patriziato La grandezza degli averi in famiglie non patrizie non può dare
i vantaggi eh’ essa dà o può dare nelle famiglie patrizie Necessità
politica in uno stalo dell’ esistenza del ceto nobile, e particolari servigi,
che ad esso esclusivamente sono riservati ed appartengono Opuscolo Della
libertà e dell’eguaglianza civile Del governo e della sovranità in generale Della
così della sovranità del popolo, e della democrazia. Del voto universale. Delle
rivoluzioni e delle riforme de governi ec paff. Della libertà nel civile
consorzio, e decimiti, che necessariamente debbe avere. I più di
qne’ che la dimandano oggi, da ette negano nella loro filosofia il libero
arbitrio, e sono materialisti, fanno una dimanda assurda, cioè chiedono
quel che credono non potere esse r loro concesso Per chiedere la
libertà civile, bisogna essere spiritualista, e cogli spiritualisti non è
difficile giungere ad intendersi in tutte le altre questioni da noi trattate Que’
che chiedono la libertà, quale e quanta la dà natura, debbon concedere
gli usi buoni ed i cattivi della medesima, ed una legge interna che comanda i
primi, e vieta i secondi, e con ciò debbon concedere di fatto e di
diritto che la libertà è limitata per natura La convivenza civile essendo
ordinata a perfezionare l’uomo, e non a deteriorarlo, la miglior convivenza
civile necessariamente dee dirsi una convivenza ove la libertà naturale
incontra nella legge vincoli grandissimi e maggiori di que’ che ordinariamente
le si prescrivono È solo la difficoltà soverchia opposta dalla corruttela umana
allo stabilimento d’ una piena normalità nelle civili convivenze, quella che
impedisce il comandare oggi tulli i vincoli che bisognerebbero: ciocché
non toglie però che il vero progresso è quello il qual favorisce essi vincoli,
e li promuove, anzi che produrre effetto opposto ivi È per effetto
di questa difficoltà che le umane congreghe si ristringono per solilo
quasi al solo governo di quelle libertà, gli usi o abusi delle quali
risguardano i rapporti reciproci de’ cittadini co’ cittadini, non che il
loro scopo remolo non debba esser quello d’ordinare a poco a poco le
leggi a una sempre migliore sistemazione, e per conseguenza a una sempre
maggior limitazione, di tutte le altre libertà col fine d’accostar f
turno alla perfezione quanto più puossi. Prime parole sulle leggi che legar
debbono le libertà, e su’coloro che debbono stabilirle; c sulla genesi dell’
odierno domma della sovranità del popolo, e del patto sociale Dèli’
eguaglianza in generale, e quanto poco esista essa nella specie umana Falsità
della massima che al volgo suole oggi insinuarsi che gl’uomini sono tutti
uguali per natura. .Naturale ineguaglianza fisica tra uomo ed uomo Naturale
ineguaglianza morale Altre cagioni artificiali ed accidentali d’ inegualità; e
prima per parte degli educatori Degli educandi D’altre accidentali
cagioni E pel fine stesso che l’arli educatrici si propongono, e possono non
proporsi Si Per ultimo l’ineguaglianza è la legge generale della
natura, in tutto il creato Una delle principali ragioni, per le quali il creatore
volle questa disuguaglianza Vergognoso abuso che si fa della religione per
cercar di persuadere la contraria dottrina Passaggio al provare che
inutilmente si limitano alcuni ed difendere soltanto l’eguaglianza ne’
fondamentali diritti della vita di cittadino Dell’eguaglianza nel civile
consorzio, e su giudi falsi fondamenti si pretenda stabilirla Paralogismi
con che, dato un quale che siasi appoggio alla qui combattuta dottrina,
cercasi di ricavarne la dottrina del palio sociale, della sovranità popolare
e della democrazia; e conseguenze che se ne deducono, ivi È falsa
l'equipollenza di condizioni pel cui supposto gli uomini liberamente
entrando in una civil convivenza acquistati pari diritto di fermarmi palli Nè
lo stabilimento di questi patti è puro atto di libertà, ma dee
conformarsi a certe massime generali di ragione e di giustizia che
impediscono appunto l’affermata egualità di diritti È non men falso,
che gli umani consorzi quali sono e furono debbano considerarsi come
illegittimi e spurii perchè non individualmente consentiti da tutti e
da ciascuno. Passaggio al provare l'assurdità e i pericoli della dottrina
che quindi si suol trarre per voler sovvertire il passato e il presente a
vantaggio d' un futuro ipotetico Considerazioni contro al preteso
diritto di rinnovare le società umane per accomodarle alle proprie idee
preconcette, e contro alle tentale riduzioni ad atto di questo
diritto Confutazione di quattro proposizioni, che corron oggi per le
bocche di molli, e prima, risposta alla i a proposizione, che il mondo ha
bisogno di riforma Che la riforma la qual bisogna è quella che le scuole
democratiche oggi insegnano, e non altra Alla Che la riforma la cui necessità
si va predicando con parole si ha diritto di condurla
immediatamente ad atto; e che non è da lasciarsi trattenere da qualunque
ostacolo d’opposta ragione Che qualunque mezzo dee tenersi per buono e lecito,
se al fine conduce della universale riforma che vuol tentarsi Altre
considerazioni sulle riforme nel reggimento delle convivenze umane in
generale, e sul diritto ed il modo di tentarle Due casi che
rispetto a ciò possono darsi. E prima, del caso, in cui tutti
consentano Secondo, del caso in cui siano divisi i pareri, e sia lotta
de' medesimi. Solo e vero diritto che allora si ha Grave torlo dei
dilettanti di malcontento, e parole severe ad essi dirette quando tentano le
rivoluzioni Risposta a certi loro sofismi Danni delle rivolture politiche,
quanto a interessi di ogni genere Incertezza de’ loro successi
Difficoltà del ben giudicare i molivi che spingono a rivolte, e poca
fiducia da aversi in coloro che per solito le tentano Vanità della
querela che alcuni fanno, come se tolta la libertà delle rivoluzioni, il
migliore strumento fosse tolto del ritorno a giustizia. Esame d’ alcuni esempi
so lili ad addursi Rimedi più veri e più ragionevoli contro alle
ingiustizie anche abituali de' gox'emi Certi mali sono conseguenza
d’imperfezione della natura nostra, o decreti di provvidenza Essi
sono il più spesso, generalmente parlando, ineritali, ivi Doveri e
diritti de’ cittadini sottoposti a cattivo reggimento. De’ governi, e delle
sovranità in generale Ignoranza del popolo quanto alle idee di ciò che è sovranità,
e di ciò che è popolo. Esempio ivi Se un diritto, il quale anche
realmente si abbia, sia sempre perseguibile, e da perseguire Idee
preliminari sulla socievolezza, come una delle condizioni di natura date all’
uomo Il bisogno d" un governo è uno de’ conseguenti della necessità d’
associarsi. Definizione del governo Distinzione fra governo normale, e governo
legittimo indicata Mentre il vivere in società è una necessità ingenita, la formazione
d’un governo è un bisogno accidentale, sopraggiunto, e secondario Dottrina
intorno a ciò che discende dalla Fede ivi Distinzionedi tre stati
nell’uomo, cosi come oggi lo conosciamo per sola ragione. E prima dell’ uomo
ineducato e selvaggio e delle conseguenze di questa con dizione quanto a
governo Secondo, del? uomo ipoteticamente perfetto, e di nuovo del
governo del quale è suscettivo Terzo, dell’ uomo nè selvaggio, nè perfetto,
cosi come suol essere, c delle innumerabili varietà delle sue
condizioni, donde si trae che il governo il quale gli conviene non ha nè
può avere generali regole, tranne il principio generico che dee possibilmente
esser giusto e ragionevole ivi Questo principio generico non
insegna però,nuUa d’assoluto guanto a necessità di determinale forme
nell’ applicar zione, e negli altri particolari a cui si suole applicarlo
Niente dunque v’ha di primitivamente fermo e comandalo intorno alle
costituzioni primitive de’ governi da applicarsi alle diverse genti Della
sovranità del popolo, consistente nella democrazia pura, e rappresentata dal
voto universale Ragionamenti che si fanno per provarla universalmente
fondata sopra giustizia e ragione ivi foro insussistenza. V’è
egli un popolo uno ? Tutto ragionevole? Tulio illuminalo? Tutto probo? Tutto
unanime? Conseguenze che discendono dalla risposta ne-galiva a si fatti quesiti
Esame della famosa dottrina circa le maggiorità, e circa il voto
universale Che cosa è il maggior numero ; come si compone, e che cosa
conseguila dai difetti della sua composizione. Se sia vero che col volo
universale si può almeno ottenere il massimo contentamento del CORPO
SOCIALE Fino a qual segno le maggiorità siano maggiorità reali La democrazia
de’ moderni non può convenire ad alcun popolo Essa twn conviene a un
popolo selvaggio Non a un piccolo popolo di pastori e d’ agricoltori Non a un
popolo piti o meno provetto in civiltà per cagione delle disuguaglianze, che la
civiltà tende sempre ad accrescere, e delle loro conseguenze per cagione della
lotta delle virtù co’ vizi delle altre ine-guaglianze che da ciò derivano e delle necessità che ciò crea
per cagione di ciò che costringono a mettere a calcolo nella formazione delle
società le diversità enormi d’ inleressi tra cittadini e
cittadini Conseguenze funeste ed assurde del sistema tanto da deu-ni
idolatrato della divisione de’ beni secondo le leggi della livellazione
universale Differenza sleale di linguaggio che usano i propagatori delle
dottrine nuove quando parlano col volgo, e quando colle persone educale a
ragionamenti Dilemma ad essi proposto. Vogliono essi o non vogliono rispettata
la differenza di grado negl’interessi, e tenulane ragione? Se no, conseguenze
necessarie e lui (uose della neqativa Se si, dire conseguenze
di ciò diametralmente opìwsle a quel che pretendono e vanno spacciando
Continuazione dello stesso argomento. Traltazione d’ deune obbiezioni die quali
si cerca rispondere. Risposta die lagnanze di que’ che lamentano il vilipendio
e l’ oppressione del povero popolo, e agli eccitamenti che gli danno
a redimersi a ogni patto Leggierezza, e spesso insussistenza de’ giudizi
che su questo proposito s avventurano Mate usanze introdotte rispetto a ciò, e
perniciosi effetti di esse Diritti esorbitanti che si vorrebber dati alle
turbe a fine di prevenire gli abusi dell’ autorità imperarne, e di
farli efficacemente cessare, ed estirpare radicalmente. Catastrofi
inevitabili alle quali non potrebbe non condurre la riduzione a pratica di
tutto questo ordine (Videe. Parere intorno a ciò di CICERONE e di Platone ed
esempi moderni contraddizione con sè stessi de’ difensori delle dottrine
fin qui impugnate, i quali mentre affermano di combat tere per la
libertà, impongono servitù inlolleranda ai loro proseliti, e cosi
mostrano che colla libertà da essi predicata il governare comunque le
volontà umane è impossibile anche a lor giudizio Le stesse ragioni colle quali
lentan essi di scusare questa contraddizione provano contro di loro
Di nuovo delle ragioni, per le quali la formazione a priori d' un ottimo
governo, e lo stabilimento il più ragionevole della sovranità non ha
regole generali, e costituisce un problema di difficilissima e quasi
impossibile soluzione, massime quando la soluzione al popolo s’abbandoni
Pochissimo, e quasi titilla, rispetto a ciò, può attingersi, ne’ particolari
casi, dalla sapienza generale, e quasi lutto esige in essi le
deliberazioni ad hoc d’uomini i più saggi Or Alcune volte quest’ uomini non
sono presso il popolo del quale si tratta Spesso non in sono in sufficiente
numero, e tale da essere facilmente trovati ed utilmente ascoltali
Diffìcilissimo è distinguerli dai cerretani che simulati sapienza ed
esperienza, e tendono con male arti a mettersi inmnzi e prevalere Non
dirado, anche cotisultati, rendono intralciatissima la deliberazione, non
essendo tra loro accordo di pareri Spesso ancora accresce la difficoltà il
tnescolar che essi fanno all’ interesse della causa pubblica, quello
delle private loro cause, delle loro passioni e simili, E tuttociò vale, quando, a società non
costituita ancora in alcun modo, trattasi di costituirla. Peggio è che il
più spesso le società umane sono già costituite, e v’ è la question
preliminare, se sia giusto, conveniente, e possibile il disfarle per rifarle
Lotte per solito che in tal caso nascono tra conservatori, e riformatori, e
discussione de diritti degli uni e degli altri e delle contitigenti
conseguenze di esse lolle Del perchè e del come il problema del governo e
della sovranità è presso a poco insolubile a priori por l’umana
sapienza Cardine della questione. Doppia natura dell'uomo Bisogni ed istinti
numerosi della vita terrena, che non son fatti per ottenere la
soddisfazione loro durante essa vita Motivo e fine occulto, e non troppo
occulto, di ciò Applicazione di questa dottrina anche al particolare problema
qui discorso E nondimeno non può dirsi che un qualche rimedio alla
frequente imperfezione degli ordinamenti civili non sia dato in terra
all’ umana specie. Ritorno, rispetto a ciò, a una quislione già altrove
trattata Di quello che’ al popolo non ispella, e spelta, in fatto di governo e
di sovranità, e del modo e della misura in che gli spetta Principal fonte delle
false opinioni che intorno a ciò corrono tra’ moderni Si torna all’esame della
presunta distribuzione tra lutti del diritto competente a trattare e
risolvere sì falle questioni ivi Una conseguenza ultima
ed inevitabile di si falla dottrina è che la sovranità non obbligherebbe
dunque che t ~ soli consenzienti, o piuttosto non obbligherebbe alcuno, e
cesserebbe d’ esistere in altro modo, che come una cosa da giuoco ed
assurda li altrettanto sarebbe di tutte le leggi Teoremi più veri eh’ io credo
doversi sostituire alle opinioni dominanti delle turbe male istrutte.
Proposizione Due parole su i governi assoluti Protesta Conclusione ed Epilogo Esortazione
ai predicatori di rivoluzioni e di novità politiche Poche parole a’ Principi Indice
ragionato Lin. CORRIGE Urliamo Gridiamo fili le ristampa
con emendazioni edizione di lilosolia di buona
tilosofia collaterali collaterali almeno prossimi in quella società
in quel consorzio nipoti nostri nipoti nostri, e,
se non di tulli almeno di (pianti più ci è lecito civil società civil
congrega all'opposto per all' opposto (almen quanto alla
linea privilegiala), tra pe’ fratelli poi-nati
lTl pe cadetti quello dico quello dico pur mentovalo
contechè alla breve ir società consociazioni son le
difficoltà son difficoltà le propensioni le agevolezze pii
uomini gli uomini senza rovinarsi Kit de'
Babilonesi degli Assiri c clic e che
se CONSIGLIO GENERALE DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE Napoli.Vista la
dimanda del Tipografo Marotta con che ha chiesto ristampare il primo volume
dell’opera intitolata Opuscoli politici d’O. Visto il parere del Regio Revisore
Capone. Si permetta che la suddetta opera si ristampi, però non si
pubblichi senza un secondo permesso che non si darà se prima lo stesso
Regio Revisore non avrà attestato di aver riconosciuto nel confronto
essere 1’impressione uniforme all’ originale approvato il Presidente interino:
Saverio j4 puzzo, ìl Segretario interino : Piktrocola. Francesco
Orioli. Orioli. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orioli”
– The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice ed Ornato: la ragione
conversazionale o dell’implicature conversazionali nella conversazione d’Antonino
con Antonino – la scuola di Carmagna -- filosofia piemontese -filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Carmagna).
Filosofo italiano. Carmagna, Cuneo, Piemonte. Visse vita ritirata, modesta e
schiva d'onori e ricchezza intesa soltanto allo studio. Coltiva le scienze
fisiche e matematiche, la filologia, la poesia, la musica e con singolare amore
le discipline metafisiche. Sii trasferisce a Torino dove frequenta alcuni
esponenti dell'aristocrazia sabauda. Tra le sue amicizie più importanti
Santarosa, Sabbione ed i fratelli Balbo. Dei concordi è insegnante di
matematica nel collegio dei paggi imperiali, impiegato nella segreteria
dell'Accademia delle Scienze di Torino e successivamente professore presso la
Reale Accademia Militare. In seguito ai moti rivoluzionari e nominato da Santarosa
Ministro della Guerra della giunta rivoluzionaria. Si rifugia in esilio a
Parigi. Nella capitale francese stringe amicizia con Cousin e la sua casa è
frequentata da numerosi patrioti italiani. Ottiene di poter rientrare in Italia
e si ritira a Caramagna dove riceve le visite dei patrioti Pellico, Provana,
Gioberti e Balbo. Si trasferisce a Torino dove morirà e verrà sepolto nel
cimitero monumentale. Saggi: traduzione di Ode a Roma di Erinna, traduzione dei
“Ricordi di Antonino, Picchioni, Vita, studii e lettere inediti di Leone
Ottolenghi, E. Loescher. Biografiche e risultati di ricercheo, Becchio Calogero, Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ulteriori approfondimenti possono
essere reperiti nei seguenti siti: Comune di Caramagna Piemonte, su
comune.caramagnapiemonte.cn. Associazione Culturale "L'Albero
Grande", su albero grande. Due difetti o cattivi abiti, nota qui e
contrappone Antonino. L’uno, del lasciarci guidare unicamente dalla
IMPRESSIONE che fan su di noi l’oggetto esterno, divagando da questo a
quello secondo che quello ci attrae più fortemente che questo. L’altro del
lasciarci guidare unicamente dal pensiero o idea che ci vengono in
mente a caso, seguendo quelli che eccitano più la nostra attenzione. Due
stati passivi, dove l’uomo non esercita punto la volontà nè l’intelletto,
ma segue ciecamente, nel primo, il caso esterno, o nel secondo, il
caso interno, cioè quella che è stata nomata di poi legge di
associazione di due idee: due stati quindi dove l’uomo non ha scopo. Il
primo de’ quali ha luogo nella vita puramente ANIMALE, e il secondo
nel sogno. Quello, proprio del giovane troppo dedito al senso. Questo,
del vecchio rimbambito. E quindi, dopo avere esortato sè stesso a fuggire
il difetto del giovane si esorta a fuggire quello del vecchio. Il
carattere che fa riconoscere il vecchio per rimbambito è il vaneggiare,
cioè il parlar senza costrutto, ripetendo il già detto. Ma avverte sè
stesso che l’uomo può essere rimbambito già anche quando non parla ancora
senza costi itto, non vaneggia ancora in parole, se egli fa delle azioni
senza costrutto, o vaneggia nelle azioni: il che ha luogo ogni volta
che esse azioni non sono collegate tra sè, non hanno unità, cioè non
sono riferite tutte ad uno stesso ed unico scopo. Questo lodare la
compassione senza aggiungere con Epitteto che ella debba essere puramente
esteriore e non di cuore, è certamente una contradizione al principio stoico. La
compassione essere come tutti gli altri affetti un moto irragionevole dell’anima,
e contrario alla natura, il saggio non essei'c accessibile alla
compassione; una contradizione a ciò che è detto in questo medesimo §,
dovere il saggio mantenere il suo genio interno netto da passione. Ma è
una di quelle contradizioni magnanime per le quali IL CUORE corregge
talvolta gli errori dell’INTELLETO. Sul punto particolarmente della
compassione, come su quello dell’affezione verso gl’amici e i congiunti e verso
tutti gli uomini e Antonino uno stoico poco fedele al principii della sua scuola, e segue
piuttosto gl’accademici e i liceii, i quali insegnavano il sentimento
della pietà essere il carattere distintivo delle belle e grandi
anime; e quel detto di Focione, conservatoci dallo Stobeo: non togliete
nè Voltare dal tempio y nè dalla natura umana la compassione. Fu in
questa deviazione, almeno in pratica, dal rigore dell’antica dottrina del
Portico Antonino e stato preceduto da altri romani illustri del PORTICO. Il che
non potea non avvenire, perchè secondo un antico senario greco, il
cuore soltanto del malvagio non è capace di essere ammollito. E però
il severissimo CATONE minore, già deliberato in quanto a sè di
morire, pianse, come narra Plutarco, per pietà di tutti quelli amici e
concittadini suoi che eransi pur dianzi affidati ad un maro procelloso per
non lasciarsi cogliere in UTICA da GIULIO (si veda) Cesare vincitore,
come avea pur pianto alcuni anni innanzi per un fratello
amatissimo, quando trovandosi esso CATONE minore al comando di una legione
in Macedonia, alla novella che il detto fratello era moreute in Enos
città della Tracia, salpa immantinente con piccolo e fragil legno da
Tessalonica, contro l’avviso di tutti i nocchieri, per un mare
tempestosissimo, E GIUNTO IN ENOS TROVA IL FRATELLO GIA SPENTO (Plut., vita di
Catone). E pianse certamente TACITO, benché del PORTICO anch’egli,
quando, dopo aver narrato come e vissuto e morto, non senza sospetto
di veleno, Giulio AGRICOLA suo suocero, aggiunge queste patetiche
parole. Beato te. Agricola, che vivesti sì chiaro e moristi sì
a tempo. Abbracciasti la morte con forte cuore e lieto. Quanto a te,
quasi scolpandone il principe. Ma a me e alla figliuola tua, oltre
all’acerbezza dell’aver perduto un tanto padre, scoppia il cuore che non
ci sia toccato ad assistere nella tua malattia, aiutarti mancante, saziarci di
abbracciare, baciare, affissarci nel tuo volto. Avremmo pure raccolti
precetti e detti da stamparli nei nostri animi. Questo è il dolore, il
coltello al nostro cuore. Senza dubbio. o ottimo padre, per la presenza
della moglie tua amatissima, ti soverchiarono tutte le cose al farti
onore. Ma tu se stato riposto con queste meno lagrime, e pure alcuna cosa
desiderasti vedere al chiudere degl’occhi tuoi. Fra le varie divisioni
dei beni appo IL PORTICO, l’una è questa, che dei beni altri sono
finali, altri efficienti, altri e finali insieme ed efficienti.
I beni finali sono parte della felicità e la costituiscono. Gli
efficienti solo la procurano. I finali ed efficienti insieme e la
procurano e sono parte di quella. Del primo genere sono la letizia, la
libertà dell’animo, la tranquillità, ecc. Del secondo, l’uom prudente ed
amico. Del terzo, tutte le virtù. L’uom prudente ed amico è un bene
efficiente, perchè muove con la sua dispozione razionale la tua
diapoaizion razionale, cioè è occasione a te di buone azioni. E nello stesso
modo è un bene di quel secondo genere ogni cosa, o sia pensiero o
altro, che è occasione a te per camminare verso la perfezione. Di
questo bene parla ora ANTONINO (si veda). Il quale, per l’esser solo
efficiente, e non finale, cioè pel non essere accompagnato ancora da
quel sentimento intimo di gioia perfetta che costituisce la
felicità, non attrae invincibilmente il tuo volere; ed è necessario
quindi, perchè operi veramente sull’uomo, che questi si sottragga da tutte le
altre cose che ne lo possono sviare -- conferisci quello che ne
insegna la teologia intorno alla grazia. E quando ANTONINO chiama
questo bene razionale -- che è attributo generale del bene appo IL
PORTICO -- il fa per opposizione al preteso bene dell’ORTO, che è
sensibile. Seneca, epistola ultima. Chi riguarda il piacere come sommo
bene – o OTTIMO --, giudica che il bene sia sensibile: noi il giudichiamo
intelligibile. E più sotto. Non è bene dove non è ragione. Tutte queste
cose e necessario notare per ìscliiarimento e conformazione del testo, dove la
maggior parte dei cementatori ed interpreti ha voluto cangiare la
parola efficiente in “civile” o vuoi “sociale” con manifesto danno
del senso e del pensiero di ANTONINO. Dispensazione,
in greco “eco-nomia”, vale generalmente governo della
casa, amministrazione. E perchè molte cose si fanno pel governo della
casa, le quali da per sè sole non si farebbero -- come per esempio
il risparmiare certe spese perchè le sostanze famigliar! sopperiscano al
mantenimento di quella -- quindi è stata applicata questa voce ad
ogni cosa che si faccia con fine provvidenziale, benché sia di nessun
pregio in sè od anche noiosa; come p. e. il gastigare i rei. È usata
sovente IN QUESTO SENSO [O IMPLICATURA] dagli filosofi latini di tarda
età, e del PORTICO ed altri. È tra noi disusata perchè è DISUSATO IL
CONCETTO ch’ella esprime. Ma per provare la sua antica cittadinanza in
Italia alleghera il passo seguente di Cavalca, l’ultimo dei citati
sotto essa voce nel V. della Crusca (Medicina del cuore). Per divina
dispensazione avviene che, per li pessimi vizi e gravi, grave e lunga tribolazione
ed infermitade arda e salvi l’anima. Da una nota d’O. credo che,
quando la scrive, inclina per l’interpretazione di questo luogo, a dar ragione
a Xilandro contro i posteriori. Se non muta poi di parere, IL SENSO (O
IMPLICATURA) DI QUESTA ESPRESSIONE con
libertà di parole dovrebbe essere liberalmente cioè con liberalità di
parole, o generosamente poiché così anche lo Xilandro intende lo
£À6u0£.'iu)5 del testo. E con questo raccomandare la generosità nelle
preghiere, ANTONINO intende di biasimare le preghiere che non mirano
che all’interesse proprio di chi lo fa. E però loda quella
preghiera degl’ateniesi, i quali, al dire di Pausania, soleno pregare non
solo per TUTTA L’ATTICA, ma anche per tutta la Grecia. Auto nel
senso peripatetico del Lizio e scolastico, è l’affezione costante
deWente: e per quel carattere di costanza si distingue dalla disposizione
che è variabile. Appo IL PORTICO è la forza o virtù (andreia) che mantien
l’ente in quella affezione costante; o, siccome essi favellano, è spirito
-- intendi aria -- che mantiene il corpo e il contiene. Perchè l’ente ò
corpo appo loro. La mente dell’ universo, dice Senone, penetra per tutte
le cose particolari e le mantiene e governa: ma non tutte nel medesimo
modo: perchè nelle une si manifesta come abito -- pietre, legni --; nelle
altre come natura -- intendi principio organico mero: piante, alberi
--; nelle altre come anima -- principio animrle mero: bruti --; nelle
altre ancora come mente e+ ragione -- anima ragionevole universale e
sociale appo ANTONINO; uomini. Le cose governate dall’abito sono adunque i
corpi dove non è altro principio costituente che il generale di
corpo, dove per conseguenza non è altro carattere distintivo che quella
affezione -- modo d’essere -- costante por cui sono il tal corpo anziché
il tal altro. Sono la classe infima e generalissima di corpi, che noi
chiamiamo inorganica. Nelle cose governate dalla natura, oltre al
carattere generale di corpo v’ ha già il carattere
d’organizzazione. Nelle cose governato dall’anima, oltre al carattere di
cor poreità e di organizzazione, v’ha di più quello di animalità ecc. Le
classi si van cosi ristrignendo e innalzando sino all’ultima, che ha per
carattere la razionalità. In questo il testo è. in più d’un luogo
corrotto, e verìsimilmente havvi anche qualche lacuna. Non potrei
dire precisamente quali sieno le emendazioni seguite o fatte da lui,
perchè una sua lunghissima nota sulle difficoltà di questo
paragrafo, oltre che è piena di cancellature e in gran parte non
intelligibile, è anche manchevole, essendone stato lacerato via, non so
da chi (forse dall’O. medesimo per aver mutato parere), un mezzo foglio.
Nel voltare in italiano io mi sono discostato il meno possibile dalle
sue parole stesse e ho serbato inalterato il senso della sua
interpretazione. Questo paragrafo, essendo corrotto in più luoghi, dei
quali l’emendazione e inutilmente tentata finora, è diversamente inteso dagli
interpreti. O. lascia scritto al principio di una lunga nota: Di questo
veramente corrotto paragrafo non so che partito trarre. La sua
interpretazione che io seguii nel volgarizzamento vuol dunque
essere accettata con quella medesima riserva con che egli la propose.
La parte che segue di questo paragrafo è assai guasta, e fors’anche mutilata. O.
non la tradusse in alcun modo, riserbandosi di farlo quando
avesse trovato una correzione che gli piacesse. Intorno a che lascia molte
note. Nel mio volgarizzamento ho letto il testo come fu letto da Schiiltz,
non perchè egli approvasse in tutto quella lezione, mna perchè non
seppe trovarne una migliore. Il testo di questo paragrafo è corrotto, e chi
corregge in un modo e chi in un altro, e chi ancora difendo la
vulgata. Io ho seguito quella fra le molte e varie emendazioni, dalla
quale parvemi almeno di poter trarre un senso chiaro. Poi sensori tutto il
paragrafo conf. anche V, 33, e Seneca. More quid est? aut finis, aut
transitus. Tutti gli interpreti che io conosco finora, compreso anche Gataker,
il quale nondimeno si scosta dal vero meno che gli altri, pigliano qui
il granchio (fan pietà Dacier o Joly che seguono ciecamente
Gasauhono, come fa pure Barberini: iMilano poi è la stessa pecora
sempre, Hoffmann erra men grossamente com Gataker), confondendo insieme,
siccome fossero una sola cosa, la toù 3Xou (fùaiv e il ToO xóojjiou
’hys.u Qvixdv; quando anzi nella distinzione di queste duo cose è fondato
il senso di tutto il paragrafo. La toO SXou qjvlcjis è la potenza
creatrice o facitrice primitiva; lo •óyepwvixòv toO xóopiou è la potenza
governatrice, dipendente da quella prima, generata, o formata da quella
prima. Siccome la natura dell’ uomo forma l’iomo, cioè la mente dell’uomo
non meno che il corpo; e la mente dell’uomo poi gOTema il corpo. Il
senso adunque di tutto il paragrafo è questo. La
natura dell’universo decreta, determina con deliberazione ragionevole il
mondo, dandogli, per così dire, un corpo ed una mente. Ora, o questa
mente, a cui è affidato il governo del mondo, segue la ragione
(perchè la mente nel senso dello ìf£|jiovixbv può anche talora essere
sragionevole). E allora tutte le cose che ella fa, sono quali le ha
determinate generalmente dà principio la natura formatrice del
tutto, sono involute in quella prima determinazione, sono conseguenza
necessaria di quella prima determinazione, ecc.; ovvero essa mente non segue
sempre la ragione, e allora essendo essa soggetta a capriccio, dove accadere
che non solamente le cose di minor conto che ella fa, ma anche
le cose principali sieno sragionevoli. Ma noi non veggiamo mai che
nelle cose principali ella sia sragionevole. Dunque non può essere
sragionevole nè anche in quelle di minor conto; dunque tutte le cose
vanno secondo ragione. Godo di aver potuto deeiferare nel manuscritto d’Ornato
e quindi trarre in luce la precedente nota (la cui redazione sarebbe certo
migliore se l’ autore avesse potuto ripulire e pubblicare egli
stesso il suo lavoro); perchè l’interpretazione e illustrazione contenuta
in essa è ingegnosissima, naturalissima e confermata da tutto
quello che conosciamo della fisica degli stoici. La natura universale (n toù
óXov (pdcjts), la potenza facitricc o creatrice è il divino puro, il
quale trae l’universo dalla sua propria sostanza, è l’unità assoluta
senza distinzioni e diversità di parti, è la natura naturane; la potenza
governatrice, la mente che governa il mondo (TÓrìysixovixóv toù xó^jxou),
generata da quella prima, è all’incontro, nell’attuale diversità delle
cose,' nella nauìra naturata, nel mondo propriamente detto e
composto di anima e di corpo, è, dico, la provvidenza, l’anima di esso
corpo. Al novero degli interpreti che frantesero questo § è ora da
aggiungersi Pierron. Ed è tanto più da stupire che il sig. Pierron
abbia egli pure sì mal compreso, in quanto che, avendo egli già
prima tradotto la Metafisica di Aristotele, dovea essere sufficientemente
versato nelle dottrine filosofiche delle principali scuole della Grecia. Quasi
tutti i traduttori hanno franteso questo luogo, pigliando l’iwoia
per intelletto ragione e traducendo quindi: vide ne intellectus hoc feraf....
il senso letterale, aggiungendo ciò che è sottinteso, è: vedi se la
nozione (che tu hai di te stesso come uomo) soffre cotesto, soifre
cioè che tu dica esser nato a goder dei piaceri. Pierron, seguendo l’
esempio di tutti i suoi predecessori, pigliò anch’egli Vhvo'.a per
intelletto traducendo: vota a' il y a du bon aena à le prétendre. Colia
bontà delle singole azioni vuotai procacciare di ben comporre la
vita. Il testo e bravissimo. Talvolta troppo fedele alla lettera e
studioso di conservare tutta la brevità dell’ originale, avea tradotto:
ai vuol comporre la vita mettendo inaieme le azioni ad una ad una;
poi comporre inaieme la vita accozzando le azioni ad una ad una;
poi allogando le azioni ad una ad’una. Non credo che so avesse potuto
ripulire e terminare egli stesso il suo lavoro, si sarebbe contentato di
alcuno di questi tre modi, che tutti peccano di oscurità e di
ambiguità. A costo dì essere men breve, io ho creduto di dover
essere piò chiaro non solo in questa frase, ma in tutto questo paragrafo,
svolgendo un poco il concetto dell’autore siccome io l’intendo. Quasi tutti gli
interpreti frantendono. Nel novero degli interpreti che frantesero questo luogo
comprendi ora anche Mr. Al. Pierron, che sdgue docilmente- Gataker e Schultz.
L’errore sta nel legare Io i^’oioy ctv xoti up^rìae col ófUTw che
precede; laddove si riferisce all’azione alla quale l’animale
ragionevole tendea e nella quale è stato impedito. E ciò pare che abbia
poi capito lo Schultz nella sua seconda edizione del testo greco, avendo egli
posto una virgola dopo il óutù. Se tu vo/eafi ftema la debita ritterva,
che da lei etesaa; cioè a dire: se tu volesti assolutamente e non
a condizione soltanto che la cosa fosse possibile; questo atto della
tua volontà fu veramente un male, perchè, come è detto altrove, l’
animai ragionevole non dee voler nulla che non sìa in poter suo, ed
anche il bene relativo, non dee volerlo se non se condizionalmente, cioè in
quanto sia possibile; rimpossibilità essendo per gli stoici sinonimo di
non voluto dalla natura e dal destino, al quale il savio non dee
ripugnare. Che se poi la cosa voluta da te fu una di quelle che non
sono pur buone in senso relativo, e quindi il volerla fu un appetito,
prendendo il vocabolo volere nel significato volgare, cioè un moto del
senso, piuttosto che della volontà ragionevole; tu non ricevesti
nocumento nè impedimento veruno: perchè tu non sei «erwo, ma bensì
mento, ragione o volontà razionale, e come tale, in quanto operi secondo
la tua propria natura non puoi essere impedito da nissuna forza
esteriore. Così intendo questo luogo, così certamente è stato inteso dall’
Ornato (assai diversamente dagli altri interpreti che io conosco,
Gataker, Schultz e Pierron, e questo senso ho procurato, di esprimere
traducendo. O. lascia una breve nota a questo luogo, ma in essa non
fa che avvertire le difficoltà del tradurlo, stante la povertà
dell’italiano,comparativameute al greco, e scusare l’ oscurità e l’
ambiguità della traduzione tentata da lui. Di tutto questo paragrafo fa quattro
tentativi diversi di traduzione, tutti laboriosissimi, come appare
dalle molte cancellature e correzioni. In margine alla quarta od ultima
prova scrisse: Sta qui fermo, perche farai peggio se cangi. Non fu
quindi senza molto bilanciare che mi risolsi a fare io, come feci,
una quinta prova, essendomi sembrato che il miglior partito fosse qui di
tradurre letteralmente, e spiegare i sensi del testo nelle note. Ad
illustrazione del senso stoico di tutto il paragrafo ricordiamoci
priinierainente che secondo gli stoici: c Dio, considerato dal lato fisico, è
la forza motrice della materia, è la natura generale, e r anima
vivificante del mondo; considerato dal lato morale, è la ragione eterna
che governa e penetra l’universo, è la provvidenza benefica, è il
principio della legge naturale che comanda il bone e proibisce il
male. Ricordiamoci ancora che l’aria, come uno dei due elementi
attivi e parte essa stessa della sostanza divina, ò dagli stoici
considerata come il principio della vita sensitiva. Dice adunque
Antonino: non contentarti oramai di essere unito con Dio a quel modo
solamente che sono uniti con lui gli esseri solamente sensitivi, cioè
per mezzo della respirazione; ma fa’ ancora di unirti con lui a
quel modo che si appartiene agli esseri intellettivi, cioè con
cognizione e accettazione libera dello scopo che Iddio ha proposto all’accettazione
libera di quelli. E però, siccome tu traggi dall’aria ambiento gli elementi
della tua vita sensitiva, traggi ancora dalla ragione ambiente gli
elementi della tua vita intellettiva. L’esistenza delle cose dissolvendotù
(Tràvxa èv [xerai^oX-^. K«ì ocùrCg cù év ^'.r,v£xet à^.Xoicoasi, \at xaxa
ti (JiOop^). Qui mi pare che fosse il caso di dovere assolutamente
abbandonare la lettera e contentarci di esprimere il senso del
testo, piuttosto che cercar di tradurne le parole, che non sono
traducibili in italiano. L’Ornato avea detto: tutte le, cose vanno
soggette a mutazione. E tu stesso ti alteri continuamente, e
peì'^isci, per cosi dire. Ma egli non era contento, come appare
dall’usato segno. E in vero che significa quel tutte le cose vanno
soggette a mutazione f Significa, e non può significare di più, che tutte
le cose possono essere mutate e lo saranno effettivamente quando
che sia; ma ciò liou esprime quella condizione delle cose, per cui
non hanno stato, o modo di essere che perduri pure un istante senza
mutamento, che è la vera condizione delle cose secondo la filosofia di
ANTONINO e voluta esprimere da lui. Chi dovesse tradurre questo luogo in
tedesco, lo potrebbe fare, parmi, benissimo dicendo: Alle (Unge aind in
unaufhorlichem anclera-werden; come si dice in werden non solo dai
filosofi, ma anche nel linguaggio famigliare, quando di una cosa che non
è ancora, ma si sta incominciando 0 si va facendo, si suol dire: Die
Saehc iat noch ini werden. Ma la nostra lingua italiana non ha tutta la
flessibilità del tedesco, uè sarebbe chiaro, uè permesso il dire in
italiano: tutte le coae sano in un continuo mutarai. È una singolare
coutradizione di Marco nostro e di altri del PORTICO poateriori il venir
cosi spesso parlando con tanto dispregio della materia che aottoatà alle
cose (tt,? ii7:oy.e'.[xi\rng uXin?, — A"edi anche YI, 13, e
altrove). Il mondo è tuttavia per essi un animale perfetto e bellissimo,
il cui corpo è la materia, e l’anima, Dio. Le rughe sul volto del
vegliardo, le screpolature delle ulive e del fico vicini ad infradiciare,
la bava del cignale ed altre sì fatte cose hanno pure una certa
grazia e venustà, perchè il mondo è perfetto, e nulla è nelle suo parti
che non conferisca alla bellezza del tutto. Perchè dunque ora tanto
dispregio non solo per tale o tale altra parte, ma universalmente per
tutta, la materia che sottosta, quando questa materia, che non è poi
altro per gli stoici se non se il suhstratum indeterminato di tutto il
contingente sensibile, è essa pure sostanza divina secondo la scuola? Intendi: « o tu voglia dire che il
mondo sia stato formato di atomi. ed abbia quindi origine dal caso; o
che sia stato formato di nature (essenze, entelechie, monadi), ed
abbia quindi per origino l’ intelligenza, o la natura, che qui è
sinonimo di intelligenza; questa cosa pongo io certa anzi tutto, come
tratta dalla mia osservazione immediata, che io sono attualmente parte di
un tutto governato da una natura. Con altre parole: o tu faccia venire il mondo dalla
pluralità, o tu lo faccia venire dall’unità, ella è cosa di fatto che
io ci ravviso attualmente una pluralità governata da una unità. Il
qual metodo di filosofare, per cui, lasciata stare la disputa intorno
all’origine delle cose, si viene ad esaminare la realtà attuale di esse;
lasciato stare il lontano e mediato, si viene ad osservare l’ immediato e
prossimo; lasciata stare la cognizione dedotta, si viene a far capo alla
cognizione di fatto acquistata per osservazione; è solenne ad
Antonino. Ricordi il lettore che appo stoici mondo, tutto, natura,
Dio sono V sostanzialmente la stessa cosa, e però
quelle che poco innanzi furono chiamate parti del tutto, qui sono dette
della natura. Dìo, natura, mondo, tutto sono espressioni diverse
che corrispondono a modi diversi di considerare una stessa cosa, e
questa diversità è relativa alla mente finita dell’uomo che non può simultaneamente
contemplare gli aspetti e momenti diversi delle cose, e non alla
realtà obbiettiva. Quindi ò che le espressioni soprascritte sono non di rado
usate runa per l’altra, poiché sostanzialmente significano la
medesima cosa. Il mondo KÓrfixog), dice Laerzio, er DAL PORTICO considerato:
1® come causa 0 pbtenza informatrice di tutte le cose che sono
{natura nuturans, i; t£ Xvtxfi, -ij ToO òlo\j q>0ai<é ), la quale,
come artefice e informatrice di sé medesima, trae da sé stessa e
informa tutte le coso con suprema saviezza e divina necessità, cioè
secondo le sue leggi che sono quelle della ragione; 2" come la
totalità delle cose informate e ordinate dalla potenza informatrice
immanente in esse e governatrice di esse (dotta allora xòv Toù xd^fjLou)
e quindi come l’opera vivente, il vivente organismo, o corpo organato
da quella {natura naturata); finalmente come l’unità dei due,
cioè dell’ organismo vivente e della forza organatrice e governatrice, in
quanto l’uno non si distingue dall’altra se non se per la
contemplazione della mente finita deU'uomo. Vedi i Prologo
nell’edizione di Torino. Fa che tu vi sottoponga col pensiero di che io
ragiono. Ho conservato tutte le parole della interpretazione dell’O., perchè
non avrei saputo quali altre più chiare sostituir loro; atteso che
io non son sicuro di intendere qui nè che cosa abbia voluto dire r O.,
nò che cosa Antonino. Ornato volea faro a questo luogo una nota; ma non
la fece, e non trovo altro,, che si riferisca a questo luogo,
ne’suoi manoscritti, se non se un cenno pel quale è indicato che
egli lesse qui ò, ti risolutamente^ ove tutti gli altri, che io
conosca, lessero &ti; e che egli intese r Ù7TÓ0OU diversamente da
tutti gli altri interpreti. Gataker e Schultz che lo segue da
vicino, non sono più chiari. Le quali tu apprendi»,, considerazione del
tutto. Così O. svolge ed illustra la filosofia di ANTONINO espresso brevissimamente
e, parmì anche, poco chiaramente nel tosto. Non ho mutato quasi
nulla alla versione di questo paragrafo lasciata d’O., sia perchè ho
motivo di credere che ne fosse già poco meno che contento egli stesso,
trovando io questo paragrafo nettamente ricopiatom sia perchè non avrei
voluto correr pericolo -- li alterarne benché minimamente il senso,
trattandosi di un luogo che egli intese assai diversamente da tutti gli
altri interpreti. Vuol dire che non bastano le impressioni buone che noi
riceviamo per mezzo della sensibilità, le quali possono e sogliono
venir cancellate da impressioni contrarie, ma ci vuole anche il lavoro deir
intelletto che riduca quelle ad unità e le fermi cosi nel nostro
spirito, formandone come un corpo di scienza. Non basta
l’osservazione, l’applicazione dello spirito alle cose di circostanza, ma
ci vuole ancora la contemplazione, l’ applicazione dello spirito alle
cose permanenti, al generale immutabile. Solo col ridurre ad unità
il moltiplice, a generalità il particolare, si possono radicare le
cognizioni nell’ anima, la quale si compiace dell’unità, e quindi della
scienza: compiacenza cui la semplicità del cuore dee far rimanere secreta
naturalmente nel cuore, ma non artatamente celata; ed allora è l’anima
veramente grave e soda e come chi dicesse, veneranda. Sul fine del paragrafo
fa la enumerazione delle diverse categorie alle quali si dee riferire
l’oggetto osservato. Questa nota d’O. che per le troppe citazioni del
testo greco non può qui darsi che in parte, trovasi intera nell’edizione
di Torino. Grecismo, per suole accadere. Non era possibile il tradurre
altrimenti. Del resto vada a rilento chi per la sola ragione del non
potersi tradurre sempre colla stessa voce una stessa parola del
testo, accusa ANTONINO qui ed altrove di arguzia. IL PORTICO crede che,
là dove è una stessa parola, debbe essere anche una stessa idea. Ed
anche Platone (vedi il Cratilo) il credette; e il credette VICO (si veda): e
tanti j altri il credettero: e noi il crediamo. Se quella idea
generalissima che l’antichità avea attaccata al:p:?.eìv non si trova più
annessa al nostro amare, ciò j non prova altro se non che il greco
d’ANTONINO e l’italiano sono due lingue diverse. E sap evadicelo.
Il passo di Platone è nel Teeteto dove parlando dell’ uomo filosofo liberalmente
educato, dice, udendo egli lodare e magnificare un tiranno od un re, gli
par di udire lodato e magnificato un pastore, perchè egli munga di
molto latte; e l’animale cui pasce e munge il re, gli pare anche
più ritroso e più infido di quello cui pasce e munge il pastore; nè
men rozzo nè meno ineducato stima egli l’uno che l’altro, mancando
ad amhidue il tempo per badare a sè, e vivendo il primo fra le mura
della reggia a quello stesso modo che l’altro nella capanna sul monte.
Del resto, il senso generale di tutto questo paragrafo, non bene inteso,
secondo me, dagli interpreti, mi pare che sia: Tu dèi farti capace sempre
pih cho tu puoi vivere da filosofo in questa tua corte come faresti
in. quella tua villa .che agogni. Non incontri tu ad ogni passo
esempi di quel che dice Platone: uomini che vivono nei palagi come
farebbe un rozzo pastore in sul monte: ingolfati cioè quelli e questo
nelle cure materiali del governo dell’armentoV E sottintende: se
per costoro il palagio non è altrimenti che una capanna, non può
ella con più ragiono essere la reggia per te come un ritiro filosofico? Gran
ragione ha qui ANTONINO di raccomandare a sè medesimo anche ' questo
genere di contemplazione, cioè a dire lo studio dei fenomeni, e
delle maraviglie, come egli dice sapientemente, dell’organismo
corporeo degli animali e deir uomo massimamente: perchè non è altro
studio il quale possa per via più compendiosa e sicura condurre alla
cognizione della infinita sapienza, e provvidenza infinita della causa
reggitrice del mondo. Nè l’uorao può presumere di conoscere sè
medesimo, sé non conosce almeno un poco di queste maraviglie, cioè come si
formi, cresca, si conservi, si rinnovi e deperisca il suo corpo,
quale sia la natura e il modo di operare della causa o principio a
cui dehbonsi riferire questi fenomeni, quali le relazioni di questa vita
organica del suo corpo con quella del principio che in lui sente, vuole, e
pensa, e come possano questo due vite modificarsi fra loro
scambievolmente. In vero chi aspira a conoscere sè medesimo, per
quanto sia dato all’uomo di pur conoscere sè stesso, e non cura di
conoscere un po’intimamente anche questa delle due parti di che si
compone l’esser suo, porta gran pericolo di errare nel vano, e di prendere
astrazioni por realtà, il che avvenne appunto ai filosofi del
PORTICO, ignorantissimi di anatomia o quindi più ancora di fisiologia.
Perchè uno appunto degl’errori fondamentali della loro filosofia,
quello por cui mutilavano la natura umana escludendo da essa la
sensibilità che riferivano al corpo come a cosa straniera all’ uomo
propriamente, il quale per essi non e altro che ragione e volontà; questo
errore, dico, è in gran parte da attribuire alla imperfezione delle loro
cognizioni, ai loro errori circa la costituzione fisica dell’uomo e le
relazioni in che ella si trova colla sua costituzione morale e
intellettuale; o per dire più veramente, alla loro totale ignoranza dello
leggi che governano i fenomeni dell’organismo corporeo dell’uomo, delle
relazioni intimissime della vita di esso organismo corporeo con quella della
mente, e della natura egualmente spirituale di ambidue. Questi
versi sono d’Omero e sono dei più famosi nell’antichità, dei più
spesso citati e ripetuti, imitati dai poeti posteriori; o però ANTONINO
non li scrive per intero, ma solo quei brani che sono stampati in
corsivo, bastando quelli a richiamare alla memoria i versi interi,
alle diverse sentenze contenuto in essi alludendo egli poi nella parte
seguente del paragrafo. Con questi versi GLAUCO, (opo aver detto
magnanimo Tidide a che mi chiedi il mio lignaggio?, incomincia la sua
risposta a Diomede, il quale, prima di accettare il combattimento con
lui, aveagli chiesto qual fosse la sua stirpe. Io li ho tradotti
letteralmente, giovandomi in parte della traduzione di Monti, la. quale,
come nota a tutti i lettori, avrei volentieri dato qui inalterata,
se in essa fosse più fedelmente espresso, e nell’ ultimo verso non
interamente guasto il senso delle parole d’Omero. Il qual verso, voglio
dire il 149\ è tradotto da Monti come segue: CosxVuom nasce e così muor:
il che fa fare un falso sillogismo a Glauco, il quale secondo la
traduzione del Monti, concludendo, affermerebbe dell’wo/ Ho ciò che
dovea affermare delle schiatte umane, mutando, come direbbero i
loici, nella conclusione il piccolo termine, che nella premessa
minore- non era uomo ma schiatta o stirpe, come disse Monti. E pure il
verso d’Omero ò chiarissimo. Questo strafalcione Monti non fa se, come
quasi ignorante del greco, con tante altre traduzioni avesse saputo
consultare quella mirabilissima, non solo per eleganza di stile ma
ancora per fedeltà, precisione e chiarezza, del Voss, il quale in
cinque bellissimi esametri tedeschi traduce letteralmente i cinque
esametri greci. Anche Pope, sebbene i suoi lavori sui poemi d’Omero,
tutto die pregevolissimi per altri rispetti, non meritino il nome di
traduzione, non fa qui lo sproposito di Monti. Ed altri ancora
potrei nominare dei nostri che con nobilissimo intendimento si
diedero all’ardua impresa di recare nella nostra lingua italiana chi
l’una e chi l’altra di quelle poche reliquie che ci rimangono della greca
poesia -- dico poche rispetto a ciò che fu divorato dal tempo --; i quali
avrebbero meglio inteso e meglio tradotti moltissimi luoghi se
avessero potuto consultare, se non tutti gl’interpreti, cementatori ed
espositori, almeno i traduttori tedeschi. Ma basta che io nomini il più
valente, a parer mio, di tutti, Belletti, al quale, tranne forse
una più intima notizia del greco, nulla mancava, non valor d’arte,
non felicità d’ ingegno, a poter fare una traduzione perfetta, o prossima
alla perfezione, dei tragici greci. E in vero, leggendo io le traduzioni
di Bellotti e riscontrandolo diligentemente cogli originali, ebbi in
moltissimi luoghi ad ammirarne la eccellenza, anzi direi quasi in tutti
quei luoghi dov’egli capì abbastanza intimamente il suo testo e non erano
difficoltà insuperabili a qual sivoglia traduttore. Ma anche in molti
altri luoghi io ebbi a lamentare che egli pure non abbia saputo o
potuto giovarsi delle eccellenti traduzioni fatte da* suoi
predecessori alemanni. Nel solo Agamennone, che anche considerato
in sè stesso e non come parte di una grande e sublime trilogia, è
forse il più bel monumento della scena antica, e certamente il più
grande di tutti per sublimità tragica, recondita filosofia,
splendore di immagini e copia di alti e forti pensieri, quanti errori
avrebbe evitati il Belletti, quante meno scempiaggini avrebbe fatto dire
a quella grande anima e colossale ingegno d’Eschilo, so egli avesse solo
potuto profittare della traduzione e dei Prolegomeni di Humboldt? Non
dirò del libro di Welcker sulla Trilogia di Eschilo che forse non era ancora
pubblicato quando Bellotti traducea l’Agamennone. Ed è tanto più da
lamentare che a Bellotti siano mancati questi sussidi, quanto è meno da
sperare che sia presto per sorgere un altro ingegno italiano, il quale
possa fare quello che avrebbe potuto Bellotti. Ritornando al
paragrafo di ANTONINO e al luogo citato d’Omero, è da notare come
siffatti pensieri intorno al poco o niun valore della vita considerata in
sè, e di tutte le cose umane e dell’ uomo stesso, così frequenti
nei poeti ebraici; frequentissimi in questo scritto di Antonino e
divenuti quasi abituali nei cristiani dei primi secoli, si trovino
pure non di rado anche nei poeti greci più antichi, voglio dire in quelli
delle prime e più splendide epoche della greca letteratura, sebbene
i greci fossero un popolo di allegra immaginazione. Forse non
dispiacerà al lettore il vederne qui raccolti alcuni esempi: nell’ Odissea
la terra non nutre nulla di più infermo che l’uomo.
Nell’ottava delle pitie di Pindaro Che siatn noi dunque o che non
siamo f Leggiero veder d’ombra che sogna. Letteralmente la seconda parte.
L’uomo è l’ombra di un sogno. Nel Prometeo d’Eschilo e non vedevi l’imbecille natura a vano
sogno eguale onde è impedito il cieco umano gregge? Nell’Aiace di Sofocle,
perocché veggo non essere noi,
quanti viviamo, altro che larve ed ombra vana. Nel Filottete del .
medesimo Sofocle, Filottete chiama sè medesimo: ombra di un fumo.
Nella Medea di Euripide -- non ora soltanto incomincio a stimare tutte le
cose umane come un' ombra, E vuoisi notare come appo i tragici ed
anche appo i) lepidissimo Aristofane la parola effimeri, cioè quelli che
durano un giorno, è spessissimo usata come sinonimo di uomini. A
queste, o ad altre simili sentenze d’ antichi ed illustri poeti, le quali erano
nella memoria di tutti gli eruditi del suo tempo, allude evidentemente ANTONINO
con quelle sue parole: il più breve detto, anche di quelli che sono
i più noti ecc., accennava poi per esempio quelli d’Omero. Questa
nota e scritta in tempo che io, quasi appona ripatriato, e mandato a
stare in un cantuccio al tutto vacuo di studi e di lettere
(prendendo i vocaboli in un senso un po’ alto), e ridottomi a
passare nella solitudine i pochi momenti d’ozio che r esercizio di
un pubblico ufficio mi lascia, avea potuto, non saprei diro perchè,
immaginarmi che il valentissimo Bellotti fosse già del numero di quei
felici che più non vivono altrimenti sulla terra che per la memoria di
opere egregie che vi lasciarono. Avvertito ora del mio errore, non cangio
nulla a quello che ho scritto di lui; ma aggiungo l’espressione di un
voto, che deve esser quello di tutti gli amatori delle buone
lettere desiderosi di vedere vie più chiara e più grande la rinomanza di
un nobilissimo ingegno: ed è che l’esimio sBellotti, come sta ora, da
quanto mi dissero, rivedendo o migliorando il suo volgarizzamento
di Sofocle, così possa egli poi rivedere ed emeudare quello ancora
di Eschilo, il quale, a parer mio, ne ha maggiore bisogno; perchè quello,
tranne forse alcune eccezioni, non pecca gravemente che nella parte
lirica; laddove in questo trovai, 0 parvemi certamente trovare,
molti luoghi da dover essere emendati non solo nella parte lirica troppo
spesso non traducibile in italiano (come è intraducibile Pindaro, secondo
che fu sentenziato anche da LEOPARDI non ismentito dal tentativo più
audace che felice di Borghi); ma eziandio nel dialogo. Ella comjyie
nondimeno..», si avea proposto. Mi sono scostato, anche nel senso,
interamente dall’ Ornato, il quale avea tradotto: ella rende intero e compiuto
quanto ella avea fatto fino allora; primieramente perchè il senso
voluto esprimere d’O. non mi sembrava abbastanza chiaro; e poi, e
principalmente perchè mi parve troppo grande licenza il tradurre per
quanto avea fatto fino allora, il tò irpoTcOiv, il quale mi sembra
qui usato nel senso il più ovvio del verbo “7rp.oT{6T)|ju”, che è quello
di proporre, e così l’ intende anche lo Schultz contrariamente
al’Gataker seguito d’O. Veggo bene le ragioni che possono avere gl’indotto a
interpretare a quel modo. Ma non mi persuadono. Il pensiero di Antonino mi
sembra chiaramente, l’anima razionale, la quale non si propone altro che
di operare sempre secondo ciò che richiede il momento presente, e di
aver caro tutto ciò che le interviene, come cosa voluta dalla natura, in
qualunque istante le sopravvenga la morte, compie sempre interamente
il compito che ella si avea proposto, e in modo soddisfacente a sè
stessa; ella ha tutto ciò che potea desiderare, ha totalmente
esaurita la sua parte come attrice sulla scena del mondo; e appunto il
morire quando la natura lo vuole, è la conclusione, il compimento
della parte a lei assegnata e da lei liberamente accettata nel gran
dramma della vita universale. Bone avverte qui Gataker aver già
Socrate usato il medesimo argomento per indurre Alcibiade a disprezzare
la moltitudine, alla quale peritavasi di farsi innanzi a
concionare: qual è, diss’egli, di costoro quegli che ti impaurisce? forse
Micillo il ciabattieref Trigaió il conciatore f Trochilo il
ferravecchio? ora non sono costoro quelli dei quali si compone l’adunanza
del popolo? Che se non temi di favellare a ciascuno di essi
separatamente, che è dò.che ti fa timido a parlar loro riuniti insieme?
Il ragionamento di Socrate era giustissimo applicato ad una moltitudine di popolo riunito,
e avrebbe anche potuto ricordare ad Alcibiade l’antico detto di Solone ai:li
Ateniesi conservatoci da Plutarco: preni ad uno ad uno »iete tante volpi;
riuniti insieme siete tanti allocchi. Ma il medesimo ragionamento
applicato allo cose di cui parla Marco nostro non ò molto
concludente. E una melodia, per es., come qui avverte opportunamente
Pierron, è qualche cosa di più che una semplice successione di
suoni, e Antonino dimentica di considerare ciò appunto per cui le
note musicali hanno potenza da commovere l’anima sì intimamente.
Avverta il lettore che idea tragica fondamentale ai poeti greci era la
lotta infelice della volontà e liberta morale dell’ uomo contro l’
inflessibile necessità; o per dir più veramente, quella fatale
retribuzione di giustizia che risulta inevitabilmente alla vita
umana dalle leggi necessarie dell’ordine morale. Perchè quella necessità che
non era punto upa cosa cieca secondo gli stoici, apjio i quali il /«<o
non era altro che la concatenazione delle cause secondo le leggi della natura,
cioè della ragione e quindi della giustizia; quella necessità, dico,
non era punto una cosa cieca neppure nella mente dei poeti: sendo
che a Nemesi figlia appunto di essa necessità e particolarmente
incaricata di vendicare i delitti e rovesciare le troppo grandi e-
immeritate prospérità, a Nemesidico, e alla Giustizia (5“tx-ri), che
erano i due concetti più puri fra tutte le divinità immaginate
dall’ antico politeismo, il semplice, ma sublime buon senso dei
Greci riferiva tutto ciò che risguarda il supremo governo del mondo.
L’idea dunque della giustizia era congiunta con quella della
necessità sebbene in modo diverso, anche nella mento dei poeti,
come in quella degli stoici. Cho se Antonino non fa qui esplicitamente
alcuna allusione a quella retribuzione di giustizia, che era l’elemento
morale della tragedia greca, ma solo allude alla inutilità della
lotta contro alla necessità, e sembra così impicciolire l’idea nobilissima
dell’antica tragedia; egli è perchè questa inutilità intendeano gli
stoici e i poeti allo stesso modo, e quasi esprimevano colle medesime
parole; laddove intendeano in modo diverso quella retribuzione: e non
erano forse i poeti quelli clie la intendeano in modo men vicino al
vero. Benissimo Gataker ricorda qui alcuni detti memorabili di Pocione,
conservatici da Plutarco, ai quali alludea probabilmente Antonino in
questo luogo. Già condannato a morte per giudizio iniquo de’ suoi
cittadini, in proposito. di uno che non ristava dal dirgli villanie,
disse Focione: non sarà alcuno che faccia costui cessare dal
disonorar «è medesimo? E già vicino a morire, questa sola
ingiunzione fece al figliuolo: dimenticasse il fatto ingiusto degli
Ateniesi. Quanto alle parole che seguono di Marco nostro: mpposto che non
e in fingenac, non debbono esser prese come, espressione di nn sospetto
nel caso particolare di Focione, ma bensì in un senso generale,
quasi dicesse Antonino con istoica riserva, non bastar sempre le
parole a dar certo fondamento a un giudizio sulle disposizioni interne
dell’animo altrui, nè doversi mai fingere, neppur quando il fingere
potesse giovare a bene edificare gli uomini. Da stólto (à|*vu/jiov). Traduce
inìquo, seguendo Schultz che tradusse iniquum. Ma non e ben risoluto
di aver bene interpretato quello “ayvofxov,” come appare dal consueto
segno. E veramente non parmi che lo ayvcofjLov possa esser preso in
questo senso, sebbene abbia quello ingrato, disleale, disamorato. Il
senso più ovvio di questo aggettivo è privo di senno, stolto, inavveduto,
e parmi che 41 1 reo Aurelio questo senso quadri benissimo in questo,
luogo, meglio che non faccia quello di inìquo. Dopo aver detto ANTONINO
essere da pazzoy cioè a dire da stolto, il volere che ì malvagi non
pecchino; aggiunge che lo ammettere in tesi generale ed assoluta, poiché non si
può fare altrimenti, che essi debbano di neces- sità peccare, e il
volere ad un tempo che essi facciano una eccezione a favor tuo, è
cosa non solo às. stolto ma anche da tiranno: da stolto perchè l’eccezione,
anche di un solo caso non è possibile ai malvagi;.da tiranno perchè
vuoi esser distinto e che ti si abbia maggior rispetto che agli altri
uomini. Anche Gataker intende 1’ àyvwi^ov così; iPierron segue lo
Schultz. Parole di Epitteto malissimo interpretate da Pierron, che riferisce
l’àiro OavTi al padre, quando deve essere riferito al
figliuolo, corno fece O., seguendo Gataker e Schultz. La medesima
sentenza si trova anche nel Manuale del medesimo Epitteto con parole poco
diverse, e fu benissimo tradotta dal Leopardi. Se tu hacer<fi per avventura
un tuo Jigliolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio un mortale.
Manuale, Tutto è opinione. Il lettore com- prenderà facilmente come il
senso stoico di questa frase, tante volte ripetuta da Marco nostro,
è al tutto alieno da quello della famosa sentenza del sofista
Protagora: V uomo è misura di tutte le cose. La sentenza del sofista si
riferiva ad ogni cosa, alla verità obbiettiva, alla moralità come
alla sensibilità, e tendea quindi a distruggere la possibilità' di
ogni cognizione teorica, la morale come la religione. La sentenza di Antonino
al contrario, il quale, per un errore direi quasi magnanimo,
riduceva, seguendo gli stoici anteriori, tutta l’essenza dell’ uo-
mo alla ragione e alla volontà ragionevele, non si riforisce ad altro che
alla sensibilità, cioè ai piaceri e ai dolori di cui essa
sensibilità è soggetto. Intendi raziocinio nel senso proprio dei loici, cioè
facoltà del sillogizzare, operazione propria dell’intelletto; e nota qui
il carattere esclusivo del Portico, il quale considerava e stimava
un nulla, non che la sensibilità ma l’in- telletto stesso, a paragone dei
buon uso della volontà, cioè della moralità della ragione.
Traducendo ho usato il vo- cabolo raziocinio piuttosto che
intelletto, perchè in italiano il senso della parola intelletto può
essere troppo facilmente confuso con quello di ragione, la differenza fra
i due non essendo così ben determinata nella nostra lingua, come è fra i
due corrispondenti tedeschi Verstandnis e Vernunft. Ornato. Keywords:
implicatura, Antonino, ad seipsum, ricordi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Ornato” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice ed Oro: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Grice e Trissino – la
difficoltà dei segni di Trissino non favorì la diffusione della sua filosofia –
la scuola di Vicenza -- filosofia veneta -- filosofia italiana (Vicenza). TRISSINO-DAL-VELLO-D’ORO -- or ORO
(Vicenza). Filosofo italiano. Vicenza,
Veneto. Ritratto di Vincenzo Catena. Persona di spicco della cultura
rinascimentale, notissimo al tempo, il Trissino incarnò perfettamente il
modello dell'intellettuale universale di tradizione umanistica. Si interessò,
infatti, di linguistica e di grammatica, di architettura e di filosofia, di
musica e di teatro, di filologia e di traduzioni, di poesia e di metrica, di
numismatica, di poliorcetica, e di molte altre discipline. Nota era, anche
presso i contemporanei, la sua erudizione sterminata, specie per quel che
riguarda la cultura e la lingua greche, sull'esempio delle quali voleva
rimodellare la poesia italiana. Fu anche un grande diplomatico e oratore
politico in contatto con tutti i grandi intellettuali della sua epoca quali
Niccolò Machiavelli, Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai, Ludovico
Ariosto, Pietro Bembo, Giambattista Giraldi Cinzio, Demetrio Calcondila,
Niccolò Leoniceno, Pietro Aretino, il condottiero Cesare Trivulzio, Leone X,
Clemente VII, Paolo III, e l'imperatore Carlo V d'Asburgo. Fu ambasciatore per
conto del papato, della Repubblica di Venezia e degli Asburgo, di cui fu un
fedelissimo, come tutta la sua famiglia da generazioni. Scoprì e protesse
l'architetto Andrea Palladio, appena adolescente, nella sua villa di Cricoli,
vicino Vicenza, che venne da lui portato nei suoi viaggi e fu da lui iniziato
al culto della bellezza greca e delle opere di Marco Vitruvio Pollione. O.
nacque da antica e nobile famiglia. Suo nonno Giangiorgio combatté nella prima
metà Professoreil condottiero Niccolò Piccinino, che al servizio dei Visconti
di Milano invase alcuni territori vicentini, e riconquistò la valle di
Trissino, feudo avito. Suo padre Gaspare era anch'esso uomo d'armi e colonnello
al servizio della Repubblica di Venezia e sposò Cecilia Bevilacqua, di nobile
famiglia veronese. Ebbe un fratello, Girolamo, scomparso prematuramente, e tre
sorelle: Antonia, Maddalena, andata in sposa al padovano Antonio degli Obizzi,
ed Elisabetta, poi suor Febronia in San Pietro nel 1495 e dal 1518 rifondatrice
insieme a Domicilla Thiene di San Silvestro. Targa marmorea che
Trissino fece realizzare a ricordo del suo maestro Demetrio Calcondila in
S.Maria della Passione a Milano Trissino studiò greco a Milano sotto la guida
del dotto bizantino Demetrio Calcondila, sodale di Marsilio Ficino, e poi
filosofia a Ferrara sotto Niccolò Leoniceno. Da questi maestri imparò l'amore
per i classici e la lingua greca, che tanta parte ebbero nel suo stile di vita.
Alla morte di Calcondila, fece murare una targa nella chiesa di S.Maria della
Passione a Milano, dove fu sepolto il suo maestro. Sposa Giovanna, figlia del
giudice Francesco Trissino, lontana cugina, da cui ebbe cinque figli: Cecilia, Gaspare,
Francesco, Vincenzo e Giulio. Trissino sostene l'Impero come istituzione,
come d'altronde era tradizione nella sua famiglia da generazioni, ma ciò venne
interpretato in spirito antiveneziano e, per questo, egli fu temporaneamente
esiliato dalla Serenissima. Nel 1515, durante uno dei suoi viaggi in Germania,
l'Imperatore Massimiliano I d'Asburgo lo autorizzò all'aggiunta del predicato
"dal Vello d'Oro" al proprio cognome e alla relativa modifica dello
stemma gentilizio (aurei velleris insigna quae gestare possis et valeas), che
nella parte destra riporta su fondo azzurro un albero al naturale con fusto
biforcato sul quale è posto un vello in oro, il tronco accollato da un serpente
d'argento e con un nastro d'argento tra le foglie, caricato del motto "PAN
TO ZHTOYMENON AΛΩTON" in lettere maiuscole greche nere, preso dai versi
110 e 111 dell'Edipo re di Sofocle che significa "Chi cerca trova",
privilegi trasmissibili ai propri discendenti. Stemma di
Giangiorgio Trissino dal Vello d'Oro come appare nel volume dedicatogli da
Castelli. In quegli stessi anni intraprese diversi viaggi tra Venezia, Bologna,
Mantova, Milano (dove conobbe Trivulzio, comandante francese) e Padova (dove
riscoprì il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri). Poi si recò a Firenze ed
entrò nel circolo degli Orti Oricellari (i giardini di Palazzo Rucellai) in cui
si riunivano, in un clima di marca neoplatonica e di classicismo erudito,
Machiavelli e i poeti Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai ed altri.
Qui il Trissino discusse il De vulgari eloquentia e compose la tragedia
Sofonisba. Questi anni agli Orti Oricellari furono centrali, sia per quanto il
poeta ricevette intellettualmente, sia per la forte impronta che lasciò sui
suoi sodali: si vedano le tragedie di Giovanni di Bernardo Rucellai e il
poemetto le Api (in endecasillabi sciolti, concluso dalle lodi del Trissino,
cfr. il paragrafo sul Profilo religioso del Trissino) o le poesie pindariche di
Luigi Alamanni, o ancora i punti di contatto fra le tante digressioni erudite
sull'arte militare contenute nell'Italia liberata dai Goti che rimandano
all'Arte della guerra del Machiavelli, elaborata proprio in quegli anni. Anzi,
le idee linguistiche del poeta spronarono lo stesso Machiavelli a scrivere
anche lui un Dialogo sulla lingua, nel quale difende l'uso del fiorentino
moderno (cfr. il paragrafo Opere linguistiche). In seguito si recò a
Roma, dove stampò la Sofonisba -- dedicandola papa Leone X -- la prima tragedia
regolare, e la famosa Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua
italiana (dedicata a Clemente VII), un arditissimo libello in cui si suggeriva
l'inserimento nell'alfabeto latino di alcune lettere greche per segnalare
alcune differenze di lettura. Intanto il figlio Giulio, di salute cagionevole,
venne avviato dal padre alla carriera ecclesiastica e, dopo il suo soggiorno a
Roma sempre presso papa a Clemente VII, divenne arciprete della cattedrale di
Vicenza. Sempre a Roma, O. diede alle stampe alcuni testi fondamentali:
la versione riveduta della Epistola, la traduzione del De vulgari eloquentia,
Il castellano (dialogo sulla lingua, dedicato a Cesare Trivulzio ed ispirato a
quello dantesco), le Rime (dedicate al cardinale Niccolò Ridolfi) e le prime
quattro parti della Poetica (il primo trattato ispirato alla Poetica di
Aristotele, da poco riscoperta), con le quali il programma di riforma
letteraria classicheggiante avviato con la Sofonisba può dirsi quasi concluso.
Per i prossimi 20 anni il poeta non stamperà più nulla. Queste opere
sollevarono un grande clamore per la loro arditezza e disorientarono (o meglio:
orientarono diversamente) la nascente letteratura italiana: nessuno aveva osato
finora riformare addirittura l'alfabeto, né aveva avuto ardire di cancellare
l'intero sistema dei generi in uso fin dal Medioevo (le sacre rappresentazioni
e il poema cavalleresco, in primis) per farne sorgere dal nulla dei nuovi, cioè
poi quelli antichi (la tragedia, la commedia e il poema epico). Da questi
libelli prese avvio la secolare questione della lingua italiana. A
Bologna, nel corso dell'incoronazione di Carlo V a Re d'Italia e Sacro Romano
Imperatore, egli ebbe il privilegio di reggere il manto pontificale a Clemente
VII e Carlo lo nominò conte palatino e cavaliere dell'Ordine Equestre della
Milizia Aurata. Secondo quanto riportato dallo storico Castellini,
Trissino rifiutò posizioni di potere offertegli dai pontefici a seguito dei
successi riportati come diplomatico (Nunzio e Legato), ad esempio
l'arcivescovado di Napoli, il vescovado di Ferrara o la porpora cardinalizia,
in quanto desideroso di una propria discendenza ed essendo il figlio Giulio
avviato nella gerarchia ecclesiastica. Rientrato a Vicenza sposa Bianca, figlia
del giudice Nicolò Trissino e di Caterina Verlati, già vedova di Alvise di
Bartolomeo O. Da Bianca ebbe due figli: Ciro e Cecilia. Alla nomina di Ciro
come erede universale, si scatenarono le ire di Giulio che per lungo tempo
lottò in tribunale contro il padre e il fratellastro per poi morire in odore di
eresia calvinista. Anche a seguito delle divergenze causate dai cattivi
rapporti con Giulio, la coppia si divise quando Bianca si trasferì a Venezia,
dove morì. Trissino manifestò il proprio fervente sostegno all'Impero
dedicando, qualche anno prima della morte, a Carlo V il suo poema in 27 canti
L'Italia liberata dai Goti, il primo poema regolare destinato, come si vede fin
dal titolo, ad essere importante per la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso.
Stampa anche la commedia I Simillimi, anch'essa la prima commedia
regolare. Villa O. di Cricoli (VI) Intanto nella villa di Cricoli alle
porte di Vicenza, già dei Valmarana e dei Badoer e acquistata dal padre
Gaspare, si radunava una delle più prestigiose Accademie vicentine. Qui
Trissino scoprì uno dei più grandi talenti della storia dell'architettura,
Andrea Palladio, di cui fu mentore e mecenate, che portò nei suoi viaggi con sé
ed educò alla cultura greca e alle regole architettoniche di Marco Vitruvio
Pollione. Morì a Roma l'8 dicembre 1550 e fu sepolto nella Chiesa di
Sant'Agata alla Suburra. Vennero alla luce le ultime due parti della sua
Poetica, la quinta e la sesta (dedicate ad Antonio Perenoto, vescovo di Arras),
che erano comunque già pronte, come si evince dalla chiusura della quarta
parte. Progetta e attua una imponente riforma della lingua e della poesia
italiane sui modelli classici, cioè la Poetica di Aristotele da poco riscoperta,
i poemi di Omero, e le teorie linguistiche esposte di Alighieri nel “Della volgare
eloquenza” riscoperto da lui stesso a Padova. Un programma in piena antitesi
sia con la moda del petrarchismo di P. Bembo, sia con quella del romanzo
cavalleresco incarnato supremamente dall' “Orlando furioso” di L. Ariosto, che
allora infuriavano. Il programma di riforma venne esposto attraverso saggi
diversi, cioè un saggio di orto-grafia e di orto-fonetica (Epistola dele
lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, dedicata a Clemente VII), un
saggio di teoria della lingua italiana (Il castellano, dedicato a C. Trivulzio),
due saggi di grammatica (“Dubbii grammaticali” e la “Grammatichetta”) e un
manuale di teoria dei generi letterari (“Poetica”). Tali proposte (specie
quella di modificare l'alfabeto inserendovi alcune lettere greche così da
rendere visibili le differenti pronunce di alcune vocali e di alcune
consonanti) e la riscoperta del “Della volgare eloquenza” di Aligheri) sono
clamorosi e fa esplodere in Italia la secolare questione della lingua,
idealmente chiusa da “I promessi sposi” di Manzoni. Questa intensa
speculazione teorica ha il suo sbocco fattuale in quattro saggi poetici, tutte
molto importanti: la Sofonisba (dedicata a Leone X), la prima tragedia regolare
della letteratura moderna (regolare si definisce un'opera costruita secondo le
norme derivate dai testi classici, essenzialmente la Poetica di Aristotele e
l'Ars poetica di Orazio), L'Italia liberata dai Goti (dedicata a Carlo V), il
primo poema epico regolare, e I simillimi (dedicata al G. Farnese), la prima
commedia regolare. Si aggiunga un volume di poesie d'amore e di encomio (Rime, dedicato
a N. Ridolfi) di gusto anti-petrarchista e ispirato ai poeti siciliani, agli
Stilnovisti, ad Aligheri e alla tradizione del Quattrocento, tutte cassate dal
Bembo. Anche queste opere sollevarono un grande dibattito, ma saranno destinate
ad avere un ruolo centrale nello sviluppo degl’umanita italiana ed europea, se
si considera l'importanza che la tragedia e l'epica, ad esempio, hanno in tutta
Europa. A lui si deve anche l'invenzione dell'endecasillabo sciolto (cioè senza
rima) ad imitazione dell'esametro classico, anche questa un'invenzione
destinata a fama europea. La sua produzione comprende diversi generi:
innanzitutto un Architettura, incompleto, ricerche sulla numismatica,
traduzioni, ed orazioni varie. Se ci si concentra solo sugli studi di teoria del
linguaggio, si ha a che fare con pochi testi, ma tutti rilevantissimi,
attraverso i quali struttura un coerente programma di riforma del linguaggio
sui modelli classici e sul linguaggio d’Alighieri ispirato alla Poetica di
Aristotele, ad Omero e al “Della volgare eloquenza”, un sistema da opporre sia
alle Prose della volgar lingua del Bembo di qualche anno prima, che aveva dato
come modelli solo Petrarca e Boccaccio (riducendo, quindi, i generi letterari
solo alla lirica e alla novella), sia all'”Orlando furioso” di L. Ariosto, che
è un romanzo cavalleresco e non un poema epico. Attraverso il proprio programma
iverrà a creare una tradizione di gusto classico del tutto nuova che nei secoli
a venire si affiancherà al bembismo sebbene agli inizi gli fu avversario. Il
suo sistema iinfatti, vuole sopperire ai vuoti lasciati dal petrarchismo
bembesco e proseguire lo sperimentalismo della tradizione antica e
quattrocentesca (la cosiddetta docta varietas). Né egli e l'unico convinto di
queste idee, come si dice ancora oltre, ma era affiancato da Speroni, Tasso
(padre di Torquato), Brocardo, Tolomei, Colocci, Equicola e altri ancora.
Volendo sintetizzare, le sue opere si raccolgono intorno a tre date: Dà
alle stampe a Roma la tragedia “Sofonisba” (composta prima agli Orti
Oricellari) e l'Epistola sulle lettere da aggiungere all'alfabeto. Tutte le sue
opere stampate in vita sono scritte secondo l'alfabeto da lui congegnato e non
con l'alfabeto usuale. Vengono date alle stampe sei opera: “Della volgare
eloquenza”, le prime IV parti della Poetica, il dialogo “Il castellano, le
Rime, i Dubbi grammaticali e la Grammatichetta. Dà alla luce il poema L'Italia liberata dai
Goti, e la commedia I simillini. Passeremo in rassegna le principali opere
poetiche, tranne gli Scritti linguistici, che hanno un paragrafo
apposito. La Sofonisba è in assoluto la prima tragedia regolare della
letteratura europea, destinata a vasta fortuna specie in Francia. Secondo il
modello antico, Trissino compone una tragedia in endecasillabi sciolti, che
imitano i trimetri giambici (il verso a questa data fa la sua prima
apparizione), divisa in quadri da cori rimati: alcuni cori sono canzoni
petrarchesche mentre altri, invece, canzoni pindariche (che fanno anch'esse qui
la loro prima apparizione e si ritroveranno nella poesia di Luigi Alamanni e
poi ancora di Gabriello Chiabrera). L'argomento (con sensibile differenza dai
classici antichi) è storico (preso da Tito Livio), non fantastico, mitico o
biblico. L'azione, come poi sarà canonico nel teatro regolare, si svolge nello
stesso posto (unità di luogo) e nello stesso giorno (unità di tempo) e prevede
in scena un numero limitato di persone. Venne recitata durante il carnevale di
Vicenza, messa in scena dall'amico e allievo Andrea Palladio. La proposta
piacque, tutto sommato, e riscosse successo: l'endecasillabo sciolto, metro
nuovo, fu approvato anche dal Bembo (come ricorda Giraldi Cinzio) e divenne da
allora in poi il metro quasi canonico del teatro italiano, specie tragico (vedi
sotto). Anche nelle Rime si mostra uno sperimentatore e il Petrarca,
modello obbligatorio a prescindere dal Bembo, si fonde con immagini derivanti
da altre epoche e da altri autori, in special modo la poesia occitana, quella
siciliana, gli stilnovisti e Dante, i poeti quattrocenteschi. Nel sistema del
Trissino è possibile usare ancora metri come, ad esempio, i sirventesi e le
ballate (cassati dal Bembo) o anche introdurre particolari nuovi come gli occhi
neri di guaiaco della donna amata, immagine inventata dal poeta su un referente
quotidiano della cultura cinquecentesca e non in linea con le immagini tipiche
del Petrarca (occhi di stelle e simili). Il Castellano è un dialogo sulla
lingua dedicato a Cesare Trivulzio, comandante francese a Milano. Si ambienta a
Castel Sant'Angelo e ha per protagonisti Giovanni di Bernardo Rucellai (il
castellano, appunto) e Strozzi, amici degli Orti Oricellari. Il Trissino espone
per bocca del Rucellai il suo ideale linguistico, preso dal De vulgari
eloquentia, cioè quello di un volgare illustre o cortigiano, mobile ed aperto,
fondato in parte sull'uso moderno e concreto della lingua, e in parte sugli
autori della tradizione letteraria. Questi autori sono soprattutto Dante e
Omero poiché dotati di enargia, cioè della capacità di rendere visibili a
parole ciò di cui stanno narrando. Le idee linguistiche del Trissino
sollevarono grande clamore (fondate com'erano su un testo la cui paternità
dantesca non era ancora assicurata) e fecero scoppiare il secolare 'dibattito
sulla lingua italiana' concluso, come detto, almeno idealmente, dal Manzoni tre
secoli dopo. Fra i molti che parteciparono al dibattito si ricordi il
fiorentino Machiavelli al quale il Trissino aveva letto il De vulgari
eloquentia sempre agli Orti Oricellari, il Bembo, ovviamente, Sperone Speroni,
Baldassarre Castiglione. Poetica Le teorie che soggiacciono a questo
vasto programma vengono esposte nella Poetica, libro fondamentale non solo per
il Trissino, essendo in assoluto il primo libro di poetica in Europa ad essere
modellato sulla Poetica di Aristotele, destinato a fama secolare in tutto il
continente. Né banale né senza rischi era, come potrebbe apparire, l'idea di
resuscitare dei generi letterari di fatto morti da millenni e lontani per gusto
e ispirazione dalla società rinascimentale. Sul piano linguistico
immagina una lingua di ispirazione dantesca e omerica, cortigiana e illustre,
che contempli l'innovazione e la tradizione, che sia aperta a una
collaborazione ideale fra varie regioni italiane e non sul predominio esclusivo
del toscano trecentesco, che ottemperi anche l'inserimento di neologismi e di
dialettismi. Nella poesia lirica si appoggia, sempre dietro Dante, alla
tradizione occitana, siciliana, stilnovista e dantesca e anche petrarchesca.
Nella metrica saccheggia ampiamente il trecentesco Antonio da Tempo che ancora
contempla ballate e sirventesi, generi cassati dal Bembo, come detto, e si
mostra vicino allo sperimentalismo della poesia quattrocentesca. Discorre,
inoltre, della possibilità di utilizzare in italiano metri di stile greco e
latino, come fatto da lui nei cori della Sofonisba, proposta che avrà grande
successo nei secoli a venire, specie nella poesia per musica e nel
melodramma. Discorre poi della tragedia, della commedia, dell'ecloga
teocritea e del poema omerico, i generi resuscitati dal mondo classico. A ogni
genere vengono date ovviamente le proprie regole tratte da Aristotele, cioè le
unità di tempo e di luogo, per la tragedia e la commedia, e le unità narrative,
per il poema epico. Vengono quindi stabilite le nette differenze fra il romanzo
cavalleresco e il poema epico. Mentre il romanzo cavalleresco narra una vicenda
fantastica costituita dall'intreccio di molte storie diverse (alcune delle
quali destinate a non chiudersi nel poema poiché non necessarie alla
conclusione generale della vicenda), nel poema epico, invece, la vicenda dovrà
essere di matrice storica e dovrà essere unitaria e conclusa: essa cioè dovrà
venire raccontata dall'inizio alla fine, e i pochi protagonisti dovranno
ruotare tutti attorno ad essa, tutti per un solo scopo, e le loro vicende
dovranno venire concluse entro l'arco del poema, non lasciando nulla in
sospeso. Il genere epico, inoltre, secondo una caratteristica che gli diventerà
propria, viene dal Trissino investito di un alto valore morale e politico,
profondamente pedagogico, ignoto al romanzo, che lo trasformano in un percorso
di formazione morale e culturale. Per questi tre generi nuovi, il poeta
propone l'endecasillabo sciolto, corrispettivo moderno dell'esametro e del
trimetro giambico classici (vedi paragrafi sottostanti). Sul piano dello
stile e dei registri il poeta rimanda alle teorie dei greci Demetrio Falereo e
di Dionigi di Alicarnasso, che ponevano come vertice dello stile poetico
l'energia, cioè la capacità di rappresentare visivamente con le parole le cose
di cui s sta narrando, prerogativa, per il Trissino, dello stile di Omero e
Dante. Sempre dietro Demetrio e Dionigi, divide la lingua italiana in quattro
registri stilistici e non tre, come voluto dalla tradizione medievale e
bembesca (la cosiddetta rota Vergilii, secondo la quale esistono 3 registri
stilistici soltanto: quello basso, esemplificato dalle Bucoliche, quello medio
dalle Georgiche, e quello alto o tragico dell'Eneide). Questo veniva a
reimpostare daccapo i rapporti ormai consolidati fra genere letterario e
registro stilistico, e fu una novità che avrebbe causato non poco l'insuccesso
di un poeta il cui punto debole fu proprio lo stile. Tornò in scena con
L'Italia liberata da' Gotthi, un vastissimo poema di endecasillabi sciolti in
27 canti, iniziato intorno nell'età di Papa Leone X. Esso è di fatto il primo
poema epico moderno e sarà destinato, come la Sofonisba, a inaugurare
un genere del tutto nuovo, in dichiarata antitesi alla tradizione
medievale del romanzo cavalleresco che in quegli anni stava sfondando con
Ariosto. L'idea che soggiace alla composizione dell'opera è illustrata
nella famosa Dedica a Carlo V che precede il poema, dove O. dichiara di essersi
ispirato ovviamente ad Aristotele e all'Iliade di Omero. Con la guida di Omero
e di Demetrio Falereo (e non di Dante, si noti), inoltre, reclama l'uso di un
volgare illustre che contempli l'inserimento di voci dialettali, arcaiche o
anche latine e greche, come infatti nel poema avviene. Come detto più volte,
inoltre, lo scopo del poema è 'ammaestrare l'imperatore', non solo attraverso
dei modelli cavallereschi, ma anche attraverso conoscenze tecniche di
architettura, arte militare e via di seguito. Il poema è ligio, insomma,
a quanto stabilito nella Poetica: la trama è tratta da un accadimento storico
cioè la guerra gotica tra l'imperatore bizantino Giustiniano I e gli Ostrogoti
che occuparono l'Italia (per la quale il poeta segue lo storico bizantino
Procopio di Cesarea), che viene raccontata dall'inizio alla fine, e i (relativamente)
pochi protagonisti ruotano attorno ad essa. I personaggi, a loro volta, saranno
specchio di altrettanti vizi e virtù da correggere, in questa crociata che
sarebbe anche un percorso di formazione bellica e morale del suo lettore
ideale, cioè Carlo V stesso. Il poema, atteso da vent'anni dai dotti
italiani, fu uno dei più clamorosi fiaschi della storia letteraria italiana,
come noto, anche se ebbe un impatto profondissimo. Critiche violente vennero da
Giambattista Giraldi Cinzio (che ne parla nei suoi Romanzi) e da Francesco
Bolognetti, ma non solo. I quali derisero il poema per la sua imitazione
pedissequa dei valori dell'eroismo classico (grandezza e generosità d'animo,
nobiltà e gloria), per l'attenzione estrema alla corretta applicazione delle
regole aristoteliche, più che alla fluidità della narrazione o al dare un
rilievo psicologico ai personaggi, assolutamente frontali. Inoltre, la ripresa
parola per parola del modello omerico (ma in generale di tutte le moltissime
fonti tradotte dal poeta) fu ritenuta noiosa, e la solennità dell'argomento
venne a scontrarsi con la prosaicità dello stile trissiniano, del metro senza
rima costruito in maniera formulare (come quello di Omero ovviamente) che rende
il dettato fiacco e stereotipato. I lunghi intervalli eruditi, inoltre, in cui
il poeta si dilunga nelle descrizioni degli accampamenti, dei monumenti della
Roma medievale, di città, architetture, armature, eserciti, giardini, mappe
geografiche dell'Italia, precetti morali, massime e apologhi eruditi e via di
seguito, soffocano la narrazione epica (nella prima edizione il poema è
addirittura corredato da tre cartine geografiche) e rendono il poema di
difficile lettura. Ciò non toglie, tuttavia, che l'Italia liberata abbia
un posto di rilievo nella letteratura: la visione di un mondo superiore di eroi
solenni e composti nella dignità del loro ideale e della loro missione,
tipicamente aristocratici, anticipava le preoccupazioni morali della
Controriforma. Sarà proprio alla fine
del secolo, infatti, che il poema trissiniano avrà la sua fortuna, col Tasso ma
non solo. “I simillimi” w l'ultima opera stampata dal poeta e i modelli
sono indicati da lui stesso nella dedica a Farnese: Aristofane e la Commedia
antica -- Menandro è stato riscoperto solo nel Novecento) -- sul modello della
quale il Trissino ha fornito la favola dei cori (con l'appoggio anche dell'Arte
poetica di Orazio) ma non del prologo. Dichiarata è anche l'ascendenza da
Plauto (essenzialmente i Menecmi). Il testo è costruito in versi sciolti, ovviamente,
mentre i cori sono costituiti anche da settenari e sono rimati.Le opere
linguistiche Frontespizio del Castellano di Giangiorgio Trissino,
stampato con lettere aggiunte all'alfabeto italiano da quello Greco. I
suoi saggi di filosofia del linguaggio sono essenzialmente quattro: l'Epistola,
Castellano, Dubbi, Grammatichetta, oltre, ovviamente la Poetica. Accese
discussioni suscita il suo esordio letterario, cioè la proposta di ri-formare
l'alfabeto classico italiano, di radice latina – Lazio -- contenute nell'
“Ɛpistola del Trissinω” delle lettere nuωvamente aggiunte nella lingua
italiana”, dove suggerisce l'adozione di grafia dell’abecedario di vocali e
consonanti della fonologia greca al fine di “dis-ambiguare” un segno diversi
resi allora, e ancor oggi, con il medesimo segno grafico: e e o aperte (“ε” ed
“ω”) e chiuse, z sorda e “z” sonora (“ζ”) – “Speranζa” -- nonché la distinzione
dell’“i” e dell’ “u” con valore di vocale (i, u), o di consonante (j, v).
Ri-propone questa idea, sebbene ricorrendo a segni diverse, anche l'accademico
della Crusca (cruschense) Salvini, sempre senza successo. Accolta fu nei
secoli a venire, invece, la sua proposta di utilizzare la “z” al posto della
“t” nelle vocaboli latini che finiscono in “-tione” (implicatione > “implicazione”
-- oratione > orazione) e di distinguere sistematicamente il segno “u” dal
signo “v” (uita > “vita”) I punti
principali dell'abecedario riformato sono i seguenti: carattere fonema
Distinto da Pronuncia “Ɛ”, “ε”; E aperta [ɛ] E e E chiusa [e] “Ω” “ω” O aperta
[ɔ] O o O chiusa [o] V v V con valore di consonante [v] U u U con valore di
vocale [u] J j con valore di consonante J [j] I iI con valore di vocale [i] “Ӡ”
“SPERANӠA” “ç” – Sperança -- Z sonora [dz] Z z Z sorda [ts]. Tali idee
vengono confermate. Nel Castellano, propone il modello di una lingua
cortigiana-italiana formata dagli elementi comuni a tutte le parlate dei
letterati della penisola, non solo nel lessico ma anche al livello della
fonetica (visibile ormai grazie al suo abecedario ri-formato). La sua teoria si
appoggia ad Omero e soprattutto alla sua traduzione del “De vulgari
eloquentia”, e vede amplificata nella “Poetica”, in riferimento a tutti i
generi letterari, ed e illustrata materialmente nella sua Grammatichetta messa
a disposizione da Trissino stesso e i Dubbi grammaticali. Alla sua tesi si
dimostrano particolarmente ostili i toscani, ovviamente, visto che Aligheri
stesso asserisce nel trattato che il toscano non è il volgare illustre. Tra di
essi spicca il Machiavelli, come accennato, che compose un “Dialogo sulla
lingua” nel quale reclama la specificità del fiorentino in opposizione a Bembo
e anche a Trissino, che nella grammatica di base parte sempre dalla lingua
letteraria, anche perché l'unica in grado di assicurare a livelli profondi una
similarità fra i vari parlari italiani. Un esempio: se nel toscano di Poliziano
è normale usare “lui” in funzione di soggetto, Bembo invece rispolvera “egli” e
lo stesso fa Trissino. Machiavelli, invece, difende l'uso di “lui”, normale a
Firenze. La riforma trissiniana dei segni dell’abecedario italiano, applicata
sistematicamente da lui in tutti i suoi saggi (anche negli appunti!), è un
prezioso documento delle differenze di pronuncia tra il tosco toscano e la
lingua cortigiana, fra la lingua letteraria e la corretta pronounia Nordica (e
vicentino) perché applica i propri criteri nel pubblicare i suoi saggi o
nell'interpretare alcuni segni del toscano. La conseguente maggior difficoltà
non favoresce la diffusione della sua filosofia e porta diverse critiche da
parte dei filosofi suoi contemporanei. Sebbene sia noto come esegeta
aristotelico, il Trissino si era formato, invece, sul finire del Quattrocento e
nei primi del Cinquecento nelle capitali culturali italiane sature di cultura
neoplatonica e mistica: non ci riferiamo solo agli anni a Milano presso il
Calcondila (amico di Marsilio Ficino) o a Ferrara presso il Leoniceno, ma
soprattutto a quelli trascorsi agli Orti Oricellari fiorentini e nella Roma di
Leone X, figlio di Lorenzo de' Medici. Importanti sono i due ritratti che ci
vengono lasciati da due contemporanei. Il primo è il quello di Giovanni di B. Rucellai, che nel poemetto in versi sciolti Le
api, dopo aver discusso dell’armonia cosmica e della dottrina
ermetico-platonica dell’Anima Mundi, specifica: «Questo sì bello e sì alto
pensiero / tu primamente rivocasti in luce / come in cospetto degli umani
ingegni O., con tua chiara e viva voce, tu primo i gran supplicii d’Acheronte
ponesti sotto i ben fondati piedi / scacciando la ignoranza dei mortali».
Insomma il Trissino viene riconosciuto come un interprete del pensiero
platonico e, si direbbe, democriteo. Il secondo, invece, riguarda le
esposizioni rilasciate al'Inquisizione, dopo la morte del poeta, da parte del
Checcozzi, il quale dichiara che il Trissino «faceva discendere le anime umane
dalle stelle ne’ corpi e diede a divedere come i passaggi di quelle di pianeta
in pianeta fossero stimate altrettante morti e dicesse essere pene infernali
non le retribuzioni della vita futura ma le passioni e i vizi» (in B. Morsolin,
O.. Monografia di un gentiluomo letterato, Firenze, Le Monnier). A questo si
aggiungano ancora la ripetuta ammissione di credere nella salvezza per sola
Grazia (Morsolin, confermata nell'Epistola a Marcantonio da Mula), cioè di
essere a rigore un luterano, e la lunga requisitoria contro il clero corrotto
contenuta contenuta nell'Italia liberata, requisitoria che però, come rilevato
da Maurizio Vitale (in L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla
lingua dell'«Italia liberata da' Gotthi», Istituto Veneto di Scienze ed Arti,
), non figura in tutte le stampe del poema ma solo in quelle indirizzate forse
in Germania. Anche quindi, auspicava un riordino interno della Chiesa e
una sua restaurazione morale, in linea con il generale movimento di riforma che
scoppio' nel Rinascimento, con Lutero, Erasmo etc.... senza per questo farne un
luterano in senso stretto. Insomma, è un tipico esponente della tradizione
religiosa pre-tridentina, in cui il fervido sostegno alla Chiesa romana e la
vicinanza coi papi non escludono forti iniezioni di filosofia idealista e della
scuola di Crotone, di stoicismo e di astrologia, di tradizione bizantina e
millenarismo, in cui Erasmo da Rotterdam, M.Lutero, Agrippa von Nettesheim,
Pico, Ficino si fondono in una forma religiosa eclettica e ancora tollerata
prima dell'apertura del Concilio di Trento. Le persecuzioni inizieranno dopo la
sua morte e vi verrà coinvolto, invece,
il figlio Giulio, vicino al calvinismo, che subirà l'Inquisizione. Il suo
poema, una vera enciclopedia dello scibile, è molto interessante a riguardo, e
queste venature di pensiero religioso inquiete ed eclettiche sono evidenti in
maniera palese. Si ricordino gl’angeli che portano nomi di divinità pagane -- Palladio,
Onerio, Venereo etc... -- e che non sono altro che allegorie delle facoltà
umane o delle potenze naturali (Nettunio, angelo delle acque, ad esempio, o
Vulcano come metonimia del fuoco) come indicato nel De Daemonius di M. Psello e
nel pensiero idealista o accademico. E questo uno dei punti più bersagliati dai
critici contro lui, per primo, ancora una volta, Cinzio. Di Palladio cura soprattutto
la formazione di architetto inteso come filosofo umanista. Questa concezione
risulta alquanto insolita in quell'epoca, nella quale all'architetto era
demandato un compito preminentemente di tecnico specializzato. Non si può
capire la formazione filosofica ed umanistica e di tecnico specializzato della
costruzione dell'architetto Andrea della Gondola, senza l'intuito, l'aiuto e la
protezione di lui. È lui a credere nel giovane lapicida che lavora in modo
diverso e che aspira a una innovazione totale nel realizzare le tante opere. Gli
cambia il nome in Palladio, come l'angelo liberatore e vittorioso presente nel
suo poema L'Italia liberata dai Goti. Secondo la tradizione, l'incontro tra lui
e Gondola ha nel cantiere della villa di Cricoli, nella zona nord fuori della
città di Vicenza, che in quegli anni sta per essere ristrutturata secondo i
canoni dell'architettura classica. La passione per l'arte e la cultura in senso
totale sono alla base di questo scambio di idee ed esperienze che si rivela
fondamentale per la preziosa collaborazione tra i due "grandi". Da lì
avrà inizio la grande trasformazione dell'allievo di G. Pittoni e Giacomo da
Porlezza nel celebrato Andrea Palladio. E proprio lui a condurlo a Roma nei
suoi viaggi di formazione a contatto con il mondo classico e ad avviare il
futuro genio dell'architettura a raggiungere le vette più ardite di
un'innovazione a livello mondiale, riconosciuta ed apprezzata ancora oggi. Il
sistema letterario inventato dal lui non e il solo tentativo di preservare un
rapporto diretto con la cultura degl’antichi con Aligheri e con l'umanesimo del
Quattrocento, che il sistema bembiano esclude. Molti altri condividevano le sue
idee, infatti, come A. Brocardo, B. Tasso, anche loro intenti a inventare nuovi
metri su imitazione dei classici. Tuttavia, se si eccettua forse S.
Speroni, e uno dei pochi che struttura nella sua Poetica un sistema
totale, onni-comprensivo, aristotelico in senso pieno, dove ogni genere è
regolato in maniera specifica; e questo gli permette di essere un punto di
riferimento privilegiato. Bisogna fare a questo punto una distinzione
essenziale fra le sue produzione filosofica e le sue teorie letterarie. Le
opere poetiche, forse con la sola eccezione della Sofonisba e delle Rime, sono
notoriamente brute. Lo stile è fiacco e prosaico e la narrazione dispersa in
mille meandri eruditi, ragione per cui furono conosciute da tutti, lette e
ammirate, ma non apprezzate né imitate dal punto di vista stilistico. L’invenzione
del verso sciolto, che e centrale nella storia letteraria europea, infatti, non
e destinata a fiorire con lui ma solo alla fine del secolo perché venisse
accettata entro un poema di genere e di stile alto come quello epico. La sua
filosofia, invece, trova un successo secolare, non solo in Italia ma in molti
paesi europei specie nel Settecento, con la nuova moda del classicismo. Questo
specie per quel che riguarda i due generi principali del mondo degl’antichi, la
tragedia e l'epica, e con essi anche il verso sciolto. In Italia si può
dire che ha grande fortuna col verso sciolto e col poema epico, ma minore col
teatro tragico. La Sofonisba, quando usce, non era in Italia l'unica tragedia
di imitazione antica, anche se era la prima: vi erano, infatti, anche quelle di
Giovanni di Bernardo Rucellai, composte sempre agli Orti Oricellari. Ma la
tragedia ispirata ai modelli antici non trovò terreno in Italia e fu
soppiantata presto, già a metà del secolo, da quella 'alla latina' -- cioè
piena di fantasmi, conflitti, colpi di scena e sangue, shakespeariana insomma),
riportata in auge a Ferrara dalle Orbecche di Giambattista Giraldi Cinzio -- una
linea di gusto che, alla fine del Cinquecento e nel Seicento, si sposerà in
pieno col teatro gesuita, di ispirazione anche esso stoica e senecana.
Non così nell'epica e nel verso sciolto. Il poema del Trissino è nominato
infatti da tutti i principali autori epici dell'epoca (e spesso in mala fede),
da Bernardo Tasso (intento anche lui alla realizzazione del poema Amadigi, che
nella prima stesura era in versi sciolti) e Giambattista Giraldi Cinzio (che
compose contro l'Italia liberata il volume Dei romanzi), F. Bolognetti e via
via fino a Tasso. Quest'ultimo parla spesso dell'Italia liberata nei Discorsi
del poema eroico e, sebbene ne rilevi i limiti, la tiene presente chiaramente
come modello teorico e anche in molti passaggi della Gerusalemme liberata (fra
cui la famosa morte di Clorinda, ripresa da quella dell'amazzone Nicandra, ad
esempio). Vale la pena specificare che il titolo di “Gerusalemme liberate”,
infatti, non fu deciso dal Tasso (che nei Discorsi chiama sempre il suo poema “Goffredo”),
ma dallo stampatore A. Ingegneri, che doveva aver notato la somiglianza
dell'opera tassiana col poema trissiniano. Mentre nel Rinascimento i
critici iniziavano a discutere dei rapporti fra poesia epica e romanzo
cavalleresco, si assiste a un lento processo di 'acclimatazione' del verso
sciolto nei poemi narrativi. Dapprima viene usato nei generi minori, come le
ecloghe pastorali, i poemetti georgici, gli idilli o le traduzioni, ma alla
fine del secolo sarà impiegato in opere imponenti come l'”Eneide” di Caro, o
nel poema sacro del Mondo creato di Tasso, o nello stile fastoso dello Stato
rustico di G. Imperiale o quello classico di Chiabrera in pieno Barocco. Anzi, proprio Chiabrera
(non a caso allievo di Speroni) si può dire che sia il suo grande erede,
animato come lui dal desiderio di riformare la metrica e di ricreare i generi
letterari sui modelli classici. La Poetica è citata dal Chiabrera in punti
importanti, sia in difesa del verso sciolto, sia dei generi metrici non
bembeschi o nuovi, sia, implicitamente, nella ripresa del mito di Dante e di
Omero (cfr. il paragrafo apposito in Chiabrera). O. ebbe ancora fortuna
anche nel XVIII secolo, con l'edizione in due volumi Scipione Maffei di Tutte
le opere (Verona, Vallarsi, ancora oggi punto di riferimento indispensabile), e
con nove tragedie intitolate Sofonisba, una delle quali d’Alfieri. Grande fu
l'influenza anche nel melodramma: si contano ben quattordici Sofonisba, una
delle quali di Gluck e uno di Caldara. Ma a parte la fortuna della Sofonisba,
considerando che la riforma poetica dell'Accademia dell'Arcadia si ispira
dichiaratamente alla poesia e alla metrica del Chiabrera, possiamo dire che il
Trissino sia stato uno dei fondatori della poesia arcadica e capostipite di una
tradizione letteraria, anche quella del melodramma settecentesco. Non a caso è
uno degli autori più presenti nella ragion poetica di Gravina, maestro del
giovane Metastasio, la cui prima opera sarà la tragedia Giustino, una
riproposizione quasi parola per parola del III canto dell'Italia liberata dove
si narrano gli amori di Giustino e di Sofia. PCastelli dedica la poeta una
intera monografia (La vita di Giovangiorgio Trissino oratore e poeta). Si può
dire, quindi, che non solo nell'epica il Trissino abbia avuto fortuna, ma anche
nel teatro italiano, anche se nelle forme del melodramma e non quelle della
tragedia, come tipico della tradizione italiana. Questo grazie, soprattutto,
alla mediazione del Chiabrera, che seppe rendere le forme metriche del Trissino
(prima fra tutte il verso sciolto) di insuperabile eleganza.
Nell'Ottocento si ricordino l'Iliade di Vincenzo Monti e l'Odissea di Ippolito
Pindemonte, che proseguono la grande storia del verso sciolto nella traduzione
italiana, e le considerazioni di tre grandi scrittori. Il primo è Manzoni che,
meditando sul romanzo storico, rifletté anche sui rapporti fra creazione
poetica e verosimiglianza storica date da Aristotele nello scritto Del romanzo
storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione. Il
secondo è Carducci che stronca il poema
ne I poemi minori del Tasso (in L’Ariosto e il Tasso) e il terzo è B. Morsolin
che compose la biografia del poeta (Giangiorgio Trissino o monografia di un
letterato) che ancora oggi è indispensabile.Francia In Francia, invece, si
assiste in un certo senso alla situazione opposta e le teorie del Trissino
trovarono vasta eco più nel teatro che nel poema epico, questo anche perché in
generale il teatro classico francese ha sempre prediletto i modelli greci ai
latini e il teatro, in genere, al melodramma. Nel teatro francese l'influenza
della Sofonisba sarà forte: la prima rappresentazione documentata in francese è
nel castello di Blois, davanti alla corte della regina, Caterina de' Medici,
non a caso una fiorentina. La corte di Francia era già abituata d'altronde alla
poesia italiana di stile classico da almeno trent'anni, dopo il soggiorno
presso Francesco I di Francia di Luigi Alamanni. Da qui in poi si conteranno
otto Sofonisba fino alla fine del Settecento, una delle quali di Pierre
Corneille. Non così invece nell'epica, genere che in Francia trovò poco
seguito, e nel verso sciolto, che non si acclimatò mai nella poesia francese,
poco adatta per suo ritmo naturale a un verso senza rima. Il Voltaire, che
amava l'Ariosto, ricorda l'Italia liberata nel suo Saggio sulla poesia epica
più che altro per rilevare le pecche del poema. In Inghilterra si ricorda
la fortuna del verso sciolto (blank verse) che avrà la sua consacrazione nel
Paradiso perduto di Milton, e le lodi tributate al Trissino da Pope nel prologo
alla Sofonisba di Thomson. In Germania si ricordano tre Sofonisba. Anche Goethe
possede una copia delle Rime trissiniane Opere: “Sofonisba, tragedia
Ɛpistola del Trissino de le lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua Italiana;
De vulgari eloquentia di Alighieri; traduzione Il castellano, dialogo: Daelli;
Poetica; Dubbi grammaticali; Grammatichetta; L'Italia liberata dai Goti, poema
epico I simillimi, commedia Galleria d'immagini Gian Giorgio Trissinoincisione
da Tutte le opere non più pubblicate di Giovan Giorgio Trissino, Miniatura di O.. Incisione
da Castelli La vita di Giovangiorgio Trissino, Targa a O., in piazza Gian
Giorgio Trissino. Targa posta sulla casa natale di Gian Giorgio Trissino,
in corso Fogazzaro 15 a Vicenza, opera di Bartolomeo Bongiovanni.Medaglione
posto nel salone di Palazzo Venturi Ginori, a Firenze, raffigurante Giovan
Giorgio Trissino, membro dell'Accademia Neoplatonica che lì ebbe sede.
Bernardo Morsolin O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, Pierfilippo
Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino. Bernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI,Margaret Binotto, La
chiesa e il convento dei santi Filippo e Giacomo a Vicenza, Pierfilippo
Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino, Bernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o Monografia di un letterato. L'incisione recita: DEMETRIO CHALCONDYLÆ
ATHENIENSIIN STUDIIS LITERARUM GRÆCARUM EMINENTISSIMOQUI VIXIT ANNOS MENS. VET OBIIT JOANNES O. GASP. FILIUS PRÆCEPTORI OPTIMO ET
SANCTISSIMOPOSUIT. Castelli, La
Vita d’O, ernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato;
Morsolin O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, Giambattista Nicolini,
Vita di Giangiorgio Trissino, Nell'originale sofocleo "τὸ δὲ ζητούμενον
ἁλωτόν", letteralmente "ciò che si cerca, si può cogliere". Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o
Monografia di un letterato, Pierfilippo Castelli, La vita di Giovan Giorgio
Trissino, Pierfilippo Castelli, La vita, Antonio Magrini, Reminiscenze
Vicentine della Casa di Savoia. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o
Monografia di un letterato. Bernardo Morsolin, O. o Monografia di un letterato,
Silvestro Castellini, Storia della città di Vicenza. Castelli, La vita d’O, nota. Morsolin, O. o
Monografia di un letterato del secolo XVI, 1Come i saggi di Lucien Faggion
ricordano, per preservare il patrimonio famigliare non era inusuale sposare
cugini di altri rami della medesima famiglia.
La decisione di scegliere Ciro come proprio erede ebbe ripercussioni
drammatiche per diverso tempo. Oltre al trascinarsi della causa civile
intentata da Giulio al padre e a Ciro, nacque una vera e propria faida tra i
discendenti Trissino dal Vello d'Oro e i parenti del ramo dei Trissino più
prossimo alla prima moglie, Giovanna. Le voci che fecero risalire a Ciro la
denuncia anonima alla Santa Inquisizione delle simpatie protestanti, spinsero
Giulio Cesare, nipote di Giovanna, a uccidere Ciro a Cornedo nel 1576, davanti
a Marcantonio, uno dei suoi figli. Quest'ultimo decise di vendicare il padre,
accoltellando a morte Giulio Cesare che usciva dalla cattedrale di Vicenza il
venerdì santo del 1583. R. Trissino, altro avversario dei Trissino dal Vello
d'Oro, s'introdusse nella casa di Pompeo, primogenito di Ciro, e ne uccise la
moglie, Isabella Bissari, e il figlioletto Marcantonio, nato da poco. Si vedano
al proposito vari saggi sull'argomento di Lucien Faggion, tra cui Les femmes,
la famille et le devoir de mémoire: les Trissino aux XVIe et XVIIe siècles. Dovette
affrontare una causa civile intentatagli dai Valmarana: negli ultimi decenni
ProfessoreAlvise di Paolo Valmarana perse villa e tenuta, giocandosele col
patrizio Orso Badoer, che rivendette la proprietà a Gaspare Trissino. Gli eredi
Valmarana tentarono di riprendersela ipotizzando un vizio all'origine, ma il
tribunale diede ragione ai diritti del Trissino. Si veda Lucien Faggion, Justice
civile, témoins et mémoire aristocratique: les Trissino, les Valmarana et
Cricoli au XVIe siècle,. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o
Monografia di un letterato del secolo XVI, voce O. nel sito Treccani
L'Enciclopedia Italiana. Achille, Trissino, Giangiorgio, in L'Enciclopedia
dell'Italiano. "Palladio" è
anche un riferimento indiretto alla mitologia greca: Pallade Atena era la dea
della sapienza, particolarmente della saggezza, della tessitura, delle arti e,
presumibilmente, degli aspetti più nobili della guerra; Pallade, a sua volta, è
un'ambigua figura mitologica, talvolta maschio talvolta femmina che, al di
fuori della sua relazione con la dea, è citata soltanto nell'Eneide di
Virgilio. Ma è stata avanzata anche l'ipotesi che il nome possa avere
un'origine numerologica che rimanda al nome di Vitruvio, vedi Paolo Portoghesi,
La mano di Palladio, Torino, Allemandi, Dal volantino della mostra dedicata a O.,
in occasione dell’anniversario della promulgazione dello Statuto del Comune,
organizzata dalla Provincia di Vicenza, Comune di Trissino e Pro Loco di
Trissino. L. Cicognara, Storia della
scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, Giachetti,
Losanna, 1824. Sull'autore in generale si vedano almeno tre testi
fondamentali: Pierfilippo Castelli, La vita di Giovangiorgio Trissino,
oratore e poeta, ed. Giovanni Radici, Venezia, Bernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o monografia di un letterato del secolo XVI, Firenze, Le Monnier, Atti
del Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, Vicenza); Pozza, Vicenza, Neri
Pozza, Sulla Sofonisba: E. Bonora La "Sofonisba" del Trissino,
Storia Lettaliana, Garzanti, Milano, M. Ariani, Utopia e storia nella Sofonisba
di Giangiorgio Trissino, in Tra Classicismo e Manierismo, Firenze, Olschki, C.
Musumarra, La Sofonisba ovvero della libertà, «Italianistica», Sulle
Rime: A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella
tradizione del classicismo, Ferrara, Panini, C. Mazzoleni, L’ultimo manoscritto
delle Rime di Giovan Giorgio Trissino, in Per Cesare Bozzetti. Studi di
letteratura e filologia italiana, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori,
Sull'Italia liberata si vedano almeno (in ordine di stampa): F. Ermini,
L’Italia liberata dai Goti di Giangiorgio Trissino. Contributo alla storia
dell’epopea italiana, Roma, Romana, A. Belloni, Il poema epico e mitologico,
Milano, Vallardi, Ettore Bonora, L'"Italia Liberata" del
Trissino,Storia della Lett. italiana,Milano, Garzanti, Marcello Aurigemma,
Letteratura epica e didascalica, in Letteratura italiana, IV, Il Cinquecento. Dal Rinascimento alla
Controriforma, Bari, Laterza, Marcello Aurigemma, Lirica, poemi e trattati
civili del Cinquecento, Bari, Laterza, Guido Baldassarri. Il sonno di Zeus.
Sperimentazione narrativa del poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma,
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Romanzo. Origine e sviluppo delle strutture narrative nella cultura
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misericordiose». L'esperimento epico del Trissino, in «Filologia e Critica»,
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racconto fra Ariosto e Tasso, «Filologia e critica», S. Sberlati, Il genere e
la disputa, Roma, Bulzoni, Jossa, La fondazione di un genere. Il poema eroico
tra Ariosto e Tasso, Roma, Carocci, M. Pozzi, Dall’immaginario epico
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liberata da' Gotthi d’O., «Schifanoia», A. Corrieri, La guerra celeste
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Italia, C. Gigante e Palumbo, BruxellesI. E. Peter Lang, Corrieri, Lo scudo d’Achille e il pianto di
Didone: da L’Italia liberata da’ Gotthi di Giangiorgio Trìssino a Delle Guerre
de’ Goti di Gabriello Chiabrera, «Lettere italiane»,Alessandro Corrieri, I
modelli epici latini e il decoro eroico nel Rinascimento: il caso de L’Italia
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Professoree la negazione delle origini” (Bologna, Il Mulino); M. Pozzi, Lingua,
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Alessandria, Dell’Orso, Per il rapporto fra l’epica del T. e quella del Tasso
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lingua e il dibattito dei contemporanei si vedano almeno (in ordine di
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Trattati di fonetica del Cinquecento, Firenze, presso l’Accademia, C. Giovanardi, La teoria cortigiana e il
dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma, Bulzoni, M. Vitale,
L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla lingua dell'«Italia
liberata da' Gotthi», Istituto Veneto de Scienze ed Arti,. Sulla traduzione di
Dante e l'importanza del De vulgari eloquentia si vedano almeno (in ordine di
stampa): M. Aurigemma, Dante nella poetica linguistica del Trissino,
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storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi,Floriani, Trissino: la
«questione della lingua», la poetica, negli Atti del Convegno di Studi su
Giangiorgio Trissino, etc...(ora in Gentiluomini letterati. Studi sul dibattito
culturale nel primo Cinquecento, Napoli, Liguori, I. Pagani, La teoria
linguistica di Dante, Napoli, Liguori,
C. Pulsoni, Per la fortuna del De vulgari Eloquentia: Bembo e Barbieri,
«Aevum», E. Pistoiesi: Con Dante attraverso il Cinquecento: Il De vulgari
eloquentia e la questione della lingua, «Rinascimento», Per le trafile del
codice dantesco posseduto dal Trissino, oggi alla Biblioteca Trivulziana di
Milano, cfr. l'introduzione diRàjna alla sua edizione del De Vulgari Eloquentia
(Firenze, Le Monnier) e G. Padoan, Vicende veneziane del codice Trivulziano del
“De vulgari eloquentia”, in Dante e la cultura veneta, Atti del convegno di
studi della fondazione “Giorgio Cini”, Venezia-Padova-Verona, V. Branca e G.
Padoan, Firenze, Olschki, Tutti i testi d’O si rileggono nei due volumi
intitolati Tutte le opere Scipione Maffei (Verona, Vallarsi), che non
riproducono però l'alfabeto inventato riformato. Alcuni testi hanno avuto delle
edizioni moderne: La Poetica si rilegge nei Trattati di poetica e di
retorica, Weinberg, Bari, Laterza, Il testo è riprodotto con l'alfabeto
inventato d’O. Scritti linguistici, A. Castelvecchi, Roma, Salerno (che
contiene la Epistola delle lettere nuovamente aggiunte, Il Castellano, i Dubbii
grammaticali e la Grammatichetta). I testi sono riprodotti con l'alfabeto
inventato dal Trissino. La Sofonisba è stata curata da R. Cremante, nel Teatro,
Napoli, Ricciardi, Il testo è riprodotto con l'alfabeto inventato d’O ed è
dotato di un vasto commento e introduzione. La traduzione del De vulgari
eloquentia si può leggere in D. Alighieri, F. Chiappelli, nella collana “I
classici italiani”, G. Getto, Milano, Mursia, oppure, assieme al testo latino,
nel 2 tomo dell’Opera Omnia curata da Scipione Maffei (vedi sotto). Per
l'Italia liberata dai Goti e per I Simillimi si deve ricorrere, invece, alle
prime edizioni o all'edizione del Maffei o alle ristampe sette-ottocentesche.
Per l'elenco completo di tutte le stampe, ristampe, studi ed edizioni sul
Trissino vedi Corrieri, O., consultabile (aggiornata al 2 settembre ) presso// nuovorinascimento.
org/ cinquecento/trissino. pdf. A.
Palladio O. (famiglia). Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia.
Encyclopædia Britannica, Inc. O. Open MLOL, Horizons Unlimited srl. O. Opere di
Gian Giorgio Trissino, su Progetto Gutenberg. O. Catholic Encyclopedia, Appleton.
Italica Rinascimento: O, L'Italia liberata dai Gotthi. L’uomo solo ha il COMERCIO
del parlare. Questo è il nostro vero e primo parlare. Non dico
nostro, perchè altro parlar ci sia che quello dell'uomo. Perciò che fra tutte
le cose che sono SOLAMENTE ALL’UOMO E DATO IL PARLARE,sendo a lui necessario
solo. CERTO NON A a gl’angeli non a GL’ANIMALI INFERIORI e necessario parlare. Adunque
sarebbe stato dato invano a costoro, non avendo bisogno di esso. E LA
NATURA certamente abborrisce di fare cosa alcuna invano. Se volemo poi
sottilmente considerare la INTENZIONE del parlar [parabola] nostro, niun'altra
ce ne troveremo, che il MANIFESTARE all’altro questo o quello CONCETTO della
mente nostra. Avendo adunque gl’angeli prontissima e neffabile
sufficienzia d'intelletto da chiarire questo o quello gloriosi concetto, per la
qual sufficienza d'intelletto l'uno è TOTALMENTE NOTO all'altro, o per sè, o almeno per quel
fulgentissimo specchio, nel quale tutti sono rappresentati bellissimi e in cui
avidis simi sispecchiano. Per tanto pare che di ni uno SEGNO DI PARLARE ha
mestieri. Ma chi oppone a questo, allegando quei spiriti, che cascarono dal
cielo; a tale opposizione doppiamente si può rispondere. Prima, che quando noi
trattiamo di quelle cose, che sono che Q a bene esser, devemo essi lasciar
da 3 parte, conciò sia che questi perversi non vollero aspettare la divina
cura. Seconda risposta, e meglio è, che questi demoni a MANIFESTARE fra sè la
loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere se non qualche cosa di ciascuno,
perchè è, e quanto è 1 : il che certamente sanno; perciò che si conobbero l'un
l'altro avanti la ruina loro. Agl’ANIMALI INFERIORI poi non e bisogno
provvedere di parlare. Conciò sia che per solo ISTINTO DI NATURA sono guidati. E
poi, tutti quelli animali che sono di una medesima specie hanno le medesime
azioni, e le medesime passioni; per le quali loro proprietà possono le altrui
conoscere. Ma aquelli che sono di diverse specie, non solamente non e
necessario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato, non essendo
alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi fosse opposto che IL SERPENTE che PARLA
alla prima femina, e l'asina di Balaam PARLA, a questo rispondo, che l'ANGELO nell’asina
e IL DIAVOLO nel serpente hanno talmente operato che essi animali mossero gli
organi loro. E così d'indi la voce risulta distinta, COME vero parlare; non che
quello de l'asina fosse altro che ragghiare e quello del serpente altro che
fischiare. Il testo ha: non indigent, nisi ut sciant quilibetde quolibet, quia est, et
quantus est. Parrebbe più proprio
il tradurre cosi. Non hanno bisogno di conoscere, se non ciascheduno di
ciaschedun altro, che è,e quanto è: ossia l'esistenza e il grado. Se
alcuno poi argumentasse da quello, che OVIDIO (si veda) dice nella Metamorfosi che
LE PICHE parlarono, dico che dice questo FIGURATAMENTE, intendendo altro. Ma se
si dices che le piche al presente e altri uccelli parlano, dico che è FALSO, perciò
che tale atto NON è parlare, ma è certa imitazione del suono de la nostra voce;
o vero che si sforzano di imitare noi in quanto SONIAMO ma non in quanto PARLIAMO
(cf. ‘talk,’ ‘speak’, ‘speak in tongues’). Tal che se quello che alcuno
espressamente dice, ancora la pica ride, questo non sarebbe se non
rappresentazione, o vero imitazione del SUONO di quello, che prima ho detto. E
così appare agl’UOMINI SOLI e dato dalla NATURA il PARLARE. Ma per qual cagione
esso gli e NECESSARIO, ci sforzeremo brievemente trattare. Che e NECESSARIO agl’uomini
il COMERCIO, la CONVERSAZIONE. Ovendosi adunque l'uomo NON PER ISTINTO DI
NATURA, ma per *ragione*. E essa ragione o circa la separazione, o circa il
giudidizio, o circa la elezione diversificandosi in ciascuno; tal che quasi
ogni uno de la sua pro [La voce del testo, “discrezione”, sarebbe resa meglio
dalla parola discernimento. del parlare, pria specie s'allegra;
giudichiamo che niuno intenda l'altro per la sua propria AZIONE o PASSIONE,
come fanno le bestie. Nè anche per speculazione l'uno può intrar ne l'altro, come
gl’angeli – JARMAN, La conversazione angelica --, sendo per la grossezza e opacità
del CORPO mortale la umana specie da ciò ritenuta. E adunque bisogno che, volendo la generazione umana fra sè COMUNICARE
IL SUO CONCETTO, avesse qualche SEGNO SENSUALE e *razionale*; per ciò che, dovendo
prendere una cosa dalla ragione, e nela ragione portarla, bisogna essere
razionale. Ma non potendosi alcuna cosa di una ragione in un'altra portare, SE
NON PER IL MEZZO DEL SENSUALE, e bisogno essere sensuale, perciò che se 'l e *solamente*
razionale, non puo trapassare. Se *solo* sensuale, non puo prendere dalla
ragione, nè nella ragione de porre. E questo è SEGNO (SENNO) che il subietto di
che parliamo, è nobile; perciò che in quanto è suono, il SEGNO (SENNO) è per
natura una cosa sensuale. E inquanto che, secondo la *volontà* di ciascun, *significa*
qualche cosa, egli è razionale 1. Iltestoha: Hoc equidem SIGNUM est, ipsum
subjectum nobile, dequo loquimur. Natura sensuale quidem, in quantum sonus est,
esse. Rationale vero, in quantum aliquid SIGNIFICARE videtur ad placitum. A noi
pare più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questo segno, l'aliquod
rationale signum et sensuale di cui ha parlato poche righe più sopra, è per
l'appunto il nobile soggetto di cui parliamo. Sensuale per natura, in quanto è
SUONO. Razionale, in quanto che, se A che uomo e prima dato il parlare, e che
dice prima, et in che lingua L’UMO SOLO e dato dalla natura il parlare. Ora
istimo che appresso debbiamo investigare, a che uomo e prima dato dalla natura il
parlare, e che cosa prima dice, e a chi parlò, e dove e quando, e eziandio in
che linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la
prima parte del Genesis, ove la sacratissima Scrittura tratta del principio del
mondo, si truova la femina, prima cheniunaltro, aver parlato, cio è lapre
sontuosissima EVA, la quale al DIAVOLO, che la ricercava, disse, ‘Dio ci ha
commesso, che non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del paradiso, e
che non lo tocchiamo, acciò che per avventura non moriamo. Ma a vegna che in
scritto si trovi la donna aver pri mieramente parlato, non di meno è ragionevol
cosa che crediamo, che l'uomo fosse quello, che prima parlasse. Nè cosa
inconveniente mi pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche cosa.
Contro la quale interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del testo, che
sarebbe di troppo ; ma,per com penso, il brano riesce più chiaro, e si collega
meglio col senso di tutto il Capitolo. Anifesto è per le cose già dette, che a
pensare, che così eccellente azione de la il generazione umana prima da
l'uomo, che da la femina procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso
essere stato dato primier mente il parlare da Dio, subito che l’ebbe formato. Che
voce poi fosse quella che parla prima, a ciascuno di sana mente può esser in
pronto e io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o vero per
modo d'interrogazione, o per modo di risposta. Assurda cosa veramente pare, e
da la ragione aliena, che da l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima che Dio;
con ciò sia che da esso,& in esso fosse fatto l'uomo. E siccome, dopo la prevaricazionedel'u
m a n a generazione, ciascuno esordio di parlare comincia da heu ; così è
ragionevol cosa, che quello che fu davanti, cominciasse da alle grezza, e
conciò sia che niun gaudio sia fuori di Dio,ma tuttoinDio,& esso Dio
tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo p a r lante dicesse
primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di sopra detto, l'uomo
aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu,devette esser a Dio; e
se a Dio, parrebbe, che Dio prima avesse parlato, il che parrehbe contra quello
che avemo detto di sopra. Al qual dubbio risponderemo,che ben può l'uo mo
averrisposto a Dio, chelointerrogava, nè per questo Dio aver parlato di quella LOQUELLA,
che dicemo.Qual è colui, che dubiti, che tutte le cose che sono non si pieghino
secondo il voler di Dio,da cuièfatta, governata, econservata, ciascuna
cosa ? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per comandamento della
natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di Dio, di maniera
che fa risuonare i tuoni, fulgurare il fuoco, gemere l'acqua, e sparge le nevi,
e slancia la grandine ; non si moverà egli per comandamento di Dio a far
risonare alcune parole le quali siano distinte da colui, che maggior cosa
distinse?e perchè no? Laon de et a questa, et ad alcune altre cose credia mo
tale risposta bastare. Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta così da le
cose superiori,come da le in feriori), che il primo uomo drizzasse il suo primo
parlare primieramente a Dio, dico, che ragionevolmente esso primo parlante
parlò s u bito,che fu da la virtù animante ispirato: per ciò che ne l'uomo
crediamo,che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire, pur che
egli sia sentito,e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di ogni
perfezione principio et amatore,inspirando il primo uomo con ogni perfezione
compi, ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale non prima
cominciasse a sentire, che 'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse contra le
obiezioni, 11 Iudicando adunque (non senza ragione trat, che non era
bisogno che l'uomo parlasse, es sendo egli solo ; e che Dio ogni nostro segreto
senza parlare, ed anco prima di noi discerne ; ora (con quella riverenzia, la
quale devemo usare ogni volta,che qualche cosa de l'eterna volontà
giudichiamo),dico,che avegna che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è una
medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, non
di meno volse che esso parlasse; acciò che ne la esplicazione di tanto dono,
colui, che graziosamente glielo avea do nato,se ne gloriasse.E perciò devemo
credere, che da Dio proceda, che ordinato l'atto de i nostri affetti, ce ne
allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori la prima
favella; perciò che se fu animato l'uomo fuori del paradiso, diremo che fuori:
se dentro, diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare. Ra perchè i
negozii umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue, tal che molti
per le parole non intesi da molti, che se fussero senza esse; però fia
buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato l'uomo, che
nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima l'uomo parld, e donde fu
l'autore di quest'opera. madre, e senza latte si nutri, e che nè
pupil lare età vide,nè adulta.In questa cosa,sì come in altre molte, Pietramala
è amplissima città, e patria de la maggior parte dei figliuoli di Adamo .Però
qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda, che il loco
della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi sotto il Sole, a costui
parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare, cioè la sua materna
locuzione,a tutti gli altri; e conse guentemente credere essa essere stata
quella diAdamo.Ma noi, acuiil mondo èpatria, sì come a'pesci il mare,
quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che amiamo
tanto Fiorenza,che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le
spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E benchè
se condo il piacer nostro, o vero secondo la quiete de la nostra sensualità,
non sia in terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti
e de gli altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e particularmente
si descrive, e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del mondo, e le
abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo equatore, fermamente
comprendo, e credo, molte regioni e città es sere più nobili e deliziose che
Toscana e Fiorenza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e
molte genti usare più dilette vole, e più utile sermone, che gli Italiani. R
ir tornando adunque al proposto, dico che una certa forma di
parlare fu creata da Dio insie me con l'anima prima,e dico forma, quanto a i
vocaboli de le cose,e quanto a la construzione de'vocaboli, e quanto al
proferir de le con struzioni; la quale forma veramente ogni par lante lingua
userebbe, se per colpa de la pro sunzione umana non fosse stata dissipata, come
di sotto si mostrerà. Di questa forma di par lare parlò Adamo, e tutti i suoi
posteri fino a la edificazione de la torre di Babel, la quale si interpreta la
torre de la confusione. Questa forma di locuzione hanno ereditato i figliuoli
di Heber, i quali da lui furono detti Ebrei ; a cui soli dopo la confusione
rimase, acciò che il nostro Redentore, il quale doveva nascere di
loro,usasse,secondo laumanità,dela lin gua de la grazia, e non di quella de la
confu sione 1. Fu adunque lo ebraico idioma quello, che fu fabbricato da le
labbra del primo par lante . ' Il testo ha: qui ex illis oriturus erat secundum
humanitatem, non lingua confusionis, sed gratiæ frue retur.E deve
tradursi:ilqualedovevanascere di loro secondo l'umanità, usasse della lingua
della grazia, e non di quella della confusione. Hi come gravemente mi vergogno di rin
15 e per De la divisione del parlare in
più lingue. A en ta nerazione umana: ma perciò che non possia mo lasciar di passare
per essa, se ben la fac cia diventa rossa, e l'animo la fugge, non starò di
narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai peccati, oh da principio, e che mai
non finisce, piena di nequizia; non era stato assai per la tua corruttela, che
per lo primo fallo fosti cacciata, e stesti in bando de la p a tria de le
delizie? non era assai, che per la universale lussuria, e crudeltà della tua
fami glia, tutto quello che era di te, fuor che una casa sola, fusse dal
diluvio sommerso, il male, che tu avevi commesso, gli animali del cielo e de la
terra fusseno già stati puniti ? Certo assai sarebbe stato; ma come prover
bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo anzi terza ; e tu misera volesti
miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che l'uomo, o vero scordato,o vero
non curando de le prime battiture, e rivolgendo gli occhi da le sferze, che
erano rimase, venne la terza volta a le botte, per la sciocca sua e superba
prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu rabile uomo, sotto
persuasione di gigante, di, superare con l'arte sua non solamente la na
tura,ma ancora esso naturante, ilqualeèDio; e cominciò ad edificare una torre
in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione, per la quale sperava
di ascendere al cielo, avendo intenzione, lo sciocco,non solamente di aggua
gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore. Oh cle menzia senza misura del celeste
imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo? Ora innalzandosi
non con inimica sferza, ma con paterna, et a battiture assueta, il ribel lante
figliuolo con pietosa e memorabile corre zione castigò. Era quasi tutta la
generazione umana a questa opera iniqua concorsa ; parte comandava, parte erano
architetti,parte face vano muri,parte impiombavano,parte tiravano le corde
", parte cavavano sassi, parte per ter ra, parte per mare li conducevano. E
cosìdi verse parti in diverse altre opere s’affatica vano, quando furono dal
cielo di tanta con fusione percossi, che dove tutti con una istessa loquela
servivano a l'opera, diversificandosi in molte loquele, da essa cessavano, nè
mai a quel medesimo comercio convenivano ; et a quelli soli, che in una cosa
convenivano una · Il Witte osserva che in luogo di pars amysibus tegulabant,
pars tuillis linebant, come leggeva erro neamente la volgata nel testo latino,
si deve leggere : pars amussibus tegulabant, pars trullis (o truellis)
linebant, e si deve tradurre : parte arrotavano sulle pietre i mattoni,parte
con le mestole intonacavano. istessa loquela attualmente rimase, come a
tutti gli architetti una, a tutti i conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori
di quegli una, e così avvenne di tutti gli operanti; tal che di quanti varj
esercizj erano in quell'opera, di tanti varj linguaggi fu la generazione umana
disgiunta. E quanto era più eccellente l'arti ficio di ciascuno, tanto era più
grosso e barbaro il loro parlare. Quelli poscia, a li quali il sacrato idioma
rimase, nè erano presenti nè lodavano lo esercizio loro; anzi gravemente
biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli operanti.M a questi furono
una minima parte di quelli quanto al numero ; e furono, sì come io comprendo,
del seme di Sem, il quale fu il terzo figliuolo di Noè, da cui nacque il popolo
di Israel, il quale usò de la antiquissima locu zione fino a la sua
dispersione. e specialmente in Europa. Er la detta precedente confusione di lin
gue non leggieramente giudichiamo, che allora primieramente gli uomini furono
sparsi per tutti iclimi del mondo e per tutte le re gioni et angoli di esso. E
conciò sia che la P Sottodivisione del parlare per il mondo, principal
radice dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata, e d'indi da
l'u no e l'altro lato per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione
nostra distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta, là onde
primieramente le gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di
tutta Europa. Ma ofussero forestieriquesti,cheallorapri mieramente vennero, o
pur nati prima in Europa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre
idiomi seco ; e parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa,
parte la settentrionale, et i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci, parte
de l’Asia e parte de la Europa occuparono. Poscia da uno istesso idio
ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari, come di sotto
dimostre remo ; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o
vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini
d'Inghilterra, Italia e Franza, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo
idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari, Tedeschi, Sassoni, Inglesi et altre
molte nazioni fosse in diversi volgari derivato ; rimanendo questo solo per
segno, che avessero un medesimo prin cipio, che quasi tutti i predetti volendo
affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo idioma,cioè da
iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel tratto occupò.
Quel tratto poi, che da questi in qua si chiama Europa, e più oltra si
stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta, tenne un terzo idioma 1,
avegna che al presente tri partito si veggia ; perciò che volendo affermare,
altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spagnuoli, Francesi et Italiani .Il
segno adunque che i tre volgari di costoro procedessero da uno istesso idioma,è
in pronto; perciò che molte cose chiamano per i medesimi vocaboli, come è
Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama,& altri molti.Di questi
adunque de la meridionale Europa, quelli che proferiscono oc tengono la parte
occidentale, che comincia da i confini de'Genovesi ; quelli poi che dicono sì,
tengono da i predetti confini la parte orientale, cioè fino a quel promontorio
d'Italia, dal quale comincia il seno del mare Adriatico e la Sicilia. Ma quelli
che affermano con oil,quasi sono settentrionali a rispetto di questi ; perciò
che da l'oriente e dal settentrione hanno gli Ale manni, dal ponente sono
serrati dal mare in 1 Il testo ha : A b isto incipiens idiomate, videlicet a
finibus Ungarorum versus orientem aliud occupa vittotum quodabindevocaturEuropa,necnonul
terius est protractum. Totum autem, quod in Europa restat ab istis, tertium
tenuit idioma. E deve essere tradotto cosi: A cominciare da questo idioma, cioè
dai confini degli Ungari verso oriente, un altro idioma occupò l'intero tratto
che da quei confini in là si chiama Europa, e che si protrae anche più oltre.
Tutto il tratto poi della rimanente Europa tenne un terzo idioma. 19
glese, e dai monti di Aragona terminati, dal mezzo di poi sono chiusi
da'Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi ora è bisogno porre a
pericolo 1 la ' Il verbo periclitari del testo latino qui vale mettere alla
prova, cimentare, ragione, che avemo, volendo ricercare di quelle cose ne le
quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de la variazione, che
intervenne al parlare, che da principio era il medesimo. Ma
conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada, però so lamente
per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte, conciò sia
che quello che ne l'uno è ragionevole, pare che eziandio abbia ad esser causa
ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto di sopra) in
tre parti diviso, perciò che alcuni dicono oc, altri si, e altri oil. E che
questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che primieramente
provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come gli
eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col tempo
il medesimo parlare si muta, e de la invenzione de la grammatica. A
la quale convenienzia repugna a la confusione, che fu per il delitto ne
la edificazione di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste lingue in molte
cose convengono, e massimamente in questo vocabolo, Amor. Gerardo di Berneil, « Surisentis
fez les aimes Puer encuser Amor.» Il
re di Navara, «De'finamor sivientsenebenté.» M. Guinizelli, « Nè fè amor, prima
che gentil core, Nè cor gentil,prima che amor, natura.» Investighiamo adunque,
perchè egli in tre parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di queste
variazioni in sè stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha diverso par
lare da quello de la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani, e altramente
i Pisani : e investighiamo perchè quelli,che abitano più vi cini,siano
differenti nel parlare,come è iMila nesi e Veronesi, ROMANI e Fiorentini;e
ancora perchè siano differenti quelli,che si convengono sotto un istesso nome
di gente,come Napole tani e Gaetani, Ravegnani e Faentini ; e quel che è più
maraviglioso, cerchiamo perchè non si convengono in parlare quelli che in una
medesima città dimorano, come sono i Bolognesi del borgo di san Felice, e i
Bolognesi della strada maggiore.Tutte queste differenze adunque,e
varietàdi sermone,che avvengono, con una istessa ragione saranno manifeste.
Dico adunque, che niuno effetto avanza la sua ca gione, in quanto
effetto,perchè niuna cosa può fare ciò che ella non è.Essendo adunque ogni
nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme con l'uomo creata) a
nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la quale niente altro fu
che una oblivione de la loquela prima, et essendo l'uomo instabilissimo e va
riabilissimo animale, la nostra locuzione ne durabile nè continua può essere ;
m a come le altre cose che sono nostre (come sono costumi et abiti), simutano;cosìquesta,secondo
ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è bisogno di va riarsi. Però non è da
dubitare che nel modo che avemo detto,cioè,che con la distanzia del tempo il
parlare non si varii, anzi è fermamente da tenere ; perciò che se noi vogliamo
sottilmente investigare le altre opere nostre, le troveremo molto più
differenti da gli antiquissimi nostri cittadini, che da gli altri de la nostra
età, quantunque ci siano molto lontani. Il perchè audacemente affermo che se gl’antiquissimi
Pavesi ora risuscitassero, parlerebbero di diverso parlare di quello, che ora
parlano in Pavia. Nè altrimente questo, ch'io dico, ci paja maraviglioso
che iI qualici siano molto lontani (magis....quam a coetaneis per longinquis). ci
parrebbe a vedere un giovane cresciuto il quale non avessimo veduto crescere. Perciò
che le cose che a poco a poco si movono, il moto loro è da noi poco conosciuto;
e quanto la variazione de la cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto
essa cosa è da noi più stabile esistimata. Adunque non ci ammiriamo se i
discorsi di quegli uomini che sono POCO DALLE BESTIE DIFFERENTI, pensano che
una stessa città ha sempre il medesimo parlare usato, conciò sia che la
variazione del parlare di essa città non senza lunghissima successione di tempo
a poco a poco sia divenuta, e sia la vita de gl’uomini di sua natura
brevissima. Se adunque il SERMONE nella stessa gente successivamente col tempo
si varia, nè può per alcun modo firmarse, è necessario che il parlare di
coloro, che lontani e separati dimorano, sia VARIAMENTE VARIATO; sì come sono
ancora variamente variati i costumi e abiti loro, i quali nè da natura, nè da CONSORZIO
umano sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la convenienzia de i luoghi
nasciuti. Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica; la quale
grammatica non è altro che una inalterabile conformità di parlare in diversi
tempi e luoghi. Questa essendo di comun consenso di molte genti regulata, non
par suggetta al SINGULARE ARBITRIO di niuno – GRICE, Deutero-Esperanto,
High-Way Code --, e consequentemente non può essere variabile. Questa adunque
trovarono, acciò che per la variazionee del parlare, il quale DE LA
VOLGARE ELOQUENZIA. De la varietà del parlare in Italia dalla destra e sinistra
parte dell'Appennino. LA VITA D
I Gl OVAN GIORGIO O. LA VITA GlOVAN GIORGIO O.,
ORATORE, E POETA SCRÌTTA DA CASTELLI
VICENTINO. IN VENEZIA, Per Giovanni Radici.Con Licenza
de’ Superiori, e Trtvììegio. sAlli Kob. Kob. Sigg. Co Co.
PARMENIONE, ED ALESSANDRO
trissini, ^ier-Fuippo Castelli. **t «1 et egli fu
fempre le cita non fo lamento, ma lodevol cojaa chiunque ha fatto
penitelo di mandar a luce un qualche Juo componimento, lo fceglìero
a alca Digitized by Googl alcuno illujlre e
ragguardevole perfonaggio, a cui intitolarlo ; non fola mente per
acquijlargli col nome di lui pregio e ornamento y ma ancora per poterlo
col favore di lui mede fimo dagl vividi morti de' malevoli difendere, e
ajfìcurare : mafiimamente di ciò fare a me fi conviene, il quale
avendo dìliberato di dare alle luce il già condotto a maturità
primaticcio frutto del poco e debile ingegno mio, voglio dire
la V ita del nobili fimo, e dottijfimo Poeta e Oratore Gì ovan Giorgio T
rissino, decoro e fple udore ampli filmo di que fi a no fi r a Città di
Vicenda s a nobile e buona guida con pili di ragione debbo
accomandarlo, onde poffa fi curamente ufcir fuori, Me migliore per tanto,
nè piu fidata fo ritrovarne di quella della molta Vofira Umanità, e Genti legga,
Jllu * Digitìzed by Google I Illustrissimi,
e Nobilissimi Sigg. Conti-, concio [fi ache Voi Germe fiele di
queir amie hi filma, e fempre cospicua Famigliai Voi alla tefifiiitra, e alla
pubblicazione di quejì Opera ni avete piu volte inanimito, e
follecitato ; e Voi per fine dotati fiete di sì illuJlri prerogative, le
quali ( comeche un largo campo me fe ne pari davanti ) per lo timore di forfè
non offendere la fingolar VoJlra moaejlia ometterò. Non voglio tuttavia la f
dar di accennare V amor Vojlro alle lettere, e a chi le coltiva, il quale
ficco me dà a co no fiere quanto nobile fi a la Vofira indole, e
quanto colto il Vojlro ingegno, così Vi fu e fifere in Patria e fuori
fingo tarme nt e chiari. In fatti e chi e tra per la bre' ' C vita, e per ?ion
piu fajlidirvi la f ciò di dire, io umilio e dedico a Voi,.
Nobilissimi* e Chiarissimi Cavalieri, quejia mia prima Operai la
quale y perciocché la V ita contiene del non mai ablctJlan^a lodata
Giovangiorgio Tr issino, fon ficuroy che da Voi, che con lui comuni la
patria, il cognome, e le virtù avete, benignamente e gratamente farà accettata
. E qui nella pregevol grafia Vojlra r accomandandomi Vi faccia
umilijftma riverenza, A Vita di GIO V ANGIORGIO O., poeta e orator
celebre, ficcome per alcuni: è Rata già fcrirta, così parrà a prima
villa, che inutii cola ila Hata Io /crivella .di nuovo ; ma perchè quelli
tali Scrittori han di Lui molte cole dette, le, quali o non fono Rate per eflì
.bene difeufle, o forfè .anche furono dette a capriccio, perciò non
Lenza ragione rilolvemmo .di così fare . Tra efii uno fi fa eflere Rato
il Signor ApoRolo Zeno, di chiariffima memoria, il quale nella fine del
le* colo paflfatodiede jh luce la Vita d’O. inferita nella terza
parte della Galleria di Minerva in Venezia prejj'o Girolamo jilhrivjj 1
696. in foglio ; ma ficcome gli uomini 'veramente dotti ed ingenui non fi
vergognano di ritrattar quegli errori, che nelle proprie Opere conofcono
aver commefiì, così non ifdegnò egli non pure di dirci a bocca, ma
di farci fàpere eziandìo per lettera, mandataci da Venezia addi iv.
di Giugno dell’anno 1749., che nè quella Vita, nè ciò, che col fuo nome
fu Rampato e in quel tomo, e negli altri ancora della detta
Galleria di Minerva, riconofccva per cola fua : e quelle fono le fue
parole . Sono cinquanta e più anni, ch'io fcrijjì quella Vita dell'
infigne Giangiorgio T rijjìno, la quale fi legge nella Galleria di Minerva.
Sappia però V. S., ch’io prefentementc, anzi da gran tempo in qua non ricono
feo per mio lavoro y ma per aborto della immatura mia età tanto . la medejima
Vita, quanto tutto quello, che col mio nome fi legge flampato in quel
tomo della Galleria di Minerva, e in tutti i Jeguenti, Ci fono qua e là
V'arj punti effendi ali e importanti, che allora mi parvero con vero e
fame difcujfy, e che ora per migliori lumi fopr avvenuti ritratto, e condanno
. Di tutto ciò mi è paruto avvi far la per fua regola, e mia giufìife
azione . Sebbene quali lo Hello avea egli fcritto affai prima
al P. D. Pier-Caterino Zeno, Somafco, fuo fratello, di fèmpre
celebratiffima ricordanza ; mentre tra le fue Lettere, di frefeo fìampate in
tre volumi in 8. col titolo di Lettere di Apoftolo Xeno ec. I n
Venezia, apprcjjo Pietro Valvafenfe ; nel z. Volume a car. 91. ve n’ha
una a lui diretta, fegnata di Vienna 14. Dicembre 1719., in cui in
proposito della riftampa dell* Opere del Triffino allora ideata da’ Sigg.
Volpi, così gli diC. fe : Vinti i fono, eh' io diedi fuori nel /.
Volume della Gallerìa la Vita di effo ( Triffino ) : ma Je orai
avejfi a ferriere, la riformerei tutta da capo a piedi : onde fe io ne fo
ora sì poco conto, avvertite anche i Sigg. Volpi a non far fopr a efja
alcun fondamento . Allorché in Verona preflò Jacopo Vallarli fi fece
la ri Rampa delle Opere del noflro TR ISSINO, proccurata dal chiariamo
Sig. Marchelè MafFei, ma primieramente ideata da 1 rinominatiifimi
Sigg.Vol. pi di Padova, tanto delle Lettere benemeriti (come appare e
dalle parole della lettera furriferita dei Sig. ApojRolo Zeno, e dal Giornale
de’ Letterati d' Italia, . ) noi lappiamo edere Rato pregato il liiddetto
Signor ApoRolo, che vi lalciaflè premettere la detta Vita ; ma non avendo
egli allora avuto tempo di r: correggerla, «Rendo occupato in altro
impiego, non volle acconientire . Ne fu tuttavia fatto un breve
Rjfìretto dal mentovato Signor Marchele, e fu alle Opere luddette
premeflo ; nel quale egli pur prele qualche sbaglio, eflendofì (come a
noi pare ) attenuto alla Vita inferita nella Galleria di Minerva, e
a MonEgnor Jacopo-Filippo Tommafini, che fu il primo a feri ver del TRI SS
INO a lungo, teifuto avendone un latino elogio Rampato in un cogli altri
fuoi Elogia Virorum literis, et f apienti a illuflrium : Patavii, ex T
ypographia Sebajtiani Sardi, 1644. in 8. Datici per tanto con
lollecito penfiere a racoorrc le cole fparfe qua e là in varj libri, ed
anche a cer. carne di nuove, trovammo a calo in un Difcorfo intorno
aìl'Opere del noRro Autore, del Sig. Cavaliere Michelangelo Zorzi (Rampato
nella Riaccolta dOpufcoli Scientifici, e Filofojìci, toni. 3. a car.
398.) la quale cominciatali a pubblicare per opera b del P. D,
Angelo Calogero. M. Carnai, in VencTja appreJJ 0 Crifioforo Zane in 1 z.
leguitandoll tuttora a produrre da'torchj di Sirnone Occhi è già
arrivata alTomoXLVII.) citato a car.441. una dia manulcritta Vita d’O. i
per la qual cofa torto ricercatala con molta diligenza, ci venne fatto,
per mezzo del Signor Abate Don Barcolommeo Zigiotti, non pure di ritrovarla,
ma di averla eziandìo cortefemente in noftra cala, Quella Vita rt
conferva di prelentc appiedò i Sigg. Conti Triflìni dal Vello di Oro,
dilcendenti del noftro Autore, ed ha quefto titolo : Ragguaglio Jftorico, e
Letterario intorno alla Vita di GIOVA NG IO RG IO O. Nob .
Vicentino, Co., Cav ., Poeta, ed Oratore infìgne ; con un Efame delle
Opere da Lui fiampate, e col giudicio fatto delle medefme dagli Uomini
più celebri di quc' tetri pi, e con una ccnfura J opra il fuo Poema
Erpico intitolato L A ITALIA LIBERATA DA GOTI, eftratta da Critici allora più
famojì, e più intendenti della Poetica Difciplina . Aggiuntovi un,e fatto
Catalogo delle Opere tanto pubblicate, quanto MS S. dello fìe ffo O., ed un
Indice copio (0 d' Autori, che parlano di Lui, e che fomminijlraron no tifi e
per compilare la Vita prefente, Il Manofcritto è in 4., e comprende 653.
facce. Da quello titolo sì fpeciolo e pieno credevamo invero, che
invano ci foffimo medi all’opera, c che avedìmo perduta la fatica
inutilmente ; ma piu cuore ci facemmo a profeguirla, ed a compierla,
allora che letta e riletta la Vita fleflà trovammo ella poco piu in se
contenere di ciò,, che detto aveano i predetti Autori r oltreché ognuno
recherebbe!! a noja il leggerla a cagione delle parecchie lunghe
digreffioni, che F Autore vi frappofe, lontane affatto dalla materia,
che e’ fi propofè di trattare ( vizio Colico nel Cavaliere Zorzi, ma pure
fcufabile in lui per la valla raccolta di letterarie erudizioni, che egli,
come in preziofà confèrva, nel teforo di fila mente ferbava ), benché per
altro cotali digreffioni in sé contengano molte curiofe notizie . Non
polliamo tuttavia non confeflàre, averci quello Manufatto varie cofè
fommini firate, per cui vie più. arricchita abbiamo quella noilra fatica ;la
quale ficcome cola nuova e vera, fperar vogliamo, che non abbia ad
eflère fèr non di diletto. V'abbiamo per entro fparfe alcune
notizie letterarie ed ifloriche fpettand a varj perfonaggi, che fiorirono
nell età del noflro O., oa qualche fatto notabile de! tempo fleffo,
lenza però dilungarci granfatto dal hlo principale dal racconto; le
quali notizie vogliam parimente credale, che non faranno difeare. A
non oltrepafiare la brevità, che ci fiamo prefifla, abbiamo a bella polla tra
lafcia te alcune cole di non tanto conto/ perchè altrimenti fé avefà fimo
voluto dir tutto ciò, che ad O. 1 può. appartenere, di tanto fi farebbe
quella Vita. b z afiim Digitized by Google
VI prefazione. allungata, che, anzi che diletto, noja e
fafiidio apportato avrebbe . Quanto poi alle Opere del noRro
Autore, crediamo di non averne tralafciata pur una, come apparirà dal
Catalogo, che fi pone in fine di quella Vita y dove molte fé ne vedranno
regiRrate, che non furono mai Rampate, ed al Compilatore
fopraccennato o non venute a cognizione, o dalui per avventura non
curate: e di molte eziandìo fi favellerà, che da qualche Scrittore da
fallace tradizione ingannato a GIOV AN GIORGIO furono attribuite . Tutti i
Titoli per altro delie Opere fleffe non ci fiamo curati di riferire appuntino,
come Ranno ne’ Frontelpic) delie edizioni, non ci parendo cofa di grande
importanza > e fimilmente se fatto nell’ allegare, e citare qualche pafso di
fue fcritture: e abbiamo tralafciato eziandìo i Caratteri Greci dal noRro Autore
inventati, non avendogli giudicati quivi totalmente neceflàrj, e non già
credendo di reìidcr così molto buon fcrvigio alla memoria di quel
grand’ uomoy come fi lafiiò ulcir della penna il per altro tanto
benemerito dottiilìmo editor della rifiampa delle Opere dei Trillino fatta in
Verona j imperciocché tenghiamo per fermo, che Te il Triflino folle vivo,
figurerebbe a afare nelle proprie fcritture quelle lettere da se con
tanto Rudio ritrovate, ulate, e difcle. Dopo di avere così Icritto
ci confoliamo, parendoci di elserci in quefio particolare uniti alla
oppinio vir
©ppìnione del fu Signor Apollolo Zeno, che nella più fopra citata Lettera
al P. D. Pier-Caterino fuo fratello così Icrilse : Lodo /'edizione di
tutte /' Opere del T riflino . Ma fi farà ella con gli Ornicron, e
cogli Omega, e con la foli t a ortografia di quel grand’ uomo?
Si farebbe potuto regiftrar anche il catalogo di quegli Autori'*,.
che di Lui fecer menzione ; ma liccome molti lì troveranno già citati per
entro quella Vita, e gli altri non ne parlarono più che tanto, così
noi ci lìamo dilpenlati da .quella forfè dilutile fatica . A quello però
può abbondantemente lupplire la Tavola delle cofe notabili, che alla fine
del libro abbiamo aggiunta ; la quale altresì mette in un tratto lotto l’occhio
del letrore tutte quelle notizie letterarie ed illoriche, che, come lopra
è detto, abbiamo fparfe qua e là: Tavola che lenza quelli ragionevoli
motivi, lì larebbe dovuta certamente lalciare in un’Opera di pochi
fogli, liccome lì è quella nollra. Circa poi le correzioni ed
ofservazioni critiche per noi fatte lòpra gli errori d’ alcuni de’
detti Autori, lì vuol qui dire, che non s’intende giammai d’olcurar punto
la fama, che e£Iì godono più che chiara tra’ Letterari, ma fola mente di
far apparire il vero nella lua luce; e le allo ’ncontro qualche
errore lì troverà in quella Vita da noi innavvertenremente commefso, lì feulì
la piccolezza della nollra luffìcienza ; riflettendo maflìme, che
rari lon quegli, i quali vadano in tutto efenti da que’ difetti,, che (
come dicea l’Abate Anton Maria Salvini ) fono patrimonio e retaggio di
nofircc fievole umanità. Finalmente fe vedremo y che quello
primo parto del noftro rozzo ingegno lìa gratamente ricevuto,. come ci giova
iperare, dagli uomini lavji ed eruditi,. noi allora con maggiore
follecitudine attenderemo a profeguire la già da parecchi anni
incominciata faticolìllima Opera delle Notizie Letterarie ed I (loriche degli
Scrittori Vicentini da altri pure, ma Tempre infelicemente ternata (a )
; nella quale,. le non andiamo errati r fperiarno di inoltrare,.
che ( come lalciò Icritto il nollro Ba~ flian Montecchio nel- fuo-
Trattato; De Inventario’ tLeredis, et c . Venetiis apud Fransi feum
Zilettum a car. 160. a tergo, num, joz.- J Viceda foecunda fuit JvLxter et
jiltrix poetarum philofopborum, or a forum,, thcologorum,. jurif confiti
forum y ant i queir iorum medicorum, atque in qualibet facultate
eruditorum ; e che per ciò elsa noa è. a verun altra città inferiore
.. KOI! Spcriarao prròdi vedere a luce rra fonazioni intorno
all a forte miiliopoeo tempo un’Opera ddl’cruditif»..! re della Storia
Ecclefiaftica r eSe~ Sig, Dr. D. Franccfco Fortunato Vi- J colare della
medefima noftra Patria,, gna, la quale conterrà V /fiorite Let- !
promclTe col dottifsimo fuo Preli/er 4 r/ e ricca del pari di facoltà» e
di Soggetti » che in ogni genere di profeffione illuftri ella ha prodotti
in ogni tempo . Ella è in parecchie linee divifa » e tra effe con particolar
luftro fplendc quella, che conofce per fuo gloriofiflimo afeendente
quel Giovangiorgio, di cui fcriviamo la Vita ; il quale alla nobiltà del
legnaggio A avendo accoppiate le più eminenti prerogative#
che render pollano un perfonaggio e’n rarità di dottrine, e’n
cavallerelche virtù fplendentiflimo, non fedamente tra’ Letterati, ma in
una gran parte del Mondo celcbratiflìma, ed oltremodo chiara lafciò la fama del
fuo nome. Nacque adunque Giovangiorgìo Trissino' in Vicenza
il fettimo, o, fecondo altri, l’ottavo giorno di Luglio dell anno 1478. (
1 ). Suo Padre fu Gafpare Trillino, uomo d’armi, e colonnello di
trecento fanti alToldati col proprio danajo a fervigio della Repubblica di
Venezia, appo cui acquiftò (ingoiar merito; e fua madre fu Cecilia di
Guilielmo Bevilacqua, nobile di Verona. Non pure da un Epica- 1 luogo fi
favellerà) cioè) che P fio delle geftc del noftro Tms- anno 1487. per la
morte di fuo SINO, collocato in S. Lorenzo j Padre egli rimafe orfano di
fette di Vicenza, di cui a fuo luogo ' anni . Ma liccomc egli non
in diremo didimamente > ma da mohiflimi Scrittori appare
edere egli nato l'anno fuddetto, c fpczial mente da Monfignor Jacopo
Filippo Tommafini nel fuo tuteli luoghi di fue feri tture
fida l’epoca del fuonafeimemo in un medefimo anno, fccondochè
lui bene tornava, e in utilità de* fuoi dcmeftici affari ( come ci
fe libro intitolato ; Elotia rirornm certi il Sig. Abate Don BartoLittris
et ftpitntia illuftrium lommeo Zigiotti, che tutte vi' &c. Patavii ex
7 ypo{rapkia Se- J de, e rivide le private Scritture bacioni Sardi 1644.
in 8. a dell’Archivio de’Sigg. Co. Co. pag.48. Quello tuttavia potrebbe [
Tri dì ni di lui eredi); cosi ci è non crederli, quando fode vero! paruto
miglior cofa edere lo acciò, che il T r issino medefi- tenerci anzi alle
autorità, e air irto dica in una fua mirini* far- 1 unanime confentimento
dei pre fic" come fu fuo maefiro quel Demetrio Calcondila
Ateniefe, la cui fama è sì chiara tra’ Letterati (5); al quale appreflb
fua morte erger fece il Trissino un bel Depofìto, ed Epitafio Scolpito in
marmo bianco nel facrario della Chiefa della Paffione della Città Aefifa
di Milano, come dicono Paolo Beni, c'1 P. D. Francefco Rugeri Somafco
(7), cd altri, il qual Epitaffio non V’ha un’epiftola
addetto Giraldi in vedi Latini del Sacco di Roma, polla nel 2. tomo
delle fue Opere della edizione di 8 Mfilt.it per T nomar» Guarinmn, infol. che autorizza il noftro detto
cosi dicendo; tt Aec dttfet Bembus, q*o » nere pr e fi art
hot alter „ A«e q»cm Ntbilitar gene . tt rit, f ac
media triplex » Irejigreem fAcit, et viridi mihi notr s ab
avo „ T r 1 * s t N U s, In fibra dum tt Grecai difeimm
Urbe. Da una Lettera aliai lunga del Trusino, fcritta da A-iilano
li. all' txc cliente Medie» ( così Ha ferirlo ) M. Uini tritio da Afalgradt,
fi ha, che egli non pure era fcolare del Calcondila, ma che anche
abitava in fua cafa. (6) Tratt . dell' Origin. della Famiglia
Trijf. lib. 2. a car.33. (7) Nella Declamazione latina intitolata :
Trutina JOelpb»htdrki Tabellariatui Traiani 1 Boc Digitized
by Google del TRissino. 5 non pur fi conferva
manufcritto con altre fue compofizioni fin ora non date a luce,
appretto i Sigg. Co. Co. Fratelli T riflìni di lui eredi*, ma fu
anche ftampato nella Biblioteca degli Scrittori Milanefi pubblicata dal
Sig. Filippo Argelati Bolognefe (8), e poi riferito fulla fede di quefto
autore da Criftiano-Federigo Boernero nel libro de' Dotti Uomini Greci
riftoratori della Greca letteratura nell’ Italia (p); ed è quefto.
p. m. DEMETRIO CHALCONDYLyE ATHENIENSI IN STUDIIS
L1TERARUM GR^CARUM EMINENTISSIMO QUI VIXIT ANNOS LXXVII. MENS. V.
ET OBIIT ANNO CHRISTI MDXL O. GASP. FILIUS PRAICEPTORI OPTIMO ET
SANCTISSIMO POSUIT. E di fiat cui ini ice.
Alon.ìchii fuisformis, CTfumptibmt cuffie Nicola hs tìmricHs, t6aa. in 4.
pag.xxi 1 1. e xxiv. ove dice: „Hic ( JojGeoru gius ) a viro
do&ìllìmo De„ inetrio Cbalcondyla Athc-,» nienti, tanca ingenii foclici„
tace, Gricci fcrmonis latices, » haufic ut.... Attici cognomen, „
paucorununenfium cuiriculo, „ ex fui prseceptoris fententia, „
verius proineruit : Magiftro i) benemerenti gratiflìmu,, cui »,
McdioJani vita fun&o, mo » numentum marmoreum in „ tempio
Paffioni Servatoti, noftri facrum excitavit. (8) Philip pi Arie
lati Bono, nienfis Bibliotheca Scriptorum Alcdiolancnjìnm, five
Alla, et Elogia Virorum omnigena or
odi. tionc
illuflrium, qui in Metro, foli Infubrie, Oppidifquc circum.
jacentibut orti funi lice. Medio. Uni 174J. In JLdibus Palatini t;
Tom. ix. in fol. l’ Epitelio Chriftiani Frid. B temer i De E
di ciò non .contento Giovangiorgio volle j in fegno di gratitudine
maggiore allo fteflò Tuo grande maeftro, farne altresì lodevole
menzione nel predetto fuo Poema (io). Donde fi deduce, che
molto lontana è dal vero la opinione di Giovanni Imperiali, Vicentino, il
quale fcrifse eflere fiato il Tassino affatto ignaro di lettere fino all’età di
ventidue anni; e che dipoi andato a Roma, al folo udì* re colà le
aringhe de’ Letterati, tanto fi accen. defle in lui la brama di fapere,
che giugnefle in breve tempo a quella letteratura, che lo rendette
poi così celebre, e così illuftre: il che difsero anche Paolo Beni (i z),
ed un altro autore (13). Allo De dotti* Hominibn
i Gr tris Li- Il Calcondilt, che farà, che t trarum Gracarum in
Italia in- ditene (taur attribuì Libtr. Làpfi* in Bi- Verrà ftco in
Italia, t pian tliopolie Job. Frid . Sledijtchii terawi 1750.
in ii.gr. Qui l’ Epitaffio è II feme elette della lingua a car.
185. Greta, (10I Ita!. Libtr. da' Goti, lib. fit ) Gio. Imperiali
Mufxum *4. nella fine con quelli verli . Hiftortcum óiC.Venetiù apuajunVtlgett
gli occhi a luti pre- ; ttai . 1640. in 4. pag. 43. dori ingegni ;
( li ) Tratt. dell' Orig. della Quello è BeJJarion, quell' altro
Famigl. Trzff. lib. 2. a carr. 33. i’I Gaxjt ; ( 13 ) Qiiclli fu un certo
G» . leazzo Trillino in una Genea QnelV altre t'I Gemijle col 1
logica Narrazione della fu a faTrapeftnxj», ■ miglia, da effo iraslatata di la £
'l C aleni’ dii e, f’I Lafcari, e[ tino involgare. Di quefto vol*1 Muffure, 1
garizzamento fi trovano parec * chic. Allo ftudio delle Greche
lettere uni il noftro O. quello delle feienze Matematiche} e
tifiche (14), e quello ancora dell’ Architettura, in
èhie copie, c una è appretto il perfona del noftro Giovanrnentovato Sig.
Co: Parmcnione | G 1 o r gì o, c che da edo ci fu‘Triflino, della quale ci
fiamo rono pare con umanilTima gcnferviti a fcrivere queftaf'it.», e tilezza
trafmede a. Vicenza. Forciceremla col nome di Gemalo- I le che detta Raccolta
di Scric* già delia Cafii Triffino di Galeaz. • ture queUa era, che da
Paolo zj> Triffino . Quello autore di- Beni viene citata nel
predetto ce nel proemio di avere ac- {no Trattato Manufcricto della
trefeiura eda Narr Azione da (e Famigl. Trifs. a car. 26. Ann. tradotta a
inchieda di parco» 1404. con quelle parole: Gic: chi fuoi amici e parenti,
i qua- Giorgi o Tr issino» il li voleano i che c’ia defle an- Poeta, di
chì ragioneremo, nelP che in luce. Orazione che fece nel green Con Un’altra
copia nc ha il Sig. figlio di Tentila fer ricupera Abate D. Bartolommeo
Zigiotti Alone delle fue Decime nella Tilin tutto limile alla predetta . Un Im
di Tal d’ Agno, che fi legge Tello poi di quell’opera era già fcritta a
penna nelC Archivio appretto i p. P. Somafchi della del Sig. Co.
Bonifacio Triffino Salute in Venezia! e queftonoi j nel libro, che ha per
titolo Rimiamo, dite potefte ctTcrc I'IPrisca Triisjne^ Famioriginale.
Con ctTo era unita) ti .€ Monumenta.* et c.., la citata Aringa di G 1 o v
a n- facendo egli menzione delle Giorgio, c ’1 Trattato mano- Scritture
defle anche a car. 29. fcritto della Famigl. Triff. di I del primo libro
dello Aedo fuo Paolo Beni, ed altre feri t tu re Trattato della Famigl.
Triff ., concernenti alla detta Famiglia: che è dampato, di cui più intutto
in un libroin foglio, fui nanzi faremo menzione. Dilli, cui cartone al di
fuori lì legge- j che era nella Libreria de’ P.P. delVano quelle parole: P r i
se a t la Salute in Venezia, perchè ogTrusinea Familismo-! gidi certamente ivi
o non vi fono hu menta. Le quali Scrittu- j ìe dette fcritture, o
difficilmente prima erano appredo il P.D. te fi podono ritrovare :
conciof* Pier-Catcrino Zeno Cher. Rcg. fiachè io col mezzo anche
del Somafco, di gloriofa memoria} | P. D. Jacopo Maria Paltoni, che
come ci dide il Sig. Apoftolo j con tutta bontà mi favorì di diZeno, fuo
fratello, che di ede ligentemente cercarle, non abbia tutte nc eflraflc
quelle notizie, mai quivi potuto ritrovarla, che credette più fpettami
alla) (14) Che il Tr issino fof— - -, fc in cui molto fece di
profitto, come ne fa fede non pure un piccolo ir aitato in cotal
materia da lui comporto (15)» ma la fabbrica del fuo Palazzo nella
Villa di Cricoli a mezzo miglio lontana da Vicenza, che è tutto di fuo
difegno fulle regole di Vitruvio (i Quia 1 ri* del nome loro. Non fi può
*,, Parthenius multaruni (cien-' veramente farne altro gìudicio, >»
tiarum homo, diù literas ibi i confederata con la prontezza di „ docuit,
erudivitquc canqu 3 m j cotefii ingegni, che voi harete », in Lyceo
Juvcnes nobiles Vi- da e fer citare, la finezza delle », cetinos maximè,
ac Vcnctos. veftre lettere, e la gentil manieri) Queita lettera, che fi ra,
propria di voi filo nel dilcgge tra la Lettere di xiu. mojtrarle . Entrate
pure, Sig.Com Uomini illuftri ec. In Venezia pare con franco animo in
quefia per Comin da T rino di Alonfer - eroica imprefa, e commutile at
e rato, 1561. in 8,, a car. 180. e altrui i tefiri della vera dolche fu
anche inferita nella terza trina, parte con la voce, e parie del V Idea
del Segretario di parte, ancora con la penna, che Bartolommeo Zucthi, In
Vene- non ho dubbio, che nell’ ameniz.ia prcjfo la compagnia minima tà di
quella vaga fan zia non vi léso, in 4. a car. 8 1. ; Quella let- fi defti
defiderio di qualche bel tera, dico, vogliamo qui rife- la poefìat al che
doveri fifpiCÙe; cd £ quella.. ( [ gntrvi la rimembranti, che ogni
trat Digitized by Google ti L A Vita
S’era già ammogliato il noitro Tassino a Giovanna Tiene, nobile
Vicentina, da cui avea avuti due figliuoli, l’uno chiamato Francefco, che
morì giovane, e l'altro Giulio (25), il quale fu poi Arciprete
della Chiefa Cattedrale di Vicenza (26)$ ed eflfendo effa morta, di tanto
egli fi ram tratto il luogo vi darà del dot tijfimo Trisjino;
in cui a giudicio mio chiiirijftmo efempio ha veduto Reta noftra
delle tre più pregiate lingue, cc» Di Venetia olii xx. dì
Maggio MDLV, Compari e fratello Paolo Mariano . Ciò» clic
della Villa (addetta di Cricoli lafciò fcritto il Sabellico nel Poemetto
intitolato Crater yiccntinus, porto nel tomo iv. delle fue Opere, a
car.550. ( nominato dal P. Rugcri nella ìua Declamazione a car.
xxv.) fu molto prima che ella fofsc ridotta alla perfezione, c vaghezza,
che oggi fi vede; la qual cofa fu osservata eziandio dal Beni nel luogo
citato. Nel Palazzo iftcfso di Cricoli ebbe diletto di
foggiornare parecchie volte 1 ’ Arcivcfcovo di Rofsano Monti?, nor
Giovambatirta Cartagna » nobile Romano, Genovefc di origine, nel tempo,
che era Nunzio di Gregorio .irti, in Venezia; come dicono il P. Rugeri
Trutina&c. pag. xxv., c Paolo Beni Tratt. dell' Orig. della
Famigl. Trift. rtampato, a car. jj., e’lTom-{ I mafini
Elogia &c. pag. 49. e 50., ed altri; U qual Prelato fu poi
[addi li. del Dicembre dell’anno 1583. creato Cardinale, e poi a’
15. di Settembre 1590. fatto Papa col nome di Urbano vii. |
Onde in memoria di ciò fu la I cornice d’una porta d’una Ca| mera del
mcdeìimo Palagio vi tu incifaquertaifcrizionc; B E at issi m 1 Urbani
VII. Hospitium ; e fovrappoftovi il Bufto dello ftefso Pontefice.
(14) Nel Ri/fretto della Vita dei T r 1 s s 1 n o prcmcfso alle fue Opere
dell^ rirtampa di Verona, quella fua prima moglie è chiamata
erroneamente Giovanna T r 1 ss 1 n a, quando ella fu veramente
(come conila dagli Arbori) della Famiglia de k Cor Co: Tiene.
Di quello Giulio avremo occaGonc di fare pcculiar menzione, a cagione de’
fuoi lunghi litigj contro al Padre. (26) Che due figliuoli
avefsc il Tr issino della detta fua moglie» lo dice ilTommafini
negli Elogi pag. 30., cd altri; ma il Tr issino irtclfo nella citata
lettera al Reve Digitized by Google del TR-Issino.
13 rammaricò, che non volle più dimorare nella Patria 5 ma
partitofcne tornò a Roma, dove già era ftato effe ndo giovane; e quivi
col cuore ingombrato da quello fanello penliero fi diede a telfere
la celebre -Tragedia della Sofonisba, della quale innanzi parleremo
minutamente. Frattanto eflendo morto il Pontefice Giulio 11 .
gli fuccedette Tanno a dì xi. di
Marzo, o fecondo altri addì xv., il gran Cardinale Giovanni de’
Medici» che fi fece chiamare Leone X., il quale, ficcome quegli che era principal
protettore de’ Letterati, avendo conofciuto il Tris sino, s'innamorò
ardentemente del fuo raro ingegno, e poi lo amò fempre quanto ciafcuno
illuftrc Perfonaggio del fuo tempo, c l’onorò fommamente, impiegandolo eziandio
in varj uffizj affai riguardevoli. Godea egli pertanto in quella
Corte tutti gli agi, e gli onori tutti, che a un Perfonaggio diletto al
Pontefice fi convenivano; quando venutogli nella mente il già goduto rìpofo
nella fua Villa di Cricoli, deliberò di Reverendo
Prete Francefco di j ra poi del medefimo, che non Gragnuola, che fu fuo
macftro, c fra le (lampare, fcritta da Aiudandogli ragguaglio delle cofe '
ratto al detto Giulio addì iS. della fua cafa, d’altri non par- M*rz,o
1542., fi ha, che elio la, fuorché dell’ Arciprete con Giulio fu
primamente Cameriere quelle parole: Hebbì della yri- di Papa Clemente
vii. > c clic ma moglie un figliuolo, il qua- da lui fu poi fatto
Arciprete del. le è fatto-, ed è Arciprete di la Cattcdtale della Cittì
noquefia Città. Da un’altra lette- j ftra di rimpatriarli : laonde prefo
commiato dal Pa» pa, tornò a Venezia, dove fuori di rutto il fuo
penfamento trovò materia, per la quale e’ dovette per lungo fpazio di tempo
anzi inquieta, che ripofata menar fua vita. Ciò fu una per
altro temeraria infolenza di alcune Comunità di certe Ville del
Territoria Vicentino, fpecialmcnte di Recoaro, e di Val d Agno, che
prefa l’occafione delle turbolenze e rivoluzioni, che travagliavano in
que'tempi non pure la noftra Patria, ma tutta la Lombardia,
aveano fupplicata la Sereniffima Signoria
di Venezia fotto palliato colore di oneftà, che volefle (gravarle dellobbligo,
che aveano di dare le Decime delle loro ricolte a'CorC.o: Triffmi della
linea del noftro Giovangior.gi.o, i quali n erano i foli Proprietarj e
Padroni, come quelli, che dalla Signoria ilefsa ne erano (lati invertiti a di 3. di Settembre. E benché addì 6 .
di Ottobre dell'anno 1512. le dette Comunità avefsero avuta fopra ciò contraria
fentenza in foro civile, non però di me* no tentarono, fe favorevole
giudicio ottener po tefsero io foro ecclefiallico: e perchè ne
furono molto Della Repubblica di Venezia fi gloria d’ cfscrc
volontaria prima fuddita la Città di Vicenza -, la quale anche però
è chiamata dagli Scrittoci Primogenita d’cfs a Repubblica, perche
la Piuma fu, che fra tutte le Città fudditc le fi donifse fpontancamcnte:
il clic fu molto torto impediti (28), però efli per forza dal fuddetto
obbligo fi efentarono. Ma in quello mezzo per giurto motivo quefte Decime applicate
furono al Fifco Pubblico. Tornato adunque Giovanciorcio in Patria,
come dicemmo (il che fu o verfo la fine dell’anno 1514., o nel principio
deiranno) e trovati sì fatti difordini, de’ quali dicea egli di non
averne avuta, dimorante in Roma, veruna relazione (so)-, pensò di
ricorrere alla Signoria medefima, perchè almeno gli fofle redimita del"
le fuddette Decime la fua propria porzione- Se poi egli efFettuaffe
perfonalmente quello fuo penfamento, o fe altri in fuo nome facefse la fupplica,
noi noi fappiamo di certo: comunque ciò fofse, fatto ila, che cfsendo
Hata conofciuta la fua innocenza, e a riguardo fpecialmente di Papa Leone,
il quale la iatercertìon fua in ciò frapOttennero i Co; Co;Trifflniaddi
ia.di Novembre Lettere Ducali proibitive del non doverli trattare in foro
ecdefiaBico quella lite. Tommafini negli Elegi pag. 51. dice, clic
furono confricati i fuoi Beni ita urgente belli fortuna : c poco appreffo
parlando della refiituzionel fattagli de’ Beni Beffi dai Vene-!
ziani, accenna la cagione d’cf-| fa confifcazione, dicendo: fai,
cognita ifjìut innteentìa, Veneti Bona ab / enti jujìa
confanguintorum culpa ob defetHoncm erepra, benigni reflituerunt . Noi
veramente fappiamo qual folle cotal colpa} maonefii rifpetti, e necefsarj
giuBi motivi non ci permettono di riferirla. Tanto egli afferma nella
fua siringa-, di cui diremo più datatamente a fuo luogo.
Irappofe, gli fu Tanno fuddetto 1515. reflituita ogni cofa.
In quello tempo medefimo fu egli dallo fteffo Pontefice in aliai
importanti affari impiegato; e primieramente finché folfe palfato il
verno di quell’anno, (dopo cui gli ordinò medefimamente, che, prendendo
la volta di Dacia, fe n* andafsc Nuncio a quel Re), lo mandò fuo
Ambafciadore all’ Imperator Maffimiliano ; nel quale impiegò fi portò con
tale prudenza, che e da ognuno in molta llima tenuto fu, e all*
Imperatore caro sì, che ne riportò grandilfimi onori (35): anzi è fama,
che da lui conceduto gli fofse, che nell’Arme gentilizia Tlmprefa
del Fello d'oro inferir potefìc, e che altresì Tri ss ino •
dal •( 31 ) Che Papa Leone frappont(Tc in quello fatto la Tua intercezione,
non folamente lo dice Monfignor TommaGni negli Elogi, pag. 51., ove
regiftra un frammento di una fua lettera al Conte di Cantati, con
cui gli raccomandava quefto affare; ma lo accenna Giovangior.
Gto fieffo nella già citata fua lettera al Revtr. Prete di Gragnuola con
quefte parole: Io fono flato per varj cafl: prima per qitcfle guerre
fletti ot Panni exule, e privato di tutte le tuie facult à, che per la
benignità de la felice ricsr dazione di P.P.... (il nome non è
quivi cfprelfo, ma fu Leone) mi fu reflituito ogni cofa, nel
tempo, che if ero Legato di Sua Beatitudine a Maxìmiliano
Imperatore ; e nella fua Aringa dice, che ciò fu de l' anno 15 1 5., che
erano tre anni a ponto dopo che li Communi aveano occupate le
Decime. La Dacia, dove il Trissino dovea andare, quella non è, che
anticamente era unagrandiflìma e vada Provincia dell’ Europa, c che
oggidì c laTranfil vania; ma quella, che oggi sì appella Dania, o
Danimarca, la quale giace a fetrenttionc dell, a Germania.
(33) Tanto afferma egli (Icffo nella Dedicatoria del fuo Poema dell’
Italia Liberata eia'Goti.] dal vello d,' oro potefse denominarli .. Ma perchè
alcuni dicono eSsergli flato conceduto ciò anche da Carlo V.» pero ci
riferbiamo a parlarne altrove a minuto. Di tutto ciò, che Giovan
Giorgio operava nel tempo di detta legazione, avvisò il Pontefice
-con una lettera inclufa in un’altra diretta a Giovanni Rucellai, Tuo grande
amico, e confidente, il quale poi addi 8. di Novembre del Suddetto
anno 15-15^ gli riSpoSe da Viterbo, che avea congegnata al Papa la fila
lettera; che elfo l'avea ■letta molto 'volentieri,5 e che non pur dai
motti e gefti fatti nel leggerla conofciuto avea effergli -molto
piaciuta, ma più affai da quelle fue prexile parole: egli hi fino a qui
proceduto bene y et non poteva meglio
exequire li mia volontà dì quello Jl * Soggiungendo appreffo aver
dal medelìmo commiffione di Scrivergli, che feguitaffe P ure, come avea
fatto, a conferir col Vefcovo FeU trenje gli affari che maneggiava;
Siccome il Papa fleffo gliel’ ordina-va col Brieve, che gli trasmetteva
in un con quella Sua lettera di rifpofta (34)* Dalla qual lettera appare
ancora avere avuto il Trissino ordine dal Pontefice di trattare la pace
universale, e l’impreSa contra degl* Infedeli; poiché il Rucellai gli
Scrive così: Per C li pie e Quella lettera del Ruceliai fu
ftampata a car. xv. del la citata Prefazione alle Opere del
Trissino. U pace univerfale, e l* impre fa c intra Infedeli vi ha•ucte a
d «per are totis v/ribut, perché Sua Santi ita t ba mi In 4 cuore, come
fapete, e crediate certo, che ne/funa altra caufa particolare non lo
muove, fi non la unione della Crifianitì 3 £ t/uefta fan ti firn a ImpreC*>
benché fi, che vi ricordate la COMMISSIONE fua y e con che affezione vi
PARLÒ di t/ue/la cofa (35). Ettèndo già intanto pattato il verno
del predetto anno 1 5 1 5» volea Giovamgiorgio proferire il Tuo viaggio verfo
la Dacia, giufta la committionc dei Pontefice; ma ne -fu impedito
dalflmperadore, il quale volle, che invece al Papa ritornatte, come Tuo
proprio ambafeiatore, e lo pregafle in Tuo nome, che volette
fermare una nuova lega tra sè, el Re d’Inghilterra, e’1 Re di
Spagna contro a'Franzefi, i quali dittimulando la brama di vendicarli, voleano
pattare in Italia; giacche la confederazione altra volta conchiufa tra
sè, e’1 Re cT Aragona, s*cra fciolta per la morte di quello Re;
mandandogli anche per Giovan gidroio medefimo una ben lunga
Jette- Rucellai finifee detta j de’ Medici, cugino di Papa Leolcttcra
con quefte patolc: Credo ine; il quale poi anch’egli fu haremo pre/t 0 il
Cardinal de' Medi- '.(aito Pontefice col nome di Cleri, il quale è tanto vo/fro,
quanto | mente VII.; abbiamo però rifedir fi pojfa,pcr qualche lettera,rér|rite
le parole fuddette del Ruha /cripto qui, dimojìra, che molto celiai, perchè
avremo occaftonc v ama perchè ha fallo fempre ho- ', di dire gli onori da
quello Papa rtorevtle menzione di voi. I fatti al Tr issi no nel
tempo Quello Cardinale era Giulio | del fuo Pontificato. .
lettera, pregandolo primamente, che Lui fcuCaffe, fé invece d’andare in Dacia,
come era Tua mente, alla Santità £ua ritornava* perchè ne 1* avea
egli coftretto; lignificandogli pofeia il pericolo imminente, e la necefiìtà
dell’affare G z RiceContenendo quella lettera dell’ Imperatore al
Papa alcune curiofe particolarità, fpczialmente intorno al
noftro Tr issi n Oj abbiamo (limato bene di qui traferivcrne
buona parte; tralafciando di dire ciò, Che punto o poco fa al
noftro propofito. La qual Lettera ci fu comunicata dal Sign. Apoftolo
Zeno, di Tempre cara memoria. >, Maximiliamus Di vi« na favente
Clementi^ Roma. „ norum Imperator S. A. &c >, Io. G e o r g 1 u
s de T m s„ sino San&itatis fu. e apud,» Nos Nuncius, Se Orator . »,
&c. ... In primis idem Ora-,, tor cxhibitis Litcris noftris >,
credentialibus Beat. Pònti fi-,» ci, cum omni filiali reveren-,, tia. et obfcquiolàlutabitSan-,,
Sitarmi fuam, Se commcn», dabit Nos, Screnifs. Carolum Regem Hifpaniarum,
Se „ alios Filios noiiros ad Suam,, Beatitudinem. Deinde deda* „ rabit banditati Sua:,
quod „ licet idem Orator ftatuiffet » iter fuum continuare
juxta », mandata Beat. Ponti ficis ad „ Screnifs. Regem Dacia:, fra„
trem, Se gcncrum Noftrum,, cariftimum nihilominus Nos confidcrantes longè
plus ex-,, pedirc rebus Sux Sancfcitatis Se fuis, ac univerfx Reipub.
„
Chriftiana* redirc propter oc„ currenda* ad S. San&itatem,,, quàm profequi
iter emptum, „ ob fingularem obfervantiam, „ Se affeàum,
quem No* habe„ mus ad San&ic. Pontificis, „ Se )us, quod
prxfumimus in omnibus miniftris, Se fervitoribus S.
Beatitudinis, ipfum Oratorem cùm venia noftra defeendentem ab
itinere „ retraximus, et ad S. E. redi» re computi mus, quo
clarius». „ Se apertius rerum omnium,, Sancitati Sux per Creaturam
„ fuam tàm Ei affe&am deda» „ ramus. Ideo Bcatitudo Ponti„ ficis hxc
sequo animo accipiat, „ Se fi in errore erracunv fit, quod
tamcnnonciedimus, id „ Nobis imputet. Caufaautcm hujufmodieft
„ quod cum jam Ser. Rex An„ glia: fratcr nofter cariffimus „ per Litcras,
Se Oratorem fuum: „ apud Nos degentem, Se Or a„ torem Noftrum apud Se ref„
fidentem dcclaraverit Beat. „ Pontificis, cognito periculo,,, quod imminer, nedum Ita-,, lise,
fed univerfx. Reipublicf m> ChriRicevette volentieri il Papa quefte
(cute, e accolfe il noftro T rissino colla folita benignità» e (
omettendo di riferire ciò, che Tulle richiefte dell’ Imperatore egli riiòivefse,
come cofa poco Cbriftian ex magnitudine, Se infoientia
Gallorum forc », optimè contentimi, et idem „ maxime defiderare,
quod,» iidem Galli hunjilientur, Se n rebus fuis contcntcntur : qux
„ quidem fentcntia Sandlitatis », Su*,cùm Nobis fempernedum „ opti
ma, fed valdè neceflaria „ vifa eli, ex periculo, quod „ omnibus
imminet, Se prxfertim Beau Pontificis, et fu* „ Patri*, Se Familix, cùm
il-,, lud antiquum odium, quem Galli babucrunt ad Eum, quùm fecerint
ipfum extorrem, et per xviil. annos.cr», rare à Patria, cùm maxime, calamitates
compulcrint, nullatenus remiferint, td omni„. nò auxerint, licei imprxfen„
tiarurn negant, et compri„ mane, cxpedtantes tempus. vindidlx: Itaque
cogiraverit, SandlirasSua comprimere eos, Se ad illum terminum redigere,
quod non liceat plus eis „ inSandlitat.Suam,quàmfiui-| » timos
fuos, Se quam juftum fit . | >, Et cùm Nos, et Scr. Rex j n
Angli*, et Ci. mcm. olimj n Rex Arngonumid apertd pcr-l «
fpiceremus, fapienter cogita- j „ vimus de una confxderatio- ' »,
ne ad inumani defenfionem ! », ad inviccm, Se etiam offèa-J,3 fionem
cantra eofdem Gallos, etiam crat Lex imer Nos, Se », ipfos conclufa : fed
morte,3 ipfius clar. mera. Regis Ara„ gonum dilata. Se interrupta I,» eft
•, fed tamen cùm ex hoc „ pcticulum > ncc fublatum,3 ncc diminutura
immò nia„ ximcaudtum fit, vidccurNo„ bis omnino in eadem dclibc„ tatione
perfiftendum, Se rogamus Beat. Pontificis ut, confiderata nccdlitate
hujus> 3, rei, vclit fpfà quidem intra. 3, re foedus hoc,. Se
tranfmitte3, re mandatum fuum apud Scr. Regfm Angli* » ut ibidem ».
contradletur» Se conciudatuu » Efficiamus autem, quod in. „ locum
Clar. mcm. Regjs dc-,» fundìi fuccedar Se r. Carolus,, Rex Hifpaniarum, Se
qui „ quidem in ca te proficerc poterir, idem Orator admo„ ncbit
Nos. Agct autem di-,» dus Orator, tee. „ Dar. iu Civitare
noftr* „ Tridentina die odiava,, Menfis Marti] MDXVI. „ Regni
noflri Romani „ triccfimo ptimex.,, Locus 4 . Sigilli . Ad Mandatum
Ccfa„ re* Majcflatis prò. „ prium ]o. de B&», KL'ljjS- i n O.
12 poco alla preferite materia confacente) pensò indi a poco tempo di
occuparlo in altri impieghi • In fatti l’anno ftefso, che fu il lo
inviò fuo Nunzio alla Repubblica di Venezia per maneggiar
forfè 1 affare della Crociata contro a Selim Gran-Signor de Turchi, la
quale gli flava molto in fui cuore. Nel tempo di quella lua
ambafeeria trovò il Tr issino? che le Comunità, di cui s’è fatta menzione,
pagata aveano 3I Fifco Pubblico la rendita della fua porzione delle
Decime fopraddette; negando in oltre coftoro di riconofccrne lui per Signore:
laonde egli ebbe novamente ricorfo alla Signoria di Venezia, la quale fubito
con fue lettere in data de’xvu f. Dicembre 15 itf. commife ai Rettori di
Vicenza ( che in quel tempo erano Ermolao Donato, Podeftà, e Girolamo Pefaro
> Capitano') che nel pofsefso dello Decime flefse lo
riponefsero, come lo era innanzi la pafsata guerra (39). Dalle quali
lettere ebbe poi co mincia Lo dice il Tri ss imo Hello nella
Tua Aringa, d meglio nella lettera al Prete di Cragmtol a con quelle
parole : Sua Beatitudine mi mandò .... Legato a Venezia, ovt fui
molto ben veduto da quella Jlluflr : f. Signoria . Al Papa
quello affare premeva si, che perciò maneg-j giòj c tlabilì una
lega tra mol- j | ti Principi Crifliani ; ma por per la morte di
Maffimiliano li difciolfc, e di sì alta e pia impresi fvant 1’ effetto
defidera* to. MTr issino in propofito di ciò nella fua
Aringa dice cosi : Per effer abfente la mia facoltà fu tolta nel
Fifcho ; et detti Comuni però, quantunque ritmtjfero tutte le farti
di que fic D. 2.J tro Bembo, fuo Segretario, la
quale opportuno crediamo di qui trafcrivere. JO: O.
y I C 1 H X I 11 o.,, Cationi am opera, et diligentia tua, atquc „
virtute certis in meis, et Reip. rebus uri quam„ plurimum volo, quarum rerum
caufa, te ut » alloquar, magnoperè oportet: mando tibi, ut quod tuo
comodo fiet, Leonardo Lauredano „ Principe Venetiarum falutato, ad
me confe„ ftim revertare.,, Dat. Non. Januarii M. D. XVII. Anno „ quarto.
Roma. Andovvi egli prettamente, niente penfando, che perciò
iettar dovette in pendente l’efito della Tua lite. Non lappiamo precifamente a
che il Papa lo aveffe richiamato a Roma: del retto non molto egli
quivi dimorò, perciocché nello ftef-' io anno 1517. ritornò a Venezia-, e
fé fi vuol dar fede a Paolo Beni, xitornovvi anche a quella volta come
Nuncio Apoftolico per trattare di ftabilire una lega contra 1 Imperio de’
Turchi (41) . Vero è tuttavia', che il Papa in tale • ; occafio
(40) Quella lettera fi legge ' Simonìe Vinctntii fin fine ) Dùncl libro
intitolato : Ferri Bembi, niftus ab Harfioexrndebat Lugdu • EfiftoUrnm
Ltonis Decimi Ton- j ni. ! r I 11 . in 8 ed è tif. Max. nomine fcriptarum
Li- ! la 35. del lib. xlll. pag. bri xvi. Ledimi apud Hercdts \ Paolo
Beni nel T ratent. L a Vita occafione inviò per lofteflò Tr issino
una lettera al Doge Leonardo Loredano, dalla quale appare, che egli avea
a trattare col Doge a nome della -Santità Sua cofe di fomma importanza:
la qual lettera non vogliamo lafciare parimente di qui traferivere, ed è
la feguente (42). Leonardo lauredano Principi
Venetiarum.,, IP Roficifcenti Venetias Jo:Georgio TrissinoVì* 5, centino;
quem quidem propter bonarum artium „ do&rinam, et politiores literas,
excellentem>, que virtutem unicè diligo; mandavi, ut tibi „ falutem
nuntiaret mcis verbis; tecumque certis de rebus ageret, quae cùm mihi cordi
flint, „ tùm noftra utriufque intereft ea confieri : tibi „ vero
edam hone fiati, atquegloriae funt futura„ Dat. prid. Non. Septemb. Anno quarto
. jj Ronitif Non oftante che in tanti e si diverfi
negozj notò del titolo di Legato ApoA (4») Quella lettera fi
legge Jlolico inviandolo a Adajpmilia-ìahicsì nel citato libro delle Lctno
Cefare. Ritiratofi alla Pa- 1 tere fcrittc a nome di PapaLiotria, fa di nuovo
chiamato a &>-I nc dal Bembo, lib. XI II. ma nel principio dell'
anno IJ17. ; 16. pag. jiy. Ciovangiorgio occupato forte, avea
condotta* a fine la fbprammentovata Tua Tragedia della Sofonìsbti y cui (
dopo eflere flato lungamente in forfè y come dice egli fteflo nella
Dedicatoria) indirizzò al luddetto Pontefice con lettera, che in poi
flampata colla ftefla Tragedia l'anno 152^ in Roma. Leone gradì
fommamente qucfto componimento r e ficcomc egli era giudiciofiflìmo e.
fapientiflìmo letterato, ne fece tanta. Rima, che volle forte con reale
magnificenza, e con tutto lo sfoggio degno di se rapprefentata (43
K Non può negarli, che il Tr issi no non abbia comporta quella Tragedia
con tutto lo sforzo dell’ingegno fuo; perchè quanto al Suggctto, fcelto avendo
l’ avvenimento funefto di Sofonisba Regina di Cartagine r fi fece
conokcrc giudiciofo sì, che per teftimonianza di Nic D colò
Di ciò veramente altra !»» mationibus adjudicarus fuit.ficura pruova
addurre non pof- j Benché dalle infraferitre pacamo, fuor folamente la fama
role, che Giovanni Rucellai agc la tradizione, che fe ne hn; | giunfc in fine
della fopraccitata e in oltre l’ aurorità ( fe pur va- j fua lettera al
Trmsino fognale) dclTommafini, il quale ne. | ta addi 8. Novembre 1515.
di gli Elogi, pag. 50., cosi lafci b- yiterbo, fi potrebbe ancora conferino
: » Summa duksdine, I ghietturar quello fatto. Abbiate „ Se majeftatis
pondero calami - 1 a mente ( dice egli ) Sophonitb. 1 „ rofum Sophonisbi
Regine voflra, che forfè Phalijco fari evtntum drnmatc exprcfiit .'ratto
fuo in qutfla venuta del „ Quod cùtn Leone X- li cera.- j Papa a Fiorenza
.,, rum Moecenatc benignifiìmo I
Difcorfi intorno alla „ in Scenam magno apparata T rag* dì a . /n
P’icenz.a, appreffo „ eficc projuitum, primus illc Giorgio Greco. in 8 .
c. 14» „ Italia: puòiicis lauree accia, [a tergo che (non oftante che ad
alcuni quefto componimento non -fia perfettamente piaciuto, come vedremo)
elfo fu ftimatiflìmo, e non fidamente vivente il fuo Autore, ma appreffo
fua morte, e d’ogni tempo r e i noftri Accademici Olimpici elfo feelfero
a rapprefentare l’anno 1562. nella Sala del Palazzo della Ragione in
occafione di provare il modello del famofo Teatro Olimpico di Andrea
Palladio ( 45 ); e ciò fecero con sì ricca magnificenza, che, fecondo che
dice Jacopo Marzari 1, vi ccncorft
quafi tutta la Nobil m (45) Il Sig. Marchefe Maffci',»
rem Siphaci». filiam Afdrunei preambolo a quella Trage-j„ bali», captam Satina
adamadia riftampnea uri primo tomo „ vie, et nuptiis fa&is nxorerrt
del Tuo T entro Italiano, che d-|„ babuit ; caftigatufque a Scr1 tremo a fuo
luogo, dice intorno J „ pione » venenum tranfmific* al Soggetto di dia,
che chi leg- „ quo quidem baufto illa degerà il trtnttjìmo libro di T . Li- [,,
ceflir . vio, ravviferà y come ninna fe\ ( 46 ) Di quella notizia ci conn'
è fatta mai, che fervafft fi* ( fediamo unicamente debitori al fide all'
iftoria, e che jì nel S ig. Abate D. Bartolommeo Zitnttoy come nelle farti fi*
infi- grotti, femprc intento a cercali fiejfe in effa : aggiugnendo, che
nuove cofc, onde ampliare la le fcgucnci foche farole dell ’ . fua bell’
Opera delle Memorie antico Efitomatore fremevo ne, del detto
Teatro. ffiegano i' argomento a ba]l alila : ( 47 ) Jft orla di Pie enza
CC. u Macinili.» Sophooiibam, uxo- | In Piceni,* > affreffo
Giorgio Qn Nobiltà dell* Lombardia, e delU Marca Trevigiana .
E da Manofcritti dell’Accademia Olimpica fi viene anche in
chiaro, non (blamente effere fiata ella Tragedia l’anno fuddetto 15 61.
magnificamente rapprefentata» ma tale e tanta efsere fiata la ma.
gnificema, che alcuni Accademici penfarono non doverfi mai più fare tali
fontuofe rapprcfentazioni, temendo, che l’Accademia non foffe per riportarne
mai più lode e ftima si univerfale. Ma gli altri più giudiciofi Accademici a
sì fatto penfamento non aflfendrono; laonde meglio penfata quefta
faccenda, e gravemente ponderata, tutti in fine conchiufero, (e ciò fu
l’anno I57P-) che moderata in buona parte la fpefa, fi dovettero
pure dall’Accademia fare tali pubbliche i-apprefentanze . E’n fatti a’X.
d'Agofto dello fletto anno fu ordinato, doverfi fare feelta d* Lina
Favola PajìoraU da recitarli pubblicamente nel Carnovale dell'anno
appretto 1580. (48): benché per altro fotte differito il recitarla ad
altro tempo. Di Ma ri Greco, 1604. in 8. lib. 1. a
ferratori delle Leggi, Contradi Cai. 160. c 161. 'centi. A: adertici, et Secretar
j Per ripruova di ciò G deli' Ac adorni* delti Olimpici, vuol
qui traferivere intero in- \& delle Parti prefe nel Configli» tero
l’atto deli’ Accademia, che di ejfa Academia. Qual inco fi legge \m un Litro
manoferit-, mincia . Anta pteJTo di me, Legnato » c no terno della fejfa
Olimpiade intitolato; Libro delle Crtatio- 'fino 7. Aprile 1581. L’Atto
è r-tdc Prencipi,Confalicri t Con- \ quello . j> Adi X. Agofto 1 5 79.
In Cou Ma ripigliando il lafciato filo, eflendo morto
l'anno 152,1. addì 2. di Dicembre il lodato Pontefice Leone X.., il quale? come
s'è veduto, Sommamente amo il Tris si no, e ne fece moltiffima ftima (
anzi fu detto per alcuni, come riferisce, Coniglio, dove inrervencro » il
Sign. Prencipe, Conlìglic•99 ri doi, cioè il Sign Hicroni>, mo Schio
follituto per il Sign.,, Marco Brogia, et ilSign. Fau>9 fio Macchiavelli, il
Teforic9, ro contraddente foflituco, il „ Cavalicr CriHoforo
Barbaran per nome del Co. Leonardo M Tiene, et il Sign. Antonio Ca„
mozza confervator delle Lcggì foftituito per il Sign. Antpnio Maria Angiolcllo,
con,, aie Secretano; in tutti al numero di 14.,, Par che, la rapprefentazio-,,
ne della Sofonisba Tragedia .*, dell’ Eccellerli ifT. Sign. Ciò:,9
Giorgio Trjssino già no-,, flro Patricio. „ pel Palazzo publico per la
rip„ feita Tua non purcon fodisfa„ tione, ma con meraviglia di 9, chi ne
furono fpettatori, hab.9, bia caufato fin fiora in quell’ Accademia un
quali continuo 9, filentio a fpcitacoli publici, „ come che
potendoli diflficilmente fperare più da lei im„ prete tanto illuBri,fofire
meglio 9, per non declinare non rcetterfi » più a veruna anione
tale peri’ avvenire . Ma certamente cf 99 fendo l’Acadcmia noflra
fon9, data fopra i continui cfercizf,9 virtuofi, &c dalFclperienza di,9
molti anni, elfendo già co-,, nofeiuta tale, che può fpcra9, re fempre d’
operare fe non,9 cqfc uguali 9 almeno degne di 99 fe mede lima, et della
Patria j 99 non deve da quello .troppo,9 fevero rifpctto lafciarfi impe99
dir quel sì lodevol corto, a 99 cui dal genio > dallo (limolo 9,
virtuofo, dal debito della pro-,t feflìone, dal defiderio, et dall’ «
afpettatione altrui lì fenteee„ citata. Laonde andari Parte* „ che quello
proffitnocarnafciale venturo lia recitata publi„ camente a Cafa dell’ Acadc9,
mia con quella minor fpefa,,9 clic fia poflìbilc, atccfa Isde9, gnità, una
Favola Ptjlor ale, „ come cofa nuova et non più „ fatta fin’ ora da
quell’ Acad. „ quelii cioè 9 che farà eletta „ dal Sign. Prencipe
nolìro, et da „ 4. Acadcmici, che per quello „ CanGglio faranno a
tal cari-,9 co deputati, i quali habbiano „ ancoinfieme cura d’informar»
lì da perfone perite della fpefa, 9, che vi potrà andare, acciochè,, fi
porta f.\r la provi (ione dei den». ferifce Ciò vanni Imperiali (4 9
), che efso volea conferirgli il -Cardinalato-» ma che da lui fu ricufato
per poter nuovamente prender moglie ) a cui fuccedette Adriano VI. ; il
noftro G10•vangiorgjo fece da Roma a Vicenza ritorno • Quivi attendendo à’fuoi
ftudj, e fpecialmentc alla Poefia, compofe tra le altre cofe una Canzone
in loda d’ Ifabella Marchefa di Mantova, a cui mandolla, ed ella poi ne
lo -a» denaro io tempo, et dar prin” cjpio ad imprcfa cosi
hono-,, rata, rifervata poi la elettio•'»» nc di Accademici, coni’
», è detto di /òpra, la qual paf» sò di tutti i voti. »> l'or
ballottati i fottoferitti. »> 11 Sign. Paulo-Cihiapino .
• -• • • « . . prò 1 1. 3. »9 -II Sign. Criftofano
Darbaran .Cavai ier .... prò p. 4. »» 11 Co. Leonardo Thiene
. prò 8. 5. » Il Sign. Hicronimo Schio prò io.
3. -9, Il Sign. Antonio Maria 9» Angiolello . . prò ri.
1. »» 11 Sign. Alfonfo Ragona * • • ..... j>ro 16. Rimate il Sign.
Paulo Chi*», pino, il Cavalier Barbarano, „ il Sign. Hieronimo Schio, et „ il Sign. Antonio Maria An-,, giolcUo » come
fuperiori di,, voti. Mufeum Hifloricum 8cc. pag. 43.,, Munito
libi ad Leo„ nis X. gratiamaditu, infplcn„ didiflìmo Mularum et virtù»,, tum
atrio fic vixit, ut Non„ nulli delatum fibi purpurar ho„ norem prolis gratia
rejc&utn,, ab ipfo prodiderint. Da alcune Lettere man uteri
t« te del Tris si no appare veramente, avergli voluto il Papa varie
ecclefiadiche Dignità conferire, che ivi non fi fpecificano, e che tutte da lui
furono ricuf.ite. (jo ) Quella Principefla fu figliuola d’
Eccole I. Duca di Ferrara, cd è quella ideila, cui tanto efalta il nodro
Autore nc’ Ritratti - lo ringraziò con Tua lettera in data di
Mantova del dì ics.; e l'anno appreso 1522. addì 1 9. di Luglio gli
fcriflc pur da Mantova un* altra Lettera (52), pregandolo, che
volefle a fuo agio colà andare dov ella era, perchè diGderava fornai
amente di vederlo non tanto per godere e gufi gre U amenità dell’
ingegni, e dottrina fu* y ma perchè volea, che nelle fcienze e
nelle lettere ammaetìxafle Ercole fuo figliuolo» da che fegno dava di buona
docilità, e di buon ingegno, e d’eflere allo Audio letterario
mirabilmente inclinato i pregandolo in fine, che pel mcfso a polla
mandatogli volefse farla avviata del tempo della fua andata, acciocché lo
poteJGfe afpettare; noi per altro non abbiamo ficura contezza, s’egii
v’andafse. Sappiamo bensì» che l’anno apprefso 1523. addì 20. di Maggio efsendo
flato eletto a Doge di Venezia Andrea Grilli, di glori ofiflìma memoria
(53)» ( 5 1 ) Quella Lettera c Rampata San Francefco della Vigna
di nella citata Prefazione alle Opere, Venezia entro un fuperbo depodcl
noftro Autore a car.xvm. fito, fopra cui fu fcolpitoquc( ji) Anche quella
Lettera Ito .Epitafio: • Ha nella fuddetta Prefazione, a Andre*
dritto, Duci Opti car. in. | mo, et Reipub. Amantijfimo, pa ( 53 ) Non
folanicnve nelle (ij terra, mari^hepart* A*&*ftorie di Venezia, ma in altre
ri, ac Veneti terejìris imperli ancora fi poflono leggere le ge- Vindici,
et Conferva! ori, Hafte di sì invitto e gloriofo Pria- rcdtt pientiffmi . Vixit
A», cipe, che mori dcì 1538. in eràLXxxui. Mtnf. vili. Dici xt, di
anni 83., e fu feppcllito in; Lecejpt V Cai.
3 r ed efscndo cortume di que* tempi, che le Città fuddite
mandafsero Oratori a congratularli col Principe eletto, fu dalla noftra
Patria a tale uffizio feelto il T rissino, unitamente con due altri
ragguardevoli Cittadini (54^ il quale avendo comporta perciò una elegante
Orazione jn lingua Italiana, in pien Collegio allo ftefso Doge la
recitò \ della quale orazione, che fi leg* ge tra quelte raccolte dal
Sanfovino (55}, e che fu anche più volte rift. rapata, favelleremo
afuo luogo. Nell'anno medefimo 1523. a dì 19. di Novembre
efscndo flato afsunto al Pontificato il Cardinale Giulio de’ Medici, col
nome di Clemente VII., il quale (come già fi è detto) amava grandemente il
noftro Trissinov quertri una lettera gli fcrifse di congratulazione (e
forfè allora medefimo gl'inviò la Canzone (56), che fece in fua lode )
facendogliela confegnare in proprie mani pel Cardinale Giovanni Salviati,
fuo ( J 4 ) Quefti furono Aurelio dai!’ Acqua, e Piero
Valmarana amendue gentiluomini Vienici- j ni. Oraziani
di Divtrfi Huotnini Jlluftri raccolte da Franctfca Sanfovino, in
Penezia per AltobeUa S alleato . . in 4. Pait. 1. a car. 1 jy. !
Qucfta C tenzone ( che fu j {Unipara da prima in Penezja j
per T olomeo Janicolo da Bref~ fa, in 4., fenz’anno; c poi itRampata
più volte come in fi. ne fi dirà) comincia cosi. SIGNOR, che
fofii eternamente elette Nel Conjìglio Divi n per il
governa De la fua fianca e travasata nave ; Or thè
novellamente ec. fuo amici filmo, a cui mandolla con altra
Tua letrcra. Aggradì Clemente la officiofità di Giova n giorni o sì
fattamente, che, dopo aver letta con molta giocondità d’animo la pillola di
lui ordinò- allo ftefso Cardinale, che gli fpedifsc tolto un fuo
Breve, col quale lo chiamava a Roma ( 57) Tenendo egli lo invito del Papa
r fi partì lubito, di confenfo eziandio della Signoria. Affinchè
meglio appa-j ja la verità' di quante s’è ora detto, vogliamo qui
traferi vere la Lettera del fuddetto Cardinale ferina al Trksino,
entro cui tirandogli il Brtve del. Pontefice } cd è quella. „
Magnifice Aniice, et tan* quam Frater Garifllme. „ Io era
ctrtiffimo della „ molta allegrezza di V. S. pei „ la felice
affunpuone della „ Santità di Nollro Signore,,, come fe preferite mi
fulTì „ che mi Benderei molto più,. „ fe- non fuffi
certillìmo, che „ la S.V. per fc medefima lo „ cognofce. Del bene, et fc-,»
licita mia non le voglio di-,, re altro, fenonchè quanto* »> più farà,
di tanto più qucl» la potrà a-ogni fuo benepla„ cito difporre; et quanto nc,,
difporrà più, farò io tanto 1 „ più contento . La Lettera» fua detti in
mano propria » di fua Santità, là quale con >, fornirlo piacere
la lede : &c „ flato, come quello, che al- j » più mi diflcndOrci
intorno,, cuno non cognofccvo, clic'»» aqucllo» che amortvolmen»,, più
meritamente fe ne do-j», tc mi rifpofe, fe Sua Beati* „ vedi
rallegrare; perchè la-'» tudine con uno Breve ( il „ feiamo Bare lo
univerfal be* [,» quale con quella fari) non„ ne, che tutta la Criftianità |,,
avelie ordinato di rifponde„ ne afpetta, &: quali mani fe- », te- alla S.V.,
la quale cec-,, (lamento ne vede » il che », tifico, che fetnpre che ver-tutti
e buoni et virtuofi, 1 », rà, farà vcdutadaSua-Bea„ come è V. S. debbono fom-
■„ titudine come dolciilimo;,, mamente deftderarc; chi più j»- amico; et da me
come dol-,, di G-i anc! orcio è da,, ci (Timo fratello; &• a quella»
„ fua Beatitudine amato ? ! « mi offero. Se raccomando.. „ Chi più di lui
fc ne può, Roma XI. Decembris Mdxxiii. „ ogni cofa promettere ì In j,,
lo. Cardin.dc Salviate,, Qucgnoria di Venezia (58 ); e giunto a
Roma fu da Clemente accolto con fegni di ftraordinario affetto, e
apprefso anche fu deftinato a ragguardevoli impieghi, come diremo più
fotto. Ma avendo egli intanto fatto pubblicare nel Luglio
dell’anno 1524. colle ftampe di Roma la fua Tragedia, pensò di dar fuora
nuove cofe a -utilità della noftra favella; e però fcarfo parendogli
l’Italiano alfabeto di caratteri atti a fignifìcare tutti i varj fuoni delle
voci, inventonne di nuovi, o a dir di più vero, ne tolfe alcuni
dall’alfabeto Greco, e all’ Italiano proccurò di aggiungerli. Ma non
tenendofi pago di aver ciò nelle propie fcritture ufato, diftefe nel
Dicem.bre dello fteffo anno 1524. cotale fuo penfamento in una lettera al
predetto Pontefice intitolata ^59). Circa il principio del Secolo
XVI. vi fu veramente nell’ Accademia di Siena chi avvisò di aggiugnere
all’alfabeto Tofcano alcuni Elemcn* E ti per Quella
lettera fu flampata a \fubito mi fcrifft uno Brieve, ricar. xv ir. deila
Prefazione alle j cercandomi che io dovtfft andar Opere del Tr issi no
più voi- a Berna-, et io con il confenfo, te citata . I (he
d'Jft fuori fìmil pcnfìcro. Gli venne non per tanto fallita in buona
parte quella fua bella intenzione (come chiamolla l'Abate Anton Maria
Salvini di chiariflìma ricordanza): imperocché oltre allo avere egli
fteflo a rovefeio, e non nella dovuta maniera, ufate da prima le nuove lettere,
e così per lo modo del linguaggio Lombardo indicando falfa pronunzia, ebbe più
lodatori, che feguaci, come accenna Giovanni Imperiali y del quale errore avvedutotene poi
egli Hello n € Dubbj Grama ricali, ftampati appref* fo a difefa del fuo
ritrovamento? fe ne amrnen* dò U3), Da
Corr.ment. all' ]ftoria\ della Polgar Poefìa-, Vol.i.Lib.vi. ; a
car. 408. della ediz. di Venezia . j Fra l’ altre Lettere dal Trissino
tolte dal Greco alfabeto, ! due fono più offervabili, cioè Fi, ci’
a, Pro/e Tofane, Par. 1, Lcz.xxxi. a car.i9i. dcH’cdizione
di Firenze, apprejfo O'infeppe Manni, 1735. in 4. (Mufaum Hi/ioric.
pag. 4Z.„ Rem paritcr molitus per„ arduam, charaftercs Graecos „
noflris immifeendi litetis ad i » varios fonos aptius fignifi-j
candos, ut repente multosad » fui vel laudem, vel iurgi*
„ traxit Reclamante Do „ ètorum ccetu, quod in tan»> tis
dodtrinarum momcntis,,, monftruofa elemcntorum no„ vitate animos
haudquaquam „ turbandos putaverint. (63) Protelìa egli in
quefti Dubbi d’avere aggiunte le dette Lettere al noftro alfabeto a
fine folamcntc di giovare agli ftudiofi della noftra lingua; c
foggiugne, che non tralafcerà^ fuo potere coti bello, e coti nobile
injlituto : ringraziando i fuoi riprenfori, come quelli, che per lo
avergli fcritto contro d’O.. Da alcuni Scrittori fu il noftro Autore
per tal sua invenzione rigidamente appuntato; e prima da Lodovico
Martelli? Fiorentino, il quale manda fuori una Rìspofta all’Epì fi ola d’O.
delle Lettere nuovamente aggiunte alla Lìngua volga te Fiorentina (64); nella
quale s' ingegnò di inoltrare, che vana era Hata, ed inutile la di lui
invenzione, allegando fpezialmente, che non doveaA punto alterare la
maniera dell'antico fcrivere Tofcano. Indi comparve Agnolo Firenzuola, Monaco
Vallombrofano, il quale oppofe ad O. tra l’ altre cofe, che poco lodevole tra,
e poco ncieffario, e infofficiente lo aggingnìmtnto delle nuove Lettere al
fcmpliciffimo alfabeto Tofcano, perette con effe gli fi toglieva la fua naturai
femplicità. In quella fua opera il Firenzuola trapafsò per
verità i limiti di quella moddtia, con cui fi vantò nel principio di
voler riprendere la invenzione del Trissino, perchè fì moftrò nel fuo
dire alquanto appallìonato, non curandofi di apparir tale ancora nel
frontifpizio, taccian E i . dolo tro furon cagione» che fi
fa- 1 nell’ Eloquenza Italiana ec..... ce (Te paltfe la natura, t la uti-
\ In Venezia appreffo Criftofor » lità di effe lettere. Zane . c.ir. 27J.
Nell' Non dille il Tu 1 s s r- Operetta del Martelli, chcè in
4. no d’aggiugner le nuove Let - 1 non v’ha il fuo nome, nèqucltere alla
lingua volgare Fioren- lo dello ftamparore, nè l’anno; tina, come avvisò
il Martelli; 1 nel fine però fi legge pompata in ma alla lingua Italiana
r il che Fierenzji . fu notato anche dal Montanini ! (Quell’ Opera c così
in filo Ddolo in fine d’ufurpatore degli altrui ritrovamenti, con
dire, che prima d’efia e l’Accademia Sanefe aveva avuti limili penfieri,
e alcuni giovani Fiorentini pi» per e fcr citare i loro ingegni, che per
metterla in Optra della medefima imprefa parlato aveano ; i ragionamenti de’
quali efsendo fiati naf cefi amente uditi dal T rissino, da eflo poi come
ftto proprio trovato fenza far di loro alcuna menzione, furono meli! in luce (
) . Finalmente Claudio Tolomei, fiotto nome di Adriano Tranci,
ftampò egli ancora un libro l’opra quella materia, e lo intitolò U
volito, Rifpofe il Tr issino a’ Tuoi Oppòfitori colla
fuddetta opera de’ Dubbj Gramatìcali j ed anche col Dialogo intitolato il
c aftcllano, e molto bene fi difefe -, ma non fu fiolo in ciò, che anche
Vincenzio titolata : Difcacciamento delle nuove Lettere
inutilmente aggiunte nella Lingua Tofana ; fenza efprcflìone di luogo, c
di ftampatorc. Trovali anche tra le Prtfe del Firenzuola ifteflo
a car. 306. della edizione di Fiorenza, apprejfo Lorenzo Torrentino,
mdlii. in 8. Fu poi altre volte riftampata, ed eziandio nel Tom. 2. delle
Opere dei Tr issino della edizione di Verona. Non può negarfi »
che l’Accademia di Siena non avvilitile ella prima, che O. pubblicane la
fua Lettera, di aggiugncrc ( come già dicemmo ) nuovi elementi al
noftro alfabeto; ma che egli fi valeflc interamente di quello di
lei penfiero, come dille il Firenzuola, non è da credere, che troppa
ingiuria fi farebbe al fuo gran nome. E ’n fatti il Varchi nell’
Ercolano dell’ ultima edizione di Padova, apprejfo il Cornino, 1744. in 8. a
car. 468., dice avere il Firenzuola ferino contra il T
rissino piuttofto in burla, e per giuoco, che gravemente, e da
dover 0. La (lampa di quell’ Opera fu fatta in Roma, per Lodovico
Digitized by Google DEI Trissino. 37 cenzio Oreadino
da Perugia flampar volle a di fefa del di lui ritrovamento un dotto
latino opufculo, il quale eflendo flato per lungo tempo fmarrito, fu
ritrovato per diligenza del Sig. Marchefe Maffei, che Io fece ritlampare
nel tomo fecondo delle Opere del medefimo noftro Autore per lui
raccolte. Che dovico Vicentino i j 30. in 4. Ve-
vifato dall' Accademia Sane/e * di fopra di ciò il Foncanini nel- per
quel che fcrive il Firenzuola Eloquenza Italiana, a car. la nel Trattateli del
Difcac- . ciamento delle Lettere, impref 11 Crefcimbeni nc’ Commenta-
fo tra le fue Profe. Tutto ciò rj al! Jffor. della Volg.Poef. Tom.
abbiamo noi voluto riferire, r. lib. vi. a car. 408. dice, che acciocché
(ì vegga quanto popcrché andò r Accademia indù- co a ragione fia (lato il Trisgiando
di pubblicare lì fatto av- sino dal Firenzuola tacciato di vifo,
Giovanciorgio Trissiwo ufurpatore. La qual cofa più fu il primo che de ff
e fuori un fi- evidentemente appare in riflccmil penfiero : indi regiftra FAI-
tendo, che O. avea fabeto Italiano coi caratteri dal già medi in opera i
Tuoi caratTr issino aggiunti, che è ceri anche prima di dar fuori quefto;
abcdtfgche gh j quello fuo penfamento ; cioè kiljmnopqrustfu nella
Sofonitba, fcritta, e far. z v q x 7 th ph h: e poi dice I ta leggere,
come dicemmo, fotcosi: In quel medefimo torno, 0 to il Pontificato di Leone
X.ladpoco dopo, M. Claudio T olotr.ei dove folamente nel principio del
non gli parendo, tra l’ altre co - Secolo XVI., come dice ilcitafe, buono il
penfier del Tris- to Crefcimbeni, 1 ’ Accademia sino, ritrovò un'altra
manie- diSiena avvisò lo aggiugnimcnra, togliendo la forma de'Ca- \ to di nuovi
caratteri. rat ieri, che avevano a duppli- ( 68 ) Il fuddetto
Opufcolo carfi, dagli fi effi caratteri del no- dell’ Oreadino in detta
riftampa fico alfabeto, Cime appare dall' è cosi intitolato : Vincentii
Orcaalfabeto, che fiegue : a (T c d dini Perufini Oprfeulum, in ecf^gh
lilmneopqr 1 quo agit utrum adjcìtio no va rum sftv-t/uz z . E quefio |
litter aratri Italica Lingua all(foggiugne il Crefcimbeni) noi quam utilitatem
peperit : Ad crediamo, che fia l’ alfabeto av-^Thomam Severum de
Alphamt Vi- Che alquanti dementi di greco alfabeto prendere
egli per aggiungerli al nostro italiano, non era certamente per mio avvifo
quella fconvcnelezza, che gli antidetti Scrittori credetterfi> condolila
cola (come già notò il foprammentovato Abate Salvini che l’Italiano alfabeto
fia ftato altresì di parecchi altri caratteri Greci formato. Tuttavia non
riufcì affatto inutile il di lui penfamentoi perchè due delle nuove Lettere da
lui propofte, cioè H, e Kv confonanti, veggonfì oggidì univerfalmente abbracciate
dagli Scrittori, anche Fiorentini, come necelfarie a torre ogni equivoco delle
voci: onde a ragione diflc il predetto Signor Marchefe Maffei (70j che *
Luì » han» obligo’ le Jlampe dì tutta C Italia, che le u fatto perpetuamente .
Laonde non bene fi appofe il celebre Signor Domenico Maria Manni,
Letterato per altro eruditismo, e dìgniflì- Virum eruditijpmum,
et Cenci- I la noftra lingua habbia bi fogno/ vcm Optimum . Girolamo Ru-
1 delle Lettere aggiunte dal DRtsccllai nelle fue note all’ Orlon- sino, et dal
Tolomei cc. doFuriofo dell’Ariofto della cdi-| Cioè il Tolomei, e
zionc di Penez.ia > aM re J[° ] Firenzuola nelle Opere lopracEredi di
rinccnz.io Talgrìfio, ' cerniate.. . a car. il. facendo! (7°) Profe
Tofcane, In Ftun’ ofT.rvazionc gramaxicale fo - rence, nella Stamperia
diS.f. pra la voce corrò ( accorciato A. -per I Guiduecit e Franchi
» dal verbo coglierò) con cui l’A- 17 2 5 « 4 * P ar * P 1 * 012
Acz. liofto comincia la danza 5 8.
del ; a car. 523. primo canto*, dice cosi : Et in j lucila Prefaz. alle
Opequtjtt tai voti Ji cottofee quanto, re del noftro Autore a
car.xxx. dignifTimo Accademico Fiorentino > in dicendo nelle, fue
Lezioni di Lingua T ofeana j che 1 ’ / confonante i cioè quello, che j
lungo fi appella, conte trovato dal T RISSINO, e da Daniello Bar t olì
po/lo in ufo, non è ricevuto da per tutto : e pure egli ftefio
Io usò nelle medefime Tue Lezioni (73)* Monfignor Fontaninij da cui fu
UTrlssino chiamato In Firenze nella] sintonie Muratori, legnata dì
Stamperia di Pietro Gaetano, Venezia li 12. Marzo 1701; fìViviani. in8. a
car. 43. 1 gnificandogli la allora frefea e- Bene è vero, che l’ufo I
dizione delle Poche degli antidi quello j lungo, o fia con - 1 detti d*ue poeti
Vicentini, diffonance, ritrovato dal T r i s- 1 fc, avere quelli in dette
loro sino, fcfu abbracciato univcr. poefic pretefo di ravvivare l’ orfalmente
nel plurale de’ nomi, I 1 agrafia fcrupolofa del vecchio che nel numero
del meno fini- Lr Trijftno, ftnza però quelli f cono in io di due fillabe,
in epfilon, e quegli omega, co' quacui Vi non lìa gravato dall’ ac- li voleva
imbrogliare iinejlro alenato, come vizio t vario, eli- fabeto Italiano. Colle
quali pamili, i quali nel maggior nu- ! cole troppo veramente difprezmcro più
rettamente il ferivo- jzòe quelli poeti, e la buona vono col detto j lungo in
ifcam-llontà del Trillino, la quale, cobio de’ due ir, come a dir vime è delio,
non riufeì affatto zj, varj ; fu rifiutato l’ ufario do- I inutile,
vcggendoli abbracciapo l’L in luogo del G c dell* E | te dall' Accademia
medefim* nella voce EGLI, c in luogo del | della Grufca le due
fopraddettc G nell’articolo GLI, feri vendo ; Lettere J, e F* confonanti,
come LJI, come fece fempre il Trissi- ' fi può vedere nel fuo Focabolano.
La qual maniera di fcrivere fu I rio alla lettera I. §. xi.j e alla
poifeguitata, ma con poca lode, j Lettera F. La lettera poi delZeda Andrea
Marana, e da Antonio no è Hata ultimamente pubbliBergamini, amendue di Vicen-
cara in un coU’ altre lue erudiza, uomini per altro di lette- 1 udirne lettere
in tre Volumi, ed ratura Italiana, Latina, e Gre-| è a car. 44. del primo,
che ha ca molto intendenti. Il Sign. I quello titolo : Lettere di jìpoApoflolo
Zeno, di Tempre glo- fole Zeno, Cittadino Fcneziariofa, e a me cara memoria in
! no, Iftorico e Poeta Cefareo. ec. una fua lettera al Sign. Lodovico I
Folumt primo in Fenezia tO (74) Novello Cadmo, C Cadmo Italiano,
fu di oppinione, edere ftata altresì invenzione del medefimo noftro
Letterato 1* ufare la z j n cambio del t dopo vocale, e innanzi all’ /, cui
fegue altra vocale, come nelle voci vìzio, malizia, e
fomiglianti. Ma, per pigliare il filo principale del noftro
racconto, l'anno 1525 . ( nel quale il Re Francesco I. di Francia eflendo
ritornato in Italia, donde l’anno avanti era ftato cacciato, e avendo già
prefo Milano, attediava la Città di Pavia, la quale fu appreflò liberata
dall’ efercito di Carlo V- > che mife in Sconfitta 1* ofte Franzefe, e
fece affrtff» Pietro Falvafenfe . i Nella Eloquenza Italiana
a car. 36. e 339. (75) In proposto delle Lettere aggiunte « Valerio
Ccntannio. Medico Vicentino, di cui parla lodevolmente il Marzari nella
tua Jftoria di licenza, a car. 183. fcriffe al Trissino il feguente
curiofo Sonetto, che ci fu comunicato dal più volte mentovato Sign.
sportolo Zeno . ì’O grande A» tji Urici nominato. A
dijfertnlia Ai quel, cb‘ i tu ir. a
rii VE difl' ignudo i 1 di pie» valori, A
luta ai Alph' al Giet" accorti pugnato i Ch* nel fcnvir
Tofcan ha ritrova • to Voflr’ alt’ ingegno i facindo
maggiori Numcr di Lettre : eh’ in vano tino’i Si anno a chi
nin ha 'l cervi ! fia catoi 1 Verrei faptr t Si noi Urica
Scrittura Leggenda > dtbben ritener* il futi-, no,
Che nel Uggir Tofcan Kiara fi finti. Ri ff tendete Signore
che la cenfura. Et gran judicio vofira, a mt tal fono,
Qual Sol ad g orno : a nette fioco ardiate. Andar mi vi in a
minte D' addimandar 1 fi l' Ita Gri't » timi La
voce t eh' a V E Taf co fi ceti « m». Et forfè dicttn
bini Quelli, che voljan pir ditti d' Hv miro L'
Ita fuonar s cimi il Taf cu E primiera . Bramo faper il vero.
Adunque fa- fi l' O Tofcan antico Terrà ’l fuun d' il Grt co
0 :cht minor dico. Il Servo di Veflra Magn. Valido
Cintannio fece prigione il Re fte{fo(7 Papa Clemente
impiegò in varj negozj il notlro Giova n gì orcio. e intra gli altri lo
mandò una volta Oratore alla Repubblica di Venezia C 77)» e ' [ferma per la
concordia degli Ma quel [degnato, horntil-vente fiero * Scrittori,
c per lo Elogio, che Con Pungine, ri rofiroil batti, elo '^tfU
Chiefa di San Lorendìmtna Si fai lamenti, eh' ci fuggendo a
fina Hcrfer lo [campo f ho trova fenderò . Tal che aebaffata
in lui fi» con gran fretta, Et forfè affatto fjenra
l'arroganza, Che tutta Europa già foft in itlanza: ! dal Papa folte
O. Ottd'io tengo nel cor ferma fgtranza, mandato Nunzio prima alla RcChe
il Citi farà dei torti afpra ve »• pubblica di Ve.'CZÌa, e poi all’ detta
| Imperatore: ecco le fue parole: ACriflo fatti,§ a tuttala fua
fetta .1 >} Clemcr.tis Septimi acerrimi Cosi afferma il Tris-',, teftimatoris nutu ex
Romana sino medefimo nella fua Ari».',, Curia ad Carolum Carfircnt
ga, dicendo: Papa Clemente fu' „ Nuncius cfl elc&us : inde ad eletto
al Pontificato,.,. S. Santità,, SapicntifTìmum Vcnetorum fubito mi
fcriffe uno P, rieve, ri- „ Scnatum . « In ciò fu egli cercandomi, ch'io
dove/fi andar (e guicato dal Signor Marchefe a Roma, et io col confenfo,
CT I Maffciìad Ri fretto deila P'ita del I zo di
Vicenza allato all’altare idi detto Santo fi legge, e die I di
fotto tra feri veremo . Gioivano! Imperiali nel Afufeo Jflo \rico a car. 44.
lafciò fcritto, che Digitized by Google 42 La
Vita gno dì parttcolar menzione fi è un altro pubblico contralfegno
deiramore, che gli portava. Ciò fu l’anno 1530. in occafìonc che dovea
coronare folennemcnte in Bologna l’Imperatore fuddetto (79)1 imperciocché,
fecondo che affermano alcuni Scrittori (80), e appare chiaro da
una d’O., e da altri : ma ficcome quelli Scrittori non
ci daono il tempo di corali Legazioni, cosi noi non ci facemmo
fcrupolo in notarne pri ma una che l’altra; e tanto più, quanto che può
edere veramente, clic andafle egli Nunzio a Sua MaclU Cefarea molto
tempo dopo di edere dato Oratore a Venezia, cioè dopo il Sacco
di Roma fatto dagl’ Imperiali nel IJZ7., in cui effendo dato ditenuto
Io Bello Pontefice, e poi liberato per commillìonc dell’
Imperatore, edo lo mandò a ringraziare per un fuo Nunzio, accennato
folamente in una Lettera di congratulazione, che Io Redo Imperadore al
Papa riferirle in data di Burgos addi xxn. di Novembre di detto annoi
517.; la qual lettera Ci legge nei tomo primo delle Lettere di Priadpi »
ecv raccolte da Girolamo Rufcclii, Ja Veneti a appre/fo Giordano
Ziletti, 1564. in 4. a car. no. a tergo; fe pure ciò non fu l’anno
1529., cioè dopo la pace tra loro fatta in Barcellona, di cui parla, tra gli altri,
il Guicciardini nel terzo degli ultimi quattro litri della fua
Ifi$ria\ avendovi una lettera di Sua Madia al Papa in data
di Genova addi xxix. di slgo/lo ., che fi legge nel citato
tomo delle fuddette Lettere di Prinnpi a car. 123.» nella quale fa
menzione di un fuo Nunzio con quelle parole : Havendo intefo dal detto
Duca,et da' Reverendijfmi Cardinali . fuoi Legati ...., et dal SUO
NUNZIO,. et Zmbafiiatore, cc.....; il quale può perle fuddette cofc
fondatamente crederli, foflTe Giovangiorgio. Carlo V. fu
coronato da- Clemente il giorno di Santo Mattia Apoftolo, cioè a dì
24. di Febbrajo: ed è JlTervabile, che nei mede^mo* giomcr egli e Ila
nato, ed abbia prefo i fegni e gli ornamenti d’ Im- peratore. Si vegga
Alfonfo Ulloa nella Vita di Lui molto eruditamente feri tra ( 80 ) Gio:
Imperiali, Mhfaum Hi/l or. a car. 44. Toirmiafini Elogiaste, a car. 53. e Paolo
Beni Trattato dell' Orig. della Famigl. Trijf. lib. 2- manufcritto, a car. 34.,
ove nota anche di malevolo il Giovio, che riferendo paratamente
tale folcnuna lettera manufcritta del noftro Autore medefimo (81), da
tanti Principi e Cavalieri, che a tale folennità fi trovavano, Clemente
tralcelfe il TiussiNoa portargli lo ftrafcico Pontificio; .onore» che per
innanzi era /olito farli a Perfonaggi di nobililfima Schiatta, e molto
qualificati. Si trova fcritto apprelTo qualche Autore (Si),
che Carlo V. facefie conte e cavaliere fi noftro Giovangiorgio» e lui co’
Tuoi difendenti privilegiaffe, che potefse mettere nd/arme dellaFamiglia
la Imprefa del Tofone, c fi potefle in oltre dinorninare dal vello d'oro. Noi
non vogliamo ora dilàminare, fe ciò fia vero, anzi il crediamo; che conte
e cavaliere egli fteflò in qualche Tua lettera s intitolò (83), e alzò la detta
Imprefa» con foprapporvi il mòtto Greco to zhtotme. ;non aax2ton
(84), prefo dall’ Edipo di Sofo F 1 eie folennkà, nulla
facefle del Tri jliN o menzione. JvQucfta lettera di
prò. prio pugno* del noftro Autore | c tra le altre lue
manuferirte, cd è 'quella, che diramino più d’una volta in quefta
Vita, fcritta da Marano all’Arciprete Giulio fuo figliuolo, fegnata
18. A/arz.0 IJ42. In effa egli parla cfprcffamentcdi quefto étto,
ricordandolo al figliuolo qual /ingoiar h*neficiodal Pontefice a fe
ufato. ( 8a_) Cioè approdo il Tom mafjni, Elogia cc.-, a car.
54. c ’1 P. Rugeri, T ratina ec. a car. xxxin. ( 83 ) Veggafi la lettera di
lui al Reverendo Prete Francefco di Grugnitola già fopracciiata,
all’ annotazion. 3.C 26. Il Fontanini nell’£/tfquentLa
Italiana a car. 380. riferire e fvariatamctwequAlo motto, rcrivendo in
quefta guifa T o 2HTOTMENON A A ftTON* diche fu appuntato dal
Signor Marchcfe Ma fife i a car. 8j. dell’ Fiume d’ elio libro del
Fontani eie (85)} che lignifica conftguir chi cerca ma nsn
chi trafeura ; ed anche ftamparc la fece o ne’ frontefpizj, o in fine
delle fue Opere. Si vuole bensì avvifare, che fe egli ebbe
dall’Imperatore Maflìmiliano primieramente» come abbiamo accennato al di
fopra, e poi ancora da Carlo V. il privilegio di potere l’arme gentilizia
adornare di detta Imprefaj come tengono alcuni, e come forfè volle dire
il Signor Marchefe Mafie i, quando difle, che il Trissino imperaci ere
Maffìmilian » riporto il Tofon d’ Or o\ e fe ; egli fu ni,
che approdo citeremo, tratto delle fue OffervaiÀoni Letterarie, fn Serena nella
Stamperìa del Seminario per Jacopo Saltar fi in la. Articolo VII. a c.vr.
103. Verfo 110. (86) Nel fopraccinnaro Elogio, che è in
San Lorenzo di Vicenza, fi legge: Aurei fucilerie infìgnibui, et Corniti*
dignitate prò fe, et Pojlerit ab iifdem Impp. ( MaKimiliano, et Carolo)
decorato . Il Padre Rugcri nella Trotina &c. a car. 33. pare
che affermi, avere il T rissino avuto il fuddetto privilegio da
Carlo V., poiché gli t cbbc niarfdatoa donare (come diremo ) pel fuo
figliuolo . Ciro il Poema dell'Italia Liberata da' Coti. Quelle fono
le fue parole : T itm vero P o s TQ.U A m ledi 1T1 mai cjtjitm
fiiius Cyrus, poema iliaci eidem Carolo V. patrie nomine
donariam confccrauit, Aurei Velieri s Agalma dimidiato in Umbone
fui Aviti Stemmati!, Imperai or is auttoritate, et concezione appingi
voluìt, quo fa. cilius hac velati tejjcra, è fuo Pipite dedali a
Sobolet, ab aliis et Laude, et Vice ti *, f amili* nobilijfm*, et numcro/tjfimafurculit
dignofeerentur . Contutcociò noi troviamo* erteti* Giova» Giorgio denominato
dal Vello d' Oro ^rima che Ciro prcfeniaffc il detto Poema all’Imperatore.
Può effere bensì, che avendo egli avuto da Maflimiliano il detto
privilegio, confermato poi gli forte da Carlo V. Nel Riflretto
della Vita del noffro Autor, preme fl o la rirtìmpa delle fuc
Opere. egli fu veramente da’ Monarchi medefimi fatto Cavaliere; non
dee perciò dirfi, che forte egli da efli fatto Cavali er del Tofo» d'oro:
concioflìac»fache non fia mai fiato il T rissino arrolato in quell’ordine
(88). Le fa f88) Che ciò fia vero, ba- Trissino, che
non era da fievolmente è provato dal Fon- trafeurarfi, quando
veramente canini nella Eloquenza Italia- vi [offe fiato; e ciò tanto
meno, va, ove a car. 380. dopo regi- che in quefio affare ci
entrano Arata la primiera edizione del anche gli Araldi, 0 Re £ Armi,
Poema dell’ Italia Liberata da' per ajfegnare a ciafcun CavalieGoti, così
lafciò fcritto. Qui re lo Scudo, e /’ Infegne, tutte in fine, e in altri
fuoi libri fi le quali Ji leggono efprejfe dal vede la pelle, 0 vello
d'oro del C biffi elio . E a car. 474. dopo Montone di Friffo, da lui
fof- j aver regi fi rato i Difcorfi ini or pefo a un Elee in Coleo, e cu- f no
alla Tragedia, di Niccolò fi adito dal Drago Volendo | Rolli.,
tornò a dire, come fc il T R 1 ss 1 n o con quefia fua 1 guc ; Effendofi
già mofirato non Imprefa alzata all'ufo di que' \fujfi fiere, che il T
rissino, tempi alludere alle fue lettera - 1 comecnè talvolta fi dicejfe
oAr. rie fatiche, e da fe ancora in- \ Vello d’oro, e meritaffe per
- titolanàofi dal Vello d’Oro . j altro ogni onore, foffe perciò Ca.Ala non per
quefio egli intefe di valier del Tofone, perchè meri far fi Cavaliere
dell'Ordine del 'tare non vuol dir confeguire, qui T ofone - E poco
apprelTo ; L'\fi può aggiugnere, che quefio Su• Ordine del Tofone fu conferma-
premo Ordine, detto in latino to dai Sommi Pontifici Eugenio Vclleris
Aurei, nelle lingue voi IV. e Leone X. ; e Gianjacopo gari fi chiamò del Tofone
. ... Chifflezio ha data la ferie de' Nè può effere inutile il
ridurfi Cavalieri » e de' Uro fupremi a memoria, come ne’ tempi del
Capi dalla prima fua ifiitud-o- Trissino fiorì /’ Accademia aie fino a
Filippo I v. Re di Spa - degli Argonauti conquifiat ori del gna, erede
àe’ Duchi di Borgo- Vello d’Oro, poco fipra acc cagna: e ne ba fcritto ancora
un, nata* Se poi egli fi diffe Cotemo in foglio Giambatifia A/au-j me; et Equcs,
ciò nulla imporrizio e altri pure han- ita, petchè non fu foto a chiana
pubblicati gli Statuti dell' ' mar fi in tal guifa . 11 Mar C'rdine, e gli
Elogi de' Cavalle - 1 cii'eje Maffci nell’ E fame del ri: ma fenza alcun
merlo del [ (udektto. Libro del Fontanini, Digitized by
Google 4 fìccome l’altra volta, la fentenza incontro.
Tuttavolta collo ro infiftendo, agli Auditore Vecchi appellarono di ella
fentenza, dai quali fu poi rimeffa la Caufa al Configli dì xl, civìl-Nuovo.
Ma quella volta Gì ovan Giorgio delibero di orare elio pubblicamente, e
dire in Configlio le fue ragioni : per la qual cofa comporta in
comunal dialetto Lombardo una forte Aringa (pi)» sì bene, e con tale
efficacia davanti ai Giudici la recitò, che all’ultimo (pi), con grande
feorno e rabbia degl’ incaparbiti Comuni, egli fentenziarono a di lui
favore (p$). Sera egli ammogliato la feconda volta a Bianca
(P4). figliuola di Niccolò Trillino, e di Caterina Ver Quella è l'Aringa
da noi citata sì fpctfo nella prefentc Vita-, e Cc nc conferva
copia nella Libreria de’Cherici Regolari Soraafchi della nolìra
Città di Vicenza. Avvitatamente s r è detto all' ultimo, perciocché
non tappiamo, che il Tri ss ino per la narrata cagione
piatile più colle dette Comunità : ben è vero, che i di lui Poderi
appo fua morte ebbcro«a foffrir da colloro per lo ftctTo motivo nuovi
difturbi . Crediamo ciò fofle o' nel principio dell’anno x 5 3 1.
? 'o nella fine del precedente; e | lo argomentiamo da ciò
che e* 'dice nella citau Lettera al Pre~ ! re di Grugnitola,
ed è; Le cofe | della [acuità mia dopo molti tra| valji fono quaji tutte
rajfcttate, e trovami manco povero ch'io ' fojft nati,
I « quella .ftponda fua
| moglie fa il T r iss 1 no onoratole njènzione nc‘ fuoi Ritratti >
Citila» Re (fa fi parla altresì con lo.Je’nel libro intirolaro:7" atte
U Dgnne maritate, Vedove,, è’ I)ongeil/ \ ptr Lugrezio Beccandoli Bologne
fé *»/ magnanimo’ Ai, Fr ance [co elei Scolari, Eresiano, na
Verlati (p?), e già vedova di Alvife Tri Arno (ptf): la quale partorì a
Giovangiorgio u n figliuol [ciano, [no Signore . in 4» fcnza
efprcffione di luogo» anno, e ftampatore. (9 5 ) Se il
Tommafini negli Elogi, a car. 53. dicendo:,, De-,, funóto Leone X. in
Pacriam rc„ diic.... Anno mdxxiii. fe» cundas cum Bianca fui Sxcu3, li Helena,
Nicolai Triffini », Vidua nuptias contraxit volle dire, che Bianca, quando
fi fposò a Giovangior g 1 o foffe vedova di Niccoli Trillino» prefe
certamente uno sbaglio, come lo prefe il Sigi Apollolo Zeno nella
Galleria, e gli altri, che ciò affermano apertamente. Imperciocché
Bianca non fu vedova, ma figliuola di Niccolo Tuffino, come dalli fcguenti
Alberi dal Sig.Co: Anco» nioTriffino del Sig.Co:Piero, corr
umaniflìma gentilezza fomminillratici, evidentemente appare» 1.
i Birtolommeo Trillino. NICCOLO' Tullio©» Cafparc Trillino» in in
in Chiara Mirtinengbi. Caterina Verlati» Cecilia Bevilacqua.
1 L 1 ALVISE BIANCA. CIOVANGIOR.GIOPoet.ec» in in
in BIANCA di Niccoli 1. ALVISE di Battolar»- BIANCA di
Niccoli Trillino ; da cui la li- mio Trillino . Trillino, da cui li
Nob» nei del Nob- Sig.Co: a. GIOVANGIORGIO Nob. Sigg. Co. Co. CiPiero.
Tuffino Poeta ee. r®, e Nepoti Trillino •Senza di che Paolo Beni ncljwe/rfe,
figlio unico (cioè di MaTrattato dell' Ori*. della Fa ! fchi ) ec. In oltre
dalla Scrittumigl. Triff. lib. 2. Manofcritto, ! ra nuziali d’ effa Bianca, fedove
parla delle Donne illufiri | gnata addì 18. di Febbrajo.... della detea
Famiglia, venendo | fatta col fuddetto Alvife Trifa Bianca, dice; Bianca peri
fino, fi ha non pure che effo la fuafingolare belletta merita-' fu il
primo fuo marito, madie mente chiamata l' Helena della j il valore della
fua Dote fu di Dufua età, hebbe due mariti dell’ | cali tremillccinqucccnto,
cioè ifteffa famiglia: fu il primo . di lire Vi niziane 21700. ;
Dote Luigi figliodi SartoiomeoTrif-' affli Cofpicua 3 quc’tcmpi. EJ
fino, et di Chiara Martine ri ] anclie di q-uefta notizia ci con» ga, a
cui partorì 6. figli mafihi, fediamo debitori al predato Siti' 2. fenmine : fu
il fecondo gnor Conte Antonio Trillino. Giovangiorgio, Poetaf (96) Alvif:
Triflino fe te» Gr Oratore, et hebbe Ciro-Cl>- \ ttamento del ijìi,, c
poco di poi t I del
Trissi.no. 4P figliuol mafchio, appellato Ciro, ed una femmina .
Ora dopo qualche tempo nacquero diffenfioni tra Bianca, e l’Arciprete Giulio,
figliuolo della prima moglie d’effo Giovangiorgio: delle quali principal
cagione fi fu, che amando ella teneramente, ficcome è naturai coti, il
fuo proprio figliuolo Ciro, s’ adoprò in guifa, che il marito Umilmente
facefle, e feemando l’affezione fua verfo Giulio, lui più cordialmente
inchinalfe ad amare . Le quali cofe diedero apprelfo motivo all*
Arciprete di piatire lungamente col padre, da cui prctefe* e in
fine poi confeguì non poca parte di fua facoltà. In quello
mezzo la Patria impiegollo in un affare molto importante . Ciò fu
fpedirlo fuo Oratore (in uno con Aurelio dall’Acqua e Piero Valmarana,
Gentiluomini Vicentini,) a Venezia per contrapporre ad una troppo altiera richieda
degli Uomini della Terra di Schio, Dillretto di Vicenza. Volevano coftoro non
iftar più foggetti al Gentiluomo Vicentino, che reggevagli, e regge
ancora con titolo di Vicario; e però nel principio dell’anno 1534.
ardirono di chiedere al Senato Veneziano, che rimolfò quello, un fuo
Nobile Patrizio defse loro a Rettore . Ma sì giulle furono le ragioni da’
Vicentini G Ora poi fopravviffe; ficcome colla \o in quell’
anno, o l’anno apiolita gentilezza mi fc certo il preffo Bianca fi farà a G
iovanSig. Co: Antonio Trillino fud- ciorcio rimaritata, detto, fuo
difendente; laonde Digitized by Google 50 L A
Vita Oratori addotte in prò della Patria, che non ottante che
Baftian Veniero, gentiluomo Veneziano, incontra nringifse, i Giudici confermarono
la giurifdizione della Città noftra, e condannarono gli avverfarj a rimborfarla
delle fpele dovute fare pel detto motivo: loro davvantaggio vietando
penalmente di più contravvenire a tale deliberazione. E per
dire di altri onori, a cui fu egli dallaPatria elevato, troviamo, che nel 1536.
addì 27. di Maggio era uno dei Deputati alle cofc utili della Città
(p 3 >; ficcome nel mefe fufleguente era Confervatore dette Leggi ( 99
) : e pochi anni appretto, fu ricevuto nel numero di que’ Nobili,
che formar doveano il Configlio centumvirale > detto anche Graviffìmo,
dcll^ Città, allora allora riformato.. Morì in que’ tempi il
celebre Poeta Giovanni Rucettaii tanto amico delnoftroTiussiNoi il quale
fin dall’anno 1524. (nel qual tempo era Cartellano di Caftel Sant’Angelo in
Roma) avendo com Veggafi io Statuto no-| ( 9 8) Statuto noftro
fuddet firo lib. 4. pag. 176. a tergo . to, Lib. Novm Partium, pag.
Noi ci fiamo ferviti dcli’cdizio- : 197. a tergo. Qui il Trissino nc
fattane con ! è schiantato Dottor, &£qnes. quello titolo ^ Jhs
À/nnicipale \ (99) "Statuto noftro, ivi » l'iccntinum, cum
sìddit ione Par- png. 19H. a tergo.. tium Jlluftrijfimi Dominii . Vt - 1
(loo)Statuto cc.. Ivi, pag. nttiit, Motxvii. ad infiantiam I 185. c 186.
a tergo, cdanchcqui BartMomei Centrini. infoi. | il Trissjno è detto
Cavaliere. 1 compiuto il belliflìmo luo Poema delle /#/>/,
non volle pubblicarlo infinoattantochè il Tassino da Venczia>
ove era Legato di Papa Clemente, non foffe ritornato, perchè volea
farglielo rivedere.. Ma non avendo' potuto ciò effettuare fopraggiunto dalla
morte, al fratello Palla, nel raccomandargli prima di morire tra gli
altri Tuoi componimenti il detto Poema, notificò tale Ilio
penfamento : onde quelli poi fauna 1 5 39. mandandolo alla luce, al Tm ss ino
lo intitolò (101). Intanto effendo la fopraddetta feconda fua
moglie Bianca pallata di quella vita l’anno 1540.. C102), le liti già
incominciate tra fe e’1. figliuol’ G 2. Giu. La Dedicatoria di
Pai- 1 Antonio Volpi, il quale poi lai ta Rucellai al Tr issi no è . fece
pubblicate in un col Pocfegnata *li Firtnzj addi li. di ma ftdlbdelle Api,
ecollaC*/Gennajo 1539.5.6 in e(Ta affer- ] tivazione di Luigi Alamanni „
ma di efeguite in Dirar ai templi di Ciprigna, e Marte
Le mie vittoriofe, e chiare palme, ( l0 5 )
Cosìdiceegli nella Dedicatoria del Poema fletto a Carlo V.; ma in una
Lettera al Cardinal Madrucci, che appretto allegheremo, accenna
d" averne glieli, per efsere anch’efso malato di quartana;accomandando
con fua lettera al Cardinal Criftofano Madrucci, Vefcovo e Principe di Trento,
il Dottore medcfimoi e pregandolo, che ali' Imperatore lo facefse
introdurreQuelli sì fece; el dono fu fommamente gradito alla Maellà Sua, che
moftrò nello flefsotempo gran delìderio d’ averne: ancora il rcftante.. La qual
cofa da Giov angiorgio intefa, ritornò prettamente a. Venezia, e gli.
ultimi diciotto libri, colla maggior, follecitudine: a perfezionar fi diede; e
poi fattigli ttampare l’anno^ 1548., a quella volta pel figliuol Ciro
gliel’inviò; elfo altresì al. lùddetto Cardinale raccoman-dando con maggiore
affetto-,, dicendogli, che per la fua giovanezza egli più abbifognava di
conliglio, e di ajuto (106): i quali libri da fua. Maellà.
Vegganfi le Lettere \ fiche fùe cTAnhi Venticinque*. dall' Autor
noltro fcritte a Sua ! che le avea dedicate c mandaMacftà, e al predetto
Cardina- te, grate le foffero Hate, e acle in propoli to di ciò, inferite !
citte . foggiuogendo*. che nont nella, già citata Prefazione del | a
vendo ardi mento a chiedere coSig. Marchefe Maffei alle Opere j fa alcuna, al
perfetto giudici» di lui a car.xxt. xxn.. xxit 1 . 1 della Maefià Sua,
come fapien-' c xxiv.; in una delle quali, I tiflìma, c liberali/fma che
era,, che è a car. xxwi. al Cardina* | fi rimetteva . le indiri eca
* fegnata di Venezia I Qui vuol novamente notarGiovcdì, addì x.. di Dicembre fi,.
che dalPcHferfi il Trissino 1548., dice, che dcfiderava,! in quelle
Lettere foferitto. Dal che da Sua Maefià fojfe noti fi- ; Ve ilo d’OKo,
chiaro» appare, cato ai Móndo per qualche ma- ! non aver egli avuto da
Carlo nifeflo fegno, che le vigilie e fa- [ V. per la Dedicazione del detto Maeftà
furono ricevuti collo itefso .gradimento, che i primi. Ma per
pafsare ad altre cofe, fu il noftro T r issino familiare eziandio del
Pontefice Paolo III., a cui nel .1541. efsendo per andare (come in fatti
vandò) ad abboccarli la feconda volta con Carlo V. a Lucca, indirizzò «un
fuo Sonetto: e altra volta certo vino mandoglf,3 donare ; del qual dono,
e deH’efserfi ricordato di fe, il Papa Io fece ringraziare pel Cardinale
Rannuccio Farnefe (108), grande amico del Trissino (iop). Nel
tempo, che il noftro Autore era lontano dalla Patria, ed infaccendato nel
mandar a luce i proprj componimenti, l'Arciprete Giulio, che pure
continuava la fiera lite contro a lui -, •tutte le fue rendite fece
ftaggire: il perchè in fran to Poema la conceflfìonc di cosi
denominarli, comcpare, che voIeOTc il P. Rugeri nella citata '
Declamazione; ma fc pur da lui ! l’cbbe, come dicefi anche nell’
Elogio dianzi mentovato, che in San Lorenzo di Vicenza fi legge,
certamente molto rem», po avanti la ebbe, cioè quando in Bologna alla
Coronazione dell' Imperatore medcfimo fi trovò prefente.
Quello Sonetto, che incomincia: Padre, fot to' l citi
Scettro alto rifofa, cc. | e che non è tra le fue Rime dcllà
prima edizione, eflcndo j Hate molto tempo avanti ftampare^ fi legge
nella Raccolta dell' Atanagi, par. pr. a car 89, a icrgo \ e nella
edizione di VeronaTom.i.a car. 3La Lettera di quello Prelato al T rissino
(cricca d’ordine del Papa, c in data di Roma. Nella citata
Raccolta dell’ Atanagi a car. 90. fi vede un Sonetto d’O. al
predetto Cardinale indirizzato. granditfima ira montato egli, fe
tc-ftamento, e in tutto e per tutto Giulio difereditando, Ciro
inftitui erede d’ ogni Tuo avere; aggiungendo, che morendo quelli fenza
dipendenza, gli fuccedelfero nell’ eredità del Palazzo di Cricoli i Dogi
di Venezia, e nel rimanente de’fuoi beni i Procuratori di San Marco con
ugual porzione . Dichiarò CommelTarj del detto Tellamento il
Cardinal Niccolò Ridolfi, allora Vefcovo di Vicenza, Marcantonio da
Mula, e Girolamo Molino; ordinando, che appreffo la morte di fe, folle il
fuo corpo feppellito fui campo di Santa Maria .degli Angeli di Murano in
un avello di pietra ijiriana: la quale volontà mutò dappoi in un codicillo,
ordinando invece, che volea cfsere fepolto nella Chicfa di San Baftiano di
Comedo * territorio di Vicenza, ce» ornamento di rofe, e lidia
fepoltura 'vi fofsc polla quella fempliee breve iscrizione; £uì giace ciò
: G io AG io t rissino . (iio) Pur finalmente anche quello piato
ebbe; fine ma Giovangiorgio fuori di tutto il fuo penfie ro
n’ebbe la fentenza incontro, e dal figlio fi vide fpo (llo)
Si può credere fonda- \Janiculo, 1548. in 8., introdut. -urente, che per aver
egli do- ì cede il perfonaggio nominato vuto (offerire tante c si fiere ;
Sìmitlimo Rabbatti a così fdaliù, avvifatamentc nella fualmare contra gli
Avvocati ; c Commedia de' Simulimi* contro a ogni forte di Im para
in Venezia, per T olmmeo j gio . O rra fpogliato d’una gran
parte de' propri beni. Della qual cofa sì fi crucciò} e difpettò che rifolvette
di abbandonare affatto la Patria* e lafciati prima fcritti due molto
rifentiti componimenti in fegno di fua indignazione (ni), andofsenc
H dirit- O maledette fian tutte le liti » JT uni i
garbugli, e tutti gli Avvocati, Nati a ruina de f umane
Senti, Che fi nutrifeon degli altrui dif canài *
Difendendo i ribaldi con gran cura'. Et opprimendo i buoni ;
che i feelefii • Gli fon più cari, e di maggior
guadagno: Nè cofa alcuna è federata tanto, *Che
non ardifean ricoprirla, e farla Rimanere impunita da
le Leggi, Di cui fono la pefie, e la ruina .
Sono rapaci, e fraudolenti, e pieni ~D' in fidie, di
perjuri, e di bugie, S end alcuna vergogna, e fenz.a fede,
Servi de l'avarizia, e del denaro . Mentre che fiato
fon f, opra 7 Palaz.zo Quafi tutt' oggi in una lite
lunga D' un mio Parente, l' Avvo cato awerfo : Tanto ha
ciarlato tc. Da quelle ultime parole fi può dedurre, aver
egli in ciò avuta la mira alle proprie liti. I Componimenti
die c’ fece avanti la fua ultima partenza dalla Patria, fono primieramente
il feguente Epigramma latino, che fi legge eziandio llampatO' negli
Elogi di Monlìg. Tommafini pag. j 6., ed anche tra le OpcTe del
noftro Autore della riftampa di Verona Tom. 1 . in fine. „
Quatramus terras alio fub 1, cardine
Mundi, f „ Quando mihieripitur frau„ de paterna T)omus. „ Et
fovet hanc fraudem Venetum fententia dura Qux Nati in patrem comprobat
infidias: >» Qux Natum voluit confe&um xtate Parcntem,
„ Acque xgrum antiquis pellcre limitibus. „ CharaDomus,
valea*, dulcef„ que valete Pcnates, „ Nam rnifer ignotos
cogor adire Larcs. Indi un Sonetto, che fu inferito nella Biblioteca
Potante del Cinclli, Scansìa xxn. aggiun- dirittamente all’Imperator
Carlo V., al quale cariflìmo era* da cui apprefso licenziatofi, da
Trento, fenza purpafsare per Vicenza, fe n’andò a Mantova r e quindi da
capo, tuttoché vecchio fofse, e molto gottofo, fi ritorno a Roma, dove
era Rato tanto onorato, ed amato. Ma poco quivi fopravvifse,
concioflìachè. tra per lo cruccio, e passa di quella vita. Non fi fa veramente
ove fia di prefen giunta da Gilafco Eut elide» fc,
Pafiore àrcade, ( cioè dal P.Manano Rude Carmelitano cc. In Roveredo
frego Pierantonio Perno, 1736. in 8.: a car. 82. e 83. il qual Sonetto fu
comunicato all' autore di quella S con zia dal ! Cavaliere
Micbelagnolo Zorzi, | di cuifeperciòa car. 8+. lodevol
menzione, E' notabile l’errore cotnmeffo da Luigi Groto, foprannominato
Cieco d’sldria, in propoli to di quello Sonetto nelle tue Lettere
familiari. In Venezia, preffo Gioì sintonia Giuliani, 1616. in8.a car. 124.;
perche quivi parlando del Tr issi no lo chiama Brlsci ano, e Padre deir
Jtalia Illustrata. (na) In alcune manoferitte memorie intorno
al noltro Autore, comunicateci cortefcrr.cnte dalla gentilezza del lodato
Sig. Apoftolo Zeno, dopo 1 ' Epigramma e Sonetto fuddetti,
ili legge come fcguc. M. Zan! zorzi fece ciò per una lite, che \ veniva
tra ejjo, et P Arciprete | M. Giulio fuo figliuolo di la Ca \fa di
licenza, ove dillo M. Zanzorzi hebbe una fententia centra in
Quarantia, et con queftà opinione andò a P Imperatore, e ritornato in
Trento fenza venir di qua per la via di Mantova, Ticchio, pien di gotta
Il rimanente non s’ intende per edere rofo il foglio. Che il
Trissino moridc l’anno 15 jo. conila non folamente dal concorde
confcnfo degli Scrittori, ma da una Lettera di Giulio Savorgnano,
fcritta a Marco Tiene, gentiluomo Vicentino, fegnata di Belgrado addì 29.
di Dicembre 1150.: della notizia della quale al già mentovato Signor Abate
Don Bartolommco Zigiotti ci confefflamo unicamente debitori. preferite il fuo monimento } ma Autóri
parecchi hanno fcritto, eflergli ftata data fepoltura in Roma medcfimo
nella Chicfa di Sant’Agata entro lo ftefso Depofito, in cui era ftato fepolto
molto tempo innanzi il famofo gramatico Giovanni Lafcari (114); e
Jacopo- Augufto Tuano nelle lue Morie) facendo di Giovangior.gio
molto onorata menzione) accenna) che gli fofse ftata anche fatta
una lapida» poiché dicc 5 che efsen H. 2 do Tra gli altri Scritto - 1 della Città coltra,
di cui il P, ri, che addurre li potrebbono, Rugcri avea fatta
menzione avvi Paolo Beni, che nel T rat- nella detta fua Opera a car.
xxvr. tato àell'OrigMlla P amigl.Triff. | dice come fegue .,,
Quoniam lib. 2. manoferitto, a car. 34. cosi dice :
Partitofi ( il noftro Autore) nell' A. 72. della fua et 4 per di f
gufi 0 dalia Patria-, il che egli efpreffe con alcuni verfi latini
et volgari ( cioè l’ Epigramma, c*l Sonetto predetti) li quali ferini a
penna nella libreria Ambroftana di Alitano con altre molte fue
compojìtioni non ancora fiampate fi conferva . no, andò in Germania
a ritrovare l' Imp. Carlo r., et ritornato in Italia per la via di Trento,
e Mantova pafsb a Roma, ove morì, et fu il fuo Cadavere poflo in Depofito nella
fepoltura del Lafcari. E Olindro Trillino in fine della
DeclamazJone latina del P. Rugeti, citata di fopra, da elfo fatta
(lampare, traferi vendo il già mentovato epitaffio, che fi legge in San
Lorenzo meminit Au&or Epitaphii, „ Cenotaphio loann.
Georg. •„ Trifiini Vice ti* infculpto „ (Relliquum cnim tanti Vi-,,
ri, quod Claudi poterat, Ro-,, M.C in Tempio S. Agatb* in „ Suburra
Conditu.m Fuit) illud hic &c.“ E finalmente anche lo Beffo Rugeri nel
citato luogo afferma, che Eius offa-, ( di G1oVAN GIORG I o ),
Roma cum Jo. Lafcari cineribut affervantur . Comunque lia di ciò,
fatto fta che al prefentc in S. Agata di Roma tuttoché fuffiffa il
fepolcro del Lafcari, non fuffifte più veruna memoria del Tr
issino; come ci fe certi il P. Girolamo Lombardi della Compagnia di
Gesù con fua lettera fcrittaci da Roma addi 11. di Novembre di
queft’ anno 17} 2. do diroccato il monimento nella
reftaura2ione‘ del Tempio (non ifpecifica quale^, ove era Ila*to
feppellito, gli eredi Tuoi un altro gliene pofero in San Lorenzo di Vicenza
nell’avello de’ fuoi Antenati ( 1 1 5 ) In fatti in San Lorenzo fi
vede l’infrafcntto epitafio, opiuttofto elògio, tante volte in queft3
VitA citato, da Pompeo Trillino, e da’ fuoi affini' fatto ivi fcolpire,
non veramente fa 1’ avello' degli antenati fuoi, come erroneamente ha lardato
fcritto ilTuano, ma allato all’altare dr detto Santo, a perpetua decorofà
memoria di; un sì grande uomo. IOAN- lllujhis Viri J m obi
Au~ Xufii T hunni Hiftoritrum fui tem. pori s Ab Anno Domini i J43.
nfque Ad annum 1607. libricxxxvt 1 I. Gcnev* apud Heredet Pctri
de U Roviere Lite. D. „ Obli c et hoc
anno « I. Georgius Triflinus peran» tiqua, nobiliquc Vicetise fa. »
milia, ad virtuccm, Se lite „ ra* natus, linguarum periti fj> fimus»
Se omni Scienciarum,, genere exercitatiffimus »> Roma laboriofz
virar finem „ impofuic anno xtaris lxxii. >» Diruto Monumento»
dum „ Templum inftauratur, in quo „ conditus fuerac, Hacrcdes al
iud i» ei ad S. Laurentii in Majo„ rum Scpulchro Vicctia pò»
fuerunt. Digilized by Googli 61 IO' ANNI
GEORGIO TRISSINO Putriti o Vicent. tAtn nobilitate,
quarti dottrina, (fi integt itato Leoni Decimo, et Clementi VII. p 0 „t.
Max. necnon Alaximil. (fi Car. V. Impp. aliifique Pfincipibus
acceptijfimo, Legationibus prò Cbrifiiana Repub. temporibus
difficillimit fattici cum oxitu apud eofdem per alì is :
Dacia inde Regi desinato . Jn Coronai ione Caroli Imperatorie ad
Sacra Palla Pontificia nitentis ferendi Syrmatis Munus,
infignioribus Principibus ad hoc ipfum afpirantibut pofi habitis,
Bononia eletto . Aurei Ve Iter ij Infignibus » (fi Comitis
dignitate prò fi » et Pofieris ab
eifdem Imperatori b. decorato. Apud Ser. Remp.
Venetam fapixs Legati nomine de Clodianis Satin ù, de Ve. rona refi
itut ione, De Pace, Deq\ aliis negotiis gravibus re ad votum
tran fatta. Sublimiori gradu Sobelis ergo r confato. Operibut
plurimi e cum antiquitate ceri antibus elucubrati s. Rebus finis* et Pofieris eidem Inclyta Reipublìca
Ven. ex tefi amento
commendatis . Vitaq; religiofijfimì funtto Anno Aitai is
Sua LXXII. Virgìnei vero Partus A4. D. L. P ompejus
Cyri Comitis, et Eq. fil. unicus Superfies, Nepes, (fi Hares,
AJfinefq; T anti Antecefioris Memores pii, gratiq; animi A4.
P.P. An. Salu. A4. DC. XV. Non (116) Di ciò
non facemmo [nc abbiamo trovate tipruovc più fpecial menzione, perchè
nonjficure. Non dee tralafciarfi di qui trafcrivere
altresì l’ Oda latina da Giufeppe Maria Ciria fatta in laude del noftro
Trissino ( 117) - j) FAma centenis animata linguis » Aureo
pergat refonare cornu 3> Trissini Busto fuper 5 et jaccntés 33
Excitet umbras. 33 Fas ubi trilli gemuere lu e Lamino Perugino nel
MDXXjy in 4. . e C^enza luogo > anno> e
ftampatore ) in i e (Cón la SofonUba, i Ritratti, e l'Orazione
al Principe Oritti ) In renezJat per Girolamo Penzio da Le.
che, C Venezia per Agoftino Sindoni e finalmente in
rerona coll’ altre Tue Opere ( 1*1 )• li. EPISTOLA de
le Lettere nuovamente aggiunte ne la 1 2 > Lin- Nel
Catalogo della Libreria Capponi, 0 Jta de' Libri del fa Afarchcfe Alejf
andrò (ire. gor io Capponi, Patrizio Roma-\ no ec. C on Annotazioni
in di- j verfi luoghi cc.. .. i n R oma ap- preso il Bernabb, e
Lazza. : rmi 1747. in 4. a car. 377 .| vedcfi regillrata tale
edizione;) ma farà forfè quella fleila, che fic fu fatta unitamente
co’ Ri- ! tratti, e colla Sofonisba, cd al- ‘ tro, da noi per altro
non ve-| duta, che ha quelle note in fi-| j ne P. Alex.
Benacenses F. Be- na. V. V.; fecondo che dice il j Cavaliere Zorzi
nel Ragguaglio ! JJlor. della rita d’O. manoferitto, in fine> cd
anche nel Difcorfo fopra le Opere di lui, llampato nel tomo 5.
della Rac colta A'Opufcoli ec. in Venezia apprcjfo Crijtoforo Zane,
i 7 jo. in la. car. jp8. Di quella Rac- colta ne è benemerito
Autore il celebre P. D. Angelo Calogerà. ( Tom. a. a car. 2 7
p. . Digitized by Googlc -. rugino e m
Venezia ( Tenz’ anno, e ftampatorc in 8. e ( COn la Sofonisba,
l'Epiflola de la Vita ec., ed al- Tom. 3. a car. 993.
( ia8 ) Tom. 2. a car. 201.
Il Fontanini nel regi- ftrare nella tua Eloqu. hai. a car. *
75 - la fudJetta edizione, prete uno fbaglio, notando Venezia in
vece di Vicenza. Tom. 2. a car. 243. ( l ì*J Nella Prefazione
alle I Opere del rioftró Autore a car. xxx. ( 1
3 2 ) Si legga il Difcorfo del I Cavaliere Zqizì {opra C Opere j
del noftro Autore a car. 440. Nel Catalogo della Libreria Cap-
[poni, a car. 377. Ih regiftrata [un’edizione di qucft’Opcra in j
8. lenza nota di ftampa, ma quella ed altro ) In Venezia per
Girolamo Pernio da Ischi mdxxx. in 8. e V* net. per
Ago/lino Bindoni e finalmente in Verona colle altre Tue Ope- re
Il T rissino fcrifle quell:’ Opera a mòdo di Dialogo, e in ella
lodò parecchie Donne rag- guardevoli del fuo tempo i facendo tra le
altre menzione )come fopra è già detto) di Bianca fua feconda
moglie, chiamandola beiuffima giovinetta . Vi. Il Castellano, Dialogo,
nei quale jì trae. ta de la lingua Italiana . In Vicenza ( fenza
nome dello ftampatorc, nè anno della ftampaj ma ter Tolomeo
Janiculo . ) in foglio. e ( colla Volgar Eloquenza di Dante) in
Ferrara per Domenico Alammarelli
1 1 K in 8. Fu riita mpato anche tra gli Autori del ben
parlare, e in Verona coll’altre fue Opere. O. manda quello suo Dialogo a
lo ili ufi re Signor Cefare Trivulzio, fottO il nome di Arrigo Dori a
; e iperfonaggi, che v’introdulfe a favellare, sono Giovanni
Ruceiiai col nome di Ca/iciiano, il quale di- fende l’Autore da quanto
gli fu fcritto contro circa le nuove lettere } Filippo Strozzi, che lo
Cdlfura, e gli quella forfè farà, che abbiamo] (133)
Tom. 1. a car. accennata al di fopra nell’anno- . Tom. r. a car. 41.
(azione ITom. 2. a car. c gii
oppone le parole medcfime de’fuoi avver- sari ; e Jacopo sannazx.aro y
che difende le ragioni del Trissino. Della Poetica; Divisone i. n.
m.*iv, Jfu riceva perT olomeo Janiculo da Bretfa MDXXIX. di
Aprile. in foglio . Monfignor Fontanini regiftrò nell’
Eloquenza ita. liana quelle
quattro prime Divijìoni in tal guifa : Dalla Poetica di Gìangiorgio
Trijfmo, Divijìoni iy. in Vicenda per Tolommeo Janicolo. in foglio:
ma flc- come noi non abbiami vedute altre edizioni, che la
fuddetta del 152 p., e quella di Verona ; e di altre non facendo menzione
nè il Fontanini medefimo, nè l’Autore del Caia - lego della
Libreria Capponi, nè ’1 Cavaliere Zorzi in nefliina delle due fue
Opere intorno al Traino, (138), nè finalmente chi compilò la
Biblioteca italiana; così crediamo agevolmente, che egli in ciò fi
fia ingannato . Lo Hello diciamo parimente della feguente impresone delle
altre due Divijìoni, da lui notata i 140) fotto il
1564. A car. 354. j 1718. in 4. a'car. Coll’ altre fue
Opere, e 17. e nell’Indice: Il Com- Tom. a. a car. 1- ! pilatore di
quella Biblioteca fu Cioè nel Difcorfo /o-jNiccoIa Franccfco Haym
Ro- pra le Opere di lui, e nella Vita mano. del medefimo
manuferitta. ! Neil’ Eloqnjtal. a car, { li9) Biblioteca Italiana
cc. In 354. Venezia prejfo Angelo Geremia . 5 che pure non farebbe
il folo errore conv meflfo dal Fontanini in quella fua Opera.
Della POETICA; Divifione . In Ve . - per Andrea. Arrivatene, Sono
fiate tutte ultimamente riftampate ì* a?»»* coll’ altre fue Opere.
Quelle ultime due Divìfioni furono dedicate dall* Autore ad Antonio
Perepoto Vefcovo di Aras ? con dirgli > non aver loro data 1' ultima
mano per effere fiato in quel tempo grandemente occupato nella
teffi.- tura del fuo Poema dell’ Itali * Liberata da Goti, Nelle
prime quattro Divìfioni tratta egli de’ Ver- fi, delle Rime, e delle
varie maniere de’ Li- rici Componimenti volgari : e dice in princi-
pio » che fé bene da molti Poeti tra fiato pot tic amen* te Jcrittoy e
con arte, pure nefiùno fin al fuo tempo avea deir^r/ a voffra Reve-
Furono più volte flant-j rtndìffìm a Paternità molto, et pata. V. fopra car.31. annor 55. | molto mi
raccomando. ove s’c favellato di quefta Ora- i Da Cric oli-, di luni, cincone
. V‘t di Marza del mille cinque Tom. 2. a car. 28?. cento trenta/ette, il
tutto di In fine di quefta Let- \ Fopra RevcrenditfmaTatermta. tcra
fa il Tris sino menzio - 1 Giovanceougio Trissino. ile fuccinta eziandio
di certi al - 1 Quefta lettera non (apremmo tri Villaggi del Territorio
di perchè non fi a (lata inferita nelViectiza ; c poi termina con | la edizione
di Verona, quefte parole: A 1 on faro più I (^ P inrgia appreffo
lungo, perciocché effondo Monf,-\ Pietro dei Nicolini da Sabbio
gnore Brevio noftre lo apporta- \ mdm. in 4 * * Car> 3 ^ 1, a tcr S 0,
tare di quefta, egli fupplirà a I (iji) Ivi» ed anche a car. bocca a
quello, che io bavero. in fine. DEL T RISSINO.
75 GRAMMATICES introduci ionie Libcr Primus. Verona afkd
jintonium Putellettum Fu rijtempato quello Trattatello in Verona unitamente
coll’altre fue Opere dove si premette un breve avvilo al Lettore, dicendo
in eflb, che la detta Operetta forfè è quella, che fittone.
me di Grammatica fi cip* da quelli, C hanno fatto U Catalogo
dell'onere del *oJItq T*is«no, e forfè ancora nella prima edi. itone fi è
dallo Stampatore coti nominata > Libro Primo 5 per rifletto 4' altro
giceiolo Libretto » che contiene le inflituzioni della Grammatica del
celebre Guari» Veronefi, e che figuitandogli immediatamente, fui far le veci di
Secondo diquejfa materia. Non fi fa in fatti che il Tri ss ino
altri ne facefle i e certamente altri non ne avrà compofti,
concioffiacofachè nulla manchi alla perfezione dell’Operetta medefima* in
cui egli attenendoli alla Italiana Grammatùhetta, tratta
compiutamente delle otto parti dell’ Orazione . K i OPETota.
i.acar.197. OPERE i DEL TRIS SI NO
>. In Verlì Stampate. LA SOFONflSBA ( in fine } Jfampata in
I v Rama per Lodovico Scrittore, et Lautitio Perugino intagliatore nel
MDXXllU- del Me fé di Luglio con p rohibitione, che nefsuno poffa
Jfampare queft opera per anni diece t - come appare nel Brieve concedo al
prefato Lodovico dal San . tifiimo Noflro Signore Papa Clemente VII. per
tutte le Opere nuove che 'Iftampa. in 8. Laltefià. Jn
Vicenzjt per T olomeoj articolo e In Venezia ( con li Aitratti I* Epiftola
a Margherita Pia Sanlevenna y f Orazione ai Doge Gritdj
e la Canzone a Clemente VII.) per Girolamo Pernio da Lecbo. in 8»
e ivi ( lenza la Canzone ) per Agoflino Bìndoni Ivi ancora (reparatamente)
prejfo u Gioliti mdliii. in 12. c Ivi per Francefco
Lerenzini MDLX, in 8# * e Ivi P” u Gioliti ( tratta dal fuo
primo efemplare) mdlxii. in n. - *' £ Jn
Gntovrfapprtffo Antonio Bellone * e Venezia per Ginfeppe Guglielmo,
>s T UO- Nuovamente ** Venezia prejfo Altobello Salica io
Poi In Vicenza prejfo Perin Librar o t e Giorgio Greco
compagni in 12. e in V me zia prejjo li Gioliti mdlxxxv. e
mdlxxvi in n. e Ivi per Domenico Cavale «lupo. ili 8.
e Ivi preffo Michel Bocobello " Poi ancora inVicenzA
appreffo il Brefcia e in V inezia per Gherardo Jmbcrti . Fu riftampara eziandio
unitamente con la Dpijtola de la Vita ec. (con li Ritratti, e X
Orazione al Doge Gritti) fenza nota di ftampa, con certe note in
fine, in 8. (15?) Finalmente fu impreffà tre volte, in re.
rena prej/b Jacopo raiUrji, F una . nel primo tomo del 7 Wr» italiano
(154), l’altra nel 1729, colle altre Opere del noftro Autore, e
la ter V. fopra annotazione l2c. a car. 67. (
>54 J Di quell’ Opera ne dobbiamo laper gradoni Signor Marchefe Maffei, il
quale v' ha premevo ancora una dotta Prefazione, da noi altrove accennata, in
cui difeorre molto eruditamente della Sofonisba, che occupa il primo
luogo. Quell’ Opera è cosi intitolata t Tea-\ tro Italiano,
o Jìa Scelta di Traj gedie per ufo della frena ; ec. i in reron a prefso
Jacopo Vallar fi 171S. in 8. Tom. 1. a car. .
Tralafciando di riferire le vcrfiotti fatte di quello Tragico
Componimento in altre lingue, fedamente vuol di rii, efTere cffo fiato
tradotto in metro Jambico latino da Giulèppe Trillino la terza nel
prima toma del fuddetto Teatro italiano ultimamente rillampatoQui dovremmo
ftenderci a defcrivere a minunuto le bellezze di quella Tragedia, aia per
non dilungarci troppo, ci riftringeremo (blamente a riferire ( come
di fopra prometto abbiamo ) le oppenioni di parecchi illuflri e chiari
Scrittori fopra la fletta, £ primieramente Niccolò Rotti, tanta
ftima ne fece* che non pure ditte ( 1 5 . che ella tra tutte le Tragedie
de’ Tuoi tempi teneva il primo luogo? ma la fcelfe di più per materia de’
Tuoi Dimorfi intorno alia t rogo dia. Angelo Ingegneri? Veneziano, laido
lcricto, non efler troppo agtvol cofa P arrivar P Arìoflo nella
Commedia, atrissimo nella Tragedia r del qual fentimentO fu pure
Giovambatilla Giraldi da Ferrara, per altro rigido appuntatore del Trissino,
dicendo, che tra’ noftri Comici è recito p Ariofio eccellentijfmo,
et il TrHsino nelle Tragedie ha riportato, et ragionevolmente grandijfmo
honort . Benedetto Varchi poi, uomo di molta erudizione fornito,
non dubitò di dire nelle fue Leudoni > là dove trattò
dei no, Cherico Regolare Soma- 1 meffaa* fuoi Difeorfi
intorno alla (cor la qual traduzione fta ma- j Tragedia . V.’car.
1j.aonot.44. nufcritta nella Libreria de' P. P. I Della Poefia RappreSomafchi
di Vicenza con que- 1 fentativa, et del modo di rap fta femplice ifcrizione:
Sopho- I prefentarr le Favole Sceniche cc. NUB/t Tragedia metrico-latina
1 In Ferrara per littorio Baldini Paraphra/ìt . IJ98. in 4. a car.
a. Lettera a’ Lettori pre -1 Ne' fuoi Difeorfi intorno dei
Traici Tofani (159), edere ftato il noftro CjIOVANGIORGIO il P R 1 AIO »
che fcrivejfe Tragedie in queJU lingua degne del nome loro. E flOIl pure
il Vàrchi gli diede quella lode* ma eziandio il fopraddettoGiraldi, il
quale nel fine della Tua Orbecche introducendo la Tragedia a favellare a chi
legge, le fece dire cosi: £’l Tr ISSINO gtWtH, che col fno
canto Prima d Ognhn dd Tebro, e dall UH f so Già trajje la Tragedia
all’ end e et Arno . E a tralafciar altri autori, non fu minore
la ftimaj che d’efia fe il Signor Marchefe Maffei, il quale nella
fua raccolta di tragedie date a luce Col titolo di Teatro Italiano, dando all 1
Sofonisba nel primo tomo il primo luogo, dille, che ella il
primo luogo altresì occupa fra tutte quelle Tragedie, che dopo il
rinafeere delle bell' arti in moderne lingue apparsero ( 161 ); foggiungendo
cfler mira. HI terno al comporre dei Romanzi,] (160)
Nel principio della delle Commedie, e delle Trage-i Prefazione, o
Difcorfo, che vi dte, cc. in Vinezia appejfo Ga - premette . briei
Giolito de' Ferrari, &\ Avverte qui
dottameli. Fratelli, . acar.14jr.Jtc il Signor Matchefe, che benLegioni
di A 4 . Bene- j che vero fia, clic avanti la Sodetto Varchi Fiorentino lette
da' fonisba il nome di Tragedia in lui pubicamente nell' Ac ademia J
Italia fia ftato a’ componimenti Fiorentina, ec. in Fiorenza per |
volgari impofto, poiché, die’ Filippo Giunti 1590. in 4. a car.J-egli,
con queji' ijtejjo belliffmo 681 •, argomento una Tragedia abbia '
mo, è il ctfa, come la [rim a Tragedia riufcifle cui
eccellente: C po CO apprell'o a fieri, che chiunque no n abbia » come
in molti accade, il gufo del tutto guafto da certe Romanzate ftramere,
non [otrà certamente non fentir/ì maravigliosamente com. muovere dalle
belle vue di queftaTragedia, e da' p a fi tenerijfimi, c Singolari,
che in ejfa fono. E finalmente in un altro luogo lafciò fcrittOj'che vera
e regolata Tragtdia in quefla, o in altra volgar lingua non fi vide avanti
la Sofonisba del T R i s s i N o » a cui il bell' onore non dee invi diarfi
d'aver innalzate le nofir.e /cene fino a emulare i fiamofi efemplari de'
Greci* Ma degno di (ingoiar lode 5 e d’eterna memoria fi rendette
il noftro Giovangiorgio per aver ufata in quefta Tragedia una nuova maniera
di verfi, e da veruno non prima ufata, dico i verfi fciolti, cioè non
legati dalla rima*, di che e il Giraldi e per la condotta
tanto fi allontanano dal regolato ufo del Teatro, e dalla furia
degli antichi Maeflri, che non hanno fatto confcguir luogo agli slutori loro
fra ^ Poeti Tragici; onde la gloriaci' aver data al Mondo la
Prima ! Tragedia, dopo il riforgiment» 1 delle lettere,
e delle bell' arti, è rimafia al Tr 1 s s 1 n o . i A car. iv.
della fud* j detta Prefazione, o Difcorfo p.renjeflfo al detto T
entro Italia * no . I
Difccrfi cc. a car. 23 6. ! Di f par crebbe non altrimenti
ap* 1 preffo noi una Tragedia fe di ver1 fifo tutti rotti, 0
mefcolati cogl’ ! intieri, o co gl' intieri foli c'h.u j veffero le
rime, fifle tutta compìfi a, che havtrebbe fatto appreflo i Greci, et i
Latini, fefujfeft at a 1 ccm . del T Ri s s i n o;
. ‘ Si Ivlaffei
(154) afsai lodatilo, e dicono, che perciò gli debbe fentir molto grado la
noftra lingua. Ben’è vero, che vi fu chi a Luigi Alatnanui., famofiilimo
Poeta Fiorentino, attribuì la gloria d’aver prima d’ognuno pofto in ufo
co.tal Torta di verfii e ciò perchè egli -nella Dedicatoria delle lue opere
To/cane dille d aver mejfi in ufo i .ver fi fenza le rime non ufati
ancor mai da' noftri migliori.,Ma come notò molto giudiciofamente l’eruditiffimo
Signor, Conte Giovammaria Maz 2 uchelli [166), o che l' Alamanni contezza
non ebbe della Tragedia del Trissinoj e però fi pensò d‘ efsere il
primo a fcrivere in detti verfi, o che accennar volle colla voce migliori
qué’foli antichi fcrittorij .che fon venerati per primi Maeftri L
della é compofia di Dimetri, di Adonii,\ Fiorenti* 15S
9. in 4. a car. 7. di Jindec afill ahi, ovtro di éjfa- come pure il
Bocchi nc’ fuoi E Iometri, perchè le fi leverebbe con' gj a car. 68., ed altri
allegati la gravità il verifimile ; le qua- \ dal Sig. Co.'Giovammaria
Mazli due cof* levatele, firimarreb-\ne ucheìli nella Pira dell’Alare ella
fenz.a pregio. Et però manni per etto dottamente ferie— debbono aver
molto grazia gli' ta, e (lampara • in Verona per huomini della nqfira
lingua al ! Pierantonio Berno, 174 j. in 4. T R 1 s s ino, eh' egli
quefli ver- j unitamente colla Coltivaz.icne Ji fcielti lor dejje, ne'
quali la j dello ftcflfo Alamanni, c colle Tragedia pigliale la fede
della \ Api di Giovanni Rucellai, fu* Maefià con vera fembianzut amendue
gentiluomini Fiorenatl parlar communi* I tini . (164) Nella
Prefazione al j A car. 47. della pcc’ Teatro italiano. I anzi citata Tita
di Luigi Ala Il Poccianti nel Cata-j manni. logo Scriptcr,
Florentitiorum della Poefia. Fatto fta però avere il T rissi no»
come già è detto» la Tua Tragedia comporta vi* ventc Leone X. a cui la
dedicò » cioè a dire prima che l’ Alamanni fcrivefle le Tue Opere»
che furono ftampate nel in 2 * (*^7)* E perchè v'ha una Commedia di
Jacopo Nar* di, Fiorentino, intitolata amicizia (j e dell' ortografia
antica della predetta Commedia, e fu Taverla il Nardi
chiamata nel Prologo fabula nuova, c primo frutto di Ytvovo autore in
Idioma Tofco, decife francamente > effcr la piti antica, e la prima di tutte
le Commedie, che fi vedeffe feruta in 1/crf, Italiane: aggiungendo, che
dalle quattro stante ftampate in fine di efla Commedia ( 172), appar chiaro
efier efifa finta compo L 2 fila * I. " L - - u j,
j Il Crefcimbejoi nella [che egli verarnente prete yno Star,
della l^olg. Poef. dell’ edi- 1 sbaglio, perchè il Varchi dille zione di
Venezia* tom. r. lib. folamcnre, che il Nardi usi in lib. J. a car. 1 1 V
parlando del ! una fua commedia i verfi fciolti. verfo fciolto j dice,
cheiIVar| A car. 4J5. e fcg. chi, lafciando indubbio, fe il J Quelle
Stanze fono le Tris e dì guerre accefe in Tofcana, e per tutta l'
Italia : il che (dice egli) pienamente corriffondt all' annoi 494.
in congiuntura del. la venuta del Re Carlo Vili, in Italia-, e della
cacciata de' Medici da Firenze . Ma quanto egli favellale a
capriccio? ognuno-, che fiore abbia di letteraria erudizione, può
agevolmente chiarirfene. Conciolfiacofachè quantunque Da quel-, da
cui ogni falute pende Letitia et paco: a cui fittoil tuo
fogno Si pofa : et lieto ogni tuo bene attende: j Et
ceffi il Martial furore et /degno:
Cbe fa tremare H Mondo: Italia incende, Chel clanger
delle tube, et il fuon dettarmi Non laffa modulare i
dolci carmi. Ma quello Dio, che olii alti in- gegni
afiira: Et ogni opera dif prezza abie- tta dr vile:
Tanto- favor benigno oggi ne fint- eti pur la fronte
extollt il ficco umile. Ma fi lodore antiquo non re-
fi™ Stufate lo idioma : et baffo fHle. Et fcujt
il tempo Ihuom fag. gio et difereto Che molto importa il
tempo fri fio 0 lieto . ]_ Quando farà che in porto al
| ficco lido Salva (Fiorenza mia ) tua barca
vegna Secura in tulio homai dal mare infido: T
efio : Se il Sacro -Apollo il ver minfegna Segua pure il
Nvcchkr ac- corto et fido : Et viva, et regni pur Chi
vive et regna-, -Allhor (fé alcun difir dal Citi' s
impetra) Diro le laude tua con altra Cetra .
-Allhor mutato il Cielo in altro afielìo Renoverà nel
Mondo il Secol dauro-.- si libar farai degni virtù re-
cepto : Cipta felice: et di mirto, et di Lauro Coronerai chi honore ha
per obietto. Et nota ti farai dallo Indo al
Mauro. Ma hor eh' il ferro et il fico it Mondo a in
preda Convita eh' a Marte ancor Minerva ceda 8$ tunque di
ciò, che il Nardi dice in principio delle fud dette Stanze, (cioè
che elle fi cantarono falla lira davanti alla Signoria» Quando fi recitò
la predetta Conr media) racC ogli e r fi poflìi e (Ter efsa fiata
rapprefen- tata in tempo che Firenze non avea cefsato ancora d efsere
Repubblica ; nientedimanco nè da quefte parole > nè dalle stanze
fiefse può dedurli che il tempo della recita d’efsa Commedia cor .
rifa onde Piènamente . in congiuntura de- gli avvenimenti fuddetti.
E fe egli in dette stanze fe menzione di guerre moleftillime a tutto
il Mondo, non che all'Italia, non ne fpecifica pe- rò il tempo j
anzi le accenna in maniera che fi potrebbe più verifimilmente
conghietturare aver egli voluto in efse indicare le guerre in cui dall’
armi ddl’Imperator Car- f lo V. Roma fu prefa, e Taccheggiata, il
Papa (che era Clemente Vii. di cafa Medici) fatto pri- v
gione, l’Italia molto travagliata, e tutto il Mondo, dirò così,
afflitto da gravilfime turbolenze. Oltreché non è probabile, che la
signoria in tem- po di guerre e di turbolenze inteftine fi fofse
data bel tempo, e fe la fofse pafsata (comefuoi dirli) in allegrie, e in
divertimenti di Gomme* die. Laonde con migliore probabilità fi può
dire, che la Commedia del Nardi fofse rapprefentata nell’anno 1530.
giacché in queft'anno e Clemente, Vii. ritornò a Roma dopo la pace fatta col
fud. detto detto Imperatore, e dopo averlo anche
folenne-^ mente coronato nella Città di Bologna; c Aleflan- dro de
Medici fu fatto Duca di Firenze dal mede- fimo Imperatore; fotto il
Dominio del quale la Città non lafciò in certo modo d’eflere tuttavia
Re- pubblica. E verifimilmente un de’ due accennar volle il Nardi
nella voce Nocchiero, ufata nel quinto verfo della terza ftanza, e ad uno
de’ due pari* mente, o fors’ancbc a tutti e due pregò egli PitA t
Rtgn? nel fedo verfo della ftanza medeilma r E viva > et regni
pur Chi vive et regna. Se poi egli chia- mo la Commedia fabula nuova i e
primo frutto di nuovo uè ut or e in idioma t ofeo, volle con ciò
indicare la novità dell’Argomento, ma non mai la novità del verfo,
come pretefe di farci credere il Fontani- ni nel citato luogo : c perciò
fu giuftamente cen- furato dal Dottore Giovannandrea Barotti nella fila
JOifefa delti Scrittori Ferrar e fi
A quel che fi è detto fi può ancora aggiungere * che non fi
troverà certamente, che lo Zucchetta, per cui fi crede, che fofle anche
fiata fatta la pri- ma edizione della predetta Commedia * libro al-
cuno ftampato abbia avanti! 1517.» 0 al più al più avanti > quando il Trissino avea già
com- Parte feconda A car.n j. I tutori / opra P Eloquenza
Italia- Queft’ Opera del Sig. Bacotei faina del F anfanivi, Roveredo[
ma Campata tra gli Ejfami di Tarj veramente Venezia) comporta là fua
sofonhba. Ma per- chè più chiaro appaia l’errore del Fontanini ? e
del Guidetti altresì nella fua relazione al Var- chi, e come a torto vuol
toglierli al Tr issino da alcuni moderni la gloria della invenzione
dei Verfi fcioltij vogliamo qui riferire ciò ? che al medefimo
noftro Autore dille Palla Rucellai nella lettera ? colla quale gl’
intitolò il Poema delle Api di Giovanni Rucellai ? Ilio fratello? che
che è fegnata di Firenze Voi fofte il Primo (gli dille) che quejio modo di
fcrivere in •verfi materni liberi dalle rime ponefte in luce, il q»al
modo fa Voi da mio fratello in Rojmunda primieramente, e poi nell'
ji- pi » 0 nell' Orefie abbracciato, ed ufato: e apprellò chia- mò
f Opere dello fteflo fuo fratello Primi frutti della Invenzione del
Trissino. Per le quali cofe tutte forza è, che conchiudiamo? che a gran
ra- gione non pure dagli antidetti Scrittori? ma dal Tuano e da
altri ( ìycr ) fu il noftro Au- tore . Veggafi la foprallega-
! FHJlor. &c. Toni. 1. lib,
ta lettera di Giovanni Rucellai vi. Ann. 1550. pag. 200. lctt. ai
Trissino fegnata di Fi - \ D.„ Jo: G e or g i U s Tbis> terboaddt 8.
di Novembre mdsv. j », sihi's .... P ri m u s genu $ ftampata nella Prefaz.
alle Ope-',> canninis foluti foelicitcr ufur- re dello fteflo Trissino
a car. ‘ „ pavit, cum a temporibus Fr. xv.} e a car. xvm. v’ha una „
pcirarchae Itali Kythniis ute- Lettera della Marchcfa Ifabclla,,
rcntur. di Mantova al nollro Autore; ( 176 ) Filippo Pigafctta, Vi-
de* di 24. di Maggio 1514. in ccntino, nel Difccrfo mandata cui gli dice,
che avea ricevutola Celio Malafpina in materia una fua Lettera, Ferfi, et
Ope- ‘ dei due Titoli del Poema di retta, la quale fi può crede- Torquato
Tallo, premeflò al re, folTc la Sofonìsba, Poema fteflo delia edizione
di Fette- Digitized by Googl SS •' La
Vita torc chiamato Primo inventore di qucfti verfi. Ma
per tornare alle opinioni degli Scrittori fopra la Tragedia del Tassino»
non fu ella efen- te da’fuoi critici, rare eflfendo quell’ Opere,
in cui non fia ftato notato qualche difetto. Il Var- chi nel citato
luogo volendo darne giu- dizio, la oenfurò fpezialmente per la locuzione,
dicendo COSÌ: Io per me quanto alla favola, e ancora in molte cofe
dell'arte non faperrei fe non lodarla -, ma in molte al* tre parti, e
fpezialmente d’ intorno alla locuzione non faperrei, volendola lodare, da
qual parte incominciar mi dovejfi . E nell* JErcolano diflfc: La La
Sofonijba del Tr isslno, c la Rofmunda di mefier Giovanni Rucellai, le
quali fono loda tijftme, mi piacciono sì, ma non pia quanto a molti
altri. 17 al C k Venezia per Francefco de' Fran- j che
come fi avea d aver grazia, cefchi. in 4., dice, che \\\al Tr 1 s j i N
o, c'havejfe dati Tr1ss1no fu il Primiero; que verfi ( fciolti ) alla
Scena, che in italiano abbia ofato, e | così cc. Finalmente il Giti
di faputo ..., camminare per fen - 1 medefimo in una delle fueLettiero
erto, non più calcato da terc.tra quelle di Bernardo l af' vernn altro dal
tempo antico in fo. In / 'a dova ., apprefi quà, faivendo in Verso dal-
fo il Cornino-, in 8.; toni. a. a la rima Sciolto, con avvefttu- | car.
198. apertamente chiamo 1 rato ardimento, la Sofor.isba Tra - ITr.ssino
Inventore di tali tedia ce.. HGiraldi poi ne* Di fi ! verfi : la qual
cofa fu olTervata cor fi cc. a car. 92. favellando dei anche dal predetto
Sig. Co: MazVerft Sciolti, chiama il noftro ! zuchelli, a car. 47.
annotaz. Gì ovangiorgio loro in- j 1 22. della fuddetta l'ita di Luiventore-,
e approdo dice qucdc' gi Alamanni, parole: Veramente mi pare, che |
Lezjzioni ec. a car. 68 r,. Monfignor il Bembo, giudiciofo A car.
393. e 394 del Scrittore ..... il vero dice fio, | la ciraw edizione di
Padove quando a Bologna mi diffe, che I 7 -H -,n X» "E L T RI S S,I N O.
Giraldi poi fu appuntato il nollro Autore; per eflcrfi in quella
Tragedia più dato (come £ dlfle) a fcrivtre i co fimi, e- le m
Anitre de i Greci, che nonfi conveniva ad uomo, che firiveffe cofa
Romano, nella quale tn. traffe la maejlà. delle perfine, ch'entra nella
Sofinisba, Alla quale obbiezione veramente potrebbe nlpondcrfi
colle parole del fuddetto Signor Marchefe Maffei (180), cioè che
certe azioni, 0 detti, che ci pa jonoJn Per finali grandi aver talvolta troppo
del famigliare > .non danno dif gufi 0 a. chi . ha cognizione de'
Tragici Greci, egra* ttìca de' co fi unti antichi * E sì .
parimente altri difetti furono appuntati an erta Tragedia, che per dir
breve fi ommet> tonoi ma con tutto quello farà elfa da tutti i
dotti Tempre in grandilfimo pregio tenuta: perchè quantunque lì creda lontana
da quella perfezione, a cui fi può condurre un componimento teatrale! (oltreché
Tiftelfo potrebbe forfè dirli delle Greche Tragedie ancora, come dice il
predetto Signor Marchefe egli è per altro certo, no» molte prelfo chi ben
intende annoverarli Tragedie in lingue volgari, che portano gareggiar con la
Sofinuha, la quale fola farebbe ballante a tener tempre viva
gloriofamcnte M appreC f 179) Difiorfi del Giraldi e. liane
luog. cir, car. 179. in fine, e a car.
Prcfaz. alle Opere de ( lio) PreCaz. al Teatre Jta.\ Trissino a
car. xxvii. Dìgitized by Coogle 5>S 'La Vita
apprcfso i letterati la memoria del Tuo AutoreA ciò che abbiam detto fi
può aggiugnere ancora il giudicio del mentovato Signor Cavaliere Zorzi,
il qual dille, che la Sofonùba ì u n Tragico Poemetto, migliare de’greci,
e /nitriere ai Latini, Italiani » e Franzefi Scrittori. LA ITALIA liberata
tia i Goti. Stampata in Roma per Valerio, e Luigi Dorici a petizione di
plutonio A/aero Vicentino MDXLV1I. di Maggio, con Privilegio di N. S. Papa
Paulo Jll, di altri Potentati. RarifDifcorfo fopra l’ Opere \ al
Clcmentijfimo ed Invit tijfimo del Trissino a car. 415. 11 ^Imperatore
Quinto CARLO Quadrio nella Storia e Ragione > Maffimo : e quelli primi
nove d' ogni Poefia Voi. 3. libi 1. Dift. ì libri fono di carte 175 I fcI.
cap. iv. Particcl 2. a car. 65. condì nove, che contengono regimando
quella Tragedia, ac- carte 181, furono Rampati l’anCenna i difetti fuddetti in
clfa no approdo nel Mcfe di Novem notati dai predetti Varchi cGi- bre, come
appare da quelle pallidi ; ma apprelTo foggiugne, fole, che in fine fi leggono
: che efla ciò non cjtantc ha fem- Stampata In Pene zia per T 0pre avuta
ejiimazJone non poca: torneo Janiculo da Brejfa nell' annominando anche la
traduzio- no MDXLV 111 . di Novembre . ne Iranzcfc di detta Tragedia Con
le grazie del Sommo Fonfatta per Claudio Mcrmctto, c tifico, e de la
JlluHriJfima Siimprcfla in Lione l’anno 1583. gnoria di Venezia, e de lo Illu(
Quello Poema fa dal Jlrìjfimo Duca di Fiorenza, che Trissino, come è
detto di ninno non la poffa riftamparc lopra, mandato in luce in più per
anni X. fot za efprejfa licen tempi. 1 primi nove Libri » i za de l’Autore. Gli
ultimi noquali hanno il titolo fuddctto,;ve finalmente furono llampati ma
co’fuoi nuovi caratteri, fu- janch* effi in Venezia P anno rono llampati
l’anno 1547. nel Hello MDXLVII . per Io Redo Mcfe di Maggio ; attorno il
qual Janicolo, ma di Ottobre (cioè titolo v’ ha eziandio il motto un mcfe
innanzi a'Scconai no. della, imprcla da lui alzata TO ve) collo Hello
privilegio. E / HTOTvevon A auto >1 i e tutti quelli XXV II. Litui
(che dopo fegue la fua Dedicatoriafono, non già. come Ov
pi Rariflìma è quefta edizione } e due fole copie n’abbiamo noi
vedute in Venezia y una nella celebre Libreria Pifani? e l’altra nella preziofa
Libreria del fu Signor Apoftolo Zeno (184) 5 apprefso cui Vera anche un
efcmplare dell’ impresone feguente. J tali a &c. riveduta e corretta
per /’ Abate Antonini ec. in Parigi nella Stamperia di Ciovanfrancefco
Rteapen . Tom. 3- in 8. Fu anche riftampata unitamente
colle altre Opere del noftro Autore nell’edizione tante volte da noi
citata j (ma fenza i caratteri da efso in inventati) in Verona preffo
Jacopo PalUrfi 1729. i n e tiene il primo luogo nel tomo primo
• Ma Anche ionie diflero erroneamente il
Fonranini nell’ Eloquenza italiana à car. 580. . e 1 Autor del Catalogo
della Libreria Capponi a car. 377.) fono uniti in un volume in 8. Il
Cavaliere Zorzi nel fuo Dif offa intorno alle Opere del Tkissino a
car. 4 y). sbaglio prefe in dicendo, che i primi libri furono
ìmprtfft in Roma, e gli airi IX. in Venezia . Dal Signor
Apoftolo Zeno fu la detta fua Libreria donata con teftamento a P.
P. Domenicani della flrctta offervanz.a di Venezia nel mefe di
Settembre dell’anno i7jo.» nel quale poi addì xt. di Novembre
placidamente p.ifsò di quefta vi ta. Della cui perdita li dorranno mai
Tempre i Letterati, ed tifa da noi non pure in quel tempo, in cui
appunto eravamo in Venezia, ma continuamente farà compianta. Cinqui
abbiam voluto dire., per Iafciare un pubblico arredato, della noftra gratitudine
alle molte cortcfie ufjtcci dal meiefimo. Per altro un elogio alla
memoria di sì grand’ uomo col Catalogo delle fuc Opere ha
pubblicato l’erudito Autore della Storia Letteraria d'Italia (il P.
Francefco Antonio Zaccaria Gcfuira ) nel Voi. 3. lib. 3. cap. V. num. 1.
c fegg. pubblicata in Venezia nella Stamperia Polttiv 1752. In 8.
Anche quefto Poema fu da varj letterati ITomi-^ ni e Iodato? e
cenfurato in molte cofe. E quanto alle cenfure, il Titolo primieramente
non è affatto piaciuto ad alcuni, giudicandolo dii troppo lungo, e
ravvolto, diròcosì* dicendo, non bene diftinguerfi, fe i Goti, o pure
altri da' Goti abbiano liberata f Italia (18*) . Scipione Erriccy Poi
nelle fue Rivolte di Parnafo Criticò 1 - AtJtore noftro, che fece fare fenza
necelfità veruna ai Perfonaggi del Poema lunghi ragionari, e che
introduce la gente nella Zuffa, parlante aguifa di Dialogo, facendo che l’uno
ricominci dove l’altro terminai il che è lontano affatto dal
verifimile j concioffiacofachè nelle guerre non s’odano che poche voci, e
folamente fi fenta, il fragore delTarmi : e in altro luogo ky
criticò, perchè troppo alto cominciamento die. de alla guerra i dicendo,
che meglio avrebbe fatto', fe avefse porto Belifario o dentro a Roma, o
per lo meno in Italia v e tacciando in oltre gli amori di Giuftiniano di troppo
goffi c lafcivi, c d’indegni del fuggetto, a cui furonoappropriati (188):
delle quali cenfure dell’Erri- CO fi Veggafi Udcno Nificli tic'
Proginnafmi ec. Rivolte di Parnafo di Scipione Errico . In Me
finn per gli Eredi di Pietro Urea 164.1. in iz. acar.
63. Rivolte di Pam a fe a car. 64. Rivolte ec. a
car. . pj to fi dolfe poi non poco Gafpare Trillino colla
Lettera a lui indiritta ? la quale fi legge nelfè efse Rivolte di Pimi/,,
(i8p). Attché il Fontanirri nella Eloquenza Italiana ( jpo ) notò qnefto
fallo commefso d’O., foggiugnendo, che egli Poi ravvedutoli, ne
fece l’ammenda, riftampando le carte, e mutando i verfi già fcritti (ip r ;
s pafiando appreffo a riprendere chi riftampò le Opere di lui,
perchè avendo tralafciata l’ortografia dal Tri ss ino fieflb inventata, v’
avelie poi inferite le cofe ** M medefmo volontariamente ritrai utt
(ipi). Da S * ÌV r ° lte J C - * car - «o-. | eolie parole, e
le parole io' ben(iyo) A cai. 581. 1 fieri: le quali fofto perciò fem so^Aelìa
Ubr^'r ^ C * ! * lo \t lici e P«re, e di quando in quan. go della
Libreria Capponi a car. | do con virgìnal modeffia trasfe
&Y.T„“fT ''jT'I’t'v" 4 CanonTo G fZt d I Rissino, die*;
nelle An- : ni Checozzi nella fùa dotta Ltt TZntL C alcll q0Cl1 ’ \ *»*
di,enfiva ’ «tata al di fopra An!dli r q '"'"^ont all 1
annotazione 101., dice che {jù 1 ; isst { ;j:zz:iu f :rr ir ™ s ìz
o ìvT cho t bcmì ! 2 *’ 119 J. \ io ’ »,iche > àoveglifcherzi
qualche e 1 31., che fi e tentato di leva - 1 volta p affano aver Inaio
ma UaVitìc *‘ r l ÌC l n ? }"**•{ molto pia nelle ferie, et ed
oraMa Vincenzio Gravina nella fua tcrie. * Opera intitolata Della
Ragion Poetica libri due cc. Jn Venezia frejfo singioio
Geremia 1731. in 4. lib. a. a car. 106. non dubitò di
lafciarc fcrirtó non foiamen- Le parole delFontanini nel luogo
citato fono quelle z Reca gran maraviglia (dic’egli j che
ojjendendofi la memoria, e riputazione dd Tritino nel ri fi n 1.
^ te chela Qifd. -r riputazione del J njf.no nel ri te che
lojhle del Tassino \fiamparfi le fue Opere ( non pe e caffo e frugale; ma
ancora che] ri con l'ortografìa da lui fi tifo tatti ifitoi penfien fon
mi furati j inventata ) fiafi voluto in onta fua »
.Vita' Da Gio: Mario Crefcimbeni nella Stiletta dilla Fdgar Totfm {
ipj), fu il Tr issino cenfurato di troppo efatto nella deferizione delle
parti,• e particolarmente del veftire dell’Imperatore Giuftiniano;
concioflìacofachè gli abbia fatto metter prima la camicia, e poi 1* altre
robe di mano in mano fino alli calzari; foggiungendo, che l’efempio
d’Omero inventore di cotali foverchio diligenti narrazioni, non lo dee in ciò
feufare. In fatti l’avere Giovangiorgio troppo efattamente imitato
quello Greco Poeta, fu la cofa principaliflìma, che. gli ha nociuto. Di che
eziandio Giovambatiila Giraldi ? Cintio, Ferrarefe, appuntollo, dicendo
(194)5 che £ energia non iftà ì come il noftro Autore fi credette, nel
minutamente feri, vere ogni copicela, qualunque volta il Poeta fcrive
eroicamente; ma nel fla, e non fenza contumelia della Chrefa
Romana fargli l' oltraggio di preferire alia giufta fua correzione le
cofe, volontariamente da lui meclefimo ritrattate, cantra le quali da
onorato gentiluomo-, e da buon Crifiiano altamente fi fdcg -crebbe,
Je foffe in vita. Con quelle parole accennò il Fontanini la
rillaihpa» che delle Opere del T n i s‘s i n o fi fece in Verona ;
del che il Marchefc Maffci fe ne rifenri nell’ E fame fopraccirato,
a car. 73., dove dice, che il detto Boema fi è ristampato a Verona
| fecondo /’ impresone con Privilegio di Papa Paolo Terzo ufiiI ta . lo
certamente non ho vo; Juro darmi la briga di confrontare la primiera
edizione ; colla riftampa' del Poema fieffo, per chiarirmi» fe vere ricino
quelle mutazioni predicate dal Fontanini . Bellezza della
Volgar ' Poefia di Gio: Mario Crtfcimj beni ; In Venezia, preffo Loren\zo
Bafeggio, in 4. Dialog. Vili, a
car. 157. Ne’ Di f cor fi ec . a car. 6 a. ma nelle cofe, che
fono degne della grandezza della materia* if'ha il. Poeta per le
mani: e prima ( 195 ) dille quelle parole: Come l'età di Omero e i
collumi di que' tempi, e le fingo lari virtù, che fi trovano in queflo
divino Poeta, fecero toler abili quelle- cof e in lui', così l'averle il
Trijsino in ciò imitato ne/r Italia, .altro non fece, che ffiegliere
dall'oro del componimento di quel poeta lo fi creo, (il quale non per fuo
vizio, ma dell età ci fi trapofe ),.e imitare i viz,j, ( parendogli di
avere affai fatto, fe bene gli efprimeva ), e accogliere tutto quello, che i
buoni giudicii vollero trai affiate, moftrandofi in ciò foco grave.
Oltreciò lo Hello Giraldi (i 96 ) notò in quello Poema, vìziofe eflere le
invocazioni; e la favola di Farlo e di Lìgridonia elTervi introdotta, e
fuori dì ogni bifogno, e fuori d'ogni dependenza ; aggiungendo, quell’allegoria
efler tolta da altri, e in parte dall' Ar lofio nella favola et Ale in a,
e di Logifiill * * C finalmente in una. Lettera a Bernardo Tallo (198)
dille, chele il Tr ISSINO fiecome era dottiamo, così foffe fiato
giudiciofo in eleggere cofa degna delle fatica di venti anni, avrebbe
veduto, che così fcrivere, com'egli ha fatto, era uno fcrivere
Smorti ] inferir volendole il Poema non era letto. Ma
chi dogni appuntatura de'Critici a quello Poema parlar volette,
llucchevole forfè e nojofo riufeirebbe ; elfendo già flato fatto queflo
dal Difcorfi ec. a car. 33 .[quelle d’effo Taffo, ( Voi. a. t 9f> \ ^r
0T r cc ‘ 3 car ' 49 - a Car. 196. e fegg. ) (lampare — l J cor fi cc e
fopra i Poemi di alcuni più chiari Epici non dubitò d’, innalzarlo.
Nè minor conto ne fece Benedetto Varchi, poiché in una deile fue Leeoni
(20 6) dille, che 1 Italia Liberata da Goti fe bene era
lodata da pochijfimi meno che mezzanamente, e da molti in finii
amen. t e biafimata,.e quafi derifa, pareva a fe nondimeno, che
-Quanto a quello, che è prof rio del poeta, ella mcrìtdffc tanta
lode, anzi tanta ammirazione, quanta altra potft*, che JSj fia
dogo fico, ed a teffer lavoro Somigliante a quei di Virgilio, a d'
Omero, e di quejlo fpezialmente eh' egli prefe a imitar del
tutto. Lettere, Voi. 2.
acar. 416. Il T rissino > la cui dottrina nella noftra età fu degna
di maraviglia, il cui Poema non farà alcun» addito di negare che non fia
dijpojlo fecondo i Canoni delle leggi d' lArift utile, e con la intera
imitazione d' Omero, che non fia fieno d erudizione atto a infegnar di
molte belle cofe ec. 11 O. medefimo nel 1. libro di quefto fuo
Poema, a car.22.dcll’cdizione di Roma così dice ; „ Ma voi beate
Vergini, che „ fofte „ Nutrici, e figlie del divi - 1
a> no Homcro, [ „ Ch’i ammiro tanto, e vo feguendo
Torme „ Al me’, ch’io fo, de i fui „ veftigi eterni;
Reggete il faticofo mio viaggio: „ Ch’ io mi fon pofto
per „ novella ftrada, „ Non più calcata da terrc.^nc piante
. E in quefti ultimi verfi potrebbe crederfi, che avefle egli
voluto indicare non pure d’eflere flato il primo a comporre Poemi a
imitazione d’Omero, ma d’effere anche flato il primo inventore del verfo
fciolto » in cui il Poema è dettato. Lib. 2. acar. ioj.
I Lezzioni di M. Bcnedetto Varchi a car. f‘* dopo Omero
fiata firitta, e dopo Virgilio: foggiungcnclo appreflo, che deve molti fi
ridono del T n. i ss i n ® > che confi fio d'aver penato XX. anni a
comporla » a luì pareva, che ciò a gerle giudizio porre, e attribuire fi
gli doVcHè > Finalmente ( a tralafciare il fentimento di
altri Scrittori circa quello Poema, e fpecialmente del Tommafini, e
dell’Imperiali Salvini, che fu uno de’
più begli ornamenti, che abbia avuto in quelli ultimi tempi la Città di
Firenze, così fcrille (2op) in torno al Poema Hello, e al fuo Autore: 11
nofiro leggiadrijfimo Rutilai tefii in verfi fiiolti il fuo
poemetto dell' Api dedicandolo al Trissino, che nello fiejfo tempo dello
Alamanni » che la celebratifiima f u a Coltivazione mife in verfi fiiolti
> compofe alla gran guifa Omerica I'Itau a Liberata dai Goti, il qual
Poema fu tanto da un drappello diPaftori Arcadi confidar ato ripieno di
bellezza, e virtù poetiche, che ave ano a varj /oggetti dato un Canto per uno,
per metterlo in ottava rima, per farlo più leggibile con quefio lenocinlo alle
fihiz,. zìnafiy per dir, coti, orecchia Italiane ( 2 to) • ed in Un
e nel primo tomo delle fue opere della riftampa di Verona j
e con altre fue poefie nella prima Parte della Scelta di Sonetti e
Canzoni de' pi* eccellenti Rimatori d'ogni fecolo (alj). . RI
Jm ^214) Mi pare, che qui da tralafciar non fia il
Sonetto da Benedetto Varchi mandato al noftro Giovangiorgio j
giacché con dio non pare lui lodò, ma avendo forfè la mira alle altrui
critiche fopra il di lui Poema, inanimillo a?profeguire gl’incominciati
fuoi Audi . 11 Sonetto è qticfio, e fi è traforino dal libro
intitolato: J Sonetti di M. Benedetto Varchi, ec. In Venezia per
Plinio Pietra Santa, 155-5. in S.acar. .: O. altero,
che con chiari inchiojtri T e ’nvoli a morte, e 7 foco l noftro
bonari, Rendendo Italia a' fuoi pajfati honori. Di man
de' fin crucici barbari moftri Tu con nuovo cantar l'antico'
moftri Sentier di gire al Cielo, e tra'migliori
Le tempie ornarfi dì honorat i allori Pi* cari a cor
non vii, ohe gemme et oftri. Per te l' Adria, la Brenta,
e ’t Bacchillone Al dolce fuori de tuoi graditi
accenti Vanno al par di Pento, del T tbro, e d'Arno .
Deh, fe 'i gran nome tuo ftntpre alto fuone, £ faccia ogni
gentil pallido 1 e fcarno, Tuo corfo l'altrui dir nulla
rallenti. Scelta di Sonetti e Canzoni de’piìt eccellenti Rimatori
dì ogni Secolo ec. DEL TRI'SsrN'O- roi XV. RIME. In Vicenza per
Tolomeo laniccio. Diccfi j che l’anno medefimo fofler ivi riftampatc
per lo Hello janicoia in 8>; ma quella edizionoi non l’abbiamo veduta.
Furono bensì riftampate 1» Verona coll’ altre lue Opere. Il Tris si
no dedicò quelle Rime al Cardinale Niccolò Ridolfi, Velcovo di Vicenza in
quel tempo ( non a Leone X., come fcrifle erro* nearnente il Signor
Canonico Conte Giovambatifta Cafottì, che fu perciò ne[ Giornale de'
letterati £ Italia, modcllarrrente corretto) e nella Dedicatoria, la quale non
ha daLa, egli dice, che gli mandava w'ft* Tuoi giovanili componimenti per
ubbidire alle fue molte infianze . Di quelle Urne, non meno che del loro
Autore, favellò con molta lode il Quadrio nella più volte citata Opera
fua della Storia e Ragione di ogni Ree* : c Federigo Menini lafciò fcritto
et* fere W4, che contiene i Rimatori an- Tom.
prim.acar.349i fichi del 1400. e del 1500. fino j Nella Prefazione.
In Venezia r Vrofe e Rime de'due Buonaccorpreffo Lorenzo Rafcggio . in 12. 1 fi
« Rampate In Firenze nella Voi. iv. La Canzone è a car. ! Stamperia di
Giufeppe A/anni 303. del Vol.i.e di efla se fatta 1 .
menzione al di fopra all’annot. ! Tom. xxxvl. Arde* 56.
Olitila Scelta, che era fiata ix. a car. 224. in 12. prima in Bologna
Rampata, fu poi j Voi. 2. lib. I. Difi» riprodotta in Venezia inpiùVo-’i.
Cnp. 8. Parriccl» s. a car» lumi. IOÌ L A V i f A fere i
Sonetti del" noftro Autore e buri, fentenzàoft, e' patetici Sette
Tuoi sonetti, i quali mancano nelle fuddette Rime, furono ftampati nella già
citata Raccolta delle Rime di diverfi nobili PeetiTofeani fatta dall*
Atanagi: il primo de’quali fu da Giovan* Giorgio indirizzato al
Pontefice Paolo Terzo > e l’abbiamo accennato altrove; il
fecondo a Ottavio Farnefe, allora Duca di Camerino} e poi di Parma
c Piacenza* il terzo a Margherita dAuftria* il quarto al Cardinal Farnefe
foprammentovato; il quinto a Girolamo Verità, gentiluomo Veronefej il
fefto a Paolo Giovio» Vefcovo di Nocera, e Storico di chiaro nome»
il fettimo finalmente è il fopraferitto, da eflo fatto poiché terminato
ebbe il fuo Poema dell 5 Italia Liberata da Goti. Ancora Un fuO
Sonetto, fcrittO al Cardinal Pietro Bembo (224;, fi legge tra
le Rime di quefto Autore il quale un altro Sonetto
Nel Ritratto del So- j cenza fua Patria. Sono chiarii netto 1 e
della Canzone In Vene- \ fent trizio ft, e patetici, zia apprejfo il
Bertoni > 1678.' A car. 8?. a tergo, e in il., a car. io?. Ecco
le fuc, feguemi. parole Giovan - Giorgio!
V* fopra et car. 55. al. T rissino, nobile Vicentino, l
annotazione 1 07. oltre alla Tragedia delta Soft- j V. ivi.
nisba e oltre all'Italia' Quefto Sonetto C0 Liberata, Poema Eroico,
che \ inincia : fu il primo ad ejfer dettato fe- j Bembo, voi ftet
e a qne bei condo It regole d'^driftotele, e ftadj intento .
fatto ad, eferr.pio di Omero 1 fe J Rime di M. Pietro molti Sonetti
ftampati in Vi- Bembo: In Bergamo appretto Pietro DEL, TRI5SIN Q. j
^ .Sonato nelle medefime definenze gli mandò in rilpofta.
Altre lue Rime poi dono fparfe nelle Raccolte del Varchi» del Rufcelli, e
d’ altri: ma dal Signor Marchefe Maffei tutte adunate furono, e poi
fatte Rampare in un colle altre di lui opere, colla giunta ancora di altre
poefie del mcdefimo (ma non di tutte), non prima date in luce, e di
alcuni Sonetti da altri Poeti a lui fc ritti. Ma perchè
alcune poefie, che fono tra quelle del noftro Autore, veggonfi altresì tra le
rime o de Buonaccorfi, o di qualche altro Poetai però egli è ragione, che
diciamo intorno a ciò qualche cofa, avendone già diffufamente parlato
altri Scrittori, e fpezialmente il Cavaliere Zorzi. Tra le Rime adunque
de’ Buonaccorfi Ieggonfi quattro Sonetti interi, e cinque foli verfi di
un altro Sonetto (11 fuddetto Signor w tro Lanccllom 174 J. > in 8 . a car.
Quello Sonetto comineia: Così mi rentU il cor page, e
contente . e fi legge in dette Rime a car. 94 -Tom. l. a
car.Difcorfo /opra l Opere'. del T r 1 $ $ t n o, a car. 404. e !
feguenti 11 -primo ^i queftiSonerti, che a car. 1. delle Rime del noftro
Autore fi legge; ed a càr. 2 96. di quelle dc'JBuonac. 1
corfi, della mentovata edizione di Firenze 1718. in 12., comincia
coste La bella donna, che in virtù d" Amore . il fecondo
che principia: Li occhi foavi, al cui governo Amore ;
nelle Rime de’ Buonaccorfi c a car. La vita Signor
Conte Cafotti incaricando (2jo) modefìamente il noftro Trissino, favoreggia i
due Poeti: e nel domale de' letterati tf /taiu fi accenna folamente, ma
non fi feioglie cotal viluppo » Il Cavaliere Zorzi dice, che perciò
fare converrebbe andare a Firenze, ed ofservare fc Antico, o no,
fia il carattere, onde fono fcritte le poefie de’ poeti fuddetti •,
concioffiacofachè pofsaefsere, che da'copifti, (le copie fono)>
o come a car. ., cd in quelle del ine allenirne de’
Buonaccorfi a Trissino a car. 4. Il terzo, car. lvi.
che ha quello principio: j Tom. xxxvr. Artic. Qando 'l
piacer, che’l defia to bene; \ b o> he 1 Sonetti^/ I ; non fieno
del piovane Buonaccor-,è a car. 4. a tergo delle Rime fi, offendo firitti a
Palla di del noftro Autore, cd a car. Noffcri Strozza, ea'fioi figliuoli
quelle de’ Buonaccorfi . 11 li > tutti fuoi coni empcr enei - I quarto
finalmente, clic fi leg- '.y chc| DelLi edizione di Veti legge tra quelli di
qucfto \nez.ia 1546. in 8. a car. 7..; la Autore dell’edizione di Firenze
* qual Canzone, che nelle Rime e comincia: (del Trissino è a car.'
5. Quanto più mi dijlrugge il ( principia. mio pen fiero-, .
Amor, da eh' e' ti piace nelle Rime del Trissino cl -Chela mia
lingua parli-, cc a car, . j
IOJ La Vita con vcrfi di Tette, e di undici fillabe, tutti
Tciolti, e ufolla in una Cantone indiritta al Cardinal Ridolfi : il qual modo ftravagante e fconfigliata
cofa parve al Crelcimbeni (i* ma, come dille Maffei Tu bizzarria
d’un iblo componimento. I Simulimi (Commedia in verfo fcioito) In P
rnezja per Tolomeo J unitola da Breffa. Quella Commedia ( dì cui
non Tappiamo eflerci altra riilampa, Tuorchè quella Tatta in Perona unitamente
coll' altre Tue Opere) Tu da lui compoftaa imitazione dei Mtnemmì di
Plauto, aggiungendovi il coro-, e varie coTe mutando-, Teguitando in
effe altresì le tracce degli Antichi, ed accoftandofi Tpezialmente
ad Arifto/ane . Nella Dedicatoria al Cardinal Farnefe dice, che avendo in
quefia lingua Italiana compoJ} 0 e l 4 Tragedia, e lo Eroicoy gli '
t* rut ° oU tra futili di abbracciare ancora qaefb' altra farle di $“fia,
cioè la Com . Quella Canzone end nd primo tomo
ddla riftampa di Verona,. a car. 371. cola.., c comincia;
Paghi, fu feriti, * venerandi Colli i cc. ( ma non Tragedia, fi il TafTo, che non
compofe Commedia, fua non eflendo quella, che fu imprefla col nome
di lui (23P). A che volendo noi alludere abbiamo fatto di quattro differenti
poetiche corone adornare il Ritratto del noflro Autore, che in
fronte di quella Vita fi vede. Nella Prcfaz. alla ri- | Rampa di
Verona a car. Xxv. Tra’ lodatori della' Commedia del noftro
Autore, j uno fi fu il P. Rugcri, cosi parlandone nella citata
Declamazione a car. xxiiù,1 Hic fior Georgivs) anti„ quorum poetarum, qui
Co— n mie® Poefis lauream adepti,! » Slori® termino* pofteris cir.
j cumfcripfifle videbamur, Rre-,» nui adeò coocertationc ingej„ nii
adarquavir, eruditiflìmo !» PoCmatc, metro jfcripto quod Sim itL r mos
infcripfit ut quonefeumque >» Comicum illuci Carmen
le- ftionc parcarro, ipfa fe mihi » antiqure Poefis facies verert-,,
do, gravique afpc&u referar,» contemplanda. Digìtized by
Google jo8 La V r t a XVIL Egloga fafitrAie (in verfo
Italiano) nella quale Tìrfe pallore invitato da Bauo capraro» piange la
Morte di cefAre Trivuiào fotto nome di DAfm bifolco. Quello
componimento fu inferito coll’ altre fue ogere nella riftartipa di Verona
Altra Egloga (parimente in verlo Italiano), in cui parla Batto Capraro
folo. E quella altresì fu llampata coll’ altre fue Opere Pharmaceutria
U4* )• De mtTU Anche quella Compofizione, che è di
clxxvil. verlì Latini, fu unita alle altre fue Opere nella riftampa
di Verona (244): e perchè nel Codice v’era Tom. I. a car. \ffripfft, quifquis ille fiat, qm
Tom. I. a car 375. \titulum aididit, non ertim ei,m À Gli eruditici
ini Signo- arbitror effe a manu Io. Gìor rì Volpi di Padova, i quali fic-
gii Trissini, quei» come aveano ideata Una edizio- ÌGracas litteras
egregie caUuìJne delle Opere del Th iss l»o|/f. apud The ocn ( comc è
detto nella Prefazione) J tum che ineptì hanc E- Fracaftoro. tlogam PiiAUM
aceutri am in- (T Tom. U a car. IOS V’ erano alcuni
vani? perciò dal foprammentovato Gafpare Tri ss ino eruditamente furono empiuti
> e quivi fi veggono contraflegnati con carattere diverfo. Encomium
MAximUiàni ctfarit . Sta quefto altresì coll’altre fue Opere della detta
riftampa. Due Epigrammi latini. 11 primo di quelli Epigrammi
(i quali furono dati a luce parimente in detta riftampa (245); fu
fatto dal Trissino in morte di Pulifena Attenda, Celcnate, piagnendo egli
in perfona del Marito* Quefto fu tratto da un libretto ftampaco in Venezia»
in cui fi legge anche un’Orazione di Jovita Rapicioj da Rrefcia, detta in Vicenza
in morte della ftefla. L’altro Epìgramm* è quello, che s’è riferito al di
fopra, fatto da lui prima della ultima fua partita dalla
Patria. Tom. 1 . a car. più nella Seconda Parte, a car. Qucùo
Encomio è di CHI. Vcrfi 63.efeg.91.eieg. 192. c fcg. dello eroici latini,
e comincia Cosi. Specimen Paria Ut ceratura, &c. Heor.rn Jì fatta
mihi, laudcfvo Btixia 173 9. 4. pubblicato dal -Dei-rum non meno per
dignità, che per Quandoq; ut ctlebrem permit - virtù inorali, cd
intellettuali tii carmini Phàebe, Eminentiffimo Cardinal Qui.
En tempus, ncque fallar, a- fini : e nella Libreria Ere defi} &c.
feiana di Lion ardo C o^z^ando,
Tom. 1. a car. 398. \in Brefciu\ 6 vq. per Gio: Maria Di
Jovità Rapicio ' Rizxxrdi in S. a car.. ove fi trova latta menzione neli,
£’r-|è chiamato Raviz.zat, c fr dice, colano del Varchi a car o che fu
lcctore di umanità in Vili ella Scan zia xx 1 1. della Biblio- j ccnza .
tcca Polamcz car.120.121. mal all’ annotazione m. Digitized by
Google tio L a Vita Alcune poetiche Latine Compofizioni
del Tr issi no non inferite nella fuddetta riftampa di Verona, furono ftampate
nella Scambia XXIL della Biblioteca Volante- di Giovanni Cinelli ( MW
• Quelle fono primieramente due ode; dopo cuifeguitano due evitati
in morte dì Vincenzio Magre, fuo caro amico j e appreflfo feguita un epigramma
ad fonticuium /: e finalmente una Compofizione intitolata leges conviva
les . L’Autore di efia scam.i a nel luogo citato dice» che
quefie Poefie ad intelligenti, che le hanno vedute, fembrano cofe fatte dal
TnissiNO ne'fuoi pii* giovanili anni: ag>» giungendo, che il il
Codice, onde le trajfe, benché fia ferie to net 1500;, mofira che già
inclinava al fine il fecole, ed in confcgutnz.a molto tempo dopo l A di
lui morte. DÌCC 1U oltre, che U Copifia era poco intendenti del Latine -,
per. che vi fi trovano > alcuni errori, che mai fi poffono ’
attribuire a n illufire Autore. xxxrn.' A
car. c 81. E‘ mentovata da noi all’ annotazione in. {
ajo) La prima di quelle Ode comincia: Du&urus aurum nobile
per Mare Carafve gemmai n avita fluttibus
Non ante fe cautus mari . nis Crederet, et rapidi s procella
8 cc. L'altra' ha quello principio: Pulcher o Sol, qui
nitido s dies &' Das, et idem fubtrahis, a eque ter rie
Humidam noSlem *. et placidam quietone Riddi: avarie
Sic. Quello Epigramma è diverfo da un altro dal noftro i
Aurore Grecamente compollo fopra il mcdcGmo fuo Fonticello di Cricoli, il
quale di fotto regiftriamo tra le fuePoefie non ancora date a luce 1 VOLGARIZZAMENTO
.dì alcune Ode MQrazio* Quelle noi non le vedemmo» ma follmente ci
atteniamo .all’autorità del Fontanini {252), e del •Quadrio )1 il primo
de'quali dopo avere regiftrato un libro intitolato: Odi diverfe d'
Orario volganzjzate da Memi nobilitimi ingegni, e raccolte per
Giovanni Nar ducei da Perugia : fy Venezia, per Girolamo Polo. in
40 foggiugne fubito come fegue. Q*tJH vdga ■ fi datori fora XIJ. ai le f
andrò Cofanzo, Annibal Caro Cosimo Mortili, Curzio Gonzaga, Domenico Venitro,
Francefco Veranda, Francefeo Crìftiani, GiovangIOr ■ cio Tri «ino, Giulio
Cavalcanti,, Marcantonio T ile fio. Sir . Jorio ELOQUENZA
ITALIANA, a alleai»»? di luì ftampate in 5er‘ Car * 5 35 * falla fola autorità
del gemo per Pietro Dance dotti I7JX quale viene riferito quello libro in
8. a car. xxtv. tra le opere anche nella Biblioteca degliauto- del
Vcniero regiftrando anche la ri Greci e Latini volgarizzati traduzione di
alcuneOde dtO«nferita nel tomo jcxii. c fegg. hrazio da lui fatta, taluna
dice, » della Raccolta Calogeriana alla di quefte fi trova fiammata in
un yoceOrazio, dovr ai tomoxxiv. I libro, che io mai non ho
potuta 3 ° 7 * f' sggiange ; libro avere, e che ha penitelo : Odi
rari fimo, che non ancora abbi*. .diverfe ec. che è il libro da noi mo
avuto incontro di vedere . ; fopraeckato, E pure grande Tappiamo
cffcrc 1 ( 25+ ) Veramente il Signor ìiata la diligenza del P. Paico- j
Anton.Fcdcrigo Seghezzi, di m, autore di detta Biblioteca, 'chiara
memoria, nella Vita del per ritrovar un tal libro. [Caro per lui
dottamente ferir* V 2 J 3 ) Storia e Ragione dì ta, e premcfTa alle
lettere delio ogni Poefia-, tom. 2. lib. t, Dift ! ftcflfo dell’ultima edizione
di I. cap. vili. Particcl.iv. a car. I Padova, apprejjo Giufeppe
Comi* 394. e falla autorità di lui il|m> . in 3. tomo primo,
benemerito delle lettere Sig. Ab. niente dice, che il Caro tra1 icr-Antonio
Serrani nella Virai dotte aveffe Odi eli Orazio, di Domenico Venterò,
premeffa I uà La Vita torio Quattr ornarti, e Tiùerio Tarfia.
L'altro pòi riferì' fee medefimamente quefta Traduzione, cd edizione, e i
nomi degli fteftì Volgarizzatori. OPERE In Profa
non iftampate. YV IV T\ UE ORAZIONI di Sereniffidee Mente di re.
JL) mrje, ter ifirevere le Ci, ed dir*"™ *>“• imgoftn
riedificazione delle J*e Mora.. ORAZIONE, ovvero ARINGA ( dettata
in lingua Lombarda) de, e. 2 M*U, ter ridare U D„m‘ * rei d ‘
^ V,.ni,d di de,,. Terre. Di quella Orazione s e già
favellato a baftanza per entro quella r „. . Breve Trattato ài
Architettura, coirai cune Piante di Edifizj fecondo le regole di Vitravio..
Di quelloTrattateli, abbiamo fatta meuzione nel principio di quefta r,ta IMD TRATTATO intorno ‘1 Mero Arbitrio. Due
lettere latine a Monlignore Jacopo Sadoleto. . fopra paj- 8. annot.
IJ. :I7$ XXIX. Un Volume di lettere, fcritte a molti
ragguardevoli Perfonaggi del fuo tempo, tra le quali molte ve n’ha da
Soggetti cofpicui, e da dottiflìmi Letterati fcritte al T RrssINO ; ficcome
altresì ve ne fono di Principcfle, e di Dame illuftri di quel fecoio . Da
quello Volume fono -Hate eftratte dal Signor 'Marchefe Maflfei
quelle, che leggonfi inferite nella iu a Prefazione alla riftampa delle
Opere di Giovangiorgio» nella •quale egli nomina anche alcuni di
que’Soggetti* 2e Lettere de’quali indiritte al T RlS jrN© trovanfi nello
ftelfo Volume* e di quelle Lettere-, tanto llampate, quanto manuferitte,
ci fiamo noi fpezialmente ferviti per compilare quella vita . Gli
Originali di tutte le fuddette opere in Prof a manuferitte (fuori de\Y
Aringa) > e delle feguenti pur manoferitte in Verfo, fi confervano di
prefente apprelfo i mentovati Signori Conti Trilfini dai vello d'Oro,
difeendenti dal nollro Letterato 1 le quali tutte fono Hate con molthTima
diligenza raccolte, cd unite in due volumi in foglio dai Signor Abate Don
Bartolommeo Zigiot-ti, che colla Lolita gentilezza* e benignità -ce
ne •ha data contezza* e ci ha proccurato la comodità di vederle.
Due LETTERE Volgari al molto Reverende Mejfer Hieronymo di Gualdo
Canonico . L’Originale di quelle Lettere, (le quali purcnon fono tra le
fuddette)* fi conferva prefentemente nella Libreria P
de u 4 LA VITA tfc’PP, Somafchi della Salute in
Venezia, in una raccolta di lettere di diverfi fcritte ai Co: Co:
Gualdi ; donde anche furono eftratte quelle che fono ftate pubblicate col
titolo di Lettere dPUomini Jlluflri del Setolo decimo fettimp non fin
fiampate L’ una di quefte due Lettere è fegnata di Roma; l'altra è fenza
data OPERE he Venezia, nella li della Madre di Dio a
canili. Stamperia Baglieni, della Prefazione al fuo S. Pier
edizione p roccarata, e di note Grafologo ltampato Venetiis acorredata dal più
volte nomi- pud Thomam Bettinelli 17$** nato P. Paitoni. fol. „Ne...
ingratiffìmis quibufLa notizia di quefte «quevidearaccenfcndus, illau.
due Lettere ci fu comunicata «datura iri non panar ci. et dal fuddetto P. Paitoni, a cui „do ut dr
eorum fibi gratiam cónciliarit y et magnani apud omnet auiloritatem
. Digitized by Google del Trissino; 117
Ìli Italiano ) In Vicenza per T olomeo Janiculo da Brejjfa >
mdxxix. in foglio. e ( col Dialogo del CafielUno ) In
Ferrara ter Domenico Mammartlli
in 8. e (nella Galleria di Minerva, parte feconda, a car. 3
5 *) InVi inezia preffo Girolamo Albrix.z& > 16 $6. in
foglio; e finalmente coll* altre fue Opere in j 5 ?
tona H Libro è dedicato da Giovambatifta Dona a l
Cardinal de’ Medici. Si dubitò per lungo tempo ^ fe Dantè fia
ve* ramente fiato autore del tefto Latino di queft* Opera, di cui a
tempi del Tr. issino niuno v’ era, che ne a vette contezza. Egli fu il
primo a pubblicarla in Firenze, allora quando vi fu con la Corte di
Leone X., come dice il Fontanini, il quale anche lungamente favella di
molte letterarie contcfe, alle quali die motivo la pubblicazione del Libro
fteflb, che finalmente fu riconofciuto per vera fattura di Dante .
Ma cosi non poniamo noi dice del Volgarizzamento, di cui e fi dubitò, e
fi dubita tuttavia, f e fia del Taissinq: e non oftante che tra le
fue Opere (a6i) Tom. 2. a car. 141. 1 (
262 ) V. il Fontanini nell’ Eloquenza lui. dalle car jjy. I tino alle
car. 246. e ndl'Amin-\ ta di Torquato Tajfo difefo ec. In
Venezia 1730. per Stbaftia • noColeti, in 8. a car. r* LA
VITA Opere d annoveri, molti letterati vi Tono, i quali
affermano non effere di lui . Tra quefti fpezialmente v’ha il Cavaliere'
Zora, il quale nel Difcorfo /ofra r- opere del noftro Autore {26$
)> dopo aver regiftrate le Opere di lui in Profé) dice di
ommetter la verfione de’ libri de vvlgari ELOQUENTI A di Dante, torchi non
li giudica tradotti dal Tri ss ino, nté fatalmente da Lui fatti
/lampare', aggiugnendo, provar egli ciò con buone ragioni
nella «m del me defimo Tjussino da lui fcritta A car. xj>o. a tergo » ciò
riferito il titolo nella Prefa-,c feguenti» . Jljj ;altro ci
fcmbra affai frivola, perciocché moke altre opere del noftro Autore han
tralafciato di regiftrare quefti Scrittori.) Oltre a ciò dice, che
effendo detta -verfione malamente dettata in Italiana favella, farebbe!! perciò
«* affronto patente ai. la fempre verter abil m (moria d’O.,
aggravando, . e sfregiando ing'mfiamente la fua reeognizione, col?
attribuirgli un lavoro male intefo, t malamente tradotto-, facendo
anche offervazione, che non d’O., ma da Giovambatifta Doria,
Genovefe, è ftata quella Traduzione dedicata al Cardinale Ippolito
de' Medici, con dirgli nella Dedicatoria, che Dante Jiccome ave a ferino f
Opera fieffa in Latino idioma, cosi la trafportaffe nell'Italiano. Soggjllgne
di più lo fteffo Signor Cavaliere, che fe Giova NG ioRGio foffe flato
l’Autore di quella verfione, e’ non l’avrebbe poi allegata nel fuo dialogo del
Gabellano a fua difefa, come fe foffe fiata Opera di penna altrui Que-
* . - • X B, . .1 M Fontanini neH’£/equenza Italiana a car. 10A.
diffc, eflere ftata la detta veriionc pubblicata dal Trjssino ; c ’l
Muratori nella Prefetta Poefta Italiana tom. prim. a car. 2 3. della
edizione di Modena Il T r 1 ss 1 ho nell’ accennato Dialogo
fa, che Gio. vanni Rucellai lotto nome di Caffettano dica ad Arrigo
Doria quelle parole: Deh per vofra gentilezza M. irrigo guardate un poco nel
mio ftudio, e fende, che il libro portate qui il Libro della VolDe Volgari
Eloquenti* trafporta-\gar Eloquenza di Dante tradotto in Italiano, fu dato alla
Ite- J to in Italiano . et dal Trissimo. ! no L A VITA
Quelle, ed altre rimili ragioni adduce Cavaliere a provare» che il Tlissi
no non fia {lato l’Autore di tale Volgarizzamento i alle quali
aggiugner fé ne può un’altra piò torte, cioè, che fé egli non ebbe alcun
riguardo a pubblicare, come è detto, in Firenze il tefto Latino di
queft' Opera col nome di Dante, Tuo vero autore, molto meno l’avrebbe
avuto a iar fapere? che fua propria era la traduzione Italiana*, e
manco avrebbe comportato, che il Doria nella Dedicatoria al fuddetto
Cardinale dieeffe, che Dante (il quale, fecondo il Tuo dire, l’Opera fteffa
in Latino compofe, affinchè intefa [offe dagli Spagniuoì li, Provenzali,
e Pranzo fi) la TRASPORTASSE ancora nel r.oftro Idioma. Anche
il Fontanini U, con aggiugnere, che il noftro G io va n Giorgio net
pubblicare quella ver bone; fi f* r ì fervùo de\ fuoìcarat. t tri
Greci, perchè da lui creduti migliori per Pefprejfione perfetta di noftra
Italiana favella . Con quelle ragioni, e con altre, che ommettiamo
a motivo di brevità, foltengono i predetti Scrittori, non elfer del nollro
Autore la fuddetta verdone; e ’1 Signor Marcitele Maflfei fe la fece
(lampare, come abbiam detto, tra l’ altre lue Opere, non però di meno non
dice» elfer cflà fattura di lui. Comunque fi fia, abbiamo giudicato
miglior cofa elfere e non porla tra le Opere da lui fenza dubbio
compolle, e non tralafciare affatto di regillrarla, sì perchè va attorno
col nome di lui» e sì ancora perchè avvi qualche fcrittore> che la
cita come di lui fattura. R ERUM ricent irtarnm Compendiane a Io. Georgio
Trusjno confcriptum . In fine leggonfi quelle parole : Ha* fìrhfi t*fi
dtpepulationtmUrUt Rome, dum Le. lattee tram apud Remp. renet am prò
Clemente rii. P.M. Quello Componimento non è mai flato Rampato 5 cd
una ( rita del Tr I s* 1 n o fima» ed utilidìma Stor. e
Re. manuferìt. a car. 294. a tergo, gion. d'ognì Paef. Tom. I. lib.
VeggaG il Qua dr nè da niuno certamente fi sa, dove effe fi
trovino di prefentev e non oftante che abbiano detto i predetti
Tommafini, e Beni, che allora fi con-[V. fopra a car. jr. f Trattar, dell' Orig. Prefazione alle
Opere * ec. tib. a. manoferitto a car. tc. z ar. xxxi. jj. Elegia
&c. a car. (180 ) Difcorfo ec. a car. 44»» DEL TRISSINO. ;i2,y
fi conferva vano preflfo i fuoi credi (28O? pure quivi certamente non
fono. Anche il Doni veramente ne regiftrò il titolo fenza più nella seconda
lì. ireria ( 2.8ì )* ma con quella differenza? che T ultima d’efle
Opere fu da lui chiamata Frontefpixio delle clone. E benché nel principio di
quella fua Opera ^284) dica il Doni di aver mejfo infiemt tutti i Cicalai
tri da sé veduti a ferma, de’quali 11 C aveva avuta notizia j e benché
foggiunga? che di tali litri etmfofii (e regiftrati in detta fua Libreria,
fochi c’credeva fodero per elfere ftampati» con con ciò fofle colachè
erano libri rari, e inma. no di per fané, thè non li voleane dar
fuori, mapiuttofio ardergli : nondimeno ci accordiamo
volentieriflìmo colla opinione del Sig* Marchefe Maffei intorno a
tali Opere? cioè che non fi fono vedute mai ; ma che iono Hate
alcune per equivoco, altre ridicolmente intitolate. E crediamo
parimente, che lo fteflfo fi debba dire d’un altra Opera dal medefimo
Doni, e dal Tommafin. loog. eie- ! Nella Lettera, die
egli jQfud Comitcs T rijfnos iffius i' colla fua lolita bizzarria intitoFi
are ics affervantur : La Bafe la A coloro che non leggono, a del
Chrifiianoì ec.Beni Trattar. car. io. eli. fc. lQ0g.cit.L4 Bafe del Chri-
1 {'184) Prefazione alle Opere Jtianoec.con altre Operette ferie. 1
ec. a car. xxx 1. te in prò fa, fono in Caf a de’ fuoi' (285) In un’
altra Opera, io Utrcdi. cui regiftra le Opere ftampatc La
Seconda Libreria ài Autori Volgari, intitolata.' del Doni ec. Jn Vincgia
5 jj. La Libreria del Doni Fiorenti. in 8. a car. 91. i no, nella quale
fono ferini cut ti ili Digitized by Google I2 c
dove ftampata 47 -»-? 4 Meliini ( Giovanni) pittor celebre non fece
il Ritratto del Trillino. 64. effo Ritratto premefTo a quella
noftra Opera perchè adornato di quattro differenti corone poetiche 107.
fua morte 6J. Bembo (Pietro Cardinale,) lodato 4. ». 4. fue EpiftoU
dove Rampate 23. ».40. citate 24. «.41 due di effe fcritte a nome
di Leone X. riferite a 3. e feg. fcrivc regole di noftra lingua 69.
fa autore il Trifsino del verfo fciolto 88.». 17 6. fue Rime
pubblicate per opera del Sig. Ab.Sertaffi citate 102. ». 225.
rifponde nellemedefimedefinenzea un 5onerto del Trifsino. Beni ( Paolo ) fi crede autore di
certo libro. 3. ». 2. filo Trat- Favola delle Cofie Notabili. 12.9
T ruttata del? Origine della Famiglia T rijfino dove Rampato .
ivi. iua erronea opinione incorno al Trillino 6. e intorno all’
ifcrizione dclfuo palazzo nella villa di Cticoli io. nora di
malevolo ilGiovio 4*. n. So. fa il Trillino autore di «ree opere . 51.
». xoi. 1 1 J.a fegg. fina al fine . lo fa fepolto pel
Depofuo del L afe ari 59. n. 114. parla con lode di Bianca
feconda moglie del Trillino 48. ». 95. citato 4. ia. ». 23.
23. w.41. Benrivoglio ( Ippolita ) a lei c indirizzata
un’ Ode latina dal Trillino 115. Bergamini imitò .con
poca lode la manieradi Ceri vere tifata dal Trillino •
Bragia ( Marco ), Con Agli e dell’ Accademia Olimpica vi mette un
SoRituto ». 28.48. Buonaccorfi . Vedi Montemagna. c
C Arco trote, a ( Demetrio ) fu macftro del Trillino nella Greca
letteratura. 4. dopo morte gli è dal medefimo eretto un Depofico con
Epitafio in Milano ivi. lodato dallo RefTo nel fuo poema dell* Italia
Liberata . 6. ». io. Calogeri ( P. D. Angelo ) lodato per la fua
Raccoltad'Opufcoli Scientifici, cc.lll.e / allog. già nel Palazzo
del Tri di no nella Villa di Cricoli * e quando . 12. ». 23.
fatto Cardinale * e poi Papa col nome di Ufbano VII. ivi .
Suo Bullo in pierra collocato in detto palazzo con ifcrizione, e quale,
ivi. Cartellano, uno degli interlocutori del Caflellano del Tuffino,
chi Ha ? t perche così detto 70. • ‘ Cavalcanti fu® Giudizio /opra
la C anace cc. dove ftampato
(fuo volgarizzamento d' alcune Ode d* Orazio, tu.
Centanni/) ( Valerio ) fuo curiofo Sonetto al Trinino, riferito 40. ».
7J. Checozzi (Canonico Giovanni) illuftta un luogo- del
Poema delle Api di Giovanni Ru* celiai, a difefa del Trillino 51.
rat 01. chiama pio e ca/tigato il Trinino 93. ». I9T. Chiapino Vedi
Bar- bar ano . C biffi ezio l GiovanjaCopo ) (nell*
Infatti* &c. Antuerpix ex officina Plantinian* 1632. in 4. )
-non mette tra’Cavalieri del Tofon d Oro il Trinino 4J. e fegg. ».
88. Cindli Vedi Raf- ie. Ciria{ Gìufeppe
Maria) Tua Ode latina in lode del Tuffino, ri-
Digitized by Googl I Tavola delle Cofe
Notabili. •*.#** -H CUt^ntt vi' Papa . Vedi &A D y
0 'J?%tfix doic^ftLpata ledici antt t,cn .' - f :i te _
CoRoza, Villaggio deiscenti-, arre poetica - J »* « £lo, ' A
m famo'o Covolo vie- Ilo latino de c.^1uon a «I"f |i
11-1 breria Brtffiann love Rampa- »o. * 4- da cbi .Btoccurateiw.
«•»**• Coment* j dove Rampati }4-| e /^', . pentiluomo
ir. 6o. fa il T tiffino il primo, Dw-tfo ( Ermolao U Martbcfa di !
Mantova ringrazia il TrifTi- 1 no per certa Canzone man
datale . 29. e feg. lo invita a fe, e perchè . ivi. efaltata nei
Ritratti del Trillino. 39. » 50. lettera a lei fcritta dallo ftclTo,
citata F arnese a lui viene indirizzato un Sonetto dal Tuffino, c
dóve fi legga. ( Rannuccio Cardinale ) grande amico del Tuffino, j
j. icrive allo fieflb una lettera d’ ordine di Paolo HI. ivi
». 108. dal Tuffino gli è dedi- cata la Commedia de’ Simu-
limi. io 6. Sonetto dal Trif-i no a lui dove fi legga fioretti (Benedetto) V. Nifieli
(Udcno). Firenzuola ( Agnolo ) fuo Dif- (acciamente cc. dove
Rampa- ! to 35. e feg. feri ve contro a! Tuffino . ivi. e
37. ». lo taccia di ufurpatore . 36. e fg. n.6j. quanto falfamcntc
. ivi. fcriffe piuttofto per giuo- co, che daddovero. è
citato nell’ Ercolano del Varchi ivi . citato 68* Fontane
delia Villa di Cricoli lodate dal Triffino con lati- na poefia.
ito. e con un c- pigr .mma Greco ivi ». 251. Fontattini (
Monfignor Giulio) fuo libro dell' Eloquenza Ita- liana dove,
Rampato 35.» 64- Efami fopra d'effa ftampati cenfurato giuftamentc
dal Si g. Marchcfe Mattici. 43. »j 84. difefo da ccnfura dello
lìdio 46. ». 88. chiama Novell 10 Cadmo, e Cadmo Italiano •
11 Trillino 39. giudica in- venzione di lui 1’ ufare la Z, in
vece del T. ivi. fuoi sba- gli. 69. ». 129. 71. e feg. 83. e f e
ii- . critica V Da- lia Liberata 93. non viene confermata la fua ccnfura
dal Catalogo della Libreria Capponi ivi. ». i9i. riprende il
Marchefe Ma Aci 94. « 1s2.il quale gli rifponde ivi. Vol-
garizzamento d’ Orazio da lui riferito, dubbiofatnente da noi
riportato . ni. Aminta del 7 affo da lui difefo ion le
Offervazietti d' un Accademi- co Fiorentino dove Rampato li luogo
ambiguo di quell' Opera lai. ». z6g. fua oppimene circa il iraduc-
tor del Libro de Volgari Elo. quentia di Dante. 120. e feg.
Fortunio (Francefco) feri ve re- gole di nollta lingua. 69.
Fracafioro ( Girolamo) amicif- fimo Digitized by
Google 1 Tavola delle Cofe Notabili. 1$;
fimo di Giovambatifta della loda la Sofonùba ivi . la bi*.
Torre. 10S. ».. fimaS9. come gli rifpondail Francefco I. Re
di Francia, è Malici ivi. critica/’ balia li- fatto prigione
dell’armi dell* berata 94. nell’ Orbecchc la au- Imperator Carlo V.
e ’1 fuo torc il Trillino delle Trage- cfcrcito feonfitto. 40.
gedic ferine in Italiano 7 9. Erancefì, feonfitti dall’ armi di
come pure del verfo fciolto Carlo V. Imperatore, c cac. 88. ». 17
6. fua lettera dove ciati d’Italia, ivi. fi legga ivi, citato 90.
». Franti ( Adriano) V. T t tornei. 182. (
Lilio-Gregorio ) fu con- G difcepolo del Trillino nel-
lo Audio delie lettere Greche. G aza (Teodoro ) nominato 4*
ne fa menzione in certo con lode nell* Italia lite- \ fuo Latino
poema . ivi. ». 4. rata 6. ». io. ! Giulio II. Pontefice, fua mor-
Gemi/lb ( Giorgio) nominato al- ! te quando fucceduta 13.
tresi con lode nella Refluivi. 1 G abbi ( Agoftino ) fua Scelta
Ghilini ( Girolamo ) (nel fuo' ài Sonetti cc. dove publicji- Teatro
d'Uomini letterati. Ve-\ t» 100. ». aij. nezJa perii G aerigli; Gonzaga
( Curzio ) fua tradu- non regiftra tra le Opere deli zione d’alcuncOde
d’Orazio, Trillino il Volgarizzamento j citata ni. di Dante
de Fulgori Eloqucn~ j ti Gragnuola (Prete Francefco) tia. 118. j fu il
primo maeftro del Tril- Gilafco Eutelidenfe . Vedi Lue- j fino. 3.
lettera a lui fcritto le., | dalTriffino ove fi legga ivi.
Giorgi ( Monfig. Gio: Domcni- { citata 13. ». 26. ai. ». 37.43
co ) Compilator del Calalo- 1 ». . go della Libreria- Capponi
. Gravina ( Vicenzio ) fua Ka > Vedi Capponi., ' ' I adone
Poetica dove ftampata Giorgio (Gio: Lorenzo) Noda-| 93* »• 191. in
efla loda il ro Veneziano 52. » 101. Trillino itti, fa grande
ftima Giornale de’ Letterati d’Italia del di lui poema dell’
Ita- ccnfura il Cafoni 101. «.228. 1 Un Liberata. 97. non decide fc
alcuni Soneui Gritti ( Andrea ) Doge di Ve- fieno del Triffinoio4.
9.231.) nezia, quando vi tulle elcr- lo fa bensì autore dell' in- 1 to .
30. gli è recitata in tal venzionc del verfo fciolto occaltone
un’Orazione con- 82. n. 167. gratulatoria dal Trilfino a
Gìovio (Paolo) tacciato di ma- nome della città di Vicenza, levolo
da Paolo Beni, c per- 31. citata 67 . 73 e feg.76. fua che . 42- ». 80
gli è fcritto morte quando feguita 30. un Sonetto dal Triffino. 102.
»-JJ. dove fepolto, e con Giraldi (Gio: Battila ) fuoi Dif- qual
Epitafio ivi. cerji dove Campati 7S. ». tj8- Grato (Luigi)
fuprannominat» i Cie. Digitized by Google
1 3 Tavoli, delle Cieco. £ Adria, filo grotto sbaglio .
58. ». in. Gualdo (.Girolamo) due lettere dal Tuffino aldi'
fcriue » ove. liano - 11 3. e feg.. - ( Paolo ) fua Vita- di
Andrea Palladio dove fi legga 9. Lettere Originali a’ Guai* di dove
fi. confcrvino- IV}e feg. Guarirti ( Guarino ) Vcronefc 5
fcriflc colè gramaricali io lingua Latina. 7J. Guicciardini- (
Franccfco ) fuoi Quattro libri della fua Storia ( nott pia
fiammati.. Venezia ftr Gabriel Giolito 1 ciati Guidetti. ( Franccfco ) fua rclazioae a
Benedetto. Varchi, . ccnfurata. H I ! .
H a y m (-• Nicola- Franccfco ) fua Biblioteca Italiana dovei
Rampata I liingo, o fia confonante, trovato dal Trillino > e abbracciato
dagli Scrittori an. che Fiorentini. 39. ». 73 Jjenicol» ( Tolommeo
) folito Rampato» del Trinino .lai. Imperiali ( Giovanni ) fuo Mufaum
Hifioricum dove Rampato . 6 . ». 11. dove il fuo Mufaum Phyficum 8. ». 17fua
erronea opinione intorno ai primi Rudj. del Triffino.6. e intorno
ad Andrea Palla, dio . 8., loda il’. Tuffino . éj. ». lift. c il di
lui poema Co fé Notabili. deli’ Italia Liberata
citato- Ingegneri fua Opera della Poe fia Rapprefentativa ec. dove
Rampata 78.». 157loda la Sofonùba. del Tuffino.. *»»• licrizione al
Sepolcro del Calcondila 5* — dell’Accademia Triffina attorno
alla porta del Palazzo del Tuffino inCricoli io., a che fine vi. fotte
collocala . . al BuRo di Vrbano Villa. »•»?•• — «1
sepolcro di Andrea Gritti Doge. 30. ». J3al Sepolcro del T
tifiino da lui fòrmatafi, ma non. metta in ufo» e perchè. 56..,
altra, in forma diElogioéi IL L ascari ( Giovanni) nominarlo
con lode nell Italia /*barata ». io. ove fia. fqrpolto. 59. »• 114àttere di
XIII - Uomini illit~ftri dove Rampate n. ». 23. d' Uomini Illuftri
dei Se. colo XVII. dove» per cui ope. ra pubblicate» c donde
cavante XM* »• Z S 6, Libreria Arobrofiana 52^ ». io».108. »• 14*-
iij. - Bertoliana di Vicenza 3. ». a. chi nc è.
Bibliotecario ivi . — — • dei Nobili Uomini Pifanj in Venezia
; conferva la prima edizione rariffima della Italia liberata da’
Goti PI.. de’ Digitized by Google
T avola delle Co/e Notabili. 13 ' de’PP.Somafchi della Sa* I Maffei ( MarChefe
Scipione ) >b* Iute di Venezia, confervava un
MS.-de'Trifftni, ed uno del Beni originale7. ». 1 5. con • fervagli
originali di . olcilfi • me Lettere fcrittc a’Gualdi .114. '•
j - dei detti PP. di SS. Filippo, e Jacop > di Vicenza
conferva 1” Aringa MS. del Triffino 47. n.91. e una eradazione in latino
. MS. della Sofoniiba78. «.157. Vedi C Apponi . Colando . Plutoni .
Rude. Zeno ( Apportelo ). Lombardelli (t'razio ) lettera di
Torquato Taffo a lui fcritra • dove fi legga 96. n 101
Lombardi (P.Giroiamo ) Gefui ta, citato 59. n. 114. Loredana \
Leonardo ) Doge di Venezia. Lettera del Ponrefi. ce Leone X. a lui ferina,
-e prefen taragli dal Trifòrio, riferita. 24. Leone X. Papa.
Vedi de' Medi, ci (Giovanni). M M acchiaveui
(Faufto) Accademico Olimpico, in. xerviehc a un Configlio. della
fua Accademia . 28. ». 48. Madrucci ( Criftofano ) Card ni. Vcfcovo,
Principe di Trento, introduce a Carlo V. un meffo dei Triffino. 54.
lettere a lui feriteci citate ivi 1 06. al lui c raccomandato Ciro
1 Trissino da 'Gioan.Giorgio fuo Padre. 54. Mairi
(Vicentino^ due Epigrammi latini fatti dal Ttif- 1 fino, per la mòrte di
lai do-, • ve fi leggano no. dizione delle Opere del
Trif. fino da lui procurata, premefiòvi un Riftretto della Vita
dello fteffo, citata foftiene, che il Trillino valeffc nella Filofofia
Platonica e Pitagorica 8. ». i^enore nel fuddetto Riftrettodi luicommcflb
12. ». 24. fuo Teatro Italiano ci. tato 26 . ». 45. 79» c feg.
n. 161.89.». 180. più volte ftam. paro 77. loda la Sofonisba.
la difende dalle altrui cenlure 89- loda la Gramat iebetta del Triffino
69. e la Italia liberata e la invenzione dc’nuo. vi caratteri 38, fua
falla cppinionc intorno 1’ ufo che ne avrebbe fatto il Triffino .
VI. la fa autore del verfo fciòL to8l. lo difende dalCrefcimbeni
per una nuova maniera di Canzoni da lui ufata 106. interpreta fi ni
Riamente un dettodcl Fontanini 46. ». 88. lo ccnfura giufiamente
43. ». 84. cenfurato da lui fc ne Tifcnte 94. fuo E fame
fatto all* Eloquenza Italiana dello fteflo dove Rampato fue
Offer. vazMtni letterarie dose ftam* pare 44. ». 84. lodato afferma
non efierdi Torqua~ i I J/j Tavola delle Co fe
Notabili. quato Taflb certa Commedia che è ftampata col nome
di lui 107. Vedi 7 'ajfo (Torquato) . prova non effer del Triflìno
certa opera Latina 123. nè certe altre ridicole compolmoni
125. dn Malgrado (Vincenzio) a lui fcrive il Trillino una
lettera 4. ». 5. Mattiti ( Domenico Maria ) fuo detto
cenfurato 39. lue Lezioni dove (lampare, ivi. n.72. Mattux.it}
( Paolo ) fua lettera a Bernardino Parremo riferirà. 11. ».
13. Marana( Andrea) imita con po ca lode la maniera dì
fcrive. re ufata dalTriffino. 3». ». 73 Martelli ( Lodovica )
fcrive contro al Trillino in proposto de Tuoi nuovi caratteri. 35.
fuo deteo coytrctto. ivi. ». «4. Martintngo (Chiara) madre
di Luigi Trillino primo marito di Bianca feconda moglie di
Giovan-Giorgio. 48. «.95. Martiri ( Jacopo ) fua Jfioria di
ricetta, dove ftampata z6. ». 4". Maj]tmiiiatto,
Imperatore, onora il TrifGiro. 16. fi crede, gli abbia conceduto il Vello
ef Oro . ivi . non gli falcia profdguir Certo viaggio 18. lo
rimanda fuo amb afe Latore a Papa Leone X. ivi . fua lettera latina al
detto Pontefice . 1 9'.»?-»47._fuo Specimen varia litttrattcra dóve
ftampato. ivi. ' R R aoona ( Alfonfo) Accademico
Olimpie o. Vedi Angioiello . • Rapido (Jovita) fua Orazione
accennata 109. menzionato da più autori . iviy ». 24.7. fu Lettore
di Umanità in Vicenza ivi. vicn chiamato Ra Cofe Notabili.
vizza dal Cozzando . ivi . Rccoaro, villaggio del Viccntino.Vedi
Comuni diRccoaro ec. Ridolfi ( Cardinal Niccolò ), Vcfcovo di
Vicenza, eletto dal Trillino per uno de'Commiffari del fuo teftamenco
. J6. gli fono dedicate dallo Aedo le fuc Rime 101. Canzone del
Trillino in di lui lode, accennata . 106. Roma, Taccheggiata
a’ tempi del Trifsino. 42. ». 78. 85. Rojp ( Niccolò ) fuoi
Difcorfi interno alla Tragedia dove ftampati 2j. ». 44. citati
45. »• 88. loda la Sofonisba del Trifsino. 2J. 7S.
Rucellai ^Giovanni) fuo Poema dell ' sìpi quando ftampato 51.
». 101* io elfo loda il Triffino. 8. ». 14. volea fotte riveduto da lui prima
di darlo in luce. 51. e 124. cosi le fuc tragedie dell' Ore/?*, e
della Rofmunda 123. e feg. luogo ofeuro di detto Poema dell'
Api illuftrato dal Signor Canonico Giovanni Checozzi è grande amico del Trifsino 17.
rifponde a una lettera di lui ivi. dove efta rifpofta fi legga ivi
. ». 34. f*i. è Caftellanodi Caftel S- Angelo 50. * e con quello
nome c uno degl’ interlocutori dell’ Opera del Tuffino, che per ciò s’
intitola il Cafiellano. 70. a lui è intitolato il Poema dell’ Api.
V. Rucellai ( Palla ). la fua Rau fmunda non piace affatto al
Varchi 88. corretta dal Trifsino 123. e feg. fua morte jo. lodato dal
Salvini 98. citato 2J. ». 43. 87. ». 174. $ % ( Pai . V
140 1“ avola delle Cefe Notabili» ( Palla) dedica al Trillino li
| poema delle Api di Giovanni 1 S filo fratello, c
quando 51.». ' 101. 87. lo fa autore del ver- qabellico (
Marc’Antonio) lofio fciolto 87. O dò in un fuo poemetto la £uele
(P. Mariano) Carmclita- Villa Cricoli, c quale 12. no, fua Stanzia
aggiunta al- 23. la Biblioteca Colante di Gio Sadoleto ( Jacopo )
gli fono vanni Cinclli, dove Rampata fcritte due lettere latine dal
$7' c f e t' n ' in. regiftra alcune Trifsino. iti. compofizioni dei
Trifsino non Salviati ( Cardinale Giovanni ) più Rampate ivi . e 1 1 o.
fa meta- prefenta al Papa una Canzozione di J ovita Rapido 109. ne del Trifsino
31. fua lette. ». 247. ra al Trifsino, riferita. 32. Ruderi (
P. D. Francefco ) Soma- n. 57. gli manda un Breve dà feo . Sua 7
'ratina cc. dove Clemente VII. ivi . Rampata 4. rt.’j. da chi fatta
Salvini ( Anton-Maria) citato Rampare accenna Vili. 38. loda il Poema
dell’ T alloggio d’Vrbano VII. nel Italia liberata 98. e feg. e
P Palazzo di Crico/i 12. ». 23. Api del Kucellai, e la Col vuole
che Carlo V. f»cefle tivazione dell* Alamanni ivi. Conte, e
Cavaliere il Tri fsi- fu c Profs To/cane dove ftanv no 43. e quando
44. ». 86. paté 34. ». 61. 38. «.70. quanto in quello egli s’ in-
Sannazzaro (Jacopo ) uno deganni 55. ». 106. loda il gl lnterlocutori del
CaJleUaTrifsino 6 J. e la fua Poeti. no del Trifsino 71. ca 73. «.145. e
la fua Coni- Sanfevcrina ( Margherita Pia) a media Ì07. ». 239. accenna
lei è dedicata un’Opera del aver il Trifsino icritti Infe- Trifsino
67. gnamenti Rettorici 116. ». Sanfovino ( Francefco ) edizio260. come
debba!! intendere ne della fua raccolta di Orativi. zioni di diverfi Uomini
Ulte Bufcelli loda P /tri divifa in due parti, cita invenzione
de’nuov! caratte- ta 31. ». J$. fa volte più ri del Trinino, c del
Tolo- volte pubblicata 74. ». 147. mci.38. «.68. fua raccolradi in e da
ha luogo un’OrazioLettere di Principi, ec. cita- ne d’O., e quale ivi .
ta . 42. ». 78. nelle Rime Sajp (Giufeppc Antonio) lodapcr lui raccolte lì
trovano to 108. Je. 243. delle compofizioni del Trif- Savorgrtano
(Giulio). una lettefino . 103. fuc note al Fu. radilui a Marco Tiene ftabiriofii
dcH’Arioflo, citate ivi. | lifcc l’anno della morte del Trifsino.
j8. «.113. Scaligeri (Mattino, e Antonio) in qual tempo vi veliero.
71. Scamozzi (Vincenzio) chiariffimo Tavola delle fimo
Architetto . io. ». «. difcepolo del Palladio ivi . di che non ne
fa menzione nei Tuoi libri ivi. Schio ( Girolamo )
Configliere dell’ Accademia Olimpica, a chi foftituito 28. ». 48. .
Vedi Angiolello . Terra del del
Vicentino, manda Oratori a Venezia a a chiedere un fattizio Veneziano
in Rettore in vece del Vicario Vicentino . 49, difefo da Baftian
Venicro Gentiluomo Veneziano. 50. per. de in tutto, e per tutto,
ivi. degli Scolari ( Franccfco). Vedi Bcccanuoli .
Scotto nd fuo hi. nerarium ec. parla dtlh AccademiaTriflìna. m. ».
22. Vedi da Cap ugnano. Stghezii ( Anton-Federico ) fcrive la Vita
di Annibai Caro in. ». 274. dove flampata ivi. non regiftra tra le
Òpere di lui alcuna traduzione dell’ Odi d’ Orazio . ivi. fu a
edizione delle lettere diBcrnardo Tasso, citata Serra# (
PìcriAmoqiQjjpubbli. ca le Rime del Bembo io». ». 21J. e quelle de’
Venie» ledendo la Vita di Domenico, HI. ». 2 JJ. Co fé
Notabili . I4I Speroni ( Sperone ) Sue Opere dove ftampatc Giudizio
fopra la fra Canate da chi comporto, vedi Cavai, canti (
Bartolotnmeo ) . da Somacampagna ( Gidino ) primo Scrittoredc
11 ’ arte Poetica, in Italiano. 72. inqual tempo viveffe. ivi.
Statuto Vicentino citato ' feSS Strozzi
(Filippo) uno degli Interlocutori nel Cartellano . Sub a f ano . Vedi degli
Aromatari. T T Asso ( Bernardo ) edizione delle
Tue lettere ( proccurara da Anton-Federico Seghezzi ) citata aia.
loda 1 ’ Italia liberata. fue Lettere dove ftampate . 73.». 144.
96. ». 200. lodala Poetica del T tif. fino 7j. edizione della
Aia Gerufrlemme citata 87. e frg. ». 176. edizione di altre
fuc Opere ». aot. loda i’ Ita.,,
Ha liberata . 96. non è Aurore ( feconde il Sign. Marohefe Maffci (a) ) della
Commedia ("intitolata gl' Jtrichid' -S } Amo (a.) Facendo però
il Taffo menzione di certa Commedia, che andava lavorande in, Tua Lettera a
Giovambaiti'fta T.icinio, la quale fi legge a car. iff. del Libro
intitolato: Lettere del Sig. Torquato Tuffo, non più ftam . fate ec.
Bologna. por Bartelomto Cocchi quand’anche non fia egli l'autore della
Commedia degl' Intrichi d" Amore, di che per forti ragioni (e ne
moftra.anzi dubb>ofo, che no, l’autore della Prefazione alla
nobiiillìma edizione dell’-Qprrr di Torquato Tuffo in Firenze per li
Tariini e Franehi . iti VI. Volumi m fol. viene a renderli affai
vacillante la decisiva temenza del Signor Marcitele, cioè non avere il
Taffo compofte Commedie. Tavola delle Cofe Notabili. Amore)
febbene porta il fuo ne X. H. n. 31. vuole che il nome 107. fno Amine» da
• Tri /Tino foffe fatto- Conte, chi difcfo, vedi Font /mìni. t Cavaliere
da Carlo V. T»rji» (Tiberio) fuo volgnrìz- 43. fua cfpreflìone dubbiozamento
d’ alcune Ode d'Ora- fa. 48.». 95. riferifce unepì. zio citato uà.
gramtna del Triffìno. 57. ». di Ttmfo (Antonio) fcrifle in rii. non
fa menzione del ItalianodcH’ Arte Poetica. 7a. Volgarizzamento dell’
Elo. c quando ivi. quenza di Dante fatto dal T ibride »
( Antonio ) fua Lettera Trillino 118. attribuifee al dìfcnfìvAi
citata ( della qua* Trillino molte Opere non le fi tiene eflcre
Autore il mai vedute. 124. loda laSo- Sig. Arciprete Girolamo Ba- fonisba
98. afferma effere fta- ruffaldì ) 98. ». 1 io. ta rapprefentata con
grande Tiene ( Giovanna) prima mo. apparato per comandamento
glie del Trillino . 12. fua di Leone X. 25. ». 47. «itato
morte ivi . 12. ». Accademico 80. 98. Olimpico * foflnuifcc
ano » della Torri che intervenga a fuo no- fua mone pianta dal Tri/fì-
me a un configlio dell’ Ac- no . 108. ». 243. fu amico di
cademia. citato Girolamo Fracaftoro. ivi. 0. ifteffa. ; j T
rape futi z.io (Giorgio ) noroina- Vedi Saver- 1 to con lode nell’ Italia
libe- &»»no* ! rata. 6. ». io. Tilefio fuo voi- Triffina
Famiglia. Sua antichi- garizzamento d' alcune Ode tà, e nobiltà. 1.
divifa in più d’ Orazio citato ni. linee. ivi. Autori, chen’han-
Tolomci (Claudio) fcrive con- no fcritto . 3; ». 2. Alberi tra il
Trillino in- propofito tre di quella Famiglia alle» dei nuovi
caratteri fotto no- g«*i . 48. ». 9 J. i difecndenti me di ^idriono
-f ranci fuo della linea di GioVan-Giorgio alfabeto > e
caratteri da lui inveititi delle Decime di ai- trovati . 37. ». 67.
citato 38. cune Ville del Vicentino. 14. »• 69. 1 fan lite per
rifcuotetle con- Tomafini ( Monfig. Jacopo Fi- tro ai Comuni d’effe
Ville., lippo) fuoi E log. yirar. Lit - ivi. vengono loro confifca-
ter. t ir fafitnt. Jlluftr. do- te effe Decime, e perchè . 1 j..
ve ftampati . 1 1 J. ». ». 1. fu pofledono l’ Opere manofcric- il
primo a parlar a lungo te del detto GiotGiorgio.nj. del Trinino . 111 .
lo fa ftu- Trijftno ( Co: Aleffandro) lodato, diofiffìmo dell’ Architettura
. Vedi la noftra Dedicatoria . 8 .». 16. accenna l’alloggio di . (Alvifej
primo mari. Urbano VII. nei Palazzo di to di Bianca Triflino . 48.
Cricoli. ta. ». 23. regiftra un quando abbia fatto il fuo Te.
franamento di lettera di Leo» fomento, Co: An. Digitized by
Google ] 7 avola delle Ceft Nut abili. Iodato 48. ». 9 j. e 96.
Padre di Alvife, primo marito di Bian- ca feconda moglie di
Giovan- J Giorgio. 48. ». 9j. feconda Moglie di Giovan
Giorgio, fuoi ge- nitori 47. e 48. ». 9 fua dote . ivi . fuo primo
Marito chi folle ivi. di fomma bel- lezza. ivi. detta V Eleva
del- la fua età. ivi. di lei parla il Beccanuoli, e dove.
47.». 194- f“o Teftamento. da chi rogato 52.». 102. lodata da
Giovan-Giorgio confervava on MS. appartenente alla Fa- miglia
Triflina. j. n.tj.figliuolo di Gio- van Giorgio Trillino . 49.
ammalato. 53., e feg. porta allTmpcrator Carlo V. gli ul- timi
diciotto libri dell’Italia liberata di fuo Padre.raccomandato da
Gio- van-Giorgio al Cardinal Ma- drucci. ivi. figliuolo
di Gì ovan-Giofgto^aaoti^io va- ne. za., fuo sbaglio intorno
a Giovan-Giorgio O. 6 . ». zj. fuo trac-) tato della fua Famiglia,
cita- to. ivi. e h. 18. ( Gafpare ) padre di Gio- van
Giorgio O.. 2. mi- lita a fue fpefe per la Repub- blica di Venezia
. ivi. fua mor- te. 3. traduce in
metro latino la j Sofonisba di Giovan-Giorgio ! O.. 77. h.ijj. dove
fi cenfervi. ivi. fi lamenta con Scipione Errico, per aver
que- lli criticato l 'Italia liberata 93. una lettera di lui dove
fi legga . ivi . riempie alcuni vani d’ un’ Egloga latina di effo
Giovan Giorgio non llabilifce fempre nello fteffo anno la fua
nafeita. 2. ». 1. nominato nell’ ulpi del Ru. celiai. 8. ». 14. fuo
Sonetto riferito, e in qual occafione fatto. 41. ». 7 6. fu
creato da Mafsimiliano, c daCarlo V. Conte, e Cavaliere, ma
non del Tofon d’ Oro con altri privilegj. quando. altro fiso
Sonetto riferito quanti anni abbia fpc- fi nell' Italia liberata .
53. e feg. ». 106. Suo Epi- gramma latino riferito 5 7. ».
in. fatto Brcfciano erronea- mente dal Cieco d’ Adria. 58. ».
ilteffa. La fua Italia liberata è chiamata erroneamen- te dallo Hello
Italia il latra- ta. ivi . da una iferizionc Sepolcrale riferita,
appare ef- fe re flato Nunzio per le iali- ne di Chiazza, e per la
refti- tuzione di Verona, diche in altri luoghi non ne
abbiamo trovata memoria Catalogo delle fue Opere ftam. paté, e MS.
tanto in Profa, quanto in Vc.tlo.67 ., e fegg. la fua Italia
liberata, come e quando Rampata. 53. e feg. 90. ». 183. di quanti
libri compofta. ivi . errori in que- llo dclFontaniai, e del
Com- pilatore del Catalogo della Li- breria Capponi, ivi. ia
pri- mi Tavola delle ma volta ftampata per Privi- legio
di Papa Paolo IV. 94. w. 192. fi tentò vetfione del- la fiefia in
ottava rima. 98. ». 210. le lue Rime dedicate non al Cardinal
Ridotti, ma a Leo- ne X. 101. lue Opere ad altri attribuite, cioè
lette Sonetti a' BuonaccorfiJ. 101. -e feg. uno a Guittone d'
Arezzo ioj. ed una Canzone all’ Ariofto ivi . fuo Ritratto
in- tagliato dal Sign. Franccfco Zucchi perchè adornato 'di
quattro CoroncPoetiche 107. fila Opera imperfetta da chi compiuta (
Giulio ) figliuolo di Giovan-Giorgio -natogli dalla prima moglie.
12. lette- ra di fuo Padre a lui, citata. gì. ja. »Cameriere di Clemente
Vii. poi Arciprete della Cattedrale di Vicenza litiga contra il Padre, e per- chè 49.
cui fa ftaggire le rendite viene da lui di- fendalo vince la lite
con tro di lui. ivi. Padre di Bianca, moglie di Giovan-Giorgio pubblica
un' Opera del P. Rugeri, c quale. }.«.ii. dove facciafc-
polto Giovan-Giorgio ( Co: ParmcMiotie ) Bibliotecario delia Bere oliana
di Vicenza confcrva copia del Volgarizzamento di certa Genealogia
di fua Famiglia 7. n.i 3. Vedi la Dedicatoria Nipote di Gio- Cose
Notabili. van-Giorgio fece in un cogli alrri fuoi affini
fcolpirc un Elogio allo Zio, e dove . lo Beffo Elogio riferito
Trinizio a lui manda O, il fuo Cartellano forco il nome di Dona fua
morte pianta in un’ Egloga da Giov.n-Gior- gio^
xo8- Consonante, invenzione del Trillino, abbracciata dalla
Crufca Faccari avea traf- pottato in . ottava rima un Canto
dell’ Italia liberata io.
Val d.’Agno. Vedi Comuni di Recoaro cc. Fate» ararla (Piero)
va con O. a Venezia Orator per la Patria Farchi edizione del suo
Ercolano citata. afferma c!- e il Firenzuola fende contro O. per
giuoco loda la Sofonisba la biafima fue Legioni) dove stampate loda l’
Italia liberata. . no» decide la quertione circa l’ inventore del verso stiolto.
mal inteso da Fontanini edizione de’ fuoi Sonet. ti, citata
«.a Sonetto ad O. riferito ivi.
loda Jovita Rapido citato F'ewimi Nobile Veneziano, avvoca in Venezia a favor
della Comunità di Schio con Tavola delle Cofe Notabili contro Vicenza, e
perde ( Domenico ) tuo Vol-
garizzamento di alcune Ode rvr In cambio del T da chi, di Orazio citato
ut. fue Ri- j / j e come fi comincia ad ufa- da chi pubblicate. n. 1 re .
ZaccariaVerità Sonetto ai nio)Gefuira, fua StoriaLet- lui foriero d’O.,
ove) teraria, dove ftampata. si legga roi. I. fa 1 Elogio di Apposto-
Verlati, madre di; lo Zeno ivi. Bianca, feconda moglie del '
Zeno ( Apposolo ) ritratta la O. sua Vita d’O. inferi. Vicenza,
perchè detta Primoge- ta nella Galleria di Miner vita della Repubblica di Veva
I. e feg. fue Lettere dove nczia quando fi fia Rampate citate
donata alla flefla ivi. manda c fegfquarci Oratori di congratulazione
al j di lettere ferine all’Autore Doge Andrea Gritti, e chi j di
quella vita c ne invia contrai munica all’ Autore varie noti- la Comunità
di Schio dozie per telTtrc quella Vita ve manda un Vicario a governarla ivi . è
fatta piena WI12. donde l’abbia giuftizia alle fue pretefe. J eflratte fuo
sbaglio conlerifce al Trillino varie lodato dignità, e quali . ivi sua Vigna
fue | Libreria a chi donata ivi. Differì azioni promeffe Vili. |
fua morte quando feguitam. fuo Preliminare dove lodato dal P. Zaccaria
con Rampato ivi. I lungo elogio, ivi . non tcn- Volpi lettera)
ne, che O. folle piti a loi fctitja dal Sign. Cano- j per ufare i
caratteri da lui nico Checozzì iir-tèifcfa del' inventati non tenne
per O,, dove fi legga fattura del Trillino certa operi. ioi. | ra latina
citato (il fo j Vedi Giornale de’ Let- praccennato)eGaetano
fratelli) I rerati d’Italia, (del quale cf. furono i primi a idear una
edi- clfedone egli il principale unzione di rottele Opere delTrif- tore con
ragione a lui fi at- fino U. u Io-
1 ttibuifee tuttociò, che inef- xo ( Ifcrvazionc erudita fopra j fo fi
contiene). il titolo d’ un’ Egloga del Trif- ; ( P. D. Pier.
Caterino So, fino m. lodato Vrbano Vedi Cafiagna. j Zigiof
ti 1 cfamina P Archivio de’ Co: Trilfini conferva co- Tavola
delle pia del volgarizzamento di certa Genealogia della
famiglia d’O. lede un’ Opera delle Memorie del Teatra Olimpico di Vicenza
citato rac. coglie tutte le Opere
MS. D’O. lodato ZorzÀ fuo Ragguaglio
Jjlonco intorno ad O. MS. ci- tato IV. fuo Discorso intorno
alle Opere dello Kctfo, do. ve fi fcgga . tao. citato
nominato con lode del P. Ruelc, c dove in. fuoi sbagli difende O. per l’invenzione de' nuovi
caratteri loda la Sofonisba numera le cen-. fare fatte alle opere d’O. e
dove - at- Cose Notabili rribuilce certa Opera ad O. ufi-fua opinione
circa alcuni Sonetti, at- tribuiti a’ Iluonaccorfi non vuole O. Autore del Volgarizzamento dell’eloquenza
volgare di Dame nò d’ un’ altra Opera latina lo crede bensì
Autore di certe Opere, che mai non fi fono vedute ivi Zucchetta ftampatore
quando cominciò a pubblicare Opere dai fuoi torch) Zucchi fua Idea
del Segretario,ec. dove ftamta intaglia il Ritratto d’O. premeffo a
quella Vita il Fine della Tavola. Gian
Giorgio Trissino dal Vello d'Oro. Oro. Keywords: la riforma della lingua
italiana, filosofia del linguaggio, Alighieri, lingua e linguaggio, codice di
comunicazione, il parlare umano, il parlare solo umano, la prima lingua, la
parlata dei genovesi, la filosofia del linguaggio in Alighieri, l’eloquenza, la
filosofia del linguagio, only man speaks. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Trissino” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice ed Orrontio: la ragione conversazionale e la
scuola di Roma – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A senator and follower of Plotino –
cited by Porfirio.
Luigi Speranza -- Grice ed Orsi: all’isola -- la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia fascista –
la scuola di Palma di Montechiaro -- filosofia siciliana – filosofia italiana
-- Luigi Speranza (Palma di
Montechiaro). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Palma di Montechiaro,Girgenti,
Sicilia. Grice: “Orsi uses ‘psicologia speculativa’
where I would use ‘psicologia filosofica,’ since speculativa opposes to
prattica, rather!” --Allievo di Ottaviano, insegna a Catania. Pubblica nella
sua attività di ricerca scritti minori di autori italiani e il saggio “Gl’hegeliani di Napoli.” Cura l'edizione
dell'opera di Ottaviano su Campailla; “La psicologia filosofica di Spaventa” –
e stato nella segreteria della rivista “Sophia”. Altri saggi: “Lo spirito come
atto puro,” “La filosofia moderna,” “L'uomo al bivio: immanentismo o
cristianesimo? Saggio di realismo esistenziale, “Antropologia”; “Psiche e meta-fisica”
“Psicologia speculativa” “Sulla psico-patia”. Grice: “The D’Orsi – and indeed a Domenico D’Orsi,
back in the 1700s, are a very noble family in Sicily. D’Orsi is associated with
“Sophia”, founded by Ottaviano. His interests have been many and varied – but most
notably philosophical psychology, which the Italians call ‘psicologia
speculativa’ as opposed to cheap scientific psychology. They have the great
Spaventa, who philosophized on the most abstract issues concerning the old
Roman idea of an ‘animo’. Compared to what Ryle’s and Watson’s psychological
behaviourism is a no-no-no!” D’Orsi has philosophized on democracy. I
democratici can be ingenuii, as I prefer them, or critici. He has also ‘cured’
the edition of Ottaviano on Campailla, and went continental to study Napoli!”
Grice: “Orsi has done a lot to allow us to understand Spaventa. As most
Italians, Spaventa was fascinated by the Hun, and cared to trasnalte a book
that the Hun never cared to read: Lotze’s Elementi di psicologia speculativa. I
can imagine Spaventa wondering what he was doing, bringing Lotze’s ‘seele’ as
‘animo’. The ‘elements’ by Lotze, as translated by Spaventa, are elementary
enough – but the section on the ‘soul/body’ (anima/corpo), ‘animo/corpo, corpo
animato, corpo inanimate) is interesting. But far more interesting is Orsi’s
unearthing Spaventa’s “Psiche e metafisica” – not to be confused with
LABRIOLA’s essay by the same name. This is a hodge podge of reflections. But
mainly anti-materialistic. While an emergentist, Spaventa (as discovered by
Orsi) struggles to understand the connection between ‘sentire’ and ‘sentito’
and more generally, between the ‘sentire’ as a processo fisiologico – Spaventa
goes on to distinguish three levels of the ‘sentire’ – the first is the
processo fisiologico itself, the second is what Spaventa, as unearthed by Orsi,
calls the ‘unita distintiva del sentito’, and the third is the ‘unita
reflessiva del sentito’ or ‘raprresentazione’. So if you feel cold, there’s
cold qua processo fisiologico of a ‘corpo animato’ – ‘uninanimated bodies
cannot FEEL cold’ – second there is the unity of COLDNESS as distinctive from
say, HEAT. And third there is the concetto ‘’freddo’ – so that there is a
‘unita reflessiva del sentito’ – the expression ‘freddo’ now NAMES or represents,
or stands for the sensation itself. Domenico
D’Orsi. Orsi. Keywords: animo, amore, Ottaviano, Campailla, Spaventa,
gl’hegeliani di Napoli, Sophia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orsi” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice ed Ortensio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher.
Luigi Speranza -- Grice ed Ortes – la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del verso – la scuola di
Venezia -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Grice: “Being
English, I was often confronted with that very ‘silly’ song by Cleese and Idle,
but then they were never the first! Which is good, since they are Cambridge and
Ortes is Oxonian! Viva La Fenice!”. Considerato uno dei più
dotati tra i filosofi veneti settecenteschi, precursore nell'analizzare dal
punto di vista della produzione complessiva alcuni aspetti come popolazione e
consumo. La sua impostazione filosofica si fonda su un rigoroso razionalismo.
Nel mercantilismo vide far gran confusione fra moneta e ricchezza. Fu un
sostenitore del libero scambio pur con alcune restrizioni della proprietà che
interessavano il clero, anche se appartenevano al passato ed è considerato per
questo un anticipatore di Malthus, ma con qualche contraddizione. Malthus
prevede l'aumento della popolazione, in trenta anni, in modo esponenziale,
quindi molto di più dell'aumento delle sussistenze. Altre saggi: “Grandi, abate
camaldolese, matematico dello Studio Pisano, Venezia, Pasquali, “ Dell'economia
nazionale” (Venezia); “Sulla religione e sul governo dei popoli” (Venezia); “Saggio
della filosofia degli antichi” -- esposto in versi per musica (Venezia); “Dei
fedecommessi a famiglie e chiese,” Venezia, “Riflessioni sulla popolazione
delle nazioni per rapporto all'economia nazionale: errori popolari intorno
all'economia nazionale e al governo delle nazioni” (Milano, Ricciardi), Donati
(Genova, San Marco dei Giustiniani). Catalano, Dizionario Letterario Bompiani. Milano,
Bompiani, Citazionio su Treccani L'Enciclopedia. Quanto i suoi studi matematici
influissero sul suo metodo economico, vedremo; qui, brevemente, come in
fluissero sulle sue considerazioni filosofiche. Così, scrive egli delle
opinioni ed ecco si studia di ridurre a “Calcolo sopra il valore delle opinioni
e sopra i piaceri e i dolori della vita umana”, Venezia, Pasquali, ristampato
dal Custodi, degli ECON. MOD. FILOSOFIA IN FORMULE MATEMATICHE numero
determinato il valore dell'opinione, che alcun gode, per possedere certa
qualità che lo pone innanzi agli altri nella scelta degli oggetti piacevoli.
Questa buona opi nione nasce o dai natali,come la nobiltà,la patria ecc., o
dallaprofessione,come la milizia, le lettere ecc.,o da qualche prerogativa,
come dall'autorità, dal merito ecc. Ciascun uomo fornito di alcuna di queste
qualità gode di qualche cosa che non godrebbe se ne fosse privo. Ortes si
studia di determinare il valore di questi beni recati dall'opinione. Valga un
esempio. Se si chiede quanto aggiunga di valore alla nobiltà l'opinione della
stessa, O. ragiona così: postoche larenditagiorna liera di tutte le famiglie
nobili sia 20,000, quella che proviene da cariche, magistrature, commende ecc. 3,300,
quella che vien data dall'opinione,cioè coll'autorità di disporre di più posti,
e colla riputazione dei grandi sul volgo, a 700, posto che il numero di tutti i
nobili sia 10,000, il valore di tutta la nobiltà sarebbe espresso da 20,000 + 3,300
+ 700 = 2. Falo stessocoin 10,000 puto per le altre opinioni,di cui dice esser
pretesto la virtù, ma vero fine l’interesse proprio, poichè, dipendendo il
valore delle opinioni dalla ricchezza attuale o possibile, è manifesto che si deve
prima d'ogni altra cosa cercare l'utile proprio. Avverte che v'ha sempre
un'opinione predominante che varia col variare dei secoli: ai tempi di ROMA
libera e la conquista; sotto OTTAVIANO illusso; il platonismo ai tempi di
Costantino; l'investitura ai tempi di Gregorio VII; le lettere sotto Leon X ; finalmente
l’ozio a tempi dell'autore! Strana è questa classificazione, PIACERI E
DOLORI. tuttavia 1?O. mostra come il pretesto della virtù coprisse basse mire
di privato interesse. Lo stesso ozio ha il suo pretesto dell'ordine, benchè sia
figlio di vana alterigia. L'uomo che dee servire a molte di queste opinioni sarà
più civile, ma più timido e finto; chiapoche; sarà più rozzo, ma anche più
sicuro e più libero. E come O. si studia di ridurre a calcolo le opinioni, così
parimenti i piaceri e i dolori. Meno originale e meno astruso è O. in questo saggio.
Con molta inesattezza di idee e di lingua, espone da principio la dottrina che tutto
ciòche è conforme alla conservazione e sviluppo del nostro essere, genera
piacere; il contrario, dolore. Parla dei dolori e piaceri del senso, dei dolori
e piaceri dell'opinione. Mostra l'uomo naturalmente soggetto al dolore, e che
il piacere non è che un sollievo del dolore; con ragionamento curioso studiasi
mostrare che il piacere non può mai superare il dolore, perchè il piacere
essendo preceduto, secondo O., dal dolore, sopito che questo sia, tutto quel di
più di piacere che si volesse applicare generera dolore contrario -- come
l'indigestione dopo la fame cessata, la stanchezza dopo la danza ecc. Il
calcolo del piacere e dei dolori dipende dal grado della elasticità delle fibre
onde alcuno è fornito, e, quanto ai piaceri e dolori d'opinione, dalla stima
che ciascuno fa degli stessi. L'autore non pretende a novità di dottrina,
professa di avere scritto secondo la propria esperienza, con un temperamento
indolente é coi suoi sensi in un'età di mezzo.Vedrem poi com’egli stesso ne
abbia dato un giudizio severo. Due altre opere filosofiche si hanno di O.:
un ragionamento delle scienze utili e delle dilettevoli per
rapporto alla felicità umana; — e riflessioni
sugl’oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per rapporto alle
lingue. Ma si può dispensarsi dal tener dietro a questi discorsi, che, a dir vero,
son pesantissimi. In sostanza l'uno si riduce a mostrare l'ufficio delle umane
facoltà nella scienza e nelle arti belle, anche queste intitolandole scienze ma
dilettevoli, in contrapposto delle altre che chiama scienze utili. Nelle
scienze tiene il campo l'intelletto, nelle arti belle l'imaginazione. Quelle
hanno per oggetto il vero com'è, queste il vero ma elaborato dalla fantasia.
Quindi discorresi in quali termini sia concesso il lavoro dell'imaginazione e
concludesi sul tenore dell'epigrafe: Sol la scienza del ver giova ed alletta.
L'altro ebbe occasione dalla traduzione di Pope, perchè volendo ragionare delle
difficoltà del tradurre, si trova così accresciuta in mano la materia, che
piuttosto d’un proemio s’appiglia a farne un saggio a sè. In fatto prende la
cosa da alto, e filosofeggia sulla varietà reale degli oggetti e sulla varietà
nel modo di rappresentarseli, onde s'apre l'adito a discorrere delle lingue e
delle loro diversità, quindi intorno l'uso della parola, e particolarmente
intorno all'eloquenza. Infine ritorna donde era partito, e conclude che se il
traduttore può benissimo esporre le verità apprese da altra lingua, non potrà
tuttavia produrne tale impressione negli animi, come ne è prodotta
dall'originale, se non facendo sene come nuovo autore, esprimendole cioè
inmodo; tip. Pasquali. SUL MODO DI TRADURRE. Non si può negare che osservazioni
argute si tro vino spesso in O. anche in queste riflessioni sugli oggetti
apprensibili, sui costumi, e sulle cognizioni umane per rapporto alle lingue;
ma pur troppo è d'uopo cercarsele in una lettura assai noiosa. Qualche volta dà
risalto a quell'idea che vedremo poi sua prediletta in economia, che cioè quello
solo riesca ove siavi la pubblica persuasione, non già ove questa non
corrispondaagliimpulsi; e però egregiamente dice, che allora un ammiraglio
potea condurre gli’inglesi in America, come
un tempo un romito potea condurli in Soria, perchè gl’inglesi stessi voleano e
avean voluto così. Qualche volta, faticosamente sì, ma pur si conduce a qualche
sentenza netta e perspicua, come, p. es., dopo GOLDONI, COLTURA ALLAMODA,
PUB. OPINIONE. Adatto all'indolee ai pregi della propria lingua. Chi volesse calcare l'autore
straniero sarebbe come chi cre desse ricopiare un ritratto con soprapporvi
isuoi colori, coprendone così e confondendone letinte,ecangiando il quadro in
un mascherone o in un empiastro. necessità invece che gli scrittori s'accordino
sempre col carattere nazionale de'lettori; e qui O. osserva, che il miglior
poeta comico italiano de'suoi tempi potea bensi starsene in Francia per passar
quivi meglio i suoi giorni, ma non giammai perchè il suo talento comico fosse
così ben rilevato nella lingua francese a Parigi, come il e già in Venezia nel
dialetto suo veneziano. Qualche volta sembrerebbe anche gaio,come quando si
lagna che, temendosi la fatica dello studio, si trascurassero le cognizioni
vere, contentandosi di dizionari, giornali, compendi o altri repertori per
dilettare, divertire, o come diceano, per amuseare! È USO DELLA PAROLA
PEI GOVERNI avere deplorato che il mondo governisi da chi più ciarla, non da
chi più sa, egli conclude: se chi pretende governar altri senza render ragione
del suo governo, e uomo assai vano; il sarebbe non men certamente chi pretende
governarli per sola copia ed eleganza di voci. Qualche volta infine dimostrasi
d'animo aperto e sollecito per le innovazioni. Qui cade a proposito, così egli,
d'avvertire l'errore di quelli che si figurano di richiamar nelle nazioni la
verità e la ragione comune, cioè gli interessi comuni, pubblici, universali in
contrapposto ai particolari, privati, speciali) perquantovi sifosse smarrita,
col rinovar quelle leggi che ne prescrivevano le modificazioni a'tempi de'loro bisavoli,
progetto al tutto assurdo e impossibile. La verità e la ragione comune potrà
ben richiamarsi per leggi, per quanto a'tempi trasandati fosse stata più
riconosciuta per sè stessa in quei costumi, di quel che il sia ai tempi
presenti per costumi che la modificassero in contrario di sè medesima; giacchè
essa in sè stessa è una sola di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Ma il
richiamarla al presente per le sue modificazioni antiche, quando tali
modificazioni debbon ad ogni tempo esser diverse, non può essere che una
miseria di mente, per cui si creda la natura non più capace d'invenzioni in sua
natura, di quel che siasi un po vero consigliere segreto che creda operar in
sua rece. Chi declama contro i nuovi costumi che si vanno in troducendo, e
deplora gli usati che si van disusando; ha molta ragione se inuovi costumi son
modificazioni di una ragion men comune, di quel che siano gl’usati che a
quelli dan luogo. Ma seinuovicostumi son » tanto buone modificazioni della comun
ragione, quanto gli usati che siperdono; ei declama inutilmente, come se ciò fosse
contro il variar de venti, essendo l’una e l'altra cosa quanto innocente, tanto
inevitabile e necessaria, e potendo, anzi dovendo, quella comun ragione, per
disposizione di natura e per sapienza illimitata del supremo suo artefice,
praticarsi sempre per modificazioni diverse, e comparire in sembianze ché non
siano giammai le stesse, essendo nondimeno la stessa per sè medesima. Senza
questo una simile verità o ragione correrebbe rischio di non esercitarsi che
per inganno; ed è ancor vero che talvolta con richiamare la verità, la ragione,
e la religione stessa per le sole loro modificazioni esterne di tempi molto
remoti, si riesce a perdere tutto il senso reale ed interno di queste virtù,
incariabili per sè stesse, riducendole a quelle materiali loro modificazioni
esterne, senza alcun rapporto a quell interno lor senso e significato. Si pigli
intanto O. in parola, poichè avrem campo di trovarlo in seguito così reluttante
a certe modificazioni che non sembra quel desso. Meglio avremo occasione di
riandare alcuni suoi pensieri dello stesso libro, che con certo apparato
filosofico mettono innanzi quell'armonia degli interessi, da lui tanto raccomandata
nelle sue opere economiche. Ma lasciamo per ora queste meditazioni di
filosofia. Errori popolari intorno all'economia nazionale considerati
sulle presenti controversie fra i laici e i chierici in ordine al possedimento
dei beni; Della Economia nazionale, parte prima, libri sei; Lettere
concernenti la stessa (oltre quelle che si hanno nel • Custodi, quelle
publicatesi in questo libro); Dei fedecommessi a famiglie, a chiese e
luoghi pii, in proposito del termine di manimorte introdotto a questi ultimi
tempi nella econ. naz.; Lettere in proposito;Riflessioni sulla
popolazione delle nazioni per rapporto alla econ. naz.; Dell' ingerenza
del governo nell'econ. naz., publicato da G. Fovel. Venezia, tip. del
Commercio; Della eguaglianza delle ricchezze e della povertà nel comune
delle nazioni, publicato dal Cicogna. Portogruaro; Riflessioni sulle
rendite del Principato e sulle rendite publiche in proposito di economia
nazionale; Discorso sull' economia nazionale; Popolazione perchè non cresca per
l'agricoltura, per le arti e pel commercio; Vari pensieri economici sull'
interesse del denaro, etc. Tra gli scritti d'Ortes nella Marciana.
LETTERARI. Traduzione del saggio di Pope sull'uomo; Saggio della
filosofia degl’antichi esposto in versi per musica; Riflessioni sopra i
drammi per musica e l'azione drammatica, Calisso spergiura, sonetti; nelodrammi;
traduzione dei treni di Geremia, nella Marciana; dei sonetti, ve n'ha anche di
publicati in raccolte; FILOSOFICI. Delle scienze utili e delle
dilettevoli per rapporto alla FELICITÀ [cf. H. P. Grice, “Notes on ends and
happiness”] umana; Calcolò sopra il valore delle opinioni, e sopra i
piaceri – EDONISMO -- e i dolori della vita umana, Riflessioni sugl’oggetti
apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per rapporto alle LINGUE,
alla LINGUA; Lettere relative; Calcolo de’ vizi e delle virtù, nella
Marciana). ATTINENTI A MATEMATICA E FISICA. Vita del P. Grandl,
Calcolo sopra i giuochi della bassetta e del faraone, con un estratto di
lettera sul lotto publico in Venezia, Calcolo sopra la verità della Storia;
Venezia; Sulla probabilità di vincite o perdite nel giuoco delle
carte; Problemi geometrico-matematici; ed altri di matematica e fisica, nella
Marciana. Parmi che molte sien cose scolastiche; in ogni modo, non da
trascurarsi per gli storici delle scienze fisiche e matematiche nel secolo
scorso. RELIGIOSI. Della religione e del governo dei popoli per
rapporto agli spiriti bizzarri e increduli de' tempi presenti, Lettere di
estratto; Della confessione fra i cattolici; Delle differenze della
Religione cattolica da tutte le altre (nella Marciana). POLITICI.
Dell'autorità di persuasione e di forza fra loro divise; Della scienza e
dell'arte politica; tutti due publicati dal Cicogna. Portogruaro.
Inoltre lettere, in parte stampate, in parte inedite presso il Cicogna, e le
memorie autobiografiche, publicatesi dal Cicogna. Ometto gli scritti, che
Cicogna indica solo come accennati da altri; e ometto pure alcuni scritti, che Cicogna
indica nella Marciana, ma che in parte sono manifestamente cose scolastiche, in
parte mi sembrano ricordi sceltisi dall' Ortes per suo studio, senza che si
possano sicuramente dir cose sue, in parte son cose del momento. L'anno
che ho aggiunto qui sopra dei vari scritti, è l'anno della prima publicazione.
Del resto non importa aggiungere se non l'osservazione, che volendosi
ripublicare scritti dell'Ortes, converrebbe far collazione delle edizioni coi
manoscritti, che servirebbero a correggerle e completarle. RIFLESSIONI 5'
'G JL. I - *t j.*1 X OGGETTI
APPRENSIBILI., > I «r . »r, I • - ' r y SUICOSTUMI, E SULLE COGNIZIONI
UMANE, PER RAPPORTO ALLE LINGUE. \>atu jB>ttl{otFircac
vMtì^^trì |^ynel*tcv *nr{» {« tRomaine ^«.^ieKHot .i^rtfi|/j^»jmnaj;o,
L e frefentì rìfle$ont innò origine da una prefa^ zsonCy cb' io volea
premenere a un Opufcoto filofofito, da me tradotto pili' anni innanzi
dalla lingua e poejia ìnglefe nella italiana; nella qual traduzione
efiendomì allontanato dalle maniere [olite ufarfi dagli altri in fimili
cafi, credea di dover di ciè render conto al lettore . Queflo non poteva
io fare^ fenza entrare a ragionare della divergiti degli oggetti ^ de'
cofiumi, e delle cognizioni, quali pili corrono nelle diverfe nazioni, e
della attiviti e /pirito delle lingue diverfe per e/primere tutto quefioy
fia con precifione ^ fia con eleganza ciò che non mi riufciva mai ben di
fare, ne' brevi limiti eh' io m' era prefiPfo (f una Refezione, per
quante volte in piU modi la volgefil e rivolgevi in mente. Depofto
pertanto ogni penfiero per ejfa^ ò giudicato piu facile, anzi che
jerivere una prefazione inftgntficante, di Jìendere tutto ciò che fui
detto propojìto di lingue, e di cofe per effe efprejfe mi fi prefentava
alla mente^ in un Trattato completo y e intefo a quefto efpreff amente ; il
quale così non d pili che fare colla traduzione Juddetta, ma à molto che fare
per quanto mi fembra, colle maniere di penfare fugli ftudj, fulle
cognizioni umane, fugli affari comuni, e [ulta Religione medefima, per quanto
code/le maniere effendo al prefente diverfe dalle ufate a' tempi paffuti
y fi reputano di quelle migliori . Quefto trattata dunque b Lettore .,c
quello eh' io qui ti prefento ^ e che h jeritto per mia e tua ijiruzione
migliore y e per avventura dt pochtjjimi altri, e non gid di tutti ;
fempre piu falda in quella mia majjima, che le cognizioni vere e reali
abbiano e pojfano ejfer di pochi, a differenza delle Juperficialt e
apparenti, che poffono e debbono ficnderfi a molti • e fempre più convinto
altresì nel mio particolare, che nulla per me /limerei di f opere di
certo y fe nulla fapejji dt Geometria . DEGL’OGGETTI
APPRENSIBILI, DE’COSTUMI, E DELLE COGNIZIONI UMANE, PER RAPPORTO ALLE
LINGUE. vfc/ievAA<vdv> ^srssrSFST^ A favella nell’ Uomo
è quel dono eh’ egli CAP. I. U 'f'^'^ M ^ comunicare ad altri le
immagini pre- Oggetti ap* Pii § fl Tentate al fuo cervello dagli oggetti
efter- prenfibili ori» W ^ quivi combinate inpìbmodi dalla fa intellettiva,
dono e qualità più ancor fìngolare e più (ublime dell’ umana natura.
Quelle immagini che fe non s’ intendono per quello nome, non s’
intendono per fpiegazione d’ elio veruna, fono più o men vive, a norma
delle impreflìoni che gli oggetti llein fanno diverfamente full’ un
cervello più che fuir altro, o coll’aspetto loro attuale, o colla memoria
di elTi apprefi altre volte, come la ftelTa percolTa imprime orma diverfa nella
creta, nel gellò, nella cera o nel piombo . E quantunque s’ imprimano
fors’ anco fu qualdvoglia materia pur infenfata, non fi combinano che
fulla materia animata mediante la facoltà intellettiva fuddetta, o la
feparazione delle più proporzionali ed armoniche dalle più difl'onanti
e deformi, per la quale così diconfi appunto combinarli A ia'è<i
1 1 ^ . infra efle. Una fimilc operazione dell’intelletto tende a
confrontare gli oggetti fra loro, e da un fìmil confronto a rilevare fu elfi e
per eflì quelle verità, che fenza ciò rimarrebbero afcole ed ignote, non
arguendofi il vero che dalle confonanze di alcuni oggetti con altri,
ficcome dalle dilFonanze degli uni dagli altri fe ne arguifce ilfalfo.
Perchè poi delle confonanze o diffonanze di oggetti ben arguite è indizio
l’approvazione o difapprovazìone per elle di altri, che abbiano o non
abbiano fimilmentc combinate quelle immagini ; e perchè una fimile
approvazione o difapprovazione non può confeguirfi, che per qualche mezzo
fenlibile per cui efprimere e partecipare gli uni agli altri codefte
combinazioni; quindi è dunque che un fimile mezzo fu ilHtuito nella favella,
per la quale appellando ciafcune immagini o ciafcuni oggetti dai quali
quelle derivano, con altrettante voci o parole diverfe, e collocando
queffe con certa difpofizione e corruzione analoga a quelle, H partecipa da
ciafcuno ad altri i modi coi quali gli oggetti che occorrono all’ immaginazione
fon da fe apprelì e combinati, afHne di verificare quanto fian efTì
giufti, per quanto reflino approvati dal concorfo maggior di piò altri ;
di maniera che quelle combinazioni d’oggetti s’ appellin migliori,
alle quali più altri preflinò un affenfo più facile e pronto, e
quelle s’ appellin peggiori, le quali non fìan fecondate, ma fìano all’
incontro contraffate da più altre a quelle oppofle e contrarie,
comunicate ciafcune a tutti mediante una comune favella. II. £’
chiaro, quelle immagini combinate e comu. nicate così altrui per la
favella, non elTer diverfe dai proprj fentimenti d’animo, coi quali
ciafcuno fi manifcfla agli altri non folo ne’ proprj giudicj fu gli oggetti
efìerni, ma nelle proprie azioni ancora, e negli ufiìcj e decenze della
vita comune che da quelli derivano, per non provenire tai fentimenti che dalle
impreflioni appunto degli oggetti ertemi, e dalle combinazioni che fé ne
formano nelle ciafcune menti . A' cAP. I. ~ quedo modo parlando per la
verità e fuor d’ illufione, pare che 1’ uomo tolto per la parte fua fifìca,
non didèrifca dai tronchi e dai faflì, fe non in quanto imprimendofi si in lui
che in quelli le immagini degli oggetti coi quali del pari comunicano,
egli folo mediante 1’ anima ragionevole che lo informa, à la
facoltà che non an quelli, di fegregarne alcune dall’ altre e di combinarle
infieme, e quindi di comunicarle colla favella agli altri, affine di
verificarle, e di dedurne quelle verità che fugli oggetti medefimi poflbno per
lui concepirfi, e dalle relazioni fra quelli W C. I. », t. fcuoprire per
quanto a intendimento mortale è conceffo, gli ufi e le convenienze maggiori
alle quali dall’ autore della natura fon pur desinati . Che s’ egli
(ì lafcierà trafportare dalle combinazioni cafuali che le immagini
degli oggetti imprimeranno fui fuo cervello fenza fcelta o interelle
alcuno, quella facoltà non farà in lui diverfa dalla Pazxìa, la quale in
fatti non è che un abbandono alla propria immaginazione, commofla dagli
oggetti veduti o rammentati, e flranamente accozzati infieme . Se poi egli
combinerà tali immagini per le fole confonanze apparenti ed eflerne
di pochi particolari oggetti a sè vicini, per li quali pertanto ei fia
prevenuto per fuo folo piacere e interefTe, nulla badando all’ oltraggio o
danno che quindi ne provenifle ad altri, per non iflendere quelle combinazioni
ai moltiffimi altri oggetti ren-.oti coi quali quelli avefTero relazione,
e doveDero in confeguenza combinarfi ; quella facoltà fi dirà in lui
Errore, o ragione intereffata particolare, il cui indizio farà quefto, di
ottener cita I’ approvazione di alcuni, ma colla difapprovazione di tutti gli
altri, potendo così l’errore eller bensì particolare di pochi, ma non mai
comune di tutti . E fe finalmente egli applicherà a combinare le immagini
colla fcelta e difcernimento più accurato, ed ellefo al maggior numero d’
oggetti, e dirtinguendone le relazioni e le confonanze tanto più armoniche
quanto più fparfe in lontano, quali collocherù nel miglior grado di
Ibmiglianza fra elle, c quali fegregherà dall’ altre colle quali aveller
quelle rapporto minore, o non ne avelfer nelluno ; allora ei ftenderà l’
interdlè e il piacere che da tali combinazioni derivano, da sè ad ogni
altro, fenza oltraggio d’ alcuno, e una tal facoltà fi dirà \n\n\ Ferità o
ragione comune, come quella che riconofeiuta da tutti, non potrà contrallarfi
da alcuni, o contradata da alcuni, relterà ognor vendicata dall’allenfo
comune di tutti gli altri. III. Quello dà facilmente a conofeere,
come gli uomini in generale, mediante la facoltà intellettiva fud C.f. II. 2.
detta, o l’anima ragionevole che gl’ informa (/»), paffino dall’ infenfatezza
alla pazzia, col combinare gli oggetti fortuitamente ed a cafo; e come
dalla pazzia pallino all’errore, combinandoli per proprio folo inteTcfle
e piacere fenza riguardo ad altri ; e come finalmente dall’errore fiano tutti
condotti alla verità loro comune, per la quale combinandoli per interelTe
e piacerecomune, agitati dapalTioni particolari, ma corretti e follenuti per le
comuni, tutti pur infiemc fudidono. E febbene tal non fia d’elTi in
particolare, per provvidenza pure particolare, giacché quafi tutti
invero dalla pazzia o dalla inconfeguenza nella quale litrovano da
bambini, padano all’ errore nel qual fi trovan da adulti, ma non tutti da
quell’errore padano alla verità comune, nella qual fi trovan ben molti
nell’ età più matura, ma tutti non vi fi trovan che al punto ellremo di
vita; tal però è d’elliin generale per provvidenza eterna . Che fe alcuni
fpiriti timidi e ombrofi giudicano l’errore più comune della verità, in
quanto gli uomini bene fpello contrallano, e non cosi di leggieri s’accordano
ne’ loro penfieri ; ciò nondimeno la verità fi feorgerà fempre dell’error
più comune, in quanto elTa in etì'etto o previene, o modera, o pon fine
fempre a quei contraili medellmi anco ad onta loro, fenza di
\ che nulla v’avrebbe di certo nelle combinazioni d’iin- cAP. i.
magini, nelle cognizioni che ne derivano, e nelle azioni per le quali fi
fulTide, che da tali cognizioni dipendono, contro l’efperienza manifelta,
giacché pur fi fuflTifte. Ma intanto quindi apparifce, come non edendò le
lingue idituite che per efprimere e comunicare altrui i proprj fentimenti
dell’ animo o le proprie combinazioni d’ immagini, per quindi rilevare quanto
ciafcuno per le vie deU’infenlatezza, del delirio, e dell’ errore nello
dato materiale, di bambino, e d’ adulto proceda nell’età ferma alla
verità comune nella quale alhn s’adagia e tranquillo fudide; la cognizione di
quelle dipenderà dalla conofcenza di quede . Ond’ è che per ben ragionare
della natura e della diverfità delle lingue, dovrà ragionarfi prima della
diverfità delle cognizioni umane da manifedarfi per quelle ad altri, non
edendo certamente podibile ragionare o intender i mezzi coi quali
confeguire un fine, fenza la conofcenza di quedo fine medefimo . Siccome ancora
da qued’edèr la favella intefa a efprimer ioltanto le proprie cognizioni
falle verità o dilla ragione comune, e dall’ cder eda propria del folo
uomo («), fi rileva, al W folo uomo dunque eder dato il penetrare
coll’intelletto e r alzarfi a fimili cognizioni, occulte a tutt’ altre
Ibdanze anco animate, ma prive della favella; in guifa che ficcome ei folo
podiede la favella, cosi ei folo in queda vita mortale fia dedinato dalla
provvidenza eterna alla conofcenza delle cofe per una fimil ragione, non
odante il deviamento da eda di alcuni, riconoicìuto fempre dalla ragione
medefima a tutti gli altri comune . P ER comprender meglio le cofe
fuddette, e come gli CAP. II. oggetti combinati nelle ciafcune
menti fi comuni- Della fornichino altrui mediante la favella, io confiderò da
un 8'9 canto, che fogliono quedi del continuo rinovarli gli . uni
negli altri fecondo alcune leggi di moto, in che confifte la vita, e la eflenza
di tutte le cofe mortali, e fcnza di che refterebbe il tutto coperto e
ingombro di quiete, morte e nullità eterna. Quelle leggi fono
collanci e invariabili, cui natura non preterifce giammai, come fi
dimollra nel lirico, e da quello li arguifce pur nel morale, per la
ragione di non procederfi a quello che per le vie di quello, o per la Icorta
de’ fenfi, onde non poter formarli regola per lo morale, che non
fia in conformità a quelle per cui fi conofcc proceder il fifico.
Pertanto gli oggetti rinovati per tali invariabili leggi, debbono altresì
elTere invariabili e fra loro confimili, ciò eh’ è molto conforme all’
armonia univerfale e alla concordia di tutto il creato, non prodotto dal cafo
cieco e impolTibile, come figurano gli fpenfierati, ma ufeito di mano di
un folo, eterno e fapientidìmo autore. Confiderò dall’ altro canto,
che quella fomiglianza di oggetti la quale feorre da tutti ein in
cialcuna fpecie a tutti ein nelle innumerabili altre fpezie nelle quali
lì trovan divifi, non toglie che gli oggetti medefimi non fian fra loro
diverfì, colla diflerenza ancora, che gli oggetti della HelTa fpecie come
fon fra lor più confimili, così fono meno diverlì dagli oggetti nell’ altre
fpecie, dai quali più e più diverlìficano . Ciò che non può provenire che dalle
modificazioni diverfe e infinite, colle quali procede il moto medefimo tìfico o
morale fra gli oggetti. tutti creati, e che pur concorda colla potenza e
fapienza infinita del fupremo autore della natura, cui non conviene replicar un
oggetto nelle varie o nella llella fpecie di elTi, e colla varietà di
natura medefima, cui difdice ad altri fpogliare delle infinite forme di oggetti
de’ quali è adorna, per rellrignerla folo ad alcune . II.
Quelle confiderazioni Habilifcono dunque quella verità, che gli oggetti
creati fono bensì tutti Confimi^ li y per le llefle collanti leggi di
moto fifico o morale per cui fullìllono, ma che fono altresì tutti
Diverfi, per le diverfe modificazioni di codello moto che procede colle
tnedefime leggi, fcorrendo quella Ibmiglian- c A P. llT za e
dilTomiglianza per gradi inrenfibili dagli oggetti di ciafcuna Ipecie a
quelli di tutte le altre contigue dal regno minerale al vegetale, e dal
vegetale all’animale filico, ( e lo Hello dee intenderli del morale {a) )
co- (a) C.II. n i. me è noto ai naturaliHi e agli altri lilofolì per
quel mifero finitefìmo di natura che fi trafpira, e dal quale
foltanto lice arguir di tutt’ ella. Tal ogni oggetto in ciafcuna fpecie
nel confumarlì procede per gradi di fomiglianza indifcernibile, e conferva i
caratteri della fua fpecie con sè medefimo, e cogli altri ne’ quali va a
riprodurfi, paflando per infenfibili gradi di modificazioni diverfe da
uno flato all’altro prima nella fua fpecie, e pofcia da quella ad altre
contigue più e più così fimili e refpettivamente diverfe in infinito,
finché dal tronco più informe e infenfato, fi pervenga all’uomo megfioorganizzato
e più faggio. Siccome dunque il moto è la caulà di tutte le produzioni
create, cosi certe leggi di elfo Habili fon la caufa per cui fi producono
e n confervano elle tutte confimili ; e le diverfe modificazioni di un
moto che procede per le medefime leggi, fon la caufa della diverfità di
ciafcuni oggetti in ciafcuna delle loro fpecie e in tutte le fpecie loro,
reflando così il creato uniforme e moltiforme, perchè prodotto e confervato
per quel moto, per quelle leggi, e per quelle mifure e modificazioni di
elio . Senza moto, non vi avrebbe cofa alcuna in natura . Senza leggi di elfo,
non vi avrebbe per il moto che un caos di follanze confufe ed
incerte, e da una rapa per efempio ufcirebbe una rofa, da una rofa una
ferpe, da una ferpc un coniglio, ma il tutto informe e inoHruofo fenza diHinzione
e progreflìone di fpecie, con ifconvoglimento di tutto il creato . Senza
modificazioni diverfe di moto, per elfo e per le fole fue leggi non s’
avrebbe in natura che una fpecie di follanze inalterabili, folTer poi
elTe tutte rofe, tutte rape, tutte ferpi, o tutte conigli. £
folainente per un moto che proceda per le medefime leggi e per diverfe
modificazioni di eflb, può formarfi e confervarfi in natura quella uniformità e
varietàdi follanze, per le quali effa pur fi vede ordinatamente fuflìftere .
Che fe la rofa verbigrazia è più fimile alla rofa che alla rapa, alla
ferpe, o al coniglio ; ciò non deriva da diverfità di leggi, ma da
diverfità di modificazioni in un moto, che ferbando le leggi medefime,
più che da rofa a rofa, procede da rofa a rapa, a ferpe, a coniglio. E
d’altronde la rofa, la rapa, la ferpe, e il coniglio fi diran fempre fimili,
perchè prodotti per le flefle leggi motrici, avvegnaché fempre diverfe per le
diverfe modificazioni di quelle. III. Alcune di quelle leggi
colanti di moto, e di quefte modificazioni di eflo diverfe particolari,
furono alìegnate e conofciute dai geometri, ma il pretender di
tutte raccorle con mente mortale, o di portarli da quelle che fi
conofcono alla maffima di tutte dalla quale per avventura tutte dipendono,
farebbe lo ftelloche pretendere di mifurar l’infinito con una fpanna,
non che di infonder l’oceano in un bicchiere. Che però gli oggetti
fan fempre diverfi, fi conofce maffimamente da ciò, che la detta rofa
verbigrazia non è già alla fera qual era al mattino, e un uomo non è in
vecchiaia qual era in giovinezza, e io flefib può arguirfi d’ogni altra
cofa che abbia fenfo onon lo abbia. Quella variabilità poi negli oggetti
creduti più volgarmente gli flefii, dee maggiormente feorrere Irai creduti diverfi,
contemporanei o confecutivi, nella fielTa fpecie e nell’ altre eziandio
contigue e diffimili ; dimanierachè non folamente tutte le rofe fian diverfe da
tutte le uova, e tutte le uova da tutti gli uomini, ma di tutte altresì
le rofe, di tutte le uova, di tutti gli uomini, non ve n’ abbian pur due, fra i
quali non corra qualche indifccrnibile difparità, mercecchè lefolfer perfettamente
le fteffe, non due ma una farebber quelle rofe, queir uova, quegli uomini,
e la prima divina caufa motrice non più infinita, ma farebbe limitata e finita
(/i). Ciò che negli uomini può arguirfi dai fesni ancor materiali edefierni,
per cui ciafcun d’eiTifi didingue da ciafcun altro per iembianze di volto,
di voce, di carattere, di portamento e (Imili, e lo liefFo
avverrebbe delle rofe, dell’ uova, e de’ grani ftefli di miglio, fe fe n’
avede una pratica corri fponden te . E quel che avvien delle rofe, dell’
uova, de’ grani di miglio, dee avvenire d’ogni altro oggetto particolare minore
e maggiore, e del compleflb di più altri ancora vifibili e invifibili ad
occhio umano, della terra, degli adri, delie codellazioni, e di tutto infomma
il creato . Così la terra fempre a sè defla confimile, è pur fempre
dasè diverfa, e dove al prefente forgonole città, v’ aveano ad altri
tempi i deferti, dove s’ alzano! monti, fcorrevano i fiumi o i mari, e
viceverfa ; alla quale diverfità fi procede per gradi quanto infenfibili,
tanto continuati e incelTanti. IV. Gli oggetti dunque creati
pafTati, prefenti, e futuri fono tanto fimili per le delle leg^i di moto, quanto
diverfì per le infinite modificazioni, colle quali può edb variare,
padandofi per infiniti gradi e in infinite maniere di madima fomiglianza
e di minima varietà, dall’uno all’altro nella deda fpecie, e dall’ una
eziandio all’altra delle infinite fpecie contigue di eflì, e accodandofi
ciafcun uovo ^r fomiglianza, e fcodandofi per diverfità da ciafcun altro o da
Ciafcuna rapa, per oggetti infiniti intermedi va rie fpecie, fenza però
mai adomigliarlo o didbmigliarlo del tutto; vale a dire fenza effer del tutto
quel dedb o quella rapa (6), o fenza didrugger del tutto l’altr’
uovo o 1’ altra rapa . Quel che s’ è detto degli oggetti filici, dee pur
applicarfi ai morali, giacché fìcome quelli fi confervano e fi rinnovano io
ciafcuni per le deffe leggi di moto fifico, così operan quedi per
le deffe leggi di moto morale che da quello dipende ( r). In confeguenza di che
1’ equità, il valore, la codanza, 1’ amore e gli altri affètti umani
virtuofi [Oggetti come apprefì diverfamente . ] tuofi o viziofi
ancora, fi diran propagarfi dagli uni agli altri in ciafcuni fempre
conlìmili, ina tuttavia diverfi, non folo ciafcuni in genere, ma nelle loro fpecie
ancora in ciafcuno individuo, come paffioni bensì confimili, ma che fono
modificazioni diverfe d’ una verità o d’un errore, eh’ ellendo lo fielfo
e indivifibile in ogni paflione, è nondimeno vario in qualfivoglia fua
apparenza o modificazione particolare. Tallo Ipirito di conquida per
efempio in Alelfandro, in Maometto, in Roberto Guifeardo, o il genio di
filofofia in Salomone, in Numa, in Marc’ Aurelio, o il fentimento di
libertà comune in Giunio, in Catone, in Gregorio VII-, furono ciafeune
paffioni medefimein sè llefle, benché ciafeune diverfamente modificate
in ciafeune di quelle perfone, attefe le diverfe circollanze de’ tempi, e
le varie difpofizioni de’ popoli, per le quali ancora furono diverlàmentc
fecondate, e iortirono vario efl'etto. La fomiglianza e
refpettivamente diverfità d’oggetti fuddetta, è quella che coliituifce le
diverie relazioni fra effi, non riferendofi un oggetto all’ altro che per
quanto ad effo è fimilc, o da effo è diverfo. Le quali relazioni così
fono infinite, per gl’ infiniti gradi di fomiglianza e di diverfità, coi
quali gli uni fi accodano agli altri o fi feodan da quelli, e per li quali
podbno infleme paragonarli, fia l’uno coll’ altro nella deda fua fpecie, fìan
gli uni cogli altri nelle fpecic loro diverfe (/») . Qui prima di
proceder più oltre, piacemi avvertire, che parlando io d’infinito,
comeò fatto innanzi e farò in féguito, non intendo parlarne come di
cofa eh’ io comprenda per sè, ma come di cofa eh’ io non intendo che per
approlfimazione, immaginandolo qual conviene a mente finita, vale a dire qual
finito, maggiore di quanti pollano alfegnarfi giammai in ciafeuna fua
fpecie ; inguifachè egli fia per l’aggregato di più e più finiti fenza
fine di quella Ipe cie 1 Digitized by
Coogic eie d'oggetti di che fi tratta, per cui fi porga all’
intelletto umano queir idea qualunque incompleta, che àffi dell’infinito,
fenza perciò che fi confegua elFo, o fi raggiunga a comprendere
polìtivamente giammai . Ciò avviene per le forze intellettuali umane
limitate al contrario e finite (<»); perciocché fe ad intelletto
umano fofle dato di apprendere verbigrazia tutti gli oggetti e tutte le
infinite relazioni fra loro, un intelletto tale non farebbe più umano o finito,
e non combinerebbe gli oggetti, nia farebbe un Dio, che fenza combinarli
li apprenderebbe tutti ad un tratto, come quegli che li avefle creati, e
ne avefle ordinate le relazioni di tutti i luoghi, e di tutti 1 tempi. £
quan* tunque di quella conofeenza l’uomo fcevro dai lenii, per
quanto comporta il grado di fua intellettualità, fia per partecipare
nella vita avvenire ; nella prefente di che II tratta, non potrà egli mai
flenderfi in elTa che per quanto lo conducano le tracce limitate de’fenfi
medefimi, reflrignendofi così le fue cognizioni ad alcuni oggetti per
combinazioni foltanto finite, fenza fìenderfi a tutte per comprenfione d’
efiì intuitiva e in* finita . II. Ciò porto, non
dirtinguendofi per or gli oggetti che per le lor dette relazioni diverfe,
ed elTéndo tali relazioni per ciafeuni di erti tanto infinite, quanti i
gradi di fomiglianza odi diverfità, co’ quali poifan fra lor riferirfi,
fia nella ftefla, fia nelle fpecie loro diverfe, corrifpondenti alle
infinite modificazioni d’un moto che procede colle medefime leggi (b) ;
ciafeun intelletto particolare, che per le forze fue limitate dee
apprenderli non per tutte, ma per alcune fole di tali relazioni, dovrà
apprenderli per relazioni diverfe da quelle, per le quali le apprenda
ciafeun altro, e in confeguenza dovrà apprenderli diverfamente da tutt’
altri . In ellctto dovendo la fomiglianza e diflbmiglianza fra gli oggetti
a|>prenderfi da ciafeun intelletto finito ad un modo, edeffendo infiniti i
modi, coi quali ciafeun oggetto può paragonare come fimile o diffimile agli
altri ; non potrà di quefti infiniti modi quello col quale apprende
quell* oggetto uno, effer quel delTo col quale lo apprende un
altro, ma dovrà l’uno effer dall’ altro diverfo, per quanto pur poffa efier a
quello più e più confimile. A quello modo faran gl’ intendimenti umani per gli
oggettr medefimi tanto diverfi, quanto le loro fifonomie o alia) C.II,
n.^. tre fembianze loro efterne fuddette che poffono bensì affomigliarfi
in bellezza o in deformità, ma non mai in modo di effer del tutto le
fteffe, o di non corrervi qualche differenza, per cui uno non fi ravvifi
o non fi diflingua, pollo al confronto coll’altro. Ed efIcndo gli oggetti
diverfi e confimili, e le relazioni fra effi infinite ; di infiniti
ancora intelletti umani fe fìa poffibile paffati, prefenti, e futuri, fu
i quali cadano le immagini d’unaflella, d’un fiore, d'un fallo, non
ve ne avran pur due che le concepifeano ifleffamente a per le
medefime relazioni ad altri oggetti, ma farà 1’ immagine di quella
(Iella, di quel fiore, di quel faffo diverfa nelle ciafeune menti di
quelle infinite perfone, confimile però più o meno l’una all’altra,
quanto queflc relazioni fian più proporzionali ed armoniche, ancorché armoniche
e proporzionali Tempre dìverfamente. Fuori di quello cafo non due, ma uno
farebbero* quegl’ intendimenti, i quali ConcepilTero gli flelli og. getti
per le fleffe immagini, o riferiti ad altri oggetti per le fleffe finite
relazioni delle infinite che ve n’ (è)C.J/. ».r . ànno, ciò eh’ è
impoffibile {b). III. Qui occorre offervare, come non è
folamcnte (f)C.J/.w.5. la diverntà degli oggetti apprefi avvertita
difopra (r), ma quella ancora delle relazioni loro agli altri diver\
<d) C.III.V.3. (g gjjg (j avverte al prefente ( d ), per cui fi concepìfcano
quelli da ciafeuni in vario modo, tanto al medefimo tempo uno lleflo identico
oggetto, quanto à tempi diverfi quell’ oggetto a sé confimile, ma da
sè diverfo a diverfi tempi in sè fleffo o nella fuafpecie. Per la
qual cofa Tolomeo per efempio, Ticonc, e Galileo n diranno aver tute’ a
tre immaginato il Sole ' diverlamente, quantunque il Sole veduto dal
primo in AlelTandria à Tuoi giorni, non folTe identicamente lo
Iteflo che il veduto per avventura dai due altri all’ idei* fo giorno,
quattordici fecoli dopo nella Dania o in Ita* lia, ma folle da quello
infenfibilmente dillimile, per rinfenfibile alterazione fofl'erta da ogni
corpo, e in confeguenza da ogni pianeta nella Tua durata medefima, come
s’è veduto (a). E ciò per le relazioni finite del Sole dell’uno e dell’altro
tempo, tolte dall’ infinità di tutt’ elle cogli altri oggetti di qualfivoglia
tempo, per le quali relazioni cialcun dei tre potea concepire il Sole, e
didinguerlo dagli altri oggetti, o paragonarlo con quelli. Quello è ben vero
che la diverlìtà, colla quale fi concepifcono da piò perfone al medefimo tempo
e nel medefimo luogo gli oggetti identici, farà molto minore di quella, colla
quale fi concepifcano a tempi e luoghi diverfi oggetti folo confimili, per
variar appunto in quello cafo gli oggetti ancora da sè medeiìmi, e concorrer
cosi non una, ma due ragioni a diverfilìcarne le immagini . Ond’ è
che ne’ diverfi luoghi e a diverfi tempi, fi dovrà ragionare di
oggetti conlimili con più di diverfità, di quel che fi ragioni al
medefimo tempo e luogo di oggeui identici llelfi . IV. Del
rimanente quella maniera in ciafcuno diverfa d’ immaginare gli oggetti llelfi o
confimili, fi riconol'ce dai giudici diverlT che fe ne formano daciafcuni,
i quali giudici dipendono appunto da tali immaginazioni. Se quei giudici fugli
oggetti llelfi folTer gli llelfi, allora potrebbe dirli, che quegli
oggetti follerò apprefi e immaginati illelTamente . Ma giudicando
ciafcuni diverlamente del color verbigrazia rolFo o del azzurro, convien
pur dire, le immagini di quelli colori eflér diverfe nelle ciafcune
immaginazioni. Anzi fe un giudicalTe del rolTo come un altro dell’
azzurro, potrebbe dirfi, apprender quegli perrolTo quel cheque /V!
CAP. HI. (a) C.7/.M.5. Oesetii come nominati per
la fteffa favella. (ù)C.II.n.s. (e)C.m.n. 2
. •5^ XIV^ ’fti apprendelTe per azzurro, e viccverfa .
Ma ciò non è vero nemmeno e attefa la infinità delle relazioni di
ciafcuni oggetti a tutti gli altri, e la fingolarità iti ciafcuni di
apprenderli (/»), le immagini d’cfTì deftate fui ciafcuni cervelli fon fcmpre
diverfe, come diverfi ne fono i giudicj, e non folo uno apprende ciafcun
colore, ma li apprende ancor tutti in vario modo da ajuel che li apprenda
ciafcun altro, inguifachè il rollo, r azzurro, il bianco, e il nero
imprimati di sè diverfe immagini fui ciafcuni cervelli non mai le
Itelle, e non mai permutate, ma fempre diverfe e impermutate, avvegnaché fcmpre
conlimili. P orte quefte confiderazioni fulla diverfità degli oggetti,
e fulla maniera in ciafeuno diverfa di concepirli, per apprendere come querto
concepimento fi comunichi da ciafeuno ad altri mediante la favella,
è da avvertirfi, noneflcr certamente portibile il communicarlo per voci
del tutto corrifpondenti, e che il figurarfi un efatta analogia fra le immagini
colle quali s’apprendon gli oggetti, e le voci colle quali s’ efprintono,
è figurarfi un aflurdità . Imperciocché ert'endo ciafcun oggetto
infenfibilmcnte diverfo da ogni altro in ciafeuna e in tutte le fpecie
(b), dovrebber le voci colle quali fignificarlo, variar infenfibilmentc
com’eflb dall’ altre voci colle quali fignifìcar gli altri oggetti,
ed crtér così le voci tante quanti fofler gli oggetti individui, appellandofi
oggetti confìmili ma noniilertì, con voci pur confìmili ma non iftelTe in
partato, al prefente e nel futuro; anzi appellandofi con voci diverfe una
rofa fterta per efempio al mattino e alla fera, e un uomo ftertb prima e dopo
una febbre quartana. Oltre ciò per effer ancora le immagini di quelli oggetti
medefimi nelle ciafcuni menti diverfe (c), o per apprender ciafeuno gli
oggetti diverfamente da un altro, ne dovrebbero altresì le efpreffioni
diverfifipre nelle ciafcuni bocche irtertamente, o dovrebbero le favelle
cfler tante quante le perfone favellatrlci, eia- c A P. iV. feuna delie
quali apprendendo gli oggetti così diverfi per relazioni eziandìo diverfe
ad altri oggetti, dovrebbe altresì pronunciarli in modo diverfo . Ognun
poi ..vede quel che avverrebbe per un fimil garbuglio di favelle, per cui
non farebbe poìTibile intenderli fra padre e figlio, o fra marito e moglie, più
che fra gli antichi fabbricatori fcefi dall’ altiflima torre di Babelle.
Poiché dunque non è poHìbile applicar alia favella, nè la diverfità degli
oggetti individui, nè quella delle immagini loro nelle cìafcune menti, ed
è pur necelTario che quelle immagini lì comunichino dagli uni agli altri,
per conofeere quelle verità che da mente nmana polTono concepirfi nello
flato di vita mortale (a); non refla fe non che gli oggetti s’ efprimano
(a)C.I.n.t. per voci identiche flelTe accordate per confenlo e per
ufo, per le quali gli oggetti o le figure e immagini loro, s’ efprimano
non elattamente, ma proflimamente, e non già per quanto farebbe neceflario, ma
per quanto foltanto è poflibile ; in guifachè elTendo tali immagini tutte
fimili e tutte altresì diverfe, le voci corrifpondenti le efprimano bensì
efattamente quanto alla lor, fomiglianza comune, ma non quanto
all'individua loro diverfità. II. Quello è ciò che avviene in
efietto, mentre oggetti precifamente non iflelTi, e non concepiti da ciaIcuno
ifleflamente, s’appellano non per tanto con voci flefle precife, e un faflb per
efempio, un fiore, una ilella fi proferifeono fermamente con quelli
flabili nomi quafi folTer indifcernibilmente gli llefli, e li concepiflero
ifleflamente, quando per verità non lo fono, e fono da ciafeuni ^preli in
maniera diverfa . Con ciò fi vede, come effetto della favella è quello di
rellrigner il numero degli oggetti e dellefimmagini loro indeterminato e
infinito, a numero tanto finito, quanto quel delie voci colle quali fogiiono
profcrìrfi gli oggetti medeOmi per quanto fono confnnili, e non per quanto fono
diverfi, giacché alla ìftcflTa voce d’ una lUlla, d’ un fiore, d’ un
fafTo non fi deflano in ciafcu* ni le flelTe immagini, ma fi deflano
tanto diverfe, quanto quella (Iella, quel fiore, quel fallo cosi appellati
fono individualmente variabili, e fi riferifcono da ' ciafcuni non
agliflefli, ma ad oggetti altri diverfi pur variabili, ed apprefi
diverfamente, e appellati tuttavia per quelle voci. Un tal lavoro poi non
può feguire, che mediante cert’ ufo e certa convenzione di quei particolari
che piò comunicano di immagini e di voci, di appellar appunto con voci
immutabili e precifamente ifleffe, oggetti individui e immagini loro, che
non fono le flelTe colla precifione medefima, fia per sè fia nelle
ciafcune apprenfioni; o di appellar verbigrazia col nome immutabil di rofa un
oggetto tanto variabile quanto una rofa, e lo flelfo dee dirfi
d’ogni uomo e d ogni altro oggetto particolare per sè vario, ed
apprefo da ciafcuno in vario modo, ancorché pure confimile . La qual
convenzione e il qual ufo è arbitrario, e libero, mentre come fu convenuto di
appellar r acqua e il fuoco con tali denominazioni, cosi niente impediva
che non fi convenirle di appellare alJincontro 1’ acqua col nome di fuoco, e il
fuoco col nome di acqua. Perché poi poflbno gli uomini convenire
di chiamar gli oggetti per quanto fono confimili con al(j)C.iK. w.i. gypg
yQgj jjQj, poflono convenire di render quegli oggetti cosi
invariabili come quelle voci, o di concepirli ciafcuni al medefimo modo ;
quindi avviene che r analogia delle voci invariabili cogli oggetti
variabili in sè fleflì, e nelle ciafcuni immaginazioni, non può
verifìcarfi che molto imperfettamente, o in quanto fi affuman per oggetti
invariabili, quelli che in effètto non fon tali che per approlTimazione,
variando eflì d’altronde del continuo per gradi infenfìbili e indeterminabili.
In fatti quelli oggetti eie maniere di concepirli, cangiano del continuo non
can giangiando le voci colle quali s’appellano, ed emendo le voci in
ogni lingua tanto finite, quante poffononumerarfi ne’ Dizionarj, gli oggetti e
le immagini loropoffono dirfi tanto finite, quante le innumerabili modificazioni
di moto, dal qual derivano quelli, o le innumerabili relazioni degli uni
oggetti a tutt’ altri, dalle quali derivano quelle in ciafcuno . Il qual
ciafcuno benché apprenda oggetti finiti per relazioni finite, per
eller però quelli e quelle in infinito variabili, li apprende in guifa diverl'a
da quella d’ ogni altro, febben in guifa d’ogni altro conlimile (<?),
per le medeli me leggi di moto, per le quali fi confervan gli oggetti, proferendoli
però lempre per le ftelfe invariabili voci d’ ogni altro. Onde redi pur
llabilito, la moltitudine di oggetti e d’ immagini loro nelle ciafcune
menti, effer a numero incomparabilmente maggiore della moltitudine delle voci,
colle quali pofian quelli denominarfi ed efprimerfi . Un contralTegno efpreflb
della detta imperfezione d’ analogia fra le voci, e le immagini d’
oggetti per effe fignificati è quello, che ciafcuno nello fpiegare altrui
le proprie immaginazioni oi propri fentimenti d’animo, non trova cosi pronte le
voci che gli occorrerebbero, ech’ei defidererebbe, come trova le
immagini, e non v’è cofapiù familiare, quanto il dolerfi uno di non poter per
voci dar così bene ad intender ad altri ciò eh’ ei fente e intende per sé
medefimo, di che gli amanti foglion lagnarli il piò fpeffo. Ciò che non
può derivare, che dal conofeerlui molto bene, che gli altri per quelle
voci non apprendon gli oggetti per elle efpreffi, com’ei le apprende, ma
li apprendono in modo piò o meno diverfo, e che quelle voci dellando
nelle altrui menti non le lleffe, ma confimili immagini, fpiegano ad
altri una verità apprefa fempre con maggior chiarezza da quei che
la proferifee, che da quegli cui vien proferita . Lo che fi verìfica
tanto delie menti piò chiare che delle piò confufe, effendo certo che
ficcome un uomo fensato per quanto ei fia eloquente, intende meglio i
fuoi penfamcnti di quel che gl’ intendano altri ai quali ei li
fpieghi per voci ; cosi un inCenfato ancora, benché non intenda lui
ftelFo quel che vuol dar ad altri ad intendere, è però fempre mcn capito
da altri di quel eh’ ei capifea sè HelFo, ed è fempre men
feimunitoin sé, di quel eh’ ei fia concepito da altri. Applicate
come fopra una volta alcune voci ad Oggetti co- jlA. alcuni oggetti in
certo luogo e a certo temine nominati po (^), fe quelle voci come fono finite
riguardo a per favelle quegli oggetti, così il follerò riguardo a fe
ftellé, ® avellerò con quegli oggetti una necclTaria connef(a)C./K.w.
2 . fjQfjg . qiie(p applicazione avrebbe dovuto elTere univerfale di tutti i
luoghi e di tutti i tempi, e non v’ avrebbe al mondo che una favella, la
quale formata una volta, fi farebbe prefervata dappertutto la fiefla,
invariabile per tutti i fecoli, per efprimer gli oggetti per quanto almen
fono fimili, fe non (l)C.iy.n.t. per quanto Ibno diffimili (6). Il fatto
però è, che febbene le voci lian finite riguardo agli innumerabili e
infiniti oggetti per elle efprefli, fon però elle pur innumerabili e
infinite riguardo a sè medefimc, fenza perciò avere quella infinità
relazione alcuna con quella ; mentre laddove quella degli oggetti
dipende dagli infiniti modi, coi quali procede il moto, che per le
ItdTe invariabili leggi li prelerva e li rinuova in ciafeuna e in tutte je
fpecie (c); quella delle voci dipende dai moti pur infiniti, co’ quali
l’aria fiella può ufeir dalle labbra, fpinta e percolla dagli organi
della favella, e quei modi non àn che fare con quelli. Quindi apparifee
perchè le lingue abbiano ad elTer diverfe a diverfi tempi e nei diverfi
luoghi, perciocché elléndo le maniere, colle quali le voci poffono
articolarfi infinite, c dovendo elle adoprarfi a numero finito per
elprinier oggetti mcdelimi e confimili, benché infiniti j non v’à ragione
perchè a quell’ 'it XIX ?$ nfo s’adoprino l’une anziché
l’altre di effe, o perchè CAP. vA un faflo, un fiore, una della appellati
ora in Italia con quedi nomi, non fodero appellati o non foder per
appellarli ad altri tempi in Italia o altrove con nomi diverfi. Per quedo
s’è odervato, gli oggetti non appellarft con certe voci, che per convenzione
particolare (a) divifa fra quei che più comunicano d’ immagi- (^a)C.iy.
«.i. ni, a efclufione di tutt’ altri chemen comunicano, non potendo
quelli eder mai tutti. E perchè l’infinità delle voci nonà alcun rapporto
a quella degli oggetti, quindi è ancora che una tal convenzione non è
neccllaria per certe voci, ma è libera ed arbitraria per tutte, e
dove s’applicano ad oggetti dedì e confimili alcune di ede, dove alcun’
altre, e quando quelte, quando quelle, fempre diverfe perchè Tempre finite,
tolte dall’infinità loro intiera. Se l’tina infinità fode relativa all’
altra, il farebbero pur 1’ una all’altra quede applicazioni, ma moltiplicandofi
allora le lingue colle imma< ginazioni delle perf>ne in infinito,
ne feguirebbe quella babilonia di lingue odèrvata di fopra (b) per cui non
{b)C.lV.n.t. farebbe più podìbile fpiegarfi gli uni cogli altri, e
per eder quede infinite quante le perfone di tutti i tempi e di
tutti i luoghi, non farebber nediine in alcun luogo, o ad alcun tempo .
II. Come poi egli avvenga, che le lingue una volta introdotte fi cangino
in altre ai diverfi tempi e ne’ diverfi luoghi, fi comprenderà da ciò,
che dovendo gli oggetti per le voci didinti eder gli dedi per le
dede invariabili leggi di moto, ma dovendo ciafeuni in ciafeuna fpecie
rinovarfi con infenfibili difparità per le infinite modificazioni o
mifure di quedo moto medefimo (c)j dovranno dunque efll appellarfi per le
(f)C. //. ». 2 . voci una volta loro affide e applicate, in guifa
però che confervandofi quede le dede per lo primo riguardo, fi vadano
infenfibilmente alterando e degenerando in altre per lo fecondo . Queda
ragione s’ avvalora e s’accrefee per le nuove arti, per le quali gli
oggetti C amedefimi e confìmilì fi fan fervine a nuovi ufi, a(Tumendo
eflì quindi pur nuove denominazioni c divcrfe di pria, e introducendofi
nelle lingue nuove voci a efclufione di altre all’ introdurfi di nuove
arti, collo fmarrirfi delle antiche. Dell’introduzione di nuove
voci in qualfivoglia lingua fon prova evidente tutte quelle, che
nelle lingue vive fervono all’ arti di nuovo introdotte nella milizia, nella
meccanica, nella fiampa, e fimili ; o quelle colle quali fi
fpiegano le nuove foggie di vediti, di mobili, di utenfili e così
feguendo, le quali prima dell’introduzione di tali arti e foggienon
potevano avervi. E della perdita delle antiche fono indizio quelle innumerabili
nelle lingue morte, fulle quali indarno fofifiicano gli eruditi per trovarvi il
fignificato nell’ arti ed ufi di oggetti prefenti, quando meglio dovrebbero non
penfarvi, come ad appartenenti ad arti ed ufi di oggetti già fmarriti, e
la cui conofcenza col fignificato di tali voci rimarrà fempre irreparabilmente
perduta . Perciocché il figurarfi che al forger di nuove arti o di nuove
maniere di fuflillere non abbiano generalmente a fopprimerfene e a
perire altrettante, è una puerilità e debolezza di mente, per cui
fi credan gli uomini in genere più fiupidi o più fvegliati, e più
taciturni o più loquaci a un tempo che a un altro, ciò che non fi darà
mai ad intendere a chi meglio intenda la fpecie umana, e la natura generai
delie cofe. Variando dunque infenfibilmente gli («)C. //.».*. oggcìt*
loro ufo per ordine di natura (a), e quindi per difpofìzione d’ arte ; le
lingue altresì debbono variare infenfibilmente per efprimere quegli oggetti
e quegli ufi, finché col lungo corfo di fecoli quelli e quelle prendano
nuovi afpetti, refiando gli oggetti gli rteflì per le fiefie leggi di
moto, ancorché diverfi per le diverfe modificazioni di quello ; e refiando le
lingue pur le lleflè per la llelTa perculTìone d’aria dai polmoni foIpinta,
ancorché fempre diverfe per le diverfe articolazioni di voci provenienti da
quella percufiione, modificata in varie maniere. Ad accrefcer però e ad
affretta- CAP. V. re moltiffìmo una fimile alterazione e rinovazione
di lingue, s’ aggiugne la mefcolanza di popoli di lingue diverfe
che comunichino di favella; perciocché appellando gli uni e gli altri oggetti
fteffi o confimili con voci diverfe, e non avendo ciafcuni maggior
ragione di così appellarli, è pur forza che riefcano a inferir gli
uni le loro voci nelle voci degli altri, onde imballardite così le lingue,
vengan di due a formarfene una o più altre di quelle compone, e da quelle
del pari diverfe . III. Egli è poi da oflervare, come per
cffer gli oggetti confimili fempre divertì, e per eflere una tal diverfità
molto più notabile a tempi e in luoghi difparati (a) ne’ quali s’ufino favelle
diverfe, che alloflef- v.]. fo tempo e luogo, ove non fe n’ufi che
una ; quegli oggetti efprelTi in un tempo e luogo con favella d’altro
tempo e d’altro luogo, non fi concepifcono perciò quali furono o fono a
quei tempo o in quel luogo natio, ma feguono a concepirfi quai fogliono in
quello, colla fola diffferenza di replicarli così in mente, e di
cfprimerli altrui con favella ancora ftraniera . Cosi le produzioni
ftefre di animali, di piante, di minerali, più diverfe nell’ antica
Italia e nella prefente Inghilterra di quel che il fiano nell’ Italia prefente,
efprelTe qui ora colle voci italiane antiche o colle prefenti inglelì,
non fi concepifcono quali erano in Italia anticamente o quali fono al
prefente in Inghilterra, ma quali fono al prefente in Italia. £ febbene
per la voce 'uir fi fìgnifìcalfe verbigrazia allora in Italia un uomo come
un Lentulus, e per la voce man fi lignifichi ora in Inghilterra un uomo
come un Richard, e per la voce uomo fi concepifca ora in Italia
untale comeunGiampietro; per tutte quelle voci vir^ many e uomo fi concepirà
ora in Italia del pari un tale come un Giampietro, e non mai come un Lentulus o
come un Richard. Lo che fi dice per avvertire, che la cognizione
delle lingue morte o vive Oraniere, non amplifica per nulla la
cognizion degli oggetti, ma carica foltanto la mente di più termini
d’eflì apprefi ad un modo folo, diritto o torto ch'ei fiafì, lafciando
cìafcuno nello flato d’ ignoranza o di dottrina, nel quale d’altronde ei
fi trovi . Certo è che quantunque ciafcuno apprenda gli oggetti
diverfamente da tutt’ altri, per appellarli con più nomi non li apprende
con più maniere, o colle maniere degli altri, ma fegue a concepirli
all’ ulato fuo modo . Ond’ è che per apprendere più lingue n apprendon
più voci, per le quali replicar in mente gli oggetti, e comunicarli a
perlone di linguedìverfe non diverfamente all’une che all’ altre, fcnza
apprender perciò niente di più fu quelli, o fenza accrefcer per nulla le
proprie cognizioni ; quand’ ancora la mente occupata ed ingombra dalla
farragine di quei moltiplici termini fugli oggetti medefimi, non
reflafT'e perciò impedita dal concepirli con più chiarezza e con
più precifione, reflando così le cognizioni fu effi tanto più limitate e
riftrette, quanto apprefe per più mani di lingue, come v’ù gran luogo di
dubitare. /^Uella diverfltà e
refpettivamente fomiglianza, che Della divef- V^_s’è veduta correre
fra gli oggetti della (lefTa e fità poffibile di diverfe fpecie, e fra le
maniere diverfc di (^)> è manifefto dover molto più ampiaC./i/ »
" ^ver luogo fra le combinazioni di quelli nelle ciafcune
menti, le quali combinazioni cosi faranno diverfe e confimili non folo quanto
gli oggetti, ma quanto altresì pofTono quelli confimilmente combinarli o
accoppiarfi infieme a numero minore o maggiore, feparatamente gli uni dagli
altri . Da quelle moltiplici combinazioni d’ oggetti in ciafcuni
diverfe procede quell’ordine, per cui gli uomini diverfificanod’
inclinazioni, di genj, di temperamenti, e quindi di maniere di penfare e
d’operare, ciò che coflituifce i divcrfi cojìumi loro ne’ divcrfi luoghi e ai
diverfi tempi. Imperciocché llante una fimile diverfità di oggetti c A P.
VI. diverfamentc combinabili, non farà poflìbile che s’accordin eglino di
applicare tutti ad oggetti delle ftelTe fpecie, ma dovranno applicare
quali all’une, quali all’ altre di quelle, e quando a quelle, quando a
quelle, per riferirli cialcuni e combinarli con altri oggetti di
tutte le fpecie diverfamente, onde deriveranno appunto le moltiformi
inclinazioni e coHumi fuddetti . Quindi apparifce la necedìtà di una
limile diverfità di collumi negli uomini adunati ancora più Hrettamente
infìeme, la qual procede dall’ impodìbilitàfuddetta di applicar ciafcuni
in particolare, e più ancora di ellì in comune, alle ftelTe fpecie
d’oggetti, e di combinarli e riferirli fempre al medefimo modo finito,
quando tali fpecie d’oggetti e tali modi di combinarli e riferirli fono
infiniti, e il finito tolto dall’infinito in palTato, alprefente, e nel futuro
per infinite fiate ancora fe fia polfibile, è fempre diverfo {a). Quella
diverfità d’opinioni C. Il.n.i. e di combinazioni d’immagini, per ufo di
combinare ciafcuni più particolarmente oggetti d’ alcune fpecie in
luogo d’altre, è cofa familiare, e fi manifella ai frequenti incontri per le
impreflioni diverfe degli oggetti medefimi fulle menti di quelli, che lìan più
o meno avvezzi ad apprenderli, e a combinarli. Ed è certo l’incantefimo per
efempio del villano fra i cittadini, l’orgoglio del cittadino fra i villani,
laprelunzione del cortigiano fra i dotti, la noja del dotto fra i
cortigiani, non proceder da altro, che da maggior ufo in ciafcuni di
quelli di combinare più particolarmente oggetti di diverfe fpecie, nelle varie
circollanze nelle quali ciafcuni fi trovano. II. Chi poi da una
fimile diverfità d’opinioni ecofiumi riputalfe derivar difordine e fconccrto
fra gli uomini, s’ ingannerebbe di molto, perciocché per quanto diverfi
fian gli oggetti apprefi e combinati più frequentemente da ciafcuno, purché le
combinazioni cogli altri ne fiano armoniche, e conformi alla llelTaragione
comune, non potran quelle elTere che pur (,a) C.I. ». 2, confimili, e
perciò conformi fra elle, nè potran i codumi che ne derivano effer difcordi o
generar fra cfli difordine, eflendo anzi tutti in ordine a una ftelTa verità
o comun ragione. In eflètto rcflTer le opinioni e i coflumi diverfi non
toglie che non poffan elTer confimili, e ficcome gli oggetti fon confimili per
la femplicità e invariabilità delle ftedè leggi motrici, per cui Il
confervano c fi rinnovano in cialcuna e in tutte le l'pecie, e fono
diverfi per le diverfe mifure e modificazioni, colle quali procede quel moto in
ciafcuniper le medefime leggi ; all’ ilidìo modo le combinazioni
loro, e i cofiumi che ne derivano, fon pur confimili nella loro
diverfità, per una ragione comune invariabile in sè fiefia, ma variabile nelle
fue modificazioni, lecondo le quali quegli oggetti fi a ppret\dono, e fi
combinano da ciafcuni . Che le fi domandi un rifcontro, per cui conofcere
quella conformità di coftumi colla ragione comune, fi dirà quello efl'er
quello, per cui apparila, che elTendo elfi utili a sè niedefimi, il fiano
altresì agli altri, lenza che alcun ne rifenta nocumento od oltraggio,
mcrcecchè fe elfendo quelli a sè utili, fulfero ad altri nocivi, allora non
firebber elfi alla comun ragione o alla verità di natura conformi,
la quale è Tempre concorde e non mai a sè lidia oltraggiofa; ma làrebber
in conformità all’errore o alla ragion particolare d’ alcuni a quella comune
contraria, dillruttiva disè medefima neila dillruzione degli altri,
li) C.T, n. 2. come s’è dillinto da principio [b). Con ciò apparifee, come
la diverfità di combinazioni d’immagini, e quindi d’opinioni e collumi,
non folo non apporta difordine in matura, ma ne collituifce aU’oppolto l’ordine
e la concordia migliore, purché non s’ allontanino dalla llelTa ragione a
tutti comune, ciò che può avvenire in infiniti modi; e in tai modi
appunto diverfi fi dirà pollo l’ordine e l’ar(c) C.II.n.4, monia medefima di
natura morale (c), come ne’ modi di combinazioni in conformità alle ftefTe
legni mo- c a"? VI trici filiclie, è polla l’armonia di natura pur
liiTca. E invero dall’ applicare gli uomini di concerto, quali fu
alcune, quali lù altre fpecie d’oggetti più particolarmente, ne proviene che le
cognizioni fu effi e per erti refpettivamente s’accrefeano, e gli uni
accorrano in foccorfo degli altri, derivandone quindi quella perfualìone
e prudenza umana, per la quale ciafeuni per quanto è polìibile, ne’ varj
ullicj, profertioni e modi di vita per erti intraprcli piacevolmente
fulfirtono . Senza ciò combinando ciafeuni calualmente gli onnetti
fenza fcelta e fenza difeernimento di fpecie, non s’ ' avrebbe che
confufìone, e per clTer gli uomini di tutte le opinioni, i collumi c le
profellioni, non farebbero di nellune. Ov’è da oU'ervare altresì l’iinportìbiltà
in alcuni foli di riconofeer tutte le azioni e tutti i cortumi, per
quanto fian quelli utili a tutti, e conformi alla coniun ragione, dovendo una
tal conofeenza dipendere dalla ragione appunto comune, e non mai dalla
particolare di quegli alcuni . Se quello folfe portabile, la natura
avrebbe dertinati gli uomini non in foftegno, ma a carico ed oppreHione
gli uni degli altri, e avendo formato alcuni foli intendenti ed attivi,
avrebbe collituito tutti gli altri llupidi e inerti . Egli è ben
necellario, che alcuni riconofeano le azioni e i collumi tutti, per quanto
forter quelli contrarj al bene e alla ragione a tutti comune, al qual
fine furono illituiti i Governi de’ popoli; mentre il conofeer fe
un’azione coll’crter utile a sè il fia pur ad altri, o fja ad altri
nociva, è dato ad ogni uomo in particolare, e martime a chi è dertinato a
quella conofeenza. Ma il prefumer alcuni* d’ inventariare e regolar tutte
le azioni, i collumi, le opinioni e le profèlfioni, per quanto fian utili a
tutti, è un prefumer d’efler quei tali di tutte le azioni, i collumi, le
opinioni e le profertìoni, cofa allurda, non elTcndo ciò dato dalla
natura ad alcuni in particolare, ma agii uomini in generale di tutti i
tempi, e di tutti i luo IV. Infatti poiché le combinazioni di oggetti
fono infinite non folo in tutte le fpecic, ma in ciafeune ancora di e(fi,
e non può intelletto umano apprenderne che un numero finito ; e oltre ciò
poiché gli oggetti non fi combinano che per conol'cere le verità fu
effi c per efiì, e tali verità non poffono rilevarfi per tali («)
C.L ». 1 . combinazioni, che pel confenfo di molti fu quelle (a);
iàrà dunque forza, che molti concorrano ad apprendere c combinare, quali
oggetti di alcune fpecie, quali di altre particolari, clTendo cosi altri
di alcune, altri di altre inclinazioni e collumi meglio intefi e iftruiti,
a efclulìone limile di tutte le altre; non efi'endo d’altronde poHibile che
tutti gli uomini, ciafeuni de’ quali debbono apprendere e combinare alcune
fpecie fole d’oggetti finiti; delie infinite fpecie che ve n’ ànno,
s’ imbattano ad apprenderli e combinarli delle lleflè fpecie finite a
efclulìone delle infinite altre, e in tal guifa ad eflér tutti d’un
umore, d’ un’ inclinazione, e {b)C.VI.n.\. d’ un collume (é). A quello
modo fi può dire, eh’ tlfendo le immaginazioni d’oggetti diverfe,
edelfendo pur diverfe le opinioni e i collumi, fra 1’ una e 1’ altra
diverlità v’ à però quello divario, che elfendo la prima in riguardo a
ciàlcun uomo, la feconda è in riguardo a più d’ elTi, e che non avendovi pur
uno che (i) C.III. H. 2 . immagini gli oggetti come un altro (r), ve n’àn
però moltilTimi della llelfa opinione c collume, diverfi dalle opinioni e
collumi degli altri; in guilàchè ladiverlìtà di opinioni e collumi, anziché
divider gli animi, tenda ad unirli dalla diverlità molto più amplafra le
loro particolari immaginazioni col vincolo d’ una loia ragion comune,
alla quale quelle opinioni e quei collumi, avvegnaché diverti, fian pur
femnre conformi. Lo che non avviene indarno, ma è llabilito con provida
dilpcfizione, alfine di verificare l’armonia delle immaginazioni diverfe per la
conformità delle opinioni confimili (<j), giacché la diverfità poid’opinio-
CAP. VL~ ni fra tutti non induce confufione o difcordia fraefll, («)
c.'l. t. per la uniformità appunto di molti in ciafcuna di effe, e per
non opporfi nelTuna alla ragion umana comune, della quale anzi ciafcuna
opinione particolare coitituifce una parte, ed è modificazione particolare diverfa.
Certo è, che ficcome la diverfità degli oggetti immaginati non confonde
la natura, anzi ne coltituifce la vaghezza e perfezione migliore ; cobi la
diverfità delle opinioni e cofiumi, che di quella è la conleguenza, non
incomoda alcuni come quella che coftituifce anzi la varietà delle azioni, e
colla varietà la libertà, che di quelle azioni è il carattere più gradito
e migliore, efléndo così ladiverfità de’ colìumi umani tanto necelTaria
all’umana fulTidenza, quanto ladiverfità nelle fpecie d’ oggetti lo è nella
natura univerfai delle cofe V. Per altro ciò che fa credere come fopra
(4), che WC.Ff. n.ila diverfità degli oggetti combinati, e de’ coflumi
che ne procedono, apporti confufione edifordine, è l’equivoco di
confondere la diverfità colla contrarietà di dii oggetti e coflumi, e di
prender quella per quella, non potendo negarfi, che per opinioni e
coflumi repugnanti e contrari non s’apporti fconcerto e non fi dia motivo
a difordini, ciò che non è da temerfi per opinioni e coflumi diverfi. La
contrarietà però è tanto lungi dalla diverfità in tutte le cofe, quanto è
appunta ad effa contraria, ed è quella tanto implicante nelle
immagini degli oggetti e ne’ coflumi che ne derivano, come lo è negli
oggetti tutti creati, i quali pofìbno bensì efler diverfi, ma non mai
contrari, per dover efier tutti confimili, e poter bensì la fomiglìanza
aver luogo fra gli oggetti diverfi, ma fra i centrar) non poterlo avere
giammai, come per più induzioni e rifeontri fi farà chiaro qui in
feguito. Della contrarietà impofTibile de’ coflumi .
(o)C.P/.».i. P ER meglio comprendere le cofe fuddette è daconfiderarH,
gli oggetti de’ quali fi tratta, e dai quali procedon le immaginazioni, le
opinioni, e i collumi umani (/*), non poter efferc che gli efjftenti, politivi,
e creati, e non mai i negativi, non efiftenti, e non creati, i quali non
vi fono, e non fon nulla . Polli poi alcuni oggetti pofitivi, i negativi
loro contrari non poter efl'er pofitivi giammai, e in confeguenza non poter
efl'er del tutto, e pertanto gli oggetti contrari efler del tutto
impoflibili . In efletto fe oggetti tali folfer poflìbili ed efiftenti,
rimarrebber dibrutti gli uni negli altri nella loro efillenza medefima, nè vi
avrebber più quelli nè quelli • e il fupremo artefice della natura farebbe
autor ai contrari, o farebbe un principio contradittorio e implicante lui
Ueflo, vale a dir nullo ; quando pur non piacefle ricorrere al ripiego di due
principi in natura contrari ed ambo efiftenti, per il’piegar appunto
codefta fuppofta contrarietà di oggetti pofitivi cercati ; ripiego
adottato in vero da alcune menti fupcrficiali, ma tanto pur
contradittorio e allurdo elio llelfo, quanto la fuppofizione medefima, a
fpiegar la quale fu vanamente chiamato in foccorfo . Il fuppor gli
oggetti pofitivi c creati contrari fraeflì procede da materialità di
mente, per cui fi crede contrario all’altro quel che fembra diftrugger
l’altro fol perchè il vince d’ efletto, e fi crede cosi uno di quelli
negativo dell’altro, quando fon tutt’ due pofitivi del pari, e quella
apparente dillruzione non procede da qualità contraria, ma da forza maggiore,
per cui uno fupera la forza dell’altro, e non la vince nella parte che
per prefervarla nell’ tutto . Cosi r acqua per efempio gettata fopra un
incendio, fi dirà fpegner il fuoco, non perchè ad elfo contraria, o il
negativo di quello, ma per impedir al fuoco di diftrugger il tutto. E
all’ iftelfo modo fi dirà, una fornace di fuoco aflorbire e vincere una pinta
d’ acqua fparfavi fopra, per l’ attività allora fupe- e A P. VII. riore
del fuoco nel confervare fe flelTo, e del par pofitiva a quella
dell’acqua, giacché nell’ uno e nell’ altro cafo ciafeun di quelli
elementi efercita tanto di fua polla full’ altro, quanta ne efercita
quello fu quello, accordandofi così entrambi anco a collo di loro
ellinzione particolare, per la confervazione loro e delle cofe comun politiva,
e non mai per la diflruzione loro e comune, eh’ è negativa, impolfibile,
e nulla. II. Se li domandi un contralTegno, per cui dillinguer gli
oggetti politivi e efillenti dai negativi e inelidenti, giacché dal volgo fi
confondon gli uni cogli altri, fari facile additarlo in ciò, d’eU'er
quelli fufeettibili di piò modificazioni o mifure, quando quedi il fon di
nellune, come il nulla ch’é appunto di nelTuna mifura e non efide . Cobi 1’
acqua e il fuoco fuddetri perché fufcettibili di piò modificazioni e
mifure, fi diran politivi ed elidenti del pari, avvegnaché creduti
negativi e contrari l’uno all’altro. E all’incontro il calore, la luce,
il moto, il pieno creduti contrari e negativi del freddo, delle tenebre,
della quiete, e del voto, faranno tali in effetto, per elfer quelli
di piò modi, quando quelli il fon di neffuno . Ma per quedo appunto
faran quelle qualità create pofitivc ed elìdenti, quando quede faranno
non create, negative, e inefidenti, o non elideranno che nella mancanza
di quelle. Con ciò fi dirà, il volgo ingannarfi nel primo cafo col
creder l’acqua contraria al loco, quando èfoltanto da quello diverfa, e non
ingannarfi nel credere quedi due elementi del pari efillenti ; e nel
fecondo fi dirà lui ingannarfi all’incontro nel creder quelle qualità
tutte efìdenti, non ingannandofi nel crederle contrarie, mentre per quedo
appunto eh’ efiflono il caldo, la luce, il moto, il pieno che fon di piò modi
; i contrari loro freddo, tenebre, quiete e voto che non fon di
nclTun modo di quelli, non potrebber fuffidere. E in vero col toglier del tutto
il calore, la luce. Il moto, 1’ eftcnfione, non è che fi generi cofa
alcuna pofitiva, come freddo, tenebre, quiete, voto, ma è foltanto
che annichilate quelle qualità nelle fofianze create, vi rimangon quelle
come nulla di quelle, giacché il negativo è nulla di quel che nega
fenzaeffer cola alcuna per sé pofitiva, e gli oggetti o follanze create di
calde, lucide, mobili, ed ellefe che fono in più modi, tolte quelle
qualità, rellan non calde, non lucide, non mobili, e non ellefe ad un
modo, vale a dire a nelTun di quei modi. III. Quel che s’ è
qui detto degli oggetti creati fifici, dee altresì applicarfi ai morali, oai
collumi uma(j) C.ILti.t. jjj come fi li avvedrà dall’appiicarlo alle
umane palTioni figlie delle imprelTioni di quegli oggetti, e madri di
quelli collumi . Imperciocché tali palTioni effendo fra sé diverfe, e
fullillendo come tali, non fono fra sé contrarie, e come tali non potrebber
fulfillere che con ripugnanza e contraddizione, eh’ è quanto a dire non
potrebber fulTillere in modo alcuno. In ell'etto l’amore, la compallione,
la giullizia, la libertà, e r altre virtù morali fon tutte palTioni pofitive,
create, ed efillenti ; e 1’ odio, l’ ingiullizia, 1’ oppreffione, la crudeltà
tenute volgarmente per palTioni viziofe a quelle contrarie, non elìllono
altrimenti come tali, ma fono all’incontro quelle prime palfioni medefime
che in luogo di adoprarfi in ufo comune e polfibile, per lo quale fono create,
fi adoprano in ufo particolare e negativo, per lo quale non fono create
e fono impolfibili. La contrarietà dunque delle palfioni non é tale
in sé llella, ma é apprefa per tale dalla dillruzione che fi feorge per
elTe nel particolare per p'fefervare il comune, come la contrarietà degli
elementi è apprefa dal vederli uno vincer l’altro nel particolare, quando
quella vincita é intefa a prelèrvar 1’ (6) cyjl.n.t^ univerfale (A) . Con
ciò fi dirà, che quel che fa le palfioni pofitive, fia lo llcnderfi
efiTe.da sé ad altri, con che la fpecie umana fi conferva coll* ordine
dina- CAP. VII. tura creato c che fuflìfte; e che quel che la fa negativa,
fia il concentrarfi effe in sè llcffe con danno d’ altri, contro quell’
ordine che non fuflìfte, e per lo quale il tutto fe fofle poflìbile
s’ annullerebbe e andrebbe in difperfione ; lo che però non avviene per
la provida natura, che converte quel difordine particolare in ordine
univerfale- Tal Tinterefle per le foftanze fparfo da sè ad altri, s’appella
equità, prudenza, gratitudine, e tali altre virtù confervatrici ; e
riftretto insè folo, degenera in avarizia, ingiuftizia, ingratitudine, per le
quali contro natura tutti languirebbero e perirebbero . L’ ambizione di onore,
di potenza, grandezza e fimili, difufa da sè ad altri, è virtù d’
ordine, e di concordia pofitiva; e confinata in sè folo, è vizio di fuperbia,
di oppreflìone, e di difpotifmo . L’ amor di fenfo fparfo da sè ad altri, è
amor pudico, amiftà, compaflìcne, per cui la fpecie fi propaga e
fuflìfte; e raccolto insè folo, è lafcivia, odio, crudeltà, per cui
refterebbe la fpecie fpenta e diftrutta. In fomma qualfivoglia paflìone,
eflèndo virtù confervatrice fra tutti difufa, lì cangia in vizio diftruttore di
tutti col contrarfi in sè folo ; e finché le foftanze, gli oi»ri, i piaceri
procurati per l’interefle, l’ambizione, famore, colfeller proprj fi dilatano ad
altri, quelle paflìoni fono virtù, non illando la reità di elle nel
procurare il bene per sè, ma nel toglierlo ad altri, o ne! procurare il
proprio utile e piacere con altrui feiagura, onta, od inganno . Perchè
poi tutti certamente fuflìftono, e finché ciò avviene non è da dire
che tutti non fufliftano, fi diranno le paflìoni effer fempre virtù pofitive e
come tali fulfiftcrc, e come vizj a quelle contrari o negativi di quelle, non
fuffilter efle giammai ( « ), eflèndo tanto contraditto- (j) C.VlI.ti.\.
rio che fulTiftano inficine vizj e virtù fra sè contrari, quanto che gli uomini
tutti fufliftano e non fuffillano . Non dubito, che quello dichiarare cosi
ampiamente, che le paflìoni non fufliilano come vizj, non abbia a parer
Urano e (ingoiare a quei poveri di fpirito, a’ quali fembra molto bene veder i
vizj trionfare in alcuni. Lo sbaglio però di cortoro Ha, nel
confonder che fanno il particolare col comune degli uomini, e nello
(lar colla mente pur fitti in quello, come chiufi con quello in un facco,
quando la natura e il grande fuo aurore non opera che per lo comune, e
ogni particolare alforto e immerfo ncH’univerfale fi perde del tutto e
s’annulla. D’altronde fe il vizio è contrario alla (j) C. in, virtù ei
contrari non fon pclHbili (//), poiché la vir3 - certamente fudllte, il vizio
dunque non può dirli che ludiila che per equivoco. E quell’equivoco
fi dirà proceder da vuote immagini, per le quali fi prendono a
torto per politivi, oggetti che non fono che i negativi di quelli; e quindi fi
apprendono gli uni e gli altri per eiillenti, quando per verità i negativi
perquefio appunto che fiifiiilono i pofitivi, non potrebber lulli(lere
c(Ii (ledi . Cosi quantunque gli oggetti detti volgarmente contrari, li
prendano a vicenda per, pofitivi e p.r negativi gli uni degli altri, è
certo nondimeno i pofitivi (oli eilere efillenti creali, ei negativi
noncnérche il nulla di quelli, o il nulla alfoluto, il qu^l non fuffille,
o (udìile folo nella negazione del pofitivo . Per la qual cola il
contrario dell’ amore, della compadione, della equità, della libertà come
(opra, non è 1’ odio, la crudeltà, la iniquità eia opprefTione come
volgarmente è creduto, ma è il non amore, la non equità, non comp.idione,
non libertà che non fudìllono, come il contrario del fuoco c dell’acqua non è
1’ acqua o il fuoco, ma il non fuoco, e la non acqua che pur non vi
fono. V. Quelle coiifiderazioiii fulle padroni umane, che
elTendo virtù diverle non fon mai vizj contrarj a quelle virtù, fan conofeere,
che i codumi altresì che ne procedono, pollono bensì clfer diverlì, ma
non mai contrarj, e che fe perquefli tufcono difordini, ciònon'
avviene che per quel bene, che dovendo procurarli per sè e per tutti
com’è polfibile, fi vorrebbe procurato per se a efclufione degli altri,
quafi ^ruggendo in tutti quel che vuolfi per sè parte di quelli tutti,
ciò che non può avvenire, e che in fatti non avviene, giacché ogni
bene procurato per sè con danno di altri, lì diUrugge alla fine in sè ancora
per la oppofizione e il contralto di tutti gli altri . Procurandofi il
bene al primo modo, le difcordie faranno imponìbili, e ciafcun di tempera
diverfa e non mai contraria a quella dell’ altro, s’ unirà ad elio per
coitumi diverfi e non pur contrari, il collerico col tranquillo, il
timido coll’ ardito, il fcmplice coll’accorto, e limili altri, come l*
acqua col fuoco, e la terra coll’aria nella compoGzione de’ corpi fifica . Ma
procurandofi quel bene al fecondo modo o con altrui oltraggio, le difcordie
faranno inevitabili per rimpollìbiltà di unire i contrari, ^ poterfi
bensì unir l’ardito e il timido, ma non 1’ ardito e il non ardito, e il timido
e non timido, come può unirfi acqua e fuoco ne’ corpi, ma non acqua
e non acqua, e fuoco e non fuoco, quafi fi voIelTe fulllfter da un lato
quel che fi volefre difirutto dall’altro, o quel che non potefle
fullìftere fenza la diliruzione di quello che pur fullifte . Egli è ben
vero, che ficcome un elemento nel fìfico non illrugge mai 1’ altro,
per quanto contrafiino nel particolare, attefe le leggi di moto
invariabili ed eterne ; cosi nel morale una paffione, e un cofiume che ne
deriva, non dillrugge mai l’altra nel generale, per quanto pur nel
particolare s’ apprenda per a quello contraria, per elTer tutti pofitivi
e conformi a una comune ragione, non mai a sè lleffa contraria. Ciò che
conferma quel che s’è detto (/r), le opinioni e i cofiumi umani eficr
diverfi, e combinarfi diverfamente, mediante una ftefia verità comune,
della quale fiano modificazioni diverfe e non mai contrarie, come gli oggetti
fon diverfi e fi combinano ineme nell’ opere di natura inedianti le fleflè
leggi di moto, delle cjuali (ianpur modificazioni nsion trui contrarie c
tempre diverfe . Airoppotlo non pt)ter quelli nè queffi etler contrarj,
nè combinarli in contrario j er errore comune, o per contralleggi di moto
impoflibili e nulle, per le quali foltanto potrebbero clfer tali, e
per r implicanza di ruflilter la t'pccie umana per coiiumi, e la natura
umverl'ale per leggi di moto, infierne col principio che dovefle dillruggerle,
o per cui dovelfero eller nulle . E conferma ciò ancora quel che è
aggiunto (/»), di elFer bensì poflTibile per attenzione particolare d’ alcuni
nelle nazioni, il riconofccrvi ogni male e 1’ deluderlo da elle, per
elfcr quello negativo e d’ un Col modo . Ma non elTer cosi poflìbile per
l’attenzione meddima, o introdurvi o crearvi ogni bene, per la ragione
contraria di dfer quello pofitivo, e di modi infiniti, onde l'uperare elio ogni
particolare attenzione . CAP. Vili. /^Uel che s’è detto finora dà
facilmente ad intenCollucni ere- Vedere, che non è già la diverlità, ma la
contraduci comrar) j-jetà e ripugnanza de’ coflumi quella, per cui
non 1 . noco- degenerino quelli in errori, e per cui nal'can fra
gli uomini Iconcerti e difordini, e ciò per la contrarietà
fimilmente e non divcriità di oggetti e di combinawC.VI.n.i. zioni loro, ful’e
quali verlin le umane menti (i), e dalle quali quei collumi derivano.
Quelle combinazioni d’oggetti diendo innumerabili, ed elléndo gli uomini
nelle diverte iorcircollanze avvezzi quali all’une, quali all’al(OC. F/.
n.i. tre Ipecie di elle (r), faran dii cosi di divcrli collumi, allor
conformi alla verità, quando gli oggetti combinaci fian reali, pofitivi
edefillenti; e allor contormi all’ errore, quando tali oggetti fian
negativi, imponibili, innefiflenti c nulli . Imperciocché lebbene gli oggetti
fian d’innunurabili modi, e il nulla d’ un folo (d), ciò nondimeno
ficcome la verità eh’ è una, è di tanti modi, di quanti puòcfTa atlermarlì
nelle cok divcriè; cosi l’errore altresì eflTendo uno, s’apprende
pur di tanti caP- Vili! modi, di quanti quella verità può negarfi,
inguilà che tanti fiano i modi politivi di fullìlìere per la verità,
quanti s’ apprendono i negativi di non rulTifìere per 1’ errore,
fuililìendo ogni cofa a un modo, e non lulli» ftendo la Aia contraria al
modo a quello contrario, e corrifpondendo verbigrazia 1’ ardito, il
timido, il collerico, pofitivi tutti creali, ad altrettanti negativi
loro non ardito, non timido, non collerico, con cller ciò non oAante
quelli tutti di più mudi, e queAi d’ un modo folo o di nelTuno, come il
nulla eh’ è di neffun modo . E^li è poi da confiderare, eh’ effondo la
verità e la eiiAenza tuttociò ch’efiAe, ed eflendo 1’ errore o il nulla
tuttociò che non efilìe, e non efilten* do cola alcuna che per la
combinazione di oggetti di> verli, e non mai contrari (a) ; parrebbe
che il tutto (a) C.Vir.n.t. dovclie l'ulfiAerc per la verità, e nulla per
l’errore, e che ficcome nella efilìeriza degli oggetti, così nelle combinazioni
loro e nelle inclinazioni e coftumi che ne derivano, non dovelfe avervi che
verità, efclufo fempre l’errore, cofa non generalmente creduta dal volgo,
il quale all’incontro non parla che di errori, e di contrarietà nelle
inclinazioni e ne’coAumi fra gli uomini. Chi però meglio rifletta,
conolcerà, quello elTcr verifftmo, ed elfer l’errore cosi lontano dai coAumi
umani, come dall’ opere di natura, che non ammette contrari, e non erra giammai
. Che fe v’ à chi crede diverfamente, ciò deriva da equivoco di prendere il particolare
per lo comune, come s’è accennato (/>), eco- (^)C.W. «.4, me più
efprelTamente fi dichiarerà ora, per ifpiegar meglio coi fatti quelle verità,
che fon lempre alcofe al volgo, e che bene fpedo fi nafeondono ai
filofufi ancora, che nel fìlofofare non fanno Aaccarfi dalle volgari maniere di
penfare, reAand > coi,i nella loro filolofofìa più all’nfcuro del volgo
medeltmo. II. Si dice dunque che lo sbaglio di prendere il negativo
per pofitivo, o l’ errore per la verità, nafee da» £ z
equi- è* XXXVI >5 AGP. V'iii, equivoco di prendere il particolare
per univerfafe, c di credere che ciò che può efler in quello con ripugnanza
e dilordine, poflTa pur avervi in quello con ordine ed armonia. E invero
l’errore col nome fuofteffo, non porta alla mente che un’ immagine di mancanza
e di nullità, e il crederlo nei collumi comune quando non è che
particolare, procede da errore appunto o da mancanza di difeernimento, per cui
occupata la mente da vani timori, dà corpo all’ ombre ed al nulla. Del
rimanente s’ ei fembra nafeere e avvalorarfi :n alcuni, non fi vede mai (lefo a
tutti, e in quegli alcuni medefimi non lì vede che vinto, e dillrutto
dalla verità a tutti comune . Il fullìller poi vinto e didrutto non è
fullìller in modo alcuno, in guifache chi fi lagna dell’error ne’coflumi,
fi lagni di elTo che volendo pur con vane lulìnghe e con faifeapparenze
inlìnuarfi e fuHìllere nel particolare, non tenta mai altrettanto
neU’univerfale, e in quel particolare medelìmo è didrutto da quedo univerfalc,
che il difapprova e il dichiara pur nullo . Per quedo il comune degli
uomini fi vede Tempre correggere il particolare, e non mai all’oppodo; di che
prova evidente fono i governi de’ popoli, fra i quali tolti i più
colti e fenfati, non v’à dubbio che non confidano quedi in ciò, che
per ellì colla verità e la ragione comune di tutti fi didruggan gli
errori, o le ragioni particolari di alcuni a quella contrarie . Che le il
governo delTo reggede i popoli per la ragione fua particolare alla
comune contraria, o per 1’ errore contrario alla verità, come nelle
nazioni barbare o fconcertate ; allora non elTendo quedo certamente poflibile,
quell’ ederno governo fi vedrebbe cangiato in fimulazione, o in nullità
elTo dedb, redando nondimeno la ragione e la verità comune interna a
governar la nazione realmente, Tempre per 1’ errore particolare da elTa
vinto e didrutto in ognuno, e nel governo medefimo ; verilicandofi così Tempre,
che la verità c la ragion comune fia cofa reale,
pofitiva’i^A~prv'ìTr. ed efiftente, e che 1’ errore fia cola negativa, innefìilente
e nulla, comechè i'empre dilirutta da quella verità medelima. t
III. Chi dunque precorre provincie e climi diverlì, e incontra
opinioni e collumi, per li quali fi fulTide in un luogo, alieni da
quelli, per li quali fi fulTilte in un altro; creda pure tali coliumi
quanto fivogliandiverfi, ma non li giudichi giammai contrarj, per eller
ein modificazioni diverfe d’ una verità a tutti corna* ne, che non è mai
a sè fleffa contraria. £ fe apparifcon contrari, li creda tali per fola appunto
apparenza, attefo ungoverno pur apparente, fimulato c nullo, (a)
giacché l’apparenza e la fimuiazione è nulladiquel^^jjc.p;;/.,,.-. che è
in fatto . Del rimanente che fin a tanto che tutti nelle nazioni
fufTiliono, i coliumi comuni benché diverfi, non fian mai contrarj a una verità
comune, fi manifclia da quelio, che 1’ errore contrario a quella
verità fi troverà periéguitato e punito, vale a dir diiirutto da per tutto del
pari, e ciò fempre nel particoJare e non mai nel comune ; altrimenti
converrebbe dire, che laddove gli uomini fulTiliono a un tempo e in
un luogo per la verità, fuUìlielIero all’ altro per 1’ errore e per la
menzogna contraria e diliruttiva di quella verità, cofa affatto affurda e
impolTibile . All’ ilielTo modo i difordini ne’ fenomeni ffici
debbono ìmputarfi a irregolarità, particolari ne’ moti conformi
alle leggi collanti e generali, per le quali il tutto fuffifte, vinte però
quelle irregolarità e fuperate fempre da quelle leggi, lenza di che il
tutto perirebbe, effendo cosi il difordine, la dillruzione e l’errore fempre
particolare, e 1’ ordine, la confervazione e la verità fempre comune, fia nel
fifico. Ila nel morale, e quell’ errore fempre vinto e diflrutto da
quella verità . IV. Qui può oflcrvarfi, come quell’ effer l’ errore
fempre particolare in ogni nazione e non mai comune, e quell’, e
queft'annullarfi per quello, quanto per fa verità comune in e(Ta ruflìRe, dà a
conofcere, che le fedizioni, i tumulti, le dilcordie, le guerre fono nelle nazioni
Tempre errori particolari, e non mai verità comuni, come quelle che in effe
diliruggono ciò che pur Tuffìfte in modi diverfi, ma non mai contrari
. Che fimili diTafiri intcreffìno le nazioni intiere, cuna’ è la
Trafc d’efprimerfi de’ Gazzettieri, non è che uno sbaglio, per cui come
fopra (a) fi prende 1’ ambizione e Terrore particolare d’ alcuni, come Te TolTe
comune di tutti, i quali all’incontro non pnfl’on fufiìfiere e non fufiìfiono,
che per la comun verità e dilàmbizione . E fi ila pur certi, che ogni nazione
adonta di qualfivoglia an bizione o interclle particolare che muova
in tifa difeordia, prefa in comune non amerà che la concordia e la pace.
Quell’ ambizione poi e quell’ intcreflfe fi manifefiano particolari dal
fatto, per iadifiruzione che del pari ne fegue delle parti ambiziofe e
interefiate, fufiìliendn le nazioni nell’ intiero per la concordia, al
tempo fieiìo che per la difeordia fi difiruggnno nelle parti . Che fe quella
difeordia parefie comune, non farebbe di nazione che fufiìfielle, ma farebbe
dell' ultimo particolare fuo avanzo, che facrificaiTe fe (lelTo al riforgimento
di altra nazione, che fulle reliquie della già diilrutta a parte a parte
per errori particolari, fi nnovafle intieramente per la verità a tutti
comune, eh' è il calò di tutte le rivoluzioni negl’ irnperj . Ma tolte alfine
tutte le nazioni progrefiive e contemporanee, e tutti gli uomini in
genere, fempre fia che ogni difeordia, guerra o tumulto fra effi abbia a
terminar in concordia, pace e amillà per la verità comune che difirugga
1’ errore particolare, quando pur fi voglia prefervar la fpecie umana, ficcome
ogni pelhienza o procella dee terminar in aere falubre e tranquillo, quando pur
fi voglia prelervar la natura, e non mandar tutto il fifico e il
murale in nonnulla. S’aggiunge, che la detta prevalenza della ragione c A
P. Vili, o verità comune full’ errore particolare a quella contrario, fi
manifeda non folo negli uomini conolciuti per giudi, ma in quelli ancora
che fi reputano, e cliepià fembran malvagi, e ciò per lo timore che
accompagna infeparabilmente quedi fecondi . imperciocché un fimil timore
fe ben fi confideri, non è che una pofitiva virtù eh’ edinta ogni altra, reda
in cialcuno a moderare e rafirenar i luoi eccedi negativi medefimi.
Laonde edèndo qualfivoglia malvagio Tempre più timido che malvagio, non
efclufi i tiranni medefimi ; farà Tempre ogni uomo più virtuoTo che reo
nella deTfa Tua reità, e farà Tempre vero, che 1’ error negativo rimanga
annichilato e didrutto da virtù politiva a 'quello fuperiore in quegli
deffi, che più Tembran menarlo in trionfo. In queda guiTa il timor pofìtivo
e virtuoTo, con frenar l’ambizione e rintercH'e dall’ offènder altri,
impedifee che quede padìoni, di pofitive e virtuoTe che pur fono in
propria e comun fuffidenza, diventino negative e viziofe in didruzione
altrui e propria (<i), e tien luogo di virtù nello dedb malvagio,
ia)C.VlI.n.^. come un elemento altresì nel fìfico contradando coli’ altro
per la confcrvazion pofitiva del tutto, impedifee la didruzion generai di
natura, che tolto un (imii contrado ne leguirebbe, fcnzachè negativo alcuno
lùlTida, Tempre per 1’ aperta implicanza di fudidere cola alcuna
negativamente ( ) . Una fimil providenza nel WC.W/.«.i. morale (i
manifeda non folo ne’ rei fuperbi come fopra, ma ne’ giudi ancora da quelli
oppredì, i quali fon così virtuoli nella loro tranquillità e nella loro
fidanza, come il fon quelli nella loro agitazione e nel loro timore; ed è
certo, ogni oppredb innocente eder così contento per la verità comune che
lo allolve fugli occhi dell’univerfo, come il fuo oppredbre è feontento per 1
error fuo particolare, che combattendolo con quel timore, lo cruccia
nella Tua ignoranza fe non à talento, efe à talento, illude nel fuo
rimorfo. Refta dunque Tempre più flabilito, non avervi di contrario in
natura che la verità e 1’ errore, ed elfer quella una modificazione di
tuttociò eh’ eflde, e quello una modificazione di tuttociò che non
efifle («)C.F///.n. 3 .(u). Il confidcrar ciò cIT efìfle come
contrario a ciò che pur efille, è un afTurdità ; e fe gli uomini apprendono
per contrarie quelle cofe che non fon che diverfe, ciò è Tempre per
errore particolare, che non paflà ad cfTer verità comune (i). Il
contrafTegno poi, per cui avvederli Te gli oggetti fian diverTi o
contrar) farà quello, di eflTer effi o non efTer efiflenti, mercecchè Te
eTiftono Ton certamente diverfi, e Ton contrarj Te non eTillono . Ma per
ben giudicare di quella efillenza o non eTiflenza loro, debbon elR riTerirfì
non al Tolo particolare, ma al comune di tutti . Il dolore per
eTempin e il piacere, poiché ambo Tuffiflono, Ton certamente TenTazioni
diverTe, ed elTendo diverTe non Tono contrarie . RiTerite però al
particolare s’ apprendono per contrarie, ciò che non rieTce Te Ti riTeriTcano
al comune . Di ciò è prova evidente ognuno che Tofl'ra il dolor con
piacere, Tol che il riTeriTca non a sé Tolo, ma al comune degli altri ;
come Muzio contento del pari e d’arder il Tuo braccio nel Campo di
PorTena, e di llrignerTi con quei braccio al Ten la Tua Clelia, per
addurre un Tolo degl’ innumerabili eTempj di eroi TacrihcatiTi con dolore
al piacere di giovar alla religione, alla patria, alla verità
inTomma comune, ciò che non avverrebbe Te tali TenTazioni ToTfer
contrarie. Quella comun verità non è in Tollanza (0 C.r/J.a.j. che
la virtù (c), la qual contrallata dai vizj particolari e non mai comuni, può
dirTi travagliata, ma non per efiì opprelTa. Laonde elTa fola può dirli
comune, come quella eh’ è approvata da tutti, quando il vizio non
può appellarTi che particolare, come quello eh’ è dctelfato da ognuno, e
dilàpprovato da quei medeTimi che lo proTelTano, indizio evidente di
eller quella poTitiva ed efìllente, e di efier quello negativo e nullo.
Cer Digitized by Google ^ XLI Certo è die
(iccome futTifle quel eh’ è voluto ed è approvato da tutti, come la virtù ;
cosi quel che non è voluto e non è approvato da alcuno, come il vizio,
non può dirfi fuffìlìere . E lo sbaglio di conlìderar quello come efiftente Ila
in ciò, di confiderar per efiftente quel eh’ è voluto da alcuni coi contrailo
di tutti, quando non può confiderarfi per tale, che quel che voluto da
tutti, non è contraHato da alcuno. Io non fo, fé tali dottrine convengano
con quelle che lì dicono degli antichi iloici, accademici,
platonici, o altri, interpretate dagli eruditi, e eh’ io non ò mai avuto
la flemma d’ interpretare . So che le ò apprefe dai lume naturale, dal
quale poteano apprenderle quelli, e può apprenderle ogni altro che fia
i'eguace della verità comune, non alterata da errore o da educazione
corrotta particolare, e fappia che un uomo non è tutti gli uomini, nè
tutto il creato, ma uno folo di quelli, e un’opera fola di quello. Se
poi le mie dottrine non convengono con quelle che corrono al prefente
anco fra i più fludiofi, ciò è per errore appunto particolare di quelli, che
fedoni maffìme a quelli tempi da dottrine fuperhciali di Comici che
fi fpacciano per fìlofofi, vorrebbero pur perfuadere il tutto effer
peggio, contro il fatto evidente, per cui la natura e l’uomo, col
conferv'arfi e fufliflere, dimoflrano il tutto efler meglio . La dottrina fra
le altre della nullità dei contrae) (a) non dee dirfi nuova, dacché
fi troverà ella convenire coll’ altra non nuova del tempo e dello fpazio,
che efiendo quello la durata fola, e quello la fola diflanza degli oggetti e
delle foflanze create, non fuflìflono così che negativamente, e fulTiflendo in
tal modo, pofitivamente fon nulla. Tolte quelle foilanze pofitive e
create, il tempo e lo fpazio reflan come nulla di quelle, o come nulla
adoluto, non pntendofi inver concepire come polfan pofitivamente
fufliflere o tempo, o fpazio, o diflanza di cole, che non fufliflauo
elleno flefle . F Pro CAP. Vili.
(ii)c.n/.».i. "S-: xLii CAP. IX. "pRocedendo le
inclinazioni e i coftmni dagli oggetDella (labilità ti creati ertemi, e dalle
combinazioni loro nelle e inabilità de' umane menti, è certo eh’ ellendo
tali oggetti invariaro(lumi. bili per le rtelfe invariabili leggi motrici,
dalle quali (fl)C. //.w. I. derivano {a), faranno altresì quelle
inclinazioni e coftumi invariabili e cortanti, per la rtdià inalterabile
verità e ragione comune, per cui naCcono, fi confer* {b)C.VI.n.i. vano, e
fi rinnovano { b ) . Per la qual cofa ficcome quegli oggetti fi vedon
perfeverare gli rterti in ogni fpecie, e ogni pianta e animale fi rinuova
in pianta e animale confimile, (enza degenerar mai in altra di
natura diverfa; all' ilierto modo l’ambizione, l’interertè, l’amore, il
timore’, e limili altre partìoni, dalle quali rifultano i cortumi, fon
collanti in natura, nè tralignan mai in partìoni diverte nel propagarfi dagli
uni agli altri, e il fimile avvien dei cortumi (f)C. 7/.B.4. (c). Quanto
però cederti cortumi per quelli motivi tono rtabili e fermi nella loro
natura, tanto nelle modificazioni loro fon variabili e incollanti, come appunto
gli oggetti dai quali derivano, o le modificazioni delle rtellè leggi di
moto, dalle quali quelli oggetti procedono. Ertèndo poi le modificazioni dall’
una e dall’altra parte infinite, ed ertendo quelle di ciafeun tempo e
di ciafeun luogo finite ; i cortumi di ciafeun tempo e luogo,
fempre gli rtelll per la rterta verità comune, faran per le modificazioni
di quella verità fempre diverfi da quelli di un altro, come gli uomini finiti
d’ un luogo e d’un tempo, fimili fra loro per la rtabile loro
natura, variano nondimeno infenfibilmente in infinito di fembianze, d’afpetto,
di maniere da quelli d’un altro per le modificazioni diverfe di quella natura
rterta . Con ciò rinovandofi gli oggetti e le loro combinazioni in altre
pur fempre diverlè, anco per tempi e luoghi infiniti ; i collumi, le
opinioni, i gen), e le inclinazioni umane di ciafeun luogo e tempo vi
dovranno variare in infinito, come modifica Digìtized by Google
XLIII zioni fempre finite tolte dall’infinità di tutt’ effe
(<j); cAP. IX. fcnza di che dovrebbe dirfi, che degl’ infiniti oggetti
i. creati, o dei coflumi che ne derivano, doveffer gli uni a
un tempo efier gli ftellì che gli altri ad un altro, ciocché ripugna
colla fapienza e perfezione infinita del fupremo autore della natura
nelle fue opere (b). {b)C.lI.n.ì. 11. Perchè poi tutti gli
ilabilimenti umani in riguardo alla fucieià, e gf Imper) lieffi dipendono dalle
opinioni e coliumi in effi comuni ; per effer quelli nelle loro
modificazioni ederne cosi variabili, non potran tali focietà o Imper) avere
labilità alcuna dipendente da quelle, ma dovranno infenfibilmente variar
di maniere, cola comprovata molto bene dal fatto, per cui fcorrendo con
occhio fugace per tutta quanta la ferie de’ tempi e de’ luoghi da Noemo a
noi, non ci fi rapprefenta alla mente, che una perpetua rivoluzione di
Stati e d’ Imper) . Infatti effendo le opinioni e i collumi in ogni
impero attualmente finiti, ed effendo quelli di maniere infinite pollibili,
debbono dunque col variar de’ tempi e de’ luoghi finiti variare infenfibilmente
di maniere attuali e finite (c), e con ciò {c)C.VI.n.i. variar quegP
Imper), la cui divifione cosi, ellenfione e forma effendo fempre tanto
(labile e ferma, quanto la verità e la ragione a tutti comune ; farà
eziandio tanto cangiabile, quanto le modificazioni dìverle e infinite di
quella verità, o quanto la divifione, ellenfione e forma delle opinioni e
collumi in ciafcun impero particolari, e comuni. Vero è, che fimili rivoluzioni
negl’ Imper) o ne’ governi de’ popoli non fempre fon fubitanee e
impetuofe, anzi il più delle volte feguon per gradi infenfibili ; ma fono in
ogni cafo le lleffe, o producono i medefimi effetti, e la
differenza ne dipende folo dalla verità o ragione comune che Ila
piò o men riguardata dai particolari, e per la qual, folamente poffon le
nazioni fulfillere (d). Perciocché fe quella verità farà dalla nazione
fparita, l’errore ol’ ambizione particolare che d’ effa avanza, dovrà dì
flrug F a gerla,,. IiT~gerIa, o diftrugger fe ftcflb colle difcordie e le
guerre, per dar luogo a quella verità di ricorrere a rino(«)C.f7//.».4. var
quella nazione fott’ altro afpetto (//), e talvolta fott’ altro nome, nel
qual cafo fi diranno feguir le rivoluzioni con più di violenza e di fdegno . Ma
fé quella comun verità fi foderrà nelle nazioni a fronte di quìifìvoglia
errore particolare, le rivoluzioni allora vi feguiranno a (Irida quiete, fenza
violenza e per gradi infenfibili, trovandoli nondimeno ia nazione col corfo
di lunghi l'ecoli del pari cangiata da quella di prima per varietà di opinioni
e coliunii, non però mai fra loro contrarj. Del primo cafo è elempio
qualfivoglia Impero d’ Afta o di Grecia più rinomato, e in particolare
l’antica Roma, volta di Regno in Repubblica a’ tempi di Giunio, e indi di
Repubblica in Impero a’ tempi di Giulio, per ia verità comune a quei
tempi in e(Ta fmarrita, e per l’errore o per 1’ ambi(ó)C.r///.a,9. 2 Ìone
particolare non da timore frenata { b ) redatavi fola, per cui non era
poflibile che quel go%^erno, (la in forma di regno o di repubblica più
fuUìdefle • E del fecondo polFon eller efempio quegli Stati
prefenti Europei più moderati, che contano più migliaja di fecoli per
fuccedioni di Sovrani, ma che per opinioni e codumi non fon certamente
quali erano alla loro origine y e ciò per la delTa verità o ragione
comune non mai da e(Ti partita, quantunque diverfifìcata in
modificazioni diverfe, che (on appunto quelle divcrfe opinioni e
codumi. III. Tuttociò fa conofcere, come quel che cangia gl’
Imperi è in ogni evento la ragione comune di tutti, per la quale pur fi
confervano, e la qual ricorre fempre a occupar il luogo dell’ errore
particolare, per cui fe folTe pofTibile rederebber le nazioni tutte
didrutte, fenza che l’attività particolare di Giunio, di Giulio, o d’altri
v’abbia più parte di quella di qualfi voglia altro che podìeda una fimil
ragione, e che coll’ unirla alla ragione di quelli la renda comune .
Del rimanente che le nazioni prefenti d’ Europa non fian c A P. IX.
quali erano da principio, e fi fìan rinovate in altre, non ferbando di fe
(ielFe che i nudi nomi, fi compro* va da quello, che tolta qualfivoglia
diede, potrà quella ben appellarfi collo (Iciro nome di due i'ecoli innanzi,
come per la lleda verità comune fudlilere, ma non perciò fi troverà la
llefla per forma d’ inclinazio' ni e coftumi comuni che la collituifcano, o per
modificazioni di quella verità medefima. Anzi fi troverà da quella tanto
diverta per quello capo, quanto dall’ altre nazioni fue contemporanee, e lo
fieiro avverrà retrocedendo di due in due fecoli più o meno, per quanto
le memorie ne fiano a noi tramandate. Cosi i Francefi prefenti
diflèrifcono forte più per maniere e cotlumi dai pur cosi detti Francefi
di due fecoli innanzi, di quel che differifcano dai prefenti Italiani dillinti
da etti di nome . £ gl’ Inglelì che ora fon d’opinione di difertar per
l’America, avran forfè più di conformità coi prefenti Francefi loro emoli, di
quel che pretendano aver per cotlumi cogl’ Inglelì loro antenati, eh’
erano d’opinione dv difertar per Soria, e così di più altri . E’ poi
chiaro, una fimile rivoluzione di opinioni e cotlumi nelle nazioni dover efier
tale, da non ricorrere o rinovarfi mai in netfune allo lleflo, fempre per
la detta ragione delle combinazioni di oggetti, e delle modificazioni che
ne derivano ne’ cotlumi, che tolte dall’ infinito a numero finito, fon
fempre diverfe fune dall’ altre per quante pur volte fi prendano (rt) . E
ciò non per dil^fizione umana particolare, ma per fitlema imperferutabile
di natura . 11 comprender quello fitlema, vale a dir 1’ ordine, la ferie,
i rapporti di tali combinazioni di oggetti, e di tali modificazioni di
cotlumi, o perchè e come a certune abbiano a fucceder cert’ altre, in
luogo di tutt’ altre qualunque, è rìferbato alla mente dell’ autore
del tutto, nè potrà ciò mai penetrarfi da mente creata, finché fi trovi
nel pafieggiero fuo flato, avviota c ridretu dalle ritorte e dagl’ inganni de’
fcnli WC.///.».i. (tf). IV. Qui cade a propofito
d’avvertire l’errore di quelli, che lì figurano di richiamar nelle nazioni la
verità e la ragione comune per quanto vi fi folTe l'marrita, col
rinovar quelle leggi che ne preferivevano le modificazioni a’ tempi decloro
bifavoli, progetto del tutto affurdo e impofTibile . La verità e la ragione
comune potrà ben richiamarfi per leggi, per quanto a’ tempi
trafandati folle Itaca più riconofeiuta per fé ItelTa in quei coltumi, di
quel che il fia a’ tempi prefenti per coltumi che la modificairero in
contrario di sè medelìma, giacché elTa in sè llelTa è una fola di tutti i
luoghi e di tutti {b)C;lX.n.i. I tempi (i). Ma il richiamarla al prefente
per le fue modificazioni antiche, quando tali modificazioni debbon ad
ogni tempo elTer diverfe, non può elTere che una miferia di mente, per
cui lì creda la natura non più capace d’invenzioni in fua condotta, di
quel che fiafi un povero Conllgliere fecreto che creda operar in
fua Wce. Chi declama contro i nuovi coltumi che fi vanno introducendo, e
deplora gli ufati che fi van diftifando; à molto ragione fe i nuovi coltumi fon
modificazioni dì una ragion men comune, di quel che il fiano gli ufati
che a quelli dan luogo . Ma fe i nuovi coltumi fon tanto buone modificazioni
della comun ragione, quanto gli ufati che fi perdono ; ei declama
inutilmente, come fe ciò foffe contro il variar de’ venti, elTendo 1’ una e
l’altra cofa quanto innocente, tanto, inevitabile e neceflaria, e potendo, anzi
dovendo quella comun ragione per difpofizion di natura, e per
fapienza illimitata del fupremo fuo artefice, praticar(.c)C. II. n. I. fi
fempre per modificazioni diverfe (c), e comparire in fembianze che non
fiano giammai le flelle, elTendo nondimeno la. ItefTa per sé medefima .
Senza quelto una fimile verità o ragione, correrebbe rifehio di non
efercitarfi che per inganno ; ed è ancor vero, che talvolta con richiamare la
verità, la ragione, il valore e la religione fteflfa per le fole
loro modificazioni eflcr- c A P. Ìx7 ne di tempi molto remoti, f» rielce
a perdere tutto il fenfo reale ed interno di quelle virtù, invariabili
per sè flede, riducendole a quelle materiali loro modificazioni eflerne,
fenza alcun rapponto a quell’ interno lor fenfo e fignificato.
V. Ma intanto è qui da avvertire, che quel che s’è detto finora in
ordine all’ illabilità de’coflumi, non fa torto ad alcuno, e non è detto
per accufar gli uomini di leggerezza o d’incoflanza, ma per anzi giuflificarli
d’ ella, e per renderne ragione, come di cofa inevitabile e neceffaria,
la qual non riguarda in eflì coflumi che le modificazioni eflerne d’una
ragione comune interna, che debbon cangiare, come le modificazioni eflerne
degli oggetti fenfibìli, dalle quali quelle tengono dipendenza (a) . Dail’altro
canto ficcome (a)C. IX.n.i. quelli oggetti cangiando modificazioni fon
purglifleffi in tutti i luoghi e a tutti i tempi, per le fleffe leggi di
moto che li producono ; il medefimo avviene de’coflumi, ed è fempre una
flefla invariabil ragione e verità comune, che per varie vie li guida e
governa . Per quello s’ è veduto, quella ragione comune effer la fola,
per cui gli uomini lufTiflano infìeme, come per quella che può ben effer
diverfa nelle diverfefue modificazioni, ma non può mai a sè flcffa effer
contraria, nel qual cafo foltanto la comun fuffiflenza farebbe
impoffibile ; ond’ è che non è effa contraria che per difetto o ragione
particolare di alcuni, e non mai di tutti. Ciò fa che i governi o gl’
Imperi fian fempre confimili, per quella fleffa ragione comune per cui
fullìflono (ì), avvegnaché diverfi per le modificazioni diverfe di quella
ragione medefima, non oflante qualfivoglia irregolarità particolare,
come gli oggetti fenlibili eflemi fon fempre confimili nelle loro
fpecie, perchè fempre in conformità alle flefle leggi motrici, benché ne
fìano diverfe le modificazioni, e non oflanti alcune irregolarità in eflì
fifiche . £ potranno quelli e quelli fuffiflere a ragione benché dive rfa,
giacché i mollri nel filico e le calamità nel morale lòn cafi infoliti e
particolari, e il confueto e comune non è calamità e difordine, ma é ordine ed
armonia . In effetto la ragion comune, dalla quale deriva il difintereffe, la
dUambizione ed ogni altra virtù, per la quale fuflillon gl’ Imperj, é
invariabile, ed è di tutti i luoghi e di tutti i tempi, e ne fon le modificazioni
infinite. E iflelfamente la ragion particolare, dalla quale procedono 1’
intereffe, l’ambizione, e gli altri vizj per li quali col diflruggerfi fi
rinuovan gl’ Imper), è pur la lidia, in quanto é Tempre contraria alla
comune, con modificazioni altresì infinite a quelle contrarie . Ma è poi
imponibile che quella ragione particolare viziofa diventi comune, com’
è imponibile che i turbini e i terremoti fiano incdlanti e collanti («),
mercecché in quello cafo rimarrebbe la natura non variata, ma dillrutta,
come in quello rimarrebber non rinovati, ma dillruttì gl’Imp.rj.
VI. Nel rimanente le diverfe circollanze comuni e particolari,
nelle quali fi trovino le nazioni per le divcrlé modificazioni d’ una lldfa
ragion pur comune o particolare, fon quelle che giullificano o non
giuflifino le opinioni e i collumi diverli . Così gl’ Inglefi avran per
avventura tanta ragione di difettar ora per l’America, quanta ne avevano
innanzi di difettar per (i)C.JX-v.^. Sorla (6), fe tali opinioni diverfe
faran conformi del pari alle diverfe circollanze o modificazioni di
ragion loro comune d ambo quelli tempi, di che farà indizio appunto
l’ellèr quelle all’uno e all’altro tempo comuni. Perciocché fe la nuova
opinione non folfe cosi comune come l’antica, non farebbe quella così conforme
alla comun ragione, come lo era l’antica, ma potrebbe elfere qualche
opinione o errore ancora particolare alla verità comune contraria. Il fuppor
gl’ Inglefi che difertan per Bollon più fenfati di quei che difettavano
per Sorìa, quando quelli difettavano di comune confenfo, e quelli
difertano coll’oppofizione di 'c’À P IX ' mezzi i voti della nazione, è
un’ alTurdità . Del redo non fi nega che sì una fpedizione che un
pellegrinaggio non pofian eficr conformi alla comun ragione, purché fian
efiì tali da attirare il comune confenfo . E ciò non per attività
d’un Ammiraglio o d’ un Romito che li pcrfuadano, ma per ragioni piò alte,
ordi- WC.IX.n.ó. nate da una fapienza eterna ( a ), la quale nel
crear una fola ragione, ne coditu) le modificazioni diverfe, e volle che
non ladiverfità, ma la contrarietà delle opinioni e coftumi fodè quella, che da
queda comun ragione li dividede. Q Ucl che s’ è detto di fopra ( 6
), che le immagini C A P. X. degli oggetti da ciafcuni apprefi non tengan
rap- De’ cofhimi 'porto necedario alcuno colla favella e colle voci,
efpreffi perla per le quali fian ede efpredè agli altri, dee applicarfi
f*»ella. eziandio alle combinazioni di quelle immagini, dalle qua- *•
*• li derivano le inclinazioni e i codumi diverfi, le quali
combinazioni d’immagini non terran così nedunnecedario rapporto con quelle
delle voci, o colle regole gramaticali di lingua, per le quali fi
manifedano, oli partecipano agli altri. Ciò fi verifica idedamente
dall’ edere tali regole pure dabilite di comune confenfo arbitrario di
quei foli, fra i ^uali quelle combinazioni d’ immagini debbono
comunicarfi (c), e che così comu- (#)C.iF.«,i. nicano di codumi e
d’inclinazioni a efclufione d’ ogni altri . Ond’ è che ove manchi queda
comunicazione, nedune lingue o regole di ede fono in ufo, e ove effa
v’abbia, le lingue e le regole d’ede perciò introdotte, non s’ apprendono dalla
natura, ma da fola meccanica fcoladica, o da idruzione pratica d’altri, fenza
apprender perciò niente più di reale (d), e fuor di WCy.n.ì. queda
meccanica, l’ ufo dejle lingue farebbe impoflìbiIc • Del primo è prova ogni
felvaggio, il quale perchè non in calo di comunicar ad altri le proprie
combinazioni d immagini, non à favella veruna, nè articola alcune
G voci Digitized by Google "50 L
CAP. X. voci introdotte fra gli altri, non occorrendone certamente a lui
alcune per efprimerfi a sè medelìmo . E del fecondo è prova ogni bambino,
che alla villa degli oggetti che le gli prefentano, non proferifce naturalmente
che llravaganze, finché colla propria efperien- za e coll’illruzione non
ifcientifìca, ma pratica altrui, non s’ alTuefaccia a proferirli e
cultruirli per voci alla maniera accordata fra gli altri, coi quali più
comuni- ca, e non mai alla maniera fra quelli, coi quali non
comunica d’immagini e di collumi . Ancorché poi le combinazioni d’
immagini degli lleflì oggetti, non ab- bian verun necelfario rapporto
colle combinazioni di voci, colle quali li proferifcono ; per elTere
nondimeno quelle tutte confimili, atteli gli (ledi oggetti, e tutte
diverte, attefe le diverfe combinazioni loro nelle cia- (a)
C.III.n.i. fcune menti (/»); c per edere altresì una favella colla
quale fpiegarle la della per ciafcuni, ma pur diverfe le
combinazioni in clfa di voci nelle ciafcuni bocche (b) C.V.n.\. (6)
j d’innmnerabili perfone ancora le quali efprima- no altrui uno
llelfo fentimento colla llelTa favella, fic- come non ve n’àn pur due,
che apprendendo gl’ og- getti dell! li combinino indiamente nel lor
cervello ; così non ve n’ àn pur due, eh’ efprimendoli con quel- la
favella, li efpriman colla deda difpolizione di voci; in guifa che poda
dirfi eziandio, che quede innume- rabili perfone liccome edendo della
della fpecie, pur fon diverfe ciafeune dall’ altre per fembianze ederne
e per tuono delFo di voce, così elFendo dello dedo fen- timento e
della Itelfa lingua, s’efprimano nondimeno agli altri cialcuno con
diverta difpolizione di voci o di termini di quella lìngua
medefmia. II. Inoltre quella idabilità d’oggetti, eh’ edendo
gli dedt per le Itede leggi motrici, pur lì cangiano del continuo
per le infinite modificazioni di codedo mo- (»)C.i7. W.2. to (c); e
quella delle inclinazioni e codumi, eh’ ef- fendo gli dedi per le delle
padioni d’una ragione co- mune, van pur perpetuamente cangiando di
modificazioni (/>),(! riconofce altresì nelle lingue, eh’ edendo le llefle
per la ftefla impulfione d’aria fofpinta dai {a)C,VI.n.i. polmoni,
rielcon pur diverle per l’ articolazione di vo- ci, o per modificazioni
diverfe di quell’aria fofpinta. Perciocché eflendo effe intefe a
efprimer le immagini quali fon combinate, e i codumi quali fon
praticati, egli è pur forza che feguaciò che per nota efperienza fi
vede feguire, vale a dire che difufati in ciafeuna lin- gua del continuo
alcuni termini, fe ne foftituifean di nuovi, non per altro certamente,
che per fecondare la detta diverfìtà di modificazioni, (la nelle immagini
de- gli oggetti, fia nella pratica de’ coAumi che ne deri- vano. E
quantunque quella diverfìtà di modificazioni negli oggetti e ne’cofìumi,
proceda con più d’unifor- mità, per elTer ella opera di natura ; non
manca però più o men efattamente di tener dietro a quella la di-
verfìtà de’ termini in ciafeuna lingua, con quella im- perfezione (6),
colla quale fi vede fempre l’arte imitar (*)C. /r.w.j. la natura. In
efi'etto, del difufo fuddetto di termini in ogni lingua viva, e
dell’introduzione in efla di termi- ni nuovi fuir eftinzione di quelli,
non fì faprà afìegnar altra ragione, che quella degli oggetti apprefì e
com- binati, e de’codumi che ne derivano, eh’ elTendogli flefit per
la flclTa ragion comune, fi van rinovando per modificazioni di quella
diverfe col variar de’feco- Ji, giacché le lingue non fono inllituite e
non fono intefe che a quello, di efprimere quegli oggetti e quei
collumi così combinati e cosi diverfamente modificati . Dimanieraché per
la ftefla ragione, per cui non v’ à luogo, in cui corrano le opinioni e i
coftumi di più fecoli innanzi, cosi non v’ abbia luogo, in cui s’
ado- pri la lingua d’ allora; e fia cosi impolfìbile di richia- mar
fra gli uomini quei coftumi (c), com’è impof- ( 0 CJX». 4 . fìttile il
richiamar quella lingua . III. Da ciò s’apprende, come il
determinar una favella di tutti i luoghi e di tutti i tempi, farebbe lo
fteflo che determinar un opinione e un coftume, ounacom- G z
bina- \ Digitized by Google Lii 7^
CAP, X. binazione d’opinioni e di coftumi pur d’ogni luogo e d’ogni
tempo ; vale a dire che determinar la facoltà intellettuale umana, e
limiurla non folo all’ellenfìo- ne, ma alla qualità ancora e ai modi
delle fue cogni- zioni in ogni luogo e ad ogni tempo ; cofa 1’ una
e l’altra imponibile, per non poter elTa accordafi colla fleda
limitazione umana intellettuale . Perciocché l’ in- telletto umano per
quello appunto di edere limitato nelle fue cognizioni, dee variarne’ modi
e nelle qua- lità di edè ; e per eder quedi modi e quede qualità
infinite, dee verfar più quando fu alcune di ede, quan- do fu altre, e
quindi adottar quando alcuni, quando altri codumi, elprimendo in
conleguenza e comuni- cando tuttociò altrui, quando coU’une,
^uandolcoll’al- tre voci o favelle . Siccome poi col variar di
combi- nazioni d’ oggetti e di codumi non fi ricorre giammai (a) C.yi.tt.t.
ai modi ufati altre volte (/«), ma le modificazioni ne fon fempre diverfe
; così col variar delle lingue vive non fi ricorre giammai a rinovame o a
replicarne al- cune delle morte oltrepadate, ma fe nc formano altre
dapprima fempre inaudite, e non mai per innanzi ado- prate. 11 tutto per
le infinite maniere, colle quali pof- fono combinarfi gii dedì oggetti,
gli dedi codumi, e le dede articolazioni di voci, colie quali
proferirli, attefa una fapienza eterna e infinita, che regola tut-
to quedo magìdero con leggi uniformi in sé dede, ma varie fempre nelle
loro modificazioni . Per quedo gli eruditi pudono bensì lufingarfi d’
idruird. e di ra- gionare de’ codumi e delle lingue antiche, per
quan- to é podibile ravvifarle a un lume che d va fempre
allontanando, e per quanto è podibile alla vita uma- na caduca tener
dietro al tempo indancabile ed eter- no . Ma il figurarfi d’ aver de’
codumi e delle lin- gue perdute, quella contezza che fi à de’ codumi e
del- fe lingue viventi, o il lufingarfi di raccapezzar dai po- chi
frammenti che redano, quel tanto più che non teda de’ lècoli antichi, é
una vana credulità ; ed è co- me Digitized by Googl»
^ Liir^ me lufìngarfi d’ indovinar per le poche fandonie che
CAP. X. foglion narrarfì delle Sibille, tutto quel che per av-,
ventura avelTero quefte fcritto ne’ libri loro, che fi di-, con arfi
nell’ incendio del Campidoglio Romano. IV. Per altro la diverfità
di lingue, che come fopra dee avervi nelle nazioni, per la diverfità in
elle di og- getti combinati, e di collumi che ne derivano, e 1’
impoHìbilità di elTer tutti d’ un collume e d’ una favella (a), fan conofcere
che la natura unifce in vero («) C.X.». 2 .;. gli uomini hno a certa
mifura, alla quale polTan elTi giovarfi, ma li difgiunge oltre a quella
mifura, nel qual cafo la loro unione elTendo inutile, farebbe incomoda, e
potrebbe renderft ancora nociva. Certo è, che fe r ufo dell’ illelTa
favella indica la necelTità di llar gli uomini uniti, per accorrere gli
uni in foccorfo degli altri, ciò che non può verifìcarfì che per favella che
fia la llelTa ; 1’ ufo di fevellar diverfamente indica la nelfuna
necellìtà di Har elTi uniti a quell’effetto, giacché fra perfone di favella
diverfa nelluna comunicazione di fentimenti, o nelfuna fcambievole ali^
llenza può interceder giammai . D’ altronde le occorrenze umane fono ognor
limitate, e non poflbno llenderfì oltre a quei limiti che con difagio comune
degli altri, e con illufione particolare disè medefimi, elfendo in vero
un’ illufione e un inganno, che quel foccorfo Ila di provedimento, di diletto,
di piacere, di difefa o d’altra qualunque occorrenza, che ognun può
confeguire da altri loncan tutt’ al più dieci miglia, abbia da attenderfi
edalanguirfi da altri, di favella inintelligibile, e lontani le migliaia e
migliaia di mK glia. Con ciò^ fì direbbe, che quel che congrega gli
uo^ mini lino a certo numero, al quale poffano confervarfi dell’
illelTa favella, fia la natura amica della fuflillenza e del piacere verace ; e
che quel che li congrega oltre a quello numero, al qual non pollano
confervarfi d’ una favella, fia T ambizione particolare dillruttiva
della fpecie, corruttrice del vero piacere, e amica del De’
coftumi efpreflì per favelle diverfe . («} C. I.n.i,
'^LIV ^ ‘piacere ingannevole • Ciò fi comprova dal fatto, per
cui gli uomini finché fon dell’ ifiefla favella, più convengono infieme,
e più s’ accrefcono per arti di moderazione c di pace, come nelle nazioni
più limitate d’ Europa, e qualor diventano di più lingue, come negl’
imperj più valli dell’ Afta, non polfono fofienerfi che per la forza, e fi
diftruggono per queir arti ftefle di luflb e di guerra, per le quali credono
bonariamente di confervarlì, e di foccorrerfi gli uni gli altri ; come in
fatti fi trovano quivi a molto minor numero che nell’ altre nazioni d’ una fola
lingua, avuto riguardo all’ellenfion delle terre . E fi comprova ciò pure
dalla dipendenza neceflarìa degli uni dagli altri, quando pur voglian gli uni
cogli altri fupplire ai bìfogni comuni . La qual dipendenza di ordinazione e
fubordinazione può ben avervi fra perfone della fleU'a lingua, ma fra
quelle di lingue diverfe non può avervi che con inganno, eflendo invero
impoffibile che gli uni dipendan dagli altri, quando ignorano fin la favella,
per la quale dipendere . Dacché fi conclude, che la faggia natura vuol
veramente uniti e congiunti infieme tutti gli uomini dell’ univerfo,
ma per il folo vincolo di amore e di ragione loro comune ; e che quel che li
tiene uniti per tutt’ altro titolo, non fia che la llolta ambizione e
1’ interefle loro particolare, ben divcrfo da quell’amore e da quella
ragione, e talvolta a quelli contrario . Q uella ragione che fa,
che gli uomini dell’ illef_ fo luogo e dell’ ifteflb tempo fiano dell’ illeffa
favella, per la necelfità di comunicare infieme d’ immagini d’ oggetti, e di
collumi (rf), fa non meno che a luoghi e tempi diverfi fian di diverfe
favelle, per la nelTuna necelfità allora di una limile comunicazione, elTendo
d’altronde le voci, colle quali comunicar d’immagini e di collumi per le
llef Digìtized by Google Lv fe infinite (/j), ed
eflendo finite quelle, colle quali a' qualunque tempo e luogo
particolare, comunicar d’immagini c di collumi di quel tempo, c di quel
luogo particolare . Ma oltre ciò quella ragione che fa, che
ciafcuna lingua vada alterandoli riguardo a sè llefla, per r alterazione
che va feguendo nelle modificazioni degli oggetti e de’ collumi medelimi
allo IlelFo tempo e nello ItcITo luogo, fa che s’ alteri molto maggiormente
riguardo all’ altre di tempo e luogo di verfo, per feguire l’alterazione
degli oggetti e de’ collumi molto più notabilmente ne’ luoghi e tempi feparati
e lontani, che in un iltelTo luogo e tempo (c), o lotto al medefimo
afpetto de’ pianeti . Da ciò ne deriva, che non polfan gli uomini mai
fpiegar così bene le proprie combinazioni d’ immagini, e i proprj collumi
e fentimenti con lingua Itranicra d’ altro tempo e luogo, come li
fpiegano colla propria, ciò intefo degli uomini in genere, e degli affari
e collumi loro non già meno fìgnificanti, che fi trattano nelle
accademie 0 ne’ gabinetti, ma dei più fìgnificanti e comuni,
che fi trattano nelle piazze e nelle famiglie. E invero effendo ogni
favella illituita per elprimere gli oggetti e 1 collumi d’ un luogo
e d’ un tempo, e dovendo quella variare col variar di quelli; l’adoprar a un
tempo c in un luogo una lingua illituita per efprimere oggetti e collumi
d’ un altro, farà ognor più difficile, per doverli allora follituire alle
voci più proprie e più precife di quegli oggetti e collumi, voci intefe a
clprimcrne altri da quelli diverfi, e in confeguenza men proprie per
elprimerli, e men precife . Che gli oggetti e collumi di ciafeun luogo
e tempo fian diverti da quelli di ciafeun altro, e che per ciafeuni
corrifpondano termini e voci diverfe, fi manifella oltre per quel che s’è
detto (d), per li Dizionari ancora particolari, ciafeun de’ quali fi vede
più carico e ricco di quelle voci, che più corrifpondono agli
oggetti e collumi del luogo e tempo, in cui la lingua d’eiTi è nativa;
carichi in confeguenza cricchi meno di quelle, che più corri fpande{Iero
agli oggetù e coftumi d’ogni altro luogo e tempo, incuifolTe quella
lingua ftraniera. Non per altro certamente, fé non ' perche ciafcun luogo
e tempo à i Tuoi coflumi che non fon precifamente quelli d' un altro, e
per efprimer ì quali non mancando mai le voci nella lingua di quel luogo
o tempo, mancano bene fpefTo nella lingua dell’altro. Per elempio nel
vocabolario arabo diceli, il Cammello efpredo con voci mille ed una,
quando nell’italiano fi tiene per efpreflTo abbadanzapet qued’una fola,
lafciate fuori le mille ; e ciò non per altro, che per la moltiplicità
d’ufi di codeiio animale nelle contrade arabe maggiore che nelle
italiane, per la quale moltiplicità, gli oggetti e i coftumi diverfihcando
nell’une e nell' altre regioni, diverfamente s’ efprimono. E lo fteifo fi
direb^ d’ innumerabili altre produzioni animali e vegetali diverfe degli uni
luoghi e tempi, in riguardo a quelle di altri . Ch’ è la ragione,
per cui un Dragomanno pratico del pari della lingua araba, e dell’
italiana s’ arreda bene fpelTo nel ragionar di cofe italiane colla prima
lingua, e nel ragionar di arabe colla feconda ; e per cui parrebbe ancora,
che Cicerone defl'o non potcfle al prefente elTer cosi buon fecretario di
lettere latine in Roma, come alcun crederebbe, per gli oggetti e affari
romani prefenti molto diverfi da quelli, de’ quali ei fcriveva ad
Attico a’ fuoi tempi, e richieder pertanto gli uni e gli altri
qualche diverfità ne’ modi di efprimerli . III. Tutto ciò fi dice,
non perchè il poffeder più lingue non abbia a riputarfi un ornamento,
neceffario ancora a chi non contento degli oggetti e codumi vicini, che
forfè non intieramente intende, anela ed applica ai più lontani che intenderà
fempre meno; ma perchè fi fappia che gli uomini delle nazioni,
ficcome ciafcuni ànno i propri oggetti e codumi diverfi da quelli
degli altri, cosi ànno una propria lingua, per cui efprimerli, che non può
effer quella degli altri: e che~^~ A T vi" ficcome non adotteranno
mai bene gli altrui oggetti e coftumicomei propr), cosi non efprimeranno
mai quedi cosi bene coll altrui, come colla propria favella. Dall’
altra parte la cognizione di più lingue non è cognizione f«r se Itella, ma è un
mezzo per cui comunicare foltanto a più altri quelle cognizioni, che
folle cofe e non fulle parole, fi foflcro apprefe (a) - e un WC.F. n.
3. dotto farà fempre tanto dotto con una lingua, come con dicci,
ficcome uno fciocco non fi manifefterà men Iciocco con dieci lingue, che
con una fola. A ciò riguarda lo zelo, col quale ipiù fenfati antichi, e moderni
ancora, fi fono ognor dichiarati a favore, e àn fempre altamente parlato
in commendazione de’ patri lari, de patrj collumi, de’patrj iflituti, e
della patria tavella .Ognun che trafcuri tutto quefto per quanto é
fuo, affine di adottarlo per quanto folle dUltri, fia certo che trafeura quel
che a lui è più naturale, per aflumere e tenerfi a quel che gli è meno, e che
ciò è coinè s ei fpogliafle 1 proprj velliti per adoffarfi gli altrui,
che non fe gli adatteranno mai bene indoflb . Un uomo di tutti 1 coftumi,
di tutti i fentimenti, e di tutte le lingue, fuole dal popolo e dai
romanzieri ammirarfi come un portento . Un uomo tale per la verità c per la
natura, farebbe un arnefe infignificantee contraddittorio, di nelTun
coftume, fentimento, o favella che almen foffe Aia propria (A), com’ei farebbe
{ 6 )C.VI.n.ì. di nelTuna nazione e religione, quando intendeffe eflèr
^ di tutte. Del rimanente col diffinguere come fopra, idiverfi
oggetti e coffumi di ciafeun tempo e di ciafeun luogo (c), non s è già
pretefo di dividerli in modo, y che non abbian poi a convenire allo
llelTo, per auan *°‘“«,'.P™«donp dalle ffefle invariabili leggi motrici,
c dall iffefla ragion urnana comune ; per la qual cofa le lingue altresì
fi vedon poi quafi confluir tutte in una, allorché gli oggetti, i coftumi
e i fentimenti in fomma umani efpreffi in una favella, fi
trafportano a qualfivoglia altra. Ma s’è pretefo con quello foltanto di
far conofcere, che quella convenienza che corre fra r une e 1’ altre lingue in
riguardo appunto a codefie leggi e a codefia ragion comune, per cui
gli oggetti e i cofiumi fono confimili, non pofla correre in riguardo alle
modificazioni di quelle leggi e di quella ragiotie diverfe, per le quali
gli oggetti e ico». 1 . Itumi fon pur diverfi (a). Ona è che per 1’ une e
T altre lingue s’ efprimono oggetti bensì confimili, ma
diverfamente modificati, e per le voci vir, uomo, e s’ cfprime il
medefimo uomo, ma diverfamente modificato in Lentulo, Giampietro, e
Ricardo, come {b)C.V.n.i. s’è veduto (i). Quefte modificazioni dunque
diverfe d’oggetti e cofìumi confimili fan fempre conofcere, eh’
efpreffi ciafeuni di quelli in una favella per modificazione a sè naturale e
nativa, trafportati ad un altra non pefTon ferbare la nativa lor
proprietà e vivezza, ma debbon perdere di loro efpréffione più naturale. A
quello modo fi dirà, che pofla ciafeun valerfi d’una lingua flraniera
qualunque, per quanto gli oggetti, i collumi e i fentimenti fono gli
llelfi e confimili a tutti i tempi e in tutti i luoghi, ma che non pofla
poi così propriamente valerli di efla come della propria, per quanto
quegli oggetti, collumi e fòntimenti elfendo confimili nelle loro fpecie, fon
poi diffimili nelle loro modificazioni col variar de’ tempi e de’ luoghi
. Dacché apparifee di nuovo, come natura fempre a fe fteflà uguale e
fempre faggia, avendo ordinato gli oggetti, i collumi e i fentimenti tutti confimili,
ma pur diverfi ; col conceder agli nomini la ilefla favella perchè
poteflero foccorrerfì gli uni gli altri per quanto occorrefle, la concefle
altresì diverfa, per quanto un fimil foccorfo poteflè renderfì loro (r)C.
X». 4, inutile, o potefle ancora convertirli in dannofo (c) . Ma
all’illeflb tempo confervò nondimeno tutte le favelle confimili, per avvertirli
d’ una Ulefla ragione e amo Digitized by Google
LIX ?fi amore comune, per cui doveflero tutti trovarfi uniti e
concordi ; quafi avvertendoli, che per fuppLire ai bifogni fcambievoU di
iudilienza, baftava 1’ opera im* mediata di pochi fra loro vicini d’ una
litigai medesima; e che peramarfi dovevano tanto Stenderli, quanto le favelle
loro cflendo diverfe, foflcr tutte confimili, dovendo cosi il circolo
dell’ amore fra eSli edere incomparabilmente più ampio, di quello dell’
interede comune medeSitno. V. Ma ritornando airalterazione Solita
feguir col progredo de’ tempi in ciafcuna lingua viva, è da odervarfi, che
Sebbene queda foglia, e debba molto imputarli al commercio degli uni
cogli altri popoli di lingue diverfe, e all’invafioni d’un popolo d’una lingua
folle terre de’ popoli di un’ altra; eda nondimeno dee fempre
principalmente attribuirfi alle modificazioni degli oggetti e codumi, che
col progreSTo de’fecoli fon Sempre diverfe nelle confimili Specie loro (a)^
Perciocché (.a)CJCLn.i^ lafciando pur dare, che prescindendo ancora da
invasioni e commercio ederno, la lingua italiana o l’ inglefe d’ ora non è già
la delTa che la italiana di Guiton d’ Arezzo, o la inglefe diCaucer; è
certo che per quelle invasioni e per quel commercio ederno, non è che gli
uni adottino la lingua degli altri, ma é che dall’ impado di due lingue
(e ne forma una terza, che non è alcuna di quelle, liccome dalla
compofìzione dell’ une coll’ altre inclinazioni e codumi ne rifulta un’
altra a quelle consimile, ma non mai la deSTa che quelle, prevalendo però
Sempre in tutto quedo l’ indole degli oggetti edemi attuali e prefenti, e non
mai dei lontani e padati . L’introdurre in una nazione i codumi e la
lingua d’un’ altra, quando tutto ciò va cangiando in qued’ altra fteSTa,
è un’ aperta implicanza ; e il pretender tutti d’un codume e d’ una lingua
medefima farebbe lo deSTo, che limitar la natura come in ciafcuna Sua
opera così in tutte, quando eSTa è tanto infinitamente Simile in tutte, quanto
infinitamente diffi H z milc Digitized by Google
CAP. XI. niile in ciafcune (a). Quindi è che per quanti barbaci) C. II. n.z. ri
così detti, fian mai fceft in Italia, i coftumi iu> liani àn potuto
bensì coiromperfi ed alterarfi, ma non mai perciò renderli così barrati,
come i colìumi di quelli. E Io lleflb è avvenuto delia lingua, che
coll’ alterarfi per quello motivo, confervò Tempre 1’ indole dell’
antica latina, e non già della gotica antica . 11 tutto per gli oggetti e
le produzioni italiane Tempre nel rinovarfi men diverfe da sè medeTime,
di quel che il potelTero eflere da quelle della Gozia . Per la qual
cofa dovevano ben i Goti più piegare ai collumi e alle inclinazioni
italiane, che gl’ italiani ai collumi e alle inclinazioni de' Goti,
giacché quelli col traTpor* tarfì nelle pianure del Lazio e della
Lombardia, non vi avevano trafporcato i diacci o le rupi delle loro
regioni . Certo, la verità delle coTe non apparire airafpetDelle cogni- to
ellerno di elTe, ma doverli invelligar per induzioni reali, e ^ioni da cagioni
occulte ed interne, quando più quando ^ e e ipparen- ^ come apparifce
dalle molte implicanze nelle quali s’ incorre nel giudicarne di prima
villa, per le quali implicanze quel che Tembra vero all’ ellerno, Ti
Tcuopre realmente non efler tale, e Ti riconoTce fovente elio Hello
eller Talfo. E’ certo altresì, una tal verità dover {b)C.Vl.n.z. nelle
cofe eller unica (i), mentre fe folTe più d’ una o folTc da fe Heffa
diverla, quella cofa ancora di cui fols’ elTa la verità, farebbe pure più
d’ una, o farebbe diverfa da sè medefima, ciò che certamente è impoffibile
. Ond’ è che fe d’ una cofa llelTa fi giudichi in più maniere, tali
giudici non faran veri, ma faran dubb) ed incerti, e tutt’al più faran
probabili e verifimili, come foglion pure appellarfi ; e allora foltanto
faran elfi veri, quando elfendo d’un modo, fi riconofcano non poter elTere d’
alcun altro. Ciò fa ch’io dillingua le cognizioni umane vere t reali, dalie
verifiOlili ed apfarcnri, conlidcrando quelle per tali, la cui verità non
poffa cambiarfì con altra, comechè de- c AP. XII. dotta da ragioni
immutabili e neccfl'arie, colle quali non poflan altre competere, o
polTan a quelle refiilere ; e confìderando quede per tali altre, la cui
verità poffa eziandio cfler diverfa, comechè fufcettibile di più e di meno, o
proveniente da ragioni che s’ arreffano Aiirefferno, e che eflendo a quel
modo, potrebbero ancora efferlo a un’ altro, ancorché non da altre
apertamente fmentite. Del primo genere fono le cognizioni che fi direbber
geometriche affratte, della cui verità l’animo riman talmente convinto,
che di più non ricerca per effe . E del fecondo fon tutte le più
ufate, folite fpacciarfi da chi applica coi metodi più comuni
all’ifforia, alla fifica, alle leggi, alla politica e fimili ffudjpiù
praticati, filile quali per quanto la verità apparifca lotto a un afpetto,
lafcia pur luogo di apparir fotto a un altro fenza contraddizioni,
conofciute almeno ed efpreffè; fcgno evidente di non effer dunque tali
cognizioni reali, ma di effer foltanto apparenti, giacché le reali non fon che
di un modo ( rt), e quelle fon di più modi . Dell’ incertezza di quelle
feconde cognizioni in confronto alle prime, non diffentono gli rtefli
coltivatori di effTe Ilorict, filici, legilli, politici ed altri, quando convengono,
le cognizioni loro ei fiffemi di più modi, non effer cosi evidenti come
le verità per efempio numeriche elementari, da loro pure e da ogni altro
conofciute a un fol modo. II. Chi ben attenda a quello
conofcerà, l’intelletto umano effcre molto più inclinato alle cognizioni
efferne ed apparenti, che alle interne e reali, ciò che procede non già dall’
effer ei più capace del falfo che del vero, come immaginan alcuni ; ma
dall’ effer quelle cognizioni più facili di quelle, non efigcndofi per
le apparenti che certa attenzione fuperficialc, quando per le reali
fi efige un’ applicazione più diligente e più dilìntereffata . Q^uclla
applicazione poi più diligente e difintereflata richieda per le cognizioni
reali, proviene ‘ dalla neceflltà di 6flar per elTe lo fpirito per sè
volubile e fugace, a un punto foto dei moltiflinii, fra i quali ei fuole
fvagare trafportato da’ cavalli dell’ immaginazione fervidi di natura; e molto
pià provien ella dalle feduzioni de’fenli a proprio interelle, a
che ei (la fortemente attaccato . Per la qual cofa la mente umana o
non cura idruirfi di fotta alcuna, e fchiva d’ ogni applicazione,
s’abbandona all’inerzia; o nell’ iftruzione medefima s’ arreda alle prime
imprellìoni, o fegue più la fcorta de’ fenlì in fuo prò, che quella della
ragione, intollerante di quel freno che quella cerca d’imporre a quelli,
perchè non la traggano lunpi dal vero . Certo è, che tolta quell’ inerzia e
quella intolleranza, farebbero gli uomini cosi ben idrutti della verità
delle cofe, come ne fon mal idrutti/ gli ottimi conofcitori del vero farebbero
nelle piazze e ne’ mercati, nelle accademie e nelle corti, cosi
familiari e frequenti, come vi fon gl’ ignoranti e gl' impodori, e tutti
parlerebbero di verità, come i Parrochi nel. le Chiefe, e come i filofoli
migliori ne’ privati loro recedi. Pare dunque, che la verità reai del le
cofe dia fituata a certo punto di mezzo unico e indivifibile,
innanzi e oltre il quale fia vano il cercarla, o non fia podibile il
rinvenirla che con dubbierà e incertezza ; e che gli uomini per lo più o
non fi muovano a ricercarla del tutto, o neirinquifizione di elTa
trafcendano quel punto, (edotti e ingannati dai fenfi, che per loro
interede particolare li trafportano dall’ une all’ altre apparenze, lenza
difcernere o arredarfi al punto reai delle cofe, fuor che ben rare volte . In
effetto il didinguer fra tutti quel punto folo, efìge certa infidenza e
applicazione, che non è volentieri incontrata, ma è al contrario fchivata
e abborrita ; e dall’ altra parte l’ affidarfì ad un punto folo degli infiniti
che ve n’ ànno, fra i quali può la mente fvagare nella traccia del vero,
è cofa ardua e difficile . Laonde le verità nuile o peggiori faran“cAp
xiT fempre più coltivate delle alcune o migliori, e gli uomini ad
ogni tempo e in ogni luogo faran Tempre nelle lor cognizioni medefime più
Aiperfìciali e diftratti, che rifleffivi e raccolti ; perciocché
non potendo le cognizioni reali acquiltarfi che per applicazione più
laboriofa, c per aftrazione dai fenfi, non faranno dunque elleno mai
comuni fra gli uomini, alieni comunemente da quel lavoro e da quell’
aerazione, maffime per l’interelTe loro che v’interviene particolare, al quale
principalmente riguardano i fenfi . S’ aggiunge a ciò, che quel che
induce gli uomini ad applicare di via ordinaria alle cognizioni apparenti, non
ollante refler clTe divcrfe dalle reali, è ancor quello, che quelle
cognizioni per quanto fian dubbie, oltre al prefentarfi Tempre in
fembianza di reali, lon bene fpeffo reali effettivamente effe fteffe
; e la differenza dell’ une dall’ altre confifte foltanto in ciò,
che laddove le reali fon conofciute tali immediatamente per sè medefime, le
apparenti non fi riconofcono per reali che dagli effetti confecutivi, o
dall’ cfperienze eventuali che lor corrifpondano o non corrifpondano,
attendendofi cosi da quelle la prova della verità loro reale, o della
apparente . Allora poi le cognizioni corrifpondono cogli eflfetti confecutivi,
o fon comprovate per elfi, quando effendo quelli dagli altri
diverfi, non fono a quelli contrarj; e allora non ccrrifpondono, o non fi
verificano per gli cfl'etti che ne confeguono, quando quelli fi trovano
implicanti, e a tutt’ altri o ai comuni contrarj . Imperciocché le cognizioni,
all’ illello modo che gli oggetti creati, e i cotlumi c le ^inioni umane
che ne derivano (/»), C.VII.n.i. poffon bensì cller diverfe, ma non
poffon fra sé trovarli giammai contrarie, e quelle e quelle finché fon
diverfe, fon reali e conformi alia verità comundi natura ; e qualor fi readon
contrarie, fono apparenti, imponìbili, e conformi al/alfo e all’errore. Le
cogni> zioni dunque apparenti polTono e(Tcr reali ancorché
fempre noi (ìano, perchè dipendendo dagli effetti confecutivi, poflbno queffi
effer dagli altri diverfi, ancora chè poffano eziandio efler a quegli
altri comuni contrari ; a differenza delle cognizioni reali così dette,
le quali non dipendendo da effètti confecutivi alcuni, ma da sè
fole, ed effendo fra sè diverfe, non poflbn efler contrarie nè fra sè
ffeffe, nè negli effètti comuni che le confeguono . Gli uomini poi
inclinano più a quelle che a queffe cognizioni, per eflTer più facile attendere
la verità dagli eventi confecutivi benché dubbioli, che logorarli il cervello,
come lor fembra, nel ricercarla per sè medefima e di prima mano. E ciò tanto
più, quanto per le lufìnghe de’ fenfi, o per interefie loro particolare, le
cognizioni apparenti dilettano molto più delle reali, avvegnaché queffe
iffruifeano più di quelle, e ognun vede, che inclinando elfì fempre più
ai diletto de’fenfì che all’iffruzion della mente, faranno dunque efft fempre
più avidi di cognizioni apparenti che di reali, in tutto ciò che riguarda
la ricerca del vero. Ma intanto qui fi vede, come le cognizioni diverfe e
reali, alle apparenti ad effe contrarie tengono la ffclTa relazione, che gli
oggetti pur diverfi e reali, ai contrarj ad effì e aita comun ragione,
per queffo appunto, che quei primi coffumi procedono da quelle prime cognizioni,
e queffi fecondi da queffe feconde. IV. Quello ch’io vorrei
qui malTimamente avverti (»)C.XIJ.n.i. to, egli è, che quantunque il punto
fuddetto (a) nel quale fu detto dler polla la verità reai delle cofe,
per edere indubitato e folo, fembri non poter convenire e non poter
confeguirfi che nelle cognizioni affratte e geometriche cosi dette,
convien elio nondimeno e fi trova molto bene in ogni genere di cognizione
pratica. Chi crede la fola geometrìa e l’ altre cognizioni affratte,
dette ancora teoriche, capaci di certezza reale, e l’al
o Digitized by Google r altre cognizioni dette
volgarmente pratiche, non ca-‘ paci della certezza medefìma; non avverte,
l’adrazione di quelle prime non confidere appunto che nell’
a<ha> rione dai fenll, e la evidenza di elTe dipendere dal
metodo d’ inveliigare il vero, o di dedurre le verità più compone dalle
più femplici. La qual aerazione dai ienfi e il qual metodo può aver
luogo, anzi dee averlo, ed applicarfì a qualfrvoglia facoltà di leggi, di
Itoria, di fìfìca, di politica, di teologia liefla e di morale, e di
tant’ altre, nelle quali foglion dividerfì le cognizioni umane; di
ciafeuna delle quali fi giudicherà Tempre realmente, fol che fi aftragga dagl’
inganni e dalle feduzioni de’ fenfi, e fi giudicherà femprd con dubbio,
non afiraendo datai feduzioni, o non correggendole per lo reale della ragion
comune, come fi pratica nelle cognizioni dette appunto afiratte e teoriche.
In guifa che 1’ incertezza delle feienze pratiche come le appellano, in
confronto delle teoriche o afiratte, dipenda Tempre dall’inganno de’ fenfi, dai
quali gli uomini s’ingegnano in vero di aflrarre o di prefeindere, quando
meditano, ma non fan rifolverfi di far lo fieflb, o duran fatica a farlo,
quando operano. A quello modo ogni fpecie di cognizione umana,
qualor lia verace e reale, fi renderà una fpecie di geometria, e non rendendofi
tale, non farà che una cognizione fuperficiale, apparente ed incerta, come quella
che involve le illufiioni de’lènfi, perle cui apparenze può ciafeuno
cafualmente imbatterfi nei vero, ma può ancora rellar ingannato o
trovarli involto nel falfo. Anzi la Geometria cosi detta, non farà per
sà flella cognizione, ma parlando più propriamente, farà il metodo
ola regola, per la quale dillinguereinqualfivoglia fpecie di cognizione il
reale dalF apparente, e di rilevare in ella la verità per quanto è
poflìbìle, o di difingannare per quanto non è polfibile di rilevarla *
convenendo così elTa colla Logica comune, o ellendo la Geometria una
Logica pratica, quando la } comune cosi detta, non è che una Logica
fpeculativa, men facile a praticarli e men ficura . Del rimanente è poi vero che parlando in genere,
lo fpirito umano in ordine a cognizioni, parte (i trova fotto al punto
reale e più precifo di elTe difopra accennato ( a ), e parte ancor Io
oltrepalTa e trafcende * e che quello è il coliume del popolo più incolto
ed abietto inclinato alla pigrizia, quando quello è il folito del popolo
più colto e volgarmente Hudiofo, amante per lo più delle follecitudini e della
gloria alfannola . Perciocché egli è vero, che gli uomini fchivi di
quella laboriofa applicazione eh’ elige la ricerca del vero reale,
s’abbandonano fpeflb all’inerzia e non v’ applicano di Torta alcuna . Ma
dall’altra parte è vero altresì, che avidi elTi di cognizioni, e Idegnofì
per mancanza di quelle di vederli confufi col comun della plebe, s’alzano
fopra quella nella ricerca medellma, nella quale poi impazienti di freno,
lìlafciano trafportare dalie illulìoni de’fenfi come s’è detto, oltre
quel punto, e lo sfuggono fenza avvederfene, feorrendo dall’
I,: ignoranza propria del volgo più rozzo, a quella propria
de’ comuni (ludiofi, che per lo più fono i troppo lludiofi. L’una e
l’altra ignoranza può dirfi comune, ef< tendo ben pochi quei che
fcevri da illulìoni, ricerchino la verità con accuratezza fenza penofa
follecitudine, e eh’ elTendo tranquilli, non fiano pigri ed inerti. E l’una e
l’altra ignoranza fi dirà ancora comune^ del pari ; mercecchè chi
toglielTe a follenere, quella' de’ comuni lludioli elTere meno ellefa, e
più tollerabile di quella de' comuni idioti, torrebbe a follenere
ardua e didicil cofa, e a ben riflettere s’ accorgerebbe, la differenza
dell’ una dall’altra ignoranza elTèr polla in ciò foto, che elTendo
quella degli idioti più fempliceemen fallofa, quella dei più fludioiì
tien più di fallo, e men di femplicità. Poiché le cognizioni
apparenti ed ellerne fon molto pià coltivate delle reali ed interne (a),
egli è certo, che gli uomini nella condotta de’ loro aSari,
dovranno di regola generale govemarfi per quelle, più che per quelle
cognizioni, dovendo certamente govemarfi ellt comunemente Mr cognizioni che
fiano fra lor più comuni, anziché per quelle che fodero men comuni.
Una llmil condotta loro non può negarli in pratica da chi dia ad olTervarli, ed
ogni perfona più accorta s’ avvedrà molto bene, che tenendo ciafcun in
mente certa verità reai delle cofe non abballanza da lui fviluppata ed attefa,
pure co’ fuoi penfìeri e colle fue azioni fa forza a sè delTo per
adattarli alla verità di quelle apparente, e ciò per conformarli al
comune degli altri, che paghi di quella verità, mal foflfrono di
procedece a quella . Nè v’è cola più familiare, quanto il vedere i più fenlati
in ogni fpecie d’ aflàri loro economici e civili ancor più fer),
adattarli con certa ripugnanza interna colle cognizioni loro reali per
quante ne tengono, alle apparenti dei men fenfati, come altresì a quantità di
ulRcj, formalità, e convenienze ederne di vita vane ed inutili, che di
quegli adari più fer) fon per lo più la difpofizione, il. veicolo, e
l’impulfo maggiore . Lo che non per altro certamente fuccede, che per la
facilità maggiore, colla quale quegli adari fi conducono a proprio intereffe
colla fcorta dei fenfì per cognizioni apparenti, di quel che li
conducedero per reali, con più d’efame e con più adrazione dai fenfi,
fodrendo così ciafcu* no con qualche fua pena negli altri quella negligenza
di cognizioni, che brama con maggior fuo comodo da altri fodèrta in lui dedb .
Tutto quedo poi avviene fenza difordine, e con efito ancora felice,
purché- quelle cognizioni apparenti non s’oppongano alle reali, ciò che negli
uomini che fi regolino a quedo modo non può conofoerfì che per gli
effetti 1 2 con- Cognizioni apparenti più pratiche
delle reali . Confecutivi come s’è veduto (/»), o per Toltraggio
o danno che fe ne fcorga provenuto negli altri. Perciocché fe quegli
aflari cosi condotti, eflendo utili a sò fteflì, non riurciran dannofi ad
alcuni ; le cognizioni apparenti,- per le quali (I conducono, faran
conformi alle reali e procederanno elll felicemente, e il contrario
avverrà, fe da quell’ utile particolare ne feguirà danno ad altri, nel
qual cafo non potrebber gli ad'ari procedere, che con ifconcerto e
difordine . ' 11. E invero fe gli uomini tutti fi- governalTero direttamente
per cognizioni reali e teoriche, gli fconcerti fra loro farebber tolti del
tutto e farebbero impolTibili, tutti fi troverebbero d’ un fcntimento conforme
ed unanime, nè vi avrebbe il cafo di diirenfioni dell’uno coll’altro in
qualfivoglia genere d’ intereife o (ù')C.XII.n.z. d’ affare (é). Ma
effendo quello iirpoffìbile, attefa la (0 feduzione de’fenfi a proprio
intercfle ( c ), ei bada dun* que per evitar gli fconcerti, che
governandoli effi per apparenza e per pratica, non s’oppongano almeno
al reai delle cole . Quegli fconcerti poi procedono dalla verità di
natura, la quale non laida di regolare gli uomini per io reale, ad onta
d’ogni lor propenfìone, dilegno e inffllenza di regolarfi pure per
apparenze . Ond’ è, che fe tali apparenze fon contrarie a quel reale,
debbono quelle andar vuote d’effetto, o confeguir-i lo con difordine, per
poter bensì l’apparente averluogo, quando non na al reale contrario, ma non
pcteraver mai, quando al reale s’ opponga {d) . Quello regolarfi gli
uomini da sè fteflì per apparenze, e regolarli la natura irrefiffibilmente per
io reale, fa conofeere, che fe effi pur reggono e fuffiffono, e i loro affari
procedono felicemente, ciò avviene per difpofizicne e faper di natura, e non
mai per fapicn-za loro, giacché governandofi effi al primo modo errano
bene ImITo, e fi trovano fvergognati dalla verità reale, quando natura
governandoli al fecondo non erra giammai, ed è Tempre a sè llelTa
conforme . Egli è ben vero, esser poi quefto ftcflTo il gran delirio di quei
politici, CAP. XIlT ed altri che più prefumono di prudenza umana, i
quali vedendo cosi fpenb mancare i loro progetti più ipeciofì, non s’
accorgono derivar ciò da quello appun< to, di elTcr quelli contrari al
reai delle cofe, per non riguardarne che l’apparente, per la qual cofa la
natura che non intende apparenze, fconcerta le loro inifure, e delude per lo
reale quanto per 1’ apparente eflt tentano, e non è Tempre polTibile che
riefca . Peg § io però intendono e ufan quei fcimuniti, che vedeno i molti
difordini che corion fra gli uomini, fogliono imputarli alla natura, o al
grande autore di e(Ta « quando è certo che debbon quelli imputarfi agli
uomini Itein, che in luogo di applicare al reai delle cofe, applicano
all’ apparente, che può a quel reale elfer conforme, ma può ancora a
quello cder contrario, e perciò impolTibile a riufcire ( <» ) ; in
guifa eh’ effen- ».j do gli uomini Tempre occupati a imbarazzarfi
infìeme per fole loro follie, la natura non fembri occupata d’altro, che
di sbarazzarli, emendando e correggendo quelle follie medefime . Quello
che qui lì dice è tanto più vero, quanto la verità reale non è già per gli
uomini un arcano, ma è cofa palefe ad ognuno, che nel cercarla fappia
prelcindere, o non fr lafci ingannare da illulìoni di fenfi . Ciò fi
manifella, oltre per la forza che come (opra ognun fa a fe llelTo nell’
adattarfi al penfar apparente degli altri (é), per quello ancora,
chegrin-(i)C.X///.».iganni medefimi, nei quali bene fpelTo cadono gli uomini
per quelle illufioni, appena incontrati da una parte da alcuni, fono
riconofeiuti da tutti dall’altra, non folo per gli effetti contrarj che
fpelTo ne derivano, ma per lo pianto ancora, e pel rifo che più ancor di
frequente fi fparge full’ azioni umane. Perciocché le ben fi confideri, l’uno e
l’altro di quelli non è pollo che in ciò, di riconofeer gli uni, che
s’ollinino gli altri a regolarfi per apparenze, quando la natura
e Hiria neceffità li aftrigne a regolarli per lo reale . Dacché
procedon fra loro quei tanti inganni, e quelle miferie, che vedute in altri
folTerte per altrui opera, generan la compaflìone ; e vedute fofferte da altri
per loro colpa, generano il ridicolo . Non avendovi poi genere di peribne di
quallivoglia arte, ufficio, o profeflìone, fui quale non cada qualche fpecie di
compaffione o di ridicolo conofciuto da tutti, non v’avrà genere di perfone,
che non fi governi per apparenze . Ma quella riconofcenza comune medefima
farà molto ben noto, una verità reai delle cofe elTer da tutti
fentita, ancorché men coltivata, per eflcre veramente più facile
compatire- le altrui miferie o ridere degli altrui inganni, che coltivar quella
verità con più d’ attenzione, aliraendo dai fenfi e dalle loro illufìoni a
proprio favore (a), E qui s’ oflfervi, come di quella verità reale
fentita, ma non attefa, fon del pari lontani ed ignari e quei che delle azioni
umane fentono compaflìone, e quei che ne conofcono il ridicolo, colla
fola differenza, che l’ignoranza dei primi pare efler quella della plebe
meno fludiofa, e l’ignoranza dei fecondi quella degli fludiofi di fole
apparenze, o dei vanamente ftudiofi (é), quando quei che applicano al reai
delle cofe, non piangono nè ridono mai delle verità che conofcono . Così
Eraclito, e Democrito, come vien detto, erano tanto faggi, quanto a
conofcer le apparenze per cali, ma non quanto a diftinguerle dai reale o
a conofcer le verità uefTe reali, al che nelTuni procederono tanto
innanzi, quanto ifilorofì del crillianefimo. Quello però non impedifce, che in
ogni flato, poiché le cognizioni reali vengono in confeguenza della
iflruzione, e le apparenti in confeguenza del diletto durato nell’
acquiflarle, gli uomini più propenfi a quefto diletto che a quella
illruzione, non lian più ricchi di quelle che di quelle cognizioni, e che
gli affari loro condotti per aroarenze, non fi conducano femprecon
implicanze e difordini, di che non lì ceflTa di lamentarli,
Digìtized by Google Lxxi tarfi, e a che non fi cefla
di fiudio per provveder- "c a V. Xlir. vi. 1 quali difordini, (oliti
mal attribuirfi alla debolezza delle umane cognizioni, e peggio a diHètto
di natura (<»), abbian tutti a cadere come s’ è detto, fuU’
WC.A^///.».z, avverfione fuddetta all’ifiruzione migliore^ e filila pròpenfione
al diletto fiiperfìciale e peggiore ; mercecchè dovendo Tempre gli affari
proceder per verità reali, e con certo ordine di natura flabilito dal
fupremo Tuo autore, qualora voglian diflrarfi per apparenti contrarie a
queir ordine, non potranno a meno di non procedere con difordine.
IV. Qui non può a meno di non prefentarfi alla mente una verità, la
quale è quella, che diflinguendofi gli affari particolari dai communi, poffano
nell’, ellerno molto piò facilmente condurfi per cognizioni, reali
quelli che quelli, per edere appunto il particolare più facilmente condotto per
Io reale, di quel che fiafi il comune, che come s’ e veduto (6), non è con-
WCJCILn.i, dotto che per apparenze . Una fimile verità quantunque di
fatto, non fi efprimerebbe da alcuni con parole, quafi per timore di non
mollrar per effa dì credere, o di dar a credere, che al governo degli
altri non fi richiedan che cognizioni apparenti, polle le reali
tutte dapparte. Allopollo però di quello, chi ridetta più finceramente
apprenderà, che per quello appunto di dover il comune degli uomini regolarfi
per cognizioni apparenti, è necelfario fra elfi un governo ellerno,
per cui da quell’ apparente fian tutti condotti al reai delle cofe ;
mercecchè fe il comune degli uomini fi regolalfe per lo reale, ogni governo
allora fra loro ellerno farebbe inutile e vano . In edètto fe fi
confìderi che per necedità di natura debbon gli adàri procedere per lo
reale, e che l’apparente può invero elfere a quello reale conforme, ma
può ancora non eflèrlo; ^li è dunque d’ uopo per non trovarfi col- (c)
C.XJI.n.j. la natura in contrailo, che v’ abbian alcuni, i quali
più bene intefi, più efperti ed illrutti degli altri nelle verità reali ( che o
bene o male fon fentite da tutma non da tutti dalle apparenti dipinte (<r) )
pre* fìedano agli altri, e diftinguan loro quali di tutte le
cognizioni apparenti per le quali fì regolano, fianò alle reali couformi, e
quali fìano a quelle contrarie . Quefto infatti è ciò cn è intefo per
ogni Governo, prima per la perAiaHone della Religione, depofìtaria delle verità
reali non corrotte da apparenze contrarie, e desinata così a infegnarle
ai popoli per regola delle loro paOioni, delle loro azioni, e de’ loro
coftumi ; ed indi per la forza o il comando del Principato, deAinato a
far valere quelle verità medefime, e a difènderle, per Quanto colle apparenti a
quelle contrarie foffero contralUte . La qual difinzione di Religione e
di Principato nel governo non è un giuoco dì fpirito, ma una
necefìtà di natura, per cui nella condizione umana non è pofibile, che un
perfuada a ciò a che dovefe pur af rignerc, o afringa a ciò a che dovefle
pur perfuadere, per l’ abufo d’una di quefe facoltà che ognun vede poter
allora feguire nell’ ufo dell’ altra, come ò altrove dimofrato ampiamente
. Io qui parlo de’ governi ben ordinati e fenfati, ne’ quali la Religione appunto
e il Principato nelle refpettive loro appartenenze iuddette, fon del pari
lìberi e indipendenti, come nelle nazioni più colte e più crìfiane,* e
non de’ governi difordinati, ne’ quali confufe quelle due
appartenenze in una, o oppredà l’una dall’altra, il governo (lelTo
non è che una fìmulazione o impofura, rapprefentato da una fola autorità
più forte, e foggetta alle UriTe illufioni d’ ogni altro, come nelle nazioni
men colte, o nelle quali più prevale la fchìavitù e 1’ ignoranza.
V. In qualunque modo però proceda un governo* egli è fempre vero,
che attefa l’inclinazione comune all’apparente più che al reale, elTo non
efibifce oprefenta mai ai popoli le verità reali, che coll’afpetto delle
‘ apparenti, e che nel adattare appunto 1’ apparente conforme e non il
contrario al reai delle cole, è pollo tutto l’arcano e l’arte ben
difficile di regger i popoli, CAP. Xllf. fenza di che quella non farebbe,
che un’arte ben facile di follazzare sè lleflì . I governi poi ben ordinati
dagli fconcertati fi dillinguono appunto per quello foto, eh’ eflendo gli
uni e gli altri occupati nell’ accomodare il reale all’ apparente, o all’
intendimento fuperficiale del popolo, i primi per quell’ apparente non li
fcollano mai dalle verità reali molto ben conofeiute da chi governa,
quando i fecondi per quell’ apparente s’ oppongono più o meno a quelle
verità reali, feonofeiute ed ignote talvolta più a chi governa, che
a chi da altrui è governato . Ma intanto quindi apparifee, come non
potrebbe dirli cofa più inlenfata di quella, che la Religione non abbia
ad aver parte nel governo de’ popoli nell’ illruire, come loà l’Impero
nel comandare, o nell’ allrignere alle verità medefime, per le quali i popoli
fon governati; Tempre ciò intefo de’ governi (inceri e reali, e non delle
fimulazioni o apparenze di ellì, contrarie elTe (lede talvolta al reai
delle cofe. Quello poi ch’è pur detto da alcuni con qualche circofpezione e
riferva, toma però a quello che con minor riferva è detto da più altri
; cioè che al governo Udrò ballino cognizioni pratiche, vale a dire
apparenti (a), e che le teoriche o reali fìa- (s)CJÌlIIji^. no del tutto
inutili . lo fon certo, che gli uomini di (lato più accorti, converran
Tempre meco, che ogni lor pratica abbia da procedere da conifpondente teorica,
e che per quella fola da quella difgiunta, gli (latifli non dovelTer
riufeire che a tanti ciechi, che lì battdTero infìeme / nel qual
cafo i popoli di elfi più faggi àvrebber ragione di lafciarli fare,
governandoli inunto da loro llelfi (è) . P t^emefle quelle conftderazioni
Tulle cognizioni urna ne reali e Tulle apparenti, per rilevare 1’ effetto
Imperfeiione della favella nel comunicarle altrui, gioverà confiderà-
dell» favella re in prima pur quella fotte un doppio afpetto, o
di dichiarare ad altri le cognizioni della prima fpeciepià ardue e
men note, o di trattenerli su quelle della fe> conda più facili, e
quai fon conofciute comunemente ; giacché in eflètto quallìvoglia ragionamento
verfa fempre su qualche foggetto, noto bensì ad ognuno per le lue
apparenze più generali ed elìerne, ma ignoto altresì comunemente per li
Tuoi principi afcolì ed interni. Siccome poi le prime cognizioni fì fon
vedute intefe a idruire, e le feconde a dilettare ciafcuni
(«)C.X7I,ff.3.che vi applicano (a); così ufficio della fa\ella fi dirà
pur doppio, o d’ iflruire altri nelle cognizioni non per anco da effi
acquilìate, o di dilettarli nelle giàacquilìate; quello molto più familiare di
quello e frequente, giacché il più confueto degli uomini è d’ intrattenerfì fra
lor per diletto, favellando di quel che fanno; e l’inllruir gli uni gli altri
di quel che quelli non fanno, par cofa riferbata alle fcuole, e da non
praticarfi fuor d’efle che con altrui fallidio, dai foli pedanti. Nientedimeno,
poiché la favella é pur dellinata a partecipare ad altri le cognizioni da
cialcuni acquiUate, e tali cognizioni dipendono da oggetti appreli e
<6) C,XlI.n.i. combinati ( A ) ; é altresì da confiderare, eh’ elfendo
3 ue(li oggetti a numero incomparabilmente maggiore elle voci, per
le quali poflfano denominarfi (r), le voci in ogni favella mancheranno bene
fpelTo, come per nominar quegli oggetti, cosi molto più Mr efprimerne le
cognizioni, e la favella a quell’ enetto rinfeirà un mezzo dubbio,
confulo e imperfetto . E invero quantunque ciafcuni oggetti in ciafeuna
favella tengano alcune voci più efprelfìve e diUinte, dette perunto \ot
proprie", ciò non fa che tali voci non pollano eziandio applicarli
ad oggetti da quelli diverli, per le quali diventan traslate, non per
altro certamente, che per la povertà appunto di clTe voci in
riguardo agli oggetti, eaU’impoinbiltà di appellar ciafcuni con
voci talmente proprie, che non pòiTan elTer d’altri . Oad’,é che una voce
medeGma dellinata cosi a più oggetti, gli cfprime Tempre con proprietà
maggiore o gap. xiv. minore, ma non mai per la fola e precifa, che
cor-' ril'ponda per la cognizione di dii. II. S’ arrese, eh’
dTendo le apprenfioni e le combinazioni d’oggetti diverfe nelle ciafeune
menti y tali combinazioni che ne
derivano, debbon pur dier per ciafeuni diverfe, e il comunicar uno agli
altri le proprie, potrà bensì edere per regolarle e confrontarle
con quelle degli altri, ma non mai perchè diventino cosi proprie d’altri,
come fon fue. All’incontro la favella è a ciafeuno comune, ed è la deda in una
deffa nazione, e quando dante la diverfità d’apprenfioni e di
combinazioni d’oggetti, le cognizioni particolari fono in altri più
chiare ed edefe, in altri più ofeure e ridrette ; le voci per cui
efprìmerfi, non fon più chia> re o copiofe per ^elli o per quedi, ma
fon le dede per tutti, e il più fciocco parlerà forfè tanto e più
ancora del più lenfato. Per la t^ual cofa la favella dovrà ognor trovarfi
inedìcace o imperfetta per efprimere le cognizioni, dovendo eda eder tanto
comune al dotto che più ne podìede, che all’ indotto che ne poffiede meno,
e dovendo necedariamente adattarfi all’ intendimento non dei più, ma dei
meno intendenti, che fono a maggior numero fra quei che l’adoprano
. A quedo modo parlando più propriamente, fi direbbero le lingue
idituite non a efprimere le cognizioni, ma a fufcitarle più o meno nelle
menti a norma dei ciafeuni intendimenti, giacché per le dede voci altri
le apprende più didinte e moltiplici, altri più limitate e confufe
. Perciocché per quanto il dotto tenti partecipar le fue all’indotto, ufando la
deda di lui favella; quedi non le concepifee mai che in relazione alle
per lui apprefe dianzi, per gli ometti dedi da lui combinati diverfamente
dall’altro. Per quedo di cento che odano un rt^ionamento, o che leggano
un libro deffo, ciafeun fe ne idruifee a norma della qualità delle
cognizioni da lui podedute e apprefe dianzi, e il dottO' K a
puù può per un libro fciocco > rettificandolo e migliorandolo per
le Tue cognizioni, farìfipiì^ dotto, <|uando l’indotto per un libro
de’oiù Irafati, può divenir più sguajatodt prima, o renderli per quella
lettura più (Iucche vote e più Impertinente, ma non già più dotto. Se ciò
non fofle, ogni difcepolo al folo udire il maedro, diverrebbe così dotto
che lui, e per divenir Capiente come il Galileo dovrebbe badare il leggere le
fue Opere, che parlando generalmente è tanto vero, quanto il pretendere di
partecipare alla fua dottrina, per adìbiarri quel fuo certo collare che
forfè fi conferva per memoria di un tanto uomo, ma non per ridampar
qued’uomoad ognun che Io adìbj. III. Per altro qui cade a
propofito di riflettere alquanto Alila diverlità delle cognizioni umane, e
Alila moltiplickà per ede e varietà, con cui procede natura nelle
Aie operazioni. Perciocché edcndo in prima le voci in ciafcuna lingua a
così gran numero, quanto è pur noto ; quedo numero moltiplica colla ferie
de’ tempi infiniti e de' luoghi finiti, efomminidra una moltitudine
innumerabile di lingue, in ciafcuna delle quali le voci lon all’ idedb
modo moltidtme . Contuttociò fe A confiderino le maniere, colie quali
quede voci prefe a numero maggiore e minore fogliono combinard e permutarA
in una favella, A conofcerà, tali combinazioni e permute collocate
pur con fenfo e difcemimento, edere a numero incomparabilmente fuperiore a
quello delle voci in eda, ed eder in tutte le lingue a tanto più ancora,
quanto imfwrti quedo gran numero di pennute e ' ' di combinazioni in una
lingua, moltiplicato nel numero delle lingue di tutti i luoghi e di tutti i
tempi Padando poi dalle voci e combinazioni loro, agli oggetti ocmbinati per
ede efpredt, e alle maniere di cognizioni che ne derivano ; A conofcerà, la
moltitudine di tutto quedo edere incomparabilmente ancor fuperiore a quella
delie combinazioni di voci, e tantoAiperiore in ciafcuna lingua, quanto per
ciafcuna combinazione di voci in efla ciafcun apprende e combi- c AP.
XIV. na gli oggetti fiedì difl'erentemente, e ne forma diverfe le
cognizioni, proferendole iftelTamente . Tantopià poi fuperiore in tutte le
lingue, quanto quel numero di cognizioni diverfe in ciafcuno di diverfa lingua,
moltiplicato pure nel numero delle lingue tutte diverfe palTate, prefenti,
e future . Quello poi che reca maggior forprefa egli è, che tutta quella prima
prodigiofa quantità di voci e combinazioni loro, non deriva da più, che da
venti elementi o lettere d’ alfabeto, più o meno pronunziate in ogni lingua . E
che queda feconda tanto più prodigiofa e incredibile quantità di
apprenfloni e di combinazioni d’oggetti, e di cognizioni su e(Tì, non
deriva che da alcune leggi di moto quanto più femplici e vere, tanto più
uniche e fole, giacché tutte le apprenfioni e cognizioni umane, per
quanto fiano individualmente diverfe in ciafcuno, pur fono in tutti confimili
(a). Tutta poi («) C. II. mi.. codeda varietà e fbmiglianza di cofe è
unita e concatenata infìeme, e procede e fi confegue con certoordine e ragione
eterna e immutabile, lenza la quale {^un comprende nulla poter avvenire,
e a comprendere la quale ognun conofce in sè dedb, poter edenderfi
ben per poco la umana capacità, colla fcorta di fenfi infermie fallaci.
Niente di meno in quedo dedo natura non manca, giacché dal minimo faggio
che di ciò fi trafpira, può altresì ognuno arguire, quanta e quale fiala
pofTanza e la fapienza del fupremo autore di tutto quedo, e quanto
ammirando l’ordine e il raagidero „ con ch’ei governa e regola
l’univerfo. U NA affai curiofa confeguenza che dalle cofe Aid- CAP.
XV. dette fi viene a dedurre è queda, che l’ imper-
ImMrfezione lezione accennata delle lingue, per cui le voci riefcono
dell» favella a numero molto minore di quello degli oggetti per
dell effe efpredi, par che torni non già a diffctto come fi.
crederebbe a prima vida, ma a perfezione ed eleganza di quelle maggiore, in
quanto non avendovi cosi nefTune voci talmente proprie e attaccate
adalcu* ni oggetti, che non poiTano applicarfì anco ad altri ; gli
oggetti tiefli polTono efprimerri, o dedarfene le immagini negl’ intelletti,
non folo per voci dirette, ma per fHÙ altre ancora indirette chiamate
traslate come (a)CJCIF.n.ì. s’è veduto (<»), d’t^getti a quelli
analoghi e confimili. A quello modo lebbene manchino nelle lingue le voci
dell’ ultima precisone alle immagini degli oggetti determinate, foprabbondano
per le indeterminate, e in mancanza e neU’impofTibiltà di adoperare per
ciafeuna immagine ciafeuna voce diverfa, le ne adoprano non una, ma più e più
altre d’ oggetti a quelk affini e confimili, per le quali non una, ma più
immagini fìmilmente occorrono all’ intelletto pur fra sè confimili e
combinabili, ciò che Tuoi avvenire con molto diletto e foddisfazione
dell’ intelletto medefimo. Cosi appellandofi DIO ottimo e grandiffimo,
non folo per quello venerando più proprio fuo nome, ma per altri
ancora traslati di via, di verità, di vita e fimili, fi dellan nell’ animo
tutte le immagini proprie e bro affini, polTibili più o meno a dellarfi
per quelle ciafeune voci, a mifura dell’attività dell’animo Udrò,
onde figurar alla mente con più efficacia e grandezza r idea di quella
ineUàbile elTenza . E generalmente laddove fe ciafeuna voce propria
corrifpondellè efattamente a ciafeuna immagine a efclufione di tutt’
altre voci, da dieci voci proprie per efempio, non fi deUerebber nell’
animo che altrettante - immagini combinabili in alcuni modi; corrifpondendo
quelle nonefattamente e non a efclufione di altre, vi fi dellan per dieci
voci proprie e più altre traslate, pur altrettante immagini combinabili in
nioltifiime più altre maniere . II. Su quella condizion delle
lingue, o fu quello difetto in effe di vocaboli per efprimer gli oggetti,
è pollo tutto i! pregio deli’ eloquenza, e da ciò derivano tutte le
perfezioni e tutti gl’ incantcTimi dell’ arte c AP. XV. oratoria, e più
della poetica; vaie a dire non folo i traslati, ma le allegorie ancora
> le allulioni, le parabole, le (imiiitudini, le analogie, le efagerazioni,
il palTaggio dal proprio al metaforico, dal ferio al gio<cofo, dall’
animato all’inanimato, e fimili ornamenti che fan la grazia, la forza, e
la bellezza eh’ è invero delle immagini dedate e .combinate nell’
intelletto, ma che in eflb non fi dellerebbero e combinerebbero,
fei termini nelle lingue coi quali efprimer gli ometti, foffer tanti
quanti eflì . Perciocché dall’ dfer folo quelli a molto meno, ne avviene
che non fiano quelli cosi propr) di alcuni oggetti, che non polTanu
eziandio trasferirfi ad altri, per li quali con numero d’ immagini
maggiore, certe verità intefe afignificarfi, fi rapprefentino all’ intelletto
con più di vivacità e di va* ghezza . Egli è ben vero che affinché ciò
riefea felicemente è d' uopo, che tali traslati feguano con certa fcelta
e giudicio, fenza di che tutti gli ornamenti rettorici e poetici non avrebbero
fenfo; e non confidendo edéttivamente l’ infenfatezza che nella combinazione
d’oggetti fatta fenza dilcernimento (<;), fe le voci («)C.7. ». a,
proprie fofler applicate ad oggetti trasìati pure fenza difeernimento ed
a cafo, non potrebbe quindi derivare che ofeurità e confufìone . Laonde i
traslati nelle lingue per quanto pur fian difparati, debbono
ferbare certa conneffione e mifura, per la quale fian conofeiuti fimili e
relativi agli oggetti lor propr), fenza di che chi fi credefle il più
l'ublime nell'eloquenza, potrebbe edere il più proffimo alla fatuità, e
dalle immajgini più ardite e più ingegnofe di Pindaro, lì potrebbe Korrere
con breve pafso alle più infenfate aisurdicà d’ un vifionario. Quefta
.condizione non è della fola rettorica e poetica, ma di tutte le bell’ arti
ancor cosi dette, e di tuue le opere di entufiafmo, nelle quali il più
fublime delirio confiru infcnlìbilmente col più Urano ridicolo, e il pittore e
il mufico più eccellente neirarte fua, con un pafso più oltre trafcende il
giudicio, e diventa una Aia caricatura di piazza, nella quale pur
procedendo per gradi, può toccarfi l’eftre* mo, fino all’efser condotto
allo fjpedale qual pazzo di* chiarato . Ch’ è la ragione, per cui
comunemente ancor fu odervato, ogni pazzo tener un non fo che di poeta,
di mufico o di pittore, fìccome ciafeun diqueAi, tener talvolta in lor virtù
qualche irregolarità, che li denota prodimi alla pazzia. HI.
Per altro quedo diletto che così apporta la favella, col trafportar
l’intelletto dal projprio al figurato degli oggetti, fa conofeere che l’
imperfezione e la incapacità conofeiura in efsa difopra («), per partecipa». 1.
2. re altrui le proprie cognizioni, dee edere intefa in riguardo principalmente
alle reali, per le quali reda la mente idrutta, e non già in riguardo
alle apparenti, per le quali fuol eda dilettare {b). E in vero i traslati,
le analogie, e gli altri ornamenti rettorici fuddetti, convengono molto bene
alle cognizioni di quedo fecondo genere, per eder ede note comunemente,
onde giovar rapprel'entarlc altrui con pluralità d’ immagini, che imprimendole
nelle menti con più di novità, producano quel diletto . Laddove per
efprimere le cognizioni del primo genere più afeofe e men conolciute,
ognun vede edere necedario valerfi di termini più propr) e precifi per quanto è
podibile, e che r uiare i traslati non farebbe che od'ufcar quelle cognizioni
maggiormente, e renderle a chi n’ è privo più ofeure ancora ed ignote. Ed
è vero che per quedo fecondo edètto, le voci proprie mancano bene fpeA fo,
quando per quel primo le traslate non mancati giammai . A quedo modo
parlando più propriamente, {e)C.XIV.n,2. « didinguendo la favella
dall’eloquenza, fi dirà, che ficcome quella è imperfetta, cosi queda è
nociva finché fi tratti di verità reali, o d’ idruir altri di quel
che non fanno. Ma che trattandofi di fole verità fupcrficiali e apparenti,
conofeiute comunque da tutti, quella favella dovelTe eflere un’ arte non folo
ini- c A P. XV. perfetta, ma ancora nojofa, quando non fofle
foccorfa dall’eloquenza, la quale con rinovar alle menti quelle
verità coli qualche varietà d’immagini, riefcille così a dilettarle per
elle • Quella attività maggiore della favella per le cognizioni fuperficiali
più conofciute, che per le reali men conofciute, perchè aHìdita dall’ eloquenza,
fa che lepcrfone più applicate alle verità reali lian parche di parole
ne’ familiari difcorfi, che d’ordinario non fon che ferie confecutive
d’immagini conofciute, e rapprefentate altrui colla favella fenza efame,
e fenza conneflìone dimodrativa per effe ; al contrario delle perfone
contente della • cognizione più volgar delle cofe, le quali fon
copiofiffìme di parole, e parlan rapidamente di tutto . Le donne in
particolare, men atte per la delicatezza e debolezza de’ loro organi a
penetrar nelle verità men comuni, fe non fon frenate dalla modeffia, che
di quella debolezza è il compenfo più caro e gradito, favellan delie più
comuni con più diff'ufìone eprontezza degli uomini, più robuffi di
tempera, e più (ermi dipenfamento. Vero è che per quello lleffo parlando
generalmente, i menrillelHvi c più loquaci dilettan più quando
illruiì'con meno, a differenza de’ più taciturni eritìeffìvi, chediJettan
meno quando più illruifcono . £ che i gran parlatori di verità apparenti,
lafciano per lo più i loro uditori muti e llorditi, quando i parchi
dicitori di verità reali, lafciano i loro più fereni di mente, e migliori
ragionatori di prima . IV. Per comprovare che l’eloquenza nella
favella fia intefa non già a illruire, ma a fol dilettare, gioverà
ancora avvertire, che una delle condizioni principali, per le quali
piùeffa rifalta, è quella dell’accento, del numero, della inflellìone
tenue o piena, grave o dolce, affrettata o fofpefa nelle voci, per le quali fi
porti effa all’ udito, cofa più efpreiramente praticata nella
poefia, ma che fi llende a ogni genere di eloquenza, L per
Eloquenza come nociva alle cognizioni reali. C.XF.n.i.
LXXXII ^5 per cui il periodo giunga air udito piùfonoro, quali
a guifa di canto. Tutto quello certamente non è diretto che a dilettar
l’udito, percuotendolo con vibrazioni d’aria pìd regolari; e perchè le
l'enfazioni della favella qualunque fieno, dall’ organo dell’ udito
paUàno all’intelletto; quindi è che quello Hello per quelle sensazioni a
lui tramandate, nerella dilettato al modo medelimo, prefeindendo da cognizioni
di qualunque genere, e non rellando cosi più illrutto delle cole, di quel
che ne redi l’orecchio materiale. Ognun vede quanto per quello capo
rellino pregiudicate le umane cognizioni, per Tabulo allora così evidente della
favella, la qual dellinata a illruire, o a pur dilettare T
intelletto colle cognizioni reali, o almeno apparenti delle cofe,
s* arrclla all’ udito per follcticarlo con percuflìoni più rodo grate che
ingrate, e non tramanda alT intelletto che il diletto elimero che da tal
folletico ne deriva; quali deludendolo con prefentargli per cognizioni
quelle, che per veritù non fon tali. Certo è che T armonia mu(leale,
dipendente da confonanze di fuoni uditi, è diverl'a dalla intellettuale,
dipendente da confonanze d’ oggetti e di cofe intefe, perciocché podbno
efprimerfi con verfi canori i più alti drambezzi, ficcome podbno
efprimerfi con afpro fuono di voci le verità più reali, non che le
apparenti ; ed io conofeo un gran filolbfo che canta aliai male, come ò
conofeiuto un celebre violinilla, che ragionava molto male del fuo
violino. P oiché come s’è veduto (a), le cognizioni reali ed
interne non elìgono eloquenza, ed è queda ferbata per le apparenti cd ederne,
chiara cofa è che il più che prevarrà nelle nazioni e nello fpirito del
fecolo T eloquenza, il più prevarranno quelle cognizioni, prevalendo men
quelle. Perciocché per quanto l’intelletto umano fia capace ed attivo, e
forpadì per cognizioni Tua l’altro, eiTcndo non per tanto eì Tempre limitato e
finito, non potrà quell’ attività niedefima pii c AP. XVI. adoprarfi
falle cognizioni più trafcurate a tutti comuni eh’ efigono eloquenza, fenza
flenderfi meno Tulle rifervate a pochi che non la efigono, attenuandofi
cosi in tutti le cognizioni reali, quanto più lo fiudio dell’
eloquenza, che non può occuparfi che Tulle apparenti, farà coltivato ed
efiefo . Si Ta che chi inclina al diletto più comune, sfugge l’iftruzion men
comune, e viceverfa fimilmente; e per regola generale ^ gli applicati
all’ une e all’ altre cognizioni, tanto più riefeono in ciafeune, quanto
men fi (iendono ad altre, e ognun che fi flenda a più generi di
cognizioni, riefee in ciafeuno più leggiero e più fuperficiale . L’ elTer poi
gli uomini in generale, non fol più inclinati a cognizioni apparenti
perchè più facili, che a reali perchè più difficili, ma dcfiderofi
eziandio di renderfi per cognizioni accetti a maggior numero d’ altri, fa che
inclinino altresì facilmente allo fiudio dell’eloquenza, proprio di quelle, e
non di quelle cognizioni > Onci’ è che fcbbtne le lingue fian
dellinate a iflruire e a dilettare, lo fiudio e l’ufo più frequente d’ efle
fia in riguardo più a quello fecondo, che a quel primo ufficio,
affine d’elT'er uno cosi per efle intelò, approvato e applaudito da maggior
numero di perfone, rellando intanto per la molta eloquenza più
riputate ed eltcfe le cognizioni apparenti,, e le reali più trafcurate e
neglette .. II. Qui cade a propofito di oflervare, che fe le cognizioni
fra gli uomini fembrano a’ nollri giorni più avanzate che ad altri, e fi
reputan eflì p«ù illuminati e più. iflrutti delle cofe di quel che
foflero i loro antenati, ciò non potrebbe accordarft che in riguardo alle
cognizioni apparenti, giacché una fimite riputa- zione ridonda inelTì
dalla facilità maggiore, colla qual fi ragiona da tutti d’arti e di
feienze, e dalia molti- plicità de’ libri che feorrono dappertutto fu
ogni gene- re di cognizione, tanto più comuni a tutti, quanto>
L z più adorni de’ pregi dell' eloquenza. Quefto giudicar però le
cognizioni più avanzate, perchè più comuni e perchè più facili, indica
abbalianza eflb fteflb, non poter tali cognizioni elTer dunque che le
apparenti, che in effetto fon tali ; laddove le reali, per la
diffi- cile aerazione daifenfi, eia infiftenza maggiore richic- fta
nell’ acquiftarle, non è poffibile che lian facili o fian comuni {a). Il
pretender poi per iftudio d’ elo- cuzione o per meccanifmo di parole, di
render facile e comune ciò che per sò è difficile e non comune, o
d’ inclinar gli uomini generalmente più alla fatica di apprendere il reai
delle cofe, che al diletto di tratte- nerfi full’ apparente, farà fempre
difperato configlio, ad onta di quanti Dizionari, Giornali, Compendi
o altri repertori poffan formarfi di cognizioni qualunque fieno, e
che fembrino facilitarle . Di ciò par che con- vengano gli fieffi autori
de’ libri letti il più comune- mente, quando dichiarano di fcriverli per
dilettare, divertire, eamufe(ire^ come direbbero, tutto il mondo,
di maniera ch’ei lembri, che ognun di quelli dovefle quafi recarfi a
vile, di fcrivere per iftruir feriamente lol pochi, nelle verità reali ed
interne. Con ciò fi di- rebbe, che tanta follecitudine fra noi di
applicar tut- ti a tutte le cofe non folle intefa, che a meglio
elu- derfi gli uni gli altri per apparenze, e che dovendo le verità
reali rimaner tanto addietro, quanto le ap- (,b)CJCVI.n.t. parenti
procedeffero innanzi ( 4 ) ; per effer dunque quello fecolo d’ ogni altro
il più adorno per cogni- zioni apparenti, doveffe trovarli ( fia detto
per mo- dellia ), il più fcempiato d’ogni altro per cognizioni
reali . Comunque fiafi, nelTun negherà che llante l’inclinazione comune al
diletto, non potendo le verità reali eller comuni (c), lo lludio dell’
eloquenza, col render le apparenti più diffufe e più riputate, noti
efcluda maggiormente di infra gli uomini le reali, e che ogni eloquenza
così adoprata per diffonder le verità in genere, lungi dall’ ottenere di
ftender la più reale, c A P. xVT non ottenga al contrario di llenderla
meno, per non adoprarfì quella che l'ulla verità apparente più
comu- ne, a elclulione della men comune e reale, che non elige
eloquenza. Lafcio conliderare, fe fia perciò (a'ìC.XVI.v.i. che folle
creduto, le verità più venerabili e più arca- ne di religione, la cui
cognizione reale può certamen- te tanto meno clièr comune al popolo,
doverli ad elio annunciare con lingua a lui ignota, e da lui più
ri- fpettata che intela . Certo è, le religioni ancora più
materiali antiche, eirerli cipolle al popolo fra le nazio- ni riputate
più laggie con liinboli, hgure ed emble- mi, c non mai con elprelfioni
verbali ; per elFerlì 'ognor giudicate le verità d’clfe qualiunque
follerò, tan- to più venerande, quanto più ineH'abili, e non con
vo- ci eiprimibili . Ma parlando pure di verità femplici naturali,
che 1’ eloquenza col lublimar le apparenti tenda ad allontanar le reali,
lì troverà verificato trop- po ancora per pratica ; e chi poflìede l’arte
d’inten- dere, non potrà certamente a meno di non farli un tri- llo
Ipettacolo, diveder come alcuni polFedendo eminen- temente l’arte del
dire, riconvochino IpelTo intorno gran turbe di popolo nobile e ignobile,
e prevalendofi della comun debolezza bro e pigrizia per le cognizioni
reali, li traggan l'eco perle più fuperfìciali e apparen- ti, non
lapciido elfi Itelli ove abbian a riulcire . Per- ciocché l'oratore,
adulatore fempre e lulìnghiero, rap- prelentando almo uditore credulo
fempre e vano l’ap- parente, come le folle indubitatamente reale, lo
confer- ma bensì nel vero quando ei lìa tale, ciò che avvien rare
volte, ma Io conferma altresì e indura nel falfo ? quand’ei noi
lìa, il che avviene più fpelfo, fenzache né lui, nè la ciurma de’ Tuoi
uditori aguifa di pecore, fappiano lo perchè, o lo come. IV.
Per altro quel che s’è detto finora delle cogni- zioni apparenti, non fia
già creduto clferfi detto pec difanimarle, o avvilirle del tutto . Ma fi
creda detto fol-,'^o*t3nto per avvertire, di noa prender in effe
per rea- le quel che folle folo apparente, e perchè non s’attri*
bulica tanto a quello eh’ elìge eloquenza, quanto a la* feiar del tutto
da banda quella che non la elìge. Dall' altra parte egli è poi vero, che
non potendo le co> gnizioni reali effer comuni, giova che per
occupazio- ne almeno, per commercio di vita, e per diletto ap-
punto comune, tali fian le apparenti, pur che ciò av- venga in modo, che
non s’ oppongano alle reali, ma che dipendano Tempre quelle da quelle . £
in vero quel che s’ è detto de’ collumi, ch’cffendo diverli poHono
non- dimeno aver luogo lenza implicanza, ed effer utili a tutti
purché non fiano centrar) (a); Io Hello dee ap- plicarft alle cognizioni
umane, che eilendo apparenti poflono illeffamente non effer implicanti,
nel qualcafo . non fono alle reali contrarie, ma fi concilian con
ef- (é)C.A//jf. 3 . e fupplifcono a quelle (é). 11 diltinguer poi
quan- do r apparente difeordi, e quando concordi col reale in
genere di cognizioni, dipende dalle cognizioni ap- punto reali, o apprefe
per fe medefime e per teoria, allraendo da illufioni di fenfi ; cofa che
non può ap- partenere al comune degli uomini incapace di tali
allra- zioni, e Iblito verificar le fue cognizioni per fola pra-
tica confecutiva de’ fatti, bene fpeffo ingannevole ; ma dee appartenere
a pochi fra tutti piò faggi, e più il- luminati degli altri. Quelli s’è
già avvertito dover ef- fer quelli che agli altri prelìeduno, fia colla
perfuafio- ne della Religione, fia colla forza del Principato ( 0
C.A///.b, 4 ._( f j dellinati perciò all’ ufficio di giudicare quali fra
tutte le verità apparenti, per le quali fi conducon gli ailàri comuni,
concordino colle verità reali, e quali da effe difeordino, o fiano a
quelle contrarie.. £ ve- ramente che un fimil giudicio o una fimile
cogni- zione abbia ad appartenere, e poffa convenire del pari, non
folo al nobile e al manovale, o al citta- dino e al rifuggiate, ma al
chierico ancora che iflrui- £ce, e al cialtrone che dee effere iflruito,
o al Ma giflraciftrato che comanda, e al fuddito che dee obbedirlo,ó
quella un’ aperta impitcanza, malTime quando già tutti convengono, chegli
uomini generalmente fon più fpenfierati che riflelTivi, e che le
cognizioni reali fon riferbate ai foli più rifleinvi . Ora piacemi
ancora olfervare, che quell’ clTer le cognizioni reali note per sè ftelTe
a fol pochi, e quello dover perciò tutti rcllar a quei pochi fubordinati,
non fa torto ad alcuno, e non è che per quello flanatura cogli uomini parziale
od ingiuHa. Imperciocché non è già elTa, che concedendo le cognizioni
reali ad alcuni, le ricufì a tutti gli altri ; ma fon gli uomini
flein, che inclinando più al facile che al dilhcile, lì lafcian condurre
da illufìoni de’fenfi a proprio favore, anziché da rifledione, per cui
conofcere fe le cognizioni che quindi loro derivano, fiano reali, adraendo ancora
dai fenfi . E quella fubordinazione non fi rende neceflaria, che per
fecondare codeda loro inclinazione più geniale al facile, e per
follevarli da quella più difficile riflelfione . Sol che gli uomini tutti s’
accordino d’elfere riHclfivi, ogni fubordinazione ceflerebbe fra loro,
tutti fi governerebbero da sè per cognizioni reali, nè v’ avrebbe d’ uopo di
chi li govcrnafle per quelle. Ma efl'endo quello impolfibile, per la
propenl'ione comune più aldiletto delle cognizioni apparenti, che all’
illruzione delle reali, come s’ é replicato più volte; e dovendo pur
eglino governarfi per cognizioni reali, quando voglian fulTillere infieme
; egli è dunque forza che alcuni almeno fra edì aduman le veci di
tutti, o fupplifcano al loro dilètto, prefìedendo al governo degli altri, con
quella verità reale, che altri ricufan di darfi la pena di didinguere e d’
invedigar per sé dedì. Vero é però, che perla propcnfione lleffa
invincibile e comune all’apparente e al facile, quella verità mcdellma non può
poi produrli al popolo da chi governa che per l’apparente, ciò che può
avvenire lènza implicanza, per edere ogni apparente alrea Digitized by
Google CAP. XVI. {a)C.XU.n,i. Dell' eloquenza
fulle cognizioni apparenti . (0 C.XKn.^. -5^
LXXXVIII le conforme, quando non fia a quello contrario:
Dimanierachè il fiflema d’ ogni nazione fia quello, che le verità reali
fi propongano per le apparenti non a quelle contrarie, e per tali
conofciute e difiinte da un governo, procedendo così tutti gli affari per
apparenze, con ficurtà di non opporfi per quefìe al rcal delle cole,
mercè l’intelligenza fuperiore di chi a tutti prefiede. Se in un fimil governo
la perfuafione eia forza faran libere e indipendenti, il governo farà giufio
e fenfato, e la nazione libera e tranquilla ( giacche quelle due facoltà nella
condizione umana debbon pure dilìinguerfi ( A ), e o bene o male fi
difìinguono dappertutto ). Se faran le due facoltà confufe in una,
o una minilira e non compagna dell’altra, farà il governo fimulato e difpotico,
e la nazione inquieta ed opprelfa. Il tutto non per difetto di natura, ma
degli uomini e de’ governi fleffi in particolare, che anzi eh’ effer
liberi e tranquilli, amaffero elfer opprcflì e agitati. Sempre però Ila,
che la fubordinazione a un governo fia per fc flcffa non un dilòrdine, ma
un ordine anzi faggio e ammirando, per cui 1’ umana fiacchezza fi
alìolve dall’ applicare a quelle verità reali, che fofier per eflà faticofe ad
apprenderli, e fi concede ad ognuno di abbandnnarfi ancora alle apparenze e al
diletto Hello de’ lenii, purché ciò fia in conformità alle regole, calle leggi
llabilite e preferitteda un governo, che per la fuperiorità de' fuoi lumi,
e per fenno e fapienza fia più illrutto degli altri, nel difeerner
quale apparente fia al reale conforme, e quale fia ad elio contrario.
C Olfellerli dichiarato di fopra, di dover l’eloquenza verfare fulle
cognizioni più comuni (c), non s’è perciò intefo di degradarla in modo,
che abbiano gli oratori, e i poeti a confonderli per fapere colvolgar
della plebe . All’ incontro fi sa, dover efli molto bene dilìinguerfi per
cognizioni dal volgo, e laco/ pia pii di cognizioni, e lo ftudio degli
oggetti su i quali ftenderfi la loro eloquenza, dover precedere l'eloquenza
medefìma, fenza di che non farebbe poflibile dilettare per ella, e non
favellando l’oratore al fuo uditore che di ciotole e di pianelle, anziché
diletto, non potrebbe recargli che noja e faftidio . L’oratore dunque dee
più del fuo uditore elTere iihutto e ricco di cognizioni, per ornarle
pofcia coi fregi dell’arte fua, e fì; li dice tali cognizioni dover efler
comuni, ciò non può verifìcarlì che in quanto abbian elle ad elTere delle
più apparenti, e delle più facili a concepirli da Mnuno . Ciò conviene
con quanto s’ è avvertito pur mpra ( ), di ftar la giuHa cognizion delle
cofe in certo punto di mezzo, innanzi e oltre al quale fìa vano il
cercarla, come che quinci e quindi ha polla r ignoranza di elTa ; col
folo divario d’ efler dalf una parte la ignobile, propria degl’ idioti e
del popolo più rozzo i e dall’ altra la ignoranza nobile, propria
delle perfone più colte . A quello modo fi dirà, l’oratore e ri poeta rare
volte comunicar di cognizioni e d’immagini col popolo più ignobile al di
qua di quel punto, e folo trattenerli quivi con quello ne’ foggettì
più comici, burlefchi, o latirici; e qualor s’alzi colla tromba più fonora a
celebrar eroi, o a trattar argomenti gravi e fublimi, allor fi dirà lui
trafcender quel punto, e confarfi col p<^lo più nobile e più ri S
utato . Ma intanto fempre Ila, che al giullo punto i mezzo, al quale
s’arrellano le cognizioni reali, ei rare volte o non mai fi foflèrrni,
per^ l’ inutilità dell’ arte fua qualor lì tratti di verità reali,
fuperiori a ornamenti rettorici e poetici, atti più tollo a ofcurarle (c),
quando fulle fuperliciali e apparenti quell’arte fa di sé prova e pompa
maggiore. II. L’ufo delle efagerazioni, de? traslati, delle allegorie,
e rimili figure proprie della fola oratoria e poetica, fan conofeere tutto
quello, e come tali articoli’ amplificare o ellenuaie gli <^etti, fi
trattengano fotto quel punto o lo formontino ; mentre quantunque le
c(^nizioni Tulle quali verfano, ogii argomenti de’ quali trattano, fiano
agli uditori men noti; pure per efler quelle cognizioni fuperficiali e
apparenti, e in conleguenza facili ad apprenderfi dall’ uno e dall’
altro popolo, polTono da quello elTer apprefe nell’ atto lieflo di
ellerne ei dilettato . Con ciò fi direbbe, che il partito degli oratori e
de’ poeti in ordine al vero, foffe quello dei difperati, i quali diffidando di
sè fteffi per aflegnarlo al giullo Tuo punto, fcegliellero più to*
Ito di raggirarvifi intorno inocrtamente, e di quafi controillruire per più
dilettare con varietà d’ immagini facili, ma tirane e TpetTo implicanti,
nell’ incapacità conofciuta d’ iltruire colle piu difficili c più
veraci. Quindi ebber luogo quei tanti poemi su paffioni ed azioni
oltre il credibile. Le donne, i cavalier, F ar~ mi, gli amori, e quei
tanti ftrambezzi fugli eroi là* volofi e Tuli’ antica mitologia, i quali
dilettan molto più di quei che verfano su argomenti filofolici e
mo* rali, Alila vera religione, e su azioni deferitte quai fon
accadute precifamente, che non diletterebbero più di un procelfo civile o
criminale, cfpolio a un auditor di rota . E ciò fol perchè in quel cafo
può la mente fvagare dappertutto a Tuo talento, quando in quello
elTa è allretta a hllarfi ad un punto, e a Aarvi confìtta come ad un chiodo ;
elfendo d’altronde imponibile di fupplire ad un tempo llelTo a due oggetti,
dì dilettare e d’ iAruire precifamente, o fupplendofi almen meglio ad un
folo di quelli oggetti, che infieme (fl)C«yf7.».i.ad entrambi (a ).
Per quello ftelTo le rapprefentazioni maffime teatrali, tantopiùfogliono
dilettare, quanto più dal vero, o dal verifìmile ancor di natura, trafeendono
all’ implicante od al falfo dell’ immaginario, brillando Tempre il
diletto a fpefe dell’ iAruzione migliore; tanto è quello comunemente diverloda
queAa, e tanto 1’ eloquenza e 1’ altre arti analoghe ad elfa, c
compagne del diletto più comune, sfuggono l’iAru zion XCI
xion più feverj c meno comune. Chi trova indecente cAP. XVII. che
Temiftode canti andando a morte, non bada che a queda Uhuzione, che non
trafcende il vero ed èbeti di pochi ; ma fol ch’ei badi a quel diletto,
che tra* Icende il vero ed è di molciffimi, troverà quel canto
adattato all’azione, e piagnerà ad eflb, purché fia preparato a dovere
(<»), e accompagnato da quel de- («)C.Arr.».r. bile che richiede
l’azione medefima. ^ III. Ma infomma generalmente, chi riprende i
poeti per la futilità degli argomenti, ai quali d’ordinario e’
s’appigliano, e per la fallacia delle cognizióni che inOnuan per edi, non
bada a quedo, d’eifere il hne Principal loro quello di dilettare e non
d’idruire, e di dilettare non i più dotti, ma il comune del popolo
che non è dotto (fr)', e che parlando generalmente, C.XVI.n.i ceflTan
eglino di dilettare, todochè prendono a idruire . Le allufioni certamente, le
immagini, i traslatì fuddetti, proprj e neceflarj dell’ arte loro,
occorrono alla mente a numero incomparabilmente maggiore per le
cognizioni più facili al volgo note, che per l’efat* te e didicili
riferbate ai più dotti, per le quali non è così agevole padare dal
proprio e precifo al metaforico e figurato . Cosi la Luna per efèmpio,
concepita per le immagini più facili che ne dànno le antiche favole, non
che col nafoecolla bocca Come fugli almanacchi, dà motivo a mille allufioni e
figure, che non darebbe apprefa per lo reale de’ fuoi monti,
edellefue ombre nel fidema planetario ; e finché il popolo la
concepirà più facilmente al primo che al fecondo modo, il poeta canterà, e avrà
ragion di cantare con più dolcezza del nafo della Luna, che de' fuoi
monti. Gli occhi ideflamentc, cofa la più conofeiuta e più triviale,
apprefi per le cognizioni di effi più volgari e comuni, fomminidrano alla
mente mille immagini, ond’ effer chiamati luci leggiadre, vezzofi rai,
fiammell» vivaci, lucide delle, pupille ferene, drali omicidi, faci
gemelle, adii d’ amore, che non fomminidrerebbcro apprefi per l’ irruzione d’
effi più efatta, o per le dottrine ottiche e anatomiche migliori, ma
men conofciute. Anzi s’olfervi di più, come da ciò procede, che
l’oratoria, la poetica, e l’ altre arti dilettevoli non foffron nemmeno regole
iflruttive, per eflcr tai regole ellratte dalla ragione più elàtta per
cui appunto s’iftruHca, quando quell’ arti per illituto principale, debbono
traCcender quello reale, per dilettare («ICJl^'il.n.i.coll’apparente {a).
Quindi avvien bene rpelTo che un’ orazione, un poema, un’ azione teatrale
dettata fecondo tutti i precetti che ne dànno Longino, Aridotele, Orazio, o
Gravina, dilTecca nondimeno l’anima, e fa sbadigliare, quando un’altea
fenza quelle regole, ma ornata più di drane apparenze, attrae tutto il popolo
fìa noÙie o ignobile, il quale feguace del diletto, fchiva ogni idruzione
per eflo, e prevenuto anzi per lo mirabile falfo e apparente, che per lo
vero naturale e verifimile ancora, non intende precetti, per cui
fìa qnello confinato e ridretto ; giudicando di quel che ode e vede,
per le ragioni fuperficiali pur vedute ed udite, e non per le interne che
non vede, e che non potrebbe vedere che prefeindendo dai fenfì, di che
il popolo ( e il fod'ra Aridotele ), non farà mai capace CJCll.n.i.
{à ). Quedo preferirfì poi per l’oratoria fempre l’apparente al reale,
non può negarfì che non torni in abufo, il quale però faria tollerabile
finch’ei fi reftrignede al divertimento appunto teatrale, e all’ozio
delle corti e delle accademie, fenza perciò opporli al U)CJOI.n,j.
medefìmo, com’è pur podibile (r). Ma il fatto è, che bene fpeflb ei li
dende ancor filila condotta degli affari più fer), ne’ quai l’ eloquenza
col folfermarfì più full’ apparente, fa più perder di vida il reale di
edi, con altrui dainno e feiagura ; come apparifee ki pratica per più
(inceri uomini e dabbene, fopradàtti e delufì ne’ loro intereffì da chi per
fola facondia, e per artificio di ragionare vai più di loro . E il
peggio è an Digitized by Google -5^ xeni
^ è ancora, che dagli affari particolari, l’ abufo medefimo
s’ inoltra facilmente ai comuni cosi detti di governo, ne’ quali per
l’adulazione, la lufinga, e la fimulazione che più o meno indifpenfabilmente v’
àn luogo, l’arte del dire è ancor più accetta che altrove . C^d’è, che
Aiblimando quella più le verità apparenti, mette più a rifehio d’ allontanarfi
e d’obbliar le rnli . Su quelle conliderazioni farebbe a riflettere,
fe giovi a’ di nollri tanto animare e apprezzar l’eloquenza su i
tribunali e nei fori, o fe anzi oltre al dovere non fi trovi effa
incoraggita e apprezzata. Certo è, che febbene gli affari comuni abbiano
a condurfi per cognizioni apparenti ; nientedimeno ciò dee feguire fenza
fcollarfi dalle reali ( é ), come s’ è ridetto più voi-’ te, e ciò per
imitar per quanto è poflìbile la natura, che falciando difputar gli uomini,
accarezzarfi e idolatrarfi fra loro, regola il tutto per lo reale
fenza profferir mai parola . Se poi chi pretendeffe governar altri
fenza render ragione del fuo governo, come ufa natura, farebbe un uomo
affai vano ; il farebbe non men certamente chi pretendeffe governarli per
fola copia, ed eleganza di voci. Quei medefimi che fi reputan più valere per
eloquenza ne’congrelfi, e ne’ parlamenti, converranno di quelle verità, fe
l’arte del dire è in lor pari al buon lenfo ; e accorderanno non
meno, che quegli oggetti grandiofi di profperità, di felicità, di potenza
pubblica, che si fpeffo dai rollri amplificano all’orecchio del popolo,
non fon poi tali quai da lor ir promettono, o almen ne dubitan ellt
nelfi, e ne rellan in gran parte fofpefi . Dall’ altra parte, le repubbliche
antiche non furono mai più feoncertate, che a’ tempi dell’ eloquenza più
fublime di Demollene e di Cicerone, quafichè fi governaffero allora per
cognizioni più popolari e apparenti, che per vere e reali, per le quali
quelle repubbliche fi farebber per avventura meglio follenute, come a tempi
dei parco Licurgo, e del religiolb Numa. C-»5C. XHI. r. 4
. (J>)C.XVl.n.ì. Fi 1TInora ei pare che non fi fia
ragionato di doquenDeir elo- XT za, che affine di fcreditarla, e di renderla
fra gli quen» filile uomini odiofa, proverbiandola come inutile, vana,
cogaizioDire-pregiudiciale, inhdiofa, e nociva alla miglior condot* *• ta de’
privati e de’pubÙici affari. Perchè però non fia creduto, efferfi
di cosi mal umore contr’ efla, quanto a volerla del tutto sbandita dalle
nazioni, è da avvtrtirfi, non efferfi cosi favellato dell’ eloquenza, che
in quanto fuoleffa verfare fulle cognizioni apparenti e fai* laci,
lardate a parte le reali e migliori . In confeguenza di che fi apprenderà, che
l’odiofità fuddetta non cade già full’ eloquenza in genere, e che non è
effa cosi pregiudiciale nelle nazioni per sè medefima, ma per la
qualità appunto delle cognizioni alle quali d’ ordinario s’appiglia, e
alle quali ftante la propenfione comune umana al piò facile, dee eifa
cotnunemente (a)CJCyi.n.j. appigliarfi (a) . Con ciò confiderando ogni
cofa, s* arguirà dunque eziandio, che fe l’ eloquenza, in luo» go
d’occuparfi a fiabilir negli animi le cognizioni ap« parenti, s’
applicherà ad ornare e a meglio prcfen* tar alle menti co’ fuoi vivi
colori le più reali ; lungi dall’ elfer nelle nazioni nociva, fi renderà anzi
a quelle utile e giovevole . Infatti s’ è veduto, ufficio della favella
effer quello d’ iftruire e di diletta(.tjC.Xiy.n.x. re (è), vale a dire dì
illruire nelle verità non conofciute, e di dilettare nelle già conofciute . E
perchè le verità di qualfivoglia genere non polTono elfer conofciute che
per qualche illruzione, quefta dunque dovrà fempre precedere il diletto
che proviene dilla favella, e 1’ oratoria così, la poefra, non meii che r
altr’ arti tutte dilettevoli, dovran generalmente confeguire la filofofia, la
morale, e 1’ altr’ arti klruttive, fiano apparenti o fiano reali, fcnza
che polfan mai quelle preceder quelle, non elfendo certamente polfibile
adornar coi fiori dell’ eloquenza, e con immagini traslate e lublimi, ciò
che non fi fia pri Digitized by Google
xcv prima apprefo per voci proprie, più piane e preeife .
CAPJCVIir. Stando dunque al diletto della l'avella, è certo che dovendo
quello cunfeguir Tiilruzione, tanto può confeguir la più Aiperficiale e comune,
quanto la più vera ertale eh’ è mcn comune; e che ficcome pollòno
con figure e immagini adornarfi le verità men el'atteepiù popolari,
conofeiute da molti ; cosi fi poflbno pur le più efatte e men popolari,
riferbare a fol pochi . £ la differenza farà, che effendo nel primo cafo
1’eloquenza la più popolare e comune, della qual s’ è favellato finora ; fi
renderà ella nel fecondo più particolare, difufa a non molti, della quale s’
aggiungerà qui qualche cofa . II. Egli è vero' pertanto, che
eli uomini amanti generalmente più del diletto che delf ifhuzione,
foglion trattenerli più fulle cognizioni apparenti perchè piùfiicili e
perchè apprefe, che fulle reali perchè non apprefe, e perchè foticofe ad
apprenderli, ond’ è che il più frequentemente ufino 1’ eloquenza fu
quelle cognizioni, applicandola ben di rado a quelle \b) Ma
ciò non teglie che non poflà effa a quelle applicarli, e che non vi fi applichi
talvolta effettivamente. Anzi quello fa, che l’eloquenza medefima coll’effer
nel primo cafo più comune, Ila altresì più apparente ed equivoca, e in tal
guila perigliofa come s’ è detto ; quando nel fecondo coll’ elfere men
comune, fi rende più ficura e reale, e con ciò giovevole, prendendo
il diletto che ne proviene ognor tempera e qualità, dall’iUruzione e
dalla cognizione apparente o reale che lo precede. Così uno fpirito
altiero e ambiziofo, potrà tirarfi dietro un popolo di fpenfierati, e
-condurli per le verità apparenti all’incredulità, e quindi alla fchiavitù,
alle difeordie, alle guerre, e alla povertà che ne derivano, e ciò con
tanto più di veemenza, quanto in lui fìa maggiore f arte del dire (c)'. E
dall’altra parte può un tìlofofo più fenfato (e) colie verità reali,
perfuadere i più rideliìvi ' per quanti ve n’ànno, alla religione non finta, e
con ciò alla libertà, alla concordia, alla pace e alla felicità che
pur ne confe^uono, con tanto più iiledamcnte di forza e di grazia, quanto in
lui v’abbia più di facondia. £ la prima eloquenza farà indubitatamente
futile e dannosa, eflendo quell’ altra più utile e reale, giacché in
eflètto ogni apparente termina in reale, per la 'natura che non devia mai
da quello, per quanto gli uomini fi lafcino sbalordire da quello . Ond’ è
che (ebbene quel primo cafo (ìa il più frequente in pratica umana, rella
nondimeno e^o fempre tolto (é)C.XIJIji.2.per lo fecondo ( « ), o per la
pratica della natura, eh’ è la più vera, perchè pratica infieme e teorica,
di quanto a.v viene nel corfo generai delle cofe. IH.
S’arroge, che la detta dillinzione xkll’ idruzionc dal diletto che procede
dalla favella, non è poi tale, che 1’ un di quedi s’ efcluda per 1’ altro,
o che abbian perciò f arti dilettevoli a non efler idruttive, e le
idruttive non dilettevoli . Perciocché aU’ incontro può ancor dirli, che 1 ’
idruzione deda non vada difgiunta dal diletto, ancorché quedo proceda non
dalla favella, ma dalla verità per eflà avvertita ed intefa, il qual
diletto così é compagno e contemporaneo all’ idruzione medefima, quando r altro
che procede dalla favella, confegue 1’irruzione, e non mai 1 ’ accompagna, e
mol”* to men la precede . E fi dirà idedanaente, qud di letto eder di
quedo molto maggiore, mafdine in riguardo alle verità reali, come quello che li
dende all’ intelletto, quando quello della favella (i porta all’im(J)
C.XV. U.4. maginazione, e talvolta s’ arreda all’ orecchio ( d ) .
Certo é che il diletto d’ un geometra nel concepire una verità,
fupera di gran lunga quello d’ un Oratore nelteder l’elogio, o nel commendar
legeda d’un eroe, come lo fupera eziandio quello di quedo eroe
ncH’efequir quelle geda, quand’ ei pur le efequifea ; e quattro linee di
Euclide con illruire piit di dieci orazioni di CICERONE (vedasi), dilettano
altresì più di quelle, che ben fovente dilettano con inganno. Per quello
i precetti fondamentali, e le regole generali di morale, di
giurifprudenca, e tali altre verità, per quanto fono reali e geometriche,
dilettano coll’ illru- 1«) zione tanto a’ dì noUri, quanto a mill’anni
innanzi ; vale a dire con diletto più fenfato e durevole . Laddove i
lìmboli di Pitagora, i fogni di Platone, le minuzie d’ Omero, che a’ lor tempi
rapivano gli animi, col diletto per avventura fugace della fola
elocuzione ; al prefente o non lì comprendono, o non apportan diletto,
quando ciò non folTe in riguardo lòlo a chi • avelTe l’abilità, di
formarfene uno della loro antichità medelima. IV. Le lingue
dunque finché fi trattengono nell’ ufficio d’ illruire, ancorché non
dilettino per fe lleffe, dilettano per le verità, delle quali ilhuifcono
; e le s’ avanzano a dilettar per fe Ireire, ciò non é, che per
figurar alla mente con colori più vivi le verità medefime per efle apprefe, e
ciò con eloquenza frivola e vana, fe le verità fon comuni e volgari, e con
eloquenza robulla creale, fe le verità fon pur reali e fuor d’ ogni
inganno . Verbigrazia s’ io dirò : „ La Luna coll’ attrar più la
fuperficie convelTà che „ il centro, e più il centro che la fuperficie
conca„ va più dillante della terra, alza la parte acquola „ che più cede,
filila falda che men cede nell’ una e „ nell’ altra fuperficie di elTa ;
ond’ é che quelle due „ elevazioni d’ acque comparifcono tulle llabili
ripe, „ al paflàr d’ ella Luna per Io punto fuperiore e in„ feriore
del meridiano di ciafcun luogo terrelhe * Io con ciò non farò, che
dilettar l’intelletto colla illnizione men comune, ma più vera che polla
darli del fiulTo del mare, fenza punto dilettarlo per la favella, per cui
Cia efpolla quell’ illruzione, non potendo ella efportì per termini più
femplici e più precisi. Che fe dopo aver dilettato T intelletto con
quc* Ha iftruzione, dirò come in quel terzetto : Sai perché
fale alternamente, e fcende Il mar, che a Cintia che fi /pecchia in
ejfo, Innamorato in fen fi /pigne e tende ; allora palTerò di
più a dilettar l’ intelletto medefimo coir eipreflìone ancor d’ eloquenza
fu quell’ iHruzione, tralportandolo dalle immagini proprie di Luna, di
mare, di attrazione, alle figurate e fimboUche di Cintia, di fpecchio,
d’amore, per le quali quella verità già conofciuta, fe gli prefenta con più di
novità e di vaghezza ; e ficcome quell’ iftruzione è migliore febben men
comune, cosi quella eloquenza che la confegue, può appellarfì migliore .
Ma fe in luogo di tutto quello, fupponendo 1’ uditor pure iftrutto
di qualcuna di quelle più volgari dottrine, per le quali iogliono. più
comunemente fpiegarfi le maree, io prendelfi ad ornarla con immagini
fimilmente traslate, con figure rettoriche, e con efprellìoni enfatiche ;
potrei pur con ciò dilettarlo, defcrivendo un cieco turbine interno, una
prelfìon d’aria verticale, una imprelfion di vento orientale ellerno, o fimil
altra opinione folita fpacciarlì a quello propofito, delle quali tutte vien
detto, che mal loddisfatto un filofofo dell’ antichità, prendelTe la
rifoluzione di gettarli in mare, dichiarando elfer giudo che folTe da
quello capito, chi non potea quello capire- Comechè però tali opinioni, per
elTer più facili e più comuni, fon meno efatte e peggiori ; così la
eloquenza fu clTe che le confeguilfe, farebbe imperfetta, o farebbe
un inutile vaniloquio. Il diletto dunque che proviene dall’
eloquenza, può confeguire le cognizioni tanto apparenti e comuni, quanto
reali e meno comuni, e per quello ilelTo di elTer ogni eloquenza
confecutiva all’ illruzione. Bc, chiunque afpira al diletto d’ efla
migliore, dee prevenirlo per la migliore irruzione corril'pondente, e per
le verità non quai fon conofeiute dal popolo, ma quai fono in fe ftede,
mentre quel diletto confeguendo la irruzione fuperfìciale del popolo, non potrà
appunto elTcre che fuperficiale, e talvolta efimero e menzognero, come
nel cafo degli equivoci, de’ fofirmi, degli enimmi, de’ paralogifmi, e degli
altri prodigi cosi detti dell’ eloquenza > Per la qual cofa, che
i poeti dilettino più cogli argomenti quai fono apprefi popolarmente, s’
è detto ciò eflTere in riguardo al popolo, al quale più frequentemente favellano
(/r). E fi aggiunge ora ciò elTere ancor con inganno, in. quanto quel diletto
che confegue 1’ idruzinne peggiore, è ingannevole, e non v’à diletto di
eloquenza reale, che quel che confegue pur l’ irruzione vera e reale {b)^
Dacché s’apprende, perchè 1’eloquenza, e generalmente 1’ arti di diletto più comoni,
rade volte appaghino le genti di miglior fenno, e perchè gli fciocchi fieri ne
refiino cosi toflo annoiati per elTer quelle in confeguenza .della irruzione
peggiore, che foggetta ad inganno, non può dilettare che con inganno, e
quero non avvertito ancora, non può a meno di non generar noja e fpiacere.
Quindi è che agli fpettacoli, alle fere, ai conviti, e a ogni fpecie infomma di
divertimenti comuni nobili e ignobili, è d’uopo dar fempre nuove
forme, Quando ancor del tutto non fì cangino in altri, fenza
i che ogni fpecie di popolo alto e bafTo' ne reda rucco e ammorbato. L’
uomo è fatto dall’autore della natura per l’ irruzione inreme e pel diletto
reale, ad onta, de’ fuoi fenH che lo incantano full’ apparente ; come H
convince da ciò,. che l’ irruzione allor più. diletta, quando è più
diligente ed efatta ; prova J |uefla. evidente della fuperiorità, e
immortalità del i uo intendimento fopra tutte le cofe mortali.(#)
c.hu.j^ Laonde s’ ei fi lafcia trafporur dal diletto apparente
Ni fcnza iftrurione, o coll’ irruzione priore, non pnò alfin ciò
riufcire che a Aio rincrefcimento, e con fu» naturai ripugnanza.
L'oAinarfi poi a contraAar quel reale con quello apparente, è come
contrallar il cor* fo del Sole con un tiro di cannone, o penfar di
dillnigger la natura in sè Aeflb, come fi dillruggono J uattro
poveri ingannati, che A difendono in una iazza . QE piaccia
applicare il detto finora folle cognizioni Delle tradu- O umane, e Alile
lingue per le quali s’efprimono, alle zioaidall’uoa traduzioni dell’
opere d’ingegno ferine dalP una all’ altra all’ altra fa- favella, èda
avvertirfi, eh’ elTendo le lingue intele oa velia. iAruire nelle
cognizioni reali, o a dilettare colle appa(a}CJC/Kn.i. tenti (a), il trafporto
delle cognizioni dall’ una all’altra lingua potrà agevolmente riufcire,
quanto al primo capo dell’iAruzione reale ; perciocché non richiedendoA a
ciò che un’ efprellìone d’oggetti per li termini lor più proprj e precifi,
queAi in ciafeuna lingua fono determinati, o efprimon gli oggetti colla
precilìone medefìma, eh’ è una per tutti i luoghi e per tutte le lingue. Laonde
baderà a queAo effetto, che il traduttore ben intefo del fentimento dell’
autore, e iArutto per pratica de’ termini precifì d’ ambe le lingue, foAituifca
gli uni agli altri di quelli, con quella coAro-, zìone o difpoAzione che a lui
fembri piò naturale nel la Aia lingua ; coB' che egli iAruirà così bene in
queAa, come 1’ autore nella lingua Aia originale . Ma quanto al fecondo
capo di dilettare colle cognizioni apparenti, poiché il diletto delie
lingue proviene da Amilitudini, alluAoni, e altre immagini d’oggetti anco
traslate, queAe in ciafeuna lingua fon più o men naturali, più o men
giudiciofe o ingegnofe, a norma degli oggetti Aedi, eh’ eAendo conAmili,
Aan più o meno diverA, e a combinar i quali Aa una nazione piùo
meno familiarizzata. E pertanto trafportate quelle iminagiai per foAituzione di
termini come fopra, dall’ una favella, debbono perder di molto della lor
grazia, e della lor forza nell’altra. In effetto, quelladifferenza che nelle
combinazioni d’ immagini proprie, e molto più traslate, s’ è oflervato
paflàre fra perfone di varie condizioni in una fteffa nazione (a)j non
(a)C.n.n,i. v’à dubbio che non abbia a renderfi vieppiù notabile
fra perfime di varie nazioni e lingue, i cui coflumi, profeflìoni, e'modi
altri efierni, per impreflìoni più o men forti e frequenti di oggetti
diverfi benché confimili, fon più rilevanti, non fol fra ciafcuni in fpe^
eie, ma fra tutti eziandio generalmente ; procedendo da ciò un
fìgnifìcato più o men eliefo ne’ termini delle lingue, per efprimer gli oggetti
fterti o confimili, che fi direbbe tanto più efiefo nelle lingue diverfe,
quanto quella diverfità fuperaffe quella dei diverfi dialetti in una lingua
medefima. II. Egli è certo, da quella diverfità di oggetti confimili
nelle varie nazioni, derivar le diverie indoli, fpiriti, e umori
nazionali, come pur le diverfe indoli e fpiriti cosi detti delle lingue.
Concioflìachè ficcome le piante, gli animali, i minerali di qualfivoglia
fpecie, e gli uomini flefli nel lor materiale, ancorché confimili, fon
pur diverfi in ciafcuni climi per C. T. ». j-tcflìtura di parti più dure o più
elafliche, più denfe o più rare, più fragili o più compatte; all’ ifleflo
modo il fignificato delle voci, colle quali efprimer tuttociò nelle lingue, è
più o meno eflefo, e le voci fleffe più afpre o più dolci, più rifonanti
o più molli, più acute o più ottufe . Ciò eh’ é ben noto ai viaggiatori,
che vaghi d’ invefligar una tal varietà, feorrono da"^ dima a clima
e da nazione a nazione ; e un Inglefe che per tal fuo capriccio muova da
Londra all’ Egitto, o un Affricano che per fua difperazione fia tratto da
Algeri in America, non troverà minor difparità fra i fuoi coflumt e i
coflumi egizj o americani, di quella che trovi fra le maniere diverfe di
efprimerli lotto ciafcuni di quelli climi (c), rimanendo ciafeun
(r)C.Jff. dei due allettato più, come delle fue die delle altrui
immaginazioni e collumi ^ cosi de’ Tuoi che degli altrui modi di efprimerli;
non per altro che per la diverfìtà degli oggetti e voci corrifpondenti ai quali
le refpettive lor menti fìan più afluefatte ed avvezze . Per efler
dunque la verità delle cofe reale una, ed invariabile dappertutto, e per elTer
le maniere di apprenderla e di dilettare con elTa moldplici e innumerabili,
faran le lingue tutte del pari, qualor lì tratti d'idruire nelle verità reali,
ma faran fra elTe diverfe, qualor fi tratti di dilettare culle apparenti,.
elfendo generalmente elle illituite non per quel fulo udìcio, ina ancora per
quello, e non per tutti in tutte le nazioni, ma per ciafcuni in
ciafcune. La copia e moltiplicità di termini in una lingua al paragone
dell’altra, è un indizio di tutto quefio, e di quanto una lingua polla dilettar
più d’ un’ altra ; per provenire quella moltiplicità dalla maggior
quantità d’immagini, colle quali efprime ciafcuna gli oggetti llein o
conlìmili; non introducendofi una nuova voce in una lingua, che per introdurvi
una nuova immagine, o per dividere e appellar per due voci le
immagini, che prima s’ appellavan per una . Per la qual cofa la lingua
più ricca di voci, farà più capace d’ immagini divife o traslate, per
elprimere la lidia quantità d’ oggetti, e per dilettare con elTi ;
perciocché fe un oggetto ftelTo o conlimile vorrà efprimerli per due
lingue, lì dovrà per la più povera di voci appellarlo talor per la voce, che
folle pur propria d’un altro ; laddove colla più ricca appellando 1’ uno
e l’ altro con voci diverfe, coll’ applicar poi a quello la voce
propria di quello, e viceverfa, u viene a efprimerli entrambi per traslati e
figuratamente. Percfempio un Inglefe appellando propriamente un furbo e
un fervo per la llelTa voce Knave^ non può per queAo capo indur
analogia veruna fra quelle due perfone; e l’ Italiana appellando ciafcun
di quefti con quelle voci proprie diverfe, collo ftender poi all’ uno la vo-
cAP. XIX. ce propria dell’ altro, riefce ad appellarli tutt’ a due
allufivamente, e a fignificame i caratteri, quando occorra, con più di forza e
con più di vivezza . Con tal fondamento ei parrebbe, che numerandoli
nella fa* velia italiana da 38000. termini o voci, e non numerandofene
nella inglefe che da zdooo., deflunti gli uni e gli altri proflimamente,
e colla Udrà regola dai più comuni refpettivi Dizionari ; la prima
favella fuperalTe la feconda per capacità di alluuoni, e d’immagini
traslate, in ragione di ip.aiz., eche di tanto più potefle quella fopra di
quella dilettare nell* opere a ingegno fcritte. IV. Ma fopra tutto
è cofa mirabile TolTervare, come dalla detta diverfa ellenlion di lignificato
ne’ termini delle lingue, e dal grado impercettibile d’elTa, con cui li
palla dall’uno all’altro oggetto, unitamente a non li là dir quale collocazione
dei termini lleffi, dipende quella inefplicabile forza, armonia, e grazia di
Jiiley che nelle produzioni d’ingegno rapifcegli animi, e fa bene fpello
il più bello e il più dilettevole di elTe ; lieve così, che sfugge molte volte
il fenfo dei nazionali medefimi, e che i forellieri cerumente non aggiungon
giammai . Io non ò trovato oltramontano, per illudiofo che folle della lingua
italiana, che rilevalTe differenza veruna jIì flile infra il Sonetto per
efempio del Cafa fopra la gelofìa, e quello d’ogni altro comune fiudente di
rettorica che imitalfe quello poeta, e non folfe difpoHo a giudicar il
primo del fecondo autore, e il fecondo del primo, quando ciò gli folfe
flato dato ad intendere . Le bellezze altresì che trovano i forellieri nello
flile del Petrarca, di Dante, del Talfo, fon diverfe da quelle che vi
riconofcono gli italiani, e la novella di Giocondo, dilettando del par gli uni
e gli altri per I’ invenzione ; per le grazie dello flile, e per l’
efficacia dell’ elocuzione, non diletterà mai tanto un francele come
un italiano nell’Ariofto, nè mai tanto un italiano come un francefe nel
Fonténe. Ciò che fa, che di via ordinaria, chi giudica dell’ opere d’
ingegno d’ altra lingua e d’ altro tempo, s’ attacchi ai difetti che
Hanno in elle dalla parte del fentimento, del quale è giudice ognuno,
come di cofa di tutte le lingue e di tutti gl’ intendimenti, fenza
badare che Hando al diletto dell’ efpreiEone, quello sfuggendo un tempo e
un luogo, fpazia molto bene in un C.XVllI. altro, rilevando talvolta fui
fentimento medefuno. i’ Così i! moto verbigrazia della terra per T annua
fua paralade colle Helle fìlTe, che n’ è la cagione di tutti i
luoghi e di tutti i tempi, può comprenderfì da ognuno del pari, fiaper la
propria, fia per l'altrui favella ; quando il Capitolo dei Lorenzini fulla vendetta,
o fimil altro tratto di poefia italiana, il cui pregio confida nella fola
collocazione, cnfafi, dite, e fignifìcato di voci, per cui dipingere all’
immaginazione le padloni umane, non farà mai da neduno cosi ben rilevato,
come dall’ italiano, per eder tutto ciò diverlb in ciafcuna lingua, e in
ciafcuna nazione . V. Egli è dunque vero, che trattandofi di traduzioni
d’ opere d’ ingegno fcritte dall’ una all’ altra favella, non potran
quede mai riufcire quanto al diletto della favella deda, o qualora il
traduttore aduma di dilettare coll’efprcdìoni del fuo autore, trafportate nella
propria lingua . Quedo nondimeno è quel che .volgarmente fuol farli, ed è
queda la ragione, per cui le traduzioni quand’anche idruifcano ugualmente
che gli originali, dilettan Tempre meno di quelli, e rie- fcono per
quedo capo quanto inutili per chi intende ambe le lingue, tanto
imperfette per chi non ne in- tende che una . E ciò allor più, quando
nell’ opere tradotte, il diletto della favella prevale alla
dottrina deir idruzione, come nelle novelle, ne’ romanzi, nel- le
produzioni teatrali, poetiche, e fìmili altre, più cv di spirito che
di sentimento. II pretender di dilettare per fodituzioni grammaticali di
termini d’una lingua a quelli d’un’altra, come nel caso suddetto
d’idrui* re \a)y è una vanità, Amile a quella di chi credesse dì meglio
ricopiare un ritratto originale, con foprapporvi i suoi colori, cuoprendone
cosi e confondendone le tinte, e cangiando il quadro in un mascherone, o in un
empiadro. S’aggiunge trattandosi di poesia, che il numero, L’ACCENTO
(Grice), la rima (“Never seek to tell they love, love that never told can be,
pleasure, treasure” – Donne, four-corners – cabbages and kings -- ], e 1’altre
condizioni, per le quali il diletto dell’eloquenza rileva moltidimo, e che
dipendono dall’armonia che palTa all’intelletto per le vìe dell’udito, sono
if>)C.XF.n. del tutto imponibili a tral^rtarfì dall’ una all’altra
iàvella; e che fìccome la musica italiana può farsì udire in Francia, e la
francese in Italia, ciafcuna nel suo carattere, ma non è podibile tradurre la
musica verbigrazia di GALLUPI (vedasi) in quella di Monsù Ramò. All’ ideflb
modo non è podibile per quedo capo, tradurre r una nell’ altra poelia . E il
miglior poeta comico italiano de’nostri tempi, potrà darfene in Francia
per padar quivi meglio i fuoi giorni, ma non giammai perchè il suo
talento comico da così ben rilevato in Parigi, nella lingua francefe non sua, come
il fu già in Venezia, nel dialetto suo veneziano. Da ciò A conclude, che
non potendo il traduttore nella nuova lingua dilettare colrefpredìoni dell’originale,
non gli rederà dunque per tradurre ben che dilettar coll’espresioni della
propria; inguifachè impodedatoA lui del sentimento dell’autore per
idruire com’ edo, l’esponga poi con quei colori di dile, e con quelle fraA
d’eloquenza, che nella fua lioeua fon più vive e più forti, per dedare il
piacere, n terrore, la tenerezza, la compasione, e gl’altr’affetti, quai
più occorredero . £i dee Agurarn d’ effere autore, per non isAgurare il suo
autore, e lafciar a lui l’arte di dileture colla sua lingua, per
dilettar O ci €» colla propria ; e alTumendo le dottrine e le
immagini di quello, esprimer 1’une e rapprefentar 1’altre, coi COLORI (COLORE –
Farbung – Grice) colori della sua lingua e poesia che meglio conofee, e
non con quei dell’altra lingua e poesia, che non potrebbe mai cosi bene
conofeere. In altra guisa gli riulcirebbe bensì di privar la sua traduzione
del diletto, che potesse provenirle nella propria lingua, ma non mai
di venirla del diletto, che 1’animala nell’altra. L’ indizio poi per cui
ravvifare, s’ ei fi fia nel tradurre comportato con quelle regole, farà
fol que fio, di piacer tanto la fua traduzione a quei della lingua
tradotta, quanto l’originale a quei della lingua originale, o di poter
quella palTar per opera così originale fra quelli, come 1’originale medesimo
pafia per ule fra quelli. Accogliendo ora le principali verità
efpofte di fo- Epilogo, e pra, fi apprenderà facilmente, una di
quefie CoDcluCone . efl'er quella, di dover difiinguerfi fra le
cognizioni umane le apparenti, e le reali (a). Perciocché io non ò
già pretefo per quanto ò qui fcritto, di per* fuadere gli uomini a
governarli col folo reai delle co* fe, e di difiruggere infra lor 1’
apparente del tutto, come potrebbe alcun lòfpettare. Ciò faria fiato
come voler perfuaderli a lafciar le vie piò facili e pronte di
governarfi, per appigliarfi alle piò lontane e difficili, e ad abbandonar
quegli alietumenti de’fenfi,dai quai dipende tutto quel commercio di
pafiioni, di pende* ri, e di azioni grandi e luminofe, per cui pia*
cevolmente fufiifiono ; cofa che non s’ è mai ottenuta, e che in confeguenza
non è da fperarfi che s’ ottenga giammai. Al contrario di ciò, mio
difegno è fiato fol quello, di didngannare gli uomini fu quello
apparente mededmo, e di rapprefentarlo loro per quello eh’ egli è ( i ),
avvertendoli che oltre a quello, per cui fogliono elfi governarfi, v' à
nelle cofe un reale, per cui li governa irredllibilmente natura, o
riferire 1’ uno all’ altro di quedi, dipende quella felicità, di cui fon
tanto anfiofi e foJlecitt, o quella infelicità, per cui alzan- si
trilli e si fpein lamenti . E ia vero non potendo gli uomini acquillar
cognizioni che per mezzo de’sen- ii, e non^ iflendendofi quelli che alla
fuperficie C,XILn. 2 ^ apparente degli oggetti, le cognizioni loro fu
quelli non pollono al primo tratto effere, che fuperficiali e
apparenti. Vero è che oltre ai fenfi, fon eglin dotati dalla natura
eziandio d’ un intelletto, per cui con- frontando giuHamente fra loro
quegli oggetti inferiori ed ellerni, arguir le verità fu elH piu fublimi
ed interne, e farfi cosi dal vifibile degli oggetti creati, all’
invifibile di Dio eterno e increato . Ma efi- gendofi a ciò certa
allrazione dai fenfi medefimi, da non praticarfi che con ripugnanza, per
l’amor pro- prio che tiene a quelle apparenze fortemente attac-
cati/ non è poi llupore, le gli uomini di via ordi- naria s’ arredano
fulle prime imprclTìoni, e fe paghi dell’intereire proprio per quelle,
non elaminanpoi, fe quedo concordi o non concordi col comune degli
al- tri, o colla ragione reale di tutti. Una fimil pi. C.T, grizia in edi e tanto più
fcufabile, quanto le appa- renze medelìme non fon fallaci per sè, ma per
fola mancanza di ridedìone, poda la quale, fi rendono elTe dede il
reai delle cofe . £ oltre ciò i difordini che quindi ne feguono, facendo
ben todo accorti gli uo- mini de’ loro inganni dopo edervi incorfi, fan
si che fe ne correggano, c conofcano quegli errori che (0 *•?*
potean prevenire, ma che non àn prevenuto, ciò che non è altro che
condurli idedamente dall’ apparente al reale, benché proprio mal grado, a
che riguarda quel detto popolare, che la necedità, o le angudie
alle quali li conducono gli uomini da sè dedi, infegnan gran cofe
. II. Un’ altra verità dedotta dalle cofe fuddette è pur
queda, che le dette cognizioni reali, alle quali O z conducono le
apparenti, non fon poi tanto fcono- Ibiute ed ignote, nè da ^efte tanto
diverfe, quan- to raflembrano, e eh’ eifendo anzi quelle inufita-
te nella pratica edema, nel fentUnento e nella pra- tica interna, fon più
note e paleft di quede . Lo che fi comprova non fòlo per quella
coinpadione e quel ridicolo, che s’ è odervato cadere sì di frequente sulle
azioni c debolezze altrui {a)\ ma per quella circofpezione ancora, e
dudio d’ ognuno di occultare le verità, o di prefentarle e palliarle ad
altri con co- lori alterati, e talvolta mentiti da quel che fi
cono- fcono . Perciocché in ed'etto ciò non è, che tacere il reai
delle cole che più fi lènte e s’ approva, per re- golarci cogli altri per
1’apparente, che 11 lente e s’approva meno, amando meglio adulare e
lufingare col facile, che illuminar col mdìcile, e infadidir sà
dedi con tacer quel reale, più todo che offendere o turbar altri con lor
palefarlo . E ciò non ]xr altro, che per conciliare una pari
condifeendenza d’altri verso di sè medefìmi, contenti cosi gli uomini con
sì. bel garbo, quafi d’ingannarfi a gara a chi fa far me- glio, e
di convenzione comune . Effendo poi queda più o meno la pratica
univerfale, il reai delle cofe non è dunque così arcano e incredibile,
come è cre- duto, ed è anzi più noto ed approvato dell’ apparen-
te, ancorché fimulato quello, e adombrato nelle azio- ni comuni ederae. E
s’odervi, come queda fi mulazio- ne delle verità reali conofeiute in occulto,
è poi altresì fmentita elfa deda io palele da ognuno, allor eh’ ei
dichiara ad alta voce, che le cognizioni uma- ne fon tutte incerte e
fallaci, e che gli uomini fon foggetti tutti a sbagli e a illufioni, alle
quali efpref- fioni tutti fan eco ed applaufo ; ciò che
propriamente é un vero accordarli da tutti, che febbene gli uomini
fi regolino per P apparente, per cui s’ingannano, ten- gono nondimeno mi
mente e in cuore un reale, per cui alla line del conto, puc ad onta loro
li difìngannano. Ed è eofa maravigliofa, come fu lecito ad ognuno di dichiarare
impunemente e con lode, che fian gli uomini in genere deboli, lufinghieri,
e ad errore foggetti; e non ardifca poi alcuno di far la ileda di-
chiarazione ad un altro, di quello fteflo in ifpecie, anzi fia quella
creduta cofa villana e indifcreta . L* ignoranza dunque delle verità
reali è polla non già nel non conofcerle, ma nel (ìmularle ad altri per
le apparenti j mercecchè d’ altronde fe tutti conofco- no, le
cognizioni umane elTer generalmente fallaci, in quella conofcenza
medefima additano molto be- ne, le reali eHer loro pur note, e a qualche
mo- do non (on più nell’ inganno, rollo che conofcono d’ eflTervi
. Quindi fi prefenta f altra verità pur avvertita, la qual è, che fe
gli uomini prendono errore nel regolarfi per cognizioni apparenti, fenza badare
fe con- vengano o non convengano quelle colle reali, il pren- dono
molto maggiore, quando condotti perciò in un pelago di contraddizioni e
d’implicanze, dal qual non fan come ufcirne, e per ufcire dal quale fon
indi allretti a ingannarli, a tradirfi, a combatterfi inlie- me con
quella ferie di calamità, delle quali non cef- fano di lagnarfi, fi
volgono a imputar tutto quello alla natura, o ai grande autore di ella;
quando C.Z//7.n.a» ò indubitato doverli tutto ciò afcrivere aHa loro
pi- grizia, per cui non curano di proceder dall’ apparen- te al
reai delle cofe, e s’ arredano alle prime im» S rdfioni degli
oggetti edemi a loro favore, fenza ba- are fe con ciò ìiano giudi o
ingiudi cogli altri . E in vero che gli uomini per certa inerzia e
condifcen- denza, prefertfcano di adularfi e di accarezzarfi in-
fieme con vide di ambizione, di fado, e di altre ve- rità apparenti, in
luogo d’ iltuminarfi colle reali, te- mendo ancora per quede di od'endere
o conturbare i più inclinati a quelle ; può ciò palfarfi ( benché
con poco onore dell’ umana ragione ), purché ne’ mali che O 3
con 'Òt ex con ciò
s’adunano intorno, fi compatifeano e fi di- fendan fra loro. Quello
infatti è ciò che avviene di via ordinaria, e ben fel vede ogni più
faggio ed at- tento, nel quale eccita ancor tenerezza il vedere co-
me quelli poveri fpenlìerati, poiché fon caduti per inavvertenza negl’
inganni più vergognofi, fatti indi accorti di quelli per li difordini che
ne confeguono, accorrano ad alfillerfi per ufeirne, a compatirli, e
a prellarfi foccorfo gli uni agii altri, comprovando cosi a elTervi
incorfi quafi di confenfo uniforme. Fin qui li mollrano elfi di un
carattere timido e incauto, ma buono almeno e fincero. Ma che poi vi fian
di quel- li, i quali degli errori e de’ mali che s’ attirano fo-
pra per loro pufillanimità e miferia di fpirito, accu- fino la natura,
quando quella con ingenuo candore fuggerifee loro, che oltre all’
apparente v’ à negli og- getti un reale, cui va quello riferito, al qual
fine oltre ai fenfi, per cut apprender gli oggetti, dà altresì un
intelletto, per cui confrontarli ; quella non può negarfi che non fia la
cecità r e la llolidezza maggiore . PalTando poi al propofìto delle
lingue, la ve- rità più conliderabile avvertita di fopra in ordine
ad elTe e, che quantunque fian quelle dellinate a rapprefentare ad altri,
e a efprimere gli oggetti e le cogni- zioni per quelli apprefe ; non fon
però così atte a far quello, come il fembrano a prima villa; e eh*
elTcndo anzi elTe imperfette per efprimer le cognizioni reali, fervono di
fomento per dilatare e dar rifalto al- (.é)CJCyi.n.u ìe apparenti a
efclulìone delle reali medellme (b) . Cib avviene per mancanza d’
analogia necellària fra le cofe, e le parole per cui s’efprimono, e fra
la diver- 11 tà colla quale s’ apprendono e fi combinano gli og-
getti, e quella colla quale fi proferifeono e fi combi nan le voci; come
altresì fra le foggie, colle quali cangiano quelli e quelle, che non àn
connefilone o C. XIV. dipendenza necelTaria veruna ì’ une coll’ altre. Quefta
oflTcrvazione che parrà nuova nell’ enunciarla > c A P. xx7 non n
troverà tal nella pratica, fe fi ponga mente alle tante ^legazioni,
coment!, glofe, e interpreta- zioni che {penb occorrono per i’
intelligenza degli al- trui penfamcnti fui libri, o fulla lettera di
efli, maf- fime fe fì tratti di leggi, di coftumi, e di azioni an-
tiche cfprefie con lingue perdute. Le quali interpretazioni fan conofcere, che
non folo i coiiumi divcrfi pallati non àn relazione necelTaria conofciuta
veruna cogli (ieflTi prefenti, ma che le lingue pur morte diverfe
non 1’ ànno con una llefla pur viva, e ciò fenza di- pendenza di ciafcuna
di quefle relazioni coll' altra ; giacché per le flelTi voci antiche fi
dedano diverfi, e talor contrari concepimenti in perfone d’ una
lingua medefìma da quella diverfa, alfiflellb tempo. Quindi molto
più apparifce l’ incapacità delle lingue per det- tar regole di vita, che
fervano a tutti i tempi e i luoghi, ne’ quali fi cangiano e i coliumi e
le lingue ; e come elTendo le azioni, per quanto pajan con- nmili,
ciafcuna diverfa da tutte le altre alio flelTo, e molto più a’ tempi
diverfi (a), ciafcuna doveflb (j)C.F/. ».t. efigere quafi una legge
diverfa, o dettata diverfamen- te, eflcndo invero in^lTibile il
comprenderle e re- golarle tutte, colla fiefia efprefiìone di voci. Certo
è, che nella pratica ancor più fenfata, una legge per efempio, che
non può dettarli dai legislatore che fu tutti i cafi in afiratto non
avvenuti, dee fempre dal faggio giudice interpretarfi nell’ applicarla ai
cafi av- venuti particolari, cial'cun de’ quali è noto diverfi-
iicare da tutti gli altri per adiacenze, occafioni, cir- cofianze e
motivi che lo accompagnano ; fenza di che quella legge fi trova fempre al
propoli to o rigi- da o lenta, o mancante o eccefiiva, o facile o
le- verà . E gl’ Inglefi che pa|ono aver fempre del fingo- lare,
col foggettarfi alla lettera materiale delle lor leg- gi più tolto che al
fenfo di efle, non fi fono accorti, che di uomini ragionevoli eh’ ei
fono, fi fon contentati di confiderarfi come tanti automi, da muoverfì
per quelle leggi come per molle, a guifa di figure in un quadro movibile;
operando cosi non per la ragione lor viva, ma per la morta di alcuni
loro vecchi parlamentar], non certamente d’ efll più ragionevoli .
V. Finalmente dall’ elTer le lingue più atte a dif- fonder le
cognizioni apparenti che a efpor le reali, fi conferma la verità prima
fuddetta, che gli uomi- ni in generale abbiano ad elTer più ricchi di
quelle, che di quelle cognizioni ; giacché la favella, per cui s’avanza
1’ apparente, è infatti più comune della riflelfione e della meditazione,
per cui s’ avanza il i»)CJCyiM.x. reale. Ciò che conviene col detto
ancor popola- re, che la verità e la virtù fincera Ila nell’ azione
e non nella favella, e che gli uomini più millanta- tori e loquaci Ibn
meno attivi degli altri . Il giu- dicarli più virtuolì e più faggi,
perchè più parlano di virtù e di faviezza, ognun fa eh’ è un
giudicio dubbio ed equivoco ; e che quando ancora fi verifi- calle
elTo della virtù e faviezza apparente, della rea- le non potrà
verificarli giammai . Del rimanente io fon certo, che in propofito di
quella mia folenne dillinzione di apparente e di reale, di che ò
fatto qui si grand’ ufo, alcuni avrebbero defiderato, eh’ io r
avelli meglio Specificata, efemplificandola fu fog- eetti particolari, e
tnalTime fu quei che riguardano la comun fulTillenza e i comuni aflàri, e
aflegnan- do in elfi ciò che fia apparente e ciò che fia reale, o
dillinguendo 1’ uno diair altro . Quello non pote- va io qui fare,
trattando di oggetti, di collumi, e di cognizioni in genere . Trovo però
di averlo fat- to in altro luogo, ove trattando particolarmente
dell' Economia e del Governo de’ popoli, ò polle molte propofizioni
col titolo di Error$ popolari, che fono tante verità apparenti, alle
quali ne ò contrappollo altrettante col titolo di ^JJiomi, che non fono
che veri- '-Secxiii ^ errori contrarie, delle
quali prò- cap. XX? pofìzioni un faggio fa ancor veduto da alcuni .
Lo lleflo potrà farfi da ognuno in qualfìvoglia altro par- ticolare
foggetto, che fe gli prefenti alla mente j o eh’ ei prenda in
confìderazìone, fui quale proceden- do col metodo col quale io fon
proceduto in quello, allora dovrà fempre temere di giudicare per 1’
appa- rente, quando flando alle prime impredioni de’ (en- fi, badi
al particolare di sè fteflo o d’ alcuni, tra- feurando il rimanente degli
altri ; e allora potrà a(^ ficurarfi di giudicare realmente, quando
badando al particolar di sè (le(To o di alcuni, abbia altresì ri-
guardo al comune di tutti, a fomiglianza di giuda e imparziale natura.
Que(ia amica di tutti, non tien nelTuni nemici, e non opera mai per uno,
che con relazione all’ univerfale degli uomini e di fe def- (a ; e
il medefimo dee fare chiunque penfi imitarla. I N- /^Ggetti
apprenGbili origini della fiTelIa . pag. i II. Della fomigliaaza» edifomiglianza
degli ogget* ti appreoGbili. Oggetti come apprefi diverfamente.
la IV. Oggetti come nominati per la fietfa favella .. 14
V. Oggetti come nominati per favelle diverfe. 18 VI. Della
diverGtà poflìbile de’ coftumi . za Della contrarietà impoffibile de’
coftumi. z8 Vili. Coftumi creduti contrai non fono comuni. Delia
ftabiliti, e iftabilità de’ coftumi . De' coftumi efpreftS per la fteffa
favella. De’ coftumi efprefti per
favelle diverfe. Delle cognizioni reali, e delle apparenti. do Cognizioni
apparenti più pratiche delle reali.
Imperfezione della favella fulle cognizioni reali. 73 XV.
Imperfezione della favella motivo dell’ eloquenza . 77 XVI.
Eloquenza come nociva alle cognizioni reali. Deir eloquenza fulle cognizioni
apparenti .Dell’ eloquenza fulle cognizioni reali. Delle traduzioni dall’ una
all’altra favella Epilogo e ConcIuGone. Gianmaria Ortes. Ortes. Keywords: verso. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ortes” – The Swimming-Pool Library. Ortes.
Luigi Speranza --
Grice ed Ostiliano: la ragione converazionale e il portico romano -- la
filosofia romana sotto il principato di Vespasiano -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A follower
of the Portico. His claim to fame is that Vespasiano (si veda) banishes him
from Rome. Ostilliano.
Luigi Speranza -- Grice ed Otranto: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola d’Otranto -- filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Otranto). Filosofo italiano. Otranto, Puglia. Grice: “Otranto
wrote a tractatus ‘de arte laxeuterii,’ which is an art of ‘divination,’ as
when we say that smoke divinates fire!” -- Grice: “Had Otranto not written
‘scritti filosofici’ we wouldn’t call him a philosopher!” – Filosofo. Sull'infanzia e sulla formazione poco è noto. Non si
sa dove oggiorna e studia, né chi siano stati i suoi maestri. La sua filosofia,
però, lascia immaginare una formazione molto solida. Insegna a Casole. Tradusse
la liturgia di Basilio ed altri testi liturgici per volontà del vescovo. Le sue
competenze linguistiche gli valeno inoltre degli incarichi diplomatici. Interprete
al seguito dei legati papali Benedetto, cardinale di Santa Susanna, e Galvani.
E a Nicea al seguito del re Federico di Svevia. Saggi: “L'arte dello scalpello”,
con una raccolta di testi geo-mantici ed astrologici; traduzioni di testi
liturgici; “Dialogo contro i giudei”; Tre monografie o syntagmata “Contro i
Latini” -- su questioni dottrinali significative nella polemica fra cattolici
ed ortodossi (quali la processione dello spirito santo o il pane azzimo);
un'appendice ai tre syntagmata; lettere e frammenti di lettere;. J Hoeck-R.J. Loenertz, Nikolaos-Nektarios von O.
Abt von Casole. Beiträge zur
Geschichte der ost-westlichen Beziehungen unter Innozenz III. und Friedrich
II., Ettal. M. Chronz: Νεκταρίου, ηγουμένου μονής Κασούλων (Νικολάου Υδρουντινού): « Διάλεξις κατά Ιουδαίων». Κριτική έκδοση. Athena, L. Hoffmann: Der anti-jüdische Dialog Kata
Iudaion des Nikolaos-Nektarios von O.. Universitätsbibliothek
Mainz, Mainz, Univ., Diss., Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Homosexuality in a textual gap in what was going on in Italian Byzantine
convents under Roman rules. Longobards being raped, or raping Greek monks. Nicola
Nettario d’Otranto. Otranto.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Otranto” – The Swimming-Pool
Library. Grice ed Otranto – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.
Luigi Speranza --
Grice ed Ottaviano: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale
nel secolo d’oro della filosofia romana sotto il principato d’Ottaviano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Il primo principe. Historia
augusta, scritta d’Ottaviano. His philosophical teachers are well known. The
education of a prince. O. lascia alla
sua morte un dettagliato resoconto delle sue opere: le Res Gestae Divi Augusti.
Svetonio in particolare racconta che una volta morto, lascia tre rotoli, che
contenevano: il primo, disposizioni per il suo funerale, il secondo, un
riassunto delle opere, da incidere su tavole in bronzo e da collocare davanti
al suo mausoleo, il terzo: la situazione dell'Impero. Quanti soldati sono sotto
le armi e dove erano dislocati, quanto denaro era nell'aerarium e quanto nelle
casse imperiali, oltre alle imposte pubbliche. Il testo dell'opera è tramandato
da un'iscrizione in latino. E incisa sulle pareti del tempio, dedicato alla
città di Roma e ad O., situato ad Ancyra -- l'odierna Ankara, la capitale della
Turchia -- e pertanto è stata denominata Monumentum Ancyranum. Altre copie,
molte delle quali sono giunte frammentarie, dovevano essere incise sulle pareti
dei templi a lui dedicati. In uno stile volutamente stringato e senza
concessioni all'abbellimento letterario, Augusto riportava gli onori che gli
erano stati via via conferiti dal Senato e dal popolo romano per i servizi da
lui resi; le elargizioni e i benefici concessi con il suo patrimonio personale
allo Stato, ai veterani di guerra e alla plebe; i giochi e le rappresentazioni
dati a sue spese; infine gli atti da lui compiuti in pace e in guerra. Il
documento non menziona il nome dei nemici e neppure quello di qualche membro della
sua famiglia, con l'eccezione dei successori designati: Marco Vipsanio Agrippa,
Gaio Cesare e Lucio Cesare, oltre al futuro imperatore Tiberio. O. e totus
politicus, fin dall'adolescenza. Forse lo rivendica egli stesso nelle sue
memorie. L'unico frammento di una certa ampiezza in cui leggiamo esattamente le
sue parole racconta di lui men che diciannovenne alle prese con una imprevista
e imprevedibile circostanza esterna, prontamente messa a frutto in termini
politici. Si tratta di un miracolo ed egli capì subito che anda capitalizzato.
Durante i giochi da lui organizzati in memoria di GIULIO (si veda) Cesare, in
un momento di massima incertezza politica, tra liberatori perplessi e cesariani
frastornati - apparve una cometa e rimase visibile per ben VII giorni. Il
fenomeno fa molta impressione. «l volgo – scrive O. nelle sue memorie -
credette -- “vulgus credidit -- che quella stella significa che l'anima di
Cesare e stata accolta tra gli dei immortali. Usando tale pretesto (quo nomine)
feci subito (mox) aggiungere quel simbolo al busto di GIULIO Cesare che fa
consacrare nel foro. Il brano è citato da PLINIO nella Naturalis Historia, il
quale commenta. Queste furono le sue parole, destinate al pubblico, ma una
gioia intima gli suggere che quella stella era NATA PER LUI e che lui nasce in
essa. L'episodio ha avuto una eco imponente nella letteratura poetica e
storiografica, coeva e successiva. La formale decisione del Senato romano - che
stabili essere GIULIO Cesare ‘divino’ - ha luogo. Divus lulins. In tal modo O.
diventa ope legis, figlio di Dio, Divi filius. C'è chi pensa che già in
concomitanza con la conquista a mano armata del consolato, O. ottene tale
prezioso riconoscimento. Ma di fatto le premesse O. le aveva poste con
l'operazione «cometa», alla quale del resto si richiama una vasta tradizione
superstite: da Seneca a Svetonio a Plutarco a Dione Cassio. Ma al benefico
astrum Caesariso fa già riferimento VIRGILIO, e ormai rinfrancato, nell'Ecloga.
La carriera d’O. e incominciata già l'anno prima, quando, neanche allora in
ottima salute, aveva raggiunto GIULIO Cesare in Ispagna per esser presente
all'ultima durissima lotta contro i pompeiani, culminata nella battaglia, fino
all'ultimo incerta, di Munda. Difficile stabilire se GIULIO Cesare lo avesse
già allora notato, se Azia - madre di O. - abbia attratto l'attenzione di GIULIO
Cesare su di lui, se O. forza la situazione superando le esitazioni materne.
Quanto ci sia di riscrittura post eventum e quanto invece di autenticamente
vero in questo passaggio, che i biografi cortigiani d’O. esaltano come
premonitore, forse non si potrà mai accertare. In ogni caso spicca la capacità
dimostrata da GIULIO Cesare di scegliere un successore. In politica non accade
quasi mai. I capi carismatici hanno, oltre che l'idea della propria
indispensabilità, anche la certezza della propria superiorità. Di qui la loro
sospettosa sfiducia verso il proprio entourage, nel quale pur debbono pescare
chi verrà dopo di loro. A sua volta O. cerca per anni, e resta tra gli arcana
delle sue ultime ore di vita se sia stato davvero pago della scelta compiuta
(Svetonio, Vita di Tiberio). E ben si comprende. GIULIO Cesare sceglie un
figlio adottivo ed erede che puo, se si e confermato capace, diventare un
capoparte; O., invece, pur avendo restaurato la repubblica cerca un successore.
Anche dal modo in cui risolse questa tormentosa difficoltà degli anni finali
viene fuori il ritratto di un politico totale dotato di una visione in cui la
certezza della propria insostituibilità' -- che rende, tra l'altro, ancor più
disperante la ricerca di un successore -- si sposa con la tenacia nel
perseguire l'attuazione di un disegno; coniugare conservazione e rivoluzione,
dare alle istanze fondamentali della rivoluzione cesariana una salda cornice di
conservazione. Il che era molto di più, e molto più complicato, di una
riproposizione aggiornata del principato di Pompeo. Gli anni della lunga pace
non sono facili. Non sono mancati, in quei lunghi anni di governo solitario,
congiure, insidie, e persino il rischio che i conflitti si riaprissero. Da
qualche cenno di Seneca si deduce che ce ne furono e non irrilevanti. E se
Seneca ne e informato vuol dire che ne trova la traccia nelle inedite Historiae
ab initio bellorum civilium che suo padre continua a scrivere e ad aggiornare
ma non se l'era sentita di pubblicare. E anche questa prudenza di uno storico
accorto, che fa a tempo a intravedere «il mondo di ieri», ci fa capire che per O.,
alla fine, l'unica scelta possibile era quella della storia sacra. Perciò,
quando la lunga pace civile del suo interminabile governo non ha più bisogno di
una ravvicinata e puntuale messa a punto aderente alla quotidianità politica,
egli inventa un altro strumento che affermasse in modi essenziali e
monumentali, sperabilmente per sempre, la sua verità: il solenne e
sacralizzante ri-epilogo dei propri successi, da trasmettere a tutti i sudditi,
non soltanto ad una cerchia più o meno larga dell'élite dirigente. Così nasce
in lui l'idea delle Res gestae, diffuse su supporto durevole per tutto l'impero
e perciò salvatesi: covate e limate nel corso degl’anni, e alla fine pronte,
oltre che per l'impiego monumentale, per la lettura postuma, davanti al Senato
intimidito e allenato ormai alla servitù spontanea, attraverso la bocca dell'erede
designato, anzi, con ulteriore ricamo rituale, del figlio di lui Druso. Per
Roma e una radicale novità. E la via epigrafica alla storia sacra, sul modello
delle grandi epigrafi regie del mondo iranico -- Dario a Bisutun -- e del mondo
egizio, faraonico e poi Il ruolo delle Res gestae e quello non solo di
dichiarare chiuse per sempre le guerre civili, ma di spiegare anapoditticamente
ai posteri, la perfetta riuscita di quel disegno e di fare accettare questa
verità come l'unica vera nel momento stesso in cui la successio dinastica ne
rivelava la principale crepa. Nel che risiede la loro grandezza e, insieme, la
loro fragilità. VOX AVGVSTA. Petrarca, nel secondo capitolo del primo
libro delle Res memorandae, racconta d’essergli avvenuto, ancora giovinetto, di
leggere un libriccino contenente gli epigrammi e le lettere agli amici
dell’im- peratore Cesare Augusto, conditum facetissima gravitate et
luculentissima brevitate adorno di forbita dignità di stile e di
eloquente brevità; un volumetto quasi intonso e mezzo divorato dalle
tarme, che andò per- duto, e che, per quanto disperatamente cercasse,
Petrarca non riuscì più a trovare. I dotti dubitano della veridicità
della notizia, ma forse dubitano a torto, giacchè nessuna ragione poteva
avere Petrarca di men- tire la notizia, e da nessun’altra fonte che dalla
diretta lettura avrebbe egli potuto derivare un giudizio così vero
e preciso sulle doti stilistiche degli scritti di Augusto. Non resta,
dunque, che dichiararci contenti che a rivelare al mondo la grandezza di
Cesare Augusto scrittore sia stato il primo umanista d’Italia, e che
a nessun altro sia riuscito meglio che a lui di definire, in fresco
e saporoso latino, le caratteristiche dello stile del figlio adottivo
di Giulio Cesare. Molti secoli passarono prima che si ponesse di
nuovo mente ad Augusto scrittore, e solo quando fu ritrovata
l’iscrizione di Ankara in Anatolia i dotti si diedero a raccogliere i
frammenti degli scritti imperiali e a riprodurli più volte in edizioni belle e
brutte, rintracciando meticolosamente il benchè minimo frammento.
Sulla iscrizione dell’ Augusteo d’Ankara storici e filologi discutono
ancora, voglio dire che ancora non si sono messi d’accordo sulla natura e
significato di uno dei quattro documenti che O. consegna, insieme
col testamento, alle vergini Vestali perchè alla sua morte fossero
letti in Senato. I quattro documenti erano le disposizioni per i
funerali, il resoconto delle sue gesta, una relazione sulla situazione
militare e finanziaria dell’Impero, i consigli a Tiberio sul modo come
reggere e amministrare la cosa pubblica. Ci è giunto intiero il
secondo dei quattro documenti: ma non già nell’esem- plare che Tiberio,
obbedendo alla volontà di Augusto, fece scolpire nel bronzo dei due
pilastri collocati innanzi al grandioso Mausoleo, che sorgeva, nella
parte setten- trionale del Campo Marzio, tra il Tevere e la via Flaminia;
bensì nella copia che fu incisa nella pietra dell’Augusteo di Ancyra,
capitale della Galazia, cioè nell’Augusteo di Ankara, capitale della
nuova Turchia. Ivi, nel capoluogo di una provincia romana, le Res
gestae Divi Augusti furono incise nel testo latino det- tato
dall’Imperatore e nella traduzione greca fatta eseguire dal successore Tiberio,
perchè le parole di Cesare. O. sonassero più intelligibili alle
popolazioni orientali. Questa è l’iscrizione nota col nome di
Monumentum ancyranum, da venti anni a questa parte riprodotta in un
testo sempre meglio corretto, essendo stata rinvenuta un’altra copia
dell’originale latino nella colonia imperiale di Antiochia di Pisidia.
Ma, come ho detto innanzi, i dotti discutono ancora sul significato
del documento, nel quale Augusto volle rendere pubblica ragione
delle cariche ricoperte, dei donativi elargiti e delle imprese operate.
E, purtroppo, anche in questo caso, taluni critici, per cercare di
scoprire i diversi momenti della redazione dello scritto, hanno
affermato che il piano generale dell’opera è disorganico e disor-
dinato, che molte sono le incoerenze di alcune parti, e che però Cesare
Augusto ha redatto il documento ampliandone uno precedente, più modesto e
meglio ordinato. Insomma... una quistione omerica, che, a parer
nostro, è facilissimo distruggere nelle sue false ed ingannevoli
argomentazioni con poche parole. Il documento di Augusto non è un bilancio,
non è un testamento politico, non è un'iscrizione del tipo degli
elogia; ma è rendiconto, testamento ed elogium, perchè Augusto l’ha redatto
quando si appressava il giorno della morte. Per ciò stesso non rientra in
nessun genere. La solennità del latino del documento augusteo non è
soltanto nello stile, ma è nei fatti che vi sono esposti, e soprattutto è
nel fatto che al Senato e al Popolo di Roma parla il fondatore
dell’Impero, il Padre della Patria, Augusto, e non per esaltare la sua
propria opera, ma per proclamare che essa rimarrà in eterno legata
alla fedele collaborazione del Senato e del Popolo di Roma. Svetonio
afferma che Augusto soleva scrivere tutto ciò che dovesse dire, che
scriveva perfino quello d’importante che dovesse dire a sua moglie Livia; e
che si era assuefatto a scrivere meticolosamente i suoi discorsi al
punto che, quando la troppo cagionevole gola gl’impedisse di arringare la
folla, un araldo leg- geva ad alta voce il suo manoscritto: praeconis
voce ad populum contionatus est. Perciò io dico che anche questo
documento è un discorso al Popolo di Roma: l’ultimo discorso nel quale il
Padre della Patria, Cesare Augusto, rende conto dell’opera sua.
E le prove della mia affermazione sono la presunta incoerenza e il
presunto disordine scoperti e biasimati dai critici. Ma non sono
malinconicamente ridicoli quei critici i quali cercano di dimostrare in «
sede scientifica » che Cesare avrebbe copiato da Posidonio molti
capitoli di un libro dei commentarii della guerra gallica (e sono,
purtroppo, Italiani); o questi altri (e fortunatamente non sono Italiani)
che scoprono in Augusto un errore di cronologia? Giacchè, se dovessimo
dar retta a costoro, O. avrebbe commesso l’errore di menzionare alla
fine del documento i due maggiori titoli del Pater Patriæ e di Augustus
conferitigli dal Senato e dal popolo negli anni 27 e 2 avanti Cristo.
Invece che nel trentaquattresimo e trentacinquesimo paragrafo,
Augusto avrebbe dovuto ricordarli, a giudizio di cotesti critici, molto
prima: chè insomma avrebbe dovuto fare opera di storico mediocre e
dimenticare di essere Cesare Augusto. Leggete il documento. Esso
comincia: annos undeviginti natus exercitum privato consilio et privata
impensa comparavi, per quem rem publicam a dominatione fac- tionis
oppressam in libertatem vindicavi: « all’età di diciannove anni, di mia
iniziativa e con danaro mio apparecchiai un esercito, e con esso
restituii libertà allo Stato oppresso dalla prepotenza di una
fazione. E si chiude così. Tra il sesto e il settimo consolato mio,
dopo ch’ebbi soffocate le guerre civili ed assunto, per universale
consenso di tutti i cittadini, il supremo potere, trasferii dalla mia
persona all’arbitrio del Senato e Popolo romano il governo della cosa
pubblica. Per questa mia benemerenza, mi fu conferito, con decreto
del Senato e Popolo romano, il titolo di Augustus... Durante il
tredicesimo mio consolato, il Senato, l’ordine equestre e il Popolo
romano mi acclamarono Padre della Patria, e decretarono che questo titolo
dovesse essere iscritto nel vestibolo della mia casa e nella curia
Giulia, sotto la quadriga che per decreto del Senato fu eretta ad onor
mio. Quando redigevo questo documento, avevo settantasei anni. Comincia: annos
undeviginti natus; finisce: annum agebam septuagesimum sextum. Non
dimentichiamo questa chiara e significativa corrispondenza tra
l’inizio e la chiusa del documento, nella quale sono compresi i
cinquantasette anni della vita politica di Cesare Augusto. O sembra,
forse, strano che per sublime orgoglio il primo cittadino della Roma
imperiale, acco- miatandosi per sempre dalla plebe romana, di tutti
i titoli e honores ch’egli ebbe in vita, voglia ricordare alle
generazioni avvenire il nome di Augustus e il titolo di Pater Patriæ? O.
era infermo, la morte si appressava non temuta, ma serenamente attesa,
chè infatti morì di bella morte. Egli parla per l’ultima volta al Senato
e Popolo di Roma, come un cittadino, che, amministrata la cosa
pubblica, dimesso dall’ufficio, consegni al successore l’incarico e chieda, con
coscienza onesta e proba, il benservito. C’è in questo documento un
crescendo di tono, che verso la fine raggiunge il maestoso: dal venticinquesimo
paragrafo in poi esso si fa solenne come litania: mare pacavi a
praedonibus; omnium provinciarum populi romani fines auxi; Ægyptum
imperio populi romani adieci; colonias deduxi; signa militaria
reciperavi; Pannoniorum gentes imperio populi romani subieci; ad me ex India
regum legationes saepe missae sunt; ad me supplices confugerunt
reges; a me gentes Parthorum et Medorum reges habuerunt; e
finalmente i due ultimi paragrafi sopratradotti. Sui mari ha debellato i
pirati, ha allargato i territori di tutte le provincie dell’Impero, ha
aggiunto la nuova provincia di Egitto, ha fondato nelle più lontane
regioni colonie di Roma, ha recuperato bandiere e vessilli: a lui
hanno fatto ricorso in atto di supplica i re di tante nazioni, da lui le
genti di Oriente hanno avuto i re che avevano dimandati. Col trentesimo
terzo paragrafo si chiude il rendiconto delle imprese operate da
Cesare Augusto; nel trentaquattresimo e nel trentacinquesimo paragrafo
risuona il ricordo del nome di Augustus e del titolo di Pater Patriæ. Al
Senato e Popolo romano, alle genti tutte dell’Impero, alle generazioni
avvenire Augusto si raccomanda e consacra, prima che la sua terrena
giornata si chiuda, con quel nome solo e solo con quel titolo.
* ws Cesare Augusto affida il manoscritto alle vergini
Vestali perchè fosse consegnato dopo la sua morte al Senato e inciso sul
bronzo. Il successore Tiberio fece riprodurre il testo com’era, con una
brevissima appen- dice e in ortografia un tantino diversa da quella
prefe- rita da Augusto, ma certo senza nessuna sostanziale
modificazione. Dunque, noi possediamo un’opera intera di Augusto, la
quale ci rivela la sua grande personalità di scrittore. Il latino d’O.
non è QUELLO DI GIULIO CESARE. O. scrive e parla IN PRIMA PERSONA, ma si
può dire che in questo scritto egli raggiunga la stessa efficacia dei
Commentari. Non giudica, NON AGGIUNGE NESSUN COMMENTO ai fatti che espone pacatamente
e senza enfasi, ma dalla secca enumerazione dei templi fondati, degl’edifici
pubblici restaurati o costruiti, delle somme elargite all’erario e alla
plebs, delle genti soggiogate, dei nemici sconfitti, delle terre
conquistate, delle leggi promulgate, spira il calore dell’epopea e della
leggenda. La sua opera appare, quale fu, colossale; e vien fatto di
ripen- sare ai primi quattro versi della prima epistola del secondo
libro di ORAZIO (si veda). Se io tentassi di rubarti un po’ di tempo con
una lunga chiacchierata, o Cesare, peccherei contro l’interesse dello
Stato, giacchè da solo sostieni tante e così gravi cure, e l’Italia
difendi con gli eserciti, e ne incivilisci i costumi, e con leggi
la emendi. Epico è il tono di questo scritto d’O., anche là dove
sono riassunte in brevissime parole imprese che durarono anni. Colonie
militari ho inviato in Africa, in Sicilia, in Macedonia, nelle due
Spagne, in Acaia, in Asia, in Siria, nella Gallia Narbonense, in
Pisidia. E l’Italia diciotto colonie possiede; dedotte per ordine mio, le
quali, per tutto il tempo ch'io vissi, sono state assai popolose e
prosperose. Leggendarie appaiono le legioni, che, guidate da lui o dai
generali suoi sotto ì suoi auspici, marciano, di conquista in
conquista, verso confini sempre più lontani; e avvolte nella leggenda
sembrano le triremi sue che fanno vela, =_= 1 -:-—=- esse
poni “bi ski audaci, verso nuovi lidi: « La mia flotta corse
l’Oceano dalla foce del Reno fino al territorio dei Cimbri ad
Oriente, dove, nè per terra, nè per mare, nessun Romano prima di allora
era giunto... ». Augusto ha uno stile sobrio, nient’affatto
enfatico, e tuttavia solenne. Egli adopera vocaboli che sono sempre
esatti e tecnici, censuit, decrevit, ussit, creavit, per dire che il
Senato e Popolo romano ordinò, decretò, comandò, nominò. La collocazione
delle parole è semplicissima, lineare, chiara, antiretorica, come in
questo periodo che è uno dei più ricchi sintatticamente: nomen meum
senatus consulto inclusum est in saltare carmen, et sacrosanctus in
perpetuum ut essem et, quoad viverem, tribunicia potestas mihi esset, per
legem sanctum est. Il mio nome per decreto del Senato fu compreso
nel carme dei Salii, e che inviolabile io fossi in perpetuo, ed a
vita avessi il potere tribunizio, fu per legge sancito. Non fa mai
il nome degli avversari suoi; tace quello dei congiurati che
assassinarono il padre suo Cesare: qui parentem meum interfecerunt, eos
in exilium expulsi iudiciis legitimis ultus eorum facinus et postea
bellum inferentis rei publicae vici bis acie: «Quelli che assas-
sinarono il padre mio li cacciai in esilio punendo con procedimento
legale il loro delitto, e, in seguito, quando essi portaron guerra allo
Stato, per due fiate li sconfissi in campo ». E continua, pacato e
grave: « Guerre per terra e sui mari, civili ed esterne, in
tutto il mondo più volte ho combattuto, e vincitore risparmiai tutti i
cittadini che dimandarono grazia. Le genti straniere alle quali fu
possibile, senza pericolo, perdonare, preferii conservarle anzi che
distruggerle. Sotto le mie bandiere circa cinquecentomila cit- tadini
romani militarono. Di essi più che trecentomila mandai nelle colonie o
feci ritornare ai loro municipi, dopo ch’ebbero compiuto gli anni di
servizio, e a tutti assegnai terre oppure donai danaro a ricompensa
del servizio prestato. Seicento navi catturai, non includendo in questo
numero quelle di tonnellaggio inferiore alle triremi. Entrai in Roma
ovante, due volte: tre ebbi trionfi solenni e ventuna volta fui acclamato
imperator, sebbene il Senato mi decretasse un maggior numero di trionfi,
ai quali tutti rinunciai. L’alloro dei fasci lo deposi in Campidoglio, e
così sciolsi il voto che avevo solennemente fatto in ogni guerra. Per le
imprese felicemente da me o dai miei generali sotto i miei auspici
operate in terra e sui mari, il Senato cinquantacinque volte decretò che
si rendessero grazie agli dèi immortali. Ottocentonovanta furono i giorni nei
quali, per decreto del Senato, s’inalzarono pubbliche preci. Nove
re o figli di re furono nei miei trionfi condotti innanzi al mio cocchio.
Ascoltatelo quando riassume in un periodo solo la sua opera di
legislatore: « Con leggi nuove da me promulgate richiamai in vigore le
consuetudini antiche dei padri, che già cadevano in oblio nella nostra
generazione, e io stesso ho lasciato alle generazioni avvenire esempi di
molte cose, degni d’essere imitati. Sentitelo quando ricorda gli onori
che il Senato e Popolo di Roma conferì ai suoi due figli adottivi,
e leggerete in un brevissimo inciso il dolore del padre per l’immatura
morte di Gaio e Lucio Cesare, e l'umano e affettuoso compiacimento suo
nel ricordare che appena quindicenni essi furono acclamati principi della
gioventù romana e designati consoli. I due figli miei, che il destino mi
strappò ancor giovani, Gaio e Lucio Cesare, il Senato e Popolo romano per
farmi onore li designò consoli appena quindicenni, che entrassero
in carica dopo cinque anni. E il Senato decretò che dal giorno della
loro presentazione nel Foro partecipassero ai pubblici consigli. E tutti i
cavalieri romani li acclamarono principi della gioventù, e offrirono
in dono scudi e lancie di argento ». E, infine, ascoltatelo quando
ricorda gli anni di Azio e dell’ultima guerra civile. Mi giurò fedeltà
l’Italia tutta intera, spontaneamente, e mi volle condottiero della guerra
nella quale vinsi ad Azio. Mi giurarono fedeltà anche le provincie delle
Gallie, delle Spagne, d’Africa, di Sicilia, di Sardegna. O. è filosofo
accortissimo, che aborre da ogni lenocinio sintattico o lessicale, ma che
nel giuoco delle congiunzioni, del polisindeto e dell’asindeto, riesce
a far leggiero o grave il tono della voce, più lento o più celere,
ma non mai concitato il movimento della frase. Abbiamo letto or ora un
esempio di asindeto, in cui le pause tra un nome e l’altro delle
provincie rendono più solenne l’immagine del mondo romano stretto
nel giuramento intorno al suo Duce; eccone, invece, un altro di
polisindeto, là dove O. ricorda l’iscrizione dello scudo d’oro offertogli dal
Senato. Il testo originale dell’iscrizione era il seguente. Il Senato e Popolo
di Roma offre ad O. questo scudo per il suo valore clemenza giustizia
pietà – VIRTVTIS CLEMENTIÆ IVSTOTIÆ ET PIETATIS CAVSA – e, naturalmente, VIRTVS
sta a significare l’opera del condottiero d’eserciti, e PIETAS il
profondo ossequio alle istituzioni religiose. Ma O. riunisce più
efficacemente in due endiadi le quattro virtù, essendo le due prime
proprie dell’opera sua di condottiero, le altre due del magistrato civile
e supremo amministratore dello Stato. VIRTVTIS CLEMENTIÆ IVSTITIÆ ET PIETATIS
CAUSA. Perciò io dico che è molto difficile tradurre bene i paragrafi
delle res gestae d’O. A questa grande iscrizione, che Mommsen chiama
la regina delle iscrizioni latine, è mancato chi la traducesse nella
lingua del principe, perchè è stata rinvenuta troppo tardi. Nei tempi
moderni avrebbe potuto tradurla solo Tommaseo, ma non l’ha fatto
perchè non la conosce. TOMMASEO traduce solo le sette parole che son
citate da SVETONIO nella vita d’O, ed io le ho ripetute nella mia
traduzione copiandole dal Dizionario d’estetica, e le ripeto di nuovo con
accanto il latino d’O. BIS OVANS TRIVMPHAVI ET TRIS EGI CVRVLIS
TRIVMPHOS. O entra in Roma ovante, due volte: tre volte ha trionfi
solenni. Solo la collocazione delle parole semplice ed efficace, e un
raro accorgimento nella scelta dei vocaboli e dei sinonimi
potrebbero soddisfare il desiderio nostro di una traduzione italiana che
riproduce gl’effetti del latino d’O. O. e filosofo elegante e temperato. SVETONIO
riferisce che egli filosofa su molte cose, alcune delle quali legge NELLA
CONVERSAZIONE DEGL’AMICI, quasi dinanzi a un uditorio come le risposte a BRUTO
(si veda) intorno a CATONE (si veda), che essendosi messo a leggere, giunto un
pezzo innanzi, finalmente stanco dovè farne terminare a Tiberio la
lettura; l’esortazioni alla filosofia, ed alcune notizie della sua
vita che espose giungendo fino alla guerra cantabrica e non più in là.
Compone anche qualche verso. Rimane, al tempo di Svetonio, un
volumetto in esametri sulla Sicilia e un altro di Epigrammi, i quali egli e
andato COMPONENDO DURANTE IL BAGNO. Anche
incomincia con grande alacrità una tragedia, ma non essendo contento
della forma la distrusce, e agl’amici che un giorno gli dimandano che fa di
bello il suo Aiace, risponde che il suo Aiace s’e buttato non sulla
spada, ma in una spugna. Spregia di fare uso di vocaboli dotti e
difficili o com’egli stesso li define reconditorum verborum
fetoribus. Ha a noia i leziosi e gl’arcaizzanti, ciascuno vizioso nel suo
genere, e talvolta li mette in derisione e sopra ogni altro il suo MECENATE (si
veda) di cui continuamente riprende i riccioli stillanti unguento, come
li chiama. Non la perdona neppure a Tiberio che anda a caccia di parole
stantie, e da del matto a Marc’ANTONIO (si veda), come colui che FILOSOFA
PIÙ PER FARSI AMMIRARE CHE PER FARSI INTENDERE. Nei discorsi, di alcuno dei
quali leggesi in CICERONE menzione entusiastica, sappiamo che O. si
preoccupa di riuscire eloquente senza mai ricorrere alla verbosità e
pesante sentenziosità dell’allora decadente oratoria. In una lettera ad Agrippina,
lodando l’ingegno di lei, l’ammonisce che si studi di non CONVERSARE
in modo disgustevole e lezioso. E per riuscir chiaro, sì che tutti
potessero capire, preferiva una sintassi limpida ad una sintassi più armoniosa
e serrata, e adopera le preposizioni anche dinanzi ai nomi di città,
facendo cosa che un diligente maestro dei nostri tempi sottolinea con
frego azzurro nel compito del malaccorto scolaro. Svetonio, che ci racconta
questi particolari della grammatica e sintassi d’O, e che ha modo di consultarne
gl’autografi, ricorda anche che O non divide mai le parole in fine di
riga per terminarle nella riga seguente, ma le ripiega sotto
chiudendole con una linea curva. E aggiunge che l'ortografia d’O, abituato
a scrivere per CONVERSARE, e quella di chi scrive COME PRONUNZIA. Se
dobbiamo credere agl’antichi, d’O. restano famose le lettere. Raccolte per
tempo in più volumi e alcune di esse rimaste vaganti, non costituirono
mai un vero e proprio corpus, ma andarono a poco a poco disperse. Esse
non hanno la buona e cattiva ventura di entrare nelle scuole come libro
di testo, e neppure l’altra d’essere raccolte in antologia. Restano
però i giudizi degl’antichi e alcuni frammenti degni d’essere ricordati. O.
discorre alla buona, familiarmente, sia che filosofa di affari politici,
sia che si rivolgesse ad amici e parenti. Sollecita VIRGILIO (si veda)
che gli mandas almeno l’abbozzo dei primi versi dell’Eneide; scherza con
ORAZIO (si veda) rimproverandolo che non conversa mai di lui, e
chiedendogli se per caso non crede di rimanere infamato presso i
posteri, qualora dai saggi suoi appare chiara la loro intimità. All’amico
MECENATE (si veda) un giorno scrive che essendo infermo e tuttavia
indaffarato in più cose, chiama e fargli da segretario il suo ORAZIO; lo
richiama cioè dal parassitico desco del nobile etrusco alla sua
mensa di pontefice massimo. VENIET ERGO AB ISTA PARASITICA MENSA AD HANC REGIAM
ET NOS IN EPISTVLIS SCRIBENDIS ADIVVABIT. E un’altra volta gli scrive una
lettera che si chiude con questa forbita apostrofe. Salute o mio ebano di
Medullia, città etrusca, avorio d’Etruria, laserpizio di Arezzo, perla
tiberina, smeraldo dei Cilnii, diaspro degl’Iguvini, berillo di Porsenna,
carbonchio d’Adria, e, per dirle tutte in una parola, céccolo delle
meretrici. Suo nipote Gaio Cesare e da lui chiamato in segno di affetto,
asellus tucundissimus; e al figliastro Tiberio egli scrive lettere gonfie
di tenerezza e confidenza, raccontandogli come avesse passato il giorno,
quanto avesse perduto al giuoco, parlandogli dei suoi digiuni imposti
dalla cagionevole salute, e d’aver sbocconcellato in lettiga, tornando al
palazzo, un’oncia di pane e pochi acini di uva secca. E quando Tiberio,
il quale milita lontano con gl’eserciti, scrive di essere smagrito
per le continue fatiche della campagna, ei lo supplica di riguardarsi,
chè, alle cattive notizie della sua salute, et ego et mater tua (Livia),
expiremus et summa imperti sui populus romanus periclitetur. Alla figlia
Giulia vuole un gran bene, e la licenziosa vita ch’ella conduce amareggia
assai l’animo suo. Sole dire di aver DUE FIGLIE, tutt'e due DELICATISSIME,
la RES PVBLICA E GIULIA. E molto spesso nelle lettere, come riferisce il
vecchio PLINIO, recrimina penosamente la dissolutezza di lei. Umano
egli e sempre e ricco di sentimento. Qualunque cosa scrive, politica o
familiare, alieno da ogni lenocinio di forma e incline piuttosto ad
accogliere espressioni còlte sulla bocca del popolo. Non scrive die
quinto ma diequinte, chè così comunemente dicevasi. E per esprimere la celerità
di un avvenimento, dice ch’esso e accaduto più prestamente che non cuoce
uno sparagio, celerius quam asparagi coquuntur. E per dir stolto adopera
baceolus che corrisponde al nostro baggeo. E per dire che sta male
in salute dice vapide se habere. Abbiamo poco dei suoi scritti, di intero
la sola iscrizione delle res gestæ in latino, e alcuni decreti ed
editti in greco, non tradotti da lui direttamente, ma certo da lui
corretti e controllati. Svetonio racconta che O., sebbene conoscesse il
greco e sempre lo legge e studia, tuttavia non si prova mai a scriverlo,
chè teme di non conoscerlo abbastanza. Studia con retori greci, i quali gli
appresero cose di larga erudizione. Ma scrittore, come ci appare nel
lapidario latino della iscrizione delle res gestæ, egli s'e formato
sull’esempio di Cesare, nell’azione ed esperienza militare e politica di
tutti i giorni. Aveva innanzi tutto imparato ad evitare non la facondia,
ma la loquacità, e a reputare perciò che L’ELOQUENZA CONSISTE NEL NON FAR
MOSTRA D’ELOQUENZA: PARTEM ESSE ELOQVENTIÆ PVTAT ELOQVENTAM ABSCONDERE -- che è
poi la grande virtù della parola destinata a commuovere i popoli e
a guidarli alla vittoria e all’impero. I contemporanei lo salutarono coi
versi di VIRGILIO. Ecco Cesare Augusto, l’eroe che ci era stato promesso e che
resusciterà nel Lazio e nelle campagne d’Italia, dove in antico regnava
Saturno, l’età del- l’oro; e l’Impero di Roma amplierà fino al Fezzan
e all’India, di là dalle vie delle stelle, fin dove l’instancabile
Atlante sostiene sulle spalle lo splendente astro dei cieli. Lo avevano
veduto entrare tre volte in trionfo nelle mura di Roma, e pagare agli dèi
d’Italia l’immortale tributo dei suoi voti consacrando più di
trecento templi, e fra l’applauso della folla e i canti delle vergini e
delle matrone, mentre sugli altari fumanti cadevano immolati migliaia di
tori, l'avevano ammirato, sulla soglia di marmo e di alabastro del tempio
di Apollo, ricevere dall’alto del trono i doni dei popoli sottomessi per
abbellire le magnifiche colonne del superbo porticato. L’immagine
virgiliana -- VIRGILIO (si veda) -- dell’apoteosi di Augusto si è
trasmessa, di generazione in generazione, come l’immagine della pace
romana creata dall’eroismo e dalla vittoria delle legioni, e dalla
volontà pura di uno spirito umanamente libero trasformata in religione
politica e ideale di civiltà: riformatore della costituzione, difensore
del territorio, organizzatore dell’amministrazione e della società,
Cesare Augusto rappresenta la maestosa dignità dell’Impero e il diritto
fondamentale dello Stato. I simboli del suo destino, l'adozione di
Cesare, la battaglia di Filippi, la vittoria d’Azio annunziano, nel
tramonto di Roma repubblicana, la luce di Roma imperiale; più
chiaramente ancora l’annunzia il nuovo suo nome di Imperator
Caesar Augustus, che è un simbolo anch’esso e riunisce in un solo
destino l’eroe creatore e la volontà implacabil- mente lucida del
fondatore dell’Impero. Religiosa eredità fu quella di Cesare: e
infatti duravano ancora le leggi, le istituzioni e gli ordina-
menti, coi quali Cesare era salito al potere e il culto del divus Iulius
e diventato il culto dello Stato, garanzia e patrimonio dell’Impero. Ma
rafforzando e difendendo la Romanità così che niente mai potesse
distruggerla, Augusto risolveva a favore dell’Occidente l’antitesi tra
l'Oriente e l'Occidente che Cesare aveva drammaticamente vissuta negli
ultimi anni della vita sua, e che s’era ripresentata, fortunosa e
tragica, nella lotta tra Ottaviano non ancora Augusto e Marco Antonio. È
però costruendo in Occidente la Roma imperiale sognata e creata da Cesare,
Augusto che aveva da Cesare ereditato la legittimità aggiunse alla
grandezza del padre suo la gloria d’aver tenuto a battesimo la civiltà
europea. Insieme con GIULIO (si veda) Cesare, O. è il simbolo della
dignità imperiale, e il nome suo di imperator cæsar avgvstvs
consacra l’identificazione dell’impero con l’occidente. Il titolo di ‘cesare’
da il diritto di successione al trono; quello di ‘augusto’ concede la
dignità imperiale: il rito iniziato dai Flavii e ufficialmente inaugurato d’Adriano
e poi consacrato nelle formule del protocollo. Creatore dell’impero e
Cesare; fondatore e O., il quale e riuscito a far sopravvivere l’opera e
la gloria di Cesare in cinquantasei anni di regno, e della santità di Cesare fa
il patrimonio e il fondamento dell’Impero. Appare dunque ricco di conseguenze
per il mondo l’atto di adozione, col quale Cesare proclama suo
erede il nipote di una sua sorella, quel giorno che, alla vigilia di una
battaglia, mentre fa tagliare un bosco per costruirvi il campo
delle legioni, ordina si risparmiasse una palma come augurio di
vittoria, e quella sùbito gitta polloni alti e fiorenti. All’albo della
Rinascenza, quando si inaugura la ricerca storica e si annunzia fecondo
di civiltà il quasi voluttuoso amore del passato, e la romanità risorge
nella cultura e nell’arte nutrite dalla possente vita dei sensi, allora i
due nomi di cesare e di augusto tornano ad essere creatori della
religione dell’impero. Allora il romanticismo eroico dell’umanesimo celebra ed
esalta l’idea imperiale di Roma con tanto devota ammirazione che gl’italiani
ne trarranno motivo di orgoglio e di serena fede, quando il predone
straniero spoglia e insozza le loro terre. E da quel grido di amore
per l’antica grandezza romana nasce un appassionato libro del
Risorgimento, sul primato della nostra gente e sulla universale missione
d’Italia. |Allora, all’alba della Rinascenza, fiorirono le leggende sui
monumenti che sono rimasti segni tangibili della sua presenza, a testimonio
della grandezza d’O. Ed O. apparve garante del miracoloso destino
d’Italia, come nella formula dell’impero che saluta l’imperatore con
l’augurio che fosse più fortunato di Augusto: felicior augusto. E si
divulga la fama che nel mausoleo comunemente noto col nome di Austa
sorge circondata dalle tombe un’abside, ed O. e i sacerdoti suoi vi celebrassero
sacrifizi solenni, fra sacchi di terra raccolti d’ogni parte del
mondo a perpetuo ricordo delle genti sottomesse all’impero. L’Austa divenne una
fortezza inespugnabile, la fortezza più contesa di Roma, ed e strascinato
allo campo dell’Austa il cadavere di Cola di Rienzo e là e bruciato
in un fuoco di cardi secchi, in quegl’aanni che
Petrarca scopre e vaticina nella grandezza di Roma imperiale l’ideale
politico italiano, distruggendo ogni antitesi tra il passato e
l’avvenire. E dopo che il maestro Marchionne d’Arezzo ha costruita presso il
Mercato di Traiano l’alta Torre delle Milizie, allora nasce, più
suggestiva e più vera, anche l’altra leggenda: che sotto la torre e un
palazzo incantato ed O. vi riposa. E un giorno si desterebbe dal
sonno e tutto armato uscirebbe con milizie e legioni, quando Roma e
pronta a reggere e guidare per la seconda o terza volta le sorti del
mondo. Ottaviano. Keywords: vox augusta. Ottaviano. Luigi Speranza, “La
ragione conversazionale: Grice ed Ottaviano,” pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “ The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Ottaviano.
Luigi Speranza -- Grice ed Ottaviano: all’isola -- la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e il collettivismo – la
scuola di Modica – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Modica).
Filosofo siciliano.
Filosofo italiano. Modica, Ragusa, Sicilia. Grice: “Perhaps with Holllinghurst,
and Hogarth, of course, Ottaviano is one of the few who have cherished in the
analysis of ‘la curva’ or ‘la linea’ – and it has revived a debate which should
fascinate a few!” Diplomatosi a Modica, si laurea a Milano.
Straordinario di Storia della Filosofia a Cagliari, poi a Napoli, ottenne la
cattedra, conseguendovi la libera docenza ne passò poi a Catania, dove fonda e
diresse l'Istituto di Magistero, insegnandovi. Fonda la rivista “Sophia”. Grande
conoscitore della filosofia del periodo medievale, di cui peraltro ritrova e
studiò molte opere inedite, elaborò una propria teoria. Delle due saggi, “Critica dell'Idealismo”
(Napoli,) e “Metafisica dell'essere parziale” (Padova), la prima ma fu ben
presto censurata e poi bruciata pubblicamente a causa della sua dura critica
all'Idealismo di Gentile. Questa sua opposizione a Gentile, nonché le sue
critiche a Croce, gli valeno dure vessazioni accademiche. Compone inoltre un ampio e comprensivo
Manuale di storia della filosofia (Napoli). Membro dell'Accademia d'Italia, si
occupa, per primo, della filosofia di Gioacchino da Fiore, esaltato d’Aligheri
nella Commedia, pubblicandone un saggio. Pubblica il codice di Oxford “Joachimi
Abbatis Liber contra Lombardum,” che attribuì a qualche seguace della scuola di
Fiore. Mentre celebrava, a Novara, Pietro Lombardo, riprese a parlare di Fiore,
presentandolo come un romantico "ante litteram" e un fautore della
nazione italiana. Segnalò pure due ignorati codici gioachimiti della biblioteca
Casanatense di Roma, occupandosi altresì della condanna di Gioacchino da parte
del Concilio Lateranense ed evidenziandone lo sgomento suscitato. Inoltre,
nella rivista Sophia, diretta da lui ed allora edita dalla MILANI di Padova, da
spazio a vari studiosi gioachimiti. Sempre sull'argomento, ritenne dapprima
Gioacchino un triteista, ma, dopo aver visionato le tavole del Liber figurarum,
scoperto da Tondelli propese invece per un'ortodossia trinitaria. Fonda e
diresse un partito nazionale d'impronta social-liberale, che però non ha
seguito. Saggi principali: PAbelardo. La vita, le opere, il pensiero,
Poliglotta, Roma; Il Tractatus super quatuor evangelia, di Fiore, Archivio di
filosofia, Padova, Testi medioevali inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, AOSTA
(si veda), Abelardo, Incertus auctor, Olschki, Firenze; Joachimi abbatis Liber
contra Lombardum (Scuola di Gioacchino da FIORE (si veda)), Reale Accademia
d'Italia Studi e documenti, Roma, Un documento intorno alla condanna di
Gioacchino da Fiore, Rondinella, Napoli); Pier LOMBARDO (si veda), in
Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione
del Libro, Urbino; Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli; Metafisica
dell'essere parziale, MILANI, Padova; “La tragicità del reale, ovvero la
malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI, Padova; Campailla.
Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia,
introduzione e note Orsi, MILANI, Padova; Scarcella, Dizionario Biografico degli
Italiani, Orsi, Il filosofo della quarta età: ricordo di O., quotidiano “La Sicilia”,
Catania, di. Orsi, Tra Socrate e Gesù, Sicilia, Catania,. E. Scarcella, Dizionario
Biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma,. Gioacchino da Fiore Pace, Info Magazine. Grice: “I love
Ottaviano: he had three main interests: philosophy, philosophy, and philosophy.
More specifically, as a Sicilian, he was not interested in Italian philosophy,
which he found too continental; he loved a mediaeval – and he loved Gentile –
he corresponded extensively with him! La
visione cristiana di Buonaiuti, Campitelli, Foligno. A proposito di un libro
sul Prepositino, Rivista di filosofia neoscolastica, Traduzione, prefazione e
note di: Cantuariensis, Opere filosofiche, trad. pref. e note di O., Carabba,
Lanciano. Metafisica del concreto. Saggi di una Apologetica del Cattolicesimo,
Signorelli, Roma. Ricerche lulliane, Estudis universitaris catalans; Abelardo.
La vita, le opere, il pensiero, Tipografia Poliglotta, Roma. Otto opere sconosciute di Lullo,
Rivista di cultura; L'Ars compendiosa de Lulle, avec une étude sur la
bibliographie et le Fond Ambrosien de Lulle, Paris; ristampata sempre in
francese: L'Ars compendiosa de Lulle, avec une étude sur la bibliographie et le
Fond Ambrosien de Lulle, O., Librairie philosophique Vrin. Guglielmo d'Auxerre. La vita, le opere, il pensiero,
Biblioteca di filosofia e scienze, Roma. A proposito di un libro su AOSTA (si
veda), in Rivista di filosofia neoscolastica. I problemi del realismo, Giornale
critico della filosofia italiana; Le Quaestiones super libro Praedicamentorum” di
Faversham, R. Accademia dei Lincei». Roma. Traduzione, prefazione e note di
AQUINO (si veda), Saggio contro la dottrina dell’unità dell’intelletto,
Carabba, Lanciano. Traduzione, prefazione e note di AQUINO (si veda), Saggio
sull'essere e l'essenza e altri opuscoli, prefazione, traduzione e note critiche
d’O., Carabba, Lanciano. Frammenti abelardiani, Rivista di cultura, Prof. P,
Loescher, Roma. Il Tractatus super quatuor evangelia di FIORE (si veda),
iArchivio di filosofia», Padova. Osservazioni critiche sui presupposti del
problema della conoscenza. Il superamento dell'immanenza sulla base della
nozione di individuo, Archivio di filosofia. Il pensiero e il suo atto,
Archivio di filosofia. La riforma della logica di Aristotele, Archivio di
filosofia. Nota polemica, Rivista di cultura. Le opere di Faversham e la sua
posizione nel problema degl’universali, Archivio di filosofia. Traduzione,
curatela e note di: TRACTATVS DE VNIVERSALIBVS attribuito ad AQUINO (si veda), cur. di O., Reale Accademia d'Italia, Roma. Introduzione,
traduzione, prefazione e note di AOSTA (si veda), Il Monologio, Palermo. Antologia
del pensiero medioevale. Per le scuole medie superiori, Ires, Palermo. Testi
medioevali inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, AOSTA (si veda), Pietro
Abelardo, Incertus auctor, a cura di O., Olschki, Firenze; San Vittore, la
vita, le opere, il pensiero, Lincei, Traduzione, prefazione e note di FIDANZA
(si veda), Itinerario della mente verso Dio, traduzione, prefazione e note di
O., Antologia del pensiero medievale per le scuole medie superiori, Palermo. Il
pensiero di Orestano, Ires, Palermo. Il superamento dell'immanenza in Varisco,
Archivio di filosofia, Traduzione e note di: P. Abelardus, Epistolario
completo. Contributo agli studi sulla vita e il pensiero di Abelardo, trad. it.
e note critiche d’O., Ires, Palermo. Joachimi abbatis Liber contra Lombardum.
La Scuola di Gioacchino da FIORE, cur. O., Reale Accademia d'Italia, Studi e
documenti, Roma. Critica del principio d'immanenza, Rivista di Filosofia
Neoscolastica, Il perduto “Liber de potentia, obiecto et actu” di Lullo in un
manoscritto romano, Estudis franciscans, Un documento intorno alla condanna di FIORE
(si veda), Rondinella, Napoli, Siculorum Gymnasium, Catania). Storia,
filosofia della storia, scienza della storia, Rivista di Filosofia
Neoscolastica, Un brano inedito della Philosophia di Conches, Morano, Napoli. Il
cosiddetto riferimento necessario alla coscienza nell'idealismo, Atti del Congresso
di Filosofia, Padova, Novità in filosofia, Milani, Padova. LOMBARDO (si
veda), in Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la
Illustrazione del Libro, Urbino. Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli, Milani,
Padova, Traduzione, prefazione e note di: Abelardo, L'origine delle monache; e
La regola del Paracleto, traduzione, prefazione e note di O., Carabba,
Lanciano. L'unica forma possibile di idealismo, Rivista di Filosofia
Neoscolastica, La scuola attualista ed Eriugena, Rivista di Filosofia
Neoscolastica, Riflessioni sulla polemica Orestano – Olgiati, Rivista di
Filosofia Neoscolastica, Curatela di: CAMPANELLA (si veda), Epilogo magno
(Fisiologia italiana). Testo inedito con le varianti dei codici e delle
edizioni latine, cur. O., Reale Accademia d'Italia, Roma, Kritik des
Idealismus, mit einer Einfuhrung von Fritz-Joachim Von Rintelen:
Realismus-Idealismus?, Aschendorff, Munster. Metafisica dell'essere parziale, MILANI,
Padova. L'unità del pensiero cartesiano e il cartesianesimo in Italia, MILANI,
Padova. Scritti con giudizi della critica italiana, Tipografia agostiniana,
Roma. Panteismo o trascendenza, Humanitas; Il problema morale come fondamento
del problema politico, Milani, Padova. L'idealismo trascendentale e la
metafisica classica, Rivista di Filosofia Neoscolastica; La soluzione
scientifica del problema politico, Rondinella, Napoli. Le incertezze della
scienza moderna, Padova. Progetto di un disegno di legge per salvare la
Democrazia dalla dittatura, MILANI, Padova. Dalla democrazia ingenua alla
democrazia critica, MILANI, Padova. Che cosa è il social-liberalismo, MILANI,
Padova, Lineamenti programmatici per una riforma della scuola italiana, MILANI,
Padova. Presentazione di Sepinski, Cristo interiore secondo FIDANZA (si veda),
presentazione O. trad. di Orgiani, Politica popolare, Napoli. La tragicità del
reale, ovvero la malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI,
Padova. Critica del socialismo: ossia Introduzione alla teoria della proprietà
per tutti, MILANI, Padova. Introduzione alla teoria delle proprietà per tutti,
ovvero la mia soluzione al problema economico-politico, MILANI, Padova. Didattica
e pedagogia. Ovvero la mia riforma della scuola, MILANI, Padova. La legge
della bellezza come legge universale della natura. Considerazioni teoretiche e
applicazioni pratiche, MILANI, Padova. Manuale di Storia della filosofia, La
Nuova Cultura, Napoli. Manuale di storia della filosofia e della pedagogia, La
Nuova Cultura, Napoli. Appunti di pedagogia contemporanea. Personalismo e COLLETTIVISMO.
Introduzione alla teoria della proprietà privata per tutti, Solfanelli, Chieti.
Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in
Italia, introduzione e note cur. Orsi, MILANI, Padova. Sophia: fonti e studi di
storia della filosofia, Palermo: Ires, Il complemento del titolo varia in:
rivista internazionale di fonti e studi di storia della filosofia; poi in:
rassegna critica di filosofia e storia della filosofia. Luogo ed editore
variano in: Napoli, Rondinella; poi in: Padova, Milani. Alcuni dei saggi più
significativi da O. per Sophia: Le rationes necessariae in AOSTA (si
veda), in Questioni e testi medievali, Sophia, Novità abelardiane, in Questioni
e testi medievali, Sophia; Storicismo attualista, Sophia, Storicismo
attualista, seconda puntata, Sophia; Controversie medievali. A proposito della
paternità tomistica AQUINO (si veda) di un “Tractatus de universibus, e della
data del De unitate intellectus, Sophia», Intorno al Congresso di Filosofia di
Padova, Sophia; Intorno alla critica dell'immanenza, Sophia, Critica del
principio di immanenza, Sophia, A proposito della storia, Sophia. I grandi
idealisti, Sophia. L'idealismo sulla via di Damasco, Sophia. Contraddizioni
idealistiche, Sophia. La fondazione del realismo, Sophia. Postilla alla difesa
del principio di immanenza, Sophia; Postilla a Immanenza, idealismo e realismo,
Sophia». Idealisti per forza, Sophia, Ancora sulla fondazione del realismo, in
Sophia; Fanatismo idealista, ovvero l'agonia dell'idealismo, Sophia; Nuova
illustrazione del documento intorno alla condanna di FIORE (si veda). Postilla,
Sophia; Intorno all'idealismo e al realismo, Sophia, Postilla a Chiocchetti: “A
proposito dell'idealismo d’O., Sophia; Anti-moderno, Sophia; Intorno alla
critica all'idealismo, Sophia; Intorno alla valutazione della filosofia, Sophia;
La teoria delle “species” e l'idealismo immanentistico, Sophia; La natura della
sensazione e la fondazione del realismo, Sophia; Referendum ai nostri Lettori
in occasione della ripresa delle Rivista, Sophia, Sophia, Il vero significato
della relatività galileiana nel movimento,
Sophia. Natura pura e soprannaturale, Sophia. I fondamenti logici della
relatività, Sophia. Gl’argomenti probativi dell'evoluzionismo, Sophia, Intorno
al significato storico dell'idealismo italiano, Sophia; Intorno alla legge di
conservazione dell'energia, ossia del materialismo, Sophia, Intuizionismo e
logicismo in matematica, Sophia, Intorno alla gratuità dell'ordine
soprannaturale, Sophia; Postilla a Riverso, Aporie e difficoltà del Positivismo
logico, Sophia; Valutazione critica del pensiero di Croce. L'estetica, Sophia,
Valutazione critica del pensiero di Croce; Lo storicismo assoluto, Sophia,
Bilancio di Croce, Sophi. Einstein filosofo, Sophia, Giudizio intorno alla
Logistica, Sophia, Logica, matematica, poesia, Sophia, Crolla l'idolo
einsteiniano, Sophia, Il“compagno Scioccherellov, ossia la tragicommedia del
comunismo, Sophia, Mi intrattengo ancora con il compagno Scioccherellov,
Sophia, “Individui di tutto il mondo unitevi”, ossia Critica della democrazia
come idea-forza, Sophia, Giudizio su Croce come uomo politico, Sophia. L'assalto
alla diligenza, ossia la scuola privata ecclesiastica e laica all'assalto del
tesoro della stato, Sophia, Difesa della scuola statale, ossia l'anti-stato
contro lo stato, Sophia, L'ordine della scuola italiana”, Sophia, In difesa
dell'umanità Abbasso gli scienziati, viva i filosofi!, Sophia. Come integrare
la dottrina relativistica di Einstein, Sophia, O. nella filosofia del
Novecento, Atti dei convegni tenuti a Milano e Catania, cur. Rando e Solitario,
Prometheus, Milano. A. Cartia, Tempo, memoria e infinito. I temi del
tragico nell'opera di O., cur.
Ghisalberti e Rando, Prometheus, Milano Bontadini, Dall'attualismo al
problematicismo, Brescia. Coniglione, Sophia. Nel segno d’O.: una rivista a
tutto campo, in La cultura filosofica italiana attraverso le riviste, cur. Giovanni,
Angeli, Milano, Croce, Conquiste filosofiche a passo di carica e a suon di
tromba, Critica, Orsi, Il filosofo della
quarta età: ricordo d’O., Sicilia”, Catania, Orsi, O: Tra Socrate e Gesù, Sicilia”,
Catania, Orsi, Appunti autobiografici ed evoluzione filosofica d’O., Archivium
Historicum Mothycense, Orsi, Metamorfosi di un'opera quale compendio di una
vita filosofica, Introduzione a O., Campailla. Contributo all'interpretazione e
alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note a cura di Orsi, MILANI,
Padova, Noce, Il problema dell'ateismo, Teismo e Ateismo politici: postulato
del Progresso e postulato del Peccato, Mulino, Bologna, Noce, Gentile, Mulino,
Bologna, Tommasi, Compendio di una vita filosofica: Carmelo Ottaviano, in Voci
dal Novecento, a cura di Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta Ferro, L'anti-moderno di O., Rivista di
Filosofia Neoscolastica, Garin, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari, Mathieu,
La filosofia del Novecento. La filosofia italiana contemporanea, Le Monnier,
Firenze Mazzantini, La riduzione ad absurdum dell'immanenza gnoseologica, Rivista
di Filosofia Neoscolastica, Vita e Pensiero, Milano. P. Mazzarella, Il
contributo di O. agli studi di filosofia medievale, Sophia, Mazzarella, Tra
finito e infinito. Saggio sul pensiero di O., Milani, Padova, Mignosi, O.,
Tradizione, Minazzi, Il principio di immanenza nel dibattito filosofico
italiano: il confronto tra Preti e O., Protagora, Aspetti e problemi della
filosofia italiana contemporanea, cur. Quarta, Scarcella, O. in Dizionario
Biografico degl’Italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, Sciacca,
Di una recente critica del principio di immanenza, in «Ricerche filosofiche»,
Sciacca, Il secolo XX, Bocca, Milano. Carmelo Ottaviano. Ottaviano. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ottaviano” – The Swimming-Pool Library. Ottaviano.
Luigi Speranza --
Grice ed Ovidio: la ragione conversazionale e l’implicatura convrsazionale –
Roma – la scuola di Sulmona -- filosofia abruzzese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Sulmona).
Filosofo italiano. Sulmona, L’Aquila, Abruzzo. Publio Ovidio Nasone. Muore a
Tomi, rivela influssi filosofici assai svariati. A Posidonio, mediato da
Varrone, si fa risalire la rappresentazione dell'età dell'oro e dello sviluppo
della cultura (“Met.”; “Fasti”). Dalla setta di Crotona deriva in larga
misura il libro XV delle Metamorfosi, in cui Pitagora -- di cui si dice che si
innalza sino al divino colla filosofia e scorge con l’animo ciò che la natura
nega agli sguardi umani -- espone ai discepoli un ampio insegnamento sulla
natura, il divino, numerosi problemi naturali oscuri e condanna l’uso delle
carni animali, giustificando questa proibizione con la teoria della
metempsicosi. Nella tesi che nulla è stabile nella natura e nell’uomo, che
anche gli elementi si trasformano gli uni negli altri, si notano invece
influssi eraclitei e di Girgenti. La formazione del mondo dal caos (Met.), in
complesso, riecheggia il portico, ma include anche elementi che fanno pensare a
Girgenti, ad Anassagora e a Lucrezio. For a contemporary Roman reader of Ovid's
Metamorphoses – usually just the emperor -- who has made his way through the
labyrinth of mythological tales that comprise, one segment becomes in some ways
a fresh start. It begins the third and last pentad. As he marks this formal
boundary, Ovid introduces what he calls a *historical* emphasis. Troy is
founded, and from Troy's story that of Rome arises. Roman matter, settings, and
themes occupy ever more of our attention as the thing approaches its end. Ovid
includes some of the same tales that he had used in his less successful (less
read, not even the emperor read it!) in
the Fasti, his “most Roman work” in terms of its proclaimed matter: the very
Roman calendar – “tempora cum causis Latium digesta per annum.” – And the
Romans always found a cause to celebrate! As we read of Hippolytus deified as
Virbius, or encounter the list of Alban kings, the last pentad of the
Metamorphoses, too, begins to resursigate for a more imperial readership the
“Fasti.” And yet the latter ‘Roma historical’ part of of the Metamorphoses is
fully continuous with the first part, simultaneously a fresh start and a
seamless continuation. Ovid’s *Roman* historical emphasis is a development of
long-established patterns. First Trojan, then Roman subjects signal the work's
conclusion, wherein the large-scale historical progression promised in the
work's opening lines will be fulfilled: having set out "from the first
beginnings of the world," primaque ab origine mundi Ovid's narrative will
now reach "my own times," mea tempora the present for both author and
readers. Thus, if we, after reading of so many nymphs and maidens transformed
into trees or waterfowl, are surprised to find Romulus and Julius Caesar
turning up, Ovid's development and fulfillment of narrative patterns also
remind us that from the start we had reason to expect such figures to appear. His
vast work of transformative myth embraces even them. Whereas Rome contribute
something new to the last pentad of the Metamorphoses, she also functions in a
fashion that Ovid has made throughly familiar. Already at the start, the
council of the gods, called by Jupiter to discuss Lycaon's crime, offers a
striking Romanisation of heaven's architecture and social distinctions, with
mention of “atria nobelium,” “plebs,” and the like." When Ovid represents
Jupiter summoning the gods to the “palatia Caeli,” Jupiter becomes not only
Romanized but a reflection of Ottaviano, whose casino stood on the earthly
Palatine Hill. Shortly thereafter, Ovid explicitly addresses Ottaviano in a
context that links Lycaon's assassination attempt on Jupiter to contemporary
attempts on Ottaviano’s life. Both crises cause astonishment throughout the
world. “Nec tibi grata minus pretas, Auguste, tuorum est, quam fuit illa loui.”
Thus, in returning to current events Ovid recalls to our minds their heralded
arrival near the beginning. Also familiar is the narrative use Ovid makes of the
Roman matter. Rome functions largely as a frame for other tales, which are
often only tenuously related to the newly-prominent national theme – or rather
the theme of the history of the nation. We are well aware, when we arrive at
this point, that traditionally important and familiar cycles of myth, such as
those concerning Theseus and Hercules function mainly as framing devices that
connect tales. Many of these are only tangentially related to the framing
narrative, or are even altogether remote from it. No sooner does Ovid introduce
Troy than he begins to employ it in this now-familiar narrative mode. The
traditional story appears to establish a structural pattern for the progress of
the narrative, but it is soon displaced, as tales succeed tales. Troy may be
familiar ground, but its familiarity does not enable us to predict our
convoluted path through Ovid's work with any confidence. Who could guess, when
Laomedon founds Troy, that Ceyx and Alcyone would occupy much of our attention?
As we read their tragic tale, we may observe thematic links to other tales in
the Metamorphoses, as in the personification of Somnus, which formally recalls
those of Inuidia and of Fames. Yet the topic of Troy has disappeared, at least
for now, from view. So has the new historical emphasis. For the tale of Ceyx
and Aleyone is as mythical, as fabulous, as anything in the preceding material.
Indirection and unpredictability remain characteristic of the narrative even as
Ovid draws Roman historical material within his scope. One might expect Roman historical
themes to alter the Metamorphoses. Instead, the Metamorphosis-motif alters
them. An especially powerful symbol of Ovid's transformative language is his
last and most ambitious personification, the House of Fame. After Ceyx and
Aleyone, Ovid abruptly returns to Trojan subjects with Aesacus, then recounts
the sacrifice of Iphigenia and the arrival of the Greek fleet at Troy. But
before proceeding with the Trojan War, he introduces a remarkable descriptive
passage on Fama, beginning with these lines: “orbe locus medio est inter
terrasque fretumque caelestesque plagas, triplicis confinia mundi; unde, quod
est usquam, quamuis regionibus absit, inspicitur, penetratque cauas uox omnis
ad aures. Fama tenet summaque domum sibi legit in arce.” There is a place at
the middle of the world, between land, sea, and the heavenly region, at the
boundary of the threefold universe. From here one can see anything anywhere,
however distant its place; and every voice comes to one's hollow ears. Rumor
holds it, and selected its topmost summit for her house. This is the last and
the most ambitious, though not the longest, of the large-scale personifications
in the Metamorphoses ambitious because, whereas with Inuidia and Fames Ovid
achieves a rich and grimly detailed impression of corporality through his
descriptive language, here indistinctness is paradoxically the goal of precise
description. The lines just quoted appear to establish theplace of Fama's
house, but in a way that defeats definition; for the house occupies a liminal
site, hovering at the boundaries between earth, sea, and sky. The structure
itself if it can be called a struc-scarcely separates inside from outside, for
its porous nature defeats such distinctions: “innumerosque aditus ac mille
foramina tectis addidit et nullis inclusit limina portis: nocte dieque patet;
tota est ex aere sonanti, tota fremit uocesque refert iteratque, quod audit.
nulla quies intus nullaque silentia parte.” She added innumerable approaches to
the building, and a thousand openings. With no doors did she shut its
threshold: it lies open night and day. The whole house is of resounding brass,
produces a roar, echoes and repeats what it hears. There is no quiet within,
silence in no quarter. In and out of the house issue personified rumors: atria
turba tenet: ueniunt, leue uulgus, cuntque mixtaque cum ueris passim commenta
uagantur milia rumorum confusaque uerba uolutant. A throng occupies its halls;
they come and go, a light crowd; lies mixed with truth wander here and there by
the thousands; and the confused words of rumor roll about. Only when this
expansive description is finished do we learn its relevance to its
surroundings: rumors of the Greek expedition have reached Troy. This house of
Fama and her attendant rumors, "lies mixed with truth," creates a
remarkable preface to the beginning of the Trojan War, inviting us readers to
consider it as an interpretive comment on all that follows. Feeney connects the
passage to themes of poetic authority in the Metamorphoses; indeed, the
authority of Ovid's epic predecessors, especially Homer's lad and Odyssey and
Virgil's Aeneid, is at issue in the later books of the Metamorphoses, where
extensively adapted sometimes severely distorted-versions of their tales are
woven into a new fabric. For much of the rest of Book 12, for instance, Nestor
narrates the battle of Lapiths and Centaurs, as he did in Book 1 of the liad:
but Homer's version is a brief summary, meant to illus-trate a point in its
context, Ovid's a vast expansion that engulfs its context, displacing the
Trojan War in our attention for hundreds of lines. Fama dominates the rest of
Ovid's poem, from Book 12 to the end, not only because of the formal
introductory description of the house of Fama, but also because of the
increasing role of internal narration in the later books: as the poem proceeds,
the epic narrator recedes, and more and more tales are reported by an internal
narrator to an internal audience. Fama also forms a boundary, prominently
recurring at the very end of the Metamor-phoses, where fama provides the means
of the poet's continued sur-vival: perque omnia saecula fama,/ siquid habent
veri uatum praesagia, winam. The recurring presence of Fama serves as a
reminder of the fundamental lack of definition and stability characteristic of
narrative style throughout the work. Flux remains Ovid's theme to the end, and
Fama provides both a symbol and an embodiment of flux within the narrative.
Fama resists the tendency toward interpretive simplicity and transparency that
the introduction of historical and political topics might lead us to expect. As
we proceed through the last pen-tad, historical and historico-political modes
of understanding events, however pervasive their presence, ultimately never
reduce Ovidian flux to order. Fate, for instance, a cosmic principle beloved of
some Greek and Roman historians, whose workings they trace in the unfolding of
events, duly turns up from time to time in Ovid's Metamorphoses, and does so as
a theme of historicized myth that is likely to remind us of Virgil's Aeneid.
Yet, whereas the Aeneid is deeply imbued with a sense of fate, guiding the
reader to a teleological understanding of myth and history, fate is an historical
prop in the Metamorphoses part of the furniture of historicized myth. Far from
dominating its context, the context dominates it, as in the summaries of the
Eneide that Ovid employs as framing devices -- non tamen euersam Troide cum
moenibus esse/spem quoque fata sinunt.” These lines introduce Enea’'s departure
from Troy with unmistakable reference to Virgil's plot and theme. WhereasVirgil
integrates fate (fatum, il fato) into the structure and architecture of the
“Eneide”, however, Ovid reduces fate and its impact on events to barest
summary. Ovid acknowledges Virgil's historical vision without permitting that
vision to structure his narrative or his readers' experience of it. Instead, Ovid
shamelessly *appropriates* Virgilian turns of phrase in the national epic for a
characteristic Ovidian witticism, playing simultaneously on the literal and
figurative senses of euersam. Troy's walls are physically overturned, but her
hopes, conceptually and metaphorically are not overturned. Sylleptic implicature
of this kind saturates the Metamorphoses and embodies its themes of
transformation on the narrative surface: the loss of human identity in
metamorphosis, the shifting of boundary between human and natural, indeed the
obscuring of any such boundary are events typical of the Metamorphoses;. Ovid
now sets the plot of Virgil's Aeneid among them, exploiting Virgilian language
for his own transformative wit. Although there is a shift to historical and this
national theme, and with them a more direct engagement with Ovid's epic
predecessors, the Metamorphoses remains the same poem it was. The porous,
echoing, boundary-less, and visually indistinct house of Fame incorporates all
within it. Ovid's epic predecessors are a conspicuous presence and readers
familiar with them may try to understand Ovid's material in similar terms. Yet
Ovidian slipperiness remains. Ovid refuses to be pinned down, to yield to
interpretive stability, although his readers may crave it. In fact, by
introducing interpretive frameworks familiar from his predecessors-Virgilian
fate, for instance, in the lines quoted above Ovid takes advantage of his
readers' desire for clarity: he invites us to reach conclusions, then fails to
sustain them. The concept of fate drawn from the philosophy of the Porch is one
interpretive possibility that turns up in the Metamorphoses, yet without the
structured development that Virgil gives it; Augustan historical vision is
another. By introducing historical and political subjects into his work, Ovid
invites readers to consider the relationship of the Metamorphoses to the world
outside it -- not only to the Aeneid and earlier Roman epic on historical
themes, but also to Augustan ideology and its expression outside poetry -- in
the architectural projects, for instance, by which Ottaviano “transforms’ the
Romans' physical environment. When he introduces the voyage of Aeneas alluding
to the plot and eventhe vocabulary of Virgil's epic, Ovid acknowledges his
contemporary readers' awareness that the Aeneid has overwhelmed other versions
of this story. Ovid could not retell this story with directing readers
awareness from his own text to Virgil's. When Ovid incorporates the apotheosis
of Romulus into the narrative of Book 14, readers are likely to find that their
thoughts turn unavoidably to Ottaviano’s identification of himself as Romolo –
Roma’s first king --, and to accompanying images and slogans concerning the
foundation of Rome. Because Ottaviano eventually gains, like Romolo, a place
among the dia, Ovid's apotheosis of Romulus invites his readers at least
provisionally to define the relationship between this figure from the remote
past and his contemporary embodiment. Ovid presents a parade of heroes in the
later books of the Metamorphoses. Hercules leads the way; then Aeneas, Romulus,
Julius Caesar, and Ottaviano form a triad of apotheosised mortals. These three figures
are already iconic when they turn up in Ovid's poem iconic in the sense that
they resemble images that are powerfully identified with meanings, like the
statues of these very heroes that stood in Ottaviano's forum. Because Ovid's
parade of heroes arrives accompanied by preexisting interpretive baggage, it
will be worthwhile to contrast these two fundamentally different sites of
meaning, each with its own ways of associating ancient with contemporary heroes.
The Forum of Ottaviano an architectural space well designed and equipped to
promote a unified and coherent set of messages about the relationship of past
to present; and Ovid's Metamorphoses, a fluid narrative on the prevalence of
change, whose author enacts his theme by mischievous artistry, establishing
patterns of meaning, then disrupting and fracturing them. Historical patterns
are among those that Ovid deliberately reduces to incoherence. Each of these
sites of meaning is powerfully manipulative, and each achieves its impact by
means well suited to the message. Meeting a Roman hero in the “Forum Augusti,”
the observer's upward gaze would encounter not only an impressive image, but
also a titulus, identifying him, and an elogium, recording his achievements. Furthermore,
this experience takes place within an architectural complex, the Forum Augusti,
erected by Ottaviano in payment of a vow made while fighting his adoptive
father's assassins at Philippi.Within so structured an experience, the observer
of its visual images and inscriptional texts is unlikely to go far astray in
interpreting them. Although the battle occurred some time ago, the Forum
itself, dedicated, is a recent reminder of that event for the readers of Ovid's
Metamorphoses. In the parallel exedras along its longer sides stood statues of Enea
on one side and Romolo on the other. For Ovid to set the parallel apotheoses of
these same heroes near each other is to make inevitable the reader's
recognition of Ottaviano’s meanings attached to these deified heroes. At the
same time, in the Metamorphoses these figures are iconic in a far less tightly
regulated context of meanings than they are in the forum. Though now purely
verbal, they resemble ideological statements less than do the forum's statues.
Ovid presents his portraits, so to speak, without titulus and elogim to
regulate their interpretation. Thus exposed, the portraits lose their
interpretive transparency and become vulnerable to incorporation into Ovidian
flux. Consistent with the organization and coherence of the Forum Augusti is
the fact that its symbolism is easy to interpret. Within the temple of “Mars
Ultor,” for instance, stood cult statues of Mars – MARTE LUDIVISI – Romolo’s
father, parent and protector of the Romans, and Venus, the ancestress of the
Julian gens. Everything about these images directs the viewer's attention away
from the adultery of Marte and Venere so prominent in their mythological
tradition. Only the irreverent and satirical perspective that Ovid offers in
Tristia 2 resists the ennobling abstraction of such figures and drags adultery
back into view. There, Ovid describes the cult statues of Marte and Venere, who
stood next to each other in the temple's cella, as Venus Vitori ncta (Ir.), "Venus
joined to the Avenger" -- an expression that invites reflection on the
sexual significance of “iungere." Venus's husband stands outside the door,
wir ante fores."? A myth of political origin, its official representation
in art, and resistance to it are prominent also in the Metamorphoses in the
tale of Arachne. It is enough to emphasize here that the tale offers rich
reflections on official interpretation of art. When Minerva chooses to depict
her victory over Neptune in the two divinities' dispute over the naming of
Athens, her tapestry, decorously ordered and balanced, promotes its didactic
message with unavoidable clarity, while offering an aesthetic correlate to the
power of enforcement that lies behind that message. Readers often side with the
Arachne and her irreverent depiction of divine misbehavior; yet Minerva does
not ask for our approval, nor need she take much thought for the judges of the
con-test. Her views of the story are enforceable and will determine the outcome
of the plot. Her power allows her to impose her perspective on events. Because
the historical subjects of the later books of the Metamorphoses so often bring
official interpretations within view, it is worth noting that, according to one
political approach to literature currently in favor, only official
interpretations are possible. On this view, all activity of writing and reading
takes place within a fixed political system, often unrecognized by the
participants, that "advances the interests" of "elites."' Proponents
of this approach offer a powerfully reductive historicism: nothing is important
about literature except the historically determined power-relationships that
govern its production and reception; all attention to literary qualities of a
text is sentimental and self-indulgent aestheticism. Whereas this view
contracts all understanding of literature to the narrowly political, some
recent writers on history in Roman literature expand the historical to a larger
field that embraces Varro's theologia tripertita and the universal history of
Cornelius Nepos, Diodorus Siculus, and others. In the shift, for instance, from
mythological to historical subjects in the Metamorphoses, we can see a broad
similarity to Varro's “De gente populi Romani.” Wheeler's work on elements of
history in the Metamorphoses shows that Ovid's awareness of historical
principles is far deeper and more intimate than has been recognized before. For
instance, the poem's "alternation between diachrony and synchrony is a
narrative technique characteristic of universal history. The poem's
chronological framework from first origins to the present also reflects the
aims of universal history; yet Wheeler, like most critics today, does not view
the poem "as a natural process of evolution from chaos to cosmos,
culminating in the peace and properity of the Augustan age."' Arguing for
a subtler and less overtly political patterning of events, Wheeler traces
historical principles behind the increasingly historical subject matter of the
last pentad. The movement from myth to history represents "a shift,"
in Wheeler's view, "from a theologia fabulosa to a theologia civilis."
The terms are Varronian, and invite us to contemplate the Metamorphoses
alongside Varro's “Antiquitates rerum humanarum et divinarum” -- a massive and
comprehensive work, among whose aims was to organize conceptions of divinity
into mythical, natural, and civic (Aug., Ci. Dei). Ovid is known to have used
the “Antiquitates” as a source in the later books of the Metamorphoses as well
as in the Fasti, and it is surely right to call attention to the presence of
Varronian principles in Ovid's work. Yet, Varro's conceptual organization does
not structure Ovid's work, and Varro's religio-historical vision only partly
informs Ovid's. Ovid brings Varro into the mix just as he does Ottaviano’s
mythologizing and the historical mythologizing undertaken by his epic
predecessors, especially Homer, Ennio, and Virgil. P. Hardie has recently
argued for the presence of Livy in the Metamorphoses, arguing that Ovid's
vision is fundamentally historical. Ovid writes the long historical epic that
Virgil self-consciously had abjured. Recent emphasis on history in Ovid has
much to teach us about his intellectual depth and awareness of contemporary affairs;
yet it also runs the risk of presupposing a conceptual tidiness and order that
Ovid's work in fact thwarts and defies. The historical vision of the
Metamorphoses remains deeply fractured, stubbornly resistant to schematizing,
and intentionally incoherent. Ovid acknowledges historical conceptions, but his
work escapes their power to shape his material and to govern our responses to
his text. Ovid's"historical" books are as strange, perverse,
unpredictable, and provocative as the "fabulous" books that precede
them.In Book 11, the Metamorphoses suddenly becomes historical: "the
'historical' section actually begins at with Laomedon's founding of Troy. To be
sure, the poem has pursued the course of history from the opening lines of Book
1, while Romanization on both a large and small scale has kept contemporary
reference, analogies, and allegorical interpretive options before our eyes
throughout the progress of the work. Yet the foundation of Troy, which turns up
as a narrative topic just after King Midas has received ass's ears, abruptly
brings the poem's subject-matter within the boundaries of history. For the Romans,
in so far as a distinction was made between history and myth, the Trojan War
tended to mark the dividing line. This, with its aftermath, occupies the next
three books. Because, however, Rome's origins are in Troy, this also begins a
narrative sequence that continues to the end of the poem, and indeed to the
moment of reading for Ovid's Roman audience. In the last pentad,
"mythical" tales continue unabated, but now jostle with tales from
Roman history and even "current events," all brought within the
narrative sweep. Among "current events" we may locate the
transformation of Julius Caesar's soul into a star. Yet this transformation is
thoroughly mythologized, for it occurs among the activities of the goddess
Venus. With Troy's foundation, history arrives well integrated into the poem's
patterns of mythological narrative. We might expect that lin-carity and clarity
of narrative progress would arrive along with historical subjects, and indeed
the last pentad is sometimes described as if this were the case. When we reach
Laomedon's Troy the principle of chronological sequence takes charge again: it
is 'after that' rather than 'meanwhile' that sustains the illusion of reality. But
Wilkinson's impression is in fact illusory. The amount of material recounted by
internal narrators steadily increases in the later books, so that chronological
movement is constantly interrupted and postponed by tales of the past, recent
or remote. Even more remarkable is the fact that history arrives together with
manifest anachronism. It is often noted that the participation of Hercules in
the foundation of Troy -- his rescue of Hesione and his capture of the city
after Laomedon refuses him the promised horses -- occurs lines after the hero's
death and apotheosis. Ovid makes no attempt to reconcile the chronology. Wheeler
has explored Ovid's anachronisms in revealing detail, showing that at Hercules'
death. Troy is assumed to exist already in the world of the poem, and that
"Ovid could have avoided the anachronism by placing stories about the dead
and deified Hercules in the mouths of characters who report retrospective
events in inset narratives that temporarily suspend the main chronological
thread. Instead, Ovid flaunts his disruption of chronology, first recounting
Hercules' death and apotheosis, then introducing a narrator, Alemene, mother of
Hercules, to recount his birth. Chronology appears to reverse direction, but
chronological dislocation turns out to be more complex than simple reversal.
Wheeler's conclusions refute the common notion that Ovid's shift to historical
topics results in a more linear narrative explication and greater chronological
regularity. The reintroduction of Hercules is therefore part and parcel of a
larger web of anachronism involving the foundation of Troy and the marriage of
Peleus and Thetis, both of which should have occurred already in the poem's
historical continuum. It should be clear, furthermore, that Ovid's
transpositions of the foundation of Troy and the marriage of Peleus and Thetis
are a deliberate structural strategy to furnish new points of origin for the
narrative of the final books of the poem. That is, Ovid deliberately violates
his earlier chronological scheme to provide new beginning points for the final
pentad i.e., from the foundation of Troy and the birth of Achilles to the
present) As a result, the formality and regularity of the pentadic structure
produces a paradoxical result: on the one hand, it divides the work
symmetrically into thirds and hence to some extent structures the experience of
the reader: we may compare the division of Virgil's Aeneid into halves, in
allusive reference to the Odyssey and Iliad." On the other hand, in
effecting a new beginning for thelast pentad, Ovid reinforces the narrative
indirection and unpredictability that have characterized the Metamorphoses from
its beginning. The tales that follow the foundation of Troy both illuminate and
obscure the newly initiated narrative patterns of the last pentad. At this
point, Ovid's readers may expect him to expand upon the origins of the Trojan
conflict. He does so in his account of Peleus and Thetis, the parents of
Achilles, but hastily summarizes the elements of the story that are
traditionally the most important: Thetis receives a prophecy that she will bear
a son who will surpass his father; Jupiter, despite his passion, avoids mating
with Thetis "lest the universe contain anything greater than Jupiter"
(ne quacquam mundus loue maius haberet). Ovid alters the authority for the
prophecy, substituting the shape-shifting divinity Proteus for Themis as its
source. He then develops the story in his own way, dwelling upon a description
of the bay frequented by Thetis, Peleus's attempt to, assault her (which she
thwarts by shape-shifting), Proteus's advice to Peleus that he tie her up as
she sleeps, and the successful results. Some of this account will remind us of
epic predecessors, for Proteus is familiar from the Odyssey as well as from a
brief appearance carlier in the Metamorphoses and from Virgil's Georgics. Yet
in emphasizing shape-shifting and sexual assault, Ovid flaunts the unedifying
nature of his account and its lack of relevance to any of the large-scale
themes, providential, historical, and originary, that one might expect at the
threshhold of events that lead to the foundation of Rome. An account of origins
this may be, with reference to historical subjects, and formally analogous to
Virgil's reworking of Homeric material in the Aeneid. Yet Ovid offers it
manifestly without the interpretive guidance that would associate it with
Virgilian themes. As an account of origins, it explores causes of the Trojan
War still more remote than those developed by Ovid's pre-decessors, suggesting
a line of interpretation that traces events back to lust, violence, and
deception at least as much as to beneficent destiny. Ovid on the one hand
traces Trojan subject matter from its origins, and on the other
characteristically takes his narrative into unforeseen directions. The tales of
Daedalion and his daughter Chione and of Geyx and Aleyone are intricately
linked to the matter of Troy; yet in them Ovid pursues free-wheeling
digressivevariety that is entirely consistent with the earlier books of the
Meta-morphoses, in no way more linear, predictable, or goal-directed than
formerly. At the end of Book 11, Troy, chronology, and fate turn up in another
tale of amorous pursuit. Ovid attaches his tale of Aesacus, a son of Priam
first known from Ovid's version, to that of Geyx and Alcyone, whose unhappy
tale of fidelity and loss has long occupied our attention. Observing the royal
couple, now transformed to kingfishers, near the shore, an old man and his
neighbor shift their conversation to another sea-bird, the diver, who likewise
turns out to have a human history and even royal lineage. In a send-up of
learned claims to poetic authority," Ovid's narrator cannot tell us which
of the two interlocutors is the source for the story: proximus, aut idem, si
fors tulit... dixit. The irony of this crisis of authority is especially marked
by the genealogical king-list that follows, which approaches annalistic, even
inscriptional style: et si descendere ad ipsum ordine perpetuo quaeris, sunt
huius origo Ilus et Assaracus raptusque loui Ganymedes Laomedonue senex
Priamusque nouissima Troiae tempora sortitus. frater fuit Hectoris iste: qui
nisi sensisset prima noua fata iuuenta forsitan inferius non Hectore nomen
haberet. And if you wish to follow his lineage down to him in continuous
sequence, his ancestors were llus, Assaracus, Ganymede, seized by Jupiter, and
Priam, allotted Troy's last days, That bird there was Hector's brother. If he
had not experienced a strange fate in early youth, perhaps he would have no
less a name than Hector's. Ovid appears simultaneously to claim and to obscure
authority for the tale. To complete the paradox, he refers to the king-list as
ordo perpetuus, "a continuous list": thus the pretensions of his
carmen perpetum to be a universal history, conducted in unbroken sequence from
first beginnings to the present, serve to introduce a tale of admittedly
indeterminate origin. The tale that follows is primarily a natural actiology,
incorporating both historical and epic subjects into an account of how Hector's
brother became the origin of a species of sea-bird. Aesacus chasesHesperie, who
in her hasty flight steps on a snake, Eurydice-like, and dies of its bite. Her
pursuer is introduced as hating cities and devoted to rural life, yet unrustic
in his susceptibility to love: non agreste tamen nec inexpugnabile amori/
pectus habens. Amor agrestis is not uncommon in the Metamorphoses and will soon
be fully developed in the tale of Polyphemus. What is unusual in Aesacus are
his guilt and remorse at Hesperie's death: uulnus ab angue a me causa data est.
ego sum sceleration illo, qui tibi morte mea mortis solacia mittam. The wound
was given by the snake, the cause by me. I committed a greater crime than the
snake, and will send you consolation for your death by my ow. When he throws
himself from a cliff, the sea-goddess Tethys pities him and transforms him into
the diver; the verb mergitur at the end of the story echoes the noun mergus at
its beginning. Thus, the whole story is framed as an aetiology of the bird's
name, and so establishes a link between the history of Troy and the origins of
the natural world. Trojan history, along with all notions of historical
progress to the glorious present, becomes naturalized and incorporated into
aetiological explication; natural phenomena, meanwhile, receive a history, and
suggest that an historicized understanding of nature is possible. Natural
actiologies are prominent in Ovid's integration of Trojan subjects into the
Metamorphoses. As he introduces more Roman subjects and Roman heroes into his
narrative, his atiological focus turns from the earth to the heavens. The
poem's first apotheosis is that of Hercules. A sequence of apotheoses and
catasterisms follows. After Jupiter promises Venus to make the soul of her
descendant, Julius Caesar, into a star, she, although unable to prevent
Caesar's murder, snatches the soul from his limbs and carries it to the
heavens. There, having become a star, it rejoices to see its own deeds outdone
by those of Ottaviano. When Ottaviano forbids his own deeds to be preferred to
his father's, personified Fama reappears to thwart him: hic sua pracferri
quamquam uetat acta paternis, libera fama tamen nullisque obnoxia iussis
inuitum prefert unaque in parte repugnat. Although he forbids his own deeds to
be preferred to his father's, nevertheless Fame, free and not yielding to any
commands, prefers him against his will, defying him in this matter only. To
attribute modestia to a ruler is standard in panegyric, and equally standard
are the exempla that follow;'' but because these lines appear in the
Metamorphoses, they invite multiple perspectives on the events described.
Readers are already familiar with Fara as the source of "lies mixed with
truth," which issue from her echoing house, and have met her also as
"the herald of truth," offering an accurate prophecy about the royal
succession among Rome's early kings: destinat imperio clarum praenuntia
ueri/fama Numam. Later, Pythagoras claims Fama as his authority for predicting
the rise of Rome: nunc quoque Dardaniam fama est consurgere Romam. To be sure,
any claims of truth for Fama are problematic in the Metamorphoses. The
identification of Fama as praenuntia weri occurs in a context of manifest
anachronism, the irony of which would have been obvious to Ovid's Roman
readers. The succession of Numa, the second king of Rome, was an accepted part
of the historical record. But Ovid's readers knew well that the tradition of
his visit to Crotone as a student of Pythagoras is chronologically impossible.
Cicero (Rep.; Tusc.) and Livy point out that Pythagoras did not come to Italy
until the fourth year of the reign of Tarquinius Superbus, years after Numa's
death. The Ovidian narrator, however, exploits the audience's awareness of the
anachronism to launch one of the greatest non-events of the poem. After Fama's
appearance in the tale of Numa, her recurrence as an agent in the tale of Julius
Caesar's soul exemplifies the ambiguous natureof the politically charged
episodes at the end of the Metamorphoses. Few passages in the work provoke such
widely divergent views as the apotheosis of Caesar's soul, and all of them, I
would maintain, can find support in Ovid's text and are in fact generated by
it: that Ovid introduces the apotheosis and Augustan panegyric "in all
seri-ousness," and "employs the official terminology in an entirely
loyal fashion", that this material is ridiculous, satirical, even
subversive. This is intentionally incoherent, presenting the reader with
irreconcilable interpretive options. Certainly there is a striking dichotomy in
modern critical positions taken on whether the apotheosis is integral to the
larger work or loosely added as extraneous matter. The eulogy of Ottaviano and the
account of Giulius Caesar's apotheosis are not the organic end of a persistent
thematic development. It should be evident from the numerous examples of apotheosis
in the Metamorphoses that Julius Caesar's catasterism is the repetition of a
common tale-type, which is associated with the end of narrative sequences,
books, and pentads, and the poem as a whole, however. As for the apotheoses of
Aeneas and Romulus, we find that they prepare for and introduce not only the
apotheosis itself of Caesar's soul, but also the interpretive questions it
raises. Ovid resumes the engagement with Virgil's Aeneid that he had begun, and
intermittently pursued. Ovid takes over from Virgil the burial of Aeneas's nurse
Caieta as an initiatory gesture: in the Aeneid it begins Book 7, and Ovid's
version of Aeneid 7-12 begins here, too. Ovid adds an epitaph for Caieta: hic
me Catam notae pietatis alumnus/ ereptam Argolico quo debuit igne cremauit. By
emphasizing Caieta's rescue from one fire and cremation by another, Ovid calls
attention to an etymological explanation of her name from kaiew, glossed by
cremare. Thereby Ovid alludes to the derivation that Virgil omitted. Ovid is in
a sense commenting on Virgil's text, noting an etymology that would later find
a place also in Servius's commentary on the Aeneid. Another effect of Ovid's
revision is to fill out the earlier account, suggesting that there is more to
the story than what Virgil provides. There follows a severely abridged summary
of the Aeneid. After Aeneas's arrival, the subsequent war in Latium up to
Venulus's embassy to Diomedes requires only nine lines. Ovid here resumes his
earlier procedure in retelling the Aeneid. Most of Virgil's work he reduces to
brief, sometimes comically abbreviated, summary. Ovid also adds many tales not
in Virgil. In parallel fashion, Ovid had earlier refashioned the lliad,
expanding the inset tale of the Lapiths and Centaurs to great length, and
adding two tales not in Homer's account: a nearly inconclusive struggle between
Achilles and the invulnerable Cygnus, and a verbal battle, the debate over the
arms of Achilles. In both of them, Homeric heroism becomes attenuated until it
is barely noticeable. Ovid now reworks two tales from the Aeneid that had
offered accounts of transformation: the companions of Diomedes, transformed to
seabirds (Aen.; Met.), and Aeneas's ships, transformed to nymphs (Aen.; Met.). In
Ovid's account, the first of these becomes a tale of unequal justice typical of
the Metamorphoses, though thematically remote from the Aeneid: Acmon,
recounting the miseries that Diomedes' crew has endured at the hands of Venus,
impiously provokes her (Met.). Dicta placent paucis (Met.), "his words
picase few" of his com-rades; but Venus punishes both Acmon and those who
opposed him with arbitrary transformation. Her power is amply demonstrated; yet
the lesson of the tale remains at best ambiguous, and its conclusion seems to
transfer its uncertainties into the visual sphere. These are uolucres dubiae,
and any attempt to identify them must remain frus-trated: 'si, uolucrum quae
sit dubiarum forma, requiris,/ ut non cygnorum, sic albis proxima cygnis
(Met.). The alternating pattern of severe abbreviation and vast expansion of
Virgilian material provides a context for the apotheosis of Aeneas, an event
foretold but not narrated in the Aneid. Jupiter begins his consolatory prophecy
to Venus in Aeneid 1 by mentioning the foundation of Lavinium and Aeneas's
apotheosis. Both are assurances that fate and Jupiter's established plans have
not changed: parce metu, Cytherea, manent immota tuorum fata tibi; cernes urbem
et promissa Lauini moenia, sublimemque feres ad sidera Caeli magnanimum Aenean;
neque me sententia uertit. Cease from fear, Cytherea: your fates remain for you
unmoved. You will see the city and promised walls of Lavinium, and you will
carry aloft great-souled Aeneas to the constellations of heaven; my decision
has not changed. Jupiter's prophecy, which at this point already has passed
well beyond the plot of the Aeneid, embraces all Rome's fortunes within a
reassuring teleological vision. Among the events prophesied is the
reconciliation of Juno with the Romans, which is to prove important both for
the Aeneid and for Ovid's recontextualization of Virgilian topics: quin aspera
luno, quae mare nune terrasque metu caelumque fatigat, consilia in melius
referet, mecumque fouebit Romanos, rerum dominos gentemque togatam. Furthermore,
harsh Juno, who now wears out sea, earth, and heaven with fear, will turn her
plans to a better course; along with me she will cherish the Romans, lords of
all, the people of the toga. We ought better to call this not the but a
reconciliation, for, introduced after Jupiter's mention of Romulus and the
foundation of Rome, it appears not to refer to the reconciliation that actually
occurs in Aeneid. There, shortly before the final encounter of Aeneas and
Turnus, Jupiter appeals to Juno to give up her wrath. Juno does so, stipulating
that the Latins not be required to give up their language and dress, and that
Troy remain fallen (Aen.). In Aeneid 1, however, Virgil follows Ennius's “Anales”
in dating Juno's reconciliation to the time of the second Punic War, Ennius's
own subject, as Servius notes on the words “consilia in melius referet: quia
bello Punico secundo, ut ait Ennius, placata luno coepit fauere Romanis.” Virgil
mentions the chronologically later reconciliation long before describing the
former. In Book 1 Jupiter takes a longer view of destiny, showing that a
conflict introduced but unresolved in the Aeneid, the future hostility of
Carthage, will eventually be resolved happily. Whether we take Juno's
reconciliation in Aeneid 12 to be incomplete, impermanent, or, limited to only
some of Juno's grudges, it contributes only a partial sense of closure to the
end of Virgil's poem. Ovid's transformation of Aeneas into the divine Indiges
more specifically recalls Aeneid 12 than Aeneid 1, especially the beginning of
Jupiter's address to Juno at Am.: 'indigetem Aenean seis ipsa et scire fateris/
deberi caelo fatisque ad sidera tolli' Ovid does not closely follow the
chronology of Juno's reconciliation in Aeneid 12, however, shifting it instead
to a time beyond Vergil's plot, and just preceding the apotheosis of Aeneas,
which indeed it serves to introduce: iamque deos omnes ipsamque Aencia uirtus lunonem
ucteres finire coegerat iras, cum bene fundatis opibus crescentis Iuli
tempestius erat caelo Cythereius heros. And now Aeneas's virtue had compelled
all the gods, even Juno herself, to put an end to old anger, when the resources
of rising lulus were well established, and the hero, Venus's son, was ripe for
heaven. The thoughts and language strongly recall the Aeneid, but Ovid
introduces these lines into bizarre, surreal surroundings of his own making.
Their immediate context is one of the strangest transformations in the poem-the
tale of Turnus's hometown, Ardea, changed into the heron. Turnus and the town
Ardea may be Virgilian in their associations, but Ovid's treatment is remote
from Virgil, and takes his own aetiological procedure to new extremes. It is
typical of Ovid's natural aetiologies that they account for the first animal of
a species, tum primum cognita praspes, and that they stress the continuity of
traits and features in the change from the old to the new shape. This case goes
beyond the typical in the sheer imaginative effort required to make the shift
from a ruined city, with all its attributes, to a heron. Cities, as human
social organizations, are characteristically distinct from the natural. This is
not just any city, but one embedded in the human history of Rome and Rome's
enemies, and familiar in Rome's national epic. Yet Ardea retains even its name
in its migration into the avian realm as the first heron -- et sonus et macies
et pallor et omnia, captam quae deceant urbem, nomen quoque mansit in illa
urbis et ipsa suis deplangitur Ardea pennis. It had the sound, the wasted
condition, the pallor everything that befits a conquered city. Even the city's
name remained in the bird, and Ardea beats her breast, in mourning for herself,
with her own wings. These remarkable lines, which immediately precede the
apotheosis of Aeneas, provide no contextual introduction to the apotheosis, no
invitation to form a close approximation of Ovid's and Virgil's Aeneas. Aeneas
and his virtus abruptly arrive. Yet no sooner do the gods and Juno give up
their wrath, introducing a new and impressive array of literary, historical,
and political associations, than the tone of Ovid's version of the apotheosis
becomes intrusively comic. Venus canvasses the gods like a Roman politician:
ambieratque Venus superos. She appeals to Jupiter's grandfatherly pride, and
seems to treat numen as a rare and valuable commodity in begging some of it for
her son, 'quamus parvum des, optime, numen,/ dunmodo des aliquod. All these
details are at least potentially comic, as is the argument wholly successful in
the event- with which Venus concludes her speech. One trip to hell is enough:
'satis est inamabile regnum/adspexisse semel, Stygios semel isse per amnes'. These
lines are a comic correction of Virgil. Later readers were to be distressed
that Virgil's Sibyl, otherwise a knowledgeable prophetess, was unaware of
Aeneas's apotheosis, which Jupiter had explicitly prophesied in Book 1 and was
to prophesy again later. Otherwise she would not have assumed a second trip for
Aeneas to the infernal regions after his death: quod si tantus amor menti, si
tanta cupido bis Stygios innare lacus, bis nigra uidere Tartara, et insano
iuuat indulgere labori, accipe quac peragenda prius. (Aen.). But if your mind
has so great a longing, so great a desire to swim the Stygian pools twice,
twice to look upon dark Tartarus, and it pleases you to indulge in an insane
effort, learn what must be accomplished first. Servius tries to reconcile the
death of Aeneas, implied here, with Ovid's apotheosis of him, though he could
have mentioned Jupiter's two prophecies in the Aeneid itself. Servius proposes
that simulacra of apotheosized heroes, no less than of ordinary folk, are to be
found in the underworld. We do not know whether readers and critics in Ovid's
time were already vexed about the Sibyl's evident lack of knowledge, but Ovid's
Venus, correcting bis with semel, sets the record straight. Once Venus has
asked the help of the river Numicius in washing away all that is mortal in
Aeneas, she completes the process of making him into a divinity whom Quirinus's
crowd calls Indiges, and has received with altars and a temple (quem turba
Quirini/nun-cupat Indigetem temploque arisque recepit). This information is
profoundly historical, for how Romans understand the altars and temples of
their gods, how they connect the remote to the recent past, depends on the
symbolic narrative or narratives that their minds associate with monuments in
their city. Ovid's revision of Vergil is the revision of a well known and
compelling historical vision. Ovid's concluding lines on Aeneas also, as
editors note, offer a parallel to the language of an inscription for a statue
of Aeneas found at Pompeii: appel/latus/g.est Indigens (pa)ter et in deo/rum
n/umero relatus (CIL = Dessau). Mention of the turba Quirini looks forward to
the apotheosis of Romulus, but first there intervenes a king-list an annalistic
structuring of the past remarkable in finding a place in the Metamorphoses.
Like the renaming of Aeneas, the list of Latin kings also recalls to Roman
readers their reading of inscriptions. This king-list also recalls earlier
lists in the Metamorphoses, such as the genealogy of Aesacus. His
transformation is a natural aetiology, and likewise Aeneas's shift to divine
status as “indiges” can be viewed as just another transformation, an addition
to the tale of Ardea transformed into a heron. We might almost think of it as
an undifferentiated item in a vast accumulation of transformation-tales that
could be arbitrarily lengthened by further addition. The reason, however, that
we cannot quite do so is the fact that it is not isolated, but participates in
a pattern of apotheoses. The apotheosis of Hercules establishes a pattern that
is reinforced strongly by the apotheoses of Romulus and of Julius Caesar's
soul. Their greater number toward the end of the poem appears to signal both
their own importance and their closural impact. Ovid's list of Latin kings does
not lead directly to the apotheosis of Romulus, but to the tale of Pomona and
Vertumnus, which he dates to the reign of Proca. The tale is rich in closural
features, cut from the same cloth as the apotheoses that frame it. Viewed as an
incident of deceptive seduction and barely-suppressed violence, the tale of
Vertumnus can also appear a distraction, leading the reader's attention away
from the transformation of historically important heroes into gods. The tale is
a "romantic comedy," yet regards it as compromising its context. It
is no secret that it disrupts what might be called the Aeneadisation of what is
otherwise far from being a Roman epic just when it begins to show promise (or
make fraudulent promises) of turning a new leaf and beginning to be such an
epic, and one in the Augustan mode to boot. Coming as it does between Aeneas
and Romulus, the tale of Vertumnus defeats closure and deflates any last hope
of the poem's imagining Rome’sHistorical Destiny (or imagining the World's
destiny as Rome's) because an ample and effective representation of the myth of
Romulus would be crucial to a celebration of Rome's place at the end of history
as the end of history. When Ovid abruptly returns to his long-interrupted
king-list, he remarkably FAILS to mention Romulus. Rome's walls are founded in
the passive voice, and only Romulus's enemy, the Sabine king Tatius, receives
mention by name -- proximus Ausonias iniusti miles Amuli rexit opes, Numitorque
senex amissa nepotis munere regna capit, festisque Palilibus urbis moenia
conduntur. Tatiusque patresque Sabini bella gerunt -- Next the military might
of unjust Amulius ruled rich Ausonia, old Numitor received, by his grandson's
gift, the kingdom that he had lost; on the festival of Pales the city's walls
are founded. Tatius and the Sabine fathers wage war. Scholars have attempted to
explain by various means Ovid's drastic compression of Rome's origins. Ovid
avoids repeating what he writes in the Fasti. The foundation of Rome offers no
opportunity for metamorphosis, although Helenus is to represent Rome's
foundation exactly in such terms later, in another context. And Ovid wishes to
avoid competing with Ennius's account in the Annales. These explanations themselves
are speculative, but the text seems to call for explanation because Ovid has so
strikingly omitted an obvious opportunity to serve up an account of Rome's
origins. Ovid's critics easily fall into the his hermeneutic trap. His text
demands interpretation without providing the resources to arrive at one.
Romulus and his apotheosis are an especially impressive instance of the
self-consciously missed opportunity, the Ovidian narrative tease. Because
Romulus was so well-known to Ovid's Roman readers as a mythico-historical
parallel to Ottaviano, few topics are richer in potential for allegorical
exploitation and panegyric symbolism; and this potential goes almost totally
unrealized here. Ovid's approach to Romulus is no approach at all. Ovid omits
the founder's exploits and shifts all attention to the divine sphere. The
apotheosis of Romulus and, as it turns out, that of his wife Hersilia result
from divine actions, whose description is the province of myth. Historians who
record their exploits give them standing as historical figures. Deprived of
exploits, they re-enter myth. By remythologizing history Ovid incorporates it
into the world of the Metamorphoses, in which divinities are active and humans
largely are acted upon. He also opposes euhemeristic modes of interpreting the
shift from mortal to divinity, in accordance with which a human's heroic
actions approach and approximate the divine, resulting in the hero's veneration
as divine by other humans, and his reception among the divinities as one of
them. Ennius's historical epic, the Annales, reports that, at Romulus's death,
Romolo now has a life among the gods -- Romulus in caelo cum dis genitalibus
aeum/ degit. Ennius probably took a euhemeristic interpretation of Romulus's
deification. Virtue and political merit open the gates of heaven. It is highly
likely that the deification of Romulus, who performed the mighty benefaction of
founding the city, was the innovation of Ennius. Ennius here will have been
placing Romulus in the tradition of the great monarchs who won immortality by
emulating Hercules. Although the details of Ennius's account are far from
clear, Ovid's non-euhemeristic approach is apparently the reverse of his
principal source, the original and canonical version of Romulus's deification. History
appears to be going backwards as the divine agents in the Romans' war with
Tatius take action. Juno unlocks the gate to the invading Sabines despite
having so recently given up her wrath against the Romans -- inde sati Curibus
tacitorum more luporum ore premunt uoces et corpora uicta sopore inuadunt
portasque petunt, quas obice firmo clauserat Iliades; unam tamen ipsa reclusit
nec strepitum uerso Saturnia cardine fecit. Then the Sabines, born at Cures,
keep their voices muffled like silent wolves; they assault the Romans, whose
bodies are sunk in slumber; they seek the gates, which lia's son [Romulus] had
barred; yet one of them Saturnian Juno unlocked. She made no noise as she
turned it on its hinge. After all the emphasis on Juno's reconciliation earlier,
in the apoth-cosis of Aeneas, her behavior here is glaringly inconsistent. We
may try to rationalize Juno's actions by appealing to Ennius's historical
framework, by which Juno gives up her wrath at the second Punic War. But Ovid
makes no attempt to clarify and so rescue historical consistency; indeed, he
appears to mock the tradition of multiplereconciliations of Juno, exploiting it
for its comic absurdity. There are serious consequences as well: the equation
of history with destiny breaks down. Soon Juno will be favorable to the Romans
once again at the apotheosis of Hersilia, but meanwhile two other divinities
intervene: first Venus, unable to undo Juno's hostile act in unbarring the
gate, entreats the Naiads living next to Janus's shrine in the Forum Romanum to
come to her assistance. Their spring, normally cold, they bring to a hasty
boil, thus blocking the way to the Sabines and allowing the Romans time to arm
themselves. Next, Mars addresses Jupiter, requesting deification for Romulus as
the fulfillment, now: due, of a long-standing promise. Mars cites Jupiter's
original words, representing them as an exact quotation: tu mihi concilio
quondam praesente deorum (nam memoro memorique animo pia uerba notaui) "unus
crit, quem tu tolles in cacrula caeli" dixisti: rata sit uerborum summa
tuorum. Once, at an assembled council of the gods, you told me (for I remember,
and marked the pious words in my retentive mind),there will be one whom you
will carry to the blue of heaven.' Let the content of your words be fulfilled. The
words Marte quotes appear to gain even more authority by referential
confirmation from outside the text of the Metamorphoses doubly cited, as it
were: for while Mars cites Jupiter, Ovid cites Ennius's Annales. Readers of
Ovid's contemporary Fasti will remember the recurrence of Ennius's line in a
third context, for Mars cites it there as part of a parallel appeal for
Romulus's deification. Although Marte describes his son to Jupiter as the
latter's "worthy grandson" (Met.), Romulus's exploits have no part in
the appeal. Deification results directly from Jupiter's promise, so strongly
emphasized, and at the beginning of the speech Mars needs only to establish
that now is the time for its fulfillment: tempus adest, genitor, quoniam
fundamine magno res Romana ualet nec praeside pendet ab uno, praemia (sunt
promissa mihi dignoque nepoti) soluere et ablatum terris inponere caelo. Since,
father, Roman affairs are well established on great foundations, and do not
depend on a single protector, it is time to pay the reward it was promised to
me and to my worthy grandson to remove him from the earth and to place him in
heaven. In all this there is no mention of Romulus's great benefactions, such
as might sustain a euhemeristic interpretation of the hero's advancement to
divine status. Far from avoiding comparison to Ennius, Ovid ostentatiously
quotes his predecessor's work, as if to flaunt the fact that in stripping the
hero of exploits he has eliminated Ennius's interpretation of them. Ennius's
words, transferred to so un-Ennian a context, may appear well suited to a
familiar allegorical parallel, reminding Roman readers once again of their
second Romulus, likewise destined for the skies. Yet Ovid's apotheosis of
Romulus functions but feebly as an Ottavian icon precisely because of its lack
of historical specificity. Lacking res gestae, Ovid's Romulus offers readers
little to go on in drawing conceptual parallels to the achievements of
Ottaviano. There are many similarities between the apotheosis of Romulus in the
Metamorphoses and that in the Fasti. In both works Ovid makes an emphatic
identification of deified Romulus with QVIRINVS, reinforcing relatively recent
developments in the story. In both Ovid quotes the line from Ennius and repeats
the apostrophe Romule, tra dabas (Met., F.) at the moment when the apotheosis
occurs. Yet in their larger contexts the two passages are remarkably dissimilar.
While in the Metamorphoses Romulus's apotheosis is his whole story -simply one
in a series of apotheoses extending from Hercules to the end of the work, in
the Fasti his apotheosis has a context in the life and exploits of the hero.
Romulus appears so often in the “Fasti” that the episodes concerning him are
numerous enough to trace out a biography of him, even if by installments. Ovid's
version of the Roman year gives Romulus an unprecedented amount of space, far
beyond the natural occasions offered by tradition (such as, for example,
Romulus's involvement in the foundation myths or in the actual rituals of the
Parilia or the Lupercalia). The identification of Augustus with Romulus even to
the point of his apotheosis demandd a 'positive' picture of Romulus. If the
violence and ruthlessness of Romulus's exploits in the “Fasti” make him a
problematic parallel to Augustus, we may suppose that Ovid gives himself an
easier task in the Metamorphoses by keeping Romulus's deeds out of his
narrative. In the “Fasti”, for instance, Marte mentions Romulus's dead brother
Remus always a difficulty in positive portrayals of the founder whereas in the
Metamorphoses Marte prudently omits *any* mention of Remus. Yet even the
attenuated Romulus of the Metamorphoses presents difficulties to allegorical
interpretation. As we saw earlier, Marte explains that it is now time for apotheosis
because Rome's condition, now well-established, "does not depend on a
single protector" (nec praeside pendet ab uno, Met.). Hence, Romulus can
be safely removed from the earth. Applied to Ottaviano, this remark makes a
poor allegorical fit. It calls attention to problems of succession that
afflicted the princes, on whom alone the res Romana manifestly did depend. The
apotheosis of Hersilia is even more remarkable, and Ovid's de-euhemerizing
revision of Roman history enters upon fresh territory with her. With Hersilia
there was probably no euhemeristic tradition for Ovid to work against. Ovid can
invent an apotheosis for her, representing it as a purely divine initiative. Tradition
granted her notable exploits without apotheosis; Ovid grants her apotheosis
without notable exploits. Romolo’s wife was well known to Roman readers for
being the Sabine wife of Romulus and for her active role in reconciling her own
people to the Romans. In several accounts, after the abduction of the Sabine
women and subsequent conflict between Romulus's men and the angry parents,
Hersilia sues for peace with Tatius and the Sabine fathers (Gellius; Dio
Cass.). Her other signal achievement takes place shortly thereafter. According
to Livy, Romulus blames the Sabine parents for the conflict, which resulted
from their pride in not allowing inter-marriage in the first place. Ersilia,
importuned by the entreaties of her sister Sabines, intervenes with Romulus to
argue that their parents ought to be pardoned and allowed to live in Rome: ita
rem coalescere con-cordia posse. Harmonious union of Romans and Sabines is,
according to LIVIO's patriotic interpretation, the whole point of the rape of
the Sabine women; and this view was widespread. It was not in wanton violence
or injustice that they resorted to rape, but with the intention of bringing the
two peoples together and uniting them with the strongest ties. So writes
Plutarch in introducing Ersilia. Dionysius of Halicarnassus also accepts this
pro-Roman motive for the rape. Ersilia's achievements, like those of her
husband, disappear entirely from Ovid's account of her apotheosis, as does the
whole story of the rape of the Sabines, in which she traditionally plays so
important a part. After Romulus's transformation into the deified Quirinus,
Juno sends Iris to bring instructions to the grieving widow, addressing Ersilia
as "chief glory of both the Latin and Sabine peoples": "o et de
Latia, o et de gente Sabina/praecipuum, matrona, decus.’ Has Juno become
reconciled to the Romans this time because of their union with the Sabines, a
people known for exemplary piety? We might suppose so, especially now that
Romulus is identified with the Sabine divinity Quirinus. For whatever reason,
Juno offers Ersilia a chance to see her husband again if she will go, under
Iris's guidance, to the Quirinale, Quirinus's hill, a place associated with the
Sabines' presence in Rome:53 siste tuos fletus et, si tibi cura uidendi
coniugis est, duce me lucum pete, colle Quirini qui uiret et templum Romani
regis obumbrat:Stop your tears and, if you care to see your husband, under my guidance
seek the grove that grows green on Quirinus's hill, and shades the temple of
Rome's king. Ersilia follows Iris's instructions and proceeds to Romulus's hill.
A star descends, causing Ersili's hair to catch fire a divine portentand she
passes into the air. Rome's founder receives her, changes her name and body,
calling her Hora, quae nunc dea tunca Quirino est (Met.). Of course, Ersilia's
apotheosis, like Romulus's, can be allegorized as panegyric. There’s a parallel
to LIVIA, so reinforcing the connection of Romulus to Augustus. Yet if Ovid's
goal in this double apotheosis is to promote panegyrical identifications, he
has lost an impressive opportunity. Especially after his irreverent, even
scandalous, version of the rape in Ars amatorial, Ovid could now have made
amends with Ottaviano and with history by serving up a traditionally patriotic
rape of the Sabines, including the achievements of Romulus and Ersilia, both
available for cuhemeristic treatment. Ovid's version is once again
conspicuously remote from Ennius's. It is unlikely that Ersilia's
transformation into the divine Hora occurred in the Annales, and Ovid probably
originated Ersilia's apotheosis. In doing so, Ovid remythologizes history,
reducing human agency and minimizing the potential of his Roman characters to
serve as flattering parallels. In evaluating the historical character of the
Metamorphoses, we can view apotheosis as part of historical progress in the
work. As we saw above Wheeler regards the movement from fable to history, from
the heavens to the city of Rome, as "a shift from a theologia fabulosa to
a theologia wilis"67 Another view is, however, possible, in accordance
with which the fabulous incorporates all else into its domain-including
history, politics, and current events. Terms like "fabulous" and
"mythological," of course, are not simply descriptive of the subject
matter that Ovid has taken up; he has entirely transformed the nature of the
fabulous, mythological, and the historical alike. He Ovidianizes them all,
Hersilia no less completely than the rest. When Iris reports Juno's words to
the bereaved Hersilia, she eagerly asks to see once again the face of her
husband, concluding her request with these words: 'quem si modo posse uidere/
fata semel dederint, caelum accepisse fatebor' (Met). Hersilia is using caclum
as a metaphorical equivalent for the summit of happiness, as Bömer aptly
notes, citing Cicero's letters to Atticus: in caelo sum (Att.); Bibulus in
caelo est (Att.). Hersilia supposes Romulus "lost" (amissum, Met.)
and evidently knows nothing yet of his apotheosis -certamly nothing about her
own. She simply uses a conventional, proverbial form of speech to express her
anticipated happiness. But events make her expression literally true, as the
star descends and Hersilia rises to the heavens. Ovid's transformative wordplay
often operates in just this way: words that initially appear figurative become
literal, the conceptual shifts to the physical, and a transformation described
in terms of plot is enacted first on the level of style." Hersilia's
apotheosis is a fine instance of Ovidian wit, yet is also a typical instance,
similar to many others that readers have enjoyed by this stage in the work's
progress. As they enjoy another of Ovid's transformative witticisms, they also
may reflect on the power of his transformative vision, which now incorporates
even their own history. As he exploits Hersilia's apotheosis for so fine a
joke, Ovid grants us an ironic perspective on Roman origins, compromising their
fated-ness and bringing out their contingent character. Throughout the last
pentad, historical events lose their connection to fata and pass under the sway
of Fama in its full range of ambiguity and contradiction: "lies mixed with
truth" (mixtaque cum ueris... commenta) issue from the house of Fama,
while "Fame, the herald of truth" (praemuntia uri/ fama), announces
Numa's impossible visit to Pythagoras. Fama is a touchstone for the fractured
historical vision of the Metamorphoses. Fasti (Ovidio) Fasti Ritratto immaginario di Ovidio
(di Anton von Werner) Autore Publio Ovidio Nasone Original ed. Editio princeps Bologna,
Baldassarre Azzoguidi, Generepoema epico Lingua originalelatino Manuale. I
Fasti sono un poema che espone le origini delle festività romane, quindi è
un'opera di carattere calendariale ed eziologico di Ovidio, scritto in distici
elegiaci, ad imitazione degli Aitia (Cause) di Callimaco, di cui riprende,
oltre che il metro, anche alcune soluzioni formali e narratologiche.
L'opera, scritta molto probabilmente per aderire alla moralizzante propaganda
tipica dell'età augustea, fu progettata in un totale di 12 libri, secondo
l'andamento del calendario. Con essa l'autore, che probabilmente attingeva a
Varrone e a Verrio Flacco, si era proposto di spiegare l'origine della
differenza tra i giorni fasti (dalla parola latina "fas", lecito) in
cui i Romani potevano trattare gl’affari pubblici e privati, e i giorni
“INfasti,” nei quali era vietato. Al tempo stesso, Ovidio, parlando con il dio
di turno, indaga e rivisita, mese per mese, tutti i molteplici riti, le
festività e le consuetudini, tipiche del costume e dell'uomo romano, che, al
suo tempo, si praticavano senza ormai conoscerne l'esatta origine o
valenza. Tuttavia, dei Fasti si sono conservati solamente 6 libri, da
gennaio a giugno. Questo fatto si spiega con la famosa relegatio (esilio che
non comportava la perdita dei beni né tantomeno dei diritti civili) che colpe
Ovidio e che non gli permise di terminarla. Indice 1Struttura 1. 1Libro
I: gennaio 1. 2 Libro II: febbraio 1.3 Libro
III: marzo 1. 4 Libro IV: aprile 1.5 Libro V: maggio 1. 6 Libro VI: giugno 2 Voci
correlate 4 Altri progetti 5 Collegamenti esterni Struttura Libro I: gennaio Il
primo libro doveva presentare una dedica ad Ottaviano. Quest'ultima, ora
spostata al secondo libro, è stata sostituita (verosimilmente nell'esilio di
Tomi, l'attuale Costanza, in Romania) con una al nipote adottivo di Augusto
stesso, Germanico. Dopo la dedica, Ovidio ri-evoca brevemente la nascita del
calendario romano e il significato dei giorni fortunati o dies fasti, per poi
passare al mito di Giano, esposto dal dio stesso in colloquio con Ovidio, sul
modello degli Aitia callimachei e, dopo un distico sulle None di gennaio,
modellato sulle sezioni astronomiche di Arato, all'esposizione dell'origine dei
riti agonali, dei riti in onore di Carmenta, inframmezzato da una esposizione
sulle Idi, che divide questo mini-epillio in due sezioni, la prima delle quali
è una lunga profezia sulle origini di Roma recitata dalla stessa ninfa.
Libro II: febbraio Dopo un'apostrofe al distico elegiaco, che Ovidio afferma di
aver piegato alla poesia eziologica, dopo che in gioventù fu il suo verso
d'amore e ad una dedica a Cesare (forse Augusto), si passa a parlare
dell'origine del nome februarius, per poi discutere delle calende, con la
rievocazione del mito di Arione, delle none, con il mito dell'Orsa Callisto, di
Fauno, dei Lupercali e di Roma arcaica. Ovidio rievoca, poi, le feste
Quirinalia, le cerimonie ferali e la festa del dio Terminus e si sofferma a
parlare del regifugium, con la leggenda di Lucrezia. Infine, parla della festa
degli Equirria. Libro III: marzo Sezione vuota Questa sezione sull'argomento
opere letterarie è ancora vuota. Aiutaci a scriverla! Libro IV: aprile Festività romane Fasti (antica Roma) I Fasti di P. Ovidio Nasone; tradotti in
terza rima dal testo Latino ripurgato ed illustrato con note dal dottor
Giambattista Bianchi da Siena, Venezia, Nella stamperia Rosa Traduzione in
inglese dei Fasti, su tkline.freeserve Publio Ovidio Nasone Portale Antica
Roma Portale Lingua latina Portale Religioni Categorie:
Opere letterarie in latino Opere di Ovidio Opere letterarie del I secolo.
Ovidio. Publio Ovidio Nasone. Ovidio. Keywords: implicatura trasformativa.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ovidio.” Ovidio.
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